Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO
EDITORIALE
Ai lettori
di Gigi Anataloni
CONSUMARSI
FINO ALL’ULTIMO
amiglie». Questa è l’ultima parola che ha scritto. Poi basta. Non aveva più niente da dare. Consumata fino all’ultimo. Prima in Africa e poi in Italia, ha registrato pensieri, conferenze, prediche, interventi, emozioni, critiche e arrabbiature, pensieri santi e programmi di lavoro, numeri e parole. In quest’epoca digitale non capita spesso di assistere
a una fine così, dopo chilometri di parole scritte fino all’esaurimento totale. La fine della mia penna
biro. Gli ultimi giorni di carnevale, vigilia di quaresima.
Quaresima, il tempo che si conclude con un soffio: «Tutto è compiuto»! (Gv 19,30). Consummatum
est! Le ultime parole di Uno che ha dato tutto per amore. Non vogliatemene se oso mettere vicini
una vecchia biro e il Figlio di Dio in croce. Ma mi sento in buona compagnia. «Io non sono che una
piccola matita nelle mani di Dio», aveva scritto Madre Teresa. La fine della mia penna, che ha servito fino all’ultimo, mi ha un po’ emozionato e fatto pensare.
• All’Allamano, il beato che noi vorremmo presto santo - come non lo fosse già -, che nel suo testamento ha scritto ai missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro,
vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo».
• Al mio compagno di noviziato, amico e fratello in Italia e in Kenya, padre Giuseppe Ettorri, consumato dalla malattia a sessant’anni, il 23 febbraio di quattro anni fa. Il tutto era esploso solo pochi
giorni prima, proprio il 16, giorno anniversario della morte del beato Allamano.
• A suor Paolita, di cui a metà gennaio di quest’anno ho benedetto il funerale, mia immancabile
compagna di banco durante la preghiera del mattino nella chiesa del beato Allamano, che è andata in cielo a «esultare di gioia indicibile e gloriosa» avendo conseguito la Meta di tutta una vita
di fede e dedizione (cfr. 1 Pt 1,8-9 e Eb 12,2).
• A padre Giorda, di cui scriviamo questo mese, ripartito per il Tanzania alla bella età di 87 anni,
con in cuore un motto: «Punda afe, mizigo afike!» (muoia l’asino, [purché] il carico [la Buona Notizia di Gesù] arrivi».
«
F
ensieri arruffati. Molti i volti che si affollano nel cuore. Persone che non hanno ancora finito di consumare il loro inchiostro e persone che hanno dato tutto raggiungendo la Meta
dopo una corsa gagliarda, guardando in avanti. Questi ultimi mi ispirano una gioia profonda perché sono giunti là dove avevano tanto desiderato arrivare, liberandosi nel lungo
viaggio di tutto il superfluo per acquistare il solo Tesoro (cfr. Mc 10, 21) per cui vale spendere la vita. Persone che nel loro cammino hanno irradiato speranza, comunicato serenità, condiviso amore. Non «facce da quaresima», ma piccole umili luci della Pasqua.
La Pasqua, memoriale dell’avvenimento centrale della nostra fede senza il quale il Cristianesimo
sarebbe solo una religione come tante, è ormai imminente. Guardiamo a Colui che ha vinto la morte e il male consumandosi sino all’ultimo per far trionfare la vita e l’amore. Ricarichiamoci di luce
per continuare a tracciare segni - seppur piccoli - di speranza, di coraggio, di gratuità, di gioia e di
fraternità in un mondo avvolto dall’oscurità della disperazione, della violenza, del sopruso e dell’avidità. Buona Pasqua.
P
Cari lettori,
vi ricordo che la rivista è disponibile sull’Internet anche come pdf sfogliabile (scaricabile su computer e tablet).
Approfittatene. Se vi piace, fatela conoscere e, magari, dateci una mano. Grazie.
APRILE 2014 MC
3
SOMMARIO
4 | APRILE 2014 | ANNO 116
3 ai lettori
CONSUMARSI FINO ALL’ULTIMO
Il numero è stato chiuso in redazione il 7 Marzo 2014.
La consegna alle poste di Torino è avvenuta
prima del 31 Marzo 2014.
di Gigi Anataloni
5 dai lettori
CARI MISSIONARI
OSSIER
(lettere a MC)
ARTICOLI
10 Kosovo
MINORANZA SERBA
SOTTO ATTACCO
10
15
di Enrico Vigna
15 tanzania
L’ASINO MUOIA,
MA IL CARICO ARRIVI
35
di Luca Lorusso
21 brasile - bahia
LE LUNGHE TRECCE
reportage / myanmar
la nuova via
birmana
di Angela Lano
28 italia
MIGRAZIONI MAI IN CRISI
di
di Paolo Deriu
51 Cina
SILENZIO SU ILHAM TOHTI
di Alessandra Cappelletti
57 rd Congo
NEL CUORE DELL’AFRICA
di David Moke
62 eCuador
TRA BELLEZZA E PROBLEMI
di Giuseppe Ramponi
piergiorgio pesCali
RUBRICHE
8 Chiesa nel mondo
21
51
di Sergio Frassetto
70 Cooperando
di Chiara Giovetti
75 libertà religiosa - 18
FEDI E LAICITÀ
65 malawi
MISSIONE DIFFICILE,
PRESIDENTE
di Paolo Bertezzolo
79 4 ChiaCChiere Con
di Michele Vollaro
32 pillole «allamano»
RELIGIONE E FELICITÀ
di Mario Bandera
di Ugo Pozzoli
di Gabriella Mancini
81 mediamente
IN COPERTINA:
Lago Inle in Myanmar, pesca all’alba
(Foto: Piergiorgio Pescali).
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4
MC APRILE 2014
WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT
DAI LETTORI
Cari mission@ri
dell’amore sull’odio,
della gratuità sull’utilitarismo e il calcolo.
IL SEGNO DEI
CRISTIANI
Egregio Padre,
sovente mi chiedo perché il segno dei cristiani
debba ricordare la croce
e non la risurrezione, visto che, come dice Paolo
di Tarso, «se Cristo non è
risuscitato, allora è vana
la nostra predicazione ed
è vana anche la vostra
fede» (1Cor 15,14); non
solo, ma la risurrezione
include in ogni caso anche la morte. Dopo due
millenni di cristianesimo
possibile che non si sia
affrontato l’argomento,
al di là delle speculazioni
sui primi cristiani? Da un
po’ di tempo quando entro in chiesa mi segno dicendo: «Nel nome del
Padre che ha risuscitato
il Figlio per mezzo dello
Spirito Santo. Amen».
Gradirei un suo parere in
proposito. Grazie.
Vincenzo Palumbo
Moncalieri (TO)
Caro Vincenzo,
trovo molto interessante
la sua domanda. Credo
che la risposta non stia
tanto nella modifica delle
parole quanto nella comprensione dei significati
nascosti in quell’umile segno cui siamo così abituati. Due i livelli da considerare: le parole e il segno.
LE PAROLE.
L’espressione si trova in
Mt 28,19: «Battezzandoli
nel nome del Padre del
Figlio e dello Spirito Santo». È messa in bocca a
Gesù stesso e riflette certamente il modo di battezzare della comunità cristiana primitiva. Le parole
«nel nome» indicano un
rapporto personale, una
relazione con qualcuno vivo. Nella Bibbia il nome è
la persona. E certo ricorda la scena di Mosè che
chiede a Dio il suo nome
MC, TROPPO
POLEMICA?
(Es 3,13-14). Conoscere il
nome di qualcuno o dare il
nome è molto più della
banalizzazione burocratica a cui siamo abituati oggi, quando il nome diventa
una cifra in un computer.
È invece entrare in un
rapporto personale di amicizia e di famigliarità. In
questo caso è entrare nella comunità trinitaria, Padre, Figlio e Spirito. Pronunciare quindi queste
parole ha una doppia valenza: è un atto di fede nel
Dio Uno e Trino, ma è anche riconoscere con meraviglia e timore che Dio
mi ama e mi accoglie, mi
rende parte del calore
della sua famiglia.
IL SEGNO.
Ricorda la croce di Cristo:
palo del patibolo, albero
della vita, trono della gloria dal quale Gesù attrae
tutti a sé, scala che congiunge cielo e terra, fontana e sorgente del fiume
di acqua viva che rigenera
l’umanità nuova, torchio
del vino nuovo. Le citazioni bibliche e patristiche in
proposito sono innumerevoli. Basti ricordare come
Giovanni racconta la crocifissione (cfr. Gv 12,32;
3,14; 8,28; 19,16-37). Nella comprensione della fede, la croce non è mai solo
morte, ma è il segno rivelatore del trionfo dell’amore di Dio che nel dono
totale di sé vince una volta
per tutte la morte e il pec-
cato. In più questo segno
è carico di altri significati:
- toccandoci la testa, il
petto e le braccia ricordiamo l’espressione «amare Dio (e il prossimo)
con tutto il cuore, con
tutta la mente e tutte le
forze» (Dt 6,4-5; Mc
12,29-31) e rinnoviamo
quindi il nostro impegno
di coinvolgere la totalità
della nostra persona pensieri, affetti e opere
(e cose possedute) - per
«fare bene il bene» (Allamano), affinché «vedendo le vostre opere
belle rendano gloria al
Padre vostro che è nei
cieli» (Mt 5,16);
- il braccio verticale della
croce ci ricorda che nel
Crocefisso è ristabilito il
legame, la comunicazione tra cielo e terra, già
spezzato col peccato
presso il primo albero
(Gn 3,1-6); la croce ci rimette in comunione con
Dio;
- il braccio orizzontale ci
richiama alla comunione
con gli altri, l’abbraccio di
Gesù per tutta l’umanità
e per ciascuno di noi; la
croce ci permette di costruire relazioni nuove
con tutti gli uomini;
- è anche scudo di protezione contro la tentazione, contro il male;
- è segno di speranza perché proclama la vittoria
della vita sulla morte,
della luce sulle tenebre,
Rev. padre,
da tempo mi porto nel
cuore una obiezione che
trattenevo per timidezza.
Preciso che nel 1973 fui
in contatto con voi per
verificare se la vita missionaria fosse adatta per
me […] e così conobbi alcuni dei vostri missionari
come p. Mura Salvatore e
p. Vincenzo Pellegrino.
La vostra rivista, mi perdoni, è troppo polemica
(virtù che ascrivo ai torinesi e a pochi altri in Italia) in religione, in politica, in tutto. Si narra che
Madre Teresa di Calcutta
dicesse: «Chiedo di lavorare in carità, non guardo
i governi». Conosco anche altre comunità missionarie e nessuno parla
di politica. Accetto volentieri una sua, ma la penso così da decenni.
Lorenzo B.
email, 19/01/2014
Caro amico,
anzitutto grazie di averci
scritto. «La virtù della polemica è da ascriversi ai
torinesi», scrive lei. Vorrebbe proprio dire che in
redazione ci siamo inculturati bene, perché di torinesi veri e propri qui non
ce ne sono: tutti acquisiti!
Facezie a parte, mi preme
precisare che i missionari
della Consolata, nella loro
storia, non hanno mai fatto delle scelte di campo in
base all’approvazione o
disapprovazione di un governo o un regime. Hanno
sempre scelto in obbedienza a direttive specifiche di Propaganda Fide o
secondo una lettura dei
bisogni oggettivi di un
paese alla luce del VangeAPRILE 2014 MC
5
[email protected]
[email protected]
lo. Con una scelta preferenziale: i posti più difficili, più poveri, più impegnativi. Basti pensare all’impegno nel Nord del
Congo. Con questo non legittimano situazioni politiche discutibili, piuttosto
vivono il principio che il
missionario non è un agente politico ma un servo
del Vangelo.
Il che non significa che un
missionario non faccia politica, perché con le sue
scelte in favore dei poveri,
degli esclusi, dei popoli
minoritari e delle periferie, di fatto fa politica. E
diventa una spina nel
fianco di poteri ingiusti, illiberali e diseguali, ma
anche di quei poteri che in
nome della democrazia in
realtà sfruttano e schiavizzano intere popolazioni. Volente o nolente il
missionario fa politica anche quando semplicemente propone la pace invece della guerra, il perdono invece della
vendetta, la gratuità invece del profitto, il rispetto
della diversità invece dell’omologazione, la difesa
della vita per quello che è
invece che per quello che
rende, la giustizia invece
dei privilegi.
Come rivista cerchiamo di
essere prudenti per non
danneggiare chi vive sul
terreno e potrebbe pagare
per nostre espressioni
troppo esplicite. Preferiamo far parlare la Chiesa
locale, evitando nostre opinioni personali e usando
invece documenti o interviste di religiosi e vescovi
dei diversi paesi di cui
scriviamo.
Troppo polemici? Non è
nostra intenzione. Cerchiamo il più possibile di
offrire un’informazione
onesta e documentata.
Riteniamo però alienante
parlare di poveri senza
affrontare le cause della
povertà, di orfani senza
approfondire il perché
del loro abbandono, di
malati senza capire perché non hanno cure, di
guerre e violenze senza
analizzarne le cause im-
6
MC APRILE 2014
mediate e remote. Ci
sembra un nostro dovere,
scrivendo su una rivista
mensile, fornire un’informazione approfondita e
non edulcorata sulla
realtà del mondo.
I NON CRISTIANI
SI SALVANO?
Mia nipote mi ha posto
alcune domande partendo dal fatto che ha un ragazzo albanese di famiglia musulmana.
La prima domanda è: chi
è nato in una nazione
non cristiana e pertanto
assume per default la
religione del posto, qualunque essa sia, sarà
convinto della sua verità
e del suo Dio. Se Dio si
presenta loro in punto di
morte e loro non possono accettarlo avendone
sempre avuto un altro,
sono tutti destinati all’Inferno? O in un altro caso,
ammettendo che alcuni
di loro decidano di accettarlo e questo sia sufficiente per la salvezza,
perché mai noi dovremmo fare tanta fatica per
tutta una vita se poi basta sinceramente pentirsi alla fine?
La seconda domanda è:
come sai che qualsiasi libro che sia stato scritto in
materia, Bibbia inclusa,
non contenga in parte o in
totalità delle cose non vere visto che non esiste
possibilità di verifica?
Figlia della luce
20/12/2013
Cara lettrice,
noi (cristiani) crediamo
che Dio è uno solo: ieri,
oggi e sempre, anche
quando è conosciuto sotto
nomi differenti. E questo
Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della
verità» (1 Tm 2,3-4). E gli
uomini sono fatti per conoscere e amare Dio perché portiamo il suo imprint: sono fatti a sua immagine e somiglianza. Da
sempre nella storia dell’umanità la fede nell’esistenza di Dio è una di-
mensione fondamentale
di ogni cultura. È solo negli ultimissimi secoli, e
nella nostra cultura occidentale che degli uomini
si sono ufficialmente dichiarati agnostici o atei e
sostengono che Dio non
esista e sia solo un’invenzione.
Attraverso i secoli e i continenti, popoli diversi hanno imparato a conoscere
Dio a tentoni (At 17,24-28)
e ciascuno l’ha chiamato
secondo la propria lingua,
celebrato con i propri riti
e capito secondo la propria teologia. Dalla comprensione di Dio e dall’esperienza quotidiana, ogni popolo si è dato regole
di vita in base alle quali una persona è considerata
giusta, buona e rispettabile. Parafrasando le parole
di s. Paolo nel testo sopra
citato, possiamo dire che
seguendo il meglio delle
proprie tradizioni umane
e religiose ogni uomo ha
potuto realizzare la sua
vocazione fondamentale:
quella di essere immagine («stirpe») di Dio (cfr.
Gn 1,26).
È vero che nella storia
della Chiesa questa visione è stata spesso dimenticata ed è prevalsa l’idea
che tutti i non battezzati
fossero destinati alla dannazione eterna, con conseguenze anche gravi, come il battesimo forzato
dei popoli latino-americani. Ma il Concilio Vaticano
II (1962-1965) ha avuto il
merito di purificare la
Chiesa da queste visioni
non evangeliche della storia della salvezza. Basti
per questo la costituzione
Gaudium et Spes: n.16,
sulla coscienza retta; n.17
sulla libertà; n.58, su Vangelo e culture; oppure Lumen Gentium: n.16 sui
non cristiani; o la brevissima dichiarazione Nostra
Aetate firmata da Paolo
VI.
Così, circa la prima domanda, questo è ciò che si
pensa oggi nella Chiesa.
Ogni uomo ha una capacità naturale di relazionarsi con Dio, perché
creato da Dio. Ognuno è
chiamato a vivere una vita
retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza;
su questo sarà valutato e
non su quello che non conosce. Gesù è morto e risorto per salvare tutti gli
uomini di ogni epoca e di
ogni angolo del mondo,
non solo chi espressamente lo riconosce e aderisce a lui liberamente e
coscientemente con un
atto di fede e col battesimo. La «condanna» è per
chi coscientemente non
vive secondo gli standard
migliori della sua cultura.
Non si tratta quindi di una
decisione all’ultimo minuto per il Dio dei cristiani,
ma di un modo continuo di
essere persona degna, onorata e giusta, secondo
una coscienza retta. Ciascuno è chiamato a rispondere per quello che
sa, non quello che ignora
senza colpa. Questo vale
per il non-cristiano quanto per il cristiano. Non c’è
illuminazione dell’ultimo
minuto.
La seconda domanda:
«Chi ci assicura che la
Bibbia non contenga sbagli?». Nessuno. La Bibbia
contiene sbagli scientifici,
geografici e storici perché
non è né un libro di storia
né di geografia né di
scienze. Scritta nell’arco
di oltre 1000 anni, la biblioteca della Bibbia è
condizionata dalle conoscenze degli uomini contemporanei a ciascuno dei
suoi libri. Anche dal punto
di vista religioso la Bibbia
contiene una progressione tra le idee ed le esperienze raccontate nei suoi
libri più antichi e quelle
contenute nei libri conclusivi come quelli del Nuovo
Testamento. Questo perché non è un unico libro
«di religione» scritto da
un solo autore che ne ha
poi revisionato attentamente ogni parte per una
perfetta armonizzazione
di tutto e l’eliminazione
delle contraddizioni o degli elementi sfavorevoli.
La Bibbia riflette il cam-
Cari mission@ri
mino di fede di un popolo
che a fatica è cresciuto
nella sua comprensione
delle cose di Dio e si racconta, offrendo ai lettori
una testimonianza del
proprio cammino spesso
faticoso. Fino alla testimonianza di Gesù Cristo,
figlio dell’uomo e figlio di
Dio. Testimonianza ancora una volta affidata alla
fragilità di altri uomini.
Come possiamo verificare allora che la Bibbia dice parole vere su Dio?
Prima che un libro di idee
e di dogmi, la Bibbia è un
libro di persone che hanno creduto e offrono liberamente la loro testimonianza su quello che hanno visto, toccato, udito,
incontrato e amato (cfr. 1
Gv 1,1-4), su quello che
ha dato senso alla loro vita. La verità si scopre solo accettando di entrare
in relazione con dei testimoni e attraverso loro
con Colui che loro hanno
conosciuto e amato.
NON SONO
D’ACCORDO
Carissimo direttore.
Sono un fedelissimo della vostra rivista missionaria e apprezzo sempre
leggere gli articoli
sui/dei missionari della
Consolata [...]. Vorrei farle notare, per la mia esperienza di missionarietà acquisita sul campo
a fianco di padre Noè
(Cereda) nell’isola dei lemuri (Madagascar), che
non sono per niente
d’accordo sull’introduzione del suo editoriale
«Santa audacia» (gen.
2014) quando confonde il
potere temporale della
Chiesa con la vera storia
della nostra cristianità ,
«con la nostra fede che
ha perso sapore per non
essere più in grado di
creare Chiese di bellezze
straordinaria» … (sic!).
Personalmente credo
che Papa Francesco nel
suo dire si riferisca ad
altre gioie, ad altre bellezze e ad altra audacia.
È un richiamo a essere
meno succubi alle realtà
dorate di questo millennio. È il denaro, la ricchezza e la fame di vanagloria che la nostra società ci presenta come
l‘inizio di una felicità eterna. Riuscire a non farci trascinare nel «così
fan tutti» e superare le
barriere di chi sposa il
faceto e le tendenze dell’egoismo più sfrenato è
sicuramente l’audacia
che ci chiede Papa Francesco. Una frase che ha
detto ai cristiani è sulla
bocca di tutti: «I fondatori della chiesa Cattolica
non avevano il libretto
degli assegni».
Nel mio piccolo ritengo,
senza supponenza, che
ne passa di acqua nella
storia fra scelte condivise e oppressioni tipiche
del medioevo verso i più
deboli, depredati dai pochi ricchi che avevano
anche i privilegi dello ius
primae noctis.
In terra di missione è la
fede della gente che fa la
differenza, e non certamente le chiese gotiche
che da ai nuovi cristiani
la gioia di amare, la bellezza della loro anima e
l’audacia di professarsi
cristiani e distinguersi
nel sacrificio verso i propri fratelli a scapito della
loro vita. Da noi è l’egoismo che impera nella
società, è l’indifferenza di
tanti nuclei famigliari
che davanti a tanti fratelli
meno fortunati si chiudono in «chi se ne frega».
L’importante è che a noi
non manchi nulla. Non
si può certo fare di ogni
erba un fascio dimenticando che per chi vuol
essere «credente» la
carità è la massima espressione del cristianesimo sia nelle parrocchie che nelle missioni
sparse in tutto il mondo,
una carità che parte dal
cuore e irradia l’universo di gioia, di bellezza e
di audacia senza se e
senza ma come tantissime persone impegnate
in associazioni che sacrificano per un messaggio solidale la loro
vita per i propri fratelli.
Per chiudere l’argomento credo che le chiese
debbano essere dignitose in ogni parte del mondo, con un imperativo:
«Non essere bellissime
scatole, ma senza fedeli». Vuote.
Giovanni Besana
Missaglia (Lc), 30/01/2014
Caro Sig. Giovanni,
grazie del suo interessante commento. Mi permetto solo di precisare che la
mia frase è leggermente
diversa da come lei l’ha riportata. Scrivevo: «Basti
pensare a molte delle
chiese costruite alla fine
del secolo scorso, spesso
livellate da un’architettura populista incolore che
non ha più neppure l’eco
della gioiosa bellezza e
dello slancio audace delle
chiese gotiche. Specchio
di una fede che ha perso il
sapore, che non osa più».
Con quello non intendevo
certo esaltare il potere
temporale della Chiesa,
ma mi riferivo a un periodo della nostra storia, il
Medioevo, su cui abbiamo
delle opinioni diverse. Le
chiese gotiche non sono
frutto di un periodo cupo e
triste della nostra storia
ma espressione di un
mondo pieno di luce, colore, slancio e speranza. Le
comunità cittadine che
costruirono tali cattedrali
vivevano tempi d’intensa
vitalità economica e culturale e di relativa pace,
nei quali, accanto a mura
e castelli, era anche possibile costruire, con il lavoro di tutti, la casa della
comunità, in cui celebrare
le feste, dare rifugio ai
pellegrini e viandanti, trovare asilo in tempi di calamità e di abusi da parte
dei poteri politici.
Quanto alle oppressioni
verso i deboli da parte di
pochi ricchi predatori,
credo proprio che noi oggi
abbiamo ben poco da insegnare a riguardo, giacché, nonostante la crisi economica tocchi tutto il
mondo, i ricchi diventano
sempre più ricchi, i poveri
impoveriscono sempre di
più e la classe media
scompare. Storia di oggi,
non del Medioevo. E lo
«jus primae noctis» lasciamolo al mondo delle
bufale rinascimentali cui
appartiene, come tanti altri luoghi comuni sul Medioevo come scrive Alessandro Barbero (vedi l’articolo su La Stampa del
28.8.2013, pag. 30-31 e
l’intervista su Zenit.org
del 16.9.2013). «Tutti
quelli che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi,
la associano a un’alterità
barbarica, all’esotismo
dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran
fascino, che è l’esotismo
del passato. Ed è il motivo
per cui da queste leggende è così difficile liberarsi.
Non importa se da cento
anni nessuno storico serio
le ripete più, e se grandi
studiosi come Jacques Le
Goff hanno insistito tutta
la vita a parlare della luce
del Medioevo. Nel nostro
immaginario è troppo forte il piacere di credere che
in passato c’è stata un’epoca tenebrosa, ma che
noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che
vivevano allora».
La realtà è che nella storia la costruzione di una
cattedrale non ha mai
portato alcuna città alla
bancarotta, mentre, ad esempio, certe faraoniche
costruzioni olimpiche
hanno invece rovinato
delle nazioni.
APRILE 2014 MC
7
La Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
BRASILE
COREA DEL SUD
GIOCARE A FAVORE
DELLA VITA
MARTIRI COREANI
P
iù di 30 mila religiose, quasi 8
mila sacerdoti e circa 2.700
fratelli religiosi si sono mobilitati
per una campagna di prevenzione
che avrà inizio il 18 maggio in tutte
le città sedi del Campionato Mondiale di Calcio per aumentare la
consapevolezza della popolazione
su problemi come la tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale nel paese. Si tratta della
campagna «Giocare a favore della
vita», promossa dalla Conferenza
dei Religiosi del Brasile (Crb), che
si concentrerà principalmente
sulla «prevenzione e informazione». La tratta di esseri umani e lo
sfruttamento sessuale sono una
minaccia per molti bambini, giovani e adulti, che muove miliardi di
dollari. Eventi internazionali come
la Coppa del Mondo di calcio, finiscono per essere occasioni per la
pratica di questo crimine, dal momento che in molti casi i bambini
sono adottati illegalmente e gli adolescenti sono coinvolti inizialmente per la promozione dello
sport, ma poi vengono immersi
nelle reti di sfruttamento sessuale.
(Radio Vaticana)
l 7 febbraio scorso, Papa Francesco ha autorizzato la CongreIgazione
per le cause dei Santi a
promulgare il decreto per il martirio dei servi di Dio Paolo Yun Jichung, laico, e 123 compagni, uccisi in Corea in odium fidei tra il
1791 e il 1888. È stato Giovanni
Paolo II ad aprire la strada degli
altari al gruppo nel 2003, quando
li ha proclamati Servi di Dio. Lo
stesso papa polacco aveva canonizzato nella sua prima visita in
Corea, nel 1984, il sacerdote Andrea Kim e altri 102 martiri. L’epopea dei martiri coreani - dal
1785 fino al 1882 sono stati uccisi
più di 10 mila cattolici, dei quali
solo 10 erano stranieri - è una
fonte di ispirazione e di rinnovamento per la Chiesa di Corea che
dedica il mese di settembre al
culto e al pellegrinaggio ai luoghi
del martirio. Nel mese di luglio
2013 si era tenuta addirittura una
«Maratona del rosario», per chiedere a Dio la canonizzazione di
Paolo Yun e dei suoi compagni. La
beatificazione dovrebbe avvenire
il 15 agosto e a proclamarla probabilmente sarà lo stesso Papa
Francesco. Il pontefice, infatti, do-
vrebbe essere in Corea del Sud fin
dal 13 agosto per l’apertura della
Giornata asiatica della gioventù,
che si terrà a Daejon e il cui tema
sarà: «Giovani dell’Asia, svegliatevi! La gloria dei martiri risplende
su di voi».
(AsiaNews)
BANGLADESH
MUSULMANI ALL’ASCOLTO
n Bangladesh il 99% degli ascoltatori dell’emittente cattolica
IRadio
Veritas Asia (Rva) è musulmano e ammette di avere «una vita migliore» da quando segue i
programmi. Radio Veritas Asia è
un’emittente radiofonica cattolica
con base a Fairview (Quezon City),
nelle Filippine, che risponde alla
Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc). Chiamata
anche «Il missionario dell’Asia» e
«La voce della cristianità asiatica», Rva offre stazioni in diversi
paesi del continente. L’edizione
bengalese va in onda da 33 anni,
conta 1 milione di ascoltatori ed è
gestita dal Christian Communication Center. Tra gli argomenti
trattati dai programmi vi sono
questioni familiari, sulle donne, economia, scienza e notizie dal
mondo. Inoltre si trasmettono letture dai testi sacri del buddismo,
cristianesimo, induismo e islam.
«Ascoltando questa radio - sottolinea un fan - le persone si sentono più motivate ad aiutare la società. E soprattutto nelle aree rurali la loro vita sta cambiando in
modo positivo».
(AsiaNews)
# Brasile - il logo della campagna
«Giocare a favore della vita».
8
MC APRILE 2014
La Chiesa nel mondo
PAKISTAN
CONTINUARE L’OPERA
iamo determinati a continuare con maggiore forza
«S
l’opera iniziata da Shahbaz, perché il suo sacrificio possa diventare sempre più un seme per la
pace in Pakistan e in tutto il mondo. E attraverso la nostra fede in
Gesù, vogliamo mandare un messaggio di armonia e convivenza
che sia per tutti, cristiani e musulmani, e per tutte le vittime di
una ideologia violenta». Con queste parole Paul Bhatti - ex ministro federale per l’Armonia nazionale e leader dell’Apma (All Pakistan Miniorities Alliance) rilancia l’impegno nella lotta all’estremismo in Pakistan. Egli sa
di essere nel mirino dei talebani e
dell’ala fondamentalista, la stessa che ha rivendicato l’assassinio
di suo fratello Shahbaz Bhatti il 2
marzo 2011, «ma - commenta continuiamo a lottare per le vittime delle violenze e delle ingiustizie». In meno di due anni, e pur
fra numerosi ostacoli e limiti, egli
ha saputo ottenere la liberazione
di Rimsha Masih, minorenne cristiana con problemi mentali accusata (ingiustamente) di blasfemia, e ha promosso iniziative incentrate sul dialogo interreligioso
e la riconciliazione fra le diverse
anime della nazione. Per questo
Paul oggi, come Shahbaz in pas-
sato, viene visto come un «infedele», una spia legata all’Occidente e che perciò va combattuta.
(AsiaNews)
MESSICO
I SOCIAL NETWORK
ltre 200 tra sacerdoti, seminaristi, religiosi e laici hanno dato
O
vita al V Sinodo diocesano dell’arcidiocesi di Puebla che ha studiato
come utilizzare le reti sociali, i media digitali e Internet per diffondere
i valori della Chiesa cattolica. «Alla
luce della parola di Dio e dell’insegnamento del magistero, dobbiamo vedere come possiamo svolgere meglio il servizio al popolo di Dio
nell’opera di evangelizzazione» ha
affermato il vescovo ausiliare di
Puebla, mons. Eugenio Andrés Lira
Rugarcía. «Come ci dice Papa
Francesco - ha aggiunto il vescovo
-, i media sono doni di Dio, sono
opportunità per avvicinarsi e incontrarsi: è una realtà che la Chiesa
sta usando, ma dobbiamo fare di
meglio. Un esempio è dato dalla
possibilità di seguire in modo sem-
pre più veloce i fatti del mondo e le
attività del Santo Padre come è
successo per la foto del Papa apparsa sulla copertina della rivista
Rolling Stone il 13 febbraio, e la foto di un graffito fatto in una strada
di Roma vicino al Vaticano, con il
Papa in versione «Super eroe»:
due immagini che, in pochi secondi, hanno girato il mondo via social
network e media internet.
(Fides)
MYANMAR
INSIEME PER LA MADONNA
arcivescovo di Yangon, mons.
Charles Bo, ha presieduto le
L’
solenni celebrazioni per i 112 anni
del Santuario mariano di Nostra
Signora di Lourdes a Nyaunglebin
a cui hanno preso parte oltre 100
mila persone - cristiani, buddisti,
musulmani e indù - che hanno
affollato il santuario per pregare la
Madonna e chiedere pace giustizia
e sviluppo umano in Myanmar e la
fine delle violenze confessionali soprattutto fra buddisti e musulmani.
I cattolici birmani sono una piccolissima percentuale sul totale (poco più dell’1%), ma la loro presenza
associata all’impegno nei settori
dell’istruzione e dello sviluppo umano e il loro lavoro verso l’unità e
la pace sono fondamentali in una
realtà contraddistinta da conflitti
etnici e scontri interconfessionali.
(AsiaNews)
ECUADOR: NUOVO VESCOVO DI SUCUMBÍOS
ndigeni e comunità afro e contadine hanno accolto con una partecipazione di massa mons. Celmo Lazzari, C.s.i., che il 1° febbraio si è insediato come vescovo del Vicariato Apostolico di San Miguel de Sucumbíos. Erano presenti tutte le parrocchie, i cui fedeli hanno preparato una sfilata multicolore per le
strade di Nueva Loja, esprimendo i loro sentimenti di gioia e di speranza per l'arrivo del nuovo vescovo, a
più di tre anni dalle dimissioni del suo predecessore. Alla cerimonia di insediamento hanno
partecipato diversi vescovi dell’Ecuador. Dalla
Colombia, precisamente dal Vicariato di Puerto
Leguízamo-Solano, è arrivato mons. Joaquín
Humberto Pinzón Güiza, I.m.c., che ha espresso
il suo desiderio di riprendere la collaborazione
tra le Chiese sorelle del confine, dove molti
hanno bisogno del sostegno della Chiesa: «Abbiamo grandi sfide nelle comunità di confine e
dobbiamo vedere come possiamo lavorare insieme a queste persone» ha detto mons. Pinzón
Güiza.
(Fides)
I
# Ecuador - mons. Celmo Lazzari saluta i fedeli accorsi
alla sua entrata nel vicariato di Sucumbíos.
© Afp photo / Armend Nimani
KOSOVO
di ENRICO VIGNA
Chiese ortodosse
bruciate, cimiteri serbi
vandalizzati, libertà di
movimento limitata,
identità e cultura
negate. La minoranza
serba in Kosovo,
costretta in una
condizione di
apartheid, vede i
propri diritti
fondamentali violati.
Segno di un paese che,
nonostante l’avallo
internazionale,
rimane distante
dagli standard minimi
della democrazia.
10
MC APRILE 2014
I GIORNI DELLA SPIRITUALITÀ E DEL RACCOGLIMENTO
NEL KOSOVO MARTORIATO
MINORANZA SERBA
SOTTO
ATTACCO
D
opo l’intervento militare
della Nato nel 1999, la regione del Kosovo è stata
posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il controllo è
stato assunto dalla maggioranza
albanese, e la popolazione serba
è fuggita in gran parte in Serbia.
Le minoranze rimaste vivono attualmente in piccole enclaves
protette dalle forze internazionali. Il 17 febbraio 2008 il Kosovo
si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da
parte di 106 stati, tra cui gli Usa
che vi hanno insediato una importante base militare (Camp
Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la
Corte internazionale di Giustizia
ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo
non era stata un atto contrario al
diritto internazionale. La Serbia
non riconosce la secessione di un
territorio che rappresenta la culla
della sua cultura. La dichiarazione
della Corte è stata riconosciuta
dall’Assemblea Generale dell’Onu
nel settembre del 20101.
Un narcostato nel cuore
dell’Europa
Nonostante siano passati 15 anni
dai bombardamenti scatenati
dalla Nato e dall’inizio del processo di secessione e indipendenza della regione kosovara
dalla Repubblica di Serbia, la
«questione Kosovo» continua a
essere un nodo irrisolto. La comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza» si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro
e delle altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è
stato così. E lo dimostrano i quo-
Feste serbe e apartheid
A cavallo tra la fine di un anno e
l’inizio di quello nuovo in Kosovo
Metohija (così viene chiamata la
regione del Kosovo dalla popolazione serba, ndr) i serbi vivono le
ricorrenze cristiane, come la memoria dei morti, a novembre, e il
Natale ortodosso, il 7 gennaio,
con una particolare intensità.
Nella tradizione e nella cultura
slava non c’è molta differenza tra
credenti e laici in quei giorni. Tutti
vivono le celebrazioni con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi sindacalisti. Diversi tra
loro per visioni di società o idee
politiche, ma accomunati dalla
medesima situazione. Ciascuno
© Af. Mc/Enrico Vigna
tidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i soprusi.
Il Kosovo indipendente, scosso da
conflittualità e turbolenze, dopo
quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea (Agenzia Antidroga
Usa) un «narcostato nel cuore
dell’Europa». Esso si regge su due
stampelle: una militare, cioè la
presenza delle forze Nato-Eulex
(European Union Rule of Law Mission in Kosovo), l’altra economica,
cioè la proliferazione di attività
criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a quello delle
donne, degli organi e delle armi.
© Af. Mc/Enrico Vigna
17 febbraio 2014. Kosovari con bandiere
albanesi durante le celebrazioni per
il 6° anniversario della dichiarazione di
indipendenza del Kosovo dalla Serbia.
| Qui a destra: in Kosovo ci sono chiese
e monasteri ortodossi di grande valore
artistico, risalenti al periodo 1200-1600.
Quattro di questi, il Monastero di
Dečani, quello di Peć, di Gračanica e la
chiesa della Vergine di Ljevisa, nel 2006
sono stati inseriti dall’Unesco tra i beni
in pericolo. | Sotto: immagini di tombe
vandalizzate nel cimitero di Pristina.
© carolyntravels.com
# A sinistra: Pristina, capitale del Kosovo,
possiede radici spirituali profonde
e salde.
Anche questo, piacendo o non
piacendo a taluni esperti di Serbia
virtuale, è il popolo serbo. Ed è
probabilmente anche grazie a
queste radici che esso resiste alle
aggressioni straniere. E forse in
modo ancora più profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la
resistenza dei serbi del Kosovo
nella loro tragica realtà: essere
prigionieri di una moderna forma
di apartheid nelle enclavi in cui
nessuno dei diritti fondamentali
dell’uomo viene rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi
dieci articoli della Convenzione sui
diritti dell’infanzia.
Nello stesso momento in cui il
Consiglio europeo discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in
Siria, nel Kosovo Metohija, stato
considerato da molti artificiale e
illegale, avvengono gravi violazioni dei diritti fondamentali, tra
cui, non ultimo, il diritto di credo,
con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni
di tombe di famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali.
Così è stato nel novembre scorso,
nel giorno dedicato al ricordo dei
propri cari scomparsi.
Cimiteri off limits, maiali e
profanazioni
La realtà dei cimiteri e dei luoghi
sacri nel Kosovo Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei
serbo kosovari.
Il «diritto» per un serbo di visitare
le tombe dei propri cari, dal 2013
è passato da due volte all’anno a
una sola volta. Dal 2008 (anno
della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri cimiteri sotto scorta militare e,
spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi. Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono
lasciati pascolare maiali provocatoriamente. Non è raro che le
tombe e le lapidi vengano spaccate e violate a colpi di mazza.
Nel cimitero del paese di Istok (in
cui sono rimaste alcune famiglie
serbe), oltre 100 tombe e lapidi
sono state distrutte.
Il cimitero di Peć, uno dei più
grandi cimiteri ortodossi in Kosovo, è stato trasformato in una
APRILE 2014 MC
11
KOSOVO
discarica. I vandali hanno distrutto
non solo le lapidi in marmo, ma
anche le bare, e molti corpi e ossa
dei defunti sono stati estratti e
portati via.
A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo
ha denunciato un sacerdote della
diocesi locale, aggiungendo che la
profanazione è avvenuta appena
una settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje. Altre tombe
sono state profanate a Klokot, 27
sono state distrutte. A Milosevo,
Plemetina e Priluzje è stato usato
dell’esplosivo per far saltare pietre
tombali appartenenti a famiglie
serbe locali.
e religiosa, che qui più che altrove
si fonde con la loro identità nazionale e culturale.
Nell’ultimo viaggio di solidarietà
organizzato dalla nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni
interne alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e
vessazioni, infatti, alcuni hanno
deciso di portare i resti dei propri
cari in Serbia; mentre altri ritengono che fare questo significhi la
resa totale, la consegna dei propri
luoghi sacri, della propria anima,
della propria storia, identità, e radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.
Anche questi avvenimenti fanno
parte della realtà dei serbi resistenti nella propria terra kosovara.
Anche queste umiliazioni sono
pane quotidiano. L’obiettivo è
quello di ferire, violentare e annientare la loro identità spirituale
Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e libertà»
oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e
distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a pre-
Ferite all’identità e all’unità
© mospat.ru
I piromani a protezione
del patrimonio incendiato
A quindici anni dalla guerra
Il Kosovo Metohija oggi
opo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione
del Kosovo di oggi, secondo le fonti Onu, Osce,
Kfor, Unmik, e alcuni mass media internazionali:
- 400mila militari Nato e Kfor si sono avvicendati in
quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza contare
quelli deceduti per l’uranio impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6 miliardi di dollari l’anno;
- dei 461mila abitanti non albanesi (su 1.378.980) che
popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono
rimasti circa 100mila, di cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I
profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila scappati dalle pulizie etniche;
- dei 55mila (su 125mila abitanti) serbi, rom e altri che
vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne
sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi
in un palazzo;
- 70% di disoccupazione;
- scoperte continuamente sedi di traffici di droga,
armi, donne, organi;
- attività produttive quasi completamente inesistenti;
- agricoltura ridotta del 60% (una volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia);
- miniere ferme o chiuse;
D
12
MC APRILE 2014
- l’economia «sommersa» però determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si definisce un’economia «drogata»;
- 148 chiese, monasteri, luoghi sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati;
- 140mila case di serbi, rom e altre minoranze bruciate;
- centinaia di attentati o violenze contro serbi e rom
(uno ogni 120 ore);
- secondo fonti della Kfor, vi sono attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi
di vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio
2013);
- l’Onu ha denunciato che l’82% dei finanziamenti dati
al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes, cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni
sono stati versati 3 miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue);
- la mortalità infantile è del 3,5%, la più alta d’Europa;
- oltre 2.500 serbi rapiti e/o assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si aggiungono 361
albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati
collaborazionisti;
- molti dei diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla
Carta dell’Onu sono negati alle minoranze non albanesi
rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali, acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici;
MC ARTICOLI
Hilarion visita le chiese distrutte.
Sotto: chiesa di San Nicola, XIV
secolo, bruciata.
© kosovo.net
- la popolazione non albanese in Kosovo, scampata alla
pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un
vero e proprio apartheid;
- i diritti dei bambini, sanciti dalla Convenzione Onu
del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi;
- scienziati e fondazioni ambientaliste internazionali
hanno denunciato il territorio del Kosovo come il più
uranizzato d’Europa;
- 1000 acri di terra (corrispondenti a circa 400 ettari,
800 campi da calcio) confiscati fino al 2099 per Camp
Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del
Vietnam. Essa può ospitare fino a 50mila persone; al
suo interno ci sono 25 chilometri di strade, 300 edifici,
14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84 chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo
perimetro esterno sono compresi 320 chilometri di
strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere cosa?
In questa situazione l’ex mediatore Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che
arrivava alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per
concedere l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo sono 106.
Enrico Vigna
multietnica in Kosovo conta circa
200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim Ceku (nel
periodo 1992-1995 generale dei
secessionisti croati, coinvolto nel
genocidio dei serbi della Krajina),
grande amico e legato strettamente a Stati Uniti e Germania.
Il Natale nelle enclavi
Così sono state vissute le giornate
di novembre dedicate ai morti in
quel lembo di mondo, e in modo
simile sono passate le giornate
della Natività.
Va ricordato che la Chiesa serba
celebra le sue festività secondo il
calendario giuliano, risalente al 46
a.C., di 14 giorni in ritardo rispetto
a quello Gregoriano (usato dalla
Chiesa cattolica). I serbi festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio.
In Kosovo Metohija oggi anche il
Natale viene celebrato in condizioni molto diverse da quelle in
cui è festeggiato in qualsiasi altro
luogo del mondo. Esso è inserito
nella vita dei ghetti, nella realtà
delle enclavi, aree protette e delimitate materialmente, all’interno
delle quali si svolge tutta la vita
delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa uscire
© 14words.net
# Sopra: l’arcivescovo ortodosso
cisi obblighi internazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale
mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice:
«Il diritto di ciascun paese è quello
di essere, con la piena sovranità,
l’erede dei propri valori culturali
che sono il frutto della sua storia,
ed è suo dovere farne tesoro
come valori che rappresentano
una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità».
Evidentemente per la Serbia questo non vale.
Nel frattempo, ad agosto 2013 il
responsabile della Kosovo Spu (la
polizia del Kosovo) ha annunciato
che membri di una unità detta Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe
assunto il ruolo di protezione del
Patriarcato di Peć e di altri 24 siti
religiosi - il monastero di Decani è
invece ancora protetto dalle forze
internazionali, essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse serbe già
ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere
le case incendiate. Queste Unità
speciali della cosiddetta polizia
# Cartina: La ripartizione etnica del Kosovo. Giallo: oltre
60% albanesi. Arancione: oltre 80% albanesi. Rosso:
oltre 90% albanesi. Bordeaux: Albanesi che vivono
fuori dal Kosovo. Viola: Per lo più serbi.
APRILE 2014 MC
13
KOSOVO
# Sotto: la tradizione natalizia del
badnjak. | Accanto: un’immagine
dei manifestanti albanesi, scattata
dall’interno del pullman
preso a sassate.
© byztex.blogspot.com
rischia la vita. In una vita priva di
opportunità, dei diritti umani fondamentali, compreso quello di
movimento, i cristiani serbi non
possono dare seguito nemmeno
alla loro tradizione, detta
badnjak, che prevederebbe di andare nei boschi per tagliare il loro
«albero di Natale», il yule log, ossia un pezzo di quercia giovane, a
forma di tronchetto.
Il badnjak è un elemento centrale
nella tradizionale celebrazione del
Natale serbo. È un simbolo che la
famiglia abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul fuoco la
sera, perché bruci fino al giorno
dopo. La combustione del log è
accompagnata da preghiere in cui
si domandano per l’anno nuovo
felicità, amore, fortuna, ricchezza
e cibo. Poiché oggi molti vivono in
città, il badnjak è simbolicamente
rappresentato da ramoscelli di
quercia con delle foglie, acquistati
in mercatini o ricevuti nelle
chiese. Gli studiosi indicano l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione slava.
Sassate, permessi rifiutati,
espulsioni, arresti
Il 6 gennaio un autobus serbo è
stato preso a sassate da manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli anni passati erano fuggiti da
Djakovica per rifugiarsi in Serbia,
e che in occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro
14
MC APRILE 2014
paese d’origine e la locale chiesa
dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata.
L’automezzo, con vetri spaccati e
passeggeri feriti è dovuto andare
sotto scorta della polizia al monastero di Decani, protetto dalle
forze internazionali.
Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie: ogni anno
la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti albanesi per dimostrare che i serbi
non possono sentirsi liberi nel
proprio paese e non hanno diritto
di celebrare la più gioiosa festa
cristiana.
Quest’anno, se si esclude il fatto
di Djakovica, si potrebbe dire che
il Natale sia trascorso bene, senza
risse o spari. Ma il cosiddetto
stato di Kosovo ha trovato altri
modi, ancora più sottili, per dimostrare ai serbi e alla Serbia in
quale direzione va il loro futuro:
prima hanno rifiutato la richiesta
del presidente della Serbia Nikolic
di partecipare il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di
Gracanica, poi il giorno di Natale il
responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo serbo,
Vulin, ha dovuto abbandonare la
provincia su richiesta della polizia
kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara ha arrestato, dopo
la liturgia, dieci giovani serbi che
si trovavano con Vulin. «È chiaro
che si tratta di una provocazione,
di una grave violenza. Ho saputo
ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della quiete pubblica,
addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale.
Quando l’accusa è così vaga, e
quando tutto è possibile, sapete
che si tratta di pura ingiustizia»,
© amicididecani.it
ha dichiarato in seguito Vulin.
Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera celebrazione del Natale, della libera visita
ai cimiteri, ai monasteri o alle proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non
esiste la libertà di movimento. Ma
dicono che è democratico.
Bambini invisibili
Tuttavia, nonostante le condizioni
disumanizzanti, ai bambini non
manca la gioia per festeggiare il
Natale. Essi sono invisibili per la
cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione pubblica. A loro basta poco
per lenire la barbarie delle loro
vite negate dentro le enclavi: è
sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e si
rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi,
vandali, criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore
essi siano. E sono i bambini, i loro
sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che danno ancora a noi la forza dell’impegno
per una solidarietà concreta. Che
ci danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita,
in questo occidente opulento e
perso dietro virtualità e inutilità
esistenziali. Sono loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella
della speranza in un mondo migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i
costumi e le tradizioni.
Enrico Vigna
Presidente di SOS Yugoslavia
SOS Kosovo Methoija
www.sosyugoslaviakosovo.com
Note:
1- Incipit tratto da
deagostinigeografia.it
TANZANIA
Testo di LUCA LOrUssO
Foto ArChiviO MC
RITORNARE IN TANZANIA CON APPENA 62 ANNI DI MISSIONE SULLE SPALLE
L’ASINO MUOIA,
MA IL CARICO ARRIVI
Ottantasette anni
compiuti il 5 febbraio
scorso, padre Giovanni
Giorda, originario
di Piossasco (To),
missionario della
Consolata, ci conduce
in un duplice viaggio:
nella storia della
Chiesa tanzaniana
e nella sua
esperienza missionaria
iniziata 62 anni fa.
«N
el 2000 in diocesi
vi fu un pellegrinaggio della croce.
Nella parrocchia di
Tosamaganga era programmato
per 14 giorni. Un giovane, come
risposta a un mio commento sulla
fatica di accompagnare la Croce
di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della
parrocchia (avevo 73 anni), mi
disse: “Punda afe, mzigo ufike”,
“l’asino muoia, ma il carico
giunga a destinazione”. Anche la
gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce
di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni».
La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola
persona, ma a un’intera nazione,
la Tanzania, e a un’intera Chiesa,
quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci
sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate
- anche a quelle vissute prima del
suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più
di 60 anni di sacerdozio.
Abbiamo la netta impressione
che tutte le esperienze vissute in
più di mezzo secolo stiano lì, viAPRILE 2014 MC
15
tanzania
Tanzania). Il 9 dicembre 1952
siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14
giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo
proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
vide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse
per questo padre Giovanni tende
ad aggirare le nostre domande
per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo
formulario ben definito, un suo
percorso sicuro, affinato da una
probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia
in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene
suffragata dal volto solcato da
rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso
tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano.
Quello che padre Giovanni
Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna
il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel
susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
16
MC APRILE 2014
Padre Giovanni,
puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote
diocesano il 29 giugno 1950 nel
duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue
compagni. Oggi siamo rimasti in
cinque, gli altri sono in paradiso
che pregano per noi. In seminario
ho sempre preso parte ai circoli
missionari. Dopo l’ordinazione,
com’era consuetudine per i preti
giovani, sono andato a stare nel
Convitto della Consolata. È stato
in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri
due preti, uno di Mondovì che è
poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre
Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di
Pesio (Cn) per fare il noviziato dai
missionari della Consolata. Il 16
luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e
quel giorno padre Cravero e io
abbiamo ricevuto la lettera con la
destinazione: Tanganika (l’attuale
Quindi tosamaganga, che è la
missione in cui tutt’ora lavori,
è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali,
Itengule, a 150 km a Sud, per tre
mesi. Poi un padre della missione
di Ujewa si è ammalato, e sono
andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi,
poi in bicicletta. La zona di Ujewa
appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di
mille metri, ma fa molto caldo, a
differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La
zona del Tanganika del Sud dove
ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southern
Mainland Province, la zona degli
altipiani del Sud, in cui clima e
agricoltura sono molto buoni. Ciò
che viene coltivato lì serve anche
per le altre regioni che sono più
secche.
Alla fine del 1953 il vescovo mi ha
chiesto di andare a insegnare in
MC ARTICOLI
# A sinistra: 1975, è il 25° di sacerdozio
di padre Giovanni. Tosamaganga lo
festeggia accogliendolo tra gli anziani
della tribù. | Qui accanto: (da destra)
p. Giorda, mons. Mgulunde e p. Ghiotti.
seminario. Così sono tornato a
Tosamaganga. Questa volta per
rimanerci diversi anni insegnando
filosofia e teologia. Parecchi miei
studenti sono diventati sacerdoti
e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa
della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in
Tanganika è entrata nel 1868 con
i padri missionari dello Spirito
Santo che, arrivando dalle isole
Réunion e passando da Zanzibar,
sono sbarcati a Bagamoyo. A loro
era stata affidata la parte Nord
del paese - ricordo che nel 1968,
quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a
circa 1800 metri di altitudine, al
freddo, abbiamo festeggiato i
100 anni della chiesa cattolica
Tanzaniana -. Dieci anni dopo,
nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era
stato affidato tutto il Tanganika
dell’Ovest. Rimaneva scoperto il
Tanganika del Sud. Così nel 1888,
dalla Germania, sono arrivati i
missionari benedettini. La loro
prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono
messi a liberare gli schiavi, e gli
arabi che facevano affari con il
commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è
avvenuta nel 1891. Questa volta
è andata meglio, e nel 1896 sono
arrivati a Tosamaganga i primi
due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il
proprio quartier generale a
Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di
Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano
dei Wahehe. I due benedettini,
arrivati nella zona proprio per
evangelizzare i Wahehe si sono
stabiliti su una collina, non
troppo vicini e nemmeno troppo
lontani dal quartier generale dei
tedeschi, distante circa 12 km. Il
1 gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata
inaugurata.
In quello stesso anno ci sono stati
i primi otto battesimi - nell’ufficio
parrocchiale conserviamo ancora
i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato
un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150
km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle
prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le
tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini
hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».
E i Missionari della Consolata
quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra
mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in
Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari
dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché
non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi.
Il vescovo del vicariato apostolico
di Dar es Salaam, che a quei
tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in
Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a
mons. Filippo Perlo, missionario
della Consolata, per chiedergli un
“prestito” di personale. È stato
così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti
per il Tanganika, e sono arrivati a
Tosamaganga il 26 maggio 1919.
Mons. Perlo li aveva mandati
senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a
cose fatte ha scritto una lettera
in cui diceva: “In genere, quando
uno ha bisogno di aiuto, si rivolge
ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E
noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”».
Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo
Perlo. La voce gli trema. Quelle
parole lo toccano. Le sente sue.
«Noi missionari della Consolata
siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora
siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in
diverse diocesi. Sparsi per il
mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania.
La prefettura apostolica di Iringa
è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura
APRILE 2014 MC
17
tanzania
di Dar es Salaam, e in quell’anno
è partita la prima spedizione di
missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal
Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era
mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha
retto quella prefettura dal ’23 al
’35, fondando diverse stazioni
missionarie. Morto per incidente
stradale, gli è subentrato nel ’36
mons. Attilio Beltramino, che ho
assistito all’ultima sua messa il 3
ottobre 1965, quando è morto
per infarto. Beltramino in 30 anni
ha avviato quasi 30 stazioni di
missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due,
con la nascita della diocesi di
Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto.
Dai missionari della Consolata
sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha
fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400
consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti.
Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato
inizio, assieme a padre Ghiotti,
alla congregazione dei fratelli
africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
tornando a te. Dopo itengule
e Ujewa nel 1953, sei andato a
insegnare al seminario di tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove
sono stato fino alla fine del 1969,
incaricato della parrocchia e dei
fratelli africani. Dal ‘70 sono stato
parroco a Tosamaganga. Dopo 10
anni sono ritornato nella zona di
Ujewa in cui ero stato all’inizio,
nella parrocchia di Chosi, 265 Km
a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho
patito il caldo come mai in vita
mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho
18
MC APRILE 2014
# Qui accanto: padre
Giovanni in mezzo
agli anziani a
Tosamaganga.
| A destra: il nostro
predica infervorato
durante una
Via Crucis, sempre a
Tosamaganga.
compiuto 80 anni! Da allora sono
coadiutore del nuovo parroco, p.
Giacomo Rabino».
Ci puoi parlare dell’aspetto
spirituale della tua esperienza
missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che
vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni
ci sono stati alcuni punti forti
nella mia vita spirituale.
Ne vorrei elencare quattro.
Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”.
Con l’obbedienza si acquista la
pace del cuore.
Un secondo punto l’ho scoperto
nel 1987. Ero venuto in Italia per
la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa
un paio di giorni ad Addis Abeba.
La provvidenza ha voluto che in
quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora.
Poi lei mi ha dato un’immagine
che raffigurava Gesù flagellato,
con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e
mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano,
consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto:
“Be the one”, “Sii tu quello” (che
consola Gesù).
Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans
Urs von Balthasar che spiegava la
messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate
questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la
vita, e quindi quando dice ‘fate
questo in memoria di me’, dice
‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per
i vostri fratelli come io l’ho data’”.
Con il quarto punto arriviamo al
2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km.
La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della
croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata
una grande fatica girare per due
settimane in tutte le succursali, e
un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha
aggiunto: “Punda afe, mzigo
ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce
di Gesù. Un proverbio africano
che non avevo mai sentito. Anche
Gesù dice: “Se il chicco di grano
muore porta frutto”. Però io non
sono ancora morto, nonostante
in questi 60 anni ne abbia corso
diverse volte il pericolo. Nel 1982,
ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la
malaria. Una suora mi ha assistito
per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra
volta, nel 1958, sono caduto in un
burrone con un camion, ma non
mi sono fatto niente… Quello che
è importante per me, e per tutti i
missionari, è far sì che il carico,
cioè Gesù, la sua grazia, il suo
perdono, la sua misericordia, la
sua bontà giungano alla gente.
Facendo quello che faceva Gesù
stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale
della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi.
Noi cerchiamo di aiutarli con il
cibo, con le spese per la scuola. A
Tosamaganga seguiamo almeno
una ventina di scuole attraverso i
nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni
di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante
la crisi, continuano a dare le loro
offerte. Pochi giorni fa un giovane
tanzaniano che ora è a Dodoma
per studiare all’università mi ha
scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal
governo, ma che deve pagare una
parte delle spese. Mi ha chiesto
aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la
Tanzania del ‘52 e quella di
oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi
come i nostri italiani. Dal punto di
vista politico, oggi c’è un sistema
con più partiti, nonostante ci sia
al potere sempre il vecchio par-
tito, quello di Julius Nyerere che
ha portato all’indipendenza nel
1961 e che, dopo l’unione del
Tanganika con Zanzibar nel 1964,
ha preso il nome di Ccm (Partito
della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia
pieno di corruzione. Vedremo
cosa succederà quando nel 2015
ci saranno le elezioni.
La gente del Tanzania è gente
calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non
sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che
capiscono la situazione e iniziano
a dimostrare».
Ci sono problemi
di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare
all’erta perché, specialmente a
Zanzibar, dove la popolazione è
quasi tutta musulmana, c’è un
gruppo di estremisti denominato
Uamsho (Risveglio) che due anni
fa ha ucciso un prete cattolico.
Ogni tanto si sente di questi
gruppi che bruciano le chiese. Un
anno fa nella zona di Arusha c’è
stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che
dovevano inaugurare una chiesa:
è passato un uomo in moto e ha
gettato una bomba. Ci sono stati
tre morti. Dall’ultimo censimento
sembra che in Tanzania vivano tra
i 42 e i 45 milioni di persone.
Tutte le denominazioni cristiane:
cattolica, luterana, anglicana, ecc.
contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco
meno del 30%.
In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le
chiese cristiane si sono incontrate
per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre
chiese cristiane è positivo. Ma
con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il
30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale
da molti anni c’è una continua
migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam
oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle
due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più
persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A
Iringa ci sono diversi musulmani,
e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito
il nuovo pontefice
nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato
per l’elezione di papa Francesco.
Qualcuno è preoccupato perché
va troppo in mezzo alla gente, e
così facendo si prende dei rischi.
Ma sopra eventuali malfattori
con cattive intenzioni c’è il SiAPRILE 2014 MC
19
# Dalla foto in alto a sinistra, in
senso orario: le missioni in cui
padre Giovanni ha speso la sua
vita missionaria. Tosamaganga
(in una foto degli anni Trenta),
Itengule, Ujewa, Kilolo e Chosi.
nuovo. È bello ascoltare la sua
voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.
Luca Lorusso
CRONOLOGIA:
9 dicembre 1952: partenza da Venezia
24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
Fine 1952-Pasqua 1953: missione di
gnore, c’è lo Spirito Santo che li
tiene a bada, e che aiuteranno il
papa a portare avanti tutte le
riforme che presenta. Noi siamo
contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi
20
MC APRILE 2014
missionari un pochino avevamo
già: andare in mezzo ai poveri,
agli ammalati, aiutarli».
Parlando del papa e dei poveri
padre Giorda si commuove di
Malangali, Itengule
Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
1954-1965: Tosamaganga seminario
1965-1969: a Kilolo parroco
1970-1980: parroco a Tosamaganga
1981-1988: a Chosi
1989-2007: parroco a Tosamaganga
2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.
BRAsile - BAhiA
Testo e foto
di ANGELA LANO
«Voglio muovere il
cuore di ogni uomo
nero perché tutti gli
uomini neri sparsi nel
mondo si rendano
conto che il tempo è
arrivato, ora, adesso,
oggi, per liberare
l’Africa e gli africani.
Uomini neri di tutto
il mondo, unitevi
come in un corpo solo
e ribellatevi:
l’Africa è nostra,
è la nostra terra,
la nostra patria (…).
Ribellatevi al mondo
corrotto di Babilonia,
emancipate la vostra
razza, riconquistate
la vostra terra».
(Bob Marley)
Religioni nellA BAhiA/1.
nel Mondo dei RAstA
LE LUNGHE
l
TRECCE
a parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la musica reggae di
Bob Marley, le lunghe
trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70 per i diritti
degli afrodiscendenti nel continente americano.
In Bahia è molto comune incontrare rasta che suonano o ven-
dono artigianato nel Pelorinho, il
quartiere tipico di Salvador, o
lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli
paesi del litorale bahiano: si
tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili,
come Gabriel e la sua compagna
brasile - bahia
Il panafricanismo
venuto dai Caraibi
Il profeta
Marcus
I rasta considerano Marcus Mosiah
Garvey un profeta, la cui ideologia e
filosofia ha fortemente influenzato
il movimento.
Garvey promosse il «Nazionalismo
nero» e il «Panafricanismo».
Egli lavorò per la causa dei popoli
neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee
influenzarono molto le classi popolari in Giamaica e il rastafarismo
stesso.
Il panafricanismo è un movimento
che incoraggia la solidarietà e l’unità tra i discendenti africani nella
diaspora. La sua ideologia si basa
sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli
africani, sia nel continente sia nella
diaspora, non condividono solo una
storia comune ma anche un destino
comune» (Minkah Makalani).
L’organizzazione politica panafricana più grande e conosciuta è l’Unione Africana.
Angela Lano
«The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement Association Papers»,
vol. IX: Africa for the Africans, June
1921-December 1922.
22
MC APRILE 2014
italiana, a Diogo de Mata de Sâo
Joâo; o Carlos, proprietario di un
risto-bar attento ai segnali della
natura, ostile al consumismo e
agli sprechi; o Marquinho, che
vive nel mezzo del mato, nella foresta, in una casina di adobe
(mattoni di fango e paglia, ndr),
circondato da animali, piante e
sorgenti, dedicandosi a creare
magnifiche collane, anelli e bracciali di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa molto tempo
fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere poesie.
Per ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale
sono elementi che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah
(Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel
mondo. La loro lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema
oppressore», le «istituzioni» corrotte in cui non si riconoscono, è
realizzata nella quotidianità della
realtà in cui vivono.
Ovviamente, a fianco dei rasta
impegnati e coscienti, ci sono altri
che, pur apparentemente simili dreadlocks, abbigliamento colorato, musica - si dedicano ad attività meno educative, ciondolando
per le strade o nelle spiagge,
pieni di alcool e macogna (marijuana, ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di fierezza e severità Sidney Rocha,
«sono emarginati, poveracci che
stanno distruggendo la propria
vita, vittime di un sistema sociale
e politico che crea miseria e alienazione».
«In Brasile, il rastafarismo, ovvero
“Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 - racconta il
teologo -. Siamo stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha
mai accettato la nostra storia.
Dentro il movimento ci sono
tante correnti, gruppi: Twelve Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo
Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione,
ma non nel senso occidentale del
termine. Per noi la religione è
vita. Ci si riunisce per la cerimonia
della preghiera comunitaria, con
suoni di tamburi e canti, il Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui uso, tuttavia, non è
obbligatorio. Quest’ultima è
usata come rituale».
hailé selassié,
il leone di Giuda
Anche nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolar-
MC ARTICOLI
mente famoso negli anni ’70 -’80,
attraverso la musica e la vita di
Bob Marley, il grande autore giamaicano. Ha tuttavia una storia di
religione organizzata che risale
agli anni Trenta, con l’ascesa al
trono dell’imperatore di Etiopia
Hailé Salassié (al secolo Tafari
Makonnen Woldemikael) nel
1930, e una mitologia molto più
antica, che arriva all’epoca del Re
Salomone.
Filiazione sincretica di giudaismo
e cristianesimo, e con alcuni
aspetti presi, ma anche forniti, al-
l’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici,
la propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e
patriarcali del Vicino e Medio
Oriente.
Spiega ancora Rocha: «Il termine
rastafari deriva dal nome proprio
dell’imperatore etiope, Tafari,
preceduto da Ras (capo), che,
asceso al trono, prese quello di
Hailé Selassié, cioè “Potenza della
Trinità”: egli era considerato
erede della dinastia salomonide,
originante dall’unione del re Salo-
# Pagina precedente: una banda reggae
si esibisce a Salvador Bahia.
# Sopra: Sidney Rocha discute in
strada nel Pelourinho, centro storico
di Salvador.
# A fianco: case tipiche nel Pelourinho.
mone con Makeda, la regina di
Saba, da cui nacque il capostipite
Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re
d’Etiopia. Tafari salì al potere con
il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti), Eletto di Dio, Luce del
Mondo, Leone Conquistatore
della tribù di Giuda».
Egli è considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e
potenza, non più come l’Agnello
di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica,
in quanto discendente di HakimMalik, e dunque membro della
tribù di Giuda.
Dottrina e fondamenti
Una parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti di Hailé Selassié
I, - in quanto la sua figura rappresenta il Cristo (l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di
Jah, Dio, sceso sulla Terra per
portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e
morali di Gesù, e della tradizione
etiopica ortodossa.
Nel loro credo sono contemplate
la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la resurrezione della carne,
l’immortalità dell’anima, tutti i
dogmi stabiliti dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la
parusia (presenza divina, ndr) di
Cristo e il suo Regno terreno
prima della fine dei tempi, e il
giudizio universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel mondo per
realizzare questa profezia.
I rastafariani credono che si possa
giungere alla salvezza mediante
la fede nel divino e il rispetto
della morale naturale, qualunque
sia la propria religione o teologia,
per questa ragione rispettano gli
altri culti, considerati da Selassié
«vie del Dio vivente», che non è
possibile giudicare. Essi, pertanto,
avversano il settarismo religioso.
Inoltre, credono che l’imperatore
Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente occultato - qui mostrando analogie con Mahdismo
sciita - agli occhi degli uomini, in
quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una
sola volta e risorto per sempre.
Dunque, la sua seconda discesa
nel mondo rappresenta non più il
sacrificio per la redenzione degli
uomini, ma il tempo del Regno
glorioso.
Nazionalismo e africanismo
La questione dell’Africa, in
quanto continente impoverito e
sfruttato da secoli di colonialismo
occidentale, per i rastafari è di
grande e prioritaria importanza.
«Il rastafari non è solo una religione - aggiunge Rocha -, ma anche un movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di
Marcus Mosiah Garvey». E a
quelli dell’etiopismo.
L’etiopismo è un movimento naAPRILE 2014 MC
23
brasile - bahia
zionalista che vede la luce ai primi
dell’800, nel tentativo di organizzare e liberare, sotto l’emblema
della monarchia dell’Etiopia, i popoli neri dell’Africa colonizzata.
La liberazione doveva passare attraverso un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati da Garvey, considerato dai rastafari
come una sorta di «precursore» come Giovanni Battista - del ritorno del Cristo maestoso nella
persona di Hailé Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana
(schiavizzati e loro discendenti)
sparsi nella Diaspora è parte integrante della visione millenarista
dell’etiopismo, su cui il rastafari
basò il proprio sviluppo politico.
Tale movimento, a partire dal
1800, cominciò a diffondersi sia
tra le popolazioni africane sia tra
le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità
nazionale e culturale avendo
come punto di riferimento l’Etiopia.
Fu dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in
lui il Messia che ritornava potente, vittorioso e liberatore.
Il movimento fece proselitismo in
24
MC APRILE 2014
Africa, nel continente americano,
nelle Indie occidentali (le Antille,
ndr), in Inghilterra, espandendosi
poi anche in altre parti del
mondo, sia attraverso il Kebra
Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che
ne diffonde il messaggio religioso
e politico.
Etica internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli,
sull’uguaglianza dei diritti e sulla
non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale che rigetti guerre e conflitti:
questi sono alcuni dei principi politici internazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È anche necessario
costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni ideologia totalitaria, di destra o sinistra
che siano, che deviano il cammino diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano».
Il loro ideale di stato prevede che
esso, seppur laico, debba garantire la libertà religiosa.
Essi si rifanno al movimento del
panafricanismo e all’esempio di
Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e fondatore
dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e in
altre espressioni culturali, i rasta
parlano del loro sogno di un conti-
nente unito e libero dal dominio
straniero, e del riscatto identitario.
Per superare la propria storia di
schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli sparsi nel
mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a
tale causa. In questa prospettiva
Selassié mise a disposizione un vasto territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella patria africana.
il Kebra Nagast,
la gloria dei re
È la «Bibbia africana». Nel libro
Kebra Nagast (la Gloria dei Re),
antico testo etiope, si racconta
del trasferimento dell’Arca dell’Alleanza, per mano di Ebna laHakim, da Gerusalemme al Regno
di Saba. Tale trasferimento è interpretato dai rastafari come un
passaggio della discendenza salomonica di Israele all’Etiopia, la cui
antica dinastia, che giunge fino a
Hailé Selassié, è così considerata
di tradizione «divina». Secondo la
tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che
l’Etiopia sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a
custodire la cristianità fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore Selassié.
MC ARTICOLI
Spiega Rocha: «Il libro racconta,
tra le altre vicende, l’incontro tra
il Re Salomone e la Regina di Saba
(riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita dai racconti sulla grande saggezza del
sovrano, va a Gerusalemme. Dalla
loro unione (cui però la Bibbia
non fa alcun cenno) nascerà Ebna
la-Hakim, poi Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica.
L’Etiopia avrà il compito di custodire la purezza del cristianesimo,
dopo il rifiuto del popolo d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel paese, è la
« L’Africa
agli africani!
Ho esclamato.
Uno stato libero
e indipendente
in Africa. Vogliamo
poterci governare in
questo nostro paese
senza interferenza
esterna »
conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia».
Il Kebra Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E,
nello stesso tempo, influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e
cristiane, quella islamica.
I dreadlocks e
il mito di Sansone
I rasta sono noti per i dreadlocks,
trecce posticce attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa - racconta Sidney Rocha -,
che rappresenta un voto biblico,
il nazireato, di cui parla Numeri,
6, 5: “Tutto il tempo del voto
della sua consacrazione, il rasoio
non passerà sul suo capo: finché
non sono compiuti i giorni per i
quali si è consacrato all’Eterno,
sarà santo; lascerà che i capelli
del suo capo crescano lunghi”».
Secondo il Kebra Nagast, un angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia
tragica e coraggiosa di Sansone la
ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco
e prigioniero, senza capelli, per i
rastafari rappresenta ciò che può
capitare a chi esce dal cammino
divino e scende a compromessi
con Babilonia, simbolo di male e
corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la filistea Dalila che
sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo di
morale e di integrità, di cammino
nel sentiero stabilito da Dio.
Tuttavia, è anche un’usanza che
arriva dall’Africa orientale, dove
guerrieri e membri di varie tribù
usano portare i dreadlocks.
Le trecce rasta hanno iniziato a
fare la loro comparsa durante le
manifestazioni per la rivendica-
(Kwame Nkrumah).
# A sinistra: negozio di artigianato
a Salvador.
# In centro: Edson Patricio e Sidney
Rocha della Banda Kebra Nagast.
# Sopra: turisti e prelibatezze bahiane.
APRILE 2014 MC
25
brasile - bahia
zione identitaria in Giamaica. Per
un rasta essere negro, con dreadlocks e barba, significa assomigliare di più all’immagine storica
di Gesù, Yeshua.
Negli anni ’70 furono perseguitati
in tutto il continente americano:
furono aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché rappresentavano una minaccia per il «sistema».
la donna e il rastafarismo
Il rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche
patriarcali (giudaismo e islam),
per le quali la femmina riveste un
ruolo subordinato al maschio, è
impura e veicolo di tentazioni e
peccato. Per i rastafari quindi il
compito principale della donna,
appellata come «regina», è di occuparsi del «re», cioè del marito;
essa è subordinata all’uomo e
deve essergli fedele; deve occuparsi della casa e della prole; non
può essere un leader. L’uomo è il
capo spirituale della famiglia.
La donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva sessuale per
26
MC APRILE 2014
altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli.
Scrive l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y
negro: punk y rastafarianismo»,
Revista de Estudios de Juventud,
n. 30, 1988, Madrid, pp.73-86:
«La sessualità femminile è vista
come dipendente: […]. La donna
rasta deve essere coperta dalla
testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di fronte a nessun
altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a essere
ciò che il rastafarismo chiama “La
Madre Terra Africana”».
Anche per pregare deve coprirsi i
capelli, secondo quanto stabilito
nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne
che pregano o proclamano il messaggio di Dio durante cerimonie
pubbliche senza indossare nulla
sul capo, disonorano il proprio
capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le
mogli siano sottomesse ai loro
mariti come al Signore».
Diversamente dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato,
esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna,
«primo tra pari», perché la
donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e
veicolatrice, con la sua sensualità,
di tentazioni e peccato. Ella può
purificarsi solo nella relazione con
il marito e nella sua fedeltà a
esso, e nella famiglia.
Quanto a quest’ultima, spiega
Sansone nel suo articolo: «Per il
rastafari, la famiglia si rivendica e
si riscopre nella forma che essi
considerano essere la loro famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)».
In sintesi, nel rapporto uomodonna, da parte del maschio vi è
una ricerca esplicita della sensualità, mentre quella femminile è
repressa e dipendente dalla relazione di esclusività con il marito.
l’erba del Giardino dell’eden
Nei loro culti, i rastafari fanno uso
di ganja-marijuana, in quanto
mezzo spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della Saggezza del Giardino dell’Eden, che
# A sinistra: nastrini di devozione
a Nossa Senhora de Bonfim,
riferimento religioso a Salvador.
# In centro: un rasta nel Pelourinho.
# In alto: venditore di finte trecce
rasta a Salvador.
stava a fianco dell’Albero della
conoscenza del bene e del male.
«La ganja - spiega Sansone - rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la percezione sensoriale, un dono del loro
Dio Negro, qualcosa che i bianchi
proibiscono, precisamente, per
impedire la conquista della coscienza da parte della popolazione Negra».
Il reggae
Dagli anni ’60, la Giamaica è una
fucina di musica che si diffonde in
tutto il mondo: oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso, spirituale e politico.
Un grande testimone di questa
musica è stato Bob Marley, il cui
talento e carisma hanno portato
il reggae a essere conosciuto e
apprezzato a livello internazionale, e così pure il rastafarismo.
Roots reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta
di un tipo di musica spirituale, i
cui testi elogiano Jah, e invitano
alla resistenza contro l’oppres-
sione. «Nei testi di musica reggae
si incontra il termine “apocalisse”
- afferma Sansone -, ma più
spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia finale del
giorno del Giudizio, nella quale
senza dubbio, i rastafari usciranno vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso, promossi come
Nuovi Israeliti, nuovo Popolo
Eletto».
L’abbigliamento. Scrive ancora
Sansone: «[…] i vestiti del rasta
sono colorati e vivaci; il rasta vuole
sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza
sono espressione della ricerca di
armonia, bellezza e plasticità (blu
danza). […] L’armonia della danza
è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere
fluido, al suo timbro basso e al suo
insieme conciliante […]».
Un’altra caratteristica rastafari è
il tam, copricapo con i colori della
bandiera etiope.
Angela Lano
Livio Sansone è un antropologo italiano che vive a Salvador de Bahia. È professore all’Università Federale de Bahia
(Ufba), ricercatore del Ceao,
Centro de Estudos Afro-Orientais, dove coordina il programma Fábrica de Ideias e il
Programa Multidisciplinar de
Pós-Graduação em Estudos Étnicos e Africanos. Tra le sue
opere recenti va ricordata «Negritude sem etnicidade: o local
e o global nas relações raciais e
na produção da cultura negra
do Brasil» (Salvador/Rio de Janeiro, Edufba/Pallas, 2004).
Sidney Rocha è un teologo
rastafari bahiano, laureato all’Istituto de Educação Teologica da Bahia (Iteba), musicista e poeta, e direttore dell’Associazione Culturale Nova
Flor di Salvador.
Angela Lano è orientalistaislamologa e giornalista, autrice di diversi libri sul mondo
arabo e islamico, e collaboratrice della rivista MC. Da circa
due anni vive a Salvador di
Bahia, dove collabora con il
Centro de Estudos Afro-Orientais dell’Ufba tenendo corsi
sulla Storia dell’Islam e del
Vicino e Medio Oriente.
Con i Rastafari inizia un viaggio a puntate sulle religioni
della Bahia.
APRILE 2014 MC
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ITALIA
© Matteo Montaldo
di PAOLO DERIU
La Caritas e Migrantes
presentano
il nuovo rapporto
sull’immigrazione.
Il fenomeno a livello
globale è in aumento.
Mentre la crisi
economica tocca oggi
anche gli stranieri.
Spingendo molti,
per questo motivo,
a incrementare la
migrazione di ritorno.
E le famiglie
riprendono a dividersi.
Intanto sul fronte
dell’integrazione
la strada da fare
è ancora molta.
28
MC APRILE 2014
CARITAS:
PRESENTATO IL RAPPORTO IMMIGRAZIONE 2013
MIGRAZIONI:
I
MAI IN CRISI
l 5 febbraio a Torino, Caritas e
Migrantes hanno presentato il
XXIII Rapporto immigrazione
2013. Il tema prescelto quest’anno è: «Tra crisi e diritti
umani. Connessione tra crisi e irrinunciabile rispetto dei diritti
umani». Il volume è ricco di dati,
molto utili per chiunque si interessi di migrazione.
Dopo aver presentato una sezione che riassume i principali avvenimenti riguardanti l’immigrazione nel mondo, nel 2013, l’opera analizza il fenomeno migra-
torio, a livello mondiale ed europeo, alla luce della crisi economica che ha colpito il pianeta da
ormai sei anni. Un contesto che
nel 2012 ha visto oltre 232 milioni
di persone lasciare il proprio
paese per andare a vivere in
un’altra nazione.
Oltre ai contributi su temi specifici, vengono presentati anche tematici su questioni che riguardano i migranti (per esempio:
l’acquisto della casa, l’istruzione)
e vari riquadri che illustrano alcune tra le diverse iniziative
© Matteo Montaldo
MC ARTICOLI
# In queste pagine: foto di migranti
all’ex villaggio olimpico di Torino,
realizzate dal fotografo Matteo
Montaldo.
© Matteo Montaldo
messe in campo dalle diocesi in
Italia per venire incontro ai bisogni dei migranti.
Non solo Italia
Nell’analisi delle migrazioni internazionali, un’attenzione particolare viene prestata alla situazione
nei paesi del Golfo Persico che
negli ultimi decenni hanno visto
arrivare moltissimi lavoratori
esteri, tanto che i migranti rappresentano in media oltre un
terzo della popolazione locale.
Nel piccolo stato del Qatar i cittadini stranieri sono addirittura oltre i tre quarti della popolazione
residente.
Per quanto riguarda l’Italia, apprendiamo dal rapporto che proprio grazie agli immigrati la popolazione italiana è in crescita: all’inizio del 2013, in Italia risiedevano quasi 60 milioni di persone,
di cui 4,4 milioni di cittadini stranieri (il 7,4%). Grazie alle nascite,
i cittadini stranieri sono incrementati di oltre 334 mila unità.
L’Italia è un paese in cui le famiglie di cittadini migranti hanno in
media più figli di quelle italiane,
ma è anche un territorio di ingresso per nuovi migranti, soprattutto quelli che si ricongiungono
con familiari già presenti. Per
molti cittadini di altri paesi l’Italia
è soprattutto luogo di transito
per giungere in altri stati europei
in grado di offrire opportunità migliori di lavoro e di inserimento
sociale.
La crisi e i migranti
La sezione «Leggere l’immigrazione» tratta in profondità la crisi
economica in Italia e la sua ricaduta sul mondo delle famiglie di
migranti. Più «allenate» degli italiani ad affrontare difficoltà e sa-
crifici, molte famiglie migranti
soffrono tuttavia lo stress della
perdita del lavoro, che è solo la
prima tappa per il decadimento
progressivo del tenore di vita.
Spesso al licenziamento segue il
taglio delle forniture di luce e gas,
lo sfratto, la miseria. Di fronte a
questa prospettiva, alcune famiglie decidono di ritentare la fortuna emigrando nuovamente,
possibilmente nei paesi del Centro Nord Europa. In altre famiglie,
i genitori decidono, con molta
sofferenza, di separarsi dai propri
figli (e talvolta dai congiunti), anche in tenera età, per rimandarli
(o mandare quelli nati in Italia)
nel paese d’origine, perché non
sono più in grado di mantenerli.
Un altro tema cruciale che il rapAPRILE 2014 MC
29
ITALIA
porto affronta è quello dei migranti e della casa. Non sono pochi i cittadini stranieri che si adattano a vivere in alloggi precari e
ristretti, a volte addirittura garage grossolanamente ristrutturati, con i servizi igienici esterni,
con riscaldamento assente o insufficiente. Sono i bambini a soffrire per queste situazioni, soprattutto per l’umidità e il freddo
che ristagnano in questo tipo di
abitazioni.
stosi, elaborati per tranquillizzare
una opinione pubblica timorosa
degli arrivi di nuovi migranti.
L’argomento successivo riguarda
la tratta e lo sfruttamento di esseri umani per l’arricchimento di
loro simili: un fenomeno variegato e in continua evoluzione,
che include la prostituzione, lo
sfruttamento dell’accattonaggio,
ma anche di lavoratori impiegati
in nero in agricoltura, pastorizia,
edilizia, domestico.
Importante è anche il discorso relativo all’integrazione dei cittadini
residenti in Italia, nella società
che li ospita. Qui entrano in gioco
la scuola e leggiamo nel rapporto,
che gli studenti stranieri sono in
genere orientati a una formazione
che conduca all’ottenimento di un
lavoro in tempi brevi, per poter
aiutare la famiglia. Sono quindi
preferite le scuole tecniche di formazione professionale. Sempre
per quanto riguarda l’integrazione, il rapporto tratta la questione della cittadinanza italiana
per gli stranieri, il cui iter è alquanto lungo e sofferto. Non
manca un approfondimento sui
matrimoni cosiddetti misti e interconfessionali e su altri aspetti che
l’arrivo di religioni differenti da
quella cattolica e cristiana comporta per la società italiana.
Il rapporto affronta anche la questione dei Cie (centri di identificazione ed espulsione). Dubbi sono
espressi sulla loro legalità, come
anche sulla loro ragione di essere.
Paiono strumenti, peraltro co-
La terza sezione, «La voce del territorio: la rete diocesana al servizio dei migranti» illustra, per
ognuna delle regioni italiane, la
Cosa succede sul territorio
© Daniele Dal Bon
# Sopra: monsignor Cesare Nosiglia
celebra la messa dei popoli a Torino il
6 gennaio 2014.
# In basso a destra: danza tradizionale
della comunità peruviana in piazza
Castello a Torino il 19 ottobre 2013.
# In basso a destra: ancora immagini
del servizio di Matteo Montaldo.
© AF MC/ Gigi Anataloni
Integrazione?
storia e la situazione attuale del
fenomeno migratorio. All’inizio di
ogni capitolo riguardante una regione vengono riportati grafici sui
principali paesi d’origine dei migranti e sugli alunni stranieri che
frequentano le scuole fino alle secondarie di secondo grado. Si
spazia dalle grosse difficoltà che
l’accoglienza agli immigrati incontra in alcune regioni italiane, legate a intoppi burocratici o a inefficienze, allo spirito di solidarietà
espresso da organizzazioni di volontariato, che riesce spesso ad
attenuare problemi che risulterebbero altrimenti esplosivi.
Il rapporto si chiude con una appendice giuridica, che ci aggiorna
MC ARTICOLI
2013 è uno strumento estremamente utile per operatori, volontari, studiosi, o semplici cittadini
interessati che vogliano essere
aggiornati su un tema in veloce
evoluzione, come è quello della
migrazione.
Paolo Deriu
Il rapporto
Caritas Italiana e Fondazione
Migrantes hanno presentato il
XXIII Rapporto Immigrazione
2013, con l’eloquente sottotitolo «Tra crisi e diritti».
Il volume di 360 pagine è ricco
di dati aggiornati.
In rete è disponibile una sintesi scaricabile dal sito della
Caritas Italiana all’indirizzo:
www.caritas.it
© Matteo Montaldo
© Matteo Montaldo
su temi quali la cittadinanza, l’emersione dal lavoro irregolare,
l’assistenza sanitaria, ecc. È anche
incluso un glossario con i principali termini in italiano e in inglese, di uso comune nei testi che
trattano di migrazione. In conclusione, il Rapporto immigrazione
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Pillole « Allamano»
contro il logorio della vita moderna
a cura di Ugo Pozzoli
3. AMATE UNA RELIGIONE
CHE VI OFFRE LE PROMESSE
DI UN’ALTRA VITA E VI RENDE PIÙ
FELICI SULLA TERRA
Una presa di tabacco con gli amici.
Kenya, Tuthu, 1905 ca.
S
e una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le
pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti
del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati.
La pillola di questo mese parla di felicità, il
fine ultimo del cammino esistenziale di
ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se
molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una
pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono,
oggi, dichiarare certamente tali?
32
MC APRILE 2014
olui che crede dovrebbe avere una risposta
pronta da offrire, una soluzione in grado di
soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e
pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di
fede fa dire al credente che la meta agognata non
può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il
desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare
lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non
smette un secondo di attirare a sé la sua creatura,
proprio perché la vuole felice.
Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se
Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che
tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa
non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che
non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo
C
MC RUBRICHE
deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio.
L’azione umana non è l’unica né la principale causa
del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole,
è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in
materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro
ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto»,
che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo
ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità
di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è
felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il
mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha
rescissa dalla propria storia.
Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore
che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle
catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei
casi, completamente indifferenti.
La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad
affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone
e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.
La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata
scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910.
In quella lettera l’Allamano ricordava che se desi-
deravano conseguire frutti dovevano far sì che il
loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di
grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci
offre la sua pillola.
L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte
di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di
papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il
metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni
farne tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione
che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici
su questa terra». Più felici su questa terra: prima di
fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore
della fede.
n approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere
testimoni della loro fede come possibilità per vivere
una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del
monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010):
U
# A sinistra: Momenti di gioia in
Etiopia, alla consegna di un
micro-credito; sopra: in Mongolia durante una celebrazione eucaristica e in Colombia (pagina seguente) posando per un amico.
APRILE 2014 MC
33
Pillole « Allamano»
«Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli
uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita
cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti
della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata,
è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi
la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo
quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un
giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e
leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».
Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice
dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela
di Cristo è esigente, significa passare per la porta
stretta e abbracciare la croce che può assumere nel
concreto diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta
del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.
In una società come la nostra dove l’indifferenza e il
relativismo esprimono una chiara mancanza di
senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza
la propria vita, nella ricerca di un perché capace di
illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire,
e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.
34
MC APRILE 2014
Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere
felici. È il livello della consolazione, del mettersi
cioè a fianco e camminare con coloro che sempre
rimangono ai margini, attardati a causa del peso di
esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita
di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa
terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base
di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con
l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire
la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il
nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi
«piove sempre sul bagnato».
La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare
l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.
a pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato
molto in sintonia con questo approccio e ha
pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve
essere un uomo gioioso, felice della sua scelta,
della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa
vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la
speranza di ritrovare una ragione per andare
avanti.
Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da
noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al
benessere, alla possibilità di pagare occasionali
momenti di beatitudine sta venendo meno giorno
dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta
attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il
benessere costruiti in questi anni.
Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per
questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce
insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella
cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio
di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di
una giornata finalmente serena.
Ugo Pozzoli
L
REPORTAGE / MYANMAR IN TRANSIZIONE
LA NUOVA
VIA BIRMANA
TESTI E FOTO DI
PIERGIORGIO PESCALI
CON PASSI INCERTI, MA IN CAMMINO
SORRIDERE
NON BASTA
DI
PIERGIORGIO PESCALI
La transizione birmana verso la democrazia non è facile, ma sembra procedere,
garantita dal presidente Thein Sein. Della partita è ormai parte pure l’eroina birmana
per eccellenza: Aung San Suu Kyi. Anche lei però non è rimasta immune da critiche,
soprattutto rispetto agli scontri etnici e religiosi che, negli ultimi due anni, hanno
avuto luogo in varie zone del Myanmar. Un paese che è un mosaico di ben 135 gruppi
etnici differenti.
ono trascorsi tre anni dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato a intraprendere un nuovo
corso politico, economico e sociale. Il cammino
si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci
si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i
primi entusiasmi hanno cominciato ad affacciarsi anche le difficoltà e i primi ostacoli.
Accanto a radicati conflitti etnici e a intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta
collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw (l’esercito), ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche.
I primi decreti libertari, voluti dal nuovo governo civile
di Thein Sein - con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento -, si sono
dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni aspetta-
S
tiva. Ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore
dalla popolazione birmana e dai governi democratici
occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva
promossi.
L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto del confronto interno,
ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che
oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici.
La capacità di adattarsi con elasticità e immediatezza
alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, determinerà chi potrà essere la
nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo
in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in
programma nel 2015, si confronteranno.
DOSSIER MC MYANMAR
Pagina precedente: trasporti
lungo il fiume Irrawaddy.
A sinistra: un taxista nella città
di Mandalay.
In copertina (pag.35): Sittwe,
capoluogo di Rakhine, stato a
forte presenza musulmana.
Foto piccola: monaci sul ponte
di legno U Bein a Amarapura
(Mandalay).
Gli scontri tra musulmani e buddisti
Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico
(vedere mappa a pag. 39, ndr), che ha monopoliato
quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti - iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche
in altre regioni del paese. Nel conflitto etnico, invece,
Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati al clamore delle armi.
In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il
presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi
sono stati duramente criticati dalle organizzazioni internazionali che si occupano del rispetto dei diritti
umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti
vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per
non aver criticato con sufficiente forza le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio
in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato
di spiegare il suo atteggiamento: «Io condanno ogni
tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo
farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese
chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le
ho pronunciate» (a pag. 47 del dossier, ndr).
Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e
quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono
espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che,
proprio sulle questioni portate alla luce dai conflitti, si
giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar.
Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità is-
lamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni
molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein
ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri
siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si intravedono
elementi che possano giustificare tali dichiarazioni (ad
esempio, la conservazione di uno status quo che, anche
tramite la dittatura, aveva garantito una sorta di pace
sociale), appare improbabile che la destabilizzazione
del paese possa favorire una precisa corrente politica.
Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San
Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non
hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e
permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la
legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale».
L’United Nations High Commissioner for Refugees
(Unhcr) stima che vi siano più di 808.000 Rohingya tra
Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi,
dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di
cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai
residenti nel paese che possono dimostrare di aver
avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la
domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della
propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché im-
APRILE 2014 MC
37
supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine
buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione
del regime possa incoraggiare l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli.
I rapporti delle commissioni di inchiesta internazionali
sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a
quelle della commissione governativa, voluta dal presidente Thein Sein per investigare sulla situazione del
Rakhine. Di essa facevano parte anche membri non
simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi. Ma nessun Rohingya è stato inserito nella lista.
Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette
mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel
«rapido incremento della popolazione musulmana»
uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza
contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la
comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in
contatto tra loro.
La relazione è stata recepita positivamente dal governo
che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai
Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013,
circa 75.000 Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui
non possono allontanarsi, a differenza di quanto accade per i Rakhine, senza un permesso speciale.
Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni internazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya
sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben
prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata
ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni, cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui
sono detenuti gli attivisti musulmani, hanno parlato di
condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei
A sinistra: il presidente
birmano Thein Sein
(a destra) con Barack
Obama alla Casa Bianca
il 21 maggio 2013.
Sopra: il monaco
buddista U Wirathu,
leader dell’organizzazione estremista
«Movimento 969».
Pagina seguente:
mappa del Myanmar
con le varie divisioni
amministrative e le
zone dei conflitti.
© White House, 2013
possibile da dimostrare visto che la maggior parte dei
Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale,
quando sia Birmania che India erano sotto il dominio
britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da
reperire.
Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra
discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe
alcuna etnia che possa definirsi tale (e in effetti tra le
135 etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione
che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le
fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le
comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti
clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che,
come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del
tutto illegale.
Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio
compiuto nel maggio 2012, il 70% dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la
DOSSIER MC MYANMAR
AREE DI CONFLITTO:
• con
l’etnia Kachin*, a maggioranza cristiana, al Nord, ai confini con lo Yunnan
(Cina)**;
• con l’etnia Shan*, a Oriente, zona di produzione del papavero da oppio («Triangolo
d’oro»);
• con l’etnia Karen (Kayin)* di religione buddista e cristiana, al Sud, ai confini con la
Thailandia;
• con l’etnia Rohingya*** di religione musulmana, nello stato di Rakhine al confine con
il Bangladesh.
*
Attenzione: esistono varie denominazioni di
questi gruppi etnici.
**
Sul conflitto con i Kachin, prossimamente MC
pubblicherà un reportage di Gabriele Battaglia
e Nicola Longobardi (China Files).
*** La denominazione è controversa. Dell’argomento MC ha parlato nel numero di luglio
2013, pag. 68.
campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (Msf) ha parlato di emergenza
umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle
più elementari cure mediche, mentre Human Rights
Watch (Hrw) ha denunciato la stretta collaborazione
tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le
forze del regime birmano nel fomentare le violenze
contro i Rohingya.
Queste commistioni hanno creato un senso d’insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori
dello stato Rakhine.
Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i
musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare,
così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni
dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello
sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti
religiosi buddisti è, però, passato inosservato per la
maggioranza dei fedeli e non ha impedito che gli scontri si espandessero in gran parte delle province centrali
e meridionali del paese.
Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali
sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto
affronto, attaccavano e incendiavano negozi e case di
famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare
le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora
chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile.
L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel «Movimento 969», un’organizzazione fondata
dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file
milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i
fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico e al suo
dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi
utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal
(dove si vende rispettando le norme islamiche, ndr).
Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i
fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da
islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un
disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico.
L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha
(la comunità buddista allargata, ndr) buddista birmana
a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla
politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un coordinamento che contrastasse
questa insofferenza, creando Pray for Myanmar.
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Guerra e pace nello stato Kachin
Sugli altri fronti, il governo Thein Sein è riuscito, invece, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare con i Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della
Kachin Independence Organization (Kio) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra
si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013
40 MC
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ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni
azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili.
Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si
sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito
e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta
nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo
stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano
caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano
e al Kio di intervenire per evitare l’intensificarsi della
guerra.
DOSSIER MC MYANMAR
A sinistra, in senso orario: donna Akha dello stato Shan;
donna Padaung; donna Karen dello stato Shan. A destra:
donna Lahu dello stato Shan. In basso: donna nelle
campagne di Mawlamyine, stato Mon.
I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più
faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche
gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitaria. Persino la presenza di Harn Yawnghwe, in quanto
direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles (che la
Cina considerava alla stregua di una organizzazione
non governativa), è stata in forse fino all’ultimo. Solo
l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua
partecipazione.
La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri internazionali, specie se legati ai governo occidentali, è dovuta principalmente a
due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle
lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici
che il paese ha nella regione.
I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno
affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e
questo, sommato agli stretti rapporti che il Kio ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi
molto ambigui agli occhi di Pechino.
Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità
di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della
diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni
meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in
funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato
nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina
di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha
tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area
stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco
tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza per la sua economia.
Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang
Mai, in Thailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è
stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il Kio e il governo di Nay Pyi Taw,
hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la
continuazione del dialogo su via politica; il graduale
disimpegno militare nella regione sino alla completa
cessazione delle ostilità; il monitoraggio della
situazione con gruppi di controllo misti; il
rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello
stato Kachin; il riposizionamento delle truppe
del Kachin Indepen-
APRILE 2014 MC
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dence Army (Kia) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del Kio a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace;
la presenza di osservatori internazionali nei successivi
colloqui di verifica.
Tutte le tre principali richieste del Kio, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw, il
continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico, sono state accolte dalla delegazione birmana.
Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. È importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal Kio perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati.
Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo
trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace
nello stato. Il Kio ha più volte denunciato il disinteresse
dei politici Bamar nei confronti della situazione nello
stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti
verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di
quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si
sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo
stesso Thein Sein è stato costretto a intervenire più
volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del Kia. La scarsa
attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole
In alto: avventori al
mercato della pagoda
Phaung Daw Oo nei
pressi del Lago Inle,
nello stato Shan.
A destra: al mattino
i monaci buddisti
passano per le case
per ricevere il cibo.
42 MC
APRILE 2014
del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo
controllo che il governo centrale possa avere sui vertici
militari.
I militari: tra vecchio e nuovo corso
La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la
vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più
propensa ad accettare un ruolo di subordine anche
nella vita politica della nazione.
L’articolo della Costituzione che garantisce ai militari il
25% dei seggi nel parlamento è sempre stato visto
come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione
è esatta, ma occorre notare che senza un consenso
esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo
governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si
sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in
cui sono stati chiamati a esprimere il proprio voto, si è
osservata una libertà di scelta e di opinione.
La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia
contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei
seggi riservati ai militari non penso rappresenti un
problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del
paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente».
DOSSIER MC MYANMAR
Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono
stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte (che
hanno governato la nazione fino al 2010), è che la ventata di democrazia sul Myanmar possa trasformarsi in
un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia del loro ruolo e delle fortune economiche familiari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui
proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non
vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso perché non rispecchiano un
clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è, dunque, ancora
ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese.
Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere
unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in
odore di campagna elettorale e in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre
stata convinta che i militari devono lavorare a stretto
contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre
avuto un affetto particolare per i militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non
ha capito nulla del mio pensiero» (vedi pag. 49, ndr).
È anche per la paura di una disgregazione nazionale
che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione 2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del Pil).
La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far
fronte a nuove minacce interne (come i conflitti negli
stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle mino-
ranze etniche), contrastava pesantemente con il magro
bilancio destinato alla sanità (3,8% del bilancio; 0,9%
del Pil) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio;
1,8% del Pil).
Degno infine di un certo interesse è il fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza
del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per
il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il
predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana.
Le riforme di Thein Sein, gli investimenti
internazionali e il «Triangolo d’Oro»
Come già evidenziato, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme che hanno interessato
vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a
quella economica.
Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione
pubblica che radunasse più di quattro persone, è stato
abrogato così come le norme restrittive in materia di
censura di stampa, libertà di espressione e di movimento, già abolite negli anni precedenti.
Tutto questo ha permesso a una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini che erano stati privati
- negli anni della dittatura militare - dei loro terreni, di
unirsi in associazioni per richiedere la restituzione
delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali
ha ricevuto circa 4.000 domande di risarcimento. Così
come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla
consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà
essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in
dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati
dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è
emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano
stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito.
La commissione d’investigazione - presieduta da Aung
San Suu Kyi - è stata costretta a sfoggiare tutta la sua
retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una
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parte ha verificato che il giacimento non avrebbe
creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un
danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che
lo sfruttamento minerario procedesse al fine di non
creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi
era di 1.730 dollari Usa per ogni acro) si è scontrata con
la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato
la protesta.
Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della
nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni
che esulavano dal tema economico. Durante i XXVII
Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal
Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più
volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un
crescente malessere che serpeggia tra la popolazione.
La bocciatura dello schema protezionista, proposto dal
parlamento all’inizio del 2013, per far fronte a eventuali
ribassi troppo accentuati del prezzo del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini a un prezzo superiore
da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è
già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente
utilizzato nelle campagne birmane.
In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi
investimenti che di soddisfare le richieste dei propri
cittadini. I grandi sovvenzionamenti, elargiti dagli istituti di credito internazionali, sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian
Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari
per progetti socio economici e il miglioramento della
gestione pubblica.
La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi
uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove
soluzioni d’investimento.
Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia, è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da 40 amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con
tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di 1,85 miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva
contratto con il governo nipponico e al tempo stesso ad
investire 500 milioni di dollari per la costruzione di
strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche.
Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato
dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un
lungo e, a tratti, drammatico braccio di ferro
tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il
blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la
Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation).
44 MC
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Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi
due anni si sia spogliata di numerosi orpelli che la appesantivano.
La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio
d’investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto
come paese a rischio su una classifica che tiene conto
di 197 economie mondiali.
Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione
asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del
governo birmano nel settore è confermata anche dal
rapporto dell’United Nations Office on Drugs and
Crime (Unodc), che nel suo resoconto ha evidenziato
che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta
del 26%. Il 92% dei campi coltivati si trova nello stato
Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della
droga. Il leggendario «Triangolo d’Oro» - l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar
e Thailandia - è tornato ad essere l’area dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo il 18% della produzione mondiale,
secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati
rilasciati dall’Unodc per evidenziare lo stretto legame
esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la
mancanza di uno stretto controllo sul territorio da
parte dell’esercito birmano.
Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane.
I contendenti per le presidenziali del 2015
Tutti questi problemi non potranno essere risolti in
breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere
che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce,
Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento.
Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua
candidatura per le file del National League for Democracy (Nld). L’unico ostacolo che si frappone alla sua
designazione è la Costituzione, il cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri
(Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un
britannico, non rientrerebbe in questa
categoria) e non abbia figli stranieri
(i figli avuti dal matrimonio con
Michael Aris hanno passaporto
britannico e questo potrebbe
pregiudicare la candidatura).
Per perorare le sue ragioni e
cercare alleanza tra gli stati
occidentali che tanto hanno
contribuito alla sua causa
mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu
Kyi, per tutto il 2013, ha
viaggiato negli Stati Uniti, in
Oceania, Giappone ed Europa con il dichiarato scopo di
chiedere l’emendamento della
DOSSIER MC MYANMAR
Costituzione birmana.
Un gesto sicuramente interessato e opinabile, come lei
stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la
mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una Costituzione
nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi
batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo
abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la
persona che andrà a rappresentarlo» (a pag. 48, ndr).
Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’Nld verrà rimosso, la
popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei
stessa appartiene e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale.
Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party
(Usdp), anche se voci sempre più insistenti indicano che
potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della
Camera bassa che della Camera alta. Shwe Mann, che
durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da
semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito.
Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla
scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da
qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del
governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale.
Sopra: mercato nei dintorni della pagoda Phaung Daw Oo,
Lago Inle, stato Shan. Pagina precedente: papaveri
da oppio nei campi dello stato Shan, dove ancora viene
coltivato su larga scala.
Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua a essere presentata dal governo come motivo di
miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di
1.141 detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11
dicembre 2013.
La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco
per il governo birmano. Reporters sans Frontières ha
continuato a denunciare la repressione dei media,
nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato
ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei
giornalisti, questi - per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche - si censurano da soli.
Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a
segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime
di Nay Pyi Taw. Secondo il Csi alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National
Union/Karen National Liberation Army (Knu/Knla) e
Karenni National Progressive Party/Karenni Army
(Knpp/Ka) avrebbero avviato un programma con le
Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’Unicef ha avviato
un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include
il «congedo» dei militari bambini.
Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già
elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore.
Piergiorgio Pescali
APRILE 2014 MC
45
© Myanmar News Agency / AFP
A COLLOQUIO CON AUNG SAN SUU KYI
IDEE E PROGETTI
DELLA «SIGNORA»
DI
PIERGIORGIO PESCALI
Nell’autunno 2013 Aung San Suu Kyi ha concluso il suo tour europeo in Italia, da cui
mancava da quarant’anni. L’abbiamo incontrata prima della sua partenza per il rientro
nel Myanmar. Nel 2015 sarà lei il nuovo presidente del paese?
ignora San Suu Kyi, può fare un bilancio del suo
S
viaggio in Europa?
«Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono
stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia,
e in altri, come il vostro, da cui mancavo da decenni. Ho
incontrato persone meravigliose, persone che per anni
si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali».
Quando parla di uomini dai profondi principi umani
e spirituali pensa a qualcuno in particolare?
«Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la
gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro
voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio,
mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in
sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare
46 MC
APRILE 2014
sentimenti come amore e comprensione per fugare le
paure che dividono i popoli. Purtroppo non abbiamo
avuto molto tempo per approfondire la conversazione,
ma gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti impressi. È una persona con cui mi
sono sentita immediatamente in sintonia. Mi piacerebbe incontrarlo ancora».
Lei ha ricevuto tantissime promesse durante la
sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso
sappia che i politici italiani non hanno la fama di
mantenere le promesse fatte e l’Italia ha brillato
più per la sua assenza piuttosto che per la sua
presenza nelle vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata
in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano?
DOSSIER MC MYANMAR
«Spero vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza
il movimento democratico e numerose personalità del
mondo dello spettacolo, della cultura, della politica si
sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti
umani in Birmania».
A proposito di diritti umani: a che punto siamo nel
processo di pacificazione con i gruppi etnici?
«Ci sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il
parlamento a discutere la questione etnica. In effetti
ci sono diversi membri che rappresentano le etnie nel
nostro parlamento ed è per questo che, in questa
sede, il dialogo sta già avvenendo. Da parte loro, i
gruppi etnici chiedono che la questione sia discussa al
di fuori del parlamento e con terze parti che facciano
da garanti. Ciò che è venuto a mancare durante gli
anni della dittatura militare è la capacità del dialogo e
del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle sue richieste e questo porta inevitabilmente a uno stallo dei
negoziati».
È ciò che sta avvenendo anche nello stato Rakhine
tra musulmani e buddisti?
«In un certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti
di un conflitto etnico. È un contrasto completamente
differente da quello in atto nelle altre parti del paese,
alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità».
La paura è, quindi, secondo lei, una delle ragioni per
cui nello stato Rakhine la comunità buddista e
quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso?
«Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di
fronte ad un conflitto etnico».
Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti
umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con lei e l’hanno anche duramente
criticata.
«Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto
tra buddisti e musulmani e non la differenza etnica. La
comunità internazionale punta il dito accusatore solo
verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze.
Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare e ancora oggi vivono in campi
profughi».
Associazioni e movimenti che si occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di non voler difendere i diritti della comunità
islamica per un puro calcolo elettorale in vista delle
elezioni presidenziali del 2015.
«Posso rispondere dicendo anch’io che le loro accuse
sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale
per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il
governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il
confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno
se n’è occupato con il risultato che migliaia d’immigrati
clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice
del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania
c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese».
È, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza.
«Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che
condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità
serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole
fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate».
Qual è, quindi, la soluzione che propone?
«Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del
mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i
paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il
problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale
soluzione propongo. È semplice: io la chiamo rispetto
della legge e della giustizia. Io e il mio partito, la Lega
Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno controllato il
confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia
di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io
chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la
facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere
questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine
a questa immigrazione illegale e garantire la cittadinanza a chi ne ha diritto».
A sinistra: «Le forze
armate e il popolo in
eterna unità. Chiunque
cerchi di dividerli
è nostro nemico», così
recita il cartellone della
propaganda governativa
a Hpa An, capoluogo
dello stato Kayin.
Pagina precedente:
Aung San Suu Kyi con
il presidente Thein Sein
nella sede del governo,
a Naypyidaw.
APRILE 2014 MC
47
Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha
documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è
una strada a vicolo chiuso.
«È per questo che chiediamo che ci sia un confronto
non solo all’interno della Birmania, ma anche con il
Bangladesh».
I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del
2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti
con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben
più importanti da emendare, come il 25% dei seggi
riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa,
in caso di necessità, prendere il comando del governo?
«Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto
che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi preoccupa il 25% dei seggi
riservati ai militari nel parlamento quanto, piuttosto, il
pericolo che il comandante delle Forze Armate possa
arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo
che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere
legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale possa essere intesa come una battaglia personale.
Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente
Sopra: raccolta del riso a Nyaungshwe sul Lago Inle.
A destra: barca sul fiume Kaladen, tra Sittawe e Mrauk U.
In alto: Aung San Suu Kyi incontra papa Francesco
il 28 ottobre 2013. In copertina finale (pag. 50): anziani
contadini nei pressi del Lago Inle.
48 MC
APRILE 2014
giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi
batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo
abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente
la persona che andrà a rappresentarlo.
Mi permetta anche di evidenziare che l’emendamento
della costituzione è solo il terzo punto del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle
guerre civili. Sono una politica e come tale ho degli
obiettivi. Uno di questi è dare al mio popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto: permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta».
Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi?
«Non voglio fare promesse che non posso mantenere.
Non voglio dire che, se diverrò presidente, il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto
che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le
leggi, porre fine alle guerre civili ed emendare la Costituzione».
Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che
ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a
porre termine alle guerre etniche.
«Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno
fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare.
Sotto lo Slorc (State Law and Order Restoration Council, ndr) prima e l’Spdc (State Peace and Development
DOSSIER MC MYANMAR
Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di
100 prigionieri politici nelle prigioni birmane,
quando solo tre anni fa erano più di 2.000. Secondo
lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico?
«Certamente. È per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia.
Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le
Forze armate, ndr) che si oppongono alle riforme».
Chi potrebbe essere un partner fidato in questa
transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti,
l’India, l’Asean?
«La Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti
ed amichevoli con la Cina e, personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio paese.
Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che
siano investimenti non finalizzati a esclusivo vantaggio
di un solo paese o di una classe sociale. Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro».
Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon
nel 1988 (a cui io ero presente), ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Que-
© Avvenire it
Council, ndr) dopo, non c’è mai stata libertà di parola o
di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da
una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in
atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare.
Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai
ottenere il 100% di ciò che si chiede».
ste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono
non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro
che non hanno capito nulla delle sue idee o è lei che
ha cambiato le idee?
«Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Sono
sempre stata convinta che i militari devono lavorare
stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho
sempre avuto un sentimento particolare per i militari e
chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero. Non
ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anch’io mi stupisco di come molta gente inorridisca
quando affermo di avere grande affetto per loro. Ma
dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni
a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto molto rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente,
per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza».
Piergiorgio Pescali
L’AUTORE
• PIERGIORGIO PESCALI - Giornalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud
Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Da
anni collaboratore di Missioni Consolata, suoi
articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire,
Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e
Cnn. Dal 2010, cura per Asia Maior
(www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar.
Ha pubblicato Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010. È di imminente uscita (maggio
2014): Il custode di Terra Santa. A colloquio
con Pierbattista Pizzaballa, Add Editore
(www.addeditore.it), Torino. Il suo blog è:
www.pescali.blogspot.com.
• PAOLO MOIOLA - Redattore MC, con alle spalle due
viaggi in Myanmar (vedere MC settembre
1994 e MC dicembre 2007), per il coordinamento giornalistico del dossier.
APRILE 2014 MC
49
OSSIER
FINE
CIna
Testo e foto
di ALESSANDRA CAPPELLETTI
# Ilham Tohti, a Pechino,
durante una pausa delle lezioni
universitarie. La foto risale
al giugno 2010.
SILENZIO SU
ILHAM TOHTI
I
l 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa irruzione
nel piccolo appartamento in
cui Ilham Tohti, professore di
economia all’Università Minzu (riquadro di pag.54, ndr), vive con la
moglie e due figli piccoli, poco
fuori dal campus universitario.
Tohti viene prelevato e scortato
verso una destinazione ignota.
Moglie, figli e anziana madre non
hanno più notizie. Dall’abitazione
vengono portati via pc, cellulari,
agende e 38 sacchi di appunti,
tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere interrogati. Un documento rilasciato
dal Dipartimento di pubblica sicurezza della municipalità di
© Frederic J Brown / AFP
Uiguro di famiglia
musulmana, professore universitario e
blogger molto critico
verso Pechino, Ilham
Tohti è imprigionato
con l’accusa di «separatismo». Il suo caso
dimostra (una volta di
più) che la Cina non si
è ancora dotata di un
sistema efficace per
gestire il dissenso.
L’Occidente tuttavia
non può dirsi esente
da colpe, non avendo
a sua volta capito
come trattare con il
gigante asiatico.
La LOTTa deLLa mInOranza UIgUra
Urumqi, che descrive il professore come una figura pubblica
che approfitta della sua posizione
accademica per avvicinare studenti e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione ufficiale sul caso.
Tohti, che - in uno scritto del
2011 - aveva dichiarato di aver
dedicato la sua vita (e sacrificato
quella della sua famiglia) alla
lotta per la libertà religiosa, la tu-
CINA
tela della cultura, della lingua e
del popolo uiguro, è noto in Cina
e all’estero per i suoi scritti e le
sue attività di sensibilizzazione sul
Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito all’altro, si
cominciano a raccogliere firme
per la sua liberazione immediata.
Circola una petizione che, alla
data del 18 febbraio, nonostante
la problematicità del caso, era già
stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e straniere1.
Gli scontri del 2009
Il 5 luglio 2009, durante gli scontri
scoppiati nel corso di una grande
manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la
maggior parte cinesi di etnia han
colpiti a morte da gruppi di uiguri.
Altre manifestazioni e scontri
scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a
Sud e infiammano Kashgar, zona
52
MC APRILE 2014
di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione viene
isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate internazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola frenetico, un proliferare
di voci sulle possibili cause di
quello che viene considerato il
sommovimento potenzialmente
più destabilizzante per la Repubblica popolare dopo il 1989. Nur
Bekri, presidente della regione
autonoma, appare sulla Cctv
(China Central Television) facendosi portatore della linea
ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero,
nelle attività separatiste e
terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC,
gennaio 2010, ndr), e in
quelle sovversive di alcune
figure che operano entro i
confini cinesi, tra cui Ilham
Tohti. Il suo blog Uighurbiz
viene identificato come una
delle principali piattaforme
online responsabili di aver
istigato e aiutato a organizzare la rivolta. Il sito
viene chiuso, Nur Bekri
e Wang Lequan - l’allora segretario del partito del Xinjiang (che
verrà sostituito un
anno dopo da Zhang
Chunxian) - puntano
il dito contro Ilham
Tohti che, prima
viene arrestato, poi
rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo appartamento nel campus uni-
versitario con la moglie e i due figli piccoli.
Nonostante il supporto e l’affetto
di studenti e amici, dal 2009 in
poi l’esistenza di Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e interrogatori della polizia nei momenti più
inaspettati, problemi per i familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e
proprietà congelate (e lo stipendio da professore che arriva solo
saltuariamente), telefonate,
email e lezioni controllate e registrate. Più le maglie del controllo
si stringono intorno a lui, più le
sue lezioni diventano popolari:
aule in cui più di 200 studenti, per
la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni venerdì pomeriggio. Il
tono delle sue analisi e dei suoi
messaggi diventa sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non
passa però inosservato: il corso
viene interrotto nel settembre
2011, «perché non si raggiunge il
numero di studenti necessari».
Un progressivo
deterioramento
Infaticabile, nonostante una forte
depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una serie
di difficoltà per lui e la sua fami# In alto: fedeli davanti alla moschea
di Niu Jie, a Pechino. A sinistra: un
giovane all’ingresso della moschea.
A destra in alto: il professor Tohti
durante una lezione all’Università,
nel giugno 2010.
MC ARTICOLI
Un ritratto di Ilham Tohti
Professore e attivista
© Frederic J. Brown / AFP
ato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush, villaggio del Xinjiang ai confini col
Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con gli amici
Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in
partenza con lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente
molto religioso, negli anni ‘80 è un brillante studente di
lingue all’Università Minzu, nel nuovo clima di dialogo e
apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang.
Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è
sufficientemente eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia e la sociologia con un occhio sempre attento a quello che succede nella
sua regione d’origine, che lo porterà a occupare veloce-
N
glia, Tohti continua a lottare, a
fare rete con amici e intellettuali
a lui vicini e a sensibilizzare la comunità internazionale attraverso
le interviste che appaiono sui
maggiori media (New York Times,
The Guardian, Wall Street Journal). Ha in testa un progetto: istituire un’università online dove
raccogliere tutte quelle informazioni, opere, materiale relativi al
Xinjiang fino a quel momento
sparsi nella rete. Il governo cinese
mente una cattedra presso il Dipartimento di economia
dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà del
2000 rappresentano un periodo di formazione politica,
un lavoro condiviso con intellettuali cinesi e stranieri con
formazioni e posizioni diverse, attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo
segue. Tohti comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia, confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti, intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività
di sensibilizzazione rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti con studenti,
amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa, gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e
non esita a parlare e rilasciare interviste ai giornalisti
stranieri.
Alessandra Cappelletti
sostiene che Tohti si adopera per
coinvolgere sempre più uiguri a
portare avanti azioni violente
contro Pechino. Il suo carattere
combattivo, ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari
e di malattia, lo portano a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con
toni a tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre semplicemente individuando
le politiche di Pechino e del go-
verno regionale come prime responsabili dell’escalation. Più i
toni si surriscaldano, più Tohti
viene controllato, minacciato e
intimidito.
Ormai non c’è più spazio per le
analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in Xinjiang, sulle
trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da una società tradizionale a una moderna,
sulla situazione dei giovani in
Xinjiang e sulle aspirazioni delle
APRILE 2014 MC
53
CINA
Pechino
L’Università Minzu
Una casa
per le
minoranze
etniche
Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata
Università Minzu (in seguito a
una delibera degli organi accademici
volta a evitare che il termine minzu
民族, «gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato
«nazionalità»), è nuovamente sotto i
riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che raccoglie la créme dei
giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi, formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa educazione di
partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti nell'amministrazione pubblica e nel governo, il
campus del quartiere di Haidian
ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui,
kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi
tutte le altre minoranze. Inoltre è l'unica, a Pechino, a disporre di numerose mense per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa università ha fatto
notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti tibetani (marzo
2008 e ottobre 2010), e l'arresto di
Ilham Tohti nel luglio del 2009. Docente di dinamiche economiche nelle
aree abitate da minoranze, all’epoca
Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie
all'intercessione dell'amministrazione Obama.
Ale.Cap.
L’
54
MC APRILE 2014
comunità uigure, che erano state
una sua peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e, forse,
sempre più solo.
Nel febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino,
mentre - con la figlia Jewher
Ilham (nata da un precedente
matrimonio) - è in procinto di imbarcarsi per gli Stati Uniti per un
incarico temporaneo presso l’Indiana University a Bloomington.
Jewher parte, lui viene messo ad
arresti domiciliari ancora più severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui
media stranieri. Al telefono Tohti
critica il governo, commenta l’attentato dell’ottobre 2013 (vedere
MC, gennaio-febbraio 2014) a
Piazza Tiananmen sostenendo
che non ne è provata la matrice
uigura e, allo stesso tempo, che
non si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati
da gruppi di uiguri per «proteggere i propri diritti».
Tutto si ferma il 15 gennaio. Il
professore viene scortato fuori
dal suo appartamento del campus dell’Università Minzu. Il luogo
dove è detenuto è ancora sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione alla violenza». Un coro di voci si alza in
sua difesa: la blogger tibetana
Woeser, Wang Lixiong, giornalisti,
avvocati e intellettuali cinesi e
stranieri, e tanti altri. Ma la figura
di Tohti rimane controversa: i
toni estremi e quasi forzati delle
dichiarazioni degli ultimi tempi
non hanno prodotto il consenso
sperato. I suoi paragoni con altre
situazioni, per esempio con
quella dei ceceni, erano spesso
fuori luogo, e portavano alla luce
una psiche provata.
Il caso Tohti rimane aperto. Si
tende a spiegare il suo arresto con
campagne anticorruzione che
coinvolgono alti funzionari in
Xinjiang, e che avrebbero come
obiettivo ultimo i fedelissimi di
Zhou Yongkang, con il tentativo di
altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo giro di vite
sulle voci critiche in Cina da parte
della nuova amministrazione Xi, e
con molto altro. Quello che resta
da vedere è se la società civile cinese, la comunità internazionale e
il governo del Stati Uniti siano
pronti a sostenere una persona
che, prima di essere un dissidente,
è un uomo provato.
Pechino e la «gestione
del dissenso»
A questo punto può essere utile
comprendere la tragedia umana
del prof. Tohti alla luce del si-
MC ARTICOLI
stema politico cinese. Tutto ciò di
cui è accusato è vero: istigazione
al terrorismo (durante le lezioni
dichiarava apertamente, di fronte
a un gruppetto di poliziotti seduti
tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è
appoggiato, e forse anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza
(nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i diritti degli uiguri è la
violenza). Nello stesso tempo, il
modo in cui il suo caso è stato
trattato, almeno dal 2009, ha solo
contribuito a peggiorare la situazione. Lo stato mentale di Ilham
si è compromesso, poiché viveva
in un piccolo appartamento senza
poter più veramente lavorare, e
per i continui interrogatori e le in# Sotto: il momento della preghiera
nella moschea di Niu Jie, a Pechino.
A lato: la moschea di Turpan,
Xinjiang. A destra in alto: l’entrata
della «Minzu University of China».
timidazioni. Se da un lato, quindi,
la sua vicenda personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si
può dire che il governo cinese,
dal suo punto di vista, sbagli in
toto. Del resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi terroristici, per
realizzare - ad esempio - la separazione del Nord dal Sud, sicuramente non passerebbe inosservata.
Il governo cinese è attaccato da
molti fronti: uno di questi è costituito dagli oppositori interni. Esso
non riesce a gestire il dissenso,
perché in Cina manca completamente un meccanismo che faccia
da «regolatore» nei casi in cui gli
interessi del governo divergano
da quelli di parti della popolazione, se si esclude quello che si
basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno di
maggiore democrazia, cioè di un
coinvolgimento delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che tornerebbe molto utile
per evitare un’escalation dei problemi.
CINA
# A destra: fedeli davanti alla
moschea Id Gad, a Kashgar, Xinjiang.
Sotto: bancarelle alimentari al
mercato di Khotan, Xinjiang.
Nel frattempo, il 26 febbraio, si è
appreso2 che a Ilham Tohti, in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia l’ergastolo o addirittura la
pena di morte.
Alessandra Cappelletti*
NOTE
1 - NIl link della petizione: https://docs.google.com/spreadsheet/pub?key=0AsKDF8
HXe4IdGowdmRKcXAyd0REa2QxSFBtRjhlX1E&output=html.
2 - Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/worldasia-china-26333583.
* Già collaboratrice di MC, ALESSANDRA CAPPELLETTI è esperta di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato
di ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È
editor di un nuovo sito dedicato a Pechino:
www.cinaforum.net.
56
MC APRILE 2014
RD CONGO
di DAVID MOKE
© David Moke
Piccolo villaggio vicino
a un confine triplo
nel centro dell’Africa.
Isolato dal mondo
per le pessime strade.
In una zona di
incursioni da parte
di milizie e popoli
in transito.
Prossimo a campi
di sfollati nei quali
manca tutto.
E reso famoso
(o quasi) dal reality
show «Mission».
Racconto di un
missionario originario
di Doruma, tornato a
casa per delle brevi
vacanze.
DORUMA:
NON SOLO MISSION
NEL CUORE
S
DELL’AFRICA
e si guarda la cartina del
continente africano e si
cerca un ipotetico baricentro, si cade su un confine
triplo, a Sud Ovest della Repubblica Centrafricana (Rca), Nord
della Repubblica Democratica del
Congo (Rdc) e Sud del Sud Sudan.
Proprio qui, un puntino segnato
sulla carta porta a fianco il nome
di «Doruma». Ci troviamo nella
provincia Orientale del Congo, distretto Haut-Uélé (Alto Uélé) a
una decina di chilometri dal confine con il Sud Sudan e circa cinquanta, in linea d’aria, con la Rca.
L’omonima parrocchia si estende
su una superficie di 14.046 chilometri quadrati (superficie di una
media regione italiana, ndr) e
conta 55.713 abitanti. Il clima è
tropicale. Doruma fu la prima
parrocchia dei missionari della
Consolata in questa zona nel
Nord Est della Rdc. I primi ad arrivarci furono i domenicani nel
1917 mentre la presenza dei missionari della Consolata risale al
1973. Nel 2001 la parrocchia divenne diocesana.
La stragrande maggioranza della
popolazione è dedita a un’agricoltura di sussistenza e all’allevamento di animali di piccola taglia
(galline, capre). Nella zona non
esistono industrie. Più del 50% è
analfabeta. La gente, così come
gli impiegati statali, si alimenta di
RD CONGO
tenario: risale al 1920. Il suo stato
fatiscente non passa inosservato
e il pericolo che crolli sulla testa
dei fedeli è reale. Da tempo, a livello parrocchiale, è stata lanciata l’iniziativa di una raccolta
fondi per costruire una nuova
chiesa e ciascuno dà il suo piccolo
contributo. Ma data la situazione
in cui versa il paese e la povertà
economica della gente diventa
molto difficile riuscire nell’impresa.
© David Moke
Ribelli, assalitori e profughi
ciò che coltiva. Le magre entrate
provengono dalla vendita dei prodotti agricoli nei mercati locali e
sono destinate all’acquisto di
beni di prima necessità e per la
scolarizzazione dei bambini.
Da anni il villaggio è isolato a
causa dell’avanzato stato di degrado delle strade e dell’insicurezza provocata dagli scontri armati. Gli scambi commerciali
sono quindi molto difficili. Solo
nei momenti di tregua, in bicicletta o in moto, si percorrono
500 - 700 km per l’approvvigionamento di petrolio (per le lampade), sale, sapone, vestiti e altri
manufatti. Ci sono scambi commerciali regolari con le città sudsudanesi di Ezo, Yambio, e ugandesi Ariwara, Arua. Fino a spingersi a Kampala, capitale dell’Uganda. Il Sud Sudan è diventato il
luogo più vicino per questi rifornimenti.
I cristiani a Doruma
La parrocchia di Doruma appartiene alla diocesi di Dungu-Doruma ed è gestita da due sacer-
58
MC APRILE 2014
doti diocesani locali, appoggiati
dalle suore agostiniane, anche
loro congolesi, impegnate nel
campo della pastorale, della salute, dell’educazione e promozione sociale. Oltre il 90% della
popolazione è costituita da cristiani cattolici. Sono inoltre presenti anche altre confessioni cristiane, in particolare le Eglises du
réveil (chiese del risveglio) d’ispirazione evangelica.
La pratica della vita cristiana non è
così diversa da altre parrocchie
della diocesi. È diffusa, anche da
parte dei cristiani, la pratica di ricorrere a elementi di religioni tradizionali, quali feticci e stregoneria. La pastorale è organizzata e
animata, secondo le indicazioni
diocesane, dalle varie commissioni
parrocchiali e dai gruppi apostolici
che annunciano e insegnano la parola di Dio ai fedeli. Ogni giorno è
prevista la celebrazione delle
messe anche se l’affluenza infrasettimanale è molto bassa. La partecipazione è invece massiva in occasione delle grandi feste.
L’edificio della chiesa è quasi cen-
Dal mese di settembre del 2008
tutta l’area del Nord Est della Rdc
è zona di incursioni dei ribelli fanatici ugandesi della Lord Resistance
Army, (Lra, si veda MC giugno
2012, ndr). Il territorio di Doruma
ne è particolarmente toccato.
L’area è anche soggetta alle invasioni di mbororo, pastori nomadi
# Pagina precedente: un campo di
sfollati nei pressi di Doruma.
# A fianco: padre David (sinistra) ha
raggiunto Doruma in moto, dopo due
giorni di viaggio da Isiro.
# A destra: tipica strada nel Nord Est
della Rdc durante le piogge, cioè
quasi sempre.
MC ARTICOLI
smarrimento della popolazione.
Negli ultimi mesi - un ultimo attacco si è verificato lo scorso dicembre - nella regione è subentrata una calma relativa che ha
permesso ad alcune organizzazioni internazionali di intervenire
in diverse forme a favore degli
sfollati e dei rimpatriati della
zona (Unhcr, l’organizzazione
delle Nazioni Unite per i rifugiati
e alcune Ong internazionali e italiane).
Le cappelle
Prima dell’arrivo dell’Lra, la parrocchia era suddivisa in sei settori
nei quali erano presenti più di 60
cappelle. L’arrivo dei ribelli ha
spinto la popolazione a concentrarsi nei centri più grandi per difendersi, e alcune cappelle sono
state abbandonate dai cattolici.
Una volta tornata la calma, alcuni
fedeli sono rientrati nelle loro comunità di origine. Attualmente
nei sei settori della parrocchia
hanno ripreso vita 42 cappelle.
Ma per poter visitare e animare
con regolarità queste cappelle i
sacerdoti incontrano enormi diffi-
coltà, non disponendo di grandi
mezzi di trasporto per raggiungerle. L’unico mezzo della parrocchia è una motocicletta vecchia e
malandata, e far fronte ai suoi
continui guasti diventa una spesa
proibitiva.
Gli sfollati di Doruma
Fin dal dicembre del 2008, a
causa delle cruente incursioni di
elementi della Lra, un movimento
massiccio della popolazione
aveva cambiato l’ubicazione dei
villaggi in tutta la zona. Nel territorio circostante si sono creati almeno nove centri di raccolta per
gli sfollati, sei nel villaggio di Doruma (chiamati Combattant, Bitabi, Banga, Nambili, Zigbi, Manvugo, Diangele), poi a 20 km i siti
di Gangala, Masombo (60 km a
Nord ) e un sito a Naparka (60 km
a Ovest). In tutti i centri gli sfollati
convivono con le popolazioni del
posto. Dal 2009 al 2011, gli sfollati hanno ricevuto aiuti d’emergenza in termini di cibo, ripari
temporanei e cure mediche gratuite da varie organizzazioni internazionali. In questo momento
© AfMC/Rinaldo Do
provenienti da Camerun, Rca e altri paesi in continuo movimento e
ricerca di pascoli. Le tensioni tra
mbororo e comunità locali sono
frequenti perché gli allevatori occupano i campi degli agricoltori
congolesi per dare pascolo alle
mandrie. Il governo ha smesso di
ricacciarli oltre confine e permette loro di installarsi in territorio congolese. Così anche nella
periferia di Doruma vive una loro
comunità.
Ma il vero flagello sono stati i sedicenti «ribelli» dell’Lra, ogni passaggio dei quali ha lasciato dietro
di sé desolazione, morti violente,
distruzione di scuole e strutture
medico sanitarie, saccheggio di
coltivazioni, mercati, cappelle,
strutture parrocchiali. La gente è
stata costretta a spostarsi in
massa. Le donne, senza distinzione d’età, sono state violentate.
Gruppi di persone sono stati sequestrati e obbligati a trasportare
il bottino rubato. I giovani sono
stati costretti ad arruolarsi al servizio di questi gruppi armati.
È difficile porre rimedio a questa
situazione che porta al tragico
© R N/ Sigrid Modola
RD CONGO
# A sinistra: sfollati cercano un sito
sicuro con le loro povere cose.
# Sotto: la moto, oltre la bicicletta,
resta l’unico mezzo di trasporto
merci sulle strade per Doruma.
© David Moke
invece gli sfollati interni e i rimpatriati sono abbandonati a se
stessi, senza alcun soccorso. Sul
posto operano ancora alcune Ong
internazionali, che intervengono
su problematiche specifiche.
Come Medici Senza Frontiere, incaricata della lotta contro la tripanosomiasi africana e Intersos
(sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana) impegnata nella
costruzione o il ripristino di alcune scuole elementari (a Masombo, Diabakpa e Gangala).
Intersos segue e assiste pure 400
bambini vulnerabili di nove
scuole primarie, distribuendo materiali scolastici e uniformi, pagando tasse scolastiche, creando
club per bambini in ogni scuola,
provvedendo alla realizzazione di
latrine e pozzi d’acqua potabile
per tre scuole elementari. Intersos offre anche un appoggio psicosociale alle vittime di violenze
sessuali, promuovendo piccoli
progetti per attività generatrici di
reddito per il reinserimento socio
economico delle famiglie fatte
oggetto di aggressioni e saccheggi.
Anche le Nazioni Unite sono presenti con l’Unhcr, che ha l’incarico di monitorare il territorio e la
situazione in termini di sicurezza
delle popolazioni e dei loro spostamenti, individuare le emergenze umanitarie ed elaborare
programmi di sensibilizzazione e
di accompagnamento su temi
particolari quali le violenze sessuali e i diritti umani.
60
MC APRILE 2014
Acqua, igiene e salute
Sfollati e rimpatriati vivono in
condizioni molto difficili.
Nelle strutture sanitarie (dispensari e centri di salute) mancano
spazi per accogliere i pazienti. La
stessa sala ospita i neonati e gli
ammalati colpiti da diverse patologie. È il caso dei dispensari di
Manyugo, Bakudangba, Gangala,
Masombo, Naparka, Nambili e
Diebio. Tutte queste strutture
sono a disposizione degli sfollati e
dei rimpatriati, anche se tutte
mancano le sale parto e le latrine.
I villaggi di accoglienza degli sfollati non hanno pozzi e le fonti di
acqua non potabile si trovano
nella boscaglia a un paio di chilometri dai centri abitati. Quest’acqua però è la causa principale di
molte malattie.
Sfollati e rimpatriati non hanno
accesso alle cure mediche per
mancanza di mezzi finanziari capaci di coprire i costi elevati delle
medicine o dei ricoveri. Questo
obbliga la gente a ricorrere alle
cure tradizionali. Alla lunga, le
malattie si aggravano e diventano
un rischio per le comunità. Nella
zona di Doruma molti muoiono
perché non sono curati. Anche i
centri sanitari e i dispensari mancano di una scorta di farmaci efficaci e adeguati per coprire il fabbisogno della popolazione.
Aids, fame e case
L’Aids è molto diffuso nella zona
di Doruma. Ma per curarsi occorre andare all’ospedale di Ezo
in Sud Sudan (a 95 km) dove esiste un centro per la prevenzione
MC ARTICOLI
Inoltre, gli sfollati sono stati costretti a spostarsi molte volte per
sfuggire agli attacchi violenti degli
aggressori, perdendo di volta in
volta i raccolti, i propri beni e persino il necessario per cucinare.
© R N/ Guy Oliver
L’Italia e Mission
# Sopra: un’anziana nel campo di
© AfMC/ Gigi anataloni
sfollati di Ngubu, Haut-Uélé.
# A sinistra: la quasi centenaria
chiesa parrocchiale di Doruma
edificata nel 1920. Fu gestita dai
missionari della Consolata
(1973-2001),
e il trattamento della malattia o
in alternativa a Dungu in Rdc (a
210 km). Recarsi a Ezo significa
sobbarcarsi anche le spese relative al visto di entrata e di uscita.
Alcuni ammalati di Aids hanno
potuto trovare ospitalità presso
villaggi e famiglie sudsudanesi e
usufruire di cure mediche gratuite.
L’assistenza psicosociale realizzata
nel villaggio di Doruma da organismi internazionali dovrebbe includere un’attenzione specifica agli
ammalati di Aids con del perso-
nale specializzato, perché in diversi casi si riscontra una forte
aggressività.
Diversi edifici scolastici usati per i
bambini degli sfollati e dei rimpatriati sono fatiscenti e pericolanti:
è il caso delle scuole primarie di
Ndolomo e Gurba. Anche il liceo
di Ndolomo è cadente. A Gangala
e a Naparka le aule scolastiche
sono insufficienti per accogliere
tutti i bambini delle elementari.
Inoltre le forniture scolastiche di
base e i materiali didattici sono
inesistenti. Un altro grosso problema per i profughi è mangiare.
Nei villaggi della zona manca il
cibo necessario e soprattutto i
bambini patiscono la fame. La
maggioranza degli adulti coltiva
dei piccoli orti nella boscaglia,
lontano dai centri abitati per il timore di nuovi attacchi.
Gran parte degli sfollati trascorre
la notte in cattive condizioni, riparandosi dagli agenti atmosferici
con materiali di scarto.
Il problema è quello di aggiungere in sicurezza le zone più lontane della boscaglia e reperire
tronchi e rami necessari per realizzare capanne solide e capaci di
proteggere tutta la famiglia.
Nel luglio 2013 la Rai ha realizzato a Doruma alcune riprese per
il controverso reality show Mission, che poi è andato in onda nel
gennaio di quest’anno. Ma la
gente del villaggio e le autorità
non sono state interpellate, in
particolare oggi si lamentano di
non aver visto le immagini prima
che fossero utilizzate nel programma e mandate in onda (e
neppure dopo peraltro).
Dopo quattro anni di assenza ho
trovato la situazione socio-economica ancora difficile, nonostante
un generale miglioramento della
sicurezza. Grazie allo stato di pace,
anche se precaria, la popolazione
può lavorare nei campi e riesce a
sopravvivere. Un grosso problema
sono le strade di accesso, completamente dissestate per cui la zona
rimane isolata. Sulle infrastrutture
il governo dovrebbe prendersi le
sue responsabilità.
Per la gente di Doruma, nonostante i drammatici e disumani
avvenimenti del recente passato,
il fatto di essere ancora vivi, di
poter coltivare la terra o di partire alla caccia, e soprattutto di
rientrare e ritrovarsi in famiglia
dopo i lunghi spostamenti del
giorno, sono gioie che aiutano a
superare la paura di nuovi attacchi e i traumi lasciati dalle vessazioni subite. Nei discorsi degli abitanti di Doruma c’è la speranza
che finiranno le incursioni e che si
potrà lavorare tranquilli, assicurare un’educazione ai figli e la salute per tutti, mangiare in santa
pace il frutto del proprio sudore.
David Moke*
*Padre David BambilikpingaMoke è missionario della Consolata originario di Doruma, svolge
il suo servizio a Roraima in Brasile
ed è tornato per le vacanze al suo
villaggio tra dicembre 2013 e
gennaio 2014.
APRILE 2014 MC
61
ECUADor
Testo e foto
di GIUSEPPE RAMPONI
priME iMprEssioni Dopo Anni Di AssEnzA
TRA BELLEZZA E
Dopo sette anni di assenza, a gennaio sono
tornato brevemente in
Ecuador. Mi è sembrato di essere arrivato in un paese che
non conoscevo, ben
lontano dai ricordi che
portavo dentro di me.
Con la gente invece è
stato diverso. Mi sono
incontrato con persone che gioiosamente
mi hanno scoperto
ancora presente nella
memoria e nel cuore.
Alla contentezza di
ritrovarci si aggiungeva la pressione del
richiamo che mi
animava «a tornare a
casa», a stare con la
gente che mi voleva
bene.
PROBLEMI
indigeni:
una grande storia,
ma forestieri in casa propria
Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo prestato
il mio servizio missionario fino al
2005 (da là ero poi andato per due
anni a Guayaquil, sulla costa,
prima di rientrare in Italia). È stato
un colpo duro per me vedere che
si sono svuotate e che gli anziani
sembrano soltanto guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni
comunità aveva la sua scuola, che
avevamo voluto come luogo di in-
contro tra maestri, alunni, genitori
e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per trovare insieme modi nuovi per mantenere
la propria cultura e affrontare,
senza evasioni e fughe e senza
perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una grande pena
vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole
con più di 30 alunni. Licto contava
28 comunità e Flores 26, con un
uguale numero dei centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia
stata attuata una cancellazione sistematica riducendo le comunità a
luoghi disabitati, come dopo una
guerra.
Cosa è diventato l’Ecuador?
Rivoluzione
La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È
scritta sui tanti cartelli che
abbondano lungo le strade.
Questi gli slogan più comuni:
• Siamo la generazione rivoluzionaria.
• È la rivoluzione della speranza.
• Rivoluzione è libertà.
• Rivoluzione è patria.
• Rivoluzione è educazione
gratuita.
• Rivoluzione è salute gratuita.
Queste frasi tapezzano ogni cosa.
Si vedono edifici rimessi a nuovo
con un cartellone in evidenza che
recita: «La rivoluzione cittadina ha
finanziato questa opera».
Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per dare un
aspetto nuovo alla chiesa di Licto
mettono in risalto l’aiuto della rivoluzione cittadina.
Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe e
asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di
prima qualità. Abbiamo ponti che
ci uniscono».
La parola «rivoluzione» è definita
come la «promozione della vera libertà». «La rivoluzione promuove
case degne e educazione gratuita.
Le vie della rivoluzione portano a
opere integrali, complete».
Slogan e cartelloni
I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella e incoraggiano anche a essere vigilanti per il
bene comune. «Se i bambini sono
ben nutriti, anche i loro sogni lo
sono». «Se dai soldi per la strada,
aiuti soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è
vera libertà».
Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani, paga le
tasse».
Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi per sradicare atteggiamenti socialmente
pericolosi sulla strada:
• A chi non rispetta il ciclista togli
la macchina.
• Ferma chi non usa il casco di sicurezza.
• Se vedi che l’autista ha bevuto,
requisisci la macchina.
• Se vedi uno che guida e usa il
cellulare, fermalo.
• Se vedi che carica gente per la
strada, non lasciarlo proseguire.
Si insiste molto sulla parola patria:
«Patria è il meglio che c’è nel mio
paese. Siamo la generazione che
ricuperò la patria». Poi, immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria,
andiamo avanti».
I governanti dicono di volere
l’Ecuador come una patria con
piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili
per far credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del
popolo, ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e
centralizzazione. Solo così, tutti
insieme, si può costruire un
paese bello, moderno e davvero presentabile alla ribalta
nazionale e internazionale, che
abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli
scambi commerciali a livello
mondiale. Allora la loro retorica
arriva ad affermare che è indispensabile una classe dirigente
stabile e capace, in grado di attuare e mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta
anche a modificare la costituzione
per permettere al suo presidente
di essere rieletto per la terza volta
e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina, paesi
che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano.
A dispetto di questi limiti politici,
in realtà l’Ecuador è un paese meraviglioso.
Conseguenze drammatiche
Mons. Leonidas Proaño, un
grande vescovo dell’Ecuador, diceva di aver creduto nell’uomo e
nella comunità. La persona indigena è essenzialmente ubicata
nella comunità, che vive unita e
compatta in un territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono essere modificati da invasioni.
Il progetto di efficienza e centralizAPRILE 2014 MC
63
ECUADOR
zazione propugnato dal governo
ha inciso drammaticamente nel
vissuto degli indigeni. Anzitutto è
stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per creare nuove scuole
centralizzate, complete dall’asilo
all’università. È la «scuola del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare a scuola. Così
le città di Riobamba e Quito si
sono riempite di indigeni che cercano di sopravvivere aprendo una
miriade di piccoli negozi.
nato, diventata capace di vivere
bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da speranza:
crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere la propria vita nonostante le
macerie e oltre le macerie.
Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di tanti
anni e di tante opere; intorpidito
Incontro indimenticabile
Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo nove
anni di assenza mi riconoscevano
ancora. La commozione era visibile e piena di tenerezza. Come
quando tornai a casa e non trovi
niente delle cose che avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti
vogliono bene. E ti ricordano che
la missione non è la costruzione,
ma la gente con cui hai cammi# Pagine precedenti: alcuni dei cartelli che si trovano ovunque
nel paese, soprattutto lungo le strade principali.
Sopra: padre Ramponi in visita a una delle scuole comunitarie
ancora funzionanti.
A destra: donne indigene nella città di Quito.
Sotto: la chiesa di Licto rinnovata con i soldi della «rivoluzione
cittadina». Licto si trova a 3.000 metri di altezza sulle Ande,
nella diocesi di Riobamba dove fu vescovo mons. Proaño.
64
MC APRILE 2014
da una abitudine missionaria che
aveva dato senso e significato a un
certo percorso, perché la credibilità tradizionale del missionario
doveva avere la sua visibilità
nelle opere.
Un cartello mi ha commosso: «Mi
sono svegliato e ho voglia di sognare l’incredibile».
Giuseppe Ramponi
MALAWI
di MICHELE VOLLARO
IL PAESE TRA CORRUZIONE E DEFICIT
MISSIONE DIFFICILE
PRESIDENTE
D
a subito è indicata come
la figura più adatta a riformare la disastrata economia nazionale e far fronte
alla corruzione endemica nel suo
paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi
Joyce Banda, la seconda donna a
raggiungere la massima carica di
uno stato in Africa dopo Ellen
Johnson Sirleaf in Liberia.
Il Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania,
Mozambico e Zambia, in cui più
della metà della popolazione vive
al di sotto della soglia di povertà
e che, in base alle statistiche delle
Nazioni Unite, risulta il settimo
più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è
affetto dall’Aids ma gli ospedali
sono costretti a chiudere perché
non hanno i soldi per acquistare
le medicine più banali come gli
antibiotici.
Dopo il decesso improvviso del
suo predecessore Bingu wa
Mutharika, Joyce Banda diventa
© R N/ Guy Oliver
Joyce Banda è la
seconda presidente
donna dell’Africa.
Già militante nella
società civile, è
chiamata a guidare
il suo paese fuori dal
guado di corruzione
e crisi economica.
Scoppia però
l’ennesimo scandalo
e tutto l’esecutivo
viene licenziato.
Intanto si avvicinano
le elezioni generali
di maggio.
APRILE 2014 MC
65
MALAWI
presidente ad interim con il benestare della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema in cui la
corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici esterni.
Da attivista a presidente
Il cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese
dell’Africa australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel 2009 da
Mutharika a ricoprire la carica di
sua vicepresidente, dopo tre anni
al dicastero degli Affari esteri di
Lilongwe, più che altro nel ruolo
di una figura di rappresentanza
da mostrare sulla scena politica
internazionale.
La morte di Mutharika, dopo otto
anni di governo, e la capacità di
Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato istituzionale, hanno contribuito a fare
di lei quel volto di cui necessitava
il paese per continuare ad avere il
sostegno internazionale.
In politica dal 1999, Joyce Banda è
stata ministro per la Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi,
guidato fino al 2004 dall’allora
presidente Bakili Muluzi, dopo una
carriera passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per l’emancipazione della
donna. La sua storia e le sue prime
dichiarazioni da presidente, come
quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del Millennio
in favore di una maggiore legittimazione del ruolo delle donne e
dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso del presidente statunitense Barack Obama
e dell’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton.
Tra le sue prime azioni una volta
salita al potere dopo la morte del
suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo
presidenziale e il dimezzamento
del suo stipendio come esempi
lampanti del suo impegno a ridurre le spese della classe politica.
Contenzioso con la Tanzania per le prospezioni petrolifere
Il lago che dà vita, e non solo
er decenni ha interessato direttamente solo i pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago
Niassa o Malawi si contendevano le risorse ittiche.
Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi
fondali, la questione ha assunto un’altra ampiezza. Il
lago è infatti al centro di una disputa sempre più accesa
tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al vicino
Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca. Subito dopo la concessione della licenza
esplorativa alla britannica Surestream Petroleum e le
proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie
di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e individuare una soluzione che fosse accettabile
per entrambe le parti. Ma i colloqui si sono risolti in un
nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si sono dovuti rivolgere al Forum degli ex capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo
dell’Africa australe (Sadc). Anche
questo tentativo di mediazione
sembra però essere arrivato a uno
stallo e non è ancora chiaro se la
questione sarà affrontata direttamente al prossimo vertice della
Sadc dagli attuali capi di governo
oppure riferita alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni
Unite.
evidente però che il Malawi
non è in alcun modo intenzionato a lasciarsi scappare la
possibilità di trarre beneficio eco-
È
66
MC APRILE 2014
© R N/ Guy Oliver
P
nomico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò
lo scorso gennaio ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream per portare
avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi
giorni la società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e geologici nelle acque del
lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di
un accordo del 1890 tra le allora potenze coloniali di
Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale utilizza la linea media delle acque interne per
stabilire i confini tra due paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla sconfitta della
Germania durante la seconda guerra mondiale e la perdite delle sue colonie in Africa.
Michele Vollaro
© R N/ Guy Oliver
MC ARTICOLI
# In queste pagine: alcune scene del
lago Malawi a Ngara, nel Nord.
Il tramonto, le reti da pesca e
la disposizione dei pesci
per il seccaggio.
# Sotto: un minatore artigianale. Il
paese è pieno di piccole miniere.
Nonostante ciò, alcuni scandali
recenti legati ancora una volta
alla corruzione cominciano a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti
funzionari governativi. Alcuni di
questi sono ora sotto processo
proprio a ridosso delle elezioni
generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le quinte organizzate in Malawi dopo la svolta
democratica del 1999.
Tutto è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un
controllo della polizia stradale di
un impiegato ministeriale, il cui
stipendio si aggira intorno ai 100
dollari al mese. Nel bagagliaio
della sua auto sono state rinvenute valigie piene di banconote
per un totale di 25.000 dollari.
Pochi giorni dopo, il direttore del
bilancio presso il ministero delle
Finanze ha subito un’aggressione
e rimanendo gravemente ferito
da diversi colpi di pistola: i giornali locali hanno sostenuto che
era sul punto di recarsi dalla polizia per denunciare una serie di
frodi e pratiche di corruzione che
avrebbero sottratto almeno 80
milioni di dollari alle casse dello
stato, coinvolgendo direttamente
una settantina tra funzionari, uomini politici e imprenditori.
La presidente Banda ha agito con
prontezza sospendendo immediatamente tutta la squadra di
governo, chiedendo a ciascuno
© R N/ Guy Oliver
Corruzione in agguato
che dimostrasse la propria estraneità ai fatti e licenziando in
tronco il ministro della Giustizia e
quello delle Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più
invischiati nelle pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio
del dirigente ministeriale.
Uno scandalo di tale portata non
poteva non riflettersi su colei che
solo due anni prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate», questo è il
nome che i giornali locali hanno
dato allo scandalo di corruzione e
al processo in corso, è infatti solo
la punta di un iceberg. Secondo
gli investigatori del governo, negli
otto anni di presidenza di Bingu
wa Mutharika la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici,
imprenditori e funzionari corrotti
sarebbe di gran lunga superiore ai
500 milioni di dollari. La quasi totalità dei quali proveniente dai
fondi concessi da donatori internazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran
Bretagna, che garantiscono ogni
anno più del 40% delle necessità
del bilancio statale del Malawi e
che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere
i pagamenti.
Banda sotto accusa
Come fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro,
Joyce Banda che solo all’inizio del
2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la donna
più potente dell’Africa si è troAPRILE 2014 MC
67
© R N/ Guy Oliver
MALAWI
# Qui a fianco: lavoratrici a Ngara,
nel Nord Malawi.
# A destra: pescatore sul lago
Malawi.
# Sotto: la presidente Joyce Banda
interviene in una conferenza
contro la fame.
vata, alla fine dello stesso anno,
costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi
concittadini del fallimento della
sua azione di governo. Le accuse
più aspre provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In un’audizione fatta di
fronte al parlamento di Lilongwe,
il presidente della Commissione
Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito
la presidente: «II più grande ladro
del mondo», sostenendo che lei
fosse «parte integrante e fondamentale» del Cashgate e che la
genesi dello scandalo fosse da
rintracciare nel tentativo della
Banda e dei suoi sostenitori di
raccogliere fondi in vista delle
prossime elezioni.
Il rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è
probabilmente uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da Allan
Ntata, un avvocato di Lilongwe
che ora vive in Gran Bretagna, ex
consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine l’avvocato
elenca laconicamente decine di
episodi di corruzione, molti dei
quali avvenuti durante il periodo
della sua consulenza, e ricostruisce lo schema tipico delle frodi.
In sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale dell’amministrazione pubblica per trasferire i
fondi a società di comodo per
servizi mai resi, preoccupandosi
68
MC APRILE 2014
poi di cancellare tutti i dati relativi alle società stesse di modo
che fosse impossibile risalire a
esse. Un procedimento tutto
sommato semplice, che induce
Ntata alla seguente considerazione: «La corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si occupava
deliberatamente di come coprire
lo schema utilizzato per sottrarre
il denaro».
Taglio dei fondi
Numerosi sono però i commenti
che vedono la sospensione del
sostegno finanziario internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo
come il problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia nazionale e
combattere la corruzione che
Joyce Banda aveva assunto non
sia un’azione che si possa portare
a termine dall’oggi al domani.
Lo scrittore somalo Hassan
Abukar sul portale d’informazione African Arguments, curato
dalla prestigiosa Royal African Society, e l’economista sudafricano
Greg Mills sul quotidiano di
Johannesburg Business Day sono,
per esempio, solo due tra le tante
autorevoli voci che in Africa
hanno cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di
una visione più ampia della storia
del suo paese per comprenderne
meglio il ruolo a pochi mesi dal
voto con il quale i cittadini del
Malawi dovranno eleggere il loro
futuro presidente, rinnovare i 194
parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la prima volta dopo 14
anni, anche i rappresentanti
presso i consigli amministrativi locali.
Mezzo secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il
reddito pro capite in Malawi è
oggi pari a poco più di 230 euro
all’anno - superiore solo a quello
di Burundi e Repubblica democratica del Congo - con un’economia
prevalentemente basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il
90% dell’intera forza lavoro. Su
una popolazione che supera di
poco i 16 milioni di abitanti, sono
ancora più di otto persone su
dieci coloro che vivono nelle zone
rurali del paese. Tuttavia proprio
l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce
solo per circa un terzo alla formazione della ricchezza nazionale,
ed è subordinata al prezzo sui
mercati internazionali del tabacco, il quale rappresenta più
della metà delle esportazioni del
paese.
Economia in difficoltà
Il Malawi è un importatore netto,
dai prodotti alimentari a quelli
petroliferi. Infatti nel 2012 la sua
bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di poco
inferiore al miliardo di dollari. La
fine nel 1994 del regime di Hastings Banda (nessuna parentela
con l’attuale presidente), che
© AFP/ Andrew Cowie
aveva governato il paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna,
e il passaggio a un regime democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli abitanti del Malawi
si aspettavano.
«La transizione alla democrazia fu
gestita male - ha scritto Greg
Mills - il minore controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento
delle libertà civili non vide un corrispondente miglioramento della
capacità politica delle istituzioni,
mentre sul versante economico le
poche industrie esistenti dovettero soccombere in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le
aspettative dei cittadini, allo
stesso tempo cresceva anche il
numero complessivo dell’intera
popolazione e i partiti politici si
trovavano nella necessità sempre
più incombente di trovare fondi
per mantenere la loro base di sostenitori».
È in un sistema come questo che
si manifesta la corruzione: un’economia politica fatta di intermediari che pretendono la loro parte
sulle importazioni, sui
contratti governativi, sulle aste
del tabacco.
La presidente
Banda si è
ripromessa di
portare
avanti un
© R N/ Guy Oliver
MC ARTICOLI
programma ambizioso di riforme:
in primo luogo delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei si era
sognato di realizzare, diminuendo
la dipendenza finanziaria dall’estero e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette, importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per riuscirvi
dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda
sembrava essere cosciente della
sfida quando, in un incontro lo
scorso dicembre, poco prima
della fine dell’anno, con un
gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava: «Non è soltanto una
questione di corruzione - riferendosi in particolare alla questione
della chiusura degli ospedali - ma
è qualcosa che riguarda più da vicino noi in quanto cittadini del
Malawi e le priorità che vogliamo
darci».
Nei primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente dall’estero in
termini economici.
Michele Vollaro
APRILE 2014 MC
69
Cooperando...
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MCO
Fondazione
Missioni
Consolata
Onlus
di Chiara Giovetti
REPORTAGE PERIFERIE / 1
TORINO, GLI STRUMENTI
PER NON AVERE PAURA
Erano gli anni Sessanta
quando cartelli affissi
sulle porte degli edifici del
capoluogo piemontese
avvertivano: «Non si affitta
a meridionali». Nel 2014
sono ancora tanti i torinesi
che ricordano quegli anni e
citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha
già affrontato massicci flussi
migratori e ha saputo reagire, accogliere e integrare.
Oggi basta salire su un tram
come il 16 o spingersi nel
quartiere Barriera di Milano
per toccare con mano una
città che resta fedele alla
sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà
e nelle contraddizioni,
continua a cambiare volto.
N
ell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi
accordi il cui tema di fondo era la relazione con le comunità
di migranti. Solo per citare alcuni esempi, sono dello scorso
febbraio l’adesione della Provincia di Torino al protocollo d’intesa
sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli esseri umani, e la
formalizzazione della collaborazione fra la polizia municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono scolastico,
per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e per
l’assistenza alle vittime di violenza domestica.
I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le
polemiche e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in
una città dove sono già presenti le seconde generazioni, dove la crisi
# In queste pagine: doposcuola Asai in Via Gené a Torino
MC RUBRICHE
economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia
per rientrare nei paesi d’origine o
per spostarsi in altre nazioni europee, dove le scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più
a descrivere la realtà.
Il lavoro dell’Upm
L’ufficio per la pastorale migranti
(Upm) della diocesi di Torino è un
punto di riferimento fondamentale
per le comunità straniere. Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello
per il lavoro, le consulenze legali,
l’insegnamento dell’italiano e molti
altri. Sergio Durando, direttore dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono
200 mila nella provincia di cui 150
mila nel territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi articolo pag. 28) di
Caritas e Migrantes, nella regione la
comunità più nutrita è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina, albanese, cinese e peruviana. Un
punto di partenza per provare a
mettere ordine nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può essere
il tema del lavoro: il Piemonte è la
regione con il più alto tasso di disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013);
l’agricoltura dà ancora lavoro ma ovviamente non nel contesto urbano
del capoluogo piemontese, dove i
settori colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i
lavoratori di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei
quali le comunità di migranti maggiormente rappresentate sono
quella marocchina e quella albanese. «Il problema occupazionale»,
continua Durando, «si traduce facilmente in un problema abitativo sia
per i cittadini di origine italiana che
per gli stranieri, e per i migranti la
marginalità economica diventa anche giuridica, con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati maggiori dei
permessi di ingresso».
Categorie speciali:
rifugiati e titolari di
protezione internazionale
All’interno della comunità dei migranti ci sono poi delle categorie
speciali: i rifugiati e i titolari di protezione internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno guidato da Angelino Alfano,
nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila il numero dei richiedenti asilo che potevano essere
accolti. Ma i tempi di accoglienza,
l’arretrato, l’accumulo di richieste e
la difficoltà di reale inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi e titolari di protezione internazionale,
sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e la situazione più esplosiva
è forse quella del ex Moi, il villaggio
olimpico costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC 8-9/2013,
pp. 59-63). Si tratta di uomini,
donne e bambini giunti in Italia a
causa della cosiddetta emergenza
Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire
da quella libica.
L’accoglienza dei rifugiati su tutto il
territorio nazionale è costata mediamente ventitremila euro a persona
per circa ventimila persone, ma gli
interventi sono stati disorganizzati e
approssimativi: i fondi - a partire dal
rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato - hanno raggiunto solo in minima parte i beneficiari, che si sono
spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di
un piano di rientro alla fine dell’emergenza.
«Uno dei problemi è che le politiche
nazionali in materia di migranti sono
più preoccupate della sicurezza che
foto del reportage © AfMC/Chiara Giovetti 2014
APRILE 2014 MC
71
Cooperando…
dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo genera enormi storture che oltretutto aumentano la
tensione e l’insicurezza». Per non
parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie) costa
circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio arriva a seimila euro. Le periferie e il
degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la
cui amministrazione e la cui urbanistica non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel tessuto urbano, ma lo
hanno concentrato e, in questo
modo, amplificato. «Se in un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni economiche dignitose e trenta disagiate, le
prime possono più facilmente cercare di andare incontro ai bisogni
delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono
invertite, come si può pensare che
un trenta per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per
cento? È ovviamente impossibile».
I Rom
La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel
caso dei Rom. Dagli anni Settanta a
oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è cambiata, ma le aree in cui risiedono
sono rimaste le stesse: baraccopoli
ai margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio
hanno visto, a partire dai primi mesi
del 2014, un processo di graduale
sgombero nell’ambito di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi
parte la sottoscrizione da parte dei
Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e l’inserimento in
complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per le categorie che,
prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.
L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver provocato le ire degli
esponenti della Lega («ai Rom le
case popolari, ai torinesi la miniimu», ha commentato un esponente
torinese), suscita qualche apprensione anche fra gli addetti ai lavori.
72
MC APRILE 2014
Finora lo sgombero di un campo, avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato
un processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione
di più campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che i Rom vivono nei
campi per una questione culturale
quando in realtà sono i primi a non
volerli; oppure il pregiudizio per cui
l’avversione al lavoro è un tratto caratteristico dei Rom quando invece
ci sono, ad esempio, casi di ragazze
assunte come badanti o colf, le
quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo.
In questi casi, l’inserimento lavorativo è avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.
Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto scolastico in
base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a scuola:
molti Rom sembrano pensare che
dopo quarant’anni di presenza in
Italia, e nonostante la scolarizza-
zione dei bambini, per loro nulla è
cambiato, perché continuare a impegnarsi?
Imparare
per non avere paura
Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione appare non
meno articolata. In una scuola come
la Gabelli di Barriera di Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori
di origine straniera sono il settanta
per cento e salgono al novanta per
cento nelle prime classi. Siamo in un
borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo
attirano famiglie a basso reddito,
come spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la
Gabelli o la vicina Pestalozzi richiede
competenze specifiche e una professionalità avanzata che permettano
di gestire situazioni complesse come
i casi delle iscrizioni ad anno iniziato,
di livelli diversi di conoscenza della
lingua italiana e di situazioni fami-
MC RUBRICHE
liari molto difficili. A volte i bambini
mostrano chiaramente di non voler
rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un ambiente familiare teso, o spiegano di
non aver fatto i compiti perché non
sono riusciti a leggere e scrivere a
lume di candela, oppure ancora perché nel lungo e freddo inverno torinese il problema principale della
sera è quello di trovare un modo di
scaldarsi sotto le coperte in assenza
di riscaldamento. I doveri scolastici
passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.
# In basso a sinistra: il murales che Roa, un writer belga, ha
dipinto sulla sede dei servizi sociali in Lungodora a Torino. |
Qui a sinistra: sbirciando in una casa per rifugiati in Corso
Francia, dove vige un regolamento molto essenziale (pagina
74). | Pagina 74: barbiere improvvisato in una casa per rifugiati sudanesi.
I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
E I MIGRANTI
Dal 2013 il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione
di Mco, fa ora parte del team di
coordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange, coadiuvato dai viceparroci padre
Nicholas Muthoka e padre
Francesco Discepoli, è parroco
di Maria Speranza Nostra, una
vasta parrocchia nel cuore di
Barriera di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il
loro servizio il 20 ottobre del
2013, giornata missionaria
mondiale, e hanno cominciato
ad ascoltare, osservare, visitare
le famiglie e programmare. «È
un quartiere molto vario»,
spiega padre Nicholas, «che ha
accolto immigrati del Sud Italia
e del Veneto in passato e che
ora ha visto l’arrivo di rumeni,
albanesi, nigeriani, polacchi,
eritrei, marocchini, tunisini e
diversi latinoamericani». «Per il
momento» aggiunge padre
Godfrey «stiamo attivando, o
prevediamo di attivare, servizi
come lo sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro
d’ascolto, oltre all’oratorio che
adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».
Altra realtà è quella di San
Gioacchino a Porta Palazzo, una
parrocchia con sacerdoti nigeriani, in cui padre José Jesus
Ossa Tamayo, missionario della
Consolata colombiano, segue la
comunità dei latinos, i migranti
provenienti dall’America Latina. «I latinos sono ventimila
in Piemonte, seimila nella sola
Torino», spiega padre Jesus, «e
per guadagnarsi da vivere lavorano spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una
grande fame di Dio e, al di là
della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per tante cose: farsi ac-
compagnare a un colloquio di
lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le
situazioni familiari e le condizioni abitative sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli
perché non restasse sola in patria, ma ha problemi di mobilità
che le impediscono di fare le
scale e la costringono in casa
dove «piange, piange e piange,
tutto il giorno. Con persone
come lei», conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è
la presenza: andare e “piangere” con lei. Ultimamente i
parrocchiani si sono offerti di
far costruire un bell’altare: per
loro è molto importante, è un
segno di appartenenza. Lo faremo, certo, ma ho detto loro
che il primo altare a cui devono
pensare è la vecchietta che
piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».
Chiara Giovetti
APRILE 2014 MC
73
Cooperando…
Ma i lati positivi dell’interculturalità
in scuole come queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri
hanno spesso sviluppato un grado di
autonomia e maturità maggiore e si
rivelano più rispettosi delle regole e
più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree
degradate perché spesso appartengono a famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente di portare i figli in
queste scuole, inoltre, lo fanno per
una precisa volontà di preparare i
loro bambini a vivere nella Torino
che verrà e sono generalmente entusiasti dell’esperienza che i ragazzi,
e loro stessi - spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto stanno vivendo.
Per quanto riguarda il doposcuola,
molto attiva è l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli anni Novanta dei
primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San Salvario. Nella
sede di via Gené, a Porta Palazzo, il
«Cantiere S.O.S.» (Scuola oltre la
Scuola) offre, grazie ai suoi operatori
e ai volontari, un servizio di dopo-
74
MC APRILE 2014
scuola ad almeno un centinaio di
bambini delle elementari e medie,
corsi di italiano per minori e adulti e
laboratori artistici. Un progetto in
corso, spiegano Fabrizio e Roberto,
due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul tema, dossier
MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai, Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei
casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione
consente l’inserimento dei ragazzi in
un percorso di volontariato obbligatorio, mentre il Tribunale dei minori
si occupa della mediazione con la
vittima». «Quello che si cerca di fare
qui, attraverso il progetto di giustizia
riparativa come in tutte le altre attività con i ragazzi» gli fa eco Roberto,
«è di dare loro più strumenti per
avere meno paura di ciò che vivono
giorno per giorno. Abbiamo visto
miglioramenti oggettivi in diversi
casi di adolescenti problematici: se
si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della
rabbia».
Il lavoro con gli adolescenti si
estende poi a quello con la comunità. Riccardo, anche lui educatore
Asai, racconta delle esperienze di
coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i commercianti, chiunque voglia
spendersi per il quartiere, conoscere
altre persone e vivere una realtà più
integrata. Riccardo coordina un collettivo interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche un quartiere non facile
come questo», spiega Riccardo, «è
capace di generare senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi
capacità come musicisti, videomaker, attori... Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».
Quanto agli immigrati adulti, è a loro
che si rivolge l’offerta formativa (che
comprende anche corsi di italiano)
del «Centro territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di Porta Palazzo
(Ctp Parini). «Stiamo sperimentando
una vera e propria emergenza alfabetizzazione che, combinata con
leggi complesse e con l’aumento
della burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero tanti, che non
sanno leggere e scrivere, non sono
in grado di compilare moduli o di acquisire informazioni», avverte
Rocco, uno degli operatori del centro. Il Ctp Parini ha circa duemila
utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare
al livello di alfabetizzazione A1 del
quadro europeo (livello base). Molti,
dopo aver raggiunto quel livello si
rendono conto di quanto importante sia lo strumento che prima
non possedevano e decidono di continuare a frequentare.
Chiara Giovetti
Libertà Religiosa
di Paolo Bertezzolo
RIfLESSIoNI E faTTI SULLa LIbERTà RELIgIoSa NEL MoNdo - 18
«PIÙ STATO!», «MENO STATO!»
Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del
giorno dopo negli Usa.
Due casi recenti che
mettono al centro il
tema della laicità
delle istituzioni.
Da un lato c’è chi,
per difendere la fede,
chiede una maggiore
presenza dello stato.
Dall’altro c’è chi,
sempre per garantire
la libertà di credo, ne
chiede una presenza
minore.
Come sciogliere un
nodo così centrale
nella vita delle
democrazie
costituzionali?
F
FEDI E LAICITÀ
ino a che punto può spingersi la libertà di critica e
di satira nei confronti della
religione? Nella società secolarizzata esiste infatti anche
questo problema che, tra gli altri, riguarda la laicità dello stato.
Lo stato laico non può avere una
propria confessione religiosa, né
creare condizioni favorevoli per
una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non credenti.
Per assicurare il rispetto di questi principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in Europa, la Cedu,
di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i
quali quello cui abbiamo accennato all’inizio: la libertà, in questo caso di coscienza e di espres-
sione, trova un limite nella libertà degli altri? Se uno non è
credente, fino a che punto può
criticare la religione senza offendere la coscienza dei credenti? È
una questione emersa in questi
ultimi anni proprio nel campo
dell’umorismo e della satira.
I due grandi amici
«Jesus and Mo»
Tutti ricordiamo il caso delle caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul
quotidiano danese Jyllands-Posten, considerate blasfeme dai
musulmani, che avevano prodotto reazioni molto violente,
morti e feriti.
Un episodio analogo ma, per
fortuna, del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in In-
sinistra gli studenti
Abhishek Phadnis
e Chris Moos con un
amico. Sulle magliette
«incriminate» alcuni
pezzi di scotch
recano le scritte:
«Censurato», «Questo
è stato censurato,
niente da vedere
qui».
© patheos com
# Qui a destra, da
Libertà Religiosa
Censurare la censura
Il giornalista del quotidiano londinese The Guardian, che ha
raccontato l’episodio, ha criticato pesantemente il comportamento degli studenti contrari
alle magliette, considerandolo
«un altro esempio di repressione nelle nostre università».
Egli infatti lamenta che quanto
accaduto nella London School
non sia un fatto isolato e che,
quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra. Le università, sostiene,
sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere ammessa.
Egli non difende i due studenti
per principio, ma perché la vignetta riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva. Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista, infatti, non è la «provocazione»
dei due amici a essere stata
sproporzionata, ma la reazione
inaccettabile degli altri giovani.
76
MC APRILE 2014
Usa: assicurazione sanitaria
e pillola del giorno dopo
Dall’altra parte dell’oceano, negli Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di satira,
ma in modo direttamente più
esplicito la libertà religiosa e la
laicità dello stato. In questo caso
la domanda potrebbe essere:
fino a che punto le comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?
Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le
Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità
della libertà religiosa americana. Vi si racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato nell’Indiana, ha affermato che «la
vita è un dono di Dio anche
quando inizia in una terribile
condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak
Obama. Quest’ultima infatti
prevede l’obbligo per i datori di
lavoro di offrire ai propri dipendenti assicurazioni mediche che
coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di
Mourdock erano indirizzate alla
cosiddetta «pillola del giorno
dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria offerta obbligatoriamente ai
propri dipendenti anche dalle
università e istituzioni religiose
contrarie all’uso della pillola
stessa.
Può essere certamente, come
sostiene l’autrice dell’articolo,
che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che trasferisce
© liberalmedianot blogspot com
ghilterra. La mattina del 3 ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della
London Scool of Economics, famosa università privata di Londra, si sono presentati in aula
con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and
Mo», un fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I
due giovani, che si dichiaravano
atei, l’hanno indossata per
scherzo. Il fumetto rappresenta
Gesù e Maometto come due
grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro in
modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno
dei due. C’è addirittura un sito
internet molto seguito che riporta tutte le vignette via via
prodotte dagli autori (jesusandmo.net).
Lo scherzo dei due non è stato
preso bene da altri studenti,
rappresentanti di associazioni e
forze politiche studentesche,
che lo hanno considerato «non
politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta
fosse offensiva per cristiani e
musulmani. Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi
costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.
sul piano della libertà religiosa
un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti
scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra repubblicani e
democratici, facendo muovere
numerose associazioni, consistenti forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta
il fatto che negli Stati Uniti,
dall’11 settembre 2001 in poi,
nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti
di una perdita dell’«identità cristiana» americana, minacciata,
da una parte, dagli islamici e,
dall’altra, dalla secolarizzazione.
Questi pericoli, da quando siede
alla Casa Bianca, vengono ricondotti al presidente Obama e alle
sue politiche.
Fuori dalla vita pubblica
Nel numero di marzo 2012 del
mensile conservatore First
Things era stata pubblicata una
dichiarazione congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i difensori dei diritti dell’uomo, ivi
compresi i governanti, hanno
cominciato a definire la libertà
religiosa in un modo sempre più
riduttivo, riconducendola a una
semplice libertà di culto». La re-
© thestar com
ligione biblica, invece, secondo
la dichiarazione, ha un carattere
essenzialmente pubblico e non
può essere ridotta a un fatto privato. «Non è affatto esagerato»
prosegue il documento «vedere
in questi sviluppi un movimento
che cerca di spingere la fede religiosa, e soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane
ortodosse, fuori dalla vita pubblica». Dentro questo quadro
espresso sul periodico conservatore, il fatto che lo stato renda
obbligatoria, anche da parte
delle istituzioni religiose, l’offerta gratuita di contraccezione,
diventa un attentato alla costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non condividendo
la stessa valutazione generale,
concordano quando ci sia da ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso
alla «pillola del giorno dopo».
Ingerenze confessionali,
ingerenze laiche
Cosa lega tra loro il dibattito statunitense appena riferito e l’episodio della London School of
Economics?
Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di espressione. Nel caso
londinese viene stigmatizzata
una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune istituzioni private. In tutti e due i casi
è in gioco anche un altro
aspetto: quello del cosiddetto
«spazio pubblico».
In esso si devono poter manifestare liberamente le proprie
convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione la
libertà di farlo in privato. Ciò che
costituisce problema è, invece,
la dimensione pubblica della
propria fede religiosa o della
propria valutazione, anche critica, della fede stessa.
Non c’è dubbio, inoltre, che la
fede biblica abbia un carattere
pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata dal First
Things. Lo stesso vale anche, e
forse ancora di più, per l’islam.
Ma tale «carattere pubblico»
della fede può spingere una religione a pretendere che la propria concezione morale entri
tout court nello «spazio pubblico» rappresentato dalle
norme dello stato?
Probabilmente no. Si violerebbe, altrimenti, la sua laicità.
Ma si violerebbe la laicità dello
stato anche se, al contrario, lo
«spazio pubblico» diventasse un
luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente
vuoto (cosa che occorrerebbe
verificare se possibile, oltreché
giusta), o un luogo in cui fosse
possibile realizzare un’«etica ir-
# Le testate dei periodici citati
nell’articolo. | Qui sopra: il senatore
repubblicano Usa Richard
Mourdock. | Sotto: un cartello
esprime l’urgenza della riforma
sanitaria negli Stati Uniti,
«Riformasanitaria ora».
religiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma
di norme contrarie alle convinzioni religiose.
Laicità piegata ai propri fini
Non si tratta di un nodo semplice da sciogliere.
Ci sono casi in cui le norme contrarie alle convinzioni religiose
vengono considerate legittime
anche dalla «destra religiosa»,
quando queste concordano con
i suoi obiettivi.
Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso
in modo più evidente e, a volte,
anche più acuto che in Europa,
dal 2010 alcuni stati come il
Tennessee, la Louisiana, l’Arizona - ma in molti altri si sta
procedendo nella stessa direzione -, hanno introdotto norme
che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa delle
comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti
operano «tribunali» che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli
stessi diritti previsti dalla Costi-
APRILE 2014 MC
77
Libertà Religiosa
La risposta è chiara: la restrizione del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa
eviti la violazione di altri diritti
costituzionali.
Sono le norme costituzionali,
dunque - naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono tutti i
diritti civili e di libertà -, che
debbono prevalere, perché garantiscono a tutti i cittadini pari
diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca
uno «spazio pubblico» in cui
esprimere la propria fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e non confessionale.
E dell’obiezione di coscienza
Se dalle istituzioni e dalle comunità si passa a considerare la
persona, per difenderla dall’ingerenza dello stato nelle sue
convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale
il diritto all’obiezione di coscienza. Ha costituito un grande
progresso civile il suo ingresso
da qualche decennio tra le leggi
degli stati. Uno stato laico deve
sempre prevederla quando sono
in gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e
mane però aperta la questione
che contrappone il presidente e
le istituzioni religiose. Obama ha
fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni religiose non dovranno
pagare per questi servizi o provvedervi direttamente», ha affermato ancora nel febbraio del
2012, precisando che le istituzioni affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto
l’obbligo di coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non ha impedito che le arcidiocesi di New
York e Washington, insieme a
una quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo una causa
contro la riforma, sostenendo
che «i progressi nella modifica
della norma non erano stati incoraggianti».
Paolo Bertezzolo
# Sopra: prima della legge del 1972,
gli obiettori di coscienza venivano
incarcerati.
# Sotto: il tema dell’obiezione di
coscienza è ancora oggi motivo di
forti polemiche. Ad esempio per
quanto riguarda il diritto
di obiezione dei medici
a praticare aborti.
© giornalettismo com
La bussola
dei diritti costituzionali
religiose di una persona.
In Italia non è stato facile raggiungere questo risultato. Molti
hanno pagato prezzi elevati perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli
obiettori di coscienza al servizio
militare, esploso negli anni ‘70,
costretti in carcere perché non
volevano indossare la divisa. La
loro scelta ha reso possibile la legalizzazione di quella forma di
obiezione di coscienza. In seguito, come noto, in Italia ne
sono state riconosciute altre: ad
esempio l’obiezione dei medici
alla legge 194 sull’interruzione
volontaria della gravidanza.
Per quanto riguarda la riforma di
Obama, alla fine di giugno 2012,
la Corte suprema americana l’ha
dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di
un’assicurazione sanitaria. Ri© comune cinisello-balsamo mi it
tuzione, le parti interessate possono ricorrere a un tribunale
laico. Perché in questi casi è
considerata legittima l’«ingerenza» dello stato e la restrizione della libertà religiosa?
4 chiacchiere con...
a cura di Mario Bandera
20. SAN GIUSEPPE
MARIA GAMBARO
ANTONIO BERNARDO GAMBARO nasce a Galliate
il 7 agosto del 1869, quinto figlio di Pacifico e
Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili. Fin
da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo e del Signore, e
così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del Monte Mesma (Ameno, Novara), retto
dall’Ordine dei Frati Minori Francescani. Nel
1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa
che l’ha accolto e gli vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai superiori di poter
partire missionario in Cina. Nel dicembre del
1895 si imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e,
dopo un viaggio di qualche mese, il 7 marzo
1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hentceu-fu, capitale della provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si
accultura rapidamente vestendo abiti locali. Il
vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati,
gli affida quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del 1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in
viaggio, li raggiunge la notizia che la rivolta dei
Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che uccidono
padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del
pericolo decidono di tornare indietro, la barca
su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la morte.
Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti
un po’ in soggezione in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui Chiesa parrocchiale per
diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho
sempre percepito la forza della tua presenza.
Proprio vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde del Ticino, una zona che dal
punto di vista agricolo è sempre stata terra di coltivazione
del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi anni è stata un polo tessile di una certa importanza.
Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è il riso, l’alimento naturale dei
galliatesi, che sapevi di trovare in abbondanza nel
Celeste Impero.
APRILE 2014 MC
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4 chiacchiere con...
A dire il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava sempre più accentuando nella
Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove ancora
non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i
tempi in cui mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei Saveriani con il compito
principale di evangelizzare la Cina.
Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi di metterti al servizio del
popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.
Proprio così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri
frati miei compagni, il mio pensiero correva sempre verso
la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone parimenti
bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di salvezza di Gesù Cristo.
Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?
Io arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno
prima il Giappone aveva invaso la Cina che era sì un
grande impero, ma a causa della corruzione dilagante, di
arroganti potentati locali e della debolezza della casa imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua immensa popolazione.
Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora
era chiamata la Cina, era in piena decadenza,
come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la
loro vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a disintegrarsi.
A quei tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era
in piena decadenza e alla mercé delle potenze coloniali
emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi, facevano a
gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di
strade e ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui
estendere la loro influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso tutti
gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una sistematica violazione delle millenarie tradizioni
e regole di comportamento locali, e gli occidentali, anche
se compivano abusi e crimini, non venivano perseguiti perché godevano di immunità.
L’odio e il risentimento della gente si trasformava
in atteggiamenti ostili nei confronti degli europei?
Diciamo che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da allora la
situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento
di rifiuto si passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro dipendenti, e anche contro
missionari e cinesi che si erano convertiti. La popolazione
era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del popolo cinese.
è da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?
Sì. Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali, ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini
senza terra, artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la comparsa sui
80
MC APRILE 2014
grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da
una famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto
che i cinesi avevano verso i nuovi macchinari per i tessuti:
filatoi, telai, ecc., loro pensavano che tutte queste novità
avrebbero tolto posti di lavoro.
Importando queste nuove tecnologie gli europei
davano allora l’impressione di voler impadronirsi
della Cina.
Proprio così. Il problema vero era che questa rivolta dal
basso aveva un’ideologia semplice e terribile allo stesso
tempo: tutto ciò che non era cinese era malefico. Anche la
religione cristiana portata dai missionari che venivano dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò che non apparteneva alla loro cultura.
Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso quei cinesi che si erano convertiti
al cristianesimo?
La gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo
altissimo, perché se gli stranieri erano odiati in quanto
stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il cristianesimo
erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese. Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e
gli eccidi di convertiti aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano, venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in
un unico quartiere e di mandare una squadra navale con
dei reparti militari per la difesa degli stranieri.
Questa misura però non ottenne il risultato
previsto.
Infatti il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non
poteva accettare la presenza di militari stranieri armati sul
proprio territorio; per questo i crimini dei Boxer vennero
tollerati e persino giustificati dalle autorità cinesi.
Questo naturalmente ebbe un’immediata
ripercussione anche nelal vostra zona.
Certamente, Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra
Cesidio Giacomoantonio (4 luglio 1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e cristiani cinesi.
Con conseguenze tragiche per di voi.
Informato di quello che stava accadendo, mons. Fantosati,
il mio vescovo, nonostante fosse conscio dei pericoli che
correva, decise di ritornare nella sua sede episcopale, io
ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu
fummo riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui viaggiavamo e circondati da una
folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.
Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita
missionaria e anche di quella terrena.
Mentre ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci abbracciammo mentre i nostri
carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi. Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono:
«Questi stranieri erano veramente giusti!».
Il 7 luglio 1900 i corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro, vengono gettati
nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedirne
la sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000, Giovanni Paolo II
eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di tutti i
tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio
e padre Giuseppe Maria Gambaro.
Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara
Mediamente
IL PIACERE DI CAPIRE
a cura di Gabriella Mancini
FUORI DAL CORO
SOTTO IL CIELO DI LAMPEDUSA. Annegati da respingimento
Antologia poetica, Edizioni Rayuela, gennaio 2014, Euro 15,00
«Mettersi è il verbo di chi deve andare allo sbaraglio di un’emigrazione: mettersi nel viaggio. È carovana, pista nel de
serto, in mani di mercanti di persone. Sono i peggiori: di qualunque altra mercanzia avrebbero premura di custodia e
consegna. Il corpo umano è diventato la più redditizia delle merci». Sono alcuni dei versi dell’intensa prefazione di Erri
De Luca per l’antologia Sotto il cielo di Lampedusa, raccolta di poesie per ricordare le tragedie dei migranti, pubblicata dal
giornale online Glob011 e dalla casa editrice Rayuela, grazie all’organizzazione «100 Thousand Poets for Change» di
Bologna. Il progetto dell’antologia ha origine dalla notizia degli annegamenti di massa, il 3 ottobre 2013 a Lampedusa,
punta di un iceberg che ha visto morire nell’indifferenza delle politiche nazionali e internazionali una moltitudine di es
seri umani alla ricerca di un destino, forse, migliore. Raccoglie 85 poesie scritte da 69 poeti affermati e esponenti della
poesia civile, italiani e stranieri, donne e uomini, accomunati dallo stesso desiderio di dar voce a chi, purtroppo, è stato
costretto a tacere. Storie, emozioni, parole e sentimenti rinascono dalla carta, nuotano tra le pagine e ripescano le iden
tità dei sommersi, ne fanno sentire l’indignazione e il dolore, ce lo consegnano attraverso il miglior medium possibile: la
poesia. In una babele linguistica prendono vita suoni senza suono: francese, inglese, dialetto romagnolo e dialetti sici
liani/lampedusani, versi elegiaci e prosaici. Tutto il mondo in un’antologia che è tanto intensa quanto necessaria.
«DIAMOCI DEL TU»: BOTTA E RISPOSTA CON PINA PICCOLO
(poeta, scrittrice e giornalista, una delle organizzatrici di
«100 Thousand Poets for Change» di Bologna)
In anni diversi, la tua famiglia ha vissuto l’esperienza della migrazione. Cosa ti è rimasto dentro di
quell’esperienza e come si è tradotta nel tuo lavoro?
Vengo da una famiglia che migra da generazioni. Io sono nata negli Stati Uniti da genitori calabresi
ma con altre origini. Sono tornata in Italia a 6 anni, ritornata in California a 16, per ristabilirmi nuovamente in Italia a 47 anni. Tutto questo andirivieni ha contribuito a farmi sentire estranea a entrambi i
luoghi, ad acquistare una distanza critica che mi ha sempre fatto considerare tutto da almeno due
punti di vista. La poesia è stata un rifugio per la mia alterità ed è la forma artistica più consona a chi
sta ai margini, tra due lingue e due esperienze di vita. Per questo mi riconosco in chi affronta il viaggio della migrazione e il difficile processo di adattarsi a un altro luogo. L’indignazione scaturita dall’amnesia storica che ha l’Italia, riguardo l’emigrazione e la migrazione interna, si è poi tradotta in
scrittura: saggi, poesie e interviste sono diventate il mio veicolo di comunicazione per tramettere il
mio pensiero sul tema, in un contesto poco aperto agli «outsider».
Con quale processo poetico sei riuscita a trasmettere una simile forza nei versi e nelle immagini?
Sono cresciuta ascoltando racconti di navi sballottate nella bufera (mia madre e i miei fratelli fecero
il viaggio di ricongiungimento familiare con mio padre, che già lavorava in fabbrica in California dalla
fine del 1951, proprio sulla celebre «Andrea Doria»). Nella mia vita sono stata fortunata e ho avuto
molte opportunità, specialmente quella di vivere gli anni ‘70 e ‘80 in un contesto come quello di
Berkeley in California. Nella zona di San Francisco non era insolito che la poesia affrontasse argomenti sociali e che nelle manifestazioni contro le tante guerre ci fossero poeti a recitare i propri versi.
Ho cercato di portare in Italia un po’ di quella esperienza e, forse, la veridicità delle immagini e la
forza delle poesie che scrivo, arriva proprio dal mio bagaglio di vita.
La raccolta unisce poeti da tutto il mondo, con un’attenzione particolare alle donne. Quali stili al
femminile possono caratterizzare e dare risalto, secondo te, a tutto il progetto?
All’interno dell’antologia ci sono 48 poesie scritte da donne e 33 da uomini. Le voci femminili hanno
una grande varietà di toni e stili: si va dallo stile elegiaco sia di Selam Kidane che di Awa Meite Til,
eritrea la prima, maliana la seconda, a quello sarcastico grottesco di Alessandra Carloni Carnaroli,
da una poesia densa e filosofica con attenzioni storiche quali quelle di Meth Sambiase e Fernanda
Ferraresso a quella immaginifica, con punte quasi pittoriche di Patrizia Dughero, alla vena surreale
di Marina Mazzolani. Molto toccante, poi, la voce di Maria Sardella, un dialogo semplice ma che coglie l’esperienza materna nella sua quotidianità.
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Mediamente
I PRIMI SULLO SCAFFALE
LA GRAZIA DI CASA MIA
Julio Monteiro Martins, Rediviva Edizioni, 2013, Euro 14,00
Una raccolta poetica dal ritmo leggero, con toni melanconici che si alternano alla più piacevole
leggerezza. L’amore verso la terra natia, il Brasile, e il dolce amaro gusto della vita in Italia, terra
di adozione. Liriche che sembrano ballate e raccontano storie, poesie in rima con un saggio uti
lizzo giocoso dell’idioma. Una raccolta in lingua italiana, inedito connubio tra «favela» e «favella».
Amore e morte, sensualità e amarezza, malinconia e dolcezza, terra natia ed esilio forzato. Un
cammino che dalla «grazia di casa mia» conduce alla perdita di quella grazia, fino alla riacquisi
zione di ciò che sembrava perduto.
PER ARRIVARE A SERA
Milton Fernandez, Rayula Edizioni, 2014, Euro 15,00
Milton Fernández nato a Minas, in Uruguay è scrittore, poeta, regista e drammaturgo. In Per
arrivare a sera, l’autore si interroga, con il suo inconfondibile stile borgesiano, sul senso della vita e
della morte. Un sapiente e viscerale utilizzo della narrativa sensoriale fa sì che il lettore si immerga
nella storia e ne percepisca emozioni, odori, densità. La trama ruota attorno al misterioso intreccio
di due vite che finiscono per dipendere l’una dall’altra. Due anime diverse in cui è immediata l’im
medesimazione da parte del lettore. Un libro poetico, surreale, psicologico. In una parola, unico.
IL VILLAGGIO SENZA MADRI
Ingrid Beatrice Coman, Rediviva Edizioni, 2012, Euro 10,00
Sono 350mila gli «orfani bianchi» in Romania, minori che vivono con nonni, zii, vicini o in istituti
mentre i genitori lavorano all’estero come muratori e badanti. Metà di loro ha meno di 10 anni e
molti sviluppano forme di depressione o iperattività e rifiuto delle regole.
Ingrid B. Coman, con stile delicato ed elegante, si fa portavoce di dieci bambini, dieci storie basate
su una dualità: il vizio e la virtù. Una commovente raccolta italo rumena che arriva dritta al
cuore, perché ritrae emozioni e pensieri dei bambini e lo fa senza intaccarne la poesia. Non a caso,
è l’autrice stessa a commentare: «Mi sono semplicemente messa in ascolto». Proprio di un ascolto
profondo si tratta, il sentire con le orecchie e con l’anima cosa hanno da dirci i bambini: sull’ab
bandono forzato, sulle scelte di vita degli adulti, su un’infanzia spesso negata. La memoria del do
lore si trasforma in lezione di vita e conduce a una crescita saggia e consapevole. Un libro che con
serva il sapore dell’ingenua dolcezza infantile e invita ad approfondire la conoscenza della società
rumena.
VEDIAMOLI INSIEME
MIRACOLO A LE HAVRE
Film del 2011, diretto da Aki Kaurismäki, disponibile in Dvd
Marcel Marx, un ex scrittore rinomato e bohemien, si trasferisce volontariamente in esilio nella
città portuale di Le Havre (Alta Normandia, Francia) dove, grazie alla sua professione di lustra
scarpe, si sente più vicino alla gente e può soddisfare la sua viva curiosità.
A turbare la sua tranquilla quotidianità arriva la notizia della malattia della moglie e la cono
scenza con un piccolo migrante in arrivo dal cuore dell’Africa nera. Esistono i miracoli? Su questo
tema si interroga il film che scava con profondità nell’essere umano, regalando al pubblico un po’
di sana poesia.
I SITI DEGLI EDITORI
LE PAROLE DI MEDIAMENTE
• www.rayuela.com
• www.redivivaedizioni.com
Migrazione, poesia, morte, rinascita, esilio, femminilità, consapevolezza, grazia,
bambini, infanzia, conoscenza, amicizia, miracolo, vizi, virtù, realtà, immaginazione,
personalità.
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MC APRILE 2014
MENSILE DEI
MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FONDATO NEL 1899
PER SOSTENERE
I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
già «La Consolata» (1899-1928)
Tramite «Missioni Consolata Onlus»
a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Socia
le) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del
Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI
CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora.
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sul reddito delle società, in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all’articolo 10,
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complessivo del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e
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