La riforma liturgica e la pastorale
[In: CredereOggi 27/5 (2007) n. 161, 7-24]
Il recente polverone, sollevato dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum
Pontificum di Benedetto XVI1, ha senza dubbio acutizzato la problematica, già viva,
relativa alla riforma liturgica. Questa, infatti, è stata “compressa” soltanto in due
interrogativi seppur essenziali: quello relativo alla ritualità, che ha portato al “permesso”,
allargato a iosa, di poter utilizzare come “forma extraordinaria” (già l’aggettivo, in siffatto
conio linguistico italiano, è in se stesso un programma!) la modalità rituale contenuta nel
Messale Romano, edito nel 1962 da Giovanni XXIII, insieme a quella “ordinaria”, scaturita
appunta dalla riforma del Vaticano II e confluita nel Messale Romano di Paolo VI del 1970.
Si imputa il fallimento di quest’ultima al fatto che “in molti luoghi non si celebrava in
modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come
un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a
deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile”2.
A ulteriore convalida papa Benedetto XVI riporta una propria critica personale: “Parlo per
esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E
ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della
Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”3.
L’altro interrogativo, l’unico che ha avuto risalto negli organi di stampa, è quello relativo
alla lingua latina nella liturgia, riconosciuta come quella che meglio veicola il mistero
celebrato e permette i raduni internazionali di persone, in quanto rappresenterebbe
l’autentica modalità di comunicazione tra i partecipanti, salvaguardando la sacralità del
divino.
In ogni caso, almeno nelle motivazioni che vengono solitamente addotte, costituisce
l’elemento della “tradizione” nel senso ampio del termine. Come questo possa attuarsi,
tenendo conto della magmatica situazione a livello pastorale, specialmente se
considerata dal versante della partecipazione e dell’espressività giovanile, è lasciato
totalmente alla fertile inventiva dei lettori.
Senza dubbio i due elementi citati lasciano trasparire che non si sono del tutto acquisite
sia le finalità specifiche, che la costituzione Sacrosanctum Concilium (=SC) assegnava alla
cosiddetta “riforma” liturgica, sia le conseguenze prettamente pastorali che questa
avrebbe comportato.
È quanto si cercherà di focalizzare nel presente studio, che ricopre la funzione
“introduttiva” ad altre problematiche più settoriali, le quali troveranno sviluppo nei
successivi interventi del presente fascicolo della rivista.
1
BENEDETTO XVI, Motu proprio Summorum Pontificum (=SP) (7.7.2007) (=Magistero di Benedetto XVI/22),
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007. La pubblicazione contiene anche la Lettera del Santo
Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il «Motu proprio» sull’uso della liturgia
romana anteriore alla riforma del 1970, pp. 21-31 (d’ora in poi citato con: Lettera papale).
2
Lettera papale, p. 25.
3
Ibid.
1
1.
Le finalità pastorali della riforma liturgica
Lo scopo della riforma e dell’incremento della liturgia, secondo il proemio di SC4, è
quadruplice:
*
far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli: si riconnettono qui i molteplici
tentativi pastorali, che in questi anni hanno fatto della liturgia un mezzo per alimentare la
vita in Cristo, nel senso più vasto del termine. Già in un documento attuativo della
riforma, nell’immediato postconcilio, si esortano apertamente i vescovi e i loro
cooperatori nel sacerdozio, perché “facciano sempre più conto dell’insieme del loro
ministero pastorale incentrato nella liturgia. Così, attraverso una perfetta partecipazione
alle sacre celebrazioni, anche i fedeli attingeranno abbondantemente la vita divina e,
divenuti lievito di Cristo e sale della terra, la proclameranno e trasfonderanno anche negli
altri”5.
E, proprio agli inizi degli anni duemila, i vescovi italiani richiamano ancora simile esigenza,
osservando e auspicando: “Pare, talvolta, che l’evento sacramentale non venga colto. Di
qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo,
facendone emergere la dignità e l’orientamento verso l’edificazione del Regno. La
celebrazione eucaristica chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va
sostenuta con una robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria,
semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile,
capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini”6.
Un compito pastorale, quindi, di vaste proporzioni, indispensabile alla edificazione del
Regno, che pure l’agire liturgico deve far emergere, tanto nella sua dignità, quanto nel
suo orientamento di fondo.
*
meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a
mutamenti: è un’altra preoccupazione che ha accompagnato la riforma liturgica in questi
anni, partendo, certo, a livello rituale, dove, secondo SC, si devono distinguere nella
“riforma (instaurationem) generale delle liturgia” le parti immutabili, perché di istituzione
4
I due verbi latini, originari di SC, sono quanto mai espressivi. Anzitutto la riforma corrisponde al verbo
instaurare, di chiara matrice biblica: instaurare omnia in Cristo (cfr Ef 1, 10), cioè “ricapitolare in Cristo tutte
le cose. Al riguardo così commenta un noto esegeta: “La storia è immaginata come un susseguirsi di epoche
e avvenimenti salvifici che raggiungono la loro pienezza grazie al ruolo determinante della persona di Cristo
che riassume in sé ogni frammento della storia salvifica precedente e la unifica come unico signore e capo
di tutta la realtà. Al Cristo come Signore risorto è d’ora in poi «intestata» tutta la storia umana. È una
visione grandiosa che ha entusiasmato i lettori cristiani di tutti i tempi” (R. FABRIS, Le lettere di Paolo, 3
[=Commenti biblici], Borla, Roma 1980, p. 221; cfr anche: H. SCHLIER, La lettera agli Efesini [Commentario
2
teologico del Nuovo Testamento X/2], Paideia, Brescia 1973 , pp. 89-93). Questa “intestazione” a Cristo si
attua appunto nella ritualità, che il Vaticano II ha inteso “riformare”. Tutto ciò è chiamato, sempre
dall’apostolo Paolo, mistero, cioè pieno svelamento del progetto di salvezza in Cristo. In questo senso la
liturgia è attuazione del mistero. E lo scopo della riforma del Vaticano II è appunto questo, primariamente.
L’incremento, poi, corrisponde al verbo fovere, un evidente termine di “sviluppo” della realtà liturgica nel
senso partecipativo, così come si è cercato di realizzare negli anni successivi alla SC, a vari livelli.
5
SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Inter oecumenici (=IOE) (26.9.1964), n. 8, in: EV, vol. 2, 218.
6
EPISCOPATO ITALIANO, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato
italiano per il primo decennio del Duemila (=CVMC) (29.6.2001), n. 49, in: ECEI, vol. 7, 215.
2
divina, e quelle suscettibili di cambiamento, in quanto nel corso dei secoli si sono insinuati
elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa liturgia o si sono resi meno
opportuni (cfr SC 21).
Ma la ritualità è stata sempre rapportata alla pastoralità. I piani CEI, ad esempio, degli
anni settanta relativi alla dinamica evangelizzazione/sacramenti reclamavano già alcune
esigenze di adattamento liturgico-pastorale: “Esistono problemi di metodo e di
linguaggio, nella ricerca e nella individuazione delle vie che raggiungono l’uomo
contemporaneo, per poterne interpretare, con lucida oggettività, le esigenze più vere. Di
qui la necessità di un approfondimento e di una traduzione, in linguaggio moderno, del
messaggio cristiano e di una testimonianza di vita, che ne accompagni e quasi ne convalidi
l’annuncio. Tutto questo comporterà un serio rinnovamento delle nostre comunità
cristiane, chiamate ad essere e a manifestarsi, nella loro vita, come visibile segno di
salvezza per gli uomini. Né meno necessaria è, alla luce della dottrina del concilio
Vaticano II, una migliore comprensione e una presentazione più pertinente dei
sacramenti, che ne metta in evidenza la connessione con tutta la storia della salvezza, il
rapporto con il mistero pasquale del Cristo e con la vita della Chiesa, la rilevanza in ordine
all’animazione cristiana del mondo e dell’avvento del regno di Dio”7.
Si può così arrivare, passando attraverso una buona messe di documenti, che sono stati
“tradotti” dai vescovi e dai presbiteri per le varie comunità parrocchiali, perché li
recepissero, agli ultimi pronunciamenti in ordine cronologico, dove ancora si afferma:
“Per dare concretezza alle decisioni che abbiamo indicato –e che, ne siamo consapevoli,
richiedono «una conversione pastorale»-, per imprimere un dinamismo missionario,
vogliamo delineare i due livelli specifici, ai quali ci pare si debba rivolgere l’attenzione
nelle nostre comunità locali. Parleremo anzitutto di quella che potremmo chiamare
«comunità eucaristica», cioè coloro che si riuniscono con assiduità nella eucaristia
domenicale e, in particolare quanti collaborano regolarmente alla vita delle nostre
parrocchie; passeremo quindi ad affrontare la vasta realtà di coloro che, pur essendo
battezzati, hanno un rapporto con la comunità ecclesiale che si limita a qualche incontro
più o meno sporadico, in occasioni particolari della vita, o rischiano di dimenticare il loro
battesimo e vivono nell’indifferenza religiosa”8.
*
favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo: questa istanza è stata
senza dubbio tenuta costantemente presente nell’impegno di rinnovamento liturgicorituale e pastorale. A puro titolo esemplificativo, basterà citare il capitolo mariano, uno
dei più rinnovati dopo il Vaticano II. Ebbene, nella magna charta che l’ha ispirato,
l’Esortazione apostolica Marialis cultus, si ammette esplicitamente: “Per il suo carattere
ecclesiale, nel culto alla Vergine si rispecchiano le preoccupazioni della Chiesa stessa, tra
cui, ai nostri giorni, spicca l’ansia per la ricomposizione dell’unità dei cristiani. La pietà
verso la Madre del Signore diviene così sensibile alle trepidazioni e agli scopi del
Movimento ecumenico, cioè acquista essa stessa una impronta ecumenica. La pietà verso
la Madre di Cristo e dei cristiani è per i cattolici occasione naturale e frequente di
implorazione, affinché ella interceda presso il Figlio per l’unione di tutti i battezzati in un
7
EPISCOPATO ITALIANO, Documento pastorale Evangelizzazione e sacramenti (12.7.1973), nn. 22-23, in: ECEI,
vol. 2, 409-410.
8
CVMC, n. 46, in: ECEI, vol. 7, 209.
3
solo popolo di Dio. E ancora, perché è volontà della Chiesa cattolica che in tale culto,
senza che ne sia attenuato il carattere singolare, sia evitata con ogni cura qualunque
esagerazione che possa indurre in errore gli altri fratelli cristiani circa la vera dottrina
della Chiesa Cattolica, e sia bandita ogni manifestazione cultuale contraria alla retta prassi
cattolica”9.
Anche recentemente si è ribadita la medesima preoccupazione da parte dei vescovi
italiani, presentando l’ecumenismo come sfida fondamentale, perché costituisce una
verifica della nostra fedeltà al Vangelo e una grande scuola di comunione, senza
trascurare la valenza “pastorale”: “Proprio di fronte ai cristiani di altre Chiese e comunità
ecclesiali –essi affermano-, palesemente «diversi» da me, sono chiamato a riconoscere
quell’unità che, a dispetto delle differenze, ci lega e ci chiama a una comunione sempre
più piena. Vivere l’impegno ecumenico può essere di grande aiuto anche per riscoprire le
vie che portano alla riconciliazione in seno alle nostre stesse comunità parrocchiali e
viceversa. Non si dà unità senza il rispetto delle differenze, senza portare i pesi gli uni
degli altri, ma soprattutto senza cercare insieme la verità che è l’unica vera fonte di
unità”10
*
rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa: è l’istanza missionaria e di
evangelizzazione, espressa nella terminologia degli anni sessanta. Tanto dal versante
catechistico quanto da quello strettamente evangelizzante non sono mancate
provocazioni al riguardo circa il ruolo della liturgia. Ci si limita a segnalare gli elementi
essenziali.
Si va dalla solida affermazione del prezioso documento CEI degli anni settanta che
proclama la liturgia come “una preziosa catechesi in atto”11, alla dichiarazione, altrettanto
solare e cronologicamente assai più vicina, che “se un anello fondamentale per la
comunicazione del Vangelo è la comunità fedele al «giorno del Signore», la celebrazione
eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il
Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far crescere i fedeli, mediante l’ascolto
della Parola e la comunione al corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della
chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della
speranza che abita i credenti. In tal modo la celebrazione eucaristica risulterà luogo
veramente significativo dell’educazione missionaria della comunità cristiana”12.
Non è stata, questa, che una carrellata documentativa, assai rapida, per esplicitare come
la cosiddetta “riforma liturgica”, nelle intenzioni del documento “fondante”, quello
conciliare di SC, non mirasse affatto a un puro cambiamento rituale, così che, come oggi si
scrive, la reintroduzione dell’utilizzo del Messale del 1962 convalida “un uso duplice
dell’unico e medesimo Rito”13. Già a ridosso della SC, infatti, si precisava chiaramente:
“Prima di tutto è necessario che ognuno si convinca che scopo della costituzione del
9
PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus (2.2.1974), n. 32, in: EV, vol. 5, 61-62.
CVMC, n. 56, in: ECEI, vol. 7, 234.
11
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il rinnovamento della catechesi (=Catechismo per la vita cristiana/1), n.
114, Fondazione di Religione Santi Francesco di Assisi e Caterina da Siena, Roma 1988, p. 88. Come è noto,
questo documento pubblicato il 2 febbraio 1970, è stato riconsegnato integralmente alla Chiesa italiana il 3
aprile 1988.
12
CVMC, n. 48, in: ECEI, vol. 7, 214.
13
Lettera papale, p. 24.
10
4
Concilio Vaticano II sulla sacra liturgia non è tanto di cambiare i riti e i testi liturgici,
quanto piuttosto di suscitare quella formazione dei fedeli e promuovere quella azione
pastorale che abbia come suo culmine e sua sorgente la sacra liturgia. Infatti i
cambiamenti che finora sono stati introdotti nella liturgia, o lo saranno in seguito,
tendono a questo scopo”14.
Convincimento che, a tutt’oggi, è rimasto soltanto sull’onda degli auspici, senza affondare
nella realtà ecclesiale, almeno a livello magisteriale.
2.
La riforma liturgica in rapporto alla specificità della pastorale
Riandando ancora ai documenti iniziali della riforma liturgica, ci si imbatte nell’esplicita
affermazione che lo sforzo (vis) dell’azione pastorale incentrata sulla liturgia, il quale
costituisce lo scopo ultimo della sua riforma, “deve tendere a far vivere il mistero
pasquale”15. Espressione alquanto sapida, che, se rispettata, non avrebbe mai
trasformato la pastorale in un’operazione di pura «ingegneria ecclesiastica», come
argutamente la definisce un recente documento dei vescovi italiani16.
Questa, infatti, rischia di far passare sopra la vita della gente decisioni che non risolvono i
problemi attuali né favoriscono lo spirito di comunione. Il “mistero pasquale”, invece, che
tonifica l’azione pastorale, viene così focalizzato: “Il Figlio di Dio, incarnato e fattosi
obbediente fino alla morte di croce, è talmente esaltato nella risurrezione e nella
ascensione, da poter comunicare al mondo la sua vita divina, affinché gli uomini, morti al
peccato e configurati a Cristo, «non vivano più per se stessi, ma per colui che morì e
risuscitò per essi»”17.
Al centro stanno, quindi, gli uomini, colti nel loro impegno di configurazione sempre più
stretta a Cristo, così che, gradualmente, possano superare l’impostazione egoistica
dell’esistenza, in quanto li fa agire solo in funzione di se stessi (cfr 2 Cor 5, 15), come si è
appena affermato.
La stessa SC ha riproposto la celebrazione come attuazione nell’oggi della Chiesa del
mistero pasquale di Cristo. Infatti, “qualificando come Pasqua tutta l’opera redentrice di
Cristo, non solo ha inteso porre questa come compimento reale di quello che la Pasqua
profeticamente significava e preparava, ma le ha assegnato anche il posto unico e
eminente che nella rivelazione del disegno di salvezza è riservato appunto alla Pasqua
stessa, e cioè il posto centrale. Per questa ragione tutti i sacramenti, pur dando ognuno
una particolare comunicazione al mistero totale di Cristo, sono in un modo o nell’altro
legati all’Eucaristia, centro e culmine del mistero pasquale; per questo nell’anno liturgico
ogni mistero del Signore, dalla nascita all’ascensione-pentecoste-parusia, viene celebrato
e comunicato nel mistero pasquale della morte del Signore. La liturgia tende quindi
essenzialmente a farci vivere la salvezza-mistero pasquale nei suoi singoli momenti e fa
14
IOE, n. 5, in: EV, vol. 2, 215.
“Mysterium paschale vivendo exprimatur”: IOE, n. 6, in: EV, vol. 2, 216.
16
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (=VMP)
(30.5.2004), n. 11, in: ECEI, vol. 7, 1484.
17
IOE, n. 6, in: EV, vol. 2, 216.
15
5
questo attuando in noi lo stesso mistero pasquale preso nel suo momento culminante:
morte e risurrezione di Cristo”18.
Allora la vita cristiana, imperniata sulla fede e sui sacramenti, apre i credenti agli altri,
avendo come centro e motivazione dell’agire la figura di Cristo e il suo Vangelo, che la
liturgia costantemente attualizza, appunto nella dinamica pasquale. È questa la garanzia
dell’attività pastorale, che non le permette assolutamente alcuna deviazione di percorso
né alcuna mira efficientista.
E, d’altra parte, se la celebrazione non influisce sulla vita, trasformandola, assolve al mero
compito contemplativo, che si risente tante volte nella predicazione, soprattutto quando
si afferma che nella liturgia “un pezzo di cielo scende sulla terra”, o similari.
Si esplicita, in tal modo, la ragione per cui “si deve curare attentamente che tutte le opere
pastorali siano in giusta connessione con la sacra liturgia e, nello stesso tempo, che la
pastorale liturgica non si svolga in modo separato e indipendente, ma in intima unione
con le altre attività pastorali”19.
Tutto ciò ha portato la SC a coniare quella meravigliosa metafora di culmine e fonte, che,
nel dettato originario20, così suona: “La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della
Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, è necessario che siano
chiamati alla fede e alla conversione. Nondimeno (attamen) la liturgia è il culmine verso
cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Infatti
le fatiche apostoliche sono ordinate a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il
battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, partecipino al sacrificio e
mangino la cena del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei sacramenti
pasquali, a vivere in perfetta unione, domanda che esprimano nella vita quanto hanno
ricevuto con la fede” (SC 9-10).
Una singolare ermeneutica, al riguardo, è fornita da un testo divenuto ormai classico
proveniente da un autore protestante: “Non c’è troppo da meravigliarsi se si vedono le
Chiese di tradizione «cattolica» dare al culto una portata determinante per la loro vita:
esso è culmen et fons. Per le Chiese d’Oriente, la cosa è talmente pacifica che non c’è
bisogno di una sottolineatura speciale. Ma ciò che è più interessante e forse più inatteso
è leggere la stessa cosa in autorevoli autori protestanti contemporanei. Il culto, tutto
sommato, è il criterio di attività della comunità ecclesiale. Un’attività comunitaria che non
avesse più il culto per venire a raccogliervisi, confonderebbe impegno e agitazione,
vigilanza e insonnia. Se invece il culto è veramente al centro della comunità cristiana,
allora non è soltanto il criterio di vita di questa comunità, ma significa anche che, se esso
si ferma, la Chiesa muore”21.
18
S. MARSILI, La teologia della Liturgia nel Vaticano II, in: AA. VV., La Liturgia, momento nella storia della
salvezza (=Anamnesis/1), Marietti, Torino 1974, pp. 98. 100.
19
IOE, n. 7, in: EV, vol. 2, 217.
20
Lo si riporta letteralmente, perché nell’utilizzo ecclesiale/magisteriale ha assunto e assume svariate
elaborazioni semantiche: fonte e culmine, sorgente e apice… Una precisa puntualizzazione, al riguardo, è
fornita da: O. VEZZOLI, Trasmettere la fede a partire dal mistero celebrato. La liturgia: culmen et fons della
vita cristiana, in: G. CANOBBIO - F. DALLA VECCHIA – R. TONONI (a cura di), La trasmissione della fede (=Quaderni
teologici del Seminario di Brescia/17), Morcelliana, Brescia 2007, pp. 297-331.
21
J.-J. VON ALLMEN, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, Elle Di Ci, Leumann 1986, p. 53.
L’autore aggiunge un’immagine alquanto suggestiva, citata spesso anche nella predicazione: “La vita della
Chiesa batte nel culto come nel cuore, e, come il cuore, con un movimento di diastole e di sistole. La Chiesa
non ha da scegliere tra l’uno e l’altro: deve impegnarsi nell’uno e nell’altro” (pp. 53-54).
6
Indubbiamente ciò che ha tenuto viva la Chiesa e la sua azione pastorale in questi anni è
stata la prassi liturgica. Come si evidenzierà in altri studi, tanto il cammino iniziatico
quanto quello catechistico hanno trovato impulso sempre dalla celebrazione, sia perché
questa non rimanesse isolata nella sua ieratica “stabilità”, sia perché i vari cammini non
fossero fine a se stessi, nel senso che risultassero una specie di “lezione teologica”, a
scopo didattico-formativo.
Pur non riconoscendo simile esigenza nella Chiesa, che in questi anni ha portato anche
alla compilazione di un nuovo catechismo per gli adulti, tuttavia è chiaro che, a livello
pastorale, ogni comunità ha bisogno di trovare apertura e solidità nell’esperienza
liturgica, dove ciò che si è imparato lo si riconosce attuato in Cristo e nella Chiesa,
mediante l’hodie celebrativo.
È proprio questa preoccupazione a purificare i credenti e a mantenerli costantemente in
quella dinamica, che la metafora di culmen et fons visibilizza, come filtro e luogo
ermeneutico dell’agire ecclesiale.
Sicché “la liturgia risulterà «culmen et fons» solo dopo averla proposta nella sua vera
natura, cioè alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa, dopo averne compresa la
funzione che occupa nella vita della Chiesa (SC 2). Se presuppone come essenziale
costitutivo l’aspetto cristologico –tanto da parlare della presenza operante di Cristo,
dell’esercizio del suo sacerdozio (SC 7)- quello messo in maggiore evidenza è l’aspetto
ecclesiale: nella liturgia la Chiesa si manifesta nella sua propria natura, in modo
privilegiato (SC 41) e da essa viene edificata in corpo di Cristo (SC 2). «Actio Christi»,
quindi, e «actio Ecclesiae» in inscindibile legame. Azione simbolica ed efficace che
attualizza l’economia salvifica e predispone, associandola fin d’ora, alla liturgia celeste”
(SC 8)”22.
3.
La pastorale liturgica alimentata dalla celebrazione e finalizzata all’osmosi
ecclesiale
Un altro grande obiettivo che la riforma liturgica si proponeva e ha cercato di perseguire
in questi anni è senza dubbio quello espresso dal documento CEI degli anni novanta. Così
lo sintetizzava: “Favorire un’osmosi sempre più profonda fra queste tre essenziali
dimensioni del mistero (catechesi-liturgia-carità) e della missione della chiesa. Se la
comunità ecclesiale è stata realmente raggiunta e convertita dalla parola del vangelo, se il
mistero della carità è celebrato con gioia e armonia nella liturgia, l’annuncio e la
celebrazione del vangelo della carità non può non continuare nelle tante opere della
carità testimoniata con la vita e con il servizio. Ogni pratico distacco o incoerenza fra
parola, sacramento e testimonianza impoverisce e rischia di deturpare il volto dell’amore
di Cristo”23.
Ne scaturisce un invito esplicito a perseguire una pastorale organica e unitaria: “Ciò è
possibile –si aggiungeva- se tutto il popolo di Dio e in esso i vari soggetti ecclesiali si
22
R. FALSINI, La liturgia come «culmen et fons»: genesi e sviluppo di un tema conciliare, in: AA. VV., Liturgia e
spiritualità (=Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae». «Subsidia», 64), C.L.V. – Edizioni Liturgiche, Roma 1992,
p. 43.
23
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Documento pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità (=ETC)
(8.12.1990), n. 28, in: ECEI, vol. 4, 2747.
7
impegnano a crescere in uno spirito di comunione e operare secondo i comuni
orientamenti, a servizio della chiesa e della sua missione”24.
In altri termini, si è cominciato a prospettare un agire ecclesiale che fosse frutto di
unitarietà, non solo a livello di attività (le tre dimensioni pastorali, appunto), ma anche di
persone. La Chiesa, infatti, che si presenta come un grande “agglomerato” di ministeri,
associazioni, movimenti… può arrischiare fortemente di perdere di vista l’intento di fondo
della sua carismaticità, che già l’apostolo Paolo identificava nell’«utilità comune» (cfr 1
Cor 12, 7).
Tale connotazione si rassoda se si pone l’uomo al centro, intendendo, con simile
affermazione, che non lo si può ignorare. Non solo nel generico senso del “bene delle
anime”, riaffiorato negli ultimi documenti sulla liturgia25, ma anche, e soprattutto, in
quella osmosi, cioè comunione fondata sulla relazione, che ogni celebrazione intende
favorire e che va sotto il nome di “partecipazione”, se tale termine non fosse interpretato
“con particolare enfasi”26.
Non va trascurato, infatti, che “l’aspetto decisivo da tener presente per la dimensione
intersoggettiva della comunità celebrante è rappresentato dal fatto che la liturgia, come
l’intera storia della salvezza, non si fonda sull’identità di un evento o di un atto, ma
sull’incontro che si realizza in quell’evento e in quell’atto. L’incontro, a sua volta, non
sospende la differenza che esiste tra coloro che si incontrano, non sospende la differenza
tra Dio e l’uomo; Dio non salva l’uomo annegandolo nella propria divinità, ma
restituendolo alla sua autentica libertà che pone l’uomo stesso come l’altro, il
trascendente di Dio; anzi, Dio non salva affatto gli uni rispetto agli altri. Questo confronto
che esalta le reciproche differenze è la comunione: la comunione su cui di fondano il
rapporto trinitario, il rapporto teandrico, il rapporto interpersonale. La comunità
cristiana, in quanto è tale comunione, fa la liturgia. Questo è il fondamento della
dimensione intersoggettiva della comunità celebrante. Nella concreta assemblea liturgica,
tale dimensione intersoggettiva assume le caratteristiche sia della partecipazione sia della
ministerialità”27.
Questi due termini sono davvero apparsi come il “tormentone” di questi anni
postconciliari e la loro interpretazione non solo spesso non ha trovato adeguata
unanimità, ma anzi ha generato contrapposizioni, trasformate spesso in lacerazioni del
tessuto ecclesiale. La supposta venerazione del mistero, infatti, ha sovente oscurato la
logica dell’incontro, alimentando la spiritualità quasi esclusivamente ripiegata sul proprio
io.
Conseguentemente la pastorale ne ha fortemente risentito: ecco perché i cosiddetti
“organi di partecipazione” nella Chiesa attraversano forti crisi di identità e si rivelano, in
24
ETC, n. 29, in: ECEI, vol. 4, 2748.
Cfr SP, art. 9, § 1-2, pp. 16-17.
26
Così recita un recente documento pontificio: BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica postsinodale
Sacramentum caritatis (22.2.2007) (=Magistero di Benedetto XVI/19), n. 52, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 2007, p. 83.
27
G. BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia (=«Caro salutis cardo». Sussidi, 6), Messaggero
– Abbazia di Santa Giustina, Padova 2003, p. 108.
25
8
alcune circostanze almeno, come inutili perdite di tempo. Tali sono ritenute sia dai
ministri ordinati che dai laici28.
*
Invece la partecipazione, con la caratterizzazione degli aggettivi che l’accompagnano
(consapevole, attiva, fruttuosa, e similari) deve essere intesa e vissuta come una
conformazione della mente con le parole e una cooperazione con la grazia divina, per non
riceverla invano, secondo la logica di SC 11, a livello rituale. Tutto ciò per sentirsi ed
essere poi, nell’azione pastorale, corresponsabili a pieno titolo, chiamati a divenire
partecipi della vita della società, senza esenzioni, portando in essa una testimonianza
ispirata al Vangelo e costruendo con gli altri uomini un mondo più abitabile.
Allora “la valorizzazione della liturgia non mira a sottrarci al rapporto vitale con il mondo
di ogni giorno, nel quale sono presenti opportunità per la nostra crescita cristiana,
insieme a sfide che rendono agevole la nostra fedeltà ai valori evangelici. Per questo
sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede
adulta, «pensata», capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto
in Cristo”29.
Un obiettivo sempre da raggiungere e che dà solida consistenza alle varie iniziative
pastorali, perché non siano semplicemente programmazioni estemporanee di varie
iniziative, ma primariamente e ostinatamente ricerca della comunione ecclesiale, a tutti i
livelli.
*
A questo riguardo si innesta l’altra caratteristica irrinunciabile di ogni assemblea, che è la
ministerialità. Questa ha ricevuto, nel dopo Concilio, una sua totale reinterpretazione, nel
senso che non è più ristretta al solo ambito liturgico, ma spazia su quello pastorale,
secondo le chiare indicazioni dell’episcopato italiano, relative ai due unici ministeri
esistenti, quello del Lettorato e dell’Accolitato: “Ogni ministero è per l’edificazione del
corpo del Signore e perciò ha riferimento essenziale alla Parola e all’Eucaristia fulcro di
tutta la vita ecclesiale ed espressione suprema della carità di Cristo, che si prolunga nel
«sacramento dei fratelli», specialmente nei piccoli, nei poveri e negli infermi, nei quali
Cristo è accolto e servito. Ne consegue che l’opera del ministro non si rinchiude entro
l’ambito puramente rituale, ma si pone dinamicamente al servizio di una comunità che
evangelizza e si curva come il buon samaritano su tutte le ferite e le sofferenze umane”30.
Anche i ministri ordinati, in particolare il diacono, mantengono la medesima
prospettiva31.
28
“Gli organismi di partecipazione ecclesiale e anzitutto i consigli pastorali –diocesani e parrocchiali- non
stanno vivendo dappertutto una stagione felice. La consapevolezza del valore della corresponsabilità ci
impone di ravvivarli, elaborando anche modalità originali di uno stile ecclesiale di maturazione del consenso
e di assunzione di responsabilità. Di simili luoghi abbiamo particolarmente bisogno per consentire a
ciascuno di vivere quella responsabilità ecclesiale che attiene alla propria vocazione e per affrontare le
questioni che riguardano la vita della Chiesa con uno sguardo aperto ai problemi del territorio e dell’intera
società” (CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande
«sì» di Dio all’uomo (=RSV) (29.6.2007), n. 24, Paoline Editoriale Libri, Milano 2007, p. 48.
29
CVMC, n. 50, in: ECEI, vol. 217.
30
COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse all’«Istituzione di ministeri», n. 3, in: ECEI, vol. 3, 495.
31
“Con il ripristino del diaconato permanente la Chiesa ha anzitutto la consapevolezza di accogliere un dono
dello Spirito e di dare un’immagine più completa di sé e rispondente al disegno di Cristo e anche più
adeguata a una società che ha bisogno di fermentazione evangelica e caritativa nei piccoli gruppi, nei
9
In ogni caso, la ministerialità si va caratterizzando sempre più come indispensabile
all’agire pastorale, e non coreografica. Tant’è che, sempre nel recente dettato CEI, si
auspica apertamente: “C’è bisogno di laici che non solo attendano generosamente ai
ministeri tradizionali, ma che sappiano anche assumerne di nuovi, dando vita a forme
inedite di educazione alla fede e di pastorale, sempre nella logica della comunione
ecclesiale. Riconoscendo l’importanza e la preziosità di questa presenza, si provvederà, da
parte delle diocesi e delle parrocchie, anche alla destinazione coraggiosa e illuminata di
risorse per la formazione dei laici”32.
Allo stato attuale della situazione ecclesiale italiana, riletta nella sua “verità”, si è ancora
distanti da simili prospettive. Gli stessi catechisti o ministri straordinari della comunione
assolvono, per lo più, un ruolo essenzialmente funzionale, per quel compito da sbrigare
che occorre. Anche gli educatori per il cosiddetto “cammino/itinerario” catecumenale,
che stanno diffondendosi in varie diocesi, non si pongono in quest’ottica, in quanto
manca loro quello “spirito” ministeriale, che scaturisce dall’esperienza celebrativa.
Questa, infatti, contemplando ora i compiti liturgici come veri ministeri, esige
propriamente che quanti li assolvono “siano permeati con cura, ognuno secondo la
propria condizione, dallo spirito liturgico, e siano formati a svolgere la propria parte
secondo le norme stabilite e con ordine” (SC 29).
Allora nessuno ha una “funzione” da svolgere e basta. Si tratta di acquisire uno “spirito di
servizio”, che rinsalda tutti nella comunione e non permette assolutamente di rendere
l’esercizio del compito una specie di privilegio acquisito: “I fedeli nella celebrazione della
Messa formano la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato. Procurino quindi di
manifestare tutto ciò con un profondo senso religioso e con la carità verso i fratelli che
partecipano alla stessa celebrazione. Evitino perciò ogni forma di individualismo e di
divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra
loro fratelli. Formino invece un solo corpo, sia nell’ascoltare la parola di Dio, sia nel
prendere parte alle preghiere e al canto, sia specialmente nella comune offerta del
sacrificio e nella comune partecipazione alla mensa del Signore. Questa unità appare
molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme. I
fedeli non rifiutino di servire con gioia il popolo di Dio, ogni volta che sono pregati di
prestare qualche ministero o compito particolare nella celebrazione”33.
Dettato chiarissimo che, partendo dalla liturgia e ritornandovi, rende la Chiesa in Italia
come un grande cantiere aperto, in cui l’apporto ampio dei ministeri risulta fondamentale
per rafforzare il senso di responsabilità e la volontà di operare per lo sviluppo di tutti gli
uomini e di tutto l’uomo per le generazioni future: “In questo cantiere aperto il contributo
dei credenti, sul piano etico e spirituale, culturale economico e politico è essenziale per
concorrere a orientare il cammino dell’umanità. Sappiamo bene che non ci sono soluzioni
a buon mercato o scorciatoie che sollevino dalla fatica e cancellino lo smarrimento. Di ciò
è segno anche il crescente numero dei cristiani martirizzati. Questo è il nostro
programma: vivere fino in fondo la Pasqua di Gesù. Da essa deriva una forza profetica
quartieri e nei caseggiati” (COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse all’«Ordinazione del vescovo, dei
presbiteri e dei diaconi, n. IV, 3, in: ECEI, vol. 2, 3634).
32
CVMC, n. 54, in: ECEI, vol. 7, 230.
33
Ordinamento Generale del Messale Romano, Conferenza Episcopale Italiana, Librerai Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2004, pp. 40-41.
10
dalla quale noi per primi dobbiamo continuamente lasciarci plasmare. Il nostro unico
interesse è infatti metterci a servizio dell’uomo perché l’amore di Dio possa manifestarsi
in tutto il suo splendore”34.
Conclusione
La panoramica, è evidente, potrebbe ancora estendersi, ma quella tratteggiata sembra
più che sufficiente per focalizzare lo status quaestionis al riguardo. Lo si potrebbe
riassumere secondo due direttrici, che l’attività attuale della Chiesa, centrata sulla
liturgia, cerca di perseguire:
*
anzitutto quella che viene definita pastorale integrata, cioè il tentativo –perché tuttora
tale permane!- di integrazione tra i differenti soggetti ecclesiali. Distolta da qualsiasi
parvenza di “ingegneria ecclesiastica” e incanalata nel più stretto rapporto tra le varie
componenti pastorali, essa reclama un’espressione e una verifica concreta della
comunione, che non si riduce mai a un’azione indifferenziata e accentrata, “ma, in un
contesto di effettiva unità nella Chiesa particolare, riconosce il valore delle singole
soggettività e fa leva sulla loro maturità ecclesiale. Una pastorale «integrata» mette in
campo tutte le energie di cui il popolo di Dio dispone, valorizzandole nella loro specificità
e al tempo stesso facendole confluire entro progetti comuni, definiti e realizzati insieme.
Essa pone in rete le molteplici risorse di cui dispone: umane, spirituali, culturali,
pastorali”35.
È chiaro che, per entrare più efficacemente in comunicazione con un contesto variegato,
bisognoso di approcci diversificati e plurali, com’è oggi, è assolutamente necessaria quella
spiritualità di comunione, garantita dalla celebrazione liturgica, soprattutto nella sua
attuazione rituale, scaturita dalla riforma del Vaticano II. Se ne ribadisce pertanto, in
questo contesto, l’assoluta necessità, per rispondere a simile istanza pastorale, nella sua
globalità di visione e di interpretazione. Il cammino conciliare esige di essere proseguito
nella docilità all’azione dello Spirito, che, solo, “guida la Chiesa verso tutta intera la verità,
la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e
carismatici, con i quali la dirige, la abbellisce dei suoi frutti. Con la forza del Vangelo fa
ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il
suo Sposo” (LG 4).
*
Non va disgiunta, proprio per la natura specifica della liturgia, la direttrice d’impegno che
pone al centro la persona, nella varietà delle sue relazioni. Queste non precludono la
strada a qualsiasi tentazione di estraneità, che minaccia gli uomini nella loro reciproca
alterità e nasconde l’illusione di valorizzare il proprio io evitando il confronto con gli altri
io, ma il proprio io è tale solo in quanto non è un tu, solo in quanto non è l’io dell’altro.
L’esperienza liturgica, nella modalità rituale odierna, mira proprio a questo confronto,
che, rispettando il mistero di Cristo e i fratelli, li fonde nella pienezza della comunione.
Ne consegue che, a livello pastorale, “le relazioni tra le diverse vocazioni devono
rigenerarsi nella capacità di stimarsi a vicenda, nell’impegno, da parte dei pastori, ad
34
35
RSV, n. 19, pp. 41-42.
RSV, n. 25, pp. 49-50.
11
ascoltare i laici, valorizzandone le competenze e rispettandone le opinioni. D’altro lato, i
laici devono accogliere con animo filiale l’insegnamento dei pastori come un segno della
sollecitudine con cui la Chiesa si fa vicina e orienta il loro cammino”36.
Creare e sostenere costantemente questo stile di comunione è peculiare della liturgia,
che costituisce, pertanto, un autentico tirocinio, perché lo spirito di unità raggiunga i
luoghi della vita ordinaria. Il dono della comunione che viene da Dio deve animare,
soprattutto attraverso i laici cristiani, tutti i contesti dell’esistenza e contribuire a
rigenerarne il tessuto umano.
È quanto già prospettava s. Agostino, imprimendo alla vita ecclesiale il principio ispiratore
ed ermeneutico nel rapporto tra la liturgia e qualsiasi questione pastorale, allorché, con
intuito davvero profetico, affermava: “Quel pane che voi vedete sull’altare, santificato
con la parola di Dio, è il corpo di Cristo. Il calice, o meglio quel che il calice contiene,
santificato con le parole di Dio, è sangue di Cristo. Con questi segni Cristo Signore ha
voluto affidarci il suo corpo e il suo sangue, che ha sparso per noi per la remissione dei
peccati. Se voi li avete ricevuti bene voi stessi siete quel che avete ricevuto. E in questo
pane vi viene raccomandato come voi dobbiate amare l’unità. Grandi misteri dunque,
veramente grandi! Non ti sembri di poco valore per il fatto che lo vedi. Quel che tu vedi,
passa; ma l’invisibile che viene espresso nel segno, quello non passa, rimane. Vedete,
esso si riceve, si mangia, si consuma. Ma si consuma forse il corpo di Cristo? Si consuma la
Chiesa di Cristo? Si consumano le membra di Cristo? Niente affatto. Qui esse vengono
purificate, lassù coronate. Perciò quello che viene espresso nel segno rimarrà, anche se
quel che lo esprime sembra che passi. Perciò ricevetelo, ma pensando a quel che siete,
conservando l’unità nel cuore, tenendo il cuore sempre fisso in alto”37.
Gianni Cavagnoli
36
RSV, n. 23, p. 47.
S. AGOSTINO, Discorso 227, 1, in: ID., Discorsi IV/1 (=NBA vol. XXXII/1), Città Nuova, Roma 1984, pp. 387.
391.
37
12
6 Giugno 2014
Le diocesi che da tempo hanno avviato o stanno avviando il progetto
Varchi per un rinnovamento
della parrocchia
La Rivista del Clero italiano 6| 2014
Unità pastorali alla prova
Con questo articolo mons. Ferruccio Lucio Bonomo,Vicario episcopale per il coordinamento della pastorale della Diocesi di Treviso,
ritorna sul tema delle unità pastorali a partire da una rilettura dell’esperienza del proprio territorio. La riflessione affronta le evidenti
fatiche della ristrutturazione organizzativa della pastorale, ma si concentra soprattutto sui ‘varchi’ di un possibile rinnovamento, sottolineando le opportunità che una riconfigurazione delle parrocchie
offre a un orientamento più decisamente missionario della pastorale,
che sappia porre al cento l’evangelizzazione e quindi, quale inevitabile corollario, sia portata a valorizzare il contributo insostituibile
dei laici. L’autore non si nasconde che la domanda sul futuro delle
Unità/Collaborazioni pastorali rimane aperta anche per coloro che
promuovono queste riforme, rappresentando la risposta che per il
momento presente permette di garantire a ogni parrocchia un dignitoso servizio pastorale aperto all’evangelizzazione. «Il problema
però rimane e, forse, è solo rinviato il “punto di rottura”, oltre il
quale non è più possibile garantire questo tipo di pastorale e questa
presenza ancora abbastanza “diffusa” del prete. […] Alla fine, quello
che tutti auspichiamo, è che, grazie anche al progetto delle Unità/
Collaborazioni, possa avvenire progressivamente quel cambio di
mentalità necessario per una vera conversione pastorale e missionaria delle nostre comunità ecclesiali e delle strutture (EG 27)».
456
delle Unità o Collaborazioni o Comunità pastorali si ritrovano a dover
ormai commisurare piani e progetti con questa nuova prospettiva la
quale, per molti aspetti, sta diventando sempre più l’elemento unificante e interpretativo del loro cammino, della riorganizzazione delle
parrocchie, della missione e della vita dei preti. Ritengo che, dopo il
rinnovamento promosso dal Concilio, quello delle Unità pastorali sia
un altro e forse più impegnativo rinnovamento che sta avvenendo per
le nostre chiese, perché non si tratta solo di aggiornare la pastorale
per essere più contemporanei e prossimi all’uomo d’oggi e alla complessità della situazione, ma anche di modificare i tradizionali rapporti prete-parrocchia-fedeli. Le riflessioni che offro, e nelle quali userò
indifferentemente le espressioni ‘Collaborazione pastorale’ e ‘Unità
pastorale’, partono dall’esperienza che da alcuni anni sta vivendo la
mia diocesi di Treviso con lo sguardo però allargato anche a quello
che sta accadendo in altre realtà vicine1.
Una risposta ai segni dei tempi
L’esperienza delle Collaborazioni/Unità pastorali non può essere ridotta al puro ‘fare di necessità virtù’, a una strategia pastorale per
ottimizzare le forze e far fronte all’emergenza, in particolare al calo
del numero dei preti. Infatti, la scelta delle Unità/Collaborazioni è
avvenuta nelle diocesi dopo lungo discernimento nel quale si è cercato di coinvolgere tutte le forze vive, convinti di rispondere ai segni
dei tempi, ai nuovi appelli rivolti alla Chiesa, in particolare quello di
pensare e attuare una nuova evangelizzazione nei nostri paesi di antica
tradizione cristiana.
Da diversi anni i nostri vescovi nei loro documenti, e di recente
papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, invocano una conversione missionaria delle parrocchie e una pastorale più
di evangelizzazione2. Non tutto ci è chiaro, ma l’indicazione verso cui
muoversi è inequivocabile: bisogna passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (EG
15) o di evangelizzazione; una pastorale «in uscita» per non cadere in
«una specie di introversione ecclesiale» (EG 27).
Come scrivono i vescovi nella Nota pastorale del 2004 Il volto mis457
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
FERRUCCIO LUCIO BONOMO
6 Giugno 2014
sionario delle parrocchie in un mondo che cambia, si rende necessaria
una revisione pastorale che riguardi non solo le piccole parrocchie,
ma anche quelle più grandi «tutt’altro che esenti dal rischio di ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è
finito il tempo della parrocchia autosufficiente»3.
Per poter essere comunità in tensione verso una nuova evangelizzazione è necessario però rinnovarsi profondamente, perché non è
possibile mettere vino nuovo in otri vecchi. Le Unità pastorali mirano proprio a promuovere tale rinnovamento delle comunità cristiane,
dando maggiore concretezza ed efficacia all’opera missionaria e pastorale della Chiesa, avviando percorsi di primo e di secondo annuncio.
Si tratta di una chiamata dello Spirito a camminare verso una nuova
comunione tra parrocchie, certamente esigente, ma che può e deve
diventare autentica testimonianza evangelica. Come nel mistero di comunione trinitaria nessuna persona è contrapposta all’altra, così deve
sempre più avvenire tra parrocchie e soggetti ecclesiali; le parrocchie
sono chiamate a vivere una fattiva collaborazione e vera comunione,
nel dono reciproco di risorse, esperienze e persone. Il prete stesso
dovrà necessariamente essere compreso non più come una ‘proprietà’
di questa o quella parrocchia, ma come colui che è chiamato a servire
la comunione all’interno della Collaborazione.
È necessario ribadire queste cose per non correre il rischio di ridurre tutto a una pura risposta al progressivo calo numerico del clero,
anche se, occorre convenire, questa è una delle cause principali che
hanno portato alla scelta delle Unità pastorali. Per molti aspetti ha
funzionato un po’ da detonatore. Prova ne sia che 40-50 anni fa, in
pieno rinnovamento conciliare, nessuno si poneva il problema delle
Unità pastorali. Anzi, venivano un po’ ovunque istituite nuove parrocchie al fine di servire meglio la crescente popolazione e trovare una
sistemazione al numero ancora considerevole di preti. Piuttosto sono
state avviate, con la formula dei preti fidei donum, collaborazioni con
altre chiese più bisognose, soprattutto in Africa e in America latina.
Si sa che le riforme, nella società e nella Chiesa, nascono sempre da
una situazione di crisi e dall’incontro con nuove urgenze. È evidente che il calo numerico del clero, unitamente alla crisi generale della
fede, ha provocato la ricerca di nuove strade e, quindi, ha aiutato a
riscoprire valori che in altri tempi, pur percepiti idealmente, non hanno trovato traduzione pratica perché non se ne sentivano necessità e
Le esperienze in atto ci testimoniano che le Unità/Collaborazioni già
avviate, pur non mancando i problemi, vivono una fase positiva e propositiva, assai diversa da quelle che ancora stentano a muoversi e dove
le difficoltà appaiono insormontabili. Nel suo insieme si è messo in
moto un cammino virtuoso in quanto, almeno nei preti e negli operatori pastorali, sta cambiando la mentalità; si allentano certi pregiudizi
e resistenze; viene apprezzato lo scambio e la nuova comunione che
si instaura tra parrocchie, con un arricchimento anche in quelle più
grandi; alcuni ambiti, come per esempio la pastorale giovanile, familiare, catechetica e della carità, in cui con maggior facilità si riesce tra
parrocchie ad attivare la collaborazione, possono essere affrontati con
minor dispendio di energie e producono buoni risultati; la tensione
verso un progetto comune fa superare certe difficoltà e stimola la ricerca di soluzioni ai problemi e di ciò che è essenziale.
Non si intende per questo negare fatiche e disagi che un tale progetto comporta, sia per i preti che per i laici. Spesso, infatti, si rende
necessario modificare tradizioni e stili di vita personali e pastorali consolidati; mettere da parte certi desideri e aspirazioni, come: «quando
sarò parroco finalmente sarò libero di fare a modo mio», «chiediamo
un prete tutto per noi perché la nostra parrocchia è molto diversa
dalle altre», ecc. La fatica aumenta maggiormente se si percepisce che
il progetto dell’Unità pastorale non è sempre così chiaro e definito, in
quanto ha bisogno di farsi e sperimentarsi sul campo.
Eppure si è anche coscienti che è impossibile muoversi verso qualcosa di nuovo tenendo il freno a mano tirato o portandosi dietro tutte
le masserizie. Un progetto così impegnativo non può essere affrontato
guardando sempre indietro a quello che si lascia. Nel momento in cui
si prende il largo è necessario volare un po’ alti, accettando il rischio
che comporta il mettersi in gioco. Chi ha già avviato il percorso delle
Unità pastorali sa bene che è ormai entrato nel guado e deve cerca-
458
459
urgenza. Da questo punto di vista anche un elemento nuovo di crisi,
come il calo delle vocazioni al sacerdozio, può essere letto come un
segno dei tempi, una situazione in cui lo Spirito ci rivolge un appello a
essere una Chiesa più condivisa e partecipata, aperta ai laici e al mondo, più missionaria, più sobria ed essenziale.
Un cammino virtuoso, ma anche faticoso
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
Ferruccio Lucio Bonomo
La Rivista del Clero Italiano
6 Giugno 2014
La Rivista del Clero Italiano
Ci sono alcune difficoltà che più di altre incidono sull’avvio della nuova esperienza pastorale. Penso per esempio alla pretesa da parte di
alcuni di aver tutto chiaro e che tutte le cose siano ben sistemate e
definite, con indicazioni precise da parte del vescovo, dimentichi che
l’Unità/Collaborazione pastorale è un punto di partenza e non di arrivo, e che va arricchita sperimentandola. Oppure il ritenere che l’istituzione da parte del vescovo dell’Unità pastorale con gli eventuali organismi di coordinamento previsti4 sia una pura formalità e che si possa
lo stesso collaborare tra parrocchie, con una certa spontaneità e libertà, dimenticando, anche in questo caso, come un certo spontaneismo
post conciliare abbia contribuito a mandare in crisi l’associazionismo
laicale (si pensi all’AC), e come, a forza di procedere in autonomia
rispetto ai cammini pastorali proposti dalla diocesi, la pastorale abbia
finito con l’inclinarsi sempre più sul versante clericale e la parrocchia
su quello della autoreferenzialità.
C’è anche il pericolo che qualcuno si costruisca una sua figura di
Collaborazione o di Unità pastorale, senza essersi cimentato a sufficienza nel confronto con la diocesi e con le esperienze già avviate.
Nessuno pretende di omologare e uniformare tutto o di tenere ogni
cosa sotto controllo, ma in tempi di forte mobilità della gente e anche
dei pastori, di sicuro gioverebbe a tutti, anche all’evangelizzazione,
una sostanziale unità e una pastorale più condivisa e integrata.
Mi sembra, infine, che un freno provenga anche dalla paura che
l’Unità pastorale comprometta, fino a distruggerla, l’identità della parrocchia, identità che però nessuno è in grado di declinare con chiarezza, perché spesso viene identificata quasi esclusivamente con una serie
di tradizioni religiose, iniziative locali come le sagre e manifestazioni
varie, o con qualcosa di vago e generico.
Molte difficoltà dipendono evidentemente da noi preti anche se, occorre riconoscere, tolto qualche caso, non sono di per sé riconducibili
a un problema morale, di disponibilità o di obbedienza o meno alla
diocesi e al vescovo. I problemi, infatti, sono reali e comprensibili, e
richiedono un certo tempo per essere decantati, accolti e risolti. A
volte, per esempio, c’è una comprensibile difficoltà nel farsi carico di
un nuovo lavoro e nel collaborare tra preti, superando alcune incomprensioni e pregiudizi. Non si può negare che alcune resistenze sono
dovute al temperamento personale, a una certa pigrizia o difficoltà nel
mettersi in gioco, al desiderio di star tranquilli gli ultimi anni prima
della pensione e, soprattutto, di non crearsi problemi scontentando la
gente, negandole tutti quei servizi a cui fino a poco tempo prima era
abituata e affezionata e che essa identificava, essenziali o meno che
fossero, con i doveri di un parroco. È indubbio che altre volte pesano
comprensibili difficoltà fisiche e psicologiche, il rendersi conto che le
energie diminuiscono e, con il passare degli anni, la fatica aumenta.
Qualcuno perciò rimane tranquillo sperando che, vista l’età e le difficoltà, il problema della Unità pastorale lo affronti chi verrà dopo e che
il ‘Centro’ dimentichi di farsi vivo a sollecitare il nuovo impegno. Da
notare che tali problemi vengono rilevati non solo tra i preti più anziani che ormai hanno, per così dire, iniziato a fare il conto alla rovescia,
ma anche in quelli più giovani perché nel nuovo progetto si sentono
un po’ ingabbiati, non potendo più lavorare in autonomia, sganciati
da una pastorale d’insieme.
Non mancano nemmeno difficoltà che provengono da impostazioni pastorali troppo ‘originali’, legate alla persona di questo o quel
prete un po’ carismatico o effervescente, e che mal si adattano a una
pastorale d’insieme con scelte condivise. È vero che le parrocchie, e
tanto meno i preti, non possono pensarsi come fotocopie. Tuttavia,
una maggior accoglienza di proposte e itinerari offerti dagli Uffici
diocesani e la condivisione di un progetto comune portano di sicuro
beneficio a tutti e diventano garanzia di sostanziale continuità allorquando ci sarà il cambio del parroco o del suo vicario. Certe forme
‘pirotecniche’ di pastorale, con il cambio del parroco ‘creativo’ facilmente si spengono o si sgonfiano, lasciando a volte molti cocci per
terra.
460
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Difficoltà legate alla Unità/Collaborazione pastorale in sé
Ferruccio Lucio Bonomo
Difficoltà che dipendono dai presbiteri
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
re di approdare in tempi ragionevoli all’altra sponda. È evidente che
ogni passaggio comporta paure, insicurezze, investimento di nuove
energie, ma questa sembra essere l’unica strada che si può attualmente
percorrere per poter avviare un rinnovamento in senso missionario
delle parrocchie e della pastorale. Anche in questo caso le esperienze
in atto ci segnalano alcune difficoltà più ricorrenti.
Ciò che crea però maggiori disagi e insicurezza nei preti è la coscienza o la percezione che stia progressivamente mutando la figura e
l’esercizio del ministero, con la conseguente fatica per le chiese locali
di intravedere i contorni di una nuova identità e, come conseguenza, di dare orientamenti e fare scelte adeguate. Questo perché, come
preti, ancora ci pensiamo nel modo tradizionale, quello cioè di parroco-parrocchia e dentro una pastorale prevalentemente di tipo sacramentale. Questo modo, dobbiamo riconoscerlo e ringraziare Dio,
ha finora conferito una certa sicurezza e stabilità al ministero e alla
nostra identità. Così che, come pastori, pur rendendoci conto che è
necessario avviare qualcosa di nuovo e imboccare sentieri inesplorati,
facciamo tuttavia fatica a lasciare o a ridimensionare quanto fatto finora perché è quello che, nonostante la pesantezza, ci dà ancora una
certa sicurezza e un po’ di gratificazione da parte della gente.
I varchi di un possibile rinnovamento
Ferruccio Lucio Bonomo
Sappiamo bene quante siano le urgenze e i fronti aperti che la pastorale si trova a dover affrontare. L’esperienza ci sta insegnando che le
Collaborazioni/Unità, se vogliono avviare un profondo rinnovamento
e una vera conversione della pastorale, non possono evitare la fatica
di individuare e affrontare alcuni nodi nevralgici o di passare attraverso alcuni varchi. Diversamente si ridurranno a gestire in modo più
razionale e coordinato l’esistente, ma non promuoveranno un cambio
di mentalità e di indirizzo della pastorale. Di tali varchi mi limito a
segnalarne solo quattro.
Priorità all’evangelizzazione
stimolare la ricerca di nuove vie per annunciare il vangelo, dall’altro
potrebbe far ripiegare, soprattutto i preti, in una inconsolabile frustrazione pastorale.
Occorre con onestà riconoscere che nelle nostre parrocchie ci si
industria in ogni modo per incontrare il maggior numero di persone. Basti pensare alle iniziative, sempre più mirate, rivolte ai giovani
genitori che ancora chiedono i sacramenti per i loro figli e volentieri
li ‘portano’ a catechismo o in oratorio. Oppure ai nuovi tentativi per
avvicinare le coppie in difficoltà e alle energie profuse per incontrare
e annunciare il vangelo a tanti giovani che oggi sono sempre meno
attratti dalla fede. Bisogna convenire che nelle parrocchie ci sono diversi cantieri di annuncio aperti e che esse non sono affatto chiuse e
insensibili all’evangelizzazione. Credo che un pastore, di fronte alle
sacrosante sollecitazioni del magistero, più di qualche volta si sarà
chiesto che cosa avrebbe dovuto fare di più o di diverso rispetto a
tutto quello che finora ha già fatto o cerca di fare.
Conversione missionaria. Premesso ciò, non possiamo tuttavia rimanere indifferenti ai tanti appelli che ci vengono rivolti per una conversione missionaria della pastorale, adducendo il motivo che nulla
può cambiare e, dunque, è inutile ogni sforzo (EG 275).
Dal 1975, con l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii
Nuntiandi5, sino a quella di papa Francesco Evangelii Gaudium, la
coscienza della Chiesa sulla necessità di una nuova evangelizzazione
si è fatta sempre più chiara e i richiami alle comunità cristiane più
insistenti.
Anche i vescovi italiani nel decennio precedente hanno ripreso più
volte questo problema. Scrivono per esempio nella Nota pastorale del
2004 Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia6:
Non sempre è facile capire che cosa significhi concretamente nei nostri contesti dare priorità all’evangelizzazione. Non vorrei che sull’onda di una nuova e salutare spinta missionaria cadessimo negli slogan a
effetto, concludendo sbrigativamente che la nostra pastorale è tradizionale, di pura conservazione, per niente sensibile verso chi è lontano
dalla Chiesa o verso quei molti battezzati che per diversi motivi hanno
abbandonato la fede o sono entrati a far parte del vasto mondo dell’indifferenza religiosa. Una lettura così riduttiva, se da un lato potrebbe
Ci viene chiesto di disporci all’evangelizzazione, di non restare inerti nel
guscio di una comunità ripiegata su se stessa e di alzare lo sguardo verso il
largo, sul mare vasto del mondo, di gettare le reti affinché ogni uomo incontri
la persona di Gesù, che tutto rinnova […]. Una pastorale tesa unicamente
alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta
più. È necessaria una nuova pastorale missionaria, che annunci nuovamente
il vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada
incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che
anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza cristiana
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Varchi per un rinnovamento della parrocchia
6 Giugno 2014
La Rivista del Clero Italiano
conformemente al vangelo e, nel nome del vangelo, contribuire a rendere
nuova l’intera umanità (n. 1).
Di sicuro, un nuovo impegno della pastorale sul versante missionario e del primo annuncio determinerà con il tempo un nuovo volto
di Chiesa e inciderà inevitabilmente sulla sua attuale struttura e sullo
stesso esercizio dell’autorità.
Comprendiamo bene perciò come non sia irrilevante il tipo di progetto che sottostà alle Unità/Collaborazioni pastorali. Non è, infatti, indifferente se esse si fanno carico dei nuovi problemi posti alle
nostre comunità dall’evangelizzazione oppure che adoperino per la
pura conservazione e il coordinamento dell’esistente o di quanto si è
sempre fatto.
Purtroppo c’è sempre il rischio che, in questi tempi in cui è difficile
individuare e sperimentare percorsi di primo annuncio, tale pastorale
si appesantisca proponendo e riproponendo, magari con modalità e
rivestimenti nuovi e accattivanti e perdendo a volte il senso della misura, le cose, le tradizioni e le iniziative di sempre. In fondo la gente,
o una certa fascia di persone, risponde volentieri e poi, come si dice,
va ‘sul sicuro’.
Fatto sta che in un tempo in cui parliamo molto di evangelizzazio-
ne e di primo annuncio e in cui si sente la necessità di semplificare
la pastorale tradizionale anche con dei tagli ‘onerosi’ per far spazio
a qualcosa di ‘nuovo’, questa invece si carica sempre più di pratiche
devozionali, anniversari, giubilei, feste, convegni di ogni tipo e per
ogni occasione, pellegrinaggi e molto altro ancora, i quali, se portano
un certo beneficio spirituale e culturale a chi vi partecipa, non giovano
sempre e altrettanto ai pastori, che si trovano spesso con qualcosa di
tradizionalmente ‘rinnovato’ a cui far fronte, da promuovere e sostenere, pena il sentirsi in colpa o mal giudicati. La semplificazione della
pastorale tradizionale dovrebbe partire anzitutto dalla preoccupazione di trovare per ogni cosa la giusta misura, altrimenti non ci saranno
mai spazi ed energie per nuovi progetti. Purtroppo, anche qui entriamo nelle valutazioni soggettive, per cui il ‘troppo’ per uno può essere
ritenuto ancora ‘troppo poco’ per un altro.
Una riforma ‘dal basso’? Per questo, quando si vuole avviare il progetto delle Unità pastorali, occorre aver chiari all’orizzonte, anche se
non sono immediatamente realizzabili, alcuni obiettivi specificatamente ‘missionari’, in modo da trovare la giusta misura per tutte le
altre attività esistenti.
Con ogni probabilità, quello che si sta avviando in Italia con le
Unità/Collaborazioni pastorali porterà lentamente a una riforma della
Chiesa a partire ‘dal basso’, perché la prospettiva missionaria o della
evangelizzazione per potersi attuare ha bisogno, come scrive Severino
Dianich, di alcune scelte ineludibili che non possono non incidere nella vita ecclesiale. Per esempio, l’assunzione a ogni livello del metodo
della sinodalità; una presenza e responsabilità più stringente dei laici
in ordine alla missione e alla mediazione con il mondo; una semplificazione della pastorale che punti sulle cose essenziali per la fede; comunità cristiane più sobrie e povere di mezzi, perché l’evangelizzazione
mal si coniuga con la ricchezza dei mezzi e l’opulenza delle strutture;
l’accettazione di essere una Chiesa anche socialmente più debole, che
non si contrappone al mondo e che ha a cuore non tanto la rivendicazione di spazi e privilegi, ma il dialogo e il servizio7.
Il ‘secondo annuncio’. Il problema dell’evangelizzazione si pone,
dunque, anche per le nostre parrocchie. Tuttavia, come annota giustamente Enzo Biemmi, nelle nostre comunità non ci troviamo di fronte persone che sono tabula rasa nei confronti della fede. La maggior
parte di esse, infatti, manda i figli a catechismo, conosce qualcosa del
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Parole di grande attualità che papa Francesco, quasi dieci anni dopo,
ripropone in Evangelii Gaudium:
Ferruccio Lucio Bonomo
Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari
per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria,
che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una semplice
amministrazione (n. 25).
Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché
le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale
diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale,
più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la
conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo
che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte
le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in
costante atteggiamento di ‘uscita’ e favorisca così la risposta positiva di tutti
coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia (n. 27).
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
6 Giugno 2014
La Rivista del Clero Italiano
6 Giugno 2014
La Rivista del Clero Italiano
Ferruccio Lucio Bonomo
Una nuova identità della parrocchia
Da noi è ancora centrale la figura della parrocchia10, nonostante a volte la si ritenga superata di fronte all’intraprendenza e all’efficacia di
certi movimenti ecclesiali.
Scrive papa Francesco:
La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande
plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la
creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non
sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi
costantemente, continuerà a essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case
dei suoi figli e delle sue figlie» (Cfl 26). […] È comunità di comunità, santuario
466
dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante
invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e
al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché
siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di
partecipazione, e si orientino completamente verso la missione (EG 28).
Essendo la parrocchia legata alla territorialità, essa diventa il modo
concreto e più immediato con cui una Chiesa locale si prende carico
della cura animarum di un determinato gruppo di persone; con cui
Dio, mediante la mediazione della Chiesa, si fa vicino, ama tutti e vuole prendersi cura di tutti 11.
Nell’Instrumentum laboris del Sinodo sulla nuova evangelizzazione, si dice che le parrocchie sono
come la più capillare porta d’ingresso alla fede cristiana e all’esperienza
ecclesiale… luogo di pastorale ordinaria… hanno il compito di diventare
centri di irradiazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, sentinelle
capaci di ascoltare le persone e i loro bisogni12.
La parrocchia è lì per tutti, per tutti quelli che arrivano, per qualunque necessità, senza dover esibire tessere di appartenenza. È la ‘fontana del villaggio’ a cui ognuno, quando vuole, può andare ad attingere
acqua, anche per una sola volta; garantisce l’accesso a tutti senza porre
condizioni.
Se questa è una ricchezza e una benedizione di Dio che ci configura realmente come Chiesa di popolo, al tempo stesso comporta
anche delle pesantezze. Certamente la parrocchia non può pretendere
di soddisfare tutte le esigenze e rispondere ai diversi cammini di fede
che gruppi di persone hanno intrapreso. Essa offre piuttosto l’essenziale per diventare cristiani e per nutrire la fede; è la via ordinaria della
formazione cristiana.
Tuttavia, una parrocchia autoreferenziale che si accontenta dei soliti
fedeli e si rassegna ad assistere al progressivo declino della fede, non
potrà mai rinnovarsi e affrontare le sfide che il mondo pone alla Chiesa.
Ogni realtà autosufficiente e chiusa in se stessa prima o poi muore per
asfissia. Quando perciò di fronte alle Unità pastorali si invoca la salvaguardia della identità della parrocchia occorre aver chiaro che cosa si
intende. Significa forse mantenere tutte le tradizioni e le consuetudini
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Varchi per un rinnovamento della parrocchia
vangelo e della Chiesa e, a suo tempo, è stata iniziata e ha frequentato
ambienti e iniziative parrocchiali.
Con queste persone battezzate, che sono la maggioranza, non si
tratta a suo avviso di fare il primo annuncio, che riguarda in senso
stretto coloro che non credono, quanto piuttosto un ‘secondo annuncio’, caratterizzato da proposte e itinerari che dovrebbero mirare a
riavviare alla fede persone che sono cristiane per abitudine o che hanno perso i contatti con essa e con la Chiesa. Il problema è che spesso i
terreni sono ingombrati da pregiudizi, resistenze, esperienze negative,
timori e da rappresentanze religiose che hanno veicolato immagini di
Dio, della fede e della Chiesa distorte e dannose. Per Biemmi il secondo annuncio «è davvero il problema fondamentale delle nostre
parrocchie e la sfida più grande del contesto culturale italiano»8.
Questo richiede un profondo rinnovamento di metodi, contenuti
e prospettive; chiede di essere maggiormente attenti alla situazione di
partenza delle persone che si accostano per svariati motivi alle iniziative della parrocchia aiutandole, attraverso l’accoglienza e il dialogo, a
riscoprire o rimotivare una fede assopita9.
In tale prospettiva sarà forse necessario ripensare la pastorale e
l’annuncio cominciando ad avere maggior attenzione ai cinque ambiti o ‘luoghi antropologici’ di Verona: vita affettiva, lavoro e festa,
fragilità personale e sociale, trasmissione educativa e comunicativa,
cittadinanza.
Ferruccio Lucio Bonomo
a scapito dell’assunzione di una prospettiva missionaria e dell’essenziale? Chi fa l’identità di una parrocchia? Il prete e il suo essere presente
a tutte le cose che vengono fatte o promosse, oppure qualcos’altro? La
parrocchia si può rinnovare portandosi dietro tutto l’esistente?
È evidente che ormai non è più possibile pensare all’identità della parrocchia prescindendo dal progetto delle Unità/Collaborazioni.
La prassi porterà di sicuro a un suo ripensamento e anche ad alcuni
sconvolgimenti rispetto all’impostazione classica tridentina, seppur
aggiornata dopo il Vaticano II. Bisognerà quindi interrogarsi se la collaborazione e la sinergia tra parrocchie, con il potenziamento della
catechesi per gli adulti, un maggior coordinamento della pastorale
giovanile, della carità e della famiglia e la sperimentazione di alcuni
percorsi di nuova evangelizzazione, sia davvero preludio di un modello nuovo e più missionario di parrocchia e, quindi, di un nuovo volto
di Chiesa, e non invece la riproposizione e il rafforzamento della tradizionale parrocchia che ben conosciamo. Avviare le Unità pastorali
e riorganizzare la pastorale senza porsi tale domanda porterà presto a
più di qualche delusione perché non saremo mai in grado, con i mezzi
sempre più deboli che abbiamo, di far fronte alle richieste che ci vengono poste dalla prassi tradizionale.
Papa Francesco, dopo aver constatato che l’appello al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato frutti sufficienti (EG 28), sostiene che è necessario, per dar vita a una parrocchia «missionaria»,
essere più audaci e abbandonare il comodo criterio del «si è sempre
fatto così» (EG 33). Già, ma puntando su che cosa? Su quali scelte
innovative? Su che progetto di parrocchia? Per alcuni, per esempio,
l’avvio delle Unità pastorali potrebbe essere l’occasione provvidenziale per passare da ‘comunità di massa’ a ‘comunità a misura d’uomo’
più piccole, a ‘comunità di comunità’, capaci di integrarsi nella vita
della parrocchia e di essere aperte e missionarie. Questo porterebbe
davvero, anche se non senza rischi, a uno sconvolgimento dell’attuale
impostazione della parrocchia e dell’azione pastorale.
Un terzo aspetto, essenziale per il rinnovamento della parrocchia attraverso le Unità pastorali, riguarda i soggetti interessati alla nuova
evangelizzazione. Padre Raniero Cantalamessa, nel libretto Come la
scia di un vascello13, suddivide l’attività evangelizzatrice della Chiesa
in quattro fasi, in ognuna delle quali emergono altrettanti attori. Nei
primi tre secoli la propagazione della fede nel mondo greco-romano
dipendeva dall’intraprendenza di singole persone, come gli apostoli e
i profeti itineranti, finché la comunità locale assunse e coordinò ogni
iniziativa, diventando così il vero soggetto evangelizzatore14. A partire
dal quinto secolo l’evangelizzazione del mondo barbarico vide invece,
in ondate successive, come protagonisti i monaci, i quali testimoniano
quanto sia importante per l’evangelizzazione la vita contemplativa15
mentre, con la scoperta delle Americhe, i veri protagonisti dell’evangelizzazione sono diventati i frati e gli ordini mendicanti16. Ora ci troviamo di fronte a un altro destinatario della nuova evangelizzazione
che è il mondo occidentale secolarizzato e post-cristiano.
Ebbene, secondo Cantalamessa, dopo gli apostoli e i vescovi dei
primi secoli, dopo i monaci e i frati ora, nel nuovo contesto, i laici
sarebbero chiamati a essere i nuovi protagonisti dell’evangelizzazione,
testimoniando la fede e operando dentro e a partire dagli ambienti
di vita perché, come scritto in LG 17b, la seminagione del vangelo
nel mondo è un compito che incombe a ogni discepolo di Cristo17.
Sappiamo che quando Cantalamessa parla dell’apporto provvidenziale dei laici alla evangelizzazione pensa in particolare ai movimenti ecclesiali, come la «realizzazione più avanzata in questo senso»18. Il problema riguarda però tutti i battezzati delle nostre comunità, i quali devono sempre più sentirsi chiamati dal Signore e sollecitati dai pastori,
a essere annunciatori e testimoni del vangelo del regno a partire dagli
ambienti di vita. La nuova evangelizzazione, scrive papa Francesco,
«deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» e
che ognuno, incontratosi con l’amore di Dio in Gesù Cristo, si senta
sempre e solo un discepolo-missionario (EG 120).
Un cantiere aperto. Quello dei laici e della loro partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa è, dunque, uno dei nodi e dei
cantieri aperti per la nostra pastorale. Senza un loro pieno coinvolgimento non è possibile un rinnovato slancio missionario delle parrocchie, né alcuna fecondità per le Unità pastorali. Essi sono la principale mediazione con il mondo e sono nelle condizioni di rendere più
credibile e ‘prossimo’ il volto della Chiesa19. È sempre attuale quanto
Giovanni Paolo II scriveva in Christifideles laici:
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Responsabilità dei laici nella nuova evangelizzazione
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
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Ferruccio Lucio Bonomo
Come pure quanto scrivono i vescovi italiani negli Orientamenti pastorali Comunicare il vangelo in un mondo che cambia:
Chiesa di Dio, insieme a noi, ministri ordinati, sono i laici; di loro il Signore
si serve per la testimonianza e la comunicazione del Vangelo in mezzo agli
uomini. Oltre a essere esperti in un determinato settore pastorale (carità,
catechesi, cultura, lavoro, tempo libero…) devono crescere nella capacità di
leggere nella fede e sostenere con sapienza il cammino della comunità nel
suo insieme. C’è bisogno di laici che non solo attendano generosamente ai
ministeri tradizionali, ma che sappiano anche assumerne di nuovi, dando
vita a forme inedite di educazione alla fede e di pastorale, sempre nella
logica della comunione ecclesiale. Riconoscendo l’importanza e la preziosità
di questa presenza, si provvederà, da parte delle diocesi e delle parrocchie,
anche alla destinazione coraggiosa e illuminata di risorse per la formazione
dei laici (n. 54).
Nel rispetto della vocazione dei laici. Rimane però sempre aperto il
problema della specificità della vocazione dei laici. I vari documenti conciliari (Lumen Gentium, Sacrosanctum Concilium, Gaudium et
Spes) la pongono sotto la categoria di ‘apostolato’, aggiornato oggi
con quella di ‘nuova evangelizzazione20.
Paolo VI nella Evangelii nuntiandi è molto chiaro nell’evitare di
confinare la vocazione e missione dei laici nell’ambito strettamente pastorale e parrocchiale. I laici possono anche sentirsi, o essere, chiamati
a collaborare con i pastori per la crescita e la missione della comunità
ecclesiale, esercitando ministeri diversissimi (EN 73), non dimenti470
cando mai che «loro compito primario e immediato non è l’istituzione
e lo sviluppo della comunità ecclesiale» perché, scrive Paolo VI,
Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e
complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così pure della
cultura… e anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione,
quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il
lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici impregnati di spirito
evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in
esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la
loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste
realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma
manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno
al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù
Cristo (n. 70).
Dobbiamo convenire che la prassi ecclesiale post conciliare ha sempre
più letto lo specifico o la missione del laico non primariamente sul versante della secolarità («per loro vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»,
LG 31), ma su quello della pastorale, al punto che la pastorale si è
‘mangiata’ l’apostolato dei laici, nel senso che, scrive Luca Diotallevi,
si è imposta la tendenza ‘nefasta’ per la comprensione e la missione
del laico, di comprimere o ridurre l’apostolato dei laici alla pastorale21
o di ritenerli i quasi unici protagonisti della evangelizzazione nel mondo Occidentale post-cristiano e secolarizzato. Una presenza questa
che si colloca più sul versante operativo e che comunque, tolti alcuni
movimenti, è rimasta sostanzialmente esecutiva. Con la conseguenza
che i laici non direttamente impegnati nella pastorale rischiano anche
oggi di rimanere ‘invisibili’.
Finché pensiamo la parrocchia nel modo tradizionale e non ‘in
uscita’ sarà difficile coniugare esigenze e peculiarità della pastorale
con le esigenze della particolare vocazione del laico cristiano: a esso
sarà chiesto prevalentemente un servizio ‘nella’ comunità e per una
pastorale che, pur cercando di farsi carico anche dell’evangelizzazione, deve tuttavia continuare a garantire una miriade di attività, servizi
e presenze per le quali è necessario un numero rilevante di personale
o di volontariato ‘responsabile e corresponsabile’. Oltretutto, sia per i
471
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana.
Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità
ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni. Ora i fedeli laici,
in forza della loro partecipazione all’ufficio profetico di Cristo, sono
pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa. A essi tocca, in
particolare, testimoniare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta
pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata,
dei problemi e delle speranze che la vita pone a ogni uomo e a ogni società.
Ciò sarà possibile se i fedeli laici sapranno superare in se stessi la frattura tra
il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia,
sul lavoro e nella società, l’unità d’una vita che nel Vangelo trova ispirazione
e forza per realizzarsi in pienezza (n. 34)
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laici radicati nelle parrocchie sia per i movimenti legati a un carisma,
rimane sempre il rischio di cadere nella vecchia tentazione di riconquista cristiana di una società che si è allontanata dalla fede e dalla
Chiesa22.
Vita e ministero del prete. Le Unità/Collaborazioni pastorali per
avviarsi e progredire hanno bisogno anche di una certa comunione e
condivisione di vita tra i preti. Quando questo avviene la gente non
manca di segnalare quanto sia efficace ed edificante e come davvero
incida sul buon andamento della collaborazione tra parrocchie.
Indubbiamente, la situazione che si è creata a motivo della contrazione numerica del clero e dei conseguenti tentativi di riorganizzare le
parrocchie sta incidendo molto sulla figura e sul modo di vivere e intendere il ministero del prete23. La gente inizialmente fatica a capire e
ad accettare un cambio così profondo e a volte radicale dell’immagine
che aveva della parrocchia e del parroco. Poi un po’ alla volta si adatta
perché capisce che non si tratta di buona o cattiva volontà del prete,
ma di uno stato di crisi irreversibile, a causa del quale è necessario
ridimensionare certe cose e pretese e, se possibile, rimboccarsi tutti le
maniche. Chi si adatta un po’ meno sembra sia proprio il prete perché
vede che sta cambiando il modo di esercitare il ministero e, quindi,
entra in gioco anche la comprensione della propria identità.
Tuttavia, pur tra qualche dubbio e resistenza, il progetto delle
Unità/Collaborazioni sembra trovi una sostanziale accoglienza e si
intravedono nei preti segni indicatori di una sincera ricerca in tale
direzione: maggior coscienza che è necessario passare dall’autonomia
pastorale alla comunione e da un ministero di conservazione a uno
di evangelizzazione; percezione del presbiterio diocesano come realtà effettiva e non astratta con l’esigenza di formare il presbitero al
presbiterio; accresciuta convinzione che sia necessaria una maggiore
comunione di vita, pur nella diversità delle forme e che sia necessaria
una distinzione e al tempo stesso una circolarità tra comunità di vita e
comunità di lavoro o di ministero; esigenza che di fronte al crescente
carico di lavoro, la misura di ogni nuovo impegno pastorale debba
sempre essere la serenità e la vivibilità della vita del prete, ecc.
Sullo sfondo però rimane l’interrogativo «quale prete per quale
Chiesa?», perché tutto non può ridursi solamente a razionalizzare la
pastorale o a inglobare parrocchie per far fronte all’emergenza. Tale
problema non riguarda solo noi europei. Un confratello fidei donum in
Africa poneva ad alcuni di noi amici gli stessi interrogativi: «Che tipo
di Chiesa stiamo costruendo?». Forse una Chiesa «semplicemente eucaristica-missionaria» sul modello delle prime comunità cristiane nate
dall’evento pasquale; «in questa Chiesa che stiamo costruendo qual è il
posto e l’identità del prete?». E concludeva sostenendo che «la figura
del prete oggi non è chiara qui in missione e forse neanche a Treviso»,
chiedendosi alla fine come fare per «rivedere la figura del prete affinché ogni comunità possa vivere la propria identità eucaristica, in Africa
come in Europa», salvaguardando l’essenziale del ministero: annuncio
del Regno, fare memoria della Pasqua di Gesù, servire l’unità.
472
473
Conclusione
Ci sarà un futuro per le Unità/Collaborazioni pastorali? Una domanda del genere non è affatto peregrina e a volte viene posta a quanti di
noi sono impegnati nel promuovere questi ambiziosi progetti. Per la
verità siamo i primi a porcela perché, al di là di ogni motivazione ecclesiologica e spirituale, siamo coscienti che ciò che maggiormente ha
stimolato l’avvio delle Unità pastorali è stato il calo continuo dei preti,
con la conseguente necessità di garantire a ogni parrocchia un dignitoso servizio pastorale aperto all’evangelizzazione. Il problema però
rimane e, forse, è solo rinviato il ‘punto di rottura’, oltre il quale non
è più possibile garantire questo tipo di pastorale e questa presenza
ancora abbastanza ‘diffusa’ del prete. Nemmeno con l’aiuto, sempre
crescente in Italia, di preti provenienti da altri Paesi, perché, in ogni
caso, ci sarebbe prima o poi una collisione tra mentalità e paradigmi
pastorali a volte estremamente diversi.
Per come sono nate e si sono nel tempo strutturate le parrocchie
ed è andata evolvendo la pastorale, quanto mai dipendente dall’infaticabile attività del prete e dalla sua capillare presenza nel territorio,
sarà difficile immaginare e attuare un modello pastorale diverso che
poggi, più di quanto già non avvenga oggi, sulla responsabilità dei
laici, perché questo richiede il coraggio di scardinare in qualche modo
l’impianto della stessa pastorale, la tradizionale fisionomia della parrocchia e il ruolo giuridico-canonico del parroco. Con in più, visto che
parliamo di laici, l’attenzione a non ‘pastoralizzare’ ulteriormente la
loro identità e missione.
Gli interrogativi, dunque, non mancano. Non mancano però nem-
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
Ferruccio Lucio Bonomo
La Rivista del Clero Italiano
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La Rivista del Clero Italiano
1
Nella diocesi di Treviso si è preferito chiamare queste nuove realtà ‘Collaborazioni
pastorali’ piuttosto che ‘Unità pastorali’ o altro perché si è voluto evidenziare che non
si intende unificare tutto, né sopprimere alcuna parrocchia, ma solamente avviare un
percorso strutturato di collaborazione tra parrocchie e tra preti. Attualmente il vescovo
G.A. Gardin ha istituito 24 Collaborazioni sulla cinquantina previste.
2
Francesco, Evangelii Gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del vangelo nel
mondo attuale (=EG), LEV, Città del Vaticano 2013, nn. 25-30.
3
CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 11 (Enchiridion
CEI 7/1464).
4
Nella mia diocesi con l’istituzione della Collaborazione pastorale il vescovo nomina
anche il Consiglio della Collaborazione, formato dai presbiteri, i diaconi, i rappresentanti
di consacrati/e, uno o due laici per parrocchia, e in esso il presbitero che avrà la funzione
di Coordinatore.
5
Paolo VI, L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Esortazione apostolica
(08.12.1975), in Enchiridion Vaticanum (1974-1976) 5, EDB, Bologna 1979, n. 15881716.
6
Conferenza episcopale italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che
cambia. Nota pastorale (30.05.2004), in Enchiridion Cei (2001-2005) 7, EDB, Bologna
2006, n. 1404-1505
7
Cfr. S. Dianich, La Chiesa dopo la Chiesa, «Regno Attualità», 2013, 14, pp. 463-475.
8
Cfr. E. Biemmi, Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011,
pp. 36-37.
9
In questa prospettiva, il ‘secondo annuncio’ dovrebbe percorrere la via inversa rispetto
alla catechesi, ossia quella attestativa/testimoniale (ibi, p. 39-41). Biemmi, prendendo
come paradigma le parabole del tesoro e della perla, indica per i percorsi di ‘secondo
annuncio’ tre regole d’oro: far leva sul fatto che il vangelo ha la capacità di mostrare da
sé il suo valore; mirare non tanto a richiamare le esigenze morali della fede o entrare
nei comportamenti spesso problematici, ma suscitare prima di tutto stupore, sorpresa
e gratitudine per l’amore di Dio che si manifesta anche ‘in questa mia situazione’
esistenziale; saper mostrare che il dono di Dio raggiunge le persone dentro la loro vita
e che il vangelo è per una ‘vita buona’ (ibi, p. 90).
10
Cfr. A. Borras, La parrocchia, casa di tutti, «La rivista del clero italiano», 94 (2013) ,
pp. 176-194.
11
Ibi, pp. 184-185.
474
12
Sinodo dei vescovi, La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana.
Instrumentum laboris, Lev, Città del Vaticano 2012, n. 81.
13
R. Cantalamessa, Come la scia di un vascello, Ed. san Paolo, Cinisello B. (Mi) 2012.
14
Sono secoli, scrive Cantalamessa, nei quali si semina a larghe mani senza preoccuparsi
dei risultati, anzi, l’insuccesso dell’annuncio non ha mai scalfito negli apostoli la fiducia
nel messaggio e questo perché hanno chiaro che prioritario è l’oggetto dell’annuncio (la
parola di Dio) e non il soggetto agente: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio
che ha fatto crescere… Ora né chi pianta né chi irriga è qualche cosa, ma chi fa crescere:
Dio» (1Cor 3,6-7). Dunque, conclude Cantalamessa, «se c’è qualcosa che possiamo
fare, dopo aver seminato, è quella di irrigare, con la preghiera, il seme gettato» (ibi, pp.
7-20).
15
Ibi, pp. 21-36. Con la fine nel 476 dell’impero romano d’Occidente e con l’emergere in
Europa dei nuovi popoli, l’evangelizzazione assume un nuovo volto. Le molte iniziative
per evangelizzare i popoli pagani furono coordinate anzitutto da san Leone Magno e
videro come protagonisti, in ondate successive, i monaci, i quali attuarono anche una
vera opera di civilizzazione e di inculturazione del messaggio evangelico, con non pochi
problemi di fronte al vasto raggio di azione e alla varietà dei popoli interessati, primo fra
tutti il fatto che in essi, seppur convertiti, riaffiorava a ogni occasione o conviveva con
la fede anche il loro bagaglio idolatra e pagano perché non avevano mai bruciato del
tutto quello che avevano fino ad allora adorato. Anche oggi, secondo Cantalamessa, di
fronte a nuove ‘invasioni’ di altre religioni, è necessario il dialogo, il quale non si oppone
all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile (RM 55).
16
Ibi, pp. 37-52. Per Cantalamessa, dall’America Latina vengono segnalate alla Chiesa
due cose, sulle quali la pastorale dovrebbe interrogarsi: la necessità di trovare una nuova
sintesi tra l’anima attiva e l’anima contemplativa, tra la Chiesa dell’impegno sociale per
i poveri e la Chiesa dell’annuncio della fede; il problema dell’esodo dei cattolici verso
altre denominazioni cristiane o religiose.
17
Ibi, pp. 53-65.
18
Ibi, p. 63.
19
Cfr. S. Dianich, La Chiesa dopo la Chiesa, cit., p. 473.
20
G. Zanchi, I laici nella Chiesa. Fede evangelica e realtà secolare, «La rivista del clero
italiano», 94 (2013), pp. 509-530.
21
Cfr. L. Diotallevi, La parabola del laicato cattolico italiano, «La rivista del clero
italiano», 93 (2012), p. 372.
22
Cfr. Zanchi, I laici nella Chiesa, pp. 514-518.
23
Cfr. F.L. Bonomo, Verso dove andiamo? Risorse, nodi problematici e cantieri aperti per
le nostre comunità, «La rivista del clero italiano», 93 (2012), pp. 847-852.
475
Varchi per un rinnovamento della parrocchia
Ferruccio Lucio Bonomo
meno la speranza e la fiducia nel Signore, il quale ci chiede di cogliere
sempre le sfide che il tempo ci pone, affrontandole con responsabilità,
ma anche con grande libertà interiore, perché di assoluto e definitivo
c’è solo il regno di Dio, mentre per tutto il resto «passa la figura di
questo mondo» (1Cor 7,29-32).
Alla fine, quello che tutti auspichiamo è che, grazie anche al progetto delle Unità/Collaborazioni, possa avvenire progressivamente quel
cambio di mentalità necessario per una vera conversione pastorale e
missionaria delle nostre comunità ecclesiali e delle strutture (EG 27).
Presbyteri, n. 8, 2011
3D
Tredimensioni
9 (2012), pp. 270·279
Sulla formazione degli adulti
Donato Pavone *
Il binomio
«adulto-formazione»
L'adultità come questione
Parlando di adultità i più sono soliti utilizzare il termine «formazione», mossi dalla convinzione che quando si ha a che fare con
l'adulto l'uso del verbo «educare» è di per sé contraddittorio.
Infatti,
da educare è propriamente
il soggetto in crescita e l'età adulta è la
stagione della vita che chiude strutturalmente
il processo evolutivo
della persona umana. In effetti, «adultus», participio passato del verbo «adolescere» (crescere), in dialettica con «adolescente», che di quel
verbo è il participio presente, è il vocabolo che, almeno dal punto di
vista etimologico, segna una transizione da considerarsi irreversibile.
Di questi tempi, però, non sono pochi quelli che elaborano riflessioni sull'«educazione» degli adulti. L'operazione sembra avere una
sua ragion d'essere, se si pensa che sono oggi molto più indefiniti gli
stessi tradizionali paradigmi di transizione dall'essere giovani al divenire adulti, ma anche che l'adultità si manifesta spesse volte incompiuta, se non addirittura reversibile. L'idea dell'adulto come di uno
che vive la stabilità non regge più'. Se è vero che non è facile per gli
adolescenti sdoganare verso l'adultità, è altrettanto vero che gli adulti
appaiono fragili, da tanti punti di vista, in modo del tutto particolare
quanto a capacità di trasmettere contenuti e modelli di valore, i quali,
peraltro, sono comunicabili solo attraverso narrazione e testimonian• Psicologo, docente
Vittorio Veneto.
di Psicologia
e Antropologia
filosofica
presso
l'Istituto
Teologico
di Treviso-
Sulla formazione degli adulti
271
za. Sono i dati di fatto a indicare la questione dell'identità dell'adulto
come una tra le più rilevanti dell'odierno panorama culturale, sociale
e religioso. Interrogare l'adultità, sotto il profilo teorico. e pratico insieme, è per tutti compito urgente e indifferibile. È così che la condizione dell'adulto, il suo profilo ideale e la sua capacità di propiziare il
percorso di crescita delle giovani generazioni sono diventati temi di
estrema attualità 2•
L'agireformativo, tra continuità e discontinuità
Forse è per tutti questi motivi che il termine «educazione», nel suo
significato originario e pregnante, tende ad allargarsi e a stemperarsi
fino ad estendersi a tutto l'arco dell'esistenza umana. Del resto, se
approcciato da un punto di vista fenomenologico,
il binomio «adultità-educazione»
non è del tutto fuori luogo. Il fatto è che parlando
di educazione degli adulti si potrebbe correre il rischio di alimentare
precisamente l'idea che si vuole contrastare, vale a dire che l'adultità
come stagione della vita non esiste o che non vi si possa mai del tutto
approdare.
Non va dimenticato, poi, che le questioni di carattere etimologico,
qui appena enunciate, ne vanno ad incrociare altre di più rilevanti e
fondamentali riguardanti i contenuti e le modalità dell'agire pedagogico. A tal proposito, notiamo come nei nostri ambienti ecclesiali l'approccio al mondo degli adulti tenda a scimmiottare quello riservato
ai ragazzi o agli adolescenti. Proprio per questo, oltre le rette intenzioni, il modo stesso di pensare la formazione degli adulti, il tentativo di
organizzare e realizzare eventi o itinerari a loro misura e lo sforzo di
gestire le dinamiche di una realtà gruppale che li vede protagonisti,
non di rado risultano, a conti fatti, inadeguati e inefficaci. È ormai
urgente trovare le strategie più opportune per evidenziare con chiarezza e forza, agli occhi di chi opera nel settore, la necessità che sul
piano della prassi, con il passaggio dall'età.giovanile
a quella adulta,
avvenga un reale scarto di qualità e una certa qual discontinuità. Una
di queste è senza dubbio la scelta di un linguaggio capace di veicolare, almeno sul piano simbolico, un particolare tipo di approccio agli
interlocutori in questione e alla loro condizione di vita. È soprattutto
per questi motivi che ci sembra preferibile usare il binomio «adultitàformazione», seppur con alcune particolari attenzioni.
272
Una singolare
Donato Pavone
idea di formazione
Un'azione che dà forma
La parola «formazione» è ormai usata in diversi ambiti e settori
della vita sociale, dalla scuola al mondo del lavoro, comunemente, però, con riferimento agli aspetti concreti e tecnici dell'apprendimento di quelle conoscenze e competenze
che sono necessarie
all'esercizio di una certa responsabilità.
In realtà, nel suo senso più
tradizionale e pregnante, il termine «formare» significa aiutare un
essere umano a «prendere forma», quella in cui l'identità personale,
culturale e sociale si fondono insieme e delineano il profilo unico e
originale in cui, in maniera singolare, ciascuno si realizza ed esprime. In questa prospettiva, la formazione è di per sé un'azione che
dà forma e, in termini cristiani, un processo di conformazione
a
Cristo". La forma compiuta della fede non è uno dei molteplici aspetti dell'identità personale, ma quel filo rosso che ne attraversa ogni
dimensione e ambito. Si tratta di un modo di essere e stare a questo
mondo, quindi di ragionare, sentire e comportarsi. L'adulto nella fede pensa, ama e vive come Gesù. Se questo è vero, allora si dà come
necessario un ripensamento
radicale del nostro modo di fare formazione, da farsi alla luce del cristocentrismo veritativo, relazionale ed
esistenziale. Tale operazione è ancor più urgente quando ad esserne
direttamente interessato è l'adulto.
Una formazione integrale e integrata
L'agire formativo ha come obiettivo la crescita globale della persona. Questo è vero in ogni caso; lo si applica, però, in modo particolare
nell'ambito della formazione degli adulti, che deve saper interessare e
coinvolgere il soggetto nella sua interezza. L'integrazione auspicata si
persegue, prima di tutto, preoccupandosi che le diverse iniziative siano in grado di toccare la cognizione, gli affetti e la conazione di chi vi
partecipa, giacché la persona è una, sempre e comunque. È necessario
considerare come ogni ambito della vita fisica, psichica e spirituale
del soggetto sia importante ai fini della strutturazione
della sua fede
matura". La formazione «umana» e quella «spirituale» sono, dunque,
da saldarsi e intrecciarsi tra di loro in maniera inscindibile, tanto da
costituire un unico grande processo.
Sulla formazione degli adulti
273
Questo significa sostanzialmente due cose. La prima è che non è
possibile formare all'autentica vita di fede senza avere a cuore l'uomo,
considerato in tutte le sue dimensioni costitutive, secondo una visione antropologica «olistica».La seconda è che l'incontro con Gesù non
può essere considerato come un fatto aggiuntivo all'«umano», ad esso
estrinseco o cronologicamente successivo, dal momento che è precisamente ciò che permette a ciascuno di conoscersi e riconoscersi nella
propria autentica identità, perciò di sperimentare e comprendere la
grandezza, la profondità e la dignità della propria natura.
Dai valori alla persona di Gesù
L'integrazione rimane l'orizzonte ultimo del nostro impegno e
la qualità della formazione che proponiamo, ma va perseguita qui e
ora, tenendo conto che la persona adulta ha un modo di approcciare
la realtà del tutto singolare. Di norma, infatti, gli schemi cognitivi,
affettivi e conativi tipici dell'adultità si differenziano da quelli delle
fasi precedenti per il loro grado d'integrazione, quindi non solo sul
piano della quantità, ma anche e soprattutto su quello della qualità. Ciò significa che l'adulto non è un bambino che, cresciuto, sa o
sente di più. Egli conosce in maniera differente, perchè è capace di
quell'oggettività mediata dai significati che le strutture mentali di cui
è dotato gli rendono possibile. Non soltanto ora possiede uno spettro
più ampio di emozioni, ma è nelle condizioni di vivere i medesimi
sentimenti in modo intenso o pacato, vale a dire secondo sfumature
differenti. Qualitativamente diversa, rispetto a prima, è pure l'immagine sentita di Dio di cui l'adulto è capace. Si tratta di quella rappresentazione mentale dalla quale dipende, in qualche modo, la relazione che egli è in grado di stabilire con lui. È evidente, allora, come lo
sviluppo religioso non si risolva nell'allargamento dello spettro del
sapere o del sentire su Dio, ma si compia nell'acquisizione strutturale
di una modalità più matura e integrata di vederlo, sentirlo e «viverlo».
Da tali considerazioni, il formatore guadagna la consapevolezza che
l'adultità è la stagione non della differenziazione, dell'identificazione
e della sperimentazione, alla stregua di quelle precedenti, ma dell'integrazione e dell'internalizzazione, quindi dell'adesione libera e consistente al bene in sé.
274
Donato Pavone
Anche all'adulto vanno comunicati i valori nella loro oggettività,
ci mancherebbe, ma secondo la logica dell'essenzialità e della gerarchizzazione. Dal punto di vista cognitivo, infatti, il soggetto ha
bisogno di risalire a quel principio primo che, nella sua semplicità,
è capace di unificarne ogni livello personale e ambito esistenziale.
In altre parole, le verità di fede devono essere, ancor più di prima, ricondotte, orientate e ordinate a Gesù: è lui la Verità, cioè l'origine e il
compimento di ogni altra verità. In secondo luogo, chi lavora con gli
adulti deve sapere che se è vero che, a certe condizioni, i contenuti di
pensiero sanno convincere, è altrettanto vero che, da soli, non muovono all'azione. Troppe volte, purtroppo, i valori sono proposti come
se fossero essenze di ordine logico, entità materiali o puramente formali, astoriche e asettiche. Quando dovesse accadere, giacché privi
della forza di attrarre e appassionare, essi non avrebbero la dinamicità sufficiente per motivare l'adulto, né per suscitare in lui l'effettiva
libertà di cambiare gli atteggiamenti profondi. Del resto, la realtà
oggettiva del valore non è assimilabile a quella di una «cosa», ma va
pensata nella «forma della relazionex'. Questo non vuol dire semplicemente che per essere efficace, la comunicazione dei valori deve
passare per la testimonianza di chi li annuncia. C'è qualcosa di molto
più importante, infatti, da rilevare: è «legando si» affettivamente ed effettivamente alla persona di Gesù, che l'adulto può scoprire che nella
ricerca del bene in sé sta la promessa di compimento del bene per lui
e che l'autotrascendenza ha come suo effetto l'autorealizzazione.
Un sano protagonismo
I soggetti della formazione
Dell'intero percorso formativo lo Spirito Santo è il principale protagonista": la soggettività ecclesiale, nelle sue molteplici e variegate
presenze, il contesto essenziale è la mediazione indispensabile': la
libertà del soggetto la condizione imprescindibile. L'efficacia del processo formativo, dunque, oltre che l'intervento potente della Grazia,
ha come prerogativa fondamentale la consapevole e libera decisione
del singolo, cioè la sua deliberata scelta di prendersi cura di sé e del
suo rapporto con il Signore. Questo vale specialmente per l'adulto,
che è il primo responsabile della propria formazione". È lui che media
Sulla formazione degli adulti
275
attivamente tra gli stimoli formativi che riceve e la sua vita. La sintesi personale e l'unità esistenziale avvengono principalmente
nella
coscienza, spazio del dialogo profondo dell'uomo con se stesso e lo
Spirito Santo. Del resto, lungi dall'essere una realtà chiusa o autoreferenziale, la coscienza è per sua natura aperta, dinamica e relazionale.
Accompagnare e «[aciluare»
Da qui derivano, a nostro parere, alcune osservazioni riguardanti
la prassi.
L'esperienza di chi lavora con l'adulto insegna che, quanto ad efficacia formativa, discriminante non è primariamente
la competenza
di chi opera a suo favore, i sussidi o gli strumenti che il gruppo o la
comunità di riferimento è in grado di mettergli a disposizione (mediazioni utili), lo è piuttosto la sua adesione personale, sincera, libera, consapevole e attiva. La verità è che ai nostri giorni, alcuni adulti
sono seduti e apatici, altri, invece, graniticamente arroccati sulle loro
posizioni e poco disponibili a rimettersi in gioco spingendosi oltre il
già capito, sentito e sperimentato. Per questo motivo sta diventando
sempre più decisiva la capacità del formatore di propiziare la decisione del soggetto di assumersi la responsabilità della propria formazione (auto -formazione) .'
Più che di fornire risposte immediate, spetta al responsabile l'impegno di accendere il desiderio di riavviare la ricerca, alimentare la
convinzione dell'urgente necessità di formarsi, risvegliare domande
sopite, suscitare nuovi interessi, talora incoraggiare a rialzarsi e a rimettersi in cammino. Se non in alcuni casi particolari, nella relazione
diadica il formatore è chiamato più ad accompagnare che a guidare.
All'interno di un gruppo di adulti il suo ruolo è prevalentemente
quello del facilitatore. Questo esige non solo saggezza e perseveranza
nel pensare la formazione, ma anche pazienza e creatività nel realizzarla. Chi considera l'adulto come soggetto, poi, gli dà voce in fase di
programmazione
e di verifica: in luoghi opportuni e per vie praticabili, lo coinvolge e lo ascolta. Mosso dalla convinzione che le esperienze
da lui proposte devono semplicemente «far accadere qualcosa» negli
adulti che vi partecipano, il formatore pensa agli eventi e agli itinerari
formativi come a preziose opportunità atte a propiziare e sostenere il
cammino personale. La realizzazione concreta di tutto questo passa
276
Donato Pavone
per la scelta di modalità pedagogiche adeguate non solo alla consegna di criteri di riferimento per l'interpretazione
e la valutazione
della realtà, ma anche al suggerimento di tempi, luoghi e strumenti
di approfondimento
tematico.
Proprio perché l'adulto non è il semplice utente di percorsi del
tutto pensati, definiti e condotti da altri, va opportunamente
stimolato a partecipare consapevolmente,
attivamente e responsabilmente
all'andamento complessivo delle esperienze, nel rispetto e nella valorizzazione delle sue personali capacità e competenze. Il formatore ha
il compito non solo di avviare la ricerca, di cui non necessariamente
ha già previsto il punto d'approdo, ma anche di offrire ai soggetti in
questione la possibilità di potervisi esercitare insieme. Pur essendo
per certi versi rischioso, perché pilotabile fino ad un certo punto dal
facilitatore, con gli adulti questo metodo formativo (costruttivista)
alla fine si dimostra molto fruttuoso. Ecco allora che il dibattito in
assemblea, il confronto nei piccoli gruppi, la narrazione del vissuto
e la reciproca testimonianza
della fede sono alcune tra le molteplici
possibilità di realizzazione di quel sano protagonismo che favorisce il
coinvolgimento delle persone e le pone nelle condizioni di esercitarsi
nella mutua-formazione.
A fondamento di una tale metodica, vi è
prima di tutto la coscienza della natura della comunione ecclesiale: è
anche così che si maturano sèntimenti, atteggiamenti e scelte di vera
condivisione, corresponsabilità
e collaborazione, che sono al tempo
stesso condizioni e segnali indicatori di una maturazione cristiana in
continuo divenire.
Una dinamica
esperienziale
In prospettiva diacronica e sincronica
L'aderenza alla vita è un tratto fondamentale
della formazione
degli adulti. In prospettiva diacronica, questo significa che, essendo
un evento, non un fatto, il processo formativo è di sua natura «permanente»: non si dà una volta per sempre, ma avviene lungo tutto il
corso della vita (life-long). La responsabilità di ogni adulto è di mantenersi costantemente
in cammino. Anche per questo, l'attenzione
nei suoi riguardi non può ridursi, come già dicevamo, ai contenuti
dell'apprendimento,
operazione peraltro indispensabile, ma deve al-
Sulla formazione
degli adulti
277
largarsi al processo che lo rende possibile. In fondo, la scommessa dei
formatori si traduce molto concretamente nello sforzo di attrezzare la
persona a imparare ad apprendere, cioè a stare in piedi nella complessità, con un' identità chiara e solida, ma al tempo stesso con quella
flessibilità che gli permetta di rispondere qui e adesso, in fedeltà al
Vangelo, alle richieste della storia. Dal punto di vista sincronico, poi,
affermare che l'aderenza alla vita è uno dei tratti più rilevanti della
formazione degli adulti vuol dire riconoscere all'esperienza quotidiana, con le sue gioie e prove, una valenza straordinaria: è la strada
maestra che il soggetto ha a disposizione per continuare a maturare.
Del resto, è soprattutto in riferimento agli adulti che l'azione formativa risulta efficace se si traduce nella capacità di «dare significato alle
esperienze quotidiane, interpretando la domanda di senso che alberga nella coscienza di molti». Oggi più che mai, «le persone devono
essere aiutate a leggere la loro esistenza alla luce del Vangelo, così che
trovi risposta il desiderio di quanti chiedono di essere accompagnati
a vivere la fede come cammino di sequela del Signore, segnato da
una relazione creativa tra la parola di Dio e la vita di ogni giorno »9. È
a questa condizione che l'adulto può approdare alla tanto agognata
unità interiore, all'armonizzazione tra essere e agire, all'integrazione
tra la relazione con il Signore e l'impegno nel mondo".
Una circolarità virtuosa
Stando ai dati della ricerca, tra la significanza esistenziale della
formazione e la motivazione a formarsi vi è un rapporto di circolarità. È per questo motivo che quando gli eventi formativi proposti
sono generici, astratti e disincarnati, cioè incapaci di incrociare le
domande esistenziali e profonde delle persone che vi partecipano,
producono in loro disinteresse e disaffezione. Con questo non si vuol
dire che dovrà essere la soddisfazione di chi vi aderisce a decidere
della qualità dell'esperienza formativa. Paradossalmente, infatti, è
proprio una proposta non rispondente alle attese immediate dei suoi
utenti ad essere spesso efficace sul piano della loro maturazione complessiva, perché stimolante un'autentica purificazione d'intenzioni e
una maggiore radicalità di vita. È pur vero, tuttavia, che certi nostri
incontri di formazione non sanno interessare gli adulti veri, quelli
che vivono nel mondo. La formazione dovrà al contrario prendere in
278
Donato Pavone
considerazione i problemi reali delle persone ed essere davvero «utile
alla vita»". Vista la complessità del presente e la delicata condizione dell'adulto, i formatori saggi sanno tener conto delle diverse fasi
dell'adultità, dei molteplici stati di vita degli interessati, dei loro differenti livelli di fede e della pluralità d'interrogativi con i quali ai nostri
giorni sono costretti a misurarsi. La formazione degli adulti, dunque,
non può non tradursi nell'offerta qualificata di percorsi differenziati,
contrassegnati da flessibilità e modularità.
Tra il desiderio e il limite
L'integrazione non è poi così semplice da raggiungere. Ladultità
è la stagione della vita in cui il futuro del passato diventa presente.
Per questo è spesso anche l'età delle disillusioni, della rassegnazione,
del calo della tensione ideale o, per contro, di quel radicalismo disincarnato, privo di reality testing, che è il residuo, talora arrabbiato, di
un'adolescenza non del tutto risolta. Infatti, ci sono degli adulti che
tendono ad appiattire l'idealità accontentandosi
di poco. Tale loro
dinamica intrapsichica porta con sé la perdita di significato del quotidiano, la banalizzazione
della propria scelta vocazionale, un diffuso
senso di monotonia e diverse forme di compromesso. Per contro, vi è
l'adulto che vive l'ordinario come impedimento e minaccia al proprio
desiderio di sognare in grande. All'origine di questo atteggiamento
nei confronti del mondo in genere, vi è la frustrazione per la scoperta
di una vita percepita come poca cosa rispetto a quella progettata in
precedenza. In questo caso, tanta è la nostalgia del passato e la voglia
di rivivere quel tempo mitico in cui ogni cosa si colorava di promessa
di compimento.
Il formatore deve sapere che uno degli indicatori dell'avvenuto
passaggio dalla giovinezza all'età adulta è proprio la capacità del soggetto di tenere insieme, in maniera armonica e matura, l'ideale e il
reale, il desiderio e il limite. La persona matura, infatti, è quella che sa
integrare nel presente, il passato e il futuro, tra accettazione e trasformazione. La domanda che l'adulto maturo si pone è la seguente: che
cosa mi è realisticamente possibile fare qui e adesso, dentro a questa
mia concreta situazione di vita e nella prospettiva della realizzazione
dell'ideale? Ladultità, del resto, dovrebbe essere la stagione della vita
in cui l'individuo, capace ormai di quell'equilibrio
dinamico che lo
Sulla formazione
279
degli adulti
abilita a mettere ordine nella propria vita, sa porre in relazione i beni
al Bene, sa cioè attribuire a ogni cosa (persone, relazioni, beni materiali ... ) l'importanza, l'attenzione e l'investimento affettivo che merita nell'economia del progetto salvifico di Dio. Si tratta di un ordine
(orda amoris) che interessa affetti e pensieri, atteggiamenti profondi e
comportamenti.
La formazione degli adulti deve darsi questa priorità, seppur nella
consapevolezza che l'operazione di fare ordine nella propria vita non
è facile per nessuno e non si fa una volta per sempre. Il formatore
ricordi che l'adulto ha bisogno di tempi e luoghi in cui far interagire
il reale e l'ideale, il vissuto soggettivo e la verità oggettiva, vale a dire
di occasioni di discernimento in cui, mediante il confronto con i suoi
compagni di viaggio (mutua-formazione), poter giungere all'individuazione di ciò che è chiamato a fare da Dio qui e ora, a livello familiare, piuttosto che professionale e politico. Da questo punto di vista,
anche alla persona adulta è saggio proporre il confronto con una persona di fiducia e la stesura, continuamente rivista e aggiornata, di una
vera e propria regola di vita essenziale, flessibile e individualizzata.
NOTE
l Cf C.M.
Mozzanica,
Uadultità: una sfida e una promessa, in «Dialoghi», 2 (2009), pp. 56-67; P. Bignardi, Il senso dell'educazione. La libertà di diventare se stessi, AVE, Roma 2011, pp. 15-22; D. Demetrio,
Chi
è l'adulto: una lettura della condizion~ adulta, in Aa.vv., Raccontare gli adulti. Gli adulti si raccontano, AVE,
Roma 2005, pp. 30-41; L. Alici, Vivere nel cambiamento: adulti e trasformazioni, in Aa.vv., Raccontare gli
adulti..., cit., pp. 42-59.
CE!, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti
nio 2010-2020 (4 ottobre 2010), n. 55.
2
pastorali
del l'Episcopato
italiano
per il decen-
CfCEI, Educare alla vita buona del Vangelo ... , cit., n. 22; Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (a cura di), La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 8-10; Azione
Cattolica Italiana, Perché sia formato Cristo in voi, AVE, Roma 2004, pp. 21-22.
3
Cf A. Cencini, Formazione permanente e modello dell'integrazione, in «Tredirnensioni»,
2 (2005), pp.
276-286; P. Triani (a cura di), Educare, impegno di tutti, AVE, Roma 2010, pp. 22-25; G. Cucci, La maturità dell'esperienza di fede, LDC, Torino 2010, pp. 49-54.
4
'Cf F. Botturi, Fondazione
e oggettività del bene pratico, in «Tredirnensioni»,
6
Cf CE!, Educare alla vita buona del vangelo ... r cit., nn. 22-24.
7
Cf lbid., nn. 20-21 e 35.
7 (2010),
pp. 120-132.
A. Cencini, Formazione permanente: ci crediamo davvero?, EDB, Bologna 2011, pp. 55-58; P. Tr iani, La
struttura dinamica della formazione, in «Tredi mension i», 2 (2005), pp. 236-237.
8
, CE!, «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande «SÌ» di Dio all'uomo. Nota pastorale
dell'Episcopato italiano dopo i14° Convegno ecclesiale nazionale, 29 giugno 2007, n. 17.
ro Cf E. Parolari
- D. Pavone, Ministero alla prova. Per una lettura sapienziale delle relazioni del prete, in «La
Rivista del Clero Italiano», 92 (2011), pp. 566-584.
11 Cf E. Biernrnì,
Compagni di viaggio. Laboratorio di formazione
tori pastorali, EDB, Bologna 2008, pp. 141-147.
per animatori,
catechisti di adulti e opera-
1 Lumen Fidei Papa Francesco Capitolo terzo Vi ho trasmesso quello che ho ricevuto (cfr. 1 Cor 15,3) La Chiesa, madre della nostra fede 37. Chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé. Poiché la fede è ascolto e visione, essa si trasmette anche come parola e come luce. Parlando ai Corinzi, l’Apostolo Paolo ha usato proprio queste due immagini. Da un lato, egli dice: «Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4,13). La parola ricevuta si fa risposta, confessione e, in questo modo, risuona per gli altri, invitandoli a credere. Dall’altro, san Paolo si riferisce anche alla luce: «Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine» (2 Cor 3,18). È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosè portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con Lui: «[Dio] rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce, come nella liturgia di Pasqua la luce del cero accende tante altre candele. La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. I cristiani, nella loro povertà, piantano un seme così fecondo che diventa un grande albero ed è capace di riempire il mondo di frutti. 38. La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù. Come è possibile questo? Come essere sicuri di attingere al "vero Gesù", attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall’"io" individuale, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me. Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui l’uomo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa. La Chiesa è una Madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede. San Giovanni ha insistito su quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue all’azione dello Spirito Santo che, come dice Gesù, «vi ricorderà tutto» (Gv 14,26). L’Amore che è lo Spirito, e che dimora nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede. 39. È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’"io" del fedele e il "Tu" divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al "noi", avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si 2 inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, "credo", solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche "crediamo". Questa apertura al "noi" ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra "io" e "tu", ma nello Spirito è anche un "noi", una comunione di persone. Ecco perché chi crede non è mai solo, e perché la fede tende a diffondersi, ad invitare altri alla sua gioia. Chi riceve la fede scopre che gli spazi del suo "io" si allargano, e si generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la vita. Tertulliano l’ha espresso con efficacia parlando del catecumeno, che "dopo il lavacro della nuova nascita" è accolto nella casa della Madre per stendere le mani e pregare, insieme ai fratelli, il Padre nostro, come accolto in una nuova famiglia. I Sacramenti e la trasmissione della fede 40. La Chiesa, come ogni famiglia, trasmette ai suoi figli il contenuto della sua memoria. Come farlo, in modo che niente si perda e che, al contrario, tutto si approfondisca sempre più nell’eredità della fede? È attraverso la Tradizione Apostolica conservata nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo, che noi abbiamo un contatto vivo con la memoria fondante. E quanto è stato trasmesso dagli Apostoli — come afferma il Concilio Vaticano II — «racchiude tutto quello che serve per vivere la vita santa e per accrescere la fede del Popolo di Dio, e così nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». La fede, infatti, ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua Tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persona nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività, aprendola a relazioni vive nella comunione con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale pienezza esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i Sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. In essi si comunica una memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi della vita, associata a tutti i sensi; in essi la persona è coinvolta, in quanto membro di un soggetto vivo, in un tessuto di relazioni comunitarie. Per questo, se è vero che i Sacramenti sono i Sacramenti della fede, si deve anche dire che la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno. 41. La trasmissione della fede avviene in primo luogo attraverso il Battesimo. Potrebbe sembrare che il Battesimo sia solo un modo per simbolizzare la confessione di fede, un atto pedagogico per chi ha bisogno di immagini e gesti, ma da cui, in fondo, si potrebbe prescindere. Una parola di san Paolo, a proposito del Battesimo, ci ricorda che non è così. Egli afferma che «per mezzo del battesimo siamo […] sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). Nel Battesimo diventiamo nuova creatura e figli adottivi di Dio. L’Apostolo afferma poi che il cristiano è stato affidato a una "forma di insegnamento" (typos didachés), cui obbedisce di cuore (cfr. Rm 6,17). Nel Battesimo l’uomo riceve anche una dottrina da professare e una forma concreta di vita che richiede il coinvolgimento di tutta la sua persona e lo incammina verso il bene. Viene trasferito in un ambito nuovo, affidato a un nuovo ambiente, a un nuovo modo di agire comune, nella Chiesa. Il Battesimo ci ricorda così che la fede non è opera dell’individuo isolato, non è un atto che l’uomo possa compiere contando solo sulle proprie forze, ma deve essere ricevuta, entrando nella comunione ecclesiale che trasmette il dono di Dio: nessuno battezza se stesso, così come nessuno nasce da solo all’esistenza. Siamo stati battezzati. 42. Quali sono gli elementi battesimali che ci introducono in questa nuova "forma di insegnamento"? Sul catecumeno s’invoca in primo luogo il nome della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Si offre così fin dall’inizio una sintesi del cammino della fede. Il Dio che ha chiamato Abramo e ha voluto chiamarsi suo Dio; il Dio che ha rivelato il suo nome a Mosè; il Dio che nel consegnarci suo Figlio ci ha rivelato pienamente il mistero del suo Nome, dona al battezzato una nuova identità filiale. Appare in questo modo il senso dell’azione che si compie nel Battesimo, l’immersione nell’acqua: l’acqua è, allo stesso 3 tempo, simbolo di morte, che ci invita a passare per la conversione dell’"io", in vista della sua apertura a un "Io" più grande; ma è anche simbolo di vita, del grembo in cui rinasciamo seguendo Cristo nella sua nuova esistenza. In questo modo, attraverso l’immersione nell’acqua, il Battesimo ci parla della struttura incarnata della fede. L’azione di Cristo ci tocca nella nostra realtà personale, trasformandoci radicalmente, rendendoci figli adottivi di Dio, partecipi della natura divina; modifica così tutti i nostri rapporti, la nostra situazione concreta nel mondo e nel cosmo, aprendoli alla sua stessa vita di comunione. Questo dinamismo di trasformazione proprio del Battesimo ci aiuta a cogliere l’importanza del catecumenato, che oggi, anche nelle società di antiche radici cristiane, nelle quali un numero crescente di adulti si avvicina al sacramento battesimale, riveste un’importanza singolare per la nuova evangelizzazione. È la strada di preparazione al Battesimo, alla trasformazione dell’intera esistenza in Cristo. Per comprendere la connessione tra Battesimo e fede, ci può essere di aiuto ricordare un testo del profeta Isaia, che è stato associato al Battesimo nell’antica letteratura cristiana: «Fortezze rocciose saranno il suo rifugio […] la sua acqua sarà assicurata» (Is 33,16). Il battezzato, riscattato dall’acqua della morte, poteva ergersi in piedi sulla "roccia forte", perché aveva trovato la saldezza cui affidarsi. Così, l’acqua di morte si è trasformata in acqua di vita. Il testo greco la descriveva come acqua pistós, acqua "fedele". L’acqua del Battesimo è fedele perché ad essa ci si può affidare, perché la sua corrente immette nella dinamica di amore di Gesù, fonte di sicurezza per il nostro cammino nella vita. 43. La struttura del Battesimo, la sua configurazione come rinascita, in cui riceviamo un nuovo nome e una nuova vita, ci aiuta a capire il senso e l’importanza del Battesimo dei bambini. Il bambino non è capace di un atto libero che accolga la fede, non può confessarla ancora da solo, e proprio per questo essa è confessata dai suoi genitori e dai padrini in suo nome. La fede è vissuta all’interno della comunità della Chiesa, è inserita in un "noi" comune. Così, il bambino può essere sostenuto da altri, dai suoi genitori e padrini, e può essere accolto nella loro fede, che è la fede della Chiesa, simbolizzata dalla luce che il padre attinge dal cero nella liturgia battesimale. Questa struttura del Battesimo evidenzia l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede. I genitori sono chiamati, secondo una parola di sant’Agostino, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il Battesimo, siano rigenerati come figli di Dio, ricevano il dono della fede. Così, insieme alla vita, viene dato loro l’orientamento fondamentale dell’esistenza e la sicurezza di un futuro buono, orientamento che verrà ulteriormente corroborato nel Sacramento della Confermazione con il sigillo dello Spirito Santo. 44. La natura sacramentale della fede trova la sua espressione massima nell’Eucaristia. Essa è nutrimento prezioso della fede, incontro con Cristo presente in modo reale con l’atto supremo di amore, il dono di Se stesso che genera vita. Nell’Eucaristia troviamo l’incrocio dei due assi su cui la fede percorre il suo cammino. Da una parte, l’asse della storia: l’Eucaristia è atto di memoria, attualizzazione del mistero, in cui il passato, come evento di morte e risurrezione, mostra la sua capacità di aprire al futuro, di anticipare la pienezza finale. La liturgia ce lo ricorda con il suo hodie, l’"oggi" dei misteri della salvezza. D’altra parte, si trova qui anche l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile. Nell’Eucaristia impariamo a vedere la profondità del reale. Il pane e il vino si trasformano nel corpo e sangue di Cristo, che si fa presente nel suo cammino pasquale verso il Padre: questo movimento ci introduce, corpo e anima, nel movimento di tutto il creato verso la sua pienezza in Dio. 45. Nella celebrazione dei Sacramenti, la Chiesa trasmette la sua memoria, in particolare, con la professione di fede. In essa, non si tratta tanto di prestare l’assenso a un insieme di verità astratte. Al contrario, nella confessione di fede tutta la vita entra in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente. Possiamo dire che nel Credo il credente viene invitato a entrare nel mistero che professa e a lasciarsi trasformare da ciò che professa. Per capire il senso di questa affermazione, pensiamo anzitutto al contenuto del Credo. Esso ha una struttura trinitaria: il Padre e il Figlio si uniscono nello Spirito di amore. Il credente afferma così che il centro dell’essere, il segreto più profondo di tutte le cose, è la comunione divina. Inoltre, il Credo contiene anche una confessione cristologica: si ripercorrono i misteri della vita di Gesù, fino alla sua Morte, Risurrezione e Ascensione al Cielo, nell’attesa della sua venuta finale nella gloria. Si dice, dunque, che questo Dio comunione, scambio di amore tra Padre e Figlio nello Spirito, è capace di abbracciare la storia dell’uomo, di introdurlo nel suo 4 dinamismo di comunione, che ha nel Padre la sua origine e la sua mèta finale. Colui che confessa la fede, si vede coinvolto nella verità che confessa. Non può pronunciare con verità le parole del Credo, senza essere per ciò stesso trasformato, senza immettersi nella storia di amore che lo abbraccia, che dilata il suo essere rendendolo parte di una comunione grande, del soggetto ultimo che pronuncia il Credo e che è la Chiesa. Tutte le verità che si credono dicono il mistero della nuova vita della fede come cammino di comunione con il Dio vivente. Fede, preghiera e Decalogo 46. Altri due elementi sono essenziali nella trasmissione fedele della memoria della Chiesa. In primo luogo, la preghiera del Signore, il Padre nostro. In essa il cristiano impara a condividere la stessa esperienza spirituale di Cristo e incomincia a vedere con gli occhi di Cristo. A partire da Colui che è Luce da Luce, dal Figlio Unigenito del Padre, conosciamo Dio anche noi e possiamo accendere in altri il desiderio di avvicinarsi a Lui. È altrettanto importante, inoltre, la connessione tra la fede e il Decalogo. La fede, abbiamo detto, appare come un cammino, una strada da percorrere, aperta dall’incontro con il Dio vivente. Per questo, alla luce della fede, dell’affidamento totale al Dio che salva, il Decalogo acquista la sua verità più profonda, contenuta nelle parole che introducono i dieci comandamenti: «Io sono il tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2). Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ "io" autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia. La fede confessa così l’amore di Dio, origine e sostegno di tutto, si lascia muovere da questo amore per camminare verso la pienezza della comunione con Dio. Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore, possibile perché, nella fede, ci siamo aperti all’esperienza dell’amore trasformante di Dio per noi. E questo cammino riceve una nuova luce da quanto Gesù insegna nel Discorso della Montagna (cfr. Mt 5-­‐7). Ho toccato così i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera. La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi, incluso il Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, «tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». L’unità e l’integrità della fede 47. L’unità della Chiesa, nel tempo e nello spazio, è collegata all’unità della fede: «Un solo corpo e un solo spirito […] una sola fede» (Ef 4, 4-­‐5).Oggi può sembrare realizzabile un’unione degli uomini in un impegno comune, nel volersi bene, nel condividere una stessa sorte, in una meta comune. Ma ci risulta molto difficile concepire un’unità nella stessa verità. Ci sembra che un’unione del genere si opponga alla libertà del pensiero e all’autonomia del soggetto. L’esperienza dell’amore ci dice invece che proprio nell’amore è possibile avere una visione comune, che in esso impariamo a vedere la realtà con gli occhi dell’altro, e che ciò non ci impoverisce, ma arricchisce il nostro sguardo. L’amore vero, a misura dell’amore divino, esige la verità e nello sguardo comune della verità, che è Gesù Cristo, diventa saldo e profondo. Questa è anche la gioia della fede, l’unità di visione in un solo corpo e in un solo spirito. In questo senso san Leone Magno poteva affermare: «Se la fede non è una, non è fede». Qual è il segreto di questa unità? La fede è "una", in primo luogo, per l’unità del Dio conosciuto e confessato. Tutti gli articoli di fede si riferiscono a Lui, sono vie per conoscere il suo essere e il suo agire, e per questo possiedono un’unità superiore a qualsiasi altra che possiamo costruire con il nostro pensiero, possiedono l’unità che ci arricchisce, perché si comunica a noi e ci rende "uno". La fede è una, inoltre, perché si rivolge all’unico Signore, alla vita di Gesù, alla sua storia concreta che condivide con noi. Sant’Ireneo di Lione l’ha chiarito in opposizione agli eretici gnostici. Costoro sostenevano l’esistenza di due tipi di fede, una fede rozza, la fede dei semplici, imperfetta, che si manteneva al livello della carne di Cristo e della contemplazione dei suoi misteri; e un altro tipo di fede più profondo e perfetto, la fede vera riservata a una piccola cerchia di iniziati che si elevava con l’intelletto al di là della carne di Gesù verso i misteri della divinità ignota. Davanti a questa pretesa, che continua ad avere il suo fascino e i suoi seguaci anche ai nostri giorni, sant’Ireneo ribadisce che la fede 5 è una sola, perché passa sempre per il punto concreto dell’Incarnazione, senza superare mai la carne e la storia di Cristo, dal momento che Dio si è voluto rivelare pienamente in essa. È per questo che non c’è differenza nella fede tra "colui che è in grado di parlarne più a lungo" e "colui che ne parla poco", tra colui che è superiore e chi è meno capace: né il primo può ampliare la fede, né il secondo diminuirla. Infine, la fede è una perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. Nella comunione dell’unico soggetto che è la Chiesa, riceviamo uno sguardo comune. Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, siamo trasformati dallo stesso Spirito d’amore, irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà. 48. Dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità. Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto. Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr. 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede. Infatti, in quanto l’unità della fede è l’unità della Chiesa, togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. I Padri hanno descritto la fede come un corpo, il corpo della verità, con diverse membra, in analogia con il corpo di Cristo e con il suo prolungamento nella Chiesa. L’integrità della fede è stata legata anche all’immagine della Chiesa vergine, alla sua fedeltà nell’amore sponsale per Cristo: danneggiare la fede significa danneggiare la comunione con il Signore. L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione. La fede si mostra così universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia. 49. Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone. Nel discorso di addio agli anziani di Efeso, a Mileto, raccolto da san Luca negli Atti degli Apostoli, san Paolo testimonia di aver compiuto l’incarico affidatogli dal Signore di annunciare «tutta la volontà di Dio» (At 20,27). È grazie al Magistero della Chiesa che ci può arrivare integra questa volontà, e con essa la gioia di poterla compiere in pienezza. VERSO “AQUILEIA 2”: LA FEDE DEL NORD-EST
Mentre si preparano al secondo Convegno di Aquileia (12-15 aprile 2012), che a
distanza di un ventennio dal primo riunirà tutte le Chiese del Nord-est per
discernere il cammino percorso, i vescovi delle diocesi del Triveneto si sono
interrogati su quale sia la situazione della popolazione che vive nell’Italia del Nordest dal punto di vista della religiosità. E hanno incaricato l’Osservatorio socioreligioso triveneto di condurre un’approfondita ricerca, che viene qui descritta dal
presidente dell’OSRET Alessandro Castegnaro in una rielaborazione della
presentazione fatta agli stessi vescovi il 18 febbraio. Ne emerge un quadro di
transizione molto rapida verso identità religiose, identità confessionali e forme di
spiritualità al plurale, e verso un cattolicesimo «con meno Chiesa», che tuttavia nel
Nord-est tende ancora a pensarsi, almeno per ora, come un cattolicesimo «non senza
Chiesa». Con uno iato profondo rispetto alla generazione dei ventenni, ma anche
con potenzialità che invocano da parte delle Chiese del Triveneto un radicale
ripensamento delle forme della propria presenza e lo stile dell’azione pastorale.
In preparazione al secondo Convegno di Aquileia (cf. riquadro a p. 128) i vescovi del
Triveneto hanno incaricato l’Osservatorio socio-religioso triveneto di condurre
un’approfondita ricerca sulla religiosità della popolazione, che riguardasse l’intero Nord-est.
L’indagine ha richiesto un notevole sforzo, sia in termini di risorse investite sia d’impegno
scientifico. Essa è sicuramente la più estesa e impegnativa mai realizzata su questi temi nel
Nord-est e una delle maggiori condotte in Italia. Le domande cui essa ha cercato di dare
risposta possono essere così sintetizzate: – in primo luogo in che cosa credono gli abitanti
del Triveneto? Che idea hanno di Dio? – in secondo luogo, che consistenza assume
l’esperienza religiosa nella vita delle persone? È proprio vero che alcune predisposizioni di
base rispetto alla dimensione religiosa si stanno perdendo? O piuttosto stanno crescendo
nuove forme di spiritualità? – in terzo luogo, che livelli di pratica (frequenza alla messa,
preghiera ecc.) caratterizzano gli abitanti del Triveneto? – in quarto luogo, come
s’identificano sotto il profilo socio-religioso? Quale grado di appartenenza manifestano nei
confronti della Chiesa cattolica? Quale ruolo le assegnano? Quale immagine ne hanno?
Di contorno a queste, che sono le quattro dimensioni costitutive della religiosità, sono state
sondate altre due aree:
– quella valoriale e morale (senza pretesa di esaustività), su temi sia di morale civica sia di
etica privata;
– quella dell’immagine delle altre religioni, comprese nella loro relazione con quella di
appartenenza.
METODOLOGIA DELLA RICERCA
La ricerca ha preso in considerazione una fascia della popolazione autoctona residente di
età comprese fra i 18 e i 74 anni. La scelta di concentrarsi sulla popolazione autoctona
deriva da due motivazioni: la prima di merito, e cioè l’interesse per descrivere i
cambiamenti rispetto al passato nella religiosità delle popolazioni locali in una fase che
probabilmente sarà di svolta; la seconda di tipo metodologico, derivante dalla sostanziale
impossibilità di utilizzare elenchi diversi da quelli elettorali per definire il campione su cui
condurre l’indagine, elenchi che come è noto escludono la popolazione immigrata.
Quest’ultima considerazione spiega anche la delimitazione verso il basso (i 18 anni) che è
del resto comune a tutte le indagini nazionali sulla religiosità, mentre la limitazione verso
l’alto (74 anni) consente di evitare la fatica della compilazione di un questionario complesso
alle persone più anziane e l’incertezza dei risultati che ne conseguono. Stante la
numerosità della popolazione così definita – oltre 7 milioni di unità – si è optato per
un’indagine campionaria basata su 2.500 interviste, numero massimo compatibile con le
risorse disponibili e comunque sufficiente per consentire una rappresentatività del
territorio per grandi aree. Il piano di campionamento si è realizzato a due stadi. Nel primo
stadio i 1.125 comuni del Nord-est sono stati suddivisi in base a tre caratteristiche che si
sono ipotizzate come rilevanti per l’oggetto della ricerca e tali da permettere una
disaggregazione significativa di tipo territoriale, ovvero:
– macro area geografica: sono state individuate quattro aree: Friuli Venezia Giulia, Trentino
Alto Adige, Veneto quadrilatero «bianco» (costituito dalle province di Treviso, Padova,
Verona e Vicenza) e restanti province del Veneto (Venezia, Belluno e Rovigo);
– dimensione demografica, espressa dal numero di residenti (meno di 5.000; 5-15.000; 1580.000; più di 80.000);
– numero di nati da madre italiana non coniugata.
Questa caratteristica è apparsa molto significativa, in quanto capace di rilevare un
comportamento in passato fortemente stigmatizzato dalla tradizione locale, cristiana e non.
La sua diffusione può essere considerata perciò un buon indicatore del cambiamento
culturale e di secolarizzazione dei costumi. Successivamente si è realizzata l’estrazione di
un certo numero di comuni per ogni strato (raggruppamento di comuni), scelta effettuata
con criterio casuale e probabilità proporzionale al numero di abitanti. I comuni selezionati
sono stati 108. Nel secondo stadio si è operata un’estrazione puramente casuale dei
nominativi da intervistare, ricorrendo agli elenchi elettorali. Lo strumento adottato per
condurre l’indagine è stato un questionario complesso formato da 92 domande a risposta
chiusa, che hanno permesso di rilevare 171 variabili relative agli intervistati. La
metodologia di somministrazione è stata l’auto-compilazione con consegna all’interessato,
sua istruzione presso la residenza e raccolta, sempre a domicilio, dopo alcuni giorni, in
modo che la compilazione potesse avvenire con la calma e la riservatezza necessarie. Non si
è dunque trattato di un’intervista telefonica, come è diventato abituale. Quanto alla
rappresentatività del campione, l’indagine si è svolta dal marzo al luglio del 2011 su di un
campione programmato di 2.500 unità ridottosi a 2.136 a causa della necessità di non
prolungare ulteriormente la fase di rilevazione, cosa che avrebbe reso indisponibili i
risultati in tempi compatibili con il convegno «Aquileia 2». Si tratta comunque di un
consistente tasso di copertura del numero originariamente previsto (85,4%), che non ha
alterato la rappresentatività del campione. Il raffronto tra le composizioni percentuali della
popolazione triveneta e quelle determinate sul campione consente di metterne in rilievo
l’elevato grado di rappresentatività, che presenta un margine di errore medio dell’1,08%.
QUALI DIFFERENZE TRA NORD-EST E ITALIA?
A un primo sguardo il Nord-est, preso nel suo insieme, appare assai poco differenziato
dal quadro nazionale sotto il profilo degli orientamenti religiosi e di valore. Non è diverso
per quanto riguarda:
– l’atteggiamento verso gli immigrati (2 intervistati su 10 moderatamente contrariati
dalla loro presenza, molto contrariato; minoranze dunque, anche se non trascurabili);
– l’approccio alle religioni diverse da quella cattolica, alle quali la grande
maggioranza attribuisce il possesso di verità importanti da scoprire (3/4 degli intervistati);
– i temi di morale civica, come ad esempio pagare le tasse, ottenere dallo stato benefici
cui non si ha diritto, ammissibilità del lavoro nero (tutti comportamenti duramente
condannati, con percentuali che vanno dall’85 al 95%);
– i temi di morale privata, come: divorziare quando non si va più d’accordo, infedeltà,
vivere insieme senza essere sposati, preferenza per il matrimonio religioso nel caso ci si
dovesse sposare o risposare oggi (61%);
– l’assunzione di droghe leggere (85% di contrari).
Contrariamente a una certa immagine, dunque, sulle questioni di morale pubblica il Nordest non appare meno accogliente e più lassista, semmai lo è di meno (ma con differenze
poco significative). Su quelle di morale privata non vi è alcuna differenza davvero
interessante, se non in particolari sottogruppi. Rispetto al matrimonio, ad esempio, i celibi
e le nubili, che sono in prevalenza giovani, sono assai più facilmente orientati alla
convivenza prematrimoniale rispetto al campione nazionale (45,6% contro il 26%).
Se consideriamo la religiosità il panorama che emerge dalla comparazione non differisce se
non per aspetti di dettaglio:
– il credere nell’esistenza di Dio registra percentuali analoghe, con 2-3 punti in meno di
atei-agnostici (sono il 9,3%) e qualche punto in più di credenti con sicurezza (sono il 56%);
– nessuna differenza si manifesta in fatto di: credere con sicurezza che Gesù Cristo sia
figlio di Dio (53,1%), convinzione che con la morte non tutto finisca (87%), credenza
convinta nella risurrezione (29,8%, e si noti la differenza con la percentuale precedente);
– la percentuale di cattolici nella popolazione autoctona è la stessa (84%);
– la frequenza con cui si prega è solo leggermente superiore nel Nord-est (+6,5% coloro
che pregano ogni giorno: sono il 39%; +4,5% coloro che pregano almeno una volta la
settimana: sommati ai precedenti sono il 53,3%);
– la frequenza alla messa festiva dichiarata rileva il 28,8% di praticanti assidui (tutte le
domeniche) contro percentuali che vanno dal 26,5 al 30% a livello nazionale a seconda
delle indagini cui ci si riferisce; il 45,6% che dice di andarci almeno una volta al mese o
più, contro il 42,3-46% nel campione nazionale;
– poche differenze emergono su temi come: presenza del crocifisso nelle scuole (90,4% di
favorevoli), atteggiamento verso l’ora di religione (da mantenere per il 66,8%,
eventualmente con variazioni), favorevoli alla possibilità per i preti di sposarsi (leggermente
di più nel Nord-est: 74% contro 66% in Italia). Alcune differenze esistono, ma riguardano
tematiche circoscritte e verranno riprese più avanti. La somiglianza tra Italia e Nord-est
contraddice molti dei discorsi che si sono finora sentiti sulla specificità di queste regioni,
discorsi che appaiono sempre più parte di un’ideologia del Nord-est o di un pregiudizio
piuttosto che della sua realtà. Questa somiglianza può dare l’idea di un certo
appiattimento, ma essa è il risultato di un avvicinamento del Nord-est al quadro nazionale.
E quando c’è un avvicinamento, ad esempio degli indici di religiosità, dentro tendenze
generali all’abbassamento (nel Nord-est come in Italia), vuol dire che il cambiamento è
stato più rapido. Lo si vede anche solo esaminando la quota di intervistati che dicono di
aver fatto parte in passato di gruppi religiosi: il 35% nel Nord-est contro il 20% in Italia,
segno di un radicamento ben maggiore in passato del cattolicesimo. Lo si vede nella
somiglianza ormai raggiunta di un insieme di comportamenti relativi al tema famiglia e
gestione della sessualità. E lo si nota nei «sorpassi», che pure ci sono, come la maggior
propensione dei giovani del Nordest verso la convivenza prematrimoniale rispetto a
quella dichiarata dai loro coetanei italiani, come la maggior quota di matrimoni
che si concludono con la separazione, come infine la maggior quota di nati da
madri non coniugate, che caratterizzano il Nord-est.
I TRATTI GENERALI DELLE TRASFORMAZIONI SOCIO-RELIGIOSE
La ricerca ha fotografato il Nord-est in una fase che è ancora di forte mutamento del
quadro socio-religioso. Si potrebbe anzi dire che con la generazione che sta ora diventando
adulta si evidenzia un salto di qualità e un momento di svolta. Il mutamento in parte ha
cause esogene, è effetto del fenomeno immigratorio che sta rapidamente delineando una
situazione caratterizzata da pluralismo di religioni, ma ha anche – e soprattutto – cause
interne. È cioè il derivato di una differenziazione e di una personalizzazione dei modi di
intendere il cristianesimo-cattolicesimo e più in generale le religioni. Per quanto riguarda il
pluralismo religioso «esterno», i cattolici, pur essendo maggioritari, sono ormai scesi a
poco più di tre su quattro nella popolazione residente (immigrati compresi), mentre erano
circa il 90% vent’anni fa, nel periodo in cui si celebrava il primo convegno di Aquileia. I dati
sui battesimi confermano: l’incidenza dei battezzati in una chiesa cattolica sui nati si è
ridotta tra 1989 e 2009 di 22,7 punti percentuali. Anche se ci si limita alla popolazione
autoctona la riduzione non appare trascurabile (-9,2% in vent’anni). Per quanto riguarda
l’evoluzione «interna», relativa cioè alla popolazione autoctona, si possono fare alcune
osservazioni generali Quanto al credere (grafico 1), rimane largamente maggioritaria la
credenza fondamentale nell’esistenza di Dio, ma si allargano le posizioni di incertezza,
del «possibile ma non certo», del «probabile, ma non sicuro», del «mi piacerebbe, ma
non so». Il livello di condivisione inoltre è molto variabile a seconda del tipo di credenza
preso in esame: ancora alta ad esempio, anche se in flessione, quella nell’idea che Gesù
Cristo sia figlio di Dio, molto meno diffusa quella nella risurrezione o il pensare l’aldilà in
termini di condanna e salvezza eterni (o di paradiso e inferno). Il credere inoltre assume
forme meno semplicistiche e più complesse. In tema di «Provvidenza», ad esempio, il gruppo
maggioritario (43,7%) ritiene che Dio sia coinvolto nelle faccende umane, ma in modo non
direttamente attivo, mentre coloro che pensano a un coinvolgimento direttamente attivo
sono il 33,2%. Un secondo esempio: solo una minoranza ritiene il Vangelo del tutto
attendibile (38,9%), mentre il gruppo maggioritario lo considera solo in parte attendibile
(46,9%). Non pare vero che le disposizioni di base che possono dar luogo a un sentimento
religioso si siano atrofizzate. Ad esempio, la grande maggioranza della popolazione (86%)
sostiene di vivere numerose esperienze, durante le quali si arriva a percepire l’esistenza di
qualcosa che va oltre la materialità delle cose. Continua tuttavia la flessione della
frequenza alla messa (grafico 2), ma con ritmi meno intensi che in passato. Ciò non ha
impedito che proseguisse l’invecchiamento delle assemblee domenicali. Il 40% dei
cattolici assidui tra 18 e 74 anni ha superato i 60 anni. La pratica della preghiera
(grafico 3), pur anch’essa in flessione, rimane assai più estesa di quella alla messa
(39,1% quella giornaliera, + 14,2% quella settimanale). Negli ultimi anni nel Nord-est, così
come a livello nazionale, si è sviluppato un atteggiamento maggiormente critico nei
confronti della Chiesa cattolica. I cattolici senza riserve sono nella popolazione
autoctona una minoranza (19%); un altro 35% vi aderisce con qualche riserva.
La Chiesa viene spesso sentita come lontana (52,3%) e severa (44,4%), più
un’istituzione (44%) che una comunità. Il saldo tra avvicinati e allontanati è negativo in
tutte le classi di età, salvo che tra gli anziani. Le critiche maggiori vertono su: la distanza
avvertita tra ciò che dicono papa e vescovi e ciò che la gente vive (70%), il modo in
cui essa usa i suoi beni (66,1%), il modo in cui concepisce la morale sessuale (65%),
il modo in cui interviene nelle decisioni politiche (56,1%). Si manifesta una forte
spinta all’autonomia delle scelte in campo morale rispetto a quanto sostenuto dal magistero
della Chiesa (grafico 4). È la coscienza individuale in primo piano quando si tratta di
distinguere ciò che è bene da ciò che è male (84,3%) e in secondo luogo la legge di Dio
(66,1%), mentre papa e vescovi vengono indicati solamente dal 32,4% degli intervistati. Da
un lato si mette in questione la mediazione della Chiesa, vissuta come troppo invasiva e
tale da sostituirsi alla coscienza personale: quasi il 60% degli intervistati pensa che si
possa essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni dei vescovi sulle questioni
sociali, e circa due terzi degli intervistati pensano la stessa cosa rispetto alla morale
sessuale, senza differenze apprezzabili con quanto pensano gli italiani. Colpisce invece il
fatto che nel Nord-est il giudizio sulla confessione risulta essere più pesante rispetto
a quello espresso a livello nazionale, e che la sua pratica almeno annuale qui coinvolga
solo il 35,3% (e il 41% dei cattolici) contro il 44% in Italia (e il 49% dei cattolici). Dall’altro
lato però, e questa è una seconda specificità, qui si avverte più che a livello
nazionale il bisogno di un riferimento di Chiesa e di una religione a cui legare la
propria ricerca spirituale: l’idea che si possa vivere la propria vita spirituale anche senza
avere a che fare con una religione trova d’accordo solo la metà delle popolazioni del Nordest contro l’81% a livello nazionale; l’affermazione «non c’è bisogno dei preti e della Chiesa,
ognuno può intendersela da solo con Dio» trova qui consensi nel 33,8%, mentre a livello
nazionale si raggiunge il 45,2%. In sintesi potremmo dire che molte persone, probabilmente
la maggioranza:
– rispetto al credere, più che essere incredule o indifferenti o chiuse verso la dimensione
trascendente vivono una situazione di contrasto tra il desiderio di credere e la
difficoltà a trovare ragioni del credere, tra la nostalgia per la pienezza che viene
associata al credo religioso e l’attrazione per letture immanentistiche, che
appaiono più ragionevoli e «adulte»;
– rispetto al rapporto con la Chiesa vivono di nuovo il contrasto tra il bisogno avvertito di
potersi riconoscere in una tradizione religiosa e in una realtà credente e il contemporaneo
bisogno di rimanere distinti, di conservare una propria autonomia e di sperimentare
percorsi di ricerca propri (grafico 5). È come se si stesse andando verso un
cattolicesimo con-poca-Chiesa, ma che vorrebbe nello stesso tempo essere non-senzaChiesa.
IL «SALTO» CON L’ULTIMA GENERAZIONE
L’analisi per classi di età evidenzia la rapidità con cui si manifesta il mutamento della
religiosità con l’ultima generazione (cf. tabella). Da questo punto di vista si può dire che la
ricerca ha intercettato il Nord-est in un momento di svolta. Com’è noto gli indicatori di
religiosità danno risultati più alti tra le persone anziane. Tra le età intermedie (30-44 e 4559) le differenze che emergono dalla ricerca sono poco significativ, prevale la stabilità.
Mentre invece si notano variazioni notevoli e in questa misura inaspettate tra le età di
mezzo e i giovani (18-29). Rispetto a chi ha tra 45 e 59 anni gli interessati alle
cerimonie religiose si dimezzano, e così vale per la pratica e la preghiera. La somma
di coloro che sentono di appartenere alla Chiesa cattolica senza alcuna riserva e di quelli
che vi appartengono con qualche riserva passa dal 55% al 30%. I cattolici «a modo mio»
diventano il 39%. Coloro che sentono di essere del tutto estranei alla parrocchia
passano dal 26,4% al 42,7%. I giudizi critici verso la Chiesa cattolica passano dal 40,5%
al 61%. La convinzione che il testo del Vangelo sia del tutto attendibile passa dal 43,3% al
17,4%; la condivisione totale del messaggio morale e spirituale di Gesù dal 61,8% al 38,3%.
L’insieme costituito da coloro che esprimono un giudizio negativo sulla Chiesa cattolica e/o
dichiarano di esserne più lontani di qualche anno addietro passa dal 34,6% e al 69,6% dei
giovanissimi. Un’analisi più raffinata, condotta tra chi ha un’età compresa tra 18 e 26 anni,
che possiamo considerare cioè «figli», e chi una compresa tra 48 e 56, che possiamo
ritenere come «genitori », dice in sostanza che tutti gli indici di religiosità non solamente
diminuiscono, ma si dimezzano. E ciò interessa tutte le dimensioni della religiosità. Se
tuttavia si esaminano l’interesse per la dimensione spirituale, il saldo tra chi avverte una
crescita e chi una diminuzione in questo campo e la frequenza con cui si vivono esperienze
che fanno percepire l’esistenza di «altro» al di là del tangibile, le differenze tra le generazioni
si annullano. In altre parole, se abbandoniamo il lessico del religioso e passiamo a quello
dello spirituale i risultati cambiano, e di molto.
C’è in sostanza un distacco in atto di una parte non trascurabile del mondo
giovanile dall’universo religioso che la Chiesa cattolica rappresenta e questo distacco,
pratico ancor prima che spirituale (pochi giovani oggi, ricevuta la cresima, frequentano la
parrocchia), comincia a manifestare i suoi effetti anche sul modo in cui ci si relaziona con
la figura di Gesù Cristo. Si tratta tuttavia di un distacco che non sembra essere la
diretta conseguenza di una corrispondente e radicale afasia spirituale (grafico 6, 8).
UOMINI E DONNE
Molti dei mutamenti appena descritti riguardano sia gli uomini sia le donne, ma le
modificazioni sono assai più evidenti lungo la linea femminile, tanto che buona parte
delle trasformazioni avvenute sono da attribuirsi a un mutamento di atteggiamento delle
donne. Le tradizionali differenze di religiosità legate al genere si stanno perciò attenuando
fino a quasi scomparire, in particolare per quanto riguarda la pratica religiosa e il rapporto
con la Chiesa. Le donne nate intorno al 1940 che attribuivano «molta» importanza alla
religione erano, secondo i loro figli e figlie, più del 50%, mentre gli uomini erano solamente
il 26%; oggi le ragazze nate attorno al 1990 che assegnano molta importanza alla religione
sono il 14,5% contro il non molto diverso 11,6% dei loro coetanei.
Diversamente dagli uomini, gli indici di religiosità manifestano una «gobba» tra le donne in
corrispondenza dell’età 39-45, che corrisponde al periodo in cui i figli vengono avviati al
percorso di iniziazione cristiana. Ma non si tratta di una ripresa stabile: quando i figli
crescono gli indici diminuiscono, riportandosi su livelli simili a quelli dell’età precedente
(32-38). L’avvicinamento tra uomini e donne c’è, ma è meno avvertibile sul piano del
sentimento religioso (le ragazze continuano a pregare più dei ragazzi: 45,3% almeno
qualche volta al mese, contro 29,3% dei loro coetanei) e in parte per il credere, ma non per
tutti i tipi di credenze: l’interesse per la figura di Gesù continua a essere in una certa
misura maggiore tra le ragazze, mentre la fede nella risurrezione le distingue assai poco dai
ragazzi (18,9% di convinte contro 14,2%). C’è da osservare, inoltre, che mentre tra gli
uomini la disaffezione dal modello di religione che con Luckmann potremmo chiamare «di
Chiesa» non appare dipendere in maniera chiara dai livelli di scolarizzazione, tra le donne
invece il legame è evidente. Le donne più scolarizzate sono tendenzialmente più
autonome e più critiche nei confronti della Chiesa cattolica dei loro coetanei: i
giudizi critici tra le laureate giungono a coinvolgerne il 58%, contro il 48% dei laureati
(grafici 7, 9, 10 e 11). Nello stesso tempo le donne laureate sono quelle spiritualmente più
dinamiche (il saldo tra chi dichiara una crescita e chi una diminuzione dell’interesse
spirituale è pari al +37,6% contro un +17,7% dei laureati). Le donne con scolarizzazione
superiore sono il 37% tra chi dichiara di aderire alla Chiesa cattolica senza riserve, mentre
sono il 55,6% tra le cattoliche «a modo mio» e l’80,6% tra le «senza appartenenza religiosa».
In estrema sintesi si potrebbe dire che la Chiesa cattolica manifesta difficoltà di
rapporto con i giovani e le donne di una certa cultura. Il fatto che i mutamenti in
corso interessino soprattutto le donne è la principale ragione per cui si è portati a
pensare che i tradizionali «riavvicinamenti», nelle successive età della vita, saranno
da qui in avanti meno numerosi che in passato e che i cambiamenti si riverbereranno
sulle generazioni successive. La comunicazione della religione essendo sempre stata, nella
realtà italiana e nordestina, un compito eminentemente femminile.
INSEGNAMENTI DELLA CHIESA E ORIENTAMENTI DELLA POPOLAZIONE
Le trasformazioni descritte possono essere interpretate come il risultato dell’avanzare di
quei processi di secolarizzazione che hanno interessato molte nazioni, soprattutto europee,
e che si erano già manifestati con più forza in altre parti d’Italia. Oggi sappiamo che essi
non implicavano un’eclissi della religione e un’atrofizzazione della domanda spirituale, ma
innanzitutto un’individualizzazione-personalizzazione del credere che costituisce una sfida
per tutte le Chiese. Tali trasformazioni in qualche misura indicano però una
difficoltà della Chiesa cattolica a entrare in sintonia, o quanto meno a confrontarsi
positivamente, con le nuove sensibilità culturali e le nuove domande spirituali. Uno
degli interrogativi che stanno facendo da filo rosso alle riflessioni in preparazione del
convegno «Aquileia 2» riguarda proprio la misura in cui le difficoltà attualmente incontrate
anche dalle Chiese del Nord-Est dipendano da un processo in sostanza non influenzabile
(la secolarizzazione) o quanto invece pesino alcuni limiti della stessa proposta ecclesiale. La
ricerca ha inteso contribuire a rispondere a questa domanda anche studiando gli
orientamenti espressi dalla popolazione e dai cattolici ecclesialmente impegnati su una
serie di temi di grande interesse. Non è possibile parlarne diffusamente in questa sede.
Riassumeremo qui a grandi linee gli atteggiamenti espressi su di un solo tema, quello della
famiglia e della sessualità (cf. grafici 12 e 13). Le popolazioni del Nord-est attribuiscono
grande valore alla famiglia, sia sul piano simbolico, sia come rete protettiva. In questo
sostengono che l’insegnamento della Chiesa cattolica conti (39% abbastanza e 40% molto).
Esse pensano ancora che «quando ci si sposa è per sempre» (34% abbastanza e 47% molto
d’accordo). E sono anche convinte che sia grave avere una relazione con un’altra persona
quando si è impegnati in una vita di coppia (66,5% molto e 26,7% abbastanza grave). Esse
pensano tuttavia che divorziare quando non si va più d’accordo non sia un fatto
grave (61% poco o niente); e dicono che l’insegnamento della Chiesa su questo non
conta molto (23% per niente e 29% poco). Per metà pensano che per formare una
nuova famiglia sia necessario il matrimonio (51%) e per metà che basti volersi bene
e vivere insieme (49%). In ogni caso non considerano disdicevole la convivenza (79%
poco o per niente grave). Ritengono infine sia normale che i giovani possano avere
esperienze sessuali prima del matrimonio (73% abbastanza + molto d’accordo). E
riconoscono che per quanto riguarda il tema sessualità, rapporti prematrimoniali e
contraccezione la Chiesa conti assai poco (per niente 27,3% e poco 37,5%). Se
consideriamo i cattolici impegnati (intesi qui come coloro che frequentano stabilmente o
saltuariamente un qualche gruppo religioso), quelli con meno di 45 anni, per cogliere la
prospettiva verso cui si sta andando, notiamo che essi sono in maggioranza ancora
convinti che divorziare sia un fatto grave (ma il 43% non lo ritiene più); pensano di
nuovo in maggioranza che per formare una nuova famiglia sia necessario il matrimonio (ma
il 39% non lo ritiene necessario se due persone si amano); in ogni caso non considerano
disdicevole la convivenza, e in proporzioni non molto diverse dalla popolazione nel
suo insieme (71% poco o per nulla grave). Essi infine pensano sia normale che i
giovani possano avere esperienze sessuali prima del matrimonio, tanto quanto gli
altri (69% abbastanza + molto d’accordo). Se consideriamo un tema come l’eutanasia,
intesa come «decisione di porre fine alla propria vita quando si è affetti da una malattia
incurabile», i giudizi si fanno più guardinghi. Gli intervistati nel loro insieme la ritengono in
maggioranza un fatto abbastanza (25,1%) o molto grave (30,9%), mentre i cattolici
impegnati ne danno un giudizio più severo (32,7% abbastanza, 42,1% molto grave).
Trattandosi di una prassi che entra in conflitto contro uno dei principi che il magistero
considera «non negoziabili», ci si attenderebbe però da questi ultimi un giudizio ben più
rigoroso. In effetti solo una minoranza di loro esprime una valutazione sull’eutanasia
corrispondente alla «non negoziabilità». Mediamente la si ritiene una scelta «abbastanza»
grave e, in un elenco di 13 comportamenti rispetto a cui si è chiesto di esprimere la
valutazione di gravità, essa viene collocata solo al decimo posto, a notevole distanza da una
condotta come «fare uso di droghe leggere» e poco al di sopra di «acquistare beni del tutto
superflui». In sostanza, su questioni di grande rilievo per la vita delle persone si manifesta
una notevole distanza tra alcuni aspetti dell’insegnamento della Chiesa cattolica e non
solamente gli orientamenti della popolazione nel suo insieme, ma anche le sensibilità di
parti maggioritarie o comunque non trascurabili di cattolici impegnati. O non si
condividono certi contenuti, o il modo in cui essi vengono pensati e verrebbero proposti è
profondamente diverso. La spinta all’autonomia del giudizio morale, già sottolineata in
precedenza a proposito della popolazione nel suo insieme, si manifesta del resto anche tra i
cattolici impegnati: quasi la metà di essi, il 47,2% di chi – avendo meno di 45 anni –
frequenta un gruppo religioso e il 49,5% di chi – nella stessa età – va a messa
assiduamente, pare non riconoscere a papa e vescovi la possibilità di «indicare che
cosa è male»; essendo questo un compito attribuito alla coscienza individuale (89%), in
rapporto diretto e personale con la legge di Dio (85,6%). Non sorprende dunque costatare
che i cattolici impegnati i quali affermano che a far problema della Chiesa cattolica è «la
distanza tra ciò che dicono papa e vescovi e ciò che la gente vive» siano in proporzioni solo
di poco inferiori alla popolazione nel suo insieme (60 contro 70%).
Che un fossato fosse andato delineandosi tra coscienza e magistero è cosa che
alcuni sostengono da tempo, ma che per lo più finora era sfuggita alle rilevazioni,
perché ci si era limitati a sottolineare le opinioni della popolazione nel suo
complesso, cosa che di per sé non può essere ritenuta dirimente. Ben diverse e più
stringenti sono le implicazioni di uno iato che tende a manifestarsi con le sensibilità di
parti rilevanti dei cattolici attivi. Tutto questo non spiega da solo il distacco in corso, in
particolare in quella parte della popolazione – i giovani – che di più vive molte delle
problematiche qui riprese, ma non può nemmeno essere considerato irrilevante.
PROSPETTIVE, SPAZI, RISORSE, POTENZIALITÀ
Come si è detto, la ricerca ha colto una fase di accentuata trasformazione del profilo
religioso del Nord-est, testimoniata dalla discontinuità che da questo punto di vista
caratterizza la generazione in ingresso nella vita adulta. Si sta andando verso identità
religiose, identità confessionali e forme di spiritualità al plurale e dunque:
– verso una cultura della libertà religiosa, intesa sia come libertà di religione, sia
come libertà nella religione;
– verso un cattolicesimo «con meno Chiesa», che tuttavia nel Nord-est tende ancora a
pensarsi, almeno per ora, come un cattolicesimo «non senza Chiesa».
Queste trasformazioni sollecitano le Chiese del Triveneto a ripensare le forme della
propria presenza e lo stile dell’azione pastorale. Vi è oggi al loro interno una
diffusa consapevolezza che occorre orientarsi verso una maggiore disponibilità
all’ascolto e alla vicinanza con quanto le popolazioni del Nord-est vivono e soffrono.
Il quadro che emerge dall’indagine, caratterizzato dalla transizione verso nuove forme di
religiosità, non induce ancora a pensare a esiti predeterminati. Vi sono al contrario ragioni
per ritenere che gli spazi per una crescita spirituale e religiosa non siano chiusi, che qui nel
Nord-est siano anzi più aperti che altrove e che le Chiese abbiano qui energie e potenzialità
migliori. Dal punto di vista valoriale non vi sono ragioni vere per ritenere che ogni
riferimento a criteri di valutazione dell’agire morale sia venuto meno, come qualche volta si
sostiene. Al contrario, dei criteri esistono e, pur con modificazioni nei modi di intenderli e
di applicarli, si trasmettono attraverso le generazioni. Il presente e il futuro non è fatto
solo di individualismo, un orientamento che certo esiste, ma di persone che cercano
di definire un proprio percorso di vita e una propria identità, anche religiosa, cui è
giusto guardare con rispetto e «simpatia». Sotto questo profilo il Nord-est non pare
essere né migliore, né peggiore del paese nel suo insieme. Dal punto di vista della religiosità
l’incertezza del credere, pur estesa, non significa chiusura rispetto a una prospettiva
trascendente. Come si è detto, il Nord-est non è fatto di increduli e indifferenti, ma di
persone «che vivono il contrasto», tra credere e non credere, tra bisogno di
appartenenza e desiderio di autonomia. Emergono inoltre nuovi spazi di spiritualità,
diversi da quelli che hanno caratterizzato il passato, ma dinamici e interessanti. Vi è
un’ampia area di persone che pregano quotidianamente o almeno settimanalmente, anche
se non praticano in modo assiduo (i «quotidianamente, non assidui» sono il 17,8% della
popolazione, i «settimanalmente» sono il 9,3%). Se è vero che diminuiscono le persone che
si definiscono «religiose», sono in aumento quelle che si definiscono «spirituali anche se non
religiose». Da una generazione all’altra questo è il gruppo che cresce di più: dal 4% di chi
ha più di 60 anni al 19% dei giovani (grafico 6). Vi è cioè una forte domanda spirituale
che si manifesta in forme nuove e ha bisogno di essere interpretata (grafico 8). Le
domande incentrate sul bisogno di ricevere istruzioni vincolanti in base a cui orientare la
vita da un punto di vista etico perdono di rilievo rispetto a quelle incentrate sul bisogno di
condurre una vita realizzata, armoniosa, spiritualmente significativa, di non perdere e di
trovare sé stessi. In ciò pesa anche il fatto che le persone sono molto gelose della
propria autonomia – non a caso il rispetto dell’altro è professato come il valore più
grande oggi –, ed è a questa condizione che esse accettano di interloquire con una
proposta di salvezza intesa in senso anche religioso. Le Chiese del Triveneto inoltre possono
contare da un lato sul fatto, più volte ricordato, che si fa più fatica qui nel Nord-est a
pensare alla propria vita spirituale in assenza di qualsiasi riferimento di Chiesa, dall’altro
possono fare leva su alcune importanti risorse interne.
– Un clero qui ancora numeroso, nonostante il calo, certamente affaticato, ma
radicato, capace di capire quello che la gente vive, socialmente riconosciuto. Dall’indagine
emerge che i parroci sono conosciuti dalla grande maggioranza della popolazione: un
quarto circa (25,4%) conosce bene il proprio; più della metà ha rapporti verbali con lui
(57%), solo il 12,7% non sa chi sia;
– Una parrocchia meno centrale di un tempo, certamente più in difficoltà, ma
ancora valutata positivamente da molti, anche quando vi appartengono poco. Il giudizio
sulla vivacità della parrocchia è infatti positivo: solo il 23,2% tra chi è in grado di esprimere
un giudizio perché la conosce la considera «spenta» e non viva. Meno lusinghiero quello
sulla sua capacità di offrire stimoli per la vita morale e spirituale. Quasi la metà ritiene che
essa non offra mai o solo poche volte stimoli importanti per la propria vita morale e
spirituale. Si potrebbe dire che la parrocchia è più vitale dal punto di vista socialerelazionale che dal punto di vista della capacità di interloquire con la domanda
spirituale attuale. Questa è una delle sfide più importanti che le Chiese del Nord-est si
troveranno ad affrontare nei prossimi anni.
– Una partecipazione estesa a gruppi religiosi (soprattutto parrocchiali, di associazioni e
di volontariato; meno incidenti da un punto di vista quantitativo sono nel Nord-est i
movimenti religiosi). La partecipazione ai gruppi religiosi coinvolge una quota notevole della
popolazione (12%),superiore a quella italiana.
Alessandro Castegnaro
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