Domenica
la società
L’America e i bambini in carriera
La
di
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
ALEXANDER STILLE
la memoria
Repubblica
Le vite parallele di Churchill e Gandhi
FEDERICO RAMPINI
Esce anche in Italia “Con Hugo”,
il libro che la figlia Silvina Pratt
ha dedicato al grande disegnatore
Un uomo sensibile e fuggiasco,
affascinante e ingombrante,
prigioniero della sua fame di libertà
ILLUSTRAZIONE HUGO PRATT/ COLLEZIONE PARTICOLARE SILVINA PRATT / © CONG SA, LUSANNE
Corto
Maltese
mio padre
MICHELE SERRA
SILVINA PRATT
cultura
a persona più libera che io abbia mai conosciuto». Così Milo Manara sul suo amico e maestro Hugo Pratt, nato a Rimini nel
1927, vissuto nel mondo (Etiopia, Venezia,
Baires, Londra, New York, Parigi, più gli infiniti viaggi per ovunque), morto in Svizzera nel 1995. Quattro figli da due mogli, più altri incogniti frutti
delle sue scorrerie d’amore lungo il pianeta Terra, almeno uno
dei quali non è carnale e merita di essere citato perché rivela molto della sua sconquassante generosità: in Amazzonia riconobbe
il bambino (non suo) di una ragazza india, a lui sconosciuta, solo per farle avere dei fondi governativi… dunque probabilmente esiste, nel sub-continente, un ragazzo indio di cognome Pratt
(origine bretone), non figlio di Hugo eppure segnato, come un
personaggio di Corto Maltese, dal fantastico meticciato tipico
del pennino del Maestro…
Se ho voluto iniziare questa difficile ricognizione su Pratt con
la frase — perfetta — di Manara, è perché la parola “libertà”
esprime lo smisurato Hugo, e la sua opera, come nessun’altra.
(segue nelle pagine successive)
he cosa non sappiamo della vita di Hugo Pratt, il
creatore di Corto Maltese? Lui l’ha raccontata, a
volte inventata, sempre mitizzata. Altri hanno cercato di stabilirne la cronologia puntigliosa o di
diffonderne la leggenda avventurosa. Quello che so
della vita di mio padre è nei miei ricordi — la
profondità della memoria. Quello che ignoro della biografia di
mio padre è nei libri — la superficie delle cose.
Hugo è davvero un amante della vita avventurosa o non è piuttosto l’avventura che gli corre continuamente dietro, contro la
sua volontà? Credo che preferisse trascorrere tre giorni alla ricerca di aneddoti e storie nei suoi libri, piuttosto che partire per
il giro del mondo.
L’avventura e gli avventurieri si sono ricongiunti a lui nella sua
leggenda. La realtà talvolta è più terra terra. Come quando si è recato sulla tomba di Stevenson sull’isola di Apia, nell’Oceano Pacifico. Mi ha raccontato che non ce la faceva, il sentiero era troppo ripido, gli mancava il fiato. Ha finito per sorvolare la tomba
dello scrittore in elicottero...
(segue nelle pagine successive)
Gli amori di carta di Cesare Pavese
«L
C
NELLO AJELLO e MASSIMO NOVELLI
spettacoli
L’Inferno secondo Zeffirelli
LEONETTA BENTIVOGLIO
l’incontro
Lorenzo Jovanotti, ragazzo cresciuto
GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Genitori e figli
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
Travolgente, appassionato, geniale. Ma anche assente,
ossessionato dalla noia, sempre in fuga. In un libro
di ricordi, Silvina Pratt parla del padre. Di come nacque
“Una ballata del mare salato”, di come lui disegnava
tavole in bianco e nero che lei colorava. Di come
fu difficile lasciarlo andare via per sempre
MICHELE SERRA
(segue dalla copertina)
ibertà cercata costi quello che costi, libertà come
miraggio e come ossessione, libertà imposta a se
stesso e inflitta agli altri, libertà di artista tanto celebrato quanto dissoluto (ai figli non ha lasciato eredità, se non il suo monumentale ricordo), libertà
politica che gli costò qualche ridicola accusa di “fascismo”, lui innamorato della cultura ebraica, antirazzista fino
al midollo, anarchico, odiatore di ogni pensiero massificato. Infine, libertà umana inflitta agli altri, e a se stesso, con una determinazione quasi disperata, dividendo con chi amava e lo ha
amato l’intero prezzo della solitudine e degli abbandoni.
Questo Pratt privato, affascinante quanto ingombrante, sensibile quanto fuggiasco, emerge con intensità quasi straziante
dal libro della figlia Silvina, pubblicato in Francia tre anni fa e ora
tradotto in italiano. Libro dolcissimo, intenso, intimo, gremito di
fotografie e disegni, spasmodico tentativo di una figlia di ridare
“il posto giusto” a cotanto padre, e a se stessa, attraverso una collazione di ricordi, impliciti rimproveri, dichiarazioni d’amore,
lucide confidenze sulla difficoltà estrema di mantenere intatto
un rapporto intermittente, frantumato, difficilissimo.
Pratt non sopportava che lo si chiamasse papà, dal concetto
di famiglia era terrorizzato quanto era attratto dalla necessità di
un baricentro affettivo che lo confortasse al ritorno dalle sue infinite partenze, il classico marinaio che cerca il porto per rifuggirne subito, irrequieto, febbrile, imprendibile. Pratt spedisce
moglie e figli in altre città, avamposto della sua smania di cambiare, sperimentarsi altrove, e il raggiunge solo mesi dopo. Pratt
quando c’è monopolizza la scena, canta, suona, disegna, parla,
mangia, beve, racconta, discute, ride, riceve amici, si fa massaggiare i piedi, quando non c’è apre un vuoto pari alla sua colossale presenza. Egoista, si direbbe banalmente, se il suo ego seduttore, coinvolgente anzi travolgente, il suo fascino di grande viaggiatore e di artista indiscusso, non soverchiasse perfino quella
parola: il mondo pullula di egoisti silenti e sfuggenti, di egoismi
che non lasciano traccia, che feriscono solo per viltà. Non così il
padre di Jonas, Lucas, Marina e Silvina Pratt, che di tracce (e di
cocci, di dolori, di gioie, di figli) ha disseminato il suo viaggio.
Tanto che il libro, che avrebbe potuto intitolarsi Senza Hugoper
quante sono le mancanze di Pratt nei confronti dei suoi, si chiama al contrario Con Hugo, rivendicando in ogni pagina, quasi in
ogni riga, la potenza e la fertilità dell’uomo, la sua presenza magnetica anche quando scompariva senza dare notizia di sé. Il
classico “neanche una cartolina”.
«Per seguire la sua vocazione di vita, le sue chiamate — racconta ancora Milo Manara — non si peritava di mollare lì chiunque e qualunque cosa. Famiglie, persone, amici. Credo di essere stato uno di quelli che lui sopportava meglio, perché conoscevo a fondo il suo carattere, i suoi modi cangianti, e capivo di
dovermene andare un istante prima che me lo dicesse lui. Ave-
L
va terrore di una cosa soltanto: la noia. Appena una situazione
gli risultava deprimente, stagnante, poco espressiva, inutile alla sua ispirazione artistica, prendeva e se ne andava. Credo che
solo un artista possa capire questa smania così monopolizzante, questa obbedienza esclusiva alla propria arte. Viveva solo per
salvaguardare la sua opera, e dunque l’artista che la animava».
«Era affascinante e insopportabile. Durissimo. Possedeva diplomazia in dose zero, era capace di essere il più socievole degli
amici, il più travolgente degli showman, e appena dopo chiudersi del tutto, respingere chiunque. Era come il mare, il mare
che lui ha tanto disegnato, lo stesso fascino e la stessa imprevedibilità, calmo e ospitale e un attimo dopo cupo e pericoloso».
Pratt era stato adolescente in Etiopia, figlio della colonizzazione fascista. Ma evidentemente si era lasciato segnare, in quel
frangente, da volti, costumi, lingue e suoni che l’artista saprà trasformare, con miracoloso talento, in una sorta di cosmopolitismo umanitario modernissimo, quasi visionario nella capacità
di intrecciare nelle sue storie tutte o quasi le razze, le religioni, le
credenze politiche del pianeta. Tutte le sue storie sono incroci
di culture, crocevia di razze, faccia a faccia tra i formidabili pro-
Un uomo condannato
alla libertà
tra viaggi e ritorni
fili, gli sguardi taglienti che Pratt tracciava sulla pagina.
Corto Maltese, il suo eroe marinaio pubblicato e tradotto in
quasi tutte le terre del mondo da lui raggiunte via mare, è «figlio
di una gitana andalusa e di un marinaio bretone, nato a Malta e
trascinato in Laguna». Pure se entro i confini epici (e dunque non
retorici) del romanzo d’avventura, Corto non ha altra chiave se
non questa: il mondo è uno e gli uomini si rassomigliano anche
quando si odiano e si combattono. L’afflato che li unisce è l’insaziabile bisogno di scoprire e di scoprirsi. Di partire e tornare.
Di vivere.
Quando Pratt, negli anni Settanta, avverte il pregiudizio politico contro il vitalismo di Corto (e suo), e si rende conto che il fumetto avventuroso è considerato un genere “d’evasione”, l’esatto opposto dell’“impegno”, non fa una piega. Non partecipa
al dibattito su se stesso. Si limita a fare osservare agli intimi che
gli basta e gli avanza l’Ulisse di Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza», per considerare
il viaggio e l’avventura come un genere «rivoluzionario, addirittura eversivo». E quanto all’“evasione”, faceva notare beffardo
che la parola era ottima perché gli suggeriva piuttosto la fuga dal
carcere, e la sete di libertà.
Manara ricorda qualche breve discussione, subito troncata
da Pratt, con giovani estremisti che gli contestavano il presunto
disimpegno politico: per lui l’avventura era in sé una dichiarazione politica, presupposto di una condizione umana libera e
aperta al nuovo, agli orizzonti sconosciuti, alle persone ignote.
Sempre Manara annota in margine (e condivido senz’altro) che
molti dei critici di allora di Pratt, all’epoca ferrei tutori dell’ideologia comunista, sono poi tranquillamente approdati alla destra
e al potere. Un lungo viaggio anche quello, chissà se Pratt lo
avrebbe voluto e saputo disegnare…
Le fotografie (tante) del libro di Silvina ci mostrano un uomo
di notevole bellezza, appesantito dalle infinite mangiate e bevute (al ristorante — ricorda la figlia — dopo avere finito la cena
sosteneva che bisognava cominciare daccapo). Nonostante la
pesantezza e i bagordi, il volto riesce ancora a rammentare i tratti giovanili, virili e regolari, da attore cinematografico, che Pratt
in qualche modo provò a riportare sulla carta attribuendoli a
Corto, che lui riteneva essere «un incrocio tra me e Burt Lancaster, il solo che potrebbe interpretarlo al cinema». Il suo alter ego
disegnato, per dire il vero, accentuava, di Pratt, l’aria latina. Molti volti dei suoi personaggi erano «presi dalla vita», a cominciare
da Anna della Giungla (uno dei suoi primi eroi) che era visibilmente ispirata alla seconda moglie (la madre di Silvina) Anne
Frognier, una adolescente belga che Hugo, già sposato, conobbe a Buenos Aires, innamorandosene per la vita anche se con
l’intermittenza nevrotica del suo andirivieni per il mondo.
Rimarrebbe da spiegare qualcosa del talento artistico di uno
dei più grandi disegnatori del secolo scorso, che ha influenzato
fortemente decine di disegnatori (in Italia, oltre a Manara, certamente l’Andrea Pazienza meno satirico e più pensoso). Manara lo definisce «un sottrazionista». Nel senso che la sua pagina, anno dopo anno, periodo dopo periodo, si libera lentamente dei chiaroscuri e degli ornamenti delle tavole giovanili, fino ad
assumere una misteriosa, ineffabile purezza. Il Pacifico, l’ultimo Pacifico di Corto, è appena una linea, un orizzonte, eppure
contiene il mare, il sole e il cielo per intero. I suoi volti — soprattutto i suoi profili — sono una specie di miracolo di semplicità,
una linea appena che scorre dai capelli al mento eppure indica
perfettamente un prototipo razziale, un carattere, uno sguardo
sulla Terra.
Molto del suo meglio nacque nella casa di Malamocco, estremità del Lido, racchiusa tra il mare aperto e la laguna, quasi appoggiata sugli scogli, una prua, un invito al viaggio. Silvina Pratt
ricorda quell’appartamento con pagine tra le più intense, il senso di mare e di sconfinatezza, il senso di casa e di raccoglimento. I due sensi che diedero movimento e anima a Hugo Pratt e alla sua opera, quello della partenza e quello del ritorno, l’eterna
odissea, il mare che accoglie e respinge, l’amore che aspetta, la
miracolosa, dolorosa pazienza femminile. I cassetti con le fotografie che tanto tempo dopo una donna (una moglie, una figlia)
raccoglie e vivifica. Infinite Penelopi sorreggono il viaggio di
Ulisse, cercando anche senza l’illusione di trovarlo un bandolo,
uno scopo, una direzione in quella linea sottile, infinita, che
chiamiamo orizzonte.
Una vita con Corto Maltese
SILVINA PRATT
(segue dalla copertina)
io padre era uno con la parlantina sciolta,
sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo
nome, il suo passato, la sua famiglia, le sue
origini, i suoi figli. La realtà doveva apparirgli troppo scialba. La realtà della minuscola bottega di pedicure di suo nonno e l’odore di piedi. La
realtà di tutti quegli adulti stipati nell’appartamento di famiglia a Venezia, tutte quelle donne, sua madre, le zie, la nonna, e tutti quegli uomini che vanno e vengono nelle loro
uniformi militari. A tavola, gli adulti e lui, il
solo bambino, che si
rifugia nel suo mondo
grazie ai fumetti americani, un altro mondo, un mondo ancora da scoprire. [...]
Mi raccontava che
un giorno sua madre aveva buttato
nella spazzatura i
suoi fumetti e i suoi
disegni infantili. Di
fronte alla sua collera, gli aveva chiesto se preferisse
essere piccolo nel
mondo dei grandi
o grande nel
mondo dei piccoli. Hugo aveva
risposto senza
esitazioni:
«Grande nel
mondo dei piccoli!» [...]
M
Imparare a nuotare.Prima di tutto c’è il sentiero tra le “canne”, gli alti bambù. Il calore toglie il fiato e la luce è abbacinante. Si sente il canto dei grilli, facciamo lo slalom tra le pozzanghere di fanghiglia quasi secca nelle quali si dimenano i
girini. Raccogliamo queste piccole creature nere per vederle
trasformarsi in rane grigie, ma nel giro di qualche giorno le
rondini vi planano sopra. Questo sentiero non è più lungo di
una decina di metri, ma è tutto il nostro mondo.
Abbiamo le pinne ai piedi e Hugo ci trascina dove noi non
tocchiamo. Per prendere fiato, di tanto in tanto ci aggrappiamo a lui, alla sua grande pancia, alle braccia ricoperte di
lentiggini. [...] Poi Hugo rientra tutto solo nel suo grande studio al pianoterra, per starsene tranquillo e disegnare. Per
quanto i miei ricordi riescano a portarmi indietro nel tempo,
so che mio padre è un disegnatore, mi sembra di averlo sempre saputo. Devo avere due o tre anni. [...] Lo vedo seduto davanti alla pagina in corso di realizzazione, affonda il pennello in un vasetto di vetro. Sul tavolo ci sono dei pennini e l’inchiostro di china. Si sente un sottofondo musicale, come in
sordina. Lui non parla, è concentrato sul suo lavoro. Sta disegnando la prima tavola di Una ballata del mare salato.
Corto è attaccato a una zattera naufragata in mezzo all’immensità dell’oceano. Il mio primo ricordo di mio padre
disegnatore. [...]
Lo chiamai “papà”
solo una volta
Disse: non azzardarti
Papà. Noi non lo chiamiamo mai “papà”, nessuno dei suoi
figli l’ha mai chiamato “papà”. Personalmente, faccio un
tentativo verso i quattro o cinque anni. Sono per strada con i
miei amici sotto la nostra abitazione. Hugo mi chiama per
dirmi di tornare a casa. Gli rispondo: «Sì, PAPÀ». Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Saliamo le scale di marmo, tre piani, senza una parola. Arrivati a casa, finalmente mi risponde. Se mi azzardo di nuovo a chiamarlo “papà”, giura di trattarmi come una vecchia
cornacchia puzzolente davanti a tutti!
Avrei dovuto insistere!
Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare
un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, maschio, circondato da donne di carattere, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. [...] Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre imprigionato e poi, malato, morire in un campo. Hugo aveva solo sedici anni quando ha lasciato la terra d’Africa senza suo
padre. [...]
Con Hugo si hanno sempre impressioni talmente mutevoli che sembra di essere sulle montagne russe. Il rosso e il
nero, il caldo e il freddo, dalla felicità all’aridità. [...] Con i suoi
occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, che ti scandagliano e
trafiggono il cuore, Hugo riesce a far abbassare lo sguardo altrui e può anche far piangere per un sì o per un no. È consapevole del suo ascendente sugli altri e non se ne rallegra, anzi, a volte ne è addirittura furioso e triste. [...]
In viaggio.Mi ricordo di un lungo viaggio con la famiglia. Devo avere a malapena una decina d’anni, sono le vacanze estive, ci troviamo in macchina e guida la mamma. Percorriamo
la costa spagnola, attraversiamo l’Andalusia per poi terminare il nostro periplo in Portogallo. Ricordo le autostrade sotto il sole. La sera ci fermiamo in alberghi con piscina. A Cordoba la piscina è sul tetto dell’hotel. Nuotiamo sotto il sole
ormai al tramonto ma ancora caldo; degli uccelli ci planano
intorno e le campane di una chiesa suonano a distesa. Uno
di quei momenti che non si possono dimenticare… Sempre
a Cordoba, Hugo ci fa cercare la statua del filosofo arabo Maimonide. Tocchiamo la sua babbuccia e ciascuno di noi esprime un desiderio. Sulla costa portoghese mi ricordo di un
enorme castello bianco costruito sul bordo di una falesia a
picco sulle scogliere. È un ristorante. Di gran classe.
La sala è vuota, come se stesse aspettando solo il nostro arrivo per animarsi. I camerieri in divisa bianca vengono subito ad accoglierci e sono pieni di premure. Io ordino delle cozze. Le mangio con le mani e per Hugo è un’onta terribile, in
un ambiente tanto signorile! Lui può permettersi di tutto al
ristorante: può scoreggiare, ruttare, fare qualsiasi cosa per
metterci a disagio o far ridere i presenti, ma io no, neanche
per sogno! Sua figlia deve mangiare con la delicatezza di una
principessa…
In effetti, ricordo che disegna principesse, marchese e ogni
sorta di altri personaggi. Sono in bianco e nero perché io possa colorarli. Cerco di non uscire dai contorni e lui è particolarmente attento alle mie scelte cromatiche… I viaggi fatti insieme restano nei miei ricordi come bolle di felicità. In quei
momenti nostro padre è tutto per noi. Ogni giorno. Ogni ora.
Dirige le operazioni, ci vuole mostrare delle cose, condividerle con noi, desidera che amiamo quello che lui ama. [...]
Arrivederci. Prima di sprofondare nel coma, le ultime parole che mi ha detto sono state: «Non ti preoccupare, tuo padre
sarà sempre al tuo fianco…». Questa frase è senza dubbio la
cosa più importante e concreta che mi abbia lasciato, quella
che mi permette di battermi ancora oggi, nonostante tutto.
Arrivederci.
(© Marsilio Editori Spa, Venezia)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
LE FOTO
I DISEGNI
Il disegno di copertina è Silvina
disegnata da Pratt; qui accanto,
ancora Silvina vista dal padre e uno schizzo
di donna del ’74; a sinistra in basso,
altri disegni di Pratt sempre tratti dal libro
Con Hugo. Per tutte queste immagini
© Cong SA, Lausanne. In alto a sinistra,
un ritratto di Pratt fatto dal figlio Jonas
(Collezione particolare Silvina Pratt /
© Cong SA, Lausanne)
Il disegno grande è Corto Maltese
E SILVINA
RTICOLAR
EZIONE PA
FOTO COLL
CONG
PRATT / ©
E
SA, LUSANN
Le foto
di queste pagine
che ritraggono
Silvina da bambina
e Hugo Pratt
con i figli
provengono
dalla collezione
particolare
Silvina Pratt /
© Cong SA,
Lusanne
IL LIBRO
Con Hugo Il creatore
di Corto Maltese
raccontato dalla figlia,
è il libro di Silvina Pratt
edito da Marsilio (256
pagine,16 euro)
e corredato da un ricco
apparato di disegni
inediti e foto private
(alcuni riprodotti
nelle pagine). Il volume
sarà in libreria l’8 luglio
e verrà presentato
lo stesso giorno
alle 18.30
a Venezia al Museo
di Ca’ Rezzonico
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
la società
Vita americana
ALEXANDER STILLE
L
NEW YORK
a follia comincia subito dopo il lieto evento. «A quale
scuola materna lo manderai?», ti senti già chiedere. C’è
gente che mette i figli in lista di attesa per
l’asilo appena nati. E non è una pura leggenda metropolitana. Ho fatto domanda
per iscrivere mio figlio a una scuola materna molto gettonata con undici mesi di
anticipo, ma era già troppo tardi. Un mio
collega è andato assieme alla moglie a vedere ben quindici asili diversi per essere
certo di scegliere bene. E non stiamo parlando di scuola vera e propria: all’asilo i
bambini non imparano a leggere e a scrivere, per lo più giocano. La selezione avviene attraverso una cosiddetta “intervista”. Il bimbo di tre anni viene fatto “giocare” una mezz’ora sotto gli occhi del
personale dell’asilo. Il clima generale
porta il genitore a pensare che se il figlio
non frequenterà il nido giusto, l’asilo giusto e poi le elementari giuste non riuscirà
mai a entrare a Harvard o a Yale o in una
delle università che sono garanzia di un
futuro brillante.
La competizione per l’ammissione alle materne e alle elementari migliori è
spietata sia nel pubblico che nel privato.
I costi di questa corsa agli armamenti nel
campo dell’istruzione sono sbalorditivi.
Per mandare un figlio ad una buona materna privata tre ore al giorno si spendono 12mila dollari. La scuola vera e propria, a partire dai cinque anni, è molto più
cara: oggi come oggi la retta media si aggira sui 30mila dollari l’anno, 32mila per
le elementari alla Dalton School, una delle migliori e più “in” di New York. Le famiglie fanno sacrifici enormi, vivono in
tre stanze per riuscire a pagare 50mila
dollari l’anno di retta.
In una certa misura questa straordinaria competizione è un sottoprodotto culturale della fase di capitalismo selvaggio
che stiamo vivendo, caratterizzata da
crescenti ineguaglianze, salari in stagnazione o in calo e incredibili, stratosferici
guadagni per pochi. Ad esempio nel 2007
il reddito dei contribuenti più ricchi (l’un
per cento del totale) è arrivato a 1,2 milioni di dollari, con un incremento annuo di
circa 139mila dollari, pari al quattordici
per cento, mentre il reddito del novanta
Bambini in carriera
per cento della popolazione ha subito un
calo reale. I trecentomila americani più
ricchi hanno incassato quanto centocinquanta milioni di contribuenti meno abbienti, raddoppiando la loro quota di
reddito nazionale rispetto al 1980.
È proprio questa realtà sociale, caratterizzata da una feroce competizione e
da una fortissima polarizzazione tra
“vincenti” e “perdenti” che a mio parere
scatena la follia collettiva attorno all’educazione e all’istruzione dei figli. L’istruzione ha un ruolo cruciale nelle prospettive economiche di un individuo. Nel
1980 un laureato guadagnava solo circa il
trenta per cento in più rispetto a un diplomato. Aveva senso allora decidere di
andare a lavorare subito dopo le superiori e iniziare a guadagnare quattro anni
prima rispetto a un universitario. Ma oggi che le fabbriche chiudono e si è passati a un’economia post-industriale, basata sulla conoscenza, la laurea può rendere molto di più. Oggi un laureato guadagna il sessanta per cento in più di chi ha
iniziato a lavorare dopo il diploma. I laureati in legge, medicina, ingegneria e economia guadagnano fino a cinque volte
tanto.
Tutto ciò fornisce una patina di razionalità a una cultura dell’infanzia sempre
più folle. Sulle paure e le speranze dei genitori di oggi è nata una vera e propria industria. La corsa verso l’eccellenza inizia
già nell’utero e si fa sempre più agguerrita. Qualche anno fa venne messo in commercio il BabyPlus, un sistema mirato a
inviare suoni al feto nel grembo materno.
«Il sistema sonoro BabyPlus avvia un
processo di apprendimento graduale
basato su ritmi naturali dell’ambiente
del bambino», spiega il sito web del produttore e promette «tappe di sviluppo
più precoci, maggiori capacità cognitive,
tempi di attenzione più lunghi» e «una
precoce maturazione scolastica». Per
non parlare della Baby Einstein, produttrice di dvd per bebè di pochi mesi, nata
nel 1997 e oggi colosso miliardario. Circa
BRAVI SCOLARI
Qui sopra, alzabandiera in una scuola elementare del New Mexico. In alto, nella foto grande,
preghiera in una scuola elementare di Dallas, Texas; a destra, dall’alto: genitori e figli al liceo
di Toms River, New Jersey; scolara alla lavagna in una scuola elementare di Oklahoma City
un terzo dei bambini americani ha guardato i suoi video dai titoli lusinghieri:
Baby Mozart, Baby Bach, Baby Van Gogh.
Questa fiorente industria si basa sul discutibile presupposto scientifico che i
bambini nei primi tre anni di vita siano
particolarmente sensibili agli influssi
esterni. Bisogna approfittare di questa
“finestra” aperta per puntare all’eccellenza futura. Una volta chiusa, il destino
è inevitabilmente la mediocrità. Peccato
che questa tesi abbia basi fragili o decisamente errate. Nel 1993 due ricercatori
scoprirono il cosiddetto “effetto Mo-
È la fortissima
polarizzazione sociale
tra “vincenti”
e “perdenti”
a scatenare la lotta
zart”: un piccolo numero di studenti si dimostrò più brillante in un test dopo aver
ascoltato Mozart. Si trattava però di studenti universitari, la musica quindi non
aveva avuto un impatto sulla formazione
del cervello; altri studi, alcuni degli stessi
autori, non hanno registrato lo stesso esito riproducendo l’esperimento. «Non
esistono dati scientifici a indicare che l’ascolto di Mozart renda più “intelligenti” i
neonati», ha dichiarato Frances Rauscher, uno degli autori del primo studio.
In realtà uno studio condotto dall’American Pediatric Association ha dimostrato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Baby Einstein, mostrare video
a bambini di età inferiore ai due anni è
nocivo. Non sorprende che questi video
pubblicizzati come mezzo per creare dei
piccoli geni in realtà non sono altro che
una nuova baby-sitter elettronica.
Parallela alla competizione per le
scuole migliori fiorisce l’industria delle
attività extrascolastiche: musica, calcio,
danza, scacchi, taekwon-do e così via.
«Non ne posso più», mi ha detto tempo fa
la mia amica Martha, «tutti i nostri soldi
vanno a finire nella retta scolastica, nonostante i sussidi che riceviamo. E poi c’è
la lotta per le lezioni di piano, di pattinaggio sul ghiaccio, di danza classica. Sto riflettendo se andarmene da New York solo per sfuggire a tutto questo».
Visto che ormai è considerato necessario stimolare al massimo i bambini per
ottimizzarne lo sviluppo cognitivo, l’infanzia e i giochi di una volta non esistono
più. Già a tredici-quattordici anni i ragazzi sono dei semi-professionisti, impegnati a costruirsi un curriculum per gli
esami di ammissione al college. Mio nipote ha diciannove anni ed ha superato il
Sat (l’esame che normalmente si fa a diciassette anni per entrare all’università)
a soli tredici anni. Durante i quattro anni
delle superiori ha partecipato a tre diversi “campi” estivi, gestiti dalle università.
Un’estate l’ha passata a Oxford ad approfondire il tema dittatura e democra-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
A New York la follia comincia subito dopo il lieto evento
I genitori sono indotti a pensare che se il figlio
non frequenterà il nido giusto, l’asilo giusto
e poi le elementari giuste, non riuscirà mai a entrare
a Harvard o a Yale. La competizione è spietata,
FOTO MAGNUM/CONTRASTO
i costi per le famiglie sono sbalorditivi
450
costo medio in euro
di un figlio alla scuola
materna in Italia
250
costo medio in euro
di un figlio alla scuola
elementare in Italia
zia. Fortunatamente non si è trasformato in un mostro e le sue fatiche sono state
premiate con l’ammissione alla Columbia University.
Nell’era della globalizzazione e di Internet le migliori scuole e università della costa est degli Stati Uniti attraggono
studenti da tutto il Paese e da tutto il mondo, rendendo la competizione per entrare ancora più agguerrita. Quasi il venti
per cento degli studenti delle scuole superiori americane spende dai quattrocento ai duemila dollari per frequentare
corsi particolari, mirati ad alzare il punteggio per i temuti Sat. È nata una vera e
propria industria di insegnanti pagati per
110-360
spesa in euro per il corredo
scolastico di un figlio
alle elementari in Italia
aiutare gli studenti a prepararsi agli esami di ammissione al college. Un reportage del New York Times ha raccontato gli
sforzi di una famiglia per garantire al figlio l’ammissione all’Università della
Pennsylvania. Fieri del suo punteggio altissimo, hanno scoperto che era il punteggio medio degli ammessi.
Per la folle competizione accademica
non basta che gli studenti eccellano nelle materie di studio, devono anche costruirsi un “profilo”, una storia personale attraverso attività extrascolastiche che
li renda candidati “interessanti”, e li metta in luce tra gli studenti migliori. Così c’è
chi già dalle superiori fa assistenza ai
1700
costo medio in euro
di un figlio in prima
media in Italia
Quarant’anni fa
le matricole volevano
una filosofia di vita
Oggi invece
un lavoro ben pagato
400
800
costo medio in euro
di un figlio in seconda
o in terza media in Italia
bambini svantaggiati, suona il flauto in
un gruppo musicale professionistico, va
a ricostruire le case per le vittime dell’uragano di New Orleans oppure impara lo
spagnolo lavorando per le associazioni a
difesa dei diritti umani in Guatemala. La
figlia sedicenne di una mia cugina ora è in
Malawi per un progetto di microcredito
destinato alle donne povere. Il prossimo
anno sarà in collegio in Sud Africa. Alla
base c’è un reale interesse da parte della
ragazza, ma di certo queste esperienze le
serviranno ad emergere tra compagni di
università di altissimo livello.
Gli studenti devono mostrare aspirazioni idealistiche in un mondo sempre
costo medio in euro
di un figlio al primo anno
delle superiori in Italia
più dominato dal denaro e dalla pressione economica. La rivista degli studenti di
Harvard indica che circa il cinquanta per
cento dei giovani laureati è intenzionato
a entrare nel mondo della finanza. Quarant’anni fa il primo obiettivo delle matricole era acquisire una «filosofia di vita», mentre l’aspirazione a un lavoro ben
retribuito era all’ultimo posto. Oggi i valori si sono invertiti.
È sorprendente quanti ragazzi intelligenti, interessanti e idealisti si incontrino
nei campus americani, peccato che debbano sostenere pressioni così straordinariamente intense.
Traduzione di Emilia Benghi
• BORSE, NON C'È LUCE IN FONDO AL TUNNEL
La crisi è esplosa l'estate scorsa, ma dopo un anno non siamo ancora alla fine. Tutte le nubi sul futuro dei mercati
• POLONIA, LA TIGRE D'EUROPA
Il pil cresce a ritmi cinesi, l'inflazione è stata debellata: un paese stabile che attira sempre più capitali esteri
• TV, RALLENTA LA “PAY” E SU INTERNET NON DECOLLA
La pubblicità è pronta a spostarsi sul nuovo media ma l'offerta di Iptv è ancora limitata
• MPS E UNIPOL, LA FINE DELLA FINANZA ROSSA
Siena esce da Finsoe, ora i destini sono separati. I progetti della banca e della compagnia
Nel numero in edicola domani con
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
la memoria
Leader allo specchio
Uno apostolo della non violenza, l’altro vincitore
della guerra mondiale. Uno simbolo del dialogo, l’altro
paladino della superiorità europea. Plasmarono le loro
nazioni e cambiarono il pianeta. Si incontrarono una volta,
non si capirono mai. Una nuova biografia parallela
li avvicina. Attraverso gli errori che commisero
Il Mahatma e Sir Winston
uniti solo nella sconfitta
FEDERICO RAMPINI
Churchill, nonostante
la sua lucidità, non riuscì
a capire Gandhi e lo definì
“un avvocaticchio
che si atteggia a fachiro”
Il padre dell’indipendenza
indiana si dimostrò
incredibilmente ingenuo
nei confronti del nazifascismo
Agli ebrei tedeschi consigliò
di “dimostrare che la forza
di soffrire è un dono di Dio”
PREMIO NOBEL
GRANDE ANIMA
Winston Leonard Spencer Churchill (1874-1965)
Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948)
difficile immaginare due vite parallele e al tempo stesso così diverse. Da una parte l’apostolo della
non violenza; dall’altra un vincitore della Seconda guerra mondiale. Uno è il simbolo del dialogo
fra le religioni e della tolleranza multietnica,
l’altro è un paladino della superiorità europea. Per il primo la libertà è un dono di Dio;
per il secondo è il valore supremo della civiltà
occidentale. Gandhi e Churchill si sono visti
di persona una sola volta, brevemente, nel
1906 a Londra: un incontro fugace e insignificante. Hanno passato il resto della loro vita
a non capirsi, a combattersi a distanza, cercando di trascinare la storia del Novecento in
direzioni opposte.
Mohandas Karamchand Gandhi nasce
nel 1869 in una piccola città di provincia del
Gujarat, a nord di Bombay, da una famiglia
della casta dei banias (mercanti). Da bambino cresce coccolato dagli affetti familiari, ha
una mamma devota che pratica lunghi digiuni e meticolosi riti nei templi induisti. In
un ambiente impregnato di spiritualità,
molti conoscenti e amici di famiglia sono
giainisti, appartengono a una religione che
insegna il vegetarianesimo e il rispetto di tutti gli esseri viventi: i fedeli più rigorosi si coprono la bocca con una mascherina per non
inghiottire inavvertitamente dei moscerini.
Secondo le consuetudini, all’età di tredici
anni i genitori lo sposano con una bambina
di loro scelta, figlia di un commerciante.
Più giovane di cinque anni, nel 1874 Winston Leonard Spencer Churchill vede la luce
in un ambiente che è davvero l’altra estremità del mondo. Nasce nel palazzo più grande d’Inghilterra dopo la dimora reale, il castello di Blenheim: 187 stanze. Tra i suoi avi
annovera il primo duca di Marlborough, il
generale le cui vittorie all’inizio dell’Ottocento hanno contribuito a costruire l’Impero britannico. A differenza di Gandhi il piccolo Churchill ha un’infanzia infelice. È trascurato dalla madre, impegnata con troppi
amanti. Il padre Randolph è un politico brillante e ambizioso che ricambia la sconfinata
ammirazione di Winston con il disprezzo,
abbandona il figlio in collegio, e da vecchio
viene distrutto dalla sifilide.
È
Le strade di Gandhi e Churchill si avvicinano — senza veramente incrociarsi — per
la prima volta in un paese lontano dall’India
e dall’Inghilterra. È in Sudafrica che Gandhi
fa carriera come avvocato e scopre la sua prima vocazione politica: difendere i diritti civili della minoranza indiana, immigrati colpiti dalle discriminazioni e dall’apartheid.
Nella guerra dei Boeri (1899-1902) Gandhi
aiuta gli inglesi creando un corpo di volontari indiani per soccorrere ai feriti. È la stessa guerra in cui Churchill si distingue per il
suo eroismo militare combattendo in un
reggimento di cavalleria degli ussari di Sua
Maestà. Da lì si trasferisce in India, dove
riempie i tempi morti della guarnigione studiando la storia dell’antica Roma di Gibbon,
la storia inglese di Macaulay, e L’origine delle specie di Darwin.
Per la prima volta oggi uno studioso si cimenta con il confronto tra due icone così
universali e antitetiche, scrivendone le biografie incrociate. Arthur Herman ha appena pubblicato Gandhi and Churchill(editore Bantam, Londra e New York). Il sottotitolo è: L’epica rivalità che distrusse un impero
e diede forma alla nostra epoca. Herman
prende in contropiede la tradizione agiografica. Castiga il vizio di interpretare queste due vite nel modo più scontato, cioè partendo dall’apice della gloria per illuminare
tutto il percorso dei due personaggi. Lui fa il
contrario. Il massimo dell’attenzione la dedica alle loro sconfitte. Perché gli insuccessi di Gandhi e quelli di Churchill sono collegati fra loro. I due sono entrati in rotta di collisione anche per le loro speculari rigidità,
l’incapacità di dialogare e di trovare dei
compromessi. Forse furono simili proprio
in questo: ebbero in comune una tenacia
che sconfinava nell’ostinazione, visioni
grandiose e profetiche che potevano diventare ossessive, monomaniacali. Dei loro
trionfi sapevamo già quasi tutto. Sono giganti della storia che hanno plasmato due
nazioni. Il loro irriducibile antagonismo è
meno esplorato. I loro errori oggi ci incuriosiscono di più.
Churchill è ricordato per la sua lucidità nel
capire il pericolo nazista, la forza con cui trascina l’Inghilterra — per un tempo da sola —
a resistere contro la travolgente avanzata
delle potenze dell’Asse, per l’abilità che dispiega nel convincere Roosevelt a far scendere in campo l’America. È anche un notevole scrittore, premio Nobel della letteratura nel 1953 per la sua storia della Seconda
guerra mondiale. Ma non riuscirà mai a capire Gandhi, che gli ispira solo irritazione. Lo
definisce «un avvocaticchio che si atteggia a
fachiro, una figura comune in Oriente». Per
tutta la sua vita resta convinto che l’Impero
britannico è una forza benefica, un pilastro
di stabilità su cui fondare l’ordine internazionale, un maestro di progresso per i popoli dominati. Rifiuta l’idea dell’indipendenza
indiana: «Non sono diventato primo ministro per presiedere allo smantellamento
dell’Impero britannico». Bisogna aspettare
che gli elettori inglesi lo caccino all’opposizione dopo la vittoria contro Hitler: l’India
diventa sovrana nel 1947 quando a Londra
governano i laburisti. Con un errore di valutazione storica che oggi sembra incredibile,
Churchill ha una ripugnanza identica verso
il nazismo, lo stalinismo e il gandhismo. Gli
sembrano avere una caratteristica in comune, quello scatenamento di movimenti di
massa che nel Novecento sconvolgono l’ordine costituito.
Ispirandosi all’interpretazione di Gibbon sul ruolo della religione nella caduta
dell’Impero romano, Churchill diffida della
spiritualità a cui fa appello Gandhi. Nell’Impero britannico vede un potere disciplinante, che può portare modernità e libertà attraverso regole e istituzioni collaudate. È l’unico statista mondiale a non
esprimere le sue condoglianze per l’assassinio del Mahatma nel 1948. Quell’uccisione
gli appare, scrive Herman, «solo un morto in
più nella lunga catena di stragi» provocate
dal fanatismo religioso. Malgrado il suo
acume di studioso della storia, Churchill
non si rende conto che un suo errore ha accelerato i tempi della decolonizzazione:
nella Prima guerra mondiale la sua decisione di lanciare l’offensiva di Gallipoli contro
la Turchia ha alienato alla Gran Bretagna
l’appoggio della minoranza musulmana in
India, gettandola (per un po’) nelle braccia
di Gandhi. La pervicace opposizione all’in-
dipendenza indiana lo ha indebolito perfino in Inghilterra, rendendolo meno credibile quando negli anni Trenta lancia profetici avvertimenti contro il pericolo del riarmo tedesco.
Gli errori storici di Gandhi non sono meno gravi. Il suo pacifismo gli fa velo al punto
di trasformarsi in una folle ingenuità di
fronte al nazifascismo. Quando insiste perché i soldati inglesi lascino l’India nel cuore
della Seconda guerra mondiale, non capisce che spianerebbero la strada al ricongiungimento delle forze tedesche e giapponesi, consegnando a Hitler il petrolio del
mondo arabo. Durante i bombardamenti
della Luftwaffe su Londra lancia agli inglesi
un appello sconcertante: «Invitate Hitler e
Mussolini a prendersi quei Paesi che considerate vostri. Lasciate che s’impadroniscano della vostra bella isola. Gli darete la terra
ma non le vostre menti né le vostre anime».
Agli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo
consiglia di «dimostrare con calma che la
forza di soffrire è un dono di Dio, e la dignità
umana convertirà i persecutori». Anche agli
etiopi aveva suggerito di non resistere contro le truppe italiane, fino ad accettare lo
sterminio, «perché tanto a Mussolini non
serve conquistare un deserto». Se l’India
fosse caduta nelle mani dei giapponesi —
che ci arrivarono molto vicini, in Birmania e
a Singapore — la storia della guerra mondiale poteva cambiare. Hitler da parte sua
aveva le idee chiare su Gandhi. Nel 1938,
prima che esplodessero le ostilità, aveva offerto un consiglio disinteressato a Lord Halifax sul modo migliore per trattare il movimento indipendentista indiano. «Fucilate
Gandhi per primo — aveva detto il Führer —
e se non basta fucilate una dozzina di leader
del suo partito del Congresso. Se ancora
non basta fucilatene duecento. E andate
avanti così, finché l’ordine sarà ristabilito».
Le vite di Gandhi e Churchill si concludono su fallimenti paralleli. Le battaglie a cui
tenevano di più non sono quelle in cui hanno trionfato. Per Churchill l’ambizione più
grande era tenere unito l’Impero britannico, che invece si disintegrò in pochi anni dopo la sconfitta di Hitler. Per Gandhi il traguardo era l’affermazione dell’amore uni-
GANDHI
2 OTTOBRE 1869
1881
1885
1893
1903 - 1913
1920 - 1932
15 AGOSTO 1947
30 GENNAIO 1948
Nasce a Porbandar,
una città di pescatori
nell’attuale Gujarat,
in India, Mohandas
Karamchand Gandhi
La famiglia è di religione
giainista, ma il padre
è induista
All’età di tredici anni
Ghandi sposa,
con un matrimonio
combinato secondo
la tradizione indù,
Kasturba, sua coetanea
Avranno quattro figli,
tutti maschi
A diciassette anni,
tre anni dopo la morte
del padre, Gandhi parte
per Londra per studiare
da avvocato presso
lo University College
dove si laurea
con facilità
Tornato in India, Gandhi
è incaricato di seguire
una causa in Sudafrica
Qui si batte contro
l’apartheid e a difesa
dei diritti degli indiani
Fonda il Natal Indian
Congress
Adotta per la prima
volta la strategia
della protesta
non violenta. Ottiene
il riconoscimento
di importanti diritti
per gli indiani
in Sudafrica
Lotta per un’India
indipendente e unita,
lo fa attraverso
la disobbedienza civile,
la non cooperazione,
uno sciopero generale
E infine organizza
la marcia del sale
Svanisce il sogno
di Gandhi. Il Paese
viene diviso in due Stati:
l’India, a maggioranza
indù, e il Pakistan,
a maggioranza
musulmana
È la “partizione”
A 78 anni Gandhi
viene assassinato
a Nuova Delhi
da Nathuram Godse,
un fanatico indù,
mentre sta andando
a pregare
nel suo giardino
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
IL LIBRO
Lo storico Arthur Herman ha appena
pubblicato Gandhi and Churchill
(Bantam, 681 pagine, 30 dollari) Il sottotitolo
è: L’epica rivalità che distrusse un impero
e diede forma alla nostra epoca
È una biografia parallela dei due maggiori
protagonisti della caduta dell’egemonia
britannica e del nuovo ordine mondiale
COVER STORY
L’immagine grande
è un’illustrazione
di Achille Beltrame
sulla Domenica
del Corriere
che documenta
la resistenza
non violenta
indiana contro
l’occupazione
britannica; in alto
a destra, insieme
ad alcune
memorabilia
dell’impero
britannico,
due delle copertine
che Time dedicò
ai due leader
politici, a Gandhi
il 31 marzo 1930
e a Churchill
il 6 gennaio 1941
versale: dovette assistere impotente alla
tragedia della Partizione, la secessione del
Pakistan voluta dai leader islamici, i terribili pogrom fra le comunità indù, musulmane e sikh che fecero quasi due milioni di vittime. In un certo senso l’uno e l’altro furono
prigionieri di una visione idealizzata del
passato: per Churchill la missione civilizzatrice dell’Impero britannico, il «fardello
dell’uomo bianco»; per Gandhi il mito dell’India ancestrale fondata sull’economia
dei villaggi, l’autarchia, il rifiuto dello sviluppo economico. Il Mahatma avrebbe eliminato volentieri il telegrafo, la ferrovia e gli
ospedali. Quell’anti-modernismo fu ripudiato dal suo allievo politico Nehru, il primo
capo di governo dell’India indipendente;
oggi non si riconosce in quell’aspetto della
visione gandhiana neppure il Dalai Lama.
I due grandi rivali come reagirebbero nel
vedere l’India del Ventunesimo secolo
campionessa di crescita economica, capace di conquistarsi uno status da grande potenza? È un gioco ingeneroso attribuire giudizi sul presente a chi non c’è più. Ma sulla
base di quel che sappiamo di loro, il più contento forse sarebbe Churchill: nel boom indiano potrebbe scorgere anche i segni positivi dell’eredità britannica. Gandhi probabilmente troverebbe quest’India troppo
americanizzata, succube del materialismo
e della seduzione del denaro.
CHURCHILL
30 NOVEMBRE 1874
1893
1899
1900
1908
1940 - 1944
1945
1951 - 1965
Nasce a Woodstock,
nell’Oxfordshire,
da padre aristocratico
inglese e madre
americana, Sir Leonard
Winston Churchill
Spencer. Trascorre
l’infanzia in Irlanda
Dopo aver studiato
presso la celebre scuola
di Harrow, Churchill
è ammesso alla scuola
di Sandhurst dove
si dedica alla carriera
militare. Diventa
ufficiale dell’esercito
Partecipa come ufficiale
e inviato del Morning
Post alla guerra
del Traansval
in Sudafrica. Catturato
dai Boeri, evade
e si guadagna
la prima notorietà
Churchill lascia
la carriera militare
e si dedica alla politica
Viene eletto come
deputato conservatore
di Oldham. Ma
negli anni seguenti
si avvicina ai liberali
È nominato ministro
del Commercio
nel governo liberale
di Herbert Henry
Asquith. Sposa
Clementine Hozier
e diventa ministro
dell’Interno
Churchill diventa primo
ministro nel 1940
Il Paese resiste
all’attacco tedesco
e, ottenuto l’aiuto
americano, esce
vincitore dalla Seconda
guerra mondiale
Nonostante la vittoria
bellica, Churchill
non viene confermato
primo ministro
La richiesta di riforme
sociali porta
nelle elezioni politiche
alla vittoria dei laburisti
Sarà ancora primo
ministro dal’51 al’55
Nel’53 diviene Sir
e ottiene il Nobel
per la letteratura grazie
agli scritti sulla guerra
Muore a Londra
il 24 gennaio 1965
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
CULTURA*
Un archeologo-bibliofilo ha raccolto volume
dopo volume la collezione dell’autore di “Lavorare
stanca”. Come un’autobiografia per pagine lette
e annotate, che mostra la passione per la letteratura d’oltreoceano
e la ribellione ai temi imposti dal fascismo al potere. Una mostra
e un catalogo, nell’anno del centenario, celebrano quell’avventura
Amori di carta nella biblioteca perduta
MASSIMO NOVELLI
G
TORINO
li antichi Romani pensavano che nel nome di una
persona fosse indicato il
suo destino. Ci si può credere o meno, però nel caso di Claudio Pavese il nomen omen non fa una grinza. È
un gentile signore di Torino che, dopo essersi occupato per un certo periodo di comunicazione aziendale, ha scelto di diventare soltanto ciò che sentiva di essere:
uno che ama i libri e che li colleziona, in
particolare i testi delle case editrici italiane di cultura che hanno operato nella
parte nobile del Novecento. Tutto questo
con una predilezione speciale per l’Einaudi dei tempi eroici e per lo scrittore
che della casa dello Struzzo è stato il simbolo e, in virtù di un’omonimia fatale,
porta il suo stesso cognome: Cesare Pavese. Più che di collezionismo preferisce
parlare di «archeologia editoriale», ossia
di un lavoro con cui, «libro dopo libro, restauro dopo restauro», da una trentina
d’anni cerca di «ripristinare vere e proprie avventure editoriali», andando a
scovare i suoi tesori cartacei da rigattieri,
oscuri librai ed esosi antiquari, in scantinati e in magazzini polverosi.
Ed è esattamente un’avventura editoriale quella che l’archeologo-bibliofilo, la
cui raccolta si aggira sui duemila libri e
comprende pressoché tutte le collane
storiche einaudiane, ora ha ricostruito
insieme a Franco Vaccaneo, direttore del
comitato scientifico della Fondazione
Pavese di Santo Stefano Belbo, il paese
natale dell’autore de La luna e i falò del
quale si sta celebrando il centenario della nascita. Dalla duplice passione sono
sbocciati una mostra e soprattutto un volume raffinato e prezioso, Cesare Pavese.
I libri, edito da Nino Aragno, che ha il suo
punto di eccellenza nella ricchissima documentazione iconografica: le copertine
di duecentocinquanta libri (quasi tutti
prime edizioni) forniti dal collezionista
torinese e che, spiega Vaccaneo nell’introduzione, raccontano Cesare Pavese
attraverso «una vita con i libri e per i libri,
suoi e degli altri. L’uomo libro, secondo
una sua celebre auto-definizione. Un uomo di carta, secondo Massimo Mila:
“Una pila di migliaia, milioni di pagine
dei libri più diversi, un concentrato di letteratura e di pensiero”».
Oltre a testimoniare la sua attività letteraria, editoriale e di traduttore, il volume è nel contempo un viaggio, unico nel
suo genere, nella storia della nostra editoria di qualità del secolo scorso. L’Ei-
Disse di lui Calvino:
“La sua cultura
e la sua sensibilità
si trasformavano
in lavoro produttivo”
naudi di Giulio Einaudi, di Pavese, di
Leone e Natalia Ginzburg, di Giaime Pintor, di Norberto Bobbio, di Mila, di Italo
Calvino e di Elio Vittorini è naturalmente al centro, come un impero su cui il sole sembrava non dovesse tramontare
mai. Intorno si muovono gli altri: editori
grandi e piccoli, dai torinesi Frassinelli,
De Silva e Ribet per arrivare a Mondadori e a Bompiani, ognuno impegnato a divulgare, in pieno fascismo, le opere migliori della grande letteratura americana
ed europea. Spicca, tra le altre, la figura
di Elio Vittorini, narratore, traduttore
dall’inglese, organizzatore culturale ed
editoriale al pari di Pavese, con il quale
condivise passioni letterarie e che stimò
fin dal suo primo romanzo pubblicato,
come gli scriveva il 16 giugno 1941, rife-
NOTE A MARGINE
In queste pagine,
alcune copertine
dei libri
della “biblioteca”
di Cesare Pavese;
a destra, la prima
poesia
dell’Antologia
di Spoon River
con una nota
di Fernanda Pivano
che tradusse
il libro sotto
la guida
di Pavese
rendosi a
Paesi tuoi:
«Tornando al tuo libro,
come ho sentito vociferare in proposito di americanismo e citare particolarmente Steinbeck, voglio essere più preciso della volta scorsa: io lo trovo di “gran
lunga” migliore dei libri di Steinbeck».
È una biblioteca dei libri perduti, quella che il collezionista piemontese ha prestato al volume curato da lui e da Vaccaneo, e restituisce il valore di un’epoca
dove nel mondo editoriale, come ebbe a
dire Calvino del Pavese redattore dell’Einaudi, «la cultura del letterato e la sensi-
bilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e
commercio d’idee, in pratica e scuola di
tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna». Dietro alle edizioni delle collane dello “Struzzo”, dalla
“Universale” ai “Narratori stranieri tradotti”, fino ai “Gettoni”, ai “Coralli”, alla
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
La scoperta dell’America
per raccontare l’Italia
NELLO AJELLO
libri come autobiografia di chi li colleziona. Si può dirlo di ogni intellettuale. Ma nel caso di Cesare Pavese,
quel legame fra un uomo e i propri libri diventa storia,
aneddotica, racconto. Si viene trasportati all’interno di
un ambiente, la Giulio Einaudi editore, di cui il romanziere fu gran parte fra gli anni Trenta e Cinquanta. Circolano dentro quegli scaffali eroi “di carta” e compagni di
avventure intellettuali. Vi si scorgono passioni sedimentate. Vi si intravedono continenti sognati o trasfigurati
dall’arte della parola.
Partiamo da quest’ultima realtà: la geografia ideale di
Pavese. Essa culmina nella sua passione per l’America,
quasi temeraria negli anni del tardo fascismo. A provarla,
questa passione, l’autore di Paesi tuoi e dei Dialoghi con
Leucò non è né resterà il solo. Ne sarà addirittura divorato il coetaneo Elio Vittorini, del quale figura in biblioteca
il romanzo Conversazione in Sicilia (ancora in edizione
Parenti, 1941, con il titolo Nome e lacrime). Italo Calvino,
amico di entrambi ma di quindici anni più giovane, arriverà a confessare: «C’è stato un tempo in cui per me e per
molti altri Hemingway era un dio». Da Melville, di cui è appassionato traduttore, a Caldwell, da Sinclair Lewis a
John Steinbeck, da Sherwood Anderson (anch’esso da lui
tradotto nel ‘32 per l’editore Frassinelli) all’Antologia di
Spoon River, di cui conserva una copia del ‘43 nella versione dell’“americanista” Fernanda Pivano, gli scaffali di
Pavese si riempiono di questa letteratura, nella quale, egli
annota, i richiami «della terra e del sangue assumono forme ingenue, violente, talora selvagge». «Noi scoprimmo
l’Italia», concluderà più tardi, «cercando gli uomini e le
parole in America».
Il confronto con un modo libero e immaginoso di concepire l’esistenza assumeva, in quegli anni, il valore di
una rivolta antiprovinciale. Il jazz, voga musicale ostica
alle orecchie dei fascisti, diventò il vessillo di un cosmopolitismo indocile; e la mitologia yankee si estese alla letteratura disegnata per l’infanzia. Un suggestivo messaggio proveniente da oltreoceano emanavano i cartoon di
Walt Disney, con in cima quel Mickey Mouse, nelle cui vicende di giornalista brillante, fortunato detective o astuto scavezzacollo si riflette nella maniera più naturale il costume americano. Finché il regime, con l’incalzare della
Seconda guerra mondiale, non ne vieterà la diffusione, le
avventure di Topolino trovarono vari editori, da Nerbini
a Mondadori e al torinese Frassinelli, sotto la cui sigla sono presenti nella libreria di Pavese.
La realtà ufficiale dell’Italia, insomma, vissuta nettamente a rovescio, proprio in quegli anni
Trenta e metà Quaranta, che nella vita dello
scrittore piemontese (1908-1950) occupano una stagione privilegiata. Intorno a lui
ferveva l’attività della Einaudi, un’istituzione ancora giovane — data di nascita, 1933
— ma ben presto sospetta di sovversivismo. Di fatto, tra la sua fondazione e la caduta del regime littorio, la casa torinese
aveva percorso il proprio viaggio attraverso il fascismo nelle varie tappe comuni a
un’intera generazione di intellettuali. E
ne aveva riportato traumi esemplari: a cominciare dalla soppressione, nel ‘34, della Riforma sociale, la rivista diretta da
Luigi Einaudi e poi passata alle cure editoriali di suo figlio Giulio, per finire con
le noie giudiziarie subite dal periodico
La Cultura, ideata da Leone Ginzburg e
diretta infine dallo stesso Pavese. Il catalogo einaudiano testimonia, in quegli
anni di censure e di arresti («il carcere ci
scottò tutti quanti», avrebbe ricordato
patron Giulio, riferendosi alla retata
subita dai suoi redattori nel maggio
1935) un’apertura mentale impossibile da nascondere.
Essa investiva, oltre alla letteratura,
l’economia, la scienza e la saggistica
di argomento civile. Scorgendo per
esempio fra i libri di Pavese una copia
ingiallita de Il pensiero politico italiano di Luigi Salvatorelli, si risale alla fondazione di quella “Biblioteca
di cultura storica” che quel volume
inaugurò, e che sarebbe sempre restata un emblema di qualità. Italo
Calvino indicherà in Leone Ginzburg l’uomo dal quale «la collana
ebbe il primo impulso» (e fu lo
stesso Ginzburg a trovar da ridire
quando un’altra collana venne
battezzata “Biblioteca dello
struzzo”: così, osservò, tutti penseranno che stampiamo «libri che solo uno struzzo può digerire».
Cesare Pavese, Felice Balbo, Massimo Mila, poi i “romani” Muscetta, Alicata e Giolitti: sono soltanto alcuni
degli intellettuali che, fra carcere, condanne al confino e
lutti irreparabili (la morte di Ginzburg e di Giaime Pintor),
s’inscrivono in quella storia. Di cui sono parte integrante
quelle riunioni redazionali del mercoledì, in cui — racconterà Giulio Einaudi — si poteva vedere «Giaime Pintor in polemica con Vittorini, Vittorini con Calvino, e Pavese con Felice Balbo». Troppi cervelli riuniti insieme,
con l’obbligo di pensare. Uno fra i dibattiti più accesi riguardò quella collana viola di studi religiosi, etnologici e
psicologici, che fu inventata (benché in vivace disaccordo fra loro) da Pavese ed Ernesto De Martino. L’autore de
La bella estate ne conservava vari volumi.
E le altre aziende editoriali? «Bocca, Laterza, Treves
erano per noi gli esempi storici», ricorderà ancora patron
Giulio. «I nuovi antagonisti, la Mondadori e la Bompiani».
Specie quest’ultima, nella persona del suo fondatore, il
conte Valentino. Dopo essere stato segretario di Arnoldo
Mondadori, egli si era messo in proprio fin dal ‘29, iscrivendosi a quella categoria che uno storico della cultura,
Gian Carlo Ferretti, chiama degli «editori-protagonisti».
Soprattutto nel campo della letteratura d’oltreoceano la
sua presenza era determinante.
Porta il marchio Bompiani quella preziosa raccolta di
narratori intitolata Americana (Pavese la conservava nell’edizione del ‘42) intorno alla quale il regime inscenò un
autentico baccanale censorio. Elio Vittorini, che come
consulente editoriale si divideva fra Mondadori, Bompiani ed Einaudi, partecipò alle trattative con grande veemenza. Si diceva allora fra letterati che, pur avendo chiuso le proprie sedi diplomatiche a guerra iniziata (1941), gli
Stati Uniti potevano contare in Italia su due ambasciatori. Uno era Pavese, l’altro Vittorini.
I
ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI
L’Einaudi è al centro,
come un impero
su cui sembrava
non dovesse
tramontare il sole
IL LIBRO
Curato da Claudio Pavese
e Franco Vaccaneo,
su progetto grafico di Carlo
Fantinel, il volume Cesare
Pavese. I libri (Nino Aragno
editore, 204 pagine,
35 euro), sarà in libreria
nei prossimi giorni. Dal libro
è stata tratta una mostra,
inaugurata venerdì
alla Fondazione Pavese
di Santo Stefano Belbo
L’esposizione sarà aperta
fino al 4 ottobre
collana viola degli studi etnologici, religiosi e psicologici, così come ai romanzi
degli americani stampati da Bompiani e
da Mondadori nella “Medusa”, con le
traduzioni di Vittorini, si avverte la mano
dell’intellettuale e del grafico, del pittore
che illustrava le copertine (da Francesco
Menzio a Renato Guttuso) e dello stampatore. Davano vita a una confraternita
nella quale l’uno, per scomodare Ezra
Pound, era «il miglior fabbro» dell’altro.
Una raccolta di lettere editoriali di Cesare Pavese, compresa nel libro di Aragno e
selezionata da Silvia Savioli, con alcune
inedite (ce n’è una a Eugenio Montale)
contribuisce a comprendere l’eccezionalità e l’irripetibilità di quella stagione.
Sono le ragioni che hanno spinto
Claudio Pavese a indossare i panni di
una sorta di Indiana Jones dei libri:
«Tassello per tassello, frammento per
frammento, ogni parte trovata viene catalogata, studiata, indagata, poi, con
calma certosina, sempre un tassello dopo l’altro, un frammento dopo l’altro,
l’opera ritorna alla sua interezza originaria». E, un po’ come nel romanzo
L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon,
il libro ricomincia a essere un’avventura memorabile.
LETTERE
Sopra, la letteracontratto
di Carlo Frassinelli
a Pavese del 1932
per la traduzione
di Moby Dick,
e una di Pavese
a Montale
del 1945
Nel disegno
a centropagina,
Pavese visto
da Tullio Pericoli
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
Il grande regista ha donato il suo archivio alla città di Firenze
In attesa che venga trasferito nelle Antiche scuderie granducali,
ce lo ha mostrato e ha tirato fuori dai cassetti per la prima volta
i disegni per un lavoro ispirato a Dante ma mai realizzato anche per i cattivi
presagi del veggente Rol che consigliò: “Materia scottante, lascia perdere”
SPETTACOLI
on tutto quello che ha passato, le umiliazioni dell’infanzia da N.N., le molestie di un frate all’oratorio, gli
amori spesso travolgenti, come il rapporto che tanto
lo ha segnato con Visconti; con le follie del successo,
le invidie, i bisticci e i clamori attraversati, la morte a
volte sfiorata da vicino, i grandi incontri in giro per il
mondo, leader potenti come Bob Kennedy e i Clinton, star del podio come Karajan e Kleiber, icone del femminile come Anna Magnani, Liz Taylor e la venerata Callas, e ancora Laurence Olivier e
«l’orribile Onassis», il quale, riferisce, lo insultò con le sue avances,
«forse per mettere zizzania tra me e Maria», Franco Zeffirelli ha coltivato sempre un’incrollabile fede in Dio. E come ogni credente ha
fantasticato molto sull’inferno, col suo sentire da regista, immaginando «un luogo di sospensione nel tempo, capace di frantumare
cognizioni reali e cronologiche, come un trasognamento allucinato al quale accedere lungo un tunnel, per poi precipitare in abissi
senza fine».
Su quest’idea spaventosa, «perché si tratta dell’esserci e del non
esserci, e dell’identificazione di un linguaggio che comunichi allo
spettatore tale sfasamento, quindi anche dell’invenzione di una
tecnica espressiva e fotografica ardita e inquietante, estranea alle
nostre percezioni più familiari», Zeffirelli ha lavorato a lungo, a fine
anni Settanta, mettendo in cantiere un film grandioso mai andato
in porto: «Dopo il successo del Gesù di Nazareth mi chiesero quale
film avrei voluto girare: difficile far seguire un’opera come il Gesù
da una cosa qualsiasi. Perciò decisi di tornare a un ambizioso progetto vagheggiato anni prima e dedicato all’inferno dantesco».
Nel frattempo c’era stata la preparazione cupa e accidentata de
Il viaggio di G. Mastorna di Fellini, film che avrebbe dovuto far morire il suo protagonista in un disastro aereo per poi gettarlo all’inferno: «Gustavo Rol, famoso mago torinese che ho conosciuto bene, lo aveva sconsigliato. E Fellini non faceva neppure colazione la
mattina se prima non parlava con Rol. Il quale, riguardo a Mastorna, era stato categorico: accantonalo, potrebbe essere l’ultimo film
della tua vita, smuove energie pericolose. Quando il produttore De
Laurentiis annunciò quella sua nuova impresa, Fellini s’ammalò
gravemente. Ma dal momento in cui disse a De Laurentiis di voler
rinunciare al film maledetto cominciò a sentirsi meglio, finché
guarì del tutto. Il produttore gli fece causa e gli portò via ogni proprietà, e fu così che Federico perse l’amatissima casa di Fregene».
Quanto all’altro Inferno, quello di Zeffirelli, «anche a me Rol disse: non farlo, materia scottante, lascia perdere. Eppure mi piaceva
pensare a una grande produzione in lingua inglese, con un Dante
di oggi che è un intellettuale cinico e una forte personalità che fa opinione. Un uomo che lavora nell’arte e nell’editoria, che avverte il talento dei giovani e ha gli strumenti per lanciarli. Costui, morendo
su un aereo che precipita — però io non sapevo niente del Mastorna—, vive il suo sogno infernale». Aggiunge che il produttore avrebbe dovuto essere Bini, «un avventuriero», e spiega che «il film partì
nella fase preparatoria, nel senso che andammo a fare i sopralluoghi. Si doveva girare in Croazia e Slovenia, perciò visitammo le
montagne del Carso dove scorre il fiume Timavo, che ha scavato
grotte nelle Alpi carsiche, come quella di Postumia, impressionante e potenziata a suo tempo da Mussolini, che ne fece un polo turistico, costruendo una ferrovia di quattordici chilometri nelle viscere della terra. In quella zona ci sono anche altre grotte di terrificante suggestione». Però tutto andò a monte: «Bini vendette la mia idea
nel mondo, prendendo acconti senza avere ancora alcun contratto con me, e il film crollò perché non aveva soldi. Rol me lo aveva
detto: quel tuo Inferno non lo girerai. E io me lo auguro per te».
C
“Il mago mi disse
Quel film
non girarlo”
LEONETTA BENTIVOGLIO
Oggi, a ottantacinque anni, passionale e dispettoso come sempre, Zeffirelli tira fuori per la prima volta dai cassetti i disegni da lui
firmati per quel lavoro: vorticose raffigurazioni in inchiostro color
seppia, con gironi, abissi, squadre di peccatori, paesaggi tenebrosi
e creature imponenti come idoli orientali e annotazioni scritte attorno, come nei fumetti. Quel film è una delle sue fantasie che considera attuali e ancora realizzabili, come la serie de I Fiorentini, «che
per me resta una spina nel fianco. Sei puntate per la Rai a cui cominciai a lavorare nell’83, anno in cui facemmo addirittura un annuncio ufficiale al Louvre, nella Sala dei Giganti. È una storia su
quanto accadde nei vent’anni più prodigiosi di Firenze, l’epoca di
Michelangelo e Leonardo, dei grandi Medici e Machiavelli. Oggi è
difficile fare un film del genere perché non c’è più una visione epica del cinema: ci si limita a girare porcherie che costano fortune, tutte a base di effetti speciali».
Le sette stesure de I Fiorentini(«non smetto di lavorarci»), così come tantissimo altro, fanno parte dell’immenso archivio Zeffirelli finora custodito nella sua villa romana, nei pressi dell’Appia Antica,
piena di cani innamorati del padrone, da cui non sembrano volersi mai staccare. Lui, loquace e scatenato, vi abita tra telefonate e viavai di assistenti, accudito e protetto da Pippo e Luciano, i due aitanti
giovanotti che ha adottato come figli. Qui conserva centinaia di
bozzetti, scenografie, disegni, costumi, appunti e note di regia per
la prosa, il cinema, l’adorata lirica. E ancora copioni, foto, sceneggiature, scambi di corrispondenza con attori, cantanti, direttori
d’orchestra e drammaturghi. Dai un’occhiata agli scaffali e leggi:
1948, Eliseo di Roma, Un tram che si chiama desiderio, con un tris
d’assi come Gassman, la Morelli e Mastroianni; 1964, Dopo la caduta di Arthur Miller, con Monica Vitti e Albertazzi. Il contenitore
delle varie fasi di Fratello Sole, Sorella Luna, lo scatolone con le tappe di Romeo e Giulietta, la splendida visione di Richard Burton e della Taylor nella Bisbetica Domata, gli schizzi della crocifissione per il
Gesù. Le tinte dense delle scene per le opere: toni scarlatti per Carmen e aurei per Aida, l’intensissimo turchino del Trovatore, il fasto
azzurro di una Traviata. «Ho studiato pittura a Firenze», racconta,
«e ho sempre avuto una buona mano, che mi ha facilitato il compito nel cinema e in teatro. Quando avevo un’idea e volevo spiegarla
ai miei collaboratori la disegnavo. Visconti invece disegnava male,
e a volte era disperato di non poter esprimere le sue intenzioni tramite le immagini».
Come regista di lirica Zeffirelli è stato frenetico, instancabile: «Ho
firmato otto Don Giovanni, sei Aide, non so quante Traviate. Ricreo
nuove edizioni dello stesso titolo, o rimonto quelle passate: la mia
Bohème dell’81 è stata rappresentata 546 volte. Con l’opera non si
finisce mai di scoprire». Spiccano pareti colme di libri anche pregiati e antichi che formano una biblioteca enorme scandita da volumi specializzati nelle arti dello spettacolo: «Saranno diecimila o
forse più. Si va per blocchi di argomenti, fonti d’ispirazione e documentazione: tutto sul Giappone, sull’Inghilterra elisabettiana, sulla Parigi romantica... Testi e immagini a cui attingere per i miei spettacoli, dei quali sono sempre scenografo oltre che regista».
Un patrimonio generoso che in questi giorni viene catalogato
prima di essere trasferito a Firenze, la città di Zeffirelli, alla quale il
regista ha scelto di darlo in donazione: «Per ospitarlo il Comune sta
allestendo uno spazio molto bello nelle Antiche scuderie granducali, che diventerà un centro internazionale delle arti dello spettacolo, col supporto di società americane e russe. Vi confluiranno anche altri materiali: recupereremo cose di Visconti andate disperse,
arriverà forse la collezione del grande costumista Piero Tosi, proveremo a riunire informazioni e documenti sparsi». Dice che lo fa
Quando caldo e fatica
ti buttano giù, scegli
la forza del numero uno
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
DISEGNI INEDITI
Qui sotto, tre dei disegni preparatori, finora inediti,
realizzati da Franco Zeffirelli per un film, mai girato,
ispirato all’inferno dantesco. In basso a sinistra,
altri due disegni del regista fiorentino: un bozzetto
per l’allestimento della Cavalleria rusticana (1969)
e uno per quello di Dopo la caduta (1965)
Nelle foto, tutte tratte da Zeffirelli Autobiografia,
Oscar Mondadori, Zeffirelli bambino (qui accanto)
e, in basso, un suo ritratto e due momenti in compagnia
di Maria Callas e Richard Burton
per i giovani, per il futuro, per l’avvenire di un’arte che si sta sfaldando: «Noi italiani “siamo” l’opera, e dovremmo sforzarci di rammentarlo. Abbiamo avuto Monteverdi, Verdi e Puccini, abbiamo
costruito magnifici teatri in ogni città, i tesori della nostra lirica sono rimbalzati fuori dall’Italia, e tutto questo va valorizzato, non svilito come accade troppo di frequente. Credo che il mio archivio possa essere utile alle nuove generazioni, non come esaltazione di Zeffirelli, ma come metodologia di lavoro. Io disegno lo spettacolo in
tutte le sue fasi: la prima idea e le tappe degli sviluppi fino all’andata in scena. Tanti giovani mi chiedono consigli, cercano maestri,
vorrebbero svilupparsi nella direzione giusta, annaspano nel mare di nulla in cui siamo immersi. A chi rivolgersi? Dove sono, oggi, i
pittori e gli scenografi geniali, la gente del teatro più autentico, gli
artisti come Visconti a fare da apripista? E se i ragazzi odierni hanno talento, come faranno a scoprirlo? A chi possono guardare come punti di riferimento, oggi che i barbari stanno facendo irruzione ovunque?».
Sostiene che «gli attuali registi sono degli scellerati, convinti che
far morire Violetta schiacciata da un autobus, invece che di tuber-
Inferno
Zeffirelli
L’
di
colosi come nel libretto, sia un’interpretazione intelligente del testo
di Verdi». Le sue scenografie, centotrenta quadri di forte rilievo pittorico, sono state esposte di recente dal Museo Puskin, in Russia, per
una visitatissima mostra durata sei mesi. E a New York, poco tempo
fa, per l’ottantacinquesimo compleanno, è stato festeggiato da un
“Tribute” che celebrava i suoi allestimenti al Metropolitan, teatro
con cui iniziò a collaborare nel ‘64 in un succedersi di successi riportati e commentati da Caterina Napoleone nel volume Zeffirelli
at The Met, sottotitolo: One thousand five hundred and forty-nine
perfomances (so far), primo della serie in tre volumi che la storica dell’arte sta preparando sull’intera opera di questo regista orgogliosamente fuori dalle mode nella sua deferenza alla tradizione.
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Morsi allegri
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
È il più gettonato “comfort-food” della stagione calda
e il rito infantile di affondare il viso nelle sue fette rosse,
croccanti, zuccherine, dissetanti si moltiplica nelle notti
insonni di luglio e agosto. Ma attenti al gusto, perché
anno dopo anno le varietà locali, più saporite ma meno
redditizie, vengono rimpiazzate da ibridi americani
LICIA GRANELLO
state calda, caldissima. Umidità a mille, zanzare in agguato,
traffico insopportabile, irritabilità sotto pelle. Una fetta di cocomero/anguria è il miglior comfort-food possibile. Purché
sia appena tolta dal frigo, matura, rossa, croccante, zuccherina con un ricordo di acidulo.
Hanno voglia a raccontarci che piccola è meglio: dopo tanto
incrociare, selezionare, sperimentare, il nuovo formato-mini riesce docile al taglio e facile per il frigorifero. Ma dismettere il gesto infantile di affondare la faccia nella mezzaluna rosso acceso, riemergendone ristorati e ridenti solo per sputacchiare più o meno educatamente i semi, è come negarci un pezzo di allegria a costo zero (o
quasi). Perché tra tutti i frutti, il cocomero è
sicuramente il più
grande, sfrontato,
dissetante (95 per
cento d’acqua!), bandiera tricolore tradotta in bocconi golosi e
freschissimi.
L’origine è lontana
da qui, nella valle del
Nilo. I geroglifici testimoniano che cinquemila anni fa i cocomeri erano già presenti nelle tombe dei Faraoni, simbolo di nutrimento nel passaggio verso l’aldilà. L’uscita dalle terre d’Egitto verso la Cina è datata poco prima dell’anno mille: da
lì, un paio di secoli più tardi arrivò in Europa, dove ricevette attenzioni alterne, tanto che il nome scientifico, Citrullus Cucumis, fu assegnato solo
alla fine del Settecento dal direttore dell’Orto botanico di Gottinga, mutuandolo da quello del cetriolo, altro appartenente alla famiglia delle cucurbitacee.
In Italia, ne coltiviamo un centesimo della produzione mondiale. Ci superano di gran lunga Cina, Russia, Turchia, Brasile e Stati Uniti. Pochi ma
E
Un frutto sfacciato
per guadare l’estate
buoni: nelle nostre pianure, infatti, questa pianta strisciante annuale innamorata del caldo e dell’acqua si trova benissimo. Dalla bassa padana al
Salento, dalla Toscana al Lazio, quando le temperature cominciano a restare saldamente sopra il limite del nostro sbuffare per il caldo, i cocomeri si gonfiano felici, sviluppando gli elementi aromatici che imitano così
bene lo zucchero (presente in dosi risibili, per la gioia dei dannati della dieta), fino a quando il peduncolo si secca e si stacca. Lì comincia il suo viaggio verso le nostre tavole e la nostra sfida per scegliere quello giusto.
Ormai sono pochissimi i cocomerai che “tassellano” il frutto per verificarne insieme al cliente l’effettiva maturazione. Se nel fai-da-te dell’acquisto ci sentiamo smarriti, non dimentichiamo che il cocomero ideale
deve essere di aspetto ceroso ma brillante, consistenza croccante e pesante, e mostrare una chiazza giallastra che identifica la parte appoggiata a
terra durante la maturazione. Bussando sulla buccia, deve rispondere con
un suono sordo, pieno. La conservazione in frigo è obbligatoria anche da
intero, per evitare al calore esterno di indurre una super-maturazione interna, che rende la polpa farinosa e fibrosa. E, una volta tagliato, occorre
coprirlo con una pellicola, per evitare che assorba odori dagli altri alimenti.
Il buon cocomero è irresistibile: perché disseta e non stanca, è goloso
senza calorie, mette allegria agli occhi e al palato, è praticamente privo di
controindicazioni, al di là dell’ingestione dei semi che hanno effetti lassativi. In quanto alla presunta poca digeribilità, l’effetto è quello di bere
un paio di bicchieri d’acqua fredda: a fine pasto questo significa diluire i
succhi gastrici e raffreddare i processi digestivi (che invece hanno bisogno
di calore). In compenso, il cocomero è una fonte preziosa di vitamina C e
di potassio, qualità che lo elegge a frutto anti-crampo per eccellenza, in alternativa alla molto più calorica banana.
Purtroppo, le varietà di cocomeri disponibili sul mercato si stanno assottigliando anno dopo anno: nell’ultimo secolo abbiamo smarrito una
ventina di varietà locali, sostituite da ibridi americani, più redditizi e insapori. Per questo, se vi offrono una fetta di cocomero quadrato, ideato in
Giappone per razionalizzare il sistema di trasporto, lasciate perdere e addentate una pesca.
19
le calorie
ogni cento grammi
95%
la quantità d’acqua
nella polpa del frutto
20 kg
il peso massimo
di un singolo frutto
Cocomero
Maximus
Luna e stelle
Detto anche cocombero di Pistoia
e Faenza – varietà nostrana
e non ibrida – pesa fino a 20 kg
Di forma sferica, ha buccia spessa
e croccante, polpa rosso vivo
e semi neri. Più piccolo il medium,
semi bianchi, origini napoletane
Salvato dall’estinzione
dalla cocciutaggine del ricercatore
americano Kent Whealy,
si riconosce dai puntini giallo vivo
con una chiazza più grande
sulla buccia verde scuro. Ovale,
succosissimo, resiste alle malattie
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Mostarda
Granita
Zuppetta
Gelatina
Confettura
L’altra faccia della composta
di frutta – speziata, piccante –
ha trovato ottima collocazione
con i formaggi stagionati
Uno dei grandi vecchi della cucina
italiana, Aimo Moroni, la offre
con pecorino sardo e pane ai fichi
Difficile trovare miglior dissetante
della grattachecca di sola polpa
d’anguria. Per il veronese Elia
Rizzo, chef-patron de “Il Desco”,
è perfetta in chiusura di pasto,
contraltare freschissimo
a una mousse di cioccolato bianco
Succo e polpa d’anguria frullati
sono la base di ricette dolci-salate
super-estive: tocchetti di frutta
e/o verdura, crostini, piccole
meringhe. Sul lago d’Orta, Tonino
Cannavacciuolo aggiunge essenza
di oliva e batida di cocco in gelato
Tolti i semi e centrifugata la polpa,
il succo addizionato di colla
di pesce è un compagno profumato
e discreto di pesci e carni bianche
Del romano Fabio Baldassarre
l’antipasto con gelatina d’anguria,
mazzancolle, ricotta e olio speziato
Più delicata, originale e insolita
delle tipologie classiche, regala
una nota zuccherina e aromatica
a mousse dolci e piatti salati
Lo chef ferrarese Igles Corelli
la accompagna al germano reale
con purea di pere e salsa di ribes
Novellara (Re)
Orsigna (Pt)
itinerari
Davide Palluda
è tra gli chef più
bravi della nuova
generazione
Nel ristorante
“All’Enoteca”
– Enoteca
Regionale del Roero
a Canale d’Alba –
si alternano ricette
tradizionali e piatti creativi,
come il polpo al vapore
con gazpacho
di anguria e ostrica
Galatina (Le)
L’incontaminato borgo
montano tanto amato
da Tiziano Terzani
è una frazione di Pistoia,
su cui svetta il monte
battezzato Cocomero.
Storiche, infatti, sono
le varietà coltivate
nei pianali pistoiesi,
recuperate grazie al lavoro dei vivai della zona
Borgo agricolo adagiato
nella bassa padana,
impreziosito
dalla Collegiata di Santo
Stefano e dalla Rocca,
tra due fine-settimana
ospiterà una gara
per divoratori
di cocomeri e l’elezione
di Miss Anguria, il frutto più grande e zuccherino
Appoggiata sulle colline
salentine fra Adriatico
e Ionio, vanta
testimonianze
architettoniche
importanti dal romanico
al barocco. Oltre
alle produzioni di olio
e vino, eccellenti
le coltivazioni di cucùmmari, anche a polpa bianca
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA SELVA
Via Casa Sandrella
Tel. 0573-490094
Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa
HOTEL NUBILARIA (con cucina)
Via della Costituzione 64
Tel. 0522-652097
Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa
PALAZZO BALDI
Corte Baldi
Tel. 0836-568345
Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
TRATTORIA DELL’ABBONDANZA
Via dell’Abbondanza 10, Pistoia
Tel. 0573-368037
Chiuso merc. e giov. a pranzo, menù da 25 euro
ALQUICOSÌ (con camere)
Via della Costituzione 75, Correggio
Tel. 0522-633063
Senza chiusura, menù da 28 euro
PURITATE
Via Sant’Elia 18, Gallipoli
Tel. 0833-263836
Senza chiusura estiva, menù da 35 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
I SAPORI DELLA BOTTEGAIA
Via del Lastrone 4, Pistoia
Tel. 0573-358450
AZIENDA AGRICOLA AL LIVEL
Via Don Sturzo 38, Gualtieri
Tel. 0522-220031
PASTICCERIA EROS
Piazza San Pietro
Tel. 0836-566100
Mangiatelo alla vietnamita
con sale e peperoncino
MASSIMO MONTANARI
«G
l’appuntamento
Si chiama La Cucombra,
la Sagra di San Matteo
della Decima, nella campagna
bolognese, che per tutta questa
settimana celebra il cocomero
A partire da metà luglio,
feste anche in Salento,
con Melpignano e Botrugno
protagoniste di eventi
li cucumeri, detti ancora angurie vulgarmente, sono in uso l’estate» e si mangiano più che altro «per stinguere la sete», visto che non
danno nutrimento né «dilettamento». Così scrive verso il 1570 il
botanico marchigiano Costanzo Felici, senza dedicare molta attenzione a un
prodotto che stima decisamente “minore” sul piano nutrizionale. Però anche alla sete bisogna pensare e per quella i cocomeri funzionano perfettamente: a ciò giova la loro sostanza «molto acquosa», in alcuni casi dolce, «che
per questo son detti cucumeri zuccarini».
Del cocomero e dei suoi usi, la storia dell’alimentazione non ci racconta
granché, anche per la difficoltà di mettere a fuoco una terminologia incerta,
ambigua. Quando si riferiscono a questa pianta, i testi che se ne occupano (per
lo più trattati di dietetica o di botanica) faticano a trovare indicazioni e riferimenti autorevoli, poiché neppure riconoscono con certezza il cocomero fra le
citazioni dei classici. Nel 1627, per esempio, Salvatore Massonio (autore di
un’interessante opera sulle insalate e i cibi vegetali) cita il testo-base di Dioscoride per distinguere tra cocomeri domestici e selvatici: questi ultimi «in verun modo nutritivi», utili solo a scopi medicinali «e di sapore amarissimo»; gli
altri invece «utili allo stomaco, e al corpo». Ma di che piante parla esattamente Dioscoride? Dei cocomeri o dei cetrioli? O di altro ancora? Massonio confessa di non capirlo: e allora preferisce glissare sulle auctoritates e passare direttamente alla pratica e al linguaggio dei suoi contemporanei, «onde per la
chiarezza del nome… diciamo intendere per cocomeri quelli, che cocomeri
chiamano i Lombardi, e che in Toscana, e in Roma son detti cedriuoli, e in questi nostri paesi dell’Aquila [di cui Massonio è nativo] passano sotto il nome di
melangole». Gli Spagnoli da parte loro li chiamano peponi, e li usano (afferma
Amato Lusitano) per rinfrescare il corpo sia dall’interno che dall’esterno: «L’estrema parte tagliata, solemo per rinfrescarci metterlo alla fronte nell’hore più
calde del giorno, quando anche solemo per lo stesso effetto mangiarlo».
Anche Bartolomeo Platina, umanista quattrocentesco, autore di una celebre opera «sul piacere onesto e la buona salute», sembra usare il termine poponi per indicare i cocomeri, «diversi dai meloni, essendo questi ultimi quasi rotondi e costolati mentre quelli sono oblunghi».
Come ogni cosa, il cocomero possiede delle qualità: purga i reni e la vescica, «lenisce l’infiammazione di stomaco e dà un certo sollievo all’intestino»
(purché ne siano tolti i semi). Ma in generale intralcia la digestione, ossia il
processo di “cottura” dei cibi nello stomaco, che abbisogna di caldo e di secco, qualità esattamente contrarie a quelle del cocomero. «Il popone», scrive
Platina, «è senza dubbio gustoso, ma si digerisce a stento perché è freddo e
umido». Per questo è consigliabile mangiarlo a stomaco vuoto, «altrimenti ritarda la digestione». Per questo è bene accompagnarlo col vino piuttosto che
con l’acqua, perché questa aggiungerebbe altro freddo e altro umido, mentre il vino agisce in senso contrario. Lo si percepisce anche d’istinto: «Io», scrive ancora Platina, «consento con la natura, la quale, dopo che si è mangiato il
popone, è inclinata a desiderare il vino, e di quello buono, perché è quasi un
antidoto alla crudezza e alla frigidità del popone».
Altri antidoti sono possibili, e capita di incontrarli ancora oggi negli usi
alimentari di questo o quel paese. Qualche anno fa ero in Vietnam. Faceva
molto caldo e il cocomero si serviva dappertutto. Non da solo, però: rigorosamente accompagnato da una presa di sale e da un pizzico di peperoncino. Il secco del sale e il caldo del peperoncino. Fate la prova, è assai piacevole (e il gusto, come insegnavano Platina e tanti altri, è la nostra prima
guida alla salute).
Sugar Baby
Crimson Sweet
Moscatello
Rotondo come una palla, di piccola
pezzatura – 3/4 kg – ha buccia
sottile color verde scuro e buona
succosità. Coltivato pensando
ai mercati lontani dalle zone
di produzione per la facilità
di trasporto, matura da inizio luglio
Tra i più imponenti in commercio –
arriva a 15 kg – ha forma sfericoovale e buccia striata
tra il verde chiaro e quello scuro
È il più apprezzato dai cocomerai
per l’aspetto invitante
e le fette gigantesche
Altra varietà autoctona a un passo
dalla scomparsa, è riconoscibile
per la polpa gialla e i semi marrone
chiaro. Slow Food International
tutela una varietà analoga, coltivata
dai nativi americani in Arizona,
che si cucina come zuppa fredda
Repubblica Nazionale
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
le tendenze
Pronta a tutto
Multiforme, morbida e colorata
mostra tutti i suoi vantaggi
soprattutto in estate
Era poco amata dai designer,
usata per rivestimenti
e accessori industriali.Oggi
E diventa subito di moda
è partita la rivincita globale
ACCOMODANTE
PASSI FIORATI
FRUTTA & VERDURA
È entrata
a far parte
della banca dati
di materiali
riciclati Matrec
la sedia Bucatini
di Hk: la seduta
è ottenuta
da vecchie
camere d’aria
Nati per gli ospedali,
da un paio d’anni gli zoccoli
in gomma Woz sono la moda
dell’estate. Il modello
Fiorelloni è solo uno dei tanti
Un contenitore
in gomma
morbida
e colorata, dotato
di spazzola,
per lavare frutta
e verdura o tenere
in fresco alimenti
È Washing-up
di NOmadeDesign
Riciclata o no, alla conquista del mondo
AURELIO MAGISTÀ
ifficile trovare qualcosa di
migliore della gomma per
illustrare la citazione amletica: «Ci sono più cose in
cielo e in terra, Orazio, di
quante non ne sogni la tua
filosofia». Infatti, in questa estate che registra la moda febbrile della gomma, preferibilmente multiforme, tassativamente multicolore, non sappiamo, o dimentichiamo, che quando si dice gomma si
indica una famiglia così numerosa che si
rischia di non dire niente. Nel senso comune, la gomma è liscia, morbida, elastica. Quando diciamo gomma pensiamo
di indicare una cosa precisa. E invece le
gomme sono tante. Perché sono polimeri, ovvero molecole organizzate in catene. La molecola originale, la lavorazione,
le sostanze aggiunte e il tipo di catena determinano le caratteristiche finali del
materiale. Il numero delle combinazioni
possibili tende all’infinito (per saperne di
più: http://temi.repubblica. it/casa/).
L’albero genealogico della gomma si
biforca subito; da una parte le gomme
naturali, piuttosto rare, che si ottengono
coagulando il lattice di alcune piante;
dall’altra le gomme sintetiche. Albero genealogico sbilanciato: il secondo ramo si
divide ossessivamente fino a diventare,
da solo, una selva selvaggia: polibutadiene, neoprene, isobutene, poliestere, stirene, sono solo alcuni membri dell’affollata famiglia. Per dare un’idea dei risultati possibili, si può pensare che perfino l’ebanite, duro e fragile antenato della plastica, viene da una gomma naturale ipervulcanizzata, ovvero “cotta” molto a
lungo insieme a zolfo. E i siliconi sono
delle gomme un po’ strane, basate su una
catena silicio-ossigeno, i due elementi
più diffusi in natura.
Tutto questo discorso non serve a consigliare di far studiare chimica ai figli, che
un lavoro lo troveranno sempre, ma per
dire, intanto, di andarci cauti, quando vi
dicono che un oggetto è di “gomma”, e
poi per sottolineare che il settore, così sovraffollato, è fonte di continue sorprese.
Per esempio, tra i polimeri più recenti c’è
il Melflex, nome commerciale, registrato
dal marchio Melissa, di un’evoluzione
del pvc (quindi, a rigore, non una gomma
ma una plastica) sottoposto a una lavorazione particolare. Risultato: una singolare specie di gommoso velluto che sembra fatto apposta per irretire e sedurre.
In genere i designer non amano molto
la gomma: la sua morbidezza non garantisce la durata della caratteristica cui i designer tengono di più: la forma. Quindi, in
passato, per il design la gomma era soprattutto una materiale di rivestimento e
finitura di strutture più durature, in metallo o plastica. Ma si sta prendendo la sua
rivincita. Lentamente, come il blob del
celebre film di fantascienza, finirà per ricoprire il mondo. Le scarpe tutte di gomma, per esempio, hanno cominciato a
prendere piede lo scorso anno. Adesso si
sono trasformate in un fenomeno virulento. Per analogia di accessorio, le borse
di gomma ne hanno imitato il destino.
Anche perché, bisogna riconoscerlo,
la gomma dimostra il suo vantaggio
competitivo soprattutto d’estate: non
patisce acqua o sabbia, e il sole la ammorbidisce appena un po’. Uno spirito
democratico, tanto più che ormai anche
D
SEMPRE IN PIEDI
Lo sgabello
Zanzi Swing di Rexite
ha una base
basculante in gomma
che permette
di dondolarsi senza
cadere. Disegnato
da Raul Barbieri,
è regolabile in altezza
con un pistone a gas
e proposto in diverse
versioni di colore
Costa circa 300 euro
TEMPO DI LUSSO
Gli orologi PZero
Pirelli Luxury
hanno cinturino
in gomma
vulcanizzata
con struttura
identica
a quella
dei pneumatici
GHIACCIO DA URLO
Ahhhhh è uno dei coloratissimi
portaghiaccio estivi dai nomi
“urlati” di MoroniGomma
Da portare a tavola, ci sono
infatti anche Arghhh e Brrrrr
gli orologi meccanici si permettono di
ostentare il cinturino di caucciù o, magari, come nel caso di Pirelli, di gomma vulcanizzata con la scolpitura identica a
quella degli pneumatici. Il richiamo alle
ruote delle automobili torna anche in Bucatini, la sedia di Hk ricoperta con camera d’aria riciclata e opportunamente
traforata. La sedia, per la sua vocazione
ecologica al riuso, è entrata a far parte di
Matrec (Material Recycling), banca dati
dell’ecodesign. E questo conduce al di-
SPIAGGIA & CITTÀ
Nate in Brasile,
le scarpe Melissa
Plastic Dream
sono vendute
in tutto il mondo
Con o senza
tacco, sono
in Melflex,
materiale
brevettato
simile alla gomma
lemma: com’è possibile che, mentre aumenta la sensibilità ambientalista, si accende in parallelo tanto amore per la
gomma, che quasi sempre deriva dal petrolio e non è di certo un esempio di biocompatibilità? Forse perché è amichevole, morbida, allegramente colorata,
pronta a tutte le situazioni. E quando i
tempi si fanno duri, come adesso, ci appare la multiforme reincarnazione della
coperta di Linus: un feticcio, il tabù consolatorio per le nostre ansie.
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2008
l’incontro
Ragazzi cresciuti
Vent’anni di attività discografica,
la perdita del fratello maggiore,
un cd, “Safari”, un nuovo
spettacolo. A quarantuno anni
Lorenzo Cherubini è diventato
definitivamente grande:
Il suo nome d’arte,
dice, “è un personaggio,
la mia maschera,
il costume di scena,
il mio aspetto giocondo
e ribelle. È interessante
il fatto che un adulto
si chiami così”. E a proposito
del suo lavoro confessa:
“È un gioco che patisco molto”
Jovanotti
trafficare nei quartieri off
limits degli artisti si scopre sempre qualcosa d’inedito. «A Caserta Lorenzo era fuori di sé, furioso. Non l’avevamo
mai visto così», dicono dietro le quinte
del Palasport di Perugia. Jovanotti che
perde la calma, alza la voce, aggredisce
anche solo verbalmente qualcuno: questa sì è una notizia. «Ma no, che ha capito, era solo per una situazione di palco
che non funzionava», minimizzano subito. Mentre in sala i tecnici mettono a
punto la strumentazione per il concerto
(una data del Safari Tourancora in corso)
generando feedback assordanti, nel retropalco il cuoco Marco prepara la cena
per novanta persone. Braciole, verdure
fresche, frutta di stagione. Oggi ci sono
anche i bambini che ficcano il naso ovunque. Quelli della quarta elementare della
vicina Cortona — dove vivono i Cherubini — la classe di Teresa, figlia di Lorenzo,
che suona il violino e ha davvero i colori
di un cherubino. Impossibile per mamma Francesca, «la compagna che prima
o poi sposerò», tenerli a bada. Chi chiede
una t-shirt, chi la foto autografata, chi il cd
Safari. Che per la verità non è proprio un
disco da quarta elementare, anzi è il più
maturo che Jovanotti abbia mai inciso.
Ispirato, potente, raffinato persino. Un
pugno in faccia a chi due anni fa diceva: è
finito, non ha più niente da dire, non riuscirà mai a far convivere Jovanotti con
Lorenzo Cherubini.
Quando il giovanotto entra nel camerino del Palasport, abbellito con lumini e
teli indiani, ha ancora un’aura di santità
che la sfuriata di Caserta non è riuscita a
cancellare. Saranno i capelli biondi e gli
occhi buoni, sarà la barba francescana,
sarà la tenerezza con cui si rivolge ai compagni di scuola di Teresa, saranno le rughe timide dei quarant’anni (che non
tute. Padre: «Mi piaci di più da quando fai
meno il rapper». Figlio: «Sei elegante, un
look quasi berlusconiano». Padre: «Sì,
come Silvio ai Fori Imperiali». Figlio:
«Quindi come Rascel che faceva Napoleone, ah ah ah». Il signor Mario si dilegua
in cucina. «Ha settantatré anni, tiene
botta, ha una tigna... «, dice Lorenzo. «La
morte di mio fratello ha scatenato in lui
una reazione incredibile. Superato il dolore, è più allegro, dinamico, persino più
paterno. Mi dice “sei bravo”, complimento che non mi aveva mai fatto. Una
volta magari me lo faceva capire, ora ha
l’urgenza di comunicarlo, come se volesse dire a me anche le cose che non ha avuto il tempo di dire a Umberto. E pensare
che quando esordii non ne faceva passare una, un rompicoglioni infernale. Aveva paura che mi mettessi nei guai, le discoteche di notte, le ore piccole. Adesso
lo capisco. Oddio mica tanto… ma sì lo
capisco, aveva paura. La prima volta che
si è reso conto che facevo un lavoro serio
fu quando mi vide in Rai, con Pippo Baudo a Fantastico. La Rai per lui era come la
banca, il pezzo di carta».
Invecchiare bene
è il massimo
che possa capitare
a un artista. Molti
geni della musica
sono morti
trentasettenni
ma si possono fare
cose belle anche dopo
FOTO GRAZIANERI
A
PERUGIA
sembrano quaranta anche se sono quarantuno). «Lorenzo entra spesso in conflitto con Jovanotti», esordisce, «ma è
sempre un conflitto tenero, un dubbio
che non dura mai più di un minuto. In
fondo, superati quegli anni lì, Jovanotti
invecchiando è migliorato. È un personaggio, la mia maschera, il mio costume,
l’etimologia non conta più. È interessante il fatto che un adulto si chiami Jovanotti. A vent’anni funziona, dai trenta ai
quaranta è strano, poi diventa un nome
da circo, è il mio aspetto giocondo e ribelle, dà forza a quei momenti in cui vado in altre direzioni, perché li rende noncantautorali. Ci tengo a non essere mai
un cantautore. Jovanotti sarà un nome
perfetto quando avrò settant’anni, perché sarà paradossale».
Oggi dice: «Il mio lavoro è un gioco che
patisco molto». All’inizio, invece, era un
gioco e basta: È qui la festa? «Partii come
un razzo, niente gavetta, numero uno in
classifica, mezzo milione di copie in tre
settimane. Pazzesco. Non ho mai avuto
ostacoli davanti né obiettivi, fino a… fino
a che non sono diventato grande. Quando mi presero alla radio, per me era il
massimo. Quando cominciai a fare il dj
nei locali, era quello il massimo. Quando
feci un disco per Goody Music, era il top
del top. Poi mi chiamò Cecchetto, e non
riuscivo neanche a immaginare che potesse succedermi qualcosa di meglio.
Avevo solo piccoli sogni e nessuna aspettativa, questo ha premiato la mia salute.
D’altronde, senza doti musicali, non
avrei potuto dire né pensare “prima o poi
il mondo capirà quanto valgo”. A me succedeva il contrario, avevo l’impressione di avere più di quanto meritassi».
Safari celebra vent’anni di attività discografica, iniziata nel 1988 con Jovanotti for President. «In realtà», precisa, «la
mia prima paga l’ho avuta il 4 luglio 1982,
a una festa di americani a Cortina, come
dj. Bilancio? Boh, sì, me lo fanno fare per
forza. La sensazione, oggi, è di aver ricominciato. Avevo il terrore di dovermi
chiedere un giorno: e adesso che faccio,
dove vado? Invece questo disco e questo
spettacolo mi hanno dato una vitalità che
in vent’anni non ho mai avuto. Ho la sensazione che il meglio debba ancora venire, nella scrittura delle canzoni, nelle invenzioni. Mi sento come il ragazzo di bottega che finalmente ha un negozio tutto
suo. Mi piace la gente che invecchia bene, è il massimo che possa capitare a un
artista. Molti geni della musica sono
morti a trentasette anni: Mozart, Marley,
Lennon. Ma si possono fare cose belle anche dopo quell’età, penso a Tom Waits, a
Springsteen, agli U2, a Chico Buarque.
Vorrei invecchiare in maniera vitale, restare attuale, parlare agli adulti e, contemporaneamente, alla generazione che
sogna, ai ventenni. Perché se perdi il contatto con quelli che hanno il futuro davanti sei fottuto».
Arriva papà Mario, col bastone, allegro, rassicurante. Stasera si canta anche
per la famiglia. «Sa che è diventato un mio
fan?», esclama Lorenzo. Scambio di bat-
Adesso papà Mario è il suo bambino.
Come Teresa che, dice suo nonno, «nel
carattere è tutta Lorenzo». «Con la differenza che lei è figlia unica», precisa Jovanotti, «io ero il terzo di quattro, tre maschi
e una femmina, mi son dovuto guadagnare gli spazi. Mio padre ha trovato un
cassettone pieno di superotto che sto digitalizzando. Li riguardo con grandissima emozione e tanto dolore. Rivedendo
noi tre insieme, mi rendo conto che eravamo inseparabili, una gang. Abbiamo
dormito nella stessa stanza per anni, fino
alle superiori. I fratelli maggiori sono stati opposti modelli per me. Umberto
(morto l’anno scorso in un incidente di
volo) quello con la testa sulle spalle, il caposcout; Bernardo il rocker, il ribelle. Siamo cresciuti ascoltando musiche diverse. A me il rap riusciva a dare un’identità,
a loro faceva schifo. Io, che sono sempre
stato un solitario socievole, non raccontavo ai miei che, durante il liceo, frequentavo una scuola di teatro, che anche
da piccolo ero un avido visitatore di musei. Era un segreto, una passione solitaria. In realtà, quando avevo l’età di Teresa, pensavo che sarei diventato un disegnatore, che avrei fatto qualcosa nel
mondo del fumetto. Poi in tv comparve
Arbore: mi stregò quella maniera un po’
pacchiana e goliardica di far spettacolo.
Nei miei esordi radiofonici, anch’io tentavo di cazzeggiare, di creare situazioni
un po’ surreali, ma non avrei mai pensato di fare dischi. Mi sono accorto di fare il
cantante quando ho cominciato a cantare. Non era nei miei piani».
È cresciuto all’ombra del cupolone,
suo padre era un impiegato del Vaticano,
San Pietro la sua casa-museo. «Un luogo
meraviglioso, ma mai mistico o spirituale ai miei occhi. Ero soggiogato dall’aspetto visivo, dall’apparato. Puro significante, niente significato. Dio esiste? Boh,
non lo so, non m’importa. Non m’interessa tuttora. Le madonne, San Pietro, il
baldacchino, la colomba su quel vetro…
mi rendo conto che faccio i concerti per
ricreare quella roba lì… L’Estasi di Santa
Teresa del Bernini era una cosa che mi
spaccava, come laPietàdi Michelangelo,
con la Madonna giovane che tiene in
grembo un figlio coetaneo. Mi scoprivo a
immaginare i pensieri dell’artista mentre la scolpiva, la sua eccitazione nel levigare il braccio, nel modellarne gli occhi
della Vergine. Estasi vera. Ricordo ancora oggi, con un brivido, i colli delle donne
di Modigliani. Poi, dopo la sbandata rap,
persi la testa per Keith Haring, abbracciai
un’altra forma di comunicazione. Se ripenso a quegli anni non mi riconosco,
ero come drogato, ma in maniera buona,
giusta. Drogato da una persona — Claudio Cecchetto, il mio primo produttore
— che sapeva fare il suo lavoro, una benedizione per un esordiente». Non si
montò la testa, neanche quella volta che
salì sull’elicottero di Berlusconi, che voleva proporgli un contratto in esclusiva
per la Fininvest. Aveva diciannove anni.
«Mi portò in villa, fece mostra di sé e mi
conquistò. È bravo a conquistare. “Devi
leggere, leggere molto”, mi raccomandò.
Era la prima volta che incontravo uno così ricco, la prima volta che vedevo una casa che assomigliava al Vaticano».
Ammette che una preghiera, una volta
ogni tanto gli scappa. Come quella volta
che andò a Guadalupe, nel sommo santuario mariano dell’America Latina.
«Adesso quando prego penso a mio fratello», dice. «Ho un corpo, una faccia cui
rivolgermi… lui era molto religioso, ho la
sensazione che abbia trovato quello che
cercava. Per questo provo dolore per la
sua morte, non tristezza». Racconta che
la lettura della Bibbia è stata assidua negli ultimi anni, ma di non essere mai stato uno con uno spiccato senso di spiritualità. «Non riesco mai ad attaccarmi a
un pensiero mistico», spiega. «Anche se a
volte, attraverso i sensi, mi arriva una forte percezione di trascendenza che non
riesco a tradurre a parole. E meno male,
altrimenti comincerei a rompere i coglioni agli altri. Farò accapponare la pelle ai preti, ma io credo a tutto, a ogni religione. Quando attraversai il Pakistan in
bicicletta, e dietro a ogni curva trovavo un
uomo chino a pregare sul suo tappetino,
non potevo non provare ammirazione
per l’Islam. Idem sul Monte Athos, alla
presenza di quei monaci ortodossi così
fieri, maestosi. O nella quiete ascetica dei
monasteri buddisti. Come si fa a sceglierne una sola?».
Pochi giorni dopo il concerto di Perugia, in una chiesetta della campagna umbra, il parroco unisce in matrimonio due
giovani. Lui un operaio, lei una psicologa
già col pancione. A metà messa, dopo il sì,
tre ragazzi accompagnano l’Eucarestia
cantando sommessamente: A te che hai
preso la mia vita / E ne hai fatto molto di
più / A te che hai dato senso al tempo / Senza misurarlo /A te che sei il mio amore
grande /Ed il mio grande amore. È un brano di Safari, la più bella canzone d’amore del nuovo millennio. Alla fine, un applauso lunghissimo. Al trio? Agli sposi? O
a Jovanotti?
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GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale
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