TORNARE ALL’ARCHITETTURA ANTOLOGIA DI SCRITTI SULL’ARCHITETTURA Vol. II Raffaele Giovanelli 2014 1 INDICE – Vol. II ALLA RICERCA DELL’ARCHITETTURA PERDUTA ……….. 3 NOSTALGIA, ARTE E …. PUBBLICITA’ ……………………… 12 CECILIO ARPESANI E IL RITORNO AL MEDIOEVO ………. 27 GAUDI’ E GALLEGO, COSTRUTTORI DI CHIESE ………… 41 IL RINASCIMENTO SCONFISSE IL GOTICO ……………….. 63 RECUPERO DELL’ANTICO CON LE COPIE ………………... 78 RAFAEL MONEO, VITTIMA INCONSAPEVOLE DEL MODERNISMO ? ………………………………… 92 ARCHITETTURA DIPINTA DELLA LIGURIA ………………… 109 LEON KRIER …………………………………………………….. 119 L’AUTOMOBILE E IL SUO RUOLO DISUMANIZZANTE …… 129 2 Alla ricerca dell’architettura perduta 12 Ottobre 2010 Può essere ozioso chiedersi perché abbiano tanto valore le rovine sparse per il mondo. Dalle piramidi egiziane, ai templi aztechi immersi nella giungla del centro America, alle rovine dell’antica Roma, sparse su quello che fu l’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente, sino alle perdute civiltà dell’India, in tutto il mondo si trova gente che si reca in pellegrinaggio per gioire dell’aura di queste infinite rovine. Ma in realtà che cosa cercano? Pochi di quelli che compiono questi pellegrinaggi conoscono bene ciò che stanno visitando. Durante il Medioevo andavano di moda i pellegrinaggi diretti ai luoghi santi. Erano viaggi religiosi penitenziali, affrontando disagi terribili messi nel conto delle penitenze da scontare per guadagnare le vita eterna. Le strade di quei pellegrinaggi conservano ancora gli ostelli, di solito monasteri attrezzati per dare breve ospitalità a gente affamata e stanca. Alla domanda: che cosa cercavano, la risposta era facile. Andavano alla ricerca del sacro, di tutto ciò che tangibilmente testimoniasse il sacro, quindi delle reliquie vere o false che fossero. Una piccola digressione sul concetto di rovine Per rovine intendo un’opera che non necessariamente sia un rudere, ma deve avere la caratteristica di essere stata abbandonata da ogni forma di culto religioso o della tradizione per cui era stata realizzata. L’opera è stata poi assunta a simbolo per un particolare culto che interessa esclusivamente la civiltà occidentale: il culto della storia. Nulla di meglio che fare qualche esempio. Il muro del pianto, pur essendo oggettivamente un resto archeologico, un rudere, non è una rovina nel senso che si vuole dare qui. Infatti esso viene venerato quale simbolo di tutte le tragedie vissute dagli ebrei nei secoli, senza alcun riferimento a ciò che di quel muro ci dice la scienza dell’ archeologia. Il muro del pianto pare sia stato in realtà il contrafforte di sostegno della spianata del tempio ampliato da Erode il Grande, nominato dai romani re di Giudea nel 37 avanti Cristo, detestato dagli ebrei del suo tempo come usurpatore e straniero (era idumeo). E’ interessante sapere che gli ebrei non sono andati a pregare e a piangere davanti a questo muro se non dal 15mo secolo, quando i dominatori mammelucchi consentirono alla piccola comunità ebraica di allora di eseguire lì le sue cerimonie quotidiane: prima, gli ebrei pregavano sul monte degli Olivi. Nel sedicesimo secolo l’imperatore ottomano, succeduto ai mammelucchi - Solimano il Magnifico confermò con un formale editto il muro del pianto come luogo di preghiera per gli ebrei (1). Invece il famosissimo monumento funerario detto Taj Mahal, in perfetto stato di conservazione, è una rovina, anche se molto recente, essendo del XVII secolo. E’ una rovina perché circondato da un’attenzione che deriva solo dalla sua grande bellezza, fuori dal contesto che ne ha determinato la costruzione. Venne salvato dal degrado da un governatore inglese, che rimase affascinato dalla sua bellezza. Infatti è un monumento islamico in una società a prevalente religione indù, una testimonianza della dominazione di una casta militare islamica di origine mongola. E’ credenza generale che Taj Mahal (il cui significato letterale è Palazzo della Corona) sia una versione abbreviata del nome di Mumtaz. In realtà non è ben nota né l’origine della sua denominazione, né l’architetto che lo progettò (2). Tutta la sterminata architettura creata in India dagli imperatori Moghul costituisce rovine, quasi tutte ben conservate. La rovina è intesa quindi come un manufatto sterilizzato, fuori dal contesto delle credenze e delle motivazioni che l’hanno creato. 3 Il Taj Mahal Secondo questa definizione tutta Venezia, a parte gli alberghi, la stazione ferroviaria e le altre strutture che fanno funzionare ciò che resta della città storica, è una grande rovina, certamente un museo a cielo aperto. La parte monumentale di Venezia è stata il cuore di uno antico Stato, cancellato con l’invasione dei francesi condotti da Napoleone. Era una realtà politica che lo Stato italiano risorgimentale ha finito di distruggere. Che Venezia fosse una rovina se ne erano accorti i futuristi, nemici acerrimi delle rovine di qualunque provenienza fossero. Quindi la rovina non deve necessariamente essere un rudere. Al rudere resta il significato di calcinaccio, dal latino rudus. Qui per rovina si intende il resto di un edificio o di un monumento, fuori, avulso dal contesto in cui venne costruito. Le rovine diventano la forma, che rappresenta l’anima del mondo attuale tradito dall’arte moderna. Le rovine sono la nostra vera architettura, delocalizzata e nella quale non possiamo vivere. La visitazione assidua dei monumenti antichi, quelli che chiamo rovine, ha come conseguenza il fatto che la gente finisce per assumerli come la propria architettura e soprattutto come la propria arte. Per una serie di ragioni, che analizzeremo, avviene che la gente non veda gli edifici della città in cui vive. L’architettura di ogni giorno è rifiutata. Questo è un fatto oggettivo a cui non si dà importanza. Si realizza una sorta di delocalizzazione della rappresentazione architettonica. In altre parole: poiché non possiamo sottrarre le città moderne alla dittatura degli speculatori, delle archistar e degli artisti in voga, la gente non vede le architetture dove vive ma idealmente continua a vivere dentro le architetture delle rovine, dove ha trascorso le sue vacanze, e dove ha lasciato, con nostalgia, il suo legame con il proprio ideale di bellezza. Per verificare questa affermazione basta porsi questa do4 manda: chi è in grado di ricordare nei dettagli il palazzo di fronte a dove abita, oppure l’ edificio al termine della sua strada? Oppure alcuni edifici moderni del nuovo centro della sua città? Ben pochi, a meno che uno non abiti in una città-museo come Siena, dove la gente si cura anche delle pietre del selciato. Al contrario tutti ricordano l’architettura delle rovine che hanno visitato durante le ferie. Quelle rovine sono disponibili per essere rivissute in proprio, essendo fuori da ogni contesto temporale attuale, da ogni contesto ideologico e sociale da cui sono scaturite. Sono rimasto non più di un’ora sull’Acropoli di Atene, eppure, per la forza dell’emozione vissuta, non ho difficoltà a riviverci con la memoria per un lungo lasso di tempo. Così come si delocalizza il commercio, la produzione, allo stesso modo si delocalizza l’architettura, la percezione dell’architettura. Si riesce a vivere il miracolo di ignorare la realtà architettonica in cui viviamo. Alla delocalizzazione siamo ormai abituati. L’uso universale dei cellulari ha delocalizzato anche la nostra presenza. Quando chiamiamo col cellulare chiediamo: dove sei ora? Il telefono cellulare è diventato una sorta di alter ego, delocalizzato, astratto. L’uso della rete internet ha delocalizzato il luogo in cui le informazioni effettivamente risiedono, trasformando il mondo in un villaggio globale in cui non esiste la nostra realtà corporea, sostituita dalla nostra immagine virtuale, quella che viaggia continuamente nella rete che interconnette tutto il globo. Un villaggio unico, in cui esiste una reciproca conoscenza virtuale, che spesso, se trasformata in conoscenza reale, corporea, genere drammi e traumi. Fotografie, film, ricordi e viaggi con guide esperte hanno il risultato di farci vivere e ritornare idealmente in un mondo architettonico diverso da quello che ci viene propinato e imposto da architetti famelici ed organizzati nella loro brutalità espressiva, sorretti da politici impegnati a reggere il gioco, declarando retoricamente come stiamo andando verso il progresso e verso un avvenire migliore. Nei mondi lontani, dove vivono i ruderi, possiamo tornare con la mente ogni volta che lo desideriamo grazie agli infiniti e sempre più perfezionati strumenti tecnici di registrazione delle realtà trascorse. Oggi le città dove si vive non le guarda più nessuno, per mancanza di tempo, per la velocità con cui ci spostiamo (3) e per il rifiuto dell’architettura attuale, che poi non chiede neppure di essere ammirata e vissuta, ma solo di essere subita, come una imposizione del potere che maschera e sottintende. Ma la gente ha negli occhi ben altra architettura: quella che vede durante i viaggi. Ecco perché si verifica una rivolta corale quando gli architetti vorrebbero inserire le loro nuove opere nei santuari dell’architettura del passato, nei luoghi delle rovine, dove la gente ripone i suoi tesori di bellezza. Gli architetti non vogliono accettare il fatto che la loro architettura non venga ammirata ma solo tollerata, anche perché in realtà non viene neppure vista. Gli stessi architetti si stupiscono e si scandalizzano se quella stessa architettura è violentemente rifiutata quando pretende di insediarsi nei luoghi dove la gente si reca per guardare e vedere, ed ha quindi il tempo e la disposizione d’animo per farlo. Questa contaminazione immorale e blasfema tra l’antico rudere e l’architettura moderna negli ultimi tempi si verifica sempre più spesso (4). Nelle città il prezzo degli immobili dipende dalla grandezza della superficie, dalla qualità dei materiali, dalla zona, dalla prossimità dei trasporti pubblici, dalla disponibilità del parcheggio. La bellezza è confinata nella sfera del soggettivo ed è in realtà ininfluente nella determinazione del prezzo. Questo corrisponde al fatto che le città sono fatte per investire capitali e sono sempre meno adatte per essere abitate nel senso pieno del termine. Le città sono un agglomerato di edifici che hanno valore principalmente come bene-rifugio. Anche per viverci forse, ma questo pare sia un fatto secondario. E poi viverci come si vive oggi, con la fretta, per fortuna dispensati dal necessità di vedere. Colate di cemento, ci sono espressioni come questa che sono entrate nel linguaggio corrente per indicare il crescere e l’esistere di una massa informe di edifici nuovi. 5 Il culto delle rovine Il culto delle rovine è nato in Occidente con il Rinascimento di cui è stato la ragion d’ essere. Le basi ideologiche del culto delle rovine sono complesse perché sono mutate rinnovandosi continuamente. Più avanti viene riportata una brillante esposizione del culto delle rovine così come è ufficialmente inteso oggi. Dopo il Rinascimento il culto è passato attraverso una fase misterica, appannaggio della classe colta, gradito anche alla Chiesa, nonostante l’ ostilità della Riforma luterana prima e della Controriforma poi. L’Illuminismo fa del culto delle rovine romane e greche una bandiera, inserendo nell’architettura del momento una massiccia dose di elementi tratti direttamente dai monumenti del periodo classico. Nasceranno così un’arte ed un’architettura neoclassiche. Con il tramonto dei furori illuministici il culto delle rovine risorge prepotente con il periodo romantico, quando furoreggiano le rovine molto rovinate, cadenti. Si tratta di rovine abbastanza recenti, fabbricate durante la Rivoluzione Francese con la distruzione di chiese e conventi. Si tratta quindi di rovine che risalgono a edifici del Medioevo, il periodo storico rifiutato violentemente dall’ Illuminismo. L’architettura eclettica della seconda metà dell’Ottocento. Il ruolo delle Esposizioni Universali Quel mix di stili che furoreggiò nella seconda metà del XIX secolo con l’eclettismo era la conseguenza del bisogno di vivere tutta l’architettura del passato. In quegli anni il turismo di massa non era ancora possibile ed alla gente veniva consentito di vedere nella propria città un campionario di tutti gli stili, possibilmente esotici, lontani nel tempo e nello spazio. Questa tendenza era sostenuta anche dal fatto che non esistevano i mezzi di registrazione della realtà di cui oggi disponiamo. Così abbiamo alla fine dell’Ottocento un’architettura che incorpora tutte le rovine, sparse per il mondo, le rovine più note e famose. Edifici eclettici, progettati per apparire come enciclopedie dell’architettura nei secoli e nelle diverse civiltà. I risultati non sempre furono disastrosi, come oggi si vorrebbe far credere. Durante le grandi Esposizioni Universali avveniva la liberazione della fantasia degli architetti. Il pubblico accorreva a vedere questa esplosione di nuove idee, queste promesse materializzate di un futuro radioso, ben diverso da quello che poi ci avrebbe propinato un Le Corbusier. Citiamo solo alcune Esposizioni interessanti per ciò che ci hanno lasciato, sfidando sino ad oggi il modernismo. L’Esposizione di Parigi del 1889, tenuta in occasione del centenario della presa della Bastiglia, risulta per molti aspetti una delle più importanti Esposizioni. Organizzata al Campo di Marte, comprendeva un insieme di edifici: un palazzo, la Galerie des Machines e la celeberrima torre di 300 metri costruita dall’ingegnere Eiffel. L’Esposizione aveva una propria ferrovia interna, una Decauville, per un percorso di 3 km. L’elettricità in quella occasione venne consacrata al progresso, e anche il petrolio conquistò il suo primato energetico; gli americani Babcox & Wilcox primeggiarono con la caldaia a vapore. Parteciparono 61.720 espositori, di cui circa 35.000 francesi. La Tour Eiffel, progettata nel 1884, riceveva già nel 1886 una lettera di protesta a firma di molti intellettuali, tra cui Gounod, Maupassant e Leconte de Lisle, ma diventò subito il simbolo di quella Esposizione (6 maggio-6 novembre 1889). Alcuni iniziali dissensi sull’ estetica dell’opera vennero messi a tacere nell’ elaborazione finale del progetto, con l’ aggiunta dei grandi archi posticci posti alla base. La Torre Eiffel si impose all’immaginazione come qualcosa di inatteso e di fantastico. Terminata l’Esposizione, la Torre non venne demolita ed anzi divenne poi, come sappiamo, il simbolo di Parigi. Petit Palais L’Esposizione che segnò il breve trionfo dell’eclettismo, prossimo a lasciare il passo allo stile floreale, fu l’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Venne realizzato 6 per l’ occasione quel gioiello che è il Petit Palais. Insieme al vicino Grand Palais, fa parte del complesso edilizio costruito per l’occasione, previo abbattimento del Palais de l’industrie, innalzato per l’ Esposizione Universale del 1855, e del Pavillon de la Ville de Paris, vestigia dell’Esposizione del 1878. Fu inoltre tracciato un grande viale in asse con Les Invalides e il ponte Alexandre III; la direzione dei lavori venne assegnata a Charles Girault, che disegnò di persona il Petit Palais e incaricò gli architetti Henry Deglane, Albert Louvet e Albert Thomas del progetto del Grand Palais. Impostato su una pianta trapezoidale, il Petit Palais ubbidisce a tutti i canoni della cultura neoclassica e all’eclettismo dell’epoca. Petit Palais L’edificio ospita il Musée des Beaux Arts. Al Petit Palais oggi si svolgono le sfilate dell’ alta moda, un campo che è rimasto quasi immune dai dettami iconoclasti dell’arte moderna. L’Exposition Internationale Universelle (14 aprile-12 novembre 1900) occupò un totale di 1.130.000 mq. Vennero erette costruzioni destinate a rimanere oltre l’effimera esistenza dell’Esposizione. Per il funzionamento di 5.000 macchine venne messa a disposizione una potenza di 40.000 cavalli. L’AEG di Berlino, che dominava il settore elettrico con i propri alternatori trifase, espose anche una locomotiva elettrica. Fu il primo trionfo dell’ automobile: erano presenti Daimler, Peugeot, Michelin, Renault, Ford e Fiat. Per l’occasione la città di Parigi venne completamente rinnovata, mentre nel sottosuolo scorreva la metropolitana appena inaugurata. L’Esposizione registrò più di 50 milioni di visitatori, un successo enorme. Le grandi esposizioni erano una verifica diretta del gusto del pubblico, che progressivamente diventava cosmopolita, sempre più disposto a mettere in secondo piano i propri particolarismi, senza tuttavia rinnegarli del tutto, essendo questi parte essenziale dell’ identità di ciascuno. Lo stile moderno non ricevette nessuna ovazione da queste esposizioni, e neppure da quelle successive. anzi si può dire che l’eclettismo vi continuò a 7 trionfare, a dispetto persino delle pretese egemoniche del nascente stile floreale. Otto anni prima dell’Esposizione di Parigi del 1900, si era tenuta l’Esposizione di Chicago, la World’s Columbian Exposition, denominata anche la White City, inaugurata il primo maggio del 1892, la più grande Esposizione universale americana, dove come sappiamo Wright non partecipò ed il suo maestro Sullivan si bruciò (5). Queste Esposizioni si succedevano ad un ritmo frenetico, impegnando il prestigio delle grandi nazioni industrializzate. Ci furono poco prima le Esposizioni di Filadelfia, di New York (1883) e di New Orleans (1885). L’Esposizione Universale di Chicago si colloca a cavallo di due grandi eventi: la fine della Guerra di Secessione e l’elezione a presidente di Mac Kinley, che inaugurerà la politica imperialista degli Stati Uniti. Chicago, dove la ferrovia arriva già nel 1849, in quegli anni è uno dei principali mercati di bestiame del Paese ed è uno dei laboratori di architettura più avanzati in America. All’Esposizione di Chicago nel padiglione della Germania ci sono anche gli ultimi cannoni della Krupp, ospitati nell’apposito settore progettato dall’ architetto G. Gillhausen di Essen. Come contraltare alla Torre Eiffel gli americani costruirono una gigantesca ruota: la Ferris Wheel con un diametro di 76 metri, che prese il nome dall’ingegnere George W. Ferris di Chicago. Ferris progettò e costruì la ruota panoramica in meno di sei mesi, ma non ebbe certo il successo della Torre Eiffel. Di tutto questo fervore oggi in architettura si ricordano solo le opere di Wright, che debuttò come bravo disegnatore, senza la laurea in architettura, e che qualche anno dopo sarà catapultato a simbolo di tutta l’architettura americana tra la fine del XIX secolo e l’ inizio del XX. Purtroppo il clima di amicizia tra i popoli, instaurato dalle Grandi Esposizioni, non riuscì ad impedire lo scoppio della prima Guerra Mondiale. Il culto delle rovine come fenomeno tipicamente europeo (Paul Zanker) (6) Per confrontarci con il pensiero ufficiale circa le rovine (intese ora nel significato letterale, come rudere carico di ricordi) è utile leggere una brillante pagina di Paul Zanker, che a buon diritto può essere considerato portatore dell’interpretazione corrente del culto delle rovine. «Da che cosa dipende il peculiare effetto, più emotivo che intellettuale, esercitato su di noi dalle rovine, che tocca persino il moderno turismo di massa? Come si è formato questo vero e proprio culto delle rovine? … si tratta di un fenomeno tutto europeo, per cui non si trovano confronti adeguati nelle altre grandi culture. La Cina classica, ad esempio, non mostra alcun interesse per le rovine, né in letteratura né nell’arte, e del tutto assente è la tutela delle rovine, per tacere della mancanza di qualunque forma di venerazione nei confronti di esse. La parola ‘rovina’ ha anche lì una connotazione decisamente negativa, come nel caso dei nostri ruderi di guerra o degli edifici pericolanti e semicrollati:…; se un edificio importante, come un tempio, va in rovina, lo si ricostruisce il più fedele possibile al precedente… Nelle culture dell’Estremo Oriente manca qualunque interesse per un’ architettura storicamente ‘originale’, intesa come una reliquia: quando si presenta la necessità, il vecchio tempio viene rifatto di sana pianta. Al contrario, come vedremo, le rovine dell’ antichità greco-romana hanno molto in comune con il culto delle reliquie: alludono a realtà ulteriori, il loro significato va al di là del carattere di semplici ruderi di un determinato edificio. Sembra dunque che dobbiamo considerare la conservazione e la continua cura delle rovine come un fenomeno specificamente europeo. … rovine di edifici anche significativi, ma di epoche diverse, non sono state in genere conservate. Nelle città europee è rarissimo trovare le rovine di una cattedrale romanica o gotica accanto all’edificio più recente che l’ha sostituita; normalmente si abbatteva il vecchio edificio, oppure si trasformava la chiesa romanica in una gotica o barocca senza alcun riguardo alla struttura architettonica o alla decorazione originale… … in epoca romantica rovine gotiche conservatesi casualmente furono percepite come suggestive testimonianze di devozione medievale… Ma in generale il culto delle rovine vale solo per quelle dell’antichità classica. Dall’Alto Me8 dioevo fino all’età moderna in Europa si manifestano a proposito delle rovine scale di valori e forme di comportamento decisamente diverse dalla prassi della copia pedissequa delle forme antiche, quale troviamo in Estremo Oriente: ma ciò vale appunto solo per i ruderi di epoca greco-romana. Ma perché le rovine dell’antichità classica, e solo quelle, sono state conservate? Perché non sono state anch’esse eliminate, come quelle più recenti? Un impulso decisivo in questo senso è venuto senza dubbio dal drammatico naufragio della cultura classica nell’Europa occidentale. Per quanto vi siano stati fenomeni di continuità, su cui la ricerca degli ultimi decenni ha rivelato molto di nuovo, resta il fatto che, durante il periodo del tramonto del mondo romano, fra V e VIII secolo dopo Cristo, l’Europa occidentale ha vissuto una catastrofe culturale di dimensioni eccezionali, una catastrofe in cui non perì solo l’antica religione, ma l’intero sistema statale ed economico, che pure sembrava fondato su basi solidissime. Intere città scomparvero si ridussero a villaggi difesi da modeste fortificazioni improvvisate. Della stessa Roma, un tempo gigantesca metropoli, rimase solo una piccola cittadina, concentrata nell’antico Campo Marzio e intorno al Vaticano. Ma questo modesto insediamento era circondato dagli sterminati campi di rovine dell’antica città morta. I contemporanei li consideravano con stupore e timore, ad esempio in occasione delle processioni, per giungere alle grandi basiliche, simili a isole nel mare della desolazione, si attraversavano le aree abbandonate, con le rovine aggredite dalla vegetazione. Se si prescinde dalle basiliche paleocristiane e dai templi pagani trasformati in chiese, non vi fu continuità fra gli edifici della città antica e quelli della nuova città cristiana. Si guardava alle rovine come a relitti di un’altra civiltà. Già nei primi documenti, accanto al puro e semplice stupore, si nota l’ammirazione per un’epoca capace di costruzioni tanto imponenti e durature. Per il Venerabile Beda (672 -735 dopo Cristo) il Colosseo diviene addirittura il simbolo di Roma e il garante della sua eternità. Quamdiu stat Coliseus, stat Roma; / quando cadet Coliseus, cadet et Roma; / quando cadet Roma, cadet et mundus Fu dunque la catastrofe, la decadenza di Roma ad assicurare alle rovine un’attenzione speciale: tanto più, in quanto esse non evocavano qualcosa di estraneo; di Roma antica e della sua cultura si sapeva infatti molto, grazie ai libri che si erano conservati nei monasteri. E, pur nella distanza, ci si sentiva per molti aspetti legati a quel mondo. Ma il sapere desunto dai libri era qualcosa di diverso dalle rovine: per capire queste ultime non c’era bisogno di saper leggere. Erano presenti, s’insinuavano nel proprio spazio vitale, il rapporto con esse faceva parte delle esperienze quotidiane. I grandi ammassi di ruderi venivano aggirati dalle modeste strade con percorsi tortuosi. La presenza del passato era quasi opprimente, addirittura un ostacolo nella vita quotidiana. Ma soprattutto, le rovine cominciarono di suscitare ammirazione non solo per la loro imponenza, ma anche per la bellezza: la decorazione marmorea, le stesse strutture murarie, le volte, alle quali il mondo contemporaneo non era in grado di opporre nulla di paragonabile. Ascoltiamo i celebri versi che il vescovo Ildeberto di Lavardin scrisse agli albori del XII secolo: ‘Sei tutta in rovina o Roma, eppure nulla ti è pari; e anche cosí in frammenti, insegni quanto tu fossi grande, quando eri intera… Quel che è ancora in piedi è tanto grande, e tanto grande quel che va in rovina, che non è possibile né eguagliare i Monumenti superstiti, né rifare quelli che vanno crollando. Persino gli dèi si volgono a Roma per guardare il loro stesso aspetto, e desiderano raggiungere la bellezza che gli artisti han dato loro nelle statue’». Il culto delle rovine sarebbe quindi circoscritto ad una sorta di nostalgia del tempo delle nostre origini, una ricerca del tempo perduto. Ma non è tutto perché così non si spiega il crescente interesse per antichità esotiche, molto lontane da quelle greche e romane. Le rovine recenti prodotte dalle guerre e dal mutare degli interessi 9 All’inizio dell’era moderna i seguaci dell’Illuminismo seminarono l’Europa di chiese e conventi, trasformati in rovine. Molte di queste rovine sono ben visibili e ben conservate paradossalmente per essere destinate al culto da parte dei poeti e dei pittori romantici. Oggi si è realizzata un’alleanza tra arte, architettura moderna ed il progresso delle scienze e della tecnica. Anche se in particolare il progresso della tecnica procede per passi concatenati, in cui il passo precedente contribuisce alla nascita di quello seguente, ciò che è stato realizzato pochi decenni prima viene dimenticato completamente. Questo è nella natura del progresso della tecnica. Altrettanto si volle avvenisse per l’arte e per l’architettura. Il culto del nuovo divenne anche per l’arte un imperativo a cui nessuno poteva sottrarsi, scimmiottando ciò che, con ben diverse motivazioni, avveniva soprattutto nel campo della tecnica e dei prodotti industriali. D’autorità al passato venne tolta qualsiasi possibilità di essere fonte di ispirazione nel presente. Le Esposizioni Universali vengono ripetute ancora oggi, ma sono diventate scialbe vetrine dell’architettura, dell’arte, della tecnica e del potere dominante. Il pubblico le considera solo una meta turistica in più. Note 1) Maurizio Blondet, Fanta-archeologia di Sion, pubblicato su EFFEDIEFFE. 2) Arjumand Banu Begum, conosciuta anche con il nome di Mumatz Mahal, che in persiano significa la luce del palazzo, morì nel 1630 dando alla luce il quattordicesimo figlio dell’imperatore Shah Jahan che fece costruire la tomba i cui lavori, iniziati nel 1632, durarono 22 anni per concludersi nel 1654. All’opera lavorarono circa 20.000 persone e mille elefanti per il trasporto dei materiali. I sultani Moghul edificarono in India splendide residenze in stile persiano, con cortili e padiglioni sparsi armoniosamente tra specchi d’acqua e verdi giardini, così come la forma delle moschee e dei minareti subì modifiche sotto l’ influsso dell’architettura locale. La dinastia dei grandi sultani Moghul cominciò con Babur (1483-1530) pronipote di Tamerlano, che dopo cinque inutili tentativi riuscì a conquistare l’India. Sotto il suo regno furono iniziati i lavori di abbellimento di Agra, proseguiti dal figlio Humayun (1530-40 e 1555-56) e dal nipote Akbar (1556-1605) figura molto importante nella storia d’Oriente, sotto il cui regno l’impero Moghul si allargò fino a comprendere gran parte dell’India settentrionale. Ad Akbar succedettero Jahangir (1605-1627) e Shah Jahan (1627-1658), che tra il 1632 e il 1653 fece costruire appunto il celebre Taj Mahal per la sepoltura della sua sposa. Ogni membro della dinastia Moghul fece erigere un palazzo per la residenza della corte, trasformato in mausoleo dopo la morte del sovrano. Gli ultimi grandi imperatori Moghul furono Shah Jahan (Imperatore del mondo) che regnò dal 1628 al 1658, e suo figlio Aurangzeb (1658 - 1707). Spietato e fanatico, quest’ ultimo dedicò gli ultimi anni del suo regno ad una lotta incessante contro i principi indù Maratha (abitanti nell’ attuale Maharashtra) che avevano creato una Confederazione nell’India meridionale. Aurangzeb impose in tutta l’India la religione islamica, provocando rivolte e guerre. Alla sua morte, avvenuta nel 1707, l’impero si disgregò, e ciò che ne rimaneva fu definitivamente conquistato dagli inglesi nel 1859, sopraggiunti in veste di liberatori 3) Raffaele Giovanelli “Ruolo disumanizzante dell’automobile”, http://www.lacrimaererum.it/documents/AUTOMOBILERUOLODISUMANIZZANTE.pdf In questo lavoro viene illustrata la fisiologia della visione che ha molta importanza nella progettazione architettonica. 4) Mauro Lazzarotto: “La Scuola di Musica a Louviers: la storia allo specchio”, un antico convento trasformato dallo studio Opus 5 per creare una troppo luccicante sala concerti. 10 L'antico convento dei Penitenti, nel centro della città di Louviers in Normandia, è un esempio di "chiostro sull'acqua", costituito da un insieme di costruzioni stratificate. L'intento era di convertirlo in una nuova scuola di musica in grado di sfruttare la straordinaria cornice storica senza sacrificare le moderne esigenze di spazi e attrezzature. L'intervento ha sollevato non poche polemiche, anche in un paese, come la Francia, tradizionalmente più votato al cambiamento (ed anche alle rivoluzioni) rispetto al nostro. Il programma di interventi è, per ammissione degli stessi architetti, "pesante" e implica interventi sostanziali, sia sull'edificio sia nella ricostruzione di parti crollate che diventano predominanti rispetto all'esistente. Il risultato è un progetto in cui le parti nuove dominano gli elementi antichi, anche se è ancora la costruzione storica a governare l'impianto e a suggerire le soluzioni. – 2012 http://www.archiportale.com/news/2012/10/architettura/la-scuola-di-musica-a-louviers-lastoria-allo-specchio_29913_3.html 5) Raffaele Giovanelli, “Il Rinascimento e il culto delle rovine” http://www.lacrimaererum.it/documents/000-IlRinascimento.pdf 6) Paul Zanker, La Presenza delle Rovine Professore ordinario di Storia dell’arte antica. Alla Scuola Normale Superiore dal 2001, proviene dall’Università di Freiburg (Breisgau) professore ordinario presso le università di Göttingen e di Monaco di Baviera. I suoi studi riguardano l’archeologia e la cultura nel periodo ellenistico-romano e tardo antico. Tra le pubblicazioni più significative si ricordano Augusto e il potere delle immagini, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1989; Pompei. Società, immagini urbane e forme dell’abitare, Torino, 1993; La maschera di Socrate. L’immagine dell’intellettuale nell’arte antica, Torino 1997. Paul Zanker è uno dei massimi studiosi di archeologia ed è notissimo a livello internazionale per i suoi contributi sull’arte e la cultura del periodo ellenistico-romano e tardo antico, che hanno segnato un’epoca degli studi classici. Dopo aver a lungo diretto l’istituto Archeologico Germanico di Roma, dal 2001 è professore di storia dell’arte antica alla scuola Normale superiore di Pisa, presso la quale ha formato un gruppo di giovani allievi che si 11 rifanno al suo insegnamento e al suo metodo di ricerca. Nostalgia, Arte e …. Pubblicità La Pubblicità, dal Principe alla multinazionale. Oggi si è dimenticato il ruolo primario avuto dalla nobiltà e dalla Chiesa nella creazione dell’arte prima della Rivoluzione francese, Così quando visitiamo un museo non riusciamo a spiegarci la ricchezza ed il numero delle opere d’arte create prima dell’attuale era industriale. Si tratta di opere: quadri, palazzi, castelli, chiese che hanno perso la società che le ha generate, che sono estranee al mondo presente. Per comunicare il messaggio per cui erano state create queste opere hanno da essere interpretate, svelandone gli arcani. La comunicazione, nei così detti paesi liberi, da oltre un secolo è finanziata da varie forme di pubblicità. I programmi televisivi vengono interrotti per far passare messaggi pubblicitari che invitano ad acquistare un certo prodotto o ad utilizzare un certo servizio. Questo avviene nel paradiso della libera iniziativa in cui noi avremmo la fortuna di vivere e che noi non ringrazieremmo mai a sufficienza. Ma negli anni in cui furoreggiavano le grandi famiglie, eredi immemori dei prodigi compiuti secoli addietro dai loro avi nel maneggiare la spada, pare che i comuni mortali non godessero di molta libertà, almeno nel senso con cui oggi intendiamo il concetto di libertà. Purtuttavia anche a quei tempi, lontani da noi poco più di due secoli, sotto diverse forme esisteva la pubblicità per procurare consenso. La differenza è nel fatto che la pubblicità avveniva attraverso le opere d’arte. Infatti a ben guardare anche quelle opere, che noi pensiamo oggi essere pura arte, avevano un’anima pubblicitaria, destinata a portare lustro e fama ai nobili che le possedevano e che spesso ne erano stati i committenti. Anzi i capolavori artistici proliferarono a tal punto che negli attuali musei possiamo esporre solo una parte della produzione artistica dell’epoca. In Italia si risparmiava su tutto pur di avere le opere più belle. Si risparmiava anche sulle spese per la difesa militare, così che il primo rozzo ed incolto guerriero, che scendeva dalle Alpi, si portava via, senza pagarle, opere che oggi fanno bella mostra nei musei d’oltralpe. La domanda senza risposta è: perché oggi le grandi e piccole industrie, le multinazionali, eredi del potere della nobiltà, delle grandi famiglie principesche, cercano di farsi pubblicità con opere, manifesti, filmati che, salvo rarissime eccezioni, sono a dir poco immondi? Spesso lo stesso messaggio pubblicitario, che si vorrebbe comunicare, risulta monco ed inefficace, tanto è volgare e banale la cornice in cui è inserito. Tutte le opere d’arte avevano un fine “pubblicitario”. Questo fatto non ci scandalizza se solo comprendiamo il vero significato di pubblicità in un senso più ampio di quello comunemente inteso. Il problema è capire perché la pubblicità oggi è caduta così in basso. Ci sono aspetti che vengono considerati ovvii, senza bisogno di alcuna riflessione. Uno di questi ha uno stretto legame con ciò che accade oggi in fatto di gusto artistico. L’onorevole Giovanna Grignaffini è un’ottima polemista di sinistra. Si è formata credo come critico cinematografico. La Griffagnini si è spesa anche contro la revisione dei libri di storia nelle scuole italiane pubbliche e private. Poiché esiste una versione “ufficiale” che il mondo occidentale ha adottato per raccontare la sua storia dell’ultimo mezzo secolo, non si può giustificare il fatto che i nostri libri di storia, scritti nella disattenzione della Democrazia Cristiana, riportino ancora un’interpretazione dettata a suo tempo dalla nostra intellighenzia marxista comunista. Quindi, mentre i nostri attuali ex comunisti si prodigano per apparire persino anticomunisti, sforzandosi di essere fedelissimi ai principi del libero mercato, non per questo vogliono cancellare le tracce del potere che hanno avuto sino a venti anni fa, grazie ad un tacito accordo con i partiti di centro. Una traccia importante del loro 12 potere è nella cultura istituzionale degli apparati statali, nella quale avevano raggiunto una sorta di monopolio, ignorando quel pluralismo di cui oggi si professano paladini. L’onorevole Grignaffini faceva parte della commissione cultura della Camera. Un bel giorno accusò Vittorio Sgarbi, che allora era sottosegretario al Ministero della Cultura, di usare la sua carica per cercare di imporre il suo gusto in fatto di arte. Sgarbi non capì il vero nodo del problema. Si difese dicendo che si trattava di un’accusa “strana ed ingenerosa” e che lui sosteneva “principi logici”. Invece c’era ben altro. Si tratta di stabilire chi ha il diritto di influire sul gusto, ma prima bisogna vedere se ci può e ci deve essere qualcuno che abbia il diritto di influire sul gusto in fatto di arte. Già perché non siamo arrivati al gusto oggi dominante, se non ci fossero stati suggeritori occulti o palesi. Nei paesi comunisti esisteva un’arte diretta da regole abbastanza rigide, dettate dai corollari del pensiero marxista. Questo per noi occidentali è stato un fatto intollerabile e persino ripugnante. Ma almeno sappiamo chi all’Est influì sull’arte. Da decenni abbiamo esaltato solo quegli scrittori d’oltre cortina che hanno violato quelle regole. In fatto di pittura e di architettura per tutti i partiti politici e per tutto il mondo della cultura occidentale esisteva poi un tacito accordo ad ignorare tutto ciò che veniva dall’Est. A questo coro di ignoranza si unirono senza pudore anche i nostri fedeli marxisti. E’ un vero peccato che la forza polemica dell’Onorevole Grignaffini non si sia risvegliata, piena di sacro sdegno, quando venne fuori che era stata addirittura la CIA ad esercitare un’ influenza decisiva sull’ orientamento artistico di tutto l’Occidente al termine della seconda Guerra Mondiale. Alla CIA pare sia stato tacitamente concesso ciò che a Sgarbi viene negato! In realtà Sgarbi, per il suo ruolo istituzionale, aveva il diritto di influire sul gusto artistico. I meccanismi di penetrazione ideologica della CIA sono noti ma non vennero seriamente osteggiati dalle sinistre. Per 30 anni la National Endowment for Democracy (NED) ha subappaltato l’aspetto legale di alcune operazioni coperte commissionate della CIA. Senza destare sospetti, è stata creata la più grande rete di complicità nel mondo, corrompendo sindacati ed industriali, partiti politici di sinistra e di destra, perché rappresentassero gli interessi degli Stati Uniti, piuttosto che quelli per cui quelle organizzazioni erano nate. Questa attuale disattenzione della sinistra per tutto ciò che è opera delle infinite propaggini della pervasiva penetrazione americana è almeno sospetta, tanto più che la cultura era quasi un monopolio dell’anticapitalismo antiborghese sin dal XIX secolo. Quando erano di moda i nobili con le loro sontuosità, nessuno obbiettava che fossero i nobili stessi ad influire sull’arte, visto che loro ne erano i committenti e i principali fruitori. Dalla fine del XIX secolo si è diffusa la convinzione che l’arte ha da essere libera da qualsiasi vincolo e persino da ogni possibile suggerimento, perché l’arte avrebbe per fine solo se stessa e potrebbe manifestarsi pienamente solo in regime di assoluta libertà da ogni qualsivoglia vincolo, compresi i vincoli che nascono dal mestiere di fare arte come un’ attività che sia comprensibile alla gente. I miei ricordi in fatto di arte Durante la seconda Guerra Mondiale, dopo l’otto settembre la mia famiglia si trasferì in campagna, presso una sorella di mia madre. Mia zia abitava in un appartamento che era parte di una casa colonica confinante con le proprietà del Conte Castelbarco Albani, che li aveva una grande villa del seicento, costruita come Casino di caccia (a ). a Immersa in un parco di 4 ettari ricco di piante secolari, la Villa 'Casino Albani' è un edificio della fine del '600, circondato da altri tre edifici di epoche diverse: una cappella privata coeva, un casotto da guarnigione del XVIII secolo e il Magazzino del Tabacco. Costruita per volere di Carlo Albani, nipote di Gian Francesco Albani, divenuto papa Clemente XI nel 1700, la villa fu pensata come casino di caccia e così utilizzata da Clemente XI e successivamente per tutto il XVIII secolo. Nel corso del secolo successivo divenne residenza estiva della famiglia Albani prima e Castelbarco Albani Visconti Simonetta poi. Respinti i tedeschi dalla linea 13 Villa Casino di caccia Albani vicino a Pesaro, costruita dal nipote di Clemente XI alla fine del ‘600. La Villa era piena di quadri, statue e mobili antichi. Feci amicizia con uno dei figli del Conte, mio coetaneo. Al giovane conte piacevano le antiche battaglie combattute nelle sgargianti divise dell’epoca. Progettavamo insieme di inscenare la rievocazione di una battaglia in un antico costume militare. Il mio compito era quello di disegnare le mappe del terreno dove si sarebbe ambientata la rievocazione. Cominciai subito a disegnare le mappe delle zone che pensavamo adatte. Per i costumi non c’erano problemi. Alcuni erano già pronti nel guardaroba del giovane conte, per altri si sarebbero impegnate le sarte del paese utilizzando stoffe d’epoca. Il sopraggiungere della guerra vera mandò all’aria i nostri progetti. Ci trovavamo a pochi passi da un ramo della linea gotica. I tedeschi avevano l’ordine di abbattere tutti gli alberi della zona perché avrebbero offerto riparo alle truppe alleate. Ma quando si trattò di abbattere gli stupendi alberi del parco della villa si fermarono. Non vennero abbattute neppure certe grandi querce, piante secolari bellissime che nei decenni successivi sarebbero state impietosamente abbattute dai mobilieri ai quali, per realizzare certe parti dei loro mobili, serviva legno molto duro. Alla fine, tra l’esecrazione dei contadini, i tedeschi tagliarono solo qualche filare di viti. Allontanato il fronte verso nord, i canadesi ebbero il tempo di installare nella villa un ospedale. Per descrivere l’atmosfera, che in quel tempo circondava l’arte in casa Albani, inizierò col dire ciò che questa atmosfera non era. Non si trattava di un criterio borghese di possesso di un’opera sempre spendibile grazie al suo grande valore commerciale. Al valore commerciale degli oggetti, dei quadri, delle statue, degli arazzi non si accennava mai. Tutto era parte della famiglia, dell’atmosfera, come l’aria filtrata dai grandi alberi, come i cavalli dalle forme splendide nella scuderia del palazzo. Un giorno il figlio del conte venne ad invitarmi a pranzo. Nel gergo delle classi alte, disse che mi invitava a colazione. Non capii e rimasi stupito di essere invitato a prendere il caffè-latte al mattino! Mio padre mi spiegò l’arcano e si affrettò ad impartirmi un breve corso per stare a tavola in modo adeguato. Me la cavai abbastanza bene, credo. Alla fine del pranzo mi sentivo in famiglia. Ricordo che i grandi quadri, dai quali vegliavano su di noi gli illustri personaggi della casata, entravano direttamente nella vita di ogni giorno, erano un’estensione temporale del momento presente. gotica, l'edificio venne adibito ad ospedale da parte di una brigata canadese. Alla fine della guerra ritornò ai conti Castelbarco Albani, attuali proprietari. 14 Per quasi un anno frequentai la villa Albani, respirando quell’atmosfera dell’antica nobiltà. Passata la guerra spesso ho cercato di ricordare quell’atmosfera. Nel parco della villa c’è una cappella dove qualche volta si diceva messa. Era un piccolo universo chiuso in quello spazio: la villa, il parco e la chiesa, uno spazio che allora mi appariva sublime. Ripensando a quel tempo scoprivo quanto la nobiltà identificasse la sua anima con le opere d’arte che adornavano i suoi palazzi. Oggi è impossibile descrivere il ruolo che l’arte svolgeva nel mondo della nobiltà. L’opera d’arte era collocata nel contesto per cui era stata creata, era la materializzazione di un’atmosfera, l’immagine delle anime dei personaggi riprodotti. Quando Napoleone effettuò in tutta Europa la spoliazione sistematica delle opere d’arte in realtà, oltre che un gigantesco furto, compì la trasformazione dell’arte da espressione simbolica e spirituale ad oggetto di un culto laico in cui all’opera d’arte veniva strappata la sua vera ragion d’essere, per diventare un trofeo materiale. Già nel 1798-99 i francesi rivoluzionari avevano confiscato tutto il patrimonio della famiglia Albani, rea di capeggiare la fazione più accanitamente antifrancese della Curia, ed avevano asportato gran parte delle loro collezioni artistiche e bibliografiche. Quando la ventata napoleonica passò nel 1815 Carlo e il cardinal Giuseppe Albani richiesero la restituzione dei beni confiscati ed in effetti riuscirono a recuperarne la maggior parte, anche se molti codici sono tuttora conservati presso l'École de Médicine di Montpellier. Nostalgia per il tempo trascorso. L’unicità di Roberto Peregalli Nella nostra era la nostalgia è apertamente rifiutata e considerata un lusso per gente che non ama il lavoro. Ma la ferocia distruttiva dell’attuale sistema finanziario è diventata così ostile a ciò che è umano da generare reazioni altrettanto intolleranti. Allo squallore dei cantieri e delle demolizioni si cerca una via di fuga aggrappandosi ai minimi resti di una realtà cancellata e distrutta. Così la nostalgia torna nonostante le condanne che la perseguitano. Persino nel rude periodo dell’Impero romano la nostalgia venne accettata e inclusa tra i nobili sentimenti. La nostalgia per il tempo trascorso, per le tracce lasciate nelle cose, la troviamo magistralmente espressa da Virgilio. Enzio Cetrangolo nella sua “Breve storia della letteratura latina” (1) dice: “Guardiamo le rovine di una città scomparsa, dove scorre l’eco di una vita; un tempio deserto a sommo di un’altura che fu già un’acropoli marmorea di statue e di colonne sulla vista profonda del mare: pietre, reliquie erbose dalle quali possiamo ricomporre e udire il suono del passato in questo limite dove sembra fermarsi la distruzione silenziosa. Ecco immaginata l’opera del tempo dalla presenza di una traccia scoperta, il dolore delle cose rapite, effigiate nella memoria. Ecco la voce di Virgilio sulle figurazioni delle vicende umane: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (I, 462). Le cose si fanno misteriose appena rievocate; ne trema il cuore e la mente. In questi spettacoli di smarrimento e di pene inesplicabili è la sorgente della poesia. Virgilio contempla il mistero; ma dubita dell’esito sconosciuto a cui tende il dolore; chiede alla divinità ragione della rovina e del patire e della inerme solitudine umana. “ Quindi, per questa attuale estraneità dalla nostalgia, si deve attribuire maggior merito a Roberto Peregalli che della nostalgia ha fatto il tema principale della sua ispirazione. Nel suo recente: I LUOGHI E LA POLVERE (2) si impegna in un tema oggi considerato assolutamente negativo: l’imperfezione, anzi sulla bellezza dell’imperfezione.. La bellezza dell'imperfezione è la nostalgia per un rapporto con il tempo più umanamente comprensibile. La perfezione dello zero e dell'infinito, contro il tempo della vita, della morte e della conoscenza del bene e del male, del brutto e del bello... Un elogio del tempo che si posa sulle cose, le rende imperfette, e quindi belle. 15 Il tempo infinito è il lato umano e immaginifico dell'eternità. Ed è come uno dei modi per concepire la perfezione. L'altro, forse, è il tempo azzerato dell'iperpresente. Nel quale, come nel tempo infinito, non c'è coscienza: c'è una serie indefinita, appunto, di scatti fotografici, senza memoria né prospettiva. E ogni momento è compiuto in se stesso. E non è possibile agire, ma solo subire. Nel migliore dei casi misticamente, altrimenti vegetando. "Il tempo è la nostra carne. Siamo fatti di tempo. Siamo il tempo", dice Peregalli. Aggiungendo però: "È una curva inesorabile che condiziona ogni gesto della nostra vita, compresa la morte". Ma la vita umana è invece scandita più che da una sola curva del tempo da molte durate sociali e personali, che si sovrappongono e giustappongono. E infatti: "Vediamo qualcosa e già non è più. In questo sta la sua suprema bellezza. Un raggio di luce che illumina la colonna di un tempio a Selinunte, ultimo, mentre scende la sera, lo sguardo di chi ti ama, colto nella sua sorpresa, il riflesso in una pozza d'acqua delle linee di una casa, prima che la pioggia ricominci a incresparne la superficie. Sono attimi fuggevoli. Non torneranno più. Continuano però a riempire la nostra esistenza. Nel ricordo, la luce di quel momento è diffusa sopra di noi. Il tempo a ondate ce la riporta, come nelle mareggiate d'inverno la risacca sui ciottoli. Quell'attimo per noi è la verità. Il disvelamento. Dalla nebbia del nulla è emerso lo spettro dell'essere. Lo sguardo ha squarciato il velo dell'oblio. Dopo, niente sarà più lo stesso". Da un commento di Luca De Biase La nostalgia è la nostra vita, afferma Roberto Peregalli nelle prime pagine del suo nuovo saggio. Ma ci può ancora essere nostalgia di qualcosa in questo mondo tiranneggiato da scopi da perseguire a ogni costo, da violenze legalizzate e da un eterno presente in pace con se stesso? Sì, a patto di ripensare oggetti, luoghi e persone da un altro punto di vista, quello del tempo che lascia tracce del suo passaggio per chi sa coglierle. E allora, la facciata di una casa si pone come il volto di una persona, una finestra diventa lo sguardo di un edificio, la sottile membrana fra interno ed esterno, e il colore bianco rivela la sua sacralità legata all'irrompere della luce, quella vera, non il suo doppio artificiale in quei "lego" impazziti che sono le moderne costruzioni imposte da una tecnica scriteriata. E così che il silenzio delle case, degli oggetti, dei luoghi resta "in disparte tra le pieghe del mondo senza cedere ai trucchi e alle lusinghe del progresso". E la nostra vita può ancora essere ritessuta secondo un orizzonte alternativo di senso. Ma la nostalgia, di cui ci parla Peregalli, comprende anche la nostalgia per aver perduto irrimediabilmente il sapore e la bellezza della nostalgia. Sappiamo bene che si tratta di una perdita in realtà lacerante, una perdita senza un possibile ritorno. Il ruolo sociale dell’arte L’arte di cui ho memoria diretta non è quella del Rinascimento ma quella del così detto manierismo, nato dopo la Controriforma del Concilio di Trento. Nelle case dei nobili e dei borghesi agiati quelle erano le opere ammirate e considerate importanti. Sino ad un decennio addietro nutrivo una scarsa considerazione per tutte le opere di quel periodo. Erano le opere che godevano allora dell’approvazione della Chiesa e che facevano parte dell’anima delle famiglie aristocratiche. Opere che non erano sul mercato ma che passavano di mano o per la morte dei proprietari o più raramente vendute a causa di un dissesto economico. La Chiesa cattolica ha sempre avuto un rapporto molto stretto con l’arte. Da non dimenticare che la religione cristiana è stata l’unica grande religione monoteistica a non bandire, per motivi ideologici, la rappresentazione artistica di figure umane. All’origine di questa netta differenza con l’ebraismo pare ci sia stato il culto della Sindone a Bisanzio e ad Edessa. Di fatto, se nell’Occidente europeo, dopo il tramonto dell’età classica, l’arte non scomparve, lo si deve soprattutto alla Chiesa. Chiesa che, pur avendo raggiunto una posi16 zione quasi di monopolio sulla produzione artistica, di fatto ha avuto sempre un atteggiamento tollerante verso la creatività degli artisti. Tolleranza che la Chiesa ebbe anche durante l’umanesimo, quando il ritorno al mondo classico, ai suoi precetti estetici, che il cristianesimo aveva cancellato durante il medioevo, portarono l’arte ad apparire non molto ortodossa da un punto di vista religioso. Ecco perché l’improvviso atteggiamento di intolleranza, che la Chiesa assunse dopo la Controriforma, condizionò l’arte in maniera più profonda di quello che può apparire. Non dobbiamo dimenticare che all’epoca gli artisti erano completamente al servizio delle classi dominanti (Chiesa, aristocrazia e case regnanti) e non si sognavano minimamente di svolgere un ruolo da intellettuali controcorrente. Gli artisti si adeguarono prontamente a questo nuovo clima: non più immagini che potevano inneggiare alla gioia e alla felicità, ma immagini che suscitavano necessità di pentimento e di sacrificio. Il martirio dei santi divenne uno dei temi più ricorrenti fino a tutto il Seicento, quasi a testimoniare una nuova visione della religione basata soprattutto sul dolore e sulla mortificazione. In un certo senso, in questa atmosfera buia, anche i colori si scurirono: sono sempre più gli artisti che, sulla scia di Caravaggio, affondano le loro immagini in una cornice di oscurità avvolgente. Il passaggio dalla struttura sociale del Rinascimento a quella del periodo della Controriforma coincise con una serie di sventure, come la diffusione di malattie infettive a causa delle pessime condizioni igieniche delle città. Queste epidemie vennero favorite anche dai pregiudizi ispirati da convinzioni dettate da una deteriore interpretazione della religione. Le guerre che mettevano in campo grandi eserciti fecero il resto. La produttività agricola decadde ed il costo degli alimenti crebbe. Il blocco allo sviluppo, determinato da un colpevole arresto del progresso tecnico, completarono il quadro di una struttura sociale europea in regresso, spinta ad avventurarsi a scoprire oltremare nuove terre da sfruttare. Il Concilio di Trento si occupò delle arti nella sua ultima sessione di lavori. Il problema non era semplice, in quanto i protestanti avevano una posizione decisamente iconoclasta: soprattutto nei paesi tedeschi si era diffusa la tendenza a produrre immagini, spesso a stampa, di carattere irriverente o decisamente blasfemo nei confronti della religione cattolica. Per cui non si poteva ignorare il problema di un controllo sull’ortodossia delle immagini prodotte a fini religiosi. In realtà il Concilio di Trento non fornì norme precise, ma introdusse il principio che le opere destinate alle chiese dovevano essere approvate dal vescovo della diocesi. E se le opere non erano conformi alle aspettative, queste potevano essere rifiutate o si poteva richiederne la modifica. L’azione di controllo, e potenzialmente di censura, fu quindi demandata ai vescovi i quali ebbero atteggiamenti diversi. In alcuni casi l’azione fu più diretta ed incisiva. San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1560 al 1584, pubblicò nel 1577 delle precise istruzioni (Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae) destinate agli architetti e ai pittori e scultori di soggetti sacri, che rimasero quale modello di rigore per l’arte del periodo successivo. Ma già nel 1624 il cardinale Federico Borromeo, con il suo «De pictura sacra», mostrava un atteggiamento di maggiore tolleranza. In campo artistico, in realtà, non ci furono atteggiamenti fortemente intolleranti o di censura, come avvenne invece nel caso della produzione a stampa di libri o di opere scientifiche. Unico caso noto di procedimento inquisitorio nei confronti di un artista è quello a carico di Paolo Veronese, per l’opera «Cena in casa Levi». Ma anche qui non ci furono soluzioni radicali, e il compromesso fu presto raggiunto con qualche piccola modifica e con il cambio del titolo all’opera. Alla fine gli artisti cercarono di non usare eccessivamente il nudo, soprattutto femminile, che, se non scomparve del tutto, risultò più castigato e meno lascivo. E i soggetti mitologici, che non scomparvero, furono riservati solo alle opere laiche per la committenza privata. Dopo il Concilio di Trento lo spirito del Rinascimento si esaurì. Rimase viva la pittura, definita «manierista». Il consolidamento di questa pittura avvenne in un paio di decenni tra fi17 ne Cinquecento e inizi Seicento, grazie soprattutto a tre pittori: Annibale Carracci, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio e il pittore fiammingo Paul Rubens. A Bologna nacque l’Accademia degli Incamminati, che fu il baricentro di quella tendenza dell’arte seicentesca che definiamo «classicismo». L’artista che più rappresentò il realismo (o naturalismo) fu sicuramente Caravaggio. Egli fu autore di un’autentica rivoluzione pittorica, dimostrando la forza che poteva avere una rappresentazione della realtà, priva di qualsiasi trasfigurazione. Il suo stile, unito a grandissime qualità pittoriche innate, gli permise di produrre opere che ebbero un’influenza grandissima su tutta la pittura europea del XVII secolo. Dopo il Rinascimento la pittura scoprì la luce, la luce abbagliante. Ma per mostrare la luce fu necessario rappresentare il buio, l’assenza di luce. Nel buio si annideranno le indecisioni e le ambiguità proprie di un’epoca, che si stava avviando alla perdita della fede. Nelle chiese verranno costruite con una sola navata, per evitare che i fedeli potessero sottrarsi alla partecipazione durante le funzioni religiose nascondendosi nell’ombra dei colonnati. Ma il buio, che non era consentito nel corpo della chiesa, appariva sempre più invadente nei quadri sacri. Due secoli dopo la rivoluzioni Illuminista riporterà la luce o meglio la luminosità diffusa. I quadri di David, che celebrano le glorie delle vittorie napoleoniche, sono luminosi, hanno recuperato quella luce diffusa che riempie e pervade ogni angolo del quadro. Poi tornerà il buio con il romanticismo. I quadri di Caravaggio avevano la violenza e l’esplosione del tuono, se volessimo rappresentarli con suoni. Le passioni, che in questi quadri vengono suscitate, hanno un possente lato oscuro nei vasti spazi di buio, dove l'immaginazione può collocare possibili interpretazioni antitetiche. E’ straordinario il fatto che l’Italia del ‘600 e del ‘700, pur restando quanto più possibile fuori dai grandi rivolgimenti europei, impoverita dalle frequenti razzie operate al seguito degli eserciti invasori, estranea alle grandi imprese coloniali di Spagna, Portogallo, Inghilterra e Francia, abbia tuttavia continuato a detenere il primato in fatto d’arte. Nel corso del Cinquecento, la produzione pittorica conosce un aumento vertiginoso rispetto ai secoli precedenti. Ciò è dovuto a molteplici cause, quali l’aumento della ricchezza concentrata in poche mani (quindi maggior committenza soprattutto privata) ma anche la maggior bravura dei pittori in grado di soddisfare qualsiasi esigenza di rappresentazione. Inoltre l’introduzione dei colori ad olio e della tela come supporto ebbe la conseguenza di far aumentare la produzione di opere mobili (quadri da cavalletto) rispetto a quelle fisse (affreschi e mosaici), con la conseguenza che venne favorito il collezionismo e il mercato delle opere d’arte. In maniera più o meno diretta, queste cause produssero un ulteriore effetto: aumentò la specializzazione dei soggetti delle opere d’arte. E con ciò nacquero i cosiddetti «generi», che altro non sono che un raggruppamento delle opere per soggetti omogenei. La consapevolezza che potessero esistere più generi pittorici fu chiara quando presero autonomia i soggetti che raffiguravano i paesaggi e le nature morte. Precedentemente il paesaggio era stato utilizzato solo come sfondo di quadri che avevano altri soggetti principali: il ritratto, il racconto di una storia, e così via. L’idea, poi, di fare quadri che rappresentassero solo composizione di oggetti inanimati non era mai stata considerata per mancanza di una reale motivazione. Quando il collezionismo cominciò a far tesoro anche di disegni preparatori e studi di quadri, anche questo genere trovò una sua possibilità di commercializzazione. Particolare evoluzione ebbe soprattutto il genere vedutistico. Con questo termine si intende non solo la rappresentazione di paesaggio, ma un genere più ampio che comprende anche le rappresentazioni di città, in scorci a volte ampi, a volte molto più ristretti, con qualche scena di pittoresca vita quotidiana. Rielaborato dal “Corso di Storia dell’Arte” di Francesco Morante,. I Farnese si identificarono con l’arte di cui si circondarono 18 Per tentare di scoprire il significato ed il ruolo dell’arte prima della rivoluzione operata dall’illuminismo, guardiamo, come esempio, la storia di una delle maggiori famiglie nobili italiane: i Farnese. Sembra che nelle vene dei primi Farnese scorresse sangue longobardo. Non vantavano origini aristocratiche più antiche ed è forse questa la ragione per cui cercarono sempre di circondarsi di opere d’arte. Ma, almeno nei primi secoli, non trascurarono la spada. Il ruolo che in Itala svolsero le grandi famiglie nobili supplì alla mancanza di un potere regio, come in Spagna, Francia, Austria ed Inghilterra. I simboli di cui si circondavano le grandi famiglie italiane erano molto simili a quelli delle famiglie europee candidate ad un regno. Anzi spesso la magnificenza di una grande famiglia della nobiltà italiana superava quella di una corte reale europea. Ma in Italia c’era il Papa ed il papato. Solo Cesare Borgia, sino a che ebbe l’appoggio del Papa, suo padre, coltivò aspirazioni egemoniche sulla penisola. Le prime notizie certe che si hanno di Farnese o Farneto risalgono al 1210, ma sappiamo che il territorio di Farnese era compreso in un feudo posto sotto la protezione di Orvieto. In questa città i membri della famiglia venivano chiamati come i signori “de Farneto”. Si trattava di una dinastia di guerrieri. Il primo Farnese di cui si hanno notizie storiche è un certo Pietro, console di Orvieto nel 984. Nel 1096 un altro Pietro fu comandante della cavalleria pontificia, che nel 1110 sconfisse gli eserciti Ghibellini di Toscana e, probabilmente, fondò il borgo di Orbetello. Verosimilmente il Petrus de Farneto che combatté in Puglia nel 1134 contro i Normanni è identificabile in quest'ultimo. Suo figlio Prudenzio, console di Orvieto nel 1154 accolse il Pontefice Adriano IV in fuga da Roma a causa dei tumulti provocati da Arnaldo da Brescia. Quattro anni dopo, lo stesso Prudenzio sconfisse i fuoriusciti orvietani appoggiati dai ghibellini senesi. Un altro Pietro difese la città di Orvieto dall'assalto dell'imperatore Enrico VI. Altri personaggi noti in quei tempi furono Pepone di Pietro e Ranuccio, presenti alla Pace di Venezia del 1177 in qualità di rappresentanti della città di Orvieto. I Farnese tornarono nella Tuscia nel 1319. Nel 1340 essi giurarono obbedienza ai difensori del Patrimonio di San Pietro e così, già nel 1354, il cardinale Egidio Albornoz, in segno di gratitudine del Pontefice per l'aiuto militare ricevuto nel recupero delle terre e dei castelli perduti durante il periodo avignonese, concesse a Puccio, Pietro e Ranuccio Farnese il territorio di Valentano. Nel 1368 Nicolò Farnese, dopo l'attacco del prefetto Giovanni di Vico, portò in salvo il pontefice Urbano V. Queste prove di fedeltà permisero alla famiglia di confermare il possesso dei territori posti sotto il suo dominio, di vantare una serie di privilegi nei confronti della Camera Apostolica, proponendosi come famiglia padrona dell'Alto Lazio. Nel Quattrocento il territorio posto sotto la l’influenza della famiglia si estende fino a comprendere la sponda occidentale del lago di Bolsena e la fascia di territorio tra i Colli Vulsini ed il mare, fino a Montalto. Alessandro Farnese diventa Papa con il titolo di Paolo III. Nonostante Alessandro Farnese fosse considerato una creatura di papa Borgia, il successore ed avversario, papa Giulio II, lo portò dalla sua parte nominandolo Legato della Marca anconitana (1502). Il 13 ottobre 1534, all'età di 67 anni, salì al Soglio pontificio con il nome di Paolo III. La sua ordinazione coincise con un cambiamento radicale di mentalità e di autodisciplina, teso alla purificazione dei costumi che sarà lo spirito guida del Concilio di Trento. Lo spirito guida si tradurrà in opere architettoniche nuove. Fra le opere più significative realizzate da Alessandro si ricordano in Roma la costruzione della Chiesa del Gesù, della Cappella di Scalacoeli alle Tre Fontane, il completo rifacimento della Basilica di S. Lorenzo in Damaso, il completamento dell'imponente Palazzo Farnese, dall’ottocento sede del consolato francese. Sempre in Roma, sulle rovine del Palazzo dei Cesari, fece realizzare una villa ed un parco, poi conosciuti come gli "Orti Farnesiani". All'interno della sontuosa dimora lavorarono i migliori pittori e architetti dell’epoca tra cui Taddeo Zuccari e Annibal Caro, poi Federico Zuccari, Onofrio Panvinio e Fulvio Orsini. 19 Negli affreschi degli Zuccari sono rappresentate pagine sfarzose di storia farnesiana con la memoria di fatti gloriosi narrati nelle sale dei "fasti", probabilmente suggeriti dal poeta Annibal Caro, segretario prima di Pier Luigi e, quindi, dello stesso Alessandro. Palazzo Farnese di Caprarola dall’incisione di Paul Letarouilly, XIX secolo Non parlerò del celebre palazzo Farnese, degno di una reggia, ma di un altro splendido palazzo quello di Caprarola. Il palazzo di Caprarola, era considerato il "monumento della potenza e dello splendore farnesiano". b) b) Il palazzo fu una delle molte dimore signorili costruite dai Farnese nei propri domini. Inizialmente doveva avere caratteristiche difensive come era comune nelle dimore signorili. Il progetto per una residenza fortificata venne inizialmente affidato ad Antonio da Sangallo il Giovane dal cardinale Alessandro Farnese il Vecchio. I lavori iniziarono nel 1530, ma furono sospesi nel 1546 a causa della morte del Sangallo. Il cardinale Alessandro il Giovane, insediatosi a sua volta a Caprarola, volle riprendere il progetto del nonno, così, nel 1547, affidò il cantiere al Vignola, ma i lavori ripresero solo nel 1559. Il Vignola modificò radicalmente il progetto originale: la costruzione, pur mantenendo la pianta pentagonale dell'originaria fortificazione, venne trasformata in un imponente palazzo rinascimentale, che divenne poi la residenza estiva del cardinale e della sua corte. Al posto dei bastioni d'angolo l'architetto inserì delle ampie terrazze, mentre al centro della residenza fu realizzato un cortile a due piani, con il superiore leggermente arretrato. Vignola fece tagliare la collina con scalinate in modo da isolare il palazzo e, allo stesso tempo, integrarlo col territorio circostante; inol- 20 Oltre che al Caro, il Farnese estese la sua munifica protezione verso molti artisti e letterati fra cui Giovio, Bembo, Giovanni Della Casa, Claudio Tolomei. Alessandro fu l’ultimo grande e vero "Signore del Rinascimento". Morì a Roma il 4 marzo 1589. L'accusa di nepotismo mossa a Paolo III fu, senza dubbio, quella che incise maggiormente sul giudizio dei suoi contemporanei e questo perché il papa Farnese concesse vasti privilegi ai suoi discendenti, conferendo loro, nel 1537, addirittura una grossa fetta dello Stato della Chiesa, con l'istituzione del Ducato di Castro e della Contea di Ronciglione; un territorio chiamato il "granaio di Roma". Si può così comprendere come i Farnese, specialmente dopo la scomparsa del loro pontefice, fossero particolarmente invisi a molte casate nobiliari italiane. Alla fine il papato si riprese quel territorio e distrusse Castro. Neppure il tragico episodio del sacco di Roma, che portò la minaccia della Riforma sino al cuore del cattolicesimo, indusse il papato a dedicare maggior attenzione alla difesa militare, ad evitare le lotte intestine ed a bene amministrare i territori del suo stato. La narrazione delle vicende di alcune grandi famiglie italiane a partire dal ‘500, presenta il quadro storico in cui nacque l’arte di quel periodo. Nonostante le tragedie di quegli anni, l’arte continuò a fiorire. La domanda a cui pare impossibile dare una risposta esauriente è: quale vera, immensa tragedia impedisce oggi la creazione dell’arte? Infatti, quella che oggi viene chiamata arte, dell’arte è solo una parodia, una ignobile falsificazione. Ma questa domanda oggi non ha risposta, troverà forse una risposta in un’altra era della storia. Il Liberty Villa Ruggeri – 1902-1907, Pesaro, Piazzale della Libertà. tre fu aperta una strada rettilinea nel centro del paesino sottostante, così da collegare visivamente il palazzo alla cittadina ed esaltarne la posizione dominante su tutto l'abitato. Alla villa sono annessi gli "Orti farnesiani", uno splendido esempio di giardino tardo-rinascimentale, realizzato attraverso un sistema di terrazzamenti alle spalle della villa. 21 Prima della catastrofe del modernismo, approdato poi all’astrattismo, ci fu uno stile molto importante e, per certi aspetti, ancora presente. Voglio parlare del Liberty e in particolare di un’opera che mi tocca personalmente. Parlerò della Villa Ruggeri (3) a Pesaro. E’ una piccola villa voluta, nelle sue forme spiccatamente in stile Liberty, dal proprietario committente: l’industriale Ruggeri (nato ad Urbino nel 1857) che influì in modo determinante sull’opera. Ruggeri fu un sostenitore accanito dello stile Liberty, che volle tradotto anche negli arredi, come nei ferri battuti, nell’ ebanisteria e nelle ceramiche. Ruggeri poteva ancora credere di costruire un edificio destinato a tramandare la sua fama. Almeno in Italia non era ancora entrata nella consuetudine la figura dell’architetto unico ed esclusivo, come si affermerà ad esempio con Wright. Nella concezione Rinascimentale il principe aveva sempre avuto un ruolo centrale ed affidava a diversi artisti il compito di completare la sua costruzione. Nel mondo industriale il ricco è impegnato totalmente a procurarsi denaro. Oggi sarebbe intollerabile se il ricco volesse poi intromettersi in questioni di arte, che già in quegli anni iniziava ad avere come fine solo se stessa, campo esclusivo degli specialisti, i critici e gli artisti, che dopo pochi anni avrebbero deciso ciò che obbligatoriamente deve essere ammirato. Giuseppe Brega (Urbino, 1877 – 1960) allievo di Diomede Catalucci, affrescò ancora giovanissimo la villa "Il Montale" di Ettore Baiardi, vicino ad Urbino. Brega era coetaneo di mio nonno, che non potei conoscere perché morì prematuramente nel 1911. Alle scuole medie, dal 1944 al ’46, a Pesaro Brega fu mio professore di disegno. Qualche volta mi parlò di mio nonno di cui era stato amico e collega. Mi faceva avere di nascosto bei fogli da disegno presi dall’archivio della scuola. I fogli erano gli elaborati degli esami degli anni prima della guerra. Da un lato erano disegnati ma utilizzavo il retro per i miei acquerelli. I fogli da disegno nuovi costavano molto ed erano di pessima qualità. Questo per descrivere come si viveva negli anni del dopoguerra. Soffitto in una stanza della Villa Ruggeri al secondo piano, adorno in perfetto stile liberty Diplomato al Regio Istituto di Belle Arti delle Marche a Urbino, Brega era venuto a Pesaro dove iniziò la sua carriera di artista, decoratore, architetto e insegnante di disegno. Fu uno degli ultimi artisti di corte. Il suo rapporto con l’industriale farmaceutico Oreste Ruggeri, anche lui di Urbino, per certi aspetti fu quello di un artista rinascimentale alla corte di un principe. Lavorò dapprima nell'industria di ceramiche dello stesso Ruggeri, con il ruolo an22 che di direttore artistico. In seguito, dal 1902 al 1907, come si è detto realizzò, con Ruggeri stesso, uno dei più importanti monumenti Liberty in Italia: il Villino Ruggeri. Per quest'opera disegnò anche mobili, decorazioni interne, elementi in ferro e decorazioni esterne. Ruggeri per il suo splendido villino chiamerà altri artisti oltre Brega. Si favoleggia di un ignoto artista francese che avrebbe fornito lo schema generale di tutto l’impianto. Brega morì nel 1960, ad ottantatré anni, lo stesso anno in cui mi laureai in ingegneria ed iniziai la mia tempestosa e contraddittoria carriera. Mia madre mi disse della sua morte, ma come quasi tutti i giovani, avevo l’ansia di gettarmi nella mischia. Non mi accorsi quasi della notizia e negli anni precedenti non avevo mai avuto l’idea di andarlo a trovare per farmi raccontare chi era stato mio nonno, di cui, secondo l’usanza, portavo lo stesso nome. Così non mi accorsi che Brega era stato forse l’ultimo artista che si può ricollegare al Rinascimento, quel Rinascimento un po’ artificiale che era stato ricreato quando, messa insieme l’Italia, gli italiani cominciarono a sperare di poter rivivere quel periodo miracoloso per l’arte, il periodo interrotto dalla nostra debolezza militare e dall’esplodere delle lotte fratricide. Il Liberty non era certo uno stile rinascimentale, anzi la critica ufficiale, a torto, lo identifica oggi come anticipazione del modernismo, ma era rinascimentale lo spirito con cui allora l’arte veniva vissuta. Purtroppo nella logica della modernità le fortune familiari nascono e tramontano molto rapidamente. Così avvenne per Ruggeri, le sue medicine e tutte le altre attività. Il suo villino cominciò a decadere. Dopo la guerra Brega visse chiuso in se stesso. Allora mi appariva come un vecchio un po’ misantropo. Adesso capisco: tutta la sua opera era stata dimenticata oppure era in rovina come la Villa Ruggeri il cui restauro inizierà solo nel 1963. Brega sopravvisse alla guerra per lunghi quindici anni. Forse coltivò la speranza che lo stile Liberty sarebbe tornato di moda? Forse, ma non potrò saperlo. In quegli anni trionfavano i fratelli Pomodoro e la Villa Ruggeri fu sul punto di essere demolita. Tuttavia i miei non simpatici concittadini, come già ho avuto occasione di dire, in fatto di arte non sono mai stati degli sprovveduti. Alla fine anche la dura cervice dei comunisti pesaresi si convinse dell’opportunità di recuperare Villa Ruggeri, oggi la maggior gloria artistica della città. Ma Brega era già morto. Mio nonno ebbe maestri di primo piano come il pittore Luciano Nezzo, che era molto apprezzato in tutta Italia. Per l’ornato mio nonno fu allievo di Diomede Carlucci di Ferrara, tutti nomi che nel clima di oggi sono stati quasi cancellati dalla storia dell’arte. Oggi conosciamo tutto il conoscibile per gli anni dal Medioevo sino alla metà del XIX secolo. Ed a seguire in particolare siamo tutti informati circa la nascita ineluttabile dell’arte moderna con il suo trionfo finale nell’astrattismo. Ma l’arte che ha preceduto l’astrattismo, che lo ha ostacolato, è condannata ad essere dimenticata. Di mio nonno, coetaneo e compagno di scuola di Brega, nato anche lui in Urbino nel 1877, ci sono nella letteratura poche notizie. Antonello Nave, una figura eclettica, sul numero 2 della rivista: “Accademia Raffaello” del 2002 (4), scrisse: «Della figura e dell’opera del pittore urbinate Raffaello (in realtà Raffaele) Giovanelli non è rimasta traccia nella memoria storica cittadina, né miglior sorte gli è stata riservata da parte della storiografia specializzata, che ne ignora totalmente l’esistenza anche nell’ambito di recenti esplorazioni sulla cultura liberty marchigiana. … dopo la scuola tecnica locale Giovanelli aveva frequentato in città quello che all’epoca ancora si chiamava “Istituto di Belle Arti delle Marche” negli anni in cui ne era direttore e docente lo scultore Ettore Ximenes, che il giovanissimo artista considererà sempre come suo primo maestro.» L’attuale esplosione di vitalità artistica ha cancellato definitivamente l’arte di anni recenti. Si è consumata la cancellazione dell’ultimo stile che potesse essere chiamato arte: il Liberty, lo stile del mondo in cui mio nonno cominciò a vivere. Nel 1899 egli conseguì la pa23 tente di maestro di disegno e vinse una borsa di studio con cui poté andare a Roma dove divenne allievo di Domenico Bruschi, un pittore mediocre che tuttavia gli sarà di grande aiuto. Nell’articolo di Antonello Nave (4) ho trovato queste parole di commiato per mio nonno: «Povero Lello! Un anno prima, come gli anni avanti, come sempre, al tornar dalle vacanze, era in mezzo agli amici, a ragionar di arte e di scuola e di vita, a parlare di Urbino nostra; e, pur sofferente, s’animava, s’accendeva, or con accento di poesia nell’ammirazione del bello, or con impeto di sdegno per le brutture e le profanazioni artistiche, in specie se compiute da coloro che per studi, per grado, per professione, dovrebbero essere delle nostre memorie i più vigili e amorosi custodi … Pochi hanno veduto e con me ammirato alcuni acquerelli, a colori vivi e veri, tavole di frutta, che l’amico sperava un giorno di pubblicare, presso qualche editore italiano o straniero, perché servissero di modelli a scuole di disegno.» (V. Gentilini, Raffaele Giovanelli, in “L’Eco di Urbino”, XIII, 8, 27 agosto 1911.) Autoritratto di mio nonno Raffaele. La tela è stata deteriorata dalla permanenza sotto le macerie della nostra casa di Pesaro, distrutta dalle mine negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. 24 Note 1) Enzio Cetrangolo, “Breve storia della letteratura latina”, Edizioni Studio Tesi. Pordenone, 1991. 2) Roberto Peregalli, “I luoghi e la polvere, sulla bellezza dell’imperfezione”, Saggi Bompiani, 2010 RCS Libri, Milano 3) Villa Ruggeri copre una superficie di appena 90 mq., ha un'altezza non superiore ai 15 metri e sorge in un giardino recintato a forma di pentagono. Il portone esistente. In legno laccato grigio-verde chiaro, ripete parzialmente il disegno del portone di bronzo, opera di Alfredo Cartoceti, sostituito nel 1921 e nel quale erano anche scolpiti in bassorilievo i busti del Ruggeri, della moglie e dei figli. Nel 1907 l'edificio, ormai completato, fu occupato dal Ruggeri e dalla sua famiglia: quando il villino fu inaugurato tutti gli infissi, la decorazione delle stanze e l'arredamento erano coerenti all'edificio, compresi i lampadari, le maniglie delle finestre, le coperte dei letti e le stoviglie: originariamente non c'era niente che non fosse Liberty. Già prima della guerra del 1940 erano avvenute all'interno alcune trasformazioni e modifiche, e durante il periodo bellico come nel periodo immediatamente successivo ebbero luogo gravissimi guasti con la perdita di molte decorazioni a tempera, delle vetrate colorate delle finestre, del rivestimento in pelle bulinata, grandi piastrelle, di ceramiche e legno della stanza da pranzo, di lampadari, degli opalescenti vetri diffusori dei portalampade e di numerosi mobili. L'odierna sistemazione degli ambienti del seminterrato e del piano rialzato non è più quella originaria, mentre nessuna modifica è stata apportata al secondo piano. La rampa delle scale con ringhiera che conduce ai piani superiori si può attribuire al pesarese Ferdinando Bardeggia su disegno di Brega. L'esecuzione dei mobili della stanza da pranzo sembra si debba a Venturini per il legno e a Federici per il cuoio. Il secondo piano comprende le stanze da letto, il gabinetto da bagno e uno studiolo. E' questa la parte della casa in cui si è meglio conservata la decorazione originale con molti degli stucchi e dei dipinti di Brega. Le stanze sono denominate dai motivi decorativi floreali: la "stanza dei glicini", la "stanza dei narcisi", la "stanza dei girasoli". Nella totale carenza di documenti, rimane il problema dell'attribuzione del complesso costituito dal villino e dal giardino circostante: Brega, anche se diresse la costruzione di molti edifici nella città-giardino di Pesaro e altrove, certamente non fu l’unico artista a mettere mano nella progettazione del villino. L'analisi critica dell'architettura e le citazioni tratte dalla scarsa documentazione storica disponibile, dalle fonti orali e dalle valutazioni degli studiosi, inducono a credere fondatamente che esistevano dei disegni preparatori di un ignoto architetto francese dotato di geniale inventiva, e di cui Ruggeri e Brega hanno completato il discorso, forse appena accennato: appare verosimile ipotizzare che Ruggeri abbia suggerito delle idee, indicato soluzioni, buttato giù schizzi. …., come d'altro lato gli è congeniale l'ossessiva presenza del suo monogramma e certa ridondanza nella decorazione. Egli sicuramente svolse la funzione di coordinatore e di "regista" di tutta l'opera. in relazione sia alla sua provata esperienza e sensibilità artistica, sia alle ragioni economiche che lo spingevano e lo stimolavano ad agire in una determinata direzione. A Brega, che è stato uomo di straordinario talento, oltre al contributo certamente frequente di suoi interventi creativi, va accreditata l'elaborazione delle proposte originarie sia dell'architetto francese che di Ruggeri,. E' certo lui l'esecutore dello stupendo effetto di evanescenza e delle ondulate eleganze del prospetto orientale, è lui a curare in ogni mi25 nimo dettaglio la progettazione delle parti accessorie del giardino e i disegni operativi della recinzione e dei ferri. All'interno dipinge personalmente o insieme ai suoi giovani allievi le pareti e i soffitti, e prepara i piani di lavoro delle decorazioni a stucco, degli infissi e dei mobili. Il villino è un risultato collettivo molto bene armonizzato, che contiene in sé ed esplicita i valori più profondi di quello che allora era detto il Modernismo. Si tratta di un’ opera compiuta da più personalità creative tra le quali anche interpreti minori come gli artigiani, con la scelta dell'architettura in quanto modo per dare forma ad uno stile capace di investire le microstrutture come la cancellata, gli ornamenti da giardino, le inferriate, le balaustre, le impannate, le invetriate, i portoni e addirittura le porte interne, il mobilio, gli altri arredi e la decorazione degli ambienti in genere. Nello sviluppare armonicamente e coerentemente i suggerimenti forniti dalla geniale inventiva dell'ignoto architetto francese, Ruggeri e Brega compirono il loro lavoro al villino senza dubbio in straordinaria e feconda affinità spirituale, come del resto enuncia la scritta in caratteri Liberty sull'architrave dell'ingresso principale: "Concezione di Oreste Ruggeri proprietario e di Giuseppe Brega esecutore - urbinati - 1902 - 1907". La splendida cancellata che lo completava, opera del pesarese Ferdinando Bardeggia, è andata distrutta nel 1936 quando veniva raccolto il ferro che scarseggiava a causa delle sanzioni: è rimasto soltanto il grande cancello a due ante sorretto da due pilastri ricostruiti nel restauro del 1963 e a cui si appoggia la nuova più leggera e meno impegnativa cancellata rifatta su disegni di Francesco Giannei. Anche la serra, il grande sedile piastrellato, il gazebo, le piante, le aiuole ed i vialetti di quel giardino tipicamente Liberty sono scomparsi, distrutti dalla guerra: è rimasto soltanto una grande fontana circolare, decorata da grosse aragoste. Altro elemento oggi scomparso: il cromatismo naturalistico esasperato di tutto il complesso, esaltato da una sorta di broccato verde, porpora e oro dipinto nelle parti a specchio delle facciate e confermato dai vetri delle finestre, si è perduto durante la guerra. 4) Antonello Nave, “Per un artista dimenticato: Raffaello Giovanelli pittore e illustratore”, ACCADEMIA RAFFAELLO, 2, Atti e Studi, 2002, Urbino. CECILIO ARPESANI E IL RITORNO AL MEDIOEVO L’ingegner Arpesani (1) (Casale Monferrato 1853- Milano 1924) è vissuto in un periodo che ha visto nascere opere di architettura importanti, opere che sono al centro delle città di tutta Europa, ma anche opere che oggi vengono generalmente ignorate. Per di più egli si è dedicato all’architettura sacra costruendo in uno stile che oggi è a dir poco aborrito. A volerlo conoscere si scopre che, come la maggior parte degli ingegneri e architetti della sua epoca, passa per essere stato un conservatore, uno che ha progettato cercando di rifarsi all’antica architettura medioevale. Non si può dire che sia stato un innovatore e questo oggi sembra una colpa che non può venir perdonata. Come era consuetudine verso la fine del XIX secolo, Arpesani aveva cercato di immedesimarsi nello spirito dei secoli passati, con i quali si pensava di poter stabilire un collegamento, come se si trattasse di condizioni storiche recenti. 26 «Il timore di passare per “copista”, come pure la smania di originalità, sono pregiudizi tutti moderni. L’intero Medioevo e in parte il Rinascimento e il Barocco hanno copiato quelle opere antiche che consideravano le più perfette ». Questa è l’opinione di Titus Burckhardt (2), di cui parleremo ampiamente più avanti. E’ necessario osservare che oggi siamo nell’era della riproducibilità tecnica delle opere d’arte, con la conseguente ombra di discredito proiettata sulle copie, che un tempo potevano solo essere fatte a mano. Oggi le poche copie fatte a mano sono in concorrenza con quelle fatte con le macchine, che raggiungono risultati di assoluta perfezione. Infatti prima che esistessero macchine in grado di effettuare copie perfette di qualunque manufatto, la copia portava il contributo dell’uomo e quindi nelle sue inevitabili differenze dall’originale poteva assumere un suo proprio valore. Oggi la copia perfetta eseguita a macchina ha solo un valore d’uso, ma mette fuori gioco le copie fatte a mano. Ed è appunto la svalutazione del valore d’uso a rendere inutili anche le copie più perfette. Invece per chi crede nel valore d’uso delle opere d’arte le copie perfette fatte con le macchine possono dare la gioia del godimento dell’arte con altrettanta intensità di quella offerta dagli originali. Questo vale in particolare per la pittura, un discorso che si è già fatto in occasione di una copia perfetta di una tela del Veronese, posta a sostituire, nella posizione originale, la tela autentica, oggi al Louvre. Un progetto di Arpesani per la facciata di una chiesa. Ma non parliamo di copie, parliamo di stile. Dagli inizi del XX secolo se un architetto non riesce ad essere originale ad ogni costo, ad avere un suo stile, rientra nella schiera dei copisti, assolutamente mediocri. Perché un’opera viene giudicata in base alla sua originalità, perché si è creato il culto del nuovo a discapito del bello e della sua fruizione. Un’opera gradevole, che ben si accorda con l’ambiente circostante, se mostra echi presi da architetti di fama, viene subito disprezzata. Così non si creano scuole e tendenze. Si preferisce uno sgorbio purché sia originale. Figuriamoci poi un’architettura che si propone di richiamare in vita forme e stili di tempi remoti. Oggi gli edifici hanno da essere in acciaio e vetro, invivibili, ma alla moda, sicuramente moderni, anzi così moderni che per restare tali si debbono demolire con facilità. Arpesani non può neppure essere considerato un “bacchettone” (1). Era un professionista serio che affrontava i problemi del suo tempo approfondendo ogni aspetto. Come Luca Beltrami, egli si immedesimò nello spirito dell’arte del passato, in particolare egli scelse l’arte sacra lombarda, andando alla ricerca anche dei collegamenti con lo spirito dell’architettura bizantina. Per tutto il XIX secolo sarà viva la convinzione di poter riprendere il percorso artistico del Medioevo e del Rinascimento, come se non si fosse verificato lo strappo creato dalla Riforma luterana, dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche. L’opera che a Milano più di altre dimostra la diffu27 sione di questa convinzione è lo splendido palazzo Bagatti-Valsecchi, nel centro storico, in prossimità di via Montenapoleone. L’ansia di innovare anche nell’arte sacra è difficile da giustificare. Si trasformò in una ossessione che divenne dominante già nei primi anni del XX secolo, soprattutto se l’innovazione, come appare oggi, viene giustificata dal desiderio di piacere a chi ha poca fede o non ne ha affatto. Forse l’arte sacra delle Catacombe e delle prime chiese era fatta per attirare le simpatie dei pagani, allora largamente in maggioranza? Al contrario l’arte del cristianesimo delle origini era fatta per differenziarsi dall’arte pagana e per rigettarne i significati e l’interpretazione della vita che quell’arte incorporava. La tesi di Titus Burckhardt. Titus Burckhardt, svizzero tedesco, nacque a Firenze nel 1908 e morì a Losanna nel 1984. Fu nipote del famosissimo storico dell’arte Jacob Burckhardt, colui che scoprì il Rinascimento quando gli italiani, guidati dalla cultura e dai preconcetti dei piemontesi, faticavano a ricordarsi della loro storia. A proposito del valore dell’opera d’arte Titus Burckhardt (2) dice: «Perché l’opera d’arte abbia un valore spirituale non c’è affatto bisogno che sia “geniale”; l’autenticità dell’arte sacra è garantita dai suoi prototipi. …. Una certa monotonia è inseparabile dai metodi tradizionali … tale monotonia custodisce la povertà spirituale (nel senso evangelico) e impedisce che il genio individuale sprofondi in qualche ibrida monomania: il genio sarà come assorbito dallo stile collettivo … Ciò significa che il genio dell’ artista si manifesta entro i confini di una tale arte attraverso l’interpretazione … dei modelli sacri. Basta pensare a un’arte come quella dell’antico Egitto per comprendere come il rigore stesso dello stile possa condurre alla somma perfezione.» La nostra era sembra piuttosto esprimere un’arte che ha qualche cosa in comune con l’arte egiziana durante il periodo dei Tolomei, quando la sudditanza culturale e politica in cui visse l’Egitto sotto l’influenza della Grecia, egemone dopo le conquiste di Alessandro Magno, finì per distruggere l’antica eredità dell’anima egiziana, creando un’arte goffa, diventata una ridicola pantomima del passato. L’analisi di Burckhardt così prosegue: «Ciò spiega anche perché all’epoca del Rinascimento geni artistici si “rivelino” … all’improvviso e con una vitalità straripante. E’ un fenomeno analogo a quello che si verifica nell’animo di chiunque abbandoni una disciplina spirituale. Tendenze … prima represse esplodono a un tratto e fanno balenare … nuove sensazioni. Tuttavia, poiché l’emancipazione dell’ “io” è ormai il motivo dominante, continuerà ad affermarsi come crescita individuale e conquisterà nuovi piani, notevolmente inferiori al primo, poiché la differenza dei “livelli” psichici agirà a modo di energia .. E’ tutto qui il segreto del prometeismo del Rinascimento. …. Ci sono … nell’opera di ogni autentico genio – nel senso corrente e individualistico del termine, valori reali prima ignorati o negletti; poiché ogni arte tradizionale è soggetta a una certa economia spirituale, che limita i temi e i mezzi, l’abbandono di quella economia sprigiona quasi immediatamente nuove possibilità artistiche in apparenza illimitate. Ma ormai queste nuove possibilità non possono più essere coordinate su un unico centro, non riflettono più l’ampiezza dell’anima che riposa in se stessa, nel suo “stato di grazia”: essendo centrifughe le loro tendenze, le diverse modalità di visione e d’espressione si escluderanno a vicenda e si succederanno con velocità progressiva. Sono queste le così dette “fasi di stile”, la cui vertiginosa successione contraddistingue l’arte europea degli ultimi cinque secoli. ….». Al contrario «l’artista tradizionale, protetto dal “cerchio del magico” della forma sacra, crea come un bambino e come un saggio: i modelli che egli riproduce sono simbolicamente fuori dal tempo. Nell’arte, come in ogni cosa, l’uomo si trova dinanzi a questa alternativa: o cercare l’Infinito in forma relativamente semplice, entro i limiti di questa stessa forma …; oppure cercare 28 l’Infinito nell’apparente dovizia della diversità e del mutamento, il che porta … alla dispersione e ad esaurirsi » Quindi la grande fioritura dell’arte al termine del Medioevo secondo Burckhardt, fu possibile grazie alle energie spirituali accumulate nei così detti anni bui. Ma quando le energie spirituali si furono esaurite il Rinascimento ebbe termine. I tentativi convulsi per tentare un rinnovamento su nuove basi, come l’estetica diventata un fine distorto (il barocco), come la ragione scoperta dall’Illuminismo (il neoclassico), come il senso astratto del bello, sino infine al trionfo dell’astrazione con l’attuale decostruttivismo, sono tutti naufragati uno dopo l’altro, poiché non ci fu più un vero recupero di energie spirituali. Anche se questo non piace oggi a molti, si deve riconoscere che maggiore successo ebbe poi il tentativo di un ritorno al Medioevo. Progetto di Cecilio Arpesani (1895) per l’Istituto Salesiano con la chiesa di Sant’Agostino. Sono presenti due campanili laterali, la facciata è la stessa che apparirà nel progetto dell’anno successivo (3), ma è molto diversa dal progetto realizzato. L’abside di SantAgostino vista dal canale non ancora coperto, diventato poi via Melchiorre Gioia. Innegabilmente la prima versione della facciata disegnata da Arpesani (1985) ha qualche affinità con la facciata della Basilica di Sant’Ambrogio, pur essendo in molti particolari radicalmente diversa. 29 Quindi il periodico esaurirsi delle forze spirituali è certamente una delle cause che durante il XIX secolo creò la tensione verso un ritorno al Medioevo. L’inclinazione a questo ritorno coinvolse artisti, storici, filosofi e politici. Si sviluppò in pieno periodo di fioritura dell’ industria e della tecnica, non tanto come un’utopia del passato, ma come una nostalgia che faceva perno su un Medioevo idealizzato, mai esistito nella realtà storica. La Chiesa si impegnò molto in questa direzione, soprattutto in campo politico (4), compiendo un cumulo di errori che l'avrebbero certamente travolta se non ci fossero stati i Don Bosco ed i tanti Santi che compresero la necessità per la religione Cattolica di svolgere un autentico e concreto ruolo sociale. Nell’architettura religiosa il rinnovamento ebbe una miglior fortuna, almeno se si confronta con le disastrose soluzioni delle chiese moderniste. Facciata della chiesa di Sant’Agostino in via Copernico, da una foto dell’epoca 30 Primo progetto dettagliato per la facciata della chiesa di Sant’Agostino (1896). Le finestrature sono occhiaie vuote che guardano dentro l’anima. Sant’Ambrogio, la celebre basilica milanese vista dal cortile d’ingresso. E’ esistito un grande precedente dell’architettura sacra: l’architettura bizantina in Russia. La penetrazione in Russia dell’influenza di Costantinopoli tra le popolazioni delle immense 31 pianure sarmatiche, avvenne grazie alla magnificenza delle chiese fatte costruire dai bizantini nelle principali città della Russia dopo il mille. Mai un messaggio più importante ed efficace venne affidato all’architettura. Ma di questo fatto, cruciale nella storia dell’arte sacra, sembra che attualmente le chiese cristiane abbiano perso del tutto la memoria. Come si tornò all’architettura medioevale. Novalis Ma le vicende che portarono ad un ritorno all’architettura medioevale, non solo per gli edifici religiosi, sono lunghe e complesse e non si trattò certo di una infatuazione momentanea e limitata ad un breve periodo. E’ utile citare lo storico Renato Bordone (5) : «La fortuna del medioevo è forse uno degli aspetti più rilevanti della cultura ottocentesca per il carattere pervasivo che manifestò nel corso del XIX secolo: non c'è infatti in Europa espressione di costume, d'arte o di cultura da cui sia esente una riproposizione di forme e di contenuti ispirata al mondo medievale,… La responsabilità di un fenomeno così appariscente viene generalmente attribuita, a ragione, al Romanticismo perché fu proprio questo movimento, specie in Germania, a fornire alla rappresentazione del medioevo una compiuta elaborazione ideologica, individuando le origini delle nazioni dell'Europa nel fecondo incontro del germanesimo con il cristianesimo, perfettamente realizzato, secondo Friedrich Schlegel, con la creazione dell'impero carolingio ed entrato in crisi con il successivo dissidio fra chiesa e impero che aprì la strada a una nuova perniciosa cultura pagano-antiquaria, quella del Rinascimento» (una concezione che appare non dissimile da quella di Titus Burchardt). Quando alla fine del XVIII secolo, gli esiti della Rivoluzione Francese produssero una grande trasformazione, in Francia prima, nel resto d’Europa poi, la fede religiosa venne ridotta ad un mero strumento di controllo sociale. In quel momento parve aprirsi per la Chiesa un’ opportunità di ripresa utilizzando la nuova tendenza fondata sul vagheggiato ritorno allo spirito del Medioevo. La tendenza si chiamava Romanticismo e la sua nascita viene fatta risalire ad un breve testo di un giovane tedesco (6), non pubblicato ma solo letto agli amici. La fama di questo testo si diffuse rapidamente. Allora non esistevano i mezzi di comunicazione di massa che portano inevitabilmente alla formazione del pensiero unico globalizzato. In netta controtendenza rispetto al pensiero Illuminista, la cristianità medievale veniva presentata come un mito da riattualizzare nella realtà politica. Il testo di cui si parla è il famoso “Die Christenheit oder Europa”, scritto da Novalis nel 1799. In questa opera viene contraddetta apertamente l’interpretazione illuministica di un medioevo pieno di superstizioni, culto di reliquie vere o false, credenza nei miracoli, nelle indulgenze, opposizione del clero alle scoperte scientifiche, e viene invece espresso il rimpianto per un’ Europa cristiana, in cui il Papa ed il clero esercitavano un controllo ed una guida morale su tutta la società, prima che la rivolta di Lutero avesse introdotto di fatto una continua instabilità politica. Il mito di un Medioevo ricco di spiritualità e di equilibrio venne coltivato da allora da parte di molti pensatori cristiani ed in particolare dai cattolici che più aspiravano al ritorno all’ordine ed all’equilibrio ed al recupero delle posizioni che avevano prima della Rivoluzione illuminista. Questa utopia del passato era situata proprio nel periodo storico che l’Illuminismo considerava più oscuro: il Medioevo, che era visto in opposizione netta e radicale all’utopia del futuro, quel futuro in quegli anni creato dalle applicazioni della nuova Scienza. Le molte opere architettoniche del XIX secolo di “finto” romanico e di “finto” gotico, che incontriamo nelle città di tutta Europa, sono la testimonianza di un momento nostalgico, oggi completamente dimenticato. Molti turisti frettolosi, grazie anche al fatto che una certa patina creata dal tempo contribuisce a rafforzare l’inganno, prendono questi edifici per autentici. La critica oggi ha completamente dimenticato questo periodo, i cui monumenti alcuni architetti modernisti ignorano completamente, quando non arrivano a manifestare apertamente il desiderio di vederli distrutti. 32 Torniamo al cammino del pensiero iniziato da Novalis. In realtà egli non aveva affatto sposato il cuore dello spirito del Medioevo. Infatti Novalis condivideva con i suoi contemporanei la fiducia e la fede nella forza dell’io, diventato il demiurgo di sé stesso. Un pensiero del tutto opposto a quello Medioevale, nel quale l’io si annullava nella fede. Tuttavia Novalis affidava la speranza di ricostituzione di un’Europa cristiana diretta dal papato, non ad un determinato soggetto politico, ma grazie ad un soprassalto dello spirito religioso. Il testo, che ebbe tanta influenza nello sviluppo del pensiero romantico, venne osteggiato da Goethe, non venne pubblicato sulla rivista “Athenaeum” a cui Novalis collaborava e vide la luce solo nel 1826, quando l’autore era già morto da 25 anni. Al grande Goethe, imbevuto di reminescenze classiche, incapace di capire le tensioni del presente, si deve questa prodezza. Quindi Novalis esercitò una funzione “postuma”. La cristianità medioevale diventava oggetto di un rimpianto intellettuale dotato di tale capacità evocativa da risolvere la nostalgia del passato in aspirazione per il futuro. L’Europa, e per prima la Francia, era disseminata di antiche chiese in rovina. L’abbazia di Cluny, il principale centro morale e culturale della cristianità, era stata distrutta nell’indifferenza generale, per utilizzarla coma cava di pietre e mattoni. Anche molti edifici del culto erano abbandonati ed in rovina dovunque. Sembrava che al massimo i monumenti dell’antica fede sarebbero diventati oggetto di studi archeologici. Chateaubriand, un grande personaggio oggi fuori moda Un altro grande personaggio entrò allora in campo: Chateaubriand (7), colui che si definì monarchico per eredità, legittimista per onore, aristocratico per costumi, repubblicano per buon senso. Sradicato, emigrato, viaggiatore perpetuo, Chateaubriand, mescolando mal di vivere, coscienza amara dell’Io, chiarezza critica dell’uomo nella storia, inventò il romanticismo francese. Ci volle molto coraggio e carisma personale per indurre la Francia, la patria dell'Illuminismo, a cancellare ciò che poteva apparire l'effetto di sviluppi storici irreversibili e definitivi, ormai radicati nelle istituzioni. Chateaubriand fu colui che iniziò, con risultati che ebbero grande risonanza, l'opera di ritorno ad un passato, considerato oscuro e privo di civiltà. L'esito dell'Illuminismo sarebbe comunque dovuto sfociare nel razionalismo e poi nel modernismo più bieco come l'attuale decostruttivismo. Ma, se non ci fosse stata la “ribellione” del Romanticismo, avremmo “saltato” ottanta anni di storia dell'arte e del pensiero (compreso lo stile “floreale” che ha prodotto opere delle quali ora si comincia a riscoprire il valore). Alla fine della disastrosa prima guerra mondiale, il passaggio si è verificato comunque e sembra diventato irreversibile. Infatti ci sentiamo ripetere da ogni parte che è impossibile qualsiasi ritorno e non si può andare a ripescare nulla nel passato. Chateaubriand discendeva da un’antica famiglia patrizia decaduta. Trascorre gli anni della gioventù in mezzo ai boschi del Broceliande, luogo celebre per le avventure di Gawan, il mitico cavaliere di re Artù. Inizia la vita abbracciando la carriera militare. Diventa, nel 1786, sottotenente al reggimento di Navarra. Si trova a Parigi nel luglio 1789, ma nel 1791 si imbarca per l’America, dove vive in mezzo agli indiani cercando l’umanità a contatto con la natura. Quando la vita stessa del re di Francia è in pericolo ritorna e si arruola nell’ esercito della nobiltà (degli Emigrés, gli espatriati avversi alla Rivoluzione francese). Viene ferito gravemente e fugge a Londra, dove vivrà abbastanza miseramente dal 1793 a 1800. Anni decisivi quelli di Londra; è qui che Chateaubriand intuisce che il mondo moderno è dominato dal denaro e che egli sarà povero, contro tutti i ricchi. Qui costruisce il suo personaggio di scrittore aristocratico, compone il suo Saggio sulle rivoluzioni, che avrebbe potuto essere soltanto una compilazione storica banale, ma che diventa il dramma di una generazione perduta - la sua - e che, dominato dall’Io disastrato di un giovane esiliato, mostra già che l’intelligenza della storia esiste soltanto nel soggetto in preda a lacerazione intima. Lavora 33 anche a ciò che diventerà I Natchez, probabilmente abbozzato in America, e completa una prima versione del Genio del cristianesimo. Quando ritorna in Francia, nel 1800, Chateaubriand ha trentadue anni. Nel 1801 pubblica il primo libro che lo rende subito famoso: l’Atala. La storia commovente di un indiano d’America che, fattosi cristiano, affronta le sue sventure con amore e rassegnazione. Decide di mettersi al servizio della nuova Francia. Il Genio del cristianesimo, pubblicato nel 1802, è l’espressione di una fede sincera, ma anche un trampolino nel mondo delle lettere: Chateaubriand dimostra che il cristianesimo è stato un fattore di progresso nella storia, dimostra che è la sola religione capace di esprimere il cuore martoriato dell’uomo moderno in preda all’ onda delle passioni. Con l’ edizione del 1803 il libro è dedicato a Napoleone non certo per piaggeria, ma in concordanza con la tendenza del momento che vedrà la stipulazione del concordato con il Papa. Come si è già detto, la Chiesa, che non aveva capito le cause della Rivoluzione Francese, cercherà di utilizzare questa nuova tendenza alla riscoperta del cristianesimo medioevale, ma farà l’errore di credere ciecamente ad un completo ritorno allo spirito del medioevo, trascurando i cambiamenti radicali che si erano verificati con la comparsa della civiltà industriale (4). Le génie du christianisme rappresenta il tentativo di rispondere alla domanda che ci si doveva porre di fronte al proposito della Rivoluzione di estirpare la religione: che aspetto avrebbe il mondo se non fosse comparso il cristianesimo? Chateaubriand risponde descrivendo i misteri cristiani, gli usi e le istituzioni della Chiesa, come se presentasse, in un’ epoca di gran lunga posteriore, cose dimenticate da molto tempo. Descrive poi l’influenza del Cristianesimo nella poesia da Dante a Racine, fa confronti con la poesia dell’età classica e mostra come non ci sarebbe stato nulla di ciò che è stato creato dopo e che è stato portato dalla religione cristiana. Parla dell’influenza del cristianesimo sulle arti figurative, in particolare con il gotico, nato in Francia, mostrando che tutto è nato ed è esistito grazie alla presenza del cristianesimo. Egli cita la sua testimonianza diretta: la devastazione delle tombe reali di Saint-Denis nel 1793, dove, con raffinato radicalismo rivoluzionario, si eliminò un meraviglioso complesso di opere d’arte, cercando di cancellare anche il ricordo della monarchia. Pur non avendone conosciuto gli scritti, come: il Cristianesimo ovvero Europa, Chateaubriand mostra molti punti di contatto con Novalis. (Nella recente polemica circa l’attribuzione o meno all’attuale Europa di avere radici cristiane, non ricordo di aver visto citare a sostegno questo periodo della cultura europea, dalla quale ci separano meno di due secoli.) Ha inizio la carriera politica di Chateaubriand, che Napoleone nomina attaché a Roma e poi ministro nel Vallese, carriera che si interrompe con l’assassinio del duca di Enghien. Chateaubriand si dimette da tutte le cariche e diventa nemico di Napoleone. Viene a vivere in Italia ed inizia un lungo viaggio nel vicino Oriente per trarre ispirazione per il suo libro: I martiri, dove parla del cristianesimo delle origini che lotta contro il mondo antico. Parteggia per il ritorno dei Borboni, durante la restaurazione è nominato Pari di Francia, qualche volta è ministro, ma sempre pronto a farsi da parte per non contraddire i suoi ideali. 34 Vienna, chiesa votiva o del Salvatore, costruita seguendo il progetto del famoso architetto Enrico von Ferstel, realizzata dal 1856 al 1879. Era considerata una delle costruzioni più importanti del XIX secolo. Ha sette cappelle absidali come le più celebri chiese gotiche medioevali ed è costruita nello stile gotico tedesco. La pianta è a croce latina con tre navate. I due grandi campanili hanno l’altezza di 96 metri. L’armatura del tetto è completamente in ferro. (immagine tratta dal testo di Donghi (8)) Muore nel 1848 mentre si profila in Francia la terza rivoluzione. Con lui muore il più grande romantico cristiano: con lo sguardo rivolto all’austerità estrema, quell’amarissima ascesi del silenzio che è già quasi oltre i confini della religione. L’influenza di questa atmosfera di rifondazione dei valori si avvertirà sino alla prima guerra mondiale, come testimoniato dall’architettura, in particolare da quella religiosa. Ancora nel 1925 Daniele Donghi (8), professore di Architettura della Regia Scuola di Ingegneria e di Architettura di Padova, nella prefazione alla sua monumentale opera: il “MANUALE DELL’ARCHITETTO”, poteva scrivere: «I rapidissimi progressi verificatesi nel decorso secolo (XIX ) nel campo scientificoindustriale, hanno così mutate le condizioni della vita materiale, e creato tali nuove esigenze e bisogni, da rendere assai più difficile e complicata l’opera dell’architetto, di quello che non fosse nei secoli precedenti. … Nell’antichità e sino al secolo scorso si può ben di35 re che l’architetto era essenzialmente un artista tantoché egli esercitava contemporaneamente la scultura, la pittura e l’architettura. … Oggi l’architettura è chiamata a compiere una funzione complessa, di cui non si aveva idea nei decorsi secoli, e mentre si può dire che nella maggioranza delle odierne opere architettoniche la parte scientifica prevale, si può anche affermare che non è facile trovare architetti, i quali abbiano l’abilità di trasfondere un senso d’arte in edifici essenzialmente utilitari.» Anche il Donghi ha le sue immagini distorte. Non si può certo condividere il giudizio sugli architetti del passato considerati puri artisti. Basta pensare al Brunelleschi con la Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Proprio negli anni di cui ci parla il Donghi continuava a furoreggiare il ritorno al gotico con la costruzione di edifici apparentemente in purissimo stile autentico gotico. Peccato che nessun architetto di quella era, che possiamo già chiamare “moderna”, osò costruire con la sola pietra, come negli edifici antichi, ma preferì usare ampiamente cemento e nervature in ferro, che, a differenza di quelle in pietra, sono destinate ad un inevitabile degrado, ma nei tempi “brevi” garantiscono una più facile e sicura stabilità. Le conclusioni A Milano la chiesa di Sant’Agostino dei benemeriti Salesiani, progettata da Arpesani, si trova non lontano dalla faraonica nuova sede della Regione Lombardia, destinata a colmare la sete di spazi indispensabili per ospitare la moltiplicazione degli uffici regionali, pretesto per elargire buoni stipendi ai dirigenti sempre più impegnati in fantasiose per quanto improbabili attività. La nuova sede della Regione è in costruzione sull’area di un orto botanico, divorato senza troppa resistenza dei verdi. Il modello del progetto della nuova sede venne esposto due anni fa in Galleria a Milano. Consisteva di una serie di quinte di plastica sporca sostenute da un’esile intelaiatura di metallo. Non risulta che riscosse l’ entusiasmo dei cittadini, gli stessi che erano ben consci di doversi sobbarcare il costo di tanta inutilità. Non risulta che l’Amministrazione Regionale abbia mai tenuto conto della pubblica indifferenza. Tutti sanno che il grattacielo che era della Pirelli (il Pirellone) da molti anni è stato adibito a sede della Regione Lombardia. Tutti sono al corrente della incapacità della Regione medesima a combinare qualche cosa, oltre che dissipare il pubblico denaro. Tutti si chiedono come un edificio così gigantesco come il Pirellone (oltre ad altri palazzi circonvicini affittati per la bisogna) non sia sufficiente a dare un tetto a tanta burocratica inefficienza. Eppure i lavori della nuova sede proseguono alacremente per costruire un ancor più gigantesco complesso di vetro e acciaio, invivibile senza i grandi condizionatori, divoratore di energia in estate ed in inverno, per di più disumano e spettrale. Milano si sta riempiendo di nuova architettura mentre aumenta il suo deficit urbanistico soprattutto per la mobilità. I nobili edifici, costruiti nel XIX secolo ed agli inizi del secolo seguente da grandi architetti come Luca Beltrami, occupano ancora i punti strategici del centro della Città ma vengono progressivamente dimenticati, in attesa di una loro non improbabile futura demolizione per essere sostituiti dal “moderno”, da ciò che deve rimanere moderno nei secoli futuri: il vetro e l’acciaio. Non esiste attualmente, per quanto si sappia, nessuna forza politica che sponsorizzi l’ isteria della nuova Architettura. Persino alcuni architetti cercano un alibi dichiarando che stanno progettando grattacieli che più ecologici di così non si può. La sinistra, dopo aver obliterato per decenni l’ architettura sovietica ed aver fornito incoraggiamenti molteplici alla nuova architettura occidentale nelle sue forme più ardite ed irrazionali, oggi è assente dalle lodi e dalle critiche. Ma il cammino dell’Architettura verso il nulla prosegue senza sosta, anche se ormai è priva di sostegni politici dichiarati. Intanto non si è certo fermata la demolizione del ricordo e dell’immagine dell’architettura che ha preceduto l’avvento del moderno. Quel moderno che tuttavia si pretende di interpretare come una naturale evoluzione dell’architettura precedente. 36 La più odiosa falsità in fatto di Architettura è stata quella di aver ad ogni costo accreditato lo stile attuale come erede naturale degli stili delle epoche passate. L’Architettura negli ultimi decenni si è sottratta ad un contraddittorio sul piano artistico e filosofico, vestendo i panni di una Scienza che si potrebbe mettere in discussione solo in ambito specialistico e scientifico. Quando poi l’Architettura è stata attaccata dagli scienziati, come il gruppo rappresentato da Nikos Salingaros, allora i grandi architetti si sono appellati alla libertà che non può e non deve essere negata all’arte, quindi la libertà di andare contro la scienza e non di esserne l’interprete, come in altre sedie cercano di far credere. L’architettura di oggi non è arte, è contraria alle più elementari norme razionali del buon costruire, ha esplicitamente abbandonato tutte le regole precedenti, come l’armonia e la simmetria. Essa costituisce una rottura netta ed irreversibile con il passato, eppure i più oggi credono che del passato questa architettura sia la naturale ed inevitabile evoluzione. In realtà la frattura con il passato è totale, evidentissima ed anzi paradossalmente costituisce un motivo di vanto per gli architetti di oggi (dai grandi ai piccoli). Note (1) Riportiamo in breve la biografia di Cecilio Arpesani. Dopo avere frequentato l'Università di Pavia, si iscrive alla Scuola Speciale di Architettura presso il Regio Istituto Tecnico Superiore (poi Politecnico) di Milano dove si laurea in ingegneria civile nel 1875. Cecilio appartiene alla generazione di professionisti milanesi rappresentata da Luigi Broggi, Luca Beltrami, Antonio Citterio, tutti nati nella prima metà degli anni Cinquanta dell'Ottocento. Compiuta la pratica professionale presso lo studio del cugino Ercole, ne apre uno proprio col fratello Camillo, occupandosi di molteplici aspetti della professione: Cecilio, infatti, intrattiene relazioni con la Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo progettando linee di collegamento ferroviario. Per la famiglia Sessa realizza la villa di Cremella (1890-94) e la palazzina di via Ariosto a Milano (1900-06), mentre si dedica alla progettazione di chiese, istituti religiosi e scuole, come la chiesa di Sant'Agostino in via Copernico (190026) e l'Istituto delle Marcelline in piazza San Tommaso (1906) a Milano, la chiesa di Legnanello (1901-05), l'asilo Ratti (Trenno Milanese, 1903-08). Si occupa di diversi restauri, di cui sono esempio i lavori per il Duomo di Crema (1911-15), di Cremona (1915-21) e per le cattedrali di Melegnano e di Ponte Vecchio presso Magenta (1922-23). Il suo impegno culturale e civile si manifesta con la partecipazione decennale alla Commissione igienico-edilizia del Comune di Milano (1910-20), dall'impulso dato alla Scuola professionale di Monza, dall'iscrizione al Collegio degli Ingegneri e Architetti di Milano e come socio onorario dell'Accademia di Belle Arti di Milano dal 1895. (2) Titus Burckhardt, “L’ARTE SACRA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE – L’Estetica del Sacro”, seconda edizione, Rusconi editore, 1990 Milano, Titolo originale: Principes et Métodhes de L’Art Sacré, 1974. Titus Burckhardt, svizzero tedesco, nacque a Firenze nel 1908 e morì a Losanna nel 1984. Egli dedicò tutta la sua vita allo studio ed alla divulgazione dei diversi aspetti della Sapienza e della Tradizione. Nell’era della scienza moderna e della tecnocrazia, Burckhardt fu uno dei più importanti esponenti della verità universale, nell’ambito della metafisica come nella cosmologia e nel mondo dell’arte tradizionale. Nel mondo dell’esistenzialismo, della psicoanalisi, e della sociologia, egli fu la voce più autorevole della filosofia perenne, che è “sapienza uncreata” espressa nel Platonismo, nel Vedanta, nel Sufismo, nel Taoismo ed altri autentici insegnamenti esoterici e sapienzali. Nell’ambito letterario e filosofico egli fu un membro eminente tra gli autori della “scuola tradizionalista” del ventesimo secolo. 37 Scrisse sulla rivista: Studies in Comparative Religion insieme ad altri illustri membri della “scuola tradizionalista”. Burckhardt ebbe come nonno il famoso storico dell’arte Jacob Burckhardt, grande conoscitore dell’arte, dell’architettura e della civiltà Rinascimentale. Anche se vide la luce a Firenze, Titus Burckhardt fu erede di una famiglia patrizia di Basilea. Fu contemporaneo ed amico di Frithjof Schuon – destinato a diventare l’esponente di maggior spicco del pensiero tradizionalista nel ventesimo secolo. Essi trascorsero i primi periodi di scuola insieme a Basilea, negli anni della prima guerra mondiale. Questo fu l’inizio di un’intima amicizia e di una comunanza intellettuale e spirituale che durò tutta la vita. (da Wikipedia) (3) I Salesiani giunsero a Milano il 7 dicembre 1894 ed iniziarono provvisoriamente il loro lavoro in una casetta di via Commenda con Oratorio e modesta scuola per alcuni ragazzi. Con l'aiuto di un vasto comitato cittadino di Cooperatori Salesiani, il 4 Novembre 1895 fu posta la prima pietra del grandioso edificio, su progetto dell'architetto Cecilio Arpesani, in via Copernico, allora del tutto isolata fra prati e ortaglie di periferia. Dopo solo venti mesi, il 15 aprile 1897 era inaugurata la prima ala del nuovo Istituto prospiciente su via Copernico, provvisto di aule e attrezzati laboratori. Con l'anno scolastico 1897-98 si iniziarono le "Scuole di Arti e Mestieri" per "tipografi, legatori di libri, falegnami, sarti e calzolai" secondo il modello pedagogico, didattico e organizzativo ormai consolidato nelle scuole salesiane d’Italia, d’Europa e dell’America Latina. (4) Daniele Menozzi: “LA CHIESA CATTOLICA E LA SECOLARIZZAZIONE”, Giulio Einaudi editore, 1993 Torino. (5) Renato Bordone Le radici della rivisitazione ottocentesca del medioevo [in Medioevo reale, medioevo immaginario. Confronti e percorsi culturali tra regioni d'Europa, a cura di D. Lupo Jalla - P. Denicolai - E. Pagnucco - G. Rovino, Torino 2002, - Distribuito in formato digitale da "Reti Medievali"] http://web.arte.unipi.it/salvatori/didattica/itinere2/testoBordone.doc Si veda anche: R. BORDONE, Tre secoli di rivisitazione del medioevo. Un tentativo di interpretazione, rel. al XXIV Convegno "Medioevo e Modernità", Bressanone 5-7 luglio 1996. «……. L'attenzione e, più ancora, l'attrazione per l'età di mezzo non nacquero tuttavia all'improvviso con i romantici, anche se essi contribuirono a rendere attuale e popolare il medioevo e a farne un fenomeno di dimensione europea, grazie alle aumentate possibilità di diffusione culturale del loro tempo. Ai romantici riuscì infatti di assumere e di divulgare presso un più vasto pubblico quanto già in precedenza si era andato elaborando intorno a un'età che in ogni caso non aveva mai cessato di suscitare interesse, sia pure nell'ambito più ristretto della cerchia degli intellettuali. Era un interesse che muoveva dalla precoce assunzione del medioevo come paradigma storico-interpretativo delle manifestazioni umane: un atteggiamento che appare come diretta conseguenza della creazione stessa del concetto. Gli umanisti per primi - e poi il Rinascimento e la Riforma - avevano infatti individuato in quei dieci secoli una traumatica interruzione con l'antichità classica … suggerendo in tal modo non tanto un nuovo sistema per periodizzare la storia umana, quanto piuttosto l'espunzione da essa di un'esperienza plurisecolare giudicata negativamente. Un'operazione di questo genere aveva invece sanzionato indirettamente un dualismo antagonistico fra classicità e non-classicità: il medioevo assumeva quei connotati giudicati negativi - "barbari", "gotici" - da una cultura che aveva adottato come canoni estetici quelli ritenuti di ascendenza classica. Ma nel momento in cui si era andata definendo come alterità rispetto al classicismo, quell'esperienza storica di fatto era diventata "modello", caratterizzandosi come "assenza di regola" (Il giudizio fu espresso dal 38 Vasari nel Proemio alla seconda parte delle Vite – si veda: E. DELLAPIANA - C. TOSCO, Regola senza regola. Letture dell'architettura medievale in Piemonte da Guarini al Liberty, Torino 1996). …il 'modello-medioevo' aveva preso a funzionare come antagonista anche sul piano politico e culturale. Non però come paradigma astratto, ma fondato sull'esperienza storica e dunque bisognoso di specifiche ricerche. … durante la monarchia del Re Sole, Henry de Boulainviller (morto nel 1722) 'riscopre' il valore delle istituzioni medievali del regno di Francia, svolge ricerche intorno agli antichi Parlamenti e nella prefazione al suo Journal de Saint Louis richiede che ne vengano nuovamente restaurate le competenze, studiando gli archivi francesi che giacciono abbandonati "sotto le volte della Sainte-Chapelle". Boulainviller, d'altra parte, fu l'anima di quella "Académie des Inscriptions" diventata fra Sei e Settecento roccaforte dei "moderni" che si opponevano agli "antichi" nella nota querelle, non senza una decisa colorazione politica: il classicismo, assunto come stile di corte, infatti appariva loro come sinonimo di assolutismo e di costrizione formale. "Moderno" è invece il medioevo nel suo ruolo di antagonista del classico, con le sue istituzioni che lasciavano spazio alla nobiltà, ora mortificata dal sovrano, ai Parlamenti, agli sviluppi particolari delle singole province. È un atteggiamento che stimola la riscoperta del medioevo anche sul versante più propriamente erudito: il medico Camille Falconet nel 1727 propose infatti all'Académie un ambizioso programma di ricerca, accolto con entusiasmo; si trattava di elaborare un nuovo glossario di antico francese, un dizionario storico-geografico e una bibliografia degli scrittori francesi….. Dal 1729 al 1733 Bernard de Montfaucon pubblicò cinque volumi corredati da oltre trecento tavole di Monuments de la monarchie française a partire dal medioevo (O. ROSSI PINELLI, Il secolo della ragione e delle rivoluzioni. La cultura visiva nel settecento europeo, Torino 2000 - Storia universale dell'arte, sez. III, Le civiltà dell'Occidente). Alla metà del secolo, l'accademico Jean Baptiste de La Curne de Sainte-Palaye, discepolo del Falconet e in contatto col Muratori che conobbe nei suoi viaggi in Italia, estraeva dal suo Dictionnare des antiquités, rimasto inedito, dei materiali per compilare cinque Mémoires sur l'ancienne chevalerie che riprendono e approfondiscono gli studi degli autori precedenti, in particolare di Boulainviller. Il successo dell'opera, pubblicata nel 1751, fu immediato ed enorme non solo in Francia, ma in Inghilterra, in Germania e fin nella lontana Polonia. Ciò che l'autore intende sottolineare - pur senza nascondere la 'barbarie' dei cavalieri antichi, ma descrivendone in modo pittoresco gli usi e i costumi - è il valore morale dell'istituzione cavalleresca, proponendola come essenziale supporto a una monarchia 'illuminata', … Le istituzioni medievali nel dibattito settecentesco sulla natura delle leggi diventano così paradigma di comportamento politico: Montesquieu e il suo discepolo svizzero Paul-Henri Mallet glorificano le "antiche libertà dei Goti", mentre in Inghilterra si consolida il mito delle "libertà sassoni", già sorto al tempo della grande rivoluzione del 1640-1660, funzionale all'ideologia della "costituzione mista" e del parlamentarismo. Secondo tale interpretazione, infatti, prima della conquista normanna nobiltà e popolo concorrevano insieme all'elezione del re sassone, dopo l'invasione straniera i baroni e il popolo, difensori delle antiche libertà, continuarono a lottare contro il potere monarchico centralizzato. Non deve dunque stupire se a Jonathan Swift il Parlamento appare una saggia "istituzione gotica". … Fin dal principio del secolo XVIII, nei club londinesi si ritrovavano intellettuali dai diversi interessi: una comune cultura circolava scambievolmente fra politici, letterati, artisti e architetti. Questi ultimi, in particolare, ricevevano committenze dalla ricca nobiltà locale che, nel clima politico di cui si è detto, intendeva esaltare la sua tradizione storica di autonomia dal sovrano e di difesa delle libertà provinciali. Già nei primi decenni del Settecento architetti come Vanbrugh risposero dunque a tale domanda con un ritorno alle forme gotiche, interpretate e adattate alle nuove esigenze. Sorsero così castelli e ville di un gotico di volta in volta "palladiano" o "rocaille", più decorativo che filologico, genericamente evocativo del tempo delle 'libertà medievali', ma che nel corso del secolo avrebbe assunto un significato più coinvolgente, collegandosi con la parallela rivoluzione dell'arte dei giardini, ispirata anch'essa alla libertà, la libertà della natura contrapposta al giardino formale (R. BORDONE, Origine del gusto medievale nell'architettura dei giardini, in Presenze medievali nell'architettura di età moderna e contemporanea, a cura di G. SIMONCINI, Milano 1997). Si trattava di un sostanziale mutamento di registro, antagonistico alla normativa del classicismo: e ancora una volta il medioevo si poneva come referente designato per una società insofferente verso una visione del mondo rigidamente geometrica. …. La propensione per l'asimmetria e per il gusto del frammento favorirono il successo del gotico e delle rovine, anzi - sempre di più - 39 delle "rovine gotiche" che, a detta di Home, evocando la devastazione della barbarie, provocavano un più forte sentimento di angoscia e non solo di malinconia rispetto a quelle classiche. L'apprezzamento estetico-sensistico del pittoresco e poi del 'sublime', riscoperto proprio alla metà del secolo, decretò la definitiva fortuna del gotico cioè del medioevo come "oggetto" concretamente fruibile. Il paradigma politico-culturale acquisiva ora visibilità, diventava strumento in grado di provocare direttamente sensazioni e, assunto carattere emotivo, otteneva una diffusione generale. Fin troppo scontato citare al proposito Horace Walpole e la coppia castello (Strawberry Hill) / romanzo (The castle of Otranto), se non fosse palesemente indicativo del successo popolare di una moda medievale che anticipava di quasi mezzo secolo il medioevo dei romantici. … Il famosissimo capitolo sulla vita e sui costumi dei cavalieri del Génie du christianisme di Chateaubriand appare infatti del tutto basato sui Mémoires di Sainte-Palaye, le cui vivaci descrizioni già distinguevano la sua opera dai precedenti libri sulla cavalleria. La contrapposizione fra Sassoni e Normanni che fa da sfondo alle vicende del cavaliere Ivanohe narrate dal più grande romanziere storico del Romanticismo, Walter Scott, non è altro che una elaborata riproposizione del perdurante "mito sassone" del parlamentarismo inglese sei-settecentesco.…. Spettava ai romantici servirsi di quei materiali per costruire un sistema complessivo, non tanto di conoscenza quanto piuttosto di comportamento. Per costruire con quei materiali il medioevo dell'Ottocento. (6) http://www.filosofico.net/filos.html . «Georg Philipp Friedrich von Hardenberg, detto Novalis (1772-1801) fu uno dei maggiori animatori del circolo romantico di Jena; egli morì giovanissimo, consunto dalla tisi, a soli 29 anni di età. Il suo pensiero filosofico é contenuto soprattutto in una raccolta di Frammenti , rimasta per molto tempo inedita. Negli Inni alla notte (1800), l'opera senz'altro più completa di Novalis, lo spazio notturno é il regno del sogno e della fantasia, intesi come indispensabili veicoli verso l'infinito. In Heinrich von Ofterdingen, romanzo rimasto incompiuto, il protagonista incarna il modello del sognatore romantico, in cui lo spirito poetico prevale di gran lunga sulla considerazione razionale della realtà. La poesia viene infatti intesa da Novalis nel suo significato etimologico di creazione: essa produce realtà, anzi la realtà vera, che non é la banalità del quotidiano, ma é il prodotto dello spirito. "La poesia é il reale, é la realtà assoluta. Questo é il nocciolo della mia filosofia". La poesia é dunque vera conoscenza e vera scienza. La filosofia stessa si riduce a poesia. Infatti Novalis riprende la dottrina della scienza fichtiana, interpretando però l'Io non come semplice soggetto trascendentale, ma come una fonte infinita di pensiero e di realtà. L'idealismo fichtiano si trasforma così in idealismo magico , in cui il soggetto individuale é riconosciuto come onnipotente, dal momento che é in grado di trasformare il mondo con la sua volontà e la sua fantasia. "L'esecuzione dell'idea di Fichte é la miglior prova dell'idealismo. Quel che io voglio, lo posso. Agli uomini nulla é impossibile". Questo ampliamento dei poteri del soggetto sull'intera realtà implica, nella filosofia novalisiana, una sfilza di identificazioni. In primis, esso comporta l'unità tra individuo e natura. Nella novella I discepoli di Sais, la natura é presentata come unitaria non solo in quanto una con se stessa, essendo pervasa da un unico fluido "simpatico", ma anche nel senso che é identificabile con il soggetto umano che la contempla, come viene esposto nel racconto di Giacinto e Fiorellin di Rosa, inserito nella novella come "storia nella storia". Dopo una lunga ricerca della dea Isis, l'intima essenza della natura, Giacinto, trovatala e sollevatole il velo, scopre Fiorellin di Rosa, la sua amata. La natura ci é vicina, siamo noi stessi la natura, basta saperla vedere: … All'unità con la natura é inoltre strettamente connessa l'unità dell'uomo con Dio, visto che Novalis condivide con molti altri romantici un sostanziale panteismo di matrice Bruniana e spinoziana. "Noi siamo, noi viviamo, noi pensiamo in Dio, poichè egli é la collettività personificata. Nè per il nostro senso egli é un universale o un particolare. Potresti tu dire che egli sia qui o lì? Egli é tutto e dappertutto. Noi viviamo e ci muoviamo in lui, nel quale saremo". La compiuta realizzazione dell'uomo é pertanto l' "indiarsi", la complessa risoluzione nell'Uno-tutto, nella quale l'individuo esplica il suo infinito valore, e, allo stesso tempo, l'infinito si determina come individuo: con ciò si realizza completamente l'essenza del romanticismo. Il bisogno esasperato di unità che alberga nell'animo filosofico di Novalis contrassegna pure la sua concezione politica e storica. Nella raccolta di frammenti Fede e amore, ovvero il re e la regina egli presenta il suo ideale di Stato, concepito come comunità assolutamente armonica, in cui i singoli cittadini trovano nella coppia sovrana il loro modello di vita esemplare. Nell'ideale politico di Novalis trovano la loro fusio- 40 ne la monarchia e la repubblica: unico deve essere il sovrano, ma in quell'unità si condensa la partecipazione attiva di tutti gli individui. Lo stesso carattere unitario pervade la concezione storica che ha Novalis: in Cristianità o Europa, egli propone come modello storico-politico l'Europa medioevale, in cui tutti i popoli cristiani erano raccolti sotto la guida di un unico pontefice. La storia successiva non é altro che il processo tramite il quale la cristianità perde a poco a poco la sua unità: la Riforma protestante, l'illuminismo, e la rivoluzione francese costituiscono le tappe fondamentali di questo processo di scissione. Ma al termine dello scritto Novalis… prevede che l'originaria unità perduta sarà presto restituita all'Europa da un "degno Concilio europeo", in cui il tardo romanticismo restauratore vedrà la prefigurazione del Congresso di Vienna. Opposta sarà l'ipotesi di Nietzsche, che prevederà invece lo sgretolamento totale dei valori cristiani. (7) La Frusta http://www.lafrusta.net/pro_chateaubriand.html Chateaubriand, François-René, Visconte de (Saint-Malo, 1768 - Parigi, 1848). Visse tre rivoluzioni: quella del 1789, del 1830, del 1848; conobbe tre monarchie: tradizionale (Luigi XVI), restaurata (Luigi XVIII, Carlo X), borghese (Luigi-Filippo). (8) Daniele Donghi, Regia Scuola di Ingegneria e di Architettura di Padova,: il MANUALE DELL’ARCHITETTO, 1925-35 UTET - Torino G:\ARCHIVIOperLIBRO\RicercaArchitatturaPerduta\RicercaArchitatturaPerduta\AllaRicerc aDellArchitetturaPerduta.htm Gaudì e Gallego, costruttori di chiese Oggi c’è chi celebra Gaudì come grande architetto e c’è chi, come uomo, lo vorrebbe santo, ma per molti anni la storia dell’architettura ha cercato di rimuoverlo, principalmente perché era difficile inserirlo nel filone dominante del modernismo se non inquadrandolo approssimativamente come impressionista. Anche a causa della rimozione Gaudì ebbe scarsissimo seguito e certamente non fondò una scuola. Oggi è diventata una realtà economica il viaggio per visite mirate a “monumenti” diventati appena famosi, una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di oggetti esotici e fuori della normalità quotidiana, quindi anche l’architettura di Gaudì, quasi esclusivamente concentrata a Barcellona, gode della popolarità che le deriva dall’essere inserita in questo circuito, come i parchi a tema. A parte queste frivolezze indubbiamente Gaudì “parla architettura”, perché, attraverso le immagini che crea, esprime e descrive un mondo di sogni e di emozioni. Ma a differenza dell’ architettura attuale, egli per parlare usa elementi e particolari architettonici, noti attraverso il ricordo. Oggi l’architettura vorrebbe parlare inventando tutte le parole che usa e questa è la principale ragione per cui è incomprensibile. Nel linguaggio le parole hanno radici antichissime, anche di alcuni millenni. Persino le parole distorte per essere passate da una lingua ad un’altra, da un popolo ad un altro, conservano la memoria della loro antica origine, in alcuni casi avvalendosi anche del loro sapore onomatopeico. Solo così il linguaggio parlato diviene intelligibile. Invece le parole dell’architettura moderna, ovvero i suoi elementi costitutivi, debbono essere completamente nuovi, inventati dal nulla senza alcun riferimento al mondo circostante 41 ed al passato. Ogni architetto poi deve inventare la sua espressione, il suo particolare linguaggio, con l’obbligo dell’originalità, pena essere relegato nell’anonimato dei meschini imitatori. E’ chiaro che la richiesta di questo diluvio di invenzioni in un periodo privo di grandi ideali come l’attuale, è a dir poco improponibile. Infatti i risultati debbono spesso essere annoverati tra le immagini di manifestazioni psicopatiche. Invece Gaudì, durante un felice periodo della sua Barcellona, in una esplosione di immaginazione, ha creato ed espresso un mondo di sogni e di emozioni. Ma a differenza dell’ architettura attuale, come si è detto, per parlare egli usa parole conosciute, ovvero elementi, che sono già noti attraverso la memoria. Gaudì attinge dal gotico, dalla natura e persino dal medioevo, quello interpretato da Viollet-le-Duc. Egli per esprimersi e parlare architettura attinge da motivi della tradizione locale catalana e persino araba. Tutte fonti di ispirazione oggi assolutamente proibite. Rispetto all’attuale architettura decostruttiva Gaudì dovrebbe essere considerato un personaggio da cancellare. Usa a piene mani l’ornato, che diventa parte essenziale dei suoi edifici, si richiama ad un medioevo artificiale, progetta e costruisce vincolato al territorio, tenendo conto di tutte le possibili influenze locali, per di più con l’incarico di progettare una chiesa si è impegnato a costruire una gigantesca cattedrale senza aver mai realizzato dei veri progetti definitivi. La chiesa è la Sagrada Familia, un cantiere perenne che è diventato la sua tomba, un fenomeno da medioevo trapiantato nella nostra era, una realtà architettonica inconcepibile ed inaccettabile, salvata solo dall’ostinazione e dall’attaccamento dell’orgogliosa città di Barcellona, la capitale della fiorente regione catalana. Infine ha compiuto il passo della sua condanna definitiva: immedesimandosi nella costruzione della chiesa: è tornato alla fede cristiana e per di più cristiano fervente, abbandonando gli atteggiamenti agnostici secondo la moda obbligatoria per gli intellettuali. Lui stesso prima di iniziare la costruzione della Sagrada Familia era un giovane un po’ dandy, scettico quel tanto che bastava per essere al passo con i tempi. Gaudì amava il gotico ma odiava gli archi rampanti. Allora ha inventato i pilastri inclinati e le volte a parabola rovesciata. Due soluzione ardite per l’ingegneria strutturale. Due soluzioni che evitavano gli archi rampanti di sostegno laterale e la criticità del vertice negli archi a sesto acuto, ma si trattava di due soluzioni difficili da inserire in un linguaggio goticizzante senza stravolgerlo, con il rischio di renderlo banale e in definitiva brutto. Ma gli è venuto in soccorso l’ornato che ha inserito rendendolo parte viva della struttura portante. Per Gaudì, come si è detto, l’ornato è strettamente connesso alla struttura al punto da renderlo esso stesso struttura portante. L'insegnamento di Gaudí è nella sua aspirazione ad esprimersi oltre il convenzionale e il procedimento consolidato, anticipando meravigliose soluzioni architettoniche e figurative. Egli affronta la questione nodale del dibattito architettonico tra natura e artificio attraverso lo spiccato senso dell'uso dei materiali tradizionali, l'intuizione di alcuni princìpi morfologico-costruttivi: l'arco parabolico, che risolve la statica delle spinte laterali in una conformazione organica, l'applicazione di motivi zoomorfici, arborescenti, fiabeschi, di animali primitivi o simboli mistici esprimono suggestioni che non sono state raccolte dal design attuale. Artista isolato e solitario, Gaudí all’inizio realizzò le sue prime opere sotto l’influenza di 42 Pilastri di un facciata della Sagrada Familia Viollet-le-Duc, rifacendosi alla tradizione culturale della sua regione. Nelle opere successive si verifica una decantazione dei motivi stilistici del passato in favore di una espressività autonoma e originalissima, caratterizzata dalla capacità di sovrapporre un ordito decorativo a una struttura rigorosa che utilizza arditamente le possibilità offerte dalla tecnica moderna, anche se fece un uso molto parco del cemento armato. Nel 1882 Gaudí conosce l’industriale Güell y Bacigalupi che ne intuisce il talento e ne diventa il mecenate; La sua prima opera di vasta risonanza è Casa Vicens (1878-80) a Barcellona, con influssi dell’arte mudéjar. Dal 1885 realizza, per il suo mecenate, il palazzo Güell (1885-89), la chiesa per la colonia Güell (1898 -1915), il parco Güell (1900-14), quest’ultimo in assoluto uno dei suoi capolavori; mentre Casa Battlò (1905-07) e Casa Milà (1905-10) sono interpretazioni straordinariamente anticonvenzionali del tema della casa ad appartamenti. Gaudì, come un artista del Rinascimento, con Güell ebbe il suo “principe” protettore, che lo incoraggiò a seguire le sue ispirazioni. Anche il vescovo di Astorga, Juan Bautista Grau i Vallespinòs fu un suo accanito sostenitore. L’opera più significativa di Gaudí, pur essendo rimasta incompiuta, è la Sagrada Familia, situata in una zona di Barcellona a quei tempi decentrata. L’opera gli venne commissionata nel 1883 dall’Associación Espiritual de Devotos de San José, all’inizio solo per la direzioni dei lavori, già avviati su progetto di Villar e già in piccola parte realizzati con lo scavo e le fondazioni della cripta. Furono inizi che tuttavia vincoleranno l’impostazione dell’opera condotta poi da Gaudì. Il lavoro per la grande basilica era stata l’occasione della sua "folgorazione" mistica e del suo avvicinamento alla religione cattolica, al punto che, dal 1999, si vuole procedere, primo architetto nella storia, alla sua beatificazione, su iniziativa dell’arcivescovo di Barcellona, il cardinale Ricard Maria Carles Gordò. Le sue spoglie sono conservate, per concessione papale, nella cripta della Sagrada Familia. Gaudí era molto richiesto ed apprezzato dalla borghesia catalana del tempo. Visse gli ultimi anni della sua vita all'interno del cantiere della sua Sagrada Familia, conducendo una vita quasi da barbone. Quando morì, travolto da un tram, riconosciuto solo dopo alcuni giorni, il suo funerale, seguito da migliaia di persone, commosse l'intera Barcellona, consacrandolo "l'architetto di Dio" (1). Antonio Gaudì morì investito da un tram nel ' 26, a 74 anni, dopo aver vissuto per mezzo secolo nel cantiere della basilica della Sagrada Familia. Le torri della Sagrada Familia erano originariamente previste per essere tre volte più alte. Gaudí, comprendendo che i lavori sarebbero proseguiti decenni (o secoli) dopo la sua morte, invece che esaurire le risorse impostando tutto il gigantesco perimetro preferì completare alcune sezioni dell'edificio in altezza (specie nell'abside), come per lasciare una testimonianza precisa dell'idea originale ai suoi successori. Dal 1940 gli architetti Francesco Quintana, Puig Boada, e Lluis Gari hanno portato avanti i lavori. Le sculture di J. Busquets e del controverso ma possente Josep Subirachs decorano le fantastiche facciate. La costruzione della chiesa è tutt'oggi finanziata dalle donazioni all'associazione e i lavori pro- 43 cedono lentamente, anche a causa delle difficoltà del progetto. Numerosi edifici circostanti dovranno essere abbattuti per far posto alla scalinata principale. La grandezza di Gaudì «La grandezza di Gaudì e della sua architettura sta certamente anche nel suo atteggiamento realista, attento alla funzionalità di ogni particolare; egli era sapiente senza necessità di essere colto, mistico ma sempre con i piedi ben saldi a terra. “Gaudì ha sempre cercato l’ispirazione della natura ed in particolare nella natura del Mediterraneo” ha spiegato Joan Bassegoda y Nonell, uno dei massimi conoscitori dell’architetto catalano. “La luce del Mediterraneo arriva a 45 gradi e permette una illuminazione perfetta degli oggetti, fa vedere chiaramente la realtà”. »(2) Abbozzo di progetto di Gaudì Per la Sagrada Familia Vista d’assieme della basilica Indubbiamente Antoni Gaudì è un grande personaggio, insomma un grande nella storia dell’arte e nella fede. La gente di Barcellona custodisce gelosamente la sua memoria e le sue opere che rappresentano l’anima stessa della Catalogna. Ma appunto come realmente “grande” oggi l’estetica dominante ha ancora difficoltà a gestirlo. Anche se la sua grandezza appartiene ad un’epoca antecedente alle attuali tendenze, tuttavia la sua personalità è ancora imbarazzante oggi, poiché siamo immersi nell’orizzonte del presente eterno, che accetta solo i grandi che appartengono ad epoche “lontane”, altrimenti esistono i “grandi” contemporanei, che durano sino a che sono in vita e che debbono la loro notorietà (non una vera grandezza) ai mezzi di comunicazione di massa. Un riscontro si può avere leggendo un recente articolo di Marcello Veneziani (3): Le opere immortali sono morte. Di indifferenza. Le considerazioni di Veneziani sono fatte per le 44 opere letterarie, ma in realtà si applicano meglio alle arti delle immagini ed alla musica “colta”: «Viviamo solo il presente, preferiamo la notorietà alla gloria. E per il genio non c’è più posto. Vi siete chiesti perché è impossibile che oggi nasca un capolavoro e diventi un classico? Me lo chiedevo dopo aver letto un piccolo, prezioso libretto, Il reato di scrivere, di J. Rodolfo Wilcock, … uscito da Adelphi. … non abbiamo più un passato da venerare e un futuro da aspettare, e dunque una tradizione in cui selezionare ciò che passa e salvare ciò che resta. La guerra civile tra passato e futuro si è conclusa con la sconfitta d’ ambedue e la vittoria inappellabile del presente. Il culto del presente nega il capolavoro, che ha bisogno di sguardi lungimiranti oltre il muro del tempo; il presente non consegna l’ Opera alla storia né tantomeno ai posteri, non elegge classici; consuma sul posto l’essere appena appare, fino a farlo sparire.» (l’articolo prosegue nella nota (3)) Senza la dimensione della storia e la proiezione nel futuro non è possibile creare la grande opera. Ma l’oggi non si sacrifica al domani né la vita all’opera, perché la vita e il presente sono l’assoluto. Chi si cura dei frutti oltre il raggio della propria vita corrente se tutto finisce qui e ora? Così la grande opera non può neppure essere concepita, perché il pensiero confinato nel presente non ci permette neppure di esistere. Infatti esistere è la possibilità di spostarsi avanti e indietro nel tempo grazie alla memoria del passato ed alla percezione del futuro con la guida di un progetto. «Poi, un capolavoro o un genio non può emergere – prosegue Veneziani - perché abbiamo perduto il senso verticale della grandezza e consideriamo solo il senso orizzontale della notorietà che si allarga senza innalzarsi, che si globalizza senza eternarsi.» Noi viviamo nella consapevolezza implicita che non esiste un domani. Anzi nella nostra struttura mentale il domani non è la proiezioni delle speranze e degli ideali di oggi e di ieri, ma al massimo è la ripetizione sempre eguale del presente, che così assume una sua miserevole apparenza di eternità. E’ interessante un commento pubblicato nell’edizione in rete dell’articolo. Viene riportato qui di seguito: #2 pietrom (176) – il 19.01.10 scrive: «La società e' molto più complessa che nel passato. C'è stata un'evoluzione che ha trasformato molte cose. E l'arte, espressione della creatività umana, e' mutata e si e' adeguata ai tempi, a volte in meglio, a volte in peggio. Si dipingeva, si scriveva, ora si girano film, che non sono che la combinazione (non perfetta) delle due arti precedenti. La cultura si è espansa esponenzialmente, e ciò ha causato l'estinzione dei tuttologi » ma ha creato la razza dannata degli specialisti. «La mamma dei geni è tutt'altro che sterile: il fatto è che oggi il contributo che ciascuno può dare è più modesto poiché il contesto si allargato. E non e' vero che non si ragiona più sui tempi lunghi; è che lo si fa diversamente: basti pensare al progetto ITER per ottenere energia dall'acqua.» Forse involontariamente il lettore ha messo il dito su uno dei più clamorosi fallimenti dei nostri tempi. Il progetto ITER non ha fornito sino ad ora risultati utili e neppure ne fornirà in futuro. Sono duraturi solo quei programmi istituzionalizzati che non arrivano mai alla meta e che traggono forza proprio dai loro fallimenti. E’ vero che il contesto, cioè il sapere, si è allargato enormemente al punto che è sempre più difficile gestirlo, specialmente ai confini tra i diversi settori della conoscenza. Ma tanto sapere ha accresciuto anche la dimensione di ciò che non sappiamo. Pochi sanno che le domande alle quali non sappiamo dare una risposta sono cresciute superando quelle a cui siamo in grado di rispondere. Ciò che cresce spettacolarmente è la tecnica, ma cresce anche il timore per i suoi effetti a lungo termine. Dall’articolo di Veneziani si possono trarre alcune considerazioni. La globalizzazione non reprime il genio semplicemente lo uccide quando è ancora in fasce. Oggi il "genio" è costruito dai poteri mediatici, per interessi particolari. Salvo qualche eccezione, raramente la 45 gente può far sentire la sua opinione. Infatti passato il momento di notorietà, costruito dai mezzi di informazione, scende l’oblio. Sono molto pochi i "geni" ripescati dal recente passato. Il genio non è un isolato, ma è l’espressione di una società che in realtà lo genera (o lo distrugge). Il dogma del nuovo come valore assoluto, antidemocratico, indipendente quindi dalle opinioni delle maggioranze, è alla radice della impossibilità di avere una gerarchia di valori, perché al vertice viene messo il nuovo senza riguardo al suo “reale” valore. Una gerarchia di valori implica la formulazione di giudizi che dovrebbero valere oltre il presente. Persa questa gerarchia non ha senso anche solo ipotizzare l’esistenza di un genio ora, oggi. Viene poi negata ogni forma democratica in fatto di apologia del nuovo. Il nuovo deve essere accettato perché nuovo, e perché viene ingigantito dai mezzi di comunicazione di massa. In realtà il meccanismo di amplificazione non è imparziale perché esclude a priori le opere che hanno grande respiro e che potrebbero essere indipendenti dai gestori dei mezzi di comunicazione di massa. Il dogma del nuovo è esploso con la rivoluzione del ’68 e degli anni seguenti. Da allora anche la fede in un futuro radioso come prefigurato dall’illuminismo ha cominciato ad attenuarsi. Il nuovo è diventato un futuro a breve termine. Il bisogno del nuovo ha la sua radice nella necessità di evadere dalla ripetitività del lavoro quotidiano, dalla noia, esso nasce dalla cancellazione della visione della vita come parte di un progetto divino (oppure almeno umano). La sparizione della sacralità del lavoro quotidiano, qualunque esso sia, ha conseguenze nefaste in tutti gli aspetti della vita in primo luogo nell’arte, che della vita esprime il significato e l’essenza. Se il lavoro quotidiano non si iscrive in un progetto qualsivoglia (il progresso, la scienza, la fede religiosa, la solidarietà), ma è ridotto a pura merce di scambio, allora abbiamo la costrizione e la noia, che non vengono mitigate neppure dal raggiungimento del benessere materiale. La rivoluzione del ’68 aveva come fine la distruzione della struttura sociale e delle sue gerarchie ritenute ingiuste ed ingiustificabili. Venne così distrutta nella gente l’idea di un progetto dentro cui collocare la propria vita e quella dei figli, che infatti diminuirono. Poi si scoprì che neppure la rivoluzione in realtà aveva un suo progetto. La distruzione ebbe qualche successo ed alla fine il bisogno di evadere divenne angoscioso. Restava solo la ricerca della felicità per via chimica. La droga si diffuse in tutti gli strati sociali. Vennero inventati i paradisi sessuali, accompagnati dalla visione di uno sport trasformato in evasione coatta. Tutto divenne desiderabile purché si fuggisse dalla noia e dalla disillusione. L’arte è diventata l’indicatore di questa triste condizione umana. Il risultato più importante è che le gerarchie che si ricostituirono dopo la rivoluzione del ’68 sono molto peggiori di prima e prive di qualsiasi decente giustificazione. I vertici delle banche di tutto il mondo si sono arricchiti mandando al macero i sistemi di produzione di beni reali, eppure non sono stati rimossi ma anzi hanno ricevuto l’autorizzazione a proseguire nei loro comportamenti infami. Ogni giorno si scoprono personaggi politici che perdono la testa per orrendi travestiti. La bellezza non accompagna più neppure il desiderio di trasgressione sessuale. L’imperatore Adriano si perse dietro il bellissimo Antinoo, per ricordarlo fece erigere statue stupende. Oggi la bellezza è diventato il sintomo esecrabile di una intollerabile aristocrazia? Forse anche per questa ragione fuori della Catalogna Gaudì non è stato ancora accettato del tutto dai teorici dell’architettura. 46 Parco Güell, il drago a guardia delle acque sotterranee Vista frontale (lato Nord) della villa El Capricho Le rinascite culturali L’attuale proibizione di utilizzare elementi del passato è la peggiore violenza che gli attuali principi dell’architettura stanno compiendo. E’ stata instaurata la civiltà del presente trasformato in una sorta di eternità artificiale. La proibizione di tornare al passato si basa sulla convinzione, nata con l’Illuminismo, che il futuro, preparato dalla scienza e dalla tecnica, sarà infinitamente migliore del passato. Questa convinzione ha dato origine ad una continua trasformazione che è basata essenzialmente sull’impiego della macchina per sostituire il lavoro umano, un fenomeno che in Europa era iniziato sin dal tardo medioevo. Quindi la macchina determina benessere e da questo si ritagliano il tempo e le risorse economiche per pagare l’arte. Ma il meccanismo 47 oggi è diventato ipertrofico e si è inceppato per due ragioni. Anche la certezza di un futuro radioso sta scomparendo, inoltre la macchina è diventata un mostro disumano ed è in grado di riprodurre l’opera d’arte ad un costo minimo, cancellando la necessità degli originali, il cui costo di “produzione” paradossalmente non si riesce più a coprire. Esiste in Italia una legge che impone di devolvere una parte non trascurabile del costo di un’opra pubblica ad un’opera d’arte destinata ad abbellirla. La legge non si può applicare perché non è possibile accordarsi su che cosa è un’opera d’arte. Particolare dell’ingresso della villa El Capricho Tutto si complica quindi perché non siamo più neppure in grado di prefigurarci un futuro radioso verso cui tendere. Infatti l’utopia del futuro, di matrice illuminista, è stata compres48 sa nella visione di un presente totale ed esclusivo. Il futuro è stato sostituito dal nuovo, una specie di futuro letale trasformato nel nuovo quotidiano. Svanita o attenuate l’utopia di un futuro radioso, imprigionati dalla proibizione di guardare al passato, scompare anche l’ispirazione creativa per un’arte da realizzare oggi. Se ci sarà un cambiamento questo dovrà iscriversi in una delle infinite rinascite culturali (4) che «costituiscono un avvenimento frequente nella storia. La maggior parte delle generazioni, in qualsiasi società umana, mostra la propensione a guardare indietro ai periodi aurei e a tentare di restaurarli. Così la lunga civiltà dell’antico Egitto, accuratamente suddivisa dai moderni archeologi nell’Antico Regno, nel Medio Regno e nel Nuovo Regno, conobbe due fasi di declino, denominate “periodi intermedi”, e sia il Medio che il Nuovo Regno rappresentano delle chiare e sistematiche rinascite. Nel corso di più di tre millenni la storia culturale dell’antico Egitto venne contraddistinta da consapevoli arcaismi, dalla deliberata rifiuritura di precedenti modelli artistici, architettonici e letterari per rimpiazzare stili considerati degeneri. Si tratta di un motivo ricorrente nelle civiltà del passato. Quando Alessandro Magno creò il suo impero mondiale nel IV secolo a.C., i suoi artisti di corte cercarono di ricatturare la magnificenza della civiltà ateniese del V secolo. Di conseguenza la Grecia ellenistica, come siamo soliti chiamarla, fu testimone di una revivescenza dei valori classici. La stessa Roma periodicamente tentò il recupero del suo virtuoso e creativo passato. Ottaviano Augusto, nel realizzare l’impero alla vigilia dell’era cristiana, volgeva indietro lo sguardo al nobile spirito della Repubblica, e ancora più in là di questa di questa, fino alle origini della città, per stabilire una continuità …. E legittimare in tal modo il suo regime. … Tito Livio fece rivivere i gloriosi trascorsi dell’Urbe, Virgilio ne narrò la storia della nascita … L’Impero, soggetto ai capricci di un autocrate fallibile non ebbe mai la sicurezza di sé dimostrata dalla Repubblica, guidata dalla saggezza collettiva del Senato. … L’idea di una rinascita repubblicana non fu mai assente dalle menti delle élite imperiali…. Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente nel V secolo d.C. il desiderio di recuperare il grandioso passato di Roma si fece più intenso tra le fragili o semibarbare società che succedettero all’ordine imperiale. … Una rinascenza più consapevole e con maggior successo … si verificò durante e dopo il regno di Carlomagno, .. dal 768 all’814 d.C. Nell’anno 800 si era incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, un revival del passato distinto dal suo predecessore pagano… L’incoronazione ebbe luogo nella vecchia basilica di San Pietro a Roma durante la messa di Natale celebrata da Papa Leone III, ma il nuovo imperatore non si stabilì nella vecchia capitale, preferì invece erigere un palazzo nel cuore dei suoi domini, ad Aquisgrana; l’edificio venne tuttavia costruito con materiale proveniente da Roma e Ravenna, che recavano la giusta impronta e bellezza dell’antichità. … L’esperimento carolingio possedeva quindi alcuni dei caratteri di un’autentica rinascenza. Ma rimase pur sempre un esperimento…. All’alba dell’XI secolo, il Sacro Romano Impero, che si considerava legittimo successore di Roma, rappresentava ormai un elemento permanente nella società medioevale e una testimonianza che i successi dell’antichità romana non erano solo un nostalgico ricordo, ma potevano rivivere. Ciò era messo in risalto dalla diffusione di quelle forme architettoniche che noi definiamo romaniche.» La cattedrale del santo muratore (5). In Spagna, dopo Gaudì esiste un altro che costruisce una chiesa. Anche lui ama far le cose in grande ed ora sta terminando una cattedrale. «Faccio tutto questo per Gesù e per una promessa fatta a mia madre» Molti anni fa avevo ritagliato da una rivista la notizia che in Spagna uno strano personaggio si stava costruendo una chiesa. In questi giorni faccio una rapida ricerca in internet e scopro che a Mejorada del Campo, vicino a Madrid sta sorgendo una cattedrale. Autore di questa opera è lo spagnolo Justo Gallego. 49 (5) Lo chiamano il santo muratore: aureola che la gente di questo pueblo a una ventina di chilometri da Madrid gli fece fiorire attorno al capo nei primi anni '60 quando Gallego gettò le fondamenta della chiesa che si proponeva di costruire tutta da solo, pietra su pietra; e che sul capo gli è rimasta, ora che, 40 anni dopo, ciò che sembrava il sogno di un mistico visionario è una tangibile visibile realtà, anche se manca più di un terzo al completamento della costruzione. Settantacinque anni, segaligno, gli occhi chiari in un volto asciutto, don Justo non indossa la tonaca, ma per la rigida osservanza dei voti sacerdotali che non ha fatto (castità, povertà, ubbidienza), è più prete dei preti. A Mejorada del Campo, nel cuore della Spagna cattolica e tradizionalista, un uomo ha sacrificato i beni di famiglia a un progetto interamente dedicato a Dio. Justo Gallego L'impresa di Justo, il santo muratore Da solo, con cazzuola, mattoni e cemento, costruisce una cattedrale che per lui dovrebbe essere «più bella di San Pietro». Celibe, vive con la sorella, non beve alcolici, non va al cinema e non guarda neanche la tv. Riposa la domenica e le feste comandate, come prescrive la Chiesa: ma nei giorni feriali, da mane a sera, è lì, in calle Antonio Gaudì, nel suo cantiere. Con la bustina di carta in testa, come tutti i muratori, odora di santità e di cemento. Arrivando a Mejorada del Campo, tra i campi dorati della Castiglia e argini di terra rossa, si rimane di sasso. Perché uno s'aspettava, sì, una chiesa rudimentale costruita da un artigiano armato solo di buona volontà; e anche di dimensioni piuttosto modeste: e invece ciò che ti si apre davanti è la sagoma imponente di una vera e propria cattedrale che, a lavori ultimati, sarà in grado di esibire portali sontuosi, una cupola centrale attorniata da una fungaia di mini cupole, due torri campanarie, la navata altissima - ora ingombra di ponti, scale a pioli, tralicci - col soffitto adesso nudo ma che verrà affrescato con figure bibliche e, tutt'intorno, portici, vialetti, giardini su cui si affacceranno le abitazioni, strettamente monastiche, del clero e degli inservienti. Come nel Medioevo. «Perché lo faccio? - dice don Justo allargando le braccia e apprestandosi a dare la risposta a una domanda, sempre la stessa, che gli rivolgono da 40 anni -. Lo faccio per la mia fede, per Gesù Cristo che è il mio Signore. E anche per una promessa fatta a mia madre, 50 che era una donna molto pia e che è morta sette anni fa, quando non c'era ancora la cupola centrale. Cominciai nel 1960; allora mi alzavo al mattino alle tre, lavoravo tutto il giorno e mi coricavo regolarmente alle 6 o alle 7 di sera. Poi gli anni hanno cominciato a pesarmi e adesso metto la sveglia alle 7». Di tanto in tanto, i nipoti gli danno una mano, ma il grosso del lavoro l'ha fatto sempre lui, da solo: «Attualmente - precisa - i nipoti sono due, di 21 e 38 anni: quando sono liberi dai loro impegni, vengono in cantiere. Come potete vedere, qui non ci sono gru: si fa tutto come ai vecchi tempi, carrucola, ruote di biciclette per tirar su il materiale, carriole, secchi. Le colonne? Riempio di cemento i tubi, i bidoni della spazzatura. Non ho un progetto, non ho un disegno fatto da un architetto: costruisco mattone su mattone, in base a un'esperienza che ho acquisito giorno dopo giorno e finora nessun muro ha ceduto o mi è crollato addosso. Eh, quando c'è Gesù che ti aiuta!» Al sogno della «sua» cattedrale, don Justo ha sacrificato tutto: un terreno di famiglia di 40 mila metri quadri che ha venduto per il finanziamento iniziale del progetto, realizzato poi su un appezzamento di 8 mila metri quadri, sempre di sua proprietà. «Ho una pensione mensile di 52 mila pesetas (572 mila lire, ndr) - dice - e anche quella finisce nel calcestruzzo. Io non ho bisogno di niente, vivo con mia sorella, non ho vizi, non vado al bar, non esco quasi mai da Mejorada del Campo, praticamente non spendo nulla. La gente mi vuol bene, mi regala perfino i vestiti... Io amo la pobreza, la povertà. Anche voi mi prendete per un pazzo?». Con orgoglio ci porta sul tetto a vedere la struttura metallica della cupola che deve ancora essere «rivestita» e che, informa, sarà alta 40 metri; le due torri, ora «ferme» ai 30 metri, dovranno raggiungere i 60. «Le potranno vedere da molto lontano - bisbiglia - e verranno in pellegrinaggio da tutta la Spagna. Verranno a inginocchiarsi davanti a Nuestra Señora del Pilar, perché così sarà battezzata la cattedrale». Molti regimi si sono avvicendati in Spagna dal 1960 a oggi e non deve sorprendere se, fra essi, qualcuno non ha avuto il gradimento del santo muratore. Certo, non gli è piaciuto quello presieduto da Felipe Gonzales o di governi consimili che molto sommariamente e sbrigativamente definisce comunisti: «Erano dei gran ladri - commenta -. Il sindaco comunista di Mejorada del Campo mi faceva pagare un'imposta di 50 mila pesetas all'anno per i lavori della cattedrale. Quello attualmente in carica non mi fa pagare nulla». Per lui, la Chiesa è «quella di Cristo Re», e non c'è salvezza «all'infuori della religione apostolica romana, la sola autentica religione». E da qui il mite uomo che ama la povertà e ha le mani bianche di calce, si butta - lancia in resta - nell'esaltazione dei re cattolici: «Essi - afferma - unirono la Spagna in un'unica fede»; poiché la stessa fede è diffusa in tutta la penisola iberica, ne consegue che «anche il Portogallo fa parte della Spagna», conclusione che potrebbe suscitare qualche perplessità a Lisbona. L'arringa di don Justo assume poi accenti da Santa Inquisizione quando si scaglia contro «i moros, i musulmani, che uccidono i cristiani e il Papa li perdona». Né è possibile tollerare una società che indulge a pratiche anticristiane come il divorzio, gli anticoncezionali, l'aborto. «Un paio di secoli fa - conclude - la Spagna mandò oltremare il gesuita San Francisco Xavier a convertire gli infedeli. È venuto il momento che i missionari tornino nel nostro Paese, per evangelizzare la Spagna». «È uscito dalla Spagna una sola volta, 15 anni fa: “Avvenne - racconta - quando quelli della Rai mi portarono a Roma. Ci rimasi tre giorni. Vidi il Vaticano, vidi il Papa, ma, soprattutto, vidi San Pietro. Una cosa però posso subito dirvi: la mia iglesia, la cattedrale di Nuestra Señora del Pilar, sarà meglio”. A questo punto vorremmo proprio sapere quando si potrà tornare a Mejorada del Campo per contemplare il tempio nella sua forma finale? “Non posso promettere nulla - è il laconico responso -: tutto dipende dal denaro. Più soldi arrivano, più presto si finisce. Potessimo avere l'oro che è finito in Russia durante la guer- 51 ra civile e non è mai più tornato. Io ero un ragazzo e ricordo che i camion carichi d'oro e diretti verso l'Urss passavano proprio di qui”. Mentre la casa dove abita Gallego è nella parte vecchia della cittadina, la fabbrica della cattedrale sorge in una zona periferica, al numero 10 della calle Antonio Gaudì: indirizzo sorprendente, dal momento che l'architetto catalano Gaudì è il famoso, venerato costruttore della Sagrada Familia - la tuttora incompiuta basilica di Barcellona. Dopo una giovinezza brillante, aveva trascorso quasi mezzo secolo nel cantiere della Sagrada Familia, che era diventata la sua unica ragione di vita. Lì consumava i suoi pasti frugali, con gli operai, e lì dormiva, su una branda, estate e inverno. Uomo di intensa religiosità, viveva come un asceta, ma gli indumenti che indossava, sempre gli stessi, erano logori e sudici, aveva l'aspetto miserabile di un clochard: tanto che nessuno lo riconobbe quando ebbe l'incidente e lo ritrovarono in un ospedale dei poveri, dove rimase tre giorni prima di morire. Ma ai suoi funerali c'era tutta Barcellona che lo salutava come un santo e lo avrebbe consegnato alla storia come l'arquitecto de Diós.» Dice Ettore Mo: «Sarebbe assurdo porre sullo stesso piano la statura artistica dei due costruttori: per gli esperti, Gaudì è considerato uno degli ispiratori dell'architettura del ' 900, che annovera i Frank Lloyd Wright e i Le Corbusier, per il quale l'artista catalano era in grado di “far della pietra tutto ciò che voleva”». Invece il paragone si può fare e si scopre che la fede fa miracoli anche con l’architettura. «Ma nella vicenda umana» prosegue Mo «c'è qualcosa che, almeno in apparenza, accomuna il muratore di Mejorada del Campo col sommo architetto di Barcellona. Infatti, benché avesse frequentato il bel mondo negli anni giovanili, Antonio Gaudì, come Gallego, si sarebbe “votato alla castità” e comunque il suo rapporto con le donne rimane per tutti un insondabile mistero. Ambedue, poi, sembrano subire fino all'estremo il fascino della povertà, concepita francescanamente come distacco da tutto e indifferenza totale verso il possesso di beni materiali. Il pranzo di don Justo, in cantiere, consiste invariabilmente in un tozzo di pane e un po' di verdura cotta e un bicchiere d'acqua del rubinetto; Gaudì, a sua volta, si contentava di un piatto di minestra che gli veniva offerto dalle monache del convento delle Carmelitane. L'altro elemento che pure li accomuna - la fede - è vissuto invece dai due in maniera diversa: mentre il muratore castigliano rimane nel solco tradizionale del catechismo, ancorato alle sue certezze, il costruttore di Barcellona assorbe confusamente i grandi messaggi umanitari dei protagonisti del suo tempo. È giusto chiedersi, a questo punto, se la Sagrada Familia (una delle meraviglie del mondo per il turismo internazionale) abbia esercitato qualche influenza sul muratore di Mejorada del Campo, con tutta quella gigantesca fioritura di torri di pietra, e se lo abbia almeno parzialmente ispirato per il progetto di Nuestra Señora del Pilar. “Niente affatto - taglia corto Justo Gallego -. Andai a vederla nel ' 51, ma già lo sapevo... No me gusta el Gótico!, il gotico non mi piace. Io vado matto per il Romanico, per l'architettura castigliana medioevale... In quanto all'uomo Gaudì, in procinto di beatificazione, non intendo pronunciarmi, non conosco a fondo la sua storia personale”». 52 Oggi migliaia di turisti arrivano Mejorada del Campo le domeniche per visitare la "Cattedrale de Justo" ma soprattutto per conoscere lui, Justo Gallego Martinez , colui che da solo ha costruito tutto ciò in 44 anni di lavoro incessante, dedicando questa impresa titanica a Dio. Interno 53 Facciata Le scale sono pensate per rendere agevole salire anche a chi ha difficoltà a camminare. 54 Quali sono le basi teoriche dell’architettura attuale? Bruno Zevi è stato il maggior teorico dell’architettura attuale. Non è facile tuttavia trovare nei suoi scritti dichiarazione esplicite e chiare della sua visione dell’architettura e dell’arte in genere. Nell’introduzione al congresso di Modena (6), che egli inaugurò il 19 settembre 1997, si trovano proposizioni espresse con chiarezza e senza ambiguità. In questo caso credo non sia neppure necessario polemizzare. Ciascuno può farsi un’idea chiara della posizione di Zevi e della sua responsabilità circa l’attuale degenerazione dell’architettura di oggi e per il prossimo futuro. Per un esame critico delle idee di Zevi rimandiamo ad un lavoro (7) già pubblicato su Effedieffe: CRITICA AI FONDAMENTI DELL’ARCHITETTURA MODERNA Dall’introduzione (6) leggiamo: «La vita nelle grotte e negli insediamenti nomadici aveva insegnato lo splendore dell'irregolarità, della contaminazione, ….. Il mondo sardo non vuole disperdere questi valori: perciò il suo disegno non è precostituito. ma scandito da successive aggregazioni, dettate dal gusto per la linea curva. Linguaggio "casual", quello nuragico, alieno dalla rifinitura e dal compiuto, aderente all'impulso del momento, a un metodo di frantumare corrispondente all'etica che dissocia l'abitato dai microcosmi.» Questa interpretazione è del tutto arbitraria. L’architettura del paleolitico era completata da sovrastrutture in legno che ovviamente non ci sono pervenute ma che davano alle costruzioni un aspetto più accogliente ed umano. Questo lo riscontriamo nelle famose grotte di Matera, grotte che, prima di essere trasformate in feticci architettonici, disponevano di un loro corredo di porte e finestre che davano un certo ordine umano. «Dopo il 238 a.C., con l'occupazione romana della Sardegna, il valore del disordine e dell'imperfetto è stato costantemente censurato nell'edilizia ufficiale, per essere riscoperto solo alla fine degli anni Ottanta, quando ¡ decostruttivisti rivendicarono il diritto degli architetti di non aspirare più al puro, all'immacolato, al perfetto, per cercare la creatività nel disagio, nell'incertezza, nel disturbato, Un valore linguistico rinato, di straordinaria portata. Di fronte al perfezionismo dei templi ellenici e delle colonne filmate romane, alle frustranti teorie ideali del Rinascimento e al rigore cartesiano dei razionalisti, il contributo di Pietilä, 55 Libeskind, Koolhaas e soprattutto Gehry è consistito nel completare il mito millenario della perfezione con la forza e l'irruenza dell'imperfetto.» Questo è falso! Zevi crede di aver trovato la ragion d’essere del supremo caos in architettura, caos espresso oltre il limite della pazzia da Gehry. Orbene per Zevi si tratterebbe della confusione e dell’imperfetto insito nella natura spontanea delle cose e della vita, una sorta di caos primordiale, da cui tutto avrebbe origine. Potrebbe essere una teoria interessante se non fosse che il caos nella vita spontanea non è così caotico come sembra, ma a ben guardare è ricco di un ordine derivante dalle influenze reciproche dei singoli esseri viventi e dell’ambiente. Mentre al contrario il caos introdotto oggi nell’architettura è artificiale, privo di una sua ragion d’essere se non quella di voler scimmiottare in modo artificiale e cervellotico il caos ordinato della vita reale. Invece è stata l’acuta osservazione della natura a permettere a Gaudì di trascrivere l’ordine vitale della natura nelle sue opere, che nulla hanno in comune con l’astrattismo mortale di Gehry e degli altri suoi emuli. Conclusione Abbiamo oggi due sole cattedrali che sono state create in tempi recenti dalla fede: quella di Gaudì e quella di Gallego. Entrambe non sono state terminate ed in entrambe non si dice messa. Per entrambe la Chiesa ha dimostrato un annoiato disinteresse, pronto a tramutarsi in aperta ostilità. Uno stuolo di chiese e cattedrali moderniste, volute dall’ episcopato e contestate dai fedeli, sono state inaugurate in pompa magna ed ospitano i riti religiosi, anche se spesso prive degli essenziali simboli cristiani. Gaudì, Finca Güell, canne di ventilazione sul tetto della portineria Oggi si parla architettura usando parole, che per essere ad ogni costo diverse da quelle del passato, creano un linguaggio incomprensibile. Esattamente come fanno oggi i giovani, che, credendo di essere dei ribelli, si affannano a riempire tutte le pareti urbane con immagini e scritte incomprensibili, ma perfettamente allineate con i dettami del decostrutti56 vismo. Essi stessi stanno creando un linguaggio fatto di pochissime parole inventate, puerili, crudeli ed incomprensibili. Ripetono specularmente ciò che avviene in architettura. Con profeti come Bruno Zevi siamo precipitati nel baratro attuale. Con le loro parole prive di qualsiasi razionalità hanno cercato di dirci che stavamo andando incontro al mondo della ragione, del benessere distribuito secondo i meriti. Ma i meriti erano quelli che essi praticavano: l’irrazionalità partigiana di qualche cosca. E’ ora di avere il coraggio di guardare indietro. Anche se non abbiamo nessuna intenzione di coltivare qualche idea e qualche riflessione seria, dovremo farlo per forza perché siamo tutti disoccupati e non possiamo accampare la scusa che non abbiamo tempo per pensare perché dobbiamo lavorare. E’ arrivato il momento di pensare perché Gaudì ha costruito la grande chiesa dove è stato sepolto e dove l’unico rito religioso è stato quello del suo funerale, pensare perché Gallego con le sue mani sta erigendo una basilica che forse non verrà mai terminata, pensare perché la Chiesa ha fatto costruire chiese che sono un inno contro la fede, perché l'ipocrisia è la regola sovrana che presiede ai rapporti tra i singoli e tra le nazioni, pensare perché stiamo costruendo un mondo che in fondo sappiamo non arriverà mai alla meta che abbiamo sperato e che ci avevano promesso, pensare perché ci hanno vietato di voltarci indietro, pensare perché ci hanno detto che questo è il migliore dei mondi possibili mentre stiamo cancellando la vita dalla Terra Note 1) Roberto De Sanctis, “Antoni Gaudí y Cornet”, Archimagazine 2) Tommaso Carriero Antoni Gaudi', l'architetto di Dio, 4 Aprile 2007 http://www.confronto.it/index.php?option=com_content&task=view&id=344&Itemid=29 3) Marcello Veneziani “Le opere immortali sono morte. Di indifferenza” Il Giornale, 19 gennaio 2010 «… È la fama senza gloria, è la celebrità senza il carisma, il divismo senza la divina scintilla. A cui si associa la convinzione che non vi sia alcuna grandezza oggettiva e trascendente, ma tutto sia miserabile, reversibile, opinabile e in definitiva soggettivo e relativo. Dunque il classico o il capolavoro, che è opera assoluta, non può matematicamente emergere in un’era in cui la democrazia forse non si applica ai diritti e nemmeno agli averi ma si accanisce sulla qualità e sulle eccellenze. Il genio annega nel delirio narcisista dell’egocentrismo di massa, nell’invidia egualitaria, nel pari diritto al riconoscimento della genialità e nella congiura della mediocrità organizzata. Nella mediocrazia universale, nell’uguaglianza metafisica delle anime o della loro assenza, il genio è un’anomalia arcaica, frutto iniquo della diseguaglianza e cicatrice deformante della disparità. Il genio è pregiudicato e rinnegato. Funzione del critico e suo pubblico servizio è trascinare anche il genio e il capolavoro nella fossa comune della mediocrità: è inutile che vuoi sfuggire, neanche tu sei destinato a svettare e a restare... Nell’epoca della riproducibilità dell’opera, il capolavoro segnerebbe poi il collasso della macchina e la smentita della tecnica, provocherebbe il cortocircuito della produzione seriale nel primato dell’irriproducibile. … Un grande, poi, non può più sorgere perché abbiamo perso la capacità di mettere a frutto il dolore e la privazione, o all’opposto di sublimare il piacere e il desiderio. Oggi è più facile esaudire i nostri desideri e rimediare ai nostri difetti, sfamare i nostri appetiti, modificare i nostri limiti o anestetizzare i nostri dolori. Ci mancano dunque le virtuose disperazioni e le promettenti mancanze su cui si fonda la grande opera, quell’intreccio faticoso di sofferen57 ze provate e di soddisfazioni negate su cui cresce il sogno di una vita ulteriore, che poi si riversa nel capolavoro…. Infine, se oggi nascesse un grande o se vedesse la luce un capolavoro, non sarebbe nemmeno riconosciuto. Nella migliore delle ipotesi sarebbe considerato un frutto di stagione di cui cibarsi e poi dimenticare nella collezione incessante delle mode. Nella più frequente delle ipotesi passerebbe inosservato o sarebbe scoraggiato in partenza, non troverebbe approdi e habitat favorevoli né attenzioni e riconoscimenti. Per salvarsi dall’autismo e dalla solitudine, il genio con il suo capolavoro cercherebbe anzi di nascondere il segno della diversità, curerebbe la genialità come una malattia per farsi accettare dal suo tempo e dal suo prossimo. Patirebbe la sua eccellenza come infermità, imperdonabile difformità, e sarebbe istigato a rimuoverla per adeguarsi e farsi integrare. Per le consorterie letterarie e ideologiche l’eccellenza è ingombrante e perciò condannata all’inesistenza. …. Ma se i geni solitamente sono incompresi, frustrati e sommersi, non tutti gli incompresi, i frustrati e i sommersi sono geni. Per questa rete di ragioni non è possibile che nasca e cresca oggi un grande o un capolavoro, o che sia riconosciuto come tale. Né egli può sperare nella sua morte e confidare nei posteri, perché sarà difficile che qualcuno si applichi a rintracciare nel passato tracce occulte di grandezza, se deve affrettarsi a vivere per non perdere l’assoluta pienezza del presente. Il gigantismo della memoria e l’archiviazione universale paradossalmente favoriscono l’oblio cosmico e scoraggiano la memoria selettiva. Il capolavoro annega nel catalogo generale.….. Sarà così per sempre? Non si può dire. Al futuro non possiamo negare a priori le novità rispetto al presente o i ritorni rispetto al passato. Ma nel frattempo tutto è permesso eccetto la grandezza. Nel libero consesso degli uguali, il genio è vietato, il capolavoro è proibito. 4) Paul Johnson, “Il Rinascimento”, 2001 RCS Libri, Milano 5) Ettore Mo: “La leggenda del santo muratore che si costruisce una cattedrale da solo REPORTAGE. I sognatori della pace”, 13 agosto 2000 - Corriere della Sera 6) Bruno Zevi, Introduzione: Congresso di Modena 19/09/1997 «… Questo convegno di Modena è stato indetto per annunciare al mondo che, dopo 73 anni, l'architettura del futuro profetizzata da Wright è divenuta l'architettura del presente. Abbiamo vinto una battaglia millenaria. Dopo il primo “grado zero” dell'età informale delle caverne. il secondo dell'età temporalizzata delle catacombe, il terzo dell'età decostruita e frammentata dell’Alto Medioevo ….. siamo giunti alla stagione moderna del “grado zero” della scrittura architettonica, che non teme confronti, compromessi o regressi. Oramai siamo collaudati. sappiamo cosa e come fare.…. Quando si suicidò Borromini, nel 1667, analogo rituale: era sommo, sublime, sebbene un po’ svoltato di cervello, portiamolo in trionfo e poi dimentichiamolo al più presto. Lo stesso si è tentato di fare con Frank Lloyd Wright: in un primo tempo, l'International Style lo ha tacciato di romanticismo ottocentesco, inclinazione rurale inadatta alla civiltà industriale, e di individualismo contrario allo standard collettivo; più tardi, il lurido PostModern ha fatto di tutto per assimilarlo cancellandone l'identità e la memoria. Questa volta, però, l'esecrabile gioco non è riuscito. E’ bastata la presenza di cinquanta architetti e critici di tutto nel mondo, forse meno, per impedire il crimine e lo spreco inaudito. …. Ma trentotto anni dopo il 1959, cioè nel 1971, Wright è rimasto illeso nella sua incalcolabile statura creativa, e la sua pressante ispirazione ha spinto la scrittura architettonica anche più avanti di lui, nel senso che ha affiancato, integrato e sostenuto la sua poesia con una prosa articolata, variegata, poli direzionata, versatile come quella di Pietilä, Utzon, Renaudie, Behnisch, Hecker, Libeskind, Gehry e altri, cui va ascritto questo grandissimo merito: hanno strutturato un linguaggio che consente lo scambio intenso e fluido tra il messaggio irripetibile del genio e gli apporti democratici e popola58 ri. Il tramonto del secolo assiste così al trionfo del Movimento Moderno e dell'architettura tout court. Il ciclo del manierismo, persistente dal 1527 a ieri sera, è finalmente esaurito. Non abbiamo più il bisogno di mimare il classicismo per insultarlo e distruggerlo; non servono più le mode pendolari tra l'umanesimo e romanticismo, tra regole e deroghe. Quanto è accaduto nell'ultimo decennio ha persino rovesciato la prospettiva storica. Prima, valevano le norme dottrinarie, punteggiate dalle eresie di rari, autentici spiriti creativi. Oggi, la storia ci appare innervata da gesti creativi che rendono idoli, dogmi, canoni armonici, tabù proporzionali, vitelli d'oro simmetrici non solo obsoleti, ma anche ridicoli. Il fronte della rivoluzione, della modernità ha prevalso. A questo punto, scruto nel vostro e nel mio animo un’obiezione: ammesso che quanto si è detto sia vero, per quanta gente lo è? Per cinquanta architetti, per cento? E gli altri, come possono captare col cervello e con lo stomaco la scrittura di grado zero? Come estendere tutte le conquiste dell'avanguardia? Una risposta la fornisce Roland Barthes, il teorico del “grado zero", che precisa: "Nello sforzo di liberazione dal linguaggio letterario, ecco un'altra soluzione: creare una scrittura bianca, svincolata da ogni servitù ... La scrittura di grado zero è in fondo una scrittura indicativa, se si vuole amodale ... si tratta di superare la Letteratura (con la L maiuscola) affidandosi ad una lingua basica ... Allora lo strumento non è più al servizio di un'ideologia... è la maniera di esistere del silenzio ... " Se la scrittura è veramente neutra, l'architettura del potere, classica, autoritaria, accademica, postmoderna, è vinta. Certo gli atti della rottura linguistica, i gesti veramente eversivi si trasmettono con estrema difficoltà. ….. Nel giugno scorso, parlando a Parigi nella sede dell’UNESCO, mi sono accorto che molti pregiudizi di Giedion persistono: pochissimi in Francia amano Gaudì, Háring, Mendelshon e Scharoun. …. Non c'è scampo: se si vogliono salvare i valori, come siamo riusciti a fare con Wright, bisogna proclamarli senza timidezza e senza stancarsi. Ho accennato alle sfortune critiche di Brunelleschi, Michelangiolo e Borromini, poi a quelle di Gaudì, Mendelsohn e Scharoun. …. Dieci anni fa, nell'atmosfera puteolenta del PostModern, nessuno poteva credere a un rilancio vigoroso ed esplosivo della modernità, quale si è verificato nel 1988 con la mostra del decostruttivismo a New York. Nessuno, salvo cinquanta architetti e critici decisi a non mollare. E' sbalorditivo anche per chi ne è stato uno dei protagonisti: questo convegno sancisce una vittoria epocale, la sconfitta della viltà accademica, scolastica, classicista e/o postmoderna. Si riapre, dopo oltre un millennio, il binomio perfetto/imperfetto, che risale alla preistoria e precisamente alla civiltà nuragica, la quale esclude un habitat geometrizzato, armonico, simmetrico, chiuso aprioristicamente nel proprio assetto. La vita nelle grotte e negli insediamenti nomadici aveva insegnato lo splendore dell'irregolarità, della contaminazione, delle luci intercettate e riflesse in mille tagli arcani. Il mondo sardo non vuole disperdere questi valori: perciò il suo disegno non è precostituito. ma scandito da successive aggregazioni, dettate dal gusto per la linea curva. Linguaggio "casual", quello nuragico, alieno dalla rifinitura e dal compiuto, aderente all'impulso del momento, a un metodo di frantumare corrispondente all'etica che dissocia l'abitato dai microcosmi. Dopo il 238 a.C., con l'occupazione romana della Sardegna, il valore del disordine e dell'imperfetto è stato costantemente censurato nell'edilizia ufficiale, per essere riscoperto solo alla fine degli anni Ottanta, quando ¡ decostruttivisti rivendicarono il diritto degli architetti di non aspirare più al puro, all'immacolato, al perfetto, per cercare la creatività nel disagio, nell'incertezza, nel disturbato, Un valore linguistico rinato, di straordinaria portata. Di fronte al perfezionismo dei templi ellenici e delle colonne filmate romane, alle frustranti teorie ideali del Rinascimento e al rigore cartesiano dei razionalisti, il contributo di Pietilä, Libeskind, Koolhaas e soprattutto Gehry è consistito nel completare il mito millenario della perfezione con la forza e l'irruenza dell'imperfetto. La poetica dell'imperfetto ricupera il brutto, i rifiuti, il trasandato, gli stracci e i sacchi di Burri, il paesaggio derelitto, il cheapscape. E dall'architettura si propaga nei comportamenti e nella moda. Quando, negli 59 ultimi mesi, è stata annunciata la moda maschile dell'imperfetto, abbiamo segnato un altro goal; non già seguendo la moda ma determinando indirettamente il gusto degli stilisti. ……… Oggi la prospettiva storica e invertita, l'espressionismo occupa l'intero secolo sfociando in quell' "actionarchitecture” che qualifica anche il nostro operare. Abbiamo tre stagioni dell'espressionismo. La prima, pionieristica, dominata dal genio di Anton Gaudì. La seconda, storica, impersonata da Bruno Taut, Mendelshon, Haaring, Finsterlin e Scharoun, con apporti di Poelzig, Behrens, Gropius e Mies. L'espressionismo non muore nel 1924, entra in letargo per risvegliarsi nei tardi anni Trenta, in funzione di critica e superamento dell'International Style. Alvar Aalto, nel padiglione finlandese di New York 1939, riapre clamorosamente i temi dell'espressionismo e li conferma nell'impianto ondulato e ascendente dei dormitori studenteschi del MIT a Cambridge, Mass. Ma è Le Corbusier che, nell'urlo blasfemo di Ronchamp, fracassa principi, grammatica e sintassi razionalisti. Con una generosità che non ha riscontro nella storia, smentisce se stesso, le teorie elaborate dal 1921, i pilotis come il tettogiardíno, la griglia e il Modulor, lacera norme e codici senza sostituirli, lasciando attoniti e smarriti i suoi discepoli, Niemeyer, Candilis, Wogenscky e migliaia di seguaci nel mondo. Il terremoto informale ed espressionista di Ronchamp, reiterato nel padiglione Philips di Bruxelles 1958 e non mai sedato, è riesploso a intermittenze, nel TWA Terminal di Eero Saarinen a New York, nella Endless House di Kiesler, nei lavori di P¡etilae, Utzon, Renaudíe, Micheluccí, Ricci e D'Olivo, nel "brutalismo" inglese e in quello di Viganò, in mille rivoli ed episodi degli anni Sessanta e Settanta. Nei primi anni Settanta sono formulate le “sette invarianti” del linguaggio moderno. Respinte dall'accademia, vengono largamente applicate dalla professione. Rovesciano la prospettiva. Prima, il linguaggio architettonico si basava su regole, ordini, paradigmi, codici, da cui eccettuavano gli atti creativi, generatori di nuove parole e sistemi di comunicazioni. Adesso, norme, precetti, tabù sono gettati nell’immondizia, le "invarianti" sono antiprescrittive, riguardano le deroghe, i No al programma edilizio fissato a priori, alla simmetria e all'assonanza, alla tridimensionalítà da un punto di vista privilegiato, alle scatole chiuse e isolate, alle strutture tradizionali, allo spazio statico, contemplato e non vissuto, alla discontinuità tra edificio, città e paesaggio. Le "sette invarianti” scaturiscono da precise esperienze: di Wíllíam Morris (Elenco dei contenuti e delle funzioni), dell'Art Nouveau e del Bauhaus (asimmetria e dissonanze), dell'espressionismo di Gaudì, MendeIsohn e Scharoun (tridimensionalità antiprospettica), del movimento De St¡il di Theo van Doesburg (scomposizione quadridimensionale), delle strutture in aggetto, a guscio e membrana dell’ingegneria più avanzata, del genio di Write (spazio temporalizzato), delle moderne acquisizioni urbanistiche (continuum territoriale). Alla fine degli anni Settanta eravamo alla vigilia di una stagione di "grado zero", di quell' "architettura d'azione" che sgorga dagli eventi e non dalla loro rappresentazione. Il processo fu bloccato dal dilagante rigurgito PostModem, estremo tentativo di fermare il corso della modernità. Quasi dieci anni perduti tra evasioni e cinismi, luridume ideologico e imbrogli storicocritici. E' per questo che il decostruttivismo del 1988 ha assunto una straordinaria importanza: nel giro di ventiquattro ore, ha liquidato il Post Modern, recuperando le conquiste del primo e secondo espressionismo, da Gaudì a Bruce Goff, e inaugurandone la terza stagione. Il percorso del secolo si conclude in modo inaspettato, splendido. Eravamo un'infima minoranza di individui isolati. Oggi guidiamo la maggioranza vincente. Quando Frank Gehry è scelto per costruire il Guggenheim di Bilbao, quando Daniel Libeskind vince il concorso indetto dal Victoria & Albert Museum con un progetto strabiliante, non abbiamo più il diritto di recitare la parte degli sconfitti e dei rassegnati. Le vittorie di Hecker, Koolhaas, Eisen60 man e altri non riguardano solo gli autori dei progetti, ma le giurie, i committenti, I'opinione pubblica che approva verdetti una volta giudicati scandalosi. Ormai non ci sono alibi: se in Italia questo non avviene, è perché gli architetti non ci sanno fare. Wright resta il genio sovrastante le tre stagioni dell'espressionismo, ma i decostruttivisti si sono liberati dal suo paternalismo rivendicando la vocazione all’impuro, al contaminato, all’angosciato, all'imperfetto nuragico, insomma a una scrittura democratica, "bianca”, amodale, basica, applicabile da parte di tutti. Una scrittura antiautoritaria, antitetica a quella del potere. Procediamo. Il discorso nuragico dell'imperfetto ci porta a un altro spettro di quella civiltà: l'impulso antiurbano, testimoniato da settemila unità turrite sparse nell'isola. CittàTerritorio a vastissima scala, in un certo senso reinventata da Wright nel progetto di Broadacre City. Approdiamo così al tema della paesaggistica, sul quale non intendo trattenermi a lungo, in quanto vi sono altri che possono farlo meglio di me. Urbanistica = Mondrian. Paesaggistica = Pollock. Se gli architetti avessero registrato il significato dell'espressionismo astratto americano, avrebbero evitato di sprecare qualche anno. Non solo lo zoning, ma tutta la metodologia del piano urbanistico è in crisi, poiché l'architettura di "grado zero" preme, batte infuriata, chiede e pretende libertà, non sopporta più di essere incasellata, coartata, stretta entro confini, determinata dal di fuori. Già cinquant'anni fa, nel 1947, Giuseppe Samonà muoveva all'urbanistica l'accusa di fermarsi a indirizzare traffici, anelli di circolazione e arroccamento, spazi verdi e lottizzazioni, dimenticando gli edifici, la casa che, scriveva, "sarà quel volume che sarà, alto, lungo e profondo come prescritto nel regolamento, ove la casa è niente altro che un profilo, un fantasma di casa". Samonà denunciava una frattura tra il piano organico e il suo nucleo fondamentale" dato dalle case che, a rigor di termini avrebbero dovuto formare materia a priori di analisi". E insisteva: si cade nell'errore che vincoli pregiudiziali "condannino le case entro una trama antiumana, che darà aspetto antiumano al paesaggio di case costituito come ambiente per l'uomo moderno"; o, peggio, condannerà gli organismi di quelle case a "vizi di sostanza che li rendono antiumani". Le proteste contro la struttura attuale della disciplina urbanistica si moltiplicano in migliaia di libri, saggi e congressi. il piano s'illude di governare l'ambiente, ma in effetti è travolto perché svincolato da previsioni architettoniche di qualità. Nasce così spontanea la tendenza impersonata dall'espressionismo, di liquidare il piano urbanistico restituendo piena libertà all'edilizia. Tanto più in considerazione del fatto che, da Bomarzo a Disneyland, le licenze individualistiche e capricciose non hanno causato danni paragonabili a quelli degli ordini astratti, degli standard e delle norme generali. ….. Se finora, per convenzione teorica, l'urbanistica ha preceduto l'architettura, adesso dobbiamo invertire la sequenza, affinché gli assetti territoriali scaturiscano dal basso, democraticamente, senza più distinzioni conflittuali tra esigenze collettive e private, senza fughe evasive nelle nozioni di luogo e contesto. …….. Tra gli altri sprechi elenco telegraficamente: · Jackson Pollock. Senza la tecnica del dripping, delle scolature, è arduo rappresentare un paesaggistica fluida; · la Pop Art, che ha incentivato la comprensione della cacofonia urbana, colmando la separazione, come disse Rauschenberg, tra arte e vita; · l'architettura dei paesaggi derelitti, barriadas, favelas, bidonvilles, baracche, slums e via dicendo, l'universo respinto dalla cultura ufficiale; l'edilizia anonima, dialettale, vernacolare e gergale. l'architettura senza architetti di Bernard Rudofsky; · l'advocacy planning, pronta a difendere e rivalutare le sottoculture urbane e territoriali; · infine l'actionarchitecture che, abbiamo già detto, come l'espressionismo astratto, nasce sugli eventi e non sulla loro rappresentazione. Tutti questi valori vanno recuperati, reinterpretati e aggiornati, rilanciati in nuove versioni se vogliamo che la paesaggistica graffi e non sia solo consolatoria. L’unico tentativo valido di superare la Carta di Atene del 1933 è stato la Carta del Machu Pícchu del 1977, snobbata da tutti i professori di urbanistica e da quasi tutti gli urbanisti, ma riscattata l'anno scorso in un congresso dell’Unione Internazionale Architetti. Cari amici, dichiaro aperto il convegno di Modena. …. La finalità è chiaramente politica. I convegni 61 si fanno per modificare la situazione politica, o non si fanno. Se indugiamo su temi estetici, linguistici, espressivi è perché l'arte anticipa e prefigura il panorama sociale, e noi dobbiamo essere culturalmente ferratissimi per lottare efficacemente sul terreno politico. Su questo terreno, in Italia siamo davvero non al grado ma all'anno zero. Continua a mancare una classe dirigente conscia dei drammi e delle sfide del territorio, appassionati di letteratura, di pittura, di musica, di sport, ma nessuno appassionato di architettura come sono stati in Francia un Pompidou o un Mitterand. Tanto per fare nomi, l'on. Veltroni, ministro dei beni culturali, di tutto si occupa, di musei e di danze del ventre, ma non di architettura. Purtroppo si occupò dell’Ara Pacis … E' nostro compito mobilitarci per mutare questa incredibile arretratezza rispetto al mondo. Abbiamo motivo di nutrire fiducia, perché, grazie soprattutto al governo Prodi, siamo in Europa e possiamo agire a livello europeo per colmare le lacune italiche. Nell'immediato dopoguerra, l'APAO (Associazione per l'architettura Organica) vinse battaglie fondamentali: …., quella del rinnovamento dell'Istítuto Nazionale di Urbanistica poi presieduto da Adriano Olivetti, quelle di una significativa presenza nei programmi dell'INA CASA e dell'UNRRA Casas, e nell'insegnamento universitario. Nell'APAO eravamo in pochi, ma dietro di noi, spiravano il vento e il profumo del Partito d'Azione e nuclei comunisti e cattolici decisi a non farsi burocratizzare. Nel 1959 nacque l'InArch che, per trentotto anni, ha tenuto viva la cultura architettonica…. Quando ai Lavori Pubblici c'era un leader come Fiorentino Sullo, con Ugo La Malfa ministro della Programmazione, la Conferenza Nazionale dell'Edilizia gestita dall'InArch maturò una strategia di interventi che dovremmo riesaminare e aggiornare. Le conquiste culturali ~ paesaggistica e “grado zero" del linguaggio architettonico ~ coincidono con la ripresa dell'attività edilizia programmata dal governo. Siamo alla vigilia di un periodo di prosperità professionale e dobbiamo essere pronti a gestirlo calamitando gli industriali e gli imprenditori più illuminati, le forze sindacali più disponibili al nuovo, gli uomini politici determinati a creare una classe dirigente di livello europeo. Noi chiediamo: · una legge quadro sull'architettura, almeno pari a quelle vigenti in Francia e nei più avanzati paesi europei; …. un radicale ripensamento delle funzioni delle Soprintendenze, monarchie assolute capaci di rovinare capolavori come il Palazzo dei Diamanti di Ferrara, ….; una presa di coscienza dei temi ambientali, architettonici e territoriali da parte del Ministero dei Beni Culturali e degli enti locali, regioni province e comuni, la cui attività vedi il caso di Roma è caratterizzata dalla mancanza di fantasia, dell'inabilità a creare una visione globale, un'immagine del futuro della capitale; un riesame della pedonalizzazione indiscriminata dei centri storici all'esclusione di interventi moderni nei loro tessuti. Chiediamo tutto questo e siamo convinti di poterlo ottenere. Lungi da noi, dopo la tragica esperienza dei paesi dell'est e l'ambigua politica dei comunisti, identificare la sinistra con la cultura, ma è certo che la presenza della sinistra al governo offre spunti e incentivi nuovi, che dobbiamo utilizzare.» Si veda anche: Bruno Zevi: «IL LINGUAGGIO MODERNO DELL’ARCHITETTURA – Guida al codice anticlassico» (1973 – Einaudi, quarta edizione) 7) Raffaele Giovanelli: CRITICA AI FONDAMENTI DELL’ARCHITETTURA MODERNA – 2008 http://www.lacrimaererum.it/documents/CRITICAAIFONDAMENTIARCHITETTURAMODERNA.pdf 62 Il Rinascimento sconfisse il gotico Il modernismo vuole cancellare tutto il passato Ci sono monumenti che portano le tracce di antichi conflitti dimenticati. E’ il caso del Santuario di Santa Maria delle Grazie (1) nei pressi di Arezzo. Nel luogo dove oggi sorge la chiesa esisteva un santuario pagano con una fonte che nel periodo etrusco-romano era consacrata ad Apollo, mentre nell'alto Medioevo la fonte era ancora venerata ed era detta Fonte Tecta. Nel 1425, San Bernardino tentò inutilmente di farla distruggere. Cacciato dalla città di Arezzo, egli vi tornò nel 1428 riuscendo però questa volta nello scopo e facendo costruire al posto della fonte un oratorio. Intorno al 1490 fu addossato alla facciata il portico progettato da Benedetto da Maiano. Quindi la piccola chiesa gotica, terminata nel 1431, già nel 1490, dopo appena sessant’anni, secondo i tradizionalisti dell’epoca sarebbe stata “deturpata” con un’aggiunta posticcia nel più puro stile rinascimentale, costruendo contro l’umile facciata gotica un brillante porticato dai toni che si potrebbero definire frivoli. Un vero insulto alla fede cristiana, che San Bernardino aveva cercato di far trionfare con la distruzione della fonte di antica tradizione pagana. Per chi è contro il cristianesimo questo porticato potrebbe essere considerato una vendetta del paganesimo, una vendetta condotta con l’impiego dell’architettura. Eppure si può dire che l’architettura del Rinascimento iniziò la sua diffusione partendo da questo splendido porticato, costruito davanti alla facciata di una umilissima chiesetta gotica. Il terribile scisma dei protestanti sarebbe seguito anche da questo apparente innocente sgarbo architettonico. Era il 1490 e il Rinascimento era già arrivato nei sobborghi della nobile e fiera città di Arezzo, dove si corre il palio contro il saracino. Nel Nord Europa le immense cattedrali gotiche cantavano, altere, le lodi all’Altissimo. Tra il gotico e il Rinascimento c’era un’ostilità che vediamo concretamente in questa piccola chiesa di Arezzo. In seguito molti religiosi tedeschi sarebbero inorriditi nel vedere sorgere a Roma, anche con i loro soldi, immense cattedrali molto simili alle basiliche della Roma pagana, basiliche e monumenti che in quegli anni erano ancora in piedi. Sarebbero inorriditi anche per altre 63 faccenduole come l’incessante andirivieni di donne dai facili costumi negli appartamenti del Vaticano o, peggio, per il commercio del sacro in tutti i suoi aspetti. Distrattamente sarebbero arrivate poi le bande dei lanzichenecchi a svillaneggiare i cardinali che sostenevano tanta iniquità. Secondo Titus Burckhardt il cristianesimo si è rivelato in seno a un mondo caotico e profano: “risplendeva nelle tenebre” e non poté mai trasformare completamente l’ambiente in cui si diffuse (2). Per tale ragione l’arte cristiana è stranamente discontinua nel suo stile e nella qualità spirituale. Il pensiero cristiano esigeva un’arte figurativa. Il cristianesimo non poté prescindere dall’eredità artistica dell’antichità classica. Assumendola, incorporò taluni germi di naturalismo, nel senso antispirituale del termine, e, nonostante il lungo processo di assimilazione subìto da quella eredità nel corso dei secoli, il suo latente naturalismo non mancò di riemergere ogni volta che la coscienza spirituale declinava; e questo molto tempo prima del Rinascimento, che ruppe definitivamente con la tradizione. Lo stesso si può dire per i germi del razionalismo filosofico che si infiltrò nel pensiero cristiano (si veda il ruolo svolto dal pensiero di Hegel (3)). Il mondo cristiano ha sempre conosciuto, accanto ad un’arte sacra, un’arte religiosa dalle forme più o meno mondane. L’arte di ispirazione autenticamente cristiana deriva dalle immagini, di origine miracolosa, del Cristo e della Vergine (la Sacra Sindone – il Mandylion a Edessa, e il ritratto di Maria fatto da San. Luca). Essa si accompagna alle tradizioni artigianali, che sono cristiane per adozione, ma che hanno assunto nel cristianesimo un carattere sacro. Soltanto le due correnti dell’arte tradizionale delle icone e dell’artigianato tradizionale, legato anche alle scoperte fatte nei monasteri, meritano nella civiltà cristiana la denominazione di arte sacra. Nei primi secoli del cristianesimo ci fu una resistenza verso l’arte figurativa, per l’influsso giudaico e insieme per il contrasto con il paganesimo antico. Per Burckhardt, che ha una visione calvinista protestante, il Rinascimento non avrebbe creato mai una vera architettura sacra. L’architettura sacra aveva una grande influenza sulla fede. Cinque o sei secoli prima il cristianesimo di Bisanzio si era diffuso in Bulgaria ed in Russia grazie al fascino ed alla magnificenza delle sue chiese e dei suoi riti. 64 Un capitello del colonnato di Benedetto da Maiano. Francesco d’Assisi Francesco d’Assisi aveva dato una nuova visione del cristianesimo. Aveva restituito una visione “cosmica” dove tutta intera la natura canta le lodi a Dio. Quindi si poteva tornare alle forme del paganesimo senza esserne contaminati. 65 Particolare costruttivo evidenziato per il recente restauro. Dalle chiese scomparivano i demoni e tornavano foglie, fiori ed immagini di santi che sembravano statue greche. I francescani senza saperlo fecero uno scisma dal cristianesimo di Cluny. Quando la Rivoluzione francese trasformò la grande ed antica abbazia di Cluny in una cava di pietre e di mattoni a Roma nessuno se ne accorse. L’Architettura aveva un ruolo sociale, politico e religioso enorme. Immense fortune venivano sacrificate per erigere le chiese più maestose e più belle. Grandi abati e uomini di Chiesa affidarono la loro car- 66 riera ed il loro successo personale all’onore che riverberava dalla costruzione di quelle cattedrali. Lo scisma protestante e, successivamente, la Controriforma si tradussero in altrettanti stili architettonici per l’arte sacra. Partendo da questo porticato, capolavoro dell’architettura rinascimentale, si possono svolgere riflessioni utili per chiarire il significato ed il ruolo dell’architettura oggi. I modernisti potrebbero dire: “ecco vedete, quando venne costruito il porticato di Benedetto da Maiano per alcuni si trattava di un insulto alla fede ed alle sue tradizioni, qualche anno dopo è stato considerato un capolavoro della nuova architettura ed accettato dalla Chiesa. Così sarà con gli edifici modernisti che voi tanto condannate, come ad esempio la pensilina davanti agli Uffizi a Firenze, oppure il museo dell’Ara Pacis di Meier a Roma. Per 67 completare il quadro possiamo ricordare che la Chiesa già da alcuni anni ha accettato l’international style”. Il ragionamento è semplice e si è tentati di accettarlo. In realtà se si approfondisce l’ argomento se ne scoprono i punti deboli. Del Museo dell’Ara Pacis si è parlato anche troppo. Il nuovo sindaco di Roma Alemanno, smentendo tutte le promesse fatte in campagna elettorale, non ha neppure proposto un referendum per chiedere il parere dei romani se demolirlo. Ma questo certamente non modifica le critiche di fondo che sono state già avanzate da molte parti. Per la pensilina davanti agli Uffizi di Firenze (architetto Isozaki) si sono avanzate critiche da parte di moltissimi fiorentini, ma ci sono anche molti sostenitori, a cominciare dal sindaco, che pare non abbiano ben capito che non si tratta solo di una questione di estetica. C’è ben altro. Ecco la pensilina. Rispetta le poche assurde regole dell’architettura moderna: assenza di simmetria, ricerca della disarmonia, anche assenza della funzionalità, infatti essendo molto alta non ripara i visitatori in attesa né dal sole né dalla pioggia. Ma Isozaki ha voluto strafare perché ha aggiunto la contraffazione dei materiali. Infatti la struttura in acciaio è stata mascherata da una ricopertura in lastre di pietra serena. Secondo lo spirito dell’ architettura attuale l’opera è fine a se stessa e il suo fine è la distruzione di tutta l’altra architettura, anche quella del recente passato. Si può tentare un confronto proprio tra la pensilina di Isozaki e il colonnato di Benedetto da Maiano, che venne costruito agli inizi di una nuova stagione, mentre oggi, dopo cinque secoli, di quella stagione siamo alla fine. Abbiamo lottato per dominare la natura per ottenere una vita materialmente migliore e la tecnica oggi ce lo consente. Ma poi? Ed ora siamo al poi. Siamo condannati a non poter più prefigurarci la bellezza, la bellezza che è il riflesso di Dio. Questa attesa nascosta di ogni uomo oggi ci è negata; il male ha ridicolizzato se stesso ma si è impadronito dell’arte da cui ora ci sbeffeggia, con il tradimento dell’arte contro l’aspirazione alla bellezza. Queste sono le conseguenze se si accetta la pensilina proposta dall’ignaro Isozaki. 68 Del porticato di Benedetto da Maiano invece si può dire che non se ne parla affatto, ma almeno in questo articolo se ne possono vedere immagini inedite. Del porticato, restaurato pochi anni fa, è stato possibile ottenere dal Comune di Arezzo i disegni tra i quali è interessante la sezione che mostra il particolare della sistemazione del bordo esterno del tetto. La struttura è molto esile ma, nonostante le deformazioni subite è rimasta in piedi. E’ utile leggere la descrizione tecnica accurata che ci ha lasciato il Vasari (4). Come si vede si tratta di una struttura stabile a dispetto della sua leggerezza. Ma quello che stupisce è la sua straordinaria bellezza. Per realizzare il porticato sono stati impiegati elementi architettonici tratti dall’architettura romana: colonne, capitelli, archi, cornicioni scolpiti, tutto già noto. Ma nuove sono le proporzioni e la tecnica costruttiva. Dalle proporzioni nasce la bellezza. E’ assurdo inseguire ad ogni costo il nuovo totale come si pretende di fare oggi. Si possono realizzare opere di grande bellezza anche con elementi che si richiamano al passato. La gioia scaturisce dalle “divine proporzioni” che prefigurano un mondo di domani attingendo dal passato. Tutto il futuro si trasforma in passato ed è follia creare un mondo che per fondarsi sul futuro distrugge il passato. Questo porticato è un inno alla gioia, che nasce dal ricordo di una gioia antica che ora si riscopre. Il modernismo ha creato una trappola, una situazione senza uscita con la proibizione di richiamare forme del passato. Torniamo ai soliti argomenti L’architettura moderna nasce con il rifiuto dell’ornato e con la forma che dovrebbe corrispondere al soddisfacimento delle funzioni (materiali). Quando l’architettura fece, molto presto, il salto con l’abbandono della funzionalità, nacque la mistica di forme astratte, indipendenti anche dalla razionalità. E’ nata la mistica dei “grandi” architetti, personaggi mitizzati da un meccanismo mediatico globale, che non riesce a riscuotere il favore del pubblico. Un meccanismo che agisce principalmente su sindaci e assessori con il miraggio di venire proiettati sulla scena della fama globalizzata. Il tono del preteso nuovo è sempre assoluto, perentorio e non abbisognevole di giustificazioni razionali. Un esempio tipico è rappresentato da questa affermazione di Zevi riguardo alla simmetria: «La simmetria è un invariante del classicismo. Dunque l’asimmetria lo è del linguaggio moderno. Estirpare il fenomeno della simmetria significa percorrere un lungo tratto della strada che conduce all’architettura contemporanea. Simmetria = spreco economico + cinismo intellettuale». L'impossibilità di comunicare tra le classi sociali è resa drammatica dalla scomparsa della vera arte (5). Un tempo il ricco, diciamo il principe (che riuniva la figura del critico e del mecenate), si circondava di lusso e di cose splendide che erano offerte all'ammirazione di tutti e tutti erano riconoscenti al principe per aver saputo scegliere gli artisti che avevano abbellito le chiese, i palazzi, le vie, le piazze e le città, dove il povero viveva dignitosamente perché salvaguardato da una serie di regole. La miseria esplose in Francia dopo la Rivoluzione, quando terminarono le guerre napoleoniche e le popolazioni delle campagne vennero costrette ad emigrare nelle città per garantire manodopera a basso costo alla nascente industria e non vennero ripristinate le forme di assistenza garantite dagli ordini religiosi. Bisognerà attendere la nascita e il successo del socialismo per vedere le prime forme di assistenza sociale pagata dallo Stato. Prima della Rivoluzione esistevano le corporazioni che garantivano la stabilità e i diritti dei lavoratori in una società statica. Oggi tutti debbono correre per il successo, tutti debbono dare fondo a tutte le loro risorse per arrivare alla ricchezza, che poi deve essere difesa giorno per giorno e che ben difficilmente può essere trasmessa agli eredi. Ma oggi non si raggiunge la ricchezza con la capacità di saper fare, con l'ingegno messo nel realizzare cose utili e cose belle, come accadeva durante la rivoluzione industriale. Nella società post-industriale la ricchezza si raggiunge entrando nell'universo chiuso ed autoreferente della finanza, un modo elegante per dire che si raffina la capacità di sfruttare 69 il lavoro produttivo svolto da lavoratori sempre meno pagati sparsi per il mondo, saccheggiando la tecnica avuta da studiosi e progettisti, ai quali si vorrebbe poi negare la pensione. Oggi, chi si crede un artista cerca di entrare nel mondo chiuso dell'arte e della critica dell'arte, un altro universo autoreferente che partorisce schifezze dichiarate capolavori, accreditati come tali da una schiera compatta di critici che ignorano apertamente il parere ed i sentimenti della gente. Il ricco è condannato all'ignoranza, a non poter esprimere idee, concetti alti. Deve comportarsi come un povero ignorante diventato ricco, che si abboffa di ogni cosa, dal gusto incerto, ma sono cose che vengono vendute attraverso canali esclusivi. Blondet in un suo interessante articolo parla di David Leonhardt, famoso opinionista finanziario del New York Times, che dice: ora, l'economia funziona senza le masse operaie né la classe media. Sono i ricchi che la fanno «girare». Il resto dell'umanità non serve più al capitalismo. Leonhardt ammette che le paghe dei lavoratori comuni, l'80 % della popolazione attiva, sono calate negli ultimi quattro anni in termini reali (depurate cioè dall'inflazione). Eppure, questo impoverimento generale non ha impedito all'economia USA di crescere di più del 3 % l'anno; risultati «stellari», per Leonhardt. Negli ultimi anni, «sono state le famiglie ad altissimo reddito, diciamo il 20% della popolazione», a far continuare la crescita economica, guadagnando e consumando sempre di più. Ma consumando cosa? Possono consumare solo ciò che offre il mercato nella classe più alta dei generi di consumo e dei servizi. Tutte cose che generano invidia e non ammirazione e rispetto, tutte cose che impiegano sempre meno addetti, pagati sempre meno, quindi contraendo i consumi a livello medio-basso, in tal modo si riducono anche le entrate di certi super-ricchi, che si sono attardati impegnando capitali nell’industria manufatturiera. Progressivamente la contrazione dei redditi si estenderà anche ai guadagni speculativi. Vista frontale della pensilina inserita nel lato degli Uffizi 70 Vista laterale degli Uffizi Vista prospettica della pensilina di Isozaki 71 La conclusione è che non è possibile inserire lo “stile moderno” in un contesto antico a causa delle origini di questo stile, fondato su principi che sono opposti a quelli che hanno ispirato tutti gli stili antecedenti. Non ci si deve stupire dell’impossibilità di creare questi accostamenti. Gli stili del passato volevano dare la sensazione della bellezza per dare felicità a chi guarda e a chi ci vive dentro. Gli americani hanno persino dimenticato il diritto di ogni uomo a cercare di raggiungere la propria felicità. Hanno scelto questo stile come strumento di esibizione del loro potere e di quella che credono essere la loro civiltà. La proposta di accostamento è così sfrontata ed assurda che riesce persino difficile trovare le parole adatte per replicare. Conseguenze del modernismo (international style) La pensilina di Isozaki è talmente assurda e brutta che lascia senza parole. E’ persino difficile pensare come sia stato possibile che una commissione a suo tempo l’abbia giudicata degna del primo premio per il concorso. E’ impossibile poi comprendere come molti personaggi della sinistra non privi di cultura, come Veltroni, l’abbiano sostenuta e ne abbiano fatto una bandiera della loro parte politica. Quando, dopo la guerra, gli americani si prepararono a colonizzare il mondo ebbero il problema di adottare simboli ed immagini simboliche che rappresentassero il loro potere. Ci furono alcune immagini pubblicitarie, come quelle della Coca Cola, che all’inizio assolsero il compito. Si trattava di contrastare la civiltà sovietica che invece si stava avviando verso forme classicheggianti, qualche cose di simile a ciò che avvenne dopo la Rivoluzione francese. La classe operaia, eletta all’onore degli altari, (come un secolo e mezzo prima era successo alla classe borghese in Francia) voleva avere almeno un riflesso del fasto che, prima della Rivoluzione, era stato appannaggio delle classi alte, colte e ricche. Agli inizi del XIX secolo si affermò in Francia ed in Europa un sobrio neoclassico non privo di ornato, in Russia comparve una sorta di neoclassico non sobrio, ma ricco di ornamenti secondo la tradizione russa. In Occidente il capitalismo era uscito dalla crisi del ’29 solo grazie ad una forte presenza dello Stato con la militarizzazione dell’industria e dell’economia. Era assolutamente necessario che l’arte, in tutte le sue forme, non fosse portatrice di reali istanze sociali. Doveva essere un’arte muta e assolutamente incapace di esercitare una presa emotiva diretta sul popolo. Quindi venne favorita in ogni modo l’arte astratta, immagini e suoni senza senso che impropriamente venivano chiamati arte. Ma il capolavoro politico fu che questa arte venne fatta sostenere dalle sinistre dell’occidente, quelle sinistre che non vollero mai prendere in considerazione l’arte per il popolo, creata dalle avanguardie dell’est nel mondo del socialismo reale. A sponsorizzare le schifezze astratte provvide la confraternita dei galleristi e dei critici. Per il capitalismo questo successo ha avuto un costo tutto sommato abbastanza lieve: si è trattato di sopportare una classe di artisti (e qualche uomo di scienza) ostentatamente di sinistra, ma con scarso ascendente sul popolo. Conseguenze della situazione geopolitica globale. Nel frattempo il mondo capitalista stava entrando in una fase di dissoluzione e così dall’astratto si passò al nichilismo. Riemersero nell’inconscio certi aspetti mostruosi della seconda guerra mondiale con genocidi condotti con varie modalità: i bombardamenti a tappeto delle città, i campi di sterminio, le deportazioni di interi popoli, le armi nucleari. Oggi si impiegano efficacemente armi chimiche con effetti a lungo termine. Ma soprattutto in occidente si ripresentava la filosofia dello stermino di massa con i bombardamenti (6), visti in chiave escatologica come manifestazione di una volontà punitiva creduta di origine 72 divina. Lo sterminio di massa doveva essere culturale, sino a sommarsi a quello reale e fisico appena si presenta l’occasione di una guerra. Tutta la storia passata ha da essere cancellata perché non abbastanza santificata dalla democrazia e dallo spirito americano originale (quello presente, attuale, quello del passato è dimenticato poiché gli Stati Uniti non vogliono e non possono avere una storia). I bombardamenti hanno cancellato la memoria scritta nei monumenti, ma non basta, ora deve avvenire la sostituzione con l’architettura dell’impero americano, quella derivata dalle gabbie per conigli del Bauhaus. Dicono le archistar in coro: è impensabile che non si costruisca secondo la nuova architettura nei centri storici delle città. Per sopperire alla mancanza degli originali in buono stato, presto nasceranno parchi tematici, copie perfette di intere città d’arte, quelle originali essendo state deturpate dall’idiozia dei loro abitanti, diventati in maggioranza albergatori, camerieri e ruffiani spacciatori di droga. Unico aspetto positivo in tutta la faccenda della pensilina di Isozaki è la polemica sorta spontaneamente contro. La città si costruisce con il concorso di tutti i cittadini, non con i progetti di presunti grandi architetti o grandi artisti. Firenze (7) è stata la città dove maggiormente il concorso dei cittadini ha contribuito a creare le opere d’arte. Strano che questo principio non sia stato adottato dalla sinistra che si professa ultrademocratica. Note 1) Maria delle Grazie - Santuario quattrocentesco, situato alla periferia della città di Arezzo (1,5 km. dal centro) sul lato destro del torrente Vingone. Il portale d'ingresso al santuario, qui trasferito dopo la demolizione di porta S. Spirito, immette in un vasto suggestivo cortile, sistemato a prato e contornato da due sezioni di porticato. La chiesa, disposta sul fondo, risale alla prima metà del '400 e fu eretta sulle rovine dell'antica FONTE TECTA, ritenuta sede di un culto pagano delle acque. L'edificio è in stile Tardo Gotico, ha una navata con volta a crociera. Sul finire del secolo, Benedetto da Maiano, eresse la scalinata esterna ed il Portico, capolavoro di leggerezza e di grazia primo rinascimentale, a sette arcate poggianti su sottili colonne corinzie. Appena varcato il portone d'ingresso, ci colpisce una visione indimenticabile. Sullo sfondo della degradante collina di Pitigliano è il santuario preceduto dalla Loggia; sulla destra la Cappella di S. Bernardino, sulla sinistra la mole troppo grande del Convento Carmelitano; e ai lati estremi, a ridosso del muro di cinta del piazzale, due brevi tratti del portico che una volta si svolgeva interamente lungo i tre lati orientale, settentrionale e occidentale. Quella che il Salmi ha felicemente chiamato "la prima piazza porticata della rinascita", misura circa 100 m. in larghezza e circa 70 m. in profondità. Il porticato era posto a due livelli inferiori per far risaltare il santuario, la grande loggia e la scalinata ampia ed alta che conferisce a tutto l'insieme l'aspetto di un podio. Un'estrema semplicità, una purezza rinascimentale assoluta, colonne di arenaria su basi attiche con capitelli ionici (quelli della loggia sono corinzi), archi a tutto sesto. La Loggia, costruita, come si è detto, tra il 1478 ed il 1482 su disegno di Benedetto da Maiano (1442-1497), benchè in parte alterata dal rifacimento del 1870-71, costituisce una delle più armoniose creazioni del Quattrocento. Da notare, all'interno, l'altar maggiore in marmo e terracotta smaltata (fine '400), opera inconsueta di Andrea della Robbia: nel timpano Madonna con bambino tra due angeli, nelle nicchie i santi Lorentino, Piergentino, Donato e Bernardino, nel paliotto la Pietà, all'interno un affresco di Parri di Spinello (Madonna della Misericordia). 73 2) Titus Burckhardt, “L’ARTE SACRA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE”, Rusconi, Milano 1976 3) Raffaele Giovanelli, “L’architettura prima del decostruttivismo”, 29 luglio 2009 http://www.lacrimae-rerum.it/documents/02-Architetturaprimadeldecostruttivismo-.pdf 4) Giorgio Vasari: “Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti”, Vita di Benedetto da Maiano scultore et architetto, 1550, nell’edizione a cura di Maurizio Marini, Orsa Maggiore editrice, 1991 Forlì “… Il medesimo (Benedetto) alla Madonna delle Grazie che è poco fuori d’Arezzo, facendo un portico et una salita di scale dinanzi alla porta, nel portico mise gl’archi sopra le colonne et a canto al tetto girò intorno intorno a un architrave, fregio e cornicione; et in quello fece per gocciolatoio una ghirlanda di rosoni intagliati di macigno, che sportano in fuori un braccio et un terzo; talmente che fra l’aggetto del frontone della gola di sopra et il dentello, sotto il gocciolatoio, fa braccia due e mezzo, che aggiuntovi mezzo braccio che fanno i tegoli, fa un tetto di braccia tre intorno, ricco, utile et ingegnoso. Nella qual opera è quel suo artifizio degno d’esser molto considerato dagli artefici, che volendo che questo tetto sportasse tanto in fuori senza modiglioni o menzole che lo reggessino, fece que’ lastroni, dove sono i rosoni intagliati, tanto grandi che la metà sola sportassi infuori, e l’altra metà restassi murato di sodo, onde essendo così contropesati, potettono reggere il resto e tutto quello che di sopra si aggiunse, come ha fatto sino a oggi, senza disagio alcuno di quella fabrica. E perché non voleva che questo cielo apparissi di pezzi come egli era, riquadrò pezzo per pezzo d’un corniciamento intorno, che veniva a far lo sfondamento del rosone, che incastrato e commesso bene a cassetta, univa l’opera di maniera che chi la vede la giudica d’un pezzo tutta.” 5) Raffaele Giovanelli “Perché il futuro dell'occidente finirà in una tragedia”, effedieffe, 23 aprile 2006 6) A. C. Grayling intervistato da Three Monkeys Online, Bombing Civilians - WWII's 'moral crimes'. http://www.threemonkeysonline.com/ maggio 2006 The mortality figures presented by A.C. Grayling, Professor of Philosophy at Birkbeck College, London, in the appendix of his recent book Amongst the Dead Cities are shocking. Shocking because of their scale, but also because they are a surprise. The Allies' use of saturation bombing, deliberately targetting civilians in Germany and Japan, has long been accepted by conventional wisdom as a necessary evil, and one that it's perhaps best not to dwell on. Dresden, Hiroshima, and Nagasaki are portrayed as the brutal exceptions (for example, the degree of devastation in Dresden was partly the result of an unfortunate prevailing wind that fanned the flames). Dreadful moments in the war, but isolated. Grayling's appendix, though, shocks with figures such as those of the largely forgotten bombing of Hamburg in July 1943 - in four night-time raids (Operation Gomorrah), the Royal Air Force dropped over 9,000 tons of bombs, killing at least 45,000 civilians and destroying over 30,480 buildings. Over 800,000 civilians were killed by bombing raids - raids which, particularly in 1945, had questionable strategic value. Grayling, as a boy in the Fifties, like many of his generation, grew up fantasising about spitfire fighter planes and assembling model kits of Lancaster bombers (he remarks at the close of the interview that the cover of Among the Dead Cities shows B-24 Liberators, and not, as is incorrectly printed, Lancaster bombers). Despite his obvious admiration for many of the men involved in the Allied Air Forces during WWII, Grayling felt the necessity to examine the moral questions brought up by allied bombing strategy: 74 "Are there ever circumstances in which killing civilians in wartime is not a moral crime? Are there ever circumstances - desperate ones, circumstances of danger to which such actions constitute a defence - that would justify or at least exonerate them?". Questions that are as relevant today as they were back in 1945. 6) Raffaele Giovanelli, “Critica ai fondamenti dell’architettura moderna” 14 maggio 2008: http://www.lacrimaererum.it/documents/CRITICAAIFONDAMENTIARCHITETTURAMODERNA.pdf Il completamento della facciata del Duomo di Firenze Se i fiorentini nel XIX secolo avessero adottato i criteri oggi in voga per il restauro avrebbero dovuto godersi lo spettacolo di una facciata come quella di figura 5, un rudere testimone di un Rinascimento troncato a metà dalle invasioni e dalle devastazioni che distrussero l’ indipendenza degli Stati italiani. L’Italia dopo l’unità si impegnò a finire almeno le facciate delle maggiori chiese non completate. Questo fu un avvenimento che giustamente mise in moto accese polemiche con la competizione tra i diversi progetti. La seconda parte del XIX secolo fu dominata dal dibattito sui principi con cui effettuare questi completamenti, che arrivavano con più di tre secoli di ritardo. Sino agli inizi del XX secolo l’architettura venne influenzata dal mito del medioevo, un mito che la Chiesa adottò anche come modello etico. La lunghissima storia della facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze è la testimonianza della partecipazione della gente alla creazione dei monumenti della propria città. La storia ebbe inizio nel 1293 quando il Parlamento fiorentino discusse su come progettare il Duomo e a chi affidarne la costruzione. «Nel 1296 l’incarico venne affidato ad Arnolfo di Cambio. Ma Arnolfo venne a morte dopo poco ed i lavori si arrestarono sino al 1331, anno in cui l’Arte della Lana (una corporazione con la potenza finanziaria di una multinazionale dei giorni nostri) si assunse in proprio l’onere di finanziare i lavori affidando l’ incarico a Giotto, che invece di dedicarsi alla chiesa preferì costruire prima lo splendido campanile, lavorandoci sino al 1337, anno in cui morì. Tuttavia fece in tempo a costruire la base della facciata. Andrea Pisano prese il posto di Giotto ma venne presto a morte con la peste del 1348. Il corpo del Duomo fu terminato nel 1368. Nel XV secolo si riaccese il desiderio di vedere la facciata finita, ma Lorenzo il Magnifico preferì attendere. Per tre secoli si andò avanti con facciate posticce di legno e tela dipinta. Facciamo un salto tralasciando ciò che avvenne sino al 1842. Nel 1842 Nicolò Matas, che aveva contribuito alla facciata di Santa Croce, viene incaricato di redigere un progetto per la facciata del Duomo. Il progetto, presentato nel 1843, ebbe un buon successo di critica. Si mostrava un ritorno al gotico del campanile di Giotto ed al progetto di Arnolfo. Giacomo Müller si mise in concorrenza con il progetto di Matas facendo altri progetti nei quali accentuava l’influsso gotico ispirandosi alla cattedrale di Orvieto. Nel 1858, Leopoldo II crea l’Associazione fiorentina per erigere la facciata del Duomo. Mentre la Toscana veniva annessa al futuro Stato italiano, partiva l’ennesimo concorso, che poi verrà ripreso e posto a scadenza nel 1862. A questo punto intervenivano i Savoia con la presidenza della Associazione, trasformata in Deputazione, assunta dal Principe Eugenio di Savoia Carignano. Risultò vincitore il danese Petersen, ma la giuria era incerta sulla scelta per cui si indisse un nuovo concorso che venne giudicato nel 1865. Infine risultò vincitore De Fabris con un progetto tricuspide, anche se la giuria non era ancora pienamente convinta. I concorrenti furono invitati a rielaborare i loro progetti ed alla fine De Fabris ebbe l’incarico nel 1868. Vengono presentate due soluzioni: la struttura tricuspide e il coronamento piatto. 75 La facciata di Santa Maria in Fiore come appariva nel 1871 (Da G. Crespi, Fig 5 – da: «Il restauro architettonico», Tamburini editore, Milano, 1961) 76 Facciata di Santa Maria del Fiore in una fotografia dell’epoca (Wikipedia) scattata prima che i lavori fossero terminati. I fiorentini scelsero il coronamento piatto. Per la scelta finale se attuare o no la soluzione tricuspide De Fabris nel 1879 arrestò i lavori. Nel 1883 si approntò una soluzione provvisoria con costruzione in legno dei due coronamenti (a sinistra la cuspide). La cittadinanza decise per il coronamento piatto con una sola cuspide centrale. Certamente De Fabris fu democratico, ma questo non lo salvò dalla critica di essere stato addirittura troppo accomodante! Purtroppo anche De Fabris morì prima di compiere l’opera e sarà il professor Del Moro a portare a termine i lavori.» Da G. Crespi, «Casistica del restauro - La facciata di Santa Maria del Fiore in Firenze», Capitolo V del testo: «Il restauro architettonico», Tamburini editore, Milano, 1961. 77 Recupero dell’antico con le copie Fig. 1 -Veronese –Nozze di Cana Fig. 2 – Montaggio dei pannelli Nel refettorio di San Giorgio, a Venezia, è stato ricollocato il grande quadro le «Nozze di Cana», sotto forma di copia identica all'originale (1). 78 Si tratta di un fatto epocale nella storia dell’arte e nella concezione dei musei. Qualche cosa di simile era già stato fatto con i graffiti delle grotte di Lascaux, come vedremo più avanti. Fig. 3 – Scansione con laser. Fig. 4 – La copia collocata nel refettorio di San Giorgio. Il Veronese, tra il 6 giugno 1562 e il 6 ottobre 1563 dipinse la scena evangelica delle Nozze di Cana per il refettorio benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia. Adam Lowe ha riprodotto il dipinto che ha una superficie di 70 metri quadrati. Lowe è un artista digitale, che ha fatto il lavoro per conto della Fondazione Cini. La tela del Veronese era stata portata in Francia (facendola a strisce) dai commissari di Napoleone nel 1797 ed è conservata al Louvre, nella stessa sala che ospita la «Gioconda». I turisti che ammirano il capolavoro di Leonardo di solito non la notano perché le danno le spalle. Lowe ha scattato 2.700 immagini al quadro che ha riprodotto digitalmente ottenendone una «copia» in tutto identica, che è stata collocata sulla parete del refettorio palladiano (Fig. 4) per la quale era stata realizzata. Lowe ha realizzato ciò che Walter Benjamin (di cui si dirà più avanti) aveva pensato poter accadere in futuro. Lowe ha riprodotto tecnicamente (clonato) un'opera, indistinguibile per l'occhio umano dal quadro originale. Così l'ha forse privata dell’«aura» sacrale che Benjamin diceva esistere attorno agli originali. Ed ora gli esperti si interrogano: quale è il vero Veronese, quello al Louvre decontestualizzato o quello di San Giorgio nella sua autentica architettura? Vedendo l'opera montata nel refettorio, il collezionista di Palazzo Grassi François Pinault ha usato una battuta per sottolineare la somiglianza con l'originale: «Come avete fatto a convincere Sarkozy a ridarlo?». Salvatore Settis (che nel 2004 ha pubblicato per Einaudi: Futuro del Classico”) ha tematizzato la stessa impressione parlando di riproduzione indistinguibile dall'originale e inserito nel suo contesto, aspetto che spinge a chiedersi «dove sia oggi l'originale delle "Nozze di Cana"». Per l' antropologo Pasquale Gagliardi, segre79 tario della Fondazione Cini, l'originale è paradossalmente quello di San Giorgio. «Questa tela è indistinguibile dall'altra. Io non vorrei nemmeno riavere quella del Louvre, perché questa può rimanere inalterata mentre quella, tra cent'anni, sarà rovinata, da restaurare...». Poi c'è da considerare il valore d'uso di un'opera. «Possiamo utilizzare il refettorio anche per organizzare cene, come pensato da Veronese e Palladio. Non lo scuote la perdita d'«aura» dell'originale. «L'aura e la magia dell'originale sono una costruzione sociale. Nella scultura si sostituiscono gli originali con copie per preservarli». E aggiunge: «Con l'Unesco abbiamo un appuntamento; alla luce di questa operazione si potrebbero rivedere le politiche sul rimpatrio dei dipinti». Anche lo storico dell'arte Carlo Bertelli esprime il suo «favore all'operazione, perché non è possibile ottenere la restituzione. La tela combinava perfettamente con l'architettura; quella che c'era sino adesso, di Tintoretto e scuola, non c'entrava nulla. La tela originale, invece, ormai fa parte del Louvre e sarebbe senza senso portarla qui». Sull'estendibilità dell'operazione è più cauto. «Qui il problema era vedere insieme Palladio e Veronese, e si è rimediato a una ferita. Poi valuterei caso per caso». Ma può essere una soluzione utile anche per le mostre: «Ad Arezzo ho fatto un esperimento: ho esposto la "Flagellazione" di Piero con una lettura virtuale dettagliata, che ha avuto un successo enorme. Molti mi hanno scritto che si è imparato più dalla simulazione che se si fosse portato l'originale». Le operazioni di ripresa, eseguite al Louvre con fotocamera digitale, hanno richiesto un anno di lavoro. Un rilievo laser (Fig. 2) è stato utilizzato per riprodurre le asperità del dipinto. Nel Laboratorio Factum Arte di Madrid è stata poi elaborata una mappa digitale (con centinaia di campioni colore) e riprodotta l'immagine con un particolare scanner. Questa è stata fissata su una tela di lino irlandese con sopra colla animale e gesso, come fece il Veronese. Quindi i ritocchi fatti a mano. Le tela, divisa in 10 pezzi con tagli invisibili, è stata quindi montata (Fig. 3 - 4) a San Giorgio, a Venezia. Un’operazione simile era stata fatta per salvare le pitture delle grotte di Lascaux, che si stavano degradando a causa dell’aria contaminata dal respiro dei visitatori. Nel 1983 è stata aperta Lascaux II, una replica della grande sala dei tori e della galleria dipinta, situata a circa 200 metri dalle grotte originali. Ad alcuni chilometri da Montignac, nel parco di Le Thot, sono esposte altre riproduzioni dei dipinti delle grotte di Lascaux. All’inizio del 2008 le grotte con i dipinti originali sono state chiuse per la ricomparsa dei funghi che intaccano i dipinti. Quindi attualmente si possono ammirare solo le copie. Qualche riflessione sull’arte delle immagini ai giorni nostri. Dove si percorre la storia delle copie nell’arte e si ricava una proposta per un’improbabile salvezza. E’ necessario prendere atto che la nostra epoca eccelle nell’ideazione e nell’impiego delle macchine ma è povera in fatto di facoltà espressive dirette. La nostra epoca è caratterizzata dalla presenza sempre più invasiva delle macchine. Questa presenza determina nell’umanità un’autentica mutazione genetica. Con qualche eccezione come l’Italia, dove andiamo in controtendenza: presso la cultura italiana il ruolo sociale delle macchine viene sempre più trascurato e dimenticato. Così quando un ministro della nostra repubblica discetta di innovazione, quasi sempre lascia in chi l’ascolta l’impressione che egli non sappia di che cosa stia parlando. Ci fu agli inizi del ‘900 chi fece ampie riflessioni sull’influenza della riproducibilità meccanica delle opere d’arte: Walter Bejamin. L'opera d'arte - dice Benjamin (2) - prima dell'avvento dell'epoca della sua riproducibilità tecnica - grosso modo fine 800, primi 900 - godeva dello statuto di autenticità ed unicità. Un'opera - ad esempio un quadro - era un pezzo unico e originale (non prodotto in serie) ed autentico, ossia irripetibile e destinato ad un godimento estetico esclusivo nel luogo in cui si trovava. Questo hic et nunc dell'opera, 80 questa sua originalità, unità, autenticità, irripetibilità, esclusività di godimento estetico viene da Benjamin chiamata "aura". Diversamente l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica è sottoposta ad un processo di "decadenza dell'aura". Tanto è unico un quadro quanto labile e ripetibile la foto. I fatti sono in realtà molto diversi. L’originale interessa perché conferisce al proprietario prestigio. L’aura di cui parla Benjamin è probabilmente anche il profumo del denaro ed il senso del potere. Bejamin ha trattato le sensazioni che nascono con il cinema, che rientra nella riproduzione meccanica delle immagini sino a dare l’illusione del movimento. Ma egli non ha approfondito il significato del cinema costruito con immagini disegnate (oggi in gran parte costruite o completate con il calcolatore). In questo caso abbiamo un connubio tra disegno, sviluppo del disegno con il calcolatore, riproduzione ed effetto del movimento dell’immagine. Con il “cartone animato” (3) si aggiunge direttamente la dimensione temporale che nella pittura viene ottenuta con artifici psicologici. L’arte del cartone animato ha raggiunto livelli altissimi di emotività e suggestione artistica. Per Benjamin invece il cinema non impone il raccoglimento nell’attenzione estetica, una esigenza che egli ritiene specifica dell’arte tradizionale perché legata al rituale, ma invita ad una sorta di partecipazione che si potrebbe definire una attitudine alla ricezione sospesa o all’esaminare distratto (oggi si direbbe “effetto subliminale”) che nel contempo sembra poter consentire una maggiore identità dello spettatore con l’opera. Il discorso della riproducibilità si applica anche all’architettura, come nei parchi archeologici tematici. Nell’era della riproducibilità con le macchine si possono riprodurre anche gli oggetti oltre che le immagini. Fu proprio Walt Disney (3) a concepire parchi dove si sarebbero viste riproduzioni, più o meno fantasiose di monumenti celebri sparsi per il mondo e provenienti dalle più diverse epoche storiche, Questo orientamento ha indotto a costruire e ricostruire luoghi della memoria, che trovano la loro giustificazione economica e politica nella necessità di inventare sempre nuove mete per il turismo. Qualche cosa che si può assimilare al moltiplicarsi dei luoghi sacri verso i quali venivano indirizzate le folle di pellegrini alla ricerca di un altrove da venerare. Nella società secolarizzata il culto della storia equivale ad instaurare una sorta di culto degli antenati. Per soddisfare questa richiesta non si è esitato a compiere invenzioni puramente fantastiche, ispirate al mondo dello stesso Walt Disney. In realtà i parchi tematici, con un certo rigore storico, non furono una scoperta di Disney. Il Museo di Berlino ospita bellissimi monumenti greci, romani e del medio Oriente, perfettamente collocati e illuminati sapientemente, come l’altare di Pergamo, parti di un teatro romano e statue. Fig. 5 - Un brillante esempio di “rovina” egregiamente costruita a Xanten. La patina del tempo fra pochi anni renderà il pezzo ancor più credibile. 81 Questo interesse ha indotto i tedeschi a compiere anche qualche esagerazione (4), facendo copie di statue e di fregi marmorei collocati ragionevolmente in edifici ricostruiti partendo dalle tracce della fondamenta, al punto da ricostruire interi luoghi archeologici. Questo è stato un risultato inatteso della possibilità di fare copie perfette di originali. La Germania dispone comunque di parchi archeologici e di musei all'aperto, creati per preservare vari complessi particolarmente minacciati dalla distruzione definitiva. Non tutti sanno che l'istituzione di parchi archeologici rappresenta ormai in Germania una tradizione centenaria. Ma, come altrove in Europa, è dopo la seconda guerra mondiale che gli sforzi intesi alla conservazione di monumenti archeologici di tutte le epoche si sono sensibilmente intensificati (eccetto che in Italia). L’arte “visiva” prima dell’avvento dell’arte moderna. Si verificò nella seconda metà del 1800 un nostalgico ritorno all'atmosfera del Rinascimento e del Medioevo. Questo ritorno era frutto dell'ostilità verso gli esiti dell'Illuminismo e del positivismo razionalista, allora imperante. Non si trattava quindi solo di una moda dettata dal ghiribizzo di qualche personaggio eccentrico pieno di denaro, ma di un movimento che era iniziato già con il Romanticismo. Si dimentica quanto errato fu il credito che la Chiesa dette alla speranza di un ritorno al misticismo medioevale, ma le chiese che in base a quell’orientamento vennero costruite (o restaurate) oggi appaiono molto adatte alle esigenze del culto e persino belle dal confronto con le chiese attuali, costruite secondo l’international style. Se guardiamo il tema dei “ritorni”, oggi così aborrito, si deve riconoscere che tutto il Rinascimento si fondò sulla riscoperta dell'arte classica, e la riscoperta fu vitalizzante e feconda per la creazione di un'arte nuova, mentre lo stesso non si può dire per il nostalgico ritorno al Medioevo del XIX secolo. Ma la rivoluzione (o involuzione) dell’Architettura e della Pittura moderne è stata possibile anche grazie alla meticolosa cancellazione della figura del "Principe". Il "Principecommittente" era stato il centro motore dell'Architettura e dell'Arte. Questa figura si può riconoscere in un Papa, oppure nell'Abate di un grande monastero, nel priore di un potente Ordine Religioso, in un Capitano di ventura, nel fondatore di una grande industria agli inizi dell'era industriale, in un potente finanziere, in un grande medico, raramente in un politico a causa della precarietà del suo potere. Il "Principe" è il vero artefice dell'arte. Un esempio recente lo troviamo nella figura del conte Güell, che a Barcellona incoraggiò e protesse il giovane Gaudì. Con il trasferimento del centro del potere dall’Europa agli Stati Uniti, la figura del Principe non viene conservata. Nella società americana solo il denaro e la tecnica sono i pilastri del potere, tutto il resto: arte, fede religiosa, ideologie politiche sono privi di regole, di canoni, sono categorie che rimangono confinate nella sfera privata, del singolo ed anzi le correnti di pensiero sono viste con sospetto. Paul Getty ha costruito un museo e lo ha riempito di opere d’arte, ma non si è potuto permettere di ordinare quadri ad artisti secondo una tendenza da lui appoggiata, non è diventato un committente, come ad esempio lo furono i Medici a Firenze. Peggy Gugenheim lanciò Pollock ma non seppe e non volle mai precostituire un criterio estetico. Si attenne sempre al principio che l’arte scaturisce spontaneamente dall’anima dell’artista che è ispirato da un demone misterioso. Nel campo delle arti figurative l’Illuminismo esercitò un’influenza indiretta ed a lungo termine, sostituendo la figura del "Principe" con una precisa politica del governo rivoluzionario in Francia alla fine del XVIII secolo. Agli inizi del XIX secolo nulla ha contribuito a diffondere l'educazione artistica più della costituzione e dell'organizzazione dei musei pubblici. Intanto l’Architettura si gingillava in una stanca ripetizione di modelli classici, che venivano riscoperti in funzione anticristiana, quindi antigotica ed antiromanica. Quando poi, dalla 82 metà del XIX, secolo si passerà ad imitare il medioevo, si verificherà invece un riavvicinamento alle radici cristiane dell’Architettura. Alla scomparsa definitiva del "Principe", dopo la seconda guerra mondiale, sono seguiti altri attori che hanno determinato l'evoluzione dell'arte nell'ultimo mezzo secolo. Oggi il denaro è direttamente simbolo di potere, un potere che non ha bisogno di essere rappresentato da alcuna forma o altro simbolo, che rischierebbe di offuscarne la "purezza" assoluto. Già nella morale protestante il possesso del denaro era la tangibile manifestazione della benevolenza divina, mentre la povertà era la prova del contrario. Anzi spendere per un ornamento venne considerato una degenerazione. Nel 1908 Adolf Loos (5), in "Decorazione e delitto", aveva affermato che l'ornato, avendo la funzione di definire gerarchie sociali precostituite, per ciò stesso costituiva un fatto criminale. Il Principe dei nostri giorni soffre della estrema precarietà della sua esistenza, affidata ad un mondo in perenne trasformazione competitiva, dove la vittoria del più forte è sancita unicamente dal possesso del denaro o al massimo dalla prospettiva di un rapido arricchimento. Le stesse regole del gioco possono essere continuamente mutate da poteri spesso oscuri, per cui può improvvisamente diventare una colpa infame ciò che prima era lecito o accettato dalla consuetudine ed anche fonte di prestigio. Se guardiamo Bill Gates, creatore e padrone della Microsoft, oggi tra gli uomini più ricchi del mondo, vediamo che destina alle attività culturali somme ingenti perché in tal modo può ridurre le tasse. Non certo per godere di quelle opere o perché pensa di esercitare una guida nel gusto della gente. La gente esiste solo in quanto fruitrice pagante dei prodotti informatici creati dalle sue società. Gli organismi pubblici sono stati dotati di vari meccanismi destinati al sostegno dell'arte e degli artisti. Questi meccanismi, concepiti meritoriamente per assicurare un supporto finanziario alla produzione artistica, affiancati dal mercato, nella persona del rapace ed incapace gallerista, purtroppo hanno sostenuto quella parte di arte moderna definita astratta, che, salvo qualche rara eccezione, si concretizza in una congerie di schifezze, tutte connotate da una caratteristica in comune: quella di annoiare. L’UTOPIA DEL PASSATO E QUELLA DEL FUTURO In Architettura, durante il Rinascimento, si cercava di realizzare opere rivaleggiando con quelle dell’età classica. Le opere antiche venivano riscoperte, copiate e recuperate dalle distruzioni del medioevo, quando erano diventate simbolo del peccato.. Michelamgelo da giovane creò un falso, una scultura che rappresentava un cupido addormentato che doveva apparire come una statua di epoca romana, grazie ad un invecchiamento artificiale. La scultura pare sia stata venduta per duecento ducati a Roma al cardinale San Giorgio (così racconta il Vasari). Scoperto l’inganno il cardinale si adombrò ma poi ospitò Michelangelo nel suo palazzo a Roma. L’ideale da perseguire era collocato nel passato, in una mitica età dell’oro. Al contrario oggi l’ideale è proiettato nel futuro, anzi tutto ciò che è passato non ha più alcun valore. Si salva l’antico (purché sia irraggiungibile, intoccabile e non ripetibile), mentre il vecchio raccoglie il disprezzo e merita di essere cancellato senza ripensamenti. Quindi oggi un giovane scultore che confezionasse un falso come quello del giovane Michelangelo, oggi sarebbe perseguito per legge. La sua bravura oggi non lo salverebbe come non salvò Han Van Meegeren (6) il più grande falsario di quadri mai esistito, che dipingeva bellissimi dipinti originali nello stile di Jan Vermeer. Quando si verificò questa mutazione radicale e perché? Non si trattò di un parto dei tempi dell’Illuminismo, ma la mutazione ebbe inizio da allora. La fiducia nelle sorti future e progressive è il risultato a lungo termine più importante dell’Illuminismo. Il futuro è creato dalla ragione e quindi dalla Scienza. La rottura si ebbe con il conflitto aperto con le basi stesse del Cristianesimo, o meglio con l’interpretazione allora fornita dalla Chiesa. Furono quasi due secoli di lotte accanite e sanguinose. Si pensi alla strage della Vandea, alle 83 molte migliaia di morti in Italia per le insorgenze contro i francesi, alla lunga guerra in Spagna, che dissanguò inutilmente francesi e spagnoli. Alla fine la fede nel futuro sembra aver vinto sulla fede nel passato. Ma questo scontro ha interessato solo i popoli cristiani. Per l’Asia il risultato è dubbio, potrebbe trattarsi di un successo temporaneo dovuto all’ingresso dei popoli asiatici nella sfida della trasformazione industriale e tecnologica. Per i popoli musulmani la battaglia fortunatamente è perduta. La stupidità degli americani è gigantesca a questo riguardo. Invece di convincere i musulmani essi rischiano di far crollare tutto il castello delle convinzioni occidentali. Infatti in Occidente il futuro è già arrivato, portandosi al seguito morte, distruzione e disperazione, a cominciare dagli esiti della Rivoluzione Francese (che sarebbe stata poi il modello di tutte le rivoluzioni avvenute poi nei paesi nei quali arrivava la trasformazione industriale). La filosofia della vita degli americani è quella più legata al mito della modernità, essendo la civiltà degli Stati Uniti derivata direttamente dall’aver congelato il pensiero illuminista all’origine, al punto in cui era pervenuto negli anni che seguirono la guerra d’indipendenza dal dominio inglese1. Conseguenza diretta dell’aspettativa radicata nel futuro è la condanna di qualsiasi ritorno e di qualsiasi nostalgia per il passato. In Italia Marinetti è stato l’artista che meglio ha incarnato la fede nelle sorti radiose e progressive che il futuro ci avrebbe garantito. Anche i movimenti politici in Europa hanno sposato la fede nel futuro, come il socialismo, che ha preso per simbolo il sole dell’avvenire. La fede nei doni che ci porterà il futuro ha necessariamente una diretta influenza anche sull’arte, condannata dalla nuova fede ad essere perennemente nuova, diventata vuota per la banalità delle invenzioni alle quali deve continuamente sottoporsi. Qualche artista si è ribellato a tanta stupidità e conformismo. La fede cieca nel futuro taglia alle radici quell’arte che vuole recuperare il passato, anche se nella gente aumenta il desiderio di rivivere certi aspetti dimenticati della vita di pochi anni addietro. Tuttavia, mentre le disillusioni della storia recente hanno fatto tramontare molte attese che avevano i popoli della vecchia Europa, la sua arte si trascina ostinatamente ancora entro gli schemi ed i canoni nati dalla fede assoluta nella “modernità”. Oggi l’unica possibilità di rifugiarsi nel passato è confinata nella ricerca di oggetti antichi e vecchi, originali ed autentici, sottoposti a restauri dichiarati “scientifici”, spesso distruttivi nei risultati. L’antiquariato, ed il più recente modernariato, sono diventati il rifugio del desiderio di rivivere il passato, un desiderio incalzato, osteggiato e banalizzato dai detentori del potere di critica e del potere di assegnare un certificato d’esistenza per qualsivoglia fatto artistico. La ricostruzione dei monumenti di Dresda. Dresda è stata quasi completamente distrutta dai bombardamenti strategici degli Alleati dal 13 al 14 febbraio del 1945 e fu nuovamente bombardata dalla USAAF il 2 marzo e il 17 Aprile, con 2.700 tonnellate di bombe. A causa dell'ampio uso di ordigni incendiari non si è mai potuto stabilire il numero esatto delle vittime, secondo alcuni quasi 200.000. Arturo Carlo Quintavalle (esperto d’arte e di fotografia), narrando il restauro integrale della Dresda barocca, dice: Dresda poteva essere rifatta tutta secondo gli schemi delle moderne città. Questo significava cancellare per sempre i monumenti di Dresda. Le città moderne non contemplano la costruzione di monumenti, tantomeno monumenti barocchi a ) I padri fondatori più che l’Illuminismo assorbirono le utopie naturaliste, senza dimenticare una robusta fede in Dio, mettendo da parte i dogmi ma ispirandosi ad una religione senza intermediari. Il loro pensiero venne travasato nella Costituzione degli Stati Uniti, che divenne un modello ammirato poi da tutti i partiti progressisti europei. Tra gli ispiratori della Costituzione americana ci sono Locke, Rousseau e de Mably. Sarà poi la guerra di secessione a imporre a tutti gli stati dell’Unione il pensiero unico di un paese fondato sulla tecnica, sullo sviluppo industriale e sulla Bibbia, come tenacemente e crudelmente vollero uomini come Abramo Lincoln. 84 simili a quelli che esistevano prima. Un giovane architetto di Dresda così ha spiegato le ragioni della ricostruzione dei monumenti antichi, anche se inseriti in un contesto moderno: “Abbiamo cercato ogni testimonianza, abbiamo ricavato dalle fotografie e dai documenti le curve degli archi e le forme delle cornici, quelle dei capitelli e degli ornati di ogni edificio, chiese e palazzi sono stati ricostruiti filologicamente, dentro e fuori, e i pezzi ritrovati sono stati reintegrati.” Come sarebbe stata ricostruita Dresda secondo gli schemi di una moderna città? Lo stesso Quintavalle, parlando della Dresda moderna, dice che sarebbe stato costruito un sistema urbano in stile condominiale, cemento e vetro. E’ chiaro che i tedeschi volevano invece recuperare il ricordo della città antica proprio attraverso i suoi antichi monumenti, che furono ricostruiti partendo dal nulla. Oggi i ricordi si materializzano in isole di pietra in un mare di parallelepipedi di metallo e vetro. I tedeschi hanno voluto ricostruire e simboli ed i sogni dell’antica Dresda, ed hanno compiuto un imperdonabile affronto all’architettura imperante nel nostro tempo. Il vetro ed il metallo di quei parallelepipedi non hanno anima, non possono e non debbono averla. L’anima è stata bandita nell’architettura moderna. L’alternativa alla ricostruzione integrale sarebbe stato il nulla dell’architettura moderna. Ma è proprio il confronto tra l’antico ed il nuovo che si vuole evitare per impedire che la gente dica: perché non tornare a fare vera architettura? Copiare o “falsificare” l’antico ed inserirlo negli edifici moderni. Igor Mitoraj da anni fa sculture che si richiamano alla scultura classica greco-romana. Egli vede l’antico ricoperto dalla patina e spesso dalle ingiurie del tempo, compresa la dimenticanza imposta dal moderno. Egli evita l’accusa di non essere moderno con mutilazioni assurde, provocatorie inferte alle sue statue. Ma intanto ottiene il risultato di richiamare l’antico nel presente in forme non vacue, riportando una sorta di utopia del passato, fatto quanto mai scandaloso per un tempo, come il nostro, in cui è fatto obbligo vivere nell’utopia del futuro. Su Panorama del 12/8/2004 è apparso un articolo di Duccio Trombadori :”Finto antico tra le rovine”. Il titolo è di per se denigratorio, ma ci sono le immagini che parlano. Si tratta in realtà di un recupero del mondo greco-romano attraverso una visione che parte dal presente. Oggi torme di turisti pagano per visitare le nostre così dette città d’arte, ma poi è severamente proibito tradurre nelle edificazioni pubbliche o private alcunché di ciò che hanno ammirato (a caro prezzo). A parte gli americani, che sono felicemente dotati della forza di non capir niente perché vivono confinati nel presente, rifiutando la storia a cominciare dalla propria, per il resto domina sovrano il terrorismo culturale della critica ufficiale, una specie di consorteria internazionale che lega presunti critici, galleristi, comitati “scientifici” di enti dedicati alla promozione dell’arte, società di restauro e Professori universitari di “chiara fama” .. Bisogna dar merito a Eugenio La Rocca, sovrintendente alle Antichità di Roma, di aver osato esporsi al sarcasmo dei critici per aver accolto le opere di Mitoraj come un autentico ritorno allo spirito dell’arte classica greco-romana La Rocca dice “E’ come se i Mercati (di Traiano) fossero riempiti da quell’arte che sembrava ancora mancare, un’arte andata perduta nel tempo”. La vera destinazione di queste opere non è solo l’inserimento in un contesto di antiche rovine, coeve con l’età classica a cui queste si ispirano, ma la collocazione negli atri, nei giardini, nelle corti di palazzi moderni, ai quali così verrebbe tolta l’arida modernità che ci opprime. L’Architettura “antica” scompare, sommersa dalle nuove costruzioni, che rispecchiano esclusivamente il loro principio ispiratore: l’utile economico. Nelle nuove costruzioni tutto dovrebbe essere finalizzato a fornire agli abitanti le condizioni di vita oggi ritenute essenziali. Sono scomparsi i simboli tradizionali e la funzionalità dovrebbe costituire l’unico simbolo e l’unico significato. L’abitazione è diventata una superficie, dove si costruisce una 85 Fig. 6 - Sculture di Igor Mitoraj suscettibili di essere inserite nell’architettura dei prossimi anni. nuova gerarchia di valori e di interessi immediati, una gerarchia priva di simboli, di storia e di ricordi, banditi come oscenità. La “modernità” è del tutto atemporale. L’eliminazione dell’ornato è conseguenza della cancellazione dei simboli di casta e di appartenenza ad un gruppo. Le caste sono state cancellate dalla società industriale (ma ne sono sorte di nuove più ingiustificate delle precedenti), insieme ai simboli che le rappresentavano, ma i simboli erano l’essenza dell’arte veramente fruibile. Oggi il prezzo di un quadro antico è il corrispettivo per possedere un antico simbolo, che non può e non deve appartenerci; è il prezzo di un trofeo conquistato con il potere del denaro. Quindi l’opera d’arte impersonale è ancora un mezzo per esibire il proprio potere, ma mai deve essere riferita direttamente alla persona del proprietario o della sua famiglia per il rischio di tornare ad essere un simbolo ridicolmente personalizzato. L’opera d’arte antica deve essere un simbolo appartenuto ad altri, che molto tempo fa hanno commissionato l’opera ad un “artista” per avere un proprio simbolo al quale essi attribuivano un grande “valore d’uso”, che quindi non dovrebbe essere trasferibile. Con questa proposta si cerca di salvare tutto ciò che resta da prima dell’avvento della grande omologazione. Infatti con il trascorrere degli anni il tentativo di conservare e tramandare il passato perde terreno, anche se si tratta di un passato splendido, che ogni anno molti cercano di rivivere sottoponendosi a viaggi, lunghe file, immersi nella folla spesso inconsapevole, attirata più dalla fama del monumento piuttosto che da un proprio sentimento di ammirazione. Il volume degli edifici nuovi cresce continuamente sino a cancellare ogni traccia degli edifici antichi. Si pensi alla distruzione del tessuto urbano di Firenze quando divenne per pochi anni capitale del regno d’Italia. Oggi passando per Firenze in treno o in autostrada non si ha alcuna percezione dell’antica gloriosa città. Un viaggiatore vede solo forme anonime e indifferenziate. Poche città hanno conservato il loro antico aspetto ed il loro profilo. Come rimedio per salvare almeno la memoria si propone la creazione di un’ architettura che incorpora l’antico con copie di antichi monumenti, oppure monumenti antichi reinventati. Questi antichi monumenti potrebbero essere non solo copie ma opere direttamente ispirate all’antico, come ad esempio quelle di Mitoraj. In questo modo si conserverebbe la memoria di monumenti antichi attraverso la loro citazione in edifici moderni. 86 Un’operazione del tutto simile è stata realizzata in letteratura con il salvataggio parziale di certe opere il cui originale è andato distrutto. Attraverso la citazione di alcune parti delle opere perdute, inglobate in opere più tarde giunte sino a noi, possiamo leggere le opere originali perdute. Volendo attenerci alla scultura si deve ricordare che la quasi totalità delle opere dei grandi scultori dell’antichità classica ci sono arrivate attraverso copie degli originali. Delle statue di Fidia, il più grande scultore di tutti i tempi, abbiamo solo copie. Di originale sembra ci siano solo certi bassorilievi del Partenone. Fig. 7 proposte di inserimento di elementi “antichi” in costruzioni attuali – vedasi anche (7). 87 Alcune Fig. 8 – In un condominio di Palermo è rimasto inglobato questo magnifico portale in pietra arenaria. Costituisce un esempio di inserimento dell’antico in un edificio moderno Ancor più immediata avrebbe dovuto essere la scelta di restituire statue e fregi nei luoghi di origine sotto forma di copie. Si pensi allo splendido altare a Zeus di Pergamo, ricostruito in parte nel Museo di Berlino con i particolari tolti a Pergamo. L’altare, eguale a quello esistente a Berlino, potrebbe essere ricostruito in loco con copie. Fig. 9– Sopra a sinistra il modello dell’altare com’era. A destra come è stato ricostruito nel Museo di Berlino. Sotto ciò che resta a Pergamo 88 dell’altare a Zeus. Utilizzando copie dei particolari ora al Museo di Berlino, l’altare potrebbe essere ricostruito in loco. Note 1) Pierluigi Panza , Il Veronese riprodotto, una svolta per l'arte, Corriere della Sera, 16 sett. 2007 2) Walter Benjamin - L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica - Einaudi, Torino 2000, Prefazione di Cesare Cases -Trad. di Enrico Filippini, recensione di Alfio Squillaci http://lafrusta.homestead.com/rec_benjamin1.html 3) Da: Walt Disney, Wikipedia ….. La «pazzia di Disney»: Biancaneve e i sette nani. Tra il 1934 e il 1937, gli studi Disney usano soprattutto le Silly Symphonies come banco di prova per le tecniche necessarie a Biancaneve. I primi esperimenti riguardano l'animazione realistica degli esseri umani, l'animazione di personaggi distinti, gli effetti speciali, e l'uso di processi specialistici e propri solo dell'animazione. Nasce così The Old Mill (Il vecchio mulino), il primo film realizzato con cinepresa a piani multipli inventata da Bill Garity, tecnico degli studi Disney, che permette di dare un vero effetto di profondità ai cartoni animati. Sono soprattutto coloro che collaborano a questa serie che lavorano su Biancaneve. Quando il resto dell'industria cinematografica viene a sapere dei progetti di Disney di produrre un lungometraggio animato di Biancaneve, i concorrenti definiranno l'idea la «pazzia di Disney» e sono convintissimi che il progetto lo porterà al fallimento. Sia Lillian sia Roy cercano di convincere Walt a rinunciare al progetto, ma Walt non li ascolta e continua comunque. Walt chiama un professore di disegno del Chouinard Art Institute, Don Graham, perché dia delle lezioni ai membri degli studi. Il corso e gli altri sviluppi permettono di migliorare la qualità degli studi e di far sì che il lungo metraggio abbia il valore qualitativo voluto da Walt. Biancaneve e i sette nani è il titolo scelto per il film ed è in piena produzione dal 1935 fino all'estate del 1937, quando gli studi sono a corto di denaro. Per trovare i finanziamenti necessari per concludere Biancaneve, Disney deve mostrare un estratto non terminato del film ai responsabili finanziari della Bank of America: i fondi gli vengono concessi. Il film completo debutta con grande successo al Carthay Circle Theater di Hollywood il 21 dicembre 1937. Primo lungometraggio animato già in Technicolor: Biancaneve, diventa il film più redditizio dell'anno (1938) e incassa più di otto milioni di dollari del tempo (pari a 98 milioni di dollari di oggi). Il successo di Biancaneve permette a Disney di costruire a Burbank un nuovo complesso in stile campus universitario per ospitare i Walt Disney Studios, che aprono il 24 dicembre 1939. …… Nel 1947, durante i primi anni della Guerra fredda, Walt Disney è protagonista di una pagina molto triste. Egli, come tanti personaggi americani, deve comparire davanti al Comitato delle Attività Anti-Americane e allora denuncia vari suoi dipendenti come simpatizzanti comunisti. Alcuni storici ritengono che si tratti solo di animosità che risale agli scioperi del 1941 agli studi Disney. Il malcontento e la diffidenza di Disney nei confronti dei sindacati possono aver contribuito a questo atteggiamento. ….. La creazione di Disneyland, l’universo dei personaggi di Walt Disney. Alla fine degli anni Quaranta, Disney disegna i progetti per una sua idea, un parco divertimenti dove prevede che i suoi dipendenti passino del tempo coi figli. Le idee che sviluppa diventano un concetto di sempre maggiore portata, Disneyland. Disney trascorre cinque anni a migliorare Disneyland e deve creare una nuova filiale della sua società, chiamata WED Enterprises, per ideare e costruire il parco. La filiale è costituita da un gruppetto di suoi dipendenti degli studi Disney che aderiscono al progetto di sviluppo di Disneyland in qualità di ingegneri e pianificatori e sono soprannominati Imagineers. Quando Walt presenta loro il suo progetto dice: «Voglio che Disneyland sia il luogo più meraviglioso della terra e che un treno faccia il giro del parco». Il fatto di divertire le proprie figlie e gli amici nel suo giardino facendo loro fare dei giri sul suo Carolwood Pacific Railroad aveva ispirato a Disney l'idea di includere una ferrovia nei progetti per Disneyland. Disney riuscì a dare vita al progetto di realizzare una serie di parchi divertimento sparsi in tutto il mondo; il primo, Disneyland, apre nel 1955 ad Anaheim, vicino Los Angeles, in California. … 4) Friederich-Wilhelm von Hase, Musei e parchi in ambito tedesco: dal recupero dei siti archeologici alla creazione di parchi tematici La Saalburg presso Bad Homburg v.d. Hohe, traduzione 89 dal tedesco di Maria Aurora von Hase-Salto .RGZM, Ernst-Ludwig Mainz, Germania. «Particolare interesse hanno i parchi archeologici che custodiscono testimonianze del periodo romano. Citiamo la Saalburg in Assia , il parco archeologico di Xanten nella Renania-Westfalia e quelli di Schwarzenacker nella Saar, Aalen in Baden-Wurttemberg e Cambodunum-Kempten in Baviera . Saalburg, è un accampamento romano in gran parte ricostruito, situato sul limes nel Taunus a nord-ovest di Bad Homburg, del quale si ignora il nome antico. Nell'ambito di scavi sistematici, a partire dal 1856, furono riportati alla luce notevoli resti di un accampamento militare romano con annesse abitazioni civili (vicus). Si trattava, come si poté dimostrare, della sede della cohors II raetorum civium equitata. Bisogna quindi ipotizzare uno stanziamento militare di più di 500 uomini. Nel sistema difensivo della frontiera romana, cioè del limes, la Saalburg doveva avere la funzione specifica di controllare un valico sul Taunus in direzione nord. La ricostruzione del castrum romanum fu attuata secondo il progetto di Louis Jacobi, fedele alla ben documentata fase V dell'accampamento romano, che occupava un'area di 222,50 x 147,2 m. Vale la pena ricordare che questo tipo di attività, oggi di gran moda e denominata "archeologia sperimentale" non è certamente un'invenzione dei nostri tempi, potendo vantare una tradizione che risale agli anni '60 del secolo scorso sia in Germania che in Francia….. Karl August von Cohausen (1812-1894), prima ufficiale del genio e poi stimato archeologo, diresse gli scavi sulla Saalburg a partire del 1871 e propose già nel 1872 la ricostruzione dell'accampamento romano. 5) Adolf Loos (1870 Brno, 1933 Vienna) "Io ho scoperto la nozione che segue e l'ho regalata al mondo: evoluzione della cultura è lo stesso che dire eliminazione della decorazione dall'oggetto d'uso corrente. 6) Han Van Meegeren ( 1888 - 1946) costituisce uno dei casi più emblematici e misteriosi della storia dell'arte, essendo stato scoperto come il più abile falsario di ogni tempo solo dopo la sua confessione. Da giovane venne giudicato un artista fallito sebbene fosse un acuto e profondo conoscitore della pittura olandese del Seicento, affascinato in particolare da Jan Vermeer. Nato verso la fine dell'Ottocento, il futuro falsario all'inizio si esercitò a lungo ricopiando fedelmente gli originali per impadronirsi non solo delle tecniche, ma persino dello 'spirito' e della raffinata sensibilità con cui Vermeer dipingeva gli interni, le nature morte, oggetti come bicchieri o brocche sulla tovaglia bianca; poi cominciò a rovistare nelle botteghe di modesti antiquari e rigattieri alla ricerca di vecchi quadri del '600 privi di valore da cui raschiava accuratamente il colore. Non commise mai l'errore di vendere le copie, sebbene perfette in ogni particolare, poiché sarebbe stato facilmente smascherato. Volle invece creare dei quadri nuovi che nessuno aveva mai visto: con una tale aderenza stilistica e tematica che tutti inconsapevolmente gridarono al miracolo, convinti di trovarsi al cospetto di eccezionali rinvenimenti... 'meravigliose scoperte' che arricchivano la Storia dell'arte e l'umanità intera di nuovi capolavori. Han Van Meegeren non vendeva copie o repliche ma interpretava, rivisitava i grandi maestri olandesi del Seicento, non solo Vermeer, con straordinaria immedesimazione, identificandosi perfettamente con la sensibilità pittorica e creativa che li aveva ispirati. Tuttavia questa dote fuori dal comune non sarebbe bastata ad ingannare gli esperti se non avesse avuto anche l'abilità di procurarsi materiali adoperati trecento anni prima, nonché la certosina pazienza di indurirli perfettamente, inserendo con cura della polvere nel falso appena terminato per provocare la claclure, ovvero lo spontaneo invecchiamento dei secoli. Eppure talvolta abbandonava queste precauzioni, quasi a sfidare la sua stessa bravura come accadde per L'Ultima Cena, elaborata sopra un quadro di poco valore senza preoccuparsi di cancellarlo come si scoprirà - anni dopo - con una fotografia ai raggi X. Altre volte rischiava grosso usando formati diversi da quelli abitualmente adoperati da Vermeer, sebbene ne imitasse scrupolosamente la preparazione della tela che veniva fissata sul telaio con piccoli cunei di legno a testa quadrata posti a circa 9 cm. di distanza. Il grande falsario aveva anche scoperto come l'olio ricavato dai lillà potesse legarsi perfettamente alle sostanze dure con cui preparava i colori. Conosceva a memoria il trattato di De Vild in cui si descrivevano minuziosamente tecniche e materiali adoperati da Vermeer. Paradossalmente proprio questo famoso esperto (De Vild) era stato fra i primi ad ingannarsi avallando 90 l'autenticità delle clamorose falsificazioni. Persino Abraham Bredius, il massimo luminare dell'antica pittura olandese, aveva definito La Cena di Emmaus (un falso) il più eccezionale dipinto di Vermeer, un capolavoro indiscutibile! Peccato che Vermeer in realtà non avesse mai eseguito tale soggetto. Nell'aprile del '38 la rivista Art News, commentando il quadro esclamava "ecco qui il ritegno classico di un Piero della Francesca!". Han Van Meegeren con le frodi si era arricchito, ma soprattutto vendicato di coloro che non lo avevano mai apprezzato come pittore di suoi quadri originali. Aveva persino venduto al capo delle SS naziste, Heinrich Himmler, dipinti falsi per un valore di cinque milioni e mezzo di fiorini, una cifra enorme per quel tempo. Proprio per questo nel 1945, alla fine della guerra, fu processato in Olanda per collaborazionismo con i nazisti - accusa per cui rischiava l'ergastolo - Allora rivelò per la prima volta di essere un falsario e di aver venduto ai tedeschi i suoi falsi. Nessuno volle credergli: un artista senza talento in grado di dipingere perfettamente nello stile, nella tecnica, nell'invecchiamento capolavori del Seicento? Impossibile! L'imputato chiese di dimostrarlo in aula e davanti ai giudici allibiti dipinse un Gesù nel tempio che gettò nel panico e nella costernazione critici ed esperti di tutto il mondo, i quali si vedranno costretti a revisionare tutta l'Opera di Vermeer e altri grandi maestri olandesi del XVII secolo. Un anno dopo, alla fine del 1946, Van Meegeren sarebbe morto all'età di 58 anni, portandosi nella tomba i segreti della sua genialità e lasciando in eredità agli studiosi i tanti dubbi che ancora oggi li assillano. 7) Esempio dell’inserimento dell’antico - da un progetto dell’Architetto Vittorio Mazzucconi: Akademia, dove elementi dell’architettura greca sono inseriti in un edificio moderno. 91 Rafael Moneo, vittima inconsapevole del modernismo? Perché parlare di Rafael Moneo? Per due ragioni. Primo perché ha concepito e realizzato almeno un’opera che parzialmente contraddice i pochi ma rigidissimi canoni dell’essere “moderno”. Secondo perché non dimostra una fede granitica in questi rigidissimi canoni, che nessuna dittatura politica si sognerebbe di imporre. L’opera della quale voglio parlare è il museo romano di Merida (1980 – 85) messo a confronto con l’ampliamento del Museo del Prado a Madrid, opere entrambe di Moneo. Il Museo nacional de arte romano (MNAR) venne istituito nel 1838 per raccogliere il materiale archeologico proveniente dagli scavi effettuati nelle vaste rovine di epoca romana a Merida (1). Si tratta di statue, mosaici, epigrafi e steli funerarie, dal I al IV secolo. Già ospitato nel convento di Santa Chiara è ora sistemato nel moderno edificio finito nel 1984, realizzato su progetto dell’architetto Rafael Moneo (2). Il nuovo Museo sorge direttamente nell’area archeologica inglobandone anche alcuni resti architettonici. La grande navata del Museo di Merida. Il Museo romano di Merida ha il merito, forse unico tra gli edifici moderni del suo genere, di mostrare nell’aspetto esteriore ciò che cela al suo interno: reperti di epoca romana esposti 92 con estrema chiarezza in una atmosfera che restituisce il tempo e l’anima in cui quei pezzi sono nati e in cui sono “vissuti”. Questo contraddice con il principio consolidato del modernismo secondo cui un’architettura ha da essere indifferenziata, priva di ogni riferimento temporale e spaziale. Le altre opere di Moneo, delle quali parleremo in seguito, sono della c… pazzesche, secondo una espressione molto efficace, diventata di moda recentemente. Sono opere che, oltre alla istituzionale bruttezza del “moderno”, contengono anche una dose letale di incertezza, di indecisione per cui alla disarmonia di fondo sommano confusione in una totale incapacità espressiva. Ma torniamo al tema. Elemento essenziale del Museo di Moneo a Merida è l’illuminazione, che trasforma le sale di esposizione in scenografie teatrali con l’impiego sapiente della luce naturale. In sostanza la luce, che entra dall’alto, dal tetto trasparente illumina gli oggetti esposti contro il fondo scuro, opaco delle pareti in mattoni, accostati senza mostrare la malta di collegamento. Moneo ha fatto ricorso all’illuminazione in campo oscuro, che accresce la drammaticità dell’atmosfera del luogo. Tuttavia assolutamente nessuna parentela, come vorrebbe Masserente (3), con le immagini di Piranesi, che invece si abbandonava a fantasticherie architettoniche scavate nella pietra e fatte di pietra, immerse in una luce incerta, come vediamo ad esempio nelle sue vedute delle Prigioni.. La serie egli archi nella sala principale comunica un senso di ridondanza, come giustamente nota Masserente che dice: «questa ridondanza appare piuttosto come un’idea di continuità, ovvero come volontà di tradurre in chiave contemporanea l’idea di costruzione romana e, nel contempo come capacità di accogliere ed esporre in modo adeguato reperti e frammenti dell’architettura antica. Un gioco di rimandi al limite dell’ambiguità, dal momento che il sistema di murature parallele, sul quale è impostato l’impianto del Museo, si riferisce ad un principio tettonico che è tutt’altro che appartenente alla classicità romana, ma semmai riprende lo schema iterativo di tanta parte delle strutture industriali moderne o il principio compositivo di alcuni grandi spazi gotici e medievali, o, ancora, nella volontà dell’architetto, che intende suggerire l’atmosfera dell’interno di certe basiliche romane o di certe incisioni di Piranesi. Sezione trasversale sulla grande navata La stessa sottile ambiguità nell’uso del riferimento antico si può rilevare nell’impianto del Museo, che è il risultato di un abile contrappunto tra la costruzione in mattoni e un sistema di solette in cemento armato. 93 Un’analoga ambiguità è possibile rilevare nello stesso uso dei materiali: Moneo chiarisce infatti come la struttura materica delle murature del Museo non sia affatto un riferimento letterale all’opus romano….» E’ evidente la preoccupazione dei commentatori di non far neppure sorgere il dubbio che ci possa essere una “copiatura” dell’architettura romana, ma solo un richiamo ovviamente in chiave moderna. Condanna senza appello se si scoprisse anche una sola traccia di una reale copiatura. Si parla quindi di “ambiguità” nella quale annegare il sospetto che ci possa essere un rimando troppo diretto ai reali monumenti romani. 94 Ecco perché appare privo di qualsiasi fondamento l’accostamento con Piranesi. Eppure a Moreno è stata affibbiata la definizione di un’architettura moderna classicheggiante, I reperti non sono molto significativi, ma Moreno è riuscito a farli apparire splendidi e vivi. Si è detto che Moreno avrebbe tratto ispirazione dalle stampe di Piranesi. Non è vero: Piranesi mostra le strutture in tutto il loro spessore, la loro materialità rocciosa e massiccia a sfidare i secoli. In Moreno si vedono le strutture trasformate in quinte teatrali con un certa leggerezza immateriale. Ma vi chiederete, come è possibile che sia uscito un edificio come questo concepito da un architetto solidamente indottrinato nei vangeli della nuova architettura scritti e officiati tra gli altri dal famoso Bruno Zevi? Forse si è trattato di un errore di gioventù. Ecco che cosa invece ha concepito il nostro architetto per restare nel novero dei quasi grandi architetti: 95 Si tratta della Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli, una bellissima dedica ma un pessimo progetto. Un pasticcio informe, con simboli privi di senso. La cosa principale che appare è il desiderio di Moneo di continuare ad essere considerato un architetto allineato ed anzi possibilmente leader del moderno astratto. Sono state affastellati elementi tratti dal più trito modernismo, il tutto riuscendo ad apparire non una chiesa e neppure una fabbrica oppure un magazzino, ma lo scherzo di una mente mediocre. L’architetto di grido oggi deve inventarsi ad ogni costo un linguaggio proprio, anche se la fantasia non lo sostiene e neppure lo incoraggia. Se per parlare e per comunicare tra noi ciascuno dovesse inventarsi un linguaggio proprio sarebbe la babele delle lingue e dei significati essendo impossibile comprendersi. Cosa che infatti si verifica nell’arte ed in particolare nell’architettura. Moneo, come si è detto all’inizio, apparentemente non ha certezze granitiche, come altre archistar. E’ interessante verificare le sue idee direttamente dalle sue parole. Prendiamo il dialogo tenuto con Marco Casamenti sul tema: Riflessioni sul progetto (4): «Marco Casamonti:…. ciò che interessa è la capacità e la costanza con cui ogni volta il progetto si reinventa, il rifiuto di una riconoscibilità epidermica, come possiamo spiegare questo desiderio continuo di sperimentazione? Rafael Moneo: Non so, forse è paura, difficoltà a lavorare con un linguaggio proprio. Eppure io trovo una continuità nella logica con la quale sono stati risolti tutti questi progetti. A me non interessa sapere in anticipo cosa farò nel prossimo progetto, cerco viceversa di lasciarmi andare di fronte al foglio che ho sul tavolo; questo non essere preparato, questo poter rifuggire da “ciò che si deve fare” rimane per me la prerogativa più affascinante di questo mestiere. Questa diversità dell’architettura, cioè la varietà che nasce dalla differenza delle situazioni in cui si va a operare è ciò che cerco di celebrare con il mio lavoro. M.C.: Ogni tuo progetto instaura un legame profondo con la città che lo accoglie. È forse per questo che i progetti mostrano delle variazioni così evidenti rispetto a quelli che li precedono o li seguono? Il classicismo e il mattone romano a Mérida, un razionalismo “Novecento” nella pietra di Murcia, l’ipermoderno nei vitrei volumi sulla baia di San Sebastian, solo per citare gli esempi più noti dove la scrittura costruttiva sembra plasmarsi al variare dei temi, della storia e delle condizioni geografiche… R.M.: …. Quando mi trovo di fronte a un nuovo incarico, domando a me stesso: “cosa vedi?” In tanti anni di lavoro e con gli strumenti disciplinari che ho acquisito, non ho fatto altro che cercare di affinare questa logica, una metodologia, ma nonostante l’esperienza, la maniera istintiva con cui rispondo in un certo senso mi impaurisce. C’è sempre un primo momento, nel progetto, in cui non sai bene dove vuoi arrivare, hai solo la guida del tuo istinto, … È importante sottolineare che anche durante la costruzione l’opera pone una certa resistenza a mostrarsi “completa”. La completezza è una cosa che si raggiunge solo alla fine della costruzione, fino a quel momento il progetto si “nasconde”, l’architetto è animato da una voglia immensa di scoprire quanto è racchiuso nel progetto che solo ad opera finita si mostra. È come se l’opera difendesse strenuamente questo senso di sorpresa che la costruzione riserva anche a chi svolge questo mestiere da lungo tempo. … M.C.: Evidentemente i materiali assumono una importanza straordinaria all’interno del progetto, nel tuo modo di pensare e costruire un’architettura, proviamo a definirne il ruolo? R.M.: Ho sempre avuto una vera e propria fede nei materiali. Dirti perché sarebbe difficile. Per spiegare questo concetto ho fatto spesso riferimento al lavoro dei miei colleghi che parlano di architettura astratta. Il primo Peter Eisenman ad esempio parlava di un’ architettura indifferente ai materiali che proprio grazie a questa indifferenza trovava la sua essenza nell’astrattezza della struttura formale; viceversa io ho sempre ritenuto che proprio i 96 materiali costituiscano la sostanza dell’architettura, ossia che l’edificio porti nella sua la sostanza materica molto di quello che vuole essere nella sua essenza concettuale. Merida sarebbe un altro progetto se le murature fossero in intonaco anziché in mattoni! Un edificio come Bankinter sarebbe impensabile senza quell’integrarsi della terracotta con la struttura formale che fa sì che nelle bucature delle finestre si renda la misura dello spessore del mattone: questo fa parte della sostanza dell’edificio…..………………… M.C.: Il tema della classicità, che si estrinseca con evidenza oltre a Mérida, nell’aeroporto Siviglia con l’uso della colonna e dell’arco, è comunque presente con costanza in molti altri progetti, tuttavia anche l’adesione alla modernità costituisce una costante immodificabile del tuo lavoro. Forse hai esplorato contemporaneamente classico e anticlassico perché entrambe appartengono ad una storia di cui ti appropri indifferentemente? R.M.: È una domanda difficile… Nell’aeroporto di Siviglia io volevo dire qualcosa, …. Mi è sembrato da subito che questo confronto tra l’edificio e l’aereo poteva giocare di più con le differenze che con la somiglianza. Trovo che molti aeroporti che sfruttano l’estetica dell’ aereo quale riferimento architettonico siano molto noiosi. Mi piaceva misurarmi con un aeroporto che iconograficamente fosse agli antipodi di quel tipo di architettura, per questo l’elemento classico è entrato nel progetto non in maniera stilistica, ma quasi come l’ elevazione di una funzione che è quella di un passaggio, di un modo d’arrivo. Siviglia è l’unico aeroporto dove si lascia la macchina in un giardino di arance ed entrando si avverte un’atmosfera non lontana da quella che avvolge la città stessa. Ecco perché non è tanto una classicità letta come tale, come cifra stilistica, quanto l’interpretazione di un carattere. … La modernità è soprattutto quella storica, ed è quella che suscita in me sentimenti di ottimismo. Sì, decisamente la caratteristica che più mi affascina della modernità è l’ ottimismo, non certo la tecnica, anche perché in un certo senso la tecnica non è più nelle mani degli architetti, come accadeva ai tempi della cupola del Brunelleschi o delle grandi cattedrali gotiche. M.C.: In che modo ti poni il problema dell’architettura e del dibattito sull’architettura? Come rispondi con il tuo progetto a quanto accade sulla scena architettonica internazionale? R.M.: Con molti dei miei progetti sono consapevole di prendere posizioni distanti da quelle di tanti altri, e in certi momenti questo è un po’ angosciante perché mi vedo solo. Ma allo stesso tempo c’è il fatto che posso offrire agli altri una testimonianza diversa da quelle maggiormente frequentate. In questo senso senz’altro i miei progetti costituiscono risposte e contributi da sovrapporre al lavoro degli altri. ….» Ci sono molti spunti interessanti in queste affermazioni. E’ un vero peccato che le sue realizzazioni quasi non portino tracce di queste riflessioni. Gli scritti di Rafael Moneo Moneo è stato autore di opere di architettura di notevole pregio ed interesse. Quella che più risalta, almeno nel titolo è: “La solitudine degli edifici”. Un titolo che in realtà ci fa pensare alla solitudine dell’architetto. Molto pregevole ho trovato l’Introduzione, scritta da Daniele Vitale: «SCORRE RAPIDO E IMPREVISTO il tempo concesso agli uomini. Fragile è la loro memoria. Per questo essi tendono a identificare gli eventi con le cose. Per questo aspirano a costruire paesaggi che abbiano stabilità. Solo immaginando corrispondenze con le cose, la memoria può vincere la propria mutevolezza e definire un quadro, solo così trova modo di perpetuarsi e acquista respiro collettivo. Singolare è dunque il destino dell'architettura: perché essa nasce per corrispondere a bisogni concreti, ma ponendosi come fattore di riconoscimento e identità, da subito li oltrepassa e li trascende. Questo spiega la particolarità del suo rapporto con il tempo. Le città e i paesaggi si sono lentamente formati nel tempo e se ne sono nutriti; ma essi rappresentano anche un modo di fermare il tempo, di trattenerlo, di rinchiuderlo nel contorno di 97 una forma. Nel corpo e nella forma rivelano le loro interne profondità, come se vi fosse in essi una misteriosa risonanza delle epoche e delle generazioni. L'architettura partecipa di questa risonanza. Pochi architetti contemporanei conoscono come Rafael Moneo queste profondità e questi riti. Pochi intendono quanto l'attualità sia irretita nell'esperienza della storia. Nel considerare la vicenda della Moschea di Cordova, parla della vita degli edifici, e ne parla come di vita distinta da quella degli uomini. Nelle sue parole risuona l'eco di quelle straordinarie di John Ruskin, e della sua «lampada della memoria». Vitale mostra un’ottima conoscenza di quella sensibilità virgiliana verso il tempo e le cose che lo scandiscono. Un’atmosfera che ci richiamano alla memoria le parole di Virgilio. «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (I, 462). Tuttavia è ben difficile accostare queste parole alle cercate disarmonie dell’architettura di oggi, compresa quella concepita da Moneo. Non dubito che se John Ruskin avesse avuto la sfortuna di vedere le opere degli architetti modernisti sarebbe inorridito, tanto più se avesse constatato che le sue idee vengono contrabbandate come sostegno ad un moderno blasfemo e irriverente. Ampliamento del Museo del Prado Il famosissimo Museo del Prado è stato ingrandito recentemente (1998-2007) con una soluzione preceduta e seguita da polemiche che hanno interessato gli intellettuali madrileni e di tutta la Spagna. L’ampliamento del Museo è stato possibile grazie all’esistenza di uno spazio contiguo al Museo stesso: il chiostro che apparteneva alla chiesa de Los Jerónimos. Del chiostro esisteva il perimetro delimitato da quattro pareti con due ordini di finestrature con archi leggermente ribassati. Anche per superare l’ostilità di chi non gradiva un intervento in una zona antica di Madrid, si è deciso di recuperare il chiostro con un accurato e difficile restauro. Tutte le pietre del chiostro vennero smontate, restaurate e rimontate. La chiesa de Los Jerónimos con il chiostro, come era prima dell’intervento per ampliare il Museo del Prado Alla fine il chiostro con le sue arcate è tornato al suo antico splendore. Si è ottenuto così l’inserimento dell’antico in una struttura moderna, quello che si era detto nell’articolo: Re98 cupero dell’antico con le copie, come rimedio estremo per cercare di salvarsi dal nulla del “moderno”. In questo caso l’antico, essendo tutto interno all’edificio, all’esterno non può dare alcun aiuto. Questo lavoro dimostra come la vocazione di oggi sia quella del restauro, mentre la capacità di fare architettura nuova e valida sia nulla, al punto che l’edificio alla fine, dove cerca di essere originale nella facciata esterna, appare come il frutto, brutto, di uno stile uscito direttamente dal lato peggiore di un’architettura fascista deteriore. Per dire chiaro: Piacentini non credo avrebbe concepito una simile bruttura. Questo è il problema di un edificio museo perfettamente funzionale nel suo interno, ricco di memoria storica grazie al perfetto restauro del chiostro, ma che all’esterno appare una tronfia e brutta copia di un’architettura di un paese del socialismo reale, che appunto mutuò dall’architettura fascista. Sull’ampliamento del Museo del Prado è interessante l’articolo di Michele Costanzo, pubblicato sulla rivista on-line hortus (5). « … la soluzione adottata ha messo in moto un acceso dibattito circa i criteri da seguire per attuare tale programma, nonché l'opportunità o meno di porre in atto l'addizione di un palazzo storico, progettato nel 1785 da Juan de Villanueva. L'edificio neoclassico, voluto da Carlo III di Borbone, venne aperto al pubblico nel 1819. Lo stato di tensione venutosi a determinare negli ambienti culturali della capitale spagnola e, più in generale, nell'opinione pubblica, a seguito delle molteplici questioni storiche, ambientali, culturali che il programma veniva a porre, andrà ad influenzare negativamente il concorso per l'ampliamento del museo, bandito nel 1994, a cui parteciperanno oltre 700 progettisti. La commissione giudicatrice, nel dicembre del 1995, …., stabilirà di non assegnare nessun premio. Nel 1996 sarà bandito un secondo concorso e nel 1998 sarà proclamato vincitore il progetto di Moneo; nel 2000, infine, sarà presentata la soluzione conclusiva, che terrà conto di una serie di osservazioni ….. Moneo riteneva che l'edificio di Villanueva, dopo una serie di ampliamenti realizzati tra il 1847 e il 1968, tutti concentrati sulla fronte retrostante della costruzione …, non fosse più in grado di accettare ulteriori aggiunte. … egli orienta il progetto … avendo come punto di riferimento costante il chiostro cinquecentesco della chiesa de Los Jerónimos…. L'idea dell'architetto spagnolo, partendo dalle cattive condizioni del chiostro e dalla sua posizione più elevata rispetto alla quota della strada, sarà quella di utilizzare tale dislivello costruendo attorno ad esso un "cubo", ossia una struttura in cemento armato rivestita di mattoni rossi …..». Questa soluzione deriverà dal fatto che non sarà più possibile riconnettersi con le antiche fondazioni del chiostro essendo stati ricavati, al di sotto, quattro piani espositivi, illuminati da un cavedio che li attraversa, a partire, dalla posizione dominante del chiostro stesso, coperto da un ampio lucernario. (si veda la sezione del nuovo complesso) «Il "cubo", arricchito da una porta di bronzo di Cristina Iglesias, è congiunto all'edificio del Prado tramite un volume triangolare seminterrato, denominato vestibulo, che passa sotto il livello stradale, ed è destinato ad ospitare i servizi di accoglienza del pubblico: biglietteria, book-shop, caffetteria-ristorante. Il tetto di questa nuova ala è trasformato in un giardino pensile … Moneo, nell'intento di porsi al servizio della struttura museale preesistente, cerca di evitare, com'è sua abitudine, la strada del "protagonismo" e di non trasformare l'architettura in feticcio. Egli, dunque, punta essenzialmente a favorire la percezione di unitarietà dello storico edificio del Prado, creando in corrispondenza, come osserva ironicamente Juan José Lahuerta, un «[...] disadorno cubo di mattoni intorno al chiostro» (Juan José Lahuerta, “Sull'ampliamento del Prado. Nota sull'ironia”, Casabella n. 765 aprile 2008); proprio per comporre, … un impianto percettivo rispetto alla nuova aggiunta, come all'insieme urbano, ben strutturato e chiaro nella sua essenza. » 99 Il complesso con il chiostro prima dell’ampliamento del Museo Ecco la facciata dell’ampliamento del Museo del Prado. Richiama prepotentemente lo stile littorio, in versione borghese. Ne è stato fatto di progresso in oltre settant’anni! Se si vuol trovare chi è disposto a scrivere panegirici al posto delle critiche, sia pur velate, si raccomanda di cercarlo tra gli italiani L’ampliamento del Museo del Prado, commissionato dal Ministero della Cultura, fu inaugurato nell’ottobre 2007. 100 Il chiostro nella fase di montaggio delle pietre originali restaurate, sostenute dalla nuova struttura in cemento armato retrostante. Il chiostro come appare a restauro ultimato 101 Plastico dell’ingrandimento del Museo del Prado. Da questa sezione sembra proprio che si sia costruito un (brutto) cubo di mattoni attorno al chiostro della chiesa de Los Jerónimos, Juan José Lahuerta aveva ragione. Ma la “modernità” aveva concesso anche troppo permettendo il salvataggio dell’antico chiostro e il suo inserimento nel nuovo museo. 103 Particolare dello studio di un tratto del chiostro per il restauro delle singole parti . Come per il contestato museo archeologico di Atene, anche per il rinnovamento del Museo del Prado la soluzione evita per quanto possibile l’inserimento di una nuova struttura in ambiente di grande interesse storico ed archeologico. Si preferisce ricorrere a spazi ricavati sotto terra. Rimane poi aperto il problema di sistemare gli interni, ma questo è un aspetto su cui le critiche si accaniscono meno. 104 Museo Thyssen-Bornemisza Nuove strutture sul tetto del museo Thyssen- I lucernai Oltre alla soluzione infelice della facciata della nuova sezione del museo del Prado, Moneo si cimentò anche nella sistemazione di altri musei tra cui il Museo Thyssen-Bornemisza (6) a Madrid, che derivava da una lunga trasformazioni del Palazzo di Villahermosa, costruito nella seconda metà del XVII secolo con interventi dell’architetto Francisco Sánchez. Alla fine fu l’architetto Antonio López Aguado a portare a termine una prima ristrutturazione dell’edificio e, successivamente (dopo la Guera de la Independencia, 1808-14), ancora un’altra, tali da conferire all’edificio le sembianze attuali. Quando negli anni Ottanta iniziarono le prime trattative tra lo Stato spagnolo ed il barone Heinrich Thyssen-Bornemisza per una cessione temporanea della sua grande raccolta di dipinti (nel 1988 fu firmato un contratto di prestito, conclusosi nel 1993 con la definitiva acquisizione da parte dello Stato spagnolo) fu indicato proprio il Palazzo di Villahermosa come la sede più appropriata per il futuro museo dell’omonima collezione. Per la necessaria rivisitazione degli ambienti, fu scelto Rafael Moneo, che aveva al suo attivo il Museo di Arte Romana di Merida. Ma certo in questo caso non seppe ripetere il miracolo che aveva compiuto a Mérida. Senza addentrarci nei dettagli di questa opera si può dire che il risultato estetico come si vede è penoso, qualche cosa di simile ad un grande forno crematorio. Conclusioni L’incompatibilità tra il nuovo e l’antico nasce agli inizi del ‘900 con una differenza radicale tra i due mondi: l’abbandono di qualsiasi ornamento in nome di una rigida funzionalità e razionalità degli edifici. Poiché si tratta del trionfo della ragione si potrebbe pensare che le radici della nuova architettura e del “nuovo” nell’arte siano nell’Illuminismo. Ma questo era scomparso più di 100 anni prima, e quindi è difficile addossargli questa colpa, anche perché dopo gli anni dell’Illuminismo abbiamo avuto il periodo romantico con il ritorno al medioevo e a seguire tanti altri che si conclusero alla fine con il Liberty. Paradossalmente poi funzionalità e razionalità, che dovrebbero essere di derivazione illuminista, vengono presto messe da parte. Anche se pochi lo sanno una certa influenza la ebbe Hegel, che iniziò a collegare sul piano del pensiero filosofico il progresso della scienza e della tecnica con la creazione artistica. Nell’immediato negli anni di Hegel, come prima per l’Illuminismo, non ci furono conseguenze 105 sulla “produzione” di arte e sul suo continuo fisiologico rinnovamento. Nel seguito, agli inizi del XX secolo, comparvero movimenti tutti in feroce competizione tra loro, avendo tuttavia in comune la rottura totale con il passato. Solo allora le riflessioni di Hegel si fecero realtà. L’approccio di Hegel verso il mondo dello spirito e dell’arte, è stato molto più violento di quello Illuminista, che si limitava a considerare l’influenza della scienza e della tecnica sui meccanismi della produzione industriale, relegando i problemi dello spirito entro una vaga concezione meccanicistica di tutta la realtà. Hegel dà per scontato che tutto si possa e si debba sottoporre all’analisi della ragione, che alla fine avrà la capacità di dare a tutto una spiegazione razionale. È con questo presupposto che egli ha iniziato a distruggere l’arte (e la fede religiosa), che per lui deve e può essere analizzata sino in fondo, tentando di privarla del suo mistero. Questa convinzione della supremazia assoluta della ragione non è suscettibile di una dimostrazione razionale, ma implicitamente è un atto di fede, che quindi paradossalmente è ancora alla base di tutto l’impianto del pensiero illuminista ed hegeliano. La vera rivoluzione in architettura venne con il Bauhaus, che dette origine come noto ad un movimento partito dalla Germania, da Weimar dopo la prima guerra mondiale, prima dell’avvento del nazismo al potere. Il movimento spostò poi la sede nel 1926 a Dessau. Gli architetti del gruppo abolirono lo studio di tutta l’architettura precedente e concepirono un modo di costruire assolutamente privo di simboli e di ornamenti, secondo regole ferree di “funzionalità”, un concetto che subirà poi deformazioni, sino a trasformarsi paradossalmente in uno stile, lo stile funzionale, rigido ed intollerante e non funzionale! Essendo lo stile nato in regioni nordiche, una delle regole fu quella di dare agli edifici vaste vetrate in modo da consentire la massima luminosità con la conseguente rottura del confine tra interno ed esterno. Poiché l’altra regola sarà quella di costruire ignorando le condizioni ambientali, le tradizioni e gli usi locali, avremo un’orgia di vetrate anche in zone caldissime e dannatamente assolate. La scuola venne chiusa dal nazismo nel 1928. Docenti ed allievi si trapiantarono negli USA dove il successo fu immediato. Le vetrate vennero realizzate sempre più grandi sino a comprendere tutte le pareti e costituire quindi immensi specchi. Le proporzioni di questi specchi, per i guru dell’Architettura moderna, avrebbero significati magici di infinita ed incompresa bellezza. Il risultato è un problema: quello di difendersi dal sole negli interni, dove poi si preferisce utilizzare luce ed atmosfera artificiali (luce al neon ed aria condizionata). La concezione salvifica e sanitaria della luce solare e dell’aria libera oggi urta contro un sole troppo caldo ed un’aria esterna troppo inquinata. Ascoltiamo concerti di musica classica entro auditorium che hanno forme e stili pensati per essere in conflitto con tutto ciò che è stato creato prima della “modernità”. All’epoca in cui Mozart scriveva la sua musica, in architettura avveniva la transizione dal rococò al neoclassico, la musica di Vivaldi nasceva dentro l’architettura del Palladio. Ascoltare la musica che chiamiamo classica non è stato ancora proibito dalla modernità, anche perché la tecnica è venuta in soccorso con riproduzioni perfette. Ma riproporre l’architettura degli anni in cui vivevano quei compositori è considerato un reato gridato da schiere di architetti famelici. Quegli architetti che sono alla continua ricerca del successo mediatico, aggiogati al carro delle poche e feroci archistar. La musica “moderna” colta, alla Stockhausen, non ha avuto molto seguito. L’unica musica dei nostri giorni è quella “leggera”, la musica dei cantautori. Forse solo la musica da sballo di certi raduni oceanici sarebbe adatta agli auditorium di Frank Gehry, ma è quella la bandiera del futuro? L’arte delle immagini non è più nei quadri dei pittori ma è nei cartelloni pubblicitari, nei fumetti, nei cartoni animati e nella fotografia, il tutto coadiuvato dalla computer grafica e cose analo106 ghe. Nell’architettura, grazie alla complicità di politici privi di cultura, si è installata una vera dittatura planetaria. Siamo costretti a pregare e ad assistere alle funzioni religiose dentro un’architettura concepita secondo principi non solo atei ma anche contro l’uomo. L’architettura di oggi, insieme ai suoi adepti, dovrebbe essere accusata di delitti contro l’umanità. Note 1) Mérida, capoluogo della regione Estremadura, fu capitale della provincia romana della Lusitania e importante centro religioso all’epoca dell’espansione del cristianesimo. La città fu fondata come colonia dai soldati veterani di Augusto delle legioni V e X, gli emeriti, da cui deriva il nome di Augusta Emerita, nel 25 a.C. e fu costruita in gran parte da Marco Vespasiano Agrippa, amico e genero dell’imperatore. La nuova città iniziò subito un periodo di grande splendore sì da divenire negli ultimi anni del regno di Augusto una delle più importanti città di tutto l’impero. Era situata sulla cosiddetta via de la Plata (“via dell’ argento”), che univa la Cantabria alla Betica. La città nacque per due scopi. II primo era ospitare i veterani delle legioni V e X (emerita da cui il nome Mérida), congedati dall’ imperatore dopo le guerre cantabriche; il secondo garantire il funzionamento di due vie di comunicazione essenziali: la via dell’Argento - che univa Mérida ad Astorga - e la via che collegava Toledo a Lisbona. La vasta raccolta di statue e frammenti architettonici romani sono custoditi nel Museo Nazionale di Arte Romana. Lo splendido passato della città di Mérida ha creato uno dei complessi monumentali e archeologici meglio conservati di tutta la Spagna. L’impronta romana è presente quasi in ogni angolo della città, che ha nel Teatro Romano una delle sue costruzioni più significative. Eretto nel I secolo a. C., aveva una capacità di 6000 spettatori. Lo scenario è presieduto da due file di colonne sovrapposte e ornato da sculture di divinità e personaggi imperiali. Accanto si trova l’Anfiteatro, spazio adibito alla lotta di gladiatori e fiere. Questa costruzione, contemporanea alla precedente, conserva alcuni dei suoi elementi originali, come le gradinate, i palchi e le tribune. In pieno centro di Mérida sorgono il Tempio di Diana e l’Arco di Traiano che, con i suoi 15 metri di altezza, è anche una delle porte di accesso alla città. Nei dintorni è possibile ammirare il Ponte Romano sul fiume Guadiana che spicca per la sua monumentalità: 800 metri di lunghezza e 60 arcate, uno dei più grandi del suo genere. Va ricordato anche l’Acueducto de los Milagros (Acquedotto dei Miracoli), che compensando il dislivello del fiume Albarregas, serviva a rifornire la città dell’acqua proveniente dal vicino bacino di Proserpina, mediante una diga di epoca romana che ancora si conserva. Il Museo Nazionale di Arte Romana, di Rafael Moneo, contiene oltre 36.000 pezzi – tutti provenienti da Mérida e dintorni. Della dominazione mussulmana sono rimasti alcuni esempi architettonici. Di fronte al fiume Guadiana si innalza il più importante di essi, la Alcazaba. All’interno della fortezza araba si trova una cisterna di origini romane, riedificata e ornata con pilastri di fattura visigotica. Annesso a questa piazza difensiva si trova il Convento di Santiago, costruito nel periodo in cui la città era sotto la giurisdizione dei Cavalieri dell’Ordine di Santiago. Per visitare Emérita Augusta si può iniziare dal Teatro Romano (I secolo a.C.); la sua gradinata poteva accogliere fino a 6.000 spettatori, la scena era riccamente decorata con file di colonne e statue. Ancora ai nostri giorni è scelto come luogo di rappresentazione di diverse opere teatrali e musicali. Nelle sue prossimità si trova l’Anfiteatro (I secolo a.C.) destinato allo svolgimento di giochi, soprattutto alla lotta dei gladiatori contro le fiere. Al centro della città s’erge il Tempio di Diana: nel XVI secolo le sue colonne furono utilizzate da culture 107 posteriori. Fu capitale della Lusitania e importante centro culturale, economico e strategico militare. Con la decadenza dell’impero e la calata dei popoli germanici s’indebolì e subì devastazioni degli Alani nel 409 e dei Suebi nel 439. Fu poi occupata stabilmente dai Visigoti che ne fecero la capitale di un loro piccolo regno nei secoli VI e VII. Nel secolo VI si diffuse il Cristianesimo e a questo periodo risale il martirio di santa Eulalia che divenne la venerata patrona della città. Nel 713 fu conquistata dall’esercito arabo guidato da un non meglio identificato Muza. Gli Arabi utilizzarono parte dei materiali degli edifici romani ormai in rovina e costruirono l’Alcazaba e le loro abitazioni. Nel 1230 le truppe cristiane di Alfonso IX di León conquistarono la città, che diventò sede del “priorato de San Marcos de Leon” dell’”ordine di Santiago”. Con l’unificazione dei regni di Aragona e Castiglia e l’ascesa al trono dei re cattolici cominciò per Mérida il recupero dopo il periodo arabo. All’inizio del XIX secolo l’invasione napoleonica arrecò molti danni in tutta l’Estremadura e diversi monumenti di Mérida furono distrutti. Nel 1993 venne dichiarata dall’UNESCO “Patrimonio dell’Umanità. 2) L'architetto José Rafael Moneo Vallés, conosciuto come Rafael Moneo, nasce il 9 maggio 1937 a Tudela in Spagna. Durante gli studi lavora a Madrid presso lo studio di Francisco Javer Sáenz de Oiza (1956-61). Laureato nel 1961 presso la Escuela Tècnica Superior de Arquitectura di Madrid (ETSAM), lavora presso lo studio di Jørn Utzon a Hellebaek, in Danimarca per due anni, mentre dal 1963-65 è a Roma, borsista presso l' Accademia di Spagna. Nel 1966, Rafael Moneo, di ritorno in Spagna, apre il suo studio a Madrid ed insegna Elementi di composizione alla ETSAM. Nel 1974 fonda con altri la rivista "Arquitectura-Bis". Partito alla volta degli Stati Uniti nel 1976, vi lavora per due anni presso l'Istituto di Architettura e Studi Urbani di New York. Insegna quindi presso l' università di Princeton e Harvard dove dirige sino al 1990 il Dipartimento di Architettura. Negli anni 1985-90, tiene un corso presso l'Ecole Polytechnique di Losanna. Dal 2003 Rafael Moneo insegna presso la Harvard University School of Design http://dev.edilone.it/Jos%C3%A9-Rafael_progettisti_y_61.html 3) Alessandro Masserente “Ritorno a Mérida”, ARTE DEL COSTRUIRE http://www.laterizio.it/costruire/_pdf/n76/76_42_47.pdf 4) Marco Casamenti, “Riflessioni sul progetto: incontro con Rafael Moneo”, lunedì 3 marzo 2003 Madrid, http://mk-mk.facebook.com/topic.php?uid=53460391412&topic=6951 5) Michele Costanzo, “Rafael Moneo. L'ampliación del Museo del Prado a Madrid” http://www.vg-hortus.it/index.php?option=com_content&task=view&id=345&Itemid=33 Igor Maglica “Ampliamento Museo del Prado” http://www.laterizio.it/costruire/_pdf/n134/134_04_09.pdf 6) Igor Maglica Museo Thyssen http://www.laterizio.it/costruire/_pdf/n93/93_04_11.pdf 7) Raffaele Giovanelli, “L’ARCHITETTURA ATTUALE MITIGATA CON INSERIMENTO DELL’ANTICO”, http://www.lacrimae-rerum.it/documents/ARCHITETTURAMITIGATA.pdf 8) Da un panegirico scritto per lodare il nuovo museo archeologico di Atene: «…. nel linguaggio delle forme rifletta la decostruzione della società e della storia. La celebre mostra «Deconstructivist Architecture» al MoMA (1988), che lo vide fra i protagonisti (con 108 Frank Gehry, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Daniel Liebeskind, …, esaltò un linguaggio d'avanguardia che profetizzava un futuro dominato dalla frammentazione della tradizione, ma ricomposto da un pieno controllo espressivo di forme minimali creativamente associate alla funzione. Tschumi, ideatore del progetto, ha creato una struttura volutamente non-monumentale progettata secondo idee lineari e precise che si richiamano alla chiarezza concettuale e matematica dell'architettura dell'antica Grecia. "La forma dell'edificio si presenta come una risposta alla sfida di creare una struttura che sia degna di ospitare le più suggestive sculture dell'antica Grecia e di farlo in un ambiente storico e monumentale", spiega Tschumi. "La posizione ai piedi dell'Acropoli si confronta direttamente con il Partenone, uno degli edifici più importanti della civiltà occidentale. Allo stesso tempo, abbiamo dovuto considerare l'estrema delicatezza degli scavi archeologici la presenza della città contemporanea e della sua griglia di strade, il clima caldo di Atene ed il rischio sismico di questa regione." » ARCHITETTURA DIPINTA DELLA LIGURIA Da una vecchia intervista di Adalberto Falletta all’architetto Massimiliano Fuksas (Il Giornale 13-06-2000) apprendo che in Italia gli architetti, sommati a chi svolge lavori attinenti l’ architettura, raggiungono il ragguardevole numero di circa 100 mila. E’ in realtà una specie di forza politica (una lobby) formata da persone che hanno ricevuto una formazione rigidamente modernista, che hanno un robusto spirito corporativo, che non viene intaccato neppure dalle rivalità interpersonali. Anche se vogliamo tener conto dei dissidenti (critici verso il modernismo), che non credo superino il 5% del totale, si tratta sempre di una forza di pressione ideologica molto pericolosa per il futuro dell’architettura italiana ed anche per una sana conservazione dei nostri monumenti. Infatti non sono rari i casi in cui, per costruire qualche cosa di nuovo ad ogni costo, si sono fatti scempi estetici e sperpero di denaro pubblico, come nel caso dell’edificio di Meier per ospitare l’Ara Pacis a Roma, senza citare i tanti monumenti restaurati ricorrendo ad energiche sbiancature che cancellano tracce di precedenti affreschi o stucchi. E’ forse per questo che ho sempre pensato che fosse poco opportuno parlare dell’architettura dipinta della Liguria, un esempio raro di sopravvivenza dell’ amore per le immagini e per la bellezza che, nei secoli passati, fu la base per la creazione dell’ architettoniche in Italia, come in tutto il resto del mondo. Si dice che in Liguria sia esistita una tassa per ogni finestra che si affacciava sulla via, Quelle che davano all’interno, sul cortile pare che fossero esenti. Da qui sembra sia nata l’usanza di dipingere finte finestre sulle facciate esterne. Per quanto abbia cercato informazioni ufficiali a Santa Margherita Ligure, non ne ho ricavato molto. Non ho avuto miglior fortuna cercando di parlare con un funzionario del Comune di Genova. Mi è stato detto che un proprietario, per far dipingere la facciata del suo edificio. deve presentare un “progetto” in Comune per l’approvazione. Da una lapide dipinta sul muro di una casa si apprende che per la spesa dovrebbe essere esistito un finanziamento proveniente dalla Comunità Europea, ma non ho trovato alcun riscontro. Forse da buon ligure il proprietario non voleva apparire troppo generoso. 109 Ho scoperto che nei Comuni la persona incaricata di seguire l’ornato delle facciate di regola è un architetto, che ovviamente ha ricevuto insegnamenti universitari improntati alla negazione dell’ornato sotto qualsiasi forma questo si presenti. Si tratta spesso di un architetto che ha ricevuto la delega per l’ornato da un assessore, un politico che di solito è in tutt’altre faccende affaccendato. Gli architetti prodotti dalle scuole di architettura sono un numero sterminato come si è già detto. E’ naturale quindi che gli architetti vadano ad occupare qualsiasi posto che abbia una qualche relazione con l’architettura. Se non hanno provveduto a completare la loro preparazione, di solito hanno ben poca dimestichezza con l’ornato, anzi spesso hanno accumulato contro l’ornato un sordo rancore, o quantomeno una stabile ostilità. Se poi vogliamo confrontare l’ornato dipinto della Liguria con i graffiti che imperversano in tutte le città del così detto mondo civile, dobbiamo riconoscere che esiste una differenza radicale tra queste due forme di espressione per immagini. I graffiti sono il risultato di un apparente gesto di rivolta, in realtà sono un lasciapassare per entrare nel mondo dell’individualismo anarchico. Quindi si tratta di immagini incomprensibili a chi è fuori da quel mondo. Sono tante dichiarazioni di esistenza in vita. Dichiarazioni che appartengono alla ristretta cerchia di iniziati. Esse hanno in comune con l’arte pittorica astratta, informale, ecc. il fatto di realizzare forme espressive autoreferenziali, destinate a gruppi di iniziati, gruppi dentro cui dovrebbero circolare gli stili e i linguaggi dei singoli leader. Infatti nel mondo dei graffiti esiste, anche se in forme meno evidenti, la stessa ossessiva ricerca dell’originalità, della differenziazione ad ogni costo, che troviamo nella pittura "ufficiale", quella monopolizzata dai galleristi, come la ritroviamo senza pudore nelle architetture delle archistar. Quindi nulla in comune con l’architettura dipinta della Liguria. Dove domina l’ornato dipinto è ben difficile vedere graffiti, che sarebbero considerati dai proprietari come autentici attentati al loro patrimonio. Là dove l’architettura dominante lascia le sue tanto celebrate superfici vuote, delimitanti volumi considerati di “magica bellezza”, lì esiste l’abbandono di uno spazio che i graffitari sentono il bisogno di riempire. Ma si tratta di un riempire che in realtà non è in contrasto con l’architettura “moderna”, anzi in certi casi è benevolmente considerato un fatto complementare. I graffiti sono più o meno espressioni grafiche che si ispirano a certo astrattismo, che non è poi tanto lontano da quella stessa architettura che lascia quegli enormi spazi vuoti, dando l’impressione che questi spazi siano intenzionalmente vuoti perché siano riempiti dai graffitari. Torniamo all’ornato dipinto (o architettura dipinta) della Liguria. Esso nasce e si mantiene in vita come esigenza di una società che non ha abbandonato la volontà di esprimere i suoi sogni quotidiani e le immagini della vita. E’ miracoloso che il fenomeno sia potuto sfuggire alla dittatura del modernismo. Secondo la definizione di Loos (1) la pratica dell’ornato starebbe ad indicare un regresso dal mondo civile verso una inciviltà tribale. Peggio ancora se si tentano di imitare altri materiali, come pietra o marmo. Al contrario dei graffiti, le immagini della Liguria sono state fatte per essere comprensibili, poiché hanno il compito di evocare una realtà sognata, una speranza od uno scherzo. Quindi nulla in comune con i graffiti che poi spesso si abbandonano all’ evocazione di immagini stupidamente trucide. Le immagini sulle facciate delle case e dei palazzi in Liguria sono fatte per evocare momenti della vita quotidiana con qualche sogno e richiamo a tempi lontani. 110 Un graffitaro al lavoro. Nulla in comune con i pittori professionisti che fanno architettura dipinta in Liguria Tutto quello che si vede (2) in realtà è dipinto, compresa la damigiana con i suoi riflessi. 111 Come si è detto sopra, il tentativo di scoprire chi sostiene i costi di questa architettura dipinta ha incontrato molta reticenza. Sembra che le spese siano sostenute esclusivamente dai privati, proprietari dell’ edificio, ma si è trovata almeno una eccezione, questa: La lapide, che certifica l’esistenza di un finanziamento della Comunità Europea, è dipinta, così come tutto il resto, eccettuato il foro che dovrebbe essere autentico. Però circa il finanziamento non è stato possibile avere riscontri. In rete degno di nota ho trovato solo un blog sull’argomento dell’ornato in Liguria. E’ il blog di Carla Marchetti (2), che peraltro alla fine dice espressamente: riproduzione vietata 112 Il simpatico vecchietto che si affaccia sulla porta è un dipinto, porta compresa. E’ uno degli infiniti scherzi che si incontrano in Liguria con queste pitture realizzate con grande maestria e realismo. La pavimentazione attorno a Villa Durazzo di Santa Margherita Ligure. L’effetto cromatico è ottenuto molto semplicemente accostando sassolini bianchi e neri. Il gusto per l’ornato ha radici antiche in Liguria. 113 Il tema dei gatti sul davanzale delle finestre (ovviamente dipinte) è molto diffuso (2). Via Gramsci a Genova (2). Qui abbiamo un’intera architettura dipinta. Il tono è aulico e non indulge a mettere in evidenza aspetti “vernacolari”. 114 Questa finestra con inferriata è un dipinto, con i riflessi sui vetri (dipinti) che danno un forte realismo. 115 Il porto di Santa Margherita. La facciata riccamente ornata dell’edificio che ospita i servizi portuali e negozi. Se poi usciamo da questa Europa così omologata vediamo che il modernismo nemico dell’ ornato non sembra trionfare sempre e dovunque. In alcuni paesi islamici, non toccati dalla maledizione degli enormi introiti petroliferi, è rimasto un sano attaccamento alle proprie tradizioni. Parlando dell’evoluzione dell’ architettura in alcuni paesi come il Marocco Jean Loup Pivin dice(3): “Mentre parte del mondo non trova alcun significato nella decorazione e la elimina, l’altra parte la mantiene in vita e la considera uno status di superiorità. Senza decorazione gli oggetto non esistono. Essendo convinti che della modernità non esiste un solo concetto, e che ogni concetto implica forme diverse, si tratta di uno dei passi verso un nuovo concetto di modernità. L’abbellimento non è un crimine.” Note 1) Adolf Loos da: “Decorazione e delitto” «…. Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l'evoluzione della civiltà è sinonimo dell'eliminazione dell'ornamento dall'oggetto d'uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il capo. Provavano un senso di oppressione di fonte all'idea che non si possa più produrre un ornamento nuovo. Ma come, ciò che può fare ogni negro, che hanno potuto fare tutti i popoli e tutti i tempi prima di noi, e precluso soltanto a noi, uomini del secolo diciannovesimo?» 2) Finestre di Liguria http://www.macalu.it/finestre/finestre.html dal sito di Carla Marchetti - Agosto 2005 «Esiste in Liguria, soprattutto intorno a Genova e nel Levante, l'usanza e il gusto di decorare le facciate della case con grande ricchezza di particolari, che spesso creano immagini illusorie, tipo trompe l'oeil. Arte alquanto antica, sembra, e in parte suggerita dall'esigenza di sostituire decorazioni a stucco che sono deteriorabili (il salino, si sa, corrode anche la pietra) con copie più a buon mercato e più facilmente restaurabili. Tuttavia l'impressione è che più 116 dei relativi vantaggi materiali ciò che interessa è l'estetica e il gusto per i particolari e le invenzioni. Per una volta (ma non è l'unica...) i genovesi, così celebri per la loro parsimonia, anzi tirchieria, si dilettano di decorazioni apparentemente futili e superflue, e il millantato risparmio di materiale sembra quasi una scusa per indulgere in un divertimento. Si trovano per esempio architravi e colonne dipinte, intere finestre, chiuse socchiuse o spalancate su interni immaginari, e balconi, con raffinate ringhiere di ferro battuto, e persino particolari curiosi, come fiori e gatti che dalle finestre si sporgono. Talvolta l'illusione è così forte, che davvero inganna l'occhio. e si fa fatica a distinguere l'apparenza dalla realtà. Più frequentemente l'effetto è di una decorazione più o meno raffinata e complessa che colora e accende case e palazzi.» (3) Jean Loup Pivin in ESSAY & WRITINGS On African contemporary Art : “Ornement is not a crime”, traduzione di Gail de Courcy. http://www.revuenoire.com/en/textes.php?article=ornement LEON KRIER, con Portoghesi, Palladio e Dorfles Leon Krier è un architetto ed urbanista nato in Lussemburgo. Certamente viene da un altro pianeta. Non ha assorbito nulla dal modernismo e non rispetta nessuno dei suoi principi distruttivi. 117 Gli ambienti urbani che Krier immagina sono usciti da qualche sogno dove l’automobile è assente. Non vi è traccia della volontà di sopraffazione che è l’anima perversa delle nostre società. La transizione all’attuale architettura da quella del XIX secolo e della prima metà del XX è poco comprensibile poiché è stata creata la convinzione che siamo approdati ad una condizione definitiva ed irreversibile. Krier ha il merito (e la colpa imperdonabile) di volere un ritorno alle radici. La storia dell’ architettura del periodo che ci ha immediatamente preceduto in realtà è poco valorizzata anche nei piani di studio degli architetti, che si sono laureati dopo il 1950. Architetti che furono famosi sino ai primi decenni del XX secolo, sono oggi sconosciuti, mentre sappiamo tutto degli architetti del Rinascimento o del periodo barocco. In Germania, principalmente con il recupero di molti monumenti di Dresda e di altre città distrutte dalla seconda guerra mondiale, è stata rivalutata negli ambienti colti l’ architettura del XIX secolo. Per il resto abbiamo una sempre maggiore insofferenza verso i monumenti di un’era che appare oggi lontanissima, anche se ci separa meno di un secolo. Molti critici si sono preoccupati di dimostrare l’esistenza di qualche continuità tra l’ architettura del Rinascimento, e delle sue propaggini imitative più recenti, con l’ architettura attuale. Ma il tentativo non ha attecchito per l’ evidente incompatibilità tra l’ architettura attuale e tutte quelle che l’hanno preceduta. Non è solo un problema di stile architettonico, ciò che viene coinvolto nell’ impossibilità del confronto è la perdita della centralità dell’uomo. Città che non sono e non vogliono essere a misura d’uomo non possono essere confrontate con quelle precedenti nella quali la misura d’uomo era il punto di partenza. A parte gli eccessi che si riscontrano in ogni epoca, ciò che rende impossibile la città a misura d’uomo è l’impiego totale dell’automobile e di tutti i mezzi di trasporto privati. Lentamente ed inesorabilmente le città sono diventate a misura di automobile ed oggi non basta, debbono essere a misura di SUV. Ha fatto notizia il sindaco di un paese sul lago di Como che ha proibito il transito nel territorio del comune di queste maxi-automobili. Ha dovuto giustificarsi: nel paese ci sono molte strade così strette (a misura d’uomo) che spesso i SUV restano bloccati, impediscono il traffico anche ai pedoni sino a che non si disincagliano. I vincoli creati dal passaggio delle automobili è una realtà evidentissima e quindi banale e quindi spesso dimenticata. Di questa realtà non si è tenuto conto neppure nella progettazione del celebre villaggio inglese ideale di Poundbury, progettazione in gran parte ispirata da Krier. Per essere più precisi è stata realizzata un‘ottima rete viaria e non ci si è accorti che la rete viaria era la principale architettura di Poundbury. Nel filmato (1) che mostra il villaggio come appare da un’auto che lo attraversa, le case diventano piccoli giocattoli dimenticati e muti ai bordi delle strade, costruite impietosamente a regola d'arte per il traffico delle “grandi” automobili moderne. L’architettura è tutta nelle strade riservate in realtà alle automobili e solo marginalmente l’architettura è fatta dalle case e dai piccoli splendidi palazzi progettati da Krier. Le viuzze, dove si suppone possa passare una sola auto alla volta, sembrano errori del sistema viario più che angoli pieni di umanità e di ricordi. Prima dell’avvento dell’automobile i palazzi signorili avevano ingressi riservati alle carrozze e spazi per gestire i cavalli, Le case di campagna erano costruite per gestire veicoli trainati da cavalli o buoi. C’erano gli abbeveratoi per gli animali; esisteva naturalmente un’architettura per espletare certe funzioni connesse con l’impiego di veicoli trainati da animali. Era un’ architettura a misura d’uomo e di animali. 118 Oggi non abbiamo ancora realizzato un’architettura accettabile che sia a misura d’uomo e d’ automobile. Se non si separano nettamente il mondo dell’uomo e quello dell’ automobile forse è impossibile realizzare un’urbanistica accettabile. Di solito un animale evita spontaneamente di andare addosso ad un uomo, l’automobile non ha la stessa attenzione. Una sensazione analoga si prova guardando i filmati dell’ispettore Barnaby. Gli episodi vengono ambientati in alcune contee tra le più belle del centro dell’Inghilterra, dove le abitazioni erano state concepite per veicoli come la bicicletta o il calesse. Quando un'automobile irrompe nella scena è difficile pensare che nella realtà case progettate per un'altra era possano ancora servire. Un mondo a misura d’uomo e di animali è ben diverso da un mondo a misura di automobile o di altri mezzi meccanici, che sono progettati per due motivi, che poi sono uno solo; dare prestigio e chi li possiede ed essere efficienti per lo scopo per cui sono stati pensati e costruiti, il che alla fine si traduce nel dare prestigio e soddisfazione di se ai proprietari; la funzione di trasportare velocemente persone e cose è piuttosto un accessorio. E’ indubbio che l’automobile in città è parte integrante della nuova architettura. Mitcell Joachim, laureato al Mit (Massachussets Institute of Technology) ed ex allievo dell’innominabile Frank O. Gehry, ha previsto l’impiego di automobili (2) compatibili con i suoi progetti urbanistici. Le automobili diventano gusci trasparenti, facilmente adattabili ad ogni esigenza dei più strani modi di parcheggiare. Joachim credo abbia visto giusto quanto ad integrazione del mezzo di locomozione con l’architettura. Certo è che la vettura urbana non può avventurarsi in autostrada. La vettura urbana fa parte del tessuto urbano nel quale l’ automo119 bile per fuori città non può e non deve entrare, come non possono entrare gli autocarri pesanti. Ecco due esempi di vetture integrate nei nuovi sistemi urbani proposte da Joachim. A sinistra due motociclette agganciabili in modo da realizzare, quando serve, un vettura a 4 ruote. A destra una vettura a 4 ruote tutte indipendenti in modo da consentire spostamenti in tutte la direzioni. Per Poundbury si sarebbe dovuto progettare una country.car, una vettura simile ad un fuori strada molto leggero, certamente diverso da quei mostri enormi che vengono fatti circolare oggi nelle campagne. Quindi il recupero della country-hose è fattibile solo se si costruiscono country-car, non più grandi di un calesse, con lo spirito delle vecchie case di campagna. Si dovranno soddisfare molti requisiti tecnici tra i quali l’altezza della vetture regolabile a seconda del terreno. R. Giovanelli Progetto di una vettura biposto facilmente accessibile nelle parti meccaniche, con la possibilità di trasportare carichi aggiunti. Portoghesi presenta Léon Krier La più bella presentazione di Léon Krier è quella fatta da Paolo Portoghesi nella prefazione al libro dello stesso Krier: Architettura: scelta o fatalità (3): «L’ambasciatore di un impero perduto o di una nuova modernità? L’obsolescenza di uno stile è un fenomeno graduale e complesso. Il Gotico, per esempio, già abbandonato in Italia all’inizio del Quattrocento, fioriva ancora un secolo dopo in Germania e in Inghilterra, e il Barocco ebbe le sue ultime propaggini nella architettura cinquant’anni dopo la sua condanna decretata dalla cultura neoclassica. Il «modernismo», quello stile cioè che prese il sopravvento su qualunque altro tentativo di rinnovamento del linguaggio architettoni120 co, subito dopo il primo conflitto mondiale, e basato sull’azzeramento di tutti i codici tradizionali, nonostante la intensità delle comunicazioni e l’accelerazione dei cambiamenti sociali e politici, sembra resistere imperterrito alle infinite e ragionevoli critiche che da almeno quarant’anni lo colpiscono tentando di fermarne la corsa sterminatrice. La corsa del modernismo, che dopo la seconda guerra mondiale ha coinvolto l’intero pianeta omologando le differenze, realizzando cubature maggiori di quelle realizzate nei quattro millenni precedenti, è un fenomeno la cui negatività, sotto il profilo della qualità ambientale, è riconosciuta anche dai suoi sostenitori. Essi adducono però come contropartita i numerosi capolavori artistici di una cultura che, se ha prodotto guasti irreparabili un po’ dappertutto e non ha saputo costruire una alternativa convincente alla città storica, ha permesso all’architetto-artista di esprimersi liberamente, arricchendo il «Museo della architettura» di monumenti significativi. L’aspetto paradossale di questo tentativo di giustificazione sta nel fatto che mai come durante la parentesi del «modernismo» l’architettura ha riconosciuto nello egalitarismo e nella giustizia sociale i suoi ideali e nell’ individualismo il suo nemico cercando di liberarsi proprio di quel concetto romantico di arte che dovrebbe riscattarne le malefatte (dell’ individualismo). Fatto sta che grazie al mito della architettura modernista, alimentata dalle ideologie più diverse, la nostra società consegnerà alla storia, …… una immagine di se stessa assai peggiore del vero; proprio il contrario delle società del passato, come quella antica e quella medievale, che hanno lasciato la preziosa eredità di modelli urbani che rispecchiavano gli aspetti migliori di società per altro cariche di ingiustizie e di privilegi. Può darsi che, scrivendo tra un secolo la storia di questa difficoltà di «uscire dal modernismo», la responsabilità dello stallo sarà attribuita alla incertezza delle alternative proposte dalla cultura architettonica, al loro discostarsi di poco da ciò che volevano sostituire. Il Postmoderno, per esempio, così come il Decostruttivismo, nelle loro manifestazioni più corrive, ci appaiono già come travestimenti del «modernismo», obbedienti alla stessa logica individualistica che privilegia il nuovo fine a se stesso e rivendica una autonomia rispetto ai bisogni e ai desideri dell’uomo, che altro non è che separatezza e incapacità di comunicare. Se questo sarà il giudizio l’unico a salvarsi dalla palude degli incerti e degli esitanti sarà Léon Krier, un lussemburghese che si affaccia al dibattito architettonico agli inizi degli anni settanta entrando e uscendo dal laboratorio di James Stirling, uno dei mostri sacri della cultura dell’esitation. …. Se la prima realizzazione tridimensionale di un suo progetto è la facciata per la Strada Novissima di Venezia (biennale del 1980, ferocemente criticata da Bruno Zevi), effimera nella sostanza quanto solida e reale nel suo carattere architettonico, la sua prima casa la costruisce per se stesso in una città nuova, Sea Side, che nasce in Florida con un regolamento edilizio che prescrive il linguaggio classico, come fattore unificante, prendendo spunto dal suo insegnamento. …. Il suo classicismo non ha niente a che fare con il classicismo accademico della Ecole des Beaux Arts. Il patrimonio ereditato dalla antichità e dal Rinascimento è filtrato da una parte da uno spirito di razionalità e di semplicità e dall’altra dal rispetto per le tradizioni locali e l’interesse per il vernacolo. Ai linguaggi personali dei maestri del moderno, Krier vuole sostituire una lingua e, per ottenere questo, attinge all’unico strumento che possa offrire una garanzia di oggettività: la memoria collettiva, a quell’insieme cioè di immagini urbane depositate nei nostri cervelli, … Naturalmente un’opera così ambiziosa e orientata in profondità non può essere opera individuale e richiede, per contagiare una intera società, un ampio campo di sperimentazione. Per contraddittorio che possa sembrare, il mezzo più efficace per il contagio collettivo rimane tuttavia quell’aspetto squisitamente individuale dell’opera che è la qualità artistica. Anche in questo Léon eccelle dimostrando con i suoi pro121 getti e con le poche ma intense realizzazioni che la sua ipotesi di lingua …. ha caratteri di originalità non inferiore e spesso superiore a quello delle invenzioni più o meno gratuite del modernismo. Ci si può chiedere come mai un programma di rinnovamento così radicale, ma in sintonia con le aspirazioni e i desideri di molti, trovi tanti ostacoli alla sua realizzazione e non ci si mostri oggi che attraverso dei frammenti … di una città futura tanto desiderabile quanto improbabile. … Perché la profezia di Krier si avveri non è necessario che l’uomo abbandoni l’industria ma che abbandoni la religione dell’industria, che ci impone ancora i suoi miti e i suoi riti. E’ necessario tornare ad allearsi con la natura e riconoscere il valore delle opere costruite con le mani. Krier proviene da una famiglia di sarti e lo racconta con orgoglio. … Da scrupoloso artigiano Léon ha voluto con la sua architettura creare un vestito per una società coraggiosa … Il modello industriale è ormai in una crisi di identità irreversibile e ciò apre nuovi orizzonti a quel movimento di cui Krier è la punta di diamante. La “ricostruzione della città europea” secondo i dettami di una lingua comune, europea, potrebbe diventare una realtà nel secolo che sta per cominciare. Ma come non temere che alla religione dell’industria si sostituisca la religione dell’informazione, costringendo la città a una esistenza virtuale e quindi disseccata, senza più mani per fare e cervelli per pensare. …. Certamente la scadenza di fine secolo che ridimensionando tanti programmi rende la profezia di Krier se non più vicina più consistente, più nitida, ….. Del resto ben consapevole dei rischi, ma anche della nobiltà delle sue scelta, Léon così dichiarava a Colin Davies: ”Sono d’accordo sul fatto che mi sento un po’ fuori posto in questo mondo, e insieme a una mezza dozzina di miei amici sento che siamo ambasciatori di un impero perduto. Anche se non ci sarà nessuna fortuna per le nostre idee io non penso che le nostre vite saranno mal spese. …. Non avrebbe niente a che fare col fatto che le nostre idee siano giuste o sbagliate perché l’impero della ragione in definitiva non ha alcun potere sull’impero della follia”. Ma non si sentivano altrettanto fuori posto alla fine del secolo scorso uomini come Van Gogh, Gaudì, come “il doganiere” Rousseau» Con molta generosità Portoghesi ha cercato di far conoscere Krier del quale stimava la solitaria genialità. Ma la critica feroce e partigiana di Zevi ha colpito Portoghesi (4), implicitamente tentando di cancellare anche Krier. Portoghesi ha ignorato le critiche di Zevi, sposando invece la figura di Palladio, l’architetto che ha incarnato l’architettura della forma sovrana, la forma che costringe la funzione dentro schemi precostituiti, dove anzi la funzione può esistere solo come adattamento alla forma progettata. Palladio ha adottato la simmetria, spesso riferita a più di un asse, ed ha riscoperto il linguaggio classico, senza la mediazione rinascimentale: Palladio aveva tutte le carte in regola per diventare il bersaglio privilegiato della critica di Zevi, profeta dell’antisimmetria e del decostruttivismo. Invece no. Zevi tratta Palladio con riverenza, anche se lo trascina in imbarazzanti accostamenti con architetti della modernità, come ha fatto con Borromini, e persino con Michelangelo. Palladio gode di troppa considerazione nel mondo per tentare di demolirlo con una critica diretta. Eppure gli stessi architetti americani, cresciuti nello stesso brodo culturale di Zevi, non sono stati teneri verso Palladio, che ai loro occhi ha avuto il torto di essere stato largamente imitato nell’ architettura monumentale americana sino agli inizi del XX secolo. Con il suo piglio aristocratico Portoghesi non rispose alla critiche velenose di Zevi, ma si dedicò a proseguire la sua architettura contraria al modernismo e ad osannare Palladio, che è quanto di più lontano si possa immaginare dai furori modernisti. 122 In questi scontri che cosa c’entra il pacifico Krier? Egli ha il merito ed insieme la colpa di essere stato appoggiato da Portoghesi. Quindi la sua sorte è un po’ legata all’esito dello scontro tra le due diverse scuole di pensiero. Un esito che pare venir rimandato all’infinito. Con il suo tono, anche troppo morbido, Portoghesi (4) così parla di Palladio in occasione della presentazione della mostra dei 500 anni dalla sua nascita: «… ha saputo conquistare valori che oggi dovrebbero essere riconquistati. La sua è un’architettura che potrebbe tornare ad essere attuale se la modernità smettesse di occuparsi solo delle inquietudini e dei contrasti e accettasse di lavorare per un nuovo equilibrio. …. Le condizioni del pianeta fanno pensare che sarebbe opportuno un ritorno al culto dell’ equilibrio. Palladio ci parla di un mondo diverso da quello in cui viviamo e che domani potrebbe assomigliare al suo». In che modo un architetto moderno dovrebbe avvicinarsi al Palladio? chiede l’ intervistatrice. «Reagendo al gusto della scomposizione e della nevrosi che ha contaminato l’ architettura moderna e tornando a un’architettura della semplicità. Una parte dell’ architettura del nostro tempo è orientata in una direzione analoga ma senza la pienezza dell’ essere che Palladio è riuscito a esprimere. … è stato un architetto che ha trasformato il mondo in cui si è trovato a vivere» Le parole mielate non debbono trarre in inganno. Esse mascherano una lotta mortale tra chi vuole proseguire trionfalmente verso un’architettura astratta, ostile e priva anche di fondamenti razionali, e chi invece vuole riflettere arrestandosi, anche se siamo ormai sul ciglio del baratro. Ma Portoghesi è un maestro della parola e del gesto ed è quindi impossibili trovarlo in contraddizione e in affermazioni non immediatamente dotate di riscontro probatorio. E’ per questo che la massa degli italici architetti modernisti preferisce tenerlo lontano piuttosto che affrontarlo a viso aperto. Purtroppo non sempre Krier ha tratto insegnamento dalle parole di Portoghesi. E neppure ha saputo restare fedele al cliché che di lui sapientemente egli aveva costruito. Si è spesso cimentato in dibattiti senza possedere la necessaria capacità dialettica. Giovanni Bartolozzi in un suo breve saggio: Ventate Accademiche (5) riporta alcune frasi di Krier pronunciate in occasione della presentazione della rivista AIÓN (in greco TEMPO) all’università di Firenze il 16-12-2002. …. Se sono vere esse sono quanto meno avventate: "postmoderno vuol dire futuro e il movimento moderno non esiste". Questo sarebbe stato detto da Krier in quell’occasione in cui il pubblico era in prevalenza costituito dall’architetto quadratico medio, che di solito ha poca dimestichezza con il disegno a mano libera e che ha ricevuto una formazione rigidamente modernista. Molto meglio e più esatto sarebbe stato dire: il postmoderno non è mai nato perché non si differenza dal moderno se non nelle intenzioni. Bartolozzi riporta anche: "Auschwitz è passato, bisogna cambiare pagina e l'unica poesia ancora possibile è quella classica" Altra fesseria. Così Bartolozzi ha potuto scrivere (5) cose molto velenose contro Krier. Appena percettibili cambiamenti del famosissimo critico Gillo Dorfles Adesso parliamo di Gillo Dorfles, il critico che ha tenuto a battesimo il modernismo in Italia. Vediamo se appare un ravvedimento che possa dare spazio agli architetti come Léon Krier. Ciò che risulta è che si evidenziano solo piccoli spostamenti nel suo atteggiamento verso il modernismo. Le basi teoriche restano salde nei primi vagiti del movimento, ma certi sviluppi recenti cominciano ad essere mal digeriti anche da Dorfles. Ci limitiamo all’interessante recente intervista (6) che gli dedica Daniela Panosetti. Si inizia parlando dell’ultimo saggio di Dorfles: Horror Pleni, nel quale si scopre una certa presa di distanze dagli aspetti estremi della modernità senza limiti e senza freni, proprio quella stessa modernità che a Dorfles più giovane appariva come la fuga salvifica da un ordine soffocante. 123 La scusa per prendere le distanze è quella che in giro c’è troppo di tutto, ma non si dice che il troppo si nota quando ciò che ci sta addosso non piace più. Il troppo colpirebbe anche quei domini artistici, come il design e l’architettura, che, secondo Dorfles, con la modernità sembrano intrattenere una vera e propria affinità elettiva. Ma è stata proprio questa affinità con la modernità della tecnica una grossa mistificazione operata dal modernismo. Questo Dorfles, come tutti i modernisti, non lo riconosceranno mai. Prosegue l’intervista: conta più la forma o la funzione? Questione annosa e ormai “del tutto superata” dice Dorfles, che aggiunge: «E’ evidente che alla base del design e di qualsiasi forma architettonica la funzione rimane fondamentale, a differenza di quanto avviene nelle arti pure dove non esiste un aspetto pratico immediato». Concetto almeno un poco tardivo visto che Adolf Loos lo aveva chiaramente enunciato un secolo fa. Ma riaffermato oggi è anche almeno una pia ingenuità visto che il designi ed ancor più l’architettura vivono di ghiribizzi, spesso anche di cattivo gusto, oltre che contrari nettamente alla funzione. Infatti Dorfles sembra correggersi subito dopo dicendo: «allo stato attuale non sussiste più una stretta e assoluta dipendenza tra i due aspetti: oggi moltissimi oggetti di design presentano un elemento estetico, o simbolico se si preferisce, che pur andando al di là del valore d’uso rimane comunque molto importante» Viene da confrontare con la religiosa umiltà della case e delle urbanizzazioni di Krier, dove la funzione appare chiaramente sovrastare la forma senza tuttavia umiliarla mai, anzi assorbendola. Vediamo ora come viene elegantemente criticata l’opera del grande Meier. Dorfles comincia con la “copertura” dell’Ara Pacis, pur considerando Richard Meier «senza dubbio uno dei migliori architetti attualmente in attività, autore di lavori … apprezzabili» dice che egli ha compiuto il grande errore di «aver soffocato un’opera che doveva restare visibile dall’esterno, tutt’al più attraverso una teca cristallina». In un’epoca in cui il vetro viene usato senza limiti né ritegno, in questo caso si poteva ben impiegarlo in modo assennato. Ma Dorfles non sa, o finge di non sapere che, secondo i dettami del modernismo puro e duro, l’opera antica diventa un’anticaglia, mentre ha valore solo l’architettura del presente con la sua firma d’autore. Ma anche l’altro “capolavoro” di Meier: la chiesa di Tor Tre Teste non si salva dalle critiche: «… non si sposa affatto col paesaggio di Roma e non ha assolutamente quelle caratteristiche “mistiche” che una chiesa dovrebbe avere». E’ un vero peccato che i Cardinali che hanno chiamato Meier non abbiano percepito questa carenza di misticismo! Il rischio in questi casi è che l’architettura rinunci ad armonizzarsi all’ ambiente, limitandosi a marchiarlo, apponendovi una firma. «Indubbiamente è vero che nell’ultimo decennio si è assistito a un’esagerazione nella ricerca di originalità a tutti i costi. Si sono viste sorgere architetture spettacolari che però molto spesso non avevano una real ragion d’essere … si è prodotta una vera e propria innovazione formale, che dimostra la vitalità che quest’ arte conserva rispetto ad altre.» Certo rispetto alla pittura astratta, all’arte informale, a certa musica ormai indefinibile, l’ architettura produce oggetti reali, purtroppo! Ma l’architettura moderna non si vuole armonizzare con niente, neppure con se stessa. Questo Dorfles sembra averlo dimenticato, ma grazie alla sua antica dialettica ha poi un colpo d’ala: «Ma non basta ad affermare che l’architettura degli ultimi tempi è in cattive condizioni». Ci si chiede quante altre schifezze dovranno essere costruite perché si dica ufficialmente che l’architettura è malata? Ma Dorfles ha trovato la via d’uscita: si salverà l’ architettura che rie124 sce a «piegarsi ai nuovi materiali, abbandonando la cristallizzazione del primo razionalismo», che almeno aveva il merito di usare materiali “poveri”. Non c’è più bisogno di «costruire parallelepipedi di cristallo e acciaio … Da Hans Hollein a Frank Gehry, da Renzo Piano a Richard Rogers, solo per citarne alcuni». Senza dimenticare Massimiliano Fuksas, che con la nuova Fiera di Milano «è riuscito davvero a piegare l’ architettura fieristica a un elemento estremamente funzionale, coniugandolo tuttavia a una fastosità veramente eccezionale». Per favore ridateci almeno i vecchi parallelepipedi di cristallo e acciaio, salvateci dalle mostruosità sbilenche di Frank Gehry, che andrebbe cancellato con ignominia dal novero degli architetti e le sue opere rase al suolo. Senza dimenticare le assurdità di Fuksas, che nella Fiera di Milano è riuscito a coniugare il brutto con la non funzionalità più assurda. Tanto più che poi quando si passa a dare un giudizio sul nuovo quartiere CityLife il disaccordo di Dorfles è completo. Forse non si tratta di opere abbastanza sbilenche alla Gehry? No, non è questo il punto. La ragione che Dorfles adotta per rifiutare elegantemente gli edifici di CityLife è che «prima di tutto perché non c’era ragione di mettere insieme tre architetti molto noti, ma completamente diversi tra loro. Grandi nomi, come Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, che però non hanno molto a che vedere l’uno con l’altro. In secondo luogo, i tre grattacieli dovevano essere posti ai lati della exfiera, lontani l’uno dall’altro. L’effetto sarebbe stato molto più efficace. … scindere i tre grattacieli, pur mantenendoli, e collocarli in una posizione più distanziata, che li esalti senza penalizzare le loro specifiche proprietà formali». Insomma troppo in troppo poco spazio. In realtà distanziandoli la loro bruttezza risulterebbe ben diffusa in modo equanime su tutta l’area di CityLife. Insomma quei grattacieli sarebbero splendidi se solo potessimo guardarli uno alla volta. Tutti tre insieme è troppo anche per Gillo Dorfles! Note (1) http://www.fulminiesaette.it/modules/news/article.php?storyid=826 (2) GM Concept Car http://www.archinode.com/mitcar1.html (3) Lèon Krier, ARCHITETTURA SCELTA O FATALIA’, Editori Laterza 1995 (4) Laura Pasotti, La modernità del classico, intervista a Paolo Portoghesi, pubblicato su ARCHITETTURA, Carriere & Professioni, allegato a Il Giornale, anno 1, N. 2, Giugno ’08. «… Il 1980 è un anno decisivo, di scambi critici ad alto livello e molto accesi, che raggiungono l’acme nell’editoriale firmato da Bruno Zevi in ottobre sullo storico numero 300 della rivista “L’architettura, cronache e storie”; Zevi stigmatizza il Postmoderno nostrano, reduce dall’invenzione della discussa strada con le facciate di cartapesta, allestita nell’antico Arsenale di Venezia per la Biennale inaugurata nel luglio dello stesso anno, sotto la presidenza di Portoghesi. L’ostilità di Zevi appare in tutta evidenza, con il conseguente peso di una critica lucida e durissima. 125 (5) Giovanni Bartolozzi, Ventate Accademiche, 21-12-2002 http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=233 « Krier … : "postmoderno vuol dire futuro e il movimento moderno non esiste", questa la conclusione dei primi cinque minuti di conversazione, nei quali si tenta di dimostrare che avendo fallito il movimento moderno, l'unica alternativa dell'architetto è quella di aspirare al mondo classico. Tale verdetto, privo di motivazioni storico-critiche ed emesso con una superficialità che non ammette riscontro, dimostra che si intende parlare solamente di ciò che fa comodo, astraendosi dalla realtà, dalla storia, dalla vita quotidiana, dalle conquiste sudate…, scadendo dunque nella retorica più bieca. Ci spiegherebbe Leon Krier e soprattutto ci dimostrerebbe per quali motivi il movimento ha fallito? E come fa ad essere convito di una simile affermazione? Il fallimento dell'architettura moderna riguarda soltanto tutti coloro che hanno sistemato scatoloni insensibili alle caratteristiche del luogo, alle relazioni sociali, ai diversi patrimoni culturali… Dopo aver gettato fango sul movimento moderno, Krier continua infamando il decostruttivismo mediante un confronto esecrabile e in pratica paragonando le rovine del World Trade Center, proposte dai quotidiani e dai massmedia nei giorni successivi alla catastrofe dell'11 Settembre, alle architetture decostruttiviste. Tale confronto, del tutto fuori luogo, nausea a tal punto da non richiedere approfondimenti e conclusioni in merito. Irremovibile continua anche ribattendo la frase di Theodor Adorno: " Dopo Auschwitz non c'è più posto per la poesia", davanti alla quale ognuno di noi, non può fare altro che riflettere, registrando un gran regresso per l'umanità intera. Ecco, secondo Krier: "Auschwitz è passato, bisogna cambiare pagina e l'unica poesia ancora possibile è quella classica". Dovremmo forse stupirci ascoltando tali diffamazioni? Che motivo c'era di tirare in causa con tanta superficialità, vicende recenti e passate che hanno portato milioni e milioni di innocenti vittime? Ma non stupiamoci, è soltanto un aspetto conosciuto, insito nel personaggio, basti ricordare che nel novembre del '97, in una conferenza a Grenoble accusò Terragni di antisemitismo. Abbandonandosi al piano illusionistico della pura astrazione dal reale, Krier non riesce a registrare e acquisire eventi di straordinario progresso o di pauroso regresso, vivendo inscatolato in un tabù e rimanendo insensibile a tutto e a tutti. Questo, in definitiva, l'atteggiamento dei reazionari, degli accademici, di tutti coloro che sono convinti di essere nel giusto. "L'astrazione, - dice Adorno - strumento dell'illuminismo, opera con i suoi soggetti come il destino di cui elimina il concetto: per liquidarli… La pura immanenza positivistica, suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale: non ha da esserci più nulla fuori, perché la mera idea di un fuori è fonte d'angoscia"» Ma l’insensibilità alle caratteristiche dei luoghi non è forse uno dei caratteri fondanti dell’architettura moderna, per dichiarazione dei suoi stessi autori? (6) Daniela Panosetti, amor vacui, o alla ricerca del silenzio, pubblicato su ARCHITETTURA, già citata in (3). 126 L’AUTOMOBILE E IL SUO RUOLO DISUMANIZZANTE Ho scoperto che è molto difficile farsi ascoltare quando si parla di cose con le quali siamo a contatto ogni giorno, cose che crediamo di conoscere perfettamente. Avviene che si venga coinvolti in una serie di luoghi comuni. Un luogo comune diffuso è quello che ci fa considerare l’automobile uno strumento molto positivo, addirittura irrinunciabile. Per fornirle carburante non si esita a trasformare anche il grano in bio-fuel. Anzi per molti l’automobile è il prolungamento del proprio corpo. “Indossata” l’auto, il guidatore identifica il suo corpo con il vestitometallico della carrozzeria. Egli diventa miracolosamente bello e possente come una divinità. I messaggi pubblicitari sembra proprio che insistano su questo tema. Peccato che quell’ uomo-automobile, come vedremo nel seguito, sia di fatto quasi ceco, perché impossibilitato a vedere il mondo che lo circonda compresa l’architettura, bella o brutta che sia. Recentemente mi è accaduto, guardando un videoclip (1) sul villaggio di Poundbury, il sogno realizzato del Principe Carlo, di notare che purtroppo l’architettura, che dovrebbe essere prevalente nelle belle case country, è invece nelle strade, perfettamente progettate e costruite per le automobili. Queste, per il loro numero e per le loro dimensioni, mal si adattano alle case ed alle strutture urbane, progettate per andare a piedi, in bicicletta o al massimo con il calesse. Nel filmato si vede il villaggio come appare da un’auto che lo attraversa. Le case diventano piccoli giocattoli dimenticati ai bordi delle strade, costruite impietosamente a regola d'arte per il traffico delle “grandi” automobili moderne. In questa logica le viuzze, dove si suppone possa passare una sola auto alla volta, sembrano errori del sistema viario, più che angoli pieni di umanità e di ricordi. Vetture “giganti” parcheggiate davanti ad una piccola, molto umana locanda di campagna (da un blog su Barnaby, l’ispettore le cui imprese sono state ambientate nelle contee inglesi di Berkshire, Buckinghamshire, Hertfordshire, Oxfordshire e Surrey, riassunte nelle contea immaginaria di Midsomer) Il “Progresso” ha instillato nella mente dell’uomo d’oggi la convinzione che tutto sia possibile e tutto sia lecito. Nei secoli passati la malinconia veniva sopportata come uno stato dell’animo. Esisteva una letteratura che aveva come sfondo la malinconia. Oggi è considerata una malattia da curare con appositi psicofarmaci (e con l’uso dell’automobile). Altrettanto avveniva 127 per la depressione così come per il desiderio insoddisfatto di felicità. C’è chi ha scritto capolavori letterari trovandosi nella condizione di infelicità. Ma gli americani sull’argomento preferirono una soluzione radicale, introdussero il diritto alla felicità nella loro costituzione, nel loro patto sociale. Il risultato è un popolo con la sua infelicità nascosta e perennemente a caccia di felicità con ogni mezzo, compreso il piacere idiota di ammazzare gli orsi polari dall’elicottero. Il grande Sigmund Freud aveva scoperto che l’uso di stupefacenti poteva alleviare certe sindromi depressive gravi. Solo più tardi si accorse che le droghe creavano assuefazione e distruggevano il cervello oltre che la psiche dei suoi pazienti. Ma intanto la felicità per via chimica è diventata un fenomeno di massa, che alimenta un giro d’affari colossale, avvalendosi proprio delle proibizioni che dovrebbero impedirne la diffusione. Questo abuso della libertà come mezzo certo per arrivare alla felicità ha le sue influenze anche nell’architettura. Gli uomini vogliono abitare dove e come gli viene in mente, senza alcun riguardo all’ambiente, alla compatibilità con le forze della natura. Così in America si continua a vivere in case di legno, che vengono spazzate via dagli uragani sempre più frequenti. Ma siccome i pionieri si facevano le case di legno e tenevano pistola e fucile a portata di mano, loro vogliono continuare a vivere come i pionieri. Così capita spesso che si sparino per un nonnulla. Molti anni fa avevo avuto l’incarico di porre rimedio ad una frana che incombeva su un’ abitazione. I proprietari ripetevano questo ritornello: oggi andiamo sulla Luna, è possibile che non si trovi un rimedio ad una piccola frana. La piccola frana era una montagna da dove alcuni massi avevano deciso di andare un po’ più a valle, passando attraverso la loro casa. L’unico rimedio possibile erano lunghi tiranti d’acciaio infilati nella montagna ed ancorati nella roccia stabile. Il lavoro era molto dispendioso e non privo di rischi, ma i proprietari si ostinavano a non credere che fosse così difficile e costoso mettere in sicurezza la loro casa, costruita nel posto sbagliato. Sezione di un termitaio. Le dimensioni della costruzione sono gigantesche se paragonate alla dimensione di un termite. Fatte le dovute proporzioni, sarebbe come se gli uomini si costruissero di regola abitazioni più alte di due mila metri. C’è chi preferisce la casa tradizionale, tipo country, e c’è chi la vuole estrosa, anzi sempre più estrosa, tipo casa sulla cascata, che recentemente ha richiesto un restauro radicale per non precipitare nel torrente sottostante. 128 Le formiche si costruiscono i loro formicai secondo le loro particolari esigenze, le api selvatiche si costruiscono gli alveari secondo le esigenze del loro particolare stile di vita. L’uomo per depredarle del miele le ha addomesticate e imbrogliate preparando alveari modello, attraenti ed areati, ma con incluso il tranello della facile asportabilità del loro sudatissimo miele. Le termiti che sono ceche e che mal sopportano la luce del sole si costruiscono elaboratissimi termitai. Così i ragni le ragnatele, trappole per la caccia ed abitazione, per non parlare dei castori che mobilitano l’ingegneria idraulica per costruirsi l’ambiente in cui sistemare le loro abitazioni ad ingresso subacqueo. Gli uccelli si costruiscono abitazioni adatte alla loro facoltà di volare. L’architettura delle case degli animali è fatta in funzione delle loro capacità di spostarsi e del loro modo di vivere. Questo era vero anche per gli uomini, che si sono costruiti le case nelle diverse aree del pianeta in ragione delle loro usanze, del clima e dei mezzi di locomozione impiegati. Ci sono esempi celebri, come i Sassi di Matera, dove le abitazioni, umilissime ma ingegnose ed umane, garantivano l’asilo in condizioni di vita di estrema povertà. Recentemente ci si è accorti che queste abitazioni, in parte scavate nella roccia, sono bellissime. L’uomo che usa la bicicletta ha un ripostiglio apposito. L’uomo che ha il cavallo ed il calesse ha provveduto alla bisogna con un apposito patio, stalla per il cavallo e rimessa per il calesse. L’influenza dei modi di vita sull’architettura è profonda e radicale. Nel Palazzo Ducale di Urbino le scale di accesso al primo piano hanno una pendenza molto bassa, adatte a permettere l’ingresso diretto dei cavalieri a cavallo. Nel Palazzo Ducale di Parma le stalle per i cavalli hanno le mangiatoie in marmo e sono così belle da essere utilizzate oggi per allestire mostre d’arte. Ma l’uomo che usa l’automobile è lo stesso uomo che oggi ha diritto alla felicità e può fare tutto quello che gli salta in testa ed è convinto che la tecnica gli fornisca i mezzi per fare qualsiasi stupidaggine. Così l’uomo con la grande automobile non sempre si costruisce la casetta con annesso garage. Quando poi se la costruisce crea la città estesa tipo Los Angeles, con un traffico impossibile da gestire. Qualche volta l’uomo con la grande automobile ha nostalgia dei tempi andati e finge che l’automobile non ci sia o che non abbia le dimensioni mostruose che ha assunto oggi. Allora esce di casa in bicicletta o a cavallo … Il parere dei lettori A commento dell’articolo su Leon Krier (2) un lettore che si firma simpaticamente: Anonimo Parmigiano, scrive tra l’altro: «……………. sulla questione delle automobili: mi sembra un falso problema. Ma davvero è così difficile immaginare delle automobili sul Nord-Sued Achse di Berlino ? O sulle autobahnen ornate dalle statue di Josef Thoraka ? Penso proprio di no, si trattava di progetti _disegnati_ per le automobili... Eppure nella loro profondità semantica e nella loro bellezza si esprimeva uno spirito non diverso da quello delle architetture di Pericle.» Risponde un altro lettore che si firma caRmeLo: « … Lascerei in pace Pericle. E' proprio a causa del committente (Hitler?) di Josef Thorak (le cui orride statue non sfigurerebbero in un gay pride) che nel dopoguerra l'architettura razionalista ha potuto sferrare un colpo micidiale al linguaggio classico. ……… Circa il rapporto tra città classica ed automobile, ho notato che un contesto urbano classico o in stile classico si sposa molto bene con il design delle automobili Europee (specie quelle Italiane ed Inglesi) degli anni 50 e primi 60. Una lancia Aurelia non sfigurerebbe davanti al Pantheon, una MG spider si trova estremamente a proprio agio nelle città d'arte Toscane, una Mercedes 300Sl roadster è di casa a Taormina. Si tratta di a Le statue di Thorak sono orribili. E pensare che c’è qualcuno che sostiene che l’arte italiana negli anni del fascismo si sarebbe ispirata a quella tedesca nazista. 129 auto che, come sagacemente notava, hanno molto in comune con gli antichi calessi. E' a quel tipo di carrozzeria che bisognerebbe ispirarsi (magari affiancandola ad un motore elettrico) per costruire vetture a misura d'uomo e di città. ……. Giuste in teoria le osservazioni di Carmelo. Il fatto è che la Lancia Aurelia si muove ed esige strade, spianando tutto, Pantheon compreso, a meno che questo non sia adibito ad isola spartitraffico. I guai veri si pongono quando le automobili sono troppe. Allora non c’è carrozzeria che tenga. Le automobili, con le strade sempre più larghe per farle correre e le rimesse per ospitarle, stravolgono l’architettura e l’Urbanistica. Per le argomentazioni, che svolgo ora, la cosa più grave è che i miei lettori sembra non abbiano compreso il ruolo disumanizzante svolto dall’automobile, che non è un oggetto immobile come una statua. L’automobile richiede molta attenzione per essere guidata ed anche a chi non guida non lascia il tempo per vedere un’architettura diversa da quella del modernismo. Cioè una serie di scatole di vetro e acciaio, qualche volta con forme bizzarre, ma sempre “comprensibili” con una sola “occhiata”, un atto che non deve avere una lunghezza temporale maggiore di qualche secondo. L’automobile richiede anche una profonda trasformazione non solo delle città ma di tutte le immense aree che sopportano l’esistenza di autostrade o semplicemente di strade veloci, ed oggi tutte le strade, compresi i sentieri di montagna, vengono trasformate per consentire il traffico veloce. Come ha dimostrato Ivan Illich, l’automobile in realtà va molto piano perché al tempo impiegato per portarci dove desideriamo, si deve sommare il tempo impiegato a lavorare per guadagnare il denaro necessario per ammortizzare la spesa d’acquisto, le spese di manutenzione e il costo del carburante. Quindi l’automobile sarebbe vantaggiosa solo per chi ha un reddito molto alto. Per gli altri come mezzo per muoversi è un disastro. Infatti il fine principale di molte automobili non è quello di essere un mezzo di trasporto, ma uno strumento per esaltare il proprio io, esaltazione alla quale quasi nessuno sa rinunciare. Il problema non è solo nelle dimensioni intollerabili delle autovetture, degli autocarri e simili. Il problema è soprattutto nel loro numero: almeno un’automobile per ogni individuo adulto, e quasi nessuno che si sposta a piedi se non per fare footing. Coloro che sono over sessanta con un piccolo sforzo di memoria ricorderanno come erano strutturate le città cinquanta anni fa, quando i giovani si alzavano alla notte per vedere passare le vetture della mille Miglia. Allora l’automobile si adattava alle strade che erano state costruite ancora per i carri trainati dai cavalli, per qualche lento autocarro, per le biciclette e per gli scooter. Oggi le strade sono state fatte per l’automobile e transitarci con il calesse neppure pensarci, andarci in bicicletta o a piedi si può fare sfidando qualche rischio. Persino andarci con una piccola Smart non è proprio l’ottimo in fatto di sicurezza. Oggi le piazze vengono sventrate per fare grandi parcheggi sotterranei e la cosa non ci fa pensare che stiamo trasformando le città per renderle funzionali all’automobile e sempre meno adatte all’uomo a piedi. Non solo l’urbanistica e l’architettura (almeno quella non demenziale) si sviluppano in funzione dell’automobile, ma di un’automobile di dimensioni medie sempre maggiori. L’uomo ha scoperto di avere l’esigenza di spostarsi continuamente, di aver diritto alla mobilità, con il risultato che è costretto a spostarsi ormai solo su un mezzo meccanico, quindi l’architettura sarà adatta agli spostamenti di veicoli di ogni genere ed avrà un aspetto che corrisponderà a ciò che può vedere un uomo a bordo o alla guida di un mezzo meccanico. 130 Entra in scena la fisiologia della visione L’automobile e la fisiologia della visione giustificano la miseria dell’architettura moderna? Bisogna partire dall’amara constatazione che l'architettura moderna, se non si tiene conto delle opere eccessive delle archistar, corrisponde perfettamente ai gusti attuali per almeno due buone ragioni. La prima è data dal fatto che l'uomo oggi vive in automobile e quindi per poter guidare non ha, e non può avere, la percezione dei particolari in tutto il campo visivo. Sezione di un occhio umano. Particolare della retina nella zona centrale. Il segmento A_A rappresenta la linea della sezione rappresentata nella figura seguente. 131 La densità dei sensori ottici (in azzurro i bastoncini, in rosso i coni) viene riportata come numero di sensori per mm2 in funzione dell’angolo (in gradi) misurati dal centro della callotta sferica su cui è distesa la retina. La sezione della retina, riportata poi in coordinate polari, è condotta lungo la linea A_A. In corrispondenza dell’area in cui il nervo ottico entra nella retina si ha assenza completa di sensori, area indicata come “blind spot”. Come appare chiaro dalle figure, solo esplorando un’immagine con la parte (meno di 10 gradi di apertura) della retina, detta fovea, con altissima concentrazione di coni (sensibili al colore), se ne ricava l significato. Il resto della retina ci fornisce la visione quando c’è poca luce e serve a valutare solo le forme (e solo in bianco e nero!). Infatti per poter percepire e capire il senso di una forma si deve avere il tempo di esplorarne l’immagine con la zona della retina a più alta densità di sensori ottici sensibili ai colori: i coni, raccolti nella macula e più ancora nella fovea. La seconda ragione è nell’attuale idolatria della libertà di cui si è già detto. Il luogo comune della libertà intesa come valore assoluto, come negazione a priori di ogni regola, come fonte di felicità e di verità. Più libertà dovrebbe corrispondere a più felicita, più verità, più grandezza dell’opera d’arte. Dopo aver rimossi vincoli in certo senso superflui, per aver ancora maggior libertà restano da rimuovere i vincoli morali. Allora uno ad uno via anche quelli. Della libertà ci siamo ubriacati e nel suo nome abbiamo distrutto anche la realtà oggettiva ed abbiamo dimenticato la responsabilità legata ad ogni atto compiuto. In nome della libertà senza limiti crediamo sia una vittoria violare anche le leggi della fisica. Per la libertà ad ogni costo Frank Gehry, l’architetto degli edifici sbilenchi e privi di senso, ha successo. Per la libertà i giovani si drogano ed hanno un comportamento sessuale sfrenato. Il decostruttivismo si limita ad interpretare questa scelta scellerata. Anche la scelta ossessiva di spostarsi continuamente in automobile e con qualsiasi mezzo, purché sia veloce e “moderno”, è conseguenza della corsa a conseguire la libertà dai vincoli del tempo e dello spazio. In questa realtà l’Architettura attuale ha assunto la forma più adatta ad interpretare lo stato di pazzia planetaria nel quale viviamo. Quindi è impensabile sperare di modificarla in meglio. Inserire riproduzioni di architetture antiche (4 ) negli edifici attuali, avrebbe riflessi positivi. Si determinerebbe almeno un ritorno di interesse a vivere l’architettura antica, non più confinata nelle “città d’arte”. 132 Ritorniamo ad esaminare la fisiologia della visione. Queste due fotografie sono tratte dai lavori fondamentali del fisico e psichiatra russo Yarbus (2) e risalgono agli anni ‘50. La fotografia sulla destra mostra la traccia del punto di osservazione (il percorso della fovea) di un soggetto che esplora il ritratto mostrato nella fotografia di sinistra. Come appare da queste due immagini, Yarbus dimostrò che per vedere non osserviamo una scena con una scansione regolare a righe. Invece i nostri occhi, guidati automaticamente dal cervello, compiono salti, noti come saccadici (saccadi dal francese per indicare movimenti a scatti), tra diversi punti interessanti, sui quali ci fermiamo per un breve tempo. Non usiamo i movimenti saccadici per disegnare una rappresentazione completa di una scena visiva, ma esaminiamo solo alcuni punti essenziali per interpretare il significato dell’immagine. Prospettiva della Città Radiosa di Le Corbusier 133 Alcuni esperimenti suggeriscono che noi ci appoggiamo a concetti, fissati nella memoria, per registrare l’informazione, ricordando solo la localizzazione di certi punti importanti. Noi ripetiamo i movimenti saccadici anche per recuperare le informazioni visive. E’ interessante notare che i bambini, quando sanno solo scarabocchiare, di solito lasciano su un’immagine segni che assomigliano a quelli scoperti da Yarbus. Agli occhi di chi guida potrebbe presentarsi, ad esempio, un’immagine simile alla famosa città radiosa di Le Corbusier. Allora ci chiediamo: quanto tempo è necessario per “vedere” questa prospettiva? Essendo un’architettura scarna, priva di ornamenti, circa un minuto o poco di più, se guardiamo l’immagine riprodotta su un foglio. Nella realtà tridimensionale almeno 3 minuti. Ma l’osservatore si muove a bordo di un’auto che corre almeno a 60 km/ora, quindi un chilometro al minuto. Quando ha finito di vedere ha percorso 3 chilometri. In questi 3 minuti il campo di osservazione è mutato mentre l’osservatore alla guida di un’ automobile deve tener d’occhio le altre macchine che lo precedono e che lo seguono. In realtà per vedere la prospettiva della città radiosa egli deve utilizzare la fovea in “time sharing” con il controllo del traffico. Il risultato è che se il guidatore, a rischio suo e degli altri, vuol guardare la “meraviglia” di Le Corbusier, dovrà accontentarsi di una visione molto approssimativa. Molto peggio sarebbe se si trattasse di un’architettura del XIX secolo con archi, colonne e capitelli. Se poi si viaggia lungo un’ arteria a scorrimento veloce la velocità è almeno di 120 km/ora, che equivale a 2 chilometri al minuto. Il guidatore non può distrarre l’occhio dalla strada, i passeggeri avranno solo immagini molto fugaci e approssimative. Ecco allora perché l’architettura moderna viene in soccorso, grazie alla sua generale banalità ed alla sua ripetitività con conseguente noia, che ci esonera nella maggioranza dei casi dal fare lo sforzo di vedere. Per non molestare chi guida sono stati aboliti anche i cartelli pubblicitari lungo strade ed autostrade, cartelli che o non venivano visti, oppure provocavano incidenti. Conlusioni Oggi sembra che, sia pure inconsciamente, ci si stia adattando al fatto che l’architettura, vista da chi si sposta a piedi, è radicalmente diversa da quella vista da chi si muove in automobile. Le aree pedonali nelle città si arricchiscono di edifici antichi restaurati, edifici che, guarda caso, possono essere apprezzati solo nelle aree pedonali. Le cure meticolose nei restauri e nei recuperi di edifici costruiti prima che esistesse l’automobile, hanno senso se quegli edifici sono inclusi entro un’area pedonale, altrimenti è fatica sprecata. Anzi i graffitari percepiscono l’estraneità degli edifici antichi in zone di traffico automobilistico e si accaniscono senza pietà. Note 1) Filmato in Yutube di una visita in automobile del villaggio di Poundbury www.fulminiesaette.it/modules/news/article.php?storyid=826 2) Yarbus demonstrated that human beings, as these pictures show us, do not scan a scene in a raster-like fashion. They rather perform jumps, known as saccades, between the different points of interest, on which fixation is maintained for a short period. We do not use saccades to paint a complete internal representation of a visual scene. A few experiments suggest that we rather rely on the external word for storing information and only remember 134 pointers to relevant locations in the scene. We then make use of saccades to retrieve the information as we need it. Therefore, saccades constitute a way to select task relevant information. This is confirmed by the fact that, as Yarbus already noticed, the saccadic pattern depends on the cognitive task to be performed. In these images we remark that most of the time is spent looking at the eyes and the mouth. Other studies show that these are the regions we mostly rely on for face recognition. We therefore focus on those regions for our Facial Features detection and Face Authentication algorithms. http://diwww.epfl.ch/lami/team/smeraldi/saccadic/yarbus.html Occhio e fotocamere Davide Dassio http://www.nadir.it/pandora/occhio-e-fotocamere/dassio.htm Leonardo e la visione maculare http://www.fondazionemacula.it/pagine/dettaglio_scienza.php?id=1 Macula and Fovea http://depts.washington.edu/ophthweb/maculapic.html The eye and its part http://www.99main.com/~charlief/Blindness.htm 3) R. Giovanelli, “Leon Krier, i suoi legami con Portoghesi, Palladio e Dorfles”, 04 luglio 2008 http://www.lacrimae-rerum.it/documents/0-LEONKRIER-x.pdf 4) R. Giovanelli, “Recupero dell’antico con le copie”, 08 aprile 2008 http://www.lacrimae-rerum.it/documents/RecuperoAnticoVeroneseCenadiCana.pdf 135