Il Sole 24 Ore :: Domenica :: 15 Novembre 2009 - N. 315 41 Economiaesocietà La ricchezza nazionale I volumi del mercato Spaghettatefuori dal Pil Tutti pazzi per la stampa Resta escluso dal calcolo l’enorme contributo delle donne nell’economia domestica. Una risorsa ma anche un modello che genera le inefficienze del «familismo amorale» DISEGNO DI DOMENICO ROSA Sarà in libreria nei prossimi giorni per Mondadori il volume «L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani» di Alberto Alesina e Andrea Ichino. Ne anticipiamo uno stralcio. di Alberto Alesina e Andrea Ichino uando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto internolordo.Se,invece dicucinare,andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi celi serve sarebbeincluso nelpil. Lo stesso accade per la pulizia della casa, per la cura dei bambini e degli anziani e per tutti gli altri beni e servizi che la famigliaproduce e chepotrebbero essere acquistati nel mercato aumentando il pil. Non è diversa la situazione degli spagnoli quando cucinano la paella o dei norvegesi quando pescano il merluzzo per la cena. Ma in Italia l’entità della produzione familiare non rilevata dallestatistiche ufficialiè maggioreche altrove.Possiamo, allora, sostenereche il nostro Paese, grazie a quanto le sue famiglie producono in casa, sia più ricco di quel che normalmente si pensi? E se fosse vero che produciamo in casa più di quanto prodotto dai cittadini di altri paesi, non dovremmo forse chiederci se questo abbia dei costi, ovvero sedareun ruolocosì rilevanteallafamiglia possa avere controindicazioni, in particolare per la condizione della donna, per il sistema educativo, per il mercatodellavoroeper lastrutturadelwelfare state? Nel 1956 un politologo dell’Università di Chicago, Edward Banfield, poi passato ad Harvard, decide di studiare le cause del ritardo di sviluppo nel Sud d’Italia. (...) Da questa esperienza deriva uno straordinario libretto di un centinaio di pagine intitolato Le basi morali di una società arretrata. Queste cento pagine, talvolta anche divertenti, ci aiutano a capire il Sud d’Italia molto più delle migliaia di pagine scritte da economisti, storici, politologi e sociologi sulla «questione meridionale». La spiegazione dell’arretratezza del Sud d’Italia secondo Banfield deriva dalla struttura della famiglia e dal suo rapporto con la società. Ma a nostro avviso questo libro ha molto da insegnare anche su tanti altri problemi del nostro Paese, ben al di là di Monte- Q grano e della Questione meridionale. Vivendo a Montegrano, Banfield si convince che l’arretratezza economica, politica e sociale del Sud risiede in quello che lui definisce il «familismo amorale». Con questo termine vuole cogliere il comportamento basato sulla convinzione che ci si possa fidare esclusivamente dei propri familiari; non solo, ma che ci si debba aspettare che tutti gli altri a loro volta facciano altrettanto, ossia si fidino solo dei pro- priconsanguinei. Quindi, atteggiamenti collaborativi fondati su un reciproco rispetto e fiducia possono esistere solo all’interno della famiglia. A Montegrano ci si deve aspettare di essere truffati dagli estranei, cioè da chi non appartiene alla propria famiglia. E di riflesso, la risposta al timore di una possibile truffa è un atteggiamento altrettanto truffaldino. Una società basata sul familismo amorale si trova quindi in un equilibrio pessimo: nessuno collabora e si fida degli altri perché nessuno si aspettache gli altri lo facciano e offrire collaborazione e fiducia significa la certezza di essere truffati. Si tratta proprio di un equilibrio nel senso più tecnico di questo termine: ovvero questa è una configurazione sociale stabile nel senso che a nessuno individualmente conviene cambiare atteggiamento, a meno che non lo facciano anche gli altri, tutti insieme, e con la certezza che nessuno conti- nui negli atteggiamenti truffaldini. Nonacaso,le coschemafiose siautodefiniscono «famiglie». La norma in queste organizzazioni è che ci si può fidare, appunto, solo dei membri della «famiglia», mentre da qualunque altra persona non appartenente alla «famiglia»ci sidevono aspettare solotrabocchettie tradimentie quindibisognaagire di conseguenza. In particolare, per prudenza, conviene prevenire il tradimento altrui con quello proprio. Banfield dimostra come le conseguenzedel familismoamoralesianodevastanti per l’economia e la società di Montegrano, soprattutto perché impediscono la creazione e la gestione di beni pubblici fruibili da tutti, che favorirebbero la crescita economica e sociale del paese. (...) Una famiglia molto unita che produce beni e servizi necessita di una figura che mantenga l’unità familiare e svolga il ruolo di fulcro della casa. Questa figuraètipicamenteladonna,moglie,sorellaemadre.Ne conseguechedoveilegami familiari sono più forti la partecipazione al lavorofemminile nel mercato è più bassa perché la donna è più impegnata in casa. Non per nulla nel Sud d’Italia le donne lavorano meno nel mercatoeilegamifamiliarisonopiùforti, qualche volta addirittura «perversi», come nel caso del familismo amorale di Montegrano. In un Paese che scelga di dare un ruolo importante alla famiglia, una persona che svolga la funzione di fulcro di questa istituzione è forse necessaria: ma perché deve essere necessariamente la donna a svolgerla? Potrebbe essere che alle donne italianepiaccia così.Oppure che non piaccia affatto, ma che per caratteristiche genetiche e culturali non rapidamente modificabili siano più adatte ed efficienti degliuomini nella produzionefamiliare. Oppure ancora potrebbe far comodo ai mariti, ai figli e ai fratelli che le donne non lavorino o che lavorino relativamente poco nel mercato e moltissimo a casa. Inquesto caso quindi le donne sarebbero costrette a questo ruolo da un maggiore potere contrattuale degli uomini. Senza stravolgere e indebolire l’intensità dei legami familiari a cui gli italiani tengono in modo particolare, non sarebbe preferibile che gli uomini partecipassero di più a sostenere la famiglia nelle sue funzioni? In Italia molti uomini se ne guardano bene, delegando tutti i lavori di casa alle loro mogli, madri e sorelle. Forse proprio all’interno della famiglia,piùcheacausadelladiscriminazione nel mercato del lavoro, si determina lo squilibrio di ruoli che osserviamo in tutti i Paesi e soprattutto in Italia. © RIPRODUZIONE RISERVATA di Maria Cristina Marcuzzo Q uando, intorno al 1450, in Europa apparvero i primi libri stampati, il loro aspetto esteriore era molto simile a quello dei libri manoscritti, di cui erano un’evoluzione. Eppure segnavano un cambiamento nel modo di trasmettere il pensiero tramite la scrittura. L’affascinante racconto di questa trasformazione che – attraverso il mutamento del sistema di relazioni fra produttori, venditori e utilizzatori del libro – portò all’affermarsi del libro stampato rimanda anche a considerazioni più generali sulle condizioni per la nascita di nuovi mercati, nuovi prodotti e nuovi agenti. Tra il IX e il XII secolo, nel contesto del rinnovamento intellettuale, del diritto e della filosofia in particolare, emergono nuove figure sociali e nuove attività economiche, legate alla cultura scritta, con il conseguente sviluppo di un nuovo pubblico di lettori. In Italia tutto comincia con l’instaurarsi di due sistemi di mercato: quello del libro manoscritto universitario a Bologna e del libro umanistico a Firenze dove, nelle ultime decadi del Quattrocento, assistiamo alla loro trasformazione in libro stampato. Quali fattori, si chiede l’autore, la resero possibile? Certamente vi furono cambiamenti di ordine quantitativo che, tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, investirono anche la produzione di beni agricoli e tessili e persino la costruzione di navi. Ma diversamente da questi prodotti il mutamento quantitativo – cioè l’unità di misura della produzione – fu allo stesso tempo qualitativo. Cambiò il rapporto tra domanda e produzione, il finanziamento della produzione, i modelli di comunicazione tra produzione e domanda, la rivalità tra editori per catturare la domanda potenziale. Un aspetto interessante di questo processo è la trasformazione, creata dalle nuove relazioni tra agenti rispetto al nuovo artefatto, di figure e competenze preesistenti. L’arte degli orefici crea le competenze dell’incisore e fonditore, ma soprattutto dai vari scriptores emerge la figura dell’editore, con caratteristiche di imprenditore. I segnali più evidenti dell’assunzione di comportamenti nella logica del mercato riguardano la valutazione dei costi, dei redditi e dei prezzi connessi alla produzione del libro stampato rispetto al manoscritto. Secondo la minuziosa ricostruzione dell’autore il prezzo di un manoscritto non di lusso comportava una spesa pari al mantenimento di una persona per 4 mesi. Con il libro stampato si intrecciano nuovi fattori, che l’editore-imprenditore deve valutare per arrivare (in base Gli orefici diventarono incisori per far fronte alla domanda di libri impressi, che avevano prezzi più competitivi alla stima della domanda) a trovare quel prezzo medio unitario minimo che consente (se tutte le copie sono vendute) di recuperare i costi e di produrre il reddito per sé. Il prezzo effettivo naturalmente variava, in base a numerose circostanze, ma fu proprio il prezzo minimo a dare unità e stabilità al sistema di relazioni tra agenti e artefatti, che è la premessa per la produzione per il mercato di qualsiasi prodotto. Tuttavia, senza la nuova funzionalità attribuita al libro dai lettori e dagli autori, senza cioè la trasformazione qualitativa e quantitativa della domanda a cui si assiste nel Cinquecento, la nascita del libro stampato non avrebbe potuto aver luogo. Una storia, quella del ruolo della domanda nella generazione di reddito, che si ripete e che è sempre bene ricordare. © RIPRODUZIONE RISERVATA 1 Giovanni Bonifati, «Dal libro manoscritto al libro stampato. Sistemi di mercato a Bologna e a Firenze agli albori del capitalismo», Rosenberg&Sellier, Torino, pagg. 294, Á 25,00. Gli intellettuali Profilo ideologico dell’Italia di Piero Ignazi I l libro di Michela Nacci segue il classico «chi, cosa e dove» di ogni buon investigatore. Chi sono gli intellettuali? Che cosa significa cultura? Con quali mezzi e in quali sedi hanno prodotto cultura? In questa raccolta di saggi l’autrice affronta temi diversi, che si riconnettono comunque tutti a questa indagine. Gli spunti che il libro offre sono numerosi, e si intravedono gli anni di lavoro che l’autrice ha dedicato in varie forme a questo argomento. Tuttavia, «il maggior indiziato», e cioè, fuor di metafora, l’intellettuale, scivola nell’ombra. Af- Un ritratto del paese di Michela Nacci. Pochi gli esempi, da Pasolini ad Alberoni, di pensatori capaci di interpretare la società fiora qua e là nel testo ma sfugge a una sua collocazione precisa. Insomma non lo si riesce a inchiodare. Allora, seguendo i numerosi e brillanti spunti offerti da Michela Nacci, proviamo a ricostruirne il percorso e i tratti. Partiamo da una felice intuizione dell’autrice, quando suggerisce di periodizzare su basi anagrafiche la storia culturale, prendendo come discrimine il lungo ’68. Per gli intellettuali che hanno vissuto l’esperienza del fascismo, quello rappresenta l’alfa e l’omega delle loro riflessioni. Mentre la generazione del baby boom, socializzata in un mondo di sicurezza, come direbbe il politologo Ronald Inglehart, ha altri parametri di riferimento e altre visioni del mondo. Il rapporto con il fascismo è stato così centrale nei primi decenni della Repubblica e talmente innervato di valenze emotive da aver fatto perdere lucidità anche agli intellettuali più prestigiosi. Il caso più emblematico si trova nella pervica- cia miope con la quale Norberto Bobbio taccia di "inesistenza" la cultura fascista sulla base di una sorta di sillogismo: se il fascismo è la negazione della libertà lo è anche del pensiero, e quei nuovi barbari non potevano quindi produrre alcunché di culturalmente degno: «intellettuali di mezza tacca... produttori di ciarpame» li bolla Bobbio. In realtà, il diluvio di ricerche condotte su ogni aspetto del regime fascista a partire dagli anni Ottanta, ivi compresi l’ideologia, la cultura di massa e il ruolo degli intellettuali, hanno messo la questione della cultura del, e nel, fascismo nella giusta prospettiva. Questo grazie al fatto che è giunta a maturità una generazione meno "coinvolta" da quel fenomeno storico, e quindi meglio predisposta all’indagine sine ira ac studio. Comunque tornando ai primi de- cenni della Repubblica, non c’è solo il problema del rapporto con il fascismo: è centrale anche l’influenza del marxismo e il rapporto con il Pci. Il celebre caso del «Politecnico» di Ennio Vittorini racchiude tutte le contraddizioni del rapporto tra politica e cultura nella sinistra marxista: un rapporto visto come servizio alla causa del socialismo e/o della rivoluzione. Forse non si è sottolineato abbastanza che l’intellettuale organico ripropone in termini nuovi l’antica immagine del cortigiano. Non al servizio di un principe dell’ancien regime bensì del principe gramsciano. Anche se il fine è nientemeno che l’edificazione di una nuova società che liberi dal bisogno e dalle ingiustizie – e quindi come sottrarvisi? – nondimenoquesta impostazione ha effetti disastrosi sulla cultura italiana. Appiattisce il ruolo dell’intellettuale DOPO IL SUCCESSO DELLA VARIABILE DIO, PROSEGUE IL VIAGGIO AI CONFINI TRA RELIGIONE E MODERNITÀ LE S PA D E RICCARDO CHIABERGE LO SCISMA CATTOLICI SENZA PAPA CHI SONO QUEI CATTOLICI «DISOBBEDIENTI» CHE TESTIMONIANO LA LORO FEDE NELLA VITA QUOTIDIANA MA STENTANO A RICONOSCERSI NELLA LINEA UFFICIALE DELLA CHIESA? www.longanesi.it/scisma su quello della politica, lo obbliga a schierarsi, a prender parte, per evitare l’accusa infamante di aristocratica separatezza dal mondo e dai suoi problemi. E negli anni Settanta nelle aule universitarie risuonano allucinanti intemerate sul ruolo rivoluzionario dell’intellettuale. Per fortuna, autori del livello di Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino e Leonardo Sciascia (questi ultimi ingiustamente trascurati dall’autrice) rompono la cappa di conformismo paleo-neomarxista e riescono a imporre (pensiamo anche a Francesco Alberoni) analisi e interpretazioni illuminanti della società italiana. La generazione successiva riuscirà a farlo soloa tratti e senza la stessaforza, a parte Pier Vittorio Tondelli, il più emblematico cantore degli anni Ottanta, e per certi aspetti Aldo Busi e Andrea De Carlo. È in quel periodo che il rapporto intellettuali-politica muta di segno soprattutto, ma non solo, perché perdono velocità e capacità di attrazione il Pci e il marxismo. L’ultima stagione di un rapporto stretto e fecondo tra intellettuali e politica si ha nella stagione protocraxiana del Psi, attorno alla rivista «Mondoperaio», fucina di elaborazioni del nuovo riformismo. Dopounalunga fase di"dispersione", senza legami organici, oggi è il tempo delle fondazioni. Ma queste sono strutture di natura diversa, in quanto propongono una modalità, piùfluidaeaperta,delcoinvolgimento degli intellettuali nella progettualità politica. Una modalità post-moderna, in sintonia con i tempi. © RIPRODUZIONE RISERVATA 1 Michela Nacci, «Storia culturale della Repubblica», Bruno Mondadori, Milano, pagg. 150, Á 14,50.