Domenica
La
di
DOMENICA 18 APRILE 2010/NUMERO 272
Repubblica
la memoria
Cina, gli anni terribili della Rieducazione
RENATA PISU
cultura
Lo humor nero di Edward Gorey
PAOLO MAURI
PACO TAIBO II
L’altro Che
FOTO ROBERT VAN DER HILST/CORBIS
Un grande romanziere
racconta un rivoluzionario
carismatico e sconosciuto:
Tony Guiteras, che incendiò
Cuba negli anni Trenta
PACO IGNACIO TAIBO II
OMERO CIAI
o detto chissà quante volte in conversazioni con
amici, giornalisti, editori, che le tre figure rivoluzionarie dell’America Latina che più mi affascinavano erano Pancho Villa, Che Guevara e Tony Guiteras. Quasi sempre mi sono sentito chiedere
«Tony chi?». E ogni volta cresceva la mia volontà di
scrivere questo libro. Purtroppo, al di fuori di Cuba, trattato unicamente dalla storiografia nazionale che si occupa della rivoluzione e dell’esilio, Tony rimane uno sconosciuto. Ma un personaggio simile, in un continente come il nostro, che lotta per recuperare la propria memoria storica, non merita questo destino.
***
Lo spagnolo è una lingua perversa che usa parole come gracia
per riferirsi indistintamente a uno stato di santità o a uno scherzo; e parole come materialista per parlare di un autocarro da trasporto merci o di un seguace di Friedrich Engels.
(segue nelle pagine successive)
l primorivoluzionario di Cuba fu un indio e veniva da Haiti (allora Hispaniola). Si chiamava Hatuey e guidò a Baracoa la rivolta contro l’invasione degli spagnoli. I soldati di
Diego Velazquez, il capo dei conquistatori, lo inseguirono sulla Sierra Maestra, lo catturarono e lo bruciarono vivo. Era il 1512, vent’anni dopo l’approdo delle caravelle di
Colombo. La conquista di Cuba non fu un affare per gli spagnoli
finché non scoprirono le ricchezze dello zucchero, del tabacco e
del caffè. Tanto che nel corso del Cinquecento l’assenza di oro e
altri metalli preziosi spinse i conquistatori altrove.
Decisiva però fu sempre la sua posizione strategica, come ultima postazione prima di affrontare la traversata dell’Oceano
con i pregiati minerali sottratti al Messico o al Perù da portare in
Europa.
Da quel momento in poi Cuba, tra eserciti invasori, pirati e rivolte di schiavi, fu una autentica fabbrica di rivoluzionari.
(segue nelle pagine successive)
H
I
spettacoli
Jerry Lee Lewis, il “killer” del rock
GINO CASTALDO
i sapori
Africa-Francia, la fusion di Marrakech
DARIA GALATERIA e LICIA GRANELLO
l’incontro
Jeremy Irons, il bello di fare il cattivo
ANTONIO MONDA
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
L’altro Che
DOMENICA 18 APRILE 2010
Sostiene Paco Ignacio Taibo II che i grandi rivoluzionari
latino-americani del Novecento sono tre: Pancho Villa,
Che Guevara e Tony Guiteras, protagonista della
spallata popolare che nel 1933 rovesciò il dittatore
cubano Machado. Ora il grande romanziere
completa il suo ciclo e racconta Guiteras
in un libro che qui anticipa
per “Repubblica”
PACO IGNACIO TAIBO II
(segue dalla copertina)
l termine guapo a Cuba significa audace, come del
resto in Venezuela. Mentre in Spagna e in Messico (meno e ormai in disuso) si riferisce alla bellezza maschile. Nella zona costiera della Colombia è
sinonimo di buono, benevolo, bonaccione. In Argentina rispetto alla versione cubana si aggiunge
la valenza di forte, resistente; e in posti come Salta, ponerse guapo significa riprendersi da una malattia. Ma
usato per definire Tony Guiteras guapo recupera tutte
queste accezioni.
***
Alla fine degli anni Venti, si instaurò a Cuba una dittatura capeggiata da Gerardo Machado. La tardiva indipendenza cubana (fu l’ultima dell’America Latina) e l’intervento nordamericano avevano imposto al Paese
un’immensa dipendenza dai gringos, espressa dall’Emendamento Platt che permetteva l’ingerenza statunitense nella vita pubblica del Paese fino a prevedere invasioni militari. Machado rinforzò sempre più questa relazione, unita a una potente dose di corruzione. Nel 1927 si
sarebbe dichiarato ammiratore di Mussolini («L’opera di
Benito Mussolini è di eccezionale importanza. Guida l’Italia sul cammino del progresso in ogni campo») e avrebbe sostenuto: «Gli unici a lamentarsi della situazione sono i biscazzieri e i vagabondi». Curiosa interpretazione
della realtà cubana, perché a Cuba i giocatori d’azzardo
non si lamentavano di nulla, vivevano come al solito in
quella combinazione di paradiso e inferno in cui sono soliti vivere. Comunque, una manifestazione di disoccupati avrebbe innalzato questo striscione: «Generale, i biscazzieri e i vagabondi ti salutano».
Fu un movimento studentesco, nel quale apparvero
per la prima volta le donne, ad affrontarlo. Per cinque anni, prima nelle strade e poi rispondendo alla violenza crescente della polizia con la violenza. Anni terribili. Nel
1933 uno sciopero generale dei lavoratori lo rovesciò.
L’ambasciatore americano cercò di sostituire Machado
I
La storia di un ambasciatore Usa
democratico e liberale alleato
con latifondisti, sergenti golpisti
CHE GUEVARA
Icona della rivoluzione
cubana del 1959
Fu ucciso mentre
combatteva in Bolivia
il 9 ottobre 1967
TONY GUITERAS
Padre della rivoluzione
cubana del 1933
Fu ucciso nel 1935,
nella provincia
di Matanzas
e generali conservatori per
salvare un tiranno sanguinario
con una figura fantoccio, ma il movimento prese la forma di un’insurrezione dei sottufficiali e portò al potere
un medico e docente universitario, Grau San Martín, e
come segretario al Governo uno studente della sinistra
radicale, Tony Guiteras. Per cento giorni il Paese visse la
rivoluzione. Ci fu poi un contro golpe e due anni di una
nuova dittatura filostatunitense che uno sciopero generale nel 1935 tentò di rovesciare.
***
In questo contesto, questa sarà la storia di molti personaggi straordinari.
Tony Guiteras, un adolescente che affrontava la malattia con la forza di volontà, uno studente di farmacia al
quale piacevano le piante curative, un leader studentesco che si giocava la vita tutti i giorni, un rivoluzionario
che, assunto l’incarico di ministro degli Interni, espropriò le imprese dell’energia elettrica statunitensi a colpi
di decreti e in punta di pistola, promulgò la legge sul salario minimo, sulla giornata lavorativa di otto ore, che
cercò di togliere i cimiteri dal controllo della Chiesa e che
nominò le prime donne sindaco dell’America Latina;
uno a cui piaceva farsi fotografare accanto a due donne
bellissime, ma che raramente sorrideva; che si sedeva sul
pavimento come un Budda e fumava sigarette accendendole con il mozzicone di quella precedente; uno così
puro ideologicamente che suscitava l’amore incondizionato degli amici e un brivido nella schiena dei nemici. Un
uomo che fece una lettura non bolscevica della Rivoluzione russa e mescolò le lezioni di Bakunin e di Durruti
alla logica dei socialdemocratici adleriani e agli insegnamenti dello Stalin-Kamo espropriatore.
Ma questa è anche la storia di un ambasciatore statunitense che voleva dominare un Paese che non era il suo.
Da buon democratico liberale newyorchese non poté
evitare di salvare la pelle a un dittatore sanguinario, di allearsi con terroristi, filofascisti, latifondisti della canna
da zucchero, generali conservatori e sergenti golpisti;
perché era un uomo dell’impero e governato dalla logica
imperiale. Che spostava trenta navi da guerra con duecento cannoni mentre si dannava l’anima; uno che per la
smania di dimostrare la propria intelligenza, posseduto
dalla brama di controllare e cospirare, finì per diventare
machiavellico.
Fanno parte di questa storia anche un sergente stenografo, buon lettore di libri non molto buoni e accanito
RUBÉN MARTÍNEZ
VILLENA
Poeta, malato di tisi,
partecipò attivamente
alla rivoluzione del ’33
nonostante la malattia
PABLO DE LA TORRIENTE
Scrittore in lotta contro
il dittatore cubano
Machado, fu incarcerato
e poi esiliato. Partirà
per la Spagna nel ’33
CUBA
La
rivoluzione
guapa
compratore di biglietti della lotteria, che nel giro di poche
ore diventò colonnello; al quale una volta avevano negato l’accesso nello Yachting Club de L’Avana perché si diceva avesse nelle vene sangue cinese, indio e africano;
che senza quasi rendersene conto scalò le vette del potere assoluto in nome di una rivoluzione che non era più tale finendo per macchiarsi le mani con il sangue.
In primo piano, c’è senza dubbio un giovane avvocato
dirigente comunista. Pur essendo pervaso dal settarismo
stalinista, in fondo all’anima e a fior di pelle era un grande poeta e sarebbe morto precocemente di tubercolosi.
Un uomo votato con fedeltà assoluta a una sola causa e
ai suoi principi, alla guida di un gruppo di eroici e generosi operai pericolosamente in possesso della verità rivoluzionaria. Personaggi a metà strada fra la tragedia byroniana e il realismo socialista.
E ci sono altri personaggi singolari, come uno scrittore di nome Pablo, forse uno dei migliori giornalisti dell’America Latina, preso dalla passione di vivere la storia
per raccontare storie, e che passò buona parte della giovinezza in carcere e in esilio e che era talmente cubano da
farsi scendere le lacrime nella nebbia di New York.
E con loro c’è un presidente che avrebbe potuto perdere tutto a causa di uno scherzo, ma che neppure rinunciava a farne; un paio di avvocati aristocratici che inventarono un movimento civico terrorista di destra; un
dittatore butterato dal vaiolo che chiamavano “l’asino
con gli artigli”; un torturatore che trasformò la polizia di
Santiago de Cuba nel suo strumento privato di lucro e di
terrore; un venezuelano che partecipò a tutte le rivoluzioni; una cubano-irlandese dai capelli rossi che sequestrava milionari con un mitra in mano.
Una storia che si svolse a Cuba. Con il 1933 come asse
portante, l’anno della Revolución: suffragiste, studenti
bombaroli, scioperi generali, allusioni a Lindbergh,
Mussolini e King Kong, orchestre femminili, locali a luci
rosse incendiati, torturatori impazziti, masse insorte alla maniera di Fuenteovejuna, marines statunitensi nel
porto de L’Avana.
Con tanto materiale c’era da scrivere un romanzo, ma
ne è venuta fuori una storia narrata.
***
Il miglior prologo a questa storia lo avrebbe scritto Pablo de la Torrente Brau a New York qualche mese dopo la
morte di Guiteras; e lo avrebbe fatto nonostante le diffe-
LE IMMAGINI
Sopra, scene
di guerriglia
a Cuba
negli anni ’30
A destra,
la tessera
di Guiteras
Sotto, il capo
dell’esercito
Fulgencio Batista
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 APRILE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
IL LIBRO
Un hombre guapo, la biografia
del rivoluzionario cubano Tony Guiteras
scritta da Paco Ignacio Taibo II,
sarà in libreria dal 22 aprile (Marco
Tropea Editore, traduzione di Pino
Cacucci, 384 pagine, 19,50 euro)
Di Taibo II, autore di una cinquantina
di opere tradotte in venti paesi,
Marco Tropea Editore pubblicherà
nel 2011, per le celebrazioni salgariane,
il romanzo Ritornano le Tigri della Malesia
(più antimperialiste che mai)
GERARDO MACHADO
Quinto presidente
di Cuba, il suo governo
reazionario
fu rovesciato dalla rivolta
guidata da Guiteras
Dittature e rivolte
dell’isola bipartisan
OMERO CIAI
(segue dalla copertina)
l culmine furono gli ultimi cinquant’anni dell’Ottocento, tra le guerre d’indipendenza dalla
Corona spagnola e l’intervento degli Stati Uniti. Da Manuel de Cespedes a José Martì.
La liberazione dell’isola dal giogo straniero inizia con la “guerra dei dieci anni” nel 1868, quando
i proprietari terrieri bianchi si alleano con i neri (sia
schiavi che liberti) — i famosi mambì — contro gli
spagnoli, e finisce con lo sbarco dei volontari Usa,
tra i quali c’era anche il futuro presidente Roosevelt, il primo luglio del 1898. Una sovranità condizionata, quella di Cuba, prima dall’occupazione
americana che durò quattro anni e poi dall’emendamento Platt, pietra miliare di tutti i guai successivi, che consentiva a Washington di intervenire
pesantemente nella politica interna dell’isola.
La storia cubana del Novecento si può anche
leggere come un succedersi di dittature, rivoluzioni e repubbliche che hanno sempre come
punto di snodo i rapporti dell’isola con la Casa
Bianca. Filo americani o anti americani. Sempre
e comunque. Non solo, spesso gli Stati Uniti hanno prima aiutato i dittatori a prendere il potere e
poi i rivoluzionari a toglierglielo. È il caso di Gerardo Machado che cadde, con la rivoluzione del
‘33 (quella di cui fu protagonista anche Tony Guiteras), proprio grazie al fatto che Washington lo
costrinse ad accomodarsi in esilio. Copione non
molto diverso da quello del 1959, quando Batista,
perso l’appoggio degli uomini di Eisenhower,
fuggì in Florida lasciando l’Avana ai barbudosche
avevano iniziato la guerriglia anche grazie a dollari e armi americane.
La rivoluzione di Guiteras e Grau San Martin
durò poco più di cento giorni e dovette soccombere proprio per le ingerenze Usa dopo che il
nuovo governo si era rifiutato di pagare i debiti di
Machado ed aveva iniziato a nazionalizzare le
imprese americane. Sembra il preludio di quello
che accadrà con Fidel Castro, come se la rivoluzione del ‘33 a Cuba corrispondesse a quella russa del 1905. Fu il nazionalismo radicale la ragione
per cui caddero Grau e Guiteras. Ma contro di loro, insieme agli Usa, c’erano anche gli immigrati
spagnoli più recenti e i neri degli altri paesi dei Caraibi colpiti da un decreto che imponeva alle imprese di assumere per primi solo i nati a Cuba.
Nell’ultimo mezzo secolo, l’isola delle rivolte e
dei rivoluzionari ha vissuto la dittatura più lunga,
figlia di una ennesima rivoluzione. E un motivo
che può spiegare la sua longevità sta proprio nel
nazionalismo. La rivoluzione guidata da Castro è
stata molto più nazionalista che socialista — come dimostra ancora oggi il modo in cui il regime
si chiude su se stesso quando viene criticato e come esalta la “diversità” cubana. Un’altra spiegazione sono le valvole di sfogo. L’area grigia di
scontenti e oppositori ha abbandonato l’isola in
massa con grandi esodi successivi (1960, ‘80, ‘94).
Così, a partire dal ‘59, intellettuali critici, studenti ribelli e professionisti scontenti, invece di fabbricare nuove rivolte, se ne sono semplicemente
andati.
I
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FULGENCIO BATISTA
Capo dell’esercito dopo
la caduta di Machado
Diventa presidente
di Cuba nel 1952. Sarà
rovesciato nel 1959
renze di scelte politiche e l’involontaria distanza.
«Nella sua appassionante carriera politica ci sono pagine allettanti per uno storico coraggioso disposto a raccontare la verità e insieme l’angoscia di un uomo onesto
giunto al crocevia di tremendi dilemmi [...] Antonio Guiteras, come uno che sopravvive a un’imboscata, attraversò quei momenti, sentendosene oppresso, ma fermo
nella propria fede, in preda alla febbre della rivoluzione.
Perché la rivoluzione fu come una febbre nell’immaginazione di quest’uomo. E per questo visse terribili deliri,
potenti allucinazioni, affascinanti fantasie e sogni meravigliosi e per lui irrealizzabili. Era come un uomo che, al
risveglio, voglia realizzare ciò che ha concepito in sogno.
Spesso non seppe riconoscere gli uomini, dando fiducia
a chi non la meritava e chiamando amico chi si sarebbe
rivelato un traditore, ma intuì il talento in qualche idiota.
Trascinato dalla febbre, ebbe l’impulso di fare tutto. E fece più lui che migliaia di altri. E serbava il segreto della fede nella vittoria finale. Irradiava calore. Era come una calamita che attirava gli uomini e gli uomini si sentivano attratti da lui. Per loro era misteriosa, ma irresistibile, quella silenziosa determinazione, quell’immaginazione fissa su un solo punto: la rivoluzione. Ebbe anche difetti. Nel
giorno del castigo non avrebbe concepito il perdono. Era
un uomo della rivoluzione. E anche lui non aveva nulla di
perfetto».
***
Questo è un libro complesso, troppi personaggi, troppe storie, troppe forze sociali in azione; ma la complessità non solo è attraente e affascinante, è anche molto più
vicina alla realtà di quei materiali semplificati che ci hanno spacciato per storia. La complessità induce ad amori
contrastanti, a riflessioni più lucide e meno facili.
Raccontare di uomini d’azione è essenzialmente un
compito di ricerca sugli eventi, il contesto, le interazioni
e, solo a quel punto, le riflessioni che si facevano al riguardo e il modo in cui si pensava di loro. Come dice
Martínez Heredia: «La storia che si limita a osservare le
organizzazioni politiche attraverso gli atti e le dichiarazioni è cieca e viene a patti con i fantasmi».
***
Un uomo votato a una sola causa
alla guida di un gruppo di operai
in possesso della verità ribelle
A metà strada tra la tragedia
byroniana e il realismo socialista
RAMÓN GRAU
SAN MARTÍN
Dopo la rivoluzione
del 1933, diventa
presidente
della repubblica cubana
FIDEL CASTRO
Lider maximo cubano
dal febbraio 1959
al febbraio 2008. È stato
sostituito dal fratello
Raúl Castro
Ho cercato di situare i personaggi nel loro presente, gli
eventi accaduti tra il 1930 e il 1935, e in parte gli antecedenti. Quello che poi sarebbe stato della storia di Cuba fu
fatto dopo, e guardare il passato dal futuro provoca nel
migliore dei casi una distorsione a discapito della genuinità. Su questo aspetto particolare, la rivoluzione cubana del gennaio 1959 con le sue conseguenze impone senza volerlo sfumature che deformano la storia della rivoluzione del 1933. I personaggi sopravvissuti verrebbero
giudicati per come si sono comportati di fronte alla grande spaccatura sociale del ‘59, e non solo per le azioni compiute nel ‘33. Da L’Avana e da Miami la storia della rivoluzione del ‘33 è stata letta come un prolungamento della polemica tra castrismo e dissidenti reazionari, liberali
filoimperialisti, anarchici, socialdemocratici. Accadrà lo
stesso con le figure dei morti. Quasi tutti subiranno aggiustamenti storici in funzione di un’altra polemica.
Ho cercato di raccontare le storie della rivoluzione del
‘33 all’interno della loro prospettiva, con i miei amori e le
mie simpatie, ma senza alcuna autocensura e calandole
nel contesto degli anni Trenta; che gli uni e gli altri mi perdonino, compresi i guardiani delle ortodossie, coloro che
vigilano sulle dottrine del passato, ai quali questo libro
non piacerà.
***
Il dio del politicamente corretto mi scampi dal far parte del suo club, ma nel tracciare i personaggi le questioni
legate alla loro vita sessuale sono essenziali, e mi è sembrato giusto invaderla; tra l’altro perché la forzata clandestinità dell’omosessualità, ancor più nella Cuba machista degli anni Trenta, e peggio ancora se eri un diplomatico o un presidente, creava una particolare tensione
nei personaggi e nella storia. Nel tentativo di raccontare
questo assunto spinoso, mi sono imbattuto in denigrazioni ingiuriose, disinformazione, voci che possono ricondursi a calunnie e a fervente puritanesimo, figlio più
di una doppia morale che di una presunta rettitudine.
***
Un libro di storia è, contrariamente a quanto potrebbe
sembrare, una versione assolutamente non definitiva degli avvenimenti. Un’altra tessera del grande mosaico.
Traduzione di Pino Cacucci
© Paco Ignacio Taibo II
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
la memoria
Persecuzioni
Siamo negli anni Sessanta, nella Cina della Rivoluzione
culturale. Kang Zhengguo, come tanti intellettuali, viene
condannato a “trasformarsi con il lavoro”. Ora, in un libro
in uscita per Laterza, racconta la sua odissea: una storia
esemplare tra le altre, come testimonia una giornalista-scrittrice
italiana che ha vissuto quella terribile stagione
Rieducazione, le vite a perdere
RENATA PISU
o conosciutotanti ragazzi come Kang Zhengguo
quando, negli anni Cinquanta e Sessanta, studiavo all’Università di
Pechino. Erano miei
amici, era facile comunicare con i cinesi
allora, prima che la Rivoluzione culturale, nel 1966, troncasse ogni possibilità di
confronto tra Noi e Loro. Quei ragazzi e
quelle ragazze avevano tutti delle storie
da raccontare, storie della loro infanzia e
delle loro speranze, deluse al punto che
erano diventati increduli e scettici sulla
futura umanità che gli era stata promessa. Mi raccontavano le loro giovani storie del passato mentre vivevamo assieme un assurdo presente, episodi dei
quali ero a volte testimone, a volte involontaria catalizzatrice. Frequentarmi
era proibito in quanto venivo da un paese capitalista e quindi propagavo germi.
Chi osava frequentarmi lo faceva a proprio rischio e pericolo.
Ne fece le spese, per esempio, Wang
Zhangmei alla quale avevo regalato una
mia giacca imbottita con una manica
bruciacchiata. Per riscaldarmi mi ero accostata troppo al fornelletto elettrico che
tenevo in camera e con me c’erano due
amici cinesi che risero del mio infortunio. Quando però riconobbero come
mia quella giacca con la bruciatura indossata dalla loro compagna di corso, la
denunciarono alla sezione universitaria
del partito. Zhangmei, che era già in odore di dissidenza, fu mandata poco dopo
a «trasformarsi con il lavoro». Non l’ho
più vista e non ho più saputo niente di lei.
Non ha scritto la sua storia come ha
fatto Zhengguo, ma tutte le storie degli
studenti cinesi di quegli anni per molti
versi si assomigliano per il fatto di essersi svolte sotto il segno delle varie campagne di critica o di educazione di massa
che si sono succedute come ondate fino
al punto di far perdere la testa, di ridurre
al silenzio i testimoni, di creare alla fine
una connivenza tra carnefici e vittime.
E questa connivenza ancora è di ostacolo oggi, in Cina, al libero fluire della
narrazione di quegli anni che non furono, come qualcuno sostiene, «grandi e
terribili» ma soltanto terribili.
Ricordo una ragazza che studiava lingua e letteratura tedesca. Si chiamava
Huang Hua. Era alta, con delle lunghe
trecce e una naturale eleganza di portamento che nemmeno la più proletaria
giacca blu riusciva a mascherare. Era in
corso la campagna contro gli sprechi e
ovunque, all’Università come in città,
campeggiavano grandi cartelli con su
scritto «Non sprecare nemmeno un
chicco di riso». Lei venne accusata, in
un’assemblea della sua facoltà, di voler
«affamare il popolo», perché le compagne di stanza, rovistando nel suo cassetto, avevano trovato dei mantou, che sarebbero dei pani cotti a vapore, rinsecchiti. Lei si giustificò dicendo che li aveva conservati per portarli a una povera
vecchia che elemosinava fuori dalle mura dell’Università. La seduta di critica era
gremita da almeno due-trecento ragazzi che urlavano in preda a un’esaltazio-
H
ne allora per me incomprensibile. Era la
prima volta che assistevo a un simile
spettacolo. Poi capii che in simili occasioni bisognava che tutti si comportassero così, altrimenti sarebbero stati incolpati di simpatizzare per l’accusato di
turno. Non erano in preda alla furia, recitavano. Avevano fatto salire Huang
Hua in piedi su di una panca con indosso una specie di collana fatta con i suoi
vecchi mantou. Le gridavano: «Abbassa
la testa!», «Confessa!». Lei non riusciva a
parlare, singhiozzava disperata. Un ragazzo le si scagliò addosso e le premette
una mano sulla nuca obbligandola ad
abbassare la testa, a sottomettersi.
Due giorni dopo quella ragazza si
gettò dal quarto piano del suo dormitorio e morì sul colpo. Non ha scritto la sua
storia, non ha avuto abbastanza anni per
soffrire e raccontare la sua vita.
Di un’altra ragazza, la chiamerò Anne,
ho invece seguito le vicende, dai giorni
dell’Università a oggi. Venne accusata di
essere un «elemento di destra» perché,
alla trasmittente del campus dove prestava servizio volontario, lesse i comuni-
Regalai una giacca
vecchia alla mia amica
Wang. Fu denunciata
per il ragazzo che aveva affidato alle cure di sua madre.
Anne era a Parigi quando, nel 1989,
scoppiarono i fatti di Tiananmen, e suo
figlio, a Pechino, era sceso in piazza con
gli altri ragazzi. Fu arrestato, costretto a
sconfessare sua madre, a rinnegarla perché tramava all’estero contro la Repubblica popolare cinese. La sconfessò, la ripudiò. Ora è un imprenditore di successo, uno dei milionari della nuova Cina.
Me lo ha raccontato Anne pochi mesi fa.
Le ho chiesto perché mai non andasse a
trovarlo. E lei: «Neanche pensarci, non
mi fido, non mi fido». Anne non aveva
ancora ottenuto la cittadinanza francese e non si fidava.
Non avrebbe dovuto fidarsi nemmeno il nostro autore quando nel 2001
tornò in Cina con il suo passaporto cinese e ripiombò in un mondo di sospetto e
delazioni che credeva scomparso.
In Cina nessuno ancora si fida, chi ha
sofferto teme il ritorno dell’epoca delle
ombre, delle umiliazioni, delle amicizie
negate. Ma tutti quelli che hanno più di
cinquanta, sessanta anni, avrebbero
delle storie da raccontare, non storie
estreme ma della loro quotidianità tanto segnata dagli eventi di una politica
omnipervasiva. Se non lo fanno è perché
ancora hanno paura. Preferiscono allora affidare la memoria alle immagini, alle foto di famiglia, piccole istantanee in
Huang fu umiliata
in un “processo”
pubblico per aver
sprecato del pane
Due giorni dopo si
gettò dal quarto piano
bianco e nero con brevi ma intense didascalie che pubblica, dal 1996, una rivista che si chiama Vecchie foto. Immagini
in bianco e nero accompagnate da semplici didascalie, storie tragiche di vita che
riportano alla memoria collettiva il passato, meglio forse di tanta narrativa contemporanea in cui la fantasia non riesce
a superare la crudezza della realtà, quel
vivere giorno per giorno nell’assurdo ed
essere costretti a farsene complici.
La memoria, in una società che sta subendo una grande mutazione e cioè non
è più formata da persone che agiscono in
un contesto comunitario e pubblico ma
piuttosto familiare e privato, se non addirittura individuale, non è più ancorata
come una volta a testimonianze e biografie di grandi uomini che hanno fatto
la storia. La gente si sta riappropriando
delle proprie storie minime, e sente il bisogno di rivalutare la propria apparizione sulla scena con immagini sbiadite di
luoghi, di persone, di interni di famiglia
o di foto di gruppo degli studenti di una
scuola o degli operai di una fabbrica [...].
È un passato privatizzato, non quello
per questo e mandata
via dall’Università
Non l’ho mai più vista
cati «anti-partito» che le passavano studenti e insegnanti. Era l’inizio della
«campagna dei Cento fiori», lanciata dal
partito per sollecitare critiche e idee
nuove: «Fioriscano cento fiori. Gareggino cento scuole!». «Non capivo neanche
il senso dei testi che mi davano da leggere ma ero molto orgogliosa di essere stata scelta per la mia ottima pronuncia»,
mi disse Anne. Solo che quando, per
controbattere le critiche che erano piovute sul partito e i suoi burocrati, venne
lanciata la campagna contro gli elementi di destra, ad Anne venne messo in testa il cappello (si diceva così allora, il cappello da destrorso) e fu mandata a «lavarsi il cervello» in una vetreria.
Persi completamente ogni sua traccia
fino a quando, morto Mao e salito Deng
Xiaoping al potere, venni a sapere da
amici francesi che era riuscita a raggiungere Parigi con un visto di studio. La rintracciai, ci incontrammo in Francia e a
lei pareva di sognare. Anche a me. Eravamo ormai delle quarantenni con dei
ricordi. Anne mi raccontò la sua storia:
cinque anni in fabbrica, alla vetreria, due
anni rinchiusa in una «gabbia di demoni
e mostri», un marito defunto, un figlio
che aveva abbandonato per poter
«uscire dal paese», ma al quale
continuava a scrivere tutti i giorni, o quasi. Anne era sincera,
amava suo figlio, ma non era
disposta a dare la sua vita,
quella vita parigina da badante (era il suo primo impiego),
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 APRILE 2010
‘‘
Mao Zedong
L’arte per l’arte,
l’arte al di sopra
delle classi,
l’arte al di fuori
della politica
e indipendente da essa
in realtà non esiste
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
‘‘
Noi esigiamo unità
tra politica e arte,
unità tra contenuto
politico rivoluzionario
e una forma
artistica il più possibile
perfetta
‘‘
La rivoluzione
non è un’opera letteraria,
un disegno, un ricamo...
È un’insurrezione,
un atto di violenza
con il quale una classe
ne rovescia un’altra
Le citazioni sono tratte dal LIBRETTO ROSSO
che è stato imposto ma quello che è stato vissuto, e si scopre che ognuno l’ha
vissuto a modo proprio, anche se la grande livella del Potere ha sempre tentato di
ridurlo allo stesso denominatore: la lotta di classe, la grande causa della rivoluzione, le campagne e i movimenti di
massa.
La ragazza con le trecce e il viso pulito,
i pantaloni larghi e la camicetta bianca a
maniche corte che sorride sotto un cartello con la scritta «Grande balzo in avanti» è stata fotografata nel 1958 dall’uomo
che sarebbe poi diventato suo marito.
Nel breve testo che accompagna l’immagine, la donna, ormai settantenne,
propone il ritratto del suo bambino e
racconta come il padre non l’abbia mai
visto perché, prima che il piccolo nascesse, «andò volontario nel Xinjiang a
imparare dai contadini» e non fece mai
ritorno a Pechino. Non traspare nessun
giudizio politico, nessuna recriminazione, soltanto il desiderio che di quel marito e padre svanito nel nulla rimanga una
traccia di ricordo anche se di lui non è rimasta neanche un’istantanea.
Tante sono le immagini di gruppi familiari, come se l’antica tradizione che
glorificava le leggende e le storie degli avi
rispuntasse in tono minore su queste pagine, dove gente che non ha legami di
sangue con coloro che sono ritratti si riconosce tuttavia in particolari che accomunano, per esempio, quelli che vivevano in una casa a corte: l’arredo della
stanza della famiglia che si è messa in posa in quel lontano giorno degli anni Quaranta assomiglia a quello di tante altre,
con l’orologio a pendolo in bella mostra
su di una consolle, l’ultimo nato in grembo alla madre avvolto in una coperta imbottita a fiori, il nonno con la corta pipetta in mano, la nonna con i piedi minuscoli che tenta di nascondere ripiegandoli sotto lo sgabello e non accenna
nemmeno un vago sorriso.
Numerose anche le foto di classi scolastiche alla fine dell’anno di corso, gli insegnanti seduti in prima fila, dietro gli
studenti, ragazzi e ragazze, vestiti tutti
uguali ma non in uniforme: nella Cina
degli anni Sessanta, dove il tessuto di cotone era razionato, non ci si poteva per-
IL LIBRO
Laterza manda in libreria
Esercizi di rieducazione
(traduzione di Serena
Zuccheri, 488 pagine,
22 euro). L’autore, Kang
Zhengguo, bollato come
criminale nella Cina di Mao,
racconta il suo percorso
di rieducazione negli anni
in cui anche appassionarsi
alla poesia era considerato
reato. Anticipiamo
la prefazione di Renata Pisu
mettere di pretendere altra uniformità
oltre quella imposta dalla penuria. E così tutti con gli stessi pantaloni, le stesse
giacche imbottite di colore blu.
Nel testo che accompagna una di queste foto di classe, inviata da un uomo che
specifica di essere il terzo, a partire da destra, della seconda fila, si dice soltanto
che l’immagine è stata scattata nel luglio
del 1966, nella Scuola superiore Numero Due di Pechino, e che loro speravano
tutti di andare all’Università ma nessuno vi riuscì; e tutti i cinesi sanno perché,
di lì a poco sarebbe divampata la Grande
rivoluzione culturale proletaria.
Anche Kang Zhengguo, che si presume si sia liberato da ogni remora grazie a
una drastica scelta di vita, a commento
delle pagine della sua biografia inserisce
delle vecchie foto di famiglia, come se
sentisse la necessità di chiamare a testimoni quei volti e quei luoghi, per comunicare un di più, il non-dicibile [...].
È doloroso per un cinese smettere di
essere tale, ci sono cose profondamente
connaturate alla sua cultura. Il nome,
per esempio, sempre prima il nome di
famiglia (Kang, nel caso del nostro autore) seguito dal nome proprio, Zhengguo.
È costretto a rinunciarvi una prima volta
quando accetta il nome di famiglia del
vecchio contadino che lo ha
adottato, e diventa Li.
Avrebbe potuto conservare il suo nome
proprio, ma rinuncia anche a
quello scegliendone un altro
che gli pare di
buon auspicio, Chunlai, due ideogrammi che significano «arriva la primavera».
Soltanto una speranza: per lui e per la Cina l’inverno era ancora lungo. Quando,
anni e anni dopo, viene riabilitato, riacquista anche il suo nome e cognome ma,
alla fine della vicenda, quando ottiene la
cittadinanza e il passaporto americani,
commenta semplicemente che, ancora
una volta, aveva dovuto ridefinire la propria identità: «Questa volta il mio nome
era Zhengguo Kang», scrive. E così firma
queste sue memorie.
Sembrerebbe una modifica da niente,
invece ha un significato intenso per un
cinese, perché il nome davanti al cognome, secondo l’uso occidentale, in Cina si
pensa che sottolinei l’individualismo,
l’affermazione del soggetto rispetto alla
famiglia, al clan. Un atto di ribellione, insomma. Come un atto di ribellione
egualmente significativo è quello di non
voler mai più rimettere piede in Cina.
Neanche da morto. Zhengguo, a conclusione del lungo racconto della sua vita,
dice alla moglie: «Quando saremo vecchi, ci preoccuperemo di farci seppellire
in America».
Se questo libro è una «confessione»
(come titola l’edizione originale), il finale è forse un’amara «sconfessione» della
cinesitudine più profonda, quel modo di
essere, di sentire e di rapportarsi di una
civiltà tradizionale che vuole indissolubile il legame dell’uomo con la terra. Come d’inverno le foglie dell’albero che si
spoglia fanno ritorno alle radici della
pianta che le ha generate per rinnovarne
il futuro rigoglio, così l’uomo deve essere sepolto là dove ha visto la luce. A
questo si conformano, o per lo
meno ambiscono, da generazioni e generazioni, tutti i cinesi della diaspora o dell’esilio.
Ma Zhengguo e sua moglie vi rinunciano. È veramente una
«sconfessione» totale della cinesitudine? Se il capitolo finale non fosse dedicato al futuro
del loro figlio maschio che
decide di fare ritorno in patria, a Shanghai, con la sua
laurea americana in Economia e commercio, così si potrebbe dedurre. Invece, il ciclo si rinnova in maniera fino a pochi anni fa impensabile. La cinesitudine
si prolunga nell’ibridazione: per questo,
per quel che vale, è salva.
© Editori Laterza
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
CULTURA*
Personaggio bizzarro, collezionista eccentrico, maniaco ossessivo
con la passione del cinema e del balletto, scrittore e vignettista
enigmatico, misterioso, di cupezza vittoriana, torna ora in libreria
a dieci anni dalla morte per iniziativa di Adelphi con “L’arpa muta”
Un lavoro che, col consueto mix di parole e illustrazioni, mette ferocemente alla berlina
l’esercito dei romanzieri inutili e degli editori che li pubblicano
Humor
nero
Edward
Gorey
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 APRILE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
PAOLO MAURI
n una fotografia degli anni Novanta, pubblicata nel 2007 da Harvard Magazine a corredo di un servizio su Edward Gorey, si vede
un uomo calvo e barbuto disteso in mezzo a libri e giornali, mentre alcuni gatti sono sdraiati qua e là. Un lettore, neppure troppo
distratto, potrebbe chiedersi: chi, tra queste creature, è il vero
Edward Gorey? In fondo Gorey potrebbe benissimo essere (o
meglio essere stato) un gatto. Basta scorrere Category (pubblicato in
Italia da Adelphi nel 2003 col titolo Gattegoria) per convincersene: non
si sa se è Gorey ad interpretare la gattitudine, o se è un gatto a leggere il
mondo. Si tratta comunque di cinquanta disegni molto eleganti e divertenti, ma anche fortemente allusivi. Nel secondo, per esempio, si vede un gatto di schiena che scruta l’orizzonte marino deserto stando su
una barca rovesciata. Che cosa accadrà dopo l’evidente naufragio?
Ogni lettore è libero di interpretare questa storia senza parole, che molto probabilmente finisce bene, visto che i gatti, specie quelli delle vignette finali, sono sorridenti e l’ultimo, vittorioso, indossa una sciarpa
svolazzante stando ritto su un muro alla cui base c’è una porticina. Dove porterà? Il mistero è insoluto.
Se non fosse stato un gatto, Edward Gorey avrebbe potuto essere un
pinguino, come il protagonista de L’ospite equivoco, tradotto da Matteo Codignola per Adelphi nel 2004. In una cupa casa vittoriana (Gorey
ama muoversi tra lo stile vittoriano e l’edoardiano) si sente suonare alla porta, ma chi va ad aprire non trova nessuno. Però, guardando meglio, ecco uno strano figuro appollaiato su un vaso che, esigenze di rima, lascia tutti «con un palmo di naso». Il pinguino non è un ospite fa-
I
IL LIBRO
L’arpa muta
di Edward Gorey
esce da Adelphi
mercoledì
(traduzione
di Matteo
Codignola,
72 pagine, 16 euro)
vetri purché azzurri. Ma, a leggere il già citato saggio di Codignola, Gorey era un maniaco ossessivo fin da quando a undici anni giocò a Monopoli per un anno intero da solo. Era nato nel ‘25 e sarebbe vissuto fino all’aprile del 2000. Aveva letto almeno tre volte tutte le opere di
Agatha Christie, aveva visto tutto quello che il cinema gli offriva e anche
il balletto: non perse una sola replica del New York City Ballett il che voleva dire 150 Schiaccianoci e 39 Lago dei cigni… Il gusto per il nero (e il
mortuario) lo portò a mettere in scena (nel ‘77) un Dracula che a
Broadway fu applaudito ad apertura di sipario per la scena interamente nera.
In questi giorni Adelphi, sempre per le cure di Codignola, manda in
libreria L’arpa muta-ovvero Mr Earbrass scrive un romanzo che fu in
pratica il suo esordio nel 1953, quando era fresco della laurea in letteratura francese presa a Harvard. Mr Earbrass è un tipico scrittore
senz’anima oltre che un autentico idiota, il che già mette in agitazione
chi considera il mondo delle lettere pieno di geniali creatori. Nella prima vignetta Earbrass si trova su un campo da croquet, nel Mortshire,
dove vive abitualmente: «È intento a studiare una partita lasciata in sospeso l’estate scorsa». Nella seconda vignetta vediamo Earbrass intento, questa volta, a prendere il tè, mentre il testo ci informa che un anno
sì e un anno no, il 18 novembre lo scrittore pone mano al suo “nuovo romanzo”. Il titolo lo ha già, è L’arpa muta, ma della trama non ha per ora
la più pallida idea. Gorey sta prendendo in giro se stesso? È probabile,
ma credo abbia in mente anche certe teorie critiche sulla scrittura. Ad
un certo punto Mr Earbrass fa il bagno e medita intorno ad un brano del
romanzo che non lo soddisfa. Vorrebbe spostarlo, ma poi pensa: «Già,
ma dove? Ci sono cose che neppure un autore onnisciente può per-
Il nonsense in punta di penna
mettersi — ad esempio, interrompere la narrazione per tornare indietro e raccontare una storiella qualsiasi ambientata a Ladderback, in Tibet, proprio mentre i personaggi si stanno dannando l’anima per decidere se sia o no il caso di dragare il laghetto vicino al Dishiver Cottage».
Sebbene sia all’epoca un esordiente, Gorey sembra conoscere a fondo il mondo dei letterati: ne individua manie, sorprese, desolazioni. Il
povero Earbrass quando scrive si mette sempre una tuta al contrario e
gli capita persino di vedere un personaggio che lo apostrofa sulle scale.
Ad un certo punto il poveretto rilegge la parte già scritta dell’Arpa muta e la giudica atroce. Vorrebbe bruciare tutto. Poi si riprende e va avanti. Gorey ritrae lo scrittore alle prese con il finale e con la revisione del
testo. Lo accompagna fino in casa editrice dove vogliono sottoporgli un
piano per tradurre tutte le sue opere in urdu…
Ma quali sono le opere di Mr Earbrass? Lo si dice all’inizio: Un sacchetto di polvere, Più pugni che grugni e Di cosa sparliamo?. Più in là troviamo citato anche il suo secondo romanzo Il significato della casa: Earbrass ne trova una copia da un venditore di libri usati con una sua dedica di cui non ricorda nulla. Il suo primo romanzo si intitola invece La
piantagione di tartufi. Comunque, ora L’arpa muta è in libreria. Gli editori mandano a Earbrass tutte le recensioni uscite, ma lui si incaponisce a leggere un Compendio delle eresie minori nell’Asia Minore del Dodicesimo secolo. In due anni ne ha lette solo trentatré pagine, ma ora
vuole andare avanti. Mr Earbrass è lo scrittore di cui nessuno ha bisogno, ma che, sembra dirci Gorey, si pubblica lo stesso. Con successo
crescente. In inglese, in urdu e magari anche in italiano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ILLUSTRAZIONI © 1953, 1981 EDWARD GOREY © 2010 ADELPHI EDIZIONI SPA MILANO
cile: se siede a tavola mangia anche le stoviglie, se acchiappa il grammofono (uno di quelli vecchi, a tromba) non ne vuol sapere di rimetterlo al suo posto. In biblioteca manomette i libri e sposta i quadri. Sotto forma di pinguino il nonsense entra nella vita di tutti i giorni di una
famiglia dickensiana. Ma sebbene abbia illustrato Dickens e oltre a
Dickens moltissimi altri scrittori (Beckett, Eliot, Updike, Chandler…) i
veri padri nobili di Gorey sono Lewis Carroll e Edward Lear. Anche Gorey compose limerick, un po’ funerei, come questo che trascrivo: «Ogni
notte papà mi riempie di affanni/ quando siede sul mio letto a far danni/ Non mi importa se si esprime/ con borbottii o false rime/ ma perché è morto da diciassette anni».
Sebbene nei suoi libretti (ne ha pubblicati quasi cento) compaiano
spesso dei bambini, l’opera di Gorey non è affatto destinata all’infanzia, come ribadisce in un suo gustoso e informatissimo saggio
(Adelphiana 2003) Matteo Codignola, che della fortuna di Gorey in Italia è ora il maggior artefice. «Quando si sentiva chiedere che esperienza avesse dei bambini, e perché nei suoi libri infliggesse loro i tormenti
più indicibili, Gorey rispondeva molto tranquillamente: “Nessuna. Li
uso soltanto perché sono così indifesi”». C’è anche un limerick su un
curato un po’ pedofilo… Ma la violenza e addirittura la morte si celebra
anche nella Bicicletta epiplettica dove i due fratelli Embley e Yewbert
«hanno una mazza da croquet per uno, e se la danno in testa».
Personaggio bizzarro, Gorey in America è da tempo oggetto di culto:
la televisione lo ha reso popolare e la sua casa a Cape Cod è meta di pellegrinaggi. Nella sua vita ha collezionato di tutto e tutto è ancora lì: ferri da stiro, sassi e rane, confezioni di medicinali purché di color arancio,
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
SPETTACOLI
Rock
and roll
killer
Re degli eccessi
e delle classifiche,
il cantante
di “Great balls
of fire” torna
protagonista
in una biografia
che scorre
come un romanzo
L’abbiamo letta
in anteprima
GINO CASTALDO
diciassette anni è
già bigamo. Un bel
record. E neanche
l’unico nella focosa vita della leggenda del rock’n’roll Jerry Lee Lewis, detto “the killer”, micidiale performer che nei
suoi anni d’oro era capace di ribaltare intere platee con quel modo sfrenato di cantare, in evidente ambiguità sessuale, i suoi cavalli di battaglia, Whola lotta
shakin’goin’on o Great balls of fire, pestando a pugni e calci il suo
incandescente pianoforte boogie. Dire che sia una vita da romanzo è riduttivo, ma come tale
la tratta Nick Tosches, abilissimo
narratore che trasforma la vicenda umana e musicale di Lewis in
quello che a tutti gli effetti risulta
un grande romanzo americano,
dominato dai contrasti tra l’arretratezza della campagna e le tentazioni di città, tra la voglia di essere un predicatore timorato di
Dio e diventare invece un testimone vivente della musica del
diavolo, “the killer” appunto, il
più inguaribile e sistematico dei
peccatori.
Dall’infanzia povera negli stati
del Sud, tra cerimonie religiose,
teppismo giovanile, miseria rurale; alla perdizione della notte nei
locali più malfamati; fino agli illusori splendori del successo, pun-
A
tualmente rovinati dall’indole ribelle e autolesionista, dall’incontrollabile demonio interiore che
lo spingeva sempre a guastare
ogni cosa, la storia di Lewis attraversa quella dell’America, ne in-
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terpreta le contraddizioni
ma anche la mobilità, il fervore, la speranza, la tracotante
energia. Il libro (in uscita per
le edizioni Alet) si intitola Con
me all’inferno (Hellfire nell’originale), rende molto bene
questa storia di fuoco e peccato, di costante lotta tra Dio e
Mammona, ed è stato accolto in
America come un capolavoro.
Addirittura, si è detto, la migliore
biografia rock mai scritta.
Di sicuro Jerry Lee sembra perfino irreale nella tenacia con cui
sa trasformare la sua vita in un
drammatico, agrodolce romanzo. E la scrittura di Tosches segue
con brillante passione le tappe di
questa vicenda. Quando, dopo
tanto vagabondare, arriva al successo, si sposa per la terza volta
con Myra, sua cugina di terzo
grado, che il giorno del matrimonio ha appena tredici anni. La cosa viene tenuta nascosta per un po’, ma nel
1958 i giornali inglesi la tirano fuori e lo scandalo
distrugge la sua carriera. Viene abbandonato
da tutti, tranne che dal dj
Alan Freed, quello a cui la leggenda attribuisce l’invenzione
del termine rock’n’roll. Freed
continua a far ascoltare i suoi dischi, ma neanche lui è uno stinco di santo: viene devastato
dallo scandalo payola, una
sorta di tangentopoli che fece
luce sul sistema di corruzione
nelle radio americane. Così
anche l’ultimo amico di Jerry
Lee viene neutralizzato.
Seguono altre tragedie, la
morte di due dei suoi figli,
l’alcol, la droga, ma anche
momenti di pura esaltazione. Ci sono pagine, in
questo libro, di inquietante bellezza. Ad esempio, la descrizione delle
cerimonie religiose
rurali, dove improvvisamente i fedeli cominciano a dimenarsi come
indiavolati e a parlare lingue sconosciute. O la potente descrizione della più
clamorosa jam session mai
capitata nella storia del
rock’n’roll. Quel giorno, il 4 dicembre 1956, nello studiolo
della Sun, l’etichetta di
Memphis che aveva lanciato Presley e altri fondatori del rock’n’roll, tra cui lo stesso Jerry Lee, si ritrovano per caso insieme Elvis,
Johnny Cash, Carl Perkins e l’appena scritturato Jerry Lee Lewis.
Cominciano a giocare e cantare
insieme, depositando sui nastri
dell’etichetta un autentico tesoro. Sam Phillips, il capo della Sun,
lo definì “Million dollar quartet”,
anche se la seduta fu registrata in
modo rudimentale e non è stato
possibile sfruttarla adeguatamente. Sorprende casomai che
quei quattro, tutti in diversi modi
esponenti di spicco della musica
del diavolo, si mettessero a cantare gospel, musica da chiesa. Ma è
proprio questo il punto. Quella
musica discendeva dallo slancio
di possessione che tutti, neri e
bianchi, avevano assaporato nelle chiese protestanti.
Poco tempo dopo Phillips vende il suo più luccicante gioiello,
Elvis, alla Rca per quarantamila
dollari: per quei tempi una cifra
più che ragguardevole. A Phillips
sembra un buon affare. Ma non lo
è. Anzi, passa agli archivi come il
peggior errore mai commesso in
tutta la storia della discografia. Elvis è stato ed è tutt’ora una miniera inesauribile di denaro, paragonabile solo ai Beatles e a Michael
Jackson. Lewis da parte sua, dopo
lo scandalo, deve ricominciare
praticamente da capo, suonando
a cento dollari a sera in locali minori e proponendo una più mori-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 APRILE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
“Dicono che sono cattivo
ma ho ucciso solo zanzare”
NICK TOSCHES
arlavamo della Bibbia, e hai detto che il tuo libro preferito è quello della Rivelazione…
«Non è quello che ho detto. Ho detto dalla Genesi alla Rivelazione. Prendilo come
una cosa unica. Ma è difficile scegliere un libro nella Bibbia. Ce ne sono così tanti. Ho
studiato la Bibbia tutta la mia vita».
C’è qualcosa nella Bibbia che ti sembra di non aver capito?
«Sai perché non capisci? È perché stai cercando una facile via di fuga. Ora, se puoi mostrarmi qualcosa che mi indichi come uscirne fuori senza bruciare il mio didietro all’inferno, io saprò dov’è. Io e te bruceremo all’inferno. Siamo nei guai. Siamo peccatori, andremo all’inferno».
Non ne sono così certo. Davvero pensi che ci andremo?
«Dritti come una zucca. Penso che ci siamo attardati abbastanza a lungo. Il tempo è
vicino».
Nessuno andrà in paradiso?
«Molto pochi. È difficile arrivarci, figliolo. E di sicuro non passando attraverso il Palomino Club. La Chiesa non può garantirti il paradiso, e neanche la religione. La Bibbia
non parla mai di religione, parla di salvezza».
È vero che una volta hai spinto un pianoforte nel mare?
«Puoi giurarci che l’ho fatto. Successe a Charleston, nella Carolina del Sud. L’ho spinto fuori del teatro, fino in strada, l’ho spinto lungo il molo e poi l’ho spinto dritto nell’oceano. Ho solo cominciato a spingere e poi si è annebbiato tutto. Non ricordo bene perché l’ho fatto. Doveva essere un pessimo pianoforte. Non credo che l’abbiano mai recuperato. Sarà diventato cibo per gli squali».
Secondo te, Elvis è finito all’inferno o in paradiso?
«Non mi tirerai dentro una cosa del genere. Elvis ha avuto molto tempo per prepararsi. Ho parlato con lui della sua anima. Sai una cosa? Ci sono stati solo quattro che contano: Al Jolson, Jimmie Rodgers, Hank Williams e Jerry Lee Lewis. Il resto di questi idioti cavalcano un maledetto cavallo, suonano una chitarra o ammazzano qualcuno in
qualche stupido maledetto film».
Non ti sei mai stancato di cantare Great balls of fire notte dopo notte?
«Ho dovuto, sempre. Altrimenti la gente avrebbe voluto i soldi indietro. In fondo abbiamo venduto qualcosa come trentotto milioni di copie di quel disco».
È vero che i tuoi antenati possedevano Monroe, in Louisiana?
«È un dato di fatto. Il mio bis-bisnonno era il proprietario. Poteva stendere un cavallo con un pugno. Un diavolo di uomo, Old Man Lewis. I Lewises hanno una grande storia. Bevitori incalliti. Giocatori incalliti. Tutti peccatori. Te l’ho detto, io sono un cattivo».
Davvero pensi di essere così cattivo?
«Non so, non vorrei pensare così. Sono gli altri a dirlo. Mi hanno sempre chiamato
“the killer”. Mi sono sempre chiesto perché. Credo che lo dicessero in senso musicale,
non perché io sarei andato in giro a uccidere persone. All’inferno, la sola cosa che ho
ucciso è una zanzara della Louisiana. The killer. Dio, odio questo dannato nome».
L’intervista è apparsa integralmente
nel libro The Nick Tosches
Reader, Da Capo
Press 2000 © Nick
Tosches
P
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LE IMMAGINI
Jerry Lee Lewis all’apice
della carriera: a destra,
a colori, il suo disco
più recente, Last Man
Standing. Foto
gentilmente concesse
da Alet edizioni
gerata musica country. Ma è ovvio che tra il santo e il peccatore, a
prevalere è sempre il peccatore.
Da sottolineare una della pagine
più travolgenti del libro: il racconto della prima volta che Lewis
IL LIBRO
Con me all’inferno.
La vita di Jerry Lee Lewis
è la biografia della rockstar
scritta da Nick Tosches
È in uscita il 21 aprile
da Alet (traduzione
di Fabio Zucchella,
224 pagine, 18 euro)
canta dal vivo Whola lotta shskin’goin’on, l’improvviso infiammarsi del locale, il delirio che
si impossessa delle ragazze lanciate verso il palco come offerte
devote allo sciamano.
Chi ha assaporato un potere
del genere, difficilmente può dimenticarsene. E sicuramente
non ha dimenticato il vecchio
Jerry Lee Lewis, oggi settantacinquenne, rassegnato forse alla vit-
toria del peccato, ma senza smettere per tutta la vita di credere nella salvezza. Anche se per conquistarla ha fatto davvero poco, come quella volta che va fino alla casa di Elvis, la mitica Graceland,
pretendendo di essere ricevuto
dal “re” in persona. Dice di essere
atteso, ma dalla casa non arriva
alcuna conferma. Lui allora tira
fuori la pistola e minaccia di sparare a chiunque cerchi di fermar-
lo. Viene chiamata la polizia e
Lewis finisce una volta ancora in
prigione. E solo perché il re del
rock’n’roll non ha voluto riceverlo nella sua reggia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
i sapori
Contaminazioni
Tra le mille seduzioni della città marocchina anche quella
di essere diventata una meta gourmand. Non solo
couscous e tajine, ma spezie, frutta secca, pesci e verdure,
mix agrodolci, echi di ricette europee danno vita
a piatti cult dove l’abbinamento fa davvero la differenza
Cucina
Marrakech
Datteri
Tè
Olio d’Argàn
Mandorle
Ras el-hanout
Arrivano dall’oasi di Tafilalet,
dove prospera un maestoso
palmeto di 700mila alberi
(con festa dedicata a metà ottobre)
Dolcissimi, sono immancabili
in pietanze, insalate e dessert
La menta profuma irresistibilmente
il tè verde che scandisce la giornata:
tonico, digestivo, rituale,
viene servito in bicchieri alti,
stretti, colorati, versato
da teiere d’argento istoriato
Occorrono le bacche di sei piante
d’Argania Spinosa per fare
un litro di questo nettare di tradizione
berbera, dalle proprietà lenitive
Il profumo originale
battezza pesci e minestre
Amatissime e indispensabili
in cucina, dal latte (sharbat billuz)
all’olio, fino alla pasta, con cui
si farciscono i dolcetti (kaab al ghazal)
Sono una costante per couscous,
tajine, focacce e insalate
La risposta marocchina al curry
indiano è “il meglio del droghiere”,
un poderoso mix di spezie tostate
e macinate, con cui si insaporisce,
tra gli altri, lo stufato di agnello
al miele (mrouziya)
Africa-Francia, capolavoro fusion
LICIA GRANELLO
l’appuntamento
Si svolgerà dal 16 al 24 luglio
la quarantacinquesima
Festa Nazionale
delle Arti Popolari di Marrakech,
il più antico festival culturale
del Marocco. Mille artisti e 350mila
spettatori (dati della scorsa edizione),
per una nove giorni – e notti –
ininterrotta di spettacoli, parate,
cene, dibattiti, presentazioni
che animeranno l’intera città
Numerosissimi baracchini
di bevande e cibi di strada
Q
uestionedi olfatto. Annusare Marrakech è come sentirsi Alice nel paese delle
meraviglie: un attimo e ci si ritrova catapultati in un mondo magico, coloratissimo, odoroso come nessun altro. Se
gli afrori del Cairo sono concentrati nel
mercato delle spezie e quelli di Barcellona tra Barrio Gotico e Boqueria, i sentori della Medina, la zona centrale di Marrakech, divampano e si ricompongono come stormi di uccelli. Ne segui uno e
quando stai per afferrarlo un altro ti assale, mascalzone e irresistibile, a braccetto con una tavolozza di
colori abbaglianti.
Se è vero che si mangia con la bocca ma si gusta
con tutti e cinque i sensi, allora Marrakech è davvero il paradiso dei gourmet. Pazienza se il mare è a
un’ora di macchina e all’imbrunire il traffico vi mette a dura prova. La città trionfa accendendo la fantasia dei suoi frequentatori.
Lo sguardo passa in rivista le cento bancarelle di
Jamaa el Fna, la grande piazza dove si mischiano incantatori di serpenti e bancarelle di datteri. Il naso
freme per il misto seducente di polveri che battezza
le carni di manzo e d’agnello, le frasi accattivanti dei
venditori di spremute d’arancia tentano le gole assetate. Immergere le mani nelle ceste di frutta secca è questione di un attimo, quasi come scrocchiarne un paio sotto i denti. «Say couscous» gridano i fotografi più intraprendenti, traducendo il sempiterno «Cheese» con cui si immortalano le facce sorridenti nelle foto di tutto il pianeta.
Certo, la natura aiuta. Basta inseguire l’orizzonte
da una delle terrazze della città vecchia per scoprire fattorie e palmeti immensi, prodromi di deserto
e oasi da Mille e una notte, giardini lussureggianti e
inaspettate coltivazioni biologiche.
Qui, i francesi non sono passati invano. Al di là di
couscous e tajine, che ancora si contendono il primato del piatto più popolare in città, la contaminazione tra gourmandise e tradizione araba ha prodotto una cucina di fusione franco-africana curiosa e golosa. Tutto, ovviamente, comincia negli sto-
rici luoghi del cibo, che qui si dividono tra la distesa
brulicante dei venditori di strada e il nido d’ape di
botteghe assiepate nelle viscere dei palazzi d’antàn.
Assemblare materie prime e spezie in quantità è
pratica sapiente, da cui nascono i piatti-culto della
Marrakech gourmand. Così, il battuto di melanzane prende quota grazie a frutta secca e passita, la
croccante pasta millefoglie si accoppia con la morbida carnalità del foie gras, pesci e crostacei incontrano le verdure sul bilico dell’agrodolce.
Se la cucina marocchina vi tenta, ma avete bisogno di un incoraggiamento, tra la visita alla moschea della Koutoubia e una passeggiata lungo i vialetti dei giardini di Majorelle — ex casa di vacanze di
Yves Saint-Laurent — entrate al glorioso hotel La
Mamounia, riaperto lo scorso autunno dopo un
meticoloso restauro: mentre ammirate gli arredi
magnifici e la sequenza di opere d’arte, un tuffo negli enormi piatti di datteri appoggiati sui tavoli vi folgorerà il palato, come novelli San Paolo sulla via del
Marocco gourmand.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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colazione inclusa
TALAA 12
12 Talaa Ben Youssef
Tel. 00212-24-429045
Doppia da 150 euro,
colazione inclusa
RIAD MERIEM
154 Rue Mohamed El Beqal
Tel. 00212-24-437062
Doppia da 125 euro,
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
DAR MOHA
81 Rue Dar el-Bacha
Tel. 00212-24-386400
Chiuso lunedì,
menù da 30 euro
LE GRAND CAFÉ LA POSTE
Boulevard el-Mansour Eddahbi
Tel. 00212- 024-433038
Sempre aperto,
menù da 25 euro
LA TABLE DU MARCHÉ
(con camere)
4 Rue du Temple
Tel. 00212-24-424100
Sempre aperto,
menù da 28 euro
KSAR ESSAOUSSAN
3 Derb El Messaoudyenne
Tel. 00212-24-440632
Chiuso domenica,
menù da 35 euro
DOVE COMPRARE
DOMENICA 18 APRILE 2010
ASSOUSS
COOPERATIVE D’ARGANE
Rue el-Mouassine angolo
Rue Sidi el-Yamani
MARCHÈ MUNICIPALE
Nouvelle Ville
Rue ibn Toumert
MOUHASSIN EPICES
Riads Zitoun
10 Rue de la Bahia
PATISSERIE AL-JAWDA
Nouvelle Ville
11 Rue de la Liberté
Tel. 00212-24-433897
MERCATO DEL MELLAH
Ave Houmane el-Fetouaki
Place des Ferblantiers
SOUQ BAB DOUKKALA
Rue Fatima Zohra
Tajine
M’semmen
Briwat
Harira
Pastilla
Il piatto-simbolo della tradizione
marocchina è di spettanza maschile
Marinate carne e spezie, la pentola
di terracotta viene portata al farnatchi,
(il forno a legna pubblico)
per una cottura sotto la cenere
In coppia con le ciambelline (sfenji),
le frittelle abbondano nella colazione
delle famiglie marocchine
Le schiacciate di farina,
acqua e sale, fritte nel burro,
vanno servite caldissime con miele
A forma di sigaro o di triangolo,
gli involtini di sottile pasta sfoglia
(brik) sono un appetitoso cibo
da strada. Si gustano come snack
dolci o salati, farciti con gamberi
o con le mandorle col miele
Ricca la zuppa che accompagna
i pasti del Ramadàn. Piccoli pezzi
di carne cotti, poi assemblati
con un brodo di ceci e limone
(tka-tàa) e una crema di pomodori
A cotè, datteri e dolcetti
Polposo, lo sformato di piccione
dal sapore dolce-salato
Si prepara infilando nella farcitura,
carne cotta con burro,
cipolle e zafferano,
ma anche zucchero e mandorle
al vizir della guerra, quarti di montoni,
piramidi di polli, pesci in forma di
montagna, couscous «per orchi» sotto
grandi coni di giunco bianco e rosso, che, nel
cortile, formano un deposito di giganteschi
cappelli cinesi; dall’alto dei muri, si affacciano
teste velate. Pranzi su cuscini, e senza vino; il
tè è sempre pronto negli alti samovar d’argento. Le ventidue portate sono accompagnate
da una musica stridente e veloce; il vizir siede
lontano — un buon musulmano non può
mangiare con dei nazzareni. Solo nel quartiere ebreo il cibo è innaffiato da due o tre qualità
di vecchi vini rosé coltivati nelle colline attorno a Meknès, con grande scandalo dei musulmani.
Ma Pierre Loti — lo scrittore ufficiale di marina in missione nel 1889 dal sultano del Marocco a Fèz — preferisce il «Marocco intimo»
delle tribù; gli spostamenti in cui le ragazzine
D
Quarti di montone, couscous “per orchi”
il mito del Marocco nella letteratura
DARIA GALATERIA
portano gli agnelli sul collo e le mule dondolano nelle ceste i puledri. La mouna firmata dal
sultano — l’indispensabile “diritto di riscatto”
che consente di attraversare le tribù e di essere accolti — si esprime ovunque in un lungo e
grave corteo di cibi. Couscous al latte e zucchero; e montoni e polli vivi, sacrificati sul posto alla voracità della scorta. Ma meglio ancora, per Loti, il tè offerto dai beduini con un fornello preistorico in terra secca; hanno da offrire arance, pane e un’acqua incerta in cui
affondano le dita. Tutto è meglio degli alberghi in cui il personale in cravatta bianca porge
il couscous a ore fisse, mentre clienti bionde
giocano a tennis.
Il turismo infatti già avanza. «Da quando
fabbrichiamo soli a volontà / soli prêt-à-porter», lamenta in versi Tahar Ben Jelloun, «abbiamo fatto venire il mare fino a Marrakech».
Così i profumi cambiano: «Le spezie venute
dal fondo dell’Oriente al passo indolente delle carovane — cumino — chiodi di garofano —
sessi doppi — ambra — cocacola — benzoino
(…) il nostro mondo è posseduto». L’etnologo
Michel Leiris, militare in Africa del Nord, mangia da legionario «frutta, caffè e ammazzacaffè».
Jean Genet — circondato come un tempo
André Gide da ragazzi che carezzano «lo zob di
Monsieur» — prende casa per un figlioccio a
Larache; e lui, sempre senza bagagli, è invaso
di colpo dall’universo degli oggetti: tegami soprattutto — non una cucina chiavi in mano,
ma casseruola per casseruola. A scuola porta
al bambino secchi di limonata e dolci “corna
di gazzella”. Paul Bowles non osa incontrarlo,
sa che non frequenta i bianchi, che si moltiplicano. Nel ‘17 è arrivata Edith Wharton; nel ‘54
Elias Canetti offrirà una moneta a un mendicante, che la mette in bocca e ve la gira e rigira:
è cieco, e la sta leggendo. Da Bowles passano
Tennessee Williams e Ruth Fainlight, che viene trascinata a una cerimonia nel deserto per
«un santo berbero»; sui bassi tavolini sorti dalla sabbia arrivano i tre tè rituali, dolci e bollenti; gli indemoniati non mangiano più rospi e
serpenti, e così Bowles indica agli ospiti la danza del ventre: da vicino, la ballerina accaldata
sembra proprio un ragazzo.
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Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
le tendenze
Non solo fiori
ACQUA DI PARMA
Divide ex aequo
con Miyake il premio miglior
creazione olfattiva
da donna: distilla il raro
profumo della magnolia
Peonia e geranio, ma anche vaniglia e pompelmo, tabacco,
caffè puro e tè del Sudafrica. Al Cosmoprof di Bologna premiate
le fragranze dell’anno, con un ritorno ai fioriti verdi, freschi
e allo stesso tempo retrò e con l’avanzata di speziati e agrumati
La conferma riguarda i consumi: nonostante la crisi le italiane
(e gli italiani) hanno speso in essenze novecento milioni di euro
D&G
Vince il premio uomo
come miglior
comunicazione:
cardamomo,
ginepro, betulla
per Le Bateleur
ispirato ai tarocchi
CALVIN KLEIN
Miglior profumo dell’anno
da uomo Ck Free:
all’assenzio, all’anice
dalle insolite note
aromatiche e speziate
MISS DIOR
Premio miglior
comunicazione
Firma lo spot
Sofia Coppola
MIYAKE
Vince ex aequo
il premio
come miglior creazione
olfattiva da donna:
verbena, giacinto
e gelsomino
DSQUARED2
Miglior creazione olfattiva
da uomo: ambra minerale,
incenso e giglio del Canada
Wood vince anche
il premio per il miglior
packaging da uomo
Oscardel
profumo
LAURA LAURENZI
I
MIYAKE
Vince come miglior
packaging donna:
il flacone ha origine
da un pezzo di vetro
grezzo dal fascino primitivo
BOLOGNA
l profumo dell’anno è Lola di
Marc Jacobs, un bouquet floreale che sa di peonia e geranio ma
anche di pepe rosa, vaniglia e
pompelmo. Quello da uomo invece è
CK Free, legnoso e aromatico, con accenti di tabacco, caffè puro e tè del Sudafrica. I cosiddetti Oscar del profumo,
tributati a sei diverse categorie, sono
stati assegnati durante una serata di gala venerdì a Bologna nel corso del Cosmoprof, la più importante fiera della
cosmesi del mondo.
I profumi sono stati votati da una giuria di 40 mila italiani in 401 punti vendita diversi, fra profumerie e grandi magazzini. A loro si è affiancata una giuria
speciale affollata di nomi celebri: da
Franco Battiato a Mario Biondi, da Carlo Ancelotti a Paola Barale, da Marella
Ferrera a Massimo Ghini, da Simona
Ventura a Zlatan Ibrahimovic. A condurre la serata, non senza qualche impaccio, Victoria Cabello.
La crisi non ha inciso più di tanto sul
consumo dei profumi, erodendo solo
l’uno per cento, secondo gli ultimi dati
resi noti al Cosmoprof. Il valore totale
della cosmetica è stato lo scorso anno di
9,1 miliardi di euro; quello che riguarda
profumi e fragranze è pari a 897,47 milioni di euro. Ovviamente si profumano
più le donne degli uomini, ma il distacco non è poi così schiacciante. Le donne incidono infatti con una spesa di circa 549 milioni di euro, gli uomini si attestano sopra i 348. Dato significativo: aumenta sensibilmente (più 4,1 per cento) l’uso dei deodoranti e degli antitraspiranti.
La recessione taglia implacabilmente le spese voluttuarie, ma sui profumi,
dotati di grande valore aggiunto, si tende a fare qualche sacrificio in più. Profumo come benessere diffuso e insieme
come piccolo lusso abbordabile. Quanto ai gusti imperanti, la tendenza da segnalare sembra quella di un ritorno ai
fioriti verdi, freschi e allo stesso tempo
retrò, gli speziati, i fruttati, soprattutto
gli agrumati, ma Gian Andrea Positano,
responsabile dell’ufficio studi Unipro,
sostiene che i trend sono i più diversi e
coesistono pacificamente: «Il classico
tiene sempre moltissimo, ma i premi
conferiti dall’Accademia confermano
la validità di numerose nuove esplorazioni creative».
Crescono (anche se solo con un fioco
più 0,3 per cento) i consumi della cosmetica. Se le aziende hanno fatturato
complessivamente il 2,5 per cento in
meno ciò è dovuto alla diminuzione
dell’export. Si vendono bene i prodotti
per il corpo, crescono anche i solari
mentre precipitano (meno 9,1 per cento) gli anticellulite. Si acquistano i prodotti di base, legati all’igiene e considerati indispensabili, mentre su molto altro si tira la cinghia.
SERGE LUTENS
Miglior prodotto
di nicchia
è Fémineté
du bois:
prevale il legno
di cedro
con note
cremose
ETRO
Miglior prodotto
di nicchia
da uomo,
l’agrumato
Pegaso:
bergamotto
e cedro
con sentore
di neroli
e basilico
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 APRILE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
ACQUA DI PARMA
Frizzante e agrumato,
Magnolia vince ex-aequo
il premio come miglior
prodotto made in Italy
per donna
BULGARI
Vince ex aequo come
miglior prodotto made
in Italy da donna: Blu
sa di violetta, anice,
liquirizia e mandarino
COSTUME NATIONAL
Miglior prodotto made
in Italy da uomo:
Homme ha una fragranza
sobria con tracce
di uva, timo, sandalo,
bergamotto
Luciano Bertinelli, presidente dell’Accademia del profumo
“Ogni nuova miscela è un messaggio
che parla al nostro inconscio”
MARC JACOBS
È Lola il miglior profumo
dell’anno da donna:
pepe rosa
in grani, pera,
peonia
Di Marc Jacobs
uciano Bertinelli è il presidente di Accademia del
Profumo, che da vent’anni assegna i suoi “Oscar”.
Quali sono le nuove tendenze?
«I profumi premiati, selezionati dai consumatori,
esprimono chiaramente la voglia da un lato di conservare saldi i canoni della tradizione olfattiva e dall’altro
di esplorare nuove interpretazioni di modernità».
I creatori di fragranze hanno a disposizione una tavolozza di circa tremila materie prime. Chi detta i criteri con cui sono selezionate?
«I criteri sono di due ordini, quello tecnico e quello
creativo. Dal punto di vista tecnico la selezione si opera sull’attendibilità della fonte di approvvigionamento, che significa non solo migliore qualità, ma anche regolarità e continuità delle forniture. Dal punto di vista
creativo, il profumiere seleziona le materie prime a seconda del proprio stile e dell’obiettivo da raggiungere.
Mi piace paragonarle alle lettere di un alfabeto che il
“naso” utilizza per scrivere un messaggio ogni volta diverso. Per questo ci sono creatori che attingono ad una
vasta selezione di materie prime ed altri che si limitano ad un numero molto ridotto, poche centinaia».
Perché tanti profumi si somigliano?
«Anche se non esistono più da tempo i diktat olfattivi, è evidente che i numerosi profumi lanciati ogni anno si iscrivono in grandi correnti che rispecchiano gusti e tendenze. In questa dimensione è possibile che
fragranze diverse possano contenere inflessioni e concetti vicini. È come nella moda: ci sono per ogni sta-
L
gione temi dominanti».
Perché i profumi di marca costano tanto?
«Perché si spende moltissimo in marketing, in comunicazione, in pubblicità. Il liquido che è dentro la
bottiglia alla fine è la cosa che costa di meno».
Vengono lanciati sempre nuovi profumi. Quest’anno oltre trecentocinquanta. In che percentuale
sopravvivono?
«Uno su dieci a dir molto. Gli altri finiscono nel dimenticatoio».
Quanto incide un testimonial famoso?
«Il valore del testimonial varia da campagna a campagna, ma non dimentichiamo che è più importante il
brand. Questo spiega perché i testimonial vengono
molto spesso cambiati».
Quanto è importante il packaging?
«In generale un packaging attraente contribuisce
molto all’affermazione di un prodotto, ma quel che fa
la differenza è, e rimane, la qualità del profumo».
Che vuol dire che un profumo, attraverso il suo percorso olfattivo sensoriale, può aumentare il nostro
benessere?
«Le essenze hanno la capacità di influenzare a nostra insaputa il nostro inconscio: studi scientifici hanno evidenziato che alcuni odori possono avere un effetto stimolante o al contrario rilassante sul nostro
tracciato encefalografico, quindi sulla nostra mente».
(l. lau.)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’ANTEPRIMA
Presentata in anteprima al Cosmoprof
di Bologna nel corso di una serata di gala,
l’ultima fragranza donna di Ferragamo:
si chiama Attimo. Fra i componenti meno
conosciuti la pera Nashi, il Kumquat e il fiore
di frangipani. A questi accenti si mescolano
il fiore di loto, il profumo della gardenia
e gli effluvi rosati e particolarmente femminili
della peonia. La scia, lieve ma persistente,
è data dal mix di muschio, legno di cedro
e patchouli. La famiglia olfattiva è fiorita, verde,
legnosa. Ecologico il cartone utilizzato
per il packaging, secondo la tendenza
che va verso “una bellezza che non inquina”
La testimonial è Dree Hemingway,
pronipote dello scrittore
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 APRILE 2010
l’incontro
Oscar, Tony, Emmy, cinema, teatro
e televisione. Ha fatto incetta
dei massimi premi, ma non smette
di voler “continuare ad assaporare
la gioia di recitare
davanti a un pubblico
in carne e ossa”
Predilige i personaggi
ambigui o decisamente
negativi e difende
le sue scelte: “Se dovessi
interpretare persone perbene
e cristalline, temo che mi annoierei
I cattivi sono più divertenti”
Carismatici
Jeremy Irons
a mostrato il proprio
magnifico talento in
ogni forma di spettacolo, alternando continuamente cinema, teatro, televisione e
musica. Ha ricevuto un’educazione
classica estremamente rigorosa, che
tuttavia non lo ha mai portato a disdegnare forme di intrattenimento più leggere. È stato insignito di ogni tipo di riconoscimento, ed è uno dei pochi attori ad aver ricevuto il premio Oscar (Il mistero Von Bulow), il Tony (The Real
Thing) e due volte l’Emmy (The Great
War and Shaping of the 20th Century e
Elizabeth I). Parteciperà stasera al
“Viaggio nel cinema americano” all’Auditorium Parco della Musica di Roma, e ci tiene a spiegarmi che non ha alcun atteggiamento di snobismo nei
confronti del cinema statunitense, anche quello più mainstream e commerciale. «Sono un attore, e come tale lavoro quando vengo scritturato. Se la storia, il personaggio e il regista sono interessanti, sono felice di accettare l’offerta di lavoro. Si fanno buoni film sia in
Europa che negli Stati Uniti, così come
brutti film».
È nato con il nome di Jeremy John
Irons a Cowes, nell’isola di Wight, in
una famiglia di origini irlandesi. Il bisnonno era un attivista politico, dal
quale ha ereditato una concezione dell’esistenza che non ignora mai l’impegno nella vita sociale. È stato per molto
tempo un generoso sostenitore del partito laburista, e non ha mai fatto mancare il proprio sostegno a cause nobili
con azioni concrete e gesti simbolici,
come l’indossare tra i primi a Hollywood il nastro rosso di solidarietà per
La donna del tenente francese.
Sin da questi inizi appare evidente
l’eclettica intelligenza delle scelte e la
continua ricerca della qualità: gli autori dei romanzi rispondevano al nome di
Evelyn Waugh e John Fowles. Per non
parlare di Harold Pinter, che sceneggiò
il film per la regia di Karel Reisz, e per il
quale interpretò subito dopo la versione cinematografica di Tradimenti, accanto a Ben Kingsley. Irons divenne immediatamente una star e cominciò ad
alternare le interpretazioni per il cinema europeo a quelle per Hollywood,
non disdegnando mai i ruoli interessanti nei film americani indipendenti.
Sin da quegli anni mostrò di preferire
personaggi ambigui, se non dichiaratamente malvagi: è il caso di Inseparabili
di David Cronenberg; di Lolitadi Adrian
Lyne, nel quale interpreta Humbert
Humbert immortalato in precedenza
da James Mason; di Il mistero Von Bulow di Barbet Schroeder. Non sono certo mancati personaggi nobili, positivi, o
comunque caratterizzati da una
profonda umanità, come quelli interpretati in Mission di Roland Joffé e in Io
Nessuna automobile,
nessun altro mezzo
di trasporto, anche
nei viaggi lunghi,
mi dà il piacere
della moto:
la mia Ducati
è come una Ferrari
a due ruote
FOTO © FABRICE DALL'ANESE /CORBIS OUTLINE
H
NEW YORK
gli ammalati di Aids. «Ritengo che la cosa da fare per rendere utile la propria celebrità sia quella di enfatizzare cause
che hanno bisogno di ossigeno per essere visibili», mi spiega, senza alcuna
enfasi. Poi assume un tono disincantato: «Riguardo alla politica, ho cercato di
aiutare con convinzione i laburisti, ma
ora non appoggio alcun partito. Troppi
politici non hanno null’altro da fare che
concepire leggi non necessarie, specialmente a livello di parlamento europeo. Penso che dovremmo educare ed
incoraggiare la gente a comportarsi in
modo da rendere la vita più piacevole
per tutti, e non guardare costantemente al governo per ottenere risposte».
Al crescente atteggiamento di distacco verso lavoro e politica si contrappone l’attenzione dedicata alla vita familiare (è sposato dal 1978 con Sinead Cusack, dalla quale ha avuto due figli, Samuel e Maximilian) e alle attività sportive. È un ottimo cavallerizzo e un magnifico sciatore, oltre che un grande
tifoso della squadra calcistica del Portsmouth. Ma la passione più divorante è
rappresentata dalle motociclette, che
usa come mezzo di locomozione anche
per i lunghi viaggi: definisce la sua Ducati una «Ferrari a due ruote» e spiega:
«Poche forme di trasporto mi procurano lo stesso piacere della motocicletta:
è necessario essere sempre attenti e rispettosi delle condizioni meteo, delle
strade, dei limiti di velocità. Inoltre la
moto ti permette di non restare intrappolato nel traffico a quattro ruote». La
Ducati tuttavia non è l’unico amore: la
sua scuderia, che si arricchisce continuamente di nuovi acquisti, è composta da una Audi A6 Quattro Estate, da
una Cruising Bike Bmw, da una Morris
Minor, da una Honda 50 e da un Maggiolone Volkswagen.
Ai tempi della scuola, un liceo chiamato Sherborne nel Dorset, cominciò a
suonare la batteria e l’armonica e insieme a un gruppo locale chiamato ironicamente “The Four Pillars of Wisdom”
conquistò una discreta fama con una
versione di Moon River. È il periodo in
cui scoprì la passione per l’esibizione in
pubblico e per la recitazione. Cominciò
a studiare presso la Bristol Old Vic Theatre School e debuttò nel musical Godspell, alternandosi in due ruoli diversissimi: Giuda e Giovanni Battista. Lo
spettacolo ebbe un grande successo
ma, dopo un ruolo di contorno in Nijinski, il vero lancio avvenne grazie all’interpretazione di Charles Ryder nella
produzione della Bbc di Brideshead Revisited. Il passaggio al cinema fu immediato e a distanza di pochi mesi duettò
meravigliosamente con Meryl Streep in
ballo da soladi Bernardo Bertolucci, ma
l’immagine prevalente è sempre, volutamente inquietante: seducente e nello
stesso tempo luciferina. Ne è prova la
scelta fatta dalla Disney, che lo chiamò
a prestare la voce a Scar, il felino che uccide il proprio fratello nel Re Leone per
strappargli lo scettro.
«Sono affascinato dai personaggi
ambigui ed enigmatici», mi spiega con
un sorriso, «una delle aree più interessanti del mio lavoro è imparare perché
costoro sono quello che sono. La lavorazione di un film può essere lenta e tortuosa e, se dovessi interpretare persone
perbene e cristalline, temo che mi annoierei. Ovviamente i “cattivi” sono
persone che non seguono le regole della società: sono destinati ad essere scoraggiati nella vita ed è il motivo per cui è
divertente interpretarli».
Queste caratterizzazioni, sempre raffinate e spesso sorprendenti, sono state
bilanciate costantemente dalle scelte
teatrali. Una delle interpretazioni che
ha lasciato un segno nei palcoscenici inglesi è stata quella di Henry Higgins in
My Fair Lady, il raffinato glottologo che
si innamora della semi-analfabeta Eliza
Doolittle nella versione musicale del
Pigmalione di George Bernard Shaw.
Dopo il successo nel ruolo di Alfred Stieglitz nella biografia televisiva di Georgia
O’Keeffe, Irons sta preparandosi adesso
per il ruolo di Rodrigo Borgia, l’uomo
che divenne papa con il nome di Alessandro VI: «Sto leggendo tutto quello
che è stato scritto sulla famiglia Borgia e
mi colpisce di non aver trovato una biografia accurata su Rodrigo: molti pettegolezzi e sospetti ma nessun fatto provato con certezza».
Tuttavia, tra tutti i ruoli affrontati, è
con ogni probabilità quello di Claus
Von Bulow che presenta maggiori pericoli e sfumature. L’uomo che venne
condannato e poi assolto in appello per
l’omicidio della moglie non ha nulla di
attraente o simpatico, e il grande avvocato Alan Dershowitz utilizzò abilmente questa caratteristica per costruire
un’accusa di pregiudizio che invalidò
prove schiaccianti a suo carico. Un personaggio che portava con sé il rischio di
intrappolare per sempre una carriera,
ma nel suo caso condusse al premio
Oscar. Dopo la fine del processo e la discussa assoluzione Von Bulow si è ritirato a Londra e ha diradato le apparizioni pubbliche, limitandosi a scrivere
occasionalmente di teatro. Irons lo ha
incontrato soltanto molti anni dopo
averlo impersonato sullo schermo, e
non deve essere stato un incontro piacevole: «Ho avuto l’impressione che la
mia interpretazione non fosse troppo
distante dalla realtà».
Ancora oggi coltiva le passioni della
gioventù, e sono in pochi a sapere che ha
diretto un video musicale per Carly Simon. Il filmato, intitolato Tired of being
blonde, negli anni è diventato di culto.
La musica rappresenta un momento
importante del suo percorso creativo, e
non si è mai tirato indietro anche di fronte a incisioni e esecuzioni difficili. La
scelta di interpretare Henry Higgins in
My Fair Lady testimonia infatti sia l’amore per la musica che per il palcoscenico, dove al talento naturale unisce una
tecnica acquisita con caparbietà e una
grande presenza scenica: è alto quasi un
metro e novanta, ma è in grado di muoversi con raffinata scioltezza.
Così non ha mai abbandonato il teatro, anche nei momenti di maggiore
successo cinematografico: lo scorso
anno ha interpretato con successo a
Broadway Impressionism, ed è appena
andato in scena a Londra in The God’s
weep. L’alta qualità della sua formazione teatrale, che lo ha visto interpretare
ripetutamente Shakespeare, ha lasciato il segno anche nel cinema: tra le interpretazioni più intense e sensibili c’è
quella di Antonio nel recente Mercante
di Venezia con Al Pacino. «La mia educazione teatrale ha dato forma a tutto
quello che ho fatto. Lavorando come attore e come stage manager ho visto di
quale disperato talento ci sia bisogno
per realizzare uno spettacolo. Il fatto
che a teatro esistano molti ruoli straordinari, mi ha reso più esigente nella
scelta dei ruoli cinematografici». A questo punto Irons si ferma un attimo, come se volesse confidarmi qualcosa: «Ho
assaporato la gioia di recitare di fronte a
un pubblico in carne e ossa. Si tratta di
un elemento che nel cinema, inevitabilmente, mi manca».
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ANTONIO MONDA
Repubblica Nazionale
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