Promuovere il lavoro, promuovere attraverso il lavoro. Riflettendo su alcune esperienze a Milano* di Ida Regalia aprile 2010 “Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stesso, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere.” Conrad, Cuore di tenebra (1902)1 Una nota di metodo È difficile sopravvalutare l’importanza del lavoro, anche oggi, in una società che è stata definita postindustriale, post-materialista, società dei consumi, società dai lavori corti (Hyde 2002), o in cui del lavoro si è decretata la fine (Rifkin 1995). Perché, nella sua ambivalenza strutturale di attività strumentalmente necessaria che comporta fatica e pena e insieme di attività creativa volta alla realizzazione di utilità per sé e per altri, come linguisticamente indicato dalla coppia labor/opera (labour/work in inglese), il lavoro è, continua a essere, allo stesso tempo azione umana di trasformazione e intervento indispensabile per la vita e via fondamentale per l’espressione di sé e il riconoscimento e l’integrazione, non meno indispensabili, di ciascuno nella società. È vero che, nella fase di espansione economica degli scorsi decenni, di fronte ai mutamenti dei modi di lavorare nelle società più sviluppate (Accornero 1997), che, com’è stato spesso osservato, hanno comportato uno spostamento dalla prevalenza della dimensione strumentale del lavoro all’aumento di quella realizzativa, ci si è talvolta illusi che fosse possibile ridurre al minimo, se non eliminare del tutto, il lavoro nella sua versione più penosa, caratterizzata dalla subordinazione e dalla gerarchia. Si è immaginato che fosse imminente il superamento del lavoro salariato, da sostituirsi con prestazioni di servizio rese da lavoratori indipendenti; o, più realisticamente, che fosse in corso una sua trasformazione sostanziale, basata sulla capacità d’iniziativa di lavoratori divenuti fondamentalmente autonomi, in grado quindi di prendere da soli le decisioni più opportune (Carniti 2009b). Tra le implicazioni di questa prospettiva ottimistica di libertà e autonomia crescenti per i lavoratori, due sono particolarmente importanti per la nostra riflessione: entrambe hanno trovato ampio spazio nei paesi che più si avvicinano al modello di capitalismo a economia liberale di mercato (Hall e Soskice 2001). Una è che a livello politico e istituzionale perde di rilievo l’interesse a prevedere e predisporre canali organizzati di voice e di tutela per il lavoro: ci si attende più o meno consapevolmente infatti che i lavoratori siano in grado di difendersi da sé e di trovare per proprio conto, sul mercato, le strade più adeguate per tutelare i propri interessi. È evidente che a questo corrisponde un forte ridimensionamento * In Lodigiani R., a cura di, Rapporto sulla città. Milano 2010. Welfare ambrosiano futuro cercasi, Ambrosianeum Fondazione culturale, Milano FrancoAngeli 1 Abbiamo ripreso la citazione di Conrad dal primo di una serie di articoli sul lavoro svolti da un conoscitore appassionato del tema quale Pierre Carniti (Carniti 2009a). La visione di Conrad, per quanto parziale poiché non considera in alcun modo la dimensione sociale del lavoro, ci sembra suggestiva dal momento che sottolinea, in modo crudo e senza concessioni, l’importanza fondamentale del lavoro per la definizione dell’identità dell’individuo. 1 del ruolo positivo che ci si immagina possa (ancora) giocare la rappresentanza del lavoro. Una seconda implicazione è che, venendo meno la problematicità del lavoro come questione collettiva, sono piuttosto i comportamenti dei lavoratori in quanto individui liberi e svincolati a divenire oggetto di attenzione, e in particolare i loro comportamenti in quanto consumatori - anzi, in quanto soggetti economici disponibili agli investimenti e al rischio - con effetti imprevedibili e inquietanti2. Da entrambe le prospettive, finisce per ridursi l’importanza di sostenere e promuovere il lavoro quale strumento fondamentale per lo sviluppo e il buon funzionamento della società e dei rapporti tra le persone, oltre che dell’economia. È tuttavia anche vero che nei momenti, quali quelli che stiamo attraversando, in cui il lavoro diviene scarso, lo si perde, non lo si trova, o si teme di perderlo e non ritrovarlo, ritorna a farsi del tutto e drammaticamente evidente il valore fondamentale che esso riveste quale prerequisito e base del benessere individuale e collettivo e dell’integrazione sociale. Sull’importanza materiale di disporre di un lavoro per procurarsi il reddito di cui ciascuno ha necessità non occorre dire molto. Si deve se mai aggiungere che ciò che conta in proposito è che si tratti di un lavoro effettivamente in grado di assicurare l’accesso alle risorse necessarie a vivere autonomamente – e in modo dignitoso – entro il proprio ambito familiare, dal momento che non ogni lavoro ha necessariamente questa caratteristica, com’è segnalato dal fenomeno dei working poors. È opportuno dire qualcosa invece sull’importanza sociale di averne uno. In effetti, nelle nostre società disporre di un lavoro, o quanto meno essere visibilmente nella condizione di chi lo sta cercando, costituisce la base minima, il prerequisito indispensabile per divenire e essere pienamente riconosciuti come adulti e come cittadini. Con l’affermarsi della società industriale e del principio del dovere del/diritto al lavoro, è infatti la dimensione strumentale dell’azione, l’apporto individuale alla creazione di utilità, a definire le identità da riconoscere socialmente, e a far di individui dispersi o ai margini “cittadini”, cui attribuire titolo d’accesso alle prestazioni e alle protezioni predisposte per i propri membri dalle istituzioni. È in questo modo che la storia moderna, che è storia dell’ampliamento del riconoscimento sociale al di là delle cerchie tradizionali di riconoscimento basate sulla proprietà, il censo, il livello d’istruzione, è connessa allo sviluppo dei diritti di cittadinanza sociale direttamente o indirettamente collegati al lavoro. E, viceversa, è per questo che l’essere disoccupati, il non disporre di una ragionevole prospettiva di lavoro, diviene la base di nuovi processi di esclusione sociale3. Come esperimentano drammaticamente molti giovani e immigrati, si può essere adulti e cittadini – o quali adulti e cittadini si potrà essere – se senza lavoro, vale a dire senza attese fondate di averne uno a breve? Ciò che soprattutto diviene rilevante da questo punto di vista sono i vantaggi non pecuniari del lavoro – ossia la possibilità di ottenere il riconoscimento degli altri che deriva dallo svolgere un lavoro e la stima di sé che vi è associata – rispetto ai vantaggi 2 Recentemente è stato proposto di reinterpretare il modello economico degli ultimi trent’anni, quello successivo al “glorioso” trentennio caratterizzato dall’intervento keynesiano dello stato e che si è soliti definire come neoliberista, quale forma invece di keynesismo privatizzato (Crouch 2009): in quest’ultimo periodo, infatti, il deficit spending, il debito per stimolare l’economia, che nel modello classico veniva assunto dallo stato, sarebbe stato assunto in modo disperso da una miriade di piccoli consumatori e investitori, in particolare dai lavoratori. 3 Per ulteriori approfondimenti del tema, ci permettiamo di rimandare a una riflessione di qualche tempo fa da cui abbiamo tratto spunto (Regalia 2000). 2 legati al percepire un reddito (Elster 1987). Quest’ultimo infatti può essere anche assicurato per altra via, mentre i primi – quelli che attengono alla sfera del riconoscimento sociale e della dignità personale – non possono essere realmente surrogati in altro modo. Ma ci sono ancora due punti da aggiungere. Il primo riguarda le caratteristiche che deve possedere l’attività in base alla quale il singolo acquisisce lo status sociale di adulto e cittadino in quanto lavoratore. Non qualsiasi attività vale infatti in proposito, come ci dimostra l’ampia area delle attività “sommerse” o “illegali”, o delle attività “non visibili” o che “non si può/ non si deve vedere”: dal lavoro di cura al lavoro nero, dalle attività illecite a quelle criminali. Il secondo punto riguarda il chi stabilisce, e come, quali siano le attività adeguate allo scopo e chi possa aspirare ad accedervi. Il passaggio dallo svolgimento di un lavoro all’acquisizione dello status di adulto e cittadino in quanto lavoratore non è infatti automatico, ma è l’esito di processi di inclusione e di esclusione (Gersuny 1994) – che sono la risultante per nulla scontata e lineare di conflitti, di contrapposizioni tra interessi e gruppi con forti asimmetrie di potere (Barbalet 1988) e dei meccanismi di definizione e ridefinizione delle norme di riferimento. In queste dinamiche cruciali sono le attività di programmazione e indirizzo delle istituzioni politiche, le iniziative anche inconsapevoli delle organizzazioni della società civile, gli interventi di intermediazione delle agenzie di rappresentanza, che non solo possono dar voce al lavoro, ma possono anche più o meno intenzionalmente concorrere a fissare demarcazioni e confini al lavoro da riconoscere socialmente e a stabilire i requisiti per aspirare a averne diritto. Ritornando al discorso più generale, si può ancora aggiungere che alla doppia dimensione strumentale e sociale del lavoro – del lavoro quale fonte di reddito e del lavoro quale base del riconoscimento e dell’integrazione sociale – corrisponde sul terreno della promozione e tutela del lavoro la distinzione tra politiche passive e politiche attive del lavoro: tra politiche volte a integrarne/surrogarne la dimensione di fonte di reddito e tra politiche volte a incentivarne e ampliarne le opportunità di svolgimento in quanto via insostituibile di realizzazione personale e riconoscimento sociale. In queste note, in cui ci soffermiamo su quanto si è cercato di fare a Milano per sostenere e promuovere il lavoro nel corso del 2009, anno di grandi timori e difficoltà di fronte alle conseguenze della crisi speculativo-finanziaria che ha investito l’economia internazionale, è appunto alla distinzione tra misure volte a sostenere il lavoro per tutelarne in primo luogo il reddito e misure volte a sostenerne anche la funzione di costruzione dell’identità e di riconoscimento sociale che cerchiamo di fare riferimento. Prima di entrare nel merito dei programmi, occorre tuttavia tratteggiare brevemente le caratteristiche del contesto. Il lavoro a Milano nel 2009 Se consideriamo gli ultimi anni, quelli per cui sono disponibili i rapporti sul lavoro a Milano curati congiuntamente dagli uffici studi di Assolombarda e di Cgil, Cisl e Uil, i dati ISTAT sulle forze di lavoro indicano un costante miglioramento di tutti gli indicatori fino al 2008. Come si legge infatti nel quarto rapporto del dicembre 2009, nel 2008 a Milano il tasso di occupazione raggiunge il 68,7% (+ 0,4% rispetto all’anno precedente e 10 punti percentuali più della media nazionale), avvicinandosi al valore obiettivo di Lisbona del 3 70%4. Anche il tasso di attività è in crescita e raggiunge il 71,4% (+ 0,4% rispetto all’anno precedente e oltre 8 punti percentuali più della media nazionale). Il tasso di disoccupazione infine registra un leggero aumento dello 0,1% rimanendo tuttavia, con il 3,9%, su livelli frizionali (a livello nazionale si passa invece dal 6,1 al 6,7%). In termini aggregati, si tratta indubbiamente di una situazione positiva, non distante dai migliori standard dei paesi nordeuropei. Nel 2008, dunque, la crisi finanziaria che ha già investito l’economia internazionale non sembra avere (ancora) avuto evidenti ripercussioni sul mercato del lavoro milanese, benché si registri un aumento dell’utilizzo della cassa integrazione ordinaria, le cui ore autorizzate aumentano nel corso dell’anno del 28% rispetto all’anno precedente e con una forte accelerazione negli ultimi mesi. Sono invece i dati dei primi due trimestri del 2009 a segnalare che è in corso un’inversione di tendenza. Nei primi sei mesi dell’anno il tasso di occupazione si riduce, passando dal 68,6% del secondo trimestre del 2008 al 68%, il tasso di disoccupazione aumenta, salendo dal 3,9% al 4,7%, e sia pur di poco anche il tasso di attività diminuisce, scendendo dal 71,5% al 71,3% e segnalando l’inizio di un effetto di scoraggiamento. Le difficoltà occupazionali sono peraltro maggiori di quanto indichino questi dati, dal momento che, come avviene in Italia, risultano in parte attutite/mascherate dagli ammortizzatori sociali, e in particolare dalla cassa integrazione. Il ricorso alla cassa integrazione ordinaria, che aveva già iniziato a crescere nel 2008, ha una forte impennata: nei primi nove mesi dell’anno le ore autorizzate a Milano salgono infatti a ben 15,6 milioni rispetto agli 1,3 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma aumenta anche il ricorso alla cassa integrazione straordinaria, che era invece diminuito l’anno precedente: nel periodo gennaio-settembre 2009 le ore autorizzate sono 17,2 milioni rispetto ai 4,2 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Aumentano anche gli iscritti alle liste di mobilità, che dai 17.454 del secondo trimestre 2008 passano ai 24.394 del secondo trimestre 2009. Il rapporto sulle dinamiche del mercato del lavoro curato dalla Provincia, sulla scorta anche di altre fonti (Brambilla et al. 2010), mette inoltre in evidenza che le difficoltà che stanno interessando il lavoro a Milano presentano caratteri qualitativamente nuovi. Vi si parla infatti di “situazione del tutto inedita rispetto all’ultimo decennio”. Non solo infatti crescono le ore autorizzate di cassa integrazione e il numero dei lavoratori messi in mobilità, come abbiamo appena detto, a cui occorre aggiungere l’aumento degli iscritti alle liste delle persone disponibili al lavoro. “I dati più clamorosi”, osservano gli autori del rapporto, sono “quelli relativi alla domanda di lavoro”. Dall’inizio del 2009 diviene infatti evidente che vi è “una caduta secca delle segnalazioni relative ai nuovi rapporti di lavoro, [...] concentrata principalmente nell’area del lavoro subordinato”. Se nel 2008 gli avviamenti presentavano un aumento di circa 30.000 unità rispetto all’anno precedente pari a +3,7%, nei primi dieci mesi del 2009 si registra un calo del 18,2% rispetto allo stesso periodo del 2008. In altri termini, per la prima volta si assiste a una riduzione consistente della domanda5 così che è ormai possibile affermare, concludono gli autori, “che si è chiusa una lunga fase in cui il numero degli avviamenti era stato sempre in crescita, indipendentemente dall’andamento del ciclo economico” (Brambilla et al. 2010, p. 11). 4 L’obiettivo del 60% per l’occupazione femminile qui era già stato raggiunto nel 2006. 5 Il processo, osservano gli autori, era in realtà già in atto l’anno precedente, come emerge quando vengono rielaborati i dati del 2008. 4 Tra le molte ragioni che spiegano come in passato si osservasse una crescita continua degli avviamenti, una particolarmente importante era quella dell’utilizzo fungibile delle nuove forme contrattuali, vale a dire delle diverse modalità di contratti temporanei o a orario ridotto e delle collaborazioni. A seconda delle caratteristiche congiunturali tendeva infatti a mutare la composizione della domanda di lavoro. Pertanto, nei momenti di difficoltà aumentava il ricorso ai contratti a termine o a altre forme non standard d’impiego, oppure la durata dei contratti si faceva più breve; molto raramente si giungeva tuttavia a un calo degli avviamenti in termini assoluti. Il fatto che, invece, a partire già dagli ultimi mesi del 2008 e poi nel corso del 2009, anche la quantità degli avviamenti diventi negativa è un chiaro segnale del carattere nuovo della crisi (Brambilla et al. 2010, p. 12). Del resto, il sistema produttivo milanese aveva iniziato un progressivo rallentamento già prima dell’esplodere della crisi economica a livello internazionale. In base a analisi della Camera di Commercio (Camera di Commercio di Milano 2009), soprattutto alcuni settori del terziario (commercio, alberghi e ristorazione, logistica) erano da tempo in difficoltà. La diminuzione delle assunzioni che si osserva ora in questi comparti, specie nella grande distribuzione che in precedenza aveva tenuto, indica che la caduta dei consumi già emersa a Milano da qualche tempo si è andata acuendo. Ciò non rappresenta “solo un segnale economico”, si legge ancora nello studio sul mercato del lavoro della Provincia, “ma anche un sintomo di quel disagio diffuso che sta attraversando la società milanese e a cui va in parte ricondotta la discussione sulla crisi dei ceti medi” (Brambilla et al. 2010, p. 14). Sul terreno delle forme d’impiego, sono le assunzioni con contratti temporanei (soprattutto in somministrazione, ma anche a termine) a diminuire per prime nel 2008, ma poi sempre più sono le assunzioni a tempo indeterminato, il cui calo continuerà in modo accentuato nel 2009. In definitiva, benché gli indicatori aggregati del mercato del lavoro non tendano a rilevare l’emergere della crisi sul terreno occupazionale se non all’inizio del 2009, molti segnali di difficoltà sono già presenti da tempo. E questo spiega le prese di posizione precoci sull’emergenza occupazionale, tra cui quella del cardinale Tettamanzi durante la notte di Natale del 2008, di cui diremo tra breve. Nel corso del 2009, non si assiste tuttavia solo a un forte aumento della disoccupazione e del ricorso alla cassa integrazione e a una contrazione complessiva della domanda di lavoro. Muta anche la composizione di tale domanda. Se, come si legge nel rapporto della Provincia, si confrontano i dati dei primi dieci mesi del 2009 con quelli dell’analogo periodo dell’anno precedente, si possono fare le seguenti osservazioni: i) diminuiscono in generale gli avviamenti di lavoro subordinato (che passano dall’83,3 al 77,7% del totale) e aumentano (dal 16,7 al 22,3%) le collaborazioni, che registrano una brusca impennata verso la fine dell’anno; ii) all’interno del lavoro subordinato, diminuisce l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato (che passano dal 30,8 al 27,7% del totale con un calo del 31,3%); iii) continua il calo del lavoro somministrato, che nel periodo considerato si riduce ulteriormente del 26,5%, attestandosi sul 9% degli avviamenti; iv) continua anche il calo dell’apprendistato, che diminuisce del 34,1%, riducendosi al 2,7% degli avviamenti; v) diminuiscono del 20,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente i contratti a termine, che però aumentano dal 55,2 al 57,7% la loro incidenza sul totale; vi) aumenta invece in termini sia assoluti sia relativi il lavoro intermittente o a chiamata, che, introdotto con la riforma del 2003, non aveva avuto che una diffusione molto limitata, ma che registra un vero e proprio boom nel 2009, quando gli avviamenti sotto questa forma raddoppiano rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, passando dallo 0,9 al 2,3% del totale (Provincia di Milano 2009). 5 In sintesi, rispetto al 2008 nel 2009 non diminuiscono solo gli avviamenti a tempo indeterminato, come prevedibile, ma anche le forme più strutturate di lavoro temporaneo (lavoro prestato da agenzia, contratti a termine) e di contratti con finalità formative (apprendistato), mentre aumentano le collaborazioni e soprattutto i rapporti occasionali e estemporanei: “si va nelle pieghe del mercato del lavoro, mentre diminuiscono tutti i rapporti di lavoro che implicano una scommessa sul futuro”, commenta in proposito un sindacalista della Camera del lavoro di Milano. Al di là della misurazione delle difficoltà occupazionali fornita dai dati sul mercato del lavoro, che diventano accessibili verso la fine dell’anno, per avere un’idea del clima che si va diffondendo sul tema del lavoro può essere utile dare una scorsa a Job, mensile online d’attualità e di approfondimento della Cisl di Milano. Il tema della crisi è al centro del numero di febbraio: “Ogni giorno sembra un bollettino di guerra con sempre nuove aziende che mettono i lavoratori in cassa integrazione o addirittura li lasciano a casa. Negli ultimi mesi, per limitarci alla sola provincia di Milano, l’Eutelia ha annunciato la dismissione del settore It. 500 dei 550 dipendenti della ex Olivetti di Pregnana rischiano il posto di lavoro. In difficoltà anche Engineering Otis, Innse, Fast Fluid, Nokia, Siemens. Le aziende che possono tentano la riduzione dell’orario (e dello stipendio), contratti di solidarietà, lunghe pause di produzione. Ma in alcuni casi aleggia lo spettro della chiusura e, comunque, i primi a pagare con la perdita del posto sono i contratti a termine e gli interinali, ribattezzati ‘lavoratori somministrati’. [...] E neppure il settore pubblico è esente da tagli.” (Condina 2009, p. 10). E l’inchiesta continua con la pubblicazione di storie di sospensioni, licenziamenti, difficoltà a trovare lavoro. I titoli sono eloquenti: “Il terzo settore: 50 anni, da un anno a casa”, “L’immobiliare: dopo 36 anni il benservito”, “La ditta di materiale plastico: 35 anni, licenziato in un minuto”, “La croce rossa: atipici a vita”, “La società di informatica: difficile trovare un altro posto”, “La chimica: 52 anni, da 9 mesi in cassa integrazione”. Un sondaggio di marzo riguarda il doppio lavoro: “Nell’ultimo anno, si legge, è aumentato l’esercito di chi, per necessità, deve fare un secondo lavoro. Che per il 40% è in nero”. Non mancano peraltro casi citati come esempio di buone pratiche di solidarietà, come nel caso della Franco Tosi di Legnano, di cui si legge nel numero di giugno, che i lavoratori si sono volontariamente ridotti lo stipendio per aiutare i cassintegrati, evitare i licenziamenti e pensare al futuro: “con un blocco di una commessa mancava liquidità e ci hanno messo in cassa integrazione da febbraio. Ora con la seconda tranche abbiamo ideato con un accordo sindacale un’autotassazione che raccoglie soldi su un libretto che poi vengono ridistribuiti. E c’è stata anche una forte adesione dalla parte impiegatizia che era stata toccata meno degli operai dalla cassa integrazione”. “In Italia non c’è più lavoro. E gli stranieri tornano a casa”, “Colf, il ritorno delle italiane” titolano invece due articoli comparsi nel numero di luglio/agosto, in cui vengono toccati due effetti speculari, e in qualche misura un po’ imprevisti, della crisi. Il tema del lavoro degli immigrati ritorna, da un altro punto di vista, nel numero di settembre, in cui si sottolineano gli effetti perversi del pacchetto sicurezza, approvato dal parlamento a luglio. Vi si osserva che l’introduzione del reato di clandestinità in periodo di crisi ha reso ancora più prezioso il permesso di soggiorno. Sono pertanto in aumento le assunzioni di comodo e vi sono addirittura società fallite che ‘vendono’ contratti di lavoro: “Esiste un mercato dei contratti di lavoro. Società registrate in fallimento, e che non svolgono alcuna attività, offrono buste paga a 200-300 euro al mese. In più, lo straniero deve pagarsi i contributi. Secondo gli ultimi dati Cisl alcuni contratti di lavoro costano già sui mille euro” (Simeone 2009, p. 16). Nello stesso numero si può leggere un approfondimento sulla crisi del commercio, descritto come comparto “in silenzioso declino. Non solo industrie e artigiani. 6 Anche i negozi, specie a Milano, sono allo stremo: perso nel 2009 oltre il 4% del fatturato. [...] Il declino è iniziato lo scorso inverno e da allora i ricorsi alla cassa integrazione sono triplicati”. È in questo contesto di apprensione, di incertezza, di smarrimento per le prospettive future, che le inchieste e i casi (di cui non abbiamo riportato che qualche esempio) ci restituiscono a tinte vivaci, dando spessore e rilievo al quadro più piatto dei dati statistici, che si collocano le iniziative con cui si è cercato di dare delle risposte. È a esse che ora ci volgiamo. Che cosa si è fatto A uno sguardo d’assieme, le iniziative e gli interventi ideati e messi in campo per fronteggiare la crisi sono, come spesso avviene a Milano, molteplici, per opera di diversi attori, pubblici e privati, ma anche – va detto – sparsi e tra loro poco coordinati. Non necessariamente sono tutti coronati da successo e non tutti in realtà traggono origine, come vedremo, dagli eventi recenti: talvolta l’intento risale a anni addietro, a testimonianza dell’esistenza da tempo di una situazione di sofferenza sociale che sollecita risposte. Senza pretese di completezza6, qui faremo cenno ai casi della Fondazione Welfare Ambrosiano e del Fondo diocesano Famiglia-Lavoro, alle iniziative di concertazione territoriale tra sindacati e enti locali (Provincia, comuni dell’hinterland milanese), all’intervento della Regione in materia di politiche passive e attive del lavoro, a altre iniziative promosse dalle parti sociali e dalle istituzioni nel corso del 2009. Il progetto Fondazione Welfare Ambrosiano Il primo caso, quello del progetto Fondazione Welfare Ambrosiano, è di quelli che traggono origine da domande e sollecitazioni provenienti da più parti prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008. Già nel dicembre 2004 – come si legge in un comunicato pubblicato sul sito della Provincia di Milano – il presidente della Provincia osservava: “Milano è la prima città italiana per reddito pro capite e quantità di risparmi, ma sempre di più si evidenzia come città a due velocità, nella quale aumentano le disparità sociali e cresce il numero di coloro che rimangono indietro e fanno fatica a tenere il passo. C’è un crescente senso di smarrimento e insicurezza che riguarda sia le fasce deboli, sia i giovani, per la precarietà del lavoro e per la difficoltà di trovare casa a condizioni accettabili. [...] Per chi vive e lavora a Milano prioritario è l’impegno delle istituzioni per risolvere i problemi dei pendolari, il carovita, l’assistenza agli anziani e per assicurare un futuro ai giovani, superando la precarietà dei rapporti di lavoro. Per questo bisogna che le istituzioni collaborino per la realizzazione di un nuovo patto per lo sviluppo e per la riorganizzazione di un nuovo welfare nel solco della miglior tradizione della solidarietà ambrosiana”. 6 Dato il carattere non coordinato, ma basato sull’iniziativa autonoma di diversi attori, degli interventi, è difficile infatti averne un quadro nitido. Le nostre osservazioni si basano su materiale reperibile sui siti di diverse istituzioni lombarde, sul rapporto di legislatura prodotto dalla Regione Lombardia nel 2010, sui testi di accordi firmati con i sindacati e su alcuni colloqui in profondità con esponenti sindacali. È probabile che il quadro sarebbe ancora più ampio e articolato se si fossero prese in esame le iniziative delle organizzazioni del terzo settore. L’unico, ma fondamentale, caso di iniziativa al di fuori degli interventi delle istituzioni e delle parti sociali che abbiamo considerato è quello del Fondo diocesano Famiglia-Lavoro. 7 Sul Corriere della Sera dell’11 agosto 2007, nell’articolo “Una Fondazione per il welfare ambrosiano” si legge che Cgil, Cisl e Uil, rispondendo a un appello del presidente della Camera di Commercio, che sollecita la nascita di un “welfare ambrosiano” per rispondere ai bisogni dei più deboli, propongono, sulla base di quanto da tempo esse stesse stanno chiedendo alle istituzioni, di creare una Fondazione per il welfare milanese. A tal fine sono pronte a mettere a disposizione i fondi residui per finalità sociali, che erano stati accantonati in un ormai distante passato durante le vertenze aziendali dei grandi gruppi. Può essere utile ricordare in proposito che alla metà degli anni settanta, nel momento di massima espansione della propria capacità rivendicativa diffusa, i sindacati avevano infatti chiesto, e in molti casi ottenuto, che le imprese maggiori versassero agli enti locali una contribuzione dell’1% del monte salari per la predisposizione di servizi sociali sul territorio (per creare asili-nido, potenziare i trasporti pubblici e simili). L’obiettivo era molto innovativo per la strategia sindacale tradizionale. Ma ancora più dirompente, e in grado di sconvolgere il calcolo costi-benefici dell’azione collettiva di tipo rivendicativo, era il fatto che, in un’ottica universalistica, i sindacati richiedessero che i contributi aziendali fossero utilizzati per predisporre servizi non da riservare ai dipendenti delle aziende coinvolte, ma da rendere accessibili a tutta la popolazione locale. Le resistenze che ne erano nate, oltre a difficoltà di attuazione da parte delle amministrazioni, avevano ostacolato la realizzazione dei progetti, così che non tutti i fondi erano poi stati utilizzati (Regalia 2008, pp. 101-2). È appunto questo piccolo tesoro residuo che i sindacati milanesi intendono mettere a disposizione. Il 12 gennaio del 2009, dopo due anni di progettazione, viene presentata alla stampa la Fondazione Welfare Ambrosiano, cui partecipano il Comune di Milano, la Provincia, la Camera di Commercio e i sindacati confederali7, ciascuno con un contributo di due milioni di euro. L’obiettivo, come si legge sui giornali, su cui l’evento ottiene non piccola visibilità, è di rispondere in un periodo di difficoltà alle esigenze di lavoratori atipici, precari e loro familiari: vale a dire di quanti sono esclusi dalle tutele del welfare tradizionale. Come richiesto con forza anche dal sindacato, l’intento non è tuttavia di tipo assistenziale; non si intende in altri termini distribuire contributi a fondo perduto, ma finanziamenti sotto forma di microcredito, ossia mutui a tassi inferiori a quelli di mercato per chi è in condizioni di necessità e non può dare garanzie. L’avvio operativo dell’iniziativa è previsto per marzo. Diversi dettagli sono tuttavia ancora da definire: la sede, che dovrebbe essere messa a disposizione dal Comune, i nomi di chi dovrà ricoprire le cariche dirigenziali, le modalità e i criteri di erogazione dei prestiti. A tal fine viene istituito un tavolo tecnico composto da rappresentanti dei quattro soggetti partecipanti. Alla Camera di Commercio, grazie alla sua esperienza nel campo del credito agevolato, viene affidato l’incarico di lavorare sugli aspetti di funzionamento del programma, a partire da quello del rapporto con le banche cui attribuire il compito di erogare i prestiti utilizzando la dotazione della Fondazione come fondo di garanzia. Come illustrato da un rappresentante sindacale nel tavolo tecnico, per facilitare i contatti con i destinatari degli interventi viene anche immaginato un modello di sportelli diffusi sul territorio, da predisporre con il concorso di tutte le organizzazioni aderenti, per la raccolta delle richieste. 7 Si noti che, in occasione della presentazione della Fondazione, il sindacato ci tiene però a precisare che lo strumento era stato pensato da tempo e non in funzione della crisi in corso. Al sindaco si chiede ora pertanto di aprire un tavolo anti-crisi per far fronte ai nuovi problemi. 8 Il progetto tuttavia non decolla, almeno non subito, nonostante la disponibilità dei fondi e il sostanziale accordo di tutte le parti su finalità e modalità operative8. Difficoltà nell’individuare la sede e nella nomina dei responsabili e comprensibili rallentamenti dal lato della Provincia, in seguito all’insediamento della nuova maggioranza di centro-destra dopo la consultazione elettorale del giugno 2009, sono tra le ragioni del forte ritardo. Il 14 settembre 2009 viene firmato l’atto costitutivo della Fondazione. A fine anno, il 23 dicembre, presso la sede del Comune a Palazzo Marino la Fondazione Welfare Ambrosiano viene infine insediata, non sappiamo tuttavia con quali esiti. Il Fondo diocesano Famiglia-Lavoro Molto diversa dal punto di vista della capacità di intervento è la vicenda del Fondo diocesano Famiglia-Lavoro, preannunciato dall’Arcivescovo di Milano nella notte di Natale 2008, quando ormai si leggono le avvisaglie della crisi, con l’intento di aiutare le famiglie in difficoltà per la perdita o la mancanza di lavoro. Istituito ufficialmente il 23 gennaio 2009, nel corso dell’anno nel Fondo confluiscono oltre sei milioni e mezzo di euro, provenienti, oltre che dalla donazione personale di un milione da parte dell’Arcivescovo e di un analogo importo iniziale (poi aumentato) da parte della Cariplo, dalle donazioni di enti e società, dalle offerte di privati, dalle raccolte svolte nelle parrocchie. Come si legge nella relazione del 23 dicembre 2009, a consuntivo dell’attività svolta durante l’anno, l’attuazione del progetto è stata affidata a un consiglio di gestione, che ha operato utilizzando “procedure, regolamenti e strumenti precisi visibili nella sezione dedicata sul sito www.chiesadimilano.it. [...] Per raccogliere le domande di aiuto e ascoltare le persone in difficoltà per la perdita del lavoro, Caritas e Acli hanno organizzato e attivato 104 distretti del fondo. [...] I volontari impegnati in questi distretti sono circa 500 e nel mese di marzo hanno seguito un apposito programma di formazione. In questo primo anno di attività del Fondo, il consiglio di gestione ha analizzato 3.247 domande di aiuto riconoscendo l’idoneità e approvandone 2.333, per un’erogazione complessiva di € 5.053.405”. Sempre nella relazione consuntiva vengono riportate le caratteristiche delle persone che hanno ricevuto il contributo: uomo (75%), italiano (51%), coniugato (73%), tra i 31 e i 50 anni (71%), con figli minori (82%), operaio (70%), disoccupato da meno di un anno (72%), con reddito familiare inferiore a 500 euro mensili (46%), con spese mensili inferiori a 500 euro (78%), con carico debitorio inferiore a 750 euro (76%). Viene inoltre riportata la distribuzione percentuale dello stato lavorativo delle persone che si sono trovate in difficoltà in seguito alla crisi: licenziamento nel 33% dei casi, fine di un contratto a termine nel 27,1%, cassa integrazione nel 17,7%, riduzione dell’orario nel 5,9%, mobilità nel 2 %, fallimento di attività in proprio nell’1%, altro o non indicato nel 13,3%. 8 Difficoltà non molto dissimili sembra incontrare nello stesso periodo il progetto del Comune di istituire un osservatorio del mercato del lavoro, in cui far confluire i dati sui fabbisogni occupazionali e sulle attività produttive mettendo in collegamento le fonti a disposizione delle diverse istituzioni e associazioni milanesi. In questo caso il numero dei soggetti coinvolti è anzi più ampio di quello della Fondazione Welfare Ambrosiano, poiché comprende anche le associazioni degli imprenditori. Ideato per poter fornire periodicamente quadri conoscitivi aggiornati e completi da utilizzare per progettare gli interventi in materia di occupazione, esso non trova però attuazione. Viene ripresentato in una proposta di delibera per l’approvazione del documento “Milano Lavora. Linee guida per le politiche del lavoro a Milano”, in corso di discussione nel momento in cui scriviamo queste riflessioni. 9 Ciò che interessa sottolineare in questa sede è che l’iniziativa, che ha indubbiamente non piccolo successo quanto a capacità di portare a termine i compiti assegnati da un punto di vista quantitativo, anche in termini qualitativi sembra andare oltre una dimensione puramente assistenziale o di beneficenza. Grazie infatti a com’è stato strutturato, il lavoro dei volontari “ha permesso non solo di distribuire i soldi del Fondo, ma anche di inviare chi ha perso l’occupazione verso altre forme di ammortizzatori sociali, di cercare con loro altre opportunità di impiego e di portare solidarietà e vicinanza umana, realizzando così il monito del Cardinale: ‘Chi perde il lavoro non perda anche la dignità’” (Colombo 2009). Ritorneremo su questo nelle conclusioni. Subito è opportuno osservare che, proprio per questa capacità di coniugare efficacia operativa e attenzione qualitativa ai problemi delle persone in difficoltà attraverso una mobilitazione diffusa di risorse di tipo volontario, l’iniziativa viene vista come una provocazione culturale da parte del sociologo Aldo Bonomi, che ne sta attualmente studiando caratteristiche e impatto (Nardi 2010). Le iniziative di concertazione territoriale Un diverso genere di progetti su cui brevemente ragionare è costituito dalle iniziative che nascono dalle pratiche di concertazione locale tra sindacati e enti locali: pratiche che hanno ormai accumulato nel nostro paese, e in particolare in Lombardia e a Milano, una storia lunga, caratterizzata da alterni successi (Regalia 2008). Un primo importante esempio è quello del ‘Protocollo di intesa emergenza welfare’, firmato già il 17 novembre 2008 dalla Provincia di Milano e dai sindacati confederali. Con l’accordo vengono definiti i criteri generali per l’attuazione del programma straordinario di interventi a favore delle famiglie e del lavoro che la Provincia intende varare, con uno stanziamento di 25 milioni di euro, per far fronte ai gravi problemi che si stanno manifestando con la crisi. È previsto che il Programma di Emergenza Welfare si articoli lungo tre assi: il primo, e più consistente, volto a erogare aiuti alle famiglie per contrastare il rischio di nuove povertà; il secondo, e più contenuto, destinato a sostenere le iniziative promosse da organizzazioni del terzo settore che si occupano di povertà estreme; il terzo teso a promuovere stabilità occupazionale attraverso l’erogazione di incentivi alle imprese – specie piccole – che assumano e stabilizzino lavoratori disoccupati con esperienze di lavoro precario e lavoratori precari. Altri esempi sono quelli delle intese raggiunte tra i sindacati e le amministrazioni di vari comuni attorno a Milano (come nel caso di Cinisello Balsamo ad aprile o di Cernusco sul Naviglio nell’ottobre 2009) per la costituzione di piccoli fondi per l’emergenza crisi, da destinare a contributi finalizzati al sostegno dei redditi da lavoro, che si aggiungono a quanto già predisposto per le politiche sociali. L’intento, come si sottolinea in ambienti sindacali, è di far fronte alle nuove emergenze: quelle che colpiscono anche fasce di lavoratori che in precedenza non avevano avuto bisogno di ricorrere ai servizi dei comuni e che probabilmente non sanno neppure come accedervi. Particolarmente elaborata è l’intesa raggiunta a Cernusco sul Naviglio, in un contesto caratterizzato da elevato coinvolgimento degli attori locali (è infatti attiva una Consulta del Terzo Settore cui partecipano anche i sindacati ed è stato costituito un tavolo sulla crisi che riunisce amministrazione comunale, Caritas, Acli e organizzazioni sindacali): in questo caso, oltre agli interventi a integrazione del reddito ridotto o perso dai lavoratori delle aziende in crisi, l’intesa prevede l’impegno a organizzare incontri con le associazioni degli imprenditori per monitorare l’andamento del mercato del lavoro e a promuovere iniziative e progetti mirati per riqualificare e ricollocare i lavoratori coinvolti dalla crisi. 10 Anche da questo punto di vista, si colgono dunque segnali di un interesse a cercare non solo di sostenere il reddito dei lavoratori, ma anche di accompagnarli nel ritrovare una nuova occupazione. Gli interventi di politica del lavoro della Regione Quanto a dimensioni e a estensione l’impegno senza dubbio più rilevante delle istituzioni di fronte alle conseguenze della crisi economica è peraltro quello della Regione sul terreno degli ammortizzatori sociali in deroga. In attuazione infatti della normativa nazionale che ha temporaneamente esteso la possibilità di utilizzare la cassa integrazione e le indennità legate alla mobilità in casi esclusi dagli ammortizzatori tradizionali e a seguito dell’accordo tra Governo e Regioni sugli ammortizzatori sociali del 12 febbraio 2009, in cui si stabilisce che il costo aggiuntivo del sistema venga ripartito tra Stato e Regioni utilizzando anche parte del Fondo Sociale Europeo impegnato a livello regionale9, la Regione Lombardia è tra le prime a concordare, il 16 aprile, con il Ministero del lavoro entità e modalità degli interventi e a firmare quindi il 4 maggio con le parti sociali lombarde un accordo quadro per definire i criteri di accesso agli ammortizzatori in deroga. Con il raggiungimento infine il 16 giugno di un ulteriore “Patto per le politiche attive” con le parti sociali, in cui vengono stabilite le misure di politica attiva per il lavoro necessarie per poter ricorrere alle risorse del Fondo Sociale Europeo, viene completato il quadro dell’intervento regionale, e lanciato lo strumento della Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali, che integra un precedente sistema di Dote Lavoro già introdotto sperimentalmente nel 2007 (IRER 2010, pp. 24-30). Con il sistema messo in atto, viene in primo luogo notevolmente ampliata la platea delle figure contrattuali cui si applicano gli ammortizzatori in deroga: vi possono ricorrere i titolari di contratti a termine, i soci dipendenti delle cooperative, i lavoratori dipendenti a domicilio, i lavoratori in somministrazione, gli apprendisti. È anche prevista una sperimentazione per i lavoratori stranieri. Allo stesso tempo, politiche passive, volte al sostegno del reddito, e politiche attive, volte alla qualificazione e riqualificazione dei lavoratori in una prospettiva di accrescimento della loro forza e della loro occupabilità sul mercato del lavoro, risultano inoltre per la prima volta strettamente, anzi indissolubilmente, intrecciate: il lavoratore che si avvale degli ammortizzatori in deroga ha infatti il diritto-dovere di dare disponibilità immediata a un percorso di politica attiva, vale a dire a un percorso formativo certificato, cui accedere mediante la Dote Lavoro di cui diviene individualmente titolare; l’avvio effettivo del percorso formativo deve inoltre aver luogo entro 45 giorni dall’inizio della cassa o della mobilità, pena decadenza dalla possibilità di usufruire del sostegno al reddito Le misure trovano un’estesissima applicazione: in base a stime prudenti raccolte in ambienti sindacali, solo a Milano le persone che avrebbero usufruito degli ammortizzatori in deroga nel corso dell’ultimo anno sarebbero circa 15.000. Su un piano più qualitativo, lo strumento della Dote per accedere a percorsi di formazione (e reinserimento) si presenta come molto flessibile e fungibile: può essere infatti utilizzato liberamente dai singoli in modo personalizzato per costruirsi il proprio percorso contattando gli operatori accreditati dalla Regione, o accettando proposte offerte direttamente da qualcuno di essi, secondo l’impostazione originariamente delineata dalla Regione; o può essere utilizzato nel quadro di modalità concordate tra sindacati e direzioni aziendali in occasione degli accordi 9 Per un approfondimento e una discussione critica della disciplina sugli ammortizzatori sociali in deroga, si rimanda a Pallini (2009). 11 necessari per accedere agli ammortizzatori sociali o in base a altre intese sindacali, come richiesto dalle parti sociali e accolto nel Patto per le politiche attive. Per com’è congegnato più in generale il sistema delle politiche del lavoro, tuttavia, questa stessa apertura e flessibilità dello strumento della Dote e la libertà d’iniziativa che permette finiscono per rivelarsi anche talvolta – forse un po’ inaspettatamente – un limite. Chi scrive non dispone di dati statistici sulle caratteristiche personali (genere, età, provenienza geografica, titolo di studio, condizione professionale e familiare) di quanti hanno usufruito della Dote. È noto tuttavia che gli ammortizzatori in deroga, e il dirittodovere quindi di accedere a un percorso formativo, riguardano soprattutto lavoratori di aziende piccole e piccolissime, spesso di aziende artigiane. O riguardano lavoratori temporanei, specie somministrati, nelle aziende dei servizi, come suggerito dai dati sul mercato del lavoro di cui s’è prima detto. In particolare i primi, che – si sottolinea in ambienti sindacali – sono spesso lavoratori con professionalità media o medio-alta e non più giovani, proprio perché lavorano in piccole imprese possono non aver dimestichezza con l’idea stessa di essere in cassa integrazione e tanto meno di dover/aver l’opportunità di frequentare un corso. “Già il fatto di essere in cassa integrazione, di non aver lavoro, lo vivono quasi tutti male, si sentono dei falliti... E lo vivono ancora peggio quando li metti a più di cinquant’anni dietro a un banco di scuola, mentre avrebbero loro ancora tanto da dare, da insegnare...”. Tanto più che – e qui il discorso vale un po’ per tutti coloro che usufruiscono degli ammortizzatori in deroga – “più di metà della formazione è in inglese per principianti o informatica di base, o, quando va bene, italiano per stranieri”. Il giudizio è di un responsabile della Camera del Lavoro di Milano che si occupa di mercato del lavoro; ma non diverse sono le valutazioni che esprimono responsabili di altri sindacati. In effetti, l’attribuzione di opportunità formative a accesso individuale tende a favorire soluzioni subottimali se non è insieme disponibile una rete efficiente di servizi di informazione e di accompagnamento nella individuazione, entro l’offerta delle centinaia di operatori accreditati presso la Regione, delle opzioni più opportune e adeguate ai propri interessi e alle proprie capacità. Da questo punto di vista, l’assenza di un sistema di servizi per l’impiego realmente funzionante, in grado di svolgere con professionalità quei compiti di orientamento e tutorship per chi si muove sul mercato del lavoro che caratterizzano i migliori modelli di politiche attive in Europa, si rivela il punto debole di un intervento quantitativamente generoso, ma di fronte a cui molti finiscono per trovarsi soli e un po’ scoraggiati. Iniziative dei sindacati Quest’ultimo punto ci conduce a qualche ulteriore cenno alle iniziative in cui sono coinvolti attivamente i sindacati, oltre alla loro attività ordinaria e a quanto si è già detto. Il Patto per le politiche attive firmato con la Regione prevede anche infatti che i percorsi formativi che accompagnano gli ammortizzatori in deroga possano essere concordati tra sindacati e direzioni in azienda, o fissati in accordi sindacali territoriali o di settore. Almeno in via di principio, ciò apre delle opportunità per interventi anche innovativi da parte del sindacato. E in qualche caso ciò avviene. Un esempio particolarmente interessante è quello dell’accordo raggiunto in una piccola azienda di post produzione cinematografica, la cui attività richiede la combinazione di competenze professionali tra loro notevolmente diverse. In questo caso, in occasione del ricorso alla cassa integrazione in deroga, sindacato e imprenditore firmano un accordo per “realizzare – si legge – un piano formativo condiviso che permetta ai lavoratori di incrementare le proprie competenze onde favorirne l’integrazione e la fungibilità 12 nell’ambito delle rispettive funzioni. Il piano si configura [pertanto] come un’opportunità per la trasmissione delle competenze tra i lavoratori, col coordinamento di un organismo formativo accreditato. Date le specificità del settore [...] si ritiene opportuno far sostenere alle maestranze stesse il ruolo di formatori nei confronti dei colleghi con differenti esperienze, in un rapporto di reciprocità didattica: in pratica ogni lavoratore sarà formatore e fruitore in momenti diversi.” E l’intesa prosegue specificando finalità e compiti assegnati ai vari attori coinvolti e le modalità di verifica dei percorsi individuali e della valutazione finale dell’acquisizione delle conoscenze. È evidente – commenta il sindacalista che ha promosso l’accordo – che quando la crisi finirà l’imprenditore disporrà di lavoratori più polivalenti e fungibili; ma anche i lavoratori disporranno di maggiori risorse che potranno eventualmente spendere sul mercato, secondo una logica virtuosa di gioco a somma positiva in cui tutte le parti accrescono il proprio guadagno, e in cui, in particolare, la professionalità e i saperi su cui largamente si fonda la dignità del lavoro, non viene mortificata. Non si tratta tuttavia di pratiche molto diffuse. Il gran numero di piccole imprese e attività artigianali per cui si richiedono gli ammortizzatori in deroga rendono proibitivo un impegno sistematico di tipo ideativo da parte delle organizzazioni dei lavoratori. Inoltre, come francamente ammette lo stesso sindacalista, in molti casi il sindacato non è ancora pronto a cogliere l’occasione. Tra le altre iniziative che il sindacato intraprende, importante è l’accordo per l’anticipo delle integrazioni salariali che viene firmato assieme alle organizzazioni degli imprenditori con l’ABI, l’associazione delle banche, all’inizio dell’anno a Milano e che verrà poi ripreso a livello nazionale. In una situazione infatti in cui le imprese per grave carenza di liquidità non sono in grado di anticipare, come solitamente avviene, l’erogazione delle indennità di cassa integrazione, i lavoratori sospesi rischierebbero di attendere anche 5-6 mesi la corresponsione delle integrazioni da parte dell’Inps. L’accordo, fortemente voluto dal sindacato, prevede che siano invece gli istituti di credito aderenti all’intesa a effettuare gli anticipi, rivalendosi poi sull’istituto previdenziale. Altre iniziative sono volte a creare le migliori condizioni per il lavoro a Milano in occasione dell’Expo 2015. A tal fine si raggiungono vari protocolli d’intesa con le istituzioni e le associazioni degli imprenditori: in generale sulle relazioni industriali in vista dell’evento; con le associazioni degli edili per il controllo dei rischi di infiltrazioni mafiose; per stabilire gli standard di riferimento riguardo all’utilizzo di lavoro di tipo volontario; per l’adozione delle politiche per la sicurezza e la prevenzione degli infortuni, con particolare attenzione alla formazione dei lavoratori stranieri. L’intento generale è di impedire che l’evento diventi occasione per un deterioramento delle condizioni di utilizzo del lavoro. Un ultimo importante punto è infine quello dell’iniziativa sindacale per cercare di risolvere l’incongruenza tra la normativa sul lavoro degli immigrati, che prevede che in caso di perdita del lavoro i lavoratori stranieri abbiano sei mesi di tempo per trovarne un altro, pena la revoca del permesso di soggiorno e l’obbligo a lasciare il paese, e quella sugli ammortizzatori sociali, e in particolare sulla mobilità cui anche i lavoratori stranieri accedono, che prevede invece periodi più lunghi di sostegno del reddito in vista di una nuova ricollocazione, durante i quali è peraltro vietato recarsi all’estero. La questione, che solleva non pochi problemi di interpretazione e comportamento in un’area a elevato utilizzo del lavoro degli immigrati quale quella milanese, richiede il pronunciamento dei ministeri competenti. Ed è significativo che sul tema si raggiunga una posizione comune, sottoscritta, oltre che da Cgil, Cisl e Uil, dalle associazioni degli imprenditori e dal prefetto di Milano, per chiedere che venga precisato che l’inizio del semestre entro cui 13 occorre trovare un nuovo lavoro decorre dal momento in cui scadono gli ammortizzatori sociali. Per una valutazione d’assieme Il repertorio di iniziative che abbiamo tratteggiato è approssimativo e incompleto, come s’è già detto. L’impressione che comunque se ne ricava è di un non piccolo attivismo per parte di molti. Ma quali ne sono gli esiti? Non siamo certo in grado di valutare quale sia stata l’efficacia dei provvedimenti andati a buon fine, ma possiamo provare a fare qualche considerazione riepilogativa a partire dalle osservazioni sulla doppia valenza del lavoro e delle politiche del lavoro con cui abbiamo aperto queste note: e quindi sul lavoro quale fonte di reddito e sul lavoro quale base della stima di sé e del riconoscimento da parte degli altri, da un lato, e sulle politiche volte a integrarne/surrogarne la dimensione di fonte di reddito e sulle politiche volte a incentivarne e ampliarne le opportunità di svolgimento in quanto via insostituibile di realizzazione personale e riconoscimento sociale, dall’altro. Alcune considerazioni riguardano il primo versante della questione: quello relativo alla dimensione strumentale del lavoro e alle politiche passive di sostegno del reddito che vi sono collegate. Ci si può probabilmente attendere in proposito che nel loro insieme i provvedimenti messi in campo a Milano abbiano avuto un significativo successo nel tamponare le situazioni di difficoltà. Il riferimento è qui principalmente agli ammortizzatori sociali, soprattutto a quelli in deroga, in quanto volti a dar sostegno alle nuove forme di disoccupazione o sospensione dal lavoro - in particolare a quelle che hanno interessato le modalità più strutturate di lavoro non-standard di tipo temporaneo, la cui domanda, come s’è detto, è crollata durante la crisi. Ma il riferimento è anche ai programmi di intervento messi in campo dalla Provincia, dalla Diocesi di Milano, da comuni dell’hinterland. Ed è anche alle intese per l’anticipazione della cassa integrazione. Ma va anche sottolineato che non tutti coloro che hanno perso il lavoro possono aver usufruito degli ammortizzatori in deroga. Ne erano infatti esclusi collaboratori e partite IVA, vale a dire i lavoratori parasubordinati, formalmente non alle dipendenze, che a Milano sono molto diffusi. Non sappiamo se e quanto gli altri programmi di intervento abbiano fatto fronte a questo genere di emergenze. Ma è certo probabile che molti giovani e donne, o anziani, tra cui questi contratti sono particolarmente diffusi, non abbiano goduto di sostegni al reddito. Più in generale, si può dunque dire che la crisi, avendo non solo toccato un numero ampio di lavoratori, ma avendo anche fatto emergere le difficoltà di una vasta platea di figure lavorative non tradizionali e di piccole e micro imprese, ha messo ancor più in evidenza i limiti del nostro sistema di protezione del lavoro a partire dall’obiettivo essenziale di assicurare livelli minimi di reddito. Soprattutto a Milano, la città italiana più affluente, si potrebbe probabilmente fare di più, si dovrebbe quanto meno aspirare a maggiore sistematicità. Ulteriori considerazioni, più articolate, si possono fare in relazione all’altro versante della questione: quello che riguarda la dimensione realizzativa del lavoro e le politiche attive che vi sono connesse: ossia le politiche volte a promuovere l’accesso al lavoro come via per la costruzione dell’identità e del riconoscimento e integrazione sociale dei lavoratori. In realtà, come s’è visto, i diversi interventi hanno cercato in qualche modo di tener conto anche di questo obiettivo: indirizzare chi ha perso il lavoro verso programmi e 14 istituzioni che ne facilitino il ritrovamento fa parte dell’impostazione non puramente assistenziale adottata dal Fondo diocesano Lavoro Famiglia; e, almeno in parte, il piano della Provincia e gli accordi raggiunti con alcuni comuni intorno a Milano contengono misure per incentivare la riqualificazione e il ricollocamento dei disoccupati. Che questo venga esplicitato è un dato certamente positivo. Ma non sappiamo quanto vi corrispondano poi azioni concrete. L’impegno più strutturato nella realizzazione di politiche attive per il lavoro è però quello delle misure promosse dalla Regione e concordate con le parti sociali sul terreno della formazione, in particolare di quella associata agli ammortizzatori sociali in deroga nel quadro del programma operativo del Fondo sociale europeo e erogata attraverso il sistema della Dote Lavoro. È indubbio che nel merito la spesa sia stata ingente. Ma è stata anche efficace? È stata in grado di effettivamente favorire una migliore qualificazione dei lavoratori in vista di una loro maggiore occupabilità? Come si è detto, le valutazioni raccolte in ambienti sindacali da chi ha seguito i programmi sono in proposito piuttosto severe. Quanto più l’accesso alle opportunità formative avviene in modo sostanzialmente individuale e isolato, senza il sostegno di servizi efficienti per l’impiego e in condizioni di asimmetria informativa, è altamente probabile infatti che spesso i singoli siano indotti a scelte un po’ casuali e poco utili, quando non controproducenti. Illuminanti appaiono in proposito alcuni passaggi di una riflessione di Eugenio Zucchetti sulle politiche attive del lavoro: “Fare appello alla capacità di iniziativa autonoma degli individui rischia di essere controproducente se il loro percorso professionale non è sostenuto da politiche di attivazione; senza adeguati strumenti istituzionali di sostegno e di promozione [...] l’individuo resta solo [...]. Dare per scontato che esistano sempre nel soggetto le precondizioni che lo rendono suscettibile di cogliere e utilizzare gli strumenti che vengono forniti, conduce in realtà a escludere la parte più debole dell’offerta dagli interventi messi in atto, rinforzando in qualche modo i processi di segmentazione del mercato del lavoro e della forza lavoro” (Zucchetti 2005, p. 209). Anche da questo punto di vista è dunque evidente che non si è fatto a sufficienza e occorrerebbe fare di più. In primo luogo da parte degli attori sociali – le aziende e i sindacati – che potrebbero utilizzare al meglio gli spazi d’iniziativa che essi stessi hanno concorso a definire negli accordi sugli ammortizzatori in deroga perché lo strumento della formazione diventi opportunità reale, per l’impresa e per i lavoratori, come nell’esempio che è stato citato più sopra. Non potrebbe tuttavia essere questa l’iniziativa risolutiva. Ancor più sarebbe invece necessario un diverso intervento delle istituzioni. “Rispetto al recente passato”, osserva ancora Zucchetti (2005, p. 211), le politiche del lavoro “non potranno più avere al centro solo la formazione, ma anche servizi all’impiego, accompagnamento e orientamento, ammortizzatori sociali, nuove forme di tutela , in un mix nuovo e variabile da situazione a situazione”. In attesa di un nuovo riassetto generale degli ammortizzatori sociali, in grado di affrontare in modo unitario i tanti nuovi problemi del mercato del lavoro – da quelli connessi alla tutela di tutte le diverse forme di contratto a quelli di una tutela adeguata ai lavoratori immigrati – è appunto sul terreno dei servizi per l’impiego, l’accompagnamento, l’orientamento dei lavoratori che occorrerebbe investire subito. Ci si chiede se questo non potrebbe essere avviato sperimentalmente in un contesto come quello milanese, dove appunto su questo terreno erano fiorite in passato sperimentazioni interessanti anche se parziali. Oggi è più chiaro di un tempo che occorrerebbero fantasia e iniziative congiunte per accompagnare in modo efficace, e rispettoso delle loro preferenze, delle loro capacità, 15 della loro dignità, i lavoratori nei loro percorsi, nelle loro molteplici transizioni sul mercato del lavoro e negli intrecci tra sfera lavorativa e vita quotidiana. Riferimenti bibliografici Accornero, A. (1997), Era il secolo del lavoro, Bologna, Il Mulino Assolombarda, Cgil, Cisl, Uil di Milano (2009), Il lavoro a Milano, Rapporto n. 4, dicembre 2009, Milano Barbalet, J.M. (1988), Citizenship: Rights, Struggle and Class Inequality, Minneapolis, University of Minnesota Press Brambilla, M.E., Lo Verso, L., Cavicchini, E. (2010), Il cambiamento in tempo di crisi. 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