I MILLE VOLTI DEL PERÙ
Viaggio nel profondo di un paese segnato dalla repressione
di Luca Di Mauro
Le righe che seguono non hanno la pretesa di
costituire un saggio sul panorama politico
peruviano ma piuttosto una serie di violente
impressioni ricavate durante un mese e mezzo
di viaggio attraverso il Paese. Le cose viste ed
ascoltate tuttavia, danno un quadro parziale
dunque, ma vivo ed immediato di uno dei paesi
meno conosciuti e più difficilmente comprensibili
del continente sudamericano.
Per raggiungere Nazca da Arequipa prendiamo
un "carro popular" (autobus autoctono), volendo
assicurarci posti abbastanza comodi e nella
parte anteriore del mezzo prenotiamo i biglietti
con ventiquattro ore di anticipo ma è tutto
inutile: finiamo nei penultimi sedili. La fila dietro
di noi è occupata da cinque donne, sedute e
stese su pacchi e pacchi di incerto contenuto
che occupano i loro sedili, i ripostigli soprastanti
ed il corridoio. Una sesta si è di fatto creata un
posto tra le due file e siede su una pila di valige
accanto a noi (quest'ultima emana, diciamo
così, un odore intenso). Ovviamente non
funzionano le luci personali (per leggere o
prendere appunti) e noi appariamo fin troppo
turbati dalla realtà (umana troppo umana) che
ci circonda. Vedendoci palesemente a disagio,
incuriosite da noi e desiderose di rompere il
ghiaccio le donne ci rivolgono la parola: sono
tutte venditrici ambulanti che da Arequipa vanno
a Lima a smerciare per strada i loro prodotti:
non hanno messo le loro mercanzie nel
portabagagli dell'autobus nella speranza che,
sedendosi sopra alle balle di merce, riusciranno
ad eludere, in parte, i controlli della dogana tra
una regione e un'altra. Sono anche sconvolte
perché la notte precedente una loro "collega",
nel tentativo di opporre resistenza ai doganieri,
è stata coinvolta in un incidente avvenuto
all’autobus (la dinamica esatta non sanno o non
vogliono spiegarcela) ed è morta a 28 anni
lasciando una figlia di 12.
Anche loro sono di tutte le età, dalla più vecchia
con un impronunciabile nome quechua alle più
giovani (Karin e Katherine) che a 15 e 16 anni
ancora vanno a scuola ed accompagnano
occasionalmente le madri.
Ci chiedono, in caso di controllo, di aiutare ad
occultare le balle, garantire (ma per questo
basta la nostra presenza di stranieri) che i
doganieri non diventino troppo rudi e, se
necessario, di fotografarli. Per fortuna arrivati al
posto di blocco nessuno sale sull'autobus e le
nostre vicine riprendono il viaggio visibilmente
sollevate.
Per il resto ci parlano di loro e ci chiedono di noi,
sono esasperate dal carovita (il nove agosto uno
sciopero generale avrebbe coinvolto tutto il paese
sul tema senza che tuttavia ne uscisse alcun
segnale politico chiaro) lodano la rivoluzione
indigenista di Evo Morales in Bolivia e
stigmatizzano la sinistra filo-industriale e
filoamericana al governo in Perù. A noi chiedono
come viviamo, dicono ogni dieci minuti di volersi
infilare nei nostri zaini, l'Europa (in particolare la
Spagna) è una delle poche speranze di salvezza
per i poveri peruviani ma ovviamente i costi di un
volo sono inarrivabili. Non riescono a credere in
nessun modo che gli stati europei paghino gli
studi degli studenti meritevoli: questo in America
Latina non succederà mai e solo le famiglie dei
milionari (che hanno pochi figli) riescono a farli
studiare fino alla fine. Loro tuttavia sono
pienamente consapevoli dell’importanza delle
scuole e, quando ci parlano continuamente dei
sacrifici e dei rischi che affrontano in queste notti,
guardano le ragazze sedute al loro fianco e dicono
di farlo per loro.
Per finire ci cantano una loro canzone tradizionale
e chiedono a noi di fare lo stesso: scegliamo
"Katiusha/fischia il vento", rappresentativa di
entrambi i paesi (viaggio con la mia ragazza
russa), applauditissima nonostante la nostra
pessima esecuzione.
La notte di viaggio è, in effetti, rappresentativa
del contatto avuto col popolo peruviano e della
sensazione di incapacità, anche dopo un mese e
mezzo di permanenza nel paese sudamericano, di
comprendere tutte le sfaccettature della
situazione politica nazionale, divisa tra un
malcontento palpabile e generalizzato ed un
nazionalismo trionfalistico e ostentato che,
coinvolgendo senza distinzioni tutti gli strati della
popolazione, narcotizza le voci di dissenso che
provano ad opporsi ad un governo che coincide
con lo Stato.
È strano immaginare, soprattutto in America
Latina, un paese in cui gli abitanti non sanno dire
al forestiero se il governo è di destra o di sinistra,
un paese dove la quasi totalità della popolazione è
l’oggetto diretto della più turpe ingiustizia sociale
ma nello stesso tempo, la stessa stragrande
maggioranza, approva senza distinzioni i metodi
repressivi spesso ciechi ed inutili usati dallo Stato
non solo contro il terrorismo ma contro qualsiasi
opposizione non rientri negli schemi che anni di
politica controllata dall’esterno hanno ormai
consolidato. Eppure il Perù è tutto questo; il
partito Aprista (teoricamente socialdemocratico,
in realtà filo-statunitense ed al servizio del
latifondo, fin dall’origine anticomunista) è al
potere praticamente da sempre, se si eccettua la
cripto-dittatura di Alberto Fujimori (1990-2000)
che, con una combinazione di liberismo,
repressione dittatoriale e corruzione elevata a
sistema molto simile a quella sperimentata da
Pinochet in Cile, è riuscito ad annichilire non solo
la lotta armata cieca e dogmatica di Sendero
Luminoso ma anche qualsiasi voce di dissenso si
opponesse a questa via andina al capitalismo
triste e stracciona. Mentre il resto dell’America
Latina viveva il proprio risveglio negli anni ’70, il
Perù rimaneva politicamente sonnacchioso e
maturava i germi della stagione di sangue che
avrebbe caratterizzato il decennio successivo. I
governi succedutisi al potere seguivano alla
lettera le indicazioni dei Chicago Boys ed Abimael
Guzmán Reynoso, un anonimo professore di
filosofia di Arequipa, fondava il Partido Comunista
de Perù – Sendero Luminoso, un’organizzazione
armata di stampo maoista-polpottista che, in
nome di una supposta rivoluzione culturale,
avrebbe imposto col sangue, per oltre un
decennio, un consenso esteriore alle popolazioni
povere delle Ande che, secondo la lucida analisi
dello stesso fondatore, dovevano rimanere nella
povertà e nell’arretratezza fino all’instaurazione
del socialismo per non perdere nulla della loro
carica rivoluzionaria.
Il fatto poi che quasi ogni straniero catturato
fosse passato per le armi come spia del
capitalismo paralizzò completamente il turismo,
annichilendo l’enorme potenziale archeologico
della regione andina e condannando alla fame ed
alla monocoltura della coca i contadini delle
montagne.
Con queste premesse, anche il ben più generoso
(ed intelligente) tentativo del Movimento
Revolucionario Tupac Amaru (di stampo
guevarista, nato tra gli studenti delle università
limegne che si ispiravano alle altre esperienze di
lotta del continente) non ebbe alcuna presa sugli
strati più poveri del popolo peruviano (ormai
abituato a veder cadere sotto i colpi dei “rossi” di
Sendero Luminoso i volontari ed i sindacalisti che
tentavano di alleviare le loro sofferenze) e si
concluse tragicamente durante l’occupazione
della residenza dell’ambasciatore giapponese a
Lima nell’aprile 1997. L’attuale sistema politico
peruviano è il risultato diretto di questi
avvenimenti e dell’unico argomento che il potere
ha saputo usare in risposta alle rivendicazioni dei
moltissimi poveri del paese: una repressione
sorda ed ottusa. Questo ha creato un’opposizione
marxista iperidentitaria e frastagliata in un
arcipelago di gruppuscoli nel quale nemmeno i
militanti attivi riescono sempre a districarsi. I
dibattiti (che comprensibilmente appassionano
una cerchia piuttosto ristretta) vertono su
categorie politiche già datate negli anni ’70
mentre il paese continua ad essere guidato dalle
sue oligarchie senza che nessuno riesca a farsi
portavoce delle masse sia urbane che rurali.
All'uscita da una taverna nel Jiron Huancavelica
(centro storico di Lima) scorgo, in un androne,
manifesti
e
volantini
denuncianti
inequivocabilmente la presenza di una sezione di
sinistra: entro, trovo alcuni compagni seduti nel
cortiletto, mi presento e cominciamo a
chiacchierare. Ci troviamo nella sezione del
Partido Comunista- Patria Roja che, insieme ad
altre formazioni, fa parte del raggruppamento
Movimiento Nueva Izquierda che, alle ultime
presidenziali, hanno sostenuto il nazionalista
Ollanta contro il filoamericano (poi vincitore) Alan
Garcia. La segretaria di sezione mi regala un
libretto con le riproduzioni anastatiche delle
prime pagine più importanti del loro giornale
(Patria Roja), io mi avvicino allo stand dei libri,
compro qualcosa e riprendo le chiacchiere.
Il venditore è il più loquace di tutti, il partito che
ora ci ospita è il prodotto (guarda un po'....) di
molteplici e successive scissioni del movimento
peruviano. La prima è del 1964; sull'onda del
maoismo si separano il PC Unitario (filosovietico)
dal PC Bandera Roja (filocinese). In seguito
quest'ultimo si scinde tra PC Patria Roja (i nostri
ospiti) e PC Sendero Luminoso (che, come noto,
sceglie la lotta armata ed oggi è quasi annientato
occupandosi solo di narcotraffico). Quando
usciamo ci accompagna un giovane che si era
unito alla discussione, lui non è del partito ma del
FER (frente estudiantino revolucionario) che si
muove tra autonomia operaia e lotta armata solo
teorica. Ci metto un po' a fargli capire che
l'Europa è diversa dall'America del Sud e che
l'unica lotta efficace è quella parlamentare (a
starci dentro!), lui dell'Italia conosce solo i
gruppuscoli internazionalisti ed Alfredo Bonanno
(teorico dell'anarco-insurrezionalismo). Non credo
di averlo convinto del tutto ma gli lascio la mia
mail e gli indirizzi del partito e della FGCI. Oggi
sia il PC Patria Roja che il PC unitario sono
nell'MNI ma tutto il raggruppamento è fuori dalle
istituzioni nazionali (dove ho già sentito questa
storia???). Diciamo che abbiamo una prospettiva
di come va a finire se non ci diamo una mossa.
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