IGOR STRAVINSKY – Œdipus Rex 14 marzo 1927: partitura terminata. 10 maggio 1927: orchestrazione terminata. 30 maggio 1927: prima esecuzione in forma di concerto presso il Teatro Sarah-Bernhardt. Opera-oratorio in due atti Tenore (Edipo) – Mezzosoprano (Giocasta) – Basso-baritono (Creonte) – Basso (Tiresia) – Tenore (Pastore) – Basso-baritono (Messaggero) – Narratore – Coro Maschile – Orchestra. PROLOGO ATTO PRIMO I. Kaedit nos pestis – Tema della supplica Dopo il primo intervento dello speaker, il coro supplica Edipo di salvare Tebe, flagellata dalla peste. Alle rapide scale ascendenti e discendenti che preannunciano la pesantezza e la vastità della tragedia, segue un ritmo ternario in 6/8 ossessivamente scandito dal trio arpa-pianoforte-timpani, sopra il quale il coro muove le sue suppliche. È possibile parlare di questa prolungata cellula ritmica come un elemento leitmotivico. Vale la pena ricordare che Stravinsky predilesse l’uso dei ritmi ternari (6/8 e 9/8) in abbinamento alle sezioni corali, dal momento che tali ritmi ben coincidevano con quelli del testo di Sofocle. II. Liberi, vos liberabo – Vanità di Edipo – Metro giambico (Tema della tragedia) Segue l’intervento di Edipo: egli promette al popolo di liberarlo ancora una volta dalle calamità, ostentando un canto ricco di fioriture e melismi tale da renderlo quasi effeminato nella sua fierezza e vanagloriosa sicurezza (Ego, clarissimus Oedipus!). La preziosissima tessitura a ritmi puntati di clarinetti non fa altro che accentuare questo aspetto: “Edipo è un debole: un debole vanitoso e innocuo”. Sappiamo però, da affermazioni a proposito dell’Apollon Musagète, che Stravinsky associava il ritmo puntato al metro giambico, il metro della tragedia per eccellenza, che compare in un punto strategico quale l’ingresso del protagonista. Una certa influenza verdiana si manifesta apertamente in questi primi minuti, dal momento che nell’Otello del compositore di Busseto si presenta un’identica situazione, in cui la supplica di un coro – nella furia dell’orchestra – viene placata dall’intervento risolutorio del protagonista, che si erge a baluardo contro le offese del Fato, pur non sapendo cosa il Fato ha in serbo per lui. III. Vale Creo! ... Respondit Deus Dopo il saluto del coro-turba, e il secondo intervento dello speaker, l’aria di Creonte inizia con una plateale declamazione dell’accordo di Do maggiore, raddoppiato dalla tromba sola: Dal punto di vista musicale, è una dichiarazione d’intenti: Creonte è un purissimo esempio di baritono melodrammatico, aitante e guerresco, strepitosamente verdiano. Non occorre alcuna difficoltà ad accostare la sua fermezza, la sua collera nell’incitare tutti i presenti a reperire peremptorem, peremptorem reperire!, alle furie del Conte di Luna. Segue immediatamente l’aria di Edipo (Non reperias vetus skelus), inframmezzata da interventi del coro. Trattasi di una sorta di ripresa dell’aria precedente: il canto, dapprima sillabico e talvolta concentrato su di una sola nota, torna a farsi pomposo e ampolloso allorché Edipo rammenta le sue doti divinatorie, lui, clarissimus Oedipus, che ha risolto gli enigmi della Sfinge. IV. Delie, expectamus… Dikere non possum Il terzo intervento dello speaker, che ci conduce passo dopo passo nello svolgimento della trama, sfocia nel ritorno del tema della supplica: il coro e l’orchestra (arpapianoforte-timpani) riprendono alla lettera la tessitura melodico-ritmica di inizio opera, ma stavolta oggetto della supplica non è più Edipo, bensì gli dei (Delie, Minerva filia Iovis, Diana, Phaebe, Bakke). La supplica s’interrompe bruscamente: è appena arrivato Tiresia, salutato allo stesso modo di Creonte. Tiresia è già a conoscenza di ogni cosa. Il suo è quasi un “canto parlato”, secco, quasi da Commendatore. Il suo canto è scevro da ogni tinta passionale, anche quando viene assurdamente accusato da Edipo per la sua reticenza a svelare la verità. Così come il Do maggiore di Creonte è servito da dichiarazione d’intenti per l’interpretazione del personaggio, allo stesso modo interviene la tonalità di la minore deliberatamente declamata da Tiresia dopo le infamanti accuse pronunciate da Edipo. Edipo è più che mai rigonfio e trionfio nella sua vanità. Invidiam fortunam odit: è lui, e non Tiresia, ad aver salvato Tebe risolvendo gli enigmi della Sfinge. Giunge adesso il momento chiave nella percezione musicale dell’intera opera: l’ingresso di Giocasta. Da questo momento in poi l’Œdipus Rex si libererà da ogni armatura metastasiana, dalla fissità di uno schema sempre uguale per tutta la durata del primo atto, e l’oratorio si fa melodramma. Il coro esplode in un portentoso Do maggiore (Gloria!), non di rispetto o riverenza come per Creonte o Tiresia, ma di “verdiano giubilo”, a sottolineare la cesura che si è venuta a creare con l’ingresso della regina. Così si chiude il primo atto. ATTO SECONDO I. Nonn’erubeskite, reges In seguito all’intervento dello speaker e ad una “cinematografica” ripetizione del Gloria!, inizia l’aria di Giocasta. Inizia come un brano da cabaret, dallo straordinario potere seduttivo donatole dalla strumentazione (arpa, clarinetti, pianoforte, violoncelli e contrabbassi), trasformandosi poi nell’ultima grande aria verdiana della storia della musica; in essa i vocalizzi di una Violetta Valery vanno a mescolarsi con parole sillabate o, per meglio dire, “triturate” finchè non divengono puro materiale fonetico. L’ingresso dell’ormai celebre tema del destino costituisce il primo passo nella spirale discendente che condurrà alla tragica, macabra conclusione del dramma. Al pari di Edipo, Giocasta, il suo grandeur e la sua ostinazione a diffidare dagli oracoli dimostrano la sua totale impossibilità di affrontare la realtà, lei che inconsapevolmente avrebbe spianato la strada a questa fatale concatenazione di eventi. II. Trivium, trivium – Tema della colpevolezza Trivium costituisce il secondo passo nella spirale. Pronunciata con l’intento di rassicurare il marito, e ripetuta come un mantra dal coro, si insidia nel terrorizzato Edipo (Pavesco subito, Iocasta!) e, innescando il ricordo dell’uccisione di Laio, finirà per distruggerlo. Alla fine di ogni frase il martellante ritmo ternario ravviva la memoria dell’infausta parola, come l’indizio di un romanzo giallo. Quattro parole (trivio, kekidi, exkederem, senem), quattro indizi che costituiscono la prova della colpevolezza di Edipo. III. Adest omniskius pastor… Reppereram in monte puerum… Oportebat takere Giungono in scena il pastore, omniskius in quanto unico testimone di ciò che accadde nel trivium fra Dauli, Delfi e Corinto, e un messaggero giunto da Corinto per annunciare la morte di Polibo. L’orchestra si riduce al minimo, l’atmosfera si tinge di un gusto pastorale: il canto del messaggero si adorna di piccoli contrappunti bachiani, mentre l’aria del pastore ricorda direttamente una siciliana, il tipo di aria “bucolica” per eccellenza nell’opera e nell’oratorio del XVIII secolo. Le loro testimonianze sgretolano ogni dubbio, ogni mistero: Giocasta ha compreso ogni cosa, e fugge via. IV. Nonne monstrum reskituri – Metro giambico (Tema della tragedia) Edipo è l’unico a non essersi reso conto di come stanno in realtà le cose, crede che Giocasta si sia allontanata per la vergogna di aver sposato un trovatello di umili origini. Se la semplice aria del pastore è pregna di verità, di bucolica schiettezza, l’ultima aria di Edipo è invece colma di finzione e artifizio, della negazione di qualcosa chiaro a tutti eccetto lui. Simbolicamente, torna il ritmo giambico, in una sorta di ripresa della prima aria, ad accompagnare le inutili congetture dell’ancora inconscio re. Di lì a poco, tuttavia, il dubbio verrà definitivamente squarciato. Tutto il peso della tragedia piomba su Edipo. Oportebat takere, ma finalmente: Si esaurisce qui la sostanza drammatica dell’opera. V. Divum Jocastæ caput mortuum!... Ekke! Regem Œdipodam L’epilogo è puro racconto. Lo speaker tradisce la sua impassibilità di cronista esterno (Adieu, adieu, pauvre Oedipe! […] On t’amait.), il declamato del Messaggero riprende le precipitose ottave ascendenti e discendenti di inizio opera, il coro narra il suicidio di Giocasta e il supplizio di Edipo sopra un volgare e torbido ritmo giambico. L’effetto è truculento ma irresistibile. Esattamente come nel coro dei cortigiani nel secondo atto del Rigoletto, l’atmosfera ribolle e trasuda di quella curiosità, quell’eccitazione, quell’euforia che i fatti di cronaca – ormai ridotti a pettegolezzi – suscitano nella folla. Isteria di massa, ma sotto il pieno e totale controllo musicale. Alla vista del re, cieco e brancolante, il coro prorompe nella ripresa del motivo di inizio opera. Ritorna per l’ultima volta il tema della supplica, ma la situazione è adesso capovolta: il coro, dopo avere a lungo supplicato Edipo, dopo l’accorato invito dello speaker, gli dona adesso tutta la sua compassione. La scansione temporale in terzine, stavolta affidata a timpani, violoncelli e contrabbassi, su in intervallo di terza minore, non è più classificabile come semplice tema, ma come la culla di tutto il dramma. E va man mano spegnendosi, mentre cala il sipario alle spalle di Edipo.