Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO EDITORIALE Ai lettori di Gigi Anataloni CONSUMARSI FINO ALL’ULTIMO amiglie». Questa è l’ultima parola che ha scritto. Poi basta. Non aveva più niente da dare. Consumata fino all’ultimo. Prima in Africa e poi in Italia, ha registrato pensieri, conferenze, prediche, interventi, emozioni, critiche e arrabbiature, pensieri santi e programmi di lavoro, numeri e parole. In quest’epoca digitale non capita spesso di assistere a una fine così, dopo chilometri di parole scritte fino all’esaurimento totale. La fine della mia penna biro. Gli ultimi giorni di carnevale, vigilia di quaresima. Quaresima, il tempo che si conclude con un soffio: «Tutto è compiuto»! (Gv 19,30). Consummatum est! Le ultime parole di Uno che ha dato tutto per amore. Non vogliatemene se oso mettere vicini una vecchia biro e il Figlio di Dio in croce. Ma mi sento in buona compagnia. «Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio», aveva scritto Madre Teresa. La fine della mia penna, che ha servito fino all’ultimo, mi ha un po’ emozionato e fatto pensare. • All’Allamano, il beato che noi vorremmo presto santo - come non lo fosse già -, che nel suo testamento ha scritto ai missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro, vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo». • Al mio compagno di noviziato, amico e fratello in Italia e in Kenya, padre Giuseppe Ettorri, consumato dalla malattia a sessant’anni, il 23 febbraio di quattro anni fa. Il tutto era esploso solo pochi giorni prima, proprio il 16, giorno anniversario della morte del beato Allamano. • A suor Paolita, di cui a metà gennaio di quest’anno ho benedetto il funerale, mia immancabile compagna di banco durante la preghiera del mattino nella chiesa del beato Allamano, che è andata in cielo a «esultare di gioia indicibile e gloriosa» avendo conseguito la Meta di tutta una vita di fede e dedizione (cfr. 1 Pt 1,8-9 e Eb 12,2). • A padre Giorda, di cui scriviamo questo mese, ripartito per il Tanzania alla bella età di 87 anni, con in cuore un motto: «Punda afe, mizigo afike!» (muoia l’asino, [purché] il carico [la Buona Notizia di Gesù] arrivi». « F ensieri arruffati. Molti i volti che si affollano nel cuore. Persone che non hanno ancora finito di consumare il loro inchiostro e persone che hanno dato tutto raggiungendo la Meta dopo una corsa gagliarda, guardando in avanti. Questi ultimi mi ispirano una gioia profonda perché sono giunti là dove avevano tanto desiderato arrivare, liberandosi nel lungo viaggio di tutto il superfluo per acquistare il solo Tesoro (cfr. Mc 10, 21) per cui vale spendere la vita. Persone che nel loro cammino hanno irradiato speranza, comunicato serenità, condiviso amore. Non «facce da quaresima», ma piccole umili luci della Pasqua. La Pasqua, memoriale dell’avvenimento centrale della nostra fede senza il quale il Cristianesimo sarebbe solo una religione come tante, è ormai imminente. Guardiamo a Colui che ha vinto la morte e il male consumandosi sino all’ultimo per far trionfare la vita e l’amore. Ricarichiamoci di luce per continuare a tracciare segni - seppur piccoli - di speranza, di coraggio, di gratuità, di gioia e di fraternità in un mondo avvolto dall’oscurità della disperazione, della violenza, del sopruso e dell’avidità. Buona Pasqua. P Cari lettori, vi ricordo che la rivista è disponibile sull’Internet anche come pdf sfogliabile (scaricabile su computer e tablet). Approfittatene. Se vi piace, fatela conoscere e, magari, dateci una mano. Grazie. APRILE 2014 MC 3 SOMMARIO 4 | APRILE 2014 | ANNO 116 3 ai lettori CONSUMARSI FINO ALL’ULTIMO Il numero è stato chiuso in redazione il 7 Marzo 2014. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 31 Marzo 2014. di Gigi Anataloni 5 dai lettori CARI MISSIONARI OSSIER (lettere a MC) ARTICOLI 10 Kosovo MINORANZA SERBA SOTTO ATTACCO 10 15 di Enrico Vigna 15 tanzania L’ASINO MUOIA, MA IL CARICO ARRIVI 35 di Luca Lorusso 21 brasile - bahia LE LUNGHE TRECCE reportage / myanmar la nuova via birmana di Angela Lano 28 italia MIGRAZIONI MAI IN CRISI di di Paolo Deriu 51 Cina SILENZIO SU ILHAM TOHTI di Alessandra Cappelletti 57 rd Congo NEL CUORE DELL’AFRICA di David Moke 62 eCuador TRA BELLEZZA E PROBLEMI di Giuseppe Ramponi piergiorgio pesCali RUBRICHE 8 Chiesa nel mondo 21 51 di Sergio Frassetto 70 Cooperando di Chiara Giovetti 75 libertà religiosa - 18 FEDI E LAICITÀ 65 malawi MISSIONE DIFFICILE, PRESIDENTE di Paolo Bertezzolo 79 4 ChiaCChiere Con di Michele Vollaro 32 pillole «allamano» RELIGIONE E FELICITÀ di Mario Bandera di Ugo Pozzoli di Gabriella Mancini 81 mediamente IN COPERTINA: Lago Inle in Myanmar, pesca all’alba (Foto: Piergiorgio Pescali). Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC APRILE 2014 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri dell’amore sull’odio, della gratuità sull’utilitarismo e il calcolo. IL SEGNO DEI CRISTIANI Egregio Padre, sovente mi chiedo perché il segno dei cristiani debba ricordare la croce e non la risurrezione, visto che, come dice Paolo di Tarso, «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15,14); non solo, ma la risurrezione include in ogni caso anche la morte. Dopo due millenni di cristianesimo possibile che non si sia affrontato l’argomento, al di là delle speculazioni sui primi cristiani? Da un po’ di tempo quando entro in chiesa mi segno dicendo: «Nel nome del Padre che ha risuscitato il Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Amen». Gradirei un suo parere in proposito. Grazie. Vincenzo Palumbo Moncalieri (TO) Caro Vincenzo, trovo molto interessante la sua domanda. Credo che la risposta non stia tanto nella modifica delle parole quanto nella comprensione dei significati nascosti in quell’umile segno cui siamo così abituati. Due i livelli da considerare: le parole e il segno. LE PAROLE. L’espressione si trova in Mt 28,19: «Battezzandoli nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo». È messa in bocca a Gesù stesso e riflette certamente il modo di battezzare della comunità cristiana primitiva. Le parole «nel nome» indicano un rapporto personale, una relazione con qualcuno vivo. Nella Bibbia il nome è la persona. E certo ricorda la scena di Mosè che chiede a Dio il suo nome MC, TROPPO POLEMICA? (Es 3,13-14). Conoscere il nome di qualcuno o dare il nome è molto più della banalizzazione burocratica a cui siamo abituati oggi, quando il nome diventa una cifra in un computer. È invece entrare in un rapporto personale di amicizia e di famigliarità. In questo caso è entrare nella comunità trinitaria, Padre, Figlio e Spirito. Pronunciare quindi queste parole ha una doppia valenza: è un atto di fede nel Dio Uno e Trino, ma è anche riconoscere con meraviglia e timore che Dio mi ama e mi accoglie, mi rende parte del calore della sua famiglia. IL SEGNO. Ricorda la croce di Cristo: palo del patibolo, albero della vita, trono della gloria dal quale Gesù attrae tutti a sé, scala che congiunge cielo e terra, fontana e sorgente del fiume di acqua viva che rigenera l’umanità nuova, torchio del vino nuovo. Le citazioni bibliche e patristiche in proposito sono innumerevoli. Basti ricordare come Giovanni racconta la crocifissione (cfr. Gv 12,32; 3,14; 8,28; 19,16-37). Nella comprensione della fede, la croce non è mai solo morte, ma è il segno rivelatore del trionfo dell’amore di Dio che nel dono totale di sé vince una volta per tutte la morte e il pec- cato. In più questo segno è carico di altri significati: - toccandoci la testa, il petto e le braccia ricordiamo l’espressione «amare Dio (e il prossimo) con tutto il cuore, con tutta la mente e tutte le forze» (Dt 6,4-5; Mc 12,29-31) e rinnoviamo quindi il nostro impegno di coinvolgere la totalità della nostra persona pensieri, affetti e opere (e cose possedute) - per «fare bene il bene» (Allamano), affinché «vedendo le vostre opere belle rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16); - il braccio verticale della croce ci ricorda che nel Crocefisso è ristabilito il legame, la comunicazione tra cielo e terra, già spezzato col peccato presso il primo albero (Gn 3,1-6); la croce ci rimette in comunione con Dio; - il braccio orizzontale ci richiama alla comunione con gli altri, l’abbraccio di Gesù per tutta l’umanità e per ciascuno di noi; la croce ci permette di costruire relazioni nuove con tutti gli uomini; - è anche scudo di protezione contro la tentazione, contro il male; - è segno di speranza perché proclama la vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre, Rev. padre, da tempo mi porto nel cuore una obiezione che trattenevo per timidezza. Preciso che nel 1973 fui in contatto con voi per verificare se la vita missionaria fosse adatta per me […] e così conobbi alcuni dei vostri missionari come p. Mura Salvatore e p. Vincenzo Pellegrino. La vostra rivista, mi perdoni, è troppo polemica (virtù che ascrivo ai torinesi e a pochi altri in Italia) in religione, in politica, in tutto. Si narra che Madre Teresa di Calcutta dicesse: «Chiedo di lavorare in carità, non guardo i governi». Conosco anche altre comunità missionarie e nessuno parla di politica. Accetto volentieri una sua, ma la penso così da decenni. Lorenzo B. email, 19/01/2014 Caro amico, anzitutto grazie di averci scritto. «La virtù della polemica è da ascriversi ai torinesi», scrive lei. Vorrebbe proprio dire che in redazione ci siamo inculturati bene, perché di torinesi veri e propri qui non ce ne sono: tutti acquisiti! Facezie a parte, mi preme precisare che i missionari della Consolata, nella loro storia, non hanno mai fatto delle scelte di campo in base all’approvazione o disapprovazione di un governo o un regime. Hanno sempre scelto in obbedienza a direttive specifiche di Propaganda Fide o secondo una lettura dei bisogni oggettivi di un paese alla luce del VangeAPRILE 2014 MC 5 [email protected] [email protected] lo. Con una scelta preferenziale: i posti più difficili, più poveri, più impegnativi. Basti pensare all’impegno nel Nord del Congo. Con questo non legittimano situazioni politiche discutibili, piuttosto vivono il principio che il missionario non è un agente politico ma un servo del Vangelo. Il che non significa che un missionario non faccia politica, perché con le sue scelte in favore dei poveri, degli esclusi, dei popoli minoritari e delle periferie, di fatto fa politica. E diventa una spina nel fianco di poteri ingiusti, illiberali e diseguali, ma anche di quei poteri che in nome della democrazia in realtà sfruttano e schiavizzano intere popolazioni. Volente o nolente il missionario fa politica anche quando semplicemente propone la pace invece della guerra, il perdono invece della vendetta, la gratuità invece del profitto, il rispetto della diversità invece dell’omologazione, la difesa della vita per quello che è invece che per quello che rende, la giustizia invece dei privilegi. Come rivista cerchiamo di essere prudenti per non danneggiare chi vive sul terreno e potrebbe pagare per nostre espressioni troppo esplicite. Preferiamo far parlare la Chiesa locale, evitando nostre opinioni personali e usando invece documenti o interviste di religiosi e vescovi dei diversi paesi di cui scriviamo. Troppo polemici? Non è nostra intenzione. Cerchiamo il più possibile di offrire un’informazione onesta e documentata. Riteniamo però alienante parlare di poveri senza affrontare le cause della povertà, di orfani senza approfondire il perché del loro abbandono, di malati senza capire perché non hanno cure, di guerre e violenze senza analizzarne le cause im- 6 MC APRILE 2014 mediate e remote. Ci sembra un nostro dovere, scrivendo su una rivista mensile, fornire un’informazione approfondita e non edulcorata sulla realtà del mondo. I NON CRISTIANI SI SALVANO? Mia nipote mi ha posto alcune domande partendo dal fatto che ha un ragazzo albanese di famiglia musulmana. La prima domanda è: chi è nato in una nazione non cristiana e pertanto assume per default la religione del posto, qualunque essa sia, sarà convinto della sua verità e del suo Dio. Se Dio si presenta loro in punto di morte e loro non possono accettarlo avendone sempre avuto un altro, sono tutti destinati all’Inferno? O in un altro caso, ammettendo che alcuni di loro decidano di accettarlo e questo sia sufficiente per la salvezza, perché mai noi dovremmo fare tanta fatica per tutta una vita se poi basta sinceramente pentirsi alla fine? La seconda domanda è: come sai che qualsiasi libro che sia stato scritto in materia, Bibbia inclusa, non contenga in parte o in totalità delle cose non vere visto che non esiste possibilità di verifica? Figlia della luce 20/12/2013 Cara lettrice, noi (cristiani) crediamo che Dio è uno solo: ieri, oggi e sempre, anche quando è conosciuto sotto nomi differenti. E questo Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,3-4). E gli uomini sono fatti per conoscere e amare Dio perché portiamo il suo imprint: sono fatti a sua immagine e somiglianza. Da sempre nella storia dell’umanità la fede nell’esistenza di Dio è una di- mensione fondamentale di ogni cultura. È solo negli ultimissimi secoli, e nella nostra cultura occidentale che degli uomini si sono ufficialmente dichiarati agnostici o atei e sostengono che Dio non esista e sia solo un’invenzione. Attraverso i secoli e i continenti, popoli diversi hanno imparato a conoscere Dio a tentoni (At 17,24-28) e ciascuno l’ha chiamato secondo la propria lingua, celebrato con i propri riti e capito secondo la propria teologia. Dalla comprensione di Dio e dall’esperienza quotidiana, ogni popolo si è dato regole di vita in base alle quali una persona è considerata giusta, buona e rispettabile. Parafrasando le parole di s. Paolo nel testo sopra citato, possiamo dire che seguendo il meglio delle proprie tradizioni umane e religiose ogni uomo ha potuto realizzare la sua vocazione fondamentale: quella di essere immagine («stirpe») di Dio (cfr. Gn 1,26). È vero che nella storia della Chiesa questa visione è stata spesso dimenticata ed è prevalsa l’idea che tutti i non battezzati fossero destinati alla dannazione eterna, con conseguenze anche gravi, come il battesimo forzato dei popoli latino-americani. Ma il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avuto il merito di purificare la Chiesa da queste visioni non evangeliche della storia della salvezza. Basti per questo la costituzione Gaudium et Spes: n.16, sulla coscienza retta; n.17 sulla libertà; n.58, su Vangelo e culture; oppure Lumen Gentium: n.16 sui non cristiani; o la brevissima dichiarazione Nostra Aetate firmata da Paolo VI. Così, circa la prima domanda, questo è ciò che si pensa oggi nella Chiesa. Ogni uomo ha una capacità naturale di relazionarsi con Dio, perché creato da Dio. Ognuno è chiamato a vivere una vita retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza; su questo sarà valutato e non su quello che non conosce. Gesù è morto e risorto per salvare tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni angolo del mondo, non solo chi espressamente lo riconosce e aderisce a lui liberamente e coscientemente con un atto di fede e col battesimo. La «condanna» è per chi coscientemente non vive secondo gli standard migliori della sua cultura. Non si tratta quindi di una decisione all’ultimo minuto per il Dio dei cristiani, ma di un modo continuo di essere persona degna, onorata e giusta, secondo una coscienza retta. Ciascuno è chiamato a rispondere per quello che sa, non quello che ignora senza colpa. Questo vale per il non-cristiano quanto per il cristiano. Non c’è illuminazione dell’ultimo minuto. La seconda domanda: «Chi ci assicura che la Bibbia non contenga sbagli?». Nessuno. La Bibbia contiene sbagli scientifici, geografici e storici perché non è né un libro di storia né di geografia né di scienze. Scritta nell’arco di oltre 1000 anni, la biblioteca della Bibbia è condizionata dalle conoscenze degli uomini contemporanei a ciascuno dei suoi libri. Anche dal punto di vista religioso la Bibbia contiene una progressione tra le idee ed le esperienze raccontate nei suoi libri più antichi e quelle contenute nei libri conclusivi come quelli del Nuovo Testamento. Questo perché non è un unico libro «di religione» scritto da un solo autore che ne ha poi revisionato attentamente ogni parte per una perfetta armonizzazione di tutto e l’eliminazione delle contraddizioni o degli elementi sfavorevoli. La Bibbia riflette il cam- Cari mission@ri mino di fede di un popolo che a fatica è cresciuto nella sua comprensione delle cose di Dio e si racconta, offrendo ai lettori una testimonianza del proprio cammino spesso faticoso. Fino alla testimonianza di Gesù Cristo, figlio dell’uomo e figlio di Dio. Testimonianza ancora una volta affidata alla fragilità di altri uomini. Come possiamo verificare allora che la Bibbia dice parole vere su Dio? Prima che un libro di idee e di dogmi, la Bibbia è un libro di persone che hanno creduto e offrono liberamente la loro testimonianza su quello che hanno visto, toccato, udito, incontrato e amato (cfr. 1 Gv 1,1-4), su quello che ha dato senso alla loro vita. La verità si scopre solo accettando di entrare in relazione con dei testimoni e attraverso loro con Colui che loro hanno conosciuto e amato. NON SONO D’ACCORDO Carissimo direttore. Sono un fedelissimo della vostra rivista missionaria e apprezzo sempre leggere gli articoli sui/dei missionari della Consolata [...]. Vorrei farle notare, per la mia esperienza di missionarietà acquisita sul campo a fianco di padre Noè (Cereda) nell’isola dei lemuri (Madagascar), che non sono per niente d’accordo sull’introduzione del suo editoriale «Santa audacia» (gen. 2014) quando confonde il potere temporale della Chiesa con la vera storia della nostra cristianità , «con la nostra fede che ha perso sapore per non essere più in grado di creare Chiese di bellezze straordinaria» … (sic!). Personalmente credo che Papa Francesco nel suo dire si riferisca ad altre gioie, ad altre bellezze e ad altra audacia. È un richiamo a essere meno succubi alle realtà dorate di questo millennio. È il denaro, la ricchezza e la fame di vanagloria che la nostra società ci presenta come l‘inizio di una felicità eterna. Riuscire a non farci trascinare nel «così fan tutti» e superare le barriere di chi sposa il faceto e le tendenze dell’egoismo più sfrenato è sicuramente l’audacia che ci chiede Papa Francesco. Una frase che ha detto ai cristiani è sulla bocca di tutti: «I fondatori della chiesa Cattolica non avevano il libretto degli assegni». Nel mio piccolo ritengo, senza supponenza, che ne passa di acqua nella storia fra scelte condivise e oppressioni tipiche del medioevo verso i più deboli, depredati dai pochi ricchi che avevano anche i privilegi dello ius primae noctis. In terra di missione è la fede della gente che fa la differenza, e non certamente le chiese gotiche che da ai nuovi cristiani la gioia di amare, la bellezza della loro anima e l’audacia di professarsi cristiani e distinguersi nel sacrificio verso i propri fratelli a scapito della loro vita. Da noi è l’egoismo che impera nella società, è l’indifferenza di tanti nuclei famigliari che davanti a tanti fratelli meno fortunati si chiudono in «chi se ne frega». L’importante è che a noi non manchi nulla. Non si può certo fare di ogni erba un fascio dimenticando che per chi vuol essere «credente» la carità è la massima espressione del cristianesimo sia nelle parrocchie che nelle missioni sparse in tutto il mondo, una carità che parte dal cuore e irradia l’universo di gioia, di bellezza e di audacia senza se e senza ma come tantissime persone impegnate in associazioni che sacrificano per un messaggio solidale la loro vita per i propri fratelli. Per chiudere l’argomento credo che le chiese debbano essere dignitose in ogni parte del mondo, con un imperativo: «Non essere bellissime scatole, ma senza fedeli». Vuote. Giovanni Besana Missaglia (Lc), 30/01/2014 Caro Sig. Giovanni, grazie del suo interessante commento. Mi permetto solo di precisare che la mia frase è leggermente diversa da come lei l’ha riportata. Scrivevo: «Basti pensare a molte delle chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso livellate da un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco della gioiosa bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di una fede che ha perso il sapore, che non osa più». Con quello non intendevo certo esaltare il potere temporale della Chiesa, ma mi riferivo a un periodo della nostra storia, il Medioevo, su cui abbiamo delle opinioni diverse. Le chiese gotiche non sono frutto di un periodo cupo e triste della nostra storia ma espressione di un mondo pieno di luce, colore, slancio e speranza. Le comunità cittadine che costruirono tali cattedrali vivevano tempi d’intensa vitalità economica e culturale e di relativa pace, nei quali, accanto a mura e castelli, era anche possibile costruire, con il lavoro di tutti, la casa della comunità, in cui celebrare le feste, dare rifugio ai pellegrini e viandanti, trovare asilo in tempi di calamità e di abusi da parte dei poteri politici. Quanto alle oppressioni verso i deboli da parte di pochi ricchi predatori, credo proprio che noi oggi abbiamo ben poco da insegnare a riguardo, giacché, nonostante la crisi economica tocchi tutto il mondo, i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri impoveriscono sempre di più e la classe media scompare. Storia di oggi, non del Medioevo. E lo «jus primae noctis» lasciamolo al mondo delle bufale rinascimentali cui appartiene, come tanti altri luoghi comuni sul Medioevo come scrive Alessandro Barbero (vedi l’articolo su La Stampa del 28.8.2013, pag. 30-31 e l’intervista su Zenit.org del 16.9.2013). «Tutti quelli che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi, la associano a un’alterità barbarica, all’esotismo dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran fascino, che è l’esotismo del passato. Ed è il motivo per cui da queste leggende è così difficile liberarsi. Non importa se da cento anni nessuno storico serio le ripete più, e se grandi studiosi come Jacques Le Goff hanno insistito tutta la vita a parlare della luce del Medioevo. Nel nostro immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che vivevano allora». La realtà è che nella storia la costruzione di una cattedrale non ha mai portato alcuna città alla bancarotta, mentre, ad esempio, certe faraoniche costruzioni olimpiche hanno invece rovinato delle nazioni. APRILE 2014 MC 7 La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto BRASILE COREA DEL SUD GIOCARE A FAVORE DELLA VITA MARTIRI COREANI P iù di 30 mila religiose, quasi 8 mila sacerdoti e circa 2.700 fratelli religiosi si sono mobilitati per una campagna di prevenzione che avrà inizio il 18 maggio in tutte le città sedi del Campionato Mondiale di Calcio per aumentare la consapevolezza della popolazione su problemi come la tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale nel paese. Si tratta della campagna «Giocare a favore della vita», promossa dalla Conferenza dei Religiosi del Brasile (Crb), che si concentrerà principalmente sulla «prevenzione e informazione». La tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale sono una minaccia per molti bambini, giovani e adulti, che muove miliardi di dollari. Eventi internazionali come la Coppa del Mondo di calcio, finiscono per essere occasioni per la pratica di questo crimine, dal momento che in molti casi i bambini sono adottati illegalmente e gli adolescenti sono coinvolti inizialmente per la promozione dello sport, ma poi vengono immersi nelle reti di sfruttamento sessuale. (Radio Vaticana) l 7 febbraio scorso, Papa Francesco ha autorizzato la CongreIgazione per le cause dei Santi a promulgare il decreto per il martirio dei servi di Dio Paolo Yun Jichung, laico, e 123 compagni, uccisi in Corea in odium fidei tra il 1791 e il 1888. È stato Giovanni Paolo II ad aprire la strada degli altari al gruppo nel 2003, quando li ha proclamati Servi di Dio. Lo stesso papa polacco aveva canonizzato nella sua prima visita in Corea, nel 1984, il sacerdote Andrea Kim e altri 102 martiri. L’epopea dei martiri coreani - dal 1785 fino al 1882 sono stati uccisi più di 10 mila cattolici, dei quali solo 10 erano stranieri - è una fonte di ispirazione e di rinnovamento per la Chiesa di Corea che dedica il mese di settembre al culto e al pellegrinaggio ai luoghi del martirio. Nel mese di luglio 2013 si era tenuta addirittura una «Maratona del rosario», per chiedere a Dio la canonizzazione di Paolo Yun e dei suoi compagni. La beatificazione dovrebbe avvenire il 15 agosto e a proclamarla probabilmente sarà lo stesso Papa Francesco. Il pontefice, infatti, do- vrebbe essere in Corea del Sud fin dal 13 agosto per l’apertura della Giornata asiatica della gioventù, che si terrà a Daejon e il cui tema sarà: «Giovani dell’Asia, svegliatevi! La gloria dei martiri risplende su di voi». (AsiaNews) BANGLADESH MUSULMANI ALL’ASCOLTO n Bangladesh il 99% degli ascoltatori dell’emittente cattolica IRadio Veritas Asia (Rva) è musulmano e ammette di avere «una vita migliore» da quando segue i programmi. Radio Veritas Asia è un’emittente radiofonica cattolica con base a Fairview (Quezon City), nelle Filippine, che risponde alla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc). Chiamata anche «Il missionario dell’Asia» e «La voce della cristianità asiatica», Rva offre stazioni in diversi paesi del continente. L’edizione bengalese va in onda da 33 anni, conta 1 milione di ascoltatori ed è gestita dal Christian Communication Center. Tra gli argomenti trattati dai programmi vi sono questioni familiari, sulle donne, economia, scienza e notizie dal mondo. Inoltre si trasmettono letture dai testi sacri del buddismo, cristianesimo, induismo e islam. «Ascoltando questa radio - sottolinea un fan - le persone si sentono più motivate ad aiutare la società. E soprattutto nelle aree rurali la loro vita sta cambiando in modo positivo». (AsiaNews) # Brasile - il logo della campagna «Giocare a favore della vita». 8 MC APRILE 2014 La Chiesa nel mondo PAKISTAN CONTINUARE L’OPERA iamo determinati a continuare con maggiore forza «S l’opera iniziata da Shahbaz, perché il suo sacrificio possa diventare sempre più un seme per la pace in Pakistan e in tutto il mondo. E attraverso la nostra fede in Gesù, vogliamo mandare un messaggio di armonia e convivenza che sia per tutti, cristiani e musulmani, e per tutte le vittime di una ideologia violenta». Con queste parole Paul Bhatti - ex ministro federale per l’Armonia nazionale e leader dell’Apma (All Pakistan Miniorities Alliance) rilancia l’impegno nella lotta all’estremismo in Pakistan. Egli sa di essere nel mirino dei talebani e dell’ala fondamentalista, la stessa che ha rivendicato l’assassinio di suo fratello Shahbaz Bhatti il 2 marzo 2011, «ma - commenta continuiamo a lottare per le vittime delle violenze e delle ingiustizie». In meno di due anni, e pur fra numerosi ostacoli e limiti, egli ha saputo ottenere la liberazione di Rimsha Masih, minorenne cristiana con problemi mentali accusata (ingiustamente) di blasfemia, e ha promosso iniziative incentrate sul dialogo interreligioso e la riconciliazione fra le diverse anime della nazione. Per questo Paul oggi, come Shahbaz in pas- sato, viene visto come un «infedele», una spia legata all’Occidente e che perciò va combattuta. (AsiaNews) MESSICO I SOCIAL NETWORK ltre 200 tra sacerdoti, seminaristi, religiosi e laici hanno dato O vita al V Sinodo diocesano dell’arcidiocesi di Puebla che ha studiato come utilizzare le reti sociali, i media digitali e Internet per diffondere i valori della Chiesa cattolica. «Alla luce della parola di Dio e dell’insegnamento del magistero, dobbiamo vedere come possiamo svolgere meglio il servizio al popolo di Dio nell’opera di evangelizzazione» ha affermato il vescovo ausiliare di Puebla, mons. Eugenio Andrés Lira Rugarcía. «Come ci dice Papa Francesco - ha aggiunto il vescovo -, i media sono doni di Dio, sono opportunità per avvicinarsi e incontrarsi: è una realtà che la Chiesa sta usando, ma dobbiamo fare di meglio. Un esempio è dato dalla possibilità di seguire in modo sem- pre più veloce i fatti del mondo e le attività del Santo Padre come è successo per la foto del Papa apparsa sulla copertina della rivista Rolling Stone il 13 febbraio, e la foto di un graffito fatto in una strada di Roma vicino al Vaticano, con il Papa in versione «Super eroe»: due immagini che, in pochi secondi, hanno girato il mondo via social network e media internet. (Fides) MYANMAR INSIEME PER LA MADONNA arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, ha presieduto le L’ solenni celebrazioni per i 112 anni del Santuario mariano di Nostra Signora di Lourdes a Nyaunglebin a cui hanno preso parte oltre 100 mila persone - cristiani, buddisti, musulmani e indù - che hanno affollato il santuario per pregare la Madonna e chiedere pace giustizia e sviluppo umano in Myanmar e la fine delle violenze confessionali soprattutto fra buddisti e musulmani. I cattolici birmani sono una piccolissima percentuale sul totale (poco più dell’1%), ma la loro presenza associata all’impegno nei settori dell’istruzione e dello sviluppo umano e il loro lavoro verso l’unità e la pace sono fondamentali in una realtà contraddistinta da conflitti etnici e scontri interconfessionali. (AsiaNews) ECUADOR: NUOVO VESCOVO DI SUCUMBÍOS ndigeni e comunità afro e contadine hanno accolto con una partecipazione di massa mons. Celmo Lazzari, C.s.i., che il 1° febbraio si è insediato come vescovo del Vicariato Apostolico di San Miguel de Sucumbíos. Erano presenti tutte le parrocchie, i cui fedeli hanno preparato una sfilata multicolore per le strade di Nueva Loja, esprimendo i loro sentimenti di gioia e di speranza per l'arrivo del nuovo vescovo, a più di tre anni dalle dimissioni del suo predecessore. Alla cerimonia di insediamento hanno partecipato diversi vescovi dell’Ecuador. Dalla Colombia, precisamente dal Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, è arrivato mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, I.m.c., che ha espresso il suo desiderio di riprendere la collaborazione tra le Chiese sorelle del confine, dove molti hanno bisogno del sostegno della Chiesa: «Abbiamo grandi sfide nelle comunità di confine e dobbiamo vedere come possiamo lavorare insieme a queste persone» ha detto mons. Pinzón Güiza. (Fides) I # Ecuador - mons. Celmo Lazzari saluta i fedeli accorsi alla sua entrata nel vicariato di Sucumbíos. © Afp photo / Armend Nimani KOSOVO di ENRICO VIGNA Chiese ortodosse bruciate, cimiteri serbi vandalizzati, libertà di movimento limitata, identità e cultura negate. La minoranza serba in Kosovo, costretta in una condizione di apartheid, vede i propri diritti fondamentali violati. Segno di un paese che, nonostante l’avallo internazionale, rimane distante dagli standard minimi della democrazia. 10 MC APRILE 2014 I GIORNI DELLA SPIRITUALITÀ E DEL RACCOGLIMENTO NEL KOSOVO MARTORIATO MINORANZA SERBA SOTTO ATTACCO D opo l’intervento militare della Nato nel 1999, la regione del Kosovo è stata posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il controllo è stato assunto dalla maggioranza albanese, e la popolazione serba è fuggita in gran parte in Serbia. Le minoranze rimaste vivono attualmente in piccole enclaves protette dalle forze internazionali. Il 17 febbraio 2008 il Kosovo si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da parte di 106 stati, tra cui gli Usa che vi hanno insediato una importante base militare (Camp Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di Giustizia ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo non era stata un atto contrario al diritto internazionale. La Serbia non riconosce la secessione di un territorio che rappresenta la culla della sua cultura. La dichiarazione della Corte è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’Onu nel settembre del 20101. Un narcostato nel cuore dell’Europa Nonostante siano passati 15 anni dai bombardamenti scatenati dalla Nato e dall’inizio del processo di secessione e indipendenza della regione kosovara dalla Repubblica di Serbia, la «questione Kosovo» continua a essere un nodo irrisolto. La comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza» si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è stato così. E lo dimostrano i quo- Feste serbe e apartheid A cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di quello nuovo in Kosovo Metohija (così viene chiamata la regione del Kosovo dalla popolazione serba, ndr) i serbi vivono le ricorrenze cristiane, come la memoria dei morti, a novembre, e il Natale ortodosso, il 7 gennaio, con una particolare intensità. Nella tradizione e nella cultura slava non c’è molta differenza tra credenti e laici in quei giorni. Tutti vivono le celebrazioni con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi sindacalisti. Diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma accomunati dalla medesima situazione. Ciascuno © Af. Mc/Enrico Vigna tidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i soprusi. Il Kosovo indipendente, scosso da conflittualità e turbolenze, dopo quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea (Agenzia Antidroga Usa) un «narcostato nel cuore dell’Europa». Esso si regge su due stampelle: una militare, cioè la presenza delle forze Nato-Eulex (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), l’altra economica, cioè la proliferazione di attività criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a quello delle donne, degli organi e delle armi. © Af. Mc/Enrico Vigna 17 febbraio 2014. Kosovari con bandiere albanesi durante le celebrazioni per il 6° anniversario della dichiarazione di indipendenza del Kosovo dalla Serbia. | Qui a destra: in Kosovo ci sono chiese e monasteri ortodossi di grande valore artistico, risalenti al periodo 1200-1600. Quattro di questi, il Monastero di Dečani, quello di Peć, di Gračanica e la chiesa della Vergine di Ljevisa, nel 2006 sono stati inseriti dall’Unesco tra i beni in pericolo. | Sotto: immagini di tombe vandalizzate nel cimitero di Pristina. © carolyntravels.com # A sinistra: Pristina, capitale del Kosovo, possiede radici spirituali profonde e salde. Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti di Serbia virtuale, è il popolo serbo. Ed è probabilmente anche grazie a queste radici che esso resiste alle aggressioni straniere. E forse in modo ancora più profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la resistenza dei serbi del Kosovo nella loro tragica realtà: essere prigionieri di una moderna forma di apartheid nelle enclavi in cui nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo viene rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi dieci articoli della Convenzione sui diritti dell’infanzia. Nello stesso momento in cui il Consiglio europeo discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo Metohija, stato considerato da molti artificiale e illegale, avvengono gravi violazioni dei diritti fondamentali, tra cui, non ultimo, il diritto di credo, con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni di tombe di famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali. Così è stato nel novembre scorso, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi. Cimiteri off limits, maiali e profanazioni La realtà dei cimiteri e dei luoghi sacri nel Kosovo Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei serbo kosovari. Il «diritto» per un serbo di visitare le tombe dei propri cari, dal 2013 è passato da due volte all’anno a una sola volta. Dal 2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri cimiteri sotto scorta militare e, spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi. Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono lasciati pascolare maiali provocatoriamente. Non è raro che le tombe e le lapidi vengano spaccate e violate a colpi di mazza. Nel cimitero del paese di Istok (in cui sono rimaste alcune famiglie serbe), oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte. Il cimitero di Peć, uno dei più grandi cimiteri ortodossi in Kosovo, è stato trasformato in una APRILE 2014 MC 11 KOSOVO discarica. I vandali hanno distrutto non solo le lapidi in marmo, ma anche le bare, e molti corpi e ossa dei defunti sono stati estratti e portati via. A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo ha denunciato un sacerdote della diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje. Altre tombe sono state profanate a Klokot, 27 sono state distrutte. A Milosevo, Plemetina e Priluzje è stato usato dell’esplosivo per far saltare pietre tombali appartenenti a famiglie serbe locali. e religiosa, che qui più che altrove si fonde con la loro identità nazionale e culturale. Nell’ultimo viaggio di solidarietà organizzato dalla nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni interne alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e vessazioni, infatti, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia; mentre altri ritengono che fare questo significhi la resa totale, la consegna dei propri luoghi sacri, della propria anima, della propria storia, identità, e radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia. Anche questi avvenimenti fanno parte della realtà dei serbi resistenti nella propria terra kosovara. Anche queste umiliazioni sono pane quotidiano. L’obiettivo è quello di ferire, violentare e annientare la loro identità spirituale Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e libertà» oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a pre- Ferite all’identità e all’unità © mospat.ru I piromani a protezione del patrimonio incendiato A quindici anni dalla guerra Il Kosovo Metohija oggi opo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione del Kosovo di oggi, secondo le fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, e alcuni mass media internazionali: - 400mila militari Nato e Kfor si sono avvicendati in quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza contare quelli deceduti per l’uranio impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6 miliardi di dollari l’anno; - dei 461mila abitanti non albanesi (su 1.378.980) che popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono rimasti circa 100mila, di cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila scappati dalle pulizie etniche; - dei 55mila (su 125mila abitanti) serbi, rom e altri che vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi in un palazzo; - 70% di disoccupazione; - scoperte continuamente sedi di traffici di droga, armi, donne, organi; - attività produttive quasi completamente inesistenti; - agricoltura ridotta del 60% (una volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia); - miniere ferme o chiuse; D 12 MC APRILE 2014 - l’economia «sommersa» però determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si definisce un’economia «drogata»; - 148 chiese, monasteri, luoghi sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati; - 140mila case di serbi, rom e altre minoranze bruciate; - centinaia di attentati o violenze contro serbi e rom (uno ogni 120 ore); - secondo fonti della Kfor, vi sono attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi di vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio 2013); - l’Onu ha denunciato che l’82% dei finanziamenti dati al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes, cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni sono stati versati 3 miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue); - la mortalità infantile è del 3,5%, la più alta d’Europa; - oltre 2.500 serbi rapiti e/o assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si aggiungono 361 albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati collaborazionisti; - molti dei diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla Carta dell’Onu sono negati alle minoranze non albanesi rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali, acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici; MC ARTICOLI Hilarion visita le chiese distrutte. Sotto: chiesa di San Nicola, XIV secolo, bruciata. © kosovo.net - la popolazione non albanese in Kosovo, scampata alla pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un vero e proprio apartheid; - i diritti dei bambini, sanciti dalla Convenzione Onu del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi; - scienziati e fondazioni ambientaliste internazionali hanno denunciato il territorio del Kosovo come il più uranizzato d’Europa; - 1000 acri di terra (corrispondenti a circa 400 ettari, 800 campi da calcio) confiscati fino al 2099 per Camp Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del Vietnam. Essa può ospitare fino a 50mila persone; al suo interno ci sono 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84 chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo perimetro esterno sono compresi 320 chilometri di strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere cosa? In questa situazione l’ex mediatore Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che arrivava alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per concedere l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo sono 106. Enrico Vigna multietnica in Kosovo conta circa 200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim Ceku (nel periodo 1992-1995 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel genocidio dei serbi della Krajina), grande amico e legato strettamente a Stati Uniti e Germania. Il Natale nelle enclavi Così sono state vissute le giornate di novembre dedicate ai morti in quel lembo di mondo, e in modo simile sono passate le giornate della Natività. Va ricordato che la Chiesa serba celebra le sue festività secondo il calendario giuliano, risalente al 46 a.C., di 14 giorni in ritardo rispetto a quello Gregoriano (usato dalla Chiesa cattolica). I serbi festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio. In Kosovo Metohija oggi anche il Natale viene celebrato in condizioni molto diverse da quelle in cui è festeggiato in qualsiasi altro luogo del mondo. Esso è inserito nella vita dei ghetti, nella realtà delle enclavi, aree protette e delimitate materialmente, all’interno delle quali si svolge tutta la vita delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa uscire © 14words.net # Sopra: l’arcivescovo ortodosso cisi obblighi internazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice: «Il diritto di ciascun paese è quello di essere, con la piena sovranità, l’erede dei propri valori culturali che sono il frutto della sua storia, ed è suo dovere farne tesoro come valori che rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità». Evidentemente per la Serbia questo non vale. Nel frattempo, ad agosto 2013 il responsabile della Kosovo Spu (la polizia del Kosovo) ha annunciato che membri di una unità detta Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe assunto il ruolo di protezione del Patriarcato di Peć e di altri 24 siti religiosi - il monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze internazionali, essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse serbe già ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia # Cartina: La ripartizione etnica del Kosovo. Giallo: oltre 60% albanesi. Arancione: oltre 80% albanesi. Rosso: oltre 90% albanesi. Bordeaux: Albanesi che vivono fuori dal Kosovo. Viola: Per lo più serbi. APRILE 2014 MC 13 KOSOVO # Sotto: la tradizione natalizia del badnjak. | Accanto: un’immagine dei manifestanti albanesi, scattata dall’interno del pullman preso a sassate. © byztex.blogspot.com rischia la vita. In una vita priva di opportunità, dei diritti umani fondamentali, compreso quello di movimento, i cristiani serbi non possono dare seguito nemmeno alla loro tradizione, detta badnjak, che prevederebbe di andare nei boschi per tagliare il loro «albero di Natale», il yule log, ossia un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto. Il badnjak è un elemento centrale nella tradizionale celebrazione del Natale serbo. È un simbolo che la famiglia abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul fuoco la sera, perché bruci fino al giorno dopo. La combustione del log è accompagnata da preghiere in cui si domandano per l’anno nuovo felicità, amore, fortuna, ricchezza e cibo. Poiché oggi molti vivono in città, il badnjak è simbolicamente rappresentato da ramoscelli di quercia con delle foglie, acquistati in mercatini o ricevuti nelle chiese. Gli studiosi indicano l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione slava. Sassate, permessi rifiutati, espulsioni, arresti Il 6 gennaio un autobus serbo è stato preso a sassate da manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli anni passati erano fuggiti da Djakovica per rifugiarsi in Serbia, e che in occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro 14 MC APRILE 2014 paese d’origine e la locale chiesa dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata. L’automezzo, con vetri spaccati e passeggeri feriti è dovuto andare sotto scorta della polizia al monastero di Decani, protetto dalle forze internazionali. Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie: ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti albanesi per dimostrare che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio paese e non hanno diritto di celebrare la più gioiosa festa cristiana. Quest’anno, se si esclude il fatto di Djakovica, si potrebbe dire che il Natale sia trascorso bene, senza risse o spari. Ma il cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per dimostrare ai serbi e alla Serbia in quale direzione va il loro futuro: prima hanno rifiutato la richiesta del presidente della Serbia Nikolic di partecipare il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di Gracanica, poi il giorno di Natale il responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo serbo, Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin. «È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della quiete pubblica, addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale. Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta di pura ingiustizia», © amicididecani.it ha dichiarato in seguito Vulin. Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non esiste la libertà di movimento. Ma dicono che è democratico. Bambini invisibili Tuttavia, nonostante le condizioni disumanizzanti, ai bambini non manca la gioia per festeggiare il Natale. Essi sono invisibili per la cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione pubblica. A loro basta poco per lenire la barbarie delle loro vite negate dentro le enclavi: è sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e si rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi, vandali, criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore essi siano. E sono i bambini, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta. Che ci danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita, in questo occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali. Sono loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza in un mondo migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i costumi e le tradizioni. Enrico Vigna Presidente di SOS Yugoslavia SOS Kosovo Methoija www.sosyugoslaviakosovo.com Note: 1- Incipit tratto da deagostinigeografia.it TANZANIA Testo di LUCA LOrUssO Foto ArChiviO MC RITORNARE IN TANZANIA CON APPENA 62 ANNI DI MISSIONE SULLE SPALLE L’ASINO MUOIA, MA IL CARICO ARRIVI Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa. «N el 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni». La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio. Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, viAPRILE 2014 MC 15 tanzania Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione». vide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali. 16 MC APRILE 2014 Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te? «Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Quindi tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione? «No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southern Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in MC ARTICOLI # A sinistra: 1975, è il 25° di sacerdozio di padre Giovanni. Tosamaganga lo festeggia accogliendolo tra gli anziani della tribù. | Qui accanto: (da destra) p. Giorda, mons. Mgulunde e p. Ghiotti. seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me». Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale? «Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1 gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata. In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est». E i Missionari della Consolata quando sono arrivati? «Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi. Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919. Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”». Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue. «Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania. La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura APRILE 2014 MC 17 tanzania di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto. Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania». tornando a te. Dopo itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo? «Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho 18 MC APRILE 2014 # Qui accanto: padre Giovanni in mezzo agli anziani a Tosamaganga. | A destra: il nostro predica infervorato durante una Via Crucis, sempre a Tosamaganga. compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino». Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria? «Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro. Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore. Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù). Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”. Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare». Qual è lo stato attuale della Tanzania? «Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso». Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi? «I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio par- tito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni. La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare». Ci sono problemi di radicalismi religiosi. «Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%. In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare». Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va? «I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica». Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana? «Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il SiAPRILE 2014 MC 19 # Dalla foto in alto a sinistra, in senso orario: le missioni in cui padre Giovanni ha speso la sua vita missionaria. Tosamaganga (in una foto degli anni Trenta), Itengule, Ujewa, Kilolo e Chosi. nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione. Luca Lorusso CRONOLOGIA: 9 dicembre 1952: partenza da Venezia 24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga Fine 1952-Pasqua 1953: missione di gnore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi 20 MC APRILE 2014 missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli». Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di Malangali, Itengule Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa 1954-1965: Tosamaganga seminario 1965-1969: a Kilolo parroco 1970-1980: parroco a Tosamaganga 1981-1988: a Chosi 1989-2007: parroco a Tosamaganga 2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga. BRAsile - BAhiA Testo e foto di ANGELA LANO «Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora, adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani. Uomini neri di tutto il mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la nostra terra, la nostra patria (…). Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia, emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra». (Bob Marley) Religioni nellA BAhiA/1. nel Mondo dei RAstA LE LUNGHE l TRECCE a parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la musica reggae di Bob Marley, le lunghe trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70 per i diritti degli afrodiscendenti nel continente americano. In Bahia è molto comune incontrare rasta che suonano o ven- dono artigianato nel Pelorinho, il quartiere tipico di Salvador, o lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli paesi del litorale bahiano: si tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili, come Gabriel e la sua compagna brasile - bahia Il panafricanismo venuto dai Caraibi Il profeta Marcus I rasta considerano Marcus Mosiah Garvey un profeta, la cui ideologia e filosofia ha fortemente influenzato il movimento. Garvey promosse il «Nazionalismo nero» e il «Panafricanismo». Egli lavorò per la causa dei popoli neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee influenzarono molto le classi popolari in Giamaica e il rastafarismo stesso. Il panafricanismo è un movimento che incoraggia la solidarietà e l’unità tra i discendenti africani nella diaspora. La sua ideologia si basa sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli africani, sia nel continente sia nella diaspora, non condividono solo una storia comune ma anche un destino comune» (Minkah Makalani). L’organizzazione politica panafricana più grande e conosciuta è l’Unione Africana. Angela Lano «The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement Association Papers», vol. IX: Africa for the Africans, June 1921-December 1922. 22 MC APRILE 2014 italiana, a Diogo de Mata de Sâo Joâo; o Carlos, proprietario di un risto-bar attento ai segnali della natura, ostile al consumismo e agli sprechi; o Marquinho, che vive nel mezzo del mato, nella foresta, in una casina di adobe (mattoni di fango e paglia, ndr), circondato da animali, piante e sorgenti, dedicandosi a creare magnifiche collane, anelli e bracciali di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa molto tempo fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere poesie. Per ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale sono elementi che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah (Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel mondo. La loro lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema oppressore», le «istituzioni» corrotte in cui non si riconoscono, è realizzata nella quotidianità della realtà in cui vivono. Ovviamente, a fianco dei rasta impegnati e coscienti, ci sono altri che, pur apparentemente simili dreadlocks, abbigliamento colorato, musica - si dedicano ad attività meno educative, ciondolando per le strade o nelle spiagge, pieni di alcool e macogna (marijuana, ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di fierezza e severità Sidney Rocha, «sono emarginati, poveracci che stanno distruggendo la propria vita, vittime di un sistema sociale e politico che crea miseria e alienazione». «In Brasile, il rastafarismo, ovvero “Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 - racconta il teologo -. Siamo stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha mai accettato la nostra storia. Dentro il movimento ci sono tante correnti, gruppi: Twelve Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione, ma non nel senso occidentale del termine. Per noi la religione è vita. Ci si riunisce per la cerimonia della preghiera comunitaria, con suoni di tamburi e canti, il Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui uso, tuttavia, non è obbligatorio. Quest’ultima è usata come rituale». hailé selassié, il leone di Giuda Anche nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolar- MC ARTICOLI mente famoso negli anni ’70 -’80, attraverso la musica e la vita di Bob Marley, il grande autore giamaicano. Ha tuttavia una storia di religione organizzata che risale agli anni Trenta, con l’ascesa al trono dell’imperatore di Etiopia Hailé Salassié (al secolo Tafari Makonnen Woldemikael) nel 1930, e una mitologia molto più antica, che arriva all’epoca del Re Salomone. Filiazione sincretica di giudaismo e cristianesimo, e con alcuni aspetti presi, ma anche forniti, al- l’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici, la propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e patriarcali del Vicino e Medio Oriente. Spiega ancora Rocha: «Il termine rastafari deriva dal nome proprio dell’imperatore etiope, Tafari, preceduto da Ras (capo), che, asceso al trono, prese quello di Hailé Selassié, cioè “Potenza della Trinità”: egli era considerato erede della dinastia salomonide, originante dall’unione del re Salo- # Pagina precedente: una banda reggae si esibisce a Salvador Bahia. # Sopra: Sidney Rocha discute in strada nel Pelourinho, centro storico di Salvador. # A fianco: case tipiche nel Pelourinho. mone con Makeda, la regina di Saba, da cui nacque il capostipite Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re d’Etiopia. Tafari salì al potere con il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti), Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda». Egli è considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e potenza, non più come l’Agnello di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica, in quanto discendente di HakimMalik, e dunque membro della tribù di Giuda. Dottrina e fondamenti Una parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti di Hailé Selassié I, - in quanto la sua figura rappresenta il Cristo (l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di Jah, Dio, sceso sulla Terra per portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e morali di Gesù, e della tradizione etiopica ortodossa. Nel loro credo sono contemplate la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la resurrezione della carne, l’immortalità dell’anima, tutti i dogmi stabiliti dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la parusia (presenza divina, ndr) di Cristo e il suo Regno terreno prima della fine dei tempi, e il giudizio universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel mondo per realizzare questa profezia. I rastafariani credono che si possa giungere alla salvezza mediante la fede nel divino e il rispetto della morale naturale, qualunque sia la propria religione o teologia, per questa ragione rispettano gli altri culti, considerati da Selassié «vie del Dio vivente», che non è possibile giudicare. Essi, pertanto, avversano il settarismo religioso. Inoltre, credono che l’imperatore Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente occultato - qui mostrando analogie con Mahdismo sciita - agli occhi degli uomini, in quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una sola volta e risorto per sempre. Dunque, la sua seconda discesa nel mondo rappresenta non più il sacrificio per la redenzione degli uomini, ma il tempo del Regno glorioso. Nazionalismo e africanismo La questione dell’Africa, in quanto continente impoverito e sfruttato da secoli di colonialismo occidentale, per i rastafari è di grande e prioritaria importanza. «Il rastafari non è solo una religione - aggiunge Rocha -, ma anche un movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di Marcus Mosiah Garvey». E a quelli dell’etiopismo. L’etiopismo è un movimento naAPRILE 2014 MC 23 brasile - bahia zionalista che vede la luce ai primi dell’800, nel tentativo di organizzare e liberare, sotto l’emblema della monarchia dell’Etiopia, i popoli neri dell’Africa colonizzata. La liberazione doveva passare attraverso un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati da Garvey, considerato dai rastafari come una sorta di «precursore» come Giovanni Battista - del ritorno del Cristo maestoso nella persona di Hailé Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana (schiavizzati e loro discendenti) sparsi nella Diaspora è parte integrante della visione millenarista dell’etiopismo, su cui il rastafari basò il proprio sviluppo politico. Tale movimento, a partire dal 1800, cominciò a diffondersi sia tra le popolazioni africane sia tra le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità nazionale e culturale avendo come punto di riferimento l’Etiopia. Fu dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in lui il Messia che ritornava potente, vittorioso e liberatore. Il movimento fece proselitismo in 24 MC APRILE 2014 Africa, nel continente americano, nelle Indie occidentali (le Antille, ndr), in Inghilterra, espandendosi poi anche in altre parti del mondo, sia attraverso il Kebra Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che ne diffonde il messaggio religioso e politico. Etica internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’uguaglianza dei diritti e sulla non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale che rigetti guerre e conflitti: questi sono alcuni dei principi politici internazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È anche necessario costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni ideologia totalitaria, di destra o sinistra che siano, che deviano il cammino diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano». Il loro ideale di stato prevede che esso, seppur laico, debba garantire la libertà religiosa. Essi si rifanno al movimento del panafricanismo e all’esempio di Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e fondatore dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e in altre espressioni culturali, i rasta parlano del loro sogno di un conti- nente unito e libero dal dominio straniero, e del riscatto identitario. Per superare la propria storia di schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli sparsi nel mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a tale causa. In questa prospettiva Selassié mise a disposizione un vasto territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella patria africana. il Kebra Nagast, la gloria dei re È la «Bibbia africana». Nel libro Kebra Nagast (la Gloria dei Re), antico testo etiope, si racconta del trasferimento dell’Arca dell’Alleanza, per mano di Ebna laHakim, da Gerusalemme al Regno di Saba. Tale trasferimento è interpretato dai rastafari come un passaggio della discendenza salomonica di Israele all’Etiopia, la cui antica dinastia, che giunge fino a Hailé Selassié, è così considerata di tradizione «divina». Secondo la tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che l’Etiopia sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a custodire la cristianità fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore Selassié. MC ARTICOLI Spiega Rocha: «Il libro racconta, tra le altre vicende, l’incontro tra il Re Salomone e la Regina di Saba (riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita dai racconti sulla grande saggezza del sovrano, va a Gerusalemme. Dalla loro unione (cui però la Bibbia non fa alcun cenno) nascerà Ebna la-Hakim, poi Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica. L’Etiopia avrà il compito di custodire la purezza del cristianesimo, dopo il rifiuto del popolo d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel paese, è la « L’Africa agli africani! Ho esclamato. Uno stato libero e indipendente in Africa. Vogliamo poterci governare in questo nostro paese senza interferenza esterna » conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia». Il Kebra Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E, nello stesso tempo, influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e cristiane, quella islamica. I dreadlocks e il mito di Sansone I rasta sono noti per i dreadlocks, trecce posticce attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa - racconta Sidney Rocha -, che rappresenta un voto biblico, il nazireato, di cui parla Numeri, 6, 5: “Tutto il tempo del voto della sua consacrazione, il rasoio non passerà sul suo capo: finché non sono compiuti i giorni per i quali si è consacrato all’Eterno, sarà santo; lascerà che i capelli del suo capo crescano lunghi”». Secondo il Kebra Nagast, un angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia tragica e coraggiosa di Sansone la ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco e prigioniero, senza capelli, per i rastafari rappresenta ciò che può capitare a chi esce dal cammino divino e scende a compromessi con Babilonia, simbolo di male e corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la filistea Dalila che sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo di morale e di integrità, di cammino nel sentiero stabilito da Dio. Tuttavia, è anche un’usanza che arriva dall’Africa orientale, dove guerrieri e membri di varie tribù usano portare i dreadlocks. Le trecce rasta hanno iniziato a fare la loro comparsa durante le manifestazioni per la rivendica- (Kwame Nkrumah). # A sinistra: negozio di artigianato a Salvador. # In centro: Edson Patricio e Sidney Rocha della Banda Kebra Nagast. # Sopra: turisti e prelibatezze bahiane. APRILE 2014 MC 25 brasile - bahia zione identitaria in Giamaica. Per un rasta essere negro, con dreadlocks e barba, significa assomigliare di più all’immagine storica di Gesù, Yeshua. Negli anni ’70 furono perseguitati in tutto il continente americano: furono aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché rappresentavano una minaccia per il «sistema». la donna e il rastafarismo Il rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche patriarcali (giudaismo e islam), per le quali la femmina riveste un ruolo subordinato al maschio, è impura e veicolo di tentazioni e peccato. Per i rastafari quindi il compito principale della donna, appellata come «regina», è di occuparsi del «re», cioè del marito; essa è subordinata all’uomo e deve essergli fedele; deve occuparsi della casa e della prole; non può essere un leader. L’uomo è il capo spirituale della famiglia. La donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva sessuale per 26 MC APRILE 2014 altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli. Scrive l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y negro: punk y rastafarianismo», Revista de Estudios de Juventud, n. 30, 1988, Madrid, pp.73-86: «La sessualità femminile è vista come dipendente: […]. La donna rasta deve essere coperta dalla testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di fronte a nessun altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a essere ciò che il rastafarismo chiama “La Madre Terra Africana”». Anche per pregare deve coprirsi i capelli, secondo quanto stabilito nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne che pregano o proclamano il messaggio di Dio durante cerimonie pubbliche senza indossare nulla sul capo, disonorano il proprio capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore». Diversamente dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato, esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna, «primo tra pari», perché la donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e veicolatrice, con la sua sensualità, di tentazioni e peccato. Ella può purificarsi solo nella relazione con il marito e nella sua fedeltà a esso, e nella famiglia. Quanto a quest’ultima, spiega Sansone nel suo articolo: «Per il rastafari, la famiglia si rivendica e si riscopre nella forma che essi considerano essere la loro famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)». In sintesi, nel rapporto uomodonna, da parte del maschio vi è una ricerca esplicita della sensualità, mentre quella femminile è repressa e dipendente dalla relazione di esclusività con il marito. l’erba del Giardino dell’eden Nei loro culti, i rastafari fanno uso di ganja-marijuana, in quanto mezzo spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della Saggezza del Giardino dell’Eden, che # A sinistra: nastrini di devozione a Nossa Senhora de Bonfim, riferimento religioso a Salvador. # In centro: un rasta nel Pelourinho. # In alto: venditore di finte trecce rasta a Salvador. stava a fianco dell’Albero della conoscenza del bene e del male. «La ganja - spiega Sansone - rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la percezione sensoriale, un dono del loro Dio Negro, qualcosa che i bianchi proibiscono, precisamente, per impedire la conquista della coscienza da parte della popolazione Negra». Il reggae Dagli anni ’60, la Giamaica è una fucina di musica che si diffonde in tutto il mondo: oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso, spirituale e politico. Un grande testimone di questa musica è stato Bob Marley, il cui talento e carisma hanno portato il reggae a essere conosciuto e apprezzato a livello internazionale, e così pure il rastafarismo. Roots reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta di un tipo di musica spirituale, i cui testi elogiano Jah, e invitano alla resistenza contro l’oppres- sione. «Nei testi di musica reggae si incontra il termine “apocalisse” - afferma Sansone -, ma più spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia finale del giorno del Giudizio, nella quale senza dubbio, i rastafari usciranno vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso, promossi come Nuovi Israeliti, nuovo Popolo Eletto». L’abbigliamento. Scrive ancora Sansone: «[…] i vestiti del rasta sono colorati e vivaci; il rasta vuole sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza sono espressione della ricerca di armonia, bellezza e plasticità (blu danza). […] L’armonia della danza è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere fluido, al suo timbro basso e al suo insieme conciliante […]». Un’altra caratteristica rastafari è il tam, copricapo con i colori della bandiera etiope. Angela Lano Livio Sansone è un antropologo italiano che vive a Salvador de Bahia. È professore all’Università Federale de Bahia (Ufba), ricercatore del Ceao, Centro de Estudos Afro-Orientais, dove coordina il programma Fábrica de Ideias e il Programa Multidisciplinar de Pós-Graduação em Estudos Étnicos e Africanos. Tra le sue opere recenti va ricordata «Negritude sem etnicidade: o local e o global nas relações raciais e na produção da cultura negra do Brasil» (Salvador/Rio de Janeiro, Edufba/Pallas, 2004). Sidney Rocha è un teologo rastafari bahiano, laureato all’Istituto de Educação Teologica da Bahia (Iteba), musicista e poeta, e direttore dell’Associazione Culturale Nova Flor di Salvador. Angela Lano è orientalistaislamologa e giornalista, autrice di diversi libri sul mondo arabo e islamico, e collaboratrice della rivista MC. Da circa due anni vive a Salvador di Bahia, dove collabora con il Centro de Estudos Afro-Orientais dell’Ufba tenendo corsi sulla Storia dell’Islam e del Vicino e Medio Oriente. Con i Rastafari inizia un viaggio a puntate sulle religioni della Bahia. APRILE 2014 MC 27 ITALIA © Matteo Montaldo di PAOLO DERIU La Caritas e Migrantes presentano il nuovo rapporto sull’immigrazione. Il fenomeno a livello globale è in aumento. Mentre la crisi economica tocca oggi anche gli stranieri. Spingendo molti, per questo motivo, a incrementare la migrazione di ritorno. E le famiglie riprendono a dividersi. Intanto sul fronte dell’integrazione la strada da fare è ancora molta. 28 MC APRILE 2014 CARITAS: PRESENTATO IL RAPPORTO IMMIGRAZIONE 2013 MIGRAZIONI: I MAI IN CRISI l 5 febbraio a Torino, Caritas e Migrantes hanno presentato il XXIII Rapporto immigrazione 2013. Il tema prescelto quest’anno è: «Tra crisi e diritti umani. Connessione tra crisi e irrinunciabile rispetto dei diritti umani». Il volume è ricco di dati, molto utili per chiunque si interessi di migrazione. Dopo aver presentato una sezione che riassume i principali avvenimenti riguardanti l’immigrazione nel mondo, nel 2013, l’opera analizza il fenomeno migra- torio, a livello mondiale ed europeo, alla luce della crisi economica che ha colpito il pianeta da ormai sei anni. Un contesto che nel 2012 ha visto oltre 232 milioni di persone lasciare il proprio paese per andare a vivere in un’altra nazione. Oltre ai contributi su temi specifici, vengono presentati anche tematici su questioni che riguardano i migranti (per esempio: l’acquisto della casa, l’istruzione) e vari riquadri che illustrano alcune tra le diverse iniziative © Matteo Montaldo MC ARTICOLI # In queste pagine: foto di migranti all’ex villaggio olimpico di Torino, realizzate dal fotografo Matteo Montaldo. © Matteo Montaldo messe in campo dalle diocesi in Italia per venire incontro ai bisogni dei migranti. Non solo Italia Nell’analisi delle migrazioni internazionali, un’attenzione particolare viene prestata alla situazione nei paesi del Golfo Persico che negli ultimi decenni hanno visto arrivare moltissimi lavoratori esteri, tanto che i migranti rappresentano in media oltre un terzo della popolazione locale. Nel piccolo stato del Qatar i cittadini stranieri sono addirittura oltre i tre quarti della popolazione residente. Per quanto riguarda l’Italia, apprendiamo dal rapporto che proprio grazie agli immigrati la popolazione italiana è in crescita: all’inizio del 2013, in Italia risiedevano quasi 60 milioni di persone, di cui 4,4 milioni di cittadini stranieri (il 7,4%). Grazie alle nascite, i cittadini stranieri sono incrementati di oltre 334 mila unità. L’Italia è un paese in cui le famiglie di cittadini migranti hanno in media più figli di quelle italiane, ma è anche un territorio di ingresso per nuovi migranti, soprattutto quelli che si ricongiungono con familiari già presenti. Per molti cittadini di altri paesi l’Italia è soprattutto luogo di transito per giungere in altri stati europei in grado di offrire opportunità migliori di lavoro e di inserimento sociale. La crisi e i migranti La sezione «Leggere l’immigrazione» tratta in profondità la crisi economica in Italia e la sua ricaduta sul mondo delle famiglie di migranti. Più «allenate» degli italiani ad affrontare difficoltà e sa- crifici, molte famiglie migranti soffrono tuttavia lo stress della perdita del lavoro, che è solo la prima tappa per il decadimento progressivo del tenore di vita. Spesso al licenziamento segue il taglio delle forniture di luce e gas, lo sfratto, la miseria. Di fronte a questa prospettiva, alcune famiglie decidono di ritentare la fortuna emigrando nuovamente, possibilmente nei paesi del Centro Nord Europa. In altre famiglie, i genitori decidono, con molta sofferenza, di separarsi dai propri figli (e talvolta dai congiunti), anche in tenera età, per rimandarli (o mandare quelli nati in Italia) nel paese d’origine, perché non sono più in grado di mantenerli. Un altro tema cruciale che il rapAPRILE 2014 MC 29 ITALIA porto affronta è quello dei migranti e della casa. Non sono pochi i cittadini stranieri che si adattano a vivere in alloggi precari e ristretti, a volte addirittura garage grossolanamente ristrutturati, con i servizi igienici esterni, con riscaldamento assente o insufficiente. Sono i bambini a soffrire per queste situazioni, soprattutto per l’umidità e il freddo che ristagnano in questo tipo di abitazioni. stosi, elaborati per tranquillizzare una opinione pubblica timorosa degli arrivi di nuovi migranti. L’argomento successivo riguarda la tratta e lo sfruttamento di esseri umani per l’arricchimento di loro simili: un fenomeno variegato e in continua evoluzione, che include la prostituzione, lo sfruttamento dell’accattonaggio, ma anche di lavoratori impiegati in nero in agricoltura, pastorizia, edilizia, domestico. Importante è anche il discorso relativo all’integrazione dei cittadini residenti in Italia, nella società che li ospita. Qui entrano in gioco la scuola e leggiamo nel rapporto, che gli studenti stranieri sono in genere orientati a una formazione che conduca all’ottenimento di un lavoro in tempi brevi, per poter aiutare la famiglia. Sono quindi preferite le scuole tecniche di formazione professionale. Sempre per quanto riguarda l’integrazione, il rapporto tratta la questione della cittadinanza italiana per gli stranieri, il cui iter è alquanto lungo e sofferto. Non manca un approfondimento sui matrimoni cosiddetti misti e interconfessionali e su altri aspetti che l’arrivo di religioni differenti da quella cattolica e cristiana comporta per la società italiana. Il rapporto affronta anche la questione dei Cie (centri di identificazione ed espulsione). Dubbi sono espressi sulla loro legalità, come anche sulla loro ragione di essere. Paiono strumenti, peraltro co- La terza sezione, «La voce del territorio: la rete diocesana al servizio dei migranti» illustra, per ognuna delle regioni italiane, la Cosa succede sul territorio © Daniele Dal Bon # Sopra: monsignor Cesare Nosiglia celebra la messa dei popoli a Torino il 6 gennaio 2014. # In basso a destra: danza tradizionale della comunità peruviana in piazza Castello a Torino il 19 ottobre 2013. # In basso a destra: ancora immagini del servizio di Matteo Montaldo. © AF MC/ Gigi Anataloni Integrazione? storia e la situazione attuale del fenomeno migratorio. All’inizio di ogni capitolo riguardante una regione vengono riportati grafici sui principali paesi d’origine dei migranti e sugli alunni stranieri che frequentano le scuole fino alle secondarie di secondo grado. Si spazia dalle grosse difficoltà che l’accoglienza agli immigrati incontra in alcune regioni italiane, legate a intoppi burocratici o a inefficienze, allo spirito di solidarietà espresso da organizzazioni di volontariato, che riesce spesso ad attenuare problemi che risulterebbero altrimenti esplosivi. Il rapporto si chiude con una appendice giuridica, che ci aggiorna MC ARTICOLI 2013 è uno strumento estremamente utile per operatori, volontari, studiosi, o semplici cittadini interessati che vogliano essere aggiornati su un tema in veloce evoluzione, come è quello della migrazione. Paolo Deriu Il rapporto Caritas Italiana e Fondazione Migrantes hanno presentato il XXIII Rapporto Immigrazione 2013, con l’eloquente sottotitolo «Tra crisi e diritti». Il volume di 360 pagine è ricco di dati aggiornati. In rete è disponibile una sintesi scaricabile dal sito della Caritas Italiana all’indirizzo: www.caritas.it © Matteo Montaldo © Matteo Montaldo su temi quali la cittadinanza, l’emersione dal lavoro irregolare, l’assistenza sanitaria, ecc. È anche incluso un glossario con i principali termini in italiano e in inglese, di uso comune nei testi che trattano di migrazione. In conclusione, il Rapporto immigrazione APRILE 2014 MC 31 Pillole « Allamano» contro il logorio della vita moderna a cura di Ugo Pozzoli 3. AMATE UNA RELIGIONE CHE VI OFFRE LE PROMESSE DI UN’ALTRA VITA E VI RENDE PIÙ FELICI SULLA TERRA Una presa di tabacco con gli amici. Kenya, Tuthu, 1905 ca. S e una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali? 32 MC APRILE 2014 olui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice. Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo C MC RUBRICHE deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia. Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti. La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale. La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desi- deravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola. L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni farne tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede. n approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): U # A sinistra: Momenti di gioia in Etiopia, alla consegna di un micro-credito; sopra: in Mongolia durante una celebrazione eucaristica e in Colombia (pagina seguente) posando per un amico. APRILE 2014 MC 33 Pillole « Allamano» «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?». Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere nel concreto diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità. In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità. 34 MC APRILE 2014 Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi cioè a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato». La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono. a pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti. Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni. Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena. Ugo Pozzoli L REPORTAGE / MYANMAR IN TRANSIZIONE LA NUOVA VIA BIRMANA TESTI E FOTO DI PIERGIORGIO PESCALI CON PASSI INCERTI, MA IN CAMMINO SORRIDERE NON BASTA DI PIERGIORGIO PESCALI La transizione birmana verso la democrazia non è facile, ma sembra procedere, garantita dal presidente Thein Sein. Della partita è ormai parte pure l’eroina birmana per eccellenza: Aung San Suu Kyi. Anche lei però non è rimasta immune da critiche, soprattutto rispetto agli scontri etnici e religiosi che, negli ultimi due anni, hanno avuto luogo in varie zone del Myanmar. Un paese che è un mosaico di ben 135 gruppi etnici differenti. ono trascorsi tre anni dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato a intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale. Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi hanno cominciato ad affacciarsi anche le difficoltà e i primi ostacoli. Accanto a radicati conflitti etnici e a intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw (l’esercito), ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche. I primi decreti libertari, voluti dal nuovo governo civile di Thein Sein - con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento -, si sono dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni aspetta- S tiva. Ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi. L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto del confronto interno, ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici. La capacità di adattarsi con elasticità e immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, determinerà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in programma nel 2015, si confronteranno. DOSSIER MC MYANMAR Pagina precedente: trasporti lungo il fiume Irrawaddy. A sinistra: un taxista nella città di Mandalay. In copertina (pag.35): Sittwe, capoluogo di Rakhine, stato a forte presenza musulmana. Foto piccola: monaci sul ponte di legno U Bein a Amarapura (Mandalay). Gli scontri tra musulmani e buddisti Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico (vedere mappa a pag. 39, ndr), che ha monopoliato quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti - iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in altre regioni del paese. Nel conflitto etnico, invece, Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati al clamore delle armi. In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati duramente criticati dalle organizzazioni internazionali che si occupano del rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con sufficiente forza le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate» (a pag. 47 del dossier, ndr). Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che, proprio sulle questioni portate alla luce dai conflitti, si giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar. Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità is- lamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si intravedono elementi che possano giustificare tali dichiarazioni (ad esempio, la conservazione di uno status quo che, anche tramite la dittatura, aveva garantito una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del paese possa favorire una precisa corrente politica. Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale». L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) stima che vi siano più di 808.000 Rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai residenti nel paese che possono dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché im- APRILE 2014 MC 37 supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione del regime possa incoraggiare l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli. I rapporti delle commissioni di inchiesta internazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a quelle della commissione governativa, voluta dal presidente Thein Sein per investigare sulla situazione del Rakhine. Di essa facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi. Ma nessun Rohingya è stato inserito nella lista. Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel «rapido incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in contatto tra loro. La relazione è stata recepita positivamente dal governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013, circa 75.000 Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui non possono allontanarsi, a differenza di quanto accade per i Rakhine, senza un permesso speciale. Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni internazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni, cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono detenuti gli attivisti musulmani, hanno parlato di condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei A sinistra: il presidente birmano Thein Sein (a destra) con Barack Obama alla Casa Bianca il 21 maggio 2013. Sopra: il monaco buddista U Wirathu, leader dell’organizzazione estremista «Movimento 969». Pagina seguente: mappa del Myanmar con le varie divisioni amministrative e le zone dei conflitti. © White House, 2013 possibile da dimostrare visto che la maggior parte dei Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da reperire. Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che possa definirsi tale (e in effetti tra le 135 etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del tutto illegale. Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio compiuto nel maggio 2012, il 70% dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la DOSSIER MC MYANMAR AREE DI CONFLITTO: • con l’etnia Kachin*, a maggioranza cristiana, al Nord, ai confini con lo Yunnan (Cina)**; • con l’etnia Shan*, a Oriente, zona di produzione del papavero da oppio («Triangolo d’oro»); • con l’etnia Karen (Kayin)* di religione buddista e cristiana, al Sud, ai confini con la Thailandia; • con l’etnia Rohingya*** di religione musulmana, nello stato di Rakhine al confine con il Bangladesh. * Attenzione: esistono varie denominazioni di questi gruppi etnici. ** Sul conflitto con i Kachin, prossimamente MC pubblicherà un reportage di Gabriele Battaglia e Nicola Longobardi (China Files). *** La denominazione è controversa. Dell’argomento MC ha parlato nel numero di luglio 2013, pag. 68. campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (Msf) ha parlato di emergenza umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le violenze contro i Rohingya. Queste commistioni hanno creato un senso d’insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine. Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti religiosi buddisti è, però, passato inosservato per la maggioranza dei fedeli e non ha impedito che gli scontri si espandessero in gran parte delle province centrali e meridionali del paese. Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto affronto, attaccavano e incendiavano negozi e case di famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile. L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel «Movimento 969», un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico e al suo dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal (dove si vende rispettando le norme islamiche, ndr). Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico. L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha (la comunità buddista allargata, ndr) buddista birmana a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un coordinamento che contrastasse questa insofferenza, creando Pray for Myanmar. APRILE 2014 MC 39 Guerra e pace nello stato Kachin Sugli altri fronti, il governo Thein Sein è riuscito, invece, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare con i Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della Kachin Independence Organization (Kio) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013 40 MC APRILE 2014 ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al Kio di intervenire per evitare l’intensificarsi della guerra. DOSSIER MC MYANMAR A sinistra, in senso orario: donna Akha dello stato Shan; donna Padaung; donna Karen dello stato Shan. A destra: donna Lahu dello stato Shan. In basso: donna nelle campagne di Mawlamyine, stato Mon. I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitaria. Persino la presenza di Harn Yawnghwe, in quanto direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles (che la Cina considerava alla stregua di una organizzazione non governativa), è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua partecipazione. La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri internazionali, specie se legati ai governo occidentali, è dovuta principalmente a due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici che il paese ha nella regione. I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il Kio ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui agli occhi di Pechino. Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza per la sua economia. Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang Mai, in Thailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il Kio e il governo di Nay Pyi Taw, hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la continuazione del dialogo su via politica; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti; il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe del Kachin Indepen- APRILE 2014 MC 41 dence Army (Kia) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del Kio a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali nei successivi colloqui di verifica. Tutte le tre principali richieste del Kio, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw, il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico, sono state accolte dalla delegazione birmana. Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. È importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal Kio perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati. Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il Kio ha più volte denunciato il disinteresse dei politici Bamar nei confronti della situazione nello stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo stesso Thein Sein è stato costretto a intervenire più volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del Kia. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole In alto: avventori al mercato della pagoda Phaung Daw Oo nei pressi del Lago Inle, nello stato Shan. A destra: al mattino i monaci buddisti passano per le case per ricevere il cibo. 42 MC APRILE 2014 del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo controllo che il governo centrale possa avere sui vertici militari. I militari: tra vecchio e nuovo corso La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione. L’articolo della Costituzione che garantisce ai militari il 25% dei seggi nel parlamento è sempre stato visto come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in cui sono stati chiamati a esprimere il proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione. La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente». DOSSIER MC MYANMAR Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte (che hanno governato la nazione fino al 2010), è che la ventata di democrazia sul Myanmar possa trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia del loro ruolo e delle fortune economiche familiari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso perché non rispecchiano un clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è, dunque, ancora ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese. Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in odore di campagna elettorale e in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero» (vedi pag. 49, ndr). È anche per la paura di una disgregazione nazionale che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione 2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del Pil). La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce interne (come i conflitti negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle mino- ranze etniche), contrastava pesantemente con il magro bilancio destinato alla sanità (3,8% del bilancio; 0,9% del Pil) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio; 1,8% del Pil). Degno infine di un certo interesse è il fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana. Le riforme di Thein Sein, gli investimenti internazionali e il «Triangolo d’Oro» Come già evidenziato, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme che hanno interessato vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a quella economica. Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione pubblica che radunasse più di quattro persone, è stato abrogato così come le norme restrittive in materia di censura di stampa, libertà di espressione e di movimento, già abolite negli anni precedenti. Tutto questo ha permesso a una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini che erano stati privati - negli anni della dittatura militare - dei loro terreni, di unirsi in associazioni per richiedere la restituzione delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa 4.000 domande di risarcimento. Così come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito. La commissione d’investigazione - presieduta da Aung San Suu Kyi - è stata costretta a sfoggiare tutta la sua retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una APRILE 2014 MC 43 parte ha verificato che il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che lo sfruttamento minerario procedesse al fine di non creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi era di 1.730 dollari Usa per ogni acro) si è scontrata con la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato la protesta. Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal tema economico. Durante i XXVII Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un crescente malessere che serpeggia tra la popolazione. La bocciatura dello schema protezionista, proposto dal parlamento all’inizio del 2013, per far fronte a eventuali ribassi troppo accentuati del prezzo del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini a un prezzo superiore da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente utilizzato nelle campagne birmane. In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini. I grandi sovvenzionamenti, elargiti dagli istituti di credito internazionali, sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari per progetti socio economici e il miglioramento della gestione pubblica. La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove soluzioni d’investimento. Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia, è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da 40 amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di 1,85 miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva contratto con il governo nipponico e al tempo stesso ad investire 500 milioni di dollari per la costruzione di strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche. Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un lungo e, a tratti, drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation). 44 MC APRILE 2014 Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni si sia spogliata di numerosi orpelli che la appesantivano. La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio d’investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio su una classifica che tiene conto di 197 economie mondiali. Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), che nel suo resoconto ha evidenziato che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta del 26%. Il 92% dei campi coltivati si trova nello stato Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della droga. Il leggendario «Triangolo d’Oro» - l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia - è tornato ad essere l’area dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo il 18% della produzione mondiale, secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’Unodc per evidenziare lo stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza di uno stretto controllo sul territorio da parte dell’esercito birmano. Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane. I contendenti per le presidenziali del 2015 Tutti questi problemi non potranno essere risolti in breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce, Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento. Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua candidatura per le file del National League for Democracy (Nld). L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la Costituzione, il cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri (Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non rientrerebbe in questa categoria) e non abbia figli stranieri (i figli avuti dal matrimonio con Michael Aris hanno passaporto britannico e questo potrebbe pregiudicare la candidatura). Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra gli stati occidentali che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli Stati Uniti, in Oceania, Giappone ed Europa con il dichiarato scopo di chiedere l’emendamento della DOSSIER MC MYANMAR Costituzione birmana. Un gesto sicuramente interessato e opinabile, come lei stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una Costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo» (a pag. 48, ndr). Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’Nld verrà rimosso, la popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale. Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della Camera bassa che della Camera alta. Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito. Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale. Sopra: mercato nei dintorni della pagoda Phaung Daw Oo, Lago Inle, stato Shan. Pagina precedente: papaveri da oppio nei campi dello stato Shan, dove ancora viene coltivato su larga scala. Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua a essere presentata dal governo come motivo di miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di 1.141 detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013. La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters sans Frontières ha continuato a denunciare la repressione dei media, nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei giornalisti, questi - per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche - si censurano da soli. Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw. Secondo il Csi alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National Union/Karen National Liberation Army (Knu/Knla) e Karenni National Progressive Party/Karenni Army (Knpp/Ka) avrebbero avviato un programma con le Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’Unicef ha avviato un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include il «congedo» dei militari bambini. Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore. Piergiorgio Pescali APRILE 2014 MC 45 © Myanmar News Agency / AFP A COLLOQUIO CON AUNG SAN SUU KYI IDEE E PROGETTI DELLA «SIGNORA» DI PIERGIORGIO PESCALI Nell’autunno 2013 Aung San Suu Kyi ha concluso il suo tour europeo in Italia, da cui mancava da quarant’anni. L’abbiamo incontrata prima della sua partenza per il rientro nel Myanmar. Nel 2015 sarà lei il nuovo presidente del paese? ignora San Suu Kyi, può fare un bilancio del suo S viaggio in Europa? «Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia, e in altri, come il vostro, da cui mancavo da decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali». Quando parla di uomini dai profondi principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare? «Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare 46 MC APRILE 2014 sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli. Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per approfondire la conversazione, ma gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti impressi. È una persona con cui mi sono sentita immediatamente in sintonia. Mi piacerebbe incontrarlo ancora». Lei ha ricevuto tantissime promesse durante la sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso sappia che i politici italiani non hanno la fama di mantenere le promesse fatte e l’Italia ha brillato più per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza nelle vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano? DOSSIER MC MYANMAR «Spero vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza il movimento democratico e numerose personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica si sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti umani in Birmania». A proposito di diritti umani: a che punto siamo nel processo di pacificazione con i gruppi etnici? «Ci sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il parlamento a discutere la questione etnica. In effetti ci sono diversi membri che rappresentano le etnie nel nostro parlamento ed è per questo che, in questa sede, il dialogo sta già avvenendo. Da parte loro, i gruppi etnici chiedono che la questione sia discussa al di fuori del parlamento e con terze parti che facciano da garanti. Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle sue richieste e questo porta inevitabilmente a uno stallo dei negoziati». È ciò che sta avvenendo anche nello stato Rakhine tra musulmani e buddisti? «In un certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti di un conflitto etnico. È un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese, alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità». La paura è, quindi, secondo lei, una delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso? «Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico». Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con lei e l’hanno anche duramente criticata. «Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisti e musulmani e non la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare e ancora oggi vivono in campi profughi». Associazioni e movimenti che si occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di non voler difendere i diritti della comunità islamica per un puro calcolo elettorale in vista delle elezioni presidenziali del 2015. «Posso rispondere dicendo anch’io che le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia d’immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese». È, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza. «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate». Qual è, quindi, la soluzione che propone? «Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo. È semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale e garantire la cittadinanza a chi ne ha diritto». A sinistra: «Le forze armate e il popolo in eterna unità. Chiunque cerchi di dividerli è nostro nemico», così recita il cartellone della propaganda governativa a Hpa An, capoluogo dello stato Kayin. Pagina precedente: Aung San Suu Kyi con il presidente Thein Sein nella sede del governo, a Naypyidaw. APRILE 2014 MC 47 Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è una strada a vicolo chiuso. «È per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della Birmania, ma anche con il Bangladesh». I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più importanti da emendare, come il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in caso di necessità, prendere il comando del governo? «Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi preoccupa il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento quanto, piuttosto, il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale possa essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente Sopra: raccolta del riso a Nyaungshwe sul Lago Inle. A destra: barca sul fiume Kaladen, tra Sittawe e Mrauk U. In alto: Aung San Suu Kyi incontra papa Francesco il 28 ottobre 2013. In copertina finale (pag. 50): anziani contadini nei pressi del Lago Inle. 48 MC APRILE 2014 giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo. Mi permetta anche di evidenziare che l’emendamento della costituzione è solo il terzo punto del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle guerre civili. Sono una politica e come tale ho degli obiettivi. Uno di questi è dare al mio popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto: permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta». Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi? «Non voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò presidente, il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle guerre civili ed emendare la Costituzione». Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche. «Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare. Sotto lo Slorc (State Law and Order Restoration Council, ndr) prima e l’Spdc (State Peace and Development DOSSIER MC MYANMAR Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di 100 prigionieri politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di 2.000. Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico? «Certamente. È per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le Forze armate, ndr) che si oppongono alle riforme». Chi potrebbe essere un partner fidato in questa transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti, l’India, l’Asean? «La Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con la Cina e, personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio paese. Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che siano investimenti non finalizzati a esclusivo vantaggio di un solo paese o di una classe sociale. Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro». Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon nel 1988 (a cui io ero presente), ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Que- © Avvenire it Council, ndr) dopo, non c’è mai stata libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai ottenere il 100% di ciò che si chiede». ste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro che non hanno capito nulla delle sue idee o è lei che ha cambiato le idee? «Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Sono sempre stata convinta che i militari devono lavorare stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un sentimento particolare per i militari e chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero. Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anch’io mi stupisco di come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per loro. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto molto rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza». Piergiorgio Pescali L’AUTORE • PIERGIORGIO PESCALI - Giornalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Da anni collaboratore di Missioni Consolata, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha pubblicato Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010. È di imminente uscita (maggio 2014): Il custode di Terra Santa. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa, Add Editore (www.addeditore.it), Torino. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com. • PAOLO MOIOLA - Redattore MC, con alle spalle due viaggi in Myanmar (vedere MC settembre 1994 e MC dicembre 2007), per il coordinamento giornalistico del dossier. APRILE 2014 MC 49 OSSIER FINE CIna Testo e foto di ALESSANDRA CAPPELLETTI # Ilham Tohti, a Pechino, durante una pausa delle lezioni universitarie. La foto risale al giugno 2010. SILENZIO SU ILHAM TOHTI I l 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa irruzione nel piccolo appartamento in cui Ilham Tohti, professore di economia all’Università Minzu (riquadro di pag.54, ndr), vive con la moglie e due figli piccoli, poco fuori dal campus universitario. Tohti viene prelevato e scortato verso una destinazione ignota. Moglie, figli e anziana madre non hanno più notizie. Dall’abitazione vengono portati via pc, cellulari, agende e 38 sacchi di appunti, tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere interrogati. Un documento rilasciato dal Dipartimento di pubblica sicurezza della municipalità di © Frederic J Brown / AFP Uiguro di famiglia musulmana, professore universitario e blogger molto critico verso Pechino, Ilham Tohti è imprigionato con l’accusa di «separatismo». Il suo caso dimostra (una volta di più) che la Cina non si è ancora dotata di un sistema efficace per gestire il dissenso. L’Occidente tuttavia non può dirsi esente da colpe, non avendo a sua volta capito come trattare con il gigante asiatico. La LOTTa deLLa mInOranza UIgUra Urumqi, che descrive il professore come una figura pubblica che approfitta della sua posizione accademica per avvicinare studenti e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione ufficiale sul caso. Tohti, che - in uno scritto del 2011 - aveva dichiarato di aver dedicato la sua vita (e sacrificato quella della sua famiglia) alla lotta per la libertà religiosa, la tu- CINA tela della cultura, della lingua e del popolo uiguro, è noto in Cina e all’estero per i suoi scritti e le sue attività di sensibilizzazione sul Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito all’altro, si cominciano a raccogliere firme per la sua liberazione immediata. Circola una petizione che, alla data del 18 febbraio, nonostante la problematicità del caso, era già stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e straniere1. Gli scontri del 2009 Il 5 luglio 2009, durante gli scontri scoppiati nel corso di una grande manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la maggior parte cinesi di etnia han colpiti a morte da gruppi di uiguri. Altre manifestazioni e scontri scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a Sud e infiammano Kashgar, zona 52 MC APRILE 2014 di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione viene isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate internazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola frenetico, un proliferare di voci sulle possibili cause di quello che viene considerato il sommovimento potenzialmente più destabilizzante per la Repubblica popolare dopo il 1989. Nur Bekri, presidente della regione autonoma, appare sulla Cctv (China Central Television) facendosi portatore della linea ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero, nelle attività separatiste e terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC, gennaio 2010, ndr), e in quelle sovversive di alcune figure che operano entro i confini cinesi, tra cui Ilham Tohti. Il suo blog Uighurbiz viene identificato come una delle principali piattaforme online responsabili di aver istigato e aiutato a organizzare la rivolta. Il sito viene chiuso, Nur Bekri e Wang Lequan - l’allora segretario del partito del Xinjiang (che verrà sostituito un anno dopo da Zhang Chunxian) - puntano il dito contro Ilham Tohti che, prima viene arrestato, poi rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo appartamento nel campus uni- versitario con la moglie e i due figli piccoli. Nonostante il supporto e l’affetto di studenti e amici, dal 2009 in poi l’esistenza di Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e interrogatori della polizia nei momenti più inaspettati, problemi per i familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e proprietà congelate (e lo stipendio da professore che arriva solo saltuariamente), telefonate, email e lezioni controllate e registrate. Più le maglie del controllo si stringono intorno a lui, più le sue lezioni diventano popolari: aule in cui più di 200 studenti, per la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni venerdì pomeriggio. Il tono delle sue analisi e dei suoi messaggi diventa sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non passa però inosservato: il corso viene interrotto nel settembre 2011, «perché non si raggiunge il numero di studenti necessari». Un progressivo deterioramento Infaticabile, nonostante una forte depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una serie di difficoltà per lui e la sua fami# In alto: fedeli davanti alla moschea di Niu Jie, a Pechino. A sinistra: un giovane all’ingresso della moschea. A destra in alto: il professor Tohti durante una lezione all’Università, nel giugno 2010. MC ARTICOLI Un ritratto di Ilham Tohti Professore e attivista © Frederic J. Brown / AFP ato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush, villaggio del Xinjiang ai confini col Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con gli amici Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in partenza con lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente molto religioso, negli anni ‘80 è un brillante studente di lingue all’Università Minzu, nel nuovo clima di dialogo e apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang. Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è sufficientemente eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia e la sociologia con un occhio sempre attento a quello che succede nella sua regione d’origine, che lo porterà a occupare veloce- N glia, Tohti continua a lottare, a fare rete con amici e intellettuali a lui vicini e a sensibilizzare la comunità internazionale attraverso le interviste che appaiono sui maggiori media (New York Times, The Guardian, Wall Street Journal). Ha in testa un progetto: istituire un’università online dove raccogliere tutte quelle informazioni, opere, materiale relativi al Xinjiang fino a quel momento sparsi nella rete. Il governo cinese mente una cattedra presso il Dipartimento di economia dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà del 2000 rappresentano un periodo di formazione politica, un lavoro condiviso con intellettuali cinesi e stranieri con formazioni e posizioni diverse, attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo segue. Tohti comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia, confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti, intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività di sensibilizzazione rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti con studenti, amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa, gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e non esita a parlare e rilasciare interviste ai giornalisti stranieri. Alessandra Cappelletti sostiene che Tohti si adopera per coinvolgere sempre più uiguri a portare avanti azioni violente contro Pechino. Il suo carattere combattivo, ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari e di malattia, lo portano a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con toni a tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre semplicemente individuando le politiche di Pechino e del go- verno regionale come prime responsabili dell’escalation. Più i toni si surriscaldano, più Tohti viene controllato, minacciato e intimidito. Ormai non c’è più spazio per le analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in Xinjiang, sulle trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da una società tradizionale a una moderna, sulla situazione dei giovani in Xinjiang e sulle aspirazioni delle APRILE 2014 MC 53 CINA Pechino L’Università Minzu Una casa per le minoranze etniche Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata Università Minzu (in seguito a una delibera degli organi accademici volta a evitare che il termine minzu 民族, «gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato «nazionalità»), è nuovamente sotto i riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che raccoglie la créme dei giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi, formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa educazione di partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti nell'amministrazione pubblica e nel governo, il campus del quartiere di Haidian ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui, kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi tutte le altre minoranze. Inoltre è l'unica, a Pechino, a disporre di numerose mense per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa università ha fatto notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti tibetani (marzo 2008 e ottobre 2010), e l'arresto di Ilham Tohti nel luglio del 2009. Docente di dinamiche economiche nelle aree abitate da minoranze, all’epoca Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie all'intercessione dell'amministrazione Obama. Ale.Cap. L’ 54 MC APRILE 2014 comunità uigure, che erano state una sua peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e, forse, sempre più solo. Nel febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino, mentre - con la figlia Jewher Ilham (nata da un precedente matrimonio) - è in procinto di imbarcarsi per gli Stati Uniti per un incarico temporaneo presso l’Indiana University a Bloomington. Jewher parte, lui viene messo ad arresti domiciliari ancora più severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui media stranieri. Al telefono Tohti critica il governo, commenta l’attentato dell’ottobre 2013 (vedere MC, gennaio-febbraio 2014) a Piazza Tiananmen sostenendo che non ne è provata la matrice uigura e, allo stesso tempo, che non si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati da gruppi di uiguri per «proteggere i propri diritti». Tutto si ferma il 15 gennaio. Il professore viene scortato fuori dal suo appartamento del campus dell’Università Minzu. Il luogo dove è detenuto è ancora sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione alla violenza». Un coro di voci si alza in sua difesa: la blogger tibetana Woeser, Wang Lixiong, giornalisti, avvocati e intellettuali cinesi e stranieri, e tanti altri. Ma la figura di Tohti rimane controversa: i toni estremi e quasi forzati delle dichiarazioni degli ultimi tempi non hanno prodotto il consenso sperato. I suoi paragoni con altre situazioni, per esempio con quella dei ceceni, erano spesso fuori luogo, e portavano alla luce una psiche provata. Il caso Tohti rimane aperto. Si tende a spiegare il suo arresto con campagne anticorruzione che coinvolgono alti funzionari in Xinjiang, e che avrebbero come obiettivo ultimo i fedelissimi di Zhou Yongkang, con il tentativo di altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo giro di vite sulle voci critiche in Cina da parte della nuova amministrazione Xi, e con molto altro. Quello che resta da vedere è se la società civile cinese, la comunità internazionale e il governo del Stati Uniti siano pronti a sostenere una persona che, prima di essere un dissidente, è un uomo provato. Pechino e la «gestione del dissenso» A questo punto può essere utile comprendere la tragedia umana del prof. Tohti alla luce del si- MC ARTICOLI stema politico cinese. Tutto ciò di cui è accusato è vero: istigazione al terrorismo (durante le lezioni dichiarava apertamente, di fronte a un gruppetto di poliziotti seduti tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è appoggiato, e forse anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza (nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i diritti degli uiguri è la violenza). Nello stesso tempo, il modo in cui il suo caso è stato trattato, almeno dal 2009, ha solo contribuito a peggiorare la situazione. Lo stato mentale di Ilham si è compromesso, poiché viveva in un piccolo appartamento senza poter più veramente lavorare, e per i continui interrogatori e le in# Sotto: il momento della preghiera nella moschea di Niu Jie, a Pechino. A lato: la moschea di Turpan, Xinjiang. A destra in alto: l’entrata della «Minzu University of China». timidazioni. Se da un lato, quindi, la sua vicenda personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si può dire che il governo cinese, dal suo punto di vista, sbagli in toto. Del resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi terroristici, per realizzare - ad esempio - la separazione del Nord dal Sud, sicuramente non passerebbe inosservata. Il governo cinese è attaccato da molti fronti: uno di questi è costituito dagli oppositori interni. Esso non riesce a gestire il dissenso, perché in Cina manca completamente un meccanismo che faccia da «regolatore» nei casi in cui gli interessi del governo divergano da quelli di parti della popolazione, se si esclude quello che si basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno di maggiore democrazia, cioè di un coinvolgimento delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che tornerebbe molto utile per evitare un’escalation dei problemi. CINA # A destra: fedeli davanti alla moschea Id Gad, a Kashgar, Xinjiang. Sotto: bancarelle alimentari al mercato di Khotan, Xinjiang. Nel frattempo, il 26 febbraio, si è appreso2 che a Ilham Tohti, in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia l’ergastolo o addirittura la pena di morte. Alessandra Cappelletti* NOTE 1 - NIl link della petizione: https://docs.google.com/spreadsheet/pub?key=0AsKDF8 HXe4IdGowdmRKcXAyd0REa2QxSFBtRjhlX1E&output=html. 2 - Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/worldasia-china-26333583. * Già collaboratrice di MC, ALESSANDRA CAPPELLETTI è esperta di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato di ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È editor di un nuovo sito dedicato a Pechino: www.cinaforum.net. 56 MC APRILE 2014 RD CONGO di DAVID MOKE © David Moke Piccolo villaggio vicino a un confine triplo nel centro dell’Africa. Isolato dal mondo per le pessime strade. In una zona di incursioni da parte di milizie e popoli in transito. Prossimo a campi di sfollati nei quali manca tutto. E reso famoso (o quasi) dal reality show «Mission». Racconto di un missionario originario di Doruma, tornato a casa per delle brevi vacanze. DORUMA: NON SOLO MISSION NEL CUORE S DELL’AFRICA e si guarda la cartina del continente africano e si cerca un ipotetico baricentro, si cade su un confine triplo, a Sud Ovest della Repubblica Centrafricana (Rca), Nord della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e Sud del Sud Sudan. Proprio qui, un puntino segnato sulla carta porta a fianco il nome di «Doruma». Ci troviamo nella provincia Orientale del Congo, distretto Haut-Uélé (Alto Uélé) a una decina di chilometri dal confine con il Sud Sudan e circa cinquanta, in linea d’aria, con la Rca. L’omonima parrocchia si estende su una superficie di 14.046 chilometri quadrati (superficie di una media regione italiana, ndr) e conta 55.713 abitanti. Il clima è tropicale. Doruma fu la prima parrocchia dei missionari della Consolata in questa zona nel Nord Est della Rdc. I primi ad arrivarci furono i domenicani nel 1917 mentre la presenza dei missionari della Consolata risale al 1973. Nel 2001 la parrocchia divenne diocesana. La stragrande maggioranza della popolazione è dedita a un’agricoltura di sussistenza e all’allevamento di animali di piccola taglia (galline, capre). Nella zona non esistono industrie. Più del 50% è analfabeta. La gente, così come gli impiegati statali, si alimenta di RD CONGO tenario: risale al 1920. Il suo stato fatiscente non passa inosservato e il pericolo che crolli sulla testa dei fedeli è reale. Da tempo, a livello parrocchiale, è stata lanciata l’iniziativa di una raccolta fondi per costruire una nuova chiesa e ciascuno dà il suo piccolo contributo. Ma data la situazione in cui versa il paese e la povertà economica della gente diventa molto difficile riuscire nell’impresa. © David Moke Ribelli, assalitori e profughi ciò che coltiva. Le magre entrate provengono dalla vendita dei prodotti agricoli nei mercati locali e sono destinate all’acquisto di beni di prima necessità e per la scolarizzazione dei bambini. Da anni il villaggio è isolato a causa dell’avanzato stato di degrado delle strade e dell’insicurezza provocata dagli scontri armati. Gli scambi commerciali sono quindi molto difficili. Solo nei momenti di tregua, in bicicletta o in moto, si percorrono 500 - 700 km per l’approvvigionamento di petrolio (per le lampade), sale, sapone, vestiti e altri manufatti. Ci sono scambi commerciali regolari con le città sudsudanesi di Ezo, Yambio, e ugandesi Ariwara, Arua. Fino a spingersi a Kampala, capitale dell’Uganda. Il Sud Sudan è diventato il luogo più vicino per questi rifornimenti. I cristiani a Doruma La parrocchia di Doruma appartiene alla diocesi di Dungu-Doruma ed è gestita da due sacer- 58 MC APRILE 2014 doti diocesani locali, appoggiati dalle suore agostiniane, anche loro congolesi, impegnate nel campo della pastorale, della salute, dell’educazione e promozione sociale. Oltre il 90% della popolazione è costituita da cristiani cattolici. Sono inoltre presenti anche altre confessioni cristiane, in particolare le Eglises du réveil (chiese del risveglio) d’ispirazione evangelica. La pratica della vita cristiana non è così diversa da altre parrocchie della diocesi. È diffusa, anche da parte dei cristiani, la pratica di ricorrere a elementi di religioni tradizionali, quali feticci e stregoneria. La pastorale è organizzata e animata, secondo le indicazioni diocesane, dalle varie commissioni parrocchiali e dai gruppi apostolici che annunciano e insegnano la parola di Dio ai fedeli. Ogni giorno è prevista la celebrazione delle messe anche se l’affluenza infrasettimanale è molto bassa. La partecipazione è invece massiva in occasione delle grandi feste. L’edificio della chiesa è quasi cen- Dal mese di settembre del 2008 tutta l’area del Nord Est della Rdc è zona di incursioni dei ribelli fanatici ugandesi della Lord Resistance Army, (Lra, si veda MC giugno 2012, ndr). Il territorio di Doruma ne è particolarmente toccato. L’area è anche soggetta alle invasioni di mbororo, pastori nomadi # Pagina precedente: un campo di sfollati nei pressi di Doruma. # A fianco: padre David (sinistra) ha raggiunto Doruma in moto, dopo due giorni di viaggio da Isiro. # A destra: tipica strada nel Nord Est della Rdc durante le piogge, cioè quasi sempre. MC ARTICOLI smarrimento della popolazione. Negli ultimi mesi - un ultimo attacco si è verificato lo scorso dicembre - nella regione è subentrata una calma relativa che ha permesso ad alcune organizzazioni internazionali di intervenire in diverse forme a favore degli sfollati e dei rimpatriati della zona (Unhcr, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati e alcune Ong internazionali e italiane). Le cappelle Prima dell’arrivo dell’Lra, la parrocchia era suddivisa in sei settori nei quali erano presenti più di 60 cappelle. L’arrivo dei ribelli ha spinto la popolazione a concentrarsi nei centri più grandi per difendersi, e alcune cappelle sono state abbandonate dai cattolici. Una volta tornata la calma, alcuni fedeli sono rientrati nelle loro comunità di origine. Attualmente nei sei settori della parrocchia hanno ripreso vita 42 cappelle. Ma per poter visitare e animare con regolarità queste cappelle i sacerdoti incontrano enormi diffi- coltà, non disponendo di grandi mezzi di trasporto per raggiungerle. L’unico mezzo della parrocchia è una motocicletta vecchia e malandata, e far fronte ai suoi continui guasti diventa una spesa proibitiva. Gli sfollati di Doruma Fin dal dicembre del 2008, a causa delle cruente incursioni di elementi della Lra, un movimento massiccio della popolazione aveva cambiato l’ubicazione dei villaggi in tutta la zona. Nel territorio circostante si sono creati almeno nove centri di raccolta per gli sfollati, sei nel villaggio di Doruma (chiamati Combattant, Bitabi, Banga, Nambili, Zigbi, Manvugo, Diangele), poi a 20 km i siti di Gangala, Masombo (60 km a Nord ) e un sito a Naparka (60 km a Ovest). In tutti i centri gli sfollati convivono con le popolazioni del posto. Dal 2009 al 2011, gli sfollati hanno ricevuto aiuti d’emergenza in termini di cibo, ripari temporanei e cure mediche gratuite da varie organizzazioni internazionali. In questo momento © AfMC/Rinaldo Do provenienti da Camerun, Rca e altri paesi in continuo movimento e ricerca di pascoli. Le tensioni tra mbororo e comunità locali sono frequenti perché gli allevatori occupano i campi degli agricoltori congolesi per dare pascolo alle mandrie. Il governo ha smesso di ricacciarli oltre confine e permette loro di installarsi in territorio congolese. Così anche nella periferia di Doruma vive una loro comunità. Ma il vero flagello sono stati i sedicenti «ribelli» dell’Lra, ogni passaggio dei quali ha lasciato dietro di sé desolazione, morti violente, distruzione di scuole e strutture medico sanitarie, saccheggio di coltivazioni, mercati, cappelle, strutture parrocchiali. La gente è stata costretta a spostarsi in massa. Le donne, senza distinzione d’età, sono state violentate. Gruppi di persone sono stati sequestrati e obbligati a trasportare il bottino rubato. I giovani sono stati costretti ad arruolarsi al servizio di questi gruppi armati. È difficile porre rimedio a questa situazione che porta al tragico © R N/ Sigrid Modola RD CONGO # A sinistra: sfollati cercano un sito sicuro con le loro povere cose. # Sotto: la moto, oltre la bicicletta, resta l’unico mezzo di trasporto merci sulle strade per Doruma. © David Moke invece gli sfollati interni e i rimpatriati sono abbandonati a se stessi, senza alcun soccorso. Sul posto operano ancora alcune Ong internazionali, che intervengono su problematiche specifiche. Come Medici Senza Frontiere, incaricata della lotta contro la tripanosomiasi africana e Intersos (sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana) impegnata nella costruzione o il ripristino di alcune scuole elementari (a Masombo, Diabakpa e Gangala). Intersos segue e assiste pure 400 bambini vulnerabili di nove scuole primarie, distribuendo materiali scolastici e uniformi, pagando tasse scolastiche, creando club per bambini in ogni scuola, provvedendo alla realizzazione di latrine e pozzi d’acqua potabile per tre scuole elementari. Intersos offre anche un appoggio psicosociale alle vittime di violenze sessuali, promuovendo piccoli progetti per attività generatrici di reddito per il reinserimento socio economico delle famiglie fatte oggetto di aggressioni e saccheggi. Anche le Nazioni Unite sono presenti con l’Unhcr, che ha l’incarico di monitorare il territorio e la situazione in termini di sicurezza delle popolazioni e dei loro spostamenti, individuare le emergenze umanitarie ed elaborare programmi di sensibilizzazione e di accompagnamento su temi particolari quali le violenze sessuali e i diritti umani. 60 MC APRILE 2014 Acqua, igiene e salute Sfollati e rimpatriati vivono in condizioni molto difficili. Nelle strutture sanitarie (dispensari e centri di salute) mancano spazi per accogliere i pazienti. La stessa sala ospita i neonati e gli ammalati colpiti da diverse patologie. È il caso dei dispensari di Manyugo, Bakudangba, Gangala, Masombo, Naparka, Nambili e Diebio. Tutte queste strutture sono a disposizione degli sfollati e dei rimpatriati, anche se tutte mancano le sale parto e le latrine. I villaggi di accoglienza degli sfollati non hanno pozzi e le fonti di acqua non potabile si trovano nella boscaglia a un paio di chilometri dai centri abitati. Quest’acqua però è la causa principale di molte malattie. Sfollati e rimpatriati non hanno accesso alle cure mediche per mancanza di mezzi finanziari capaci di coprire i costi elevati delle medicine o dei ricoveri. Questo obbliga la gente a ricorrere alle cure tradizionali. Alla lunga, le malattie si aggravano e diventano un rischio per le comunità. Nella zona di Doruma molti muoiono perché non sono curati. Anche i centri sanitari e i dispensari mancano di una scorta di farmaci efficaci e adeguati per coprire il fabbisogno della popolazione. Aids, fame e case L’Aids è molto diffuso nella zona di Doruma. Ma per curarsi occorre andare all’ospedale di Ezo in Sud Sudan (a 95 km) dove esiste un centro per la prevenzione MC ARTICOLI Inoltre, gli sfollati sono stati costretti a spostarsi molte volte per sfuggire agli attacchi violenti degli aggressori, perdendo di volta in volta i raccolti, i propri beni e persino il necessario per cucinare. © R N/ Guy Oliver L’Italia e Mission # Sopra: un’anziana nel campo di © AfMC/ Gigi anataloni sfollati di Ngubu, Haut-Uélé. # A sinistra: la quasi centenaria chiesa parrocchiale di Doruma edificata nel 1920. Fu gestita dai missionari della Consolata (1973-2001), e il trattamento della malattia o in alternativa a Dungu in Rdc (a 210 km). Recarsi a Ezo significa sobbarcarsi anche le spese relative al visto di entrata e di uscita. Alcuni ammalati di Aids hanno potuto trovare ospitalità presso villaggi e famiglie sudsudanesi e usufruire di cure mediche gratuite. L’assistenza psicosociale realizzata nel villaggio di Doruma da organismi internazionali dovrebbe includere un’attenzione specifica agli ammalati di Aids con del perso- nale specializzato, perché in diversi casi si riscontra una forte aggressività. Diversi edifici scolastici usati per i bambini degli sfollati e dei rimpatriati sono fatiscenti e pericolanti: è il caso delle scuole primarie di Ndolomo e Gurba. Anche il liceo di Ndolomo è cadente. A Gangala e a Naparka le aule scolastiche sono insufficienti per accogliere tutti i bambini delle elementari. Inoltre le forniture scolastiche di base e i materiali didattici sono inesistenti. Un altro grosso problema per i profughi è mangiare. Nei villaggi della zona manca il cibo necessario e soprattutto i bambini patiscono la fame. La maggioranza degli adulti coltiva dei piccoli orti nella boscaglia, lontano dai centri abitati per il timore di nuovi attacchi. Gran parte degli sfollati trascorre la notte in cattive condizioni, riparandosi dagli agenti atmosferici con materiali di scarto. Il problema è quello di aggiungere in sicurezza le zone più lontane della boscaglia e reperire tronchi e rami necessari per realizzare capanne solide e capaci di proteggere tutta la famiglia. Nel luglio 2013 la Rai ha realizzato a Doruma alcune riprese per il controverso reality show Mission, che poi è andato in onda nel gennaio di quest’anno. Ma la gente del villaggio e le autorità non sono state interpellate, in particolare oggi si lamentano di non aver visto le immagini prima che fossero utilizzate nel programma e mandate in onda (e neppure dopo peraltro). Dopo quattro anni di assenza ho trovato la situazione socio-economica ancora difficile, nonostante un generale miglioramento della sicurezza. Grazie allo stato di pace, anche se precaria, la popolazione può lavorare nei campi e riesce a sopravvivere. Un grosso problema sono le strade di accesso, completamente dissestate per cui la zona rimane isolata. Sulle infrastrutture il governo dovrebbe prendersi le sue responsabilità. Per la gente di Doruma, nonostante i drammatici e disumani avvenimenti del recente passato, il fatto di essere ancora vivi, di poter coltivare la terra o di partire alla caccia, e soprattutto di rientrare e ritrovarsi in famiglia dopo i lunghi spostamenti del giorno, sono gioie che aiutano a superare la paura di nuovi attacchi e i traumi lasciati dalle vessazioni subite. Nei discorsi degli abitanti di Doruma c’è la speranza che finiranno le incursioni e che si potrà lavorare tranquilli, assicurare un’educazione ai figli e la salute per tutti, mangiare in santa pace il frutto del proprio sudore. David Moke* *Padre David BambilikpingaMoke è missionario della Consolata originario di Doruma, svolge il suo servizio a Roraima in Brasile ed è tornato per le vacanze al suo villaggio tra dicembre 2013 e gennaio 2014. APRILE 2014 MC 61 ECUADor Testo e foto di GIUSEPPE RAMPONI priME iMprEssioni Dopo Anni Di AssEnzA TRA BELLEZZA E Dopo sette anni di assenza, a gennaio sono tornato brevemente in Ecuador. Mi è sembrato di essere arrivato in un paese che non conoscevo, ben lontano dai ricordi che portavo dentro di me. Con la gente invece è stato diverso. Mi sono incontrato con persone che gioiosamente mi hanno scoperto ancora presente nella memoria e nel cuore. Alla contentezza di ritrovarci si aggiungeva la pressione del richiamo che mi animava «a tornare a casa», a stare con la gente che mi voleva bene. PROBLEMI indigeni: una grande storia, ma forestieri in casa propria Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo prestato il mio servizio missionario fino al 2005 (da là ero poi andato per due anni a Guayaquil, sulla costa, prima di rientrare in Italia). È stato un colpo duro per me vedere che si sono svuotate e che gli anziani sembrano soltanto guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni comunità aveva la sua scuola, che avevamo voluto come luogo di in- contro tra maestri, alunni, genitori e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per trovare insieme modi nuovi per mantenere la propria cultura e affrontare, senza evasioni e fughe e senza perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una grande pena vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole con più di 30 alunni. Licto contava 28 comunità e Flores 26, con un uguale numero dei centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia stata attuata una cancellazione sistematica riducendo le comunità a luoghi disabitati, come dopo una guerra. Cosa è diventato l’Ecuador? Rivoluzione La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È scritta sui tanti cartelli che abbondano lungo le strade. Questi gli slogan più comuni: • Siamo la generazione rivoluzionaria. • È la rivoluzione della speranza. • Rivoluzione è libertà. • Rivoluzione è patria. • Rivoluzione è educazione gratuita. • Rivoluzione è salute gratuita. Queste frasi tapezzano ogni cosa. Si vedono edifici rimessi a nuovo con un cartellone in evidenza che recita: «La rivoluzione cittadina ha finanziato questa opera». Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per dare un aspetto nuovo alla chiesa di Licto mettono in risalto l’aiuto della rivoluzione cittadina. Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe e asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di prima qualità. Abbiamo ponti che ci uniscono». La parola «rivoluzione» è definita come la «promozione della vera libertà». «La rivoluzione promuove case degne e educazione gratuita. Le vie della rivoluzione portano a opere integrali, complete». Slogan e cartelloni I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella e incoraggiano anche a essere vigilanti per il bene comune. «Se i bambini sono ben nutriti, anche i loro sogni lo sono». «Se dai soldi per la strada, aiuti soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è vera libertà». Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani, paga le tasse». Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi per sradicare atteggiamenti socialmente pericolosi sulla strada: • A chi non rispetta il ciclista togli la macchina. • Ferma chi non usa il casco di sicurezza. • Se vedi che l’autista ha bevuto, requisisci la macchina. • Se vedi uno che guida e usa il cellulare, fermalo. • Se vedi che carica gente per la strada, non lasciarlo proseguire. Si insiste molto sulla parola patria: «Patria è il meglio che c’è nel mio paese. Siamo la generazione che ricuperò la patria». Poi, immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria, andiamo avanti». I governanti dicono di volere l’Ecuador come una patria con piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili per far credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del popolo, ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e centralizzazione. Solo così, tutti insieme, si può costruire un paese bello, moderno e davvero presentabile alla ribalta nazionale e internazionale, che abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli scambi commerciali a livello mondiale. Allora la loro retorica arriva ad affermare che è indispensabile una classe dirigente stabile e capace, in grado di attuare e mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta anche a modificare la costituzione per permettere al suo presidente di essere rieletto per la terza volta e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina, paesi che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano. A dispetto di questi limiti politici, in realtà l’Ecuador è un paese meraviglioso. Conseguenze drammatiche Mons. Leonidas Proaño, un grande vescovo dell’Ecuador, diceva di aver creduto nell’uomo e nella comunità. La persona indigena è essenzialmente ubicata nella comunità, che vive unita e compatta in un territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono essere modificati da invasioni. Il progetto di efficienza e centralizAPRILE 2014 MC 63 ECUADOR zazione propugnato dal governo ha inciso drammaticamente nel vissuto degli indigeni. Anzitutto è stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per creare nuove scuole centralizzate, complete dall’asilo all’università. È la «scuola del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare a scuola. Così le città di Riobamba e Quito si sono riempite di indigeni che cercano di sopravvivere aprendo una miriade di piccoli negozi. nato, diventata capace di vivere bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da speranza: crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere la propria vita nonostante le macerie e oltre le macerie. Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di tanti anni e di tante opere; intorpidito Incontro indimenticabile Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo nove anni di assenza mi riconoscevano ancora. La commozione era visibile e piena di tenerezza. Come quando tornai a casa e non trovi niente delle cose che avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti vogliono bene. E ti ricordano che la missione non è la costruzione, ma la gente con cui hai cammi# Pagine precedenti: alcuni dei cartelli che si trovano ovunque nel paese, soprattutto lungo le strade principali. Sopra: padre Ramponi in visita a una delle scuole comunitarie ancora funzionanti. A destra: donne indigene nella città di Quito. Sotto: la chiesa di Licto rinnovata con i soldi della «rivoluzione cittadina». Licto si trova a 3.000 metri di altezza sulle Ande, nella diocesi di Riobamba dove fu vescovo mons. Proaño. 64 MC APRILE 2014 da una abitudine missionaria che aveva dato senso e significato a un certo percorso, perché la credibilità tradizionale del missionario doveva avere la sua visibilità nelle opere. Un cartello mi ha commosso: «Mi sono svegliato e ho voglia di sognare l’incredibile». Giuseppe Ramponi MALAWI di MICHELE VOLLARO IL PAESE TRA CORRUZIONE E DEFICIT MISSIONE DIFFICILE PRESIDENTE D a subito è indicata come la figura più adatta a riformare la disastrata economia nazionale e far fronte alla corruzione endemica nel suo paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi Joyce Banda, la seconda donna a raggiungere la massima carica di uno stato in Africa dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia. Il Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania, Mozambico e Zambia, in cui più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite, risulta il settimo più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è affetto dall’Aids ma gli ospedali sono costretti a chiudere perché non hanno i soldi per acquistare le medicine più banali come gli antibiotici. Dopo il decesso improvviso del suo predecessore Bingu wa Mutharika, Joyce Banda diventa © R N/ Guy Oliver Joyce Banda è la seconda presidente donna dell’Africa. Già militante nella società civile, è chiamata a guidare il suo paese fuori dal guado di corruzione e crisi economica. Scoppia però l’ennesimo scandalo e tutto l’esecutivo viene licenziato. Intanto si avvicinano le elezioni generali di maggio. APRILE 2014 MC 65 MALAWI presidente ad interim con il benestare della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema in cui la corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici esterni. Da attivista a presidente Il cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese dell’Africa australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel 2009 da Mutharika a ricoprire la carica di sua vicepresidente, dopo tre anni al dicastero degli Affari esteri di Lilongwe, più che altro nel ruolo di una figura di rappresentanza da mostrare sulla scena politica internazionale. La morte di Mutharika, dopo otto anni di governo, e la capacità di Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato istituzionale, hanno contribuito a fare di lei quel volto di cui necessitava il paese per continuare ad avere il sostegno internazionale. In politica dal 1999, Joyce Banda è stata ministro per la Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi, guidato fino al 2004 dall’allora presidente Bakili Muluzi, dopo una carriera passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per l’emancipazione della donna. La sua storia e le sue prime dichiarazioni da presidente, come quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio in favore di una maggiore legittimazione del ruolo delle donne e dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso del presidente statunitense Barack Obama e dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton. Tra le sue prime azioni una volta salita al potere dopo la morte del suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo presidenziale e il dimezzamento del suo stipendio come esempi lampanti del suo impegno a ridurre le spese della classe politica. Contenzioso con la Tanzania per le prospezioni petrolifere Il lago che dà vita, e non solo er decenni ha interessato direttamente solo i pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago Niassa o Malawi si contendevano le risorse ittiche. Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi fondali, la questione ha assunto un’altra ampiezza. Il lago è infatti al centro di una disputa sempre più accesa tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al vicino Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca. Subito dopo la concessione della licenza esplorativa alla britannica Surestream Petroleum e le proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e individuare una soluzione che fosse accettabile per entrambe le parti. Ma i colloqui si sono risolti in un nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si sono dovuti rivolgere al Forum degli ex capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc). Anche questo tentativo di mediazione sembra però essere arrivato a uno stallo e non è ancora chiaro se la questione sarà affrontata direttamente al prossimo vertice della Sadc dagli attuali capi di governo oppure riferita alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite. evidente però che il Malawi non è in alcun modo intenzionato a lasciarsi scappare la possibilità di trarre beneficio eco- È 66 MC APRILE 2014 © R N/ Guy Oliver P nomico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò lo scorso gennaio ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream per portare avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi giorni la società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e geologici nelle acque del lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di un accordo del 1890 tra le allora potenze coloniali di Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale utilizza la linea media delle acque interne per stabilire i confini tra due paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla sconfitta della Germania durante la seconda guerra mondiale e la perdite delle sue colonie in Africa. Michele Vollaro © R N/ Guy Oliver MC ARTICOLI # In queste pagine: alcune scene del lago Malawi a Ngara, nel Nord. Il tramonto, le reti da pesca e la disposizione dei pesci per il seccaggio. # Sotto: un minatore artigianale. Il paese è pieno di piccole miniere. Nonostante ciò, alcuni scandali recenti legati ancora una volta alla corruzione cominciano a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti funzionari governativi. Alcuni di questi sono ora sotto processo proprio a ridosso delle elezioni generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le quinte organizzate in Malawi dopo la svolta democratica del 1999. Tutto è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un controllo della polizia stradale di un impiegato ministeriale, il cui stipendio si aggira intorno ai 100 dollari al mese. Nel bagagliaio della sua auto sono state rinvenute valigie piene di banconote per un totale di 25.000 dollari. Pochi giorni dopo, il direttore del bilancio presso il ministero delle Finanze ha subito un’aggressione e rimanendo gravemente ferito da diversi colpi di pistola: i giornali locali hanno sostenuto che era sul punto di recarsi dalla polizia per denunciare una serie di frodi e pratiche di corruzione che avrebbero sottratto almeno 80 milioni di dollari alle casse dello stato, coinvolgendo direttamente una settantina tra funzionari, uomini politici e imprenditori. La presidente Banda ha agito con prontezza sospendendo immediatamente tutta la squadra di governo, chiedendo a ciascuno © R N/ Guy Oliver Corruzione in agguato che dimostrasse la propria estraneità ai fatti e licenziando in tronco il ministro della Giustizia e quello delle Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più invischiati nelle pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio del dirigente ministeriale. Uno scandalo di tale portata non poteva non riflettersi su colei che solo due anni prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate», questo è il nome che i giornali locali hanno dato allo scandalo di corruzione e al processo in corso, è infatti solo la punta di un iceberg. Secondo gli investigatori del governo, negli otto anni di presidenza di Bingu wa Mutharika la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici, imprenditori e funzionari corrotti sarebbe di gran lunga superiore ai 500 milioni di dollari. La quasi totalità dei quali proveniente dai fondi concessi da donatori internazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran Bretagna, che garantiscono ogni anno più del 40% delle necessità del bilancio statale del Malawi e che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere i pagamenti. Banda sotto accusa Come fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro, Joyce Banda che solo all’inizio del 2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la donna più potente dell’Africa si è troAPRILE 2014 MC 67 © R N/ Guy Oliver MALAWI # Qui a fianco: lavoratrici a Ngara, nel Nord Malawi. # A destra: pescatore sul lago Malawi. # Sotto: la presidente Joyce Banda interviene in una conferenza contro la fame. vata, alla fine dello stesso anno, costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi concittadini del fallimento della sua azione di governo. Le accuse più aspre provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In un’audizione fatta di fronte al parlamento di Lilongwe, il presidente della Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito la presidente: «II più grande ladro del mondo», sostenendo che lei fosse «parte integrante e fondamentale» del Cashgate e che la genesi dello scandalo fosse da rintracciare nel tentativo della Banda e dei suoi sostenitori di raccogliere fondi in vista delle prossime elezioni. Il rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è probabilmente uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da Allan Ntata, un avvocato di Lilongwe che ora vive in Gran Bretagna, ex consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine l’avvocato elenca laconicamente decine di episodi di corruzione, molti dei quali avvenuti durante il periodo della sua consulenza, e ricostruisce lo schema tipico delle frodi. In sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale dell’amministrazione pubblica per trasferire i fondi a società di comodo per servizi mai resi, preoccupandosi 68 MC APRILE 2014 poi di cancellare tutti i dati relativi alle società stesse di modo che fosse impossibile risalire a esse. Un procedimento tutto sommato semplice, che induce Ntata alla seguente considerazione: «La corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si occupava deliberatamente di come coprire lo schema utilizzato per sottrarre il denaro». Taglio dei fondi Numerosi sono però i commenti che vedono la sospensione del sostegno finanziario internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo come il problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia nazionale e combattere la corruzione che Joyce Banda aveva assunto non sia un’azione che si possa portare a termine dall’oggi al domani. Lo scrittore somalo Hassan Abukar sul portale d’informazione African Arguments, curato dalla prestigiosa Royal African Society, e l’economista sudafricano Greg Mills sul quotidiano di Johannesburg Business Day sono, per esempio, solo due tra le tante autorevoli voci che in Africa hanno cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di una visione più ampia della storia del suo paese per comprenderne meglio il ruolo a pochi mesi dal voto con il quale i cittadini del Malawi dovranno eleggere il loro futuro presidente, rinnovare i 194 parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la prima volta dopo 14 anni, anche i rappresentanti presso i consigli amministrativi locali. Mezzo secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il reddito pro capite in Malawi è oggi pari a poco più di 230 euro all’anno - superiore solo a quello di Burundi e Repubblica democratica del Congo - con un’economia prevalentemente basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il 90% dell’intera forza lavoro. Su una popolazione che supera di poco i 16 milioni di abitanti, sono ancora più di otto persone su dieci coloro che vivono nelle zone rurali del paese. Tuttavia proprio l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce solo per circa un terzo alla formazione della ricchezza nazionale, ed è subordinata al prezzo sui mercati internazionali del tabacco, il quale rappresenta più della metà delle esportazioni del paese. Economia in difficoltà Il Malawi è un importatore netto, dai prodotti alimentari a quelli petroliferi. Infatti nel 2012 la sua bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di poco inferiore al miliardo di dollari. La fine nel 1994 del regime di Hastings Banda (nessuna parentela con l’attuale presidente), che © AFP/ Andrew Cowie aveva governato il paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il passaggio a un regime democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli abitanti del Malawi si aspettavano. «La transizione alla democrazia fu gestita male - ha scritto Greg Mills - il minore controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento delle libertà civili non vide un corrispondente miglioramento della capacità politica delle istituzioni, mentre sul versante economico le poche industrie esistenti dovettero soccombere in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le aspettative dei cittadini, allo stesso tempo cresceva anche il numero complessivo dell’intera popolazione e i partiti politici si trovavano nella necessità sempre più incombente di trovare fondi per mantenere la loro base di sostenitori». È in un sistema come questo che si manifesta la corruzione: un’economia politica fatta di intermediari che pretendono la loro parte sulle importazioni, sui contratti governativi, sulle aste del tabacco. La presidente Banda si è ripromessa di portare avanti un © R N/ Guy Oliver MC ARTICOLI programma ambizioso di riforme: in primo luogo delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei si era sognato di realizzare, diminuendo la dipendenza finanziaria dall’estero e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette, importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per riuscirvi dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda sembrava essere cosciente della sfida quando, in un incontro lo scorso dicembre, poco prima della fine dell’anno, con un gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava: «Non è soltanto una questione di corruzione - riferendosi in particolare alla questione della chiusura degli ospedali - ma è qualcosa che riguarda più da vicino noi in quanto cittadini del Malawi e le priorità che vogliamo darci». Nei primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente dall’estero in termini economici. Michele Vollaro APRILE 2014 MC 69 Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus di Chiara Giovetti REPORTAGE PERIFERIE / 1 TORINO, GLI STRUMENTI PER NON AVERE PAURA Erano gli anni Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16 o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e nelle contraddizioni, continua a cambiare volto. N ell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e per l’assistenza alle vittime di violenza domestica. I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già presenti le seconde generazioni, dove la crisi # In queste pagine: doposcuola Asai in Via Gené a Torino MC RUBRICHE economica si fa sentire con tale forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà. Il lavoro dell’Upm L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere. Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina, albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica, con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati maggiori dei permessi di ingresso». Categorie speciali: rifugiati e titolari di protezione internazionale All’interno della comunità dei migranti ci sono poi delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi», interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC 8-9/2013, pp. 59-63). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da quella libica. L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone, ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi - a partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato - hanno raggiunto solo in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine dell’emergenza. «Uno dei problemi è che le politiche nazionali in materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che foto del reportage © AfMC/Chiara Giovetti 2014 APRILE 2014 MC 71 Cooperando… dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza». Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie) costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È ovviamente impossibile». I Rom La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto, a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di rispondere da sole ai propri bisogni abitativi. L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai torinesi la miniimu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche apprensione anche fra gli addetti ai lavori. 72 MC APRILE 2014 Finora lo sgombero di un campo, avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine. Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia, e nonostante la scolarizza- zione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché continuare a impegnarsi? Imparare per non avere paura Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di situazioni fami- MC RUBRICHE liari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico. # In basso a sinistra: il murales che Roa, un writer belga, ha dipinto sulla sede dei servizi sociali in Lungodora a Torino. | Qui a sinistra: sbirciando in una casa per rifugiati in Corso Francia, dove vige un regolamento molto essenziale (pagina 74). | Pagina 74: barbiere improvvisato in una casa per rifugiati sudanesi. I MISSIONARI DELLA CONSOLATA E I MIGRANTI Dal 2013 il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco, fa ora parte del team di coordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange, coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli, è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera di Milano a Torino. I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013, giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare, visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei, marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare anche attività di doposcuola, corsi e laboratori». Altra realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per tante cose: farsi ac- compagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei», conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e “piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi». Chiara Giovetti APRILE 2014 MC 73 Cooperando… Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi - spesso attivamente impegnati nei consigli d’istituto stanno vivendo. Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di dopo- 74 MC APRILE 2014 scuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai, Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori», spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un percorso di volontariato obbligatorio, mentre il Tribunale dei minori si occupa della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano piano piano a liberarsi anche della rabbia». Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo. L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo coordina un collettivo interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti, videomaker, attori... Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che creino condivisione, confronto, inclusione». Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare. Chiara Giovetti Libertà Religiosa di Paolo Bertezzolo RIfLESSIoNI E faTTI SULLa LIbERTà RELIgIoSa NEL MoNdo - 18 «PIÙ STATO!», «MENO STATO!» Vignette satiriche in Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali? F FEDI E LAICITÀ ino a che punto può spingersi la libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non credenti. Per assicurare il rispetto di questi principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio: la libertà, in questo caso di coscienza e di espres- sione, trova un limite nella libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira. I due grandi amici «Jesus and Mo» Tutti ricordiamo il caso delle caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten, considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto violente, morti e feriti. Un episodio analogo ma, per fortuna, del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in In- sinistra gli studenti Abhishek Phadnis e Chris Moos con un amico. Sulle magliette «incriminate» alcuni pezzi di scotch recano le scritte: «Censurato», «Questo è stato censurato, niente da vedere qui». © patheos com # Qui a destra, da Libertà Religiosa Censurare la censura Il giornalista del quotidiano londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette, considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra. Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva. Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista, infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata, ma la reazione inaccettabile degli altri giovani. 76 MC APRILE 2014 Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo Dall’altra parte dell’oceano, negli Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano valide al loro interno? Ne ha parlato il primo novembre scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama. Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa. Può essere certamente, come sostiene l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che trasferisce © liberalmedianot blogspot com ghilterra. La mattina del 3 ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London Scool of Economics, famosa università privata di Londra, si sono presentati in aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via via prodotte dagli autori (jesusandmo.net). Lo scherzo dei due non è stato preso bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani. Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro magliette sotto una giacca. sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico. La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana» americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche. Fuori dalla vita pubblica Nel numero di marzo 2012 del mensile conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a una semplice libertà di culto». La re- © thestar com ligione biblica, invece, secondo la dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola del giorno dopo». Ingerenze confessionali, ingerenze laiche Cosa lega tra loro il dibattito statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics? Apparentemente nulla. In realtà entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale» nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto: quello del cosiddetto «spazio pubblico». In esso si devono poter manifestare liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione, anche critica, della fede stessa. Non c’è dubbio, inoltre, che la fede biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio pubblico» rappresentato dalle norme dello stato? Probabilmente no. Si violerebbe, altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se, al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica ir- # Le testate dei periodici citati nell’articolo. | Qui sopra: il senatore repubblicano Usa Richard Mourdock. | Sotto: un cartello esprime l’urgenza della riforma sanitaria negli Stati Uniti, «Riformasanitaria ora». religiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme contrarie alle convinzioni religiose. Laicità piegata ai propri fini Non si tratta di un nodo semplice da sciogliere. Ci sono casi in cui le norme contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi. Per rimanere negli Usa, dove i problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona - ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali» che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi diritti previsti dalla Costi- APRILE 2014 MC 77 Libertà Religiosa La risposta è chiara: la restrizione del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la violazione di altri diritti costituzionali. Sono le norme costituzionali, dunque - naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e non confessionale. E dell’obiezione di coscienza Se dalle istituzioni e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e mane però aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose. Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente», ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della norma non erano stati incoraggianti». Paolo Bertezzolo # Sopra: prima della legge del 1972, gli obiettori di coscienza venivano incarcerati. # Sotto: il tema dell’obiezione di coscienza è ancora oggi motivo di forti polemiche. Ad esempio per quanto riguarda il diritto di obiezione dei medici a praticare aborti. © giornalettismo com La bussola dei diritti costituzionali religiose di una persona. In Italia non è stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Per quanto riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Ri© comune cinisello-balsamo mi it tuzione, le parti interessate possono ricorrere a un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza» dello stato e la restrizione della libertà religiosa? 4 chiacchiere con... a cura di Mario Bandera 20. SAN GIUSEPPE MARIA GAMBARO ANTONIO BERNARDO GAMBARO nasce a Galliate il 7 agosto del 1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili. Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani. Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il 7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hentceu-fu, capitale della provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del 1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la morte. Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre percepito la forza della tua presenza. Proprio vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi anni è stata un polo tessile di una certa importanza. Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in abbondanza nel Celeste Impero. APRILE 2014 MC 79 4 chiacchiere con... A dire il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina. Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio di amore e di misericordia di Gesù. Proprio così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di salvezza di Gesù Cristo. Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato? Io arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua immensa popolazione. Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina, era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a disintegrarsi. A quei tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi, facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano perseguiti perché godevano di immunità. L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti ostili nei confronti degli europei? Diciamo che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del popolo cinese. è da lì che prese il via la rivolta dei Boxer? Sì. Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali, ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra, artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la comparsa sui 80 MC APRILE 2014 grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatoi, telai, ecc., loro pensavano che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro. Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora l’impressione di voler impadronirsi della Cina. Proprio così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò che non apparteneva alla loro cultura. Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo? La gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese. Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano, venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la difesa degli stranieri. Questa misura però non ottenne il risultato previsto. Infatti il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità cinesi. Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra zona. Certamente, Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio 1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e cristiani cinesi. Con conseguenze tragiche per di voi. Informato di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni. Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche di quella terrena. Mentre ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi. Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri erano veramente giusti!». Il 7 luglio 1900 i corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro, vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedirne la sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000, Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe Maria Gambaro. Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara Mediamente IL PIACERE DI CAPIRE a cura di Gabriella Mancini FUORI DAL CORO SOTTO IL CIELO DI LAMPEDUSA. Annegati da respingimento Antologia poetica, Edizioni Rayuela, gennaio 2014, Euro 15,00 «Mettersi è il verbo di chi deve andare allo sbaraglio di un’emigrazione: mettersi nel viaggio. È carovana, pista nel de serto, in mani di mercanti di persone. Sono i peggiori: di qualunque altra mercanzia avrebbero premura di custodia e consegna. Il corpo umano è diventato la più redditizia delle merci». Sono alcuni dei versi dell’intensa prefazione di Erri De Luca per l’antologia Sotto il cielo di Lampedusa, raccolta di poesie per ricordare le tragedie dei migranti, pubblicata dal giornale online Glob011 e dalla casa editrice Rayuela, grazie all’organizzazione «100 Thousand Poets for Change» di Bologna. Il progetto dell’antologia ha origine dalla notizia degli annegamenti di massa, il 3 ottobre 2013 a Lampedusa, punta di un iceberg che ha visto morire nell’indifferenza delle politiche nazionali e internazionali una moltitudine di es seri umani alla ricerca di un destino, forse, migliore. Raccoglie 85 poesie scritte da 69 poeti affermati e esponenti della poesia civile, italiani e stranieri, donne e uomini, accomunati dallo stesso desiderio di dar voce a chi, purtroppo, è stato costretto a tacere. Storie, emozioni, parole e sentimenti rinascono dalla carta, nuotano tra le pagine e ripescano le iden tità dei sommersi, ne fanno sentire l’indignazione e il dolore, ce lo consegnano attraverso il miglior medium possibile: la poesia. In una babele linguistica prendono vita suoni senza suono: francese, inglese, dialetto romagnolo e dialetti sici liani/lampedusani, versi elegiaci e prosaici. Tutto il mondo in un’antologia che è tanto intensa quanto necessaria. «DIAMOCI DEL TU»: BOTTA E RISPOSTA CON PINA PICCOLO (poeta, scrittrice e giornalista, una delle organizzatrici di «100 Thousand Poets for Change» di Bologna) In anni diversi, la tua famiglia ha vissuto l’esperienza della migrazione. Cosa ti è rimasto dentro di quell’esperienza e come si è tradotta nel tuo lavoro? Vengo da una famiglia che migra da generazioni. Io sono nata negli Stati Uniti da genitori calabresi ma con altre origini. Sono tornata in Italia a 6 anni, ritornata in California a 16, per ristabilirmi nuovamente in Italia a 47 anni. Tutto questo andirivieni ha contribuito a farmi sentire estranea a entrambi i luoghi, ad acquistare una distanza critica che mi ha sempre fatto considerare tutto da almeno due punti di vista. La poesia è stata un rifugio per la mia alterità ed è la forma artistica più consona a chi sta ai margini, tra due lingue e due esperienze di vita. Per questo mi riconosco in chi affronta il viaggio della migrazione e il difficile processo di adattarsi a un altro luogo. L’indignazione scaturita dall’amnesia storica che ha l’Italia, riguardo l’emigrazione e la migrazione interna, si è poi tradotta in scrittura: saggi, poesie e interviste sono diventate il mio veicolo di comunicazione per tramettere il mio pensiero sul tema, in un contesto poco aperto agli «outsider». Con quale processo poetico sei riuscita a trasmettere una simile forza nei versi e nelle immagini? Sono cresciuta ascoltando racconti di navi sballottate nella bufera (mia madre e i miei fratelli fecero il viaggio di ricongiungimento familiare con mio padre, che già lavorava in fabbrica in California dalla fine del 1951, proprio sulla celebre «Andrea Doria»). Nella mia vita sono stata fortunata e ho avuto molte opportunità, specialmente quella di vivere gli anni ‘70 e ‘80 in un contesto come quello di Berkeley in California. Nella zona di San Francisco non era insolito che la poesia affrontasse argomenti sociali e che nelle manifestazioni contro le tante guerre ci fossero poeti a recitare i propri versi. Ho cercato di portare in Italia un po’ di quella esperienza e, forse, la veridicità delle immagini e la forza delle poesie che scrivo, arriva proprio dal mio bagaglio di vita. La raccolta unisce poeti da tutto il mondo, con un’attenzione particolare alle donne. Quali stili al femminile possono caratterizzare e dare risalto, secondo te, a tutto il progetto? All’interno dell’antologia ci sono 48 poesie scritte da donne e 33 da uomini. Le voci femminili hanno una grande varietà di toni e stili: si va dallo stile elegiaco sia di Selam Kidane che di Awa Meite Til, eritrea la prima, maliana la seconda, a quello sarcastico grottesco di Alessandra Carloni Carnaroli, da una poesia densa e filosofica con attenzioni storiche quali quelle di Meth Sambiase e Fernanda Ferraresso a quella immaginifica, con punte quasi pittoriche di Patrizia Dughero, alla vena surreale di Marina Mazzolani. Molto toccante, poi, la voce di Maria Sardella, un dialogo semplice ma che coglie l’esperienza materna nella sua quotidianità. APRILE 2014 MC 81 Mediamente I PRIMI SULLO SCAFFALE LA GRAZIA DI CASA MIA Julio Monteiro Martins, Rediviva Edizioni, 2013, Euro 14,00 Una raccolta poetica dal ritmo leggero, con toni melanconici che si alternano alla più piacevole leggerezza. L’amore verso la terra natia, il Brasile, e il dolce amaro gusto della vita in Italia, terra di adozione. Liriche che sembrano ballate e raccontano storie, poesie in rima con un saggio uti lizzo giocoso dell’idioma. Una raccolta in lingua italiana, inedito connubio tra «favela» e «favella». Amore e morte, sensualità e amarezza, malinconia e dolcezza, terra natia ed esilio forzato. Un cammino che dalla «grazia di casa mia» conduce alla perdita di quella grazia, fino alla riacquisi zione di ciò che sembrava perduto. PER ARRIVARE A SERA Milton Fernandez, Rayula Edizioni, 2014, Euro 15,00 Milton Fernández nato a Minas, in Uruguay è scrittore, poeta, regista e drammaturgo. In Per arrivare a sera, l’autore si interroga, con il suo inconfondibile stile borgesiano, sul senso della vita e della morte. Un sapiente e viscerale utilizzo della narrativa sensoriale fa sì che il lettore si immerga nella storia e ne percepisca emozioni, odori, densità. La trama ruota attorno al misterioso intreccio di due vite che finiscono per dipendere l’una dall’altra. Due anime diverse in cui è immediata l’im medesimazione da parte del lettore. Un libro poetico, surreale, psicologico. In una parola, unico. IL VILLAGGIO SENZA MADRI Ingrid Beatrice Coman, Rediviva Edizioni, 2012, Euro 10,00 Sono 350mila gli «orfani bianchi» in Romania, minori che vivono con nonni, zii, vicini o in istituti mentre i genitori lavorano all’estero come muratori e badanti. Metà di loro ha meno di 10 anni e molti sviluppano forme di depressione o iperattività e rifiuto delle regole. Ingrid B. Coman, con stile delicato ed elegante, si fa portavoce di dieci bambini, dieci storie basate su una dualità: il vizio e la virtù. Una commovente raccolta italo rumena che arriva dritta al cuore, perché ritrae emozioni e pensieri dei bambini e lo fa senza intaccarne la poesia. Non a caso, è l’autrice stessa a commentare: «Mi sono semplicemente messa in ascolto». Proprio di un ascolto profondo si tratta, il sentire con le orecchie e con l’anima cosa hanno da dirci i bambini: sull’ab bandono forzato, sulle scelte di vita degli adulti, su un’infanzia spesso negata. La memoria del do lore si trasforma in lezione di vita e conduce a una crescita saggia e consapevole. Un libro che con serva il sapore dell’ingenua dolcezza infantile e invita ad approfondire la conoscenza della società rumena. VEDIAMOLI INSIEME MIRACOLO A LE HAVRE Film del 2011, diretto da Aki Kaurismäki, disponibile in Dvd Marcel Marx, un ex scrittore rinomato e bohemien, si trasferisce volontariamente in esilio nella città portuale di Le Havre (Alta Normandia, Francia) dove, grazie alla sua professione di lustra scarpe, si sente più vicino alla gente e può soddisfare la sua viva curiosità. A turbare la sua tranquilla quotidianità arriva la notizia della malattia della moglie e la cono scenza con un piccolo migrante in arrivo dal cuore dell’Africa nera. Esistono i miracoli? Su questo tema si interroga il film che scava con profondità nell’essere umano, regalando al pubblico un po’ di sana poesia. I SITI DEGLI EDITORI LE PAROLE DI MEDIAMENTE • www.rayuela.com • www.redivivaedizioni.com Migrazione, poesia, morte, rinascita, esilio, femminilità, consapevolezza, grazia, bambini, infanzia, conoscenza, amicizia, miracolo, vizi, virtù, realtà, immaginazione, personalità. 82 MC APRILE 2014 MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 PER SOSTENERE I MISSIONARI DELLA CONSOLATA già «La Consolata» (1899-1928) Tramite «Missioni Consolata Onlus» a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Socia le) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO LA RIVISTA MENSILMENTE PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. L NON , . Sono graditi però contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. Per chi desidera solo L ricevere la rivista, si suggerisce un contributo annuo di Euro 30. A RIVISTA È INVIATA IN ABBONAMENTO MA IN OMAGGIO Il 5 per MILLE a Missioni Consolata Onlus Semplice, facile, efficace. Non richiede esborsi in denaro! Basta indicare sulla vostra dichiarazione dei redditi, modello 730 o modello unico, il nostro codice fiscale: 97615590011 COME CONTRIBUIRE Per donazioni online vedi: www.rivistamissioniconsolata.it www.missioniconsolataonlus.it Intestare sempre e solo a MiSSioni ConSolata onlUS Corso Ferrucci 14 - 10138 torino CONTO CORRENTE POSTALE (CCP) numero 33.40.51.35 Codice IBAN IT35 T 07601 01000 000033405135 UNICREDIT BANCA S.p.A. 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Ai fini fiscali, per godere dei benefici, occorre conservare per 5 anni la ricevuta del CCP o del bonifico bancario, che dimostri il versamento effettuato. PER INFORMAZIONI: Tel. 011/4.400.400 - Fax: 011/4.400.411 E-mail: [email protected] EREDITÀ E LEGATI PER INFORMAZIONI L’ISTITUTO MISSIONARI DI MARIA SS. CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere eredità e/o legati. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 Corso Ferrucci, n.14 10138 Torino tel. 011.4.400.400 fax 011.4.400.459 E mail: [email protected] Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it Proprietario: Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere, C.so Ferrucci 14 10138 Torino Editore: Fondazione MISSIONI CONSOLATA O.n.l.u.s. Iscrizione presso il Tribunale di Torino al n. 79 del 21/06/1948 Iscrizione R.O.C. n. 22050 Direzione: Luigi Anataloni (direttore) Francesco Bernardi (direttore resp.) 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CANALE & C. s.p.a. ha conseguito e mantiene le certificazioni UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004, applicando quindi un sistema di gestione qualità ed ambiente conforme a queste norme internazionali. (www.canale.it) FEDERAZIONE STAMPA MISSIONARIA ITALIANA Associata all’USPI APRILE 2014 MC 83