Educazione civica sovversiva • Uno strappo al cuore e una speranza • La pedagogia degli “scarti” e dei “cortocircuiti” •
Immigrati a vita o cittadini a pieno titolo? • Le proposte di Sbilanciamoci! •
Se l’arte ci prende per mano • Il padre di
Villi • Il condominio di vetro • Il ministro
esterofilo • Metafore per l’insegnamento
delle scienze • Brutta storia la Storia contemporanea italiana • Per essere “cittadini digitali” basta “stare” in rete? • Un po’
apocalittico e un po’ nostalgico • I giorni
felici • TEXT Il potere delle idee
Ordine e discipline
DICEMBRE 2009
TEMA
NUOVA SERIE NUMERO 75 - DICEMBRE 2009 (1. 2009) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 8 EURO
idee per l’educazione
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
NUMERO 75 DICEMBRE 2009
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Educazione civica sovversiva • ANDREA BAGNI
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Uno strappo al cuore e una speranza • MARIA CRISTINA MECENERO e CHIARA NEROZZI
TEMA ORDINE E DISCIPLINE a cura di CELESTE GROSSI
Il destino della scuola pubblica al di là della resistenza • PAOLO CHIAPPE
Insegnare a chi non ci assomiglia • ROSALBA CONSERVA
E se fosse una vendetta? • FILIPPO TRASATTI
Ordine e disciplina. La situazione italiana e europea • PINO PATRONCINI
Il cinema fatto dai bambini • STEFANO VITALE
La scuola, il cinema, la collina • A cura di FABIO CANI
IDEE PER L’EDUCAZIONE
La pedagogia degli “scarti” e dei “cortocircuiti” • MONICA ANDREUCCI
Immigrati a vita o cittadini a pieno titolo? • MAURIZIO DISOTEO
Le proposte di Sbilanciamoci!
ESPERIENZE NARRATE Se l’arte ci prende per mano • DONATA GLORI
NUOVI ARRIVI Il padre di Villi • LIDIA GARGIULO
NOTE IN CONDOTTA Il condominio di vetro • ANDREA BAGNI
MAPPAMONDO
L’ERBA DEL VICINO Il ministro esterofilo • PINO PATRONCINI
DE RERUM NATURA
Metafore per l’insegnamento delle scienze • MARCELLO SALA
MODI E MEDIA
Brutta storia la Storia contemporanea italiana • CELESTE GROSSI
NAVIGO ERGO SUM Per essere “cittadini digitali” basta “stare” in rete? • EDOARDO CHIANURA
IL LIBRO Un po’ apocalittico e un po’ nostalgico • PAOLO CHIAPPE
HUMUS
ANNI VERDI I giorni felici • STEFANO VITALE
TEXT
Il potere delle idee • FILIPPO TRASATTI
TREND • LORENZO SANCHEZ
FOTO DI COPERTINA: LEONARDO MALTESE
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via Magenta 13,
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Vitale
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
edit
Educazione civica
sovversiva
ANDREA BAGNI
L’
educazione civica questo governo dovrebbe proibirla per decreto. Poche discipline appaiono così naturalmente rivoluzionarie. È la banalità della democrazia, l’abc dello stato di diritto che sembrano fare problema. A partire dalla scuola.
Nel collegio si vota il pof, l’insieme dei progetti e dei progettini. Ci sarebbe da discutere un
bel po’, ma il collegio vota solo il pacchetto dei titoli, poi l’rsu (organismo sindacale in cui potrebbero anche non esserci docenti) con il dirigente stabilisce tutto il resto: quante persone,
quante ore, cioè quali priorità didattiche nell’uso delle risorse. Gli insegnanti rsu partecipano
al collegio, però mica intervengono. Tanto hanno la democrazia rappresentativa per correggere le decisioni della democrazia diretta. E lo dicono proprio, sono orgogliosi del loro potere di
supervisione. Va da sé che qualcuno comincia a chiedere, ma se alla fine decidete voi eletti,
allora perché venire a questi pallosissimi collegi? La democrazia è faticosa.
Le assemblee sindacali non sono meno buffe certe volte.
Gli ata chiedono di aumentare nel contratto di istituto la
quota del fondo loro spettante. È cresciuto il lavoro delle
segreterie con l’autonomia. Naturalmente l’aumento va a
danno dei docenti. Che dicono subito, anche il nostro lavoro è aumentato. Va be’ votiamo. I prof sono trenta, gli
ata dieci. I voti trenta a dieci, chi se lo sarebbe immaginato.
Le assemblee degli studenti in autogestione quando fanno
un esempio degli sprechi da tagliare invece della scuola,
non fanno più il classico riferimento alle spese militari,
dicono che lo spreco scandaloso è il parlamento. Sapete
quanto guadagna un parlamentare? E non mettono in conto coca trans ed escort... Hanno fatto nascere un nuovo
soggetto politico, i maggiorenni firmatari: loro è la responsabilità, loro le decisioni, tocca a loro concedere autogestione o occupazione. Un dono dell’élite per le masse.
Il principio di maggioranza invece salta fuori contro la
sentenza europea sul crocifisso nelle aule. Non è un simbolo religioso che offende i non cattolici, si dice: è un
nostro simbolo culturale, una tradizione. Come gli spaghetti. La pommarola. E Claudio Magris
ironizza sui “delicatini” che si sentono discriminati. Guai pensare che le cose spirituali sarebbe bene viverle spiritualmente, al riparo dalle burocrazie degli stati. Guai pensare che non può
deciderlo un appartenente alla confessione che quel simbolo non è di appartenenza confessionale. Siamo la maggioranza decidiamo noi.
Ti scoraggi un po’, sia per gli studenti che per i Maestri. Poi leggi che il Presidente del
Consiglio dice che il governo italiano, voluto dal popolo, è frenato da altre istituzioni che non
sono elette dagli elettori. È uno scandalo, un golpe contro la volontà popolare. Uno scandalo?
È l’essenza dello stato di diritto, della divisione dei poteri, l’idea stessa di democrazia costituzionale. Porre dei limiti al potere in nome dei diritti dei singoli. Allora quando spiegheremo
queste cose in classe ci diranno che siamo sovversivi. Che facciamo politica. Sarà vero, ovviamente. Merito del vecchio sapere disciplinare.
Il fatto è che non si difende la Costituzione se non si pratica: se non si porta sulla scena pubblica la vita che circola nelle scuole, nelle piazze, nella società, a partire da noi stessi. Se non
si vive quella vita. Se solo si sceglie ogni cinque anni il sorriso migliore, affidandosi all’imperatore e alla sua corte luccicante. La democrazia è faticosa. Ma potrebbe essere entusiasmante.
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Uno strappo al cuore e una
speranza
Lottiamo ancora per incontrare con
piacere l’infanzia nella scuola primaria
pubblica
MARIA CRISTINA MECENERO E CHIARA NEROZZI
L
a scuola pubblica sta profondamente
cambiando. Chi non se ne occupa direttamente, ma è un po’ curioso e attento, capisce che
è in atto una crisi; chi ci lavora o se ne interessa direttamente (genitori e insegnanti),
per tutto lo scorso anno scolastico, ha impiegato energie per capire e far capire cosa sarebbe accaduto e ora si trova in uno stato di
stordimento: da un lato si cerca ancora di far
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emergere ciò che sta avvenendo a causa dei
tagli di personale, dall’altro si oscilla tra stati di impotenza e di resistenza. Per alcune è
già rassegnazione, per altre la scuola è difficile da difendere perché non andava bene
neanche prima. L’annunciata demolizione del
tempo pieno ha scatenato le ribellioni dello
scorso anno, ma l’erosione attuata in questi
mesi non ha lo stesso effetto di reazione da
parte di tante colleghe che, tutto sommato,
possono sentirsi rassicurate da un impianto
organizzativo ancora temporaneamente garantito.
Vorremmo mostrare quello che è in gioco,
secondo noi. Siamo affezionate alla nostra
scuola e appassionate al nostro lavoro, ci teniamo. Abbiamo bisogno che la consapevolezza di quello che si sta rischiando si am-
plifichi e che questo momento buio diventi
occasione per riaccendere un interesse sul valore che ha per una società un sistema scolastico pubblico che riesce a incontrare e ad
accogliere l’infanzia.
Apparenze
Io, Chiara, sono una maestra di Bologna e
la mia scuola è già l’immagine di quello che
lentamente accadrà al sistema scolastico. Le
maestre che sono andate in pensione non
sono state sostituite. L’anno scorso, il lunedì,
la mia classe andava a rotazione per piccoli
gruppi nel laboratorio di informatica o in biblioteca; il martedì e il giovedì si organizzavano, al bisogno, piccoli gruppi di rinforzo e
recupero o attività d’arte particolari; il venerdì due miei alunni potevano essere seguiti in
un percorso di alfabetizzazione. Quest’anno
nessuna di queste attività è praticabile.
Nel mio plesso convivono due organizzazioni orarie (modulo, 30 ore; tempo pieno 40).
La normativa prevede per il modulo un’unica insegnante (22 ore di lezione) riconoscendo così un tempo scuola che non corrisponde
alla realtà delle richieste delle famiglie: anche considerando l’inglese e religione non si
raggiungono le 30 ore. Per le classi a tempo
pieno sono previste due insegnanti per una
classe. Apparentemente il tempo pieno sembra non perderci nulla.
Le maestre del tempo pieno spendevano, fino
all’anno scorso, tutte le loro ore di lezione su
un’unica classe, si avevano così due momenti
settimanali dove le due insegnanti erano assieme: le cosiddette ore di compresenza. La
normativa (DPR n. 89 del 20/3/2009) afferma
che quelle ore non sono più della classe ma
dell’istituto e, prioritariamente, vanno utilizzate per coprire il tempo scuola richiesto dalle famiglie e “in subordine, per altre attività
volte a potenziare l’offerta formativa” ovvero: quel che resta si può utilizzare per uscite
didattiche, gruppi di recupero e/o approfondimento, laboratori¹. Il problema è quel che
resta: non resta a tutte le scuole lo stesso
numero di ore e questo porta ad avere occasioni formative diverse da istituto a istituto
(in alcune realtà scolastiche non resta praticamente niente).
Ritmi e tempi
Altro aspetto da sottolineare di questa nuova organizzazione è la devastazione dei ritmi e dei tempi dell’attività didattica: alcune
maestre esauriscono il loro orario su un’unica
classe, altre lo completano insegnando alcune discipline o occupandosi del tempo della mensa di altre classi. Altre ancora non lo
esauriscono nelle classi e rimangono a disposizione del plesso prioritariamente per alunni
e alunne disabili (nella mia scuola abbiamo
10 ore scoperte in due classi con handicap
grave) o per gruppi di recupero formati da
bimbi e bimbe di diverse classi (solo 12 ore
in tutto per 14 classi: a questo si è ridotta
l’offerta formativa). Il risultato è un incastro
orario che ha del perverso: ci sono bambini e bambine che hanno otto insegnanti che
turnano sulla loro classe (ma in altre scuole,
per esempio in provincia di Verona, sta andando anche peggio e si arriva fino a 12 insegnanti).
Davanti a questo scenario le reazioni sono le
più diverse e fantasiose: genitori giustamente preoccupati che si offrono di accompagnare le maestre nelle uscite didattiche²; Regioni
che offrono soldi per progetti; il Ministero,
attraverso gli Uffici Scolastici Territoriali, che
offre la retribuzione di ore di straordinario
alle insegnanti di ruolo per coprire le supplenze o le ore di inglese, invece che nominare nuove maestre; Comuni che pensano di
coprire le mense con educatori e chi più ne
ha più ne metta.
In alcune scuole i dirigenti hanno chiesto
alle maestre di usare una parte delle ore di
compresenza per le supplenze; alcune maestre hanno fatto sostituzioni perfino durante
l’attività alternativa alla religione cattolica,
a scapito dei bambini a cui sono destinate
quelle ore. Bisognerebbe che le insegnanti
pretendessero ordini di servizio per tutte le
richieste di supplenza: solo una dimostrazione oggettiva dei cambiamenti può essere motivo di denuncia, ma le maestre faticano a
contrapporsi ai dirigenti e a stare in un aperto conflitto.
Difficile è anche per i dirigenti contrapporsi alla politica del ministero: a Milano sette
presidi hanno ricevuto una lettera di richiamo
e stanno subendo un’ispezione per aver dichiarato ai media l’insolvenza economica dello Stato nei confronti delle scuole. Le scuole non hanno i finanziamenti necessari, ma
i dipendenti non devono dichiararlo pubblicamente! La strategia in atto, però, è chiara sempre più a molte di noi. I cambiamenti
vengono provocati poco per volta, il disegno
che li orchestra è preciso, ma gli effetti immediati sono differenti.
Relazioni
A Bologna c’è un modo di dire: “piuttosto
che niente meglio piuttosto”. Citiamo questa
espressione perché ha molto a che fare con la
tendenza delle maestre e delle madri ad essere pratiche, cercando, davanti al poco, di fare
comunque il meglio per il benessere delle piccole e dei piccoli.
Tendenza questa che abbiamo sempre giudicato positiva e creatrice di pratiche di cura
e educative sulle quali si è fondata la scuola
primaria e dell’infanzia. Questo atteggiamento, negli anni ‘70, ha portato ad integrare
l’handicap nella scuola quando ancora, in termini di legge, non era prevista l’insegnante
di sostegno e ha dato origine a vere e proprie
invenzioni didattiche per andare incontro a
tutte e a tutti (lavorare per piccoli gruppi,
utilizzare il territorio come un’immensa aula
didattica per dare occasioni vive e pratiche di
apprendimento, organizzare laboratori creativi utilizzando il sapere dei nonni). E dai primi
anni Novanta andare incontro all’infanzia ha
voluto dire pensare e costruire un ambiente
scolastico che tenesse assieme bimbe e bimbi di diverse culture. Abbiamo sempre avuto
classi formate da figli di famiglie di estrazione sociale differente: madri docenti universitarie, badanti e signore delle pulizie, direttrici di banca. Tutte loro si sono affidate alla
stessa scuola, delegandole l’istruzione e la
crescita dei loro figli non avvertendo, anche
chi poteva permetterselo, il bisogno di cercare qualcosa in più nella scuola privata (e
si noti bene che quest’anno sul nostro territorio le iscrizioni alle private sono aumentate). Oggi però la tendenza delle maestre ad
aggiustare e adattare idee e soluzioni per il
bene delle piccole e dei piccoli ci si ritorce
contro: le politiche educative-economiche la
stanno sfruttando e strumentalizzando.
Stiamo vivendo in diretta la cancellazione di
tutto quello che le maestre hanno costruito:
una scuola elementare che teneva assieme. La
nostra scuola pubblica avrebbe avuto bisogno
di un’opera di “restauro” in termini di interventi per sostenerla, proprio come si fa con
un tessuto di pregio che si è nel tempo scolorito, strappato in alcuni punti, ma di cui si
riconosce il valore, e quello lo si vede nelle parti, ancora molte, che mantengono tinte
e trame e disegni come erano all’inizio: era,
anzi è necessario un investimento economico
per rilanciare e valorizzare le realtà che funzionano e portare supporto alle altre. La sottrazione di insegnanti, invece, toglie possibilità organizzative creando vortici di vuoto:
una “schizofrenica ansia da funzionamento”
che compromette la relazione con bambine e
bambini.
Ci viene chiesto di far fronte ad ogni emergenza: sostituire una collega o suddividere le
classi, sostituire a turno l’insegnante di sostegno, sia per mancanza delle ore necessarie che per assenza; accogliere un bambino appena arrivato che non parla l’italiano;
fronteggiare, in solitudine, e stare vicino a
una qualsiasi crisi che bambini e bambine
attraversano nelle ore di scuola perché è lì
che passano la maggior parte del loro tempo di vita. È la frantumazione del nostro lavoro. Questo funzionamento schizofrenico sta
creando nelle maestre un grande contraccolpo emotivo che devasta quel territorio relazionale, su cui poggia lo stare a scuola con i
piccoli e le piccole.
A Bologna ci sono madri e padri, maestre e
maestri affezionati alla scuola (per esempio
nell’esperienza dell’“Assemblea delle scuole”)
che stanno facendo grandi sforzi per riattivare spazi di confronto e sostegno. È in atto
un’interlocuzione anche con gli Enti del territorio perché tutti ripensino alle proprie responsabilità, perché ci si chieda cosa vogliamo farne della relazione con l’infanzia, per
riaprire, ci auguriamo, spazi di luce.
NOTE
1. È il Collegio docenti che deve deliberare sull’utilizzo di tali ore. Là dove non è accaduto o le insegnanti si sono affidate alla gestione dei dirigenti,
le ore destinate all’offerta formativa sono state impegnante tutte per supplenze (possibilità non prevista dalla normativa).
2. Per le uscite didattiche, la normativa stabilisce
un insegnante ogni quindici alunni. Nella quasi totalità dei casi abbiamo classi che superano i venti alunni.
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TEMA
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Ordine e discipline Il controllo sociale
nella formazione scolastica
CELESTE GROSSI
I
l tema di questo numero raccoglie la sintesi delle relazioni svolte dalle donne e dagli
uomini che ci hanno accompagnati nella discussione nel seminario “Ordine e discipline.
Il controllo sociale nella formazione scolastica” che école ha organizzato, in collaborazione con la Fitcemea - Federazione Italiana dei
Cemea (Firenze, 12 settembre 2009).
Nei materiali preparatori Filippo Trasatti scriveva: «Si fa ancora fatica a capire quanto nell’attuale politica scolastica della ministra sia
dovuto a mere esigenze di cassa (tagli nel
personale docente, ata, ecc.) e quanto a un
coerente progetto politico culturale di destra,
volto a instaurare un autoritarismo dolce, populista e familista, che riporta nella scuola e
nella formazione alcuni aspetti peculiari dell’orientamento complessivo di questo governo, decisionista a colpi di decreti e ben poco
impaurito dal conflitto sociale. […] Anche
nell’ambito delle discipline, si vuol spacciare per ritorno allo studio serio, dopo anni di
permissivismo (dove?) la ripresa di contenuti tradizionali, il ritorno al Canone, il sudore
dello studio, spazzando via decenni di sperimentazioni, di riflessione pedagogica e didattica, e tutta intera la tradizione dell’attivismo
che è l’unico vero argine per una minima democrazia nella scuola che non sia burletta da
barzellettieri».
Questione ripresa da Paolo Chiappe: «[…] Il
ministro Gelmini ha ragione a dire che gli insegnanti sono contenti delle nuove norme sul
voto di condotta. Non è una svolta ma una
verifica: nei consigli di classe delle superiori
già prima di Gelmini c’era chi discuteva con
foga se dare otto o nove in condotta nonostante la mancanza di effetti pratici. Un dispositivo è stato rimesso all’opera con discreto successo. Come minimo assistiamo a un
tentativo di premiare in modo molto più sensibile di prima studentesse e studenti che si
mostrano in consonanza con le regole, i rituali, i ritmi e lo stile comunicativo di questa
scuola che non ha modificato il set da tempo immemorabile. […] Se da un lato il corpo
della scuola in tutto questo non ha fatto altro
che seguire le mode sociali securitarie, dall’altro esiste una specificità della condizione
e del trattamento degli adolescenti. La società e le famiglie concedono in modo mercificato e consumistico anche troppe libertà e sembrano voler compensare questa incapacità di
porre limiti seri con l’affidamento per circa
sei ore al giorno dei ragazzi a una istituzione
che non fa altro che porre limiti e proporre
premi di buona condotta abbastanza simili ai
bigliettini colorati di cui faceva incetta Tom
Sawyer trafficando con i compagni alla scuola domenicale».
È vero i movimenti delle scuole attivi all’inizio
dello scorso anno scolastico non hanno avuto molto da ridire sulle campagne ministeriali su grembiulino, voto di condotta e tutto
ciò che ci si può collegare, se non che fossero depistaggi dalle vere questioni, polverone
per occultare i tagli. E non si sono resi conto, come ha detto Andrea Bagni «l’economicismo di Gelmini e Tremonti è una pedagogia,
e straordinariamente invasiva. Disegna la sua
scuola. Voti e grembiulini, trasmettere conoscenze e controllare le condotte. Selezionare.
Discipline e disciplinamenti. Svuotare di etica
il fare scuola e moltiplicare dall’alto i giudizi
morali: condotta, crediti formativi, ora di religione. Per questa scuola della semplificazione bastano pochi insegnanti: niente laboratori, compresenze, ricerca; niente uscite, gite,
cura delle relazioni di gruppo. Importa che le
cattedre poggino di nuovo sul piedistallo (da
cui le aveva fatte scendere il 68, che dev’essere ancora vivo vista la paura che suscita) e
che il registro sia pieno di numeri».
Sulla decisione di scegliere come argomento
del seminario la questione del controllo sociale nella formazione scolastica ha pesato la
consapevolezza che Mariastella Gelmini (e i
suoi compagni di governo) avessero vinto la
prima mano della partita con le scuole.
Non avevamo previsto che la seconda mano
della partita sarebbe stata meno favorevole al
governo. L’anno scolastico 2009/2010 è iniziato con la scuola sui tetti (così come non
avevamo previsto che il 2008/2009 iniziasse con le lezioni in piazza e con l’Onda). Ma,
come dopo l’onda è venuta la risacca, così le
precarie e i precari sono scesi dai tetti e tornati alla loro solitudine triste.
E certo tra le lezioni in piazza e i precari sui
tetti vediamo delle differenze. Gli studenti
dell’Onda erano un soggetto collettivo, a settembre ci è sembrato che ci fossero più persone arrabbiate dello scorso anno − genitori,
studenti, ex-precari licenziati −, ma sul proprio caso singolo.
Noi siamo convinti che niente cambierà finché le lotte degli insegnanti e degli studenti
saranno solo fatti stagionali, finché i milioni
di cittadine e di cittadini interessati accetteranno passivi, le regole di questa scuola del
voto e del registro, in cambio della propria
“sicurezza” individuale.
Niente cambierà finché non si ricomincerà a
parlare seriamente di democrazia.
Il destino della scuola pubblica al di là della resistenza
La burocratizzazione della scuola moderna è un processo non
intenzionale, che apre spazio, per reazione, fra l’altro alla
demagogia semplificatrice delle destre e a quella di Brunetta
in particolare che ha vari ammiratori non solo a destra. Esiti
non voluti dei tentativi di ridurre la complessità e di eliminare
l’imprevedibilità e il rischio sono la crescente complicazione, la
ridondanza normativa e la difficoltà decisionale
PAOLO CHIAPPE
C
erto questo non è fenomeno solo scolastico, e non è solo per questo motivo, ma
anche per le mutazioni antropologiche dei
giovani, che diventa sempre più opaco e faticoso vivere e far emergere il momento dell’incontro educativo sorgivo primordiale, sia
sul piano cognitivo che relazionale, quel momento che è motore di autenticità e che richiede una dose di disponibilità ingenua,
di libertà da entrambe le parti, educatori e
educati. È invece intenzionale il tentativo di
questo governo (ma anticipato da Fioroni) di
ricostruire un principio di severità o l’immagine di un tale principio, cioè di dare dimostrazione di una capacità di controllo sociale. Questo tentativo è stato colpevolmente
considerato innocuo o folcloristico o addirittura accettabile anche a sinistra.
La lotta dei precari-disoccupati della scuola è prioritaria perché fa quasi tutt’uno con
la difesa della scuola pubblica intesa come
offerta universale, obbligatoria per lo stato, laica gratuita e unificante per la società,
premessa e frontiera di resistenza per qualsiasi passo avanti nella qualità. Nello stesso
tempo questa lotta non delinea ancora l’altro orizzonte educativo di cui c’è bisogno per
rispondere al carattere esplosivo del proble-
ma giovani nella società occidentale in piena globalizzazione. Se non si prendono le distanze dal modello burocratico-quantitativo,
non c’è una risposta all’altezza della questione da parte del sistema pubblico. Questo potrebbe ridursi a un sistema povero e riservato alla custodia di elementi sociali sfavoriti,
in preda alle proprie stesse pulsioni autodistruttive e barbariche.
Certo nelle lotte dei precari si parla già di
necessità di scuola-laboratorio, ma questo
discorso non è ancora approfondito al di là
dell’argomento di propaganda. Il sistema ha
una inerzia di autoriproduzione immensa, le
furibonde discussioni scalfiscono appena la
superficie.
La scuola del futuro
La resistenza ai cambiamenti è dovuta certo anche alla sotterranea consapevolezza degli insegnanti, stabili o precari, che la scuola del futuro se gestita in senso manageriale
potrebbe essere una scuola a maggiore intensità di capitale tecnologico e minore intensità di lavoro.
C’è una naturale paura della competizione
tra corsi che si verrebbe a rendere possibile
con la caduta delle barriere geografiche. Ma
i grandi processi epocali fanno ormai capolino dietro le speciali e speciose questioni italiane. Ci sono due modelli di insegnamento a
confronto, quello dell’età moderna in declino (ma non destinato a scomparire a breve)
e un altro che sta nascendo e che riprodurrà in modi diversi lo scontro tra democrazia
e oligarchie.
La burocratizzazione della scuola moderna è
un processo non intenzionale, che apre spazio, per reazione, fra l’altro alla demagogia semplificatrice delle destre e a quella di
Brunetta in particolare che ha vari ammiratori non solo a destra. Non mi riferisco alla
burocratizzazione originaria della scuola in
senso weberiano, cioè alla sua trasformazione in ente statale regolato da norme, ma alla
implosione procedurale che si instaura a un
determinato grado di sviluppo di questo sistema. Si tratta di un processo molecolare
con “effetto domino” che è l’esito non voluto dei tentativi di ridurre la complessità
e di eliminare l’imprevedibilità e il rischio.
Questo esito è quello di crescente complicazione, ridondanza normativa e difficoltà decisionale, e certo non è fenomeno solo scolastico. Non solo per questo motivo, ma anche
per le mutazioni antropologiche dei giovani,
école numero 75 pagina
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diventa sempre più opaco e faticoso vivere e
far emergere il momento dell’incontro educativo sorgivo primordiale, sia sul piano cognitivo che relazionale, quel momento che
è motore di autenticità e che richiede una
dose di disponibilità ingenua, di libertà da
entrambe le parti, educatori e educati. Sul
piano amministrativo poi c’è da registrare il
fenomeno grave dell’ingorgo funzionale delle
segreterie e del fallimento dei provvedimenti di semplificazione amministrativa più volte annunciati.
La bomba giovani
In questo contesto va collocato il tentativo
soggettivo e intenzionale di questo governo
(ma anticipato da Fioroni) di ricostruire un
principio di severità o l’immagine di un tale
principio cioè di dare dimostrazione di una
capacità di controllo sociale, tentativo che
è stato colpevolmente considerato innocuo
o folcloristico o addirittura accettabile anche a sinistra e che io propongo di esaminare
per un momento depurato da tutti le pur inevitabili considerazioni umoristiche del genere “senti da che pulpito”. La legge Brunetta
(l.15 del 2009) e altri provvedimenti e fatti
mostrano che c’è una diminuzione effettiva
dell’agibilità democratica e dei diritti individuali. Forse però tutto questo non si può interpretare nei termini di tradizionale repressione politica, che pure c’è, come nel caso
della dirigente consigliera comunale di cui
è stata messa in discussione dall’interno del
governo la possibilità stessa di libere esternazioni, un fatto che mostra una pericolosa e
fino a ieri inimmaginabile propensione di chi
ci governa a militarizzare il personale. Dietro
il presunto ritorno alla serietà c’è anche una
richiesta sociale tanto forte quanto confusa di dare certezze famiglie e inquadrare la
bomba rappresentata dal pianeta giovani.
C’è una specie di tacito accordo generale nel
mettere da parte il concetto e anche la parola democrazia riguardo alla gestione delle
scuole, come sistema e come singolo istituto. Non solo di repressione politica partigiana si tratta quindi, ma anche e soprattutto
di tentativo di autoconservazione o meglio
autodilazione che nasce dall’interno di un sistema. Non ci sono dubbi che Gelmini e soci
voglio ridimensionare la scuola pubblica a favore di quella privata: è legittimo quindi parlare di vera e propria distruzione della scuola
pubblica, cioè del servizio pubblico egualitario gratuito e aperto a forme di gestione dal
basso. Ma se si guarda più in prospettiva siamo di fronte a un profondo conservatorismo
della forme del fare scuola.
Già Durkheim aveva notato la tendenza all’autoconservazione e all’autonomizzazione dei sistemi scolastici, secondo Bourdieu
e Passeron (1970) questo è particolarmente
caratteristico dei sistemi scolastici di origine
gesuitica, come quelli italiano e francese. Ma
la dilazione di questo sistema di scuola pubblica potrebbe portare semplicemente alla
fine della scuola pubblica perché le impedisce di porsi le domande importanti in queécole numero 75 pagina
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sto momento. Certo la società non esprime
solo esigenze di efficacia nell’apprendimento, esprime anche la richiesta di sicurezze e
di stabilità pratica e simbolica. L’impronta
paleomoderna della nostra scuola non vuole dire quindi automaticamente che la scuola di questo tipo sia una foglia secca che sta
per cadere. Nell’iperaccelerazione rivoluzionaria creativa ma anche minacciosa per tutti del mondo attuale c’è un bisogno primario
di certezze che si rivolge come ad un’ancora di salvezza a ciò che è noto e ripetitivo.
E questo potrebbe spiegare certe mode quasi
ottocentesche accettate con entusiasmo dal
senso comune. L’ultima è quella di caricare
di compiti e letture i ragazzi anche durante l’estate.
Il vissuto quotidiano scolastico peraltro si
barcamena tra tentativi di “politica delle relazioni”, tentativi più o meno goffi o disperati o riusciti di salvare la serietà dello studio e l’attaccamento al libro, e anche però è
pervaso dalla conflittualità tra le due tribù
dei giovani e degli adulti che tende a individualizzarsi e assumere forme paralegali all’americana in una sorta di piccolo equilibrio
del terrore reciproco (mi sembra interessante
questo sito in proposito http://www.notadisciplinare.it/genio-del-male/rapporti-con-ilprofessore).
La bomba-giovani è uno degli argomenti del
saggio di Marco Lodoli sulla scuola, Il rosso
e il blu [vedi recensione in questi stesso numero di école]. Interessante nel libro il concetto di doppio binario dell’esistenza degli
adolescenti, doppio binario che indica, a mio
parere, non un equilibrio ma una situazione
di straniamento da se stessi.
L’accesso ai saperi
In Italia abbiamo risposte provinciali anche
se diverse, dalla introduzione degli immaginari dialetti regionali al ricorso massiccio a
corsi di recupero che sono minestre riscaldate, o risposte burocratiche e ottuse come
i test di accesso alle facoltà, come tentativi
di stabilizzazione e rassicurazione di fronte
a questioni enormi e destabilizzanti ma che
sono anche sfide verso l’unificazione umana
come questi: fine dei mercati del lavoro nazionali e protetti, digitalizzazione della produzione, sradicamento di fabbriche e imprese
dal territorio, intensificazione della comunicazione su base anglosassone nell’intero pianeta, crescente rete di interdipendenze, declino delle strutture collettive e socializzanti
nel lavoro, flessibilizzazione del tempo ecc.
Per i genitori diventa impossibile calcolare
per esempio quanto del tempo passato dai figli al computer ha carattere educativo.
Con Internet l’accesso al sapere non è più
limitabile al formato libresco, e il controllo dell’accesso a questo sapere e il controllo
delle fonti diventa difficile se non impossibile, e questo a tutti i livelli di scuola e università.
La schizofrenia dei binari paralleli
Le conseguenze della globalizzazione sono
visibili nel quotidiano e quindi agiscono
come fattori educanti, anzi i più potenti, e
certo se non si forniscono gli strumenti per
orientarsi criticamente sono anche pericolosi. C’è da chiedersi per quanto tempo ancora
potrà andare avanti la schizofrenia del binario parallelo.
In ogni caso è evidente che la qualità delle scuole del futuro non sarà certo ricercata
nelle loro procedure di distribuzione dei voti,
orario settimanale, organizzazione di progetti, materiali cartacei ecc. ma solo nella loro
capacità di far acquisire competenze verificabili e vincenti.
In una visione ampia il conflitto è tra le
strutture o i ruderi delle strutture del fare
scuola della modernità, fondate dai gesuiti
e consolidate da Napoleone (tempo lineare diviso in segmenti orari, lavoro collettivo
di classe, presenza fisica e radicamento nel
luogo, velocità determinata dall’uso del manuale) e quella dei nuovi media globalizzati
in cui c’è prima di tutto uso individuale del
tempo e della tecnologia e certo un diverso
modo di stabilire connessioni intellettuali e
forse anche cerebrali. È perfettamente immaginabile un insegnamento adattato a questo
schema flessibile e anche con riduzione dei
costi e aumento dell’efficacia almeno in certi aspetti.
Si può già ottenere per esempio che tutti seguano lezioni di inglese tenute da madrelingua e l’insegnamento matematico-scientifico può fare un balzo avanti di metodo e di
contenuti. Lezioni seguite fisicamente a piccolissimi gruppi possono ormai alternarsi a
esercitazioni di massa per via telematica: il
momento di gruppo classe diventerebbe solo
uno dei momenti e avrebbe caratteri di regia
e tutoraggio e molto meno di lezione frontale ecc.
Da questo punto di vista la scuola elementare è la sola in parte attrezzata per affrontare
il cambiamento, non perché stia già facendo
chi sa che, ma perché ha organizzazione e
ritmi di lavoro meno segmentati. Siamo sulla
soglia oltre la quale le scuole dovranno porsi
la questione se sia accettabile l’ammissione
dei portatili individuali degli alunni e se fornire loro la connessione wireless. E sia dire
di no che dire di sì sono scelte difficili che
comportano conseguenze.
Di fronte a queste prospettive dell’avvenire
immediato occorre ribadire che l’educazione
non può essere completamente individualizzata né affidata al solo mercato e che rimane compito dello stato garantire lo zoccolo
duro dell’istruzione in termini di conoscenze
e di competenze, e ciò non solo per motivi
di equità sociale ma anche di salvaguardia
dall’imbarbarimento intellettuale e dall’impoverimento estetico tipico della mondializzazione capitalistica, ma questo sarà ancora
possibile solo se la scuola pubblica accetta la sfida della trasformazione, altrimenti
il terreno educativo sarà occupato da forze
ostili e pericolose per la democrazia e per la
cultura, dalle destre identitarie alle multinazionali dell’istruzione e dell’informatica.
Insegnare a chi non ci assomiglia Lo studio (studiare è una
“invenzione” delle culture scritte: le culture orali non studiano)
richiede concentrazione, uno stato di “intimità” (chiunque studi
lo sa benissimo − la composizione di un tema, per esempio,
è una esperienza di “intimità”). Legittimamente qualcuno si
chiede se la storia, la grammatica, la letteratura… servono oggi.
La risposta è sì, ma solo se sono ben fatte. La tradizione non è
“sbagliata” perché diversa dalla modernità o ad essa ostile: ci
tramanda invece cose che sono sopravvissute nel tempo e che
quindi hanno mostrato una loro “saggezza” e vitalità. Si tratta
semmai di accogliere con pensieri nuovi, e calibrare sul nostro
tempo, le “cose buone del passato”
ROSALBA CONSERVA
V
orrei superare le analisi sociologiche −
non che non ci aiutino (anzi, ci aiutano a capire questo nostro tempo). Esse hanno tuttavia il “difetto” (si fa per dire) di essere troppo convincenti (facilmente vengono prese
come verità assolute), e potrebbero perfino
rassicurarci! Se la realtà è questa (una politica scolastica sciagurata), che posso farci io?
−. E vorrei proporre di guardare alle medesime questioni alla luce di una teoria generale
della conoscenza. Per condividere, da un altro
punto di vista, la necessità di impegnarsi sul
piano politico e culturale affinché la scuola
pubblica cambi per sopravvivere.
A che serve la scuola?
Un necessario presupposto riguarda la specificità dell’apprendimento culturale, di una
cultura (la nostra) che, evolutasi attraverso la
scrittura, ha suddiviso i “saperi” in discipline
distinte, frazionate, che hanno lo svantaggio
di non comunicare tra loro e il vantaggio di
rendere gestibili i saperi. Quali che siano le
nostre proposte innovative in ambito didattico, resta il fatto che una cultura scritta può
essere trasmessa e appresa (e magari padreggiata nei suoi specifici linguaggi) solo ripercorrendo modi e forme della sua struttura e
della sua peculiare razionalità.
Ma andiamo ancora più “a monte”. Proviamo a
chiederci se la scuola – a parte la prima alfabetizzazione – è davvero necessaria. A fronte di un quadro desolante (con tratti diseducanti), spesso mi sono chiesta: perché mai
dovremmo mandare i nostri ragazzi a scuola?
Nel corso di un convegno, un genitore pose
questa stessa domanda e si diede da sé la risposta: «Lì trovano cose che altrove non troverebbero».
Difatti è così: altrove troveranno chi insegnerà loro a danzare, per fare un esempio, ma la
scuola, è l’unico luogo dove un ragazzo imparerà a riassumere un testo altrui e a produrre testi (o discorsi parlati) coerenti, formalmente corretti – intendo “corretti” sulla base
di regole convenzionali, riconoscibili quindi come tali e stabilite dalla nostra tradizione culturale. La scuola insomma si occupa di
cose che altrove nessuno sa o può insegnare:
la matematica, la storia della scienza, l’analisi di un testo poetico ecc. Nessuno negherà
l’importanza dei saperi fondamentali, quelli
che identificano la nostra cultura (e che noi
insegnanti non possiamo arbitrariamente negare), ma è proprio qui che incontriamo la
difficoltà del fare scuola, di una scuola che
contrasti «l’impoverimento estetico» per usare un’espressione di Paolo Chiappe.
Disciplina mentale e disciplina fisica
Nel coltivare a scuola il mio piccolo “dominio” ho capito che anziché ricorrere a facili
(e inopportune) semplificazioni conviene elevare la qualità: i ragazzi sono sensibili ai ragionamenti sottili, profondi, e riconoscono,
accettano il ruolo centrale della conversazione (l’estetica del conversare ha però le sue
regole).
Ogni patrimonio culturale ha la sua base di
operatività, ed è così che passa la memoria
(consapevole e anche inconsapevole). Una
didattica laboratoriale non è solo quella più
adatta ai nostri ragazzi, incapaci di stare tutto il giorno seduti sul banco, è comunque e
dovunque necessaria affinché gli apprendimenti si radichino, ed è quindi importantissimo che ogni materia (ogni apprendimento)
comprenda attività di laboratorio. È anche
vero che non tutte ma certe lezioni (e la parola “lezione” non mi spaventa, anzi la trovo parola adatta a riassumere il contesto di
insegnamento-apprendimento) richiedono di
necessità che si stia intenti e attenti nel proprio banco ad ascoltare, a prendere appunti,
a seguire sul libro (o su altri supporti)... Ed
è augurabile che il tutto avvenga nella giusta compostezza: se vogliamo parlare di unità
di mente e corpo dobbiamo accettare il fatto
che la disciplina mentale si accompagna necessariamente a una disciplina fisica, corporea: infatti lo studio (studiare è una “invenzione” delle culture scritte: le culture orali
non studiano) richiede concentrazione, uno
stato di “intimità” (chiunque studi lo sa benissimo − la composizione di un tema, per
esempio, è una esperienza di “intimità”).
Legittimamente qualcuno si chiede se la storia, la grammatica, la letteratura ecc. servono oggi. La risposta è sì, ma solo se sono ben
fatte. La lettura di testi “classici” (letterari,
scientifici ecc.) sono, oltre che fonte di conoscenze nuove, una palestra per ragionare, per
rispondere a domande di senso. La grammatica è un serbatoio di regole, la parafrasi e il
riassunto sono un addestramento a osservare
le minuzie (non va mai incoraggiato l’allievo
a “scrivere come gli pare”: a scuola non tutta va bene).
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Un notevole aiuto ci viene dai libri di testo,
i quali riducono i rischi di discontinuità di
insegnamento: sono una guida – materiale
– imprescindibile. Democraticamente, il libro
offre (offrirebbe) a tutti la possibilità di studiare in tempi e luoghi a ciascuno più congeniali: la spiegazione dell’insegnante può essere stata dimenticata, si può averla ascoltata
distrattamente, si può essere stati assenti e
così via; il libro invece è lì, fedele compagno
di studio: basta mettersi a tavolino, con penna e foglio, con un buon dizionario, e studiarlo.
Immaginazione e rigore “fuori squadra”
So, per esperienza, quanto lontani sono i giovani d’oggi da ciò che per noi conta davvero.
Ma non dimentichiamo che un insegnante è il
massimo esperto di apprendimento: nessuno
come lui sa (dovrebbe sapere) come fare perché un allievo, date certe premesse (non tutte
favorevoli) impari ciò che non sa, o impari a
correggere i suoi errori di contenuto e di stile
di apprendimento (errori nell’ambito di certe
convenzioni).
Chi insegna non inventa da sé i “saperi”: inventa semmai le strade perché i giovani li acquisiscano. Insegnanti e allievi creano anche
modi di apprendere nuovi e inediti, ma ogni
“trasgressione” di norme e di linguaggi convenzionali si arresterà davanti a una soglia.
Per fare un esempio, essi potranno inventare
e concordare regole nuove di analisi grammaticale della frase, ma, quale che sia il nome
differente che daranno a nozioni quali “soggetto” e “predicato”, il loro nuovo modello di
analisi dovrà dar conto della relazione reciproca tra soggetto e predicato, o come altrimenti
vorranno chiamarli.
«Il tempo è fuori squadra», scriveva Bateson
nel 1978. L’immaginazione ha superato di
gran lunga il rigore: e chi deve combattere
l’obsolescenza?
Noi accogliamo il nuovo che ci viene dai nostri allievi, ci fidiamo di loro, della loro creaécole numero 75 pagina
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tività e spontaneità... Perché non dovremmo fidarci anche della nostra sensibilità, già
educata, che può agire da “filtro critico”, che
non incamera cioè automaticamente (e, chissà, sconsideratamente) i cambiamenti veloci
della modernità? E se questa nostra resistenza ad accettare il “nuovo” fosse un correttivo a un’epoca dove – per dirla con Bateson –
immaginazione e rigore sono “fuori squadra”,
avendo l’immaginazione oltrepassato di gran
lunga il rigore, vale a dire che sono stati accolti cambiamenti nuovi senza che siano stati
adeguatamente vagliati.
Saper leggere e scrivere – a livelli alti –, conoscere i fondamenti della fisica, l’evoluzionismo, la storia passata e presente, e così
via, è difficile dimostrare che siano un “danno” per un giovane.
La nostra limitata sapienza
Sorvolando sui dettagli, noteremo che gli insegnanti, pur rifiutando una didattica obsoleta, fanno le stesse cose. Forse le proposte
alternative (quelle radicalmente alternative)
non sono convincenti; oppure non abbiamo
l’immaginazione necessaria per combattere
l’obsolescenza e per praticare strade diverse.
Oppure questo nostro sapere può essere trasmesso solo in quelle forme consolidate.
Calibrare il programma alla classe, aggiornare metodi e contenuti: sembra facile. È un po’
come quando siamo davanti alla traccia di un
tema: da dove comincio?
E come districarsi nel mare magnum dei programmi?, dei saperi accumulati nelle biblioteche? Anche qui, oltre ai limiti imposti dalle
circostanze e dal tempo di cui disponiamo,
conviene accettare i limiti nostri come una
risorsa: è proprio a partire dal riconoscimento
che le nostre scelte sono definite, circoscritte in virtù della nostra (limitata) “sapienza”
che possiamo giudicare “giusta” o “sbagliata”
una nostra scelta.
Riguardo all’accumulo indiscriminato, acritico dei saperi e delle informazioni (i media,
Internet e così via), noi possiamo attuare una
affannosa rincorsa per far entrare “la vita reale” − come suol dirsi − nelle aule scolastiche, oppure possiamo agire in senso contrario: staccare la spina per occuparci non della
quantità ma della qualità. La scuola diventa
così obsoleta? Forse. Ma l’obsolescenza della
scuola anziché uno svantaggio potrebbe costituire una risorsa: mentre altrove la velocità domina, scarsa è la cura per le forme e per
i minimi particolari, qui invece… Trarremo
profitto dal parziale isolamento (fisico e
ideale) della scuola per occuparci d’altro: dei
processi più profondi, quelli che hanno una
durata nel tempo. Credo che le suggestioni
della modernità non debbano essere l’unico e
centrale oggetto di studio, se pure di studio
critico. Il tempo che abbiamo è limitato: un
anno scolastico, a dirlo, sembra tanto, invece… Conviene sollecitare, ascoltare, coltivare nei giovani ragionamenti complessi e non
banali. Solo così potranno, crescendo, immaginare soluzioni che in noi adulti sono viziate
(si fa per dire) da pre-giudizi. E tuttavia questi − i nostri pregiudizi, vale a dire le nostre
più radicate convinzioni − sono sia il nostro
limite sia la nostra forza.
“Enciclopedie” distanti
La scuola di massa, la scuola di tutti – che segna la più importante e decisiva discontinuità
con il passato – richiede una professionalità
nuova e più alta. Dobbiamo avvertire l’enormità dell’impresa, la sua valenza politica al fine
di garantire una vera democrazia.
La scuola superiore fu concepita per pochi,
entro una società diversa: fino a qualche decennio fa (un tempo recentissimo rispetto alla
storia dell’istruzione in Occidente) la scuola
superiore selezionava preventivamente gli allievi da istruire, e insegnati e allievi erano
omogenei, condividevano una stessa enciclopedia. Oggi capita spesso di insegnare a chi
non ci assomiglia, a ragazzi e ragazze di famiglie poco alfabetizzate, accolti quindi nel-
la scuola media e nella scuola superiore per
via dei tempi mutati e delle nuove leggi. E
così, tanti insegnanti di scuole così dette di
serie B (tecnici e professionali) si sono specializzati a insegnare a chi non sa o non ama
studiare. A pensarci bene, la reticenza ad accettare la fatica che lo studio comporta è un
atteggiamento direi quasi “naturale”: sfuggire alla condanna dello stare inchiodato sul
banco, e a fare i compiti a casa, accomuna generazioni di allievi, dal giovane scriba
(come si legge sulle tavole assire) al bulletto romano che non risponde nemmeno se interrogato.
Niente di nuovo sotto il cielo, quindi. Di nuovo c’è, da qualche tempo e specie nelle scuole
cosiddette di serie B, una distanza maggiore
tra insegnante e allievo riguardo alle rispettive “enciclopedie” (non parlo di nozioni, ma
di riferimenti e di atteggiamenti culturali).
Questa distanza – che è “vera” per il fatto che
un insegnante la percepisce – potrebbe costituire una risorsa: in virtù della differenza
generazionale e culturale gli insegnanti imparano una differente visione del mondo da
accostare alla propria; e c’è di più: lavorando
in situazioni difficili e studiando contemporaneamente (e per necessità) teorie della conoscenza, imparano a capire, e meglio, qual è la
specifica natura dell’imparare a scuola.
Imparare a scuola non è oggi (né lo era nel
passato) una comoda passeggiata.
Un insegnante deve tenere sotto controllo e
gestire tante variabili: i numerosi “accidenti”
che gli rendono difficile portare avanti il programma, come suol dirsi, e tenere a bada e
contrastare la tendenza di tanti allievi a non
riconoscere le responsabilità che sono soltanto loro (nessuno può insegnare a chi non
vuole imparare, né si può fare scuola a ragazzi che ignorano come si sta a scuola).
L’asimmetria della relazione educativa
Una cura particolare va riversata sulle forme,
sui rituali, anche alle superiori. Nei rituali
sono infatti impliciti messaggi sul contesto
e sulla relazione insegnante-allievo, una relazione che è asimmetrica, gerarchica.
E come reggere la asimmetria della relazione
educativa?, ed è giusto mantenerla?
Oggi ci fanno orrore i rapporti autoritari e
certe pratiche punitive della scuola del passato. Oggi tendiamo a instaurare con gli allievi un rapporto amichevole.
È importante allora che quella certa forma di
“amicizia” l’insegnante sia in grado di gestirla, e che allo stesso tempo gli allievi percepiscano e accettino, e proprio in virtù di una
socievolezza “controllata”, il ruolo gerarchico del loro insegnante. Intendo per “gerarchico” un contesto dove c’è uno che decide per
molti. Pur tenendo ferma l’indiscutibile parità di tutti sul piano personale, l’insegnante
è infatti responsabile di scelte e di decisioni
che avranno ricaduta sugli altri, non soltanto su di sé.
Quindi, né autoritarismo né permissivismo.
Va bene piuttosto una autorità affettuosa e
tollerante. E l’ostinarsi a che tutti, non solo
alcuni, diventino “bravi scolaretti” (conviene
ricordare in ogni momento che la nostra resa
avrà sempre fondate giustificazioni, e che
quindi la tentazione di arrendersi è più forte
della sua alternativa).
Nella scuola accadono strane cose. Accade
anche che un insegnante giudichi ma non
si senta parte giudicante: quando afferma:
«Questo ragazzo è da UNO!» non si rende
conto che sta “etichettando” una persona e
che egli stesso è parte del processo. Il sentirsi parte di un processo viene vissuto da alcuni come una sorta di inutile e ingiusta colpevolizzazione: Perché IO mi devo fare una
colpa se LUI non studia?”.
La distanza che tiene “uniti”
Da qualche tempo l’insegnante ha perso ‘l’aura’ che nel passato lo definiva tale. Qualche
insegnante non se ne rammarica (anzi), qualcun altro cerca di riacquistarla, qualcun altro
ce l’ha sempre avuta, e a scuola ha sempre
mostrato un atteggiamento ‘severo’ (anche
marcando una certa ‘distanza’). Allora, se anche questo atteggiamento non fosse ‘autentico’ ma ‘costruito’, non giova forse a instaurare una socialità governata da regole? Infatti,
sul piano squisitamente affettivo, tra maestro
e allievi c’è una ‘distanza’ che li tiene uniti:
essi studiano le stesse cose. Ed è questa paradossale distanza affettiva il dominio privilegiato sul quale l’insegnante può decidere e
può agire la sua propensione alla cura dell’altro.
Un piccolo dominio coerente
C’è un gran numero di docenti rassegnati.
Altri portano a scuola, senza che se ne rendano conto, il loro risentimento: nella reazione
infastidita alla “maleducazione” degli allievi
esprimono anche e soprattutto risentimento
verso la politica scolastica, verso la società
intera (sarebbe più facile essere ottimisti con
un presidente come Obama!).
Di norma opponiamo strategie di difesa verso
chi intralcia o sovraccarica il nostro lavoro di
inutili (per noi) adempimenti. La burocrazia
– il modello burocratico-quantitativo – impedisce il pieno esercizio della nostra professionalità.
Eppure, se dovessimo risparmiare energie e
cercare accomodamenti, ritengo sia meglio
rischiare un richiamo dal preside perché “le
carte non sono a posto” piuttosto che sacrificare ciò che più ci sta a cuore. Sarebbe sciocco non trarre profitto dalle scelte di contenuto e di metodo che possiamo praticare nel
nostro piccolo dominio. Io non posso cambiare il mondo intero, ma intanto posso tentare di vivere coerentemente con le idee che
mi sono fatta sul mondo. Per molti dei nostri ragazzi noi siamo i soli adulti autorevoli
che essi incontrano ogni giorno (e in contesti
protetti e parzialmente isolati) e per un anno
intero. Non possiamo permetterci il lusso di
essere incoerenti.
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E se fosse una vendetta? Davanti a una mossa
sfacciatamente populista che rinforza la
disciplina nelle scuole, con il proliferare di
deliranti liste della spesa su quali comportamenti
vadano sanzionati con un 6 o un 5 in condotta,
con la denuncia della Gelmini dei “sei rossi o sei
politici”, si raccolgono plausi anche da parte di
insegnanti che, per un po’ di tranquillità in più,
svendono quell’idea della scuola antiautoritaria
che era stato uno degli elementi più importanti
dell’onda lunga degli anni Sessanta. Senza capire
che questi provvedimenti che semplificano il
rapporto tra docenti e studenti, non ridanno
senso all’insegnare, né migliorano lo status
complessivo degli insegnanti nella società,
anzi preludono anche per loro a una maggior
subordinazione
FILIPPO TRASATTI
«Possiamo facilmente immaginare la fine del
mondo, ma non riusciamo più immaginare
la fine del capitalismo, che è un obiettivo
molto più modesto».
[Slavoj Zizek]
N
on è mia intenzione qui fare una difesa del ‘68, né una ricostruzione storica, né
analizzare come il ‘68 italiano sia stato per
tanti versi diverso dagli altri, o di come il ‘68
europeo si colleghi alle lotte americane degli
anni ‘60 negli Usa, né tanto meno una valutazione complessiva, altri l’hanno fatto e possono farlo meglio di me.
Quello che vorrei provare a mostrare è come
il furore ideologico (malamente dissimulato)
che si sta abbattendo sulla scuola (almeno in
Italia) sia connesso con un odio (e si potrebbe aggiungere una vendetta) verso ciò che di
école numero 75 pagina
12
buono il ‘68 ha significato in termini di critica del capitalismo e dei processi di mercificazione, di egualitarismo e di democratizzazione radicale, anche nella scuola e nel campo
del sapere più in generale.
Non sto parlando del ‘68 dei capetti, dei
gruppuscoli, ma di quel sommovimento profondo e internazionale dell’immaginario che
negli anni Sessanta ha cercato di spazzare via
una concezione gerarchica della società, e per
quel che ci interessa più qui, del sapere e della scuola.
Il 68 che ha rappresentato un grande NO al
capitalismo, che fosse quello occidentale o
quello di stato sovietico. Che ha detto un
chiaro NO a una concezione gerarchica che
nasconde dietro comode etichette, spendibili
a destra e a manca, come “rigore”, “efficienza”, “competitività”, “merito”, profonde disuguaglianze sociali, economiche e personali.
Il ’68 cha ha detto sì alla creatività individuale, allo sviluppo delle differenze dentro una
società di eguali, entro una concezione affer-
mativa e non rinunciataria della vita e ancora
sì a una concezione del conflitto che non accetta la realpolitik, e che riparte dai soggetti
(plurali) per produrre il cambiamento.
L’aspetto ideologico dell’attuale temperie politico-culturale diventa evidente quando si
pone attenzione a come si cerchi di dissimulare dietro a etichette “neutre”, valori che
invece implicano una certa disposizione dei
pesi e delle forze e una scelta di campo netta, quando si riesca a guardare in quella zona
d’indeterminazione tra destra e sinistra nel
trattare alcune categorie come se non fossero di parte, come se fossimo entrati tutti insieme in una felice e beota epoca post-ideologica (Ovviamente l’area più interessante da
questo punto di vista, almeno per me, è quella della cosiddetta “biopolitica”).
Il vero tentativo del 68 è stato quello di coniugare la libertà individuale con la solidarietà collettiva.
Il rovesciamento e la vendetta contro il 68
cercano di trasformare radicalmente il signi-
ficato di questa congiunzione pericolosa: liberalismo paternalistico (edonismo tollerante incorporato nell’ideologia egomonica del
nuovo spirito capitalistico), trasformazione
giuridica delle relazioni sociali sotto il dominio del mercato e del capitale, in cui la sintesi sociale avviene non più attraverso processi
di aggregazione dal basso, ma piuttosto attraverso le relazioni mercantili, quindi ridotte
alla mera quantificazione (e impaludate ideologicamente).
Come esempio dell’uso e dello stravolgimento
ideologico di categorie operate contro il ’68
si può ben considerare la categoria di “differenza”.
Se la scoperta delle differenze come elementi
costitutivi dell’identità poteva giocare a favore dell’autonomia dei soggetti plurali, in
un contesto democratico in cui “il massimo
dell’eguaglianza è la possibilità di essere diversi”, il rovesciamento di questa categoria
suona così: la necessità di essere diversi è il
fondamento della disuguaglianza.
Un altro esempio di questo rovesciamento,
per usare i termini di Baumann, è il passaggio nel tardo capitalismo dal feticismo della
merce al feticismo della soggettività, ovverosia dalle soggettività autonome alla concezione della soggettività consumatrice.
La miseria di ogni giorno
La politica culturale al ribasso del governo è
risultata assai efficace nel fissare un’agenda
di problemi, dalla sicurezza (su cui anche la
cosiddetta sinistra democratica ha detto cose
scandalose), alla giustizia, dalle biopolitiche
filoclericali alla cultura in senso lato e alla
scuola, che vellica non solo il ventre molle
meno acculturato del paese, ma anche una
certa sinistra che, talvolta con convinzione
talaltra in modo meramente strumentale, assume su di sé la parola d’ordine del rigore,
della fermezza, lasciando però del tutto immutato il contesto d’intervento, cioè la situazione in cui tali provvedimenti repressivi
vengono inseriti.
Lo Stato d’eccezione come luogo della verità: poiché possiamo affondare senza batter
ciglio barconi di migranti, possiamo accettare lo stravolgimento delle regole democratiche e possiamo sopportare tranquillamente
una concezione spettacolare della politica;
ma d’altra parte possiamo anche, se guardiamo bene, riuscire a vedere in queste trasformazioni come l’orizzonte sia profondamente
mutato.
Davanti a una mossa sfacciatamente populista che rinforza la disciplina nelle scuole, con
il proliferare di deliranti liste della spesa su
quali comportamenti vadano sanzionati con
un 6 o un 5 in condotta, con la denuncia della Gelmini dei “sei rossi o sei politici”, si raccolgono plausi anche da parte di insegnanti
che, per un po’ di tranquillità in più, svendono quell’idea della scuola antiautoritaria che
era stato uno degli elementi più importanti dell’onda lunga degli anni Sessanta, senza
capire che questi provvedimenti che semplificano il rapporto tra docenti e studenti, non
ridanno senso all’insegnare, né migliorano lo
status complessivo degli insegnanti nella nostra società anzi prelude anche per loro a una
maggior subordinazione.
Intanto che attendiamo con ansia i nuovi docenti sceriffi, perché, si sa, Legge e Ordine
sono di sinistra, forse val la pena ricordare
che c’è stato un tempo in cui si pensava alla
costruzione di una conoscenza la cui autorità deriva non dalla legge o dal bastone, ma
dal suo senso condiviso, dalla gradualità degli attraversamenti e dall’incanto della scoperta, dai nessi con la vita e con tutto ciò
che sta fuori della scuola.
Chi è davvero l’insegnante?
In una conferenza del 1965, intitolata “Tabù
sopra la professione dell’insegnante”, Adorno,
che peraltro come si sa è stato tutt’altro che
tenero col movimento studentesco, in modo
un po’ rapsodico passa in rassegna alcune immagini collettive negative che pesano sulla
professione dell’insegnante.
Mi limito a richiamarne due che mi sembrano particolarmente significative: l’insegnante
come erede dello scrivano, del segretario, e
l’insegnante come “bastonatore”.
In entrambi i casi ciò che scredita la sua figura è proprio l’uso del dominio per conto d’altri, di essere in qualche modo un inferiore a
cui viene comandato di tenere a bada la ciurma indisciplinata.
E conclude opportunamente con parole che,
se in quel momento potevano sembrare fuori
tempo, sembrano a noi oggi scritte ieri: «Il
pathos della scuola d’oggi, in cui è ravvisabile la sua serietà morale consiste nel fatto che
essa soltanto, se ne è cosciente, può mirare
in mezzo al già esistente, direttamente alla
de-barbarizzazione dell’umanità»1 Ossia, aggiunge poco dopo, contro il pregiudizio illusorio e delirante, la repressione, il genocidio
e la tortura.
Ecco in poche parole il programma che oggi
abbiamo davanti se vogliamo contrapporci
alla scuola del manganello che ci viene riproposta. È questo, se vogliamo ben vedere, che
ci viene riproposto sotto mentite spoglie.
Discipline e disciplinamento
Ma anche nell’ambito delle discipline, si vuol
spacciare per ritorno allo studio serio, dopo
anni di permissivismo (dove? Forse qualcuno
scambia il permissivismo con l’appiattimento
culturale) la ripresa di contenuti tradizionali, il ritorno al Canone, il sudore dello studio,
spazzando via decenni di sperimentazioni, di
riflessione pedagogica e didattica, e tutta intera la tradizione dell’attivismo che è l’unico
vero argine per una minima democrazia nella
scuola che non sia burletta da barzellettieri.
In questo caso l’operazione produce un duplice effetto: rende ancora più forte e potente
il Fuori-scuola e attesta l’uso delle discipline
canonizzate come comando.
Bisogna però anche tener conto, al di là delle
miserie quotidiane italiane, di una situazione
più generale, ossia delle trasformazioni della
conoscenza nell’epoca tardo-capitalistica.
Trent’anni fa Lyotard, descrivendo quella fine
delle grandi narrazioni, la crisi della legittimazione e l’avvento generalizzato del principio di performatività, nel suo La condizione postmoderna scriveva: «La domanda più
o meno esplicita che si pongono lo studente
aspirante professionista, lo Stato o l’istituzione di insegnamento superiore, non è più:
è vero? Ma: a che cosa serve? Nel contesto
della mercificazione del sapere, tale domanda significa nella maggior parte dei casi: si
può vendere? E nel contesto dell’incremento
di potenza: è efficace? […] la delegittimazione ed il prevalere della performatività suonano a morte per l’era del professore: costui
non è più competente delle reti di memoria
per la trasmissione del sapere stabilito, né è
più competente delle equipe interdisciplinari
per inventare nuove mosse o nuovi giochi»2.
Ne derivava due conseguenze in modo abbastanza premonitore:
1. l’Enciclopedia del domani sono le banche
dati, noi potremmo dire l’Internet; l’insegnante tradizionale, assimilato a una memoria in grado di trasmettere, viene comodamente rimpiazzato da macchine collegate a
immense banche dati;
2. In questa situazione decisiva diventa una
nuova organizzazione dei dati, la connessione di serie ritenute prima indipendenti, attraverso una capacità di mettere in relazione
ciò che non lo era e che definisce “immaginazione”.
Nel momento in cui queste profezie vengono
annunciate, si propone allora la nostalgia del
ritorno al rapporto personale.
Ma allora quel che bisogna chiedersi è: quali sono davvero le competenze dell’insegnante nel momento in cui le informazioni sono
diventate merce diffusa e accessibile facilmente?
Domanda difficile, ricerca aperta, in tutt’altra direzione rispetto alle soluzioni semplificatrici che il ministero e la destra vogliono
riproporre.
Due suggestioni per finire
1. Dobbiamo fare i conti con la cultura di
massa in cui viviamo immersi, dobbiamo entrare in contatto con quelli che Baricco chiama “i barbari”³. Direi che il lavoro fondamentale per l’insegnante oggi è costruire ponti
(mentre quello del passato costruiva piuttosto grattacieli e osservava gli studenti arrampicarsi su).
2. Attivismo pedagogico antiautoritario, sperimentazione e democrazia radicale vanno insieme. Una farsesca divaricazione tra metodi
e contenuti ha nei fatti rafforzato il potere
impositivo e trasmissivo di chi vuole che nulla cambi.
NOTE
1. T.W. Adorno, “Tabù sulla professione dell’insegnante”, in Parole chiave. Modelli critici, tr. it.
Sugarco edizioni Milano 1974.
2. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, tr.it Feltrinelli, Milano 200516 p. 94 e 96.
3. Alessandro Baricco, I barbari, Feltrinelli Milano
2006.
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Ordine e disciplina. La situazione italiana e europea
Sicuramente la disciplina nel dibattito pedagogico
europeo occupa direttamente o indirettamente un posto
importante. Ma non lo occupa certo il problema della
valutazione del comportamento o dell’indisciplina, come
invece avviene in Italia. Inoltre, nelle scuole italiane la
disciplina non è una emergenza. La situazione è meno
pesante che in altri paesi europei. Non è un mistero.
L’inchiesta Talis-Ocse − la stessa che la ministra Gelmini
ha usato per dire per l’ennesima volta che la scuola
italiana fa schifo −, lo dimostra in maniera trasparente
PINO PATRONCINI
L’
azione restauratrice del Ministero
Gelmini, oltre che sui tagli di posti, corrispondente a un disegno che è contemporanemanente di taglio della spesa pubblica e
di modifica della costituzione materiale della
Repubblica (privatizzazione e sussidiarietà),
si è esercitata sulle questioni dell’ordine e
della disciplina, in coerenza anche in questo
caso con due obiettivi: la restaurazione vera e
propria e la blandizie demagogica e populista
verso pulsioni “d’ordine” diffuse nell’opinione
pubblica (a partire dalla vicenda del grembiulino). Quest’ultimo aspetto alimenta la sensibilità per il problema anche in ambienti dell’opposizione (vedi Fioroni e la restaurazione
degli “esami di riparazione”).
Punto centrale dell’azione è stata la restaurazione della valutazione con voto numerico
in decimi nella scuola dell’obbligo e la reintroduzione del voto di condotta abolito da
Berlinguer, con tanto di possibilità di bocciatura per chi ha il cinque in condotta.
Popolo delle libertà o delle proibizioni?
L’azione della Gelmini si inquadra in un contesto più generale caratterizzato da misure
che vanno dalla patente a punti fino alla tessera del tifoso e a cui non sono estranei la
marea di divieti che le varie autorità, prevalentemente di destra, ma non solo, cercano
di imporre nel paese dal divieto di bere birra all’aperto al più recente divieto di kebab.
Una logica americaneggiante o svizzera che
fa tornare in mente le parole che 29 anni fa il
regista svizzero Alain Tanner metteva in bocca uno dei suoi personaggi di Jonas che avrà
vent’anni nel 2000 che vedeva nello stillicidio
école numero 75 pagina
14
di leggi sulla sicurezza stradale (obbligo di
cinture, di caschi ecc.) un processo di fascistizzazione della società elvetica.
Sono misure che prese una per una potrebbero anche essere utili, ma che nell’insieme
creano un’idea di un metodo improponibile
per affrontare problemi e contraddizioni della
società attuale: il metodo del divieto e della
schedatura o della cittadinanza a punti (non
a caso già proposta per gli immigrati). Il tutto in un regime dominato da un partito che
paradossalmente si definisce “Popolo delle
Libertà”.
Peggio del fascismo
L’imbocco di tali procedure, arricchito da propositi espliciti del tipo “riportare la scuola a
prima del ‘68”, è stato però empirico e scriteriato. Tanto che, complice l’ignoranza di
stampa e opinione pubblica, è andato ben oltre le norme istituite dal fascismo stesso col
Regio Decreto del 1925, che il 68 non aveva
abolito e che sono rimaste in vigore fino al
1998 quando le abolì Berlinguer. Un arretramento dunque di una dimensione che pochi
conoscono nella sua sostanza storica e che
perciò nessuno denuncia.
Il Regio Decreto del 1925 non prevedeva né
la media del 6 (Fioroni) né la sufficienza in
tutte le materie (Gelmini) per essere ammessi
all’esame di stato: bastava la media del 5!
Il Regio Decreto del 1925 non prevedeva la
bocciatura con il 5 in condotta. Prevedeva
il rinvio agli esami di riparazione in tutte le
materie per le valutazioni in condotta inferiori all’8 (nel caso di ammissione all’esame
si era ammessi direttamente alla sessione di
settembre, allora esistente). Per essere bocciati occorreva che oltre a quella valutazione ci fossero altre insufficienze (in quanto in
questo caso non si era ammessi all’esame di
riparazione). In altre parole si puniva il ragazzo facendolo lavorare tutta l’estate e non
bloccandogli la carriera scolastica.
La Gelmini è dunque da questo punto di vista
più autoritaria dei fascisti. È vergognoso che
non si dica niente su ciò.
Gioventù bruciata?
Ma oggi si alimenta l’idea che i nostri adolescenti e soprattutto preadolescenti siano una
sorta di gioventù bruciata che vive in branco
tra bullismo e violenze varie.
Pur non sottovalutando i fenomeni ci sarebbe da chiedersi se ciò debba costituire per
noi una sorpresa. Il film Gioventù bruciata è
del 1955, e descrive fenomeni analoghi nella
gioventù americana di oltre 50 anni fa. Il titolo originale che il regista Nicholas Ray, in
odor di comunismo, gli aveva dato era Rebel
without a cause, ribelle senza causa, dove
quel “senza causa” ha un doppio senso: senza un motivo, visto che la generazione lì rappresentata viveva in una opulenza per italiani allora impossibile ma più simile a quella in
cui vivono i nostri figli, e senza un fine, dal
momento che l’atteggiamento ribellistico non
aveva finalità politiche particolari.
Cito quel film come simbolo di un fenomeno
che dovrebbe esserci già familiare visto che in
questi anni si è profuso americanismo a piene mani e visto che nessuna società opulenta
sembra sottrarsi al destino di una gioventù
con simili atteggiamenti. Ma come al solito si
vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca:
da un lato si profondono a piene mani l’arrivismo come corollario dell’individualismo e
la spensieratezza come corollario dell’indifferenza politica e poi ci si lamenta che i giovani possano diventare piccoli boss scriteriati!
La disciplina non è una emergenza
Tra l’altro da noi il fenomeno è meno pesante che altrove. Non è un mistero. La stessa
inchiesta Talis-Ocse, quella che la Gelmini
ha usato per dire per l’ennesima volta che la
scuola italiana fa schifo, lo dimostra in maniera trasparente.
L’inchiesta individua come fattori di disturbo
delle lezioni cinque fenomeni legati al tema
dell’ordine e della disciplina nella scuola: le
intimidazioni verso gli studenti, le aggressioni fisiche verso gli studenti, le aggressioni
verso gli insegnanti, i furti e l’uso di droghe
e alcolici da parte degli studenti.
Ebbene in tutti questi fenomeni l’Italia e sotto la media dei paesi Ocse:
Fenomeni
Italia
OCSE
Intimidazioni vs studenti
30%
34%
Aggressioni vs studenti
12,7%
15,9%
Aggressioni vs insegnanti 10,4%
16,8%
Furti
9.1%
15,3%
Droghe e alcool
4,5%
10.7%
Da questo punto di vista sembra proprio che
non si tenga conto dei dati relativi: si assolutizzano. Al contrario si relativizzano in
tutti gli altri campi solo per dimostrare che
la scuola italiana non funziona, che gli insegnanti non sono validi, ecc.
Vale la pena di sottolineare qui un’analogia
col fenomeno immigrazione: in entrambe i
casi la novità dei fenomeni ne ingigantisce
la portata, ma se si va vedere i dati si scopre che in altri paesi dove la situazione è ben
più pesante, ma anche più antica, si fanno
meno drammi.
La disciplina nel dibattito pedagogico
Sicuramente la disciplina nel dibattito pedagogico europeo occupa direttamente o indirettamente un posto importante, ma non
lo occupa certo il problema della valutazione del comportamento o dell’indisciplina. Si
possono trovare pagine e pagine sulla violenza a scuola, sul bullismo, sulla demotivazione
studentesca, sulle espulsioni o sulle sospensioni, su procedure disciplinari e provvedimenti o, per quel che riguarda gli insegnanti,
su autorità e autorevolezza. Ma è introvabile una ricerca o una discussione sulla valutazione ordinaria della disciplina o della indisciplina.
Sappiamo che in altri paesi esiste il voto di
condotta: in Austria, dove però non sembra
avere un peso particolare, in Polonia, dove
invece sembra rivestire questo peso (bisogna vedere se e quanto in relazione al vecchio sistema comunista polacco o alla più re-
cente gestione clerico-autoritaria dei gemelli
Kazinsky), in Lituania, dove il comportamento degli alunni viene valutato per informare
i genitori, ma non viene annotato su registri
e certificati, in Inghilterra dove viene invece
annotato e certificato.
In altri paesi invece non esiste per niente.
In Francia esiste una disciplina scolastica denominata “Vie de classe”, vita di classe, una
specie di momento collettivo tra etica e autocoscienza, per circa un’ora e mezza alla settimana.
Nei paesi più abituati a scomporre l’azione didattica e il giudizio è facile che l’annotazione
rientri nella costruzione del giudizio complessivo delle singole materie per le voci “attenzione”, “assiduità”, “motivazione” ecc
Valutare l’indisciplina?
D’altra in molti paesi europei non esiste la
bocciatura, soprattutto nell’obbligo scolastico. E il periodo più difficile sia dal punto
di vista del successo scolastico sia dal punto di vista disciplinare si colloca normalmente tra i 12 e 16 anni dell’alunno. Praticano,
de jure o de facto, la promozione automatica Danimarca, Grecia, Irlanda, Cipro, Svezia,
Regno Unito, Finlandia, Malta, Islanda,
Norvegia. È evidente che in tutti questi casi
lo spauracchio del 5 in condotta non ha molto senso.
Da questo punto di vista la nostra situazione
è paradossale perché da un lato la valutazione della condotta per i “bravi ragazzi” si traduce in uno stravolgimento delle valutazioni
verso l’alto, grazie al concorso della condotta
nella formazione della media.
Dall’altro sembra che più che la disciplina si
valuti l’indisciplina: un paradosso che ha finito col crearne altri. Infatti prima si è fatto
credere che “arrivavano i castigamatti”: primo paradosso. Poi per attenuare la violenza
del messaggio si è detto che per dare il 5 in
condotta occorreva una sospensione di almeno 15 giorni. E qui il paradosso è ancora più
grosso.
Infatti se la letteratura “europea” sul voto in
condotta è piuttosto esigua, abbonda invece quella sui provvedimenti disciplinari come
le sospensione o le espulsioni dalle scuole.
Ebbene su questo argomento la discussione
marcia in sensi diametralmente opposto a
quello che la Gelmini col suo 5 in condotta
ha dato alla “pedagogia” italiana.
Infatti il problema principale non è punire il
ragazzino con sospensioni o esclusioni, ma
è quello come fare in modo che una sospensione, anche lunga (in alcuni paesi si arriva
ad un mese) non pregiudichi la preparazione
del ragazzo.
Lo stesso vale per le espulsioni. In questo
caso si va nella direzione per cui deve essere
la vecchia scuola che deve trovare quella nuova per l’alunno espulso. Sempre meno l’alunno punito è lasciato a sé stesso.
Le radici sociali del problema
Innanzi tutto la tendenza in Europa è quella di cogliere i problemi disciplinari a partire
dalle loro radici sociali. Soprattutto quelli più
gravi, legati ai provvedimenti disciplinari più
gravi, che spesso sono rilevanti.
Per fare un esempio si può prendere l’Inghilterra. Qui le sospensioni riguardano il 2,9%
degli alunni, ma se si pensa che di queste
l’85% sono solo nella scuola secondaria possiamo facilmente ritenere che tra gli 11 e i
18 anni degli alunni ci sia una bella quota
di provvedimenti che riguardano ogni classe
del regno. E a ciò va aggiunto il fattore delle scuole speciali, che costituiscono il 4% del
fenomeno e che sono una variabile drammatica del tutto: anche all’estero non è tutto oro
quello che luccica!
In ogni caso in Inghilterra le sospensioni riguardano il 15% dei rom, il 14% dei travellers irlandesi, 11% dei neri caraibici e dei neri
in genere, il 5-6% degli inglesi e degli irlandesi, mentre sono del tutto irrisorie tra gli
asiatici.
Le espulsioni riguardano l’8 per mille dei travellers e il 4 per mille dei rom, dei neri africani e dei neri caraibici.
Tra le misure messe in atto dal governo britannico vi è lo stanziamento di 35 milioni di
sterline per insegnanti di sostegno. Una cifra
che potrebbe corrispondere a circa 2.000 unità di personale ( non contabilizzato negli organici ufficiali!).
Tutela e responsabilità della scuola
Nella maggior parte dei casi una azione di
sospensione e ancor più di esclusione è una
azione molto tutelata. In alcuni paesi richiede
il consenso dei genitori (Finlandia, Islanda,
Polonia), della municipalità (Lituania), di un
consiglio di disciplina (Francia), delle autorità scolastiche superiori (Germania, Regno
Unito). In alcuni paesi vi è un diritto alla
difesa (Finlandia, Francia, Germania, Islanda,
Portogallo, Regno Unito) e non è un diritto formale visto che, per esempio, nel Regno
Unito porta in media nel 50% dei casi a una
revisione del provvedimento.
E poi vi è appunto l’obbligo del proseguimento degli studi con insegnanti speciali o sotto
la tutela dei servizi sociali, soprattutto nel
Nord Europa. I paesi che praticano già ampiamente questa soluzione sono infatti Svezia,
Finlandia, Islanda, Lituania (dagli 11 ai 16
anni, prima niente espulsioni e sospensioni),
ma anche Francia, Spagna, Ungheria (fino a
16 anni).
Da noi stiamo andando in senso diametralmente opposto: con questa storia del 5 in
condotta dato dopo una sospensione il ministero sembra preoccuparsi soprattutto di fare
dei provvedimenti disciplinari una macchia
indelebile nella carriera dei ragazzi e delle ragazze.
La Gelmini sostiene che il voto numerico, anche quello in condotta, è più chiaro per le famiglie. E ciò può anche essere vero. Ma se a
lei si può dire che a scuola abbiamo gli alunni
e non le loro famiglie, alle famiglie dobbiamo
dire: attenzione perché il voto è chiaro ma la
conseguenza logica che ne deriva lo è altrettanto ed è: adesso arrangiatevi!
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Il cinema fatto dai bambini
Un’esperienza di libertà per una
scuola nuova ed antiautoritaria
STEFANO VITALE
Disegni di Marcello Piccardo
I
l “Cinema fatto dai bambini” nasce nel
1967 a Monte Olimpino, un quartiere di Como
grazie all’intuizione di una maestra di scuola elementare ed alla sensibilità per il “nuovo” di Marcello Piccardo e Bruno Munari, che
dal 1962 lavoravano insieme facendo “cinema
di ricerca”.
Andrea Piccardo − figlio di Marcello, e giovanissimo protagonista dell’esperienza comasca di allora − si occupa ancora oggi di quel
patrimonio (www.monteolimpino.it) e la sua
presenza al seminario annuale di école (settembre 2009) è stata molto significativa per
testimoniare della possibilità ed esigenza di
portare nella scuola di oggi, burocratica ed
autoritaria, una ventata di coraggio e di libertà.
I primi passi
Lo Studio di Monte Olimpino, Laboratorio di
cinema di ricerca, nasce nel 1962, nella locaécole numero 75 pagina
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lità omonima per iniziativa di Bruno Munari
e Marcello Piccardo. «Sulla collina di Monte
Olimpino, negli anni fra il 1962 e il 1972,
con Bruno Munari e i miei cinque figli, ci siamo reinventati il cinema (come produrre realizzare e distribuire un film), e finalmente
abbiamo scoperto il cinema fatto dai bambini.» (Marcello Piccardo, La collina del cinema, Nodo Libri - Como). Per circa dieci anni
lo Studio di Monte Olimpino, poi diventato
Laboratorio, in seguito ampliato in Cineteca,
infine Cooperativa di Monte Olimpino, rappresenterà un luogo distintivo della ricerca cinematografica in Italia. È un periodo molto fertile, determinato da una intuizione che crea
un innovativo rapporto col cinema, non più
solo veicolo di spettacolo e di divulgazione,
ma strumento di ricerca, capace di fornire informazioni inaspettate sia sull’oggetto profilmico, sia sul mezzo stesso.
«Nella memoria mi sembra anche che a partire dal 1966 la collina del cinema ha cominciato a girare, prima adagissimo quasi niente,
poi un poco poi un poco di più, poi rego-
larmente come tutte le colline che hanno in
cima un pesce giapponese, e adesso era una
giostra con tutti quei bambini, girava più forte e si cominciava a sentire quella forza chiamata centrifuga.
Saliva da lontano fin sul piano in movimento
di Monte Olimpino un’onda lunga di scontento (della vita) e di speranza (nella vita) che
insieme ai ragazzi abbiamo riversato in quei
piccoli film.
Il gruppo di lavoro del cinema di ricerca del
laboratorio di Monte Olimpino si andava sciogliendo quasi senza rumore per amore di libertà e forza centrifuga. A Munari e a me
non rimaneva niente: eravamo tecnicamente dipendenti dai ragazzi, non sapevamo usare una lampada, non calibrare una cinepresa, non manovrare la moviola professionale;
ci mancava l’allegria e la spinta d’insieme dei
ragazzi, senza di loro non potevamo più.»
(Marcello Piccardo La collina del cinema Nodo
libri, Como).
Rinnovare il cinema, rinnovare la scuola
Il cinema fatto dai bambini entra in tale orizzonte di ricerca, una linea sottile in cui il
cinema è libero da metodologie precostituite ed apre nuovi percorsi tecnici ed espressivi: meno condizionati i bambini, specie i
più piccoli, riescono a condurre un’esperienza
di cinema aperta in tutte le direzione della
gamma espressiva che risponde bene, senza
forzature, ai loro bisogni più profondi.
Il Cinema fatto dai bambini, ben diverso dal
cinema fatto per i bambini, implica un rapporto diretto dei bambini col mezzo-cinema.
Il cinema, in questa esperienza è un tutto
che comprende l’insieme delle diverse componenti tecniche, linguistiche, strutturali. Tutta
la realtà del cinema può essere posta “nelle
mani” dei bambini, capaci di creare nuove informazioni a tutti i livelli.
I bambini “in ricerca”, in presa diretta col
mezzo-cinema, lavorano quindi come qualunque altro autentico autore in grado di usare
immediatamente la struttura circolare del cinema le cui fasi di lavoro sono indistruttibili
ed elastiche: “idea-soggetto-sceneggiaturafabbisogno-montaggio-proiezione”: i bambini seguono questo processo. Gli adulti li aiutano, senza sostituirsi a loro, ma “mettendo a
disposizione i mezzi, il tempo e lo spazio”.
La scuola si è rivelata adatta per la ricerca
cinematografica dei bambini. La classe, dal
canto suo, si è dimostrata l’elemento dinamico capace di orientare energie diverse verso
un progetto comune. Il cinema fatto dai bambini può essere inteso come una forma di “informazione capovolta”, ovvero informazione
sul mondo, sulle cose, sugli adulti, sui bambini stessi a partire, finalmente, dai bambini.
Per il fatto di poter gestire in ricerca tutte le
fasi del progetto-film, allora fare un film diventa un’originale esperienza di prassi educativa e di vita sociale. Un film inizia quando un
insegnante chiede alla sua classe “Bambini
volete fare un film?”. Se la risposta è positiva tutti iniziano a fare delle proposte, a tirar
fuori delle idee. Nessuno sa dove si arriverà,
tutti sanno che si arriverà ad un film, che potrà essere “visto” dagli altri. Certo, occorrerà superare stereotipi e banalità: è un’opera
di de-colonizzazione che prende piede, ma è
possibile…
Durante la lavorazione del film tutti possono
partecipare: il cinema ha una sua struttura
così elastica da permettere la partecipazione
di ogni bambino in un punto e in un momento qualunque del lavoro, come se vi avesse
partecipato fin dal principio. Questa capacità
che è dei bambini (personale e sociale) e del
cinema (di fase e d’insieme), permette a non
importa che bambino, di trovarsi sempre in
piena autonomia creativa, a qualunque punto
e momento intervenga dentro un film sia che
fosse assente fisicamente, sia che fosse ritardato, e di partecipare come autore del tutto.
La scuola come sistema ed il cinema come
struttura che connette senza violenza?
Ma la scuola va bene così com’è?
Il fatto è che proprio questo fa saltare la burocrazia, il controllo dall’alto, il dogmatismo
didatticista, l’autoritarismo sociale e cognitivo della scuola di ieri e di oggi. “La scuola si
organizza dall’interno”, radicando la propria
esperienza didattica nella vita reale, nella
quotidianità, fornendo ai bambini strumenti
di comunicazione ed espressione, opportu-
nità di conoscenza e strutture di pensiero,
informazioni e relazioni inedite. Ai maestri
si chiede di “fare scuola” stando dentro la
“mente-cinema”. Il compito degli adulti non
è semplice: perché occorre superare il pregiudizio che i bambini non siano capaci ( e così
bravi) da poter fare “da soli” qualcosa, un film
in questo caso. Poi, perché ci si deve liberare
dalla mitologia delle didattiche predeterminate ed andare coraggiosamente in ricerca,
lavorando per progetti. Infine si deve superare il feticismo dei “mezzi tecnologici” che ha
generato una pericolosa casta di esperti, ripristinando gerarchie ed ipocrisie.
Il cinema fatto dai bambini ha conosciuto un
periodo di grande sviluppo dal 1966 al 1979.
Gli anni ottanta hanno segnato un’importante periodo di discussione, di riflessione intorno a questa esperienza. In particolare i
Cemea a Torino hanno partecipato attivamente alla promozione ed alla diffusione del cinema fatto dai bambini e tra il 1986 ed il 2007
sono stati realizzati nelle scuole elementari
(e materne) del Piemonte molti film (utilizzando il super8, il vhs ed il supervhs, il digitale). Oggi esistono le condizioni per riprendere il filo di questa storia?
La scatola è ancora chiusa?
Nel corso del nostro seminario abbiamo rivisto La chitarra, esplorazione sensibile e concettuale di uno strumento musicale, sospeso
tra desiderio e metafora; Il Pagliaccio storia
di una trasformazione, maschera evolutiva
dell’uomo, personaggio doppio che ci rappresenta; e La scatola chiusa, dove ciascun bambino si racconta esprimendo i propri desideri
e le proprie paure. Piccoli film realizzati tra
il 1967 ed il 1969. E tutto sembra così incomprensibile nella scuola d’oggi, degradata e volgare, svalutata e autoritaria. Marcello
Piccardo scriveva: «I bambini sono adulti andati a male» e fare scuola “in un certo modo”
poteva essere l’antidoto per ritardare il processo: «La festa è cominciata e il mondo è
già cambiato proprio quando accade il fatto
dell’incontro in ricerca fra i bambini e il cinema, a scuola… La dimensione del bambino è
ancora capace di percezione e di espressione
a tutto tondo, o quasi; la dimensione del cinema è già capace di espressione e di percezione a tutto tondo, o quasi…». La scatola
chiusa si apre e ciascuno può trovare il suo
frutto del suo desiderio. «Il limite dello sviluppo della pedagogia è la distruzione totale
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dei bambini; per distruggere i bambini basta
darsi ancora da fare pedagogicamente». La
scuola deve riflettere sulla sua sostenibilità:
«attivare oltre la macchina didattica, provoca
il disastro. Fermi tutti gli adulti al posto dove
sono, fermi tutti nel punto che hanno, fermi presenti e attenti, il prossimo movimento
pedagogico è dei bambini, e noi non sappiamo quale. Tutta la storia si punta ora qui: i
grandi sanno cosa hanno fatto, e non sanno
cosa fare, i bambini ci dicono che stare fermi è fare».
Non solo cinema…
Come si può capire, la questione non è solo
“cinematografica”. Una volta di più ci si trova
confrontati con una questione di cultura e di
politica culturale, con un’idea di scuola.
Questa esperienza non rimuove affatto la necessità di una presenza dell’adulto, del maestro, semplicemente la vede in una prospettiva “autentica”: di accompagnamento, di
guida ed orientamento, di facilitatore che
offre conoscenze, cultura e tecnologia, che
mantiene “l’ordine delle cose”. L’insegnante
deve essere “preparato” a fare l’insegnante e,
come detto, avere la disponibilità ad andare
egli stesso in ricerca coi bambini. E i bambini
non sono chiamati a fare un banale laboratorio, ma a vivere il processo di apprendimento,
la relazione coi compagni, la realtà a partire
da una più profonda “rimessa in gioco” anche
di se stessi.
In tempi di videocrazia che produce consumatori passivi, che sforna menti bacate dal virus dei reality, delle veline, che mistifica l’informazione pubblica facendoci dimenticare
ogni pensiero critico, ogni forma di democrazia del quotidiano rivalutare gli insegnamenti
e la portata innovativa sul piano educativo,
didattico e formativo del “cinema fatto dai
bambini” mi pare indispensabile.
Purtroppo, temo, che la sinistra o gli “insegnanti di sinistra” sia anch’essi troppo distanti, troppo occupati da altro, troppo presi
da improbabili “nuovismi” per aver voglia di
ascoltare e capire che ci sono cose che non si
possono buttare via.
Dall’alto:
Man Ray, Scritture
spaziali, 1936.
Bruno Munari, Directs
projections, Domus, 1950.
Bruno Munari, Directs
projections, Domus, 1950.
Fotogrammi dal film I
colori della luce, Bruno
Munari, 1963.
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La scuola, il Cinema, la Collina
Due libri sul cinema fatto dai bambini
A CURA DI FABIO CANI *
N
el 1972 (circa, perché il libro esce
senza la data di edizione) Giovanni Belgrano
pubblica, con la collaborazione di Bruno
Munari per l’impaginazione, un libro che
“mette i piedi nel piatto”.
GIOVANNI BELGRANO
Facciamo subito un film
Emme edizioni, Milano [1972]
Facciamo subito un film è qualcosa di più di
un titolo.
Munarianamente, il libro non ha nemmeno
una riga di introduzione. Già sul retro del
frontespizio, insieme allo spartanissimo colophon, ci sono le prime immagini e le prime
indicazioni.
Così si fa. Non c’è bisogno di girare intorno
alla pratica.
Del libro, per far capire cos’è e com’è, non c’è
altra possibilità che proporre, in queste pagine, alcune doppie pagine.
Diverso è il libro che segue due anni dopo
(circa) a firma di Marcello Piccardo.
MARCELLO PICCARDO
Il cinema fatto dai bambini
Editori Riuniti, Roma 1974
Dalla supremazia della pratica si passa a un
notevole sforzo di narrazione e di teorizzazione. La pratica si fa – sembra dire Piccardo
– ma quando la si racconta bisogna sforzarsi
di dare le indicazioni perché anche chi non
l’ha fatta possa capire.
Ecco dunque che, fin dalla prefazione, tra i
due amici – con rispettivi collaboratori e collaboratrici – si rimarca una certa disparità
di vedute.
Così si legge nella prefazione di Teresa
Mattei: «Dal 1967 abbiamo lavorato, noi del
gruppo di Monte Olimpino, perché i bambini potessero fare del cinema. Occorre spiegare che il titolo scelto per l’insieme di questo
lavoro ha in sé il rigore e la permanenza di
una definizione tecnica e scientifica, e come
tale da allora in poi ha accompagnato i film
che da quel lavoro sono usciti, in tutti i luoghi e le occasione che Marcello Piccardo racconta nel libro.
In questi ultimi anni sono uscite diverse
opere tecniche e pedagogiche sul cinema
come nuova forma di linguaggio espressivo
aperto a tutti; non è compito di questo libro
affrontare il confronto con tali opere, ma se
mai proporre, fra tante altre, e con il minor
filtraggio possibile da parte di noi adulti, la
voce sottile e gentile dei bambini.
I nostri amici Belgrano e Munari hanno pubblicato un libro che s’intitola Facciamo subito un film! [si noti che il titolo è riportato
con un punto esclamativo del tutto apocrifo, a segnalare una ricezione in senso imperativo dell’invito di Belgrano-Munari, n.d.r.],
destinato ai bambini. Noi insistiamo invece
su “cinema fatto dai bambini” perché “cinema” è qualcosa di molto più complesso che
“film”: per “cinema” si intende quell’insieme
di operazioni che si collegano l’una all’altra
per produrre, realizzare e distribuire film.
Dunque la produzione, la realizzazione e la
distribuzione sono i tre campi di lavoro che
si favoriscono e si permettono a vicenda, nel
seguente ordine rigoroso:
– la produzione produce il film impiegando i
mezzi economici e di informazione necessari
alla realizzazione;
– la realizzazione realizza il film (pellicola)
usando la serie tecnico-creativa delle fasi:
idea - oggetto - sceneggiatura - fabbisogno
- ripresa - montaggio - proiezione;
– la distribuzione distribuisce il film in proiezione attraverso i canali disponibili e recupera i mezzi economici per la produzione.
Nessuna fase può essere saltata o ignorata,
se si vuol parlare di cinema; e questo stesso
ordine, che impronta di sé tutto il lavoro, ha
improntato anche [questo] libro dove si parla ordinatamente di produzione, di realizzazione e di distribuzione.
La cosa più importante che è scaturita dall’esperienza che abbiamo compiuto con le
classi (bambini e insegnanti) impegnate nel
cinema di ricerca, è la naturalezza e la facilità con cui l’ordine logico e imprescindibile
del cinema si è sposato alla libera creatività di ogni classe, costituendo anzi un filo
conduttore impercettibile eppure solidissimo
che ha saputo legare insieme le operazioni
di apprendimento, le singole materie, il contributo di ognuno e del gruppo, senza alcun
intervento di elementi estranei alla classe,
se non le poche ore finali di ripresa cinematografica.
Per lasciare liberi al massimo possibile i
bambini di esprimersi con il mezzo cinema,
noi abbiamo capito [...] che gli adulti, la
scuola e le varie istituzioni preposte e previste per la formazione dei bambini – includendovi dunque anche tutti i mass-media, e
in particolar modo la televisione – dovrebbero principalmente occuparsi, delle tre fasi
di cui parlavamo – produzione, realizzazione,
distribuzione –, della prima e dell’ultima, lasciando ai bambini e ai loro insegnanti-assistenti, la gestione più autonoma della fase
centrale, e cioè della realizzazione».
Un’esperienza esaltante
Ma il libro è poi in gran parte il racconto –
con la tipica prosa ellittica e sincopata di
Marcello Piccardo – di un’esperienza esaltante, spesa tra i bambini e le bambine, tra inse-
gnanti, e poi teorici e critici del cinema e chi
più ne ha più ne metta.
Molte di queste realizzazioni avvengono all’interno delle classi differenziali, sapendo
cogliere fino in fondo, senza presunzione e
senza pietismo, la ricchezza e l’intensità di
questa “differenza”.
Tra tutti gli episodi raccontati, il mio preferito è questo – una sorta di minimalismo ante
litteram, dove neorealismo e iperrealtà si fondono con la naturalezza, appunto, di un gioco di bambini.
C’è poi la bambina Luciana che, in seconda
differenziale, ha proposto l’idea di fare un
film con la storia vera di Umberto, un bambino della classe, uno di loro. E i bambini d’accordo, anche Umberto.
Sulla storia vera non c’è niente da inventare,
c’è solo da raccontarla, e allora ecco lei sola,
Luciana, a scrivere il soggetto, e tutti gli altri
contenti come se lo scrivessero loro:
Il film è intitolato Umberto. Umberto è in
quarta ma non sa scrivere bene e il maestro
che è bravo non lo vuole. Il maestro manda a
chiamare la sua mamma che piange e gli dice
che lo manda in terza. Ma viene fuori la maestra di terza che è la moglie del maestro e non
lo vuole neppure lei.
La sua mamma allora piange ancora un po’
più forte.
Anche Umberto piange perché il maestro non
lo vuole.
La signora dice che deve venire da noi e allora noi che siamo una classe differenziale lo
teniamo.
I bambini hanno preso per buona la storia di
Umberto (nel soggetto non c’è nessun pregiudizio negativo, la storia è raccontata così
com’è) e raccontandola profondamente hanno fatto la rivoluzione nella piccola scuola
di campagna: per raccontarla più profondamente, hanno deciso che interpreti del film
fossero gli stessi personaggi veri della storia:
Umberto, il maestro di quarta, la mamma di
Umberto, la maestra di terza, la signora direttrice e loro bambini con la loro maestra.
È successo che il maestro di quarta, la maestra di terza e la signora direttrice, spaventati
che la storia (vera), con dentro il loro abuso
di autorità e il loro disprezzo per Umberto,
raccontata in cinema, venisse conosciuta, si
sono rifiutati di collaborare, e la signora direttrice ha vietato ai bambini e alla loro maestra di fare quel film.
E per maggiore tranquillità, Umberto è stato
riportato in quarta.
Allora la bambina Luciana ha completato il
soggetto:
Però Umberto non fa il bravo e fa arrabbiare
la maestra; ma ora è ritornato in quarta, e lui
non ci voleva andare più;
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e hanno fatto il film con la sola ripresa della scrittura di Luciana, che lo spettatore legga il soggetto così come è scritto, ed è ancora cinema.
Si direbbe che i bambini, impediti di esprimersi nel mezzo, si esprimono direttamente
nella realtà, capovolgendola.
Questo, quando il mezzo è simile alla vita,
come lo è il cinema.
Ma anche nelle tante “ipotesi” di soggetto
del film Il vecchietto, realizzato nel 1968 in
una prima elementare di Cantù, si leggono
senza difficoltà le inesauribili possibilità dell’uso creativo della scuola.
Ne cito qualcuna (nella grafia originale, riportata da Marcello Piccardo nel suo libro).
Il vecchietto è dietro fare colazione arriva un
vecchio sgarbato al mattina e suona il campanello e dice: Chi è? Apri.
E va bene ecco ho aperto.
Allora dice il vecchio sgarbato: – Dammi il
vino.
L’altro risponde: No no vai in osteria a bere
il vino.
Il vecchietto si fa il bagno.
Il vecchietto telegiornale.
Il vecchietto si alza alla sera. Il vecchietto
mangia.
Il vecchietto conta 7+7=14.
Il vecchietto dorme.
Il vecchietto mangia. Il vecchietto beve l’acqua.
Il vecchietto i vestiti.
Il vecchietto la macchina. Il vecchietto b.
Il vecchietto gioca.
Il vecchietto veste. Il vecchietto canta.
Io voglio fare il vecchietto che si lava le mani
a mezzogiorno e si rade la barba e entra dentro la sua casa e mangia e beve il suo buono
vino e la notte va al letto eil mattino s alza.
Dopo mangia il latte.
Io il vecchietto lo vorrei fare che picchia i
bambini o pure che tagli il fieno si potrebbe
che guida il cavallo
Il vecchietto cominciamo così:
che picchia i bambini al mattino il vecchietto picchia i bambini perché non ubidiscono
si siede sulla sedia per leggere il giornale taglia il fieno per dallo al cavallo
il cavallo lo prendere prendere l’erba
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il cavallo lo adopera al pomeriggio il giornale
lo legge al mattino l’erba a pomeriggio.
Il vecchietto si alza dal’letto e tira fuori il pigiama si mette i calzoni va in bagno.
Fine il primo tempo.
Si rade la barba va fuori dal bagno si tira su
le bretelle.
Il film comincia con un po’ di musica e le
scritte.
Incomincia con il vecchietto che legge che si
veste si lava, si fa la barba si pettina prende il bastone.
E così di seguito (le molte interpretazioni
personali dei bambini di quarant’anni fa sono
alle pagine 33-38 del libro di Piccardo).
Da Monte Olimpino a Venezia
C’è poi ancora il racconto del rapporto col
mondo degli adulti, con i luoghi topici del
cinema.
«A Venezia, a portare 4 film dei bambini, ci andiamo in 4, tanti quanti sono i diversi aspetti del lavoro: sociale, didattico, espressivo,
tecnico: Teresa Mattei, Giovanni Belgrano,
Marcello Piccardo, Andrea Piccardo.
I film sono: La chitarra, Il pagliaccio, La scatola, Il vecchietto.
Il 26 luglio, da Monte Olimpino a Venezia come
per un’avventura di frontiera, e dentro il palazzo del cinema a sciogliere i diaframmi burocratici, in quattro nell’ufficio di Luigi Chiarini,
direttore della Mostra del cinema. Ciascuno
per la sua parte, a turno, e tutti insieme, per
fargli capire che si tratta di bambini autori: ci
rifiutiamo di lasciare che i film siano presentati nella mostra minore per i ragazzi: sono film
fatti dai bambini per i grandi, sono lungometraggi di bambini, nel cinema dei grandi possono cambiare radicalmente la produzione, la
realizzazione e la distribuzione.
Domandiamo, a ragione spiegata, che questi quattro film siano presentati nella Mostra
grande internazionale, alla pari coi film dei registi grandi, ad un pubblico di grandi.
Chiarini è prima diffidente, poi perplesso, finalmente è convinto quanto basta per disporre che la Commissione di selezione veda
subito questi quattro piccoli film che questi
quattro signori (fra cui una donna e un ragazzo) affermano importanti.
Nel salone delle proiezioni siamo noi quattro soli coi cinque signori della Commissione
(i critici cinematografici P. Bianchi, G.B.
Cavalleri, T. Kezich, F. Savio e G. Tinazzi) che
siedono per giudicare e criticare quel che han
fatto i bambini.
Silenzio prima, diciamo solo che questi film
che vedremo li hanno fatti i bambini di prima
elementare, a scuola, tutti da sé.
E nel buio, col batticuore, rivediamo i piccoli
film, splendidamente proiettati come si meritano, sul grande schermo, i grigi, i colori,
i suoni, così veri che la nostra realtà sembra
una favola.
Subito sentiamo molto bene che i 5 grandi
critici sono meravigliati, la meraviglia è subito espressa, e le domande che fanno ci fanno contenti, sono domande serie, le stesse
che noi ci siamo fatti al principio, e sappiamo cosa dire.
Teresa Mattei dice che il cinema di ricerca matura liberi i bambini e libera l’ambiente intorno; Giovanni Belgrano, che il cinema comprende e sollecita tutto l’apprendimento; Marcello
Piccardo, che il cinema fatto dai bambini apre
all’infinito e le possibilità del mezzo. Andrea
Piccardo (che ha fatto le riprese per i bambini) dissolve decisamente i dubbi di un intervento tecnico dei grandi.
È tutto vero.
G.B. Cavallaro, il capo e il più grasso dei critici, fa di corsa le scale che salgono all’ufficio
di Chiarini, per dire subito che questi film dei
piccoli vanno bene per la mostra dei grandi.
Torniamo da Chiarini e c’è aria di festa: in
questo festival i bambini portano festosamente aria nuova. Chiarini è contento, e i discorsi adesso sono di intesa, parole e pensieri
che si somigliano, che vanno bene per tutti:
faremo una festa grande, i bambini saranno
a Venezia invitati dal festival, i piccoli film
verranno presentati insieme al grande film Il
castello, del regista tedesco Nolke, interpretato da Maximilian Schell, il quale presenterà
i bambini al pubblico dei grandi.
Quando il segretario timido gli osserva che
forse i regolamenti non lo permetteranno,
Chairini risponde allegramente che i regolamenti sono fatti per essere infranti».
Come va a poi a finire l’avventura veneziana
del cinema fatto dai bambini si può leggere
in un libro di molti anni dopo.
All’inizio degli anni Novanta, Marcello
Piccardo ha raccontato la storia sua e della
sua collina del cinema nel libro
Marcello Piccardo
La collina del cinema
NodoLibri, Como 1992
Qui, in mezzo al cinema di ricerca, tra la storia di un figlio e quella di una figlia, Marcello
ricorda in tutta la sua importanza anche il
rapporto con la scuola.
Da qualche tempo si era unito al gruppo
Giovanni Belgrano, che da ragazzo veniva nella prima storia di Monte Olimpino al «Tocia»
con un ciuffo rosso e un piffero e la voglia di
cinema, sembrava Danny Kaye, e adesso dirigeva didatticamente la scuola speciale della
Nostra Famiglia a Bosisio Parini.
Fra i giovani che a Como vedevano i nostri
film c’erano maestri e maestre: abbiamo formato a Monte Olimpino una sezione didattica
della cineteca e lì si cominciava a ragiona-
re di cinema a scuola, che consisteva allora
soltanto nella proiezione in classe di qualche
brutto documentario.
Come una maestra giovane, Gabriella, di classe speciale, ha pensato che forse i bambini
handicappati (allora considerati subnormali)
potevano fare cinema, e come quei bambini hanno fatto il primo film, La chitarra, di
cinque minuti (1966-67), l’ho raccontato nel
mio libro del 1974, Il cinema fatto dai bambini, edito dagli Editori Riuniti a Roma.
Da Como l’Amministrazione Provinciale, credo nel novero delle attività benemerite della provincia, ci ha assegnato l’una tantum di
cinquantamila lire; subito a Chiasso abbiamo
comperato una moviola di ghisa, pesantissima e preziosissima, che poi fu prestata a
Gavioli della Gammafilm di Milano che ne ha
rotto un pezzo.
Uno per volta da Como sono venuti a far parte
della cineteca il giornalista Longatti, il critico Caramel e l’architetto Parisi.
Con loro, mio fratello Osvaldo tornato dalla
direzione animazione della Incom a Roma,
con le apparizioni di Munari e di suo figlio
Alberto già all’Università di psicologia di
Ginevra con Piaget, pian piano nei tempi,
giorni e anni di riposo abbiamo vissuto un
dialogo lungo e duro per chiarire il rapporto
tra ricerca e struttura. Noioso per i figli, ma
considerato lavoro e compensato.
Mio fratello, più preciso, tiene ancora i resoconti.
Per me, i bambini col cinema hanno concluso
quel dialogo.
Da ultimo, quasi alla fine del libro, il racconto
della realizzazione di un film è l’occasione per
una riflessione generale su tutta l’esperienza
(Marcello Piccardo non era uomo di “bilanci”)
sul cinema dei bambini e degli adulti, contro
ogni semplificazione e assuefazione alle “verità” date per scontate.
Il cinema fatto dai bambini
1970, per conto di Fiat-Olivetti-Monte
Olimpino.
16 mm bianconero muto, durata 10 min.
Film di ricerca sul movimento per la distribuzione e la promozione del cinema fatto dai
bambini.
Accorgimenti tecnici: due cineprese 16 mm,
niente lampade, registratore audio, pellicola
bianconero.
Idea di Marcello Piccardo, regia e fotografia
di Andrea e Anna Piccardo.
Non è un caso che sia cominciato in quegli
anni il cinema fatto dai bambini: la giovane
maestra Gabriella che ha domandato ai bambini cosiddetti subnormali se volevano fare
un film non aveva certo concetti già pronti
su quei bambini, e gli anni erano quelli in cui
per i giovani e i ragazzi e le ragazze i concetti
già pronti diventavano trasparenti e il vento
cominciava a portarseli via. Chi dei grandi si
presentava con un bel pacco pesante di concetti già pronti il vento che veniva dall’ovest
si portava via anche loro. Più che contro i padri i maestri e i grandi in generale, soffiava
contro quel che padri maestri e grandi proponevano ai ragazzi: preconcetti. Ma se i grandi
li tenevano stretti volavano anche loro.
Munari e io come padri grandi (Munari anche come maestro) preconcetti ne avevamo
pochi, ci piaceva inventare la vita lì per lì,
il cinema che avevamo cominciato era cinema di ricerca, senza preconcetti, per questo
i ragazzi non ci soffiavano addosso e abbiamo tenuto per tanti anni; ma adagio adagio
anche il nostro cinema di ricerca si induriva
o rallentava contro quel vento, un po’ perché
implicava un rapporto con le grandi imprese
già fondate su concetti pronti, un po’ perché
lo stesso movimento giovane, stretto fra cattivi maestri e repressione dura, non si fidava
dei grandi e basta.
Ai miei figli questa tempesta di vento non
riusciva nuova, la nostra vita anche prima era
piena di vento, c’erano concetti pronti, ma ce
li eravamo inventati noi.
Parlo degli anni 1966-69. Il cosiddetto ’68.
In quegli anni è cominciato il cinema fatto
dai bambini che ha sventolato via gli ultimi
fogli di preconcetti che io potevo ancora avere sul cinema: quindici bambini handicappati
hanno messo lì un piccolo film di ricerca venuto fuori da una condizione subnormale, da
sotto rispetto a dove io mi consideravo autore di cinema, e questo film stava sopra.
Non solo: fin che io sono riuscito a conservare al cinema dei bambini le stesse condizioni
del primo La chitarra, anno per anno scolastico bambini cosiddetti normali differenziali o subnormali, classi intere sfornavano freschi piccoli film di grande cinema, che messi
a confronto, passati a setaccio, al microscopio, grattati sotto e sopra dai grandi esperti,
in proiezione incantavano tutti e nessuno li
dimenticava.
Qualcuno aveva seminato da qualche parte,
il terreno di quegli anni aveva le condizioni
giuste, sono spuntati belli e forti quei piccoli
film, e il vento gli era favorevole.
Il mio preconcetto di adesso (ma me lo sono
inventato io) è che il cinema fatto dai bambini, di tutti i movimenti di quegli anni, è l’unico ancora in movimento.
Basta anticipare l’età dei «giovani del ’68»
dai 18 ai 6 anni e questo movimento raccoglie i semi della speranza di allora e continua
a piantarli dappertutto, senza il malcontento. C’è dentro il benessere di essere. E il nome
Monte Olimpino va bene per i bambini.
La mia idea consisteva nel dire ai ragazzi che
mi venissero appresso a riprendere immagi-
ni e suoni mentre io presentavo e proiettavo in mezza Italia, da Milano a Roma, i film
dei bambini.
C’era anche una Cristina più giovane, amica di
Anna, che registrava i suoni e intanto distribuiva fogli d’informazione.
Gli accorgimenti tecnici rispondevano al regime di stretta economia in cui si girava l’Italia
e il film. Il solito pulmino Fiat, con le solite
scritte grandi, questa volta oltre a noi quattro conteneva gli strumenti di lavoro più il
proiettore 16 mm. che avevamo da un anno,
la moviola di ghisa, tutte le pizze dei filmbambini e tutti i raccoglitori del materiale di
lavorazione dei film.
La storia è nel libro Il cinema fatto dai bambini, ora racconto soltanto, di questo lavoro,
quel che lo fa cinema di ricerca dei grandi
sulla collina di Monte Olimpino nel 1970.
È anche la storia dei ragazzi più giovani,
Andrea e Anna 22 e 18 anni, a cui concretamente erano rimasti in mano tutti gli strumenti del laboratorio e anche le sedie da regista, via via che i più grandi passavano oltre
o andavano altrove; e nelle mani raccoglievano, e anche nella testa, i gesti e la logica
semplici del fare cinema di ricerca come lavoro in tutto il giro della realizzazione, con la
naturalezza di chi ci vive, come nessuno dei
fratelli maggiori ha fatto in tempo. Durante
i viaggi io facevo tutt’altro (tutte le decisioni che competevano alla ricerca spettavano
a loro): indaffarato com’ero a fare tutt’altro
quasi non li vedevo, ma quando li coglievo
con la coda dell’occhio sembravano distratti,
così non so come hanno fatto le cose che un
poco racconto.
(Si faceva una settimana di viaggio a registrare immagini e suoni, una settimana a
Monte Olimpino a vedere il registrato e riposare, una settimana di viaggio e via così… Le
immagini di Monte Olimpino sono di gente
rilassata sul divano a fumare e chiacchierare,
coi nipotini intorno; le immagini di viaggio
sono movimento).
La collina del cinema (il cinema, la ricerca,
la didattica, i dubbi e la consapevolezza…)
è tutta qui.
Che altro c’è da aggiungere? direbbe
Marcello.
L’abbiamo già fatta fin troppo lunga.
* Casa editrice NodoLibri Como.
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IDEE
per l’educazione
PEDAGOGIE La collana di pedagogia
diretta da Paolo Perticari, docente di
Pedagogia generale e Filosofia della formazione
all’Università di Bergamo, ripropone la
discussione su intellettuali “storici”, rileggendoli
con gli occhi dell’oggi. «La pedagogia è come
il sapere − spiegano dalla Casa editrice
Mimésis − può diventare fonte di crescita; non
a caso don Milani è il primo della serie.» La
pedagogia degli “scarti” e dei
“cortocircuiti”
MONICA ANDREUCCI
P
aolo Perticari inizia a lavorare nell’80 a
Bologna, ai tempi della “pedagogia dell’intrusione”, riflettendo su come le nuove tecnologie avrebbero potuto cambiare il modo di fare
scuola. Al bambino, un tempo, si dava come
educativa l’impronta della famiglia, mentre a
Perticari, negli anni ‘80 apparivano già più
incisive le conoscenze delle intelligenze multiple (rifletteva, per esempio, si sui temi della convivialità, della conversazione, dell’errore come conoscenza). Questioni che allora
rivoluzionarono il dibattito pedagogico.
Diversi gli input del ’96, quando lo studioso scrisse Gli attesi imprevisti. L’invito all’educatore è a misurarsi con l’educando con
segnali, relazioni e un feedback adeguato.
L’interazione è dolce, mite, altro che la pressione, l’autoritarismo o l’egemonia, la paura,
il ricatto. E nell’interazione l’educatore cerca
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di superare le forme più o meno esplicite di
gigionismo, inteso come ansia di protagonismo, timore di non riuscire ad incidere nella
formazione, nella vita del giovanissimo interlocutore. Nel libro si affronta anche il tema
di imparare nella banalità: proprio da quello
che l’alunno ci dice più o meno direttamente. Per Perticari, educare vuol dire richiamare alle responsabilità, cosa che non avviene
nel linguaggio dei burocrati. Fondamentale
per un’azione pedagogica veramente efficace
è non aver “paura dei programmi”. In quegli anni la tendenza in didattica era quella
di percorrere la via più breve con griglie, verbali, scartoffie, test che sono domande di cui
già sanno le risposte. Gli alunni non esprimono il proprio vissuto, cercano solo la risposta
più “attesa”. «Più è sicura la memorizzazione
di risposte prevedibili − scrive Claudia Fanti
sulla rivista online Educazione e Scuola − più
è alto il rischio che la persona sia privata della sua creatività». Piuttosto, sono essenziali
anche gli errori commessi nelle cosiddette verifiche, in quanto servono a indagare il percorso che lì ha portato. E poi c’è il problema dei tempi. A Ruffio, piccola frazione della
malatestiana Cesena, sulla strada davanti all’unica sezione della scuola, prima dell’istallazione dei semafori “intelligenti” un cartello
diceva: “chi vuole bene ai bambini va piano”.
Questo è assolutamente vero in ogni senso.
C’è più tempo che vita. Ma a scuola, ci riusciamo ad avere tempi lunghi e distesi?
Recentemente Paolo Perticari ha avviato una
importante collaborazione con la Casa editrice Mimésis. Mimésis (nata a Milano nel
1987) che, oltre a saggi accademici filosofici (di estetica in particolare, su temi antro-
INFO
Educare alla cittadinanza
pologici, esoterici, di architettura), raccoglie
e diffonde le idee che animano la riflessione
culturale e pedagogica internazionale. Il libro
di Perticari, L’obsoleto. Don Milani dopo don
Milani (Milano 2008) è il primo di una nuova collana di pedagogia, diretta dallo stesso Perticari. Perticari è sferzante, come già
diceva ne L’educazione impensabile del 2006,
denuncia il progressivo grado di imbarbarimento dell’educazione e invita a ripartire dagli “scarti”, dai “cortocircuiti”. La Genesi spiegata da mia figlia, in cui Baharier racconta
le intuizioni stimolate dalla sua pargoletta
down, è lì a dimostrare che si può comunque
raggiungere l’eccellenza anche se si è piccoli,
sciancati, vecchi ed apparentemente inabili
a riflessioni “alte”. Occorre cercare insomma
una forza nuova dentro di noi, qualsiasi sia la
nostra condizione.
Don Milani dopo don Milani
Don Milani era uno “scarto” della società di
allora! Il libro è attraversato dalla sofferenza,
ma si legge in fretta proprio per le sferzate
che Perticari ci dà. «Eccesso di sfruttamento
industriale delle emozioni primarie», scrive a
proposito del “Silenzio di Dio” di fronte all’eccesso di divertimento. «Snodi di biopolitica delle anime» che portano a quella che, con
Bauman, chiama “Società liquida” per la liquefazione dell’essere umano nella sua essenza. «La nostra epoca non è più quella della
tecnologia della scrittura ma quella della tecnologia dello spirito». «L’immateriale è qualcosa che affumica, annerisce le coscienze»;
«Da cittadini siamo stati trasformati in tifosi,
da giocatori in spettatori»; «La democrazia
non è un regalo, è esercizio di cittadinanza»;
«Il conflitto di Don Lorenzo con la Chiesa somiglia a quello di Socrate con Atene».
Tanti, soprattutto negli anniversari, i convegni su don Milani, ma sembrano interessati
più a commuoversi invece che ad approfon-
dirlo. È stato censurato, addolcito, eppure
non si riesce ancora a fare un inventario delle sue lettere per la ricchezza straordinaria di
materiale. Stessa sorte è toccata ad un altro
grande, Gramsci.
In sostanza l’autore sottolinea che il prete di
Barbiana non è obsoleto nel senso comune:
piuttosto che “perdente”, siamo di fronte ad
un personaggio “controcorrente”.
Questo non è un libro su don Milani, ma sul
dopo di Lui, quando ormai tutto sembra perduto. Fare educazione in queste condizioni
non significa attualizzare l’obsoleto, ma al
contrario, rendere obsoleto l’attuale, svelando fino in fondo la vanità del tempo che stiamo vivendo. Quello dell’autore vuol essere un
esercizio affettivo e pedagogicamente rivoluzionario di conversione storica: l’educazione
si rivolge al mondo nel suo istante di pericolo, non come tappabuchi rassicurante bensì come transito verso la giustizia (nel senso
più ampio: sociale, ambientale, economica...)
necessaria.
«Rispetto alla vastità dell’argomento questo
lavoro è proprio poca cosa […] la questione non è come rendere Don Milani attuale,
perché più si legge più lo si scopre attuale.
Nulla è tramontato del suo pensiero, e per
comprenderlo c’è bisogno di ragionarci in tre
direzioni: lui ha un’opera, una scrittura che
ne fa un raro caso di grande autore più citato
anziché letto e studiato».
Don Milani ha una cultura, una ricchezza, una
dimensione pedagogica, oltre ad una grande
scrittura, che ne fanno una delle più grandi
anime della storia italiana del dopoguerra.
La cura dello spirito
Per Perticari è il problema capitale e fondamentale in questo tempo. Con don Lorenzo
si può porre in modo essenziale la questione
della mente nell’epoca delle tecnologie dello spirito. La TV, ad esempio apparentemente
Il volume Educare alla cittadinanza. Proposte
e modelli di intervento per Istituti Secondari
di secondo grado e Agenzie Formative.
Raccoglie i risultati del progetto “Formazione
alla cittadinanza per stranieri residenti
in Italia”, promosso dalla Provincia di
Torino e dalla Fondazione per la scuola
della Compagnia di San Paolo. Ma, come
precisa Fiorella Farinelli nella prefazione, i
moduli elaborati da insegnanti e formatori,
e sperimentati nell’anno scolastico 20082009 nel primo biennio della superiore e
nei percorsi di formazione professionale,
sono rivolti non solo agli allievi immigrati
o figli di immigrati, ma a tutti, perché
tutti, italiani e stranieri residenti, devono
diventare “cittadini consapevoli” attraverso
un processo educativo in cui abbiano
larga parte gli scambi, il dialogo, il lavoro
comune. L’iniziativa è stata realizzata
in collaborazione con il FIERI (Forum
Internazionale ed Europeo di Ricerche
sull’Immigrazione) di Torino e l’introduzione
al libro è scritta da Roberta Ricucci, docente
dell’Università, attiva, oltre che nel FIERI,
nel “Comitato Oltre il razzismo”. L’idea è di
non rinchiudersi dentro la disciplina della
nascente “Cittadinanza e Costituzione” ma di
predisporre percorsi variamente utilizzabili
nel lavoro scolastico. Attraverso schede o
unità didattiche
«l’obiettivo è
quello di fornire
contenuti e
strumenti che
si traducono
in esperienze
quotidiane,
tangibili per
studenti che
sempre più
sappiano
intrecciare
l’esperienza
scolastica
con quella
extrascolastica». I
percorsi – che si avvalgono di analisi di testi,
di proiezioni di film con lettura guidata,
ecc. – sono raccolti in tre grandi temi: le
istituzioni, la realtà multiculturale, la società
globale. Un CD allegato contiene materiale
che va dalla Dichiarazione universale dei
diritti umani e dalla Costituzione italiana a
vari strumenti usati nel corso dell’esperienza
(cartine, cruciverba, approfondimenti, ecc.),
e a ulteriori bibliografie e filmografie.
Il volume può essere richiesto a
cittadinanza@fieri.it ed è prevista anche una
edizione on line sul sito www.fieri.it.
CESARE PIANCIOLA
cittadinanza
è uno strumento, ma in realtà è un mondo,
è un modo di concepire la vita. «[…] Chi vi
opera fa un lavoro che è vendita di cervello
e tempo alle aziende che finanziano la televisione». Impressionate l’aderenza alla quotidianità, nonostante siano passati 42 anni
dalla sua morte...
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NUOVI CITTADINI C’è una nuova
generazione di giovani che non sono
immigrati, ma sono nati in Italia e si sentono
italiani, seppure con un’eredità culturale che
guarda ad altri paesi. È una nuova sfida per
la politica, i media, la scuola che ancora si
attarda a parlare di “integrazione”. Riflessioni
sulla cittadinanza a partire dal cricket
Immigrati a vita?
MAURIZIO DISOTEO
D
urante la scorsa estate, i giornali hanno riportato come una divertente curiosità la
vittoria della nazionale di cricket italiana agli
europei under 15. Un risultato sorprendente,
per uno sport di cui molti in Italia non sanno
nulla, pur con tutto il rispetto per la nazionale seniores che con lodevole spirito olimpico cerca di sollevarsi dal trentesimo posto
mondiale. Alla base di questo risultato straordinario della nazionale giovanile c’è il fenomeno migratorio che ha portato in Italia, soprattutto da diversi paesi asiatici, i genitori
dei giovani campioni tra i quali alcuni sono
immigrati, altri nati in Italia e altri ormai già
legalmente italiani. Questa notizia, vista appunto dalla maggior parte della stampa come
un fatto simpatico ma curioso, di cui appro-
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fittare per sfottere un po’ la Lega Nord, è invece da prendere molto sul serio. Infatti, è
specchio delle trasformazioni che i fenomeni migratori stanno provocando nella società italiana e dell’impossibilità di ricondurre
la dialettica tra le persone originarie di diversi paesi al semplice noi/ voi o autoctoni/ immigrati.
Regolazione e cittadinanza
Sta crescendo una nuova generazione di giovani che non sono affatto degli immigrati,
ma, in gran parte, sono nati in Italia e si sentono italiani, seppure, magari, con un’eredità culturale che guarda ad altri paesi. È una
nuova sfida per il mondo della politica, della stampa, dell’educazione che ancora si at-
tarda a parlare di “integrazione”. I giovani
nati in Italia da famiglie straniere non hanno nessun bisogno di integrarsi, hanno frequentato la scuola italiana, parlano italiano,
hanno diverse abitudini, idee e aspettative
vicine a quelle di molti altri giovani italiani di ascendenza italiana e qualcuna invece
legittimamente diversa Devono quindi vivere
la loro piena cittadinanza, senza che si debba per loro sempre parlare di “integrazione”.
E trovo che il termine di “integrazione” sia
inadeguato anche per molti immigrati che rivendicano, giustamente, il diritto di contare
e di poter partecipare alla produzione delle
regole delle società italiana.
Come ha osservato, in termini lapidari,
Dominique Schnapper, sociologa francese,
«l’integrazione è il punto di vista del dominante sul dominato»1. Nel dibattito francese,
meno imbrigliato negli ultimi anni dai vincoli di una politica assimilativa e dalla retorica
repubblicana che ha dominato per decenni
l’esagono, si fa strada il termine di regolazione, preferito a quello di integrazione perché
rappresenta meglio la partecipazione attiva
dei cittadini alla vita collettiva e in particolare alla formulazione delle regole sociali
piuttosto che il doversi conformare a norme
e leggi del paese d’immigrazione presupposte come immutabili Questo aspetto fondamentale nel concetto di cittadinanza, vale a
dire poter partecipare alle scelte politiche e
alla formulazione delle regole e delle leggi,
sembra sfuggire oggi ai politici, soprattutto di destra ma anche a qualcuno di sinistra, a gran parte della stampa e certamente a ministri come Gelmini o Carfagna che,
nella loro visione culturale profondamente
italocentrica e cattolicocentrica propongono
costantemente una situazione in cui ci sono
dei “loro” che mettono in discussione i valori eterni e immutabili della nostra società
a cui invece costoro dovrebbero passivamente adeguarsi.
La “tolleranza” negativa e indifferente
In una delle sue ultime dichiarazioni, il ministro Carfagna (Pari opportunità), parlando di “tolleranza”, usando quindi un termine
che in tema di interculturalità è considerato negativo (ma lei non lo sa), ha detto che
«Siamo disposti [usi il singolare, per favore
n.d.a.], ad accogliere chi viene per integrarsi
e rispettare le nostre leggi, […] la tolleranza non può diventare una minaccia alla nostra civiltà». Un vero esempio delle sue idee:
gli altri possono essere “tollerati” sino a che
stanno zitti e rispettano le “nostre leggi”,
lavorano tacendo e non sollecitano diritti di
partecipazione alla società. Ora, io non “tollero” proprio nessuno, ma metto in discussione democraticamente qualunque idea e
qualunque posizione e legge e prendo posizione su tutte le diverse espressioni culturali ma non ritengo che le “nostre leggi” siano
immanenti al mutare della società. La tolleranza è un atteggiamento negativo e indifferente. La tolleranza lascia intatte e forse
rafforza le barriere culturali, è contraria al
confronto e al necessario conflitto ed è un
atteggiamento non inclusivo. Tornando, tuttavia, al motivo principale di questo articolo, qualunque studente che abbia dato almeno un esame a Giurisprudenza sa che le leggi
sono la codifica di quanto avviene in una società e sono la ratifica di norme condivise
all’interno della stessa; in pratica, non sono
norme che cascano dal cielo e in quanto tali
immutabili. Rappresentano una regolazione
(azione di regolare) tra gli attori sociali. Di
conseguenza, anche se può spiacere a molti
conservatori, se una parte consistente della popolazione italiana non si riconoscesse
più in certe regole, esse dovrebbero essere
rinegoziate, con serenità e senso democratico. Una vera democrazia rifiuta di porre barriere di primogenitura su un territorio, pena
diventare una compagine tribale, arroccata
nella guerra a tutto ciò che ritiene possa invadere il suo territorio, la sua vera o presunta civiltà, i suoi valori (parola quest’ultima
difficile da usare visto che, peraltro credo di
avere pochi valori in comune con Berlusconi,
nato nella mia stessa città, e molti di più, invece, con persone di nascita territorialmente lontana).
Territori condivisi
Sarebbe bene rendersi conto che la mondializzazione ha delocalizzato i luoghi di produzione e di fruizione delle culture, che si
diffondono nei territori del mondo attraverso
la testa e le gambe degli uomini e delle donne che le rappresentano in modo originale e
singolare. Le culture non sono gabbie, schemi rigidi tra “noi” e presunti “loro” che debbono “integrarsi”; ogni uomo, ogni donna, è
padrone del suo destino, anche se porta con
sé la propria storia di vita e si trova a vivere in territori che non appartengono ad “altri” ma che sono condivisi da persone di diversa estrazione. Si tratta quindi di pensare
più che alla “integrazione” alla formulazione
di nuove regole adatte alle mutate situazioni
sociali, che tengano conto rispettosamente
di tutti coloro che sono cittadini di un paese
e che hanno diritto a decidere come vivervi.
Soprattutto, si dovrebbe evitare che ci siano
coloro che sono cittadini per nascita e altri che sono immigrati a vita, come accade
in altri paesi di più lontana storia migratoria, nonostante siano nati e vissuti sempre in
quel paese. Integrati certo, ma mai cittadini
a pieno titolo.
Quindi, se tra qualche anno il cricket in Italia
diventerà più popolare del calcio, non ci sarà
né da rallegrarsi né da disperarsi, semplicemente la popolazione italiana sarà cambiata,
come da secoli avviene in tutto il mondo e
per tutti i processi sociali e culturali. E forse
avremo, allora, la domenica pomeriggio un
“Tutto il cricket minuto per minuto” che affiancherà o sostituirà “Tutto il calcio minuto
per minuto”.
NOTA
1. Dominique Schnapper, in Qu’est-ce que l’intégration? Parigi, Gallimard, 2007.
ECONOMIA Anche per il 2010
Sbilanciamoci! Ha presentato la sua
proposta di Finanziaria (http://www.
sbilanciamoci.org/index.php?option=com_
content&task=view&id=913). Riportiamo
alcuni stralci che riguardano il diritto allo
studio dalla materna all’università, con una
particolare attenzione agli immigrati Le
proposte di Sbilanciamoci!
T
remila asili nido. Di fronte alla drammatica carenza di servizi pubblici per le famiglie
in alternativa ai bonus bebè e ad altre misure populistiche e inefficaci Sbilanciamoci! propone uno stanziamento straordinario di 1miliardo di euro per l’avvio di 3000 asili nido nel
2009.
Edilizia scolastica e alloggi universitari. Sbilanciamoci! chiede la realizzazione di un piano
pluriennale di investimenti, che sia in grado di stabilire priorità ed inizi con l’investimento
di 350 milioni per le situazioni emergenziali.
Abolizione dei fondi alle scuole private e del buono scuola. 732 milioni di euro. Questo si
risparmierebbe con l’eliminazione dei sussidi pubblici alle scuole private. Si tratta di utilizzare le stesse risorse per rilanciare la scuola pubblica, intervenendo su quelle che sono le
emergenze: il diritto allo studio, l’edilizia scolastica, la qualità dell’offerta formativa.
Autonomia scolastica ed offerta formativa. L’autonomia scolastica dev’essere potenziata,
rendendo possibile un percorso di riqualificazione e aggiornamento dell’offerta formativa.
Per questo è necessario ripristinare i finanziamenti destinati al funzionamento didattico
amministrativo, che negli ultimi anni ha subito un taglio per 200 milioni. Vanno riportati
alla quota del 2001 anche i finanziamenti per la legge 440/97 sull’offerta formativa. In totale servono 300 milioni da mettere a disposizione nelle scuole.
Fondo per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni. Chiediamo un fondo di almeno di 300 milioni di euro che devono servire a garantire il rispetto dell’innalzamento dell’obbligatorietà scolastica. Questo fondo deve servire a garantire i costi dei libri di testo e
altre spese legate al pieno rispetto del diritto allo studio.
No alla trasformazione delle università in fondazioni. Si chiede la revoca della decisione di
avviare il processo di trasformazione delle università in fondazioni private; si tratta di una
decisione che va nel verso non di una maggiore autonomia alle università, ma di una privatizzazione che può avere effetti gravissimi sul diritto allo studio.
Borse di studio. Sono migliaia gli studenti che sono stati riconosciuti idonei per le borse
di studio e che non possono usufruirne per mancanza di risorse. Proponiamo di stanziare 100 milioni aggiuntivi per garantire le borse di studio agli studenti universitari riconosciuti idonei.
Alloggi universitari. Molti studenti fuori sede si trovano spesso preda del mercato illegale
dell’affitto di case private a causa della mancanza di strutture residenziali pubbliche o agevolate. Le misure della scorsa legislatura con gli incentivi determinati dalle detrazioni di
una parte dell’affitto pagato non hanno funzionato. Ecco perché chiediamo lo stanziamento
di almeno 200 milioni per gli alloggi universitari oggi gravemente carenti.
Scuole per tutti. Sono già più di 500.000 gli alunni e gli studenti di origine straniera che
frequentano le scuole italiane. Il nostro sistema scolastico non è preparato. 22,5 milioni di
euro potrebbero essere utilizzati per promuovere iniziative di formazione per gli insegnanti,
riorganizzare l’accoglienza e l’inserimento scolastico dei ragazzi di origine straniera, predisporre strumenti di supporto agli insegnanti, introdurre negli istituti scolastici l’insegnamento intensivo della lingua italiana L2.
Borse di studio per giovani di origine straniera. 5 milioni di euro consentirebbero di offrire borse di studio di 1000 euro a 5000 giovani di origine straniera interessati ad accedere
all’università o a frequentare master universitari favorendo un loro inserimento qualificato
nel mercato del lavoro. Spazi interculturali e risorse per i giovani di seconda generazione.
10 milioni di euro potrebbero finanziare la creazione di spazi di socializzazione interculturale e supportare l’auto-organizzazione dei giovani di origine straniera interessati a promuovere iniziative sociali e culturali auto-gestite.
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esperienze narrate
SE L’ARTE CI PRENDE PER MANO
Per due anni scolastici, la scuola primaria “San
Giovanni Bosco” di Foggia, per intero − bambini,
genitori, insegnanti, dirigente e tutto il personale
ausiliario −, si è lasciata coinvolgere in una sfida:
rendere migliore lo spazio, simbolico e reale,
tenendo in equilibrio la ricerca del bene comune
e le preziose differenze dei singoli soggetti che
la propria preziosità hanno avuto il coraggio di
investire. L’incontro con un’artista, Maria Lai, che
rende visibile attraverso la sua opera il rapporto
inscindibile tra spazio e relazioni umane che
quello spazio abitano
DONATA GLORI *
U
na lettera di ringraziamento
Agli alunni della scuola San
Giovanni Bosco di Foggia,
Come quando, nei racconti delle fiabe, ci troviamo sperduti
in un bosco, ne conosciamo la
meta ma non la via, così nel
mondo dell’arte abbiamo vagato nel tempo sognando altre realtà e, costruendo artifici di interminabili giochi della
nostra interminabile infanzia, ci avviamo per
un sentiero che poi abbandoniamo in cerca di
un altro, percorriamo piste diverse, sempre in
cerca di un campo nuovo, per un nuovo ordine. Mi congratulo con voi tutti per questa
importante iniziativa. Questa occasione di incontro è uno dei sentieri da percorrere, che
non nasce da impulsi morali o politici, ma
dal bisogno di porci domande sull’uomo, sul
chi siamo in questo difficile mondo. Se l’arte
ci prende per mano per indagare sul segreto
della vita, è questo il nuovo progetto da suggerire ai promotori dei programmi scolastici,
impegnati a inseguire chi finge o crede di capire, o parla per sentito dire nei musei e nelle
mostre d’arte. Abbraccio i settecento studenti e chi li guida, con gratitudine. Teniamoci
stretti! Maria Lai
La lettera di Maria Lai giunge alla scuola San
Giovanni Bosco di Foggia come graditissimo
riconoscimento per il lavoro svolto negli ultimi due anni. Già da tempo avevamo in piedi
una scommessa: riuscire a dire, e a mostrare
operando con i bambini, che ci riconoscevamo come comunità e che intendiamo continuare a costruirci come tale dentro un territorio a volte difficile ma sicuramente molto
amato. Come dirlo? Questa era ed è la questione. La nostra scommessa si chiama da
qualche anno progetto d’istituto.
Il volo del gioco dell’oca
L’incontro con Maria Lai è stato importante, perchè l’arte lo sa dire meglio. «L’arte è
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in grado di aprire e dilatare la coscienza».
Maria Lai rende visibile attraverso la sua opera il rapporto inscindibile tra spazio e relazioni umane che quello spazio abitano; crede,
quindi, nella possibilità di un’arte collettiva
ma comunque sempre radicata nella creatività quotidiana del singolo «L’arte è come il vestire la vita, parte dal corpo, dal desiderio di
abbracciare, cantare, ascoltare, seguire ritmi
che accompagnano un respiro, un passo, il
battito di un cuore». Ispirati da Maria Lai, ottantanovenne artista bambina, narratrice di
fiabe e di leggende, curatrice di performance che hanno coinvolto per intero il suo paese d’origine, abbiamo provato a giocare uno
dei suoi giochi “Il volo del gioco dell’oca”.
Innanzitutto tra adulti in un corso di formazione tenuto Gerardo di Feo.
Il volo del gioco dell’oca è un gioco aperto, in
parte strutturato, in parte no. Funziona come
un normale gioco dell’oca con dadi, punteggi,
ed è accompagnato da una filastrocca. Gioco
e filastrocca sono una metafora della crescita e del rinnovarsi, del bisogno di trascendersi. Ci parlano di un pulcino che esce dal
guscio per ritrovarsi nel guscio del mondo e
dei propri limiti; qui il pulcino razzola inconsapevole fino a quando in una pozzanghera,
fatta di fango e di cielo («l’uomo, − dice Lai
− è fango che può riflettere il cielo») vede il
riflesso di un volo e comincia ad alzare gli occhi e a immaginare che ci sia altro da vedere, sperimentare, vivere e rischiare. In questo
percorso l’oca incontra simboli e segni della
crescita, i semi, la pioggia, il sole, l’arcobaleno e un burattino che diventa compagno
di viaggio, anch’esso essere imperfetto, prigioniero com’è di un corpo di legno ma come
l’oca portatore di un sogno, quello di essere
un bravo bambino. Insieme fanno un tratto
del cammino e incontrano il sillabario, la cultura, i segni, il bisogno di comunicare, l’impegno di farsi comprendere, di trascendersi e,
ancora, la fatina dal velo turchino, il tocco
di magia nel quotidiano e chissà, l’avverarsi di un sogno ma solo se si attraversa la co-
INFO
noscenza umana con impegno e investimento personale «perché − aggiunge Lai − l’arte
e la creatività non nascono dai sogni ma dal
contatto di una materia con il corpo umano:
mani, sguardo, orecchio, educati da un lungo
apprendistato».
Una parte importante del gioco assumono le
caselle vuote, Maria le ha pensate per dare la
possibilità di riempirle dei luoghi dove il gioco viene giocato, consapevole che la crescita
si attua sempre in un contesto specifico, in
un dato territorio, vi è indissolubilmente legata. Occorrono radici molto profonde per poter volare. Occorrono spazi vuoti per lasciare
posto all’imprevisto, al nuovo, alla crescita,
alla possibilità di altro. Il gioco è un’opera
aperta, sollecita domande, apre territori inesplorati più che dare soluzioni e significati
univoci. Infatti ancora continuiamo ad interrogarci sull’uso che se ne può fare nel nostro
operato di educatori che si intreccia al nostro essere cittadini di questa città, di questo
mondo, visto che non ne abbiamo un altro e
non c’è un altro tempo.
Legarsi al territorio
Dopo il corso di formazione, che aveva lo scopo di attivare, era un seme (Gerardo di Feo ha
riempito le caselle vuote con proposte che
coinvolgessero la conoscenza e lo sguardo
sulla nostra città: Foggia, una città d’arte),
abbiamo sperimentato il gioco con i bambini
e le bambine della nostra scuola. Avevamo un
buon retroterra nel precedente anno scolastico eravamo stati sollecitati dalla straordinaria forza di una fiaba La bambina e il nastro,
ripresa da Lai per l’intervento “Legarsi alla
montagna” nel suo paese di origine, Ulassai.
Il legame con il territorio era reso visibile attraverso un arazzo (TE-la Racconto) di dieci
metri per tre, realizzato cucendo insieme pezzi di tela che i bambini avevano dipinto per
raccontare l’esperienza del loro rapporto con
il territorio.
La partecipazione al gioco dell’oca è stata per
i bambini un apprendistato di mani, sguardi,
orecchie. Pur nella ricca differenza da classe
a classe, tutti gli alunni sono stati partecipi
di gioco e filastrocca, dai 3 anni della scuola dell’infanzia ai preadolescenti undicenni.
Differenti loro, differenti le maestre che hanno mediato l’esperienza: nella ricerca comune mai abbiamo cancellato la centralità della
classe, la specificità di ognuno. La ricchezza della ricerca è stata sintetizzata nella mostra ispirata al gioco che occupa atrio, corridoi, aule e menti della nostra scuola. Un
altro sforzo per tenere insieme tutta questa
ricchezza di sguardi e interpretazioni ha avuto come risultato una grande riproduzione a
parete del gioco dove al posto delle caselle
lasciate vuote da Lai ci sono le sintesi che
ogni classe ha inteso lasciare come segno del
proprio percorso.
“Desidero per me, desidero per la mia città”
Il nostro gioco dell’oca, racconta, quindi,
intrecciandosi ai segni e alle parole della
Lai, la nostra storia, quella delle classi, della scuola, dei luoghi che i bambini abitano,
che scoprono con occhi nuovi, dando conto
di uno sguardo bambino che ha trovato lo
spazio per dire i propri desideri, le proprie
difficoltà, da quelli più intimi e personali a
quelli che riguardano la vivibilità della nostra città, la ricerca di spazi sicuri e belli,
alberi, fiori e piste ciclabili, a dimensione di
bambino. Perché una città e un mondo non
a dimensione di bambino non sono a dimensione di nessuno.
I desideri dei bambini sono stati affidati ad
un volo di palloncini in un sabato di primavera nel corso della performance: “Desidero
per me, desidero per la mia città”. I bambini,
circa ottocento, accompagnati da genitori,
dirigente, insegnanti e da tutto il personale della scuola, hanno mostrato di avercela un’idea di città, hanno evidenziato che
per sognare un futuro migliore occorre uscire fuori dal proprio guscio, che sia di calcare
come l’uovo, di legno come per il burattino,
di pietra come per le stele daunie (i bambini più grandi hanno riconosciuto nei segni e
nei simboli daunii il profondo bisogno di comunicare e di trascendersi di una civiltà così
lontana e così vicina). Qualche bambino si
è spinto ancora più in là, e ha riconosciuto,
il guscio più duro di tutti, il pregiudizio che
tutto sia immutabile, i destini già segnati. E
allora essere in tanti ad occupare consapevolmente uno spazio pubblico, fare i conti
con la pluralità continuando a scommettere
sul bene comune diventa un’impresa emozionante. Ed eravamo veramente in tanti in una
sorta di resistenza ad una cultura diffusa che
ci spinge a lamentarci che le cose non vanno, senza essere sfiorati dal sospetto di una
certa responsabilità personale, senza smettere nel frattempo di consumare oggetti, cibo,
attività, pur di non vivere il presente, pur di
non fermarci in ascolto per progettarlo insieme il bene comune, «per esercitare la vita nel
segno della creatività e dell’alleanza».
Scoperte e incontri
Mentre lavoravamo con i bambini al gioco di
Maria Lai con alcune colleghe abbiamo sentito il bisogno di esplorare altre forme di arte
di grandi pittori da Leonardo a Klimt, a Andy
Warhol e di artisti contemporanei, anch’essi grandi, nati o abitanti nella nostra provincia. Li abbiamo “usati” nei nostri precorsi di apprendistato per aiutare i bambini a
raccontare e raccontarsi, perché l’arte lo sa
dire meglio.
* Insegnante.
Diamo i numeri
L’80% dei fondi di provenienza regionale
per il diritto allo studio è stato destinato,
in Lombardia, nell’anno scolastico
2008/2009, agli studenti della scuola
privata che rappresentano il 9% della
popolazione scolastica della Regione.
Il restante 20% è andato agli oltre 985
mila studenti della scuola pubblica. Lo
sostiene Luciano Muhlbauer, consigliere
del Prc in Regione Lombardia, nell’ottavo
rapporto sul buono scuola, riservato
alle scuole private. «Nel momento in
cui la scuola pubblica sta subendo il più
grosso programma di tagli della scuola
repubblicana, Regione Lombardia continua
a destinare la stragrande maggioranza
del suo bilancio per il diritto allo studio
in via esclusiva alla scuola privata».
Secondo le cifre contenute nel dossier,
ottenute elaborando i dati a disposizione
dell’assessorato all’Istruzione, con il
“Buono scuola” (Dote per la libertà di
scelta dall’entrata in vigore del sistema
della Dote scuola), «sono stati girati alle
scuole private ben 45 milioni nell’anno
scolastico 2008/2009». Per dirottare
le risorse agli istituti privati, secondo
Muhlbauer «sono state truccate le regole
del gioco» perchè «per fare domanda per
il Buono scuola si chiede un indicatore
reddituale con limiti di reddito più
tolleranti e non l’indicatore Isee, come
invece avviene normalmente per ottenere
un sussidio regionale». Risultato: «Almeno
4 mila beneficiari del buono scuola
dichiarano al fisco un reddito tra 100 e
200 mila euro e non avrebbero quindi
alcun bisogno di un sussidio regionale».
Da qui la richiesta dell’esponente Prc
di «abolire i privilegi, introducendo
l’Isee anche per il Buono scuola». Il
dossier si può scaricare dal sito www.
lucianomuhlbauer.it, oppure richiedere
telefonando al numero 02.67482288.
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nuovi arrivi
IL PADRE
DI VILLI
LIDIA GARGIULO
C
ara mamma,
quest’anno va molto meglio.
Non faccio più fatica a intendermi con gli studenti, come
se le difficoltà dell’anno scorso avessero appianato a me e a
loro la convivenza di quest’anno. Vuol dire che ho usato bene
scienza, pazienza e anche salute, alla quale hanno contribuito, e molto, i tuoi biscotti, il
formaggio, il salame e le arance succose e profumate. Tutto
quello che esce dal pacco che
mi mandi mi ha sempre aiutato
ad affrontare il clima del nord;
e quando dico “clima” intendo anche gli umori della gente.
Senza esagerare, nei primi tempi mi sono sentita anch’io guardata con ostilità, ragazza (ormai trentenne!) che veniva dal Sud “a rubare il posto” ai giovani del Nord, che non mi
pare abbiano poi tanta vocazione ad occuparsi degli altri, come esige la scuola. Certi modi
di dire, lo so, sono scorciatoie troppo facili
per essere prese sul serio, ma qualche volta
mi hanno veramente fatta sentire fuori, come
una straniera-straniera che è straniera anche
nei tratti, nel colore, nelle abitudini. Qui nella
nostra scuola ce ne sono ottantadue su quattrocento studenti, ogni cinque uno è cinese o
filippino o africano o sudamericano o rumeno
o ex sovietico, e salta all’occhio nelle aule,
nei corridoi, nei cortili, ai cancelli quando entrano o escono. L’anno scorso, quando la paura di fallire faceva a pugni con la voglia di farcela, li guardavo con diffidenza e un segreto
rifiuto, forse perché anch’io, come loro senza
radici qui, avevo fame di amicizia senza sapere dove trovarla. Non per niente i delusi e
gli scontenti sono i razzisti più accaniti, che
fanno esplodere la rabbia accumulata appena
i manipolatori in cerca di consenso mostrano o creano il bersaglio. Adesso che mi sento
meno straniera comincio a guardarli con naturalezza.
Cara mamma,
visto che ti stai aggiornando e diventi brava
anche col mostro elettronico, come lo chiama
la nonna, eccoti un’altra occasione per esercitarti a cercarmi nella Posta Ricevuta e rispondermi con lo stesso mezzo. Che strano:
quando finalmente mi pareva di aver trovato
un equilibrio a proposito di certi argomenti,
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qualcosa mi rimette i dubbi nella testa. Sono
dubbi sottili, e forse nemmeno dubbi, è qualcosa su cui mi sembra di avere ragionato con
buonsenso e lealtà ma poi mi sono chiesta, e
mi chiedo ancora, se avessi il diritto di pensarla così, se ho fatto bene a dire quello che
ho detto.
Ti racconto. È venuto a colloquio il padre di
Villi ragazzo filippino, terza media ripetente.
Alto e magro, non si separa mai dal berretto
con visiera girata all’indietro, scrive a fatica
e a fatica parla, non riesce a stare nella scuola, voglio dire sentirsi dentro, essere parte. Il
padre − quarant’anni, mi ha detto, e in Italia
da quindici – sembra poco più che un adolescente, non gli daresti più vent’anni. Proprio
parlando con lui a un certo punto mi sono
chiesta che cosa stessi dicendo e perché lo
dicessi. Ricostruisco il colloquio, dimmi che
te ne pare.
Io: «Villi è molto cresciuto nell’ultimo anno,
forse per questo non riesce a concentrarsi
nello studio; Villi forse non è fatto per lo studio, ma quest’anno ha gli esami di licenza,
non può farsi respingere ancora».
Padre di Villi: «Certo che no, profesora, certo che no, altrimenti la laurea non la prende
nemmeno a quarant’anni. Lui deve prendere
la laurea». «La laurea non è necessaria, non è
necessario nemmeno il diploma, ci sono tanti lavori più piacevoli dello studio». «No profesora, importante studiare, quando studia
diventa uomo che parla in faccia, che parla
uguale, capisce, non come me che non studiato». «Ma lei è intelligente lo stesso, ha
il suo lavoro». «Sì io fortunato, supermercato lavoro buono per famiglia ma io ubbidisco
quello che capo vuole, lui in alto io in basso,
capisce?». «Villi potrà imparare un lavoro di
artigiano». «Quando io parlare con avvocato,
per esempio, avvocato sa e io non so, se io
studiato io capisce cosa dice avvocato, vero?
Ma se Villi non va università, come capisce?».
«Ma se non gli piace studiare…». «Ci vuole
bolontà, bolontà è tutto». «Magari fosse così,
ma non è così». «È così, profesora, è così,
chi vuole studiare capisce. Villi deve fare università. Io pago anche lezione privata ma lui
pensa a giochi, a televisione, non spegne televisione, quando dico spegni lui dice sto facendo compiti, studio anche così». «Lei che
studi ha fatto?». «Ma a scuola in Pilipine facevo compiti sempre, a scuola mai tardi, sempre giusto, un poco prima. Adesso troppa libertà, troppo ognuno come vuole…». «Forse
Villi non è fatto per lo studio». «No profesora, tutti può, tutti capaci con bolontà, ci
vuole bolontà».
E su “volontà” avremmo continuato ad avvitarci se non mi avesse liberata la campanella di fine ricevimento. Liberata per modo di
dire, perché di quel botta e risposta rimane
un ricordo sgradevole che mi mette a disagio,
come se frenando il padre a proposito dell’università ecc. avessi seguito un pregiudizio, come se avessi pensato e detto che Villi
non ha diritto a salti ambiziosi. Che ne pensi
tu, come avrei potuto rispondere? Mettiti nei
miei panni col tuo cervello, col tuo buonsenso e la tua conoscenza della vita e dimmi: tu
che nella scuola hai passato tanto tempo, che
cosa avresti detto?
Cara Pinuccia,
non sono più saggia, sono solo più lontana
e da lontano le cose si vedono meglio. Tu e
questo genitore vi siete lanciati nel domani
perdendo di vista l’oggi. Oggi Villi non pare
adatto allo studio e probabilmente non lo
sarà nemmeno tra qualche anno, ma che ne
sappiamo, a volte un asino diventa un meraviglioso ippogrifo… In questo momento, credo, Villi ha bisogno di senso di appartenenza
e di quella disciplina che il padre rimpiange. Intanto cominci lui, il padre, a proibirgli
la tv mentre studia, e tu potresti allestire di
tanto in tanto degli esercizi di concentrazione per tutta la classe, mettendoli a tu per tu
con qualche lavoro e solo con quello. Ragazzi
come Villi hanno bisogno di affezionarsi al
presente, di trovare piacere ad essere dove
sono e come sono, è là che devi lavorare di
cultura, intuito e sensibilità, e notare anche i
piccoli passi, farlo parlare senza interromperlo anche se sbaglia, per capire meglio in che
cosa aiutarlo e su che cosa farlo lavorare. E
non ti spaventare se i risultati non si vedono
subito, fare non può essere veloce come desiderare. Lascia che il padre abbia le sue ambizioni, le ambizioni sui figli sono la forza dei
padri, saranno i fatti, man mano che verranno, ad alimentarle o ridimensionarle. Questo
non vuol dire che i tuoi pensieri non contino. Mandali davanti a te, i pensieri, a farti
da guida e richiamo, e in primo piano metti
quello che mi hai ripetuto tante volte, “offrire quello che posso come posso”, e vai avanti
in quella direzione. La fiaba non è poi tanto
stupida quando dice: una luce lontana e cammina, cammina…
note in condotta
IL CONDOMINIO
DI VETRO
ANDREA BAGNI
L’
estate scorsa mi sono immerso nell’universo strampalato di facebook. Mi ha spinto ovviamente la curiosità, il
richiamo delle cose di cui tutti parlano, la possibilità che mi
hanno detto potente delle ginseminazioni virali h. Poi una
buona dose di narcisismo: far circolare le cose che scrivi o
che leggi, le foto che fai. Ricevere commenti, stabilire contatti. La funzione fatica del linguaggio non è mai stata così
fondamentale, nelle solitudini globali. Dopo poco ti aggancia mezzo mondo. Il mondo perduto dei vecchi amici, dei
vecchi compagni - per noi insegnanti soprattutto dei vecchi
studenti. Foto di ex ragazze con nuovi bambini, commenti, saluti, organizzazione di cene, auguri per i compleanni (che nessuno può più dimenticare perché il programma
scrupoloso ti avverte). E chat e posta e gruppi ed eventi.
Un universo in esplosione permanente, tanto che alla fine
sei costretto a ritagliarti di nuovo un micromondo più a misura umana.
La cosa che mi ha colpito di più, però, è la home di facebook. Una specie di mosaico collettivo di diari privati. Nel
tuo profilo trovi solo ciò che scrivi o è scritto a te. Nella
home c’è invece tutto quello che appare sulle bacheche degli gamici h. Foto,
messaggi, commenti, video – che vengono condivisi e davvero si diffondono rapidamente: su youtube basta un pulsante e tutto passa sulla tua pagina fb.
Nella home, nessuna distinzione fra pubblico e privato. La possibilità di messaggi riservati c’è con la posta del programma, ma ragazze e ragazzi sembrano scrivere di tutto in
pubblico: l’andare a letto felici o tristi, la serata passata bene o male, il look da scegliere per
il pub, la dichiarazione d’amore al fidanzato/a con tanto di iper vezzeggiativi. Allusioni sessuali, perfino, e si fa per dire allusioni. Io penso che il personale era politico, mica il privato.
Il privato era privato.
Qui i padri incontrano i figli i prof gli studenti, i terapeuti i pazienti, in un caos gintimo h generale. Finisce che ci sente un po’ guardoni. Come in un palazzo trasparente, in un condominio
di vetro. Puoi anche leggere del ragazzo che troverai in classe il giorno dopo che commenta il
compito che non gli è riuscito, speriamo che non mi interroghi cazzo, chiederò di uscire appena arriva. Dagli studenti dei miei corsi mi sono cancellato subito: un po’ di setting va preservato e il fuori scena non fa parte del gioco. Lo incasina.
E però ho fatto in tempo a scoprire cose che non immaginavo. Politiche, antropologiche. Il razzismo banale che è senso comune ormai. A noi insegnanti spesso i giovani presentano le loro
controfigure presentabili, ma c’è un altro mondo altrove che sembra convivere tranquillamente con i “valori” trasmessi dall’istituzione. Indifferente, nemmeno in conflitto. Un mondo che
si sottrae, irraggiungibile, dietro le comparse. A qualcuno ho chiesto gentilmente spiegazioni
della furia xenofoba, in particolare (a Prato) anticinese. Mi ha risposto, sdrammatizzando, che
sì era entrato nel gruppo “che vuole cacciare tutti i cinesi, gli zingari, i rumeni, i comunisti,
dalla città”, ma solo perché il nome era buffo – Chi ha paura delle brigate nere? Rifacciamo le
ronde! Uno scherzo. Accidenti allo scherzo: nei giorni delle elezioni si davano appuntamento
per andare davanti ai seggi a “impedire ai rossi di votare”. Roba da codice penale. E poi video
con gli scontri fra extracomunitari in centro di notte. Se vuoi che tutto questo schifo finisca,
che se ne tornino a casa loro, vota per.
Sono rimasto di stucco. Non me l’aspettavo dai miei. Presuntuoso come sono.
A scuola non non ho mai tentato di mandare messaggi espliciti, etici o politici, almeno nel senso dei partiti, delle elezioni eccetera. Ho sempre pensato che fosse più importante, per quanto
mi riusciva, insegnare a pensare, piuttosto che trasmettere i pensieri giusti. La libertà è preziosa comunque, e include un po’ di antipedagogia. Però mi sono sentito in crisi di fronte a questa
banalità del razzismo. Non vale ricorrere alla predica o al ragionamento sociologico, storico-culturale. I discorsi articolati stanno sempre su un altro piano e inoltre tendono a lavorare sul senso di colpa del ricco occidente: possibilità di arrivare alla testa e al cuore di ragazze e ragazzi di
oggi prossima allo zero. Non c’è gara di fronte all’emergenza, di fronte alle paure di chi torna a
casa al buio, in mezzo al bosco fitto di albanesi, rumeni, cinesi vari. Lupi gialli. Sono tutti bravi
cattolici, ma il cristianesimo da noi è vivo come la sinistra. L’altro, il povero, un fratello... figuriamoci. Il prossimo da amare è quello con carta di credito suv e filippino in cucina.
E tuttavia continuo a pensare che il sapere potrebbe essere liberatorio da molti fantasmi.
Magari la storia di quando gli albanesi eravamo noi. I cattivi, i delinquenti, gli emarginati.
Storie di vita difficile. Se uno ci pensa bene, qualcosa può darsi che gli arrivi dentro. Senza
troppe indicazioni dalla cattedra. Da solo.
A scuola. Cioè non proprio da solo.
INFO
I doni di Tommaso
«Non lontano dall’Eremo c’erano una
radura e un poggio da dove si potevano
contemplare le catene delle colline
perdersi nell’orizzonte azzurro. Il mondo
era grande, non v’era dubbio, e numerosi
erano i paesi e le genti. Tommaso era
convinto che presto o tardi sarebbe
andato a conoscerli tutti quanti. Almeno
per qualche tempo avrebbe voluto vivere
come Bernard, camminare, semplicemente,
andare per i sentieri di tutta Europa con
la sua bisaccia e poco altro. Se il mondo
era stato creato così grande che senso
aveva starsene tutta la vita sullo stesso
pezzetto di terra?». Dice il protagonista
di un racconto ambientato ai tempi di
Francesco d’Assisi. Nel racconto una capra
aiuta Tommaso ad affrontare il tema
della morte. Non è solo di morte che si
racconta, ma anche di relazioni umane,
sobrietà, rapporto con la natura e con gli
animali. Leggendolo nascono interrogativi
sul senso della vita, e sulla frenesia dei
nostri tempi. I doni di Tommaso, scritto
da Enrico Ferioli e illustrato da Giada Negri
(collana “Stringhe colorate”, New Press
Edizioni, Como 2009, pp. 80, euro 10) è
un libro solidale: il ricavato sarà destinato
ai progetti per i bambini e i giovani di
Capoverde che da anni Amses (www.amses.
it), Prospettive (wwwprospettivecomo.
org), Stringhe colorate (www.
stringhecolorate.com), Baule dei suoni
(www.bauledeisuoni.it).
école numero 75 pagina
29
M
l’erba del vicino
appamondo
OLANDA La formazione dei
futuri impiegati. Più equilibrati
o più preparati? Il ministro
esterofilo
PINO PATRONCINI
G
elmini si distingue
per essere il ministro che più
disprezza ciò che amministra. Tutte le volte che dice
che la nostra scuola non sforna diplomati abbastanza preparati trova audience in una
stampa che invece non ci
racconta molto delle lamentele dei datori di
lavoro degli altri paesi. Ma sicuramente dietro i cambiamenti messi in cantiere da Gordon
Brown in Gran Bretagna (ritorno ai diplomi,
innalzamento dell’obbligo a 18 anni ecc.)
ci sono anche le lamentele della “confindustria” britannica circa l’ignoranza di “diplomati” Lamentele fioccano anche in Spagna,
dove il sistema, nettamente diviso tra formazione professionale e licei, fa sì che esca un
numero di tecnici molto inferiore alle neces-
école numero 75 pagina
30
sità dell’economia. E persino il prestigioso
modello francese ha impattato in questi anni
sullo “sfracello” dei comportamenti asociali dei giovani e sulla rivolta delle banlieues.
L’istruzione professionale olandese e italiana
a confronto.
Mi è capitato tra le mani in questi giorni,
ai fini della verifica di una equipollenza, un
diploma di istruzione professionale olandese (l’esatta dizione olandese tradotta in italiano è: Istruzione Secondaria di Formazione
Professionale), un diploma simile alle nostre maturità professionali anche se nei Paesi
Bassi questo titolo di secondaria superiore si
acquisisce a 18 anni, mentre da noi si acquisisce un anno dopo, a 19 anni. Nello specifico si tratta di un indirizzo di economia.
L’indirizzo della nostra istruzione professio-
nale attuale che più gli si può avvicinare è
perciò quello commerciale.
Al diploma è allegato un certificato con le
votazioni finali. Da questo si scopre che le
discipline che nei Paesi Bassi si pretende che
i ragazzi conoscano sono nove: lingua olandese, lingua inglese, scienze sociali, educazione fisica, attività artistiche (discipline generali), lingua tedesca, economia (discipline
d’indirizzo), geografia, matematica (discipline opzionali).
In queste discipline vengono dati voti numerici tranne in educazione fisica e attività artistiche, dove vengono dati giudizi (sufficiente, buono ecc.).
La valutazione finale cita anche l’argomento o
il titolo di un documento di lavoro sull’indirizzo di studi, qualcosa di simile, quindi, alle
nostre tesine (nel caso in questione l’argo-
mento era la crisi creditizia). Ed anche questo
viene valutato con un giudizio riportato nel
certificazione dei voti.
Da noi il diploma di maturità professionale
commerciale comporta la conoscenza terminale delle seguenti discipline: italiano, storia, lingua straniera, matematica, educazione
fisica, religione/ attività alternative (discipline generali), diritto e economia, economia
aziendale, informatica gestionale, tecniche di
comunicazione e relazione (discipline di indirizzo). Una in più, tutte valutate in decimi,
tranne religione (finora!), ma con un taglio
un po’ più specialistico (economia aziendale,
informatica gestionale, diritto e economia,
tecniche di relazione: quattro discipline contro due, economia e lingua tedesca)
Nell’annualità precedente, a 17-18 anni, se si
volesse fare il paragone in base all’età degli
alunni anziché in base alla terminalità, le discipline italiane sono ancora di più perché in
quarta c’è geografia economica, altra materia
specifica dell’indirizzo.
Se si prendono in considerazione i nuovi piani orari dei professionali previsti da Gelmini
per l’indirizzo servizi commerciali avremmo le
seguenti discipline: italiano, inglese, storia,
matematica, educazione fisica, religione/ attività alternative (discipline generali) economia aziendale, seconda lingua straniera, diritto e economia, tecniche di comunicazione
(discipline di indirizzo). Questo sia in quinta
che in quarta.
Il confronto con i Paesi Bassi cambia di poco.
Cambia molto invece quello tra i due modelli
italiani perché nel secondo sparisce geografia e si porta invece fino al quinto anno la
seconda lingua straniera e cambiano le ore
complessive scendendo da 36 a 32 settimanali. Ma quest’ultimo non è confrontabile con
i Paesi Bassi dei quali la certificazione ci dice
il curricolo ma non l’orario.
Questioni di stile
Sposterei però l’attenzione sul diverso “stile” che esce dal modello olandese rispetto ad
entrambi i modelli italiani, quello vecchio e
quello nuovo. I Paesi Bassi danno l’idea di
una scuola formativa fino alla fine degli studi
secondari con una attenzione rivolta ad attività fisiche e artistiche e alle lingue o alle
scienze sociali. La stessa preparazione specialistica prevede delle opzionalità per lo studente, che però non modificano la declaratoria del profilo che resta economia, non, per
esempio, economia contabile, perché l’alunno
ha optato per matematica piuttosto che per
qualcos’altro, né economia finanziaria, perché la ricerca l’ha fatta sulla crisi creditizia.
Nello stesso tempo il rilievo dato alla tesina finale mette in luce quello che dopo il
Rapporto PISA abbiamo scoperto essere un
po’ il cruccio della scuola italiana, cioè la capacità di mettere insieme saperi, conoscenze,
su materie e discipline diverse e di trasformare il tutto in abilità e competenze, quali quelle che possono essere espresse in un documento scritto e probabilmente discusso. E ciò
è fatto in maniera soft: giudizi e non voti.
Così come giudizi e non voti riguardano le attività artistiche e l’educazione fisica, che si
suppongono complementi umani necessari e
non alienabili, importanti per l’equilibrio dello studente tanto quanto i pochi specialismi.
Insomma l’impressione che si ha è che gli
olandesi preferiscano avere impiegati innanzi
tutto equilibrati prima che preparati.
Paesi Bassi e non solo
Ora non sappiamo se i datori di lavoro olandesi si lamentino degli impiegati che sfornano le loro scuole. Gelmini, che si distingue
per essere il ministro che più disprezza ciò
che amministra, tutte le volte che dice che la
nostra scuola non sforna diplomati abbastanza preparati trova audience in una stampa che
invece non ci racconta molto delle lamentele
dei datori di lavoro degli altri paesi.
Di mio so che sicuramente dietro i cambiamenti messi in cantiere da Gordon Brown in
Gran Bretagna (ritorno ai diplomi, innalzamento dell’obbligo a 18 anni ecc.) ci sono
anche le lamentele della “confindustria” britannica circa l’ignoranza di “diplomati” che
possono permettersi di conseguire certificazioni solo in poche discipline (due o tre) e
considerarsi con un titolo di secondaria superiore. So che le lamentele fioccano in Spagna,
dove il sistema, nettamente diviso tra formazione professionale e licei, fa sì che esca
un numero di tecnici molto inferiore alle necessità dell’economia. So (e lo abbiamo visto
tutti) che persino il prestigioso modello francese ha impattato in questi anni sullo “sfracello” dei comportamenti asociali dei giovani
e sulla rivolta delle banlieues.
Purtroppo, non so molto di più dei Paesi Bassi
su questo fronte, ma pure lì alcuni fenomeni
recenti ci indicano un certo imbarbarimento
sociale. So che lì non esiste un forte sistema
pubblico statale, perché la generalità è quella
delle scuole private sovvenzionate o dell’intervento di enti locali o cooperativi. So che la
scuola professionale è solo pomeridiano-serale. So che lì mancano gli insegnanti, i quali
appena possono scappano dalla scuola nonostante gli stipendi non siano bassi come i nostri, tanto che la settimana scolastica è stata
ridotta per questo motivo. So che ciò costringe gli olandesi a cercare docenti ovunque
a cominciare dai paesi emergenti in questo
campo come l’India o le loro ex colonie. So
che ciò lì rende praticabile la chiamata diretta, con l’inserzione sui giornali o persino con
chiamate telefoniche in capo al mondo, che
da noi, oltre che ingiusta e arbitraria, sarebbe anche impraticabile con 200.000 aspiranti
nelle graduatorie ad esaurimento ed altrettanti che bussano alle sue porte dalle cosiddette graduatorie di istituto di terza fascia.
Dove sta il problema?
Ma siccome il nostro ministro attuale sembra
essere al tempo stesso amico degli imprenditori, esterofilo e denigratore della scuola
italiana, dovrebbe fare mente locale a questo: da un punto di vista dei curricula non si
può dire che l’istruzione professionale italia-
INFO
I diritti umani delle donne e delle
bambine in Afghanistan
Nella parte dedicata al sistema educativo
afgano di We have the Promises of the World:
Women’s Rights in Afghanistan, un report
sulle condizioni di vita delle donne afgane,
pubblicato
da Human
Rights Watch
si legge: «A
dispetto di
miglioramenti
significativi
restano
delle enormi
disparità
di genere».
La maggioranza delle bambine, infatti, non
frequenta ancora le scuole primarie, poche
arrivano all’istruzione secondaria, pochissime
ragazze proseguono negli studi. Sotto il
regime dei Talebani le bambine sotto gli otto
anni studiavano solo il Corano. Quelle più
grandi non studiavano, punto e basta.
E, più in generale, sono le condizioni di tutte
le donne a destare grande preoccupazione,
per le promesse disattese degli occupanti. In
We have the Promises of the World: Women’s
Rights in Afghanistan, si legge dell’omicidio
di Sitara Achakzai, una coraggiosa attivista
per i diritti umani, ammazzata per strada
ad aprile del 2009, e vengono riportati dati
sconfortanti: il 52 per cento delle intervistate
confessa di aver subito violenze psicologiche
e il 17 per cento di essere stata stuprata,
in un contesto di sistema giudiziario che
non favorisce le vittime delle violenze, né
le invoglia a denunciarle. Un gran numero
di matrimoni riguarda le cosiddette “sposebambine” (anche minori di 16 anni), mentre
il 70 per cento delle unioni avviene senza
il consenso della donna, spesso ragazza.
L’adulterio è considerato un “crimine morale”
e il governo Karzai ha messo la sua firma
sotto leggi che sacrificano la mobilità e la
libertà delle donne. Dati che fanno affermare
ad una esponente del Parlamento: «Non
siamo una priorità del governo Karzai e della
comunità internazionale. […] Ci hanno
dimenticate».
na sia peggio di quella olandese, soprattutto
se l’unità di misura è quella dei suoi amici imprenditori: nessun imprenditore scambierebbe le ore di informatica gestionale con quelle di attività artistiche. Nello stesso tempo
dovrebbe imparare che non è ricattando gli
alunni con voti sanzionatori che si ottiene la
loro collaborazione. E infine dovrebbe capire
che il problema non sta nell’architettura di un
sistema educativo, ma sta nella sua vivibilità,
nei rapporti che vi costruiscono all’interno, e
nella valorizzazione che questo riceve dalla
società che ne necessita: l’architettura del sistema dovrebbe assecondare ciò e non servire
ad abbattere posti e costi.
école numero 75 pagina
31
de rerum
natura
SCIENZE Chiedere ai docenti di fornire
immagini o metafore della scienza e del
suo insegnamento può essere una modalità
adeguata a far emergere latenze del
rapporto dell’insegnante con il proprio
lavoro, ovvero aspetti meno consapevoli
e più profondi, a livello delle premesse
culturali condivise dal gruppo sociale e
delle dinamiche di tipo affettivo. I risultati
della ricerca svolta da Scienza under18
Metafore per l’insegnamento
delle scienze MARCELLO SALA
N
ata nel 1998 su iniziativa di un gruppo di insegnanti dell’area scientifica della
Scuola madia statale “Rinascita - A. Livi” di
Milano, Scienza under18 si pone l’obiettivo di
“mettere in mostra” la scienza degli studenti;
consiste in uno spazio strutturato dove, per
alcuni giorni, gli studenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, presentano ad altri
studenti i progetti sulla scienza che hanno
preparato durante l’anno. La manifestazione
è gestita da una rete di scuole e negli ultimi
anni, oltre a Milano, si è svolta anche nelle sedi di Monza, Pavia, Rozzano, Mantova,
Casale Lodigiano, Brescia, Pescara, Siena
(http://www.scienza-under-18.org).
Rappresentazioni
Nella ricerca sulle rappresentazioni della
scienza e del suo insegnamento¹ le metafo-
école numero 75 pagina
32
re e le immagini sono state classificate (la
si può prendere come una provocazione), in
“espressioni di disagio”, “di una percezione
positiva o addirittura espansiva”, “di una posizione di equilibrio”. Per rendere meno arbitraria l’assegnazione ne è stata cercata con-
ferma nel contesto di interviste a ciascuna
delle persona coinvolte .
È il caso, comunque, che alcune attribuzioni
vengano giustificate, per mettere meglio in
luce il punto di vista dell’osservatore. è stato attribuito alla metafora del missionario un
senso di disagio perché si tratta di una figura che non appartiene alla quotidianità e la
sua eccezionalità è dovuta alla difficoltà del
contesto in cui si muove, tanto che è richiesto un particolare investimento di energia su
base etica. La lente d’ingrandimento, lo strumento, il traghettatore, il narratore, la guida potrebbero essere assegnati alla categoria
che esprime equilibrio, in quanto espressioni realistiche in riferimento a una definizione
della professionalità, ma è sembrato che nella percezione di sé della persona intervistata,
sul versante emotivo, acquisissero un senso
positivo. Per la stessa ragione il pizzaiolo che
si sporca le mani ma fa una cosa buona e il
seminatore che semina sulla roccia ma a cui
ogni tanto nascono alcune spighe sono stati invece assegnati alla categoria dell’equilibrio. E ancora per la stessa ragione alcune immagini che sarebbero discutibili in un
contesto di riflessione sulla professionalità,
come la mamma o il pifferaio magico, si trovano tra le espressioni di positività.
Docenti delle elementari
a) disagio: «Una barca che naviga nell’immenso dell’oceano»; «Un gomitolo, c’ è di tutto e
di più; perché bisogna veramente [...]stare al
passo con le loro richieste...».
b) positività: «L’uovo cosmico che ha dentro
un po’ di tutto e che può dare origine a tutto»; «Una piantina... qualcosa che pian piano
mette le radici, più che le foglie, poi le foglie
vengono dopo e un vulcano che è meglio che
sia attivo che spento lo scienziato». «Come
una lente di ingrandimento» – «Mi vedo come
strumento, un mezzo per avere consapevolezza di tante cose».
Docenti delle secondarie di I grado
a) disagio: «Mi sento molto missionaria».
b) positività: «è una luce per l’uomo» – «Un
traghettatore» – «Io mi sento tutte le volte
che entro in classe come un attore che va sul
palcoscenico e tutte le volte cerco di interpretare la piece in modo diverso, coinvolgente» – «Un narratore» – «Una mamma, nel senso che una mamma cerca di dare tutto quello
che può dare per un figlio: io mi sento così,
quando entro in classe» – «Sono un po’ i miei
figli».
«Mary Poppins: i bambini bisogna affascinarli» – «Il pifferaio magico… non nel senso di
imbrogliare, ma di incantare si…, di indicare
la strada con gioia».
c) equilibrio: «Uno che fa la pizza, che impasta, che mette insieme, si sporca le mani e fa
una cosa buona».
Docenti del biennio della secondaria di II
grado
a. disagio: «Il missionario: se sono un po’
missionari lasciano qualcosa in più, se lo fanno solo per mestiere lasciano molto poco» –
«Essere in alto mare, e dover fare di tutto per
rimanere a galla» – «Devi volare alto!, questa
è la frase che tante volte mi ripeto, perché
dico: devi andare oltre l’immagine che hai davanti, che è l’immagine dello studente che è
seduto svaccato sulla sedia» – «Missionari».
b. positività: «L’insegnante è un alberello un
po’ più grande degli altri, che però non ha finito di crescere... la scienza è la pioggia di
idee, che fa crescere la vegetazione di cui sopra» – «Una guida».
c. equilibrio: «Che l’insegnante sia un po’ pastore e un po’ pecora».
Docenti del triennio della secondaria di II
grado
a. disagio: «Sisifo»; «Un domatore in una
gabbia di leoni».
b. positività: «Un mediatore di cultura».
c. equilibrio: «Uno che semina grano in cima
alla montagna dove c’è molta roccia e poca
terra, quindi ogni tanto nascono alcune spighe»; «Un’immagine dell’insegnante, che è
sovraccarico di libri ha sempre anche più di
una borsa, libri in mano, […] è sempre trafelato, perché sta correndo e i capelli un po’
scompigliati come quelli di uno scienziato e
quindi, comunque ho questa immagine del
docente che è trafelato col sorriso sulle labbra, che arriva trafelato nel laboratorio, deve
aprire gli armadi, fare tutto da solo».
Docenti delle secondarie di II grado dalla
1^ alla 5^ classe
a) disagio: «Scienza per me è un mare, con
l’orizzonte che sta lì, irraggiungibile» – «È un
po’ come andare a cercare qualche fiorellino,
qualche sprazzo di vita, altrimenti la scuola
sarebbe una macchina che cancella tutto».
b) positività: «Una levatrice in senso socratico, che fa nascere» – «Accompagnare i ragazzi a fare un pezzo di strada... l’insegnante è
una guida» – «Sono più un tutor per loro che
un insegnante che trasmette un bagaglio di
conoscenze acquisite».
c) equilibrio: «L’insegnamento è una nuvola,
puoi vederla da lontano e quindi tutta la poesia che l’accompagna, puoi spiegarla, nel senso che poi sai benissimo che è costituita da
quello da cui è costituita e quindi c’è tutta la
scientificità in questo, e poi, se si trasforma,
può in qualche modo, come dire, penetrare
negli altri».
L’ipotesi di ordinare per livelli di scuola non
sembra aver dato risultati significativi: l’aumentare del disagio con l’età degli allievi, intensificato nella fascia del biennio, non ha
sufficienti basi quantitative. Una possibile indicazione è che il disagio da parte delle insegnanti elementari sembri legato alla scienza,
ma la cosa è abbastanza prevedibile se si tiene conto dei percorsi di formazione.
Sull’insegnare scienza
«... una piantina, un po’ romantica... qualcosa che pian pianino mette le radici, più che le
foglie, poi le foglie vengono dopo».
In comune le due metafore hanno l’idea di
un futuro che è già contenuto nel presente e trae le sue origini dal passato, l’idea
quindi di un progresso certo e necessario.
Nell’insegnamento però compare la dimensione del tempo come paziente lavorio.
«È come se si squarciasse e si togliesse uno
dei mille veli che abbiamo davanti... noi siamo esseri destinati alla luce, la luce della conoscenza».
«Accompagnare i ragazzi a fare un pezzo di
strada... l’insegnante è una guida».
Qui le due metafore sembrano significativamente divergenti. Se la scienza è vissuta
come rivelazione, come se il soggetto non dovesse fare nulla se non riceverla, il suo apprendimento si dispiega come un percorso incerto tanto da avere bisogno di una guida; e
chi potrebbe essere questa guida se non chi
ha ricevuto la rivelazione? Sembra di capire
che l’asimmetria nella relazione educativa si
fondi sulla partecipazione dell’insegnante al
mondo superiore della scienza, che gli allievi
devono ancora guadagnarsi.
«Il Cervino, l’infinito, il tutto, unione di
complessità e poesia»
“Sisifo”
La scalata, e quindi una dimensione progressiva, è comune alle due immagini, ma nel
caso della scienza prevale l’aspetto di ascesa
a un mondo superiore, nel caso dell’insegnamento l’aspetto della fatica senza soluzione
e quindi della frustrazione dell’esclusione da
quel mondo.
“La bottiglia di Klein”
“Un gomitolo”
Le due immagini sembrano condividere il carattere della non linearità, della difficoltà a
trovare soluzioni facili e immediate; la differenza è che, nel caso della scienza, la complessità è affascinante ma irriducibile, nel
caso dell’insegnamento siamo in una dimensione di più modesta quotidianità, di cui però
è possibile venire a capo con un paziente impegno.
«Come due figure in una, come una figura
contemplativa, bifronte, una dea e una che si
sporca le mani».
Scienza / insegnamento della scienza
È interessante confrontare ciò che la stessa
persona esprime come metafora (o immagine) riguardo alla scienza e riguardo all’insegnamento della scienza. Riportiamo solo alcuni esempi.
«Ho un’immagine dell’insegnante, che è sovraccarico di libri, ha sempre più di una borsa, libri in mano... una borsa, è sempre trafelato, perché sta correndo e i capelli un po’
scompigliati come quelli di uno scienziato».
Sulla scienza
«L’uovo, l’uovo cosmico della creazione, dove
in germe c’è tutto, che poi si spera si apra e
diventi adulto».
Le due caratterizzazioni, anche valoriali, riferibili alla dimensione intellettuale e a quella pratica della scienza, che abbiamo trovato polarizzate tra scienza e insegnamento in
école numero 75 pagina
33
INFO
Romammirabile
«Figlia. “Papà, queste conversazioni sono
serie?”.
Padre. “Certo, lo sono”.
F. “Non sono una specie di gioco che tu fai
con me?”
P. “Dio non voglia… sono però una specie
di gioco che noi facciamo insieme”.
F. “Allora non sono serie!”».
[Gregory Bateson, Metalogo “Dei giochi
e della serietà”, in Verso un’ecologia della
mente, Adelphi, Milano 1976, p. 47]
altre interviste, qui convivono in una percezione di ambivalenza, in bilico tra contraddizione e complementarietà. Anche in quella
relativa all’insegnante, che non è una metafora ma una immagine emblematica, si ritrova
una duplicità tra quotidianità e intellettualità (i libri). Da notare come l’attribuzione dei
“capelli scompigliati” della classica iconografia sia data per scontata come se fosse un
dato di realtà.
Sembra che nelle immagini degli insegnanti
l’elemento comune dominante sia uno scarto
tra il mondo della scienza e quello dell’insegnamento della scienza, una differenza che si
collochi sull’asse esperienza-immaginario, tra
valutazione critica e investimento affettivo.
E forse c’è una relazione tra il disincanto del
fare scuola in cui la scienza scompare dietro
l’insegnamento come relazione e come condizione materiale, e una certa idealizzazione
della scienza, specie di mondo mitico, a volte
quasi un paradiso perduto da cui non si è stati cacciati ma cui si è rinunciato.
NOTA
1. La ricerca è stata pubblicata in Scienza under
18, Il sapere scientifico della scuola, Franco Angeli,
Milano 2007.
école numero 75 pagina
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«Non è una guida; per meglio dire è una
guida arbitraria e parziale per luoghi di
Roma a noi familiari e che un bel giorno ci
sono apparsi “ammirabili”». Così crivono
nella premessa Rosalba Conserva e Laura
Scarino. E aggiungono: «Sono luoghi
quasi tutti fuori dai cataloghi ufficiali,
da ammirare in tutti i giorni dell’anno
oppure soltanto in una certa stagione o in
una particolare ora del giorno. Molti sono
segreti: alcuni perché fuori mano, altri − e
sono la maggior parte − perché nascosti ai
nostri occhi da quello che usiamo scontare
come quotidiano. A noi si sono svelati per
caso, o forse perché ci erano necessari.
Li potrete visitare con poca spesa oppure
senza spendere niente altro che non sia
il vostro tempo. E se non vorrete seguirci
per davvero − per strade, cortili, aiuole,
negozi, soste al bar e così via −, leggete
pure le nostre divagazioni come una
storia, la storia di un’amicizia».
Le prime dieci puntate di Romammirabile
furono scritte da dicembre 2004 a ottobre
2005. Una puntata ogni mese, inviata per
posta elettronica ad amiche e amici del
“Circolo Bateson” e a un ristretto numero
di altre persone interessate a leggere
questi percorsi (tra cui alcune e alcuni
della redazione di école. Le ultime quattro
puntate furono scritte successivamente (da
giugno 2007 a settembre 2008).
Pubblicata su Naturalmente Scienza, a
cadenza trimestrale, ora Romammirabile
è stata raccolta in un libro, che si può
chiedere a www.naturalmentescienza.it,
tel. 050.571060, 050.7213020,
fax 06.233238204.
Earth Overshoot day
Ogni anno, il Global Footprint Network
calcola l’Impronta Ecologica dell’umanità
e la confronta con la biocapacità globale.
L’Earth Overshoot day è un concetto
ideato dalla fondazione inglese “nef” new
economic foundation, ed è calcolato sui
dati del 2005 (l’anno più recente in cui
sono disponibili i dati) e su proiezioni
basate su tassi storici di crescita della
popolazione e dei consumi.
Quest’anno il giorno in cui il nostro
consumo di risorse naturali sorpassa la
produzione naturale annua della Terra
è stato il 25 settembre, secondo i dati
del Global Footprint Network (www.
footprintnetwork.org), un’associazione
di ricerca che misura quante risorse naturali
abbiamo, quante ne usiamo e chi le usa.
Ad oggi impieghiamo meno di 10 mesi per
consumare il quantitativo di risorse che la
natura genera in 12 mesi. «Il cambiamento
climatico è il risultato più drastico di questa
continuo dilapidare le risorse della natura
− ha detto Mathis Wackernagel, presidente
del Global Footprint Network −. Ma non
è l’unico: la perdita della biodiversità, la
deforestazione, la diminuzione del pescato,
l’erosione del suolo, la carenza di acqua
potabile sono tutti sintomi del fatto che
la natura sta esaurendo il credito a nostra
disposizione».
Minimizzare la dipendenza dalle fonti
energetiche fossili in favore di forme di
energia più pulite e meno dissipatrici di
risorse è uno dei passi più importanti per
lasciare un’impronta più leggera. Un altro è
incoraggiare la costruzione di infrastrutture
più efficienti. Le strade, gli impianti di
energia, le abitazioni, gli acquedotti e le
scelte urbanistiche che oggi compiamo
possono durare anche 50 o 100 anni: cattive
scelte possono “obbligarci” per decenni a
consumi rischiosi sia da un punto di vista
ecologico che economico.
Il clima è questione di soldi
Si è parlato poco in Italia del vertice sul
cambiamento climatico e si è fatto ancora
meno. I grandi inquinatori dell’atmosfera
e i piccoli stati di popoli minacciati dalle
tempeste tropicali, i paesi industrializzati
e quelli in via di sviluppo si sono trovati a
discutere. Gli stati della Terra hanno interessi
contrastanti. I popoli no. Ma i governanti
si sono riuniti per occuparsi di geopolitica,
non di biosfera, per discutere di soldi, non
di ecologia. Le azioni che alterano il clima
sono compiute a loro dire, per “lodevoli” fini
economici.
L’imputato principale delle alterazioni
climatiche è il biossido di carbonio emesso da
tutte le combustioni (di carbone, di petrolio,
di gas naturale), dalle attività produttive
da quelle industriali a quelle zootecniche
e dagli usi civili dell’energia. E poi c’è la
distruzione delle foreste. Gli alberi, con la
fotosintesi clorofilliana compensano, in parte,
le immissioni di biossido di carbonio. Quando
una foresta viene tagliata, cessa la sua
funzione “depuratrice” e il carbonio presente
negli alberi tagliati si libera nell’atmosfera
con un doppio danno.
L’insieme di queste azioni determina un
lento irreversibile aumento della temperatura
“media” terrestre e provoca quindi dei
cambiamenti nel clima dei singoli paesi e
dell’intero pianeta. Di questi mutamenti
risentono soprattutto i più poveri della
terra (quelli che vivono nel sud del mondo).
E l’ingiustizia ambientale si somma
all’ingiustizia sociale.
Un reportage (girato da Mario Agostinelli)
sulla colorata e festosa manifestazione che
si è tenuta il 12 dicembre a Copenhagen
in occasione del summit si può vedere
al link http://www.youtube.com/
watch?v=o3pIHNOrDEc.
modi
e media
TEATRO CIVILE Il teatro civile ci aiuta a
parlare, anche alle ragazze e ai ragazzi della
secondaria superiore, del nostro Paese. Da
Ascanio Celestini che mette in scena storie
vecchie e nuove di ordinario razzismo a Giulio
Cavalli che racconta l’esistenza di un fenomeno
criminale mafioso che si muove silenziosamente
anche nell’operoso Nord Italia Brutta
storia la Storia contemporanea
italiana
CELESTE GROSSI
«L
’Italia è un Paese razzista. Non solo, è anche un Paese più
stupido e più violento. Fare una legge che determina l’illegalità di un
individuo a prescindere da quello che è, dalla sua storia, è profondamente razzista e classista. Invece di accogliere chi arriva in maniera
fortunosa, lo cacciamo». È uno dei motivi per cui Ascanio Celestini
gira per l’Italia con il suo teatro civile.
Si è appena concluso il tour dello spettacolo teatrale di Ascanio
Celestini Il razzismo è una brutta storia.
Razzismo
Per oltre due mesi lo spettacolo ha girato l’Italia, raccontando con
ironia e sarcasmo storie di un Paese ormai irrimediabilmente razzista.
«L’Arci mi ha chiesto di partecipare a un progetto contro il razzismo
e ho ripescato un repertorio fatto di miei racconti sul tema narrati al
di fuori degli spettacoli − ha dichiarato Celestini − Storie vecchie e
nuove di ordinario razzismo, come quella della maestra che insegna
ai bambini a mettersi in fila indiana a seconda della diversità di razza. Oppure del sindaco di Treviso, Gentilini, che a un certo punto si
è messo a dare battaglia anche sui cani: “dobbiamo difendere i cani
italiani, quelli che andavano a fare le passeggiate in campagna con i
nostri anziani, basta con queste razze straniere!”. A Viterbo il giorno prima dello spettacolo sono comparse delle scritte sui muri come
“Celestini boia”... strano, no?».
école numero 75 pagina
35
ormai radicate sul territorio). E non sono solo i cittadini a non avvertire la gravità del pericolo mafioso, anche la politica sembra sottovalutarne la diffusione e la potenza economica in tempi di Expo 2015.
L’intervento di Giulio Cavalli è accompagnato da quello del musicista
Gaetano Liguori, che culla la lettura teatrale rendendola, come afferma il regista e attore «una ninna nanna dolce per un risveglio brusco
di quella Lombardia che si crede immune dalla mafia».
Per fortuna il teatro di Ascanio Celestini si può vedere anche a scuola. Non dal vivo, ma proiettando spezzoni dei suoi spettacoli. Inoltre
Celestini scrive ei suoi interventi si possono leggere, oltre che sui
suoi libri, in Internet (per esempio sul blog dedicato a Francesco
Mastrogiovanni, il maestro anarchico morto questa estate dopo 80 ore
di Trattamanto Sanitario Obbligatorio). E, nottetempo, l’autore attore
compare anche in Tv. Il 21 novembre a Parla con me (la trasmissione
di Serena Dandini, su Rai 3) ha recitato un monologo, drammaticamente “divertente” su «Il razzismo è come il culo, puoi vedere quello
degli altri, ma non il tuo».
Mafie
Il pm antimafia Vincenzo Macrì nel 2008 ha affermato che «Milano è
oggi la vera capitale della ‘Ndrangheta». La politica sembra non accorgersene. Anche se oggi a Milano e in Lombardia la mafia uccide, proprio
come a Sud. A cento passi dal Duomo, lo spettacolo di Giulio Cavalli,
scritto in collaborazione con il giornalista Gianni Barbacetto, direttore di Omicron - Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al
Nord), mette a nudo la collusione tra mafie e politica e la penetrazione mafiosa nei luoghi di potere.
Il precedente lavoro di Cavalli, Do Ut Des. Riti e conviti mafiosi, che
illuminava le dinamiche mafiose del Sud, deve aver disturbato molto
mafiosi del Sud e del Nord, tanto che l’artista, minacciato di morte,
vive da anni sotto scorta. Senza lasciarsi intimidire, Cavalli ha messo in scena la presenza delle famiglie mafiose al Nord. Lo spettacolo
ha inizio con l’assordante silenzio che, a Milano, ha accompagnato
non solo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e il suo funerale, ma anche
il silenzio che, sempre a Milano, avvolge ancora oggi le “gesta” di
Raul Gardini. Prosegue con il silenzio sui 103 sequestri avvenuti in
Lombardia per mano di Cosa Nostra e della ‘Ndrangheta calabrese, tra
il 1974 e il 1983, sulle retate delle forze dell’ordine e sui maxiprocessi contro la criminalità organizzata insediata nel territorio lombardo.
Secondo Barbacetto e Cavalli, Milano non si accorge dei nuovi mafiosi
vestiti in giacca e cravatta (i giovani rampolli delle famiglie mafiose
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36
navigo ergo sum
M
PER ESSERE “CITTADINI
DIGITALI”, BASTA
“STARE” IN RETE?
È vero che le nuove forme
di comunicazione, nel loro
continuo sviluppo, costituiscono
parte integrante del modo di
relazionarsi e di costruire da
parte delle giovani generazioni
un modo di essere, uno stile di
vita, uno “stare in mezzo” agli
altri. Ma quanto questo modo di
stare sia consapevole e quanto
invece un modo di acquisire
diretto e immediato, compulsivo
− parola molto appropriata in
combinazione di tante attività
umane di oggi, da quelle più
ludiche a quelle produttive −
rimane un aspetto problematico
EDOARDO CHIANURA
olta scuola preferisce ancora non dare un proprio contributo
a questo compito che richiede indubbiamente uno sforzo a noi “educatori” come capacità di ridefinire le azioni educative e formative immergendoci in queste nuove − ma quando finiranno di essere fregiate
da questo alone di novità? − tecnologie.
«Se hai una casa in riva al mare e ti nasce un figlio, non erigere un
muro di fronte, ma insegnagli a nuotare». Così si esprime metaforicamente, ma neanche tanto, Roberto Giannatelli, padre, insieme a
Cesare Rivoltella, della Media Education in Italia, volendo in questa
maniera proporre a noi tutti un atteggiamento sano che, scavalcando
gli attuali scetticismi o gli apocalittici “muri”, pone al centro un elemento dal quale oggi non si può prescindere per sviluppare efficacemente attività che svolgano socializzazione all’interno dei gruppi (e
perché no delle classi?) e promuovano la partecipazione e la cittadinanza attiva dei minori.
Allora molto probabilmente la possibilità di diventare “cittadini digitali1” non sta tanto in un generico “stare in rete” inteso come capacità di utilizzare strumenti e tecnologie solo a livello d’uso e consumo −
certamente dalle potenzialità di tempo, distanza, modalità di linguaggi e quantità di informazioni molto più dilatate rispetto alle possibilità delle generazioni passate −, ma nell’acquisizione di un fare, di un
costruire “autoriale” di vissuti consapevoli a monte della produzione
di un qualsiasi atto in rete. A tal proposito basta tornare con la mente
alla pesante campagna mediatica sui filmati autorealizzati dai ragazzi
nelle nostre scuole. Era tutto cyberbullismo, o incapacità di comprendere il modo in cui si approcciavano alla rete e di conseguenza la rete
“mediatica2” alle loro produzioni?
Ed ecco un suggerimento per provare ad iniziare ad inserire i media
nei processi educativi e di apprendimento giocando su un piano per
noi “nativi analogici” più congeniale, cioè la TV, ma nello stesso tempo con l’ausilio della rete: l’uso della Media Education. Pure vecchia
TV, che rimane uno degli “spazi ludici” maggiormente frequentati dai
minori, con il passaggio al digitale è prossima a una presenza in rete,
e non è un caso che molte delle cosiddette “killer application”3 che
troviamo su YouTube sono video fatti dagli stessi ragazzi4 che cercano
di fotografare un loro modo di rappresentare la realtà. Perché dunque
non dar loro l’opportunità di diventarne consapevoli, critici e costruttori di una visione non necessarimente guidata, controllata e veicolata da altri?
Se si ha volgia di cimentarsi ecco un sito importante per approcciarsi
a questa attività e trovare non solo informazioni e materiale di lavoro, ma anche “persone” pronte a dare un a mano: Steadycam5, un servizio pubblico gratuito e non a fini di lucro. Un Centro di documentazione audiovisiva attivo dal 2000 che rappresenta un riferimento
riconosciuto nell’ambito del monitoraggio della comunicazione televisiva e audiovisiva rispetto al target adolescenziale e giovanile. Ma
non solo. Mette a disposizione un archivio, composto da oltre 16.000
schede di programmi televisivi vari e film, costantemente aggiornato su ciò che i palinsesti televisivi nazionali propongono a livello di
“immagine giovanile” e offrono ai giovani stessi, oltre appunto ad
un’attività di consulenza ad insegnanti ed educatori per l’attivazione
di percorsi di formazione, sensibilizzazione e animazione con l’ausilio
degli audiovisivi.
Se poi vogliamo spostarci sul versante educativo tout-court un altro sito importante è quello dell’Osservatorio di Pavia6 che si occupa della questione Media-Minori con un particolare interesse all’area
TV-Minori.
E per i genitori? Dimostrato che le immagini e i dialoghi televisivi, cinematografici e i contenuti multimediali hanno effetto sulla crescita
psicologica e sullo sviluppo emotivo dei minori, che nascono e crescono usufruendo in maniera quotidiana e quasi continuativa dei New
Media, ecco www.genitori.it.
Infine per chiudere voglio ricordare, nel tentativo di provare a spezzare la sequela di lagnanze senza riscontro rispetto ai nostri palinsesti
televisivi − pur ammettendo la scarsa qualità e crescita culturale che
propongono − che almeno per la tutela dei minori esistono i Co.re.
com. regionali che hanno la funzione di vigilanza sul rispetto delle
norme in materia di tutela dei minori nel settore radiotelevisivo locale, attraverso anche le segnalazioni che possono essere inoltrate da
cittadini, associazioni, organizzazioni che intendano comunicare presunte violazioni7.
NOTE
1. Parlerò di “cittadini digitali” in un prossimo numero della rivista cercando
di svelare la pericolosità del concetto avanzato da Prensky di “nativi digitali”
versus “immigrati digitali”.
2. «Nel Medioevo era opinione comune che l’anima umana corresse il rischio di
essere “invasa” e posseduta dal demonio. Oggi accade sempre più spesso che
un potere analogo venga attribuito ai media, avvalorando la tesi che la nostra mente, addirittura la nostra personalità, lungi dall’essere un che di unico
e immodificabile, siano in realtà strutture pericolosamente aperte e malleabili. Gli infiniti spazi vuoti che si nascondono nelle pieghe riposte dell’io sono
quelli che ci mantengono aperti alla comunicazione con gli altri e a possibilità
di sviluppo sempre nuove. Ma possono trasformarsi in pericolosi abissi, dove
l’affascinante illusione dei media a volte scatena imprevedibili reazioni». (A.
Danilo, Possessione mediatica, Ed. Tropea, Milano, 1988).
3. Definizione in http://it.wikipedia.org/wiki/Killer_application.
4. Vedi il fenomeno “Uma, uma” http://www2.dispenser.rai.it/showB.
php?id=2125.
5. www.progettosteadycam.it.
6. http://www.osservatorio.it/cont/mediaminori/cont_mediaminori.php.
7. http://www.consiglioregionale.piemonte.it/corecom/tutela_minori.htm.
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il libro
UN PO’ APOCALITTICO
E UN PO’ NOSTALGICO
Insegnanti “ingobbiti”,
depressi per la burocrazia e
per la mancanza di una vera
comunicazione con le giovani
generazioni. Ragazzi e ragazze
la cui vita procede ormai su
due binari paralleli, da un
lato la sfera scuola/famiglia,
dall’altro il mondo esterno.
Genitori resi incapaci, come
educatori, dalla mentalità
utilitaristica che aspetta
risultati a breve e non sa
metabolizzare educativamente
l’insuccesso. Non si vedono facili rimedi
perché la base di tutto sta nello spirito del
tempo e bisognerebbe che la società intera
rimettesse al centro cultura e sapere
PAOLO CHIAPPE
Marco Lodoli, Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana,
Einaudi 2009, p. 155, 15 euro
M
arco Lodoli è da venti anni in Italia uno dei più significativi
scrittori-insegnanti, uno di quei personaggi per i quali il sostantivo
che precede il trattino (“scrittore”) è più importante del sostantivo
dopo il trattino (“insegnante”), ma non potrebbe separarsene del tutto. Il nucleo originario del mondo di Lodoli è nella dimensione metropolitana, nasce dall’esperienza della generazione del settantasette,
con una rielaborazione favolistica dell’emarginazione esistenziale, è
uno scrittore molto post-militante, e il tema della scuola è presente spesso nei suoi libri, ma con un valore più metaforico che naturalistico, da Grande Circo Invalido a Professori e altri professori. Lodoli
a prima vista potrebbe apparire vicino al primo, classico, Domenico
Starnone per il riferimento agli istituti della periferia romana con la
loro tipica galleria di personaggi che sono il concentrato dell’estraneità plebea al mondo dei libri. In realtà tra Starnone e Lodoli ci sono
notevoli differenze, che dipendono anche da un salto generazionale
(‘68/’77), e che ora sono confermate e chiarite da questo nuovo libro
insieme diaristico e saggistico di Lodoli sulla scuola.
I conti con la scuola
Il rosso e il blu può essere utilmente confrontato con Solo se interrogato, il testo del 1995 in cui Starnone faceva i suoi conti con la scuola. Anche però con un racconto dello stesso Lodoli del 1990, Alberto,
che in parte era una rappresentazione grottesca e molto starnoniana
di un istituto tecnico romano di periferia, e un omaggio postumo a
Moravia, ma conteneva soprattutto l’allusione a un utopico incontro,
al di là dell’inutile scuola, tra intellettuale e popolo, e dove il popolo
romano era visto ancora con occhi pasoliniani e moraviani, cioè come
innocente e quindi capace di meraviglia.
L’approccio lodoliano è istruttivo proprio per la sua doppia fedeltà,
alla scrittura e alla scuola. Anche se ciò a dire il vero comporta nel lettore il rischio di confondere un po’ troppo i due piani, soprattutto ne
Il rosso e il blu in cui gli aneddoti e le descrizioni tratti dall’esperienza diretta dell’autore sono presentati non come fiction, ma come argoécole numero 75 pagina
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Marco Lodoli
menti per un discorso etico e sociale. Attenzione dunque al ruolo che
ha invece l’elaborazione letteraria sotterranea in questo discorso.
Per questo è utile partire invece con quello che Lodoli ha detto sulla scuola, in contemporanea all’uscita del libro, in una lunga intervista radiofonica a Faccia a faccia (Rai3). In una intervista infatti non
ci può essere troppa elaborazione letteraria. Lodoli alla radio ha detto che la scuola ha «perso la sua ragione di essere» per un progressivo decadimento dovuto sia alle troppe leggi e normative accumulate
sia alla trasformazione antropologica del gruppo-classe. Gli insegnanti
sono “ingobbiti”, depressi per la burocrazia (ha fatto l’esempio delle griglie necessarie anche per correggere un semplice tema) e per il
difficile rapporto con i ragazzi, più esattamente per la mancanza di
una vera comunicazione con i ragazzi. La vita di questi infatti procede ormai su due binari paralleli, da un lato la sfera scuola/famiglia,
dall’altro il mondo esterno che è il “devastante mondo del desiderio”,
il vero motore dell’occidente che imprime loro una iperaccelerazione
generando sobbalzi psichici inimmaginabili: gli adolescenti sono perseguitati o come si dice in gergo fomentati da questa pressione continua. L’accusa di fannullonismo agli insegnanti è infondata, anzi essi
investono molto nella professione e proprio da qui si generano rischi
di depressione e burnout. È insensata la pretesa che il rimedio si trovi
attraverso l’eccezionalità, cioè dotando ogni classe di un insegnante geniale, affabulante, un misto di Sermonti e Benigni; la credibilità
dell’insegnante dovrebbe venirgli dall’istituzione. Ci sono ancora scuole che funzionano, ma l’attenzione deve essere rivolta alle scuole delle
grandi periferie urbane che costituiscono il corpo del sistema; in queste la sottocultura televisiva ha stravinto e l’insegnante “predica nel
deserto”. La responsabilità di tutto ciò un po’ è anche degli insegnanti, ma siamo di fronte a un generale “declino delle energie sociali”, i
genitori sono incasinati per la loro parte e in più resi incapaci, come
educatori, dalla mentalità utilitaristica che aspetta risultati a breve
e non sa metabolizzare educativamente l’insuccesso. E non si vedono
facili rimedi perché la base di tutto sta nello spirito del tempo e bisognerebbe che la società intera rimettesse al centro cultura e sapere.
Nel libro tutto ciò si ritrova, ma come diluito e in parte corretto da
alcuni elementi diversi, tanto che il testo è meno drasticamente pessimistico ma anche meno coerente dell’intervista. Intanto compaiono
una serie di aneddoti perfino troppo emblematici e tipici, tanto da far
nascere il sospetto di una selezione suggestiva: l’alunna kossovara che
dice al professore «oggi bastano i soldi e la tecnologia», oppure l’altra
alunna a rischio bocciatura che non può sostenere nemmeno la facilissima interrogazione di recupero perché ha da farsi il piercing alla lingua, o quell’altra ancora che riconosce e accetta di poter essere solo
“parte della massa informe” e quindi di poter solo aspirare a un paio
di mutande firmate, aneddoto che fa pensare quasi a una coincidenza
tra alienazione e spirito critico, come se il consumismo degli adolescenti fosse espressione non di superficialità ma di filosofica disperazione (il che darebbe qualche speranza).
Un altro elemento del libro è il frequente ribadire la convinzione che
nell’insegnamento si deve ricominciare sempre tutto da capo, con pazienza, anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare, perché
i risultati magari si vedranno solo tra dieci anni: e in questo Lodoli
parla davvero come un insegnante al cento per cento, o si rivolge in
modo fin troppo accattivante al senso comune più diffuso della categoria (della parte migliore della categorie: ma sempre di senso comune si tratta).
Il terzo elemento, decisivo e basilare, è la rievocazione della scuola della sua personale infanzia, con le precise connotazioni olfattive, merceologiche alla Georges Perec (Je me souviens…) come si trovavano anche in Solo se interrogato e in vari racconti e romanzi di
Starnone, ma con un capovolgimento di valori: dove per Starnone
andava cercata l’origine di una umiliazione sociale dalla quale solo
da adulti ci si è riusciti forse a liberare (magari proprio attraverso la
scrittura), per Lodoli i personali ricordi scolastici sono invece la sede
di un paradiso perduto abitato dall’angelico puer aeternus, soprattutto per lui meraviglioso nella incarnazione del monello: questo mito
innocente e poetico purtroppo annebbia un po’ il giudizio di Lodoli
sul presente e sembra che abbia una parte di responsabilità nel fatto
che Lodoli sospende il giudizio sulle mode gelminiane del grembiulino, del voto di condotta e altri dispositivi che guardano al passato
come modello.
Per il lettore rimane la domanda, stimolata anche da questo libro, su
come scienza e democrazia potranno di nuovo far convergere il loro
percorso.
école numero 75 pagina
39
LIBRI
Pierattilio Tronconi e Mario Agostinelli, L’energia felice.
Dalla geopolitica alla biosfera, prefazione di Gianni Mattioli,
edizioni Socialmente, Granarolo dell’Emila (BO) 2009, pp.
220 euro 20
A
humus
bbiamo fatto la nostra parte per liberare l’Italia dal nucleare nel lontano 1987. In quegli anni in tante scuole si erano analizzati i rischi dell’energia da fissione e proprio dalla critica del nucleare si era partiti per cominciare a immaginare un
nuovo rapporto tra energia e umanità. Ma alla vittoria al referendum non è seguita neppure nelle scuole una stagione di approfondimento della questione e oggi generazioni sono cresciute come se il pericolo atomico fosse scomparso. Invece, come
tanti altri incubi, oggi esso ritorna e chiede alle scuole nuovo
vigore di studio e di comprensione. Per questo è essenziale il libro di Pierattilio Tronconi e Mario Agostinelli che fornisce dati
verificabili che dimostrano quanto sia evidente la mancanza
di prospettive dei combustibili fossili e distrugge con rigore
scientifico la bufala del nucleare sicuro ed “ecologico” perché
sedicente CO2 free, ma soprattutto evidenzia una speranza, la
possibilità di un’energia felice, fatta di risparmio e di solare, di
sobrietà e di una nuova armonia tra vita e scienza. Si tratta di
un libro di storia e di geografia, di fisica e di chimica, di economia e di filosofia. Un libro multidisciplinare prezioso
per l’uso in classe. Sarebbe da adottare, ma temiamo
non sia adottabile.
GIANPAOLO ROSSO
LIBRI
Gabriele Cecconi, Otre il cancello, Mauro Pagliai
Editore, marzo 2009, pp. 379, euro 15
G
uido, otto anni, entra in seminario. Vuole far
parte del gruppo dei futuri sacerdoti, indossare quella mirabile divisa. Vuole essere un bambino speciale, scelto da Dio per salvare le anime, portare il bene
nel mondo. Non ama le mezze misure, le mediazioni mediocri: cerca l’assoluto. Il seminario però è un
microcosmo in cui “Ritrosa” (come lo chiamano per
i capelli ribelli, che solo la mamma sa carezzare nel
verso giusto) incontra un bel po’ delle complicazioni
della vita fuori. Scopre le disuguaglianze e le ingiustizie legate al denaro – anche lì, nel luogo che più
dovrebbe essere dell’uguaglianza. Le gerarchie dell’istituto parlano a lungo con i genitori che contano
e non rivolgono un saluto ai padri da poco. E i ragazzi che-non-pagano-la-retta, quelli che non hanno le penne stilografiche, saranno le spie predestinate dell’istituzione totale. È esigente Guido e ha bisogno di cose grandi.
Scoprirà subito l’amicizia, quella con la maiuscola, che è condivisione di un progetto di vita. Una vita, però, che allontana
i due amici e poi li fa ritrovare intorno alle grandi domande su
Dio e sugli uomini. Sulle donne. Perché le donne fanno problema. I loro corpi nei cinema della Prato anni sessanta sono la
tentazione colpevole, il male puro. Quei corpi presto saranno
divorati dai vermi, gli spiegano; conviene tradire Gesù, la felicità eterna, per un piacere effimero rubato ai topi dei cimiteri? (E però la notte pensa all’animaletto che s’intrufola nei
corpi femminili, sotto le gonne svolazzanti...). I corpi sono il
problema, e non solo quelli femminili. La mattina la luce si
accende solo dopo che tutti hanno già i pantaloni: guai farsi
vedere, guai vedersi. Ed è proibito per i seminaristi tenere le
mani in tasca, non si sa che potrebbe succedere, così vicini
alla zona rossa. Allora anche le immagini proibite delle donne
nude finiscono per essere in qualche modo sacre: l’altra faccia
di quei santini che molti collezionano, stile figurine di calciatori – celo celo manca ecc.
Troppi demoni. Guido comincia a sentire che c’è qualcosa che
école numero 75 pagina
non va in questo percorso di santità. Un’educazione popolata
di spettri: il sesso l’omosessualità il piacere. Diffidare del piacere, di qualunque piacere, se si comincia se ne diventa schiavi. Il terrore come motivazione all’apprendimento. La felicità coincide con la virtù e la virtù con la rinuncia. Strumento
supremo di salvezza è l’ordine, la regolarità dei gesti. In fila
per due, vestiti di nero, in perfetta progressione di altezza. Il
tempo e lo spazio regolati in ogni istante, prefigurazione dell’eternità e garanzia di sicurezza – come nel mondo protetto
di Truman show. Fra noi Guido non rischierai nulla, sarai al riparo da tutto.
Ma Guido trova in biblioteca un tipo strano che studia teologia
a Firenze, ha i vestiti in disordine e racconta di don Milani.
Parla del valore di pensare con la propria testa. Possibile? E poi
Guido scopre una ragazza, in chiesa, magnifica. Rivelazione laica. Quando i loro occhi si incontrano sembra che sia per l’eternità – ma un’eternità diversa, umana. E il miracolo di tutte le
adolescenze si compie: figuriamoci se un angelo come lei può
interessarsi a uno come me... Sembra sempre impossibile. E invece saranno passaggi in bici, attese, biglietti. Possibile che
tutta questa meraviglia sia colpa, volgare peccato. Che ciò che
è più umano, come l’amore, sia Male.
Alla fine la scelta sarà per la pericolosità della creazione. Non
essere al riparo. La libertà costa fatica, assomiglia alla solitudine e mette anche un po’ di angoscia. Ma non si cresce senza.
ANDREA BAGNI
40
LIBRI
Bianca Guidetti Serra con Santina Mobiglia, Bianca
la rossa, Einaudi, Torino 2009, pp. 300, euro 17,50
L
a Storia − l’antifascismo, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fondazione, fra il ’43 e il ’44,
insieme ad Ada Godetti e ad altre donne dei “Gruppi di
difesa delle donne per l’assistenza ai combattenti della
libertà”, l’impegno come staffetta partigiana, l’organizzazione della resistenza civile fra le operaie e le casalinghe in preparazione dello sciopero del 18 aprile 1945, il
comunismo, la rottura con il Pci per i fatti d’Ungheria,
il percorso di ricerca del Centro studi Piero Gobetti, il
Sessantotto, i movimenti delle donne, gli anni del terrorismo, i grandi processi degli anni Settanta, le fabbriche della morte, la legge sull’aborto, la riforma del diritto di famiglia, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro
la politica istituzionale negli anni Ottanta, …) − si intreccia con la storia di vita di Bianca Guidetti Serra e
con le storie delle persone “deboli” incontrate per ragioni professionali. Il mestiere di avvocato, in difesa
degli operai schedati nelle fabbriche, o delle vittime dell’inquinamento industriale, le aule giudiziarie come luogo per esigere diritti (e non solo come luogo del diritto) sono centrali
nella narrazione, accompagnata con stima e affetto dall’amica
Santina Mobiglia.
“Il personale è politico”, dicevamo noi donne negli anni ’70.
In tempi in cui è il “privato” a essere diventato “politica”, il
libro di ricordi “personali” di Bianca Guidetti Serra, da subito,
chiarisce la differenza: «Da sola non avrei mai pensato a scrivere una mia autobiografia», e ancora, «Ho lasciato da parte
la sfera più intima e privata, pur ricca di ricordi intensi, che
ha un significato solo per me e le persone coinvolte». È un libro di ricordi politici, abitato da persone vere, donne e uomini che l’avvocata Guidetti Serra ha incontrato nel suo percorso
di vita, di lavoro, di attività sindacale e di impegno politico.
Un percorso i cui fili sono strettamente intrecciati. Scampoli
di vita quotidiana ci raccontano lo straordinario secolo breve.
Un libro da leggere e da far leggere alle ragazze e ai ragazzi
per fare storia contemporanea in modo vivo e appassionante e
per far comprendere cos’è la memoria fertile.
CELESTE GROSSI
LIBRI
Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di
Vladimiro Giacché, DeriveApprodi, Roma 2009, pp. 176,
euro 15
«P
MUSICA
Kronos Quartett, Floodplain, Nonesuch, 2009
I
MOSTRE
Niki de Saint Phalle, Le scatole dei segreti,
Museo in Erba, piazza Magoria 8, Bellinzona (Canton
Ticino)
U
na mostra, un laboratorio, un gioco: l’esposizione dei lavori di Niky de Saint Phalle può essere definita in tanti modi.
In un’esplosione di colore e forme fantastiche, le installazioni
dell’artista francese (famosa in patria per aver collaborato alla
fontana Stravinskij di Parigi) creano un mondo alternativo popolato di draghi, golem, fate e case assurde dove i bambini
(e magari anche gli adulti) possano dar sfogo al gusto di
giocare con la fantasia in prima persona, riscoprendo l’antico e visionario mondo delle favole e delle leggende attraverso un eccentrico itinerario artistico.
La manifestazione (fino al 28 febbraio 2010) propone inoltre un ricco programma di attività complementari quali uno
spettacolo teatrale interattivo, incontri con artisti e laboratori presieduti da ospiti di altri spazi didattici italiani.
Per informazioni: tel. + 41.91.8355254; www.museoinerba.
com
humus
er Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze
produttive (questo è secondo Marx anche il suo principale merito storico). D’altro lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l’appropriazione privata della ricchezza prodotta e l’orientamento della
produzione al profitto anziché al soddisfacimento dei bisogni
sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze
produttive, creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo
di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e
sovrapproduzione di merci» – scrive Giacché nell’Introduzione
(Karl Marx e le crisi del XXI secolo) al suo lavoro di ri-traduzione dei testi marxiani concernenti le crisi ricorrenti e rovinose
del capitalismo trionfante.
La sua antologia di testi (ripresi in maggior parte dal II e dal III
Libro del Capitale con massicce incursioni anche nelle Teorie
sul plusvalore e nei Grundrisse) mostra non tanto il supposto
“spirito profetico” di Marx (che è uno dei miti più duri a morire riguardo il pensatore tedesco e più nocivi alla sua
comprensione) quanto la solidità e la potenza della
sua lettura della propria epoca in modo da comprenderne le contraddizioni dialettiche e da verificarne le
alternative possibili. Giacché conforta, inoltre, con
il suo lungo scritto introduttivo la necessità di un
“ritorno a Marx” dopo il suo lungo oblio dovuto alla
crisi del “socialismo reale” e permette di utilizzare
quegli scritti (alcuni dei quali possono essere proposti anche a scuola), oltre che in chiave storica, come
strumento per leggere il presente.
GIUSEPPE PANELLA
Nel Cd troviamo il Nilo come punto di partenza, per passare poi
al Danubio che separa Belgrado dalla Serbia, al Tigri e all’Eufrate della mezzaluna fertile, ai grandi fiumi indiani e a quelli africani.
Ogni brano si avvale − sia per la composizione che per l’esecuzione − della collaborazione di musicisti e musiciste diversi,
provenienti dalle varie culture. A fianco del quartetto d’archi
troviamo perciò darbukka e riqq arabi, sitar e tambura indiani, voci e strumenti dell’Azerbaigian, ma anche l’elettronica del
gruppo Ramallah Underground o gli strumenti appositamente
disegnati e costruiti da Kitundu, artista della Tanzania.
MARIATERESA LIETTI
l Kronos Quartet ci ha da tempo abituato a proposte intelligenti che sanno andare al di là delle
rigide separazioni tra generi musicali e tra epoche
prendendo ciò che di meglio ci possono dare la musica colta (contemporanea e del passato) o il jazz,
la musica etnica o la popular music. Un esempio particolarmente riuscito tra le loro proposte, e che si
può dire abbia segnato un momento importante nella ricerca musicale, è il Cd Pieces of Africa (Elektra Nonesuch, 1992).
Collaborando con musicisti e compositori africani, nel Cd presentano brani di grandissima intensità nei quali al tradizionale quartetto d’archi si uniscono percussioni, voci e strumenti
della tradizione africana. Proseguendo in questa loro ricerca ci
propongono ora un nuovo lavoro, Floodplain, incentrato su alcuni grandi fiumi che, nel loro scorrere, attraversano e mettono
in collegamento genti, culture, tradizioni, eventi; fiumi i cui
margini si modificano continuamente e che dopo le esondazioni lasciano la terra particolarmente fertile. Varrebbe la pena riportare tutta l’introduzione di Anastasia Tsioulcas che compare sul libretto del Cd, ma mi limito, per motivi di spazio, alla
frase di Mahmoud Darwish che è stata scelta come introduzione e che mi sembra renda in pieno lo spirito del lavoro: «Nel
viaggiare liberamente attraverso le culture coloro che sono in
cerca dell’essenza umana possono trovare uno spazio per tutti
dove riposare... Qui un margine avanza. O un centro si ritira.
Dove l’Est non è propriamente est, e l’Ovest non è propriamente ovest, dove l’identità è aperta alla pluralità, non un forte o
una trincea».
TEATRO
Ritorno a Haifa
F
ranco Cordelli, sul Corriere della Sera a proposito di Ritorno ad Haifa dello scrittore palestinese Ghassan
Kanafani (traduzione italiana di Isabella Camera d’Afflitto)
ha scritto : «[…] Non so se nella celebratissima letteratura israeliana vi sia qualcosa di simile, di così chiaro, di
così emblematico a proposito del conflitto mediorentale, il
nocciolo della storia contemporanea». Il racconto, per la
prima volta nella letteratura araba, parla di due diaspore:
quella palestinese e quella ebraica, accomunate da uno stesso
tragico destino. Said, palestinese di Haifa, torna con la moglie,
dopo vent’anni di esilio, nella sua città natale per rivedere fugacemente i luoghi amati e la sua casa, ora abitata da una famiglia di ebrei polacchi scampati ad Auschiwitz, e per cercare
il figlio, abbandonato durante la repentina e tragica fuga. Con
grande umanità e forza emotiva, Kanafani accompagna i lettori
in questo viaggio nel presente e nel passato, dove riaffiorano
da entrambe le parti il disagio e la tristezza della situazione, in
un groviglio di sentimenti e passioni. Ora il testo è diventato
uno spettacolo teatrale prodotto da Narramondo. Carlo Orlando
il regista − che è anche interprete, insieme ad Eva Cambiale −,
ha scelto questo testo per tentare di «ristabilire una verità politica e umana» e sostenere «il diritto dei profughi palestinesi
a ritornare nella loro terra». La narrazione, semplice e diretta,
mai compiaciuta, con il procedere della storia, si trasforma, e
trasforma lo spettacolo, in “teatro di situazione”.
Per informazioni Yousef Salman, delegato della Mezza Luna
Rossa Palestinese in Italia, tel. 347.013013, http:/www.palestinercs.org.
CELESTE GROSSI
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I GIORNI FELICI
anni verdi
STEFANO VITALE
école numero 75 pagina
B
ruciano in fretta gli anni verdi. Prima c’era il duro lavoro precoce, oggi c’è la televisione. E il peggio arriva se a qualcuno viene in
mente che “siamo dotati” e non può fare a meno di immaginarci star
del cinema o veline della tv. Teresa Ciabatti ci racconta una storia emblematica e profonda nel suo I giorni felici (Mondadori, 2008). Siamo
a Roma, fine anni ‘70. Una bambina di sei anni, Sabrina Mannucci,
dagli «occhioni celesti» e «talmente bella che la gente si fermava per strada a guardarla», è dotata di una intelligenza singolare: a
quell’età, sa fare di conto con operazioni anche complesse, scrive e
legge come e forse meglio dei grandi («leggo solo romanzi di mille
pagine»), sa cantare, riesce perfino, concentrandosi, ad indovinare
che tempo farà il giorno dopo. Ha perfino sognato la Madonna che
le ha detto: «Tu Sabrina, sei la più brava del mondo». Si distingue
da sua sorella Barbara, piuttosto bruttina e grassoccia, e da suo fratello Roberto, una specie di demonietto. Il padre, Riccardo, è bello
come Sabrina, la figlia prediletta, e abbastanza ricco. Lavora in televisione in una posizione amministrativa, ma di rilievo, e conosce
molti personaggi famosi. La madre somiglia a Barbara, bruttina anche
lei. Sabrina sa di essere speciale, da qui la sua vanità e il desiderio
di mettersi in mostra, incoraggiata dal padre, che vuole fare di lei la
nuova Shirley Temple. Ma la realtà dei fatti è più complessa e difficile. Emergono le prime delusioni e viene fuori una Sabrina aggressiva, cattiva, antipatica. Per innalzarsi, occorre abbassare gli altri. Sabrina è una distruttrice. Vuole il mondo tutto per sé, ed allora lo disgrega con la sua ambizione aggressiva. Ad ogni delusione, Sabrina reagisce con
caparbietà e si carica di altra violenza e rancore. Tutti ne pagano le conseguenze. Anche
l’adolescenza è un’età di contrasti e delusioni, Sabrina suona il violino potrebbe diventare importante ma finisce ad insegnare in un conservatorio di provincia, dove un allievo, nel corso di una animata discussione, le risponde: «E lei è una fallita». Sono i frutti
amari della sua vanità. Inquietudine e insicurezza, pessimismo e rabbia. È come cadere
in una contraddizione dopo l’altra: ovviamente la sua vita amorosa è disordinata e fragile
finché s’innamora di Cristiano Perrone, che altri non è che il marito della sorella Barbara,
proprietario di giornali, il quale vorrebbe affidarle l’incarico di responsabile della cultura
nella sua azienda, che Sabrina rifiuterà. Cristiano non è nemmeno bello: «era un ciccione
di cento chili, i capelli ricci e lunghi fino a sotto le orecchie, sempre abbronzatissimo, un
vero burino». Ma pur di affermare la propria superiorità, di vedere il mondo dall’alto, si è
disposti a tutto. E il mondo non è come si immaginava: c’è disordine, confusione, ideologie paralizzanti, deficienze intellettuali, corruzione mafiosa e politica. Ma lei è diversa,
ha quel genio che gli altri non hanno. Sabrina non è mai veramente cresciuta: voleva comandare, essere la migliore, e invece è restata bambina, capricciosa ed arrogante. L’unico
successo che l’ha resa felice è stato quello allo Zecchino d’oro, davanti al suo papà, seduto in prima fila e con le lacrime agli occhi. La sorella ha una figlia: Greta, una odiosa
ragazzina che potrebbe prendere il suo posto, ma anche caricare su di sé la pena che la
sta rendendo infelice. Greta le assomiglia molto: ha le sue presunzioni, le sue bizzarrie,
le sue ostinazioni, la sua cattiveria, la sua paura. E Sabrina non la sopporta, ma questa
volta l’aggressione non è verso Greta, ma verso se stessa e pare quasi che Sabrina, umiliata e sconfitta, voglia liberarsi di se stessa, della sua non riuscita adultità e sparire per
provare a ricominciare tutto da capo. Non è solo un ritratto caustico dell’italietta vittima
della tv, è un amaro racconto della perdita della naturalezza del proprio destino, frutto
non di una sottomissione fatalista, a quale che sia il disegno provvidenziale, ma di un
puro e semplice, leggero amore per la vita. Scrisse Alice Miller: «non possiamo cambiare
neppure una virgola del nostro passato, né cancellare i danni che ci furono inflitti nell’infanzia. Possiamo però cambiare noi stessi, riparare i guasti […] e trasformarci da vittime inconsapevoli del passato in individui responsabili che conoscono la propria storia e
hanno imparato a convivere con essa». Senza malinconia, stringendo tra le mani i nostri
giorni felici. Comunque.
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Il potere delle idee
FILIPPO TRASATTI
Deborah Meier, insieme ad un gruppo di colleghi insegnanti ha dato vita, a partire dalla metà degli anni Settanta a New York, a un originale progetto di scuola
che, pur tenendo conto delle differenze tra il nostro sistema d’istruzione e quello statunitense, può forse offrire anche in Italia qualche spunto di riflessione. Il
caso della Central Park East Secondary School di New York
L’
esperimento pedagogico di Deborah Meier¹ ha avuto inizio nel 1974, a Central Park
East, Harlem, in un periodo di crisi del sistema scolastico americano e si potrebbe interpretare
preliminarmente questo esperimento anche come una risposta alla proposta di Illich di quegli
stessi anni (Deschooling Society è del 1970), sulla de-istituzionalizzazione della scuola. C’era
allora in Usa (e c’è in modo ricorrente) un dibattito acceso sull’efficacia di un sistema nazionale scolastico che sperperava risorse per ottenere risultati che complessivamente erano valutati deludenti. Lo stesso Illich ricorda alcuni dati impressionanti di quegli anni: «Negli Usa
bisognerebbe spendere ottanta miliardi di dollari all’anno per fornire quello che gli educatori
considerano un trattamento eguale per tutti alle elementari e alle medie. In altre parole più
del doppio dei trentasei miliardi che si spendono ora. Dalle analisi condotte separatamente
dall’HEW e dall’University of Florida risulta che per il 1974 la cifra corrispondente sarà di centosette miliardi, contro i quarantacinque ora previsti, e questo calcolo non tiene minimamente conto degli enormi costi della cosiddetta “istruzione superiore” per la quale la domanda
aumenta ancora più rapidamente. Gli Usa che nel 1969 hanno speso quasi ottanta miliardi di
dollari per la “difesa”, compresa quella dispiegata nel Vietnam, sono ovviamente troppo poveri
per fornire un servizio scolastico uguale per tutti»². La conclusione suona ironica: gli Usa non
possono permettersi un sistema scolastico nazionale obbligatorio di qualità; e se non possono
gli Usa, figuriamoci l’Italia!
I dati economici a distanza di trent’anni non ci dicono molto, perché richiederebbero complesse procedure di comparazione, ma sembrano porre un limite insuperabile a quanto un paese
può permettersi di spendere, almeno se si ragiona in un regime di compatibilità entro il quadro di un dato sistema economico, sociale e culturale.
Per provare a dare una risposta diversa al che fare, con un progetto dalla presenza forte di
quella tradizione americana che cerca di tenere insieme sogno e pragmatismo, il sovrintendente chiamò Deborah Meier insieme a un gruppo di colleghi e diede loro una possibilità e dei
vincoli: potete costruire una scuola proprio come volete, ma il costo complessivo per alunno
deve essere pari alla media delle altre scuole e lo staff di insegnanti deve avere i soliti requisiti dei contratti della città, dello stato e dell’Unione.
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«Eravamo parte dell’“educazione aperta”, dice Deborah Meier, e le nostre radici risalivano
fino alle origini della tradizione dell’educazione progressiva, con il focus sulla costruzione di
una comunità democratica, sull’educazione alla piena cittadinanza e sugli ideali egualitari.
Consideravamo nostri mentori sia Jean Piaget che John Dewey. Venivamo da una tradizione che
era sempre più a disagio nel considerare l’individuo l’unico centro di ciò che veniva chiamato
aperto o progressivo. Per noi l’educazione progressiva non era solo centrata sul bambino ma al
tempo stesso sulla comunit໳.
Il successo della scuola elementare rende possibile la costruzione di una scuola secondaria
(CPESS - Central Park East Secondary School), basata su un principio pedagogico sorprendente: «Come la scuola elementare era basata sull’idea di mantenere le tradizioni del kindergarten
fino alla sesta classe, allo stesso modo per la nostra scuola secondaria immaginammo di mantenere vivo lo stesso spirito per qualche anno in più. Non vorrei che questo suonasse condiscendente o sminuente. Anzi, per me è questo è fondamentale per tutti i tipi di educazione:
non sarebbe meraviglioso dopo tutto se gli studenti delle scuole secondarie fossero assorbiti
nel loro “lavoro” come i bambini di cinque anni lo sono coi loro “giochi”?»4.
Certo sarebbe bello, ma come si fa? Si potrebbe dire che prima di tutto bisogna cambiare abitudini mentali consolidate e sfatare alcuni miti di lungo corso.
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“I magnifici tempi andati”
Il mito fondamentale, dice la Meier, è l’idea che nel passato le scuole pubbliche insegnassero
in modo più efficace e gli studenti imparassero di più. Nei “magnifici tempi andati”, dice la
Meier, il livello di scolarizzazione medio era assai basso. Sembra ovvio ricordarlo, ma spesso
serve perché anche dalle nostre parti ce lo dimentichiamo. Altrettanto vvio è che una scolarizzazione di massa richiede non meno, ma più impegno, proprio perché la scuola è aperta a tutti
e, in particolare, il CPESS lavora per lo più con studenti afro-americani e latini, a basso reddito
o poveri, che hanno in precedenza sperimentato un’ampia gamma di difficoltà scolastiche. E
questo impegno è al tempo stesso un impegno economico, politico e culturale.
Ora questi insegnanti pragmatici intorno alla Meier, prima di mettersi a discutere del resto,
provano a cercare dei punti di vista comuni, al di là delle discipline, su ciò che considerano
davvero importante.
Non una tiritera senza fine di obiettivi, una “lista della lavanderia”.
«Ci concentrammo su cinque punti, basati su molti anni di osservazione degli atteggiamenti
e delle abitudini mentali dei bambini e nostre, e ora essi sono affissi nella maggior parte delle classi.
Sono il cuore del curriculum, ma anche la base per valutare le prestazioni degli studenti. Ogni
volta che li riscriviamo cambiano leggermente e sono in costante evoluzione nel loro significato. Eccoli:
1. La questione dell’evidenza e della prova, ovvero Come sappiamo ciò che sappiamo?
2. La questione del punto di vista nella sua molteplicità, ovvero Chi sta parlando?
3. La ricerca di connessioni e di modelli, ovvero Cosa causa cosa?
4. Le supposizioni, o ipotesi controfattuali, ovvero Come le cose avrebbero potuto (o potrebbero) essere diverse?
5. Perché questa cosa dovrebbe avere qualche importanza, ossia A chi importa»5.
La prima volta che li ho letti mi sono sembrati poveri, forse perché siamo abituati a proclami
più altisonanti dalle nostre parti, ma se si presta l’attenzione dovuta a questi punti, si capisce
anche cosa intenda la Meier per cambiamento di atteggiamento mentale, per gli studenti e gli
insegnanti, applicato a qualsiasi ambito disciplinare.
Il pensiero critico al centro
Visti nel complesso questi atteggiamenti mentali del CPESS suggeriscono l’idea di un curricolo
che ha al centro il pensiero critico, ma anche un modo di pensare il rapporto con il sapere, con
l’ambiente, la relazione tra adulti e ragazzi, basata su rispetto e fiducia, e sulla convinzione
che sia possibile insegnare offrendo agli studenti esperienze mirate a ispirare il loro desiderio
di conoscere di più per dare un senso al mondo e per incidere su di esso.
Insomma sembrerebbe tutto il contrario di quello che chiamiamo “sapere accademico”.
Ma in tutto questo, che fine fanno i contenuti e le nozioni del canone?
«Un marziano in visita a New York si farebbe l’idea che stiamo preparando milioni di bambini e
ragazzi per una vita di studio accademico. Dopo tutto, concluderebbero, se si manda un bambino in una scuola che ha a centro del curricolo lo studio del violino o la cucina, sarebbe ragionevole attendersi che si vuole che diventino violinisti o cuochi. Dunque nel nostro caso prepariamo tutti ad essere degli accademici. Sì? No? Sia i marziani che lo studente medio meritano
una risposta ed è perciò che abbiamo bisogno di riesaminare lo scopo dell’educazione»6.
Che ne facciamo delle materie accademiche?
Prendiamo ad esempio la storia, una delle materie che fanno parte del curricolo di base in tutte le scuole e che, almeno a quanto ci dicono alcuni studi, sembra essere una delle materie
più odiate e peggio studiate, con tutto un contorno di giaculatorie sull’utilità e in danno della
storia per la vita individuale e sociale.
Le cose non devono esser diverse al di là dell’Oceano, perché le obiezioni a cui la Meier cerca
di rispondere assomigliano a quelle che circolano dalle nostre parti.
Quando si chiede perché è necessario studiare storia (non, si badi, è interessante, appassio-
Il senso dell’insegnamento e della scuola
E con questo si ritorna a riflettere sul senso dell’insegnamento e della scuola, perché qui sì chi
non se lo chiede, è destinato a ripetere gli errori del passato.
Le scuole del CPESS non sono miracoli, ma piuttosto un tentativo di ricercare un senso e una
direzione per una scuola di massa di qualità, senza piegarsi all’ossequio alla tradizione e senza
accettare la selezione classista che ad ogni angolo si riaffaccia.
Perché questo sia possibile, è necessario però che la scuola muti volto e senso.
«Abbiamo basato il nostro lavoro al CPE su semplici principi che sono abbastanza familiari a
quelli che lavorano nella scuola primaria, molto meno a chi lavora con adolescenti e adulti.
1. Un clima di lavoro che favorisca la sicurezza, la fiducia e la stima;
2. La misura e la scala sono decisive. Persino le prigioni e l’esercito sono meno enormi, impersonali e anonimi di molte scuole;
3. Non puoi essere un esperto o un allenatore efficace se sei anche un giudice e un carnefice;
4. Impariamo meglio quando ci si permette di sviluppare il nostro naturale impulso a dare un
senso alle cose del mondo. Un insegnante delle scuole d’infanzia usa la classe stessa per creare
interesse e curiosità. Prepara con cura l’ambiente con oggetti e attrezzature interessanti che
invitano a far domande. Passa il suo tempo muovendosi nello spazio spronando, indagando,
cambiando materiali in modo che la curiosità sia mantenuta viva. Crea dissonanze e armonie,
confusione e serenità. Anche le contraddizioni vengono accettate come naturali, anzi necessarie all’apprendimento animale;
5. Gli esseri umani sono per natura discenti sociali e interattivi. Noi osserviamo come fanno gli
altri e se ciò che fanno gli altri funziona anche per noi. Impariamo a guidare e a cucinare in
questo modo. Come maneggiare le idee, come trovarle, discutere con gli autori che studiamo,
rimbalziamo problemi e questioni dall’uno all’altro, chiediamo agli amici di dare un’occhiata ai
nostri schizzi, parliamo di un film che abbiamo visto, ci passiamo un libro che ci è piaciuto,
condividiamo storie e pettegolezzi che ampliano la nostra comprensione di noi stessi e degli
altri. La conversazione è al cuore delle nostre vite e del nostro sviluppo intellettuale, proprio
ciò che viene impedito nella maggior parte delle classi»10.
Suona strano vero? Alcuni di queste indicazioni, a volte semplici e che senz’altro meritano di
essere approfondite e discusse, non sono altro che la logica conseguenza dell’applicazione dei
metodi attivi, del rispetto per gli studenti e dell’idea che lo studio e la conoscenza possano
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nante, propedeutico, intellettualmente stimolante ecc., ma necessario), si risponde in genere
così: è necessaria per creare un’identità condivisa in un Paese, perché chi non studia la storia
è condannato a ripeterla, e così via. Ma la situazione italiana, dove la tradizione storica è sempre stata forte rispetto ad altri paesi, offre qualche spunto di riflessione in proposito. Davvero
basta inserire lo studio di una storia generalista, più o meno ben masticata, a garantire una
cittadinanza attiva e critica? A evitare gli errori del passato? A resistere contro la marea montante di una politica spettacolo e spazzatura?
«Davvero crediamo che gli storici siano migliori degli altri quando si tratta di non ripetere gli
errori del passato, oppure che le nazioni in cui è diffusa una maggiore conoscenza storica si
siano comportate meglio rispetto ad altre in cui era meno diffusa?»7.
E che dire della sublime matematica, tormento (e poca estasi) per generazioni di liceali? Molti
(direi la maggior parte) compreso il sottoscritto hanno imparato ad eseguire alla perfezione
studi di funzione, a calcolare derivate, continuando ad amarla ciecamente, e insensatamente.
Pochi sanno perché fanno quello che fanno, da dove viene la forza e il fascino del calcolo, in
quanti modi diversi si incarna nel mondo in cui viviamo quotidianamente.
«Molti insegnanti che si considerano colti, aggiunge la Meier, riconoscono di non sapere nulla
della matematica avanzata e non hanno la minima intenzione di colmare questa lacuna (mentre lo considerano necessario per i loro studenti). E se tutti hanno studiato una cosa, qualsiasi
essa sia, significa che è utile allo scopo della selezione. (…) Trovateci una statistica che mostri una stretta connessione tra le materie accademiche insegnate nella maggior parte delle
scuole superiori e il successo nella vita, per un qualsiasi standard, a parte la connessione arbitraria che noi abbiamo creato rendendo le prime un prerequisito per l’altro»8.
Ricorda le sciocchezze che da noi si continuano a propalare sull’utilità del latino per avere una
certa forma mentis, su quanto hanno poi successo all’università quelli che si sono formati sulla
base di uno studio classico, e così via, dove invece la semplice realtà è che si inverte l’ordine
delle cause e degli effetti: la provenienza familiare e sociale, la motivazione allo studio iniziali
spiegano nella maggior parte dei casi il successo finale.
Detto questo, che ce ne facciamo delle materie “accademiche”? Le buttiamo via? No di certo.
«Se accettiamo una tradizione accademica che non si giustifica sulla base dell’utilità pratica,
va bene. Ma poi non possiamo allo stesso tempo pretendere che tutti i giovani passino dodici
anni dedicandosi quasi esclusivamente ad essa. Ci sono modi più sensati di mantenere l’integrità e la salute dell’insegnamento accademiche che farne un “guardiano” che regola l’accesso a tutte le attività adulte di valore. Una volta che riconosciamo che l’accademia è solo una
delle forme della vita intellettuale, possiamo cominciare ad immaginare altre possibilità. Altre
possibilità non significa che tutte le discipline tradizionali diventino per noi insignificanti. Al
contrario ci obbliga a chiederci in che modo quelle discipline siano rilevanti per le nostre domande e ricerche. In ogni caso ciò significa subordinare le discipline alla ricerca intellettuale.
Ciò che determina ciò che studiamo, i criteri che ci guidano, dovrebbe essere la ricerca di una
cittadinanza democratica, non i diktat dell’accademia»9.
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produrre un sapere critico. Nulla di più. E nulla di più lontano dalle scuole che abbiamo sotto gli occhi.
Molte sono le obiezioni che si possono fare, a partire dalla differenza tra noi e loro eppure ogni
tanto, affaccendati come siamo a seguire le vicende di riforme, tagli, miserie, converrebbe provare a far mente locale su quelle che modestamente vengono definite un insieme di raccomandazioni basate sul modello del CPESS.
1. Le scuole dovrebbero essere piccole e personalizzate. Le scuole grandi dovrebbero essere
suddivise in case di apprendimento interdisciplinare.
2. L’apprendimento cooperativo è una delle chiavi per un apprendimento efficace.
3. Dovrebbe esserci integrazione tra le diverse parti del curriculum: storia e letteratura, matematica e scienze ecc.
4. Le parti dedicate al curriculum accademico dovrebbero essere più ampie nelle scuole secondarie, almeno un’ora e meglio due ore al giorno.
5. Le classi della scuola secondaria dovrebbero essere utilizzate per periodi lunghi e servire
anche come luoghi di consulenza.
6. Pochi argomenti affrontati in profondità sono meglio di molti insegnati superficialmente.
7. Le decisioni sul curriculum, l’impostazione pedagogica e la programmazione dovrebbero essere prese da coloro che lavorano nella scuola.
8. I genitori dovrebbero essere informati e coinvolti nell’educazione dei loro figli.
9. Agli studenti si dovrebbe chiedere di dimostrare le loro abilità direttamente, di mostrare
ciò che sanno e possono fare. I test a scelta multipla non possono sostituire una prestazione reale.
10. Gli studenti dovrebbero impegnarsi in lavori socialmente utili e dovrebbero apprendere dal
mondo del lavoro attraverso esperienze di lavoro dirette dalla scuola.
Non tutte queste indicazioni sono equivalenti, certo; alcune sono anche più che discutibili,
altre sembrano invece così ovvie che si fa fatica a capire come mai non siano più diffuse. Le
risposte a queste domande sono tante, ma la più immediata mi sembra che non solo abbiamo
cessato di chiedere l’impossibile, ma anche il possibile e il necessario.
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NOTE
1. Questo testo ha come punto di riferimento essenziale il libro di Deborah Meier, The Power of Their Ideas,
(Beacon Press, Boston 1995). Sull’autrice si veda anche il sito http://www.deborahmeier.com/index.htm,
in cui è possibile trovare articoli, mp3 e video.
Meier ha pubblicato oltre a numerosi articoli anche Will Standards Save Public Education? (2000) e In
Schools We Trust (2002).
2. Ivan Illich, Descolarizzare la società, tr.it. Mondadori , Milano p. 21-22.
3. Tutte le citazioni riportate nell’articolo sono tratte da Meier, The Power of Their Ideas, p. 20.
4. Ibidem, p. 47.
5. Ibidem, p. 50.
6. Ibidem, p. 162.
7. Ibidem, p. 165.
8. Ibidem, p. 166.
9. Ibidem, p. 168.
10. Ibidem, p. 151s.
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2010
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