SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005
63
Live
Jens Lekman
Oneida
Beans - Niobe
Motorama
Indice
News
3
Speciali, Interviste, Monografie
6
Four Tet
Radar Bros
Casiotone For The Painfully Alone
Manitoba/Caribou
Jens Lekman
Jennifer Gentle
Uochi Toki
Cerberus Shoal
Album del mese
Rubriche
Classic
Speciale: The Jam – That’s Entertainment
Intervista: Damo Suzuki
Lou Reed – s/t
Flaming Lips – The Soft Bulletin
37
La promiscuità dell'arte contemporanea:
Matteo Basilè / Jason Middlebrook - The Season.
Volume 4
Lo zecchino d’oro dell’underground
Afterhours
Go Betweens
Akron Family
Jennifer Gentle
King Creosote
Moby
Zen Circus
Oneida
Nine inch nails
Teenage Fanclub
Populous
Bruce Springsteen
Yuppie Flu
Stephen Malkmus
Altri album
66
Redazione
Edoardo Bridda
Daniele Follero
Teresa Greco
Antonio Puglia
Ivano Rebustini
Stefano Solventi
48
A Frames
Allun
Angels Of Light
Animal Collective
Autechre
Donovan
Liquid Laughter Lounge Quartet
Entrance
Eveline
Fantomas
Gen. Patton Vs The X-Ecutioners
Jaga
Jens Lekman
Mice Parade
The National
Nick Cave
Marco Passarani
Prefuse 73
Racine
Savoy Grand
Sikitikis
Steve Wynn
Stromba
Venetian Snares
Vitalic
Xiu Xiu
Yann Tiersen, Shannon Wright
Demo
Hanno collaborato a questo numero:
Antonio Amodei
Gianni Avella
Antonio Avvisato
Pasquale Boffoli
Filippo Bordignon
Michele Casella
Valentina Cassano
Lorenzo Filipaz
Marina Pierri
Matteo Quinzi
Massimiliano Raffa
Italo Rizzo
Michele Saran
Gianluca Talia
Davide Valenti
Fabrizio Zampighi
Guida spirituale
Adriano Trauber [1966-2004]
Progetto grafico
61
Searchin' Guitar
Silence Is Sexy
Luisenzaltro
Polyester Compilation
Antonio Puglia, Edoardo Bridda
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News
I Radiohead sono tornati in studio. Lo ha
rivelato il sito Greenplastic, secondo cui
a partire da gennaio la band avrebbe già
lavorato a 15 nuove tracce. Il processo di
registrazione è stato descritto come "disorganizzato", e
molto diverso da qualunque cosa fatta in passato da Thom
Yorke & co. E' ancora in forse la partecipazione al disco del
produttore Nigel Godrich, attualmente impegnato nella
lavorazione del nuovo album di Paul McCartney. La
pubblicazione del successore di Hail to the thief dovrebbe
essere prevista per Febbraio / Marzo 2006, in concomitanza
di un tour mondiale; non è dato sapere se nel disco sarà
inclusa Arpeggi, la composizione inedita eseguita lo scorso
27 Marzo a Londra da Thom Yorke e Jonny Greewwood
insieme alla Nazareth Orchestra...
Unica data europea per i redivivi Throbbing Gristle a
Torino. Mercoledi 29 giugno presso le Fonderie Teatrali
Limone di Moncalieri (TO) il gruppo di Genesis P. Orridge
si esibirà nell’ambito del Traffic Free Festival...
Rockit.it presenta il MI AMI (Musica Indipendente A
MIlano), festival che si terrà il 17 e 18 giugno a Milano
presso l'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Tra gli artisti
partecipanti: Mariposa, Pecksniff, GoodMorningBoy,
Valentina Dorme, Tre Allegri Ragazzi Morti, Marta sui tubi,
Sedia, Paolo Benvegnù, One dimensional man, Altro,
Offlaga Disco Pax, The Zen Circus, Redworm's farm, Non
Voglio Che Clara, Scuola Furano, StudioDavoli, Super
Elastic Bubble Plastic. Il festival è organizzato in due zone:
una fiera-mercatino, dove chiunque abbia un'etichetta può a prezzi accessibili - partecipare espondendo un suo
banchetto; e un live stage, sul quale si alternano le migliori
band del mondo indipendente italiano. SentireAscoltare
sarà presente con un proprio stand... (info:
http://rockit.it/miami/)…
È partito dal sud degli U.S.A. il tour
mondiale dei White Stripes per
promuovere l’ultimo album Get behind me
satan (in uscita il 14 giugno). Dopo la
“prima”
al
Monterrey
Fundidora
Amphitheatre de Coca Cola il duo si è esibito l’11 maggio in
Messico. In europa, l’unica data confermata è la presenza, in
giugno, al festival di Glastonbury...
Si arricchisce di nomi importanti il Meltdown Festival,
organizzato quest’anno da Patti Smith e che si terrà nella
seconda metà di giugno a Londra. Hanno risposto
all’appello, tra gli altri, Marianne Faithfull, Yoko Ono, Tori
Amos e Sinead O’Connor...
Gli Oasis hanno fatto stampare biglietti extra per il loro tour
mondiale negli stadi, che per quest’estate prevede, quasi
dovunque, il tutto esaurito. Il tour accompagnerà Don't Tell
The Truth, l’uscita del nuovo album della band di Liam e
Noel Gallagher, prevista per il 30 maggio...
Confermata per l’8 agosto l’uscita del nuovo singolo dei
Black Rebel Motorcycle Club Ain’t no easy way, che
anticiperà il terzo album della band Howl, in uscita il 22
dello stesso mese. Il tour partirà l’11 giugno da
Nottingham...
Si chiama X&Y ed esce il 6 giugno il nuovo album dei
Coldplay, preceduto dal singolo Speed of sound, il 26
maggio nei negozi. Il tour, che partirà dal Regno Unito a
giugno, approderà in Italia a Verona l’11 luglio...
I Rolling Stones hanno annunciato il 10 maggio alla New
York's Juilliard School of Music l’avvio del loro ennesimo
tour mondiale, che partirà dal Fenway Park di Boston il 21
agosto e, come il precedente Licks Tour avrà come meta i
luoghi più svariati, dai club agli stadi...
Il primo disco da solista per l’ex voce e leader degli
Smashing pumpkins, Billy Corgan, uscirà il 20 giugno e
sarà preceduto dal singolo Walking shade. Il titolo è The
future embrace...
Gus Van Sant è il regista di Last days, un film che
ricostruisce gli ultimi giorni della vita di Kurt Cobain
attraverso il personaggio di Blake, il leader di una grungeband (fin troppo espliciti i riferimenti!) interpretato da
Michael Pitt. E’ stato il festival di Cannes, il 13 maggio, ad
ospitarne la prima...
I Milaus e i Three In One Gentleman Suit, approdano alla
Black Candy Records. Per entrambi i gruppi è prevista la
pubblicazione dei nuovi lavori nell'autunno di quest'anno...
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3
Dopo la pubblicazione di Life and Live per l'italiana Xeng,
uscirà il 12 luglio La Foret, quarto album in studio degli
Xiu Xiu. Ma non è tutto: Jamie Stewart & Co. hanno
registrato un disco insieme ai Larsen, che verrà pubblicato
da Important Records, ed è inoltre prevista entro l'anno la
release di un 7'' split con Devendra Banhart...
Line up piuttosto ricca nel programma
dell’undicesima edizione del Festival di
Benicassim, che si terrà nella città catalana
dal 4 al 7 agosto. Tra i nomi di spicco:
Oasis, Coldplay, Nick cave & the Bad Seeds, Mouse on
Mars, Yo La Tengo, Daniel Johnston, Dinosaur Jr., !!!,
Devendra Banhart, Underworld e Pan Sonic. Il prezzo
degli abbonamenti va dai 140 ai 152 euro (rispettivamente 3
e 4 giorni)...
Passata la paura per l'aneurisma cerebrale dello scorso
marzo, Neil Young è già tornato in studio a Nashville per il
seguito di Greendale...
Si terrà a Torino dal 29 giugno al 2 luglio la seconda
edizione del Torino Traffic Festival; in cartellone, le date
esclusive di Throbbing Gristle (29 Giugno) e New Order
(2 Luglio), 808 State, Shaun Ryder, Bright Eyes, Faint, gli
storici DJ dell'Haçienda di Manchester Graeme Parks e
Mike Pickering, Emiliana Torrini, Martin Gore e Pan
Sonic...
Prevista per la fine di maggio la seconda uscita di Bus feat.
Mc Soom-T su ~scape dal titolo Feelin' Dank...
Pharrell Williams ha dichiarato lo scioglimento dei
N.E.R.D. per dissidi con la Virgin, assicurando però, che la
produzione dei Neptunes andrà avanti...
All’età di 87 anni è scomparso Johnnie Stewart, creatore
della trasmissione televisiva britannica Top of the pops.
Stewart era nato a Tonbridge nel 1917 ed era entrato a radio
BBC a vent’anni, due anni prima dello scoppio della
seconda guerra mondiale. La prima trasmissione risale al
primo gennaio del 1964...
Anche il terzo festival spagnolo dell’estate, il Sonar, ha reso
noti i nomi degli artisti che vi prenderanno parte (tutti più o
meno confermati). Tra gli altri, LCD Soundsystem, Le
Tigre, Soulwax, Mouse On Mars, Durutti Column e De La
Soul...
Inizia nel migliore dei modi la collaborazione tra Wide e
l'etichetta Guerrilla Funk! Uscirà infatti a fine agosto/inizio
settembre il nuovo album dei Public Enemy intitolato
Rebirth Of A Nation...
Prosegue l'elenco delle nuove acquisizioni Wide con
l'entrata nel suo catalogo di Type, l'etichetta fondata da John
Xela, noto per le sue produzioni in ambito elettronico e
Stefan Lewandowski stimato grafico e web designer...
La redazione del mensile musicale britannico Mojo ha reso
noto l'elenco degli artisti che concorreranno ai premi della
rivista stessa. E sono nomi d'alto profilo. Queste le
nomination per alcune delle sezioni. Per la sezione
songwriter: 1. Paul Weller; 2. Brian Wilson; 3. Damien
Rice; 4. Van Morrison; 5. Kate Bush; per la sezione
inspiration: 1. Pixies; 2. Gang Of Four; 3. Tom Waits; 4.
Morrissey; 5. Neil Young; per la sezione best new act: 1.
Antony And The Johnsons; 2. Ray LaMontagne; 3. Rufus
Wainwright; 4. Arcade Fire; 5. Willy Mason; 6. Magic
Numbers; per la sezione icon: 1. David Bowie; 2. John
Lydon; 3. Siouxsie Sioux; 4. Marc Bolan; 5. Ramones. I
premi saranno assegnati alla Porchester Hall di Londra il
prossimo 16 giugno...
Uscirà il 13 settembre su Touch & Go il
nuovo album delle Cocorosie, seguito di
La Maison De Mon Reve, l'album che lo
scorso anno ha sorpreso ed incantato il pubblico e la critica
di tutto il mondo...
Brian Ferry, Andy MacKay e Phil Manzanera hanno deciso
di riesumare il marchio dei Roxy Music per alcuni concerti
e per un possibile nuovo album. Manca all’appello il solo
(ma non è poco!) Brian Eno...
Gli Audioslave sono la prima band statunitense ad essersi
esibita a Cuba. Il supergruppo di Chris Cornell e Tom
Morello si è esibita a La Tribuna de L’Avana il 6 maggio...
I Gang Of Four, riunitisi di recente, pubblicheranno un
doppio CD composto da vecchi brani rivisitati e remixati.
Negli USA la data d'uscita è fissata per il prossimo agosto. I
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membri della vecchia line-up (Dave King, Andy Gill, Dave
Allen ed Hugo Burnham) dopo aver tentato già due reunion,
rimettono mano a vecchi brani come Damaged goods e To
Hell with poverty...
MEI
(Meeting
delle
Etichette
Indipendenti),
manifestazione che sta diventando sempre più ricca di novità
ed eventi. Tra le tante, quella di aprire con un grande
convegno sulla discografia...
In uscita a maggio e giugno i lavori dei due talenti al
femminile di casa Leaf! The Golden Morning Breaks, il
nuovo album della musicista francese Colleen (al secolo
Cécile Schott) verrà infatti pubblicato il 23 maggio mentre
bisognerà aspettare il 13 giugno per ascoltare il meraviglioso
esordio dell'autrice norvegese Hanne Hukkelberg dal titolo
Little Things...
Asti Nuovi Rumori è un appuntamento imperdibile che da
cinque anni si svolge sul territorio astigiano e nasce per far
collaborare giovani talenti con le realtà musicali nazionali.
L'evento durante gli anni si è guadagnato la definizione di
vetrina musicale astigiana e si terrà fra il 27 Maggio e il 25
Giugno 2005 e consisterà di 2 serate al Palazzo del Collegio
in Via Goltieri 3/a e di 3 serate al Chi Cerca Trova più una
finale in piazza...
Will Oldham e i Tortoise lavoreranno
insieme a un disco di cover che dovrebbe
uscire il prossimo ottobre per la Overcoat
recordings. Il repertorio andrà da Daniel di
Elton John a That’s Pep! Dei Devo...
Dopo 36 anni, il 2 maggio scorso i Cream hanno suonato di
nuovo insieme. Jack Bruce, Ginger Becker e Eric Clapton si
sono esibiti alla Royal Albert Hall, stesso luogo in cui, nel
lontano 1968, misero fine alla loro carriera. Tra i brani
eseguiti, Sleepy time time, Rollin' and tumblin', Badge,
Deserted cities of the heart, Pressed rat, White room. Nel
bis, Sunshine of your love...
I Ronin partecipano alla colonna sonora del film Tu Devi
Essere Il Lupo, opera prima di Vittorio Moroni, con Ignazio
Oliva (Io ballo da sola) e Valentina Carnelutti (La meglio
gioventù. partecipano, con il pezzo I’m Just Like You,
(presente sull’album di debutto Ronin, pubblicato da Ghost
Records nel 2004...
Saranno Beck e Kings Of Convenience ad introdurre
l'ottava edizione del Goa-Boa Festival che si svolgerà a
Genova nei mesi di Giugno e Luglio. Il 23 Giugno sarà Beck
ad esibirsi presso la piazza delle Feste della Fiera di Genova,
mentre ancora non è nota la location per il concerto del 24
Giugno che vedrà protagonisti i Kings Of Convenience...
Nasce a La Spezia un Festival internazionale di musica che
porterà in Liguria tra gli altri Patti Smith, protagonista
anche di una mostra fotografica, Sonic Youth, Skatalites e
Afterhours. Il festival si chiama Pop Eye e si svolgerà fra il
25 giugno e il 2 luglio al Centro Allende. La Spezia entra
con questo festival in un network denominato
Metamorphosea, che comprende i festival di Neapolis, a
Napoli, e Barcellona...
I Delgados hanno deciso di sciogliersi dopo l’abbandono del
bassista Stewart Henderson. Ne danno il triste annuncio
Emma Pollock, Alun Woodward (che si impegneranno in
progetti solisti) e Paul Savane (che si impegnerà a fare il
produttore a tempo pieno)...
il 29 maggio esce in allegato con carta The Weather
Underground, prima produzione in DVD di Goodfellas. Si
tratta della versione italiana del documentario, sul fenomeno
delle Black Panthers, di Sam Green e Bill Siegel...
Il 26 e il 27 novembre a Faenza (RA) con anteprima il 25
novembre al Teatro Masini, si terrà la nona edizione del
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Speciali
Four Tet
di Edoardo Bridda e Valentina Cassano
Una stanza da letto e un laptop. Un ragazzo anglo-iraniano di casa a Londra. Il post rock dietro l'angolo e
un mondo di sottigliezze jazz, eleganti arpeggi folk, sinuosi dub, insidiosa lounge, mulinelli percussivi,
esotiche raffinatezze a disegnare una nuova stagione. Un percorso in quattro album per raccontare i prodigi
elettronici di Four Tet
L'arte casalinga del digitale
Se fino a poco tempo fa il garage era l’ambiente esclusivo di produzione musicale della
stragrande maggioranza dei musicisti, è ben vero che a partire dagli anni novanta quel
luogo si è progressivamente spostato nel salotto di casa fino ad arrivare alla stanza da
letto. Non si è trattato soltanto di un trasloco, ma anche di una restrizione dei mezzi,
della diminuzione del loro costo e soprattutto di un nuovo modus operandi che permette
di fare soli quello che prima si sviluppava assieme, con un gruppo, se non addirittura
un’orchestra.
Il musicista ha finito per far coincidere i propri mezzi con computer portatili di esigue
dimensioni, ma a fronte di una tecnologia tascabile, economica e software sofisticato (il
più delle volte ottenuto illegalmente), ha avuto in cambio, appoggiato sul comò del letto
di casa, tutto il necessaire per operare a livello professionale: un potente macchinario
con il quale incidere qualsiasi componimento e spedirlo alla casa discografica di turno.
Tali vantaggi hanno prodotto vie nuove alla sperimentazione, ma specialmente hanno
permesso a numerosi musicisti di trasformare un semplice divertissement in un’attività
continuativa. È accaduto, per esempio, che due giovani batteristi, una olandese proveniente dall’hardcore e l’altro americano
giunto dal post-rock, siano diventati rispettivamente la regina del cut up e il titolare di un progetto dub-jazz (HIM) - poi
sviluppatosi in ensemble -, e che un Anglo-iraniano di stanza a Londra, anch’egli proveniente dalle file del genere musicale nato
dagli Slint (i Fridge, assieme a Adam Ilhan e Sam Jeffers), abbia trasformato un side-project diversissimo per timbriche e
dinamiche compositive, nella principale forma espressiva.
Parliamo di Solex, Doug Sharin e naturalmente di Keiran Hebden, musicisti diversi per provenienza e gusti musicali che tuttavia
condividono esperienze comuni: approdano infatti all’utilizzo delle macchine quasi fortuitamente e senza rinunciare all’appeal
acustico. Per tutti loro, accanto al pc (o alla peggio sequencer) c’è da sempre un campionatore (principalmente DAT) pronto a
catturare un fraseggio di chitarra in studio o un assolo molto free in una bettola in fondo alla strada, una jam infuocata in un teatro
o un rullante di batteria. E proprio le percussioni infatti rappresentano un’autentica ossessione di tutti loro: impossibile replicare al
computer il timbro di un tamburo, l’emozione di un controtempo suonato dal vivo; eppure nulla toglie, che una volta campionato e
trattato digitalmente, si possano creare texture complesse e tentacolari.
Di tali prodigi ritmadelici Keiran Hebden è probabilmente un piccolo genio. Conosciuto come Four Tet , il musicista ha iniziato a
comporre utilizzando un computer portatile (ottenuto grazie a un prestito studentesco) dalle modeste prestazioni, di molto inferiori
a molti videogiocatori dell'epoca (un pc di medie prestazioni con installato un sistema operativo windows, una scheda audio
Soundblaster Live, un hi-fi casalingo e un registratore DAT), eppure con del software di nuova concezione dalle potenti possibilità
(Audiomulch, Cool EditPro,Pro Audio 9); tutto quel che gli serve per arrivare diritto e sicuro al primo full-length, Dialogue
(Output, 1999). Sebbene la critica non abbia visto l’ora di farlo rientrare nel calderone di una cosiddetta scena folktronica (che
proprio in quegli anni stava prendendo piede), Dialogue è figlio di un’infatuazione per il soul e il free jazz degli anni sessantasettanta (in particolare Sun Ra), come afferma spesso il musicista nelle interviste, ma soprattutto è una collezione di tracce
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fortemente debitrici della scuola dub-jazz dei primi Tortoise (Tortoise, City Slang, 1994).
Avvicinandoci maggiormente alla fine degli anni novanta, l’album rappresenta una versione diurna
dell’esotismo crepuscolare di Mark Nelson (Pan American, Kranky, 1998), un impasto sonico in
grado di surfare sul cavallone lounge tenendosi ben lontano dall’onda di ritorno della motivetto
balneare da Buddha Bar.
Ricercatezza e fruibilità dunque, che valgono al suo autore un certo successo di critica e di pubblico,
particolarmente infervorati dalla considerevole varietà delle soluzioni percussive e dalla timbrica
ricercata degli - altrettanto vari - strumenti acustici utilizzati.
C’è un basso scuro a colorare intime atmosfere post (The Space Of Two Weeks), un raga per sitar à la Ravi Shankar a ciondolare
su piatti spezzati e echi dub (Charm); un cool jazz sbarazzino a fare da sfondo a una train song del deserto per chitarra blues
trattata (Misnomer); una drum’n’bass addomesticata da un organetto crepuscolare caro a Mark Nelson (Liquefaction), e
soprattutto c’è il micro-funk (in corsa e parecchio afro) per pianola piano bar, xilofoni latini à la Senor Coconut e sax come il più
bizzarro James Chance di Butterfly Effect; con la “new age” di un Steve Roach in salsa breakbeat (Calamine), il nu-folk
isolazionista a ritmo marziale (Chiron), il basso angolare e persino il gospel (3.3 Degrees FroThe Pole) a suggellare una prova
sapientemente dosata e ricca di paesaggi, colori e profumi. (7.0/10)
Un mood leggero e ammaliante, una trama di calcolati equilibri che si ispessisce nella diradata
raffinatezza di Pause (Domino, 2001). Questa volta Hebden mescola l’estroso R&B d’oltreoceano
di un Timbaland al folk rock inglese dei Pentangle e dei Fairport Convention, alzando il tiro:
fondere insieme il kraut rock e il folk tradizionale (di cui, strano a dirsi, non è un grande fan). Le
atmosfere si sciolgono in un mare di field recording, strumenti acustici e giochi elettronici, dove
l’estatico arpeggio di Glue Of The World (in cui è facile riconoscere la mano di Thompson
disturbata dai tasti di una macchina da scrivere) scivola nel groove sincopato di Twenty Three
(aperto dall’infrangersi delle onde e rotto dal rincorrersi di tintinnii vari e da una tromba jazz), o
dove la festosità dei bambini (Parks) s’intreccia ad una morbida e stravolta distesa di violoncello, un melodioso arpicordo, una
batteria discreta (e un flauto che fa tanto Kitaro), ma sempre presente (ciò che la distingue da una Julie And Candy dei Boards Of
Canada?). È una classicità che si fa urbana quella di Pause (Domino, 2001), che torna nelle strade e dalle strade attinge: il
rilassato beat house giocattolo à la Kim Hiorthoy di Untangle in cui risuonano le corde di un’arpa, il ritmo scandito che torna a
farsi vivace in You Could Ruin My Day e Everything Is Alright, l’ipnotica e ripetitiva voce infantile di No More Mosquitoes,
curioso sketch tra sincopi hip hop, frequenze radio e mulinelli. Con una traccia come Hilarious Movie Of The 90's a contendere il
primato di un sound che diventerà arcinoto (vi dicono qualcosa i Books?), l'album che pare figlio di un ferragosto in città, è anche
quello più quotidianamente intimo, cinematico ed estivo di Four Tet. E il risultato è più che mai convincente. (7.4/10)
Non è un caso, infatti, che il discorso intrapreso con Pause diventi il punto di partenza per il
successivo Rounds (Domino, 2003) dove un Keiran, provando a superare sé stesso ancora una
volta, incappa nel più classico dei dilemmi: continuità, coesione e dunque maniera o spontaneità e
creatività? Ci sono ancora percussioni vigorose, tastiere sognanti e strumenti a corda intimisti, che
nelle sue mani trovano un modo sempre nuovo di adattarsi, ora invertendo le scale (il banjo e il
gamelan di Spirit Fingers perdono le influenze tipicamente western, salendo su un treno cibernetico
che sfiora la velocità della luce), ora spiazzando con glitches e blips di vario genere (lo squittio di
un giocattolo di plastica nella sfumata Slow Jam), ora virando verso territori altri (il geometrico hip
hop di She Moves She dissestato da loop di chitarre sintetiche; il funk danzereccio di As Serious As Your Life screziato da un
handclaps insistente; l’oriente jazzato di And They All Look Broken Hearted; il simil trip hop bristoliano dell’eterea My Angel
Rocks Back And Forth); pochi elementi di base, quindi, attorno ai quali girano infiniti e variegati inserti sonici, immessi di volta in
volta per non lasciar cadere il momentum di ogni traccia.
In particolare, per la corporea Unspoken, il Nostro ha ascoltato per due ore e mezzo di fila (giusto il tempo di rientrare in treno
dalla Francia) un loop di solo piano e batterie. Messo da parte per due settimane, lo ha poi ripreso e in un paio di ore, servendosi
niente meno che di quaranta tracce, ha completato uno dei brani più epici dell’intero album.
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Il fatto è di per sé emblematico, estro e inventiva sono sottoposti al vaglio di un'esperienza consolidata, all'ostinata ricerca di tesori
in software oramai divelti, e questo porta con sé la tentazione di stilar sunti pericolosi (i nove minuti di Unspoken, tra ambient,
crescendo raga e free-jazz sullo sfondo, o i piatti squillanti e il clapping che non riescono a risollevare lo standard ritmico di
Hands). (6.4/10)
Con due brani come And They All Look Broken Hearted e Slow Jam (appartenenti al precedente Rounds), Keiran non avrebbe
certo dovuto lamentarsi se la critica ha insistito tanto per tenerlo nel catalogo degli artisti folk-tronici a tutto tondo, eppure il
musicista s’è stizzito e con Everything Ecstatic (Domino, 23 maggio 2005) prova a dimostrare alla stampa e agli ascoltatori
quanto tutte queste chiacchiere non abbiano alcun fondamento.
Il lavoro di cesello al laptop continua, diventando però più duro, nervoso, serrato. Piace questo Four
Tet rabbioso, dalla furia montante eppur ironica, quasi come giocasse a rimpiattino con i suoi
detrattori (“tutta estasi? Vi faccio vedere io …”, avrà pensato l’anglo-iraniano): il suono riscopre il
piacere del corpo in movimento (lo sferragliare jazz della batteria, il giro di basso ringhioso, i piatti
sfavillanti di A Joy, risucchiati da un ultimo vortice di laceranti rumori), dell’incendiario dancefloor
detroitiano d’inizio novanta, in cui la vecchia scuola techno si mescola al glaciale hip hop di
personalità come Prefuse 73 (l’oscillare di beat ariosi e basso decadente di And Then Patterns).
Trovate divertenti come il familiare riff sintetico Pong–iano di Turtle Turtle Up (un felice incontro
tra jazz e krautrock) o la cartoonesca voce in loop à la Chipmunk di Smile Around The Face fanno sorridere, senza però velare la
sua prima passione, il jazz, che in Sun Drums And Soil si fa dilagante: strati di percussioni corroboranti, fiati stridenti (all’ombra
di Sun Ra), ronzii elettronici e voce soul femminile si sovrappongono, lasciando credere che dietro ci sia una band all’opera.
(7.0/10)
In realtà niente di ciò che si sente è realmente suonato, troppo perfetto per essere umano, ed è forse anche un po’ il suo limite: la
possibilità (e facilità?) di avvertire le cesure del taglia e cuci. Considerarlo allora come uno dei tanti “smanettatori” in piazza,
pronto a conquistare i suoi buoni cinque minuti di fama? Sarebbe riduttivo. Hebden punta tutto sull’elemento visivo, utilizza la
tecnica del campionamento per disegnare l’amalgama sonoro e il suo ordinarsi lungo il percorso (come, ad esempio, l’allinearsi
della batteria su uno schermo immaginario), affidandosi al suo giudizio e trasformando la macchina stessa in uno strumento. Four
Tet, più che un puro divertissement, è il progetto di un ragazzo che ha le idee ben chiare in testa, che sa quello che vuole e come
ottenerlo e lo fa con la tranquillità di chi passerà la giornata in casa, tra la colazione, un po' di tv e il pc sempre a portata di mano.
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Radar Bros
di Edoardo Bridda e Stefano Solventi
Compiaciute sonnolenze. Bucolici eldoradi. Dall'omonimo album all'ultimo The Fallen Leaf Pages,
radiografia di un gruppo a un passo dal piedistallo degli indimenticabili.
Splendide inanità e piccoli gioielli. L'arte dei Radar
Bros.
Quante volte ci siamo scontrati armati l'un contro l'altro riguardo a
generi come slow-core, sad-core, nu-folk, psych-folk, depressive
country? In quante occasioni abbiamo avuto la tentazione di depennarli
tutti dopo aver ascoltato il millesimo gruppo derivativo, il milionesimo
album monocorde e la miliardesima canzone dai testi e arrangiamenti
ripetuti all'infinito? Eppure li abbiamo difesi, giustificati e compresi
altrettante volte, trovando nella monotonia delle produzioni una
tensione genuina verso un ideale, nell'essenzialità degli accordi quel che di autentico, assumendo i brani non come punti terminali
dell'espressione ma piuttosto come stazioni d’un percorso esistenziale più ampio, giocato sul filo di una tradizione scomparsa,
sradicata, svuotata.
Eppure, il passato è lì, di fronte ai nostri occhi: impossibile esaltarsi di fronte a prefissi come il post o il nu, etichette vacue di una
contemporaneità ancor più evanescente i cui stilemi e suggestioni non sono altro che deriva di quel qualcosa di consistente che fu.
Del resto, l’ombra lunga del vecchio folk, il padre da cui oggi smozzichiamo molliche di pane, è anziano e noioso. Proprio come
sono pesanti e barbose le polemiche che ne contraddistinguono l’ossatura: il nuovo come insoddisfacente e il vecchio come
inimitabile e (ciò che è peggio) irripetibile; il nuovo come sinonimo di estetica emula e contingente, il vecchio come sinonimo di
sintesi e spontaneità, di talento e perseveranza. Non esistono categorie critiche e sociali inoppugnabili, eppure queste stanche
dicotomie sono tutt'ora un punto di partenza valido per parlare dei Radar Bros., creatura splendida e inane del chitarrista Jim
Putnam (Medicine, Maids of Gravity), attiva dal lontano 1994 e giunta all'esordio discografico due anni più tardi. La band
sforna quattro album da allora al 2005: la prima metà caratterizzata da un folk al ralenti di derivazione Slint e Codeine sulla scia
di Low, L'Altra, Oldham, Early Day Miners e Molina; la seconda alla ricerca di un bucolico eldorado floydiano all'insegna di
un intreccio fortemente imperniato su alcune delle suggestioni che hanno reso celebri album come More (Capitol, 1969), After
The Gold Rush (Reprise, 1970), Meddle (Capitol, 1971) e Harvest (Reprise, 1972).
A differenza dei colleghi, il folk del gruppo non è mai troppo scarno e soffertamente intimista, anzi
si caratterizza e si fa valere per alcune gentili venature psichedeliche. Sarà così fin dal primo
omonimo EP per la Fingerpaint Records (che due anni prima aveva pubblicato tra le altre cose un
album della serie anti-folk di Beck), mentre quelle stesse suggestioni troveranno una forma più
copiosa l'anno successivo, in occasione del primo full lenght (Radar Bros, Restless, 1996) che il
gruppo inciderà a Atwater, un paese vicino a Los Angeles, presso lo Skylab Phase III di proprietà
dello stesso Putnam (lo studio diventerà la base fissa per i Radar Bros. che da qui in poi
registreranno tutti i loro album). È un brano come Stay a dar lustro alle 12 composizioni, una scelta
che è già manifesto di un'estetica in decelerazione costante che contempla alcuni tipici refrain e
dimesse melodie agrodolci. E con lo slowcore lasciato dietro l'angolo, le chitarre elettriche con la spina staccata, i piccoli gioielli
dell'album non tardano a farsi riconoscere: in On The Floor e This Drive troviamo abili accenni di rock acido e desertico, in We're
Over Here scampoli agresti della vecchia California, in Distant Mine accenni di quella psichedelia aliena che fiorirà in Deserter’s
Songs (Mercury Rev), e in Goddess un (non) dichiarato omaggio a Brain Damage (da Dark Side Of The Moon). Fatto salvo per
i soddisfacenti inneschi emo di Capital Gain, sono tutte tappe di un unico viaggio condotto con il medesimo passo dolente dal
falsetto di Putnam, sempre sublime nell'intonazione, gentile e garbato nelle movenze, sognante e delicato nei testi. Suo lo stampo
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vocale che dà il la a queste semplici strutture armoniche, e quel caratteristico modo d'impostare la voce come se fosse un David
Gilmour che pensa a Neil Young e viceversa.
Ma il richiamo a questi colossi è anche alla base di una serie di ingombranti rimandi cui il
cantautore e il suo gruppo cercheranno, con ogni probabilità, di porre rimedio prospettando per se
stessi un viatico tra stilemi psichedelici in costante perfezionamento e una ricerca del senso della
provincia e della famiglia al limite del metafisico. (6.8/10)
Tra venature pascoliane e contorni (ben delimitati) di siepi e la lezione di Oldham, Pajo e Molina
ancora far da ombrello, The Singing Hatchet (Philips Media / Chemical Underground, 1999),
secondo capitolo della saga, segna un traguardo di forma ma anche un passo indietro in termini
melodico-arrangiativi: a cambiare non è il format, che passa da un compiaciuta sonnolenza a una
cocciuta ricerca di compiutezza; ma la qualità dei brani, deboli e troppo simili l'uno all'altro. A parte un paio di eccezioni, nelle
quali l'obbiettivo peraltro pienamente riuscito è quello del sing-along (si tratta delle ballad Shifty Lies e Shoveling Sons e in un
certo senso Find The Hour caratterizzate da strutture più convenzionali strofa/ritornello con tanto di bridge da cantare in coro),
l'album rimane una sedia a dondolo dei ricordi (All The Ghosts), un ondeggiare d'innocue cordialità, soffici meriggiate (la bella
The Be Free Again) e cadenze californiano-messicane (si legga alla voce Calexico sotto bootleg) dove non mancano gli sbadigli
(You're On An Island, The Pilgrim, Tou've Been Hired, Five Miles). (5.0/10)
Pare che Putnam, a fronte di un’ottima conoscenza degli elementi floydiani, abbia voluto
approfondire la lezione di Young e pervenire a una sintesi. L’album è dunque un lavoro di
transizione, una sorta di esercizio mirato all'assimilazione degli stilemi che ancora mancano a una
formula cercata con dedizione e tenacia: un'alchimia che prenderà il nome di And the Surrounding
Mountains (Merge / Chemical Underground, 2002), un album memorabile che ha mandato fuori
giri i media e definitivamente stampigliato il nome Radar Bros. sulla mappa. Sminuzzando le
impronte omeopatiche di ballate sognanti e valzer in punta di tramonto, i Radar Bros azzeccano così
una forma compiuta in perfetto equilibrio tra nobili istanze desertico-psichedeliche e fruibilità
folk/pop. Il sound acquista una propria tridimensionalità e Putnam, assimilati pure gli stilemi di band quali Byrds e Beach Boys,
risulta incisivo ed evocativo come non mai. Così l’album spicca il volo, specie nella seconda metà con Camplight (avvitarsi
psichedelico in grado di sublimare certi registri morbidi della West Coast con la visione cosmica dei Pink Floyd), Mothers
(esplicito omaggio alla maestria melodica dei King Crimson, tra barbagli radioattivi e la fragranza quasi hip hop della coda),
Mountains (ruspante lavoro del quattro corde tra decolli di synth, gelatinosi tempi dispari e allibenti sovrapposizioni vocali) e la
conclusiva Morning Song (allucinati bordoni floydiani, lo svolgersi torbido e dolciastro dei migliori Alan Parson Project).
Del resto, l'epica solenne e dimessa, l’ossessione per alcuni quadretti distrattamente watersiani in orbita attorno a una medesima
ossessione elettroacustica in tre quarti (Rock Of The Lake, Still Evil, Uncles, This Xmas Eve), l’intagliato carezzevole e la
sdrucciolevole cura, riportano ancora una volta alla spina nel fianco di una band matura, a tratti splendida, eppure in costante
rischio d’innocuità trasformano quello che poteva essere un classico in un buono, buonissimo, album da cassetto. (7.1/10)
E con questa incapacità di compiere il balzo decisivo sul piedistallo delle indimenticabili, sotto la
medesima lente giallognola che confonde i dettagli e respinge gli effetti/affetti, tre anni più tardi, la
band di Putnam ritorna con The Fallen Leaf Pages (Merge, 2005). Fisiologicamente diurno, affetto
da una malinconia adulta, docile e trasognata, l'album non poteva che essere in continuità con il
precedente. Così, smorzato di un quanto il fattore epico-desertico (You And Your Father),
resuscitate le sovrapposizioni tra i refrain ariosi e sintetiche languidità, l'accento è posto sulla
scrittura. Sono le liriche, cantate con una maestria oramai imbattibile - un tutt'uno con la lezione di
Gilmour-Young-Wilson-Crosby - a sorprendere e affascinare. Vedi le iniziali Faces Of The
Damned (chitarra acustica a penzoloni, organetto liquoroso, chitarra calibratissima a sorpresa), To Remember (piano maliconico,
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superlativo arrangiamento vocale), Papillon e We're Not Sleeping (scocco di campanellini, passi di pianoforte ben candenzati).
Eppure, tolto un mezzo miracolo più avanti, la qualità delle restanti tracce scende progressivamente.
Ancora una volta è un peccato, specie quando a circa metà strada una Dark Road Window – il miracolo di cui sopra dall’arpeggio molto Dear Prudence s'impossessa di una melodia azzeccatissima generando un autentico miraggio e probabilmente
la miglior canzone dei Radar Bros. Dopodiché l'incanto si rompe: Like An Ant Floating In Milk (lenta e radioattiva per voce
wyattiana) non convince, Is That Blood sdrucciola, Show Yourself non scuote, Sometime, Awhile Ago pare di averla già sentita una
volta di troppo, come accade per la girandola da singalong The Fish. L'ammaliante Byrds-iana Breathing Again salva in parte il
consueto gradevolissimo svacco sul divano di pellaccia ‘70. (6.0/10)
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Casiotone For The Painfully Alone
di Edoardo Bridda
Un registratore alimentato a batteria e un microfono è tutto quello che ci serve per intrattenere una lunga
chiacchierata con Owen Ashworth. Tra dogmi disattesi, canzoni ultra-lofi e un futuro tutt'altro che solitario,
uno speciale su Casiotone For The Painfully Alone
Di t-shirt gialle e dogmi disattesi. Una monografia (e un'intervista) a
Casiotone for the Painfully Alone
Una manciata di note casio rigorosamente alimentate a batteria, un registratore e un
microfono. Fondali gracchianti e spartani per piccoli racconti della durata rigorosa. Due
minuti, forse più. Un lasso di tempo d'umori mesti, teneri e nostalgici, resi vivi da
alcune pennellate melodiche sotto un implacabile metronomo ritmico. Il medioevo
synth-pop. L'impersonalità emotiva dello shoegaze. Lo slaking copia carbone di Lou
Reed. L'ultra-umiltà e il compiacimento. Insomma, la final frontier del lo(w)-fi.
Sembra un dogma à la Von Trier a uso e consumo di teenagers (…lo è), ma più d’ogni
altra cosa è il timido biglietto da visita di Owen Ashworth, un corpulento marcantonio
classe '78 fresco di studi cinematografici che attualmente non ha fissa dimora e incide
(ancora) a casa dei genitori, in un paesello a un’ora da Los Angeles. Lo abbiamo
incontrato al Circolo della Grada nel marzo 2005 in occasione di una tournée
esclusivamente italiana (la prima nel nostro Paese), una manciata di date infilate tra le
registrazioni di un nuovo album (Etiquette, previsto per il febbraio 2006) che, a quanto pare, apporterà alcune significative novità
al suo metodo - mai stretto come una camicia di forza, tuttavia restrittivo. Un Owen rilassato e comunicativo ci svela che in questo
lavoro non mancheranno le celebri drum machines a scandire le consuete ritmiche robotiche ma, accanto a loro, troveremo
pianoforte, violini, chitarre, flauti e tromba. Arrangiamenti acustici e sezioni suonate andranno quindi a formare una sorta di
piccolo ensemble da camera, sulla falsariga di un percorso che - intuiamo noi - è già in odor di Arab Strap. In continuità con le
precedenti uscite, l’approccio rimarrà decisamente lo-fi, perché “le cose troppo laccate e prodotte non suonano genuine”;
nondimeno continueranno le collaborazioni, che in questa occasione vedranno protagonista, al posto di Jamie Stewart (prezioso
apporto musicale a Twinkle Echo), l’ingegnere del suono Jerk B., attualmente "il secondo membro della sigla Casiotone".
Al solito, più che dalla musica, Owen afferma d’essere stato influenzato dai film e dai libri; (è strano ma) non si pronuncia su
un’eventuale attività di cineasta né sul girare videoclip delle proprie canzoni, preferisce di gran lunga parlare dei registi che più lo
avvincono e influenzano nella scrittura. Tra questi, i preferiti sono Terrence Malick (l'autore di Badlands e Days of Heaven ) e
Wong Kar-wai (In the Mood for Love, Angeli Perduti), e tra gli italiani non manca Dario Argento (specie i primi film).
Tornando ad insistere sull'aspetto musicale, a parte un background di country e blues (provenienti della collezione di dischi dei
genitori), scopriamo un’autentica passione per l'hip hop. Per esempio, il Nostro ama gente come Timbaland, ed è probabilmente
grazie alla precoce infatuazione per la strumentazione low cost della scuola rap che la sua musica è così ricca di surrogati
breakbeats (e, più in generale, dell'approccio crudo e urbano); ma i gusti del musicista in realtà spaziano moltissimo: in passato,
negli anni del college, ha amato i Dinosaur Jr (adora You're Living All Over Me, SST, 1987), i Sebadoh e soprattutto i
Pavement ("è forse proprio ascoltando loro che ho pensato d'incidere delle cose mie"), e più recentemente - oltre a
un'ammirazione per il cut-up di Solex, il talento di Patrick Wolf e Devendra Banhart - una riscoperta importante è stata Paul
Simon.
Una cover di Graceland (ancora inedita) è infatti una delle chicche del live al Circolo della Grada, un set che ha accolto i favori di
un discreto pubblico e ha dato modo di apprezzare anche dal vivo i brani da Twinkle Echo. Con il piccolo successo di critica
dell’album, la Tomlab, che da sempre fornisce al musicista il denaro per incidere, ha visto ritornare un po’ d’investimenti ma a
Owen questo interessa marginalmente “Non diventerò mai ricco con questo mestiere, spendo tutti gli incassi per pagare il tecnico
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del suono”, afferma il ragazzone; eppure, se le sue tasche sono pressoché vuote, il suo status internazionale - pur di nicchia cresce costantemente.
Che Casiotone fosse una piccola realtà, noi di SA ce ne eravamo già accorti al Primavera Sound
Festival del 2004: una volta sceso dal palco il musicista si era trovato attorniato da una fitta schiera
di fan reclamanti strette di mano e autografi. Owen si era fatto conoscere al pubblico europeo con il
tour europeo dell'anno precedente (questo sì, il primo in assoluto), e a quello di Barcellona grazie al
Sonar Festival, ma è evidente che soltanto con un gioiello come Twinkle Echo che l’affetto nei
suoi confronti è cresciuto; eppure Casiotone smorza i toni: “desideravo raccontare in musica quello
che con il cinema non avevo potuto (o voluto ndr.) fare: scrivere delle storie di adolescenti, spesso
ricordarle con più d’una punta d’amaro distacco”.
La parola onestà ricorre spessissimo nelle sue parole e, ascoltandolo, risulta gravoso figurarlo al posto di un Fellini in Roma o di
un Truffaut in Effetto Notte, difficile levargli un’immagine cucita addosso con tanta risolutezza: quella di un ragazzone mite e un
po’ solitario fissato con le sue cinque casio e una definizione sonora al minimo storico. Eppure tanta cocciutaggine ha portato i
suoi buoni frutti, tanto che low budget (per esigenza) e lo-fi (per passione) sono sempre più parte di un’estetica personale. L’ex
studente di cinema certamente ha dovuto essere malleabile con se stesso, rompere le regole ferree che inizialmente si era imposto,
quelle che lo avevano portato a farsi chiamare Casiotone For The Painfully Alone ("ogni canzone all'inizio doveva essere triste,
ognuna terminare simultaneamente al testo, solo le canzoni tristi di Hank Williams sono sincere ecc."), ma è probabilmente per
questo mix di mezzi ridotti all'osso e fuori programma che Twinkle Echo rappresenta una buona sinergia d’immagini e piccole
scenografie, di cortometraggi variegati sull’amore e il viaggio.
Tuttavia il talento di Owen, pur acerbo, si poteva intravedere sin da quell'esordio per gracchi di tastiere, colate di caffè e click di
tasti play/rec/stop chiamato Answering Machine Music, improbabile risposta al Metal Machine Music di Reed registrato per
buona parte grazie a una segreteria telefonica (la stessa cosa che farà successivamente Devendra Banhart per il suo esordio Oh
Me Oh My… nel 2002, ndr.).
"Quell'album non mi appartiene più, è figlio delle insicurezze vocali che avevo in quel period;, tuttavia la sua idea di base è
tutt'ora valida: si tratta di un esperimento, di come la gente si serve delle macchine per comunicare e di come queste diventino
parte del dialogo. Tra le canzoni, menzioniamo la storia d'abbandono Casiotone For The Painfully Alone Joins The Foreign
Legion che introduce, grazie a un taglio agrodolce e electro-cartoonesque, il format owen-iano per vie non molto lontane da quelle
confessionali/spartane dei primi Arab Strap
you fucked me up pretty bad
but now it's all too late
you can't forward my mail to the state
i joined the foreign legion
(da Casiotone For The Painfully Alone Joins The Foreign Legion, Answering Machine Music, 1999)
Le costanti sono rappresentate da un biascio di fatalismo e solitudine elettrica (peraltro mai troppo tediosa) e da inserti di rumore
bianco, anche se da qualche parte si respirano melodie e testi più divertiti come nella briosa (forse un po' troppo didascalica),
Beeline, nella frenetica I Should Have Kissed You When I Had the Chance (sorta di omaggio a Lou Reed e ai video giochi anni
'80), e nell'ironica spy story Normal Suburban Lifestyle Is a Near Impossibility, che introduce anche un pattern ritmico più
sbarazzino, futura variante “classica” del sound Casiotone.
the sunday paper was scattered on the floor
near where the FBI had kicked in their door
he was gone without a single kiss goodbye
they finally caught up with her international spy
(da Normal Suburban Lifestyle Is a Near Impossibility, Answering Machine Music, 1999)
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Ma più che attraverso il compiaciuto raccontar di storie finite male o di piccole grandi incomunicabilità, Owen convince
maggiormente quando s'affida all'esperienza personale, raccontando sottili trame sul filo del desiderio e della nostalgia. Baby It's
You è tutt'ora la canzone a cui l'artista è maggiormente legato e seppur egli specifichi che "oggi non sarebbe più in grado di
scriverne una così", è l’evidenza di come in quel periodo, più che una spinta verso la fiction, ce n'era una più forte orientata alle
proprie emozioni personali. Distortissima e monocorde nella parte vocale, Baby It's You rappresenta una emo-song che gode di un
trasporto emotivo palpabile, che tuttavia nel resto dell'album stenta a venir fuori
whatever happened to the girl
who let me write my name in her tattoo
do you remember hiding out with me in theatre number two
and can you believe i still can't believe that we never kissed
(da Baby It's You, Answering Machine Music, 1999)
Prima dichiarazione d’intenti di uno stile che emergerà più compiutamente in futuro, Answering Machine Music è quel che
sembra: una modesta raccolta di spunti, una fiction sonora in pillole, umili ma sinceri appunti del diario di un (post)adolescente.
(5.0/10)
Owen precisa che, dopo quel periodo, il diario sarà sempre più quello di altri (storie prese da film, libri e racconti sparsi di amici)
ma questo importa poco, le cose andranno diversamente solo quando l’ex studente di cinema si renderà conto che il format ha
bisogno di più fiducia.
Ed è quello che accade con il successivo Pocket Symphonies for Lonesome Subway Cars, una
raccolta di canzoni più compiute (si legga: più cantate e suonate), fin dall'iniziale We Have Mice,
turning point considerevole di una poetica infantile e ultrasensibile, nonché primo vero manifesto di
Casiotone For The Painfully Alone; certo i circuiti delle macchine sono i medesimi, ma è
l’ispirazione a cambiare (c’è anche una versione di questo brano cantata da una bambina,
sicuramente ancor più incisiva dell’originale, ndr.).
“Il tema conduttore del lavoro è legato al limbo della post-modernità”, afferma il musicista,
"esprime una serie di sensazioni e screenshot relativi allo staying inbetween to places, ovvero al
transitare tra due posti differenti, senza appartenere n'è all'uno n'è all'altro”. Molti brani sono dedicati a situazioni di transizione
e si svolgono in ambienti che accolgono partenze o arrivi (metro, stazioni, aeroporti…). “La condizione contemporanea ha a che
fare con la nostalgia e il remember (di dov'eri, di cosa stavi facendo)”, afferma il musicista, "può essere straniante, alle volte
rilassante, ma è la condizione nella quale viviamo e non è di per sé negativa. Quando si parte ci si lascia dietro delle cose ma ci
si apre anche ai cambiamenti", un po' come accade – tra momenti narrativi e aperture shoegaze - nell'elegiaca Bus Song
we ran to the stop as the bus pulled away
impossibly worn out from the seventh shared cigarette of the day
i caught my breath as i watched you
swear at the tail lights of our missed 22
(da Bus Song, Pocket Symphonies for Lonesome Subway Cars, 2001)
nella broken heart song chiamata 10:
do you remember when you were still in town
before you abandoned all of us for the puget sound?
there were seven of us living in that dilapidated flat
with questionable plumbing and a grey cat
(da 10, Pocket Symphonies for Lonesome Subway Cars, 2001)
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o nella incompiuta frivolezza di Samba Airport:
you tried to think of something else
when i kissed you at the gate
it was too sad a moment to try to contemplate
(da Samba Airport, Pocket Symphonies for Lonesome Subway Cars, 2001)
Casiotone non delude in questa prova, neanche quando si concede alle classiche tematiche amorose in cameretta (Casiotone For
The Painfully Alone In A Green Cotton Sweater), e in special modo nella tenera Lesley Gore On The T.A.M.I. Show, dove
l’omaggio è per il Robert Smith più infantile (arrangiamento inedito per violoncello e un pacato inserto elettronico), salvo un po'
cadere di tono con brani come Destroy The Evidence oppure Oh Illinois. (6.6/10)
Il succedersi di questi due album rappresenta un progressivo aggiustamento della mira, l’antefatto
per la fatidica prova numero tre. In Twinkle Echo la formula minimale casio+voce raggiunge
l’equilibrio sperato/voluto aprendosi altresì al gioco: il ragazzo dalla voce rauca e insicura di
Answering Machine Music è cresciuto, e per farlo ha dovuto tornare giovane, imboccando la via
dell’onestà. L’album si prende così licenze di semplicità, s’avvale dell’immagine romantica
dell’every-boy in cerca d’identità sospeso tra i venti e i trenta, dell’immaginario filmico dell’attesa,
dei momenti di riscatto in una morning glory (l’apertura chitarristica in distorsione di Jamie
Stewart in Hey Eleanor) e di tutte quelle scene di vita rivissute con quel briciolo di distacco: le
bruciate da scuola, le discussioni al telefono lunghe tutta notte (l’infantili note dei Cure di Close To
Me in una sala giochi giapponese di Jeanne, If You're Even In Portland), le passeggiate pensierose per il parco (il crooning
Springsteen-iano di Toby, Take a Bow), i giri in moto con la giacca di pelle (i Suicide formato gameboy dell’incalzante It Wasn’t
The Same Somehow), o quelli in macchina sulla highway americana (Casiotone For The Painfully Alone In A Yellow T-Shirt); tutti
shots che i detrattori potranno a buon diritto disprezzare dichiarata stucchevolezza. Eppure l’album - che prende il nomeda un
pattern sonoro della Casio, così come le canzoni - è una collezione varia, dalle timbriche più studiate, dal set idoneo per melodie
azzeccate e, alle volte, memorabili.
Come quella Roberta C. descritta dall’autore come “la traccia più triste che abbia mai scritto", che a nostro avviso è anche la sua
migliore.
i'm leaving something to remember me by
a listless intellectual in her prime
scrabble high score 409
& the note on the bed
true love is hard to find.
Twinkle Echo è, in definitiva, il compendio di un’estetica minuta, debole e tascabile. In attesa di un seguito. (7.1/10)
Per conoscerlo, dobbiamo pazientare fino all’uscita di Etiquette; nel frattempo verrà pubblicata una cover di Prince (When U
Were Mine ), in cui canterà anche Caralee McElroy degli Xiu Xiu. Non ci resta che aspettare…
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Manitoba / Caribou
di Edoardo Bridda e Stefano Solventi
Dall’elettronica IDM di Boards Of Canada e Kim Hiorthøy dell’esordio Stop Breaking My Heart,
all’abbacinante macchina del tempo psichedelica chiamata Up In Flames sino alla polpa del cuore
elettronico …riservatamente.
Impeto e gentilezza: la kind art di Caribou
Ascoltato oggi, Stop Breaking My Heart (Leaf, Marzo 2001) potrà risultare album
prevedibile, se non addirittura scontato per chi nel frattempo ha allenato e saturato
l'orecchio con l’ascolto dei vari Kim Hiorthøy, Sack Un Blumm, Jan Jelinek e Four
Tet. Dundas, Ontario e Brandon sono esempi di tracce forse troppo simili a quelle
prodotte dal norvegese l’anno precedente (Hei, Smalltown Supersound, 2000); People
Eating Fruit e Children Play Well Together ripropongono intatte le suggestioni nippoinfantili del duo tedesco, mentre Mammals vs Reptiles e Paul's Birthday seguono
percorsi già bazzicati in Loop-Finding-Jazz-Records (Scape, 2000) e soprattutto in Dialogue (Four Tet, Output 1999).
Eppure, in questo fagocitare suggestioni altrui rischiaffandole in cuffia all’ascoltatore, l’esordio del musicista canadese non risulta
parco di momenti degni d'interesse. Manitoba certamente sembra più intento a suggestionarsi con estetiche di cui è il primo
estasiato fruitore (le leziose Brandon, Scedules & Fares), tuttavia scampoli di una sensibilità che prenderà giustamente
l’appellativo di “gentile” trovano una loro giusta collocazione nel minimalismo in salsa Boards Of Canada di Lemon Yoghourt,
nel buon mixing di bordoni dub, impressionismi, acquerelli (persino samba) di James' Second Haircut, e certamente nel già citato
caramello jazz di Mammals vs Reptiles e Paul's Birthday (una spanna sotto Jelinek, nondimeno le migliori tracce del lotto).
(6.0/10)
Messe via le barbaglie IDM-troniche del precedente Start Breaking My Heart, Manitoba esce prepotentemente dagli steccati
dell'IDM con Up In Flames, un lavoro dalla caratura completamente differente che appone una firma significativa nel panorama
che molti oggi definiscono folktronico. Convocati due batteristi e riservandosi il ruolo di direttore d'orchestra (al laptop), il
musicista svela un giardino delle meraviglie annullando ogni scarto temporale tra Brian Wilson, Beatles, Spacemen 3, Beta
Band, Mercury Rev e Flaming Lips.
La trama – va da sé - è densa e complessa. Tanta la glassa psichedelica messa in gioco, di oggi
come di ieri (quella placida e estatica di certi sessanta ma anche quella confusa ma in fondo
compiaciuta dei fine ottanta). Il pop gelatinoso e sognante dei Dead acustici e quello recente,
recentissimo dei Notwist in odor di squadrette kraute, più quel tantino di free-jazz che insidia e
stimola l’ascolto senza appesantire: in sostanza uno streaming elettroacutsico ambrato e
dolciastro che avvolge senza farsi mancare momenti caotici, vorticosi e tracotanti. Per descrivere
Up In Flames, si potrebbe parlare, più che di pratica post-moderna o di una parata lisergica, di
realtà virtuale non lontana dall'esperienza mirabolante e avventurosa dei videogame 3D (Tomb
Raider e Doom… naturalmente nella verisone NO-Monster!). Anche in questo senso, l'album rappresenta la porta d'accesso a un
mondo pulsante e disinvolto, uno spazio-tempo fruibile che non è la realtà, eppur la sintetizza e la sublima in un turbine di
campanellini-glockenspiel, sax molto free, flauti carezzevoli, organetti giocherelloni, microring di effetti sintetici, riverberi
chitarristici, possenti sezioni ritmiche accompagnate da violoncelli, tablas, spazzole, ottoni, sitar, breakbeat. Il motto sembra chi
più ne ha più ne metta. E’ chiaro fin dall’iniziale I’ve Lived On A Dirt Road All My Life, cinerama di frizzi, lazzi, campionamenti
e canto ciclonico a rammentarci certi quadretti hip hop dei primi Beta Band che si fanno anche più scoperti nel rigurgito sixties di
Kid You’ll Move, con voci effettate di chiara impronta My Bloody Valentine ai quali rimandano anche i plateau digitali innalzati
dall’amniotica Jacknuggeted e dell’abbacinante Bijoux. Più avanti la bussola punta decisa tra nebbie radioattive Spaceman 3
coniugati Underworld (la trascinante Hendrix With Ko, l’acida Twins), lambendo la dolciastra mestizia dei Notwist col breve
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drone elettroacustico di Crayon, il glockenspiel a condurre una danza che appassendo si fa asprigna e madreperlacea come degli
Stone Roses persi tra nebbie Clientele.
E non è certo il caso di scordare le due pseudo covers Skunks e Every Time She Turns 'Round
It's Her Birthday: la prima cala la beatlesiana Dear Prudence in un marasma di ranocchi, battiti
sincopati da soundsystem, folate tastieristiche, e sax impazziti, intanto che la seconda - orgia di
miraggi, tornio ritmico e frullatore di campioni sonici - gioca a rimpiattino con Chasing a Bee
dei Rev. Troppo riduttivo (perché tracotante e cibernetico) catalogarlo come una mera
riproposizione di umori sixties, difficile da dirsi psichedelico in quanto gentile e geometrico,
Up in Flames si giova della spontaneità dell'atto creativo senza farsi mancare la struttura e il
calibro dei lavori metodici. Un difetto? Probabilmente una strisciante impersonalità, figlia di un
certo massimalismo abbagliante ma ingannevole; un aspetto con il quale farà i conti la prova successiva (The Milk Of Human
Kindness, vedi recensione su SA n°7) (7.5/10)
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Interviste
Jens Lekman
di Edoardo Bridda e Marina Pierri
La leggenda dava Jens Lekman come un ragazzo piuttosto taciturno; noi, nel corso di quest’intervista svolta
in occasione della sua data al Covo di Bologna (vedi report a pag.60), abbiamo avuto modo di ricrederci.
Chiusi nel backstage, con la musica della pista che filtrava rumorosamente dalla porta, abbiamo
chiacchierato a lungo: senza lesinare racconti anche piuttosto intimi, l’ultimo fenomeno pop svedese ci
racconta con trasparenza e tranquillità dell’intreccio tra la musica e l’amore che tanto contraddistingue la
sua produzione, citando canzoni su canzoni e dischi su dischi.
- Puoi tenere questo per favore (il registratore digitale, ndr)?
Ah, io adoro i dittafoni.
- Sai, avevo un grande amico svedese. E lui il giorno del mio compleanno mi ha
dedicato la tua Happy Birthday Little Lisa. E’ una canzone che ci incuriosisce
molto.
Lisa è la mia migliore amica ed il giorno che ho scritto quella canzone era il suo
ventunesimo compleanno. Io non avevo nemmeno un soldo in tasca ed ero
disoccupato. Così le ho scritto questa canzone e gliel’ho cantata dal quarto piano
mentre dormiva, di notte. Lei non si è svegliata… allora l’ho registrata. E’ un pezzo
pieno di samba, o calypso: avete presente il disco di Van Dyke Parks, Discover
America? Io adoro quel disco.
- Il 2001 è stato un anno molto negativo per te. Come mai?
Beh, ai tempi mi ero lasciato con la mia ragazza e ci dicemmo delle cose piuttosto
brutte, successe di tutto. Era un pessimo anno e non riuscivo nemmeno a scrivere
una canzone – non facevo realmente nulla, ero disoccupato e non andavo a scuola.
Vivevo con i miei genitori. Non succedeva niente di niente; avevo ventun anni.
Frequentavo una scuola d’arte, ma ai tempi ero appena passato a lingue.
- E qual è stata la prima canzone che hai scritto dopo quel periodo?
La prima è stata Maple Leaves. Ne ho registrato una prima versione, che poi ho cancellato altre mille volte per rifare da capo, non
ne ero mai soddisfatto e non sono sicuro di esserlo nemmeno adesso. Non ho finito di fare i conti con quella canzone! Ne sono
letteralmente ossessionato.
- Parlando di ossessioni personali, credi di averne qualcuna, in musica?
Molto poche. In genere sarei tentato di dirti che si tratta semplicemente del raccontare l’amore attraverso la musica. Sono un
ragazzo semplice, sapete? Una che mi viene subito in mente è il cinguettio degli uccelli.
- Qual è stato il tuo primo grande amore in musica? E’ una domanda aperta.
Da bambino dici? Beh, ci sono state diverse fasi. Mi ricordo un colpo di fulmine per Mikis Theodorakis, non so se lo conoscete,
è quello che ha scritto Zorba (la canticchia con curiose onomatopee strumentali, NdR). Io quella canzone nello specifico la
detesto, l’ho sentita troppe volte ormai, mi sembra naturale. D’altro canto lui ha scritto delle altre canzoni meravigliose. Canzoni
pop. Poi non ho più realmente ascoltavo musica almeno fino ai sedici anni. La canzone che ha cambiato completamente la mia
vita è stata Since I Left You degli Avalanches e mi è capitata sotto tiro esattamente nel solito 2001: ero in uno stato pietoso ed era
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perfetta. L’ho ascoltata a settembre e a dicembre, durante tutto l’autunno. Ed
ascoltarla mi ha fatto essere sicuro che sarebbe arrivata una primavera. Ecco,
quella è probabilmente la canzone a cui sono più legato, assieme a
Transmission dei Joy Division.
- Credo che anche gli anni ’50 abbiano rivestito una particolare
importanza per te. Non sarebbe difficile collocarti in qualche punto del
continuum che va da Frank Sinatra e Bing Crosby a Scott Walker ed a
Jonathan Richman e Calvin Johnson.
(ride, Ndr) la cosa curiosa è che pur amando ed essendomi ispirato a talmente
tanti musicisti, mi si stringe il cuore ogni volta che si fanno paragoni tra
contemporanei ed “passati”: nel senso, mi sembra che il tutto sottintenda un
sapore di fine e di discesa. Io la storia della musica la detesto. Ci sono stati
talenti tanti grandi talenti ultimamente, anche solo nell’ambito strettamente pop,
che continuare a valutare tutto esclusivamente in base al passato mi sembra
ridicolo. Ad esempio: avete presente AllMusicGuide, no? Beh, lì non c’è
nemmeno una remota possibilità di trovare un disco molto recente a cui
vengano date le “cinque stelle”: è controproducente che la perfezione debba
essere patrimonio dei vecchi dischi e basta. Non è giusto valutare al massimo
soltanto i dischi che hanno già percorso almeno una ventina d’anni. E’ da
conservatori. Capisco che la volontà sottostante l’operazione sia in qualche
modo che un disco superi la prova del tempo; il punto è che io non credo personalmente in questa prova del tempo. Per quale
ragione un album appena uscito non può già essere un capolavoro? Ok, magari non lo sarà domani ma chi se ne frega? Prendi
Homework, dei Daft Punk: quando è uscito era incredibile, adesso non mi sembra che sia sentito ancora, come allora, così
tremendamente fondamentale. Eppure quando è uscito aveva tre stelle, adesso ne ha cinque. Alcuni lavori non nascono per essere
classici: nascono classici e poi muoiono. Che problema c’è in questo?
- Come vivi il fenomeno dell’”indie”?
In Svezia è molto strano. Il fenomeno dell’indie si sente parecchio già da almeno quindici anni. Voglio dire, uno come Morrissey
è talmente famoso che (e questo credo proprio di averlo detto durante l’intervista ad un giornale italiano) quando io ero più
piccolo i ragazzi più grandi che mi picchiavano ascoltavano Morrissey. E’ tutto sottosopra. Eppure mi fa ridere perché un mio
amico americano mi ha detto che in America succede la stessa cosa ma gli Smiths sono sempre roba per outsiders, nel senso che la
gente che è picchiata è quella che ascolta gli Smiths.
- E’ strano come siano cambiate le cose, in effetti Morrissey negli anni ottanta a Londra era molto mainstream, i veri
“indiekids”, se così vogliamo dire, lo detestavano.
Assolutamente. Capisco che a quindici anni ascoltare i pezzi degli Smiths fosse perfetto per un certo tipo di adolescenti non
integrati, diciamo. Io stesso lo avrei fatto. Per il resto, non sono convinto che crescendo Morrissey abbia ancora avuto (ed abbia)
tanto da dire. Crescere negli anni novanta in Svezia voleva dire “io non riesco ad ascoltare questa musica, non ha niente da dirmi”.
- E cosa ascoltavi?
Euro-techno! (ride, NdR)
- Che pensi della rave music?
Sono stato ad un ottimo numero di party nei boschi, ma non mi sono mai fatto, né niente. In Svezia ci sono un sacco di foreste, ed
un po’ di tempo fa era un fenomeno molto diffuso – ma resta un luogo decisamente più “indiepop” che altro…
- Parlaci un po’ del tuo nuovo EP, The Opposite of Hallelujah (vedi recensione a pag. 50).
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Si tratta di un sentimento; ed è un tipo di sentimento che potrebbe farti fare molte cose, ma non gridare “hallelujah!”. E’
ovviamente una parola religiosa, ma io la uso in senso completamente laico, come si potrebbe dire “magnifico!” o “eccezionale!”
quando vinci un milione di dollari. Il pezzo racconta di qualche tempo fa: io portai mia sorella su una spiaggia, in Svezia, perché
la nostra famiglia stava passando un periodaccio ed io volevo parlarne con lei in pace, faccia a faccia. Alla fine non abbiamo
parlato quanto avrei voluto ed io ne sono rimasto piuttosto male; io volevo parlarle di emozioni e tutto ma, è stato buffo, quando
sono arrivato lì mi sentivo un po’ stupido, mi sembrava il gesto stesso di averla portata lì con quel fine fosse piuttosto volgare
(cheesy, dice Jens, più o meno intraducibile, ndr). Una volta davanti al mare mi sembrava di dire solo sciocchezze. Inoltre è un
tributo a mia sorella, la amo moltissimo. Avete presente l’ice hockey? Credo che in Italia sia di gran lunga più famoso il calcio,
ma in Svezia l’hockey sul ghiaccio è molto radicato. Insomma lì, alle partite, si vedono sempre questi genitori con gli occhi pieni
di speranza, che i loro figli, che hanno accanto, diventino le star che loro non sono mai diventati: io ho la stessa sensazione con
mia sorella, ho gli stessi desideri di quei genitori. Se tutto nella mia vita dovesse fallire, io avrei sempre lei e credo che finirei per
proiettarle addosso i miei sogni.
- Sei innamorato, in questo momento?
No, non lo sono. Qualche tempo fa ho pensato di esserlo, ma mi sono dovuto ricredere clamorosamente. Le cose non sono andate
per il verso giusto.
- Parlando delle canzoni d’amore, che poi costituiscono la maggior parte della tua musica. Hai scritto qualche canzone in
particolare con l’intento di conquistare una donna?
Certo, certo; la mia canzone di conquista è Julie. Era una ragazza che non conoscevo a dir la verità, quindi l’ho scritta per
convincermi a farlo. Ho scoperto due settimane fa, tra l’altro (ride, ndr) che il suo nome non è Julie! Mi ha raccontato un sacco di
bugie e ti dirò che la cosa mi è piaciuta, perché non era fatta con cattiveria, ma, in un certo senso, con civetteria; lei fa l’attrice di
professione. Ancora non ho idea di quale sia il suo vero nome.
- C’è un'altra canzone meravigliosa, che purtroppo non hai suonato stasera. Si chiama A Man Walks Into a Bar ed ha un
testo piuttosto oscuro, almeno nella conclusione. Racconta di una ragazza che ti raccontato una barzelletta di cui non ti
ricordi il finale; passate del tempo assieme, ridete molto, state molto bene. Eppure alla fine sembra che quell’uomo, che
entra nel bar, sia tu stesso.
Oh grande! E’ senz’altro una delle mie canzoni che preferisco. Non è una canzone triste, è una canzone malinconica che cerca di
mettere in versi la facilità con cui ci si innamora e la semplicità con cui, poi,
tutto si affievolisce fino a sparire ma senza la sofferenza, i cuori infranti:
l’amore che svanisce in un soffio. Ad ogni modo quello che conta è il tempo
passato con quella persona e nello specifico con quella persona che mi faceva
tanto ridere. Credo che si tratti di questo alla fine – la vera chiave al mio cuore,
come dice del resto il testo, sono le risate. Non riuscirei mai a innamorarmi di
qualcuno senza il senso dell’umorismo. L’ultima ragazza di cui mi sia
innamorato aveva un meraviglioso senso dell’umorismo, resta forse la persona
che mi ha fatto ridere di più nella mia vita. E’ così che ho messo assieme la mia
band: ho scelto la gente più divertente, quella cui stare accanto era un piacere
perché il tempo passava velocemente, senza noia.
- Infatti, una domanda che viene subito in mente riguarda la grande
maggioranza femminile nella tua band, sul palco. E’ come se tu avessi scelto
di avere molte donne con te – anche se, ecco, è un impressione e basta.
Questa è la mia nuova band ed io l’ho messa assieme specificamente per questo
tour. Un sacco di musicisti, sinceramente, volevano venire a suonare con me
così ho dovuto tenere delle audizioni: ho scelto i migliori, i più simpatici e
probabilmente è curioso che la maggior parte di loro fosse di sesso femminile.
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E’ sicuramente vero che comunico molto meglio con le donne che con gli uomini. Quando ero negli Stati Uniti, qualche tempo fa,
sempre in tour – ero con sette uomini; non riuscivo ad esprimermi al meglio con loro, non ci comunicavo troppo. Le ragazze sono
davvero più divertenti (ride, ndr).
- Sul palco stasera hai anche utilizzato un buon numero di campionamenti. Usavi un laptop, giusto?
Si ho utilizzato dei campionamenti presi qua e là. A Goteborg c’è un posto dove vendono dischi a un dollaro ed io ci spendo tipo
cento dollari a botta; ascolto tutte le canzoni di quei dischi per ore, a casa e cerco qualcosa da campionare.
Ad esempio, una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi è Gravedigger Blues dei Beat Happening, quella che uso su Pocketful
of Money. Io tra l’altro ho una venerazione personale per Calvin Johnson ed impazzisco per il suo album solista, What Was Me.
A giugno suonerò con lui in Svezia. In giro per gli Stati Uniti l’anno scorso mi sono veramente reso conto fino a che punto la sua
influenza sia stata fondamentale e determinate per un enorme numero di banducole americane…poi, lo saprai, l’ho scritto sul sito,
il pezzo col campionamento non è uscito sulle versioni americane perché non volevo dare fastidio a nessuno; non che lui fosse in
disaccordo, non è, credo, il tipo di persona che possa esserlo circa una cosa di questo tipo (visto che si tratta di un omaggio,
comunque). Gli ho parlato, non era lui quello a cui non volevo dare fastidio, piuttosto direi i suoi fans.
- Hai registrato molti cd-r e molti EP. Che ci dici di I Killed the Party Again? Ci sarà qualche re-issue?
Potrebbe esserci, si. Ne ho fatti almeno dieci di cd-r…quello era un piccolissimo disco. E comunque ho deciso che non registrerò
più LP, soltanto EP, singoli e minialbum; gli album non mi piacciono. Ne parlavo con la Secretely Canadian ed ovviamente non
hanno fatto i salti di gioia, anzi direi che si sono proprio messo le mani nei capelli…così siamo arrivati ad un compromesso: io gli
ho detto “farò dei dischi con sette canzoni” e loro “no, no almeno otto canzoni” ed io “no! Otto canzoni non è più un minialbum!
E’ un album! Pink Moon ha otto canzoni ed è uno dei dischi interi più celebri di tutti i tempi!” Non so mi sembra un po’ stupida
questa fissazione su di una canzone in più.
- Ti è mai capitato di trovarti davanti ad una persona che hai sempre adorato, un tuo mito personale?
No, non mi pare, nessuno di così importante…ma no, che dico. Ho incontrato Dan Tracey dei Television Personalities. E’ stato
magnifico – ancora adesso continua a spedirmi cartoline. Suonerò presto anche con lui. Quando ho suonato a Londra lui era in
mezzo al pubblico e ballava come un ragazzino, era bellissimo da vedere. Mi fa ridere che pare che lui e Calvin Johnson siano
nemici, anche se magari non dovrei aprire bocca sull’argomento..
- C’è qualcosa che odi?
Visto che me lo chiedi, una cosa che ho odiato è il fatto di essere stato criticato per non aver messo alcuna sfaccettatura politica in
Do You Remember the Riots? Mi è risultato odioso perché quella non è una canzone politica ed è molto chiaro fino a che punto
non lo sia. E’ una canzone d’amore. E poi il bello è che quando George Bush è venuto in visita in Svezia era circondato da questo
assurdo timore reverenziale – il clamore era “oddio, il presidente degli Stati Uniti è qui” e non “oh, questo stronzo è qui andiamo a
tirargli i pomodori in faccia”. Mi è sembrato ipocrita criticare me per questa sciocchezza e non prendersela o non assumere lo
stesso atteggiamento verso quest’altra. Del resto, noi svedesi siamo famosi per questa nostra triste neutralità.
Però, in genere, devo dire, preferisco senz’altro parlare delle cose che amo e non di quelle che odio. Ad esempio, dal punto di
vista musicale, amo il presente: i 2000 di cui sia parla così poco (si parla molto di più degli 80s) ed in Svezia c’è molto da
ascoltare, da scoprire. Sto mettendo insieme una compilation delle mie band svedesi preferite, che peraltro per lo più cantano in
svedese. La vedrete in giro tra non troppo.
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Jennifer Gentle
di Michele Casella e Daniele Follero
Filastrocche e fiabe visionarie e sinistre. Un kazoo che riporta indietro fino al 1967. Un paio di capelloni
che sognano di aver visto Syd Barrett agli Abbey Road studios. Lucifer Sam? Forse non proprio...
sicuramente Jennifer Gentle.
Jennifer Gentle, you're a witch...
Facilissimo per un appassionato dei primi Pink Floyd scoprire da dove
derivi il nome di questa band padovana, giunta ormai al terzo capitolo
della sua carriera. Una carriera tutta in ascesa, che nel giro di quattro anni
li ha visti affermarsi a livello internazionale e approdare alla ormai
“storica” Sub Pop, etichetta simbolo dell’indie rock anni ’90 (basti
pensare ai Nirvana). Eppure, i Jennifer Gentle, per loro stessa
affermazione, sono lontani anni luce dall’epoca del grunge e del post rock,
che saltano a piè pari per approdare agli anni d’oro della psichedelia, a
quei “favolosi anni ’60” che rappresentano il loro vero e unico punto di
riferimento. Può sembrare un’operazione alquanto rétro quella di recuperare non solo le atmosfere ma anche il sound (!) di
quarant’anni fa. Ma di questo la band veneta non si è preoccupata minimamente, mettendosi rischiosamente in gioco e vincendo la
scommessa, accattivandosi i favori di critica specializzata e pubblico. Tanto che un sito gestito da importanti critici americani
come Allmusic (e in cui difficilmente i gruppi italiani trovano spazio) li ha promossi quasi con il massimo dei voti.
Tanto Barrett all’origine della band, ma non solo. Ciò che probabilmente li rende interessanti non è solo l’operazione
revivalistico-filologica di recupero di un sound perduto (attraverso l’uso di apparecchiature dell’epoca, ad esempio), che pure è
evidente e marcata. Nella musica dei Gentle la psichedelia rappresenta solo una partenza, una base su cui costruire il proprio
bagaglio di esperienze. Un rifiuto del nuovo solo apparente, che diventa espressione del rock post-moderno, di una musica, cioè,
in cui convivono perfettamente avanguardia e tradizione. Già nell’album di debutto I am you are (SillyBoy
Entertainment/Audioglobe, 2001) il tentativo di andare oltre la semplice emulazione barrettiana è abbastanza evidente: l’uso di
strumenti poco convenzionali al rock (dal kazoo alla fisarmonica), oltre ai classici chitarra, basso e batteria, rende il tutto molto
spiazzante e poco “puro” per una semplice emul-band. La formula vincente viene portata alle estreme conseguenze nel secondo
lavoro in studio, Funny creatures lane (SillyBoy Entertainment/Giucar, 2002): gli arrangiamenti si fanno più ricchi e complessi,
le melodie pop vengono limate e gli episodi free-form si dilatano a dismisura. La necessità di ristampare i due album in un doppio
cd (Ectoplasmic garden party) è il sintomo di una crescita di consensi
Il successo arriva, anche dal punto di vista simbolico, con la partecipazione ad alcuni festival internazionali e con alcune
importanti esecuzioni in locali simbolo della storia del rock, tra cui il CBGB’S di New York. Il contratto con la Sub Pop sembra
quasi la ciliegina sulla torta e la fama comincia a concretizzarsi con l’uscita di Valende.
Ne abbiamo parlato con Alessio Gastaldello, batterista e co-fondatore (insieme a Marco Fasolo, chitarra e voce) della band, alla
fine del 1999.
Intervista ad Alessio Gastaldello
di Michele Casella
- Valende sembra una perfetta colonna sonora per una fiaba: atmosfere eteree, delicate, oniriche… era quella che stavate
cercando di realizzare? C’è un che di fieramente infantile nella vostra musica…
Non so se questo aspetto sia così marcato in Valende, sicuramente lo è nel disco precedente, Funny Creatures Lane. In generale
comunque posso dire che l’infanzia, nel suo complesso, è un periodo della vita che mi affascina molto, soprattutto per l’assenza di
filtri e condizionamenti che caratterizzano la vita dei bambini. Trovo molto interessante questo aspetto e le sue conseguenze, che
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non sempre sono quelle “buoniste” che comunemente si riconoscono ai bambini. Penso
non ci sia niente di più cattivo di un bambino…sanno essere terribili con i propri coetanei,
non hanno nessuna pietà. Secondo me insegnano molto sulla natura umana. Le nostre
atmosfere oniriche ed eteree vogliono stare al confine tra sogno ed incubo…d’altronde se
si leggono le traduzioni delle fiabe originali e non quelle adattate per i bambini dei nostri
giorni non sono affatto rassicuranti, anzi, avevano il fine di spaventare, e questo,
indubbiamente, è molto vicino al nostro spirito.
- Penso che l’aspetto prettamente psichedelico, anche se ancora ben radicato nel
vostro background musicale, sia un po’ sfumato nel nuovo album in favore di una
maggiore attenzione per la formula pop. Rimane essenziale solo nella parte centrale
dell’album, che ne pensate?
Se con psichedelia intendiamo brani “free-form” certo, in questo album c’è un solo brano, che forse è il più estremo mai inciso da
Jennifer Gentle. In questo disco c’è stata una maggiore attenzione non tanto alla scrittura dei brani, quanto alla necessità di far
risaltare le composizioni. Voglio dire, anche gli album precedenti contenevano delle canzoni scritte con una certa attenzione, ma
l’arrangiamento era orientato all’eccesso, offuscando forse il lavoro di scrittura. All’inizio delle registrazioni di Valende ci siamo
posti l’obiettivo di far emergere le canzoni, di incidere solo quelle tracce che contenevano il massimo della potenza espressiva per
ogni brano. Forse dunque la differenza maggiore con i dischi precedenti è legata all’arrangiamento più che alla scrittura, infatti
alcuni brani di Valende esistevano già all’epoca di I am you are ma solo ora siamo riusciti ad inciderli in modo adeguato. Penso
che questo sia dovuto anche all’esperienza accumulata in questi anni…
- La parte centrale del disco (raccolta nelle canzoni “The Garden pt. 1 e 2” e “Hessesopoa”) è indubbiamente quella più
allucinata e free. Insomma, psichedelia pura con un’apertura ed un chiusura più docili per l’orecchio. Dobbiamo
interpretare questi brani come il punto centrale dell’album? Che significato ha il titolo “Hessesopoa”?
Il titolo del brano è legato ad un incubo di Marco degno di un film di Polanski… Valende è concepito a dischi concentrici, c’è un
primo livello esterno pop, un secondo acustico, un po’ più dilatato e inquietante ed infine un cuore centrale completamente
decostruito, l’antimateria del pop…è come se muovendosi dall’esterno verso l’interno le canzoni iniziassero a disintegrarsi e si
avvicinassero al cuore nero del disco. Almeno, questo è quello che avevamo in mente noi…
- “I Do Dream You” è un gran singolo pop, perfino in linea con la nuova strada intrapresa dalla Sub Pop negli ultimi anni:
cosa mi potete dire su questo pezzo? Avete puntato su questa traccia per la programmazione radiofonica?
E’ uno degli ultimi pezzi scritti per Valende. Quando ormai il disco si era delineato nella sua forma, che è appunto quella che ti
descrivevo prima, ci siamo resi conto che, dopo aver inciso un pezzo come Hessesopoa, era necessario controbilanciare il tutto,
così Marco ha estratto dal cilindro questo pezzo. Direi che I do dream you e Hessesopoa sono i due estremi dell’album, e del
nostro mondo in generale, entrambi necessari, anzi, la contemporanea presenza di entrambi non fa che esaltarne le rispettive
potenzialità. Almeno così mi auguro. Una volta completato l’album è stato abbastanza logico scegliere I do dream you come
singolo…
- Quali sono secondo voi le cause per cui i vostri dischi vengono accolti molto bene più o meno dappertutto, ma poi in Italia
non riescono a ricevere l’attenzione che meriterebbero? Come mai l’estero vi ha accolti quasi meglio della patria?
Non ne ho idea, penso che sia un discorso legato al background, non solo musicale. Certe cose in Italia non vengono percepite,
penso anche ad altri gruppi, come ad esempio gli Shins, che non mi sembra in Italia abbiano un gran seguito mentre negli USA
hanno sfondato. Non saprei a cosa è dovuto questo, spero solo che le cose cambino, anche perché la mia impressione è che quando
riusciamo ad arrivare al pubblico gli apprezzamenti non mancano. Quando abbiamo partecipato a qualche grande festival il
pubblico, che era lì per vedere ad esempio i Mogwai, ci ha comunque apprezzato. Le prime date del tour che abbiamo appena
iniziato sono incoraggianti da questo punto di vista…certo, fa sorridere pensare che siamo dovuti passare per Seattle per avere
maggiore attenzione, ma va bene comunque, anzi!
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- Nella scena italiana indipendente credo siate un gruppo unico ed eccentrico; dovendo associarvi a qualcuno direi che, per
il modo di cantare di Marco ed un certa predilezione per la lezione indie statunitense, potreste essere accostati almeno un
po’ agli Yuppie Flu. Siete d’accordo o avete qualche band alla quale vi sentiti ancor più vicini in Italia?
Noi non ci siamo mai sentiti legati all’indie rock, se con questo intendiamo un codice estetico tipico degli anni ‘90. La nostra
storia ha altre radici, che poi possono essere comuni a quelle dei gruppi comunemente denominati indie, ma sicuramente nella
nostra discografia ci sono i dischi di Zappa e non dei Pavement, di Neil Young e non dei Grandaddy, dei Can e dei Neu! e non
degli Stereolab. Voglio dire, c’è un mondo antecedente all’indie-rock. Conosco poco gli Yuppie Flu e non mi sembrano molto
affini.
- L’ondata post rock, sebbene vi abbia leggermente sfiorati lasciando qualche tracce
sparsa nelle vostre composizioni, non sembra avervi impressionato più di tanto. Le vostre
radici saltano direttamente di qualche decennio indietro, come avete fatto ad
appassionarvi ad una musica che circola ancor meno dei materiali di nicchia odierni?
Ci riallacciamo a quello che si diceva qui sopra. A noi il post-rock non è mai interessato, anzi,
per quel poco che conosciamo lo sentiamo molto distante e non saprei individuarne delle tracce
nella nostra discografia. Non sarei così sicuro che la musica con cui siamo cresciuti circoli
meno delle cose più moderne, semplicemente sono meno cool e se ne parla meno, ma se entri
in un qualsiasi negozio di dischi è molto più probabile trovare il primo dei Velvet che non
qualcosa degli Slint… o sbaglio?
- In questo periodo c’è un netto ritorno alla costruzione dei pezzi, alla ricerca di una
qualsiasi formula musicale che dia un senso organico alla composizione. Il più delle volte,
oggi, questa ricerca culmina nella forma canzone, dopo che per anni c’è stata una netta prevalenza della destrutturazione
e (nei casi peggiori) della semplice duplicazione concettuale. Ascoltando Valende anche voi sembrate sensibili ad un
discorso di ricerca di una forma personale e compiuta della vostra musica, giusto?
Noi abbiamo sempre battuto entrambe le strade, quella dei pezzi più free e quella dei pezzi più scritti. Come ti dicevo prima in
questo lavoro abbiamo cercato di far risaltare il lavoro di scrittura tramite degli arrangiamenti più essenziali. Abbiamo lavorato
molto in pre-produzione provando diverse soluzioni, probabilmente questo ci ha aiutato ha trovare la giusta dimensione ai pezzi
che abbiamo inciso. Penso che per noi non si tratti di una novità quanto di un traguardo finalmente raggiunto grazie ad una
maggiore esperienza, per noi la scrittura dei pezzi è sempre stato un aspetto centrale del fare musica.
- Il contributo di ironia e divertimento che traspare dai vostri brani sembra imprescindibile per comprendere la musica
dei Jennifer Gentle, “Nothing Makes Sense” mi sembra una dimostrazione lampante di questa vena scherzosa ed
irriverente…
Sì, certo, l’ironia è un’altra sfumatura della nostra musica. Quando è ben dosata ha delle capacità espressive enormi ma poco
sfruttate…per noi è abbastanza naturale comporre brani di questo tipo…
- La formazione è ormai stabile? A cosa è dovuto l’allontanamento di Nicola Crivellari? La fase compositiva è affidata
esclusivamente alla coppia Marco Fasolo ed Alessio Gastaldello?
Sono le circostanze che ci hanno portato a lavorare in due. Comunque anche nei dischi precedenti il lavoro principale è stato
svolto da me e Marco, raramente abbiamo lavorato tutti insieme, addirittura I am you are è per metà inciso e suonato solo da me e
Marco. In realtà la parte di composizione in senso stretto è lavoro di Marco, io lo aiuto ad arrangiare ed incidere i pezzi. Con
Nicola il discorso si è chiuso in seguito ad una serie di incompatibilità caratteriali che poi si sono trasferite anche a livello
musicale, mentre Isacco è ancora con noi, solo che gli impegni professionali l’hanno tenuto lontano da noi durante le registrazioni.
Ora la band prevede Francesco Candura al basso, Liviano Mos all’organo e Paolo Mioni ed Isacco Maretto che si alternano alla
chitarra a seconda degli impegni professionali.
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- Cosa mi potete dire delle vostre esperienze live all’estero, in posti storici come il CGBG’S, al fianco di pezzi di storia
come Lanegan, Giant Sand, Mogwai e naturalmente Makoto Kawabata? C’è un momento in cui avete pensato: “Non
pensavo davvero di arrivare fin qui”? C’è un aneddoto legato alla vostra attività dal vivo che vi è rimasto impresso nella
memoria e che volete raccontare?
Sono stati tutti momenti divertenti ed importanti. Molte volte ci siamo sentiti appagati, ma la voglia di spostare sempre più in
avanti il confine ha prevalso. Certo, il giorno che abbiamo firmato il contratto per Sub Pop un pensierino simile l’abbiamo fatto,
ma abbiamo sempre ritenuto di meritarlo…Il CBGB’S è un posto incredibile, fuori dal tempo…I Mogwai li abbiamo appena
incrociati durante il soundcheck per cui non abbiamo avuto un grande scambio, giusto un paio di sorrisi… Con Makoto invece è
nato un bel feeling sin dal primo momento, d’altronde The Wrong Cage è la testimonianza del nostro primo incontro ed ha una
potenza notevole! Quella sera è stata sicuramente una delle più belle della nostra carriera, c’era una bella atmosfera. Anche i
concerti a New York sono stati notevoli, abbiamo fatto una buona impressione al pubblico americano e non vediamo l’ora di
tornarci!
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Uochi Toki
di Italo Rizzo
Due dischi all'attivo, cattive frequentazioni (Bugo, Violetta Beauregarde), massima libertà espressiva:
semplici definizioni di comodo per chi ha deciso di prendere a martellate il senso comune. Signore e signori:
ecco gli Uochi Toki.
L'inverosimile prodigio della distruzione dei significati
Uochi Toki, ovvero come fare hip-hop tradendo i suoi canoni, rifiutandone gli stilemi e facendosi
beffe di chi osa ascoltarli. Pochissimi gli appigli e le informazioni utili riguardo alla loro musica:
sappiamo che sono un trio, che prima si chiamavano Laze Biose, che provengono dai dintorni di
Alessandria, che sono amici di Bugo. Scrivere dei loro dischi, sviscerare il suono e soprattutto il
verbo che ne promana può essere un operazione giocosa, perfettamente inutile, minacciosa,
superficiale ed incredibilmente seria. Perchè gli Uochi toki non fanno propriamente rap, di certo
non c'entrano nulla col crossover, ascoltarli significa spazzare via dieci anni di posse, di hip hop
militante, di gangsta rap all'amatriciana, di demenzialità da avanspettacolo. Sgombriamo subito il campo: gli Uochi toki non sono
demenziali; fare uso dell'ironia nei testi e nell'approccio ai suoni (cioè passare con nonchalance da basi electro a pezzi hardcore,
apparentemente la loro cifra stilistica-ops! L'ho detto!-) rappresenta uno dei piani di lettura dei loro dischi, piani che sono
molteplici e che si intersecano. Ma cosa li rende così diversi, se diversi lo sono davvero? Al primo impatto, questo rapping
forsennato, opera di Napo, il quale ci vomita addosso cascate di parole, concetti più o meno scontati, metafore, citazioni ed urla
incomprensibili, decretando la fine del predominio del contenuto sulla musica. Poi c'è lo sporco lavoro di Rico e Fele, secondo le
note di copertina di Vocapatch addetti rispettivamente al low-tech ed alla morte e distruzione. Si può definire una crew, una mini
tribù dedita al cannibalismo lontana anni luce sia dai cazzeggiamenti alla Beastie Boys sia dai proclami alla Public Enemy, per
non parlare della Anticon o degli Anti Pop Consortium, troppo intellettuali ed intimisti per essere accostati a questo terzetto.
Insomma, quando la confusione è troppa si gode molto di più: la certezza è che amerete ed odierete gli Uochi toki in egual misura.
Vocapatch (Burp publications/MHM, 2003), il primo disco a nome Uochi Toki, esce, forse non casualmente, in un periodo di stasi
musicale (soprattutto dell'hip-hop italiano) come una scheggia impazzita destinata ad essere ignorata, derisa e al tempo stesso
stracitata. 31 pezzi, senza titolo, (toccherà farci l'abitudine), 31 frammenti di un unico discorso: sovente un brano si riversa
nell'altro o viene ripetuta la stessa base, che può essere molto scarna o noisy, technoide o vagamente gotica, in ogni caso avant (si
sentono strumenti giocattolo e suoni da videogame, ad esempio nel brano 19). Ma non finisce qui: una costante è l'alternanza tra
questi pezzi e stralci di hardcore allo stato puro, cioè suonati con chitarra e batteria, stile Black Flag dei primi tempi ma senza
alcuna velleità. In mezzo a tutto, glithces e frequenze alla Pan Sonic (traccia 6, 9, 12 tra le altre), risonanze autechriane (21,24),
negazioni d'evidenza (questo è il decimo pezzo!!! urlano, ma il lettore segna dieci), dislessìe eretiche (non impronta se il tuo
parere conta, traccia 2), bislacchi loop semiorchestrali (#26), depistaggi continui fra pop culture e letteratura. Verrebbe da
definirlo meta hip-hop, perchè parla di se stesso e su se stesso, non cerca di convincerci di una verità e rappresenta una forma di
estrema autoreferenzialità, assomigliando infine solo a sè. Note di colore: Bugo è ospite "muto"in 4 pezzi (Rico ricambierà nel suo
disco Golia e Melchiorre), il cd è stato registrato al Fiscerprais studio e al posto dei titoli ci sono delle icone non ben
identificabili. Si può solo aggiungere che Vocapatch va assunto tutto d'un fiato, magari sfruttando il random del lettore cd per
potersi perdere meglio nell'intrico dialettico-sonoro. Uochi toki come walkie talkie per bambini a cui piace smontare i giocattoli.
(8.0/10)
Ci si chiede da subito, appena guardato questo cd omonimo (Burp publications/MHM, 2004), a cosa/chi servono gli Uochi Toki,
se era possibile andare oltre il primo disco senza ripetersi (mi permetto di cambiare idea a metà di una discussione), senza
diventare la parodia della parodia di se stessi. E' una domanda sbagliata: loro sono perfettamente consapevoli di ciò che fanno, e
tanto basta (credo ci sia una distinzione fra due parole uguali). Appoggiati dalla Burp di Firenze, forse l'unica etichetta che in
Italia poteva far uscire un prodotto simile, i Uochi Toki continuano nel gioco della sottrazione: adesso anche la copertina è sparita,
c'è solo una confezione trasparente e il cd. Forse la prossima volta saranno solo mp3, magari inutilizzabili... Bando ai deliri,
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questo secondo episodio prosegue apparentemente sulle stesse coordinate di Vocapatch: grumi di
electro e di techno "povera", ridotta ai minimi termini, sfuriate hc e qualche inedita deviazione wave
e tribaleggiante(#10,#14,#19). Ad un primo ascolto notiamo che i pezzi variano da una manciata di
secondi fino ai 6'51" della settima traccia, una sorta di excursus/sfogo sonico a bassa frequenza,
perciò il disequilibrio emerge come unica forma possibile per gli Uochi Toki. In questo disco gli
approdi musicali, l'alternanza electronics/chitarre, i beat confusi con la musica concreta, si svelano
essere illusori (tutto quello che diciamo o facciamo è già stato detto o fatto), eppure l'ascolto è
godibile, a patto di essere devastati e/o consapevoli, e/o citazionisti come loro. La fredda analisi (?)
ci dice che le 81(!) tracce stavolta si dividono fra rombi di motori, seghe elettriche, basi reiterate, più quanto detto sopra, spesso
all'interno dello stesso pezzo, dunque trovare un comune denominatore è arduo, ogni ascolto dà luogo a una chiave di lettura
diversa, parziale ma in fin dei conti efficace. A questo punto esprimere delle preferenze è come sparare nel mucchio: i
campionamenti vocali della traccia 55, il finto assolo glitch della 57, l'insolito noise della 65, la dissacrazione che aleggia su tutto
il disco, le verbosità assortite più che in precedenza. Fa un po' senso scriverlo, ma gli Uochi Toki sono tra i più credibili testimoni
di questo tempo (ho la sensazione che nessuno mi stia ascoltando. Verifico: avevo ragione).
ps: Tutti i corsivi sono tratti dai testi dei brani.
(s.v./10)
A talkin' with a walkin'..... un'intervista con l'eco
Quel che segue è una serie di domande inviate via e-mail alle quali ha risposto Rico: chiedere "spiegazioni"
e lumi sui Uochi Tochi è un attività improba quanto, forse, inutile. L'unico rammarico per il sottoscritto è
che l'intervista non sia stata ambientata in una fonderia....l'ultima raccomandazione, a questo punto banale,
è di Ascoltarli, non Sentirli.
- Mi piacerebbe sapere qualcosa sugli altri gruppi nominati nel vostro sito: Parassit e Prostat, esistono realmente? Chi di
voi ci suona?
Esistono realmente le persone che hanno fatto cose usando i nomi Parassit e Prostat; nello specifico Parassit è il progetto solista
di uno di noi e Prostat è il progetto di uno di noi in compagnia di un altro (esterno), nel sito non è nominato però l'unico progetto
parallelo (progetto solista del terzo) realmente interessante cioè: Meccanico del suono (di prossima registrazione).
- Vi considerate un non gruppo, ma potreste dirmi come vi trovate insieme per comporre dei pezzi? E’ tutto improvvisato
o vi capita di ridefinire delle idee, di scartare qualcosa?
Posso dirti cosa è stato fatto fino ad ora* ma non posso ancora dirti come ci organizzeremo** e se ci organizzeremo.
Il "cosa" c'e' gia' in buona parte, il "come" lo dobbiamo ancora decidere.
*compiti separati: ognuno seguiva la sua area di interesse
**offerta promozionale valida fino al 31/12/2005
- Che tipo di reazioni avete suscitato nei gruppi hip-hop più canonici? Secondo voi può esistere un vostro “ascoltatoretipo”?
Per la prima parte della domanda ti consiglierei di chiederlo ad un gruppo hip-hop canonico (cosi' facendo giro su di te la
difficolta' di trovare un gruppo realmente definibile in tale maniera); per quanto riguarda la seconda domanda la risposta è: si.
- Raccontatemi degli esordi con i Laze Biose, avete partecipato anche a delle compilation..
Con il nome Laze Biose abbiamo registrato due demo, un disco ed un mix tape, abbiamo partecipato a qualche compilation dove
erano presenti molti gruppi hip hop canonici (che stronzo! Ndr), alla fine era sempre la stessa solfa: io rompevo i coglioni al
prossimo con un agglomerato di frequenze piu' o meno ordinate generate da impulsi elettrici e napo rompeva i coglioni al
prossimo con un agglomerato di frequenze piu' o meno ordinate trasdotte in impulsi elettrici.
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- Come vivete la situazione concerto? E’ un occasione per sperimentare o per trascorrere un week-end in varie parti
dell’Italia?
Nessuna delle due cose. La viviamo in questo modo: riflettiamo sul fatto che la gente ci da retta solo perchè siamo rialzati di 30
Cm (ca) rispetto loro, trascurando il fatto che una persona alta 2 metri è alta come noi sul palco.
- Il vostro ultimo cd omonimo mi sembra molto denso, rappresenta quello che per voi è la musica, ma visto che siete
coscienti della ripetitività come sorte ineluttabile, cosa farete adesso? E’ importante per voi dare una forma definitiva a
tutti i vostri pezzi?
Il nostro Cd essendo molto denso e rappresentando ciò che per noi è la musica ci rende coscienti del fatto che la ripetetitività è
ineluttabile. Per quanto riguarda la seconda domanda: una volta masterizzato, un cd, acquista automaticamente una forma
definitiva.
- Rico, hai registrato dischi di altri gruppi, che esperienza è stata?
Registrare mi piace parecchio; è difficile generalizzare i miei rapporti con gruppi di genere/estrazione/tipologia differenti....ed è
ancora piu' difficile generalizzare i miei rapporti con persone di tipologia/estrazione/genere differenti, ogni volta è diverso (lo è
anche prendere lo stesso gelato con gli stessi gusti nella stessa gelateria o, se preferisci, lo è anche rispondere alle stesse domande
fatte dalla stessa persona), facendo una media matematica posso dirti che è una esperienza (in quanto avviene anche adesso)
interessante (con interesse globale= Y; valore di interesse= K; area di interesse= X; quindi Y=K*X; da questo si evince che
Y/X=K quindi il rapporto fra interesse globale e area di interesse rimane costante).
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Monografie
Cerberus Shoal
di Antonio Amodei
I giardini volanti e le porte del cosmo, il Dio del Sole e della Follia nell’ancia tonante dei Cerberus Shoal,
ovvero il desiderio impaziente di una metafisica giravolta alle porte dell’inaudito
I giardini volanti e le porte del cosmo
Benvenuti alla Corte del Possibile, disfatevi della sfida, coricatevi: Madre Terra vi
accarezzerà. Raramente capita di accogliere lenimenti così sereni, ispirati: la musica
quale radiografia dell’universo che, dal 1994, quando Caleb Mulkerin (gt, farfisa,
banjo, bouzuki, imbira) decide di dare i natali, assieme a Chriss Sutherland (vc, bs, fl,
pc) e Thomas Rogers (dr, pc), alla line-up originale, fulcro storico attorno al quale
ruoteranno diverse partecipazioni e numerosissime sessions e compilations e che non
smette di riciclarsi. Freschi (e stufi) di High School, si trasferiscono dal Portland a Boston. Nel Marzo del 1995 suonano il primo
live nel rinnovato NYC punk ABC club: la prima incarnazione del ribollente pentolone d’idee trova documentazione
nell’omonimo vinile 12”. Gli aromi dell’alchemica mistura sonora, a metà tra Red Krayola e neo-folk, Cpt. Beefheart e David
Palmer, esplode nei palcoscenici alternativi, portando i tre a produrre diverso materiale inedito che, solo più tardi, troverà
sistemazione. Le collaborazioni s’intensificano ed il gruppo circola per le vie gimcaniche dell’ambiente artistico di Portland, città
sensibile all’avanguardia ed alla sperimentazione oltreché orfana del tramontante grunge, fino all’uscita dello splendido And
Farewell To Hightide.
La struttura del suono e l’apprezzabile tecnica strumentale colpiscono ineffabile, magistrale e rara in ambiente underground; il
fatto notevole della scrittura (usano il pentagramma!) conduce la band, alla fine del 1996 alla progettazione di due concept –
BreathingMachines e Never a Solution - mai incisi ma regolarmente performati live (una versione assai rimaneggiata del primo
appare in Crash My Moon Yacht), capolavori dalla partitura semimprovvisata.
A partire dal maggio del 1997 la band inizia una collaborazione con Tim Folland (oscuro regista astrattista-esotericoneosurrealista), per conto del quale firmano due soundtracks – Elements of Structures e Permanence, 50 minuti
d’improvvisazione dove le note si aiutano l’un l’altra, sostenendosi in un fluire magmatico e mesmerico, un feed your mind di
greatefuliana memoria. L’acid trip così confezionato trova, piuttosto insospettabilmente, i favori del mercato di ricerca ed
indipendente e l’album che raccoglie la session rimane forse la testimonianza più vibrante e sincera del loro repertorio.
La musica degli Shoal risponde alla logica degli alambicchi e degli strani arnesi risuonati (cornamuse,
trombe aliene, accordion, conglomerati, sakuhachi, ecc.), chiarendo l’espressione di uno stile di vita
che, della musica, fa colonna sonora, tessendone l’indispensabile nostalgia. Si presti attenzione: non
siamo al cospetto dei soliti menestrelli dell’informale, di certa freakerie spesso incapace di tenere uno
strumento in mano e che fa, dell’imperizia, vanto e nocumento. Qui la composizione è genuina,
l’armonia consolidata, l'esperimento convalidato tanto che l’attento orecchio francese li elegge
vincitori delle chart indipendenti, mentre in Italia restano del tutto sconosciuti.
Nel 1998, rimasti in tre per la dipartita di Mulder, il caravan accoglie Thomas Kovacevic (gt, vc,
zampogna) e Tim Harbeson (tr, key, accordion); un acclamato tour estivo negli States li consacra quali menestrelli
dell’improvvisazione neopsichedelica. Le composizioni si fanno arte e scelta di vita, filosofia ed espressione delle orgiastiche
vibrazioni del corpo e della mente. A documentare l’eccellente momento creativo restano tre album magistrali – Homb, Crash My
Moon Yacht e Mr. Boy Dog – pubblicati due anni dopo e che segnano l’apice della carriera del combo.
Nell’inverno del 2000 i tre membri originari restano nuovamente soli ed accolgono l’artista/musicista Collen Kinsella, il bassista
Erin Davidson ed il conceptualist/writer Karl Greenwald, formazione che, ad oggi, calca i palcoscenici. Il gruppo sperimenta il
primo tour europeo, dall’accoglienza piuttosto tiepidina nonostante suonino in ben tredici paesi, reazione dovuta anche al fatto
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che, ora, i suoni si fanno meno rarefatti e più geometrici, perdono di spessore “cosmico” a beneficio della strutturazione
pentagrammatica e razionalistica. Immediatamente dopo il ritorno in USA, prende corpo il CD single Garden Fly-Drip Eye,
materiale dell’anno precedente.
Nei due anni successivi i Cerberus avviano una serie di variegate collaborazioni con la North East Indie, che partoriranno
materiale disparato, di dubbia qualità e dal tenore assai ripetitivo sebbene di marca sperimentale, che troverà sistemazione in
quattro split CD di dispensabile raccomandazione.
Amministrato questo capitolo, la band chiede ancora l’intervento della propria label per la stampa di registrazioni risalenti al 2001
e scritte a mano multipla da Sutherland, Mulkerin e Morin: ne nasce un disco ufficiale – Chaiming the Knoblessome - cui segue il
“disco ombra” The Bastion of Itchy Preeves.
Il periodo seguente è funestato dall’assenza (per motivi famigliari) di Rogers, mancanza che si fa sentire severamente
nell’economia del suono del gruppo, così la line-up decide di dare uno stand-by all’attività concertistica, dedicandosi alla scrittura,
alla coltivazione della stampa e della critica, alla connessione con i fans ed alla collaborazione ideale con una miriade di progetti
artistici, politici e sociali.
Prende forma, nel frattempo, The Land We All Believe In, ultimo capitolo della saga e da noi recensito in anteprima, manifesto
post-moderno della concezione kraiolana della creazione in musica, molto distante, tuttavia dai lavori che stabilizzarono la fama
dei Cerberus.
Intervista
Incontro Chriss, Caleb, Tim, Colleen e Karl (Erin è assente perché bloccato all’aereoporto di New York per non so quale
problema con l’erario statunitense….) placidamente accomodati sull’improvvisato scenario dell’Elettropiù di Firenze. I cinque,
riconoscendomi quasi per magia, mi chiamano per nome e si dispongono amichevolmente in una sorta di circolo umano dove,
come in un ring di simpatetica dialettica, sono sottoposto ad una sequenza di carinerie, sorrisi, doni, attenzioni e subissato di
domande sulla scena musicale italiana. Colpisce il casual della postura e la giovane età dei componenti, assolutamente insospettata
stando alla densità e maturità della loro musica. Facendo slittare di un paio d’ore il concerto, cui assistono poche decine di
spettatori, a causa della totale mancanza d’informazione cittadina intorno all’evento, scopro l’anima, dolce e caparbia assieme, dei
leaders Chriss e Caleb, che monopolizzano l’intervista, sebbene l’elegante Colleen intenda spesso spezzarne il circolo vizioso….
- Come vi siete conosciuti?
Al Liceo, come tutte le band che si rispettino! Eravamo assolutamente stufi di
quell’inutile vita da studenti, che abbiamo sopportato solo perché gia suonavamo.
- Il vostro ultimo lavoro ammicca al sound canterburiano stile Matching Mole,
Caravan, Wyatt…
Sì, ma il nostro riferimento restano i Red Krayola. Non siamo nostalgici dei primi lavori
e lasciamo che la coscienza e la sensibilità di ognuno dei sei musicisti contribuisca
all’emergenza del prodotto finale, che non consideriamo mai definitivo o cristallizzato in una forma compiuta e matematica. Ogni
performance, ogni concerto è diverso e le composizioni si adattano ed evolvono mentre le eseguiamo. Così, seguendo esse stesse,
siamo noi ad imparare, ad “essere prodotti” dalle nostre musiche.
- C’è un aspetto politico inedito che si avverte nelle liriche di The Land We All Believe In. Che rapporto avete con il
neoimperialismo USA?
Com’è ovvio immaginare, non è Bush il nostro referente per ciò che concerne un ideale politico. Non siamo una band politicizzata
ma appare chiarissimo che il ricorso ad una strumentazione internazionalistica ed il fluire libero delle idee richiama un approccio
libertario che, dalla musica, alimenta ed attraversa le nostre vite. Pur non costituendo una comune in senso stretto, trascorriamo i
nostri giorni sempre molti vicini, accomunati dal minimo denominatore della musica certo, ma imparando tolleranza, osmosi,
dialettica.
- Il dialogo con la critica, invece, appare conflittuale. E’ così?
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Lo è stato abbastanza spesso. Facciamo musica, non filosofia, e tanti sproloqui non ci sembrano opportuni. Pare che i critici
avvertano qualcosa di più profondo, nella nostra musica, di quanto noi stessi intendiamo perseguire. Siamo ovviamente contenti
quando veniamo incensati e ci dispiace quando Scaruffi ci strapazza, ma non abbiamo un reale rapporto con la critica, nel senso
che non la snobbiamo ma neppure ci curiamo di seguire mode, mercato e vendite.
- La vostra musica mostra un floating mesmerico di grande suggestione. Casuale od inserito consapevolmente nella
partitura?
Ogni intervento strumentale è curato nei minimi dettagli, ma l’enfasi, la personalizzazione del contesto dipende dall’umore, dallo
stato d’animo dell’esecutore. Scriviamo i pezzi ma lasciamo libertà coscienziale all’interpretazione. La nostra musica va
somministrata più al corpo che alla testa. Se le viscere della vostra pancia entrano in vibrazione ne saremo felici, altrimenti avete
sbagliato serata. Caso e caos fanno parte del nostro credo religioso pagano, ma pure causa e determinismo: non abbiamo etichette,
non ci piacciono le impostazioni generali, ricorriamo all’intuito ed all’identificazione corpo/mente.
- E l’improvvisazione che fine fa?
L’improvvisazione è signora e padrona della nostra tavolozza sonica. Chi non sa improvvisare non sa suonare. Pensiamo di
disporre di una buona tecnica strumentale ma c’è ancora molto da fare ed improvvisare è esporsi nudi al fuoco del nemico.
- La free form della vostra forma canzone mostra influenze evidenti: Red Krayola, Fred Frith, la scena art-freak
berliniana del pre-muro, Frank Zappa…
AAAH! Odio Frank Zappa (Caleb s’inserisce prepotentemente…ndr).
Conosciamo la scena Canterburyana degli anni Settanta, cui guardiamo con reverenza, ma le radici vanno piuttosto trovate nella
musica mediorentale, turca, nordafricana. La musica dei popoli, in senso stretto, non ci riguarda: ci reputiamo un gruppo rock a
tutto tondo, indipendente, ma rock. L’etnomusicologia è una cosa seria, noi siamo poco seri. La nostra musica può avere una
valenza catartica, può anche far ballare, può liberare dai pensieri per qualche ora, e per noi sarebbe più che sufficiente.
- Quali difficoltà avete incontrato nella promozione live in Italia?
Grandissime. Stasera (Firenze, Elettropiù – ndr) ci sono pochissime persone ma non so dire se dipenda dalla nostra musica o dal
locale. In generale, tutta la tournèe italiana ha avuto difficoltà organizzative, di spostamento, di localizzazione degli eventi e di
preparazione. Spesso non riusciamo a provare prima del check-sound, ma non possiamo trasportare i nostri strumenti dagli USA.
A Ravenna suoneremo in un festival (coi Red Krayola, ndr) e speriamo che l’organizzazione sia migliore.. d’altra parte le nostre
richieste sono molto limitate.
- Sempre nel nostro Paese, la distribuzione dei vostri CD è assai lacunosa. Come pensate di risolvere il problema?
Altra nota dolente. Non sappiamo come risolvere il problema della distribuzione indipendente. E’ Wide che, normalmente, si
prende carico dei nostri lavori in Italia. Questa distribuzione lavora molto bene ma sono i costi di spedizione che ci uccidono,
specialmente quando dobbiamo valorizzare un single od uno split. Dobbiamo pensarci, anzi avresti una soluzione?
- No. Sono solo un critico, ma potreste provare ad incidere direttamente in Italia..
E’ vero. Non ci avevamo pensato…
- Apprezzati live, mostrate il lato più “tarantolato” e pulsante della performances. Tale stato tachicardico ed orgiastico
non è così evidente su disco. Strategia evolutiva o simbiosi col pubblico?
I live non hanno misura. Niente scalette, niente direttive preliminari. Sappiamo cosa e quando accordare, basta guardarsi in faccia.
Nella dimensione col pubblico l’appartenenza è totale. Se possibile, passiamo letteralmente in platea, tocchiamo, “spolveriamo”
chi ci ascolta. La dimensione teatrale dei concerti non viene mai dimenticata: sarebbe un morire lentamente. Tutti i membri del
gruppo assumono posture che possono sembrare, in prima istanza, degne di misura seriosa; in verità la musica, letteralmente, ci
possiede, ed i nostri muscoli facciali vengono per così dire guidati dal canto della musa…
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- 11 CD, 4 CDS, innumerevoli compilations, sono un gruzzolo forse eccessivo per 5 anni di carriera. Trovate che alcune
registrazioni possano, col senno di poi, risultare ridondanti, dispensabili, poco ispirate?
NO!!! Ogni cosa ha il suo tempo. Niente avviene per caso e tutto avviene per incidente. Biografia e discografia sono la medesima
scansione temporale di un’ontogenesi che, appartenendo individualmente ad ognuno di noi, nasce dal tempo comune, cui tutti
siamo sottoposti.
- Progetti per il futuro?
Tornare presto a suonare in Italia in condizioni ottimali, perfezionando la comunicazione, adottando un circuito indipendente ma
collegato col pubblico.
And Farewell to Hightide (Tree Records, 1996)
L’interesse per l’aspetto spirituale e filosofico dell’essere uomo, la passione per le dottrine mesmeriche delle Upanishad, l’inno al
Dio degli Aborigeni, creatore delle cose tutte e divinità erotico-dionisiaca della musica del trascendentale, suggestiona la
stilematica, all’apparenza colta, della partitura occidentale, tra avanguardia e tradizione, dove tutte le correnti e le sperimentazioni
pregresse trovano il loro compenetrarsi, compiuto e maturo come in questo CD (il secondo lavoro ufficiale degli Shoal dopo il
primo vinile 12”), nelle rilevazioni di alcuni registri che appaiono, grazie al paziente lavoro di limatura della band, che
espressamente coglie i succitati richiami religiosi, subito quasi capolavori. Laddove l’improvvisazione corre veloce ed
affascinante, attraverso le varie voci del registro stilistico, debitore del blues acido, del folk alieno e del rock cosmico, il lavoro di
ricerca assume una commossa gratitudine, albeggiante e vigorosa. Le lunghe suite che caratterizzano la sezione centrale
dell’album, prendono forse un po’ a prestito le magie westcoastiane degli acid trip d’annata, debolezza mitigata con una buona
dose di crescendo sinusoidali che amplificano la leggiadria delle chitarre e smorzano la monotonia dell’improvvisazione.
Sconosciuti in Italia al momento della pubblicazione, qui i musicisti sono in tutto addirittura nove, che si alternano ai violini
(palese la lezione Dirty Three), alle ance, all’organo ed alla fisarmonica ed altri ammennicoli per un arrangiamento rilassato,
introspettivo, dilatato e scivoloso, come nella vellutata Make winter a driving song . Echi di brume nordiche sono rintracciabili in
Broken springs spring forth from broken clock e morrisiani lamenti che aspergono estensivamente tutti i brani. And Farewell to
Hightide denuncia il percorso elettivo che caratterizzerà gli anni migliori dei Cerberus Shoal: sintonia con la dimensione altra
della musica come liberazione dell’anima, libertà espressiva e tracciabilità di composizione, erosione dionisiaca e formalizzazione
delfica, per un equilibrio ed un superamento della vecchia dicotomia corpo/mente, un po’ stantia. (7.2/10)
Elements of Structures / Permanence (AudioInformation Phenomena, 1997)
Quando il filmaker Tim Folland chiese ai Cerberus di comporre la soundtrack per due film muti, la band non si tirò indietro,
sebbene troppo poca fosse l’esperienza collettiva per affrontare un impegno così delicato. Folland chiese di interpretare le
immagini astratte dei due mediometraggi improvvisando contestualmente alla prima visione, così che il CD documenta un
esperimento, assai riuscito, di contemplazione sonico/visiva dove lo scarto emozionale dovuto ai passaggi dinamici sullo schermo,
aderisce ai contenuti musicali. Alla realizzazione di tale empirismo aconsequenziale aderirono i Tarpigh, gruppo locale che
interferì con gli Shoal (accettandone l’invito), per poi inserirvisi stabilmente per alcuni lustri. La session si autocostruisce
derivando stati d’animo, silenzi, pause condite con un raffinato jazz-rock, incredibilmente strutturato, magicamente originale,
nelle due ambiziose suite. I 22 minuti di Element of Structure si aprono liricamente, progressivamente, in un’atmosfera arcaica e
percussiva, punteggiata di soundscapes floydiani, talvolta tachicardici che virano in un’orgia di suoni etnico tribali e riposano,
infine, su di un letto di sibili e frattaglie di note. In Permanence (34 minuti) è protagonista il piano ipnotico ed ispirato che circuita
note delicate e casuali ma non minimali. Sequenze ritmiche, latine, alterano i piani ambient dell’incedere iniziale e dilatano nella
meditazione assoluta i refrains notturni, paranoidi da cui, come per gemmazione, clonano emergendo, conati d’avant-jazz, toni
leggeri e pulsanti che paiono, ma non sono, trattati elettronicamente.
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Il lavoro è un esempio di grande suggestione e di notevole perizia strumentale, segnalandosi per il recupero di logiche desuete,
paradigmi free, assemblaggi collettivi vecchia maniera: una form instabile ma genuina e riuscita nella dimensione sinestetica, che
era l’obiettivo di tutto l’armamentario. (7.0/10)
Homb (Temporary Residence, 1999)
Anche se non lo sono affatto, tutti gli album dei Nostri suonano acustici o semielettrici, moody, alterni e mai sparuti: alcune songs
dovrebbero assumersi la responsabilità della perdita della partenza, ma la catarsi reiterativa del corno e delle marimbas rifocilla
l’animo, meravigliosamente fatalistico, introverso, quasi confessionale. Il feeling primitivo fa capolino ovunque, coimputati
ipnotici drones, spalmati con voci adamantine ed intriganti. Matematiche trasversali sottendono un disegno complessivo, sempre
ben presente nella mente dell’artista: jazzjams, etnicità e folk antico non restituiscono una mescola grigiastra, ma polifonie e
paesaggi remoti: i Cerberus sanno dosare suoni e tempi, arie e silenzi, con maturità ed eleganza. Homb è il capolavoro dei
Cerberus, disco che li strappa dalla limitazione di nicchia cui sembravano destinati, che regala un respiro assai ampio di colori e
contesti: una tavolozza d’idee ed espressioni in musica degna delle prime posizioni per una compilazione di un’ipotetica
enciclopedia della musica strumentale. Genialità, originalità, ispirazione trasudano dai solchi del lavoro, sempre sperimentale ed
intimista certo, ma architettato su coordinate ed impalcature solide, elaborate, equilibrate, dove chitarra, fiati ed improvvisazione
percussiva snodano le secche dell’incompiuto e confezionano brani quadrati, riconoscibili, determinati. Inetichettabile e
frikkettone, l’album si giova di sonorità tipiche della new age, ma le partiture folk ed etno, gli adagi jazzy, le melodie orchestrali
frantumano i generi ed una ricognizione stilematica esaustiva sarebbe vana. Ancora Pink Floyd, ancora King Crimson, forse i
Genesis prima maniera e la world di Peter Gabriel di Passion, ma le influenze non si contano ed i Cerberus sono abilissimi nel
drenare tutte le migliori suggestioni per sincretizzare gli insegnamenti pregressi e liberare i loro psichedelici strali in una
destabilizzante tour de force strumentale. Harvest invita alla meditazione e prelude ad una choreia prossima ventura, paventa
l’ignoto ma respira di brezza monastica, con i refrains circolarmente polmonari, dove un coacervo d’ominidi primordiali aggeggia
un collage di voci ancestrali ed archetipici; Omphalos è un post Crimson sincopato, liricissimo, dotato di un ritmo in crescendo,
pulsante, una preghiera cosmica enfatizzata dalle strutture ampie dei fiati, un mandala maestoso, un flusso d’oscuro presentimento
inondato d’erotica sinuosità, lisergico e folle, tarantolato da un’onirica trance speziata d’oriente: stupendo. La triade Myrrh 's si
apre con una discreta presenza delle keyboards, una languida peristalsi plasmata da salmi turchesi e mediorientali. Il suo secondo
movimento salta in un’oscura e malata idiosincrasia paesaggistica, dove una tromba aliena dialoga con un flauto panìco mentre il
pulsare sottopelle di un basso insistente raddoppia gli squarci chitarristici per tornare, solennemente, all’ensamble strumentale
collettivo. Il terzo movimento è una litania rinascimentale, dal tono esotico, criptico, surreale ed a tratti canterburiano, una sorta di
campana liberatoria di mussorskiana memoria. Il manifesto dei Cerberus è celebrato; tutti i successivi tentativi di miglioramento
artistico resteranno lettera morta. (8.5/10)
Crash My Moon Yacht (North East Indie, 2000)
Dopo le sperimentazioni di Element of Structure/Permanence e la maestosità di Homb i Cerberus, spingendo la tecnica di
esecuzione al limite, in Crash My Moon Yacht si fanno apprezzare soprattutto per il collage-sound dalla strumentazione
riccamente etnica, un’orchestrazione implementata dall’uso intelligente e discreto dell’elettronica, mista a suoni naturali, che
crossoverizza i territori floydiani richiamandone l’universo ctonio, terrestre. L’avanguardia promulga nuovi confini, tra Third Ear
Band e Robert Wyatt, ricollocando le membrane auditive in un terzo orecchio di matrice europea (Can, Ash Ra Temple,
Massacre, Frith, Cora). I Cerberus allignano ormai nei contesti definitivamente indie e la categoria d’appartenenza
somministrata dalla critica diviene una melted-theory definita come post-rock tribale (Gabriel, ancora, insidiato dal solco
Tortoise, smaliziati entrambi da reminiscenze Matching Mole-Soft Machine). Breathing Machine si slancia, epica, con la
chitarra lead che taglia cristallina l’impasto etnico del tappeto di farfisa, banjo, xilofoni, trombe, flauti, sitar, tanto bene da non
sfigurare tra gli scaffali di un purista dell’electric jazz. Elle Besh potrebbe essere una composizione di Paolo Fresu assieme ad
Eberhard Weber, screziata solo dai soffi esistenzialistici di una voce nasale dall’afflato mertensiano. Long Winded, come da
titolo, soffia costante tra venti dominanti nei mari della Turchia ed il flauto si eleva esclusivo, per l’incanto di Dervishi in
meditazione. Yes Sir, No Sir è una composizione importante, nel senso che prelude all’impostazione dei futuri lavori e,
segnatamente, di The Land We All Believe In: una maggiore attenzione per il canto e la tecnica vocale, amplificata da impressioni
albioniche dall’art-rock dei Seventies. Tale passaggio stilematico determina, secondo noi, una flessione dell’impatto corale del
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collettivo e sminuisce le inclinazioni naturali degli strumentisti,
circoscritte nei pertugi residuati dall’invasività e dagli echi delle voci.
Asphodel è una vera e propria forma canzone, modulo tanto raro per
gli Shoal; tributo a Wim Mertens e Robert Wyatt, il brano,
acustico, chiude l’ottimo capitolo con delicatezza, armoniosità e
dolcezza. (7.5/10)
Garden Fly / Drip Eye (North East Indie, 1999)
Il singolo che non ci si aspetta. D’accordo che dai Cerberus nulla
arriva scontato, ma il materiale dei due brani in oggetto disorienta al
primo ascolto: una free form locale ed improvvisata (aiutati dalla local band Tarpigh) che evolve in qualcosa d’inaudito per lo
stile di una formazione che aveva abituato l’ascoltatore al fluire lento del folk alieno. Un feeling assolutamente nuovo calca i
solchi del CD; in Garden Fly una seriazione di voci sovrapposte, ritmiche, riflette una regola corale di concepire l’armonia assai
inusuale, che ti sbatte in faccia potenza ugolare per tutto il brano, attraverso e sopra le note, per estinguersi in un botto spruzzante
un magma appiccicaticcio, tessuto dalle percussioni e da strumenti spompati. Drip Eye è una cacofonica atmosfera assai confusa,
dove le voci collimano collettive e noise, sullo stile Tarpigh, che palesano il tentativo di affrancarsi dallo stigma psichedelico degli
inizi, avviando le composizioni verso una svolta che, per quanto ci riguarda, stona con la sublime cerebralità che li rese originali.
L’eccessiva aggressività delle voci, l’esposizione alla reiterazione mantrico-pop, la lezione demodé dedotta dai Can, i territori
sonici e sperimentali vicini a facili cliché modernisti ed affettati, la pseudocreatività trasversale, piuttosto trita e dozzinale, relega
la prova alla stagnazione. (4.7/10)
Mr. Boy Dog (Temporary Residence, 2003)
Mr. Boy Dog è un magistrale doppio che riassume il caleidoscopico percorso artistico degli Shoal, esemplificandolo in circoscritte
microelezioni, come le pillole di tecnica chitarristica (Frank Zappa) in Stumblin' Block, sassofonistica (Albert Ayler),
minimalistica (Terry Riley) in Nataraja, attraverso patterns world (Camel Bell) estranianti ma tradizionali per una band che torna
a guardare al passato. Sciarade soniche e vociaschi paradossali dissuonano tra fanfare, organi ed orgasmi sciamanici. Bellissimo.
Non un’antologia per ricordare, ma per ricominciare. Il loro secondo capolavoro: un ricettario che proviene da una silenziosa
tensione mistica che aleggia nella matrice panteista dello stile di vita dei singoli membri della band. Il soffio della tromba in
funzione mitopoietica, vellutata e conturbante, avvolgente e misteriosa, che si estingue dolcemente tra le pieghe della mutezza,
della fine (Unmarked Boxes) è il controfattuale dell o stato di grazia, testimoniato dall’accatastarsi d’idee e dal proliferare di temi
assai variopinti, una tavolozza d’opzioni ed una varietà di temi, tra ambient e trash, mediati da lirismo floydiano e cerebralità
phishiana, condita di stranezze cui, certo, la band ci aveva abituato, ma segretamente ed insospettabilmente avveduta, rivitalizzate
e rimodulate nello stle classico/moderno del folk-jazz strampalato e maledettamente intrigante. In An Egypt That Does Not Exist
deflagra, infine, la straordinaria versatilità del gruppo, che si espone con un’erosiva ed ipnotica quadratura polivocale, annodata ad
un flebile flauto e a drones alla Angel’s Egg, sebbene, il lettore ci perdoni, c’eravamo dimenticati di segnalarlo, la creatività aliena
e la curiosità deviata del menestrello David Allen informa fin dagli esordi la filosofia musicale dei nostri.
Un Must. (8.3/10)
Chaiming the Knoblessone (North East Indie, 2003)
Il lavoro del 2003 perde molta della sostanza recuperata dalla seconda vita di Dog, scarnificandosi in perifrasi da balera e sculture
macchiettistiche di maniera, anche se il tratto lisergico e free form permane in tutti i solchi.
Apatrides è una costruzione debitoria di Cp. Beefheart and Magic Band, abbastanza demenziale da ricordare i Residents ma
incisiva quanto una stilla d’acqua, aggrovigliata ed involuta, priva di un vero guidando ed improvvisata da poca ispirazione. Resta
tuttavia uno dei capisaldi dell’album, se è vero che Mrs Shakespeare Torso declama un rumorismo scontato e scotto, cacofonie
gratuite e malizie soniche, ingenue quanto prevedibili; Sole Of Foot Of Man è una marcetta funebre dall’organetto marcescente
dove i Krayola copulano con le Voci Bulgare; A Paranoid Home Companion si limita al recitativo vocoderizzato, dritto dritto da
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Alifib, capolavoro di Wyatt; gli Art Bears, Zappa ed i Massacre plagiano Ouch: Sinti, Roma, Zigeuner..., brano alienato e
frikkettone, mentre Story #12 è talmente rarefatta e casuale da non lasciar traccia nella memoria, a causa della sua flessibilità,
tanto estrema quanto sterile. La finale Scaly Beasts vs. Toy Piano prova a chiudere in bellezza con uno scheletro di carillon,
marimba e campane tubulari, di segno minimalista, ma che langue in un miagolio preconfezionato e stantio. (5.0/10)
Bastion of Itchy Preeves (North East Indie, 2004)
Strapazzati dalla critica per il passo falso del precedente lavoro, dal profilo imbarazzante, i Cerberus ci riprovano con un nuovo
caleidoscopio d’eterogenei lampi avanguardistici e folkeggianti, ma si capisce che gli splendori del passato non ritorneranno,
sebbene gli ingredienti e le idee non manchino. Troppa carne al fuoco, anzi. Rumorismo, ambient, folk, elettronica, rock
sinfonico, improvvisazione, pseudopsichedelia classica, cosmic rock. Il “chi più ne ha più ne metta” lo evitiamo per dignità, onde
evitare di declamare l’odiatissima etichetta di “progressive”. L’etno e Canterbury sono ancora più vicini ed il flusso di coscienza
dei Soft Machine architetta la suite con cui percussioni e piatti tibetani fanno esordire l’album. Cloud No Bigger Than a Man's
Head suona invece come uno scacciapensieri elettrico cui avanza un falsetto alla CSN&Y; seguono geometrie copiate da Henry
Cow, in ogni caso i migliori 13 minuti del disco, imperniati sul catartico suono della marimba. Ad un trittico di stupid songs di
riempimento fanno posto, dunque, arie turche, afghane, greche, enfatici esorcismi e lunazioni desertiche (Tekel Upharsin), mentre
in Nonex un “gatto strinto all’uscio” – come si direbbe dalle mie parti – strazia per 10 minuti santissimi, prima di evolvere
frippertronicamente (Marimus). Head No Bigger Than a Man's Cloud chiude il debole Bastion of Itchy Preeves: forse, l’unica
canzone rock in senso pieno che si dia nell’intera produzione Shoal. (5.8/10)
The Land We All Believe In (North East Indie, 2005)
Quanti album deve realizzare una band prima che il mondo ne benefici? Forse dodici, come assommano i Cerberus Shoal, con
l’ultima fatica registrata nel 2004 ed in via di pubblicazione? I Cerberus vivono dal 1994 ma la logica musicale dei primi,
bellissimi lavori è perduta per sempre. Con The Land We All Believe In gli strali luminescenti lasciano il passo all’esecuzione
micrognomica cara a Cora e Frith, dove l’amalgama del processo musicale – talvolta spiritualista, altrove politico o satirico –
catapulta l’ascoltatore attraverso ogni sorta d’emozione, nell’universo globale dell’astrazione, della melodia, del ritmo e della
psichedelia cosmica. Immaginate i Pixies e John Lennon invitati a comporre una soundtrack condotta dai Sonic Youth e Robert
Smith per un film su Burroughs diretto da Lynch e Jarmusch, scritto da Freddy Perlman ed avrete un’idea dell’essenza dei suoni
scaturiti da questo lavoro. La title track apre l’album con una rada elegia melodica trapuntata dai deliri vocali paranoici di Colleen
Kinsella ed Erin Davidson, vicina ai Low ma senza valium. Davidson carica il mood in Wyrm, con l’assistenza della new entry
Tim Morin alla marimba ed ai timpani, mentre Sutherland assesta un tono vocale inaudito, forse proveniente dalle desertiche
pieghe della mente, incoraggiato dagli accordi dance e dall’incedere crescendo. In Pie for President fanno breccia reminiscenze
zappiane, stupid songs ed anche gli Who di Sell Out. Aleggiano gli Henry Cow nella quarta traccia mentre Wyatt recita le litanie
degenerate di Rock Bottom trattenute da note suicide. Il collettivo ora mostra la strada dell’insegnamento e della speranza eterna,
fatta d’accordi spuri e dispari. La composizione, notevolmente decostruita, stende un tappeto rosso verso i lidi della schizotipia
interiore, dove il dialogo con se stessi assume i contorni simili all’attesa in sala operatoria.
L’inevitabile finale – Parachute – offre un sorprendente upbeat delicatamente incerto, visto che il coro sussurra sommessamente
“We are falling around…”, ecatombe che non si avvererà sino a quando ci reggeremo l’un l’altro sulla terra in cui crediamo. La
fusione metafisica dell’arte-folk degli Shoal richiama le muse del passato, creando il rituale magico della storia dell’umanità che,
col sangue, genera ordine dal caos. (6.0/10)
Discografia trattata
And Farewell to Hightide (Tree Records, 1996)
Falling To Piece Part One / Broken Springs Spring Forth From Broken Clocks / J.B.O. Vs. Blin / Make Winter A
Driving Song / Falling To Piece Part Two
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Elements Of Structures / Permanence (Audioinformation Phenomena, 1997)
Elements Of Structures / Permanence
Homb (Temporary Residence, 1999)
Harvest / Omphalos / Myrrh (Waft) / Myrrh (Loop) / Myrrh (Reprise)
Crash My Moon Yacht (North East Indie, 2000)
Changabang I / Breathing Machines / Elle Besh / Changabang II / Long Winded / Changabang III / Yes Sir, No
Sir / Asphodel
Garden Fly / Drip Eye (North East Indie, 1999)
Garden Fly / Drip Eye
Mr. Boy Dog (Temporary Residence, 2003)
Disc 1 Round Valley / Nataraja / Camel Bell / Stumblin’ Block / Tongue Drongue / Vuka
Disc 2 / Unmarked Boxes / Telikos II / S/T / Nod / S/T / An Egypt That Does Not Exist
Chaiming The Knoblessone (North East Indie, 2003)
Apatrides / Mrs Shakespeare Torso / Sole Of Foot Of Man / A Paranoid Home Companion (Intermission) /
Ouch: Sinti, Roma, Zigeuner; The Names Of Gypsy / Story #12 From The Invisible Mountain Archive / Scaly
Beasts Vs. Toy Piano
Bastion Of Itchy Preeves (North East Indie, 2004)
Grandsire / Cloud No Bigger Than A Man's Head / Bogart The Change / Shaky Bull / Me And My Dead Head:
Baby Gal / Me And My Dead Head: Train Car Nursery / Tekel Upharsin / Nonex / Marimus / Head No Bigger
Than A Man's Cloud
The Land We All Believe In (North East Indie, 2005)
The Land We All Believe In / Wyrm / Pie For The President / The Ghosts Are Greedy / Junior / Taking Out The
Enemy / Parachute
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ALBUM DEL MESE
AA.VV. - Lo zecchino d'oro dell'underground (Snowdonia/Audioglobe, 2005)
Toychestra – Spider Lullaby / Maisie – Alberi E Fabbriche / Amari – Le Scatole Per I Piedi Di Marcello / Saint
Ferdinand – Sai Perché Non Mi Piace Il Sol? / Blessed Child Opera – La Danza Dell’orso / Es – Piccola E Ben
Compiuta / Eh300244a – Voce Bianca/Rumore Bianco / Land – Ai Limiti / Masoko – La Compagnia / Marlene
Kuntz – Bellezza / Mariposa – Male Di Miele / Taxi_So Far – Un Gioco… Lugubre / Aidoru – Lo Scoiattolo E La Libellula /
Rosolina Mar – La Canzone Delle Tre Vite / Hello Daylight – Vom
I bambini vivono in terza persona. Sono una tenera, fragile, lucrosa terza persona. Fanno “oh” per la consolazione e il rimorso e la
meraviglia della nostra coscienza sporca. Eppure, va tutto bene. Fa tutto arredamento nella cameretta fitta di ammennicoli antiurto,
modulari, colorati, radioattivi, psicoattivi. Dove l’importante, come diceva Gaber, è non fumare.
A questo punto, entra in gioco Snowdonia. E che fa? Offre ai bambini la prima persona. Li mette in gioco. Nel gioco intrattabile, ispido,
astruso che è - a volte - il rock “indie”, che a queste latitudini fa presto a chiamarsi “underground”. Quindici artisti (tutti italiani tranne gli
statunitensi Toychestra) per quindici tracce cantate assieme a bambini rigorosamente dilettanti (fa sorridere e intristire doverlo precisare,
ma tant’è), spesso nipoti o cugini o figli del vicino. L’obiettivo, naturalmente, condiziona la scrittura, che spesso bazzica il terreno del
fiabesco, dell’onirico, del meraviglioso. Però da questo incontro chi ne esce davvero rinnovato, attenzione, sono proprio i bambini, e
quindi la nostra di loro percezione (dura a morire, la terza persona). Sono, sembrano, bambini autentici: malferme le tonalità e il timing,
implume la drammatizzazione, appena qualche barbaglio d’impostazione qua e là. Bambini veri, lontani un abisso dai carletti perfetti, dai
coccodrilli saputelli, dai genius hollywoodiani. Bambini lietamente impuri, contaminati dal viverci accanto, con già in nuce la loro
piccola schiavitù catodica e globalizzata. L’intento è assieme bislacco e geniale, la combinazione è improbabile, e il risultato non dissipa
certo queste sensazioni. Anzi, le rafforza. Ed è un risultato strepitoso. L’improbabilità di fondo sostiene ogni canzone, le sposta su un
equilibrio nuovo, le fa arrabattare di favola e incoscienza (beate l’una e l’altra). Lucide come un sogno senza misura. Innocue e crudeli
come la dolcezza. Indimenticabili, come la dolcezza. Situazioni sorprendenti, disarmanti, un’angoscia per ogni incanto, come il
downtempo in panavision dei Land (la sofisticheria à la Zero 7 di Ai limiti), come l’electro aliena e sbrigliata (tra The Books e
Royksopp, poniamo) degli Amari, come il prog-folk onirico dei Blessed Child Opera.
Approcci diversi, diverse densità e tensioni e livelli d’esercizio, ma la stessa rivelazione fragrante in ognuno, come uno squarcio nel
tessuto della comunicazione “normale”, che il compilatore non compila bene, che la fotocamera non sa digitalizzare. Incomprimibile,
intraducibile. Come nell’ineffabile insidia lalleggiante targata Aidoru, nella struggente collosità post-pop dei Maisie, nella burattinesca
perversione di Taxi_so far. Ci sono i Marlene Kuntz (che riadattano Bellezza) ed è impossibile non citarli, ma davvero ogni episodio
meriterebbe una chiosa: dallo straziante delirio house/funk dei eh300244a (velvettianamente intitolato Voce bianca/rumore bianco)
all’irresistibile filastrocca nonsense dei Saint ferdinand, dall’hip-hop sordido e birichino degli Hello daylight fino allo sberleffo
giocattolo tirato dai Mariposa all’icastica Male di miele. E poi tutti gli altri, che non cito per la ghigliottina dello spazio (scusate).
Insomma, un’idea strepitosa tiene al guinzaglio questa combriccola di (in)trepidi esecutori sulla cresta di uno stato prossimo alla grazia.
Poi, naturalmente, c’è l’imprinting Snowdonia, nell’impasto di leggerezza sferzante e implicazioni dissimulate, nel libretto che al solito
anzi più del solito è un pozzo di trovate e mancanza di riguardo (irresistibili le testimonianze autografe dei bimbi).
Disco dell’anno, per ora. God bless Cinzia e Alberto. (8.0/10)
Stefano Solventi
Afterhours - Ballate per piccole iene (Mescal, 2005)
La Sottile Linea Bianca / Ballata Per La Mia Piccola Iena / La Fine La Più Importante / Ci Sono Molti Modi /
La Vedova Bianca / Carne Fresca / Male In Polvere / Chissà Com´È / Il Sangue Di Giuda / Il Compleanno Di
Andrea
Nonostante le perturbazioni soniche (i riverberi angolosi, gli organi crudi, la “normale anomalia” del violino amplificato…), lo stile
Afterhours si fa sempre più quadrato e prevedibile, funzionale al progetto di elettro-muraglie carismatiche erette a barricare l’irrequieta
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sensibilità di Agnelli. Proprio come la di lui voce - così refrattaria alla misura, sistematicamente votata all’esplosione emotiva –
contraddistingue più d’ogni altra cosa il sound dell’ensemble.
Sembra proprio che il buon Manuel intenda riempire, con lucida sagacia, una casella pressoché vuota nel panorama italico, quella del
rocker selvatico e scafato, in bilico tra mondanità alternativa e crudo wild side, uno che lo shobiz preferisce cavalcarlo prima di farsi
ingroppare. Chiamatelo pragmatismo, oppure opportunismo, dipende da quanto siete ben disposti verso l’uomo. Altrimenti potreste
vederlo come l’esito più ovvio per le attitudini di Agnelli, da sempre tese alla quadratura dell’urlo primordiale, alla strategia raziocinante
(e quindi anche beffarda) come camicia di contenimento per una smaniosa, febbrile disanima della situazione. In ogni caso, gli
riconoscerete una certa abilità nel conseguire l’obiettivo. In questo quadro, non stupisce che le velleità “sperimentali” abbiano ceduto il
passo, e che i testi all’insegna di un cut-up shockante siano divenuti gli smerigliati esercizi di cinismo d’oggidì. Feedback e distorsioni,
ballate e scorribande, ipnotiche delicatezze folk-blues e deflagranti acidità definiscono quindi un ibrido tra dimensione autoriale e
psichedelia, tracciano una strada che non manca d’intrigare, per quanto adombri una sorta di compromesso. Di cui non resta che
accontentarci, consapevoli cioè che ad ogni manifestazione convincente (la sordidezza incalzante di Ballata per la mia piccola iena) si
contrapporrà un ordigno volenteroso ma didascalico (come la nocchiuta filastrocca de La vedova bianca) oppure formalmente irrisolto
(come la scabra alternanza tra sussurri e grida nella languida Ci sono molti modi). Sembra rispondere ad un disegno naturale anche la
collaborazione-amicizia con Greg Dulli, co-produttore del disco, almeno a giudicare dall’overdose drammaturgica Afghan Whigs ben
metabolizzata nella torbida Il sangue di Giuda e nella decadente Carne fresca (infetta e spietata, la controparte soul di Punto G). Ed è
altresì rimarcabile la presenza di John Parish al missaggio, che di sicuro contribuisce a rendere la trama intensa, squamosa, cigolante (si
sentano i barbagli di violino e slide in Male in polvere o i feedback concitati della processione mefistofelica La sottile linea bianca).
Tuttavia, non si esce dal quadro, la cornice è invalicabile, la calligrafia – seppure splendidamente livida – non ammette tralignamenti. Per
dire, Chissà com’è sta nel mezzo tra un funk rock turgido e un glam irsuto, mentre E’ la fine la più importante fa heavy fuzzante e
vitaminico come dei Blue Cheer posterizzati Lenny Kravitz: entrambe sono la riprova, il segno evidente, di una rigidità compositiva e
formale ormai più che presunta, malgrado si tenti di spacciarla per muscolare manifestazione psych. Il compleanno di Andrea è, invece,
la misura del rimpianto: sorta di fantasma claudicante e accorato, diafano e denso, stremato e misteriosamente febbrile, fa ciò che
Agnelli/Afterhours potrebbero e dovrebbero fare più spesso. Spacca, subdolo e pietoso, il cuore. (6.1/10)
Stefano Solventi
The Go-Betweens - Oceans Apart (Tuition, 2005)
Here Comes A City / Finding You / Born To A Family / No Reason To Cry / Boundary Rider / Darlinghurst
Nights / Lavender / Statue / This Night's For You / Mountains Near Delray
Sono le recensioni più difficili da scrivere, queste. Perché basterebbero due righe, anzi cinque parole: i soliti impagabili, appaganti
Go-Betweens. Tanto vale però sfruttare questa convergenza di spazio, tempo e pazienza (la vostra) per riflettere sulla tenacia di
questo incanto, su come e perché questo rituale di dieci-canzoni-dieci riesca a cavarsela giocando civettuolo sul limite tra rito
artigianale e ineffabile sonico. Oceans Apart è l’ennesima tappa di quel processo che conduce la mediocrità aurea dei due
australiani verso l’olimpo dei songwriter: per quella capacità di tener vivo il brio e il mistero, l’entusiasmo e la scrupolosità,
l’intemperanza e il puntiglio. E’ pop colto e straccione, sobrio e scellerato, fiorito su una composta di rottami new wave e psych,
folk e glam, RnB e Tin Pan Alley. E’ un miracolo di equilibrio che si rinnova ogni volta, un po’ come si sciolgono con
sbalorditiva puntualità certe reliquie di (presunto) sangue. Non stupisce più la sostanza dell’evento, ma sbalordisce la prospettiva
che delinea. Ogni istante, ogni nota, ogni timbro, ogni inflessione melodica testimoniano un progetto che si sa schiavo di una
passione senza fine, di voglia d’appagarla e di quel po’ di talento necessario affinché questo accada. Ecco la scandalosa
rivelazione di Robert Forster e Grant McLennan: la musica è qualcosa che avviene, e lo fa a livello del suolo. Con metodo, con
l’intensa umiltà di chi mette in gioco tutto se stesso e nient’altro. Gli obiettivi, la loro ubicazione & dimensione (utopie,
rivelazioni, rivoluzioni, giudizi, anamnesi…), non sono il metro di giudizio, o almeno non il più importante. Non quanto la gittata,
la traiettoria e di quanto la freccia si avvicini al centro del bersaglio, per quanto trascurabile o banale esso sia.
Con la loro “regola” dei dieci brani per scaletta, i Go-Betweens sembrano comunicare “quantitativamente” il loro livello
professionale ed artistico: né meno né più che questo rientra nelle loro possibilità, questo fanno e lo fanno bene.
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Perché Finding You, ad esempio, è la ballata che potrebbe scrivere un Robyn Hitchcock accaldato e sognante, perché Statue è un
folk-wave intriso di esotismo come i New Order più lievi ipnotizzati da un calypso, perché Darlinghurst nights è quel
meccanismo implacabile che divarica spazi ed accumula sostanze (chitarre, tastiere, archi, ottoni…) intrecciando un tripudio
festoso e ghignante. Perché Mountains near delray è quella ballata ondeggiante e cisposa simile a certe inestimabili interlocuzioni
R.e.m. come dai R.e.m., ahimé, non ci si attende più. C’è insomma che questi due ex ragazzi non conoscono – per costituzione,
per istinto, per attitudine – il linguaggio delle classifiche né i codici delle pietre miliari, ma conoscono le strade che portano al
cuore (anzi che si immischiano nel cuore, come la ragione sociale insinua) di chi dall’ascolto pretende la sua piccola, meritata
razione di trasporto. Forse è molto, forse poco, ma così è. Se vi pare. (6.9/10)
Stefano Solventi
Akron/Family - s/t (Young God, 2005)
Before And Again / Suchness / A Part Of Corey / Italy / I’ll Be On The Water / Running, Returning / Afford /
Interlude: Ak Ak Was The Boat They Sailed In On / Sorrow Boy / Shoes / Lumen / How Do I Know /
Franny/You’re Human / Untitled
Quando pensi che la tua cartina geografica sia una cosa su cui contare, quando l’hai ben stesa e appena incorniciata, ecco che
cambiano i confini, talvolta pure le coordinate. Un piccolo particolare fuori posto e salta tutto. Gli Akron/Family fanno proprio
questo: introducono il loro minuscolo, sconvolgente elemento di novità. Stiamo parlando di folk, di quello che sembrava essere di
nuovo e non essere più, di come trasfigurasse attraverso le maglie dell’elettronica o si perpetuasse come una sorta di monito
consapevole della propria obsolescenza. Il folk come ingrediente d’un filtro ipnotico, monito antico nel cuore di meccanismi
ipermoderni. Oppure il folk-feticcio che gioca a negare il trascorrere di anni, decenni, epoche, al solo scopo di rendere evidente
uno scarto, una distanza facile da colmare – diciamo così – “culturalmente”, tuttavia irriducibile, ben presente ad ogni attimo
dell’ascolto. Il folk impossibile quindi come puro mezzo espressivo, perché anche esercizio di modernariato, perché anche
unguento per afflitte (o peggio derelitte) nostalgie. Gli Akron/Family, invece, fanno un folk senza “anche”, un folk, di nuovo,
possibile: ecco la loro piccola rivolta. Un folk che parla il presente al presente e con voce propria, con urgenza e scienza, con
sensibilità aspra e sottile. Un folk carrozzone che ha attraversato gli anni, i decenni, le epoche. Un folk che è folk e basta, senza
prefissi né suffissi, perché quelli che porta addosso altro non sono che i segni del guado (barbagli acidi, squarci wave, frattaglie
sintetiche). La mistura si compone di ingredienti diversissimi eppure fratelli: slide e sintetizzatori, chitarroni martoriati e violini,
tapes e trombe, fisarmoniche e campanellini, una voce che armeggia con disinvoltura tra flemma polverosa e apatia indolenzita (si
ascolti lo struggente finale di Franny/you’re human), i cori che si disimpegnano con padronanza insospettabile (la bettola
iridescente imbastita in coda a Shoes, i fantasmi Beatles – quelli di Because – ammiccati in Before and again). Li aiuta il fatto
d’essere ragazzi nord europei trapiantati in America, tempo e spazio e totem inevitabilmente sbaragliati. Assolutamente degno di
menzione anche il loro mentore, quel Michael Gira già al lavoro sull’asteroide “prewar” piovutogli addosso nelle ineffabili vesti
di Devendra Banhart. Avrete capito però che con quest’ultimo ci sono ben pochi punti in comune: qui infatti può capitare
d’imbattersi in ciondolanti peregrinazioni Red House Painters trafitte d’ebbrezza Incredibile Strings Band ed epica Mùm (la
stupenda Italy), in chincaglierie The Books tra arpeggi ipnotici e geremiadi Thom Yorke (l’impressionante Running, returning, la
solenne Lumen), in filigrane Black Heart Procession che schiantano al suolo dolceagre doglianze Sodastream (la già citata,
ectoplasmatica Before and again) o in fragili, nude, crude, diafane angosce Roger Waters (i found sounds di Interlude: ak ak was
the boat they sailed in on e la lucida irrequietezza di How do I know). E poi ancora ecco sbocciare le escrescenze Eno di A part of
corey e Sorrow boy (quest’ultima un’allibente ninna nanna soul sintetica), il lieve cartiglio M. Ward di Afford, la gravità
nostalgica e visionaria della ghost track (come se Radar Bros., Jason Molina e Early Days Miners si fossero dati appuntamento ai
confini del mondo conosciuto), e infine i Waterboys stravolti, gli ectoplasmi Barrett, i Simon & Garfunkel impagliati di
Suchness. Densità e leggerezza, complessità che si liquefanno in quadretti tanto stranianti quanto familiari. Canzoni che smaniano
per essere qualcosa di più, per liberare gli ormeggi, ma poi finiscono con l’accontentarsi della loro natura. Che è folk. Friabile e
solenne, innocente e selvaggio, tenero e derelitto, visionario e disperato. Scritto col siero – formidabile e malsano - del tempo in
cui nasce. Oggi. (7.8/10)
Stefano Solventi
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Jennifer Gentle – Valende (Sub Pop/Audioglobe, 2005)
Universal Daughter / I Do Dream You / Tiny Holes / Circles Of Sorrow / The Garden Pt.1 / Hessesopoa / The
Garden Pt.2 / Golden Drawings / Liquid Coffee / Nothing Makes Sense
Arrivare fino a Seattle e tornare: il minimo necessario per una band nostrana di qualità, che ha come obiettivo quello di uscire
dalla clandestinità carbonara indipendente? In un certo senso sì, dato che l’approdo su Sub Pop ha smosso un po’ di acque ed ha
rivelato le potenzialità dei Jennifer Gentle anche a coloro che del sottobosco italiano se ne sono sempre fregati. E d’altra parte un
singolo come I Do Dream You non può lasciare indifferente nemmeno un ascoltatore che non abbia mai sentito parlare della scena
alternativa, tanto è il potenziale radiofonico di un pop così scanzonato. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di un album con tre
anime: quella più allegra e divertente, dove traspira appieno l’ironia e la goliardia di Marco e Alessio, quella più ragionata, dove
lo spleen delle ballate rimanda direttamente alle atmosfere fiabesche di certe memorie anni settanta, ed infine quella più libera e
sregolata, fatto di eccessi ed improvvisi spaesamenti. Il viaggio intrapreso da Valende porta dritto al nucleo dell’album, quasi un
percorso di progressiva assuefazione che culmina con gli intermezzi da menestrelli di The Garden (parte 1 & 2) e le follie
psicotrope di Hessesopoa . È in questa traccia che l’aspetto free form prende il sopravvento, dando vita a visioni allucinate, caos
lisergico e tremori spettrali; un incubo degno dei film di Polansky, un brano angosciante ed allo stesso tempo innocente che si
dissolve in un effetto notte disturbato. Da qui il tragitto si fa inverso, con Golden Drawings e Liquid Coffee che tornano ad un
clima incantato e carezzevole per poi arrivare al finale esuberante e scherzoso di Nothing Makes Sense. Un disco concepito non
come semplice raccolta di brani da enumerare l’uno di seguito all’altro, bensì come un’opera ben strutturata ed allo stesso tempo
variopinta, che merita l’attenzione speciale di quanti avranno l’accortezza di procurarselo. (7.1/10)
Michele Casella
King Creosote – Rocket D.I.Y. (Fence / Domino, 2005)
Twin Tub Twin / Saffy Nool / Klutz / Crow’s Feet / Spooned Out On Tick / Ph 6.5 / Circle My Demise / King
Bubbles In Sand / The Things, Things, Things / A Month Of Firts / Thrills And Spills / The Someone Else
Il regno del Fife (Scozia) ha un nuovo re e il suo nome è King Creosote, al secolo Kenny Anderson. Non più e non solo antica
terra di pacifici pescatori, ora l’East Neuk può annoverare tra le sue bellezze anche il Fence Collective, moderna corporazione di
menestrelli, che raccoglie band, dj ed artisti solisti dell’intero reame, di cui lo strambo re è il fondatore. Dopo aver militato nella
Skuobhie Dubh Orchestra e nei Khartoum Heroes, il prolifico autore si rende conto che molto del suo materiale mal si presta
sia per l’uno (non abbastanza folk/bluegrass) che per l’altro (troppo poche le corde a disposizione) progetto. Decide così di far
tutto da solo. Dal 1994 inizia a produrre in proprio infiniti cd-r, circolati per vie traverse e semiclandestine, che finiranno per
comporre Kenny And Beth’s Musakal Boat Riders, raccolta del 2003 per casa Domino, una sorta di panoramica dei suoi ultimi
nove anni di attività. Siamo nel 2005 e con Rocket D.I.Y possiamo finalmente parlare di debutto ufficiale. Dodici nuovi e
smaglianti brani, questa volta editi per la sua etichetta, la Fence Records, imbastiti grazie all’aiuto di alcuni membri del
collettivo: James Yorkston, U.N.P.O.C. e i suoi due fratelli Pip Dylan e Lone Pigeon (co-fondatore della Beta Band).
Questo è un disco folk, lo diciamo subito, ma nella sua accezione più genuina. La tradizione scozzese, ed inglese tutta, è la base su
cui si ergono semplici quanto affascinanti composizioni, che ora strizzano l’occhio al pop, ora civettano con giochi elettronici, ora
si ubriacano di caustica malinconia delle highlands. E forse non è un caso (o forse è solo uno dei tanti scherzi del destino) che la
voce di Anderson sia incredibilmete simile a quella del baronetto Mc Cartney, spietatamente suadente e melodica, perfetta sia da
sola (in Twin Tub Twin si accompagna con un piano e un brusio di suoni in sottofondo, quasi un motivo gregoriano al contrario),
sia nei controcanti (la seconda voce in Crow’s Feet si affianca alla principale, distorta ed effettata, dando un senso di meravigliosa
diacronia). Ed è ancora lei a rendersi protagonista di una immaginifica Thrills And Spills, un falsetto appena sussurrato
all’orecchio che si perde, sul finire, in un vocalizzo soprano mandato in loop. Piccole accortezze che rendono l’ascolto sempre
nuovo ed intrigante, che spingono alla continua ricerca di particolari, nascosti tra le pieghe della più classica strumentazione folk.
Il portentoso ritmo di Saffy Nool (risposta sagace alla paura di un amico di fronte allo scorrere del tempo) cattura dal primo
secondo, con un basso nervoso e pulsante, il banjo che si insinua nel ritornello e il rullare dei tamburi frenetico. Una tensione che
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sembra non esplodere mai, se non fosse per l’escursione di una fisarmonica proprio quando non ci si aspetta. Sound corposo anche
in Klutz, aperta da chitarra acustica, piano e voli pindarici di synth, mentre cori di bambini fanno beatamente sorridere in pH 6.5.
Momenti di quiete suggeriscono invece Circle My Demise (contraltare degli islandesi Sigur Ros, nenia che spira dall’alto di una
scogliera a strapiombo sul mare) e The Someone Else (racconto poetico di un idillio infranto). L’impeccabile forma canzone torna
prepotentemente nella raggiante e scanzonata King Bubbles In Sand, i cui numi tutelari sono senza ombra di dubbio i Beatles.
A questo punto, non resta che godersi la bellezza e l’eccentricità misurata di Rocket D.I.Y.. Oggi la Scozia non è solo Belle &
Sebastian o Mogwai (per dirne un paio), ma anche il folk psichedelico e mistico di King Creosote. Un augurio al nuovo monarca
perchè il suo regno - che immaginiamo in festa da tempo - duri il più a lungo possibile. (7.5/10)
Valentina Cassano
Moby - Hotel (Mute, 2005)
Hotel Intro / Raining Again / Beautiful / Lift Me Up / Where You End / Temptation / Spiders / Dream About
Me / Very / I Like It / Love Should / Slipping Away / Forever / Homeward Angel
Impossibile, accostandosi a questo disco, non tener conto della sinistra presenza del singolo-tormentone Lift Me Up - il cui il
fastidio provocato è pari a quello di una zanzara in camera da letto - sia che si decida, con una punta di malsano masochismo, di
(ri)sorbirselo sia che si lavori di fast forward. E’ dunque con un pizzico di prevenzione che ci si accosta a quest’ultimo lavoro del
poliedrico musicista, e le nuove composizioni, scontate e patinate, non la scacciano del tutto, ahimè.
Quelli che un tempo erano stati motivetti ruffiani ma accattivanti, capaci di riscuotere consensi presso pubblico e critica si sono
trasformati in prove tecniche per aspiranti tormentoni e successi da classifica che suonano, peraltro, pericolosamente
autoreferenziali. Tanto che il rischio maggiore in cui Moby rischia oggi di incappare è quello di apparire sempre più la caricatura
di se stesso. Per certi versi, questo era esattamente il genere di disco che tutti si aspettavano, necessario per consentirgli di
continuare a godere del suo status di pop star a tutti gli effetti. Perfetto ingranaggio all’interno del music business.
Anche la fu elettronica finisce così, con sommo sbigottimento degli astanti, per rimandare sempre più alle suonerie polifoniche dei
diabolici telefoni cellulari e non c’è melodia, nemmeno la più azzeccata, che si salvi e non soccomba sotto i puntuali (quanto
scialbi) cori del ritornello di turno. Troppo mestiere e poca freschezza in questo Hotel. Durante le quattordici tracce si sparano
numerose ed assortite cartucce ma tutte paiono caricate a salve (vedi la scialba cover della neworderiana Temptation), nessuno
spunto è veramente geniale (o quantomeno accattivante), nessun momento monopolizza davvero l’attenzione e nulla rimane alla
fine del faticoso ascolto. Relegati nel finale si trovano gli unici momenti da salvare, rappresentati da alcune ballate riuscite e di
sicura presa (Love Should e Forever) in cui Moby rivela il proprio lato più intimo. Per il dj newyorkese che aveva sapientemente
quanto furbescamente saputo fondere dance, elettronica e pop in un polpettone easy but trendy pare, insomma, essersi esaurita la
vena creativa, complice anche una formula che, dopo anni di saccheggiamenti subiti da più fronti, alza bandiera bianca mostrando
tutti i propri limiti. Rimane la speranza che questo album rappresenti solamente un passaggio a vuoto: l’autore stesso ci pare
troppo sveglio per pensare di averla data a bere anche questa volta. (4.9/10)
Gianluca Talia
Zen Circus – Vita ed Opinioni di Nello Scarpellini, Gentiluomo (L’Amico
Immaginario / Audioglobe, 2005)
Dead In July / Les Poches Sont Vides Les Gens Sont Fous / L'inganno / A Kind Of Pop Lullaby / I Banbini Sono
Pazzi! / Hellakka / Colombia / Fino A Spaccarti Due O Tre Denti / L'Amico Immaginario / Visited By The
Ghost Of D.Boon / Aprirò Un Bar / Summer (Of Love)
Può un disco irriverente, parodistico, amabilmente cazzone come questo riuscire nel paradossale intento di far prendere sul serio i
propri autori? Per quanto strana possa suonare, la scommessa lanciata dai pisani Zen Circus con Vita ed Opinioni di Nello
Scarpellini, Gentiluomo (quarto album in studio e primo per la loro etichetta L’Amico Immaginario) è pienamente vinta.
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Per chi si fosse perso qualcosa: il trio (Appino: chitarra e voce; Ufo, basso; Karim Qquru: batteria) porta in giro da circa una
decina d’anni un vigoroso e divertente garage’n’roll di scuola Violent Femmes; alle spalle, un paio di autoproduzioni, un bel po’
di concerti e diversi contest di rilevanza nazionale. Se il precedente Doctor Seduction (il primo lavoro “veramente” prodotto,
uscito all’inizio del 2004) allestiva per l’occasione scenari poppeggianti e un po’ ruffianotti (seppur efficaci), il vero salto di
qualità arriva con questo nuovissimo disco che è, come dicevamo, insieme un gioco e un azzardo. Anziché rincorrere nuovamente
l’appeal melodico-accattivante di canzoni e arrangiamenti, gli Zen Circus preferiscono gettarsi (e gettarci) a capofitto nel loro
universo burlesco, imboccando allo stesso tempo nuove strade. Accanto alle – come di consueto - anglofone Dead in july (pop di
ascendenza Gun Club), Hellakka (country punkettone à la Gordon Gano), Colombia (minacciosa come i migliori Dream
Syndicate), Visited By the Ghost of D.Boon (i Meat Puppets in versione garage), e all’ottima Les poches sont vides les gens sont
fous, troviamo una serie di episodi in lingua italiana che contribuiscono a definire risolutamente l’immaginario - è il caso di dirlo
– di questi musicisti. Attraverso liriche pungenti care a certo nostro cantautorato (le reminiscenze De Andrè in L’inganno, la
pseudo-ballad Fino a spaccarti due o tre denti, una Beetlebum disillusa), ripescaggi demenziali dei nostri favolosi ’60 (il beat à la
Rokes del brano-manifesto L’amico immaginario, o la scapestrata I banbini sono pazzi, delirio in stile Rocky Roberts / Mal),
omaggi e parodie (rispettivamente di Rino Gaetano e del Vasco nazionale in Aprirò un Bar), la band pisana costruisce e definisce
il proprio universo poetico, consolida la propria realtà e la rende ancora più accessibile. Ridendo e scherzando, gli Zen Circus
sfornano un disco importante: non ancora perfetto, certo, ma importante. D’altronde sono loro stessi a dire: Non credere mai a chi
canta di mestiere / la faccia è troppo, troppo vicina al sedere (da L’inganno). Come si fa a non prenderli sul serio, stavolta?
(6.9/10)
Antonio Puglia
Oneida - The Wedding (Jagjaguvar, 2005)
The Eiger / Lavender / Spirits / Run Through My Hair / High Life / Did I Die / You're Drifiting Charlemagne
Know / Heavenly Choir / Leaves / The Beginning Is Nigh / August Morning Haze
Potranno sembrarvi impazziti d’un tratto, o estremamente coraggiosi, o inaspettatamente rammolliti. Gli Oneida, già. Proprio quei nerd
from NYC capaci di squinternare antiche muffe garage psych a furia di sgassate kraute, quelli che una furia progettata a tavolino è pur
sempre furiosa, quelli che una quadratura ritmica è un congegno a baionetta e gli assolo squarciano la coltre acida con aggraziata foga da
shrapnel. Loro, insomma, tornano con un disco infarcito di: archi e melodia.
Avete letto bene. Archi e melodia. Non mancano – certo che no - di spianare gli usuali orditi psichedelici: visioni a folate, ispide &
chimiche come rigurgiti Ultimate Spinach (si prenda all’uopo il lento incedere tra gorghi di watt, fantasmagorie elettroniche e deliri
proto-floydiani di Heavenly Choir), gorghi lugubri e urticanti come marci deliri Jefferson Airplane (vedi la concrezione blues di Spirits,
organi in fiamme, cori anfetaminici, chitarre esotiche e campanellini). E non manca la scienza inesorabile di chi sa triturare il piglio
beffardo degli Stranglers e i tatticismi dei più aspri Talking Heads (nell’allucinante Lavender), o virare con disinvoltura una torrida
escursione MC5 nella più ipnotica e seriale strategia Neu (la scellerata Did I Die). Però la scaletta è aperta da una The Eiger che ti fa
ipotizzare gli ormai defunti Beta Band in vestigia da camera, incalzante e romantica come dei Left Banke redivivi o un Vivaldi sotto
lsd. Per non dire degli archi accorati tra synth madreperlacei di Charlemagne – quasi gli ultimi Rev in suadente parata – o della
squillante mestizia folk abbozzata nella conclusiva August Morning Haze - uno degli episodi più "dolci" mai licenziati dagli Oneida.
Oppure ancora dell’ibrido medievale/elettrico/sintetico di Run Through My Hair e infine della marcia stolida tra archi volteggianti di
Know. Sboccia una sensazione laterale, che si tratti cioè di un espediente per sfuggire al cul de sac stilistico che – malgrado l’apparente
vitalità e l’indiscutibile entusiasmo - si prefigurava all’orizzonte. Sensazione che non si dissolve del tutto né apprendendo l’età del
progetto (pare che girasse loro in testa dal 2001) né imbattendosi in stordenti ritorni di fiamma quali il blues pulsante e alieno di The
Beginning Is Nigh (tra clangori desertici, sfrigolii acidi e refoli spaziali sembra i Primal Scream alle prese con un denso sogno Pink
Floyd) o l’allibente marcetta giocattolo di High Life (organini e drum machine, batteria e archi, fatamorgana di chitarre e cori – ancora Beta Band). Si prenda dunque questo disco per quello che più sembra, un lavoro di transizione che spande curiosità, dubbi e buone
vibrazioni in ugual misura. I posteri – e i postumi – sono i soli abilitati a dirne di più. (6.7/10)
Stefano Solventi
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Nine Inch Nails – With Teeth (Interscope - 2005)
All The Love In The World / You Know What You Are / The Collector / The Hand That Feeds / Love Is Not
Enough / Every Day Is Exactly The Same / With Teeth / Only / Getting Smaller / Sunspots / The Line Begins
To Blur / Beside You In Time / Right Where It Belongs Home
“ There are things that I said I would never do, there are fears that I cannot believe have come true”.
Ricomincia da zero Trent Reznor, anzi, da sé stesso. Che poi, dal momento che il fondo del barile l’ha toccato per davvero, la
sostanza non cambia. Quello che porta alla realizzazione di questo With Teeth perciò, a sei anni di distanza dalla pubblicazione
dall’ultimo disco di inediti, è un percorso anzitutto umano. Tutto ha inizio nel 1999, dopo il balzo al primo posto in classifica del
fortunato The Fragile,quando Reznor, minato nel corpo e nello spirito (preda di devastanti crisi depressive e debilitato dall’ abuso
di alcolici e stupefacenti) si trova ad un bivio e, tra lasciarsi sprofondare oppure reagire, sceglie con saggezza. Sceglie di rimanere
aggrappato, Coi Denti appunto, alla propria barca che affonda e che, oggi, dopo aver accettato, ammettendole, le proprie
responsabilità pare essere riuscito a ricondurre verso acque meno tempestose. In questi 56 minuti è racchiuso il travaglio umano di
un artista che, sulla fatidica soglia dei quarant’ anni, dopo aver indicato nuovi orizzonti musicali, è costretto a rimettersi in gioco
per dimostrare a sé stesso che nel tentativo di salvare l’uomo non si sia dovuto sacrificare il musicista.
Mister NIN con questo disco vuole dimostrare al mondo intero che, anche se il tonfo è stato doloroso, è tornato in piedi, e decide
di farlo nella maniera che oggi gli è più congeniale: per mezzo, cioè, di un pugno di composizioni autobiografiche, figlie di un’
urgenza espressiva che costringe a cambiare lo scenario della battaglia. Abbandonata la consueta trincea, ci si muove su territori
più confacenti alle nuove esigenze, partendo dal pop per finire (addirittura) alla disco. In questo senso il distacco dal precedente
quasi strumentale di The Fragile è marcatissimo. La nuova formula, che in un primo momento potrà anche lasciare spiazzati,
viene applicata con alterne fortune, ed alle zoppicanti The Hand That Feeds e Every Day Is Exactly The Same si contrappone la
convincente The Collector, uno degli episodi migliori dell’ album insieme alla sorprendente (in tutti i sensi) Only - un pezzo dalle
sonorità apertamente disco che arriva dritta dritta dagli anni ottanta (!) per farci ricredere su qualche luogo comune – ed alla
melodia venata di soul dell’iniziale All The Love In The World. Le reminescenze dell’ heavy-tronica che fu, comunque, sono
ancora ben udibili ma la furia latente si manifesta in rari momenti, ed eccezion fatta per la rabbiosa You Know What Your Are, non
raggiunge mai i picchi a cui aveva abituato in passato, lasciando nell’aria, peraltro, l’odore acre del manierismo. With Teeth
insomma non fa altro che confermare sospetti covati da tempo, che le sonorità industrial cioè, dopo aver conosciuto il proprio
apice di popolarità e creatività durante gli anni novanta, hanno esaurito le cartucce a disposizione, ed oggi, insieme a quel
decennio ancora tutto da decifrare, salutiamo anche una delle sue maggiori creature, ed è un saluto che sa di addio. (6.4/10)
Gianluca Talia
Teenage Fanclub – Man–Made (PeMa/Audioglobe, 2005)
It’s All In My Mind / Time Stops / Nowhere / Save / Slow Fade / Only With You / Cells / Feel / Fallen Leaves
/ Flowing / Born Under A Good Sign / Don’t Hide
Con la raccolta del 2003 Four Thousand Seven Hundred And Sixty Six Seconds era parso che i Teenage Fanclub avessero
chiuso le porte della loro creatività con una doppia mandata, e un po’ dispiaceva l’idea di doverne fare a meno. Stando però ai
fatti, la retrospettiva (che sancisce la fine del contratto con la Sony) non è tanto uno sconsolato sguardo sul passato, quanto un
volgersi verso il futuro. E il futuro è il nuovo Man–Made. Registrato per la prima volta fuori del Regno Unito, e precisamente a
Chicago, l’album sembra risentire non solo del cambiamento climatico (dovuto ai due diversi periodi delle session, una in
febbraio, l’altra in estate), ma anche del cambiamento geografico. La componente viaggio li ha portati a non pianificare nè dove
nè come lavorare, immergendosi del tutto nell’atmosfera rilassata ed egualitaria che da sempre caratterizza la scena musicale della
città del vento (basti sapere che in mancanza di una chitarra acustica, ne hanno chiesta una prestito a Jeff Tweedy).
Piccoli particolari che chiariscono una rinnovata e salutare vitatlità. Era dai tempi di Grand Prix (1995), infatti, che non si
ascoltavano melodie tanto solari e contagiose, come il drumming rigoroso e cadenzato di It’s All In My Mind o la freschezza tutta
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chitarre di Slow Fade. La migliore tradizione sixties e seventies con il tocco lieve che i Fannies hanno sempre dimostrato di avere
nei loro sedici anni di attività, germoglia in tutto il suo splendore in Fallen Leaves. D’altronde non hanno mai nascosto le loro più
dirette influenze, a partire dai Byrds per finire ai Beatles. E perchè farlo se il risultato è un’accattivante e seducente Save?
Apparentemente inquieta e blanda nel suo andamento, rivela un ritornello tutto gioia & vita, sostenuto da una romantica sezione
d’archi. Tastiere morbide, intrecci vocali perfettamente in sincrono, liriche che inneggiano all’amore: queste le perle messe in fila
nelle dodici tracce, di cui una, la più preziosa – Cells – è un pop folk fragrante che non fa rimpiangere una I Gotta Know dei bei
tempi che furono. Che la schiettezza e la naturalezza del sound sia merito anche della produzione McEntire (Tortoise) è indubbio
(la scoppiettante rigogliosità di Born Under A Good Sign è tutta da gustare). Allo stesso tempo è chiaro che la separazione dalla
Sony e la conquistata indipendenza artistica (l’album è pubblicato dalla loro neonata PeMa), abbiano giocato un ruolo
fondamentale, soprattutto in termini di libertà. Salutiamo quindi con favore Man–Made e il ritorno dei Teenage Fanclub, che
riescono ancora una volta a soffiare via un po’ di polvere e a togliersi qualche anno dalle spalle. Come siano in grado di farlo,
rimane un mistero e, sinceramente, preferiamo non scoprirlo mai. (6.8/10)
Valentina Cassano
Populous – Queue For Love (Morr Music / Wide, 2005)
The Breakfast Drama / My Winter Vacation / Pawn Shop Close / Bunco / Sundae Pitch / The Dixie Saga /
Dance-Hall Nostalgia / Magam Samba / Clap Like Breeze / Hip-Hop Cocotte / Canoe Canow / Drop City
La strada del glitch hop e delle nuove tendenze dell’elettronica non conduce più soltanto negli U.S.A. Grazie ad Andrea Mangia,
conosciuto come Populous, anche l’Italia alza la voce per rendersi partecipe di una delle più interessanti evoluzioni musicali del
nuovo millennio. Dopo gli esordi legati all’IDM/electronica e un percorso di avvicinamento (non solo musicale, ma anche
filosofico a detta sua) all’hip-hop, Populous si impone come uno dei fenomeni più interessanti del momento su una scena sempre
più contaminata e innovativa.La presenza di un ospite d’eccezione come Doseone, voce dei (purtroppo) defunti cLOUDDEAD, la
dice lunga sulle influenze e le intenzioni di quest’album, secondo capitolo per questo musicista/produttore nostrano. La differenza
con Quipo, il suo esordio, è evidente: la riduzione del glitch da elemento fondante a semplice parte di un insieme molto più
complesso mette in risalto uno spiccato gusto per le sonorità d’atmosfera. L’hip-hop, pur essendo la materia basica della sua
musica, viene scomposto e utilizzato in modo alquanto intellettuale, viene decontestualizzato e ricostruito, indebolendone il lato
per così dire “ballabile” pur mantenendone la complessità. Un po’ come è successo negli anni ’60 e ’70 con la sperimentazione
jazzistica, il processo di rivisitazione dell’hip-hop ha connotati fortemente “bianchi” (mi si passi la grossolana dicotomia
bianco/nero per indicare due approcci tendenzialmente diversi alla musica: uno più intellettuale per tradizione, l’altro più fisico e
legato al ballo). Di questo Andrea è perfettamente consapevole e sembra essere proprio questa consapevolezza la sua forza
innovativa.
Queue for love è un lavoro raffinato e sofisticato nonostante sia stato registrato interamente nel bagno di casa (benedette
tecnologie!!). Basterebbero i 50 secondi dell’intro The Breakfast Drama e la bellezza di My winter vacation (complice il rapping
nasale e calmo di Doseone) a sintetizzare l’importanza rilevante delle sonorità ambient, dei tappeti di synth eno-iani e degli
sfilacciamenti elettronici che costituiscono la materia costante di tutto l’album, impastata a dovere con beats tipicamente hip hop. I
patiti delle classificazioni di generi potrebbero parlare di ambient-hop vista l’importanza che viene data a queste due musiche. Ma
non basterebbe a descrivere un lavoro che accosta l’electro più algida alla morbidezza del soul (complice anche la bellissima voce
di Matilde degli Studio Davoli); il sincopato ritmico del reggae e la profondità del dub (The Dixie Saga, Dance-Hall Nostalgia);
sfumature jazz à la Four Tet e atmosfere dreamy (Magam Samba, Clap Like Breeze); delicati campionamenti di strumenti acustici
dal sapore new age e passaggi r’n’b (Pawn Shop Close, Canoe Canow). Difficile trasmettere tanta sensibilità con delle macchine,
cosa che a Populous riesce non bene, ma benissimo. Solo chi riesce a usare il campionamento come se fosse uno strumento può
dar vita a un capolavoro come Drop city, un funk da b-movie anni ’70 scomposto e ricomposto in chiave drum’n’bass.
In definitiva un disco che potrebbe aprire un nuovo filone, molto interessante, nel nostro paese, rispetto a un genere che conserva
ancora un alto grado di imprevedibilità e ancora molti territori da scoprire. (7.5/10)
Daniele Follero
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Bruce Springsteen – Devils & Dust (Sony/Columbia, 2005)
Devils & Dust / All The Way Home / Reno / Long Time Comin' / Black Cowboys / Maria's Bed / Silver
Palomino / Jesus Was An Only Son / Leah / The Hitter / All I'm Thinkin' About / Matamoras Banks
Accadde dopo l’apoteosi romantica e fracassona di The River. Accadde dopo l’adrenalinica quadratura di Born in the Usa.
Accadde dopo le esecrabili patinature losangeline di Human Touch/Lucky Town. Infine, accade oggi dopo il tonitruante The
Rising: Bruce Springsteen, colui che un tempo amavamo chiamare il Boss, dopo un bagno di luce prova a restituirsi alle ombre, ai
margini da cui proviene. Via dalle icastiche autocelebrazioni con la E-street Band, via dai palchi e dai tour torrenziali, di nuovo
solo nella stanza con la compagnia di una chitarra, tastiere ed armonica. Più un piccolo aiuto di Steve Jordan alla batteria e
Brendan “binaurale” O’Brien alla produzione e al basso.
Se cercate Devils & Dust sulla mappa, provate quindi a incrociare le coordinate di Nebraska, Tunnel of Love e The Ghost of
Tom Joad: del primo a dire il vero si fatica a scorgere le tracce, giusto un po’ di quella vertigine centrifuga, non certo l’asprezza
ululante né la spettrale urgenza; del secondo ha invece la disillusione, la presa di coscienza che prosciuga le illusioni, e malgrado
tutto quell’impasto di speranza e dolcezza, di una via intima anzi domestica alla realizzazione dei sogni; del Tom Joad ha il
baluginare dei fuochi, i ponti sul nulla, la polvere e l’ordine impazzito del mondo come un alone biancastro che tutto ricopre.
Ma soprattutto - e per fortuna - Springsteen recupera la prima persona, abbandona la liturgia corale che sentì necessaria per The
Rising senza prevedere la frana retorica che lo avrebbe travolto. Ecco dunque tornare quegli uomini e quelle donne soli, minime
concitazioni di palpiti e miserie, struggenti irrilevanti flebili destini sullo sfondo formidabile d’America, che non premia né
schiaccia ma sta come un immenso idolo di pietra. Irraggiungibile, indifferente, muta. Ecco tornare, come si è detto, i falò e la
polvere, e i fiumi, e la luna che scava la terra fino alle ossa, la notte e Dio, le strade e il whisky, l’amore sfilacciato e l’amore
malgrado tutto, perfino il sesso come mai ha abitato le labbra di Bruce (l’esplicita relazione con una prostituta nella filigrana folk
di Reno, squallore e tenerezza tra slide cigolante ed emulsione d’archi): è un’autentica parata di elementi primari, quasi che
attraverso questi l’idea stessa di Nazione – divenuta iper dopo l’undicisettembre - significasse di meno, si dissolvesse
d’insensatezza. Questa annichilente dialettica tra coscienza individuale e sovra-coscienza nazionale pervade tutto. Non è certo un
caso infatti che la title track, pezzo peraltro tra i più prevedibili del lotto, rimandi in maniera abbastanza palese al dilemma etico
della guerra irakena, o che tra il romanticismo patinato ma trascinante di Long Time Comin’ (cori ventosi e fiddle in resta) spunti
un plumbeo “this god forsaken world”, o che la strada che porta a Leah (dolciastra ballata tutta coretti, nebbioline di synth e un
refolo di tromba) sia trafitta da tenebre e dubbi.
L’origine è certa, l’intento è chiaro: sermoneggiare all'America e al mondo circa un’America (un mondo?) che esiste ancora
nonostante e attraverso la distorsione assolutista della sua manifestazione mediatica. Annunciare che esistono i dubbi, i rimorsi, le
speranze, il dolore e l'amore senza patria né bandiere. Una coscienza per ognuno, insomma. Per questo è ancora necessario
abbozzare la tragica figura del pugile clandestino in The Hitter (uno di quei suoi soliti folk chitarra acustica e un barbaglio di
synth, ineffabile e tedioso), o i germogli di speranza nel livido squarcio suburbano di Black Cowboys (come sopra, ma con la
benedizione di piano e organo), o l’oscura rievocazione di un amore annegato (ucciso?) in Matamoras Banks (con gli archi che
sembrano mulinelli sul pelo di un’acqua nera). A questo punto occorre dire ciò che forse avrei dovuto fin da subito: ovvero che
Devils & Dust, musicalmente, è un disco modesto, sapiente barcamenarsi tra modi e forme sapute e risapute. Tu chiamalo se vuoi
country folk, al più asperso di fregola gospel – si ascolti Maria’s Bed - e vaghi afrori psych – come nell’impetuosa cavalcata di All
The Way Home. Nulla che non si sia già ascoltato in circostanze ben più energiche o dense o circostanziate. Una bolla d’aria che
sboccia sul minestrone raffermo, esplode in una rapida voragine e si richiude come nulla fosse. Badate bene, più di questo da
Springsteen francamente non mi aspetto. Perché sembra mancargli quella solennità da outcast maledetto che rese lancinante
l’ultimo Cash, insostenibile quello sguardo, brutale la voragine di quella voce. Già classico e integrato, Cash fece di sé l’icona
della perturbazione dimenticata, una persistenza di peccato originale, l’ombra che si annida in ogni momento di ogni giorno tra la
Frontiera e il Sogno. Il problema di Bruce è di suonare come un tumulto già da lungo tempo arreso. Certo, il suo tocco è ancora
inconfondibile, come pochi sa guardare al cuore della questione. Ma la sua è, ad oggi, una classicità senza nerbo, un punto di vista
senza scarto né distanza: come potrebbe affondare i colpi se, in parte, è lui stesso la questione? Buone le intenzioni, insomma. Ma
questo Boss è un pesce nel barile. Cui auguriamo di ritrovare presto il fiume. (6.1/10)
Stefano Solventi
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Yuppie Flu - Toast Masters (Homesleep, 2005)
Glueing All The Fragments / Our Nature / Stray On Free / A Good Guide / Make A Stand / Together /
Better Than Ever / One Shot / Pain Is Over / Vultures And Fortune / Europe Is Different
Ho sempre sospettato che i capolavori mancati fossero ben più importanti, in senso positivo, di quanto si usa comunemente ritenere.
Anche quelli che, come Days Before The Day, mortificano speranze e prospettive sul punto di giganteggiare, condannando gli Yuppie
Flu al ruolo di band dalla statura tanto dignitosa quanto non imprescindibile. Invece, gli anconetani sembrano mettere pienamente a frutto
la lezione di Days e quindi si riformulano alla luce di una maggiore sbrigliatezza, annusando quote più basse, gli istinti basilari di anime
giovani in bilico tra contemporaneità e subbuglio.
E’ come se il caracollare ispido e angoloso degli esordi, quell’inseguire squinternato e struggente la buona stella dei Pavement,
prendesse per la collottola l’ambizione popadelica e la riconducesse a più miti consigli. Col risultato di andare a parare nel cortile
dolceagro e ancheggiante dei Go-Betweens. Già, proprio quelle trame da trepidi mestieranti, quelle vivide scontatezze, quelle
impeccabili, impagabili, irresistibili oziosità. Vedi il caso di Vultures And Fortune (dove s’imbrattano di modernariato Notwist), vedi A
Good Guide (tra evanescenze folk-psych à la Mercury Rev), vedi il fatalismo scanzonato di Our Nature (cuori che attraversano la
tormenta col passo di una marcetta Abba) o la mesta impertinenza dell’iniziale Glueing All The Fragments. Una dimensione antieroica
che si attaglia perfettamente al progetto Yuppie Flu, permettendo loro di muoversi con disinvoltura (a partire dalla voce di Matteo, più
corposa e rilassata, finalmente – aehm - sopportabile) tra preziosismi pop di varia natura ed estrazione: inturgiditi “power” come
nell’impudenza dolciastra à la Sparklehorse di Pain Is Over, onirici come nella cantilenante Stray On Free (nenia pseudo-Oasis in
mezzo ad una friggitoria cosmica di corde e tastiere, finale robotico che sembra gli Air rifatti dagli Archive), oppure più torbidi come
nella strascicata One Shot (quasi avessero aggiunto additivo Lou Reed nel serbatoio). Tutto ciò all’insegna di un’immediatezza
facilmente assimilabile, senza però venir meno al lavoro sulle confezioni: vedi gli ammiccamenti di (pseudo?) theremin e piano in
Togheter (l’indie che sogna il kraut secondo la lezione dei Notwist), quel violoncello cartilaginoso che staglia indolenziti scenari
Giardini di Mirò in Better Than Ever, oppure la vaga eco Brian Eno che balena nell’acido delle tastiere di Make A Stand (bella
cospirazione Rev su plateau orizzontale Radar Bros.). Spiace un po’ che il carico divenga sovraccarico nella conclusiva Europe Is
Different, troppi gli archi e la liquida sinuosità della slide per questa ballata dolceagra, salvata a stento dallo strano impasto di “impegno”
e understatement che la fa sembrare una ferita invisibile aperta ovunque ci sia una coscienza sintonizzata.
Così, sospeso tra il banale e il frizzante, tra il prevedibile e l’accorato, tra l’impudente e il saccente, Toast Masters si offre agile e
accorato, fresco e amarognolo. Uno squisito dischetto di guitar pop, niente più, niente meno. Gli si può ben dedicare qualche batticuore
intanto che sboccia – voglia o non voglia – la primavera. Non più di questo, magari: però se andate a dirglielo, agli Yuppie Flu, probabile
che non gli dispiaccia. (6.7/10)
Stefano Solventi
Stephen Malkmus - Face The Truth (Matador, 2005)
Pencil Rot / It Kills / I've Hardly Been / Freeze The Saints / Loud Cloud Crowd No More Shoes / Mama /
Kindling For The Master / Post-Paint Boy / Baby C'mon / Malediction
Tempo di bilanci per Malkmus. Saranno gli “anta”sempre più vicini, la sopraggiunta paternità, i quindici – e rotti – anni di carriera sulle
spalle (e possiamo solo immaginare quanto possano pesare, nel suo caso); di fatto, Face The Truth - titolo quanto mai emblematico - ci
consegna uno Stephen diverso. Anzitutto, via la band. I Jicks, la “sacra alleanza” alla quale il suo nome sembrava vincolato in pianta
stabile (specie dopo Pig Lib che, per certi versi, è un lavoro corale), compaiono soltanto qua e là come ospiti occasionali: il Nostro
stavolta ha fatto - quasi - tutto da solo, accollandosi anche gli oneri di produzione. Chiuso nello studio del suo scantinato Steve ha dato,
forse per la prima volta in assoluto, libero sfogo al proprio individualismo, elaborando arrangiamenti tra i più vari e stratificati della sua
carriera; le incursioni nei generi più disparati, il frequente ricorso a sovraincisioni (novità quasi assoluta del suo repertorio), l’utilizzo più
frequente di effetti elettronici rendono questo il lavoro più eterogeneo (e per certi versi ambizioso) finora sfornato in solitaria da
Malkmus; ma ciò che rende diverso l’album non è tanto la forma in sé. C’è una strana tensione che attraversa le undici tracce di Face the
Truth, qualcosa di impalpabile, eppure presente. Il melodismo pavementiano c’è sempre (Freeze The Saints, Post-Paint Boy, It kills), ma
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sembra pervaso da vibrazioni che hanno qualcosa di insolito (di adulto, verrebbe da dire). Per intenderci, l’ex Pavement non è meno
gigione del solito, tantomeno serioso, anzi: suona esattamente come te lo aspetti: referenziale e classico (il folk rock della bellissima
Mama o le immancabili vibrazioni Stones del singolone Baby C’mon), uguale a sé stesso ma comunque in vena di giochi (vedi la discofunk mutante Beck-iana di Pencil Rot e Kindling for the Master) e sperimentazioni (le riuscite Loud Cloud Crowd e Malediction, tra
psichedelia e popadelico d’annata), a volte fallendo il colpo (la calligrafica jam in stile tardi Sonic Youth di No More Shoes, o il pop
spigoloso e schizofrenico della non memorabile I’ve hardly been), senza comunque mai rinunciare a quello scazzo semi-parodistico che
sempre lo ha contraddistinto (si scoprano sornione citazioni nascoste di Rod Stewart e Kiss, per chi ha l’orecchio particolarmente
allenato).
Cosa resta alla fine? Resta la strana sensazione di sentirlo incazzato, Stephen. Forse l’eterno collegiale è davvero cresciuto, e la
consapevolezza (a tutti i livelli) di un disco come Face The Truth ne è la prova (quasi) definitiva. (7.1/10)
Antonio Puglia
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ALTRI ALBUM
numero di loro simili, gli A Frames sono venuti fuori con un
terzo disco che seduce, conquista e, fatto ben più raro,
A Frames - Black Forest (Sub Pop, 2005)
convince. (7.0/10)
Marina Pierri
Gli A Frames suonano esattamente come se un Arrington De
Dionyso ai tempi di Lost Light avesse improvvisamente deciso
Allun - Onitsed (Bar La Muerte, 2005)
di cantare come Colin Newman ai tempi di 154. E cantasse di
foreste nere, macerie postmoderne, civilizzazioni arrivate al
Con questo nuovo lavoro dal titolo nuovamente invertito
classico punto di non ritorno e certezze in frantumi, ma lo
(nuovamente su Bar La Muerte, ma con collaborazioni varie:
facesse ridacchiando con l’aria subdola di chi in definitiva non
Vida Loca, Post Romantic Empire, etc.), le Allun spostano il
ha niente da perdere. In questo senso, soprattutto,Black
loro posizionamento nell’alternative italico. Saltato a piè pari
Forestappartiene ad un’altra epoca e ad un’altra dimensione:
l’underground duro e puro, la band si trova ora in quel limbo di
quella del post punk sporco dei Killing Joke e dei Savage
(pseudo) visibilità che le consacra definitivamente come band
Republic, altrimenti detto a quegli 80s che, pur nella cupezza
dotata di un tanto genuino quanto provvidenziale status di
dei presagi del decennio successivo, si armavano di humour
culto.Tanto per cominciare, c’è la nuova conformazione della
nero e mescolavano il cinismo ad un pop passato su e giù per
line-up, ridotta per l’ennesima volta (ai loro esordi si potevano
una
pece.
contare cinque ragazze) dopo la defezione di Alessia. Ora ci
La tracklist nel complesso disegna per aria ghirigori sonori
sono soltanto la solita Stefania (voce, chitarra e violino) e la
sfacciatamente lugubri, pestando gli strumenti quasi ci fosse da
graphic
liberarsi della paura; così, coi bassi in prima linea, ed i cantati
mangianastri), più le collaborazioni di Silvia Grosso, e A034
che se non fosse per qualche occasionale intrusione femminile
all’elettronica.Il risultato più evidente e sostanzioso della loro
assomiglierebbero al cabaret beffardo di uno storpio, ci si fa
mutata ragione sociale si ha con il baricentro del disco, Le belle
investire (in)felicemente dal suono. Galena è costruita su riff
addormentate, un complesso tour-de-force di quasi 20 minuti,
ipnotici loopati ed handclapping; la buona produzione, marca a
strutturato a mo’ di poema sinfonico, con tanto di indicazioni
dovere il rumore del plettro del basso sulle corde mentre si
metronomiche e operistiche (o da sinfonia/suite barocca). E’
pensa, tutto sommato, al pop destrutturato e logoro di certi
soprattutto una sorta di Hosianna Mantra sopraffatto,
Flipper (ripescati silenziosamente nei primi anni novanta).
oltraggiato e violentato dal Mayo Thompson più disturbato, un
Death Train, il pezzo più orecchiabile del disco, suona
cinico programma di illustrazione di atrocità perverse che passa
curiosamente pavementiana – una specie di lavaggio del
attraverso il campionario vocale di Stefania (ora spasimo grave,
cervello fitto di backing vocals, stretto nella struttura del verse-
ora grido soffocato, ora cantilena come streghetta malefica), il
chorus-verse mentre Eva Braun mal cela una buona ascendenza
rumore ottenuto con gli oggetti più banali (compresi motorini di
Dischord. Non si può fare a meno di notare che i tre migliori
frullatori) e l’elettronica spartana. A spiccare è soprattutto l’uso
momenti del disco siano i tre segmenti della medesima title-
avveniristico degli strumenti giocattolo (o dei giocattoli veri e
track: Black Forest I, II e III aggroviglia basso, chitarra ed
propri), come le finte pistole laser, a dare vita a lamine di suono
drumming (autentica spina dorsale) in una suite che, ricomposta
incandescente, mentre i conati di Stefania si trasformano in
nei suoi tre momenti uguali e diversi (la prima strumentale, la
lamento gracidante da Diamanda Galas diafana. Ma vedasi
seconda pulita, la terza distorta) incanterebbe i serpenti per ore
anche la dimensione di anti-teatro Ionesco-iano presente nella
(e questa si, che è reminiscente degli Old Time Relijun)
telefonata-farsa di Stefania nel bel mezzo del frastuono più
facendo imperterrita, nelle liriche, il verso alle atmosfere di
spaccatimpani, nel quinto movimento, o ancora i campioni di
reclusione domestica di un pezzo come Ex-Lion Tamer. Anche
bambini al gioco storpiati da un maldestro cut-up di Natalia,
Memoranda, simile nella struttura a Black Forest perché
che fanno capolino tra il settimo e il nono movimento. E’ tutto
altrettanto catchy ed altrattanto cupa, merita una menzione.La
un trastullarsi con il noise, sia nell’ammontare di altezze
Sub Pop, dopo qualche anno in sordina e un paio di dischi
indefinite
spettacolari sommersi da altrettante produzioni inutili, torna alla
nell'impedimento alla comunicazione, e alla comunicazione
ciminiera
fino
a diventare
nero
come
la
designer
secondo
Natalia
i
nobili
(elettrodomestici,
dettami
di
giocattoli,
Varèse,
sia
ribalta con un asso nella manica come Black Forest: in grado
vitale.
di sintetizzare ottime - quanto inflazionate - influenze acustiche
!otnemidarT, l’altra punta del disco, attacca con stridori lontani,
senza quasi la minima ridondanza e mistificazione di un buon
sovrastati da una scura ma melodica linea di piano à la
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Francesco Magnelli (suonata da Mae Starr dei Rollerball) e
Dawn (che a sorpresa si apre sul finale in una calda brezza di
con palpiti electro accoppiati con un violino isterico (tutto
cori e crepuscoli di violini). Diverse per ciascuno dei dodici
tremoli impazziti e glissando gracidanti), secondo un mood da
brani, le soluzioni d'arrangiamento rappresentano altrettante
noir espressionista. Le due tracce brevi, Due bambine nel bosco
intuizioni soppesate con gusto e grazia, che tengono conto delle
e enif aL (rispettivamente apertura e chiusura del disco), sono il
storie, degli umori e degli intrecci vocali di quel songwriter che
filo spinato che delimita la zona calda del disco. La prima
avevamo lasciato in un limbo cantautoral-amatoriale depresso e
dichiara gli intenti cerimoniali di ispirarsi alle filastrocche per
sdrucito. Grazie al collettivo, Mike Gira, alleggerito di dieci
bambini (Alla galera non pensavo, citata in apertura dalle due
zavorre, ritrova la forma in un folk-pop mai così orecchiabile,
ragazze in coro), poco prima di venire sommersa e devastata
con il suo crooning a mescolarsi persino a coretti di beatles-iana
dagli strati dissonanti Mars-iani della chitarra di Stefania. La
memoria sullo sfondo di selci e grano. Sorprende dunque,
chiusa, tanto rarefatta quanto rachitica, è basata su un filo di
sentirlo lievitare dopo tante contorsioni all'inferno e in terra,
violino stonato in stile Twin Infinitives, a chiudere l’opera in
eppure l'ex Swans non rinnega certo il passato e la prevedibilità
un’atmosfera da meriggio d’oltretomba.
delle soluzioni canore adottate, da leggersi come continuità con
Quello approntato in questo disco è un illustre paradosso, anche
una storia e un percorso, sono un lampante gioco di specchi che
se poco letterato e bisognoso dell’apporto live, come un regime
riporta a una medesima catarsi musical-esistenziale.A fronte di
anarchico regolato da un oligopolio. Vale più come
un paio di episodi veramente validi come My Friend Thor e
composizione (e interpretazione) che come enunciazione. Di
Dawn e altrettanti un po' abusati (Lena's Song e Michael's
nuovo prevale la coincidenza tra gesto e fatto artistico: una
White Hands), The Angels Of Light Sing "Other People" non
volta aumentata l'ambizione, la musica delle Allun riceve
sarà ai livelli della produzione passata, ma sicuramente è un
vigore visionario e carica distruttiva portata agli eccessi del
discreto album. (6.5/10)
parossismo, delle tecniche automatiche surrealiste. Il disco è
Edoardo Bridda
corredato da un pregevole portfolio a colori, di una quarantina
di pagine - e curato ovviamente dalla stessa Natalia, con foto e
immagini tratte dai recenti happening live, e dal videoclip di
Due
bambine
nel
bosco,
che
insieme
costituiscono
approfondimenti del loro apparato simbolico (e del loro
personale universo) audio-visuale, non semplici strumenti
promozionali. Il nuovo progetto solista di Stefania (in realtà in
cantiere fin dal 2003) si chiama? Alos, in cui performa
cucinando. (6.7/10)
Animal Collective featuring Vashti Bunyan
- Prospect Hummer (Fat Cat/Wide, Ep,
2005)
Vashti Bunyan, come tutti certamente sapranno, non è un
santone indiano, ma una folk singer inglese. Vedi alla voce Ulla
Jacobsson, ma dando molto meno scandalo, Vashti ha ballato
una sola estate, quella del 1970, l'anno di uscita del suo unico e
di conseguenza ambitissimo album, Just Another Diamond
Michele Saran
Angels Of Light - The Angels Of Light Sing
"Other People" (Young God / Goodfellas)
Day. Miss Bunyan non era però una pivella, avendo esordito
nel '65 con un singolo scritto nientepopodimenoché dalla
coppia non ancora brontosaura-del-rock formata da Mick
Jagger e Keith Richard (la esse era ancora di là da venire).
Più che parlare dell’ultima produzione di Michael Gira, sarebbe
Ah, all'epoca Vashti era una specie di Marianne Faithfull
forse più interessante rimandare il lettore all’ottimo album di
mora (ci siamo capiti), esplusa dalla scuola d'arte perché
Akron/Family che qui cura gli arrangiamenti.
passava più tempo a cantare che a dipingere. Dopo il "giorno di
Copiosi sono gli indizi in questo The Angels Of Light Sing
diamante", un buen retiro in Irlanda (dove mette su famiglia) e
"Other People" che evidenziano la calligrafia accattivante
più nulla di musicale - se escludiamo (nel Duemila) la
della travelling family e ne stimolano l'ascolto, e questo accade
pubblicazione su cd del "Diamond Day" - fino al 2004, quando
specialmente nelle buone sezioni d’archi che aprono la gioiosa
Devendra Banhart ce la fa trovare in Rejoicing The Hands.
solitudine di The Kid Is Always Breaking, e soprattutto per
Della serie: ognuno ha la Loretta Lynn che si merita.
l’intaglio finissimo della trama di My Friend Thor (saliscendi di
Probabilmente stufa di marmellate e centrini, Vashti ci riprova
arrangiamenti fantasma dentro e fuori da una foresta, cori dalle
nel 2005 con gli Animal Collective, ed è una sorta di ritorno
chiare reminiscenze Wilson-iane), in quella fragrante di On The
alle origini, se è vero che Miss Bunyan si era fatta ritrarre sulla
Mountain (banjo, chitarra al bottleneck e acustica in sublime
copertina di Just Another Diamond Day in compagnia di un
sovrapposizione) e infine in quella country/magico-mistica di
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cavallo, una mucca, due cani e una pecora (bianca, ma col muso
in quel continuare a fagocitare micro liquami sonici triturati,
nero).
spezzati, grattati, sciolti (in quel indurre il recensore ad essere
Gli animali che si è scelta - o che l'hanno scelta, ma fa lo stesso
altrettanto pesante da leggere…)
- per questo Ep sono un po' meno domestici, ma tutto sommato
Fa solo rabbia ascoltare una traccia come Submit (l’ultima del
non mordono e neanche fanno danni sull'aia. La vocina -
disco), nella quale un’efficacissima trasfigurazione hip hop
sussurro d'Oltremanica - di Vashti ben si sposa alle chitarre in
viene fagocitata in un delirio infinito di trastulli di circa dieci
libertà (hai visto per caso dove ho lasciato il mio arpeggio?),
minuti. Per tutti questi motivi, Untitled rappresenta un
alle vocette vocione viociacce, al dissenso del ritmo, e tiene a
logorroico ma (alla fine) innocuo marchingegno. (5.5/10)
battesimo almeno un pezzo memorabile, la title track Prospect
Edoardo Bridda
Hummer, una ninna nanna al contrario che ci lascia ben svegli
Donovan - Beat Cafe (Appleseed, 2004)
invece di farci addormentare. (7.0/10)
Ivano Rebustini
Autechre - Untitled (Warp / Wide, 2005)
Nella mia Nazionale Folk, Freak & Psych di tutti i tempi, un
Donovan in forma lo farei sempre giocare, a costo di relegare in
panchina giovani promesse appena arrivate dalle nazionali
Il ritorno degli incomunicabili in un mondo parallelo
minori, tipo Devendra Banhart o Patrick Wolf. E dal
senz'anima e volto; il cocciuto come back d'architetture
momento che Mazzola e Rivera a Mexico '70 li avrei messi in
complesse non-ritmiche, frullate, electrocentriche, figlie dirette
coppia di default, non avrei problemi ad affiancargli Nick
d'un codice intrasmissibile e forse per questo complicatissimo.
Drake, anche se il gioco a centrocampo potrebbe uscirne un po'
Nessun sopralluogo in capannoni abbandonati da raver, nessuna
involuto. Di conseguenza, mi ha fatto molto piacere che negli
fascinosa ricerca attraverso ambienti e architetture lontane dalla
ultimi tempi Mr. Leitch sia tornato a fare vita da atleta, dopo
vita, non fusioni di elementi quali ferro e fuoco e nemmeno
anni e anni trascorsi allenandosi poco e male, buttando via tutto
sguazzi in liquidi amniotici alieni; nessuna Rsdio (Tri-Repetae),
quello che aveva costruito di buono, quando non di ottimo, nel
VI Scose Poise (Confield), e Surripere (Draft 7.30) ad
corso di una lunga e onorata carriera. Pensate, non ho più
accogliere l'ascoltatore-astronauta alla caccia di timbri mai
neanche bisogno di ricordargli la bruciante esclusione dalle
sentiti prima, al loro posto gineprai di scansioni bidimensionali,
convocazioni: era il 1982, e questo qui non ti incide insieme
snobistici grovigli tentacolari, convulsi zapping polirtmici e
alla figlia Astrella di 10 anni (una fissa, quella della musica con
gelatinosi. Non avendo a che fare con nulla di tutto ciò, Untitled
e per i bambini, che comunque non l'avrebbe più abbandonato)
rappresenta il probabile compendio di una carriera, l'album nel
la sigla di chiusura del Festival di Sanremo, Ci siamo anche
quale il prefisso aut acquista un senso compiuto e, forse per
noi? Come se Donovan in concert, uno dei più bei live mai
questo, definitivo.
pubblicati, non fosse farina del suo sacco, ma del sacco di un
Con tutta l'aut-orità di una siffatta certosina ricerca sul ritmo,
gemello più coerente e talentuoso. Senza contare che il Festival
l'ultima fatica del duo (che da sempre si arrovella su questi
quell'anno lo apriva Pippo Franco gracchiando Che fico: ho
temi) risulta così nel bilico del rètro: da una parte, come muse
detto tutto.
fatue di un cosmo inane, ritornano le melodie sparute e alla
Dal momento che stare in tribuna o davanti al televisore a
deriva proprio come non se ne sentivano da anni, dall'altra brani
guardare gli altri che inseguono il pallone non piace a nessuno,
come LCC, Ipacial, Pro Radii e Fermium riprendono
Donovan - una volta scemata la rabbia per l'accantonamento - si
suggestioni ben note agli appassionati di Amber, Tri-Repetae e
è rimesso in carreggiata, e nel '96 è arrivato Sutras, che non
EP7; tuttavia, rispetto a quei lavori, l'ascolto è tra i più ostici,
sarà A Gift From A Flower To A Garden e neanche Hurdy
reso sicuramente difficoltoso dalla durata impervia di queste
Gurdy Man, però proprio scarso non è (e così, sia pure
composizioni (quasi tutte di durata superiore agli otto minuti) e
partendo dalla panca, qualche spezzone di partita è riuscito a
dalla mancanza di un brano dal marchio distintivo.
giocarla). Altra pausona, interrotta nel 2002 da un album per
Probabilmente migliore rispetto a Draft 7.30 e certamente più
l'infanzia made in Rhino (solo quei matti...), Pied Piper, finchè
focalizzato rispetto a Confield, non si può negare a Untitled
Filippo ha deciso che era giunto il momento di darsi una - si
l’effige di intrigante cubo di Rubik la cui pesante lacuna è
spera - definitiva regolata. Ed è arrivato questo Beat Cafe.
legata indissolubilmente all'ostinata, caparbia, testarda e
Intendiamoci, Donovan va per i sessanta e la sua vita non è
insistente caponaggine dei suoi autori; in quello stordirsi in
stata delle più facili, quindi non si può pretendere troppo. Ma
nugoli cartilaginosi, in quell'imbottirsi di sostanze di non-vita,
almeno sembra aver ritrovato la voglia e anche un briciolo di
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ispirazione, pur se le cadute sono sempre in agguato. Come
ad affascinare l’immaginario dei musicisti delle nuove
dimostra la bella idea di accompagnare la suocera ottantenne,
generazioni, insinuandosi nelle pieghe più riposte delle loro
Violetta, in una sciaguratissima cover della presleiana I Can't
opere. Ma in queste due opere il blues ci cattura e sevizia in due
Help Falling In Love, che ha pure il coraggio di vendere a 7
modi completamente diversi: i Liquid Laughter Lounge
dollari
(http://www.donovan.ie/store-
Quartet lo trasfigurano nel recente May you always live with
frame.htm) insieme a un altro disco non memorabile, I'm An
Laughter (terzo lavoro sulla lunga distanza in cinque anni )
American (questo addirittura 10, di dollari) di Julian Jones, il
attraverso una sensibilità prevalentemente mitteleuropea, in
figlio di Brian Jones e Linda, attuale moglie del signor Leitch
alcuni casi di ascendenza Weill/Brecht-iana (Bad Way, Black
(ma, a onor del vero, con la modica somma di dollari 45 si può
Pool, James). Tuttavia i quattro tedeschi non prescindono in
portare a casa la versione limitata e numerata di Sixty Four, un
alcuni episodi clamorosamente da forti tinte noir/notturne di
album che contiene le prime, ex inedite registrazioni di
chiara
Donovan).Quanto a Beat Cafe, non aspettatevi strani intrugli,
Resurrection), con lo spettro di Angelo Badalamenti che si
ma neanche banali melodie. Donovan torna sul luogo di un
aggira tra i solchi neanche tanto furtivamente materializzando
delitto quasi perfetto (dice qualcosa a qualcuno Barabajagal,
visioni/ectoplasmi
con il Jeff Beck Group?), ricorda a chi se lo fosse
immaginario blues dei L.L.L.Q., guidati dall’eclettico Jens
eventualmente scordato che il jazz non è estraneo alle sue
Teichmann (voce, chitarra, tastiere) permea perfidamente tutto
corde, e nessuno si azzardi a rinfacciargli trovatine bizzarre
questo album di languide e decadenti chitarre surf, keyboards
come la rock band Open Road, che dopotutto anche un certo
malsani e voci stranianti, dall’iniziale Engelberg sino al delirio
Bowie ha nel suo armadio i Tin Machine. Chiuso in studio con
finale di Maldicion, va a ser un nuevo dia. (7.0/10)
nel
proprio
store
matrice
americana
(Perfect
cinematografici
World,
lynchiani.
Rock’n’Roll
Il
torbido
una sezione ritmica coi controcosi - Danny Thompson,
membro fondatore dei Pentangle, al basso, e il prezzemolo di
Quando ho visto la foto di Guy Blakeslee per la prima volta
lusso Jim Keltner alla batteria -, Mr. Leitch si è (ri)scoperto
sulla copertina di Wandering Stranger mi è sembrato
chitarrista (niente male, oltretutto) in prima persona, a sentir lui
un’affascinante incrocio tra Syd Barrett e Marc Bolan: faccio
dopo che Jimmy Page - sua la chitarra da Grammy in Hurdy
qualche ricerca in rete e scopro che Bolan rappresenta in effetti
Gurdy Man, praticamente i Led Zeppelin più Donovan - si
da sempre un punto di riferimento del 23enne musicista di
sarebbe rifiutato di prendere parte alle session accampando le
Baltimora titolare degli Entrance. L’ascolto del disco mi rivela
scuse più disparate, mal di schiena compreso. Il risultato è un
poi che Guy riesce con modalità molto intriganti a mutuare e
sound jazzuoso e sophisticated country, non solo per la ripresa
mettere gli inconfondibili falsetti spiritati e le acute tonalità
del tradizionale The Cuckoo, con qualche puntatina ai giorni
bolaniane al servizio di una full-immersion nel blues rurale
nostri, vedi Love Floats, per cui qualcuno ha parlato addirittura
americano originario, quello più autentico ed incorrotto. In
di trip-hop, l'autoironia di Poorman's Sunshine (ai bei tempi era
questa operazione Blakeslee è in buona compagnia in questo
Sunshine Superman...) e una canzonetta-mastice come Yin My
primo scorcio di nuovo millennio: Black Keys, Pearlene,
Yang. Insomma, Donovan is back, una buona notizia non solo
Immortal Lee County Killers. Il suo sincretismo tra recupero
per la mia Nazionale Folk, Freak & Psych (che ha comunque
dello spirito luciferino del blues del Delta del Mississippi (i
ritrovato il suo fantasista).(6.5/10)
riferimenti vocali e gli omaggi ai santoni Robert Johnson,
Ivano Rebustini
Charley Patton, Blind Willie McTell, Uncle DaveMacon si
sprecano nelle liner-notes e tra i solchi di Train is leaving,
Liquid Laughter Lounge Quartet - May you
always live with Laughter (Ritchie Records
/ Goodfellas, 2005)
Entrance - Wandering Stranger
(Sketchbook / Fat Possum, 2005)
Cosa possono avere in comune una band tedesca ed una
americana apparentemente così lontane tra loro per tradizioni
musicali ed estetiche?Il blues: questa forma ancestrale e
popolare della cultura planetaria che miracolosamente e
misteriosamente riesce a nuovo millennio iniziato a continuare
Please be careful in New Orleans, Wandering Stranger,
Darling e preziosismi vocali tardo-hippie lo differenziano non
poco
dai
musicisti
sunnominati,
avvicinandolo
invece
all’adorabile eclettismo estetico di un Devendra Banhart.La
formula del trio adottata dagli Entrance è mesmerica : Paz
Lenchantin al fiddle and piano è in sintonia perfetta con i
lunghi sermoni slide ed acustici di Blakeslee (Rex’s Blues,
Lonesome Road), mentre Tommy Rouse percuote le pelli con
sobrietà e discrezione.Inevitabile rimanere invischiati nella
spiritualità profonda profana della title track e Please be careful
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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Fantomas – Suspended Animation
(Ipecac, 2005)
in New Orleans, con Blakeslee che letteralmente avviluppa con
i suoi serpentini mantra vocali intrisi di richiami blues
ancestrali.L’acme del lavoro è raggiunto comunque nei dodici
minuti dell’implacabile lancinante poesia di Lonesome Road:
una preghiera profana ad alto tasso emotivo. (8.0/10)
Dopo l’affresco magniloquente di Delirium Cordia i Fantomas
ritornano alla formula primigenia del primo disco, sostituendo
l’immaginario fumettistico da cui era scaturita la stessa ragione
Pasquale Boffoli
Eveline – Happy Birthday, Eveline!
(Shyrec, 2005)
sociale del combo con il mondo dei manga e dei cartoni
animati. L’impasto di metal, hardcore e no wave di allora viene
qui portato al parossismo, paradossalmente dall’innesto di
elementi melodici ultraminiaturizzati che aumentano il senso di
La prima uscita della neonata Shyrec di Filippo D’Este dei
vertigine e spaesamento. Ne scaturisce il perfetto manifesto del
Miraspinosa, è il debutto degli Eveline, band bolognese già
progetto Fantomas, ancor più rappresentativo del disco
attiva da cinque anni con un paio di EP e una collaborazione
omonimo.L’impianto di base, trenta microcanzoni – proprio
con gli Orange alle spalle. Sin dalle prime note di P.L.D. ,
come le trenta “pagine” del primo disco - una per ogni giorno
comincia a ronzare in testa una definizione ben precisa per
dell’aprile 2005 (con allegato un calendario illustrato da
questa musica: pop sperimentale. Può sembrare banale, ma non
Yoshitomo Nara), si ricollega alla filosofia dello storico
lo è affatto. Non si potrebbe definire altrimenti il miscuglio di
Commercial Album dei Residents da un lato e all’esperienza
stili cui ci si trova davanti, specialmente nelle prime tracce,
Naked City dall’altro, costituendone una brillante sintesi.
spiccatamente pop nella scrittura e nella concezione ma
L’intreccio di trilli, micro-jingles, riff plumbei, sventagliate di
contaminate di jazz, glitch (Jefferson Peace Yeppy Ya Ye !!! ) e
batteria che si trasformano in effetti para-elettronici è studiato
addirittura mambo/funk (Gilda). L’impressione è che i Nostri
secondo una geometria eversiva che approda a una riproduzione
vogliano - in maniera un po’ sorniona - confondere le acque
iperrealistica delle strutture del Pop e contemporaneamente
giochicchiando coi generi ma, dopo il disorientamento iniziale
dell’anti-pop, se così possiamo definire l’insieme di quei generi
(sicuramente voluto), andando avanti con l’ascolto la proposta
come il metal e l’hardcore che per segno si contrappongono a
si fa sempre più chiara e cominciano ad emergere prepotenti le
questa attitudine.
qualità – innegabili – di questo gruppo. Gli Eveline fanno
Suspended Animation disattende così i gusti dei proseliti della
propri certi stilemi tipicamente post e wave (tempi sincopati,
Pop Culture come quelli dei suoi più idiosincratici avversori,
chitarre liquide, melodie malinconiche alla Blonde Redhead)
trascendendone la dialettica su cui il mercato e le sue nicchie si
per inserirli in una scrittura di maggiore respiro- diremmo pop -
fondano
influenzata
inevitabilmente grottesca agli occhi dei suoi sottoposti. (8.0/10)
da
mostri
sacri
come
Wyatt
(omaggiato
e
rappresentandone
l’analisi
più
direttamente in Mr. Wyatt In Love, a metà tra tributo
profonda,
Lorenzo Filipaz
calligrafico e parodia ironica), Gong, 16Horsepower e
Radiohead. I risultati non tardano a farsi sentire: Sleepy Song ,
Gin.O.Lemon, 11 Years With Jennifer Hartman sono episodi
godibilissimi nelle loro architetture sonore, ricche di cadenze
soporifere, melodie sognanti e imprevisti inserti jazzy; se da un
lato una voce molto espressiva, sposata a una discreta capacità
melodica e una padronanza delle atmosfere generate sono
innegabili punti di forza, al contrario alcune trovate di
arrangiamento un po’ pretenziose guastano un po’ la visione
d’insieme.
Agli
Eveline
basta
comunque
la
finale
Lxwaldocwithme&T. - folk wyatt-iano in punta di piedi – per
farsi facilmente perdonare; e a noi, uno stimolante e gustoso
disco d’esordio come Happy Birthday, Eveline! va più che
bene. (6.8/10)
General Patton Vs the X-Ecutioners
(Ipecac, 2005)
Oggetto: Rapporto di SA sulla Joint Special Operation Task
Force del Generale Patton e degli X-ecutioners, noti anche
come X-Men, composti dalle unità Rob Swift (Offensiva tattica
al turntable), Roc Raida (Brigata di liberazione fonografica) e
Total Eclipse (Operazioni di artiglieria scratch).
Obiettivo: le spie di SA (specifichiamo: SentireAscoltare, onde
evitare confusioni con le ingloriose SturmAbtielung di Ernst
Rohm) sono penetrate nelle maglie della suddetta cospirazione
al fine di rilevare tracce di pericoloso genio o, in alternativa,
innocua pusillanimità.
Premesse: Il Generale Patton, da aprile, dirige altresì le
Antonio Puglia
operazioni Fantomas di cui abbiamo steso un rapporto altrove;
soggetto altamente pericoloso, nell’arco della sua quasi
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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ventennale carriera militare ha maneggiato con disinvoltura
previsione, licenziando un disco che sbalordirà i molti fan del
armi metal, pop di distruzione di massa, world, noise, hardcore,
collettivo norvegese. prima di tutto la decisione di ridursi la
funk, avanguardia. Il suo ingresso nelle strategie di guerriglia
ragione sociale al solo Jaga, scelta più che mai dovuta visto che
hip-hop è tuttavia cosa inedita. Gli X-Ecutioners, un gruppo di
di jazz in What We Must (Ninja Tune) se ne ascolta poco se
terroristi yankee famosi nel mondo del turntablism e del rap,
non nulla: rimane la sezione fiati, l’imponente collisione
sono recentemente (2002) balzati alle cronache per azioni di
pirotecnica tra strumenti, ma il loro compito è assolto
supporto alle campagne di Eminem.
dall’incarico jazzistico per dissolversi in trame ultra-epiche
Reclutamento: In seguito ad alcuni show improvvisati le due
come l’iniziale All I Know Is Tonight, uno shock immaginario
realtà hanno elaborato una strategia comune di 23 tracce per
tra gli Slowdive (si, proprio quelli Creation..) e manfrine prog-
46’28”. Patton ha fornito personalmente gli equipaggiamenti
rock. Il secondo appunto, non di poco conto, è la totale, o quasi,
alle milizie X-Ecutioners, traendole direttamente dalla sua
abiura
collezione di dischi. In seguito il generale ha aggiunto al lavoro
perfettamente in linea col nuovo corso: canzoni come Oslo
degli X le tracce vocali e di basso, tastiere, percussioni,
Skyline (che nel finale ricorda gli altri norvegesi Doc
rielaborando
Motorpsycho), la bifronte Swedenborgske Rom (che parte
il
tutto
sul
computer
(seconda
tecnica
del
mezzo
elettronico,
scelta
coraggiosa
ma
assolutamente inedita per Mr Patton).
estatica per poi dileguarsi in una coda, con tanto di cori
Potenza di attacco: Get Up, Punk, dopo i primi due minuti
femminili al seguito, che non dispiacerà ai fan dei Godspeed
preliminari di dichiarazioni e controspionaggio, si presenta
You! Black Emperor), le melodie spumeggianti di Hotel e
potenzialmente come una pericolossisima arma nucleare a base
Mikado, dopo un comprensivo imbarazzo iniziale, funzionano
di Nu-R’n’B, in grado di incidere pesantemente sull’ecosistema
perfettamente proprio perché a suonare non sono più i Jaga
globale. Fortunatamente lo scarso raggio d’azione offerto dai
Jazzist bensì i Jaga.
propulsori Ipecac difficilmente riuscirà a mettere l’ordigno
La chiave di volta è tutta lì, nell’accettare What We Must come
nella posizione di nuocere sui canali MTV. Le successiva
il nuovo debutto dei nostri. Passato lo scoramento, entrerà
sequela di dispositivi e tattiche confonde efficacemente le
subito nelle vostre grazie. (7.0/10)
strategie di fondo, sparando proietti da horror b-movie e
molotov di marca Fantomas su traiettorie hip-hop. Significativo
l’episodio Vaqueros Y Indios, nave civetta di bandiera latinfunk che nasconde pericolose truppe rumoriste e ludiche.
Seguono ritagli di banjo, jazz-lounge, inserti di Ligeti, rumori
da Slapstick Comedy degni di Buster Keaton, marcette di
copertura, exotica, blaxploitation music, valzerini da musichall, inquietanti paludi di suoni nelle quali emergono Fire In
The Hole, Kamikaze e Loser On Line, bombe fatte dello stesso
materiale dell’iniziale Get Up Punk. Unici episodi frontali in un
mare di continue tattiche di ripiegamento caratteristiche del
soggetto Patton.
Conclusioni: nonostante il materiale si presenti a prima vista
dozzinale e le operazioni terminino con lo sventolare di una
bandiera bianca, consigliamo vivamente il comando di non
sottovalutare codeste attività eversive, sempre pericolose come
tutte le azioni portate avanti a nome Patton.
Gianni Avella
Jens Lekman - The Opposite of Hallelujah
EP (Thievery, gennaio 2005)
Dal vivo si era capito da quale parte Jens voleva imburrare il
suo irresistibile toast: da quella dei Belle & Sebastian. Ed
ecco così il nuovo singolo The Opposide Of Hallelujah,
contrappunto di pianoforte, melodie sbarazzine per violino e
campanellini e, naturalmente, la voce di Jens... Stephen
Merritt side a ricordare proprio da vicino la band di
Glasgow.
A completare, la natalizia e fifties No Time For Breaking
Up, con tanto di gracchio di vinili (Bing Crosby? Sì,
certamente), l'altrettanto catastroficamente tua I don't wanna
die alone, e infine la soffice ballata finale Love is Still a
Mystery, con tanto di gabbiani sullo sfondo. Da avere.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Grado di Pericolosità: (6.5/10)
Lorenzo Filipaz
Mice Parade - Bem-Vinda Vontade (Fat Cat
/ Wide, maggio 2005)
Jaga – What We Must (Ninja Tune, 2005)
È proprio la scrittura a godere di uno spazio privilegiato in
Per il 2005 era prevista una collaborazione con i French-
Bem-Vinda Vontade, un album in tutto e per tutto costeggiante
poppers Tahiti 80 per un 12”, ma la storia è bruscamente
la linea meridiana di Obrigado Saudade tanto da potersi
cambiata: Lars Horntveth & Co. sono andati contro ogni
considerare il gemello. Registrato presso i Tarquin Studios a
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Bridgeport dall'ingegnere del suono Peter Katis (Interpol) e la
un’immacolata serenata d’amore anche se in All The Wine
consueta cantina del musicista a Mt Vernon (sempre nei paraggi
l’epopea Pavement dissolve gli indugi, con la voce puttana di
di NY), il lavoro, forte di una visione d'insieme fluida
Matt Beringer che declama “I’m a perfect piece of ass!”. La
compatta, è l'ideale premessa per il banco di prova del
strumentazione ed il talento cristallino della band ne è
musicista.
complice, così che il sound vira al classico songwriting,
Brani come Night Wave - primo singolo dell'album -, incisi,
nebbioso ed umbratile, secondo la tradizione di un Jacques
come nel precedente album, in presa diretta con il minimo
Brel rinforzato da Cousteau, American Music Club e
d'ingerenze al computer, sommano organicamente delicati
Tindersticks. Il quintetto dell’Ohio enuncia tuttavia i connotati
refrain
e
della propria, originale, identità, veleggiando su territori
campanellini "islandesi" a un cantato a due che abbraccia
ondulati da grazia ed incanto, echeggiando un inaudito quanto
emozioni legate alla coppia che si lasciando alle spalle i noiosi
dinamico Ian Curtis, propulsivo nei beats e pulito nella forma,
soliloqui del post-rock. Del resto brani come The Days Before
arrabbiato giusto un po’, intelligente nelle liriche e molto
Fiction (il migliore del lotto), The Boat Room e Ground As
americano nello spirito. Tristezza e celebrazione, devastazione
Cold As Common, evidenziano che la Valtýsdóttir sia oramai
amorosa
l'altra metà dei Mice Parade e questo non può che giovare alla
disperazione e mistero escatologico: l’impianto emozionale di
timida poetica di Pierce. Tuttavia benché le melodie, pur non
Alligator impacchetta e sprigiona molta più energia di tante
memorabili, guadagnano una nuova e più convincente luce,
blasonate indie-bands del momento, avendo dalla loro la
Bem-Vinda Vontade rimane pur sempre un valido acquisto per
capacità di volgere e suggerire senza arroganza, pro domo
la classe (chitarristica e arrangiativa) e la raffinatezza con la
propria, tutte le influenze dei classici. Sebbene, infine, tra i
quale sono suonati brani come The Days Before Fiction e
solchi si avverta un malcelato tentativo di seduzione della
Ground As Cold As Common Non mancano intramezzi che
compassione dell’ascoltatore, attraverso la foliazione di tragici,
guardano al passato in modo forse calligrafico (come la
intonzi, manuali d’amore, la manifestazione di cupe atmosfere
sommessa e circolare Steady As She Goes, o l'energica
depressive, di drammi esistenziali così abilmente enfiati dalla
distorsione di Passing & Gallopping), ma è indubbio che
voce di Beringer, l’espettorazione radicale del dolore segna
Pierce, ora più che mai, possa vantare una personale alternativa
composizioni dall’architettura moderata, sublimata, eterea, in
al sulfureo dub-jazz del combo capitanato da McCombs,
aperta contraddizione con l’aporetico nihilismo lamentato
un’influenza cardine di moltissimi gruppi che in lui trova un
dall’innocenza di questi paventati suoni. (6.4/10)
chitarristici,
leggiadri
contrappunti
ritmici
e
struggenti
prosecutore di spicco. (7.0/10)
dipendenze,
bellezza
e
dolore,
Antonio Amodei
Edoardo Bridda
The National – Alligator (Beggars Banquet,
2OO5)
Nick Cave & The Bad Seeds - B-Sides &
Rarities (Mute, 2005)
E’ piuttosto complicato valutare in modo obiettivo operazioni
Il Country è il rifugio emozionale della musica, la quiete
lontana ed il desiderio di una serata accompagnata da sane
letture. Con il loro terzo lavoro, i National insistono su
atmosfere afose, sdrucciole, dalle melodie traslucide e
trasudanti melanconiche sillabe alla Leonard Cohen, quando
ogni uomo, nella propria stagione autunnale, prende a
vagheggiare ogni sorta di sogno surreale. Orizzonti aurali,
arpeggi sericei, fraseggi per un piano cullato, dolce ed
inoffensivo, per densi momenti di nostalgia e rimpianto: i
Nostri occhieggiano al classico topico westcoastiano ed
Alligator ricolma di dolci e passioni guitar-pop l’anelito della
catarsi. L’album si apre con l’abbacinata Secret Meeting,
appetitosa ed evoluta versione drenata da New Radicals,
mentre Karen s’oscura del Cave più intimista e Lit Up si
che nascono con l’intento di presentare al pubblico materiale
che non proviene direttamente dalla discografia ordinaria di un
musicista. Che si tratti di b-sides, rarità o quant’altro di
sconosciuto, sotterraneo, alternativo egli possa aver prodotto e
successivamente riposto in un cassetto, non di rado si insinua
nel consumatore lo spiacevole dubbio di avere a che fare con
un’operazione commerciale mascherata da vezzo artistico che
ha l’unico scopo di scucire, spesso senza meritarlo, qualche
decina di euro in più. Non bastasse questo a far scemare
l’entusiasmo per dischi del genere, viene istintivo considerarli
come una sorta di riserva protetta per lo zoccolo duro dei fan
dell’artista e, di conseguenza, episodi prescindibili per gli altri.
Poteva sembrare naturale far rientrare nella stessa categoria
anche questo B-Sides & Rarities di Nick Cave con i Bad Seeds,
schermisce, timida, con un coro vigoroso. Baby, We’ll be Fine è
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non fosse altro per le dimensioni considerevoli – tre cd per un
Lost Arp, Monomorph), Pigna (Francisco) e Submerge; infine
totale di cinquantatre brani – e il marasma di alternative takes e
come musicista ha pubblicato i suoi lavori con alcune delle
inediti di secondo piano presenti in scaletta. E invece alla Mute
labels principe della dance-electronica a livello mondiale come
confezionano un’opera tutt’altro che disprezzabile che se da un
la Generator, la Hymen e la Skam, per poi approdare alla
lato non rinuncia alle dichiarate velleità filologiche ricorrendo a
Peacefrog (Matthew Herbert, Jello, Nouvelle Vague).
materiale in alcuni casi obiettivamente superfluo, dall’altro si fa
Anticipato da quel singolo, I House You (qui inserita come
carico di recuperare episodi importanti e ormai introvabili della
ghost track), che ha fatto agitare nell’inverno appena trascorso
ventennale carriera di Re Inchiostro. Accanto a versioni
migliaia di fondoschiena sui dancefloor più esclusivi e
acustiche di classici come Deanna, The Mercy Seat, Jack The
coraggiosi del Globo Terrestre, Sullen Look si presenta come
Ripper trova posto, ad esempio, il duetto Nick Cave/Shane
un mostro electro dotato però di molteplici tentacoli capaci di
MacGowan di What A Wonderful World o una The Six Strings
stringersi intorno all’ascoltatore (o al dj, al clubber…) senza
That Drew Blood scrostata direttamente dalle pareti ammuffite
possibilità di salvezza.
del passato a marca Birthday Party, una Tower Of Song incisa
Tentacoli composti dalle melodie malinconico-psichedeliche di
nel ’91 per un disco tributo a Leonard Cohen o Red Right
casa Boards of Canada ( le iniziali Earth’s Heart e Red Panda
Hand riveduta e corretta per il film Scream 3.
Sunrise) di giochi ritmici che rimandano direttamente ai
I dischi intraprendono una sorta di viaggio a ritroso nel passato
bagliori della migliore house made in Detroit e Chicago
dell’artista lungo un itinerario pieno di curve e saliscendi, con
(Twisted Romance), di fruibilità e appeal proprie delle divinità
lo scopo di riappropriarsi di passaggi musicali estemporanei – è
elettropop anni ’80 come Kraftwerk e New Order (C-B-S
il caso di There’s No Night Out In The Jail, brano inciso per
Master Theme), dell’ironia un po’ sbracata tipica della
una compilation di musica country australiana e mai pubblicato
italodisco, divenuta il vero fenomeno revival della stagione
–, dimenticati – The Moon Is In The Gutter – o ingiustamente
dance in terra d’Albione (Claiming My Tears Back), e
esclusi dalle tracklists ufficiali (The Ballad Of Robert Moore
ovviamente di quei suoni cupi, pieni e ossessivi della scena
and Betty Coltrane). Se dovessimo stilare una classifica dei tre
techno berlinese di primi ’90 (In My World ). Scena della quale,
cd riserveremmo probabilmente lo scalino più alto del podio ai
non ci stancheremo mai di ribadirlo, per chi non lo sapesse, o se
primi due, in parte per il livello qualitativo generale del
lo fosse dimenticato, Roma è stata una valida alternativa e
materiale registrato – andate a riascoltarvi i diciotto, deliranti,
fedele compagna di viaggio della capitale tedesca. Ma il vero
minuti di O’Malley’s Bar incisi per l’inglese Radio One –
tratto distintivo del nuovo lavoro di Passarani, il jolly che lo
dall’altro perché rappresentano fedelmente i passaggi più
pone un gradino al di sopra di tutti gli altri dischi della nuova
importanti dell’evoluzione stilistica del musicista. Il terzo, pur
ondata electro-new wave (Swayzak, Death in Vegas, Moby,
raccogliendo episodi pregevoli – Little Empty Boat su tutti -
Daft Punk, Two Lone Swordsmen, etc…) è stato il suo saper
tende tuttavia a suonare troppo monocorde e edulcorato,
amalgamare e bilanciare gli ingredienti, con gusto e precisione
ostaggio com’è di materiale proveniente da pubblicazioni più
certosina nella costruzione delle ritmiche ed in particolare delle
recenti, melodiche e, aggiungiamo noi, controverse. Resta
melodie (alcune assolutamente brethtaking per essere delle
comunque un esperimento fondamentalmente riuscito questo B-
comuni tracce dance) rendendo ogni brano della raccolta
Sides & Rarities, interessante per il neofita che si vedrà
originale e vibrante, e non una banale operazione di
recapitato
caveiana,
modernariato o restyling musicale. Sullen Look è un album
imprescindibile per l’appassionato che non saprà rinunciare
talmente trasversale, caleidoscopico e di forte impatto da essere
facilmente ad alcune “chicche” in esso contenute. (7.2/10)
perfetto per il dancefloor, per le sfilate (i giovani stilisti sono
un
sunto
efficace
della
poetica
Fabrizio Zampighi
avvertiti), per viaggi notturni ad alta velocità, per incontri
notturni di velocità (e impatto) ancora più elevati; ma anche per
Marco Passarani – Sullen Look
(Peacefrog, 2005)
passaggi radiofonici in piena giornata feriale. Tutto merito di
Criticize (cover di un pezzo di Alexander O’Neal) con il
ed un suono destinato inevitabilmente a far parlare di sé. Attivo
featuring vocale di Erlend Oye, la metà occhialuta dei Kings
Of Convenience, ribattezzato per l’occasione Orlando Occhio,
e divenuto, dopo il successo del suo album solista Unrest del
fin dai primi anni ‘90 è stato il fondatore della distribuzione
2002 (e il successivo Dj Kicks su K7!), il crooner ufficiale della
Final Frontier, delle etichette Nature (Mat 101, Raiders Of The
scena dance-electro del nuovo millennio (ulteriore conferma la
Torna il golden-boy della scena elettronica romana con un disco
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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recentissima collaborazione nel disco di Kaos dei Terranova).
La inusuale mole di collaborazioni (praticamente quasi una per
Un brano fatto di elettropop e acidhouse che si fondono
brano) rende quest’album anche una sorta di sfida tra Scott
perfettamente e dove il sogno di ballare ed innamorarsi allo
Herren e la musica: gli artisti che offrono la loro voce
stesso tempo si può dire finalmente compiuto. Sullen Look è un
appartengono a mondi musicali molto distanti, tenuti insieme
disco che riuscirà ad impossessarsi delle vostre gambe, a
dai collage di Prefuse 73. Si va dall’hip hop più “ghetto style”
stringervi la gola, ad aprire le vostre menti ed a riempirvi
di Ghostface (Hideyaface) alle sperimentazioni vocali di Beans
d’amore il cuore. Un disco totale. Da affiancare agli altri due
(Morale crusher), passando per le atmosfere soul di Now you’re
classici dell’elettronica nostrana Sounds Never Seen (Rephlex,
leaving (con Camu) e il dream pop di we go our own way, con
2003) di Lory D e Jolly Bar 2000 dei Jolly Music (Nature,
la splendida voce di Kazu Makino dei Blonde Redhead. Ma da
2000).
educazione
solo Prefuse riesce a fare anche meglio, con piccoli gioielli
sentimentale e di tecniche motorie per giovani amanti (dei suoni
electro (chiamati interludi) che si trasformano, di volta in volta,
sintetici). Ammaliante ed intenso come lo sguardo della
in
protagonista di In The Mood For Love di Wong Kar Wai.
sperimentazioni sui campionamenti (Rain edit interlude).
(8.0/10)
Una conferma e una novità allo stesso tempo: l’electro hip hop
Un
piccolo-
grande
compendio
di
Matteo Quinzi
deliri
progressive
(Silence
interlude)
o
in
pure
è nelle sue mani. (7,5/10)
Daniele Follero
Prefuse 73 – Surrounded by silence (Warp
/ Wide, 2005)
Racine – Number One (Pia-K Recordings,
2005)
Contaminare l’elettronica con le radici afro-americane dell’Hip
hop o agevolare la trasformazione dell’hip hop attraverso una
particolare attenzione per i suoni elettronici? Da qualsiasi punto
di vista li si veda, questi due fenomeni rappresentano la doppia
faccia di una stessa medaglia, due volti di uno stesso processo
di cambiamento, del quale Scott Herren alias Prefuse 73 si fa
portavoce autorevole da ormai cinque anni e tre dischi. Parlare
di Prefuse non solo vuol dire fare riferimento a uno dei più
significativi esponenti di un genere musicale che si rivolge a
una “scena” ben precisa, ma anche a un nuovo modo di
intendere la costruzione del ritmo. Estremizzando la più che
collaudata tecnica del cut-and-paste, Herren costruisce il ritmo
attraverso samplers distanti anni luce tra loro, prima
frammentando la materia musicale per poi ricostruirla a proprio
piacimento. Legato molto all’hip-hop e al soul, lo stile di
Prefuse 73 inserisce nell’elettronica un elemento tipicamente
“nero”, ritmico, fisico, quasi sempre escluso dal vasto
panorama electro. Le atmosfere ambient si tingono di soul, il
glitch va a braccetto con l’hip hop senza che nessuno dei due
debba concedere qualcosa all’altro.
Surrounded by silence ha molto il sapore della svolta o, se non
altro, di un cambiamento significativo. L’”ammorbidimento”
delle sonorità, la predilezione per atmosfere soul e jazzy sono
sintomi chiari di questa trasformazione, che prova a storicizzare
l’hip hop, trasformandolo da genere autonomo a codice
stilistico, elemento musicale a cui attingere, insieme di gesti
musicali con degli specifici significati. Il rapping diventa un
elemento musicale come gli altri, da plasmare e non da seguire.
Wendy James fu voce e immagine dei Transvision Vamp,
gruppo diviso fra spinta punk e tendenza glamour che conobbe
il suo momento di gloria alla fine degli ’80 conquistando la
vetta delle classifiche del Regno Unito. Per un fugace periodo
Wendy spopolò sui rotocalchi proponendosi come una Debbie
Harry d’Albione, ma problemi con la MCA portarono allo
scioglimento dei Vamp col sopraggiungere dei ’90. Lei
continuò da sola, riuscendo a farsi scrivere l’album di debutto
nel ’93 nientepopodimeno che da Elvis Costello. Ora, il 2005 è
stato pianificato come l’anno del rilancio sotto il moniker
Racine. Preceduto dai singoli Grease Monkey e Blond Mink
Mimi, esce in aprile l’album Number One per la sua etichetta
personale Pia-K Recordings. Stavolta Wendy fa tutto da sola:
scrittura, strumenti, produzione, ammannendo una bizzarra
ricetta che nasconde impercettibili impalcature house e
breakbeat dietro stilemi garage-rock naif alla Raincoats e
attitudine da party in stile B-52s, il tutto liofilizzato in una
confezione alla saccarina memore dei Squeeze, impalpabile
come la voce della James, sempre soffusa e moltiplicata in
overdub si da ottenere un effetto corale dai sapori onirici.
Sensazione doppiata talvolta da ritmi ovattati, che sanno di
electro alla Adult. ( il singolo Grease Monkey) e di ipnotici
retrogusti dub (Cakewalk). Accade poi che si verifichi il
procedimento inverso: Miss Patience Blues dissimula un blues
classico dietro canditi da iperglicemia e, mentre W13th si
dondola su un ritmo in levare senza darlo a vedere, That’s The
Breaks, Junior piroetta leggiadra fra cadenze lounge come
Heavy Metal Dude fa emergere ricordi di Sleater-Kinney…
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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una grande varietà all’insegna di una beatitudine pop un
Valentina Cassano
po’cool e un po’ leziosa, punto di fascino del disco ma anche
SikitikiS - Fuga dal Deserto del Tiki
(Casasonica, 2005)
suo punto debole, alla lunga. Ad ogni modo un prodotto molto
molto british, e come tale forte di un certo stile ma carente di
sale… (6.2/10)
Primo titolo per la label torinese Casasonica, creatura di Max
Lorenzo Filipaz
Savoy Grand - People And What They
Want (Glitterhouse, 2005)
"Subsonica" Casacci, e debutto anche per i palindromi
SikitikiS, da Cagliari con sagacia, perizia e un bel po’ di furore.
Sono quattro ragazzi dalla fisionomia affilata, autori di una
proposta
dilettevole,
grintosa,
obliquamente
nostalgica.
Come un asteroide argenteo, The Lost Horizon Ep ha
Mettono a frutto un manipolo di esperienze quanto mai
sguarciato il cielo dello scorso anno, dischiudendo gli animi
eterogeneo (jazz, hardcore, progressive, noise…) impastando
con la sua disperazione mitigata da una quieta rassegnazione.
materiali di recupero come se dovessero sfornare il panetto
Greve, pregno, ma dalla mano gentile, premurosa: così si
lisergico definitivo: l'immaginario fumettistico (spy e sci-fi) e
presenta People And What They Want, nuovo lavoro degli
cinematografico (noire-poliziesco italiano anni settanta) si
inglesi Savoy Grand. Non una novità, la profondità è sempre
stempera con un’imprevedibile attitudine al modernariato pop e
stata una caratteristica preponderante del terzetto. Ciò che
la verve del garage più atroce (sempre sul punto di tracimare
infatti questa volta sorprende ed affascina è la lentezza. Si,
psych).
questo disco è spaventosamente lento, ancor più dei precedenti,
Per dire, a centro scaletta t'imbatti prima nella cospirazione
e non solo perchè ci troviamo nell’ambito dello slowcore.
Malgioglio-Mina di L'importante è finire (con l'ironia - se c'è -
L’indolenza estrema che serpeggia nelle otto tracce (per un
tumulata sotto una coltre di vivido languore, il basso
totale di un’ora e dieci minuti!) ha un che di cinematico, una
piacevolmente eccessivo, le convincenti perorazioni di archi e
stregante narcolessìa che fa piombare di colpo nel sogno più
synth), poi in una stupefacente Metti un tigre nel doppio brodo,
onirico
visionario.
sardonica marcetta a firma Franco Godi/Herbert Pagani (dal
Tutto è sussurato, accennato. Non c’è clamore, ma solo calma.
meraviglioso cartoon VIP, mio fratello superuomo) innestata
Estenuante. Essenziale. Suoni dilatati fino all’inverosimile,
alla radice dell’Italia post-caroselliana. Prima e dopo, è un
spogli tanto da mostrare le ossa, fragili all’apparenza, ma in
profluvio di raffiche electro punk a gola strinita (Amore
grado di sorreggere l’infame tormento cantato dalla sofferta
nucleare), aspre quadrature funk (Ricognizione), yé-yé torbido
voce di Graham Langley. Un pathos raffinato e mai
e sfrigolante (Non avrei mai), scelleratezze surf come una
autoreferenziale, che richiama alla mente l’algida bellezza del
bagattella
Mark Hollis solista e dei tardi Talk Talk. Chitarre strascicate,
ironico/mysteriosi (Donna vampiro) e strali di cybertango fuzz
incautamente afflitte, si alternano a veri e prorpi momenti di
( Umore nero ). Spiccano due strumentali: la lugubre e siderale
stasi (la distensiva Took). Una batteria sottotono, un pianoforte
Milano odia: la polizia non può sparare (tema morriconiano
violentemente nero e un dialogo violino-chitarra sono il corpo
per l'omonimo film del '74 con un grande Tomas Milian) e
martoriato di Change Is An Engine, mentre la possente It Fell
l'exotismo noise della title track, inquietante e didascalica tra
Apart sfodera solo al sesto minuto il suo pugnale di feedback,
cartigli poliziesco/spaziali, pigolii electro e accelerate motorik.
simile ai crescendo trattenuti degli ultimi For Carnation. Se
Tocca però a La distrazione delle cose la palma del miglior
fino a questo momento lo scenario è dei più apocalittici, la
pezzo, col suo profilo psych-soul inquieto e scivoloso, il basso
dolcezza sconfinata di Last Word Before Sleep rasserena gli
cupo, l’organo quasi Floyd sullo sfondo, le tastiere a rischiare
oscuri spazi percorsi, insieme alla placida Ending Up,
orbite Air e la salmodia effettata come certe volte, ahem, i
regalando uno struggente abbraccio con Spike, come se in piena
Subsonica: ha il pregio, tra gli altri, di stemperare un
notte Langley stesse parlando dall’altra parte del telefono.
atteggiamento estetico d'insieme – da tarantiniani dell’indie
Certo manca una ferita insanabile come quella provocata da
italico - che rischiava di somigliare troppo ad una posa, un abito
Reason To Leave, ma le languide emozioni di People And
da finti arrabbiati, da loschi pulp. Tirando le somme, riff
What They Want sanno farsi strada con la stessa forza. Non
d’organo che pesano e pestano, theremin come sirene lunari,
cercate esplosioni o episodi sorprendenti (non ne troverete), ma
bassi che tralignano saturi, batteria coi controcoglioni, la voce
fatevi imprigionare e torturare dalla consolatoria lentezza dei
sempre sul pezzo a briglie tese, il gusto per certi espedienti
Savoy Grand. (6.8/10)
sonici che “agganciano” con brusca essenzialità. E - incredibile
e
Jon
Spencer
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
(R’n’r
contest),
spurghi
57
a (u)dirsi - nessuna chitarra, come gli preme d’avvisarci nel
libretto.
Che dire, non è mai facile fuggire dal deserto, da qualsiasi
deserto. Ma è un’avventura degna d’essere raccontata. E
senz’altro piacevole da seguire. (7.1/10)
Stefano Solventi
organo di Chris Cacavas sono partners discreti ma
avvolgenti in queste rivisitazioni ispiratissime e
trascendentali, letteralmente scese dal cielo per farci soffrire
con la loro bellezza sconvolgente. Le più carismatiche?
Nessun dubbio: Anthem, Drought, Mandy Breakdown, Follow
Me, For All I Care. (9.0/10)
Pasquale Boffoli
Steve Wynn - What I Did After My Band
Broke Up / Visitation Rights (DBK Works /
Goodfellas, 2005)
Stromba – Tales From The Sitting Room
(Fat-Cat, 2005)
Steve Wynn ha guidato per tutti gli anni ’80 la band senza
2005, benvenuti nella seconda fase new-wave. Mi spiego
dubbio più influente e carismatica del movimento a stelle e
meglio: 1980, The Clash licenziano Sandinista, triplo vinile di
strisce neo-psichedelico Paisley Underground, i Dream
musica totale dove il punk (almeno sotto il profilo musicale)
Syndicate. La sua carriera solista è iniziata ad inizio ‘90 in
viene messo alla berlina dal dub, dai riverberi, dalla battuta
provvidenziale coincidenza con lo scioglimento della band, alla
lenta e soporifera. A pochi chilometri di distanza, intanto, il
fine degli ’80. Wynn non ha fatto certo rimpiangere il gruppo-
Pop Group si sgrana in diverse scissioni: nascono i New Age
madre, sfornando per tutti gli anni ’90 ed a nuovo millennio
Steppers e Pigbag, Mark Stewart si lega artisticamente e
iniziato (Static Transmission, 2003) una serie di opere
spiritualmente all’Onusound di Adrian Sherwood ed i Rip Rig
piacevolissime, da Kerosene Man a Fluorescent, da Dazzing
& Panic si apprestano a diventare i…. Rip Rig & Panic. In
Display a My Midnight incidendo per etichette diverse (Rhino,
parole povere, il dub entrava definitivamente nelle case dei
Zero Hour, Glitterhouse) sino a quell’indiscusso capolavoro del
punk pentiti.
2001 che è il doppio desertico Here Come The Miracles (Blue
Cosa c’entra tutto questo col disco di cui dobbiamo parlare?
Rose Records), una sorta di summa della sopraffina e sapida
Semplice: gli Stromba sono la proiezione terzo-millennio di
vena cantautorale maturata gradatamente nei dischi precedenti
allora. Il passo dopo Liars e Rapture, Il principio che sfocia nel
senza mai tralasciare l’eredità psichedelica dei Syndicate, pur se
verbo, la continuità della (nella) storia. Mettiamo da parte le
fatalmente stemperata in nuovi stilemi compositivi più
facili ironie sul nome e applichiamoci sulla musica. Sono in
accessibili. Influenzato da sempre vocalmente e nelle liriche da
due, James Dyer e Tom Tyler, attivi dal 1998 e debuttanti nel
Lou Reed e Dylan e come chitarrista da Neil Young, Wynn è
2005, ma attenzione: parliamo di debutto lungo, poiché la loro
stato coadiuvato costantemente in questi anni da Chris
storia ci dice di remix per conto di Emiliana Torrini (!) e di
Cacavas, ex tastierista dei Green On Red.
due 12”, uno dei quali contenente la terremotate Giddy Up,
Tutto ciò rappresenta praticamente il contenuto del primo
spaccato tribaloide lungo sette minuti dove collidono l’anima
dischetto di questo What I Did After My Band Broke Up,
più “nera” dei Can, l’afro-beat di Tony Allen (il drummer di
succulento compendio (17 brani) del lavoro sodo compiuto
Fela Kuti) e gli Lcd Soundsystem di Yeah (pretentious mix).
dall’artista americano nell’ultimo decennio, trascorso anche in
Un vero monstre che ovviamente fa bella mostra in Tales From
tours in giro per il mondo : pure in Italia ormai è di casa e molto
The Sitting Room, e con esso tutto il bagaglio di influenze che,
popolare da tempo. Ma la vera sorpresa di questa doppia uscita
oltre al dub, le note biografiche inquadrano nel Miles Davis era
per la DBK Works è il secondo cd, Visitation Rights, inciso in
Bitches Brew. Niente di più ovvio, in quanto Blue Skin
perfetta e magnifica solitudine con il fido Cacavas.
abbraccia proprio la fede davisiana, con quella tromba che
Vecchi brani come James River Incident, Drought, Anthem,
Something To Remember me by, Crawling Misanthropic Blues,
Mandy Breakdown sono rivisitati, ma é più esatto dire
‘sublimati’ dai due con una sobrietà stentorea che ha del
miracoloso. Mai come in questo caso la voce di Wynn sa
provocare brividi: la sua proverbiale distaccata freddezza
interpretativa si libra libera da impedimenti ritmici nel
tempo e nello spazio ; il limpido piano acustico, il mistico
squillante si incunea a mò di coltello caldo nel burro. Swings
and Roundabouts, dall’inizio iper-dub, porta la memoria ad un
altro classico del Miles quale Big Fun e Camel Spit,
misticheggiante come solo Alice Coltrane sapeva, profuma di
lontane essenze orientali. La parte dub è affidata a Septic Skank
e Tickle Me Dub, esercizi in gran stile che omaggiano lo
stregone Lee "Scratch" Perry . Materiale bollente per chi
bazzica il catalogo Trojan. Nel mezzo stridono (si fa per dire…)
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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Invisible Stink (già sul sampler della Fat-Cat Branches &
artistica. Il connubio tra il signor µ-Ziq dell’etichetta Planet µ,
Routes), la cui andatura ricorda molto da vicino Unfinished
Mike Paradinas, ed il Nostro, continua senza perdere alcun
Sympathy dei Massive Attack, la psichedelia rituale di Swamp
colpo protendendosi fino ad un dodicesimo album che è
Donkey e la dolce chiusura di Jewell. Grandi corsi e ricorsi
emblema della conturbante personalità che sta scrivendo a
storici che portano sempre allo stesso punto. L’inizio che
caratteri cubitali la storia del breakcore. (7.8/10)
ritorna inizio. Con la fine, fortunatamente, sempre più
Massimiliano Raffa
lontana…… (8.0/10)
Vitalic - Ok Cowboy(Pias, 2005)
Gianni Avella
Venetian Snares - Rossz Csillag Allat
Szuletett (Planet µ, 2005 )
I Daft Punk influenzano tutti, dagli Lcd Soundsystem
all’electroclash. Nessuno escluso. Non ne sono immuni
nemmeno i Vitalic, esordienti prima via EP su Gigolo (Poney)
Dal canadese Aaron Funk, meglio conosciuto come Venetian
e debuttanti in formato esteso su Pias. Ok Cowboy è
Snares, ci si potrebbe aspettare qualsiasi cosa. Potrebbe
trainspotting-body-music martellante e pesta ormoni: i Daft
sguainare dal nulla un capolavoro tra techno ed hardcore,
Punk (stesso impatto electro-rock) come li potrebbe intendere
potrebbe effondere da un’onda luminosa un’ardita odissea
D.j.Hell, i Closer Musik remixati dai Daf. Techno indiavolata
glitch\avanguardista, potrebbe – perché no – partorire un
da tre del mattino, quando la febbre sale e le forze sono a
eccellente ambient euritmico. Nulla di tutto questo, però, questa
mille!. Si balla senza sosta, anzi, una sosta c’è e si chiama
volta. Funk si scomoda semplicemente a scardinare le
trahison, algido pastiche Kraftwerk-iano post-Radio Activity
imbastiture della musica classica stemperandola in una miscela
dalla mera funzione “respiratoria”, poiché il resto è scorre senza
esplosiva di drum’n’bass e delirio cacofonico. Al primo ascolto
fiato. Il ritmo pompa e si eleva, il corpo non resiste agli spasmi
la paura mi aveva infagottato nel timore che i Venetian Snares
di Newman, al ritmo cardiaco di Poney Part 1 e Part 2 (riprese
fossero trapassati, avendo avvertito un lieve olezzo di tonfo.
dall’omonimo EP). My Friend Dario (singolo estratto) sono le
Non è così. Rossz Csillag Allat Szuletett non è un album privo
Chicks On Speed coi cosiddetti (….), La Rock 01 vi scaraventa
di una portata creativa, le cui frequenze rilucenti appiattiscono
nella più dark delle summer of love ibizenche, The Past proietta
quella contemporaneità stilistica che Funk si è costruito in
i Daft Punk nell’iperspazio e Repair Machines è un Cruiser che
quattro intensi anni di onorata carriera, dietro un tumulo di
si schianterà contro il vostro sistema immunitario. Il disco si
stridori post-moderni.
appiccica addosso a mò di sanguisuga e violenta sistema
Con le dissonanze del pianoforte che apre l’opera non si è
nervoso e muscoli connessi. Si arriva alla fine sfiniti e sudati. Si
ancora nel vivo della nuova creatura; lo si è invece quando una
aprono gli occhi per ritrovarsi tra le mura di casa, steso/a sul
schiera di archi esalanti acri melodie di classica magiara viene
letto con l’acqua alla gola. Corri in bagno, una rinfrescata e poi
travolta da un drappello scatenato di drum machines in continua
subito in macchina: ci aspetta una lunga notte. Che l’after abbia
titubanza tra mancanza di respiro e volo pindarico verso un
inizio. (7.0/10)
futuro in brusca collisione con un passato artisticamente eletto.
Gianni Avella
L’artista riesce a far coincidere a perfezione i suoni
avveniristici di (un idealizzato) domani con quelli di ieri, vuole
quasi marcare la transizione da un’era all’altra, sottolineando la
Xiu Xiu - Life and live (Xeng/Wide, 2005)
criticità e la negletta foga barcollante di un presente smarrito tra
Ad ingannare l’attesa per l’imminente nuova collezione
le
contemporanea.
d’inediti, la forlivese Xeng Records licenzia questa preziosa
I BPM divampano e zampillano. I brani migliori risultano
testimonianza di un tour in solitario di Jamie Stewart, il ragazzo
Hajnal, che da sinfonia ungherese lambisce jazz ed ambient
che ha sconvolto la quieta scelleratezza del rock alternativo a
fino a sfociare nell’abisso esacerbato della più violenta
furia di scorribande sotto l’egida Xiu Xiu. Il titolo Life and live
drum’n’bass tra uno svolazzo d’insicurezza e l’altro, Kétsarkú
dice molto sul contenuto del manufatto: musica ad altezza
Mozgalom, continua implosione tra vortici cibernetici della
d’uomo, musica che cammina e si muove tra rumori di strade e
singhiozzante orchestra chiamata Venetian Snares e Senki Dala,
palchi sperduti e borbottii di altre vite, vita che vive nel
che in poco più di due minuti riesce a creare tra armonici, suoni
medesimo istante in cui sboccia la musica di Jamie, musica
perlati, atmosfere suadenti, archi gementi e pianoforti spauriti
suonata che racconta – che è – vita di un artista tra i più
una degna tappa di chiusura ad un album di assoluta valenza
compromessi col proprio stesso gesto espressivo, tanto da
ombre
fatue
della
società
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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sembrarvi del tutto identificato. Su quei palchi del nordamerica
produttore Fabrice Laureau, cui va il merito di aver gettato le
verso la fine del 2003, il ragazzo tirava a spolpare le ombre e
basi per questa fortunata convivenza. Così, dopo l’assaggio
gli scheletri, le fobie e i tormenti. La chitarra, un harmonium, la
servito dalla coppia in occasione del festival dell’etichetta Ici d’
voce, solo un pizzico di elettronica. Quanto occorre per rendere
Ailleurs del 2004 a Parigi, il passo verso lo studio di
diafana l’irrequietezza, scorrere sul rumore di fondo come una
registrazione diventa, oltre che automatico, brevissimo. Il tocco
goccia di condensa sul vetro. Quasi del tutto scomparsi quindi i
di Tiersen, portatore sano di un cupo romanticismo fuori da
deliri tribal/industriali - con l’unica eccezione di una breve,
ogni logica temporale, abbinato alla personalità cupa e sensuale
lancinante Jennifer Lopez - il programma dipana folk rappresi,
della Wright rappresenta un biglietto da visita scolpito nella
nudi, frementi, costantemente in bilico tra dolore e trepidazione.
pietra. Difficile infatti pensare che due personalità distanti per
É così per la prima delle due versioni di I broke up (quasi un
estrazione ed attitudini, ma dotate di un peso specifico artistico
Cat Stevens scarnificato), per la tenue misticanza di gelo e
quale il loro, avrebbero potuto partorire una creatura meno che
tepore di Helsabot (il microfono infilato nel cuore), per i fruscii
ottima. E questo disco, delicato e graffiante insieme, ne è la
di corde e d’anima dell’iniziale 20000 Deaths For Eidelyn
controprova.
Gonzales, 20000 Deaths For Jamie Peterson (quasi una sinopia
ammaliante. Chiave e toppa. Uomo e donna, appunto. La
soul) e per l’afflitta levità di Dr. Troll (un delirio sospeso che
collaborazione tra due delle teste pensanti più valide in
sarebbe piaciuto a Jeff Buckley e – forse - a Nick Drake). Una
circolazione viene legittimata in particolare negli episodi in cui
sorprendente implosione quindi, un rannicchiarsi al coperto,
la castigata intelaiatura di matrice folk rock, farina del sacco
chiudere le imposte e mormorare le più atroci confessioni.
della cantautrice, viene lavorata ed impreziosita dagli
Come se la delicatezza potesse redimerle. Come se la fragilità
arrangiamenti di un Tiersen in stato di grazia (violino e piano
potesse affilarle. Come se dovessero penetrare ancora più in
sugli scudi) pur senza che ne venga intaccata la coriacea scorza.
profondità, pietose e inesorabili. A guardar bene è ancora
Eloquenti in questo senso sono le centrali Dried Sea e While
l’antica lezione di Mark Hollis, del quale puoi scorgere il
you sleep. I due, pur sapendo di lasciare il fianco scoperto alle
profilo in Sad Redux-O-Grapher (che suona come un
critiche, non si preoccupano di nascondere i marchi di fabbrica
improbabile duetto con Jason Molina) e ancor più nel
rispettivi, e tocca perciò alle dieci meravigliose canzoni (come
marmoreo tremolio à la Nico di King Earth, King Earth. C’è
loro stessi le definiscono senza falsa modestia sul sito web
spazio anche per i consueti squarci di nevrastenia, come in Sad
ufficiale) rispondere della presunta mancanza di coesione che
Pony Guerilla Girl e nella seconda versione di I broke up,
possa pregiudicarne la compattezza d’insieme. Ascolto dopo
quella che - diafana e tesa come una glassa tossica – chiude la
ascolto è però impossibile non accorgersi di quanto giustificata
scaletta. Ma il sapore dominante è in definitiva il lato angelico
e preziosa sia la presenza di ogni singola nota, e se
di Jamie, un angelo malato che gratta la pancia al dolore, che
verosimilmente
agita irrequietezza sotto la superficie, che doma il segno e la
ugualmente senza la lavorazione a quattro mani, è altrettanto
frenesia al punto da sembrare un John Martin o un Terry
vero che la produzione non ha risparmiato accorgimenti e
Callier buttati in un vicolo piscioso (Clover), per non tacere del
trovate, arrivando ad ottenere un risultato sorprendente. Tanto
viluppo di contrabbasso, viola e voce di Nieces Pieces, il cui
che la generosità di alcune composizioni costringe quasi ad una
fosco intruglio di classicità e decadenza, di languore e
rilettura, in chiave assolutamente positiva e senza riserve, del
disincanto è l’autentico, sorprendente gioiello del disco. Un
concetto di lusso. Mai, infatti, le composizioni della Wright -
disco interlocutorio, se volete, ma solo se volete. In realtà non
caricate a molla da una tensione a volte difficile da sopportare -
c’è un titolo evitabile, ad oggi, nella discografia del bislacco
erano apparse così compiute e definitive.
giovanotto statunitense. (7.1/10)
Si pensi, a tal proposito, a quanto le due anime si rivelino
Stefano Solventi
Un
album
alcune
completo,
canzoni
contraddittorio
avrebbero
ed
funzionato
complementari nella claustrofobica No Mercy For She, o nella
sinistramente ottimistica Dragon Fly. Un progetto che non fa
Yann Tiersen & Shannon Wright – S/t (Ici
d’Ailleurs – 2005)
Il primo fugace incontro tra il riservato polistrumentista
dell’omogeneità il proprio punto di forza ma che smuove l’aria,
anche
quella,
spesso
stantia,
del
panorama
musicale
internazionale. (7.6/10)
francese e la bella folk-singer americana si registra nel 2003,
Gianluca Talia
ma bisogna attendere un anno per ammirarne le evoluzioni di
coppia, ringraziando il fiuto, nonché l’intraprendenza, del
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Demo
vengono
progressivamente
calate
in
un
turbine
di
campionamenti di batteria; Fs Blumm incontra Manitoba
Searchin’ Guitar – s/t (autoprodotto, 2005)
Volete la verità?Searchin’ Guitar è uno dei migliori demo che
mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Naturalmente
quando lo definisco uno dei migliori non parlo della qualità
della registrazione che, come è ovvio che sia in questi casi,
lascia un po' a desiderare, bensì della freschezza, l’energia,
l’entusiasmo che si respira nelle sei tracce in esso contenute.
Chi vi parla non ha difficoltà ad ammettere che, una volta
assolto l’onere della recensione, ha faticato non poco a
separarsene.Dove
sta
il
segreto
del
gruppo?
Forse nello stoner aggressivo e rapido che ne rappresenta
l’indole spasmodica, forse nei vaghi accenni lisergici che
impastano le distorte dissonanze strumentali o magari nel fatto
che dietro ai proiettili ruvidi, i suoni cupi, gli stop and go
calcolati, ci siano soltanto un basso e una batteria.Avete capito
bene. Quasi nessuna chitarra, se non in rarissimi casi.Ma che
bisogno c'è di una sei corde se si ha a disposizione il suono di
un jazz bass filtrato da una pletora di effetti, non ultimo un
campionario di amplificatori pseudo – artigianali? A cosa può
servire una chitarra elettrica se la batteria è tanto puntuale da
riempire i pochi spazi lasciati liberi dalle saturazioni? I
Searchin’ Guitar sono questi, prendere o lasciare, un po’ Kyuss
verrebbe da dire, il garbo electro-teutonico si sposa all'irruenza
gentile del canadese oggi noto come Caribou. E se i famosi
riferimenti a cui il critico non può fare a meno fanno presagire a
qualche tocco à la Four Tet (bestemmiamo? …folktronica),
ecco che l'esotismo acquatico di Howard Harts apre le porte a
una traccia sul filo della marea, nella quale il duo romano
Marco Scognamiglio e Roberto Pugliese culla l'ascoltatore tra
lo scorrere delle correnti, la scansione vorticosa delle ritmiche e
il canto delle sirene. Pennellate melodiche sulla scia dei Global
Communications, frastagliate ritmiche à la Autechre, e un
artigianato di skip, click, bleeps, noto al pubblico dell'etichetta
Mego (Fennesz e co.), caratterizzano infine le tracce finali
(J.I.T e La Vacanza Nell'Acquario) che, seppur insidiate da un
abile retrogusto Labradford, si consumano nelle linea guida
IDM (Alva)note con una Sogni, traccia cinematica dalla
calibrata dose di caoticità, a chiudere in bellezza. In Is This
Spring? quelli che potevano essere passepartout, copia incolla
di suggestioni altrui, si rivelano mezzi per fini estetici piuttosto
chiari: è pertanto un ottimo assaggio (28 minuti) di una
collezione di tracce più ampia che ci auguriamo di vedere nei
cataloghi di Warp, Morr e Smalltown Supersound. A presto
dunque. (7.8/10)
Edoardo Bridda
– T-bird ‘04 -, un po’ Unida – 50 Meters Cable –, vagamente
Joy Division – la ritmica di Ten Days – o magari Stooges – il
primo minuto di Clockwise Makes Me Sick -, ma soprattutto
Searchin’ Guitar. Una band in grado di concepire un suono
Luisenzaltro - L'uomo non è volante, ma
sterza con furia (cdr autoprodotto, 2005)
originale e divertente, aggressivo ma godibile, che in tempi di
Ancora un’autoproduzione per Luisenzaltro, "manifestazione
magra e di appiattimento estetico come sono quelli in cui
eventuale di Alessio Luise" (parole sue), così tanto per
viviamo, non può che rappresentare una boccata d’aria fresca.
ribadirne il talento e l’ossessione. Talento e ossessione talmente
(7.0/10)
intrecciati che non sai bene se stia più l’uno o l’altro alla base di
Fabrizio Zampighi
questo lo-fi tecnologico, esposto e scomposto come una
frattura, esibito con una specie d’orgoglio, ad ostentare anzi
Silence Is Sexy - Is This Spring? (Cd-r
autoprodotto, 2005)
Già dall'iniziale Hallo Goodbye, l'indole estatica IDM su
fondali di fruscii, sub-bassi e cicaleggi parla chiaro: ci troviamo
di fronte a un buon prodotto elettronico che per umori e
landscapes rientra nell'attuale scena elettronica europea
caratterizzata tutt’ora, tra le altre cose, della mano lunga dei
Boards Of Canada e dal glitch della seminale scuola Raster
Norton e Mille Plateau. Ma se queste sono le direttrici, Is This
Spring? non si fa mancare sfumature importanti come quelle di
matrice intima e emozionale: bella la calligrafia di Conscious
Minimelism, un'affascinante manciata di note al pianoforte che
amplificare i pochi mezzi a disposizione (un otto piste
analogico,
il
registratore
di
suoni
Windows).
Una
mortificazione della forma sulla cui carogna banchetta la
poetica di Luise, quell'ormai tipico, stralunato/stralucido forzare
il senso – ogni senso - verso i suoi mille possibili contrari. Per
Luise il linguaggio è assieme una catena e una sterminata
possibilità. La codificazione di uno status esistenziale (che
qualcuno vorrebbe far passare per una soffice condanna), ma
anche
la
chiave
per
decrittarlo.
Linguaggio
che
è
"manifestazione stessa della realtà", plasmabile, interpretabile,
reversibile, percorribile all'infinito come un frattale: questo il
messaggio (o uno dei messaggi) della musica di Luisenzaltro, la
cui portata stride volutamente con la forma, tanto da lacerare la
SentireAscoltare n°8 – Maggio 2005 – www.sentireascoltare.com
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superficie e presentare la propria disarmante vulnerabilità
l'omogeneità del livello di registrazione delle tracce, incise tutte
(stavo per scrivere: debolezza). Avrete capito che, se fosse un
nello stesso studio, garantendo una coesione che non sempre si
match tra parola e musica, la parola vincerebbe ai punti, e
riscontra nelle produzioni di questo tipo. Riguardo la qualità, è
piuttosto nettamente. Però questi suoni malfermi, la chitarra
bene dire che è altalenante, mentre per i codici sonori scelti non
farraginosa, le folate radioattive di tastiera, i gorghi e i dadaismi
si percepiscono grosse fratture, sebbene ogni gruppo abbia la
e gli scarabocchi digitali, i bozzetti di soul-pop jazzato (la
propria identità precisa. Diciamo che quasi tutti hanno fra i loro
sintoacustica Non sostare, non so stare, quasi gli Zero 7
riferimenti quei generi che hanno segnato i '90: il noise-core, il
sorpresi a far prove nel tinello), quei cabaret per piano e synth
crossover inteso come contaminazione fra elementi opposti e il
(Ferramentafredda, vale a dire l’incrocio impossibile tra Art of
post rock, "scoperto" nelle sue filiazioni più emotive. Ci
Noise, Morgan e Rino Gaetano), le bestioline sintetiche che
troviamo così di fronte i Poppy's Portrait, i più inclini a
mangiucchiano l'europop de L'uomo al volante e infine la
sposare il pop chitarristico con suggestioni psichedeliche (quasi
litania CSI tra retaggi del Battiato anni ottanta (Diritti e torti),
invisibili, a dire la verità), i Moka, seguaci dei post-rockers
sono altrettanti ingredienti necessari per imbastire il bozzolo
Mogwai, che con Hopy costruiscono un brano in crescendo a
palpitante di una rivelazione brusca, fragile, portentosa.
metà tra un viaggio pinkfloydiano e le accensioni emozionali
Alcuni pezzi sono rivisitazioni che testimoniano il desiderio di
tipiche dei nostrani Giardini di Mirò , poi è il turno dei The
meditarli, distillarli, sospenderli sul proprio dramma nascosto.
Orange Man Theory, i quali ci trasportano in un'arena dove
E'
solenne
l'unico slogan è "hardcore or die", benchè i nostri lo interpretino
spaesamento di Viceversa, di quell'autentico manifesto poetico
in maniera deviata, accelerando senza sosta con gli Unsane in
il
caso
dell'agra
Condimentichiamoci,
del
che risponde al nome di Le inversioni aEIOU, fiori malaticci
testa. Se è necessario puntare su un gruppo fra tutti, diremmo i
colti tra la grazia pop malferma dei primi New Order, la wave
Fumisterie, che in Morning trovano un delicato equilibrio fra
angosciosa di Bowie e certe decadenze cantautoriali italiane
chitarre scampanellanti, fischiettii e ambizioni "d'autore",
(Sergio Endrigo?).
facendo venire in mente certe cose di Marco Parente, un
Insomma, le precedenti buone sensazioni circa Luisenzaltro si
riferimento senz'altro poco scontato. Tentano la carta
confermano anzi solidificano, ma un pensiero traverso le fa
dell'originalità i Kardia, alternando schitarrate metalliche a
vacillare: che siano loro necessari quei pochi abiti sdruciti? Che
lievi armonie tastieristiche, senza riuscire però a coniugare il
siano
all'auto-
tutto in una forma fluida; discorso simile per i Marylebone,
emarginazione? Che non possano (non vogliano) altro se non
intenti a mescolare momenti dark wave con un piglio alla
una guerriglia marginale? Presentando il disco, il Luise dichiara
Marlene Kuntz, condendo il pezzo con scorie noise
d'essere uno "che pensa che la canzone trascenda la struttura
decisamente fuori posto. Sono sicuramente gli episodi meno
che adotta". Sono d'accordo. Ma vorrei proprio la controprova,
riusciti del sampler, che altrove si fa ascoltare senza grossi
una produzione finalmente degna, perché quelle parole non
stupori o delusioni, come con i Synthomi, i più elettronici del
rammentino la storiella de la volpe e l'uva. (7.2/10)
lotto, amanti del techno-pop come dei Depeche Mode, ci
fisiologicamente,
e(ste)ticamente
votate
Stefano Solventi
raccontano una fiaba del tempo degli Human League, sono
simpatici ma con poca grinta, e con i KBN, giunti con Restless
AA.VV. - Cronache da una spirale
(Polyester, 2005)
ad una singolare visione dell'emo (in precedenza li ricordo
Polyester è un coordinamento di band romane, attivo già dal
sampler, la sua funzione principale è ben servita, soprattutto
2000, che si impegna nella promozione delle realtà indipendenti
grazie alla parte multimediale, completa di dodici mp3, foto e
attraverso l'organizzazione di concerti, eventi e, per la prima
rassegna stampa, un buon esempio per farsi ricordare, da
volta, con una compilation. Cronache da una spirale è una
imitare se si suona in una band emergente. Resta da aggiungere
testimonianza importante, che vuole essere un esauriente
che gioverebbe allargare la proposta anche a stili musicali meno
biglietto da visita. Il tratto distintivo è che si tratta di un cd
identificabili e maggiormente fuori dagli schemi; ad ogni modo,
multimediale, poiché oltre alle nove tracce audio contiene una
Cronache da una spirale, grazie anche ad un prezzo imposto
sostanziosa sezione ROM, realizzata in Flash, con le schede di
accessibile, consente di conoscere una parte del sottobosco
tutti i gruppi e numerosi mp3, anche di band non presenti nella
italico che difficilmente si trova sotto i riflettori. (7.0/10)
ispirati dai Fugazi) molto più vicina all'indie rock, tanto che
sembra di ascoltare una band americana. Trattandosi di un
parte audio. Cominciando l'ascolto dal cd audio, si nota subito
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Italo Rizzo
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Live
Jens Lekman - Il Covo, Bologna (23 aprile 2005)
Jens Lekman ha un profilo disegnato a pastello. Ha la pelle lucida, un sorriso di denti
molto piccoli ed una mimica facciale aggraziata. Di persona, assomiglia
spaventosamente alla sua musica: si muove leggero ricalcando la qualità immateriale,
leggera e pulita della sua voce, parla lentamente e canta con la stessa tensione emotiva
che emerge dai bit incastrati digitalmente sul, unico, disco (When I Said I Wanted to be
Your Dog) e dai suoi, molti, EP. Nessuna sorpresa, dunque, piuttosto la conferma
puntuale che i batticuori, le aspettative, le delusioni, gli attimi di gioia e la malinconia
inscritte nelle parole di canzoni come Maple Leaves vengono da una mano in carne ed
ossa che è capace non solo di chiudere in tre minuti cammei affettivi universali quanto individualmente contingenti, ma di
riprodurli ad arte anche dal vivo. Ci si sarebbe potuti aspettare agilmente un concerto interamente acustico (e non che la mancanza
degli arrangiamenti quasi orchestrali di molti pezzi avrebbe inficiato particolarmente l’efficacia di canzoni sorrette comunque da
uno scheletro molto solido) ed invece, sul palco, questo Jens Lekman compare tutt’altro che solo: al suo fianco suonano quattro
donne e due uomini, una vera e propria piccola banda. Basso, batteria senza grancassa, tastiera (tutto sommato poco presente negli
arrangiamenti live), cello, violino e banco effetti. E Psychogirl, You Are the Light e la nuova ed ancora non edita The Opposite of
Hallelujah suonano quasi perfette. A sorpresa il complesso esegue anche A Pocketful of Money, l’omaggio a Calvin Johnson mai
edito in America che campiona Gravedigger Blues dei Beat Happening: il pezzo, campionato anche dal vivo, genera
imprevedibilmente un effetto di presenza/assenza che ha del magico. Necessariamente a cappella seguono Do You Remeber The
Riots e If You Ever Need A Stranger, introdotta da una richiesta di dedica.Il concerto non dura a lungo – non abbastanza: un’oretta
piuttosto scarsa. L’encore è un Jens Lekman abbracciato ad un ukulele al cui manico è arrotolato un fiore bianco di plastica
reminiscente del gusto floreale delle apparizioni del Morrissey più datato. Senza microfono, al limite esterno del palco deserto,
l’autore svedese domanda al pubblico di fare silenzio mentre intona una Julie che, spogliata degli arrangiamenti, si mostra per la
filastrocca infantile/dichiarazione di devozione che è. Ci saranno altri bis nel prato del Covo, aggiunge alla fine del pezzo, per
chiunque li chieda.
Due ore dopo il locale rigurgita la folla immemore del sabato sera e Jens resta seduto nel backstage, pronto a dispensare ricordi di
cuori infranti e canzoni di compleanno a chiunque abbia l’estro di fare le scale verso la sua porta.
Marina Pierri
...
Oneida: Il Covo, Bologna (20 Maggio 2005)
Il Covo si riempie lentamente mentre la guest (one man) band prende il piccolo palco al limite
estremo della sala nera. SJ Esau merita una piccola menzione: è un ragazzo inglese davvero
giovane e sottile alle prese con una chitarra ed un synth - formula di per sé certamente non inedita:
nei momenti migliori ricorda il lo-fi deviato e iperuranico di Microphones, privato della sapienza
ritmica di Elvrum. D’altro canto, nel complesso il paragone più immediato resta quello con i Robot
Ate Me, trio di San Diegosul punto di conquistare in Europa la medesima notorietà americana.
Quando SJ torna tra la folla si ha la sensazione che in qualche mese potrebbe trasformarsi in una delle next big things, dando
tempo al tempo. A quel punto Fat Bobby, Kid Millions e Hanoi Jane, sarebbe a dire il mostro a tre teste Oneida, si accomodano
ai loro posti di manovra. Si comincia con due chitarre (una delle quali abbandonata subito dopo il primo pezzo e mai più
imbracciata) ed una batteria sul punto di spaccarsi in mille pezzi. Dopo gli sprazzi chiaramente più melodici dei nuovi pezzi
comparsi su The Wedding (che comunque prendono almeno la prima mezz’ora di concerto), si prosegue alle prese con oggetti
sonori inafferrabili, come la suite Each One Teach One. Dal vivo, tra le tastiere disgregate, sintetiche e torturate emerge la
dimensione futurista delle decadi newyorkesi passate, di cui la band raccoglie e manipola la (non)struttura: ascendenze Silver
Apples, Contortions e Suicide come se piovesse, con sprazzi di kraut d’oltreoceano. L’impianto sembra recalcitrare sotto l’urto
dei bpm decisamente alti. Il sound degli Oneida è duro almeno quanto i membri della band non sembrano esserlo: sono
palesemente divertiti e carichi, sorridono tra loro ed alla folla, gesticolano e parlano nelle parentesi di silenzio – fatto in certa
misura antipatico – con un accento brooklynense talmente stretto da risultare incomprensibile al pubblico (senza fare alcuno
sforzo per farsi comprendere). Fat Bobby suona come se si stesse esibendo in un localetto dell’East Village del 1979, Brian Eno
fosse là tra il pubblico a guardarlo e lui dovesse fare a tuti i costi bella figura: regge la scena scuotendo i capelli neri, massacrando
la tastiera e cimentandosi col cantato da bravo Jerry Lee Lewis ai tempi del post-punk. Kid Millions d’altro canto è un androide.
Regge tempi identici di drumming anche per trenta minuti, se necessario, con precisione robotica e resistenza meccanica (anche
lui canta diverse canzoni ora da solo, ora in coro). Hanoi Jane è probabilmente il più sobrio dei tre tanto nelle movenze quanto
nelle sonorità - anche considerato che la parte più classicamente elettrica dei suoni viene da chitarra/basso ed il “rock” accanto al
“math” che sottotitola idealmente il sound degli Oneida esce essenzialmente dalle sue mani. Alla soglia dell’ora e mezzo, tra orge
acustiche di presente e passato musicale personale quanto storico, spunta prepotente una ben riuscita Ceasar’s Column cui
seguono almeno venti minuti di qualcosa che a detta della band è assolutamente nuovo: si chiama Up With the People ed
assomiglia ad una improvvisazione ripetuta talmente tante volte da essersi lentamente canonizzata e trasformata in pezzo. Il caos
regolato riempie la stanza gremita ed esplode fino alla fine del live – perfetta sintesi di un concerto letteralmente memorabile,
capace di mettere (felicemente) alla prova persino i timpani più resistenti.
Marina Pierri
Beans + Niobe – Circolo Della Grada,
Bologna (26 Aprile 2005)
La dimensione live sembra diventare un problema irrisolvibile
nel panorama della musica elettronica. All’affinarsi delle
tecnologie spesso corrisponde la difficoltà della riproduzione
dal vivo, con performance che si limitano sempre di più a
“lanci” di basi pre-registrate o, nella migliore delle ipotesi, a
semplici manipolazioni di sample. Queste difficoltà hanno
spinto alcuni gruppi a riscoprire il suono live come qualcosa
d’altro rispetto alle registrazioni in studio: i recenti tentativi di
Mouse On Mars, Solex e Two Lone Swordsmen di
mescolare suono elettronico e suono acustico ci sono sembrati
la strada più ragionevole per permettere all’elettronica di
affascinare anche sul palco. Il doppio concerto di Niobe e
Beans, due personaggi cardine della recente scena electro
(seppure da punti di vista sostanzialmente diversi) poteva
rappresentare una conferma importante di questa tendenza.
Nel piccolo spazio del Circolo della Grada, un ambiente
ristretto e familiare, Beans era atteso con grande curiosità, visto
l’interesse che ha destato negli ambienti indie estranei all’hip
hop. Interesse assolutamente giustificato per una musica che,
sulla falsariga dell’ormai dissolto Anti pop Consortium,
l’importante
macchine
del
suono
e
laptop,
campionatori
e
improvvisazioni sui synth. E invece niente. Beans si presenta
sul palco accompagnato soltanto da un lettore cd da cui partono
tutte le basi musicali e duetta con i suoi dischi come nella
peggiore tradizione sanremese, senza nessuno che possa
interagire con lui se non i cori pre-registrati. Eppure l’ex Antipop Consortium ha un grande stile, un rapping che incanta per
le infinite possibilità timbriche che mette in gioco. Con la voce
fa quello che vuole: accelera, fino a sparare parole come
proiettili, poi cambia ritmo, arrivando a scansioni temporali
complessissime. Ma che senso hanno questi (bei) virtuosismi se
sono presentati in maniera così grossolana? Come un grande
pianista che suona un concerto accompagnato da un nastro con
la registrazione delle parti dell’orchestra, Beans priva il
pubblico
della
sostanza
della
sua
musica,
che
con
quell’approccio innovativo rispetto agli standard dell’ hip hop,
quegli ammiccamenti all’electro, lo ha reso una delle figure più
rappresentative della cosiddetta scena electro hip hop (o glitch
Delusione totale.
continua
con
tentativo
di
commistione
tra
la
sperimentazione elettronica e l’hip hop. Commistione che ha
generato alcuni tra i fenomeni più interessanti degli ultimi anni:
dai cLOUDDEAD a Sole, da Sage Francis a Prefuse 73. I più
curiosi si aspetterebbero di vedere qualche musicista alle prese
hop, che dir si voglia).
Brani dell’ ultimo Shock city maverick come City hawk o
papercut vengono letteralmente mortificati in questa versione
fai-da-te che non lascia spazio a nessun tipo di sorpresa. Non
per niente i momenti più belli della sua performance sono quelli
in cui rimane da solo con la sua voce. Un po’ meglio aveva
fatto Niobe in apertura, comparsa sul palco con un dj che a
tratti suonava perfino la chitarra acustica! Anche nel suo caso,
però, le sperimentazioni sulla materia elettronica fanno soltanto
da sfondo alla performance vocale, senza la seppur minima
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variazione. La cantante di origine tedesca, che ha visto crescere
Motorama, duo romano al femminile dall’istinto punkeggiante
molto la sua popolarità dopo essere diventata la “voce” dei
dei tempi che furono giunte alla maturità dopo anni passati a
Mouse On Mars nell’ultimo album del duo tedesco, sembra
pestare gli strumenti sui palchi d’Italia e Europa.
più una conferenziera che una musicista, nella sua rigida
Le Motorama nascono nel ’96 nella capitale con una line-up di
postura. Sforna canzoni con fretta e con noncuranza le canta.
quattro elementi (due chitarre batteria e voci), oggi, in seguito
Tanto sono uguali al disco. Tra romanticherie pop
all’abbandono della cantante Elena, sono rimaste in due:
, accompagnata alla chitarra dal fedele dj e passaggi ipnotici
Daniela – chitarra e voce – e Laura – batteria –.
alla Residents, Niobe chiude la sua esibizione con una
Il genere che ci propongono è di quelli che fanno esultare i
versione a dir poco eclettica di un famosissimo brano di musica
vecchi nostalgici: una versione raw and psycho del rockabilly
brasiliana. Poi dopo un sorso di birra, in tutta calma va via,
dove si staccano i pensieri per dimenarsi (e sbarazzarsi delle
tanto non c’è fretta: non serve nessun cambio palco, nessuno
nevrosi) sulla stessa lunghezza d’onda aggressiva con cui lo fa
che si sforzi a portare pesantissimi stumenti. Basta cambiare il
la
cd con le basi.
Un genere musicale primitivo e esplosivo, gagliardo e sfrontato
Daniele Follero
musica.
quello del duo che suscita un sussulto liberatorio che non
conosce freni inibitori. L’asprezza chitarristica di Daniela e la
Motorama – Atlantide Occupato, Bologna
(6 Marzo 2005)
All’Atlantide occupato di Porta S. Stefano lo scorso 6 marzo,
ritmica pulsante e soffocante di Laura raggiungono l’apice, nei
brani 77, Drive Mary Home, Babe, Spastic Song, Possession
Call Me Not, e nell’anthem travolgente di Motorama.
gli astanti hanno goduto di un tuffo nel passato con il
Antonio Avvisato
rock’n’roll bastardo e caciarone, minimalista e sanguigno delle
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Rubriche
Classic
The Jam: That’s Entertainment
Dal mod revival in pieno ’77 al soul di Beat Surrender, passando
attraverso un capolavoro come Sound Affects e una miriade di
singoli memorabili. The Jam, la prima, stupefacente creatura di
Mr. Paul Weller.
Non sono molte le band che possono vantare una carriera fulminante
come quella dei Jam di Paul Weller. Ingiustamente misconosciuto dalle
nostre parti (dove è toccata miglior sorte all’altra creatura welleriana, gli Style Council) ma ancora oggi una leggenda inossidabile
in patria (basti fare un giro nei music store londinesi per rendersene conto), nei cinque anni dal 1977 al 1982 questo trio si è
imposto come una delle realtà più significative della scena britannica alla stregua di leggende come Who, Kinks e Beatles. In
piena esplosione punk, i Jam hanno (ri)portato alla ribalta una visione musicale fondata su un’estetica rigorosa tanto quanto quella
dei contemporanei – quella mod -, riuscendo comunque a inserirsi nel solco della rivoluzione musicale in atto trovando linfa vitale
nell’urgenza espressiva tipica della gioventù di quei tempi, sposandola con il disagio urbano della periferia inglese. Non deve
troppo stupire che nell’era del no more heroes, della messa al bando dell’ego, i Jam siano diventati un vero fenomeno pop come
non se ne vedeva dai tempi della Beatlemania: la potenza espressiva delle loro canzoni (tante, troppe quelle da ricordare: da Down
In The Tube Station At Midnight a Beat Surrender, da Going Underground a When You’re Young, da That’s Entertainment a Town
Called Malice) sublimata nel formato del 45 giri (ancora efficacissimo in Gran Bretagna, si pensi anche al fenomeno Smiths di
qualche anno dopo), unita a precise istanze estetiche e musicali legate a una gloriosa era (i neanche troppo lontani ’60), non poteva
non far breccia in quella parte della gioventù inglese del tempo che all’iconoclastia del punk preferiva Quadrophenia.
“This is the modern world, we don't need no one
To tell us what's right or wrong”
The Modern World, 1977
Eppure è proprio dal punk che Weller prende le mosse nel 1976 insieme a Bruce Foxton (suo
fondamentale alter ego) e il batterista Rick Buckler: l’attitudine immediata e liberatoria di quella
musica ha più di un punto in comune con l’essenza più pura e animalesca del rock and roll classico
di Kinks e Who. Un assioma efficacemente dimostrato nei primi due album della band, In The City e This Is The Modern World
(1977), ancora grezzi nella forma ma ben focalizzati in struttura e dinamiche: un micidiale power trio votato al pop-punk, tutto
giocato negli incastri tra la chitarra squillante di Weller e il basso spigoloso di Foxton; in questa fase il formato più efficace è il
classico brano singolo da 2/3 minuti condito da armonie vocali e testi immediati, permeati del tipico ribellismo dell’epoca (le due
title tracks, Art School, le foxtoniane Carnaby Street e News Of The World). Per il fiorire di una vera e propria poetica che vada al
di là della canzone in sé bisogna però aspettare All Mod Cons (1978) e ancor di più Setting Sons (1979): gradatamente, i testi di
Weller si fanno più acuti e mirati (a livello politico e sociale, come in Little Boy Soldiers), il paesaggio musicale si fa più vario (il
soul di Heat Wave, gli acquerelli acustici di English Rose e The Place I Love, il melodismo spiccato di In The Crowd), in un
continuo gioco di rimandi nell’ossequiosa osservanza e devozione delle divinità del rock and roll (Marvin Gaye in Mr. Clean, i
Kinks coverizzati di David Watts, il Townshend camuffato da McCartney di Smithers-Jones). una scrittura che fa della citazione
un’arte (su tutte Fly, che riprende le figure di She Loves You), all’insegna di un revivalismo che è anzitutto amore incondizionato e
profondo, non (solo) pedissequa e stilosa imitazione dei propri idoli: un’attitudine che accompagnerà Weller in tutta la sua carriera
e ne sarà un aspetto fondante.
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“Waking up at 6 a.m. on a cool warm morning –
Opening the windows and breathing in petrol –
An amateur band rehearsing in a nearby yard
Watching the tele and thinking about your holidays”
That's Entertainment – 1980
Anche se a detta di molti i Jam continuano a rendere al meglio nel formato singolo ancor prima
che su Lp (la formidabile Going Underground, il sunto di una carriera), in Sound Affects (1980) i
tre appaiono finalmente maturi e snocciolano una scaletta impressionante. La Pretty Green posta in apertura mostra la raggiunta
completezza sia in fatto d'arredamento strumentale, sia per pulizia sonora, laddove i dischi precedenti a livello produttivo lasciano
trasparire un (pur simpatico) pressapochismo: è così che l'ibrido mod-punk di Weller acquista la tensione epica intrinseca nel
decennio che stava per spalancarsi e rende universale il britannicismo che lo sottende, facendolo rappresentante di tre epoche assai
distanti tra loro (quella beat, quella punk e quella yuppie). Start ruba il riff a Taxman dei Beatles e lo schianta su una chitarra in
levare, esaltandosi nel contrasto fra l'apoteosi funk della sezione ritmica e le echeggianti raffinatezze beat dei cori.
That'sEntertainment, testamento del Weller più arcigno, disintegra la way-of-life inglese con un potere scenografico secondo solo
a quello di Ray Davies e, come accadeva a questo, finisce col creare una cristallina discrepanza fra il sarcasmo del testo e la
gentilezza della ballata scelta come sfondo. Brano troppo spesso sottovalutato è Set The House Ablaze, che alterna un paio di
stacchi vitali e profumati (i Jam standard, per capirci), a momenti di soffocante cupezza, con chitarre aspramente distorte, batteria
pressante e marziale, fischiettii inquietanti che vengono inghiottiti nel caos circostante e un finale che manda il crescendo
strumentale a morire fra le braccia di Weller, allucinato, con gli occhi spalancati innanzi a questo mostro che egli stesso è
incredulo di aver creato, a urlare un improbabile la la la. Se nel rock chi lascia il segno è chi riesce a negarsi, Set The House
Ablaze consegna Weller all'eternità, riflette la voglia di vivere che solitamente traspare dalle sue composizioni in uno specchio
deformante, rappresenta quel ritratto capace di mantenerlo giovane alla modica cifra della sua anima. E porta in gloria un disco
che, al di là della qualità elevatissima dei singoli episodi (Monday, Boy About Town, But I’m Different Now..), risulta compendio
di una carriera e inietta nel talento compositivo di Weller quella sacralità propria dei classici.
Sound Affects avrebbe potuto essere il trampolino di lancio verso il successo mondiale, ma Weller preferisce fare un passo
indietro. Come scrive John Reed nelle note della riedizione del 1997: “Alla fine del 1980 i Jam erano la band più popolare in Gran
Bretagna. Tutti i polls li vedevano trionfatori: miglior gruppo, cantante, autore, bassista, chitarrista, singolo, album, cover art. Nel
1981, i Jam avrebbero potuto diventare un gruppo da stadio, e facilmente conquistare gli States. Al contrario, Paul Weller divenne
sempre più scostante nelle interviste, aspramente critico sia nei confronti del music biz, sia dei suoi fan più intransigenti. Fu
l’inizio della fine”.
“Fill my heart with joy and gladness / I’ve lived too long in shadows of sadness”
Beat Surrender – 1982
Il “futuro” si chiama The Gift (1982), il canto del cigno dei Jam: una raccolta invero discontinua di
brani pop, in cui la band si avventura nei sentieri musicali più disparati alla ricerca di un nuovo
suono, dirigendosi decisamente verso sonorità più black (la funky-disco di Precious e il quasi ska di
Circus);tuttavia, la formula è ancora imprecisa: non a caso, troneggia su tutto il disco la strepitosa
Motown di Town Called Malice, a tutti gli effetti, l’addio dei vecchi Jam, ma già miraggio di
qualcos’altro. Forse – sicuramente – il futuro (di Weller) si chiama Beat Surrender, singolone che prelude già alla controversa
svolta soul degli Style Council; alle tastiere c’è un certo Mick Talbot, e nell’immaginario di Weller cominciano a delinearsi
solitari e fumosi cafè francesi. Un tradimento per molti, una gradita novità per altri, una logica conseguenza del percorso già
intrapreso per altri ancora. Ma questa è già un’altra storia.
Antonio Puglia
(si ringrazia Federico Romagnoli per Sound Affects)
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Damo Suzuki : ritratto di outsider
Tra musica, filosofia e religione, fisionomia di uno dei più misteriosi e affascinanti
personaggi dell'avanguardia di ieri e di oggi. Damo Suzuki si racconta in
un'intervista esclusiva.
Il kraut-rock deve molto, moltissimo alla fiera indipendenza dei Can che, assieme a Faust
e Neu!, possono a ben diritto considerarsi il gruppo di rock-sperimentale più importante
che la Germania abbia mai generato. Dopo l’improvvisa dipartita del cantante Malcom
Mooney (a causa di un devastante esaurimento nervoso) nel 1970 la band si mise alla
ricerca di un front-man che avesse peculiarità interpretative diametralmente opposte a
quelle di Mooney. Holger Czucay e Jaki Liebezeit (rispettivamente bassista/tastierista e
batterista dell’ensemble) trovarono il loro uomo in una strada di Colonia mentre si esibiva
suonando una chitarra acustica (della quale pare conoscesse solo due accordi) e cantando/recitando una serie di poesie
automatiche. Era il giovane Kenji Damo Suzuki. Le prime testimonianze del nostro sono rintracciabili in Soundtrack, opera di
transizione, forte di quello che può venir considerato il primo ‘cavallo di battaglia’ del gruppo: Mother Sky, pezzo epico e
psichedelico tutt’ora tra i più noti dell’intero catalogo Can. Nel triennio ‘71/‘73 vengono pubblicati tre LP: Tago Mago, Ege
Bamyasi e Future Days. Attraverso fusioni di musica concreta, elettronica, pop, rock, jazz (e la lista potrebbe continuare) la voce
di Suzuki scivola suadente imbastendo liriche appena comprensibili nel tentativo, diciamo noi, di superare la retorica ampollosità
del cantautorato sixties. È il trionfo dell’elemento voce su ogni contenuto linguistico. Con Suzuki il cantato torna ad assumere il
carattere evocativo tipico dei culti primitivi. Per capire l’importanza di ciò che l’esperienza del nostro ha rappresentato basti
ricordare che il giovane Johnny Rotten s’era candidato a sostituire Suzuki dopo la sua repentina dipartita. Sfumata la ghiotta
possibilità l’ex-Rotten -poi John Lydon- mise a frutto anni di ascolto scrupoloso del materiale Can riversando il meglio delle loro
intuizioni nel progetto P.I.L. (si porga orecchio all’impalpabile dramma di Albatross dall’album Metal Box o all’asettico lamento
muezzin di Four enclosed walls da Flowers of romance). Ma pure l’intrattabile leader dei Fall, Mark E. Smith, cedette alla voglia
del tribute dedicandogli l’ipnotica I Am Damo Suzuki (da This nation’s saving grace).
Pare che la dipartita di Suzuki abbia avuto a che fare con una crisi spirituale che lo portò ad avvicinarsi ai Testimoni di Geova.
Così il nostro trascorse il resto degli anni ’70 lontano dalle scene. Successivamente si trovò ad affrontare un cancro
(fortunatamente debellato) e, divincolatosi dalle briglie della religione e delle sue disseccanti rigidità, nel 1984 Damo tornò alla
musica con il progetto Dunkelziffer (tre album d’ardua reperibilità: In the night, III e Live 1985).
Negli anni ‘90 la svolta radicale: fonda il free-combo Network dando vita ad un never-ending tour nel quale band del luogo si
esibiscono come supporto in improvvisazioni totali dagli esiti spesso eccellenti. Ogni suo concerto è una sorpresa assoluta e a
bearsene, oltre al pubblico, sono i musicisti di turno, consci di dividere il palco con un uomo che più di una rivista specializzata
definisce ‘leggenda vivente’. Il suo cantato, una litania Jim Morrison-iana colmata di una metafisica tutta obliqua, non si
risparmia proprio nulla: reading dalla mente di qualcun altro, cavalcate hardcore, falsetti fiabeschi o blues re-inventati attraverso le
sue origini orientali. Tra gli ospiti di spicco, per gli inconsolabili aficionados, figureranno pure i membri storici dei Can
(testimonianze in V.E.R.N.I.S.S.A.G.E., Seattle e JPN ULTD vol. 1 & 2).
Oggi esiste pure un suggestivo documentario dvd intitolato A Damo Story a testimoniare il fascino del nostro. Farà piacere
constatare che, per una volta, è stata una coppia di cineasti italiani (Matteo Corti e Nicola Quiriconi) a volere e credere in questo
progetto; A Damo Story vanta preziosi estratti live e una godibilissima intervista a Suzuki attraverso un montaggio veloce e
coinvolgente. Damo è timido e gentile, umile e disponibile ma estremamente determinato a preservare il suo status di outsider, al
di fuori di qualsiasi strategia capace di distoglierlo dal suo eterno inseguimento della libertà. Perciò le copertine dei suoi album
riproducono i disegni dei suoi figli (vedi Metaphisical Transfert del 2001), i suoi album sono esclusivamente live e la loro
produzione e distribuzione è gestita dallo stesso Suzuki. Lecito a questo punto parafrasare il motto dell’etichetta ESP Disk:
“L’artista soltanto decide cosa finirà su disco”.
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- Damo, i giovani oggi sembrano costantemente annoiati. Quali credi siano i loro desideri, cosa stanno aspettando?
Sono sovraccaricati di informazioni. È un po’ come il cibo: se ne mangi troppo finisci col sentirti insonnolito e svogliato. I giovani
con le idee chiare non si abbuffano; agiscono prontamente senza attendere un tornaconto e senza incappare nella noia. A dire il
vero non credo sia un problema circoscritto ad una particolare fascia d’età: è il problema comune ad un mondo che si trascina
schiavo del Sistema che lo appesantisce.
- I più ti chiedono dei tuoi progetti futuri e della tua esperienza con i Can; ma hai realizzato anche 3 album con i
Dunkerlziffer, cult-band a capo del movimento underground di Colonia; puoi riassumerci quel progetto?
Mi unii ai Dunkelziffer nel 1984. Cantavo con una formazione che comprendeva due tastieristi, un chitarrista, un bassista, due
percussionisti e un sassofonista. Ci esibimmo prettamente in Germania. Eravamo tutti di Colonia. Siamo apparsi in qualche
trasmissione televisiva. Devi sapere che dal 1982 alcuni studenti, artisti e punker avevano ‘occupato’ la fabbrica in disuso della
Stollwerk (industria produttrice di cioccolato, n.d.a.) a sud di Colonia. Inizialmente la polizia tentò di sfollarli ma alla fine il
governo consentì l’utilizzo di quello spazio auto-gestito. C’era un enorme sala della capienza di 1000 persone; tutte le pareti erano
coperte di graffiti e c’era spazio per dipingere, suonare… c’era persino un club punk che apriva alle due del mattino. I
Dunkerlziffer ci si esibivano regolarmente. Durò fino all’87. Fu organizzata una maratona musicale e toccò a noi l’ultima
esibizione. Durante il concerto tutti i graffitisti cancellarono le loro opere con della vernice bianca. Potevi vedere il pubblico in
lacrime. Quella fu, praticamente, la fine della scena underground di Colonia.
- Chi è stato, chi continua ad essere Michael Karoli (chitarrista e membro fondatore dei Can, morto nel 2001, ndr) per te?
Uno tra i più grandi chitarristi di sempre. Potevi riconoscerne il sound alla prima nota. Fu molto felice di suonare nella mia prima
tournee in Giappone. Disse semplicemente: “Sì, accetto senza pensarci su neanche un secondo”. La sua ultima performance la
tenne ad un festival all’aperto, in Germania. Il giorno prima era stato ricoverato in ospedale ma, noncurante dei pareri medici, si
unì a noi esibendosi con il respiratore. Morì troppo giovane, lasciando moglie e due figlie.
- La maggior parte dei testi rock trattano droga, storie d’amore distruttive, guerra, violenza, ostentazioni ‘machistiche’.
Pare che il Male interessi più del Bene… Lou Reed sostiene che siamo attratti da ciò che ci arreca tribolazioni e
sofferenza…
I testi, le lyrics, non significano nulla per me. Li associo tuttalpiù alla classe politica che parla, parla, promette fino allo stremo e
non rispetta nulla di ciò che ha detto. Inoltre certi atteggiamento da ‘eroe del rock’ non fanno presa su di me. Si tende a scadere
nell’egoismo più sciovinista e a non far nulla di concreto per il “sociale”. Quel tipo di musica cantautorale basata
fondamentalmente sui testi non fa parte del mio mondo.
- Esiste un/una cantante in grado di spezzarti il cuore con la bellezza della propria voce?
Se devo farti un nome direi Oumou Sangare, di Mali. Lei non è solo una straordinaria
cantante, è anche un lodevole modello comportamentale: mentre la maggior parte degli artisti
africani si trasferisce a Londra, Parigi e New York per incrementare il proprio successo lei
resta nella capitale di Mali, a Bamako, dove è attivamente coinvolta nella realizzazione di
ospedali per bambini. Ecco, mi piacciono quelli come lei, che aiutano i meno fortunati.
- Artista ci sei nato o lo sei divenuto attraverso l’esperienza? Chiunque può essere un
artista?
Non mi considero un artista. Se qualcuno pensa che lo sia per me sta bene. Cerco solamente
di essere un buon essere umano, tutto qui.
- Se col dolore nascono i capolavori allora qual è l’importanza del dolore nell’atto
creativo?
Tutto ciò che accade lo vedo in realtà come un processo costante dal quale è difficile estrapolare un momento in particolare.
Sicché il dolore non mi tange. E magari non ho mai confezionato un ‘capolavoro’…
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- Ti fa paura invecchiare?
Beh, è un processo naturale. Perché dovrei temerlo? Le vecchie generazioni hanno il compito di sostenere le nuove. Sono felice
d’invecchiare e di potermi confrontare ‘on stage’ con le nuove generazioni. Ho imparato molto dai giovani. Solo quelli che hanno
scarse ambizioni temono di invecchiare, e ci vedo una forte ambizione nel volersi esibire davanti ad un pubblico con dei giovani
come ‘supporter’.
- Mark E. Smith, leader dei Fall, ti ha dedicato una tra le sue canzoni più riuscite (I Am Damo Suzuki, dall’album This
nation’s saving grace, n.d.a.). I più lo descrivono come un personaggio polemico e attaccabrighe. Ha definito Julian Cope
“un idiota”, i Joy Division “un’altra band alla Bowie” e i Clash “una merda”. Ma di te canta: “Generoso…”. Come te lo
spieghi? L’hai mai incontrato?
L’ho incontrato un paio di volte tanto tempo fa. Abbiamo passato dei bei momenti conversando assieme; ciò che esce dalla sua
bocca è ciò che incorre a formare la sua visione del mondo.
- Ma in fondo esistono persone veramente cattive?
Ce ne sono, e molte! Quelli che si contendono il mondo e credono di avere Dio dalla loro parte… Quale Dio può accettare un
uomo che bombarda un paese uccidendo dei bambini o che detiene potere sui mass-media e dirige un popolo a bacchetta? Questo
genere di autorità è malvagia e repellente, è opera di Satana. Nomi come Bush e Berlusconi… non li accetto. Sciovinismo puro;
sono stanco di vedere certi individui, stolti e arroganti al contempo. Mi fa piacere non avere nulla a che fare con loro.
- E dei tuoi figli che mi dici?
Dovresti chiederlo a loro. Il rapporto coi miei figli è meraviglioso, ma non saprei dirti che tipo di padre sono. Parlo con loro come
se fossero degli amici. Agiscono secondo la loro coscienza e gli auguro di poter preservare sempre questa libertà.
- A questo punto è d’obbligo chiederti cosa ti commuove…
Mi commuove vedere i sorrisi nelle facce del pubblico quando mi esibisco. Sai, piango solo per la felicità.
- Se la maggioranza del mondo impazzisce, cosa capita ai sani di mente?
Credi che Dio permetterà ancora per molto che sia il Male a controllare il mondo? Siamo dominati da gente che crede di potersi
paragonare a Lui perciò ti dico… questi idioti non dureranno ancora a lungo.
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Classic Album Revisited
Lou Reed - S/t (Bmg, 1972)
I Can't Stand It / Going Down / Walk And Talk It / Lisa Says / Berlin / I Love You / Wild Child / Love Makes
You Feel / Ride Into The Sun / Ocean
Un maestro, una leggenda, un archetipo. Un volto che ci puoi spaccare un mattone e non fa una piega. E il rock stava per perderlo.
Sto parlando di Lou Reed, che prima una brutta epatite e poi il frustrante disgregarsi del golem Velvet Underground ridussero ad
uno stato di prostrazione pressoché assoluta. In effetti, quella che oggi suona come micidiale opera d’avanguardia (parlo, è chiaro,
dei primi tre dischi dei Velvet) aveva lasciato vieppiù indifferente il mercato bue. Meglio era andata a Loaded (1970), con Reed
però già dimissionario (pur firmandone praticamente tutti i pezzi). Quindi: si ritirò nella nausea, optò per un taglio netto, gettò alle
spalle l’ingrato glamourama del rock. Riuscite ad immaginarlo, rannicchiato in un ufficio della società paterna, mansione ufficiale
dattilografo? Io sì, ed è una visione che - un po’ sadicamente - mi delizia.
Però Lou aveva ancora moltissimo da dare e dire, e mi piace pensare che tanto la sua sensibilità da poeta folk (di quelli moderni,
immersi fino ai Ray-Ban nella melma della metropoli) quanto la boria spigolosa e altera del teppista elettrico abbiano
definitivamente maturato la tipica forma lucida e sferzante proprio durante quell’oscuro periodo di “sonno”. Tuttavia,
occorreranno concentriche e incrociate manovre di convincimento perché Mister Arroganza si decida a muovere le chiappe, volare
a Londra e zuppare nuovamente il biscotto nel music biz. Fatto ciò, si era a fine ’71, la produzione dell’omonimo album di debutto
fu velocissima. Anche perché molti pezzi in pratica già esistevano, avevano respirato l’aria degli studi d’incisione in qualche
session con gli ultimi Velvet per poi sparire in misteriosi cassetti. A decantare.
Venne dunque il tempo di Lou Reed, collezione di pezzi dalla strana asciuttezza, ora eterei ora storti, ora impulsivi e ora
ostinatamente acerbi, quasi orfani del tocco risolutivo: come se Lou avvertisse il vuoto della solitudine, l’angoscia di “quando le
cose si scuciono ai bordi”, e tentasse di esorcizzarle ostentando la sicurezza posticcia e l’intransigenza abrasiva di chi si confronta
ogni giorno con le ombre della strada. Non stupisce perciò se non furono in molti ad accorgersene, e neppure quanto poco di
questo disco si parli nel presente, come se fosse schiacciato nella prospettiva, tra le vette che lo hanno preceduto e i capolavori
immediatamente successivi (Transformer dello stesso anno e Berlin del ‘73). Tutto questo, badate bene, nonostante una track list
di tutto rispetto. Il problema, si usa sostenere, è la confezione. Sulla qual cosa in sostanza concordo, con i dovuti distinguo.
Già, perché la chitarra ritmica di Lou - fiancheggiatrice ossessiva di ogni complotto sonico - non è certo roba di second’ordine,
come ben testimonia l’iniziale I Can Stand It (la cui data di composizione autorizza a parlare di ruvido e mordace “proto glam”).
Corre però l’obbligo di sottolineare quanto il suo stile espressivo, così brusco ed essenziale, sembri sempre un passo indietro
rispetto alla cinica e decadente vena poetica. Ed ecco spiegata la necessità di un produttore-complice (magari eclettico e
visionario) al proprio fianco: un tempo era toccato a John Cale - principale artefice delle opalescenze e dei deliri V.U. - in futuro
ci penseranno prima David Bowie e Mick Ronson (per Transformer), poi Bob Ezrin (Berlin) e Godfrey Diamond (per lo
splendido Coney Island Baby) a far quadrare i conti, come Lou e Richard Robinson qui proprio non riescono a fare (si
riscatteranno, seppur parzialmente, in Street Hassle).
Il basso, ad esempio, è troppo spesso borbottio indistinto e pura comparsa, il piano fa garrula accademia (Going Down), le
armonie reclamano inutilmente alternative (chessò, un bordone d’organo, degli archi, un sax...), mentre le chitarre calcano sentieri
più adatti agli Stones (la pur divertente Walk And Talk It, dal riff pari pari quello di Brown Sugar) e talvolta finiscono
semplicemente per riempire troppo la scena (Ride Into The Sun, in cui imperversa lo Yes-man Steve Howe). Due pezzi in
particolare non rendono giustizia alla loro intrinseca bellezza: si tratta di Ocean (in cui tanto il gracidare delle corde quanto il
piano di un pur volenteroso Rick Wakeman fanno rimpiangere l’incedere epico e denso della session coi Velvet, con quel
magnifico organo, con quell'impagabile viola) e di Berlin, che la produzione di Ezrin vestirà pochi mesi più tardi di struggente
fascino mitteleuropeo. Qui sembrano immerse in acque troppo veloci, nelle rapide di una coscienza smaniosa di bruciare tutta
l’amarezza raccolta in cascina. Sorte simile capita alla toccante I Love You - qui frettoloso siparietto country rock, niente al
confronto dell'abbozzo nudo e palpitante presente nel box Peel Slowly And See - e a Lisa Says, seppur a quest'ultima in fondo
giovi il surplus d'elettricità, così come la beffarda asprezza dei coretti (Kay Garner e Helen Francois) e l’inciso errebì in groppa
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al piano di Caleb Quaye. Rimane il fatto che i pezzi (tutti i pezzi) testimoniano una capacità di scrittura ben superiore alla media,
uno svagato miscuglio di ferocia e poesia che in Love Makes You Feel ha come un sussulto velvettiano (c’è un crescendo nascosto
di corde - intanto che il basso affonda finalmente i colpi - fino al frenetico bailamme finale), mentre in Wild Child trova il bandolo
di un riff ipnotico (che proviene dalla crema dei sixties e finirà cordialmente adottato dai R.e.m.) e della narrazione disillusa e
folgorante, come era nei migliori Velvet e come sarà nei capolavori futuri.
I capolavori futuri, già: sto parlando di dischi che rendono il rock arte tra le arti, pazzia lucidissima meritevole di impegno e
passione, il più fedele fermo-immagine dei nostri convulsi e strani giorni. Ma non c’è bisogno che ve lo dica, vero? Tant’è, in
questo debutto c'è la potenza fuori controllo, l'estro maldestro, la proiezione fuori sincrono di un film intenso e spietato. Su cui
non è il caso di chiudere gli occhi.
Stefano Solventi
Flaming Lips – The Soft Bulletin (Warner, 1999)
Race For The Prize / A Spoonful Weighs A Ton / The Spark That Bled / Motion / What Is The Light / The
Observer / Waitin’for A Superman / Suddenly Everything Has Changed / The Gash / Feeling Yourself
Disintegrate / Sleeping On The Roof / Race For The Prize (Peter Mokran Remix) / Waitin’for A Superman
(Peter Mokran Remix) / Buggin’ (Peter Mokran Remix)
“The softest bullet ever shot” (il più tenero proiettile mai sparato - The Spark That Bled (The Softest Bullet Ever Shot ): in questa
frase si può racchiudere il senso musicale di questo disco - il nono in tredici anni di carriera - dei Flaming Lips. Dopo gli esordi
indie noise degli anni ’80 e un progressivo avvicinamento a sonorità più dolci e raffinate, il gruppo dell’ Oklahoma approda, alla
fine degli anni ’90, a un pop sinfonico dalle fattezze piuttosto acide. Senza abbandonare mai la passione per le atmosfere
psichedeliche e la vena surrealista dei testi, Wayne Coyne e compagni, con The Soft Bulletin si riscoprono eleganti, ma lo fanno in
maniera disinvolta e sempre ironica. Dietro le atmosfere dolciastre e a tratti “esageratamente” orecchiabili, si nasconde sempre un
sottofondo parodistico nei confronti degli stili più usurati del pop. Ecco allora che le influenze musicali subiscono una virata
pericolosa, rischiosamente mortale: dal noise dei Sonic Youth al pop sofisticato degli ultimi Beach Boys, dal garage dei Pixies
alla psichedelica circense dei Beatles, i Flaming Lips si tuffano nel mainstream, ma con i giusti anticorpi di chi proviene dal rock
indipendente. L’alto rischio comunque, in questo caso, equivale alla qualità. La produzione di Dave Fridmann basterebbe già a
garanzia della raffinatezza e complessità di un lavoro pomposo e semplice allo stesso tempo. I pesanti arrangiamenti con suoni
orchestrali sintetizzati e pianoforti riverberati, rivestono un tessuto leggerissimo in cui i clichè del pop trovano nuova vita in
un’invenzione melodica eccezionale; queste caratteristiche avvicinano molto Soft Bulletin a Deserter’s song dei Mercury Rev
(altra produzione di Fridmann), di cui sembra quasi un album gemello e che affianca all’apice qualitativo del pop orchestrale.
La grandezza di quest’album, progettato come una sorta di colonna sonora di un film immaginario, sta soprattutto negli
arrangiamenti, che rendono le strutture chiuse della forma canzone e le melodie orecchiabili non un fine ma un semplice mezzo:
un disco pop che gioca con il pop e lo stravolge nella sua stravaganza. Basterebbe la batteria sorda e pesante di Race For The
Prize (che sembra quasi voler “rovinare” l’appiccicoso motivetto introduttivo) a rappresentare l’idea del pop che i Flaming Lips
danno in questo disco. Bassi profondi e suoni lo-fi; un cantato stridulo sovrapposto a raffinati intrecci di fiati e archi;
arrangiamenti pomposi e semplici melodie: sono molti gli elementi di “disturbo” che trasformano le atmosfere limpide della
canzonetta in qualcosa d’altro, le sfilacciano e rimodellano. Anche un perfetto singolo radiofonico come Waitin’ For A Superman,
mette in evidenza forti contrasti tra l’atmosfera angelica di violini e campane e le stonature/scordature del pianoforte e della voce
di Coyne, sempre sul filo della tonalità. E qui i riferimenti a Syd Barrett sono abbastanza giustificati: nel goffo gospel di The
Gash, nelle sonorità sognanti di The Observer e Feeling yourself disintegrate, nel pesante andamento di Slow motion, i Flaming
Lips non nascondono mai il gusto per un sarcasmo tipico della psichedelica barrettiana.
Il disco si chiude con tre remix di Peter Mokran (uno abituato a lavorare con gente come Michael Jackson!) come a voler
aggiungere una provocazione in più a un lavoro che si mette in discussione dall’inizio alla fine e non lascia mai intendere
chiaramente se si sta ascoltando un capolavoro o un prodotto usa-e-getta. E questo lo rende ancora più affascinante.
Daniele Follero
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La promiscuità dell'arte contemporanea
una rubrica d'arte a cura di Davide Valenti
Presente, passato e futuro convivono dentro ogni opera d’arte: Il sacro e il profano uniti insieme dalla
seconda legge della termodinamica.
The Season. Volume 4: Primordialità Alchemica
Matteo Basilè – Jason Middlebrook
Anche se in mezzo ad un turbinio di trasformazioni trasfiguranti, l’arte continua ad
esistere. Ciò è dovuto alla convivenza di due dimensioni dell’ essere: l’eternità e la
temporalità. L’ arte contemporanea la sa lunga sulle possibilità di ibridazione, di
mescolamento, tra diverse forme d’arte e tra forme d’arte e di vita, ma non per questo
smette di esistere. Quelle di Necessario e Contingente, Puro e Impuro, Essere e
Divenire, sono le dimensioni nelle quali lo spettatore è introdotto nella quarta fase della rassegna stagionale The Season, a cura di
Gianluca Marziani.
Una doppia personale. Il vincitore del premio New York, Matteo Basilè (Roma 1974), torna ad esporre alla Galleria Pack dopo
“Romaduemilatre”. I suoi quadri e le istallazioni di light boxes rappresentano l’attenzione ai contenuti plastici: icone di uomini in
cui l’intervento del digitale non parla di tempi moderni, ma, al contrario, sottrae la temporalità, astrae. È la scoperta del sacro nella
contemporaneità. Le figure sono cariche di un’emozione che viene però immobilizzata perché sottratta alla realtà. L’immersione
nella dimensione eterna è accentuata dall’essenzialità dei colori: il prevalere del bianco e della luce, l’intervento mirato del nero e
del rosso acceso a sottolineare occhi, labbra e lingue disumane. Infine, alcune mosche sembrano posarsi sull’opera, mentre in
realtà ne fanno parte. Dice l’artista: “L’unico appiglio alla realtà sono le mosche. Una… Dieci … Cento…”.
Per Jason Middlebrook (Jackson, Michigan, 1966), pittura, scultura, fotografia e video sono i mezzi per esprimere il suo discorso
sul divenire della realtà e della cultura dell’uomo. Dopo la celebre istallazione “Empire of Dirt” del 2003 al Palazzo delle Papesse
di Siena nel quale la Cultura “alta”, nella forma dello stesso Palazzo delle papesse, veniva rappresentata divorata dal tempo ed
irrimediabilmente demolita, l’artista americano torna ad occuparsi dell’evoluzione attraverso l’indagine della mente. Questa volta
Middlebrook parte dall’esperienza quotidiana personale. La riflessione sulle infinite potenzialità inutilizzate dell’uomo sono alla
base di tre lavori: un video connette immagini della piccola figlia Violet sul seggiolone a quelle di un insieme di cucchiai piegati,
una scultura unisce le estremità di quei cucchiai in una forma che alterna stabilità e
caducità, una serie di semplici fotografie rappresentano, in prospettiva, Jason e amici
nell’atto di piegare la torre i Pisa. A queste manifestazioni seguono le associazioni dello
spettatore: quella bambina ha davvero piegato i cucchiai col pensiero? Quella scultura
parla di costruzione o di decostruzione?
In effetti, le opere di Middlebrook ci lasciano sempre un’impressione di ambiguità: vita
o morte. In questi ultimi lavori la riflessione riguarda in maniera più forte la vita. La
speranza è quella di poter recuperare le possibilità che un’educazione occidentale ci
toglie. La speranza sono i bambini. L’accento posto spesso sul concetto di entropia,
sulla tendenza del tutto, delle cose e delle idee, al disordine ed alla distruzione, è posto,
implicitamente, sulla sua riedificazione, sul suo nuovo equilibrio. Il concetto di
entropia, la seconda legge della termodinamica, ci aiuta a superare il dualismo vitamorte: la morte è trasformazione in altre forme, la vita è la stessa cosa, divenire
continuo. Ma se le potenzialità dell’uomo sono ancora tutte da scoprire, allora quella di
Middlebrook non è mai soltanto una contestazione del mondo dell’arte, ma è anche,
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sempre, una certezza della sua ricchezza infinita. Da questa prospettiva, possiamo aspettarci dall’arte infinite nuove espressioni:
tutto deve ancora essere detto.
Fino al 2 giugno 2005 presso:
Galleria Pack, foro buonaparte 60, 20121 Milano
tel +39 02 86996395 fax +39 02 89073052
e-mail: [email protected]
orario di visita: dal martedì al sabato, dalle 13.00 alle 19.30
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