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Una lettura in un’ottica di genere
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I
Indice
Premessa
Lavoro e identità
Una lettura di genere
1
2
4
Parte Prima – Le Storie di Vita
11
Capitolo 1 – Introduzione metodologica
12
12
12
13
Gli obiettivi della ricerca e la scelta del metodo
Le narrazioni
Racconti di donne e racconti di uomini
Capitolo 2 – L’analisi dell’avvio delle interviste:
l’incipit quale significativo indicatore del codice narrativo
Una breve premessa metodologica: importanza dell’inizio del racconto
nel metodo biografico
Un’analisi quanti-qualitativa: occorrenza tematica dell’inizio della narrazione
Gli incipit riguardanti il lavoro
Gli incipit riguardanti i percorsi formativi
Gli incipit riguardanti la famiglia
Gli incipit dedicati alla condizione del non lavoro
Capitolo 3 – Storie di scelte
Dalla famiglia al lavoro
La socializzazione al destino di genere
Le scelte formative
La famiglia come vincolo
Dalla scuola al lavoro
L’accesso al mondo del lavoro
15
15
16
17
23
26
29
31
31
32
32
34
36
43
Capitolo 4 – Dal lavoro al non lavoro: i percorsi di esclusione e la
percezione dell’inattività lavorativa
51
I percorsi di esclusione: le motivazioni oggettive e soggettive dell’esclusione
dal mondo del lavoro
51
La grande crisi: dal lavoro dipendente alla flessibilità, dal lavoro autonomo
al non lavoro
53
Le motivazioni soggettive: effetti del mobbing e della qualità ambientale nelle scelte
professionali
56
Lavoro e salute
58
Le scelte familiari e il non lavoro
60
La condizione del non lavoro: condizione, atteggiamenti e psicologia della condizione
non lavorativa
63
Capitolo 5 – Dal non lavoro a lavoro: vincoli e risorse, le immagini del lavoro
e le strategie di reinserimento
73
Immagini e percezioni del lavoro
Il doppio svantaggio: donne ultraquarantenni in cerca di lavoro
Strategie di reinserimento e progetti di vita
Rapporti con i centri per l’impiego
73
76
78
88
II
Parte II – Focus group
Introduzione
Il contesto teorico
La scelta metodologica
I risultati dei focus
Tipi di contesti lavorativi
Tempi di vita e tempi di lavoro
Tempi femminili
Casalavoro e il resto?
Modelli familiari
Stili di leadership femminili
Saper delegare
Età e genere
Scarpette e scarponi
Scelta della borsa
Nuovi modelli da trasmettere
Focus contatto
Oltre 40 parità di genere
Esperienza
Modo di porsi/disponibilità
Le possibilità introdotte dalla riforma universitaria
Parte III – Una proposta di lettura: l’approccio linguistico
Presupposti teorici e metodologici
Dall’antropologia alla sociolinguistica ricordando gli studi in genere
Dallo strutturalismo alle reti semantiche
Finalità e obiettivi
L’applicazione degli strumenti
La recherche de l’insécurité linguistique
L’età
Il lavoro
I soldi
La famiglia
Il giudizio
Random tra i documenti
Conclusioni
BIBLIOGRAFIA
91
92
92
93
94
95
95
97
97
98
99
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101
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104
104
105
105
105
109
110
111
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115
116
116
122
123
124
125
127
129
132
135
III
Premessa
Nell’ambito del progetto ”Oltre i 40 anni” è stata realizzata una ricerca,
finalizzata ad approfondire alcuni aspetti specifici del target di riferimento
dell’intervento in relazione ai diversi territori provinciali.
Gli obiettivi di indagine, in linea con lo spirito di fondo del progetto, sono il frutto
della collaborazione con le Province, i cui funzionari hanno partecipato
attivamente alla progettazione: è infatti utile da un lato offrire un riscontro
complessivo regionale, ma dall’altro salvaguardare le singole specificità
territoriali.
L'ipotesi generale di ricerca si basa sullo studio approfondito della situazione,
del comportamento e dell'attesa dei disoccupati ultra quarantenni individuati
secondo criteri di omogeneità.
L’attenzione su questo target specifico avviene anche in virtù degli alti rischi che
il “non lavoro” determina, sia nei percorsi soggettivi sia nei meccanismi di
esclusione da percorsi di reinserimento. I rischi principali risiedono in pericolose
aperture ascrivibili al fenomeno delle "nuove povertà" e a nuove forme di
disuguaglianza e di deprivazione sociale che si innestano sulla difficoltà di
accesso non solo al mercato, ma anche alla formazione e all'orientamento.
Gli obiettivi di ricerca – riferiti ai disoccupati ultraquarantenni - possono essere
così sintetizzati:
analisi della condizione
motivazione (anche soggettiva) dello stato di disoccupazione
strategie, ossia azioni intraprese
obiettivi professionali
bisogni espressi e latenti (di orientamento, di formazione, di utilizzo dei
servizi)
aspettative
La strategia complessiva di ricerca ha previsto, oltre ad un’analisi dei mercati
locali del lavoro, la necessità di approfondire con modalità qualitative la
condizione specifica delle persone adulte in cerca di lavoro, sia a seguito di una
interruzione volontaria che per la perdita del lavoro stesso.
Si è posto inoltre particolare rilievo ai diversi livelli di aspettativa e utilizzo dei
servizi e delle politiche attive del lavoro, finalizzando tale approfondimento alla
raccolta di informazioni che possano risultare utili alla programmazione dei
servizi stessi e alle modalità di erogazione.
1
Lavoro e identità
Il mercato del lavoro regionale evidenzia – dal punto di vista quantitativo – un
miglioramento: tre anni fa il tasso di disoccupazione era quasi il 12% ed oggi è
dimezzato (media ISTAT 2003: 6,1%)
Una lettura più di taglio qualitativo evidenzia però fasce di potenziale disagio
su cui è urgente intervenire. A fronte della diminuzione della disoccupazione
frizionale e di quella fisiologica, quella patologica è aumentata.
Un ulteriore elemento è dato dal fatto che in Liguria il tasso di attività e quello di
occupazione sono significativamente bassi del nord Italia. Una lettura congiunta
di queste informazioni potrebbe significare che un punto su cui concentrare
l’attenzione è quel segmento di persone che non si pongono nel mercato
del lavoro neanche come disoccupati, ossia stanno nell’anticamera della
disoccupazione, mettendo in atto strategie di auto esclusione dal lavoro e
quindi dai servizi.
Un tasso di disoccupazione che decresce e un basso tasso di attività sono
indicatori di “anoressia” del sistema, di mancanza di speranze. Uno dei nodi
importanti è allora quello di coniugare le politiche del lavoro con la rimozione
delle cause per cui certe politiche del lavoro non si possono nemmeno fare.
Nell’ambito di un intervento su un target specifico come quello degli “Over 40” è
sembrato opportuno utilizzare, appunto, il ‘lavoro’ come lente attraverso la
quale conoscere e approfondire motivazioni, attese e strategie dei percorsi
individuali nel loro complesso.
La condizione anagrafica (l’età adulta) in un certo senso amplifica quelle che
possono essere le conseguenze di una situazione di ‘bisogno’ e allo stesso
tempo inibisce la progettualità e la capacità di mettere in campo risorse di
attivazione.
Il lavoro può essere considerato come il principale canale di accesso alla libera
e attiva partecipazione sociale; i percorsi professionali rappresentano quindi un
canale di mediazione verso la promozione e la costruzione della cittadinanza,
sottolineando come ancora oggi le modalità e la qualità di partecipazione al
lavoro determinino la possibilità di accedere autonomamente alle risorse per la
propria promozione sociale. Il lavoro continua ad essere una chiave di ingresso
nel circolo del riconoscimento sociale e un ‘costruttore’ di identità.
Ciò che vale la pena sottolineare è proprio una apparente contraddizione che si
instaura, tra la crisi del modello di regolazione sociale fondato sul lavoro
industriale e il peso sempre maggiore che il lavoro comunque ha nella
costruzione dell’identità dei singoli.
A quella che potremmo definire ‘frantumazione’ del lavoro garantito, fa fronte
una sempre maggiore incertezza, una incapacità (maggiore difficoltà) di
progettare liberamente la propria carriera, non solo di lavoro, ma anche di vita.
2
A fronte di un progressivo indebolimento del modello, aumenta il senso e il
significato che si attribuisce al lavoro; a maggiore vulnerabilità complessiva
corrisponde una altrettanta vulnerabilità nella costruzione delle biografie
individuali.
Il lavoro che non c’è per i giovani implica una impossibilità a progettare il
futuro, o per lo meno a progettarlo secondo i canoni che hanno funzionato
finché ha retto il modello ‘industriale’: è un lavoro intermittente che produce
percorsi di vita altrettanto intermittenti, ma che al tempo stesso socializza a una
nuova cultura del lavoro, grazie alla quale è possibile entrare in un circolo di
progressiva definizione di identità lavorativa.
Il lavoro che non c’è più (il lavoro perso, la prolungata permanenza al di fuori
del mercato o ancora l’impossibilità di reggere il lavoro che non c’è più) causa
implicazioni maggiori di esclusione sociale:
• non è più solo una (rara) assenza di risorse: il marginale e il precario non
hanno la titolarità per partecipare alla costruzione comunicativa della realtà
sociale che “abitano solo temporaneamente”
• esclusione generalizzata come “rischio” (non si parla più di esclusione
opposta a inclusione), ma il “poter esser escluso”.
Volendo schematizzare, gli elementi che contribuiscono a descrivere le diverse
situazioni di debolezza e vulnerabilità sociale sono costituite da una sommatoria
variabile di debolezze che a loro volta causano differenti in-capacità.
economica
Debolezza
culturale
relazionale
politicoistituzionale
a soddisfare le proprie necessità
economiche
A “gestire” l’incertezza
A godere del sostegno di reti
In-capacità
primarie e secondarie
Nel
farsi
riconoscere
normativamente
la
propria
debolezza socio-economica
Questo schema vale ovviamente in modo generalizzato; alle debolezze citate
va però aggiunto, come si vedrà in seguito, il genere, considerando anche i
diversi ambiti della vita professionale in cui si manifestano le disuguaglianze:
1. scelta
2. ingresso
3. permanenza
4. perdita del lavoro
3
Una lettura di genere
Le donne hanno avuto accesso al mercato del lavoro da tempo. Anche in un
periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, l'accesso per le donne è
in crescita in diversi settori con un'accentuazione nel terziario. Aumentano
altresì la richiesta di lavoro da parte delle donne, la fila e il tempo di attesa di
quelle che cercano lavoro.
L'ingresso delle giovani nell'istruzione e nella formazione in misura superiore
rispetto ai ragazzi ha fatto crescere le aspettative delle donne rispetto al lavoro,
ma non si sono sviluppati strumenti specifici per cercarlo.
I percorsi d'istruzione e di formazione post-obbligatoria delle ragazze subiscono
meno ritardi e interruzioni di quelli dei maschi. Tuttavia questo non costituisce
motivo per una più agevole riuscita nella ricerca di lavoro.
Una volta entrate nel circuito lavorativo il lavoro femminile evidenzia una
maggiore discontinuità legata allo sviluppo delle vicende familiari: le donne
si mettono più volte nella loro vita alla ricerca di lavoro e hanno bisogno di
strumenti adeguati per cercarlo e ri trovarlo.
L’universo femminile costituisce tutt’oggi una realtà debole nel mondo del
lavoro, un mondo che emerge dal nostro esame, come precario, in continua
trasformazione. Ma se è vero che la carenza di occupazione porta le donne ad
accettare, spesso, una condizione di inattività, è vero anche che ciò si verifica in
ambiti caratterizzati da basse motivazioni (o alto scoraggiamento) ad entrare
nel mercato.
Uno dei temi centrali è quello del riconoscimento del patrimonio – formativo,
culturale, relazionale, ecc - che può essere utilizzato nella ricerca del lavoro
solo, partendo dal presupposto che tale patrimonio venga riconosciuto. Questo
ragionamento vale a maggior ragione per la componente femminile, la cui
identità lavorativa rischia di essere spesso confusa, per esempio, tra la
dimensione familiare e quella professionale.
La visibilità del patrimonio risulta da una sua attenta analisi, dall'attribuzione di
valore e di misura delle singole parti.Per giungere ad una meta è importante
partire bene e attrezzarsi adeguatamente: quando ci si affaccia al mondo del
lavoro il paesaggio è così ampio che risulta difficile individuare non solo il punto
di arrivo (il lavoro cui si aspira) ma anche il punto di partenza (il patrimonio di
cui si dispone ammesso che si riconosca di averlo).
I percorsi di vita si giocano quindi su alcuni cerchi, dai confini mobili,
evidenziando in ogni “cerchio” condizioni abilitanti o segreganti.
4
LAVORO
FAMIGLIA
NON
LAVORO
Questi insiemi costituiscono l’oggetto della ricerca, con particolare riferimento
alle aree di sovrapposizione negli itinerari di vita personale e professionale.
Il senso di affiancare una ricerca ad un progetto operativo come quello di Over
40 è trovare non tanto delle generalizzazioni, quanto degli ambiti di intervento
su cui innestare politiche specifiche di azione. A fronte di una risposta concreta
offerta dal progetto (costruire percorsi di reinserimento al lavoro per soggetti
particolarmente deboli nella costruzione di tali percorsi) è sembrato opportuno
“entrare nelle vite” delle persone per capire le concatenazioni esistenti tra i
cerchi e per individuare i diversi baricentri che compiutamente costruiscono (o
distruggono) l’equilibrio dei percorsi individuali.
Tra le diverse debolezze, il genere – in particolare in questo segmento di
persone – costituisce sicuramente una chiave di lettura che in qualche modo
esalta i contorni del problema. Essere donna può essere una “debolezza
trasversale” dalle scelte personali fino a quelle professionali, fino alle capacità
messe in campo nel momento della perdita del lavoro.
5
INGRESSO
LAVORO
SCELTA
PERMANENZA
FAMIGLIA
NON
LAVORO
PERDITA E DISOCCUPAZIONE
Il fulcro di questo lavoro di ricerca sta nell’intersecazione dei cerchi e nei
“transiti” da un cerchio all’altro:
• le storie di scelta (dalla famiglia al lavoro)
• le modalità di ingresso (sempre dalla famiglia ma anche dall’istruzione al
lavoro)
• le possibilità di rimanere dentro al recinto (permanenza)
• la perdita e la disoccupazione (dal lavoro al non lavoro)
Nelle pagine che seguono cercheremo di sintetizzare quanto è emerso dalle
storie di vita raccolte e dai focus group. In questa sede può essere utile
anticipare alcuni elementi chiave, che di fatto costituiscono la struttura di questo
lavoro.
Nell’incontro tra il cerchio famiglia e lavoro, la parola chiave potrebbe essere
storie di scelta .
FAMIGLIA
STORIE DI SCELTA
LAVORO
6
Questo è un primo elemento fortemente connotato dal genere. Il percorso tra
famiglia e lavoro è assolutamente ovvio per gli uomini - “perché è naturale farlo”
– mentre “una donna che lavora non è così ovvio come dire un uomo che
lavora”.
Già questo primo step implica una scelta (e quindi presuppone una capacità
progettuale e la disponibilità di ‘risorse’ per progettare). Come si vedrà dalle
interviste, questo tema è centrale in tutto il percorso di vita: dalle motivazioni e
dalla progettualità iniziali dipendono largamente le risorse da attivare durante
tutto l’arco della vita.
La scelta ‘al femminile’ porta in sé una implicita rinuncia, ponendo una
alternativa tra la famiglia e il lavoro. In questa fase agiscono gerarchie di
preferenze e scelte, spesso non agite autonomomamente ma connesse ai cicli
di vita familiare (la doppia, anzi la tripla presenza)
LAVORO
FAMIGLIA
DI ORIGINE
• Risorse
• Vincoli
NUOVA
FAMIGLIA
Lo spazio dedicato al lavoro nell’ambito del proprio progetto di vita dipende in
larga misura non da una scelta ‘operata’, quanto da una serie di scelte
‘obbligate’.
“A tenere insieme con l’abilità di un giocoliere tutti questi pezzi contrastanti e a
ricucire giorno dopo giorno il patchwork della vita quotidiana c’è una donna di
mezza età, che una ventina di anni fa aveva improvvisamente creduto a un
futuro di libertà femminili”
Questo focalizza l’attenzione sul fatto che una ‘crisi lavorativa’ (la perdita del
lavoro, ma anche la capacità di stare nel mercato in modo intermittente) rischia
di creare percorsi di auto-esclusione. Per la donna la famiglia rappresenta una
valida e immediata risposta al problema. Il lavoro di cura garantisce la
ricollocazione in un ruolo sociale, ma implica un elevato rischio di
rassegnazione e di inibizione delle proprie capacità progettuali.
Un altro elemento che viene approfondito è l’ingresso nel mondo del lavoro.
Dalle storie di vita emergono i fattori principali da cui dipendono le difficoltà di
accesso. Le percezioni soggettive delle donne evidenziano sia le difficoltà
riconducibili al mercato del lavoro – amplificate dall’interpretazione che le donne
stesse ne fanno – sia le difficoltà determinate dal pregiudizio per cui la donna è
meno produttiva e più instabile.
Il punto su cui focalizzare l’attenzione è proprio l’asse a cui tali difficoltà
vengono ascritte: la donna in sè. Difficilmente questo piano viene ricondotto ad
7
una prospettiva sociale più ampia per cui il lavoro – e in particolare quello
femminile – rientra in un quadro di responsabilità sociale collettiva su cui
ovviamente si innesta quella individuale. Come ha osservato Laura Balbo,
“i servizi che dovrebbero andare a vantaggio delle donne non sono una
somma di privilegi distorti, ma i presupposti per far funzionare la
società moderna”
E’ in questo che si innestano gli elementi di difficoltà sul fronte dell’offerta:
spesso sono le autolimitazioni che caratterizzano le singole traiettorie di vita.
Un terzo fattore che viene affrontato nel percorso di ricerca è quello della
permanenza nel lavoro. Qui i cerchi che si intersecano sono tre (famiglia,
lavoro, non lavoro), proprio a causa del nuovo modello lavorativo.
Un elemento chiave, che verrà approfondito in seguito, è infatti proprio quello
per cui la flessibilità del lavoro è più indirizzata verso la precarietà che non
verso il cambiamento.
I processi subordinativi rendono più difficile la costruzione di un bagaglio
professionale solido, di fronte all’elevato tasso di mutabilità del mercato.
La permanenza nel mercato e lo sviluppo di una identità femminile nel lavoro
impongono alla donna la presenza in più mondi vitali. Utilizzando una metafora,
l’identità femminile si gioca sull’immagine delle scarpe e delle scarpette….
Laddove le prime rappresentano una accresciuta aspettativa di successo e di
riuscita e le seconde tengono ancorata la percezione di sé verso la femminilità
tradizionale. In altri termini strumenti hard (le scarpe, il bagaglio professionale)
si confondono con situazioni soft (le scarpette, ossia l’alternativa sempre
presente per le donne).
“Le donne sono, non fanno. Anche quando scelgono di lavorare è pur
sempre una cosa secondaria al fatto di essere mogli e madri” … a cui
si può aggiungere ‘figlie’
Sempre secondo un’efficace metafora che approfondirà Luisa Stagi in seguito,
tutto questo si riversa nel contenuto della “borsa” che ogni donna porta con sé,
un contenuto che influenza fortemente le capacità di progettazione, scelta e
permanenza nel lavoro.
Le donne, infatti, devono ancora giustificare che il lavoro extradomestico non le
rende per forza cattive madri, mogli e figlie, secondo un’assunzione implicita
per cui la donna può lavorare solo se la sua scelta non stravolge l’assetto
organizzativo familiare.
E’ a questo punto che si innesta una quarta intersecazione dei cerchi: quella tra
lavoro e non lavoro.
La perdita del lavoro diventa una tappa che assume un significato molto
particolare: per la donna questo momento – già di per sé caricato di messaggi
forti – ripropone un crocevia prodotto da condizionamenti.
Nella narrazione si costruiscono le traiettorie di vita delle persone: la perdita del
lavoro può costituire un punto di tali traiettorie. Nelle storie di vita che abbiamo
8
raccolto si evidenzia una differenza sostanziale che può essere raffigurata
graficamente: la narrazione femminile può essere simile ad una ragnatela, dove
ogni parte sta in relazione con il tutto, mentre quella maschile esprime un
tracciato lineare fatto di un succedersi di eventi.
Una delle ironie delle nostre vite è che quello che ci dicevano da giovani –
innanzitutto ti sposerai e avrai dei bambini – si è rivelato in qualche misura
vero. Nessuna di noi ha abbandonato totalmente il lavoro, ma i problemi della
maternità e del privato sono intrecciati con le nostre conquiste e le rendono
più difficili da riconoscere” (Mary Catherine Bateson, Comporre una vita,
1992)
Laddove la perdita del lavoro interrompe un percorso lineare è abbastanza
intuibile che la progettualità miri a ristabilizzare la traiettoria; laddove c’è una
ragnatela, le opportunità di rinunciare alla traiettoria sono maggiori
Si arriva così al quinto punto del lavoro di ricerca: la disoccupazione.
Mantenendo l’ottica di genere, il non lavoro femminile spesso non è imputabile
ad un deficit di capitale umano (anzi emerge con chiarezza che le donne
spesso hanno una struttura educativa più salda), quanto ad una progressiva
riduzione di risorse da mettere in campo.
Genere, età anagrafica ed età professionale costituiscono l’ambito entro cui
questa ricerca si è sviluppata.
Un’ultima notazione, prima di passare all’analisi di quanto emerso dalla
“discesa sul campo”. L’impostazione metodologica di questo percorso di ricerca
è particolarmente innovativa. Si è ritenuto opportuno rinunciare alla
generalizzazione tipica di una survey1 a favore di un approfondimento
qualitativo sulla percezione soggettiva.
La restituzione dei risultati di ricerca avviene su tre piani:
• la dimensione soggettiva, attraverso al ricostruzione delle storie di vita
(Parte I)
• la dimensione collettiva attraverso i focus group (Parte II)
• la proposta di un’analisi testuale, correlata alle narrazioni: è una proposta
metodologica molto interessante, in quanto l’approccio linguistico
propone una chiave di lettura molto particolare e interessante. (Parte III).
Storie di vita, lette attraverso la lente del lavoro e del non lavoro: un percorso di
ricerca che si innesta su un intervento – realizzato in parallelo – concreto di
reinserimento nel mondo del lavoro.
Una traiettoria percorsa con scarpe e scarpette e con … zaino in spalla.
1
Ossia alla somministrazione di un questionario strutturati ad un numero rappresentativo di
soggetti
9
10
11
Capitolo 1 - Introduzione metodologica
Gli obiettivi della ricerca e la scelta del metodo
Il nostro intento è stato quello di comprendere in che modo le persone sopra i
40 anni vivono la situazione del non lavoro, quali sono state le traiettorie di vita
che le hanno portate a tale circostanza, quali scelte hanno operato e quanto
sono state determinate e determinanti, quali strategie adoperano e hanno
adoperato, quale conoscenza e interpretazione hanno della realtà in cui vivono.
Per riuscire a far emergere questi temi e queste riflessioni è stato scelto di
utilizzare, nella rilevazione, tecniche qualitative - narrazioni e focus group - che
hanno proprio la caratteristica di comprendere il modo in cui si formano le
opinioni, capire in modo empatico quale definizione gli attori danno della loro
realtà e approfondire le motivazioni dell’agire.
Attraverso le narrazioni individuali, infatti, è possibile far emergere sia le letture
soggettive e le rappresentazioni che gli attori hanno delle organizzazioni e del
mondo del lavoro, sia i modi in cui viene prodotta una conoscenza condivisa e
intersoggettiva della realtà; le pratiche discorsive individuali mettono in luce i
significati e le norme interiorizzati, così come le contraddizioni e le ambiguità
più o meno consapevolmente percepiti.
Le narrazioni
La narrazione è stata descritta come il canale privilegiato attraverso cui gli
individui comprendono il mondo. Attraverso il racconto vengono operate
connessioni, costruiti schemi di interpretazione, prodotti ordinamenti e
classificazioni, assegnando una forma organizzativa agli eventi della vita sulla
base di un ordine temporale e di uno schema interpretativo che prevede
l’intenzionalità dei personaggi (Gherardi, Poggio, 2003).
Introdurre un ordine, inserire gli eventi all’interno di una trama, permette di
affrontare la molteplicità di esperienze e percezioni che caratterizza sempre più
la vita degli individui; la collocazione delle azioni e delle percezioni all’interno di
un tracciato narrativo rappresenta per gli individui un processo di ordinamento
perché fornisce una cornice di riferimento e permette di dare un senso alle
azioni e agli eventi e di rendere significativa l’esperienza (Ibidem).
Ciò che viene trasmesso con i racconti è l’insieme di regole pragmatiche che
costituisce il sapere sociale: ciò che bisogna saper intendere , saper dire ,
saper fare; grazie agli esempi concreti e situati di azioni si ricostruiscono dei
modelli , dei casi paradigmatici per il comportamento.
Inoltre, ogni cultura è caratterizzata da strutture linguistiche e le costruzioni di
storie si caratterizzano da impostazioni discorsive e narrative: “le parole
vincolano il dire”(Ibidem). Per questo decostruire il testo narrativo è
interessante, poiché significa non solo analizzare ciò che il testo dice, ma anche
ciò che non dice o che avrebbe potuto dire e che emerge in modo autonomo
rispetto al discorso.
12
Racconti di donne e racconti di uomini
Proprio perché l’analisi narrativa non riguarda soltanto il “cosa” viene
raccontato, ma anche il “come” le persone “impongono ordine al flusso
dell’esperienza per dare senso agli eventi e alle azioni” (Riessman, cit. in
Gherardi, Poggio) e il “perché” la storia viene raccontata in quel modo, la prima
differenza da evidenziare è proprio il modo diverso in cui uomini e donne
intervistati hanno esposto la loro esperienza. Pur trovandosi nella stessa
situazione - essere in cerca di lavoro e avere più di 40 anni – uomini e donne
hanno presentato modalità e stili narrativi assai diversi: più lineari e rivolti
all’individualità, quelli maschili, più complesse e autoriflessive quelle femminili.
Secondo alcuni autori questa differenza è abbastanza tipica: solitamente la
narrazione femminile richiama una ragnatela, dove ogni parte sta in relazione
con il tutto, mentre quella maschile esprime un tracciato lineare fatto di un
succedersi di eventi (Gherardi, Poggio, 2003).
Le differenze narrative, infatti, sono significative per l’individuazione degli
elementi distintivi, ma soprattutto per comprendere la chiave interpretativa del
significato di tali differenze.
Uno dei caratteri più evidenti è certamente la durata e l’articolazione del
racconto: le storie degli uomini sono più brevi e caratterizzate
dall’autodeterminazione, quelli delle donne sono risultati più articolati ed
eterodiretti. Le differenze sono riscontrabili anche nel modo in cui gli intervistati
hanno risposto alla domanda iniziale dando avvio alla propria storia; a questo
scopo è stato riservato un capitolo all’analisi “dell’incipit” del racconto, poiché ci
è parso estremamente significativo considerarlo come una delle “scelte” più
rilevanti.
La “scelta” o meglio la possibilità di scegliere è sicuramente la chiave di lettura
più significativa che si è evidenziata e che opera come fattore di distinzione sia
tra uomini e donne sia all’interno del genere femminile. Analizzando le interviste
delle donne emerge proprio questa dicotomia nel fattore scelta: le storie di
scelta operata e di scelta obbligata. I momenti di scelta per le donne sono assai
numerosi: che tipo di investimento formativo, che tipo di lavoro, con che orario e
impegno, come mantenerlo è a che costi di vita familiare. Le donne che
operano le scelte espongono la propria esperienza come costellata da una
serie di scelte che le hanno portate all’attuale situazione; sono storie che in
parte assomigliano a quelle degli uomini per l’accentuazione, al loro interno, dei
fattori di volontà e determinazione, ma che in parte se ne distaccano, perché
per gli uomini la condizione lavorativa viene vissuta come scelta scontata
(Gherardi, Poggio, 2003). Nei racconti delle donne che si sviluppano intorno al
tema della scelta volontaria, emerge quindi la dimensione intenzionale e
progettuale delle decisioni prese di fronte alle diverse opzioni e, a volte, in
contrasto con il contesto familiare e sociale. La scelta può aver luogo all’inizio
della storia e da lì condizionarne tutto il corso, come accade per le donne che
manifestano una vocazione per una determinata professione e che lottano, o
hanno lottato, per raggiungere e mantenere quella, proprio quella professione.
Ma la scelta può essere conseguente a una presa di coscienza successiva , per
cui a un certo punto della vita alcune donne decidono di dare una svolta alla
propria vita scegliendo di puntare sul lavoro. Questa scelta spesso porta
13
implicita in sé anche una rinuncia: se si parla di scelta spesso , in questo caso,
l’alternativa è rappresentata tra famiglia e lavoro.
Perché è capitata l’occasione…una mia amica mi ha buttato lì l’idea…ho visto
che ce la facevo…Sara aveva 11 anni i figli cominciavano un pochino a
crescere e mi sembrava di non togliere tempo alla famiglia…è al mattino, al
mattino sono tutti impegnati al pomeriggio sono a casa, non trascuro mai la
mia famiglia…che nella mia idea di donna viene sopra tutto…
L’altra tipologia di racconti si connota invece per la non scelta, come se ogni
avvenimento della vita fosse frutto del caso, o di determinazioni esterne così
forti da rendere vano ogni tentativo di decisione autonoma. Le strategie quindi
si basano su possibilità residuali che producono, in una sorta di circolo vizioso,
range sempre più ristretti di possibili adattamenti.
Non ho mai fatto la ballerina per gli stessi motivi di prima; sono riuscita
comunque a farmi male alla schiena e a farmi operare, magari per non
doverlo fare davvero…ma forse c’è un motivo, che ho capito e riesco a
spiegare abbastanza bene: mi sentivo molto in colpa nei confronti dei miei
genitori per il fatto di fare la ballerina. Soprattutto nei confronti di mia madre,
che suonava il pianoforte e poi, morto suo padre, ha smesso, secondo lei
“non ha più potuto suonare”, ma non è del tutto vero, avrebbe potuto
continuare, comunque…Invece è morto mio padre e io ho continuato a
ballare, con sensi di colpa forti. Poi le problematiche mie interiori…e ci vedo
anche, nell’ambito della danza poi lo senti fortissimo, ma forse proprio un po’
in generale, la difficoltà per una donna di emergere, anzi di concepire la
propria “emersione”.
Nella lettura delle storie maschili si individua un’altra dicotomia di significati che
si sviluppa intorno all’idea del percorso segnato o dell’aver scelto il proprio
percorso. Per gli uomini, infatti, il percorso sembra più caratterizzato dal
carattere di necessità che l’esperienza lavorativa ricopre per gli uomini: essi
entrano nel mercato del lavoro non per caso né per scelta ma perché è naturale
farlo (Gherardi, Poggi, 2003). Ciò che distingue gli uomini è il raccontarsi come
individui che seguono una traccia assegnata dalla società, oppure come
soggetti che hanno voluto e vogliono costruire una strada alternativa.
Io penso che a questo punto o è un lavoro a livello commerciale visto che ho
un ottima comunicativa con le persone, sono capace a vendere, quindi potrei
benissimo mettermi a vendere poltrone piuttosto che altre cose e se poi ci
fosse la possibilità di trovare un lavoro dove poter mettere a frutto le cose che
so fare e che ho imparato fino ad ora, sarebbe ancora meglio. Potrei fare
tante cose
Queste considerazioni hanno portato a concentrarsi maggiormente sull’analisi
delle narrazioni femminili: il fatto che per gli uomini sia frutto di una scelta
implica non dover comprendere i meccanismi che determinano tali situazioni,
mentre è certamente più complicato fa emergere gli aspetti deterministici delle
scelte o non scelte femminili.
14
Capitolo 2 - L’analisi dell’avvio delle interviste: l’incipit quale
significativo indicatore del codice narrativo
Una breve premessa metodologica: importanza dell’inizio del racconto nel
metodo biografico
Nella metodologia delle storie di vita assume una particolare importanza l’incipit
dell’intervista ovvero le modalità di avvio della narrazione da parte degli
intervistati. 2
L’avvio dell’intervista, vista la natura libera ed auto espressiva della narrazione
indica, anche se non in maniera diretta e univoca, i percorsi definitori e le
rappresentazioni di un determinato problema, con l’ovvia deduzione che nelle
storie di vita si attiva un processo di utilizzo della memoria e che nel seppur
esistente flebile recinto del processo di semplificazione della realtà che
comunque lo strumento di analisi comporta, la memoria stessa ha la possibilità
di dispiegarsi in forma autonoma e libera. In questa logica è necessario
considerare la situazione dell’intervista come un processo che pone almeno
due soggetti in una relazione sociale finalizzata alla produzione di informazione
attraverso una sollecitazione della memoria dell’intervistato.
Ritenzione e oblio sono i due poli della nostra memoria e sempre più
massicciamente questa viene messa in discussione da un insieme complesso
di fattori determinanti l’infinito processo di apprendimento che miscela le
agenzie classiche di socializzazione con quelle fortemente invasive dei mass
media e delle nuove tecnologie dell’informazione.
Nella tecnica dei racconti di vita, nella quale è previsto il minimo grado di
direttività e manovra da parte dell’intervistatore nella raccolta delle
testimonianze si prevede che l’attacco sia determinato in maniera diretta
dall’intervistato.
Quindi si è chiesto di iniziare il racconto a piacere dell’intervistato (considerando
questo come elemento conoscitivo di grossa importanza quindi nella scheda di
supporto all’intervista andrà indicato chiaramente quale sia il punto d’inizio della
narrazione).
Partendo dal presupposto che la ricostruzione del passato viene inevitabilmente
“filtrato, riordinato, illuminato, ri-costituito a partire dal presente” e proprio
all’inizio del racconto biografico che in teoria vi dovrebbe essere la minima
influenza derivante dalla situazione del presente – quella dell’intervista
specifica.
Ovviamente è bene sottolineare che seppur avendo lasciato la piena
discrezionalità nell’avvio dell’intervista vi erano diversi fattori, che in ogni caso,
finivano di dare un indirizzo a questo particolare tipo di cooperazione cognitiva
rispetto ai temi da cui partire: in primis la natura dell’indagine che sia nel primo
approccio che nell’avvio dell’intervista definivano senza possibilità di dubbi le
finalità e il taglio dell’intervista e in secondo luogo la natura dell’ente che
conduce l’indagine (Agenzia Liguria Lavoro). E’ ovvio che i due fattori
2
Cipolla C., Il ciclo metodologico della ricerca sociale, F.Angeli, Milano, 1998, Cipriani R., La
metodologia delle storie di vita, Euroma, Roma, 1992,
15
considerati non potevano che avviare un effetto di indirizzo rispetto all’attacco e
la performazione complessiva degli inizi delle interviste.
In ogni caso una più approfondita analisi dei sopraccitati attacchi fa emergere
alcuni aspetti relativi all’approccio cognitivo al problema – che comunque come
abbiamo già ricordato dovrebbe essere inserito in un ambito tematico già
definito – quello della situazione di inattività lavorativa e del più generale
rapporto con l’attività lavorativa.
Trattandosi di narrazioni biografiche era piuttosto scontato che il racconto
trovasse un proprio filo conduttore nell’ambito della riflessione sul rapporto con
il mondo del lavoro, e anzi proprio uno degli obiettivi dell’indagine era quello di
definire un’autoriflessione sulle cause e le evidenze dei percorsi soggettivi
fornitici nel corso dell’indagine.
Si può pensare che la modalità di dare avvio ad un racconto può essere vista
come una prima opportunità, per chi si racconta, di dare una definizione alla
propria identità. In altre indagini utilizzanti una simile metodologia si evidenziava
come uomini e donne finivano per avere degli attacchi differenti: “più volitivi e
attivi quelli degli uomini, caratterizzati da maggior passività e dipendenza quelli
delle donne”. Tale atteggiamento veniva spiegato dando privilegio ad un
approccio più di carattere “culturologico” rispetto a uno di carattere psicologico
affermando una “tendenza delle donne a presentare un sé meno centrale e più
defilato rispetto allo sviluppo della storia” tendenza che può essere letta come
conseguente al bisogno di queste donne di “riparare” alla rottura all’ordine
simbolico di genere conseguente alla loro entrata in contesti lavorativi
tradizionalmente maschili. 3
Un’analisi quanti-qualitativa:
narrazione
occorrenza
tematica
dell’inizio
della
Un primo livello di lettura dei materiali raccolti ci permette di raccogliere in
maniera molto sintetica quali siano le principali occorrenze tematiche affrontate
nell’attacco della narrazione.
Questo semplice criterio di analisi ci indica una prevalente inclinazione ad
avviare la narrazione direttamente dai temi del lavoro (nel 35% dei casi) e in
questa categoria si ritrovano quei racconti che si incentrano nella descrizione
dei percorsi lavorativi.
Nel 19% dei casi l’avvio è stato riservato alla descrizione della famiglia (nella
gran parte dei casi quella di appartenenza), mentre per il 26% dei casi viene
descritta l’esperienza formativa o il passaggio dalla scuola e il lavoro. A livello
numerico pochi sono stati gli incipit che si sono incentrati nella descrizione
dell’esperienza del non lavoro, anche se c’è da dire che molti hanno descritto i
percorsi lavorativi fino ad esplicitare sin da subito quali siano state le cause
della propria situazione di inattività.
3
Gherardi Silvia, Poggio Barbara, Donna per fortuna, uomo per destino, Etas
16
Lavoro
Famiglia
7% 11%
2%
Scuola
35%
Transizione scuola mondo del
lavoro
13%
malattia
13%
19%
non lavoro disoccupazione
altre
Gli incipit riguardanti il lavoro
Narrare la propria storia di vita significa anche mettere in discussione quale sia
la propria identità e il proprio rapporto soggettivo con il mondo del lavoro, a
riguardo si osserva che le storie partono spesso da una descrizione degli esordi
e dei primi rapporti con il mondo del lavoro.
Da un’analisi complessiva delle interviste con incipit dedicati al rapporto con il
mondo del lavoro emerge che spesso tale orientamento si sviluppa come una
significativa ricapitolazione degli aspetti più salienti della propria storia
professionale, mixando i percorsi formativi, i primi approcci al mondo del lavoro,
e soprattutto per le donne, le scelte familiari.
In molti casi emergono approcci direttamente dedicati alle narrazioni rivolte agli
esordi, con racconti che immediatamente affrontano le cause della chiusura e
del “fallimento” di quelle esperienze: cause oggettive relative a difficoltà dei
mercati di riferimento o a crisi aziendali
Quando ho cominciato, ho iniziato in una casa di spedizioni, dopodiché ho
lavorato nelle agenzie marittime dove seguivo i carichi convenzionali etc.
Questo mercato è morto perché tutto ormai va in container e questo
indipendentemente dalla crisi che ha subito la mia azienda.
Ho fatto il capo turno per 4 anni e poi siccome ero nei frigoristi e siccome
c’erano appalti truccati e personale gestito male che dormiva sugli impianti, il
capo reparto aveva anche una sua ditta individuale e quindi approfittava
anche dei dipendenti interni per chiedere favori. Mi sono rivolto al dirigente
che mi aveva proposto come impiegato, sapeva di questa situazione, mi ha
messo al centro elaborazione dati come impiegato, mi ha dato il settimo livello
come a tutti e nel momento in cui doveva passarmi di livello non lo ha fatto e
quindi ho interrotto il rapporto di lavoro nel maggio del ’94. Sono stato
bersaglio di particolari attenzioni perciò mi sono rivolto all’Ispettorato del
lavoro, sono finito in ospedale perché mi hanno avvelenato (…), adesso ho la
causa, ho preso un avvocato. Sono finito in mezzo a una strada e adesso
spero che alla fine della causa mi diano dei soldi. Ho lavorato in Italsider per
23 anni, poi c’è stata la crisi dell’acciaio, un sacco di lotte intestine, c’erano
17
due squadre, una che costruiva e l’altra che demoliva. Nel momento in cui c’è
stata la mia rivendicazione, l’altra squadra non ha voluto prendermi per ovvie
ragioni di convivenza, dopodiché sono stato male diverse volte, sono finito in
Psichiatria e ho perso il lavoro.
Finite le scuole medie ho subito iniziato a lavorare nel settore
dell’abbigliamento dall’età di 14 anni fino ai 42. Mi sono trovata più che bene
nel mondo del lavoro logicamente come dappertutto mi sono trovata male con
le colleghe che poi è stata la causa dell’interruzione del mio rapporto di
lavoro, non si andava più d’accordo, si lavorava male… di conseguenza mi
sono licenziata …
Spesso i racconti debuttano con una serrata descrizione – in forma sintetica –
dell’iter lavorativo, inserito nel contesto più ampio delle trasformazioni del
mondo dell’impresa e del lavoro. Spesso in questi incipit emerge una
consapevolezza del proprio ruolo e della propria identità lavorativa in qualche
modo messa in crisi dai mutamenti sia strutturali che culturali del mercato del
lavoro, in cui la propria professionalità si inserisce. Questi approcci, in verità
rari, centralizzano i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro in un quadro di
contestualizzazione della propria storia lavorativa inserendola in una precisa
cultura del lavoro.
Ho 59 anni e ho iniziato a 19 anni a lavorare. Il mondo del lavoro è cambiato
totalmente quindi mi sembra abbastanza inutile parlarne. Dal 1960 al 1970 ho
lavorato come impiegata, facevo la centralinista, la fatturista poi sono andata
a lavorare alla Siderexport che non esiste più e faceva parte del gruppo
Italsider che non esiste più. Sapevo due lingue, inglese e francese e facevo
parte di un pool settoriale specifico, lavoravo come responsabile di questo
comparto, eravamo tutte giovani ragazze piene di entusiasmo, alcune di noi
erano sposate. Ho il diploma di computisteria al Ruffini, inglese, una
conoscenza del francese scolastica poi, col tempo, mi sono specializzata. Io
faccio parte di una generazione che entrava in un posto di lavoro, faceva un
periodo di prova di tre mesi dopodiché veniva assunta a tempo indeterminato,
era il cosiddetto posto fisso. Non c’era questo concetto del lavoro temporaneo
o atipico e non c’era nemmeno da parte del datore di lavoro che aveva tutto
l’interesse che un lavoratore rendesse anche nel tempo perché comunque ci
guadagnava. I lavoratori hanno cercato di organizzarsi, io sono stata uno dei
lavoratori che si è battuto per lo statuto dei lavoratori, sono stata di quella
generazione che ha cercato onestamente e seriamente di cambiare qualcosa.
Taluni avvii si caratterizzano per una forte attitudine nel condensare in pochi
periodi il vissuto soggettivo degli intervistati andando a sviluppare in pochissimo
spazio una dimensione pluridimensionale della memoria dove si confondono e
si miscelano quasi tutti i principali aspetti del vissuto legati alla propria storia di
vita (lavoro, percorsi formativi, famiglia, aspetti valoriali e aspettative)
Ho iniziato in Calabria. Lì c’era solo la raccolta di verdura e frutta. Poi mi sono
sposata e mi sono trasferita a Genova. Ho iniziato a lavorare a 14 anni. A
Genova ho iniziato a fare lavori domestici nelle famiglie, poi mi sono separata
nel 1996. Ho iniziato a rispondere alle chiamate dell’ex art. 16 lavorando
sempre come domestica. Nel 1997 ho fatto tre mesi in Comune, poi ho
lavorato all’Ospedale Galliera, poi di nuovo nelle scuole e al museo variando i
18
tipi di lavoro. A me piaceva lavorare nella biblioteca del Comune e nelle
scuole a contatto con i bambini.
Ho cominciato a lavorare nel ‘81 avevo 21 anni, ho lavorato prima per 5 anni
come dipendente, lavoravo in un giornale e mi occupavo del reparto
fotografico, nell’85 sono stata licenziata, da lì ho fatto altre cose: sono andata
a Milano e ho fatto un corso serale di cinema e facevo lavoretti vari;
dopodiché sono stata richiamata a Genova e ho lavorato per 2 anni un
progetto per i beni culturali, sempre come fotografo poi è finito il contratto
perché era anch’esso un contratto di formazione professionale che è finito,
peraltro prima del previsto nonostante il finanziamento di tredici miliardi e da
li, successivamente ho lavorato per due società genovesi che si occupavano
e si occupano tuttora di produzione video. Quindi ho lavorato nuovamente per
6 anni come dipendente, facendo la montatrice video con vicissitudini varie
cioè in tutto questo arco di tempo due volte ho dato le dimissioni, una volta
sono stata messa in aspettativa forzata e amenità di questo tipo.
Io ho 53 anni e vengo da un’esperienza di lavoro trentennale .. sempre nel
settore turistico alberghiero … avevo iniziato anni addietro in collaborazione
con un’agenzia di viaggi .. anche perché (per inciso) era del mio primo marito.
Successivamente ho fatto l’albergatrice per conto mio per poi smettere e
pentirmene subito dopo perché è un lavoro che mi piace molto … dopodiché
ho smesso, sono stata un paio di anni ferma poi ho sempre cercato tipi di
lavoro inerente al settore alberghiero tipo segretaria reception o anche sala
quando non trovavo .. il problema per me è stato il mercato nella zona dove
abito io in provincia di Savona, tra l’altro la mia città non è di quelle città che
offrono alberghi a tempo pieno come potrebbe essere Pietra o Loano che
hanno una continuità di lavoro. Quindi, il mio problema è sempre stato di
trovare il lavoro stagionale quando a me, anche per motivi economici o
d’interesse mi sarebbe piaciuto di più annuale e mi sarebbe piaciuto di più
sempre nello specifico di reception o segreteria anche perché parlo tre lingue
e ho questa esperienza nel settore specifico chiaramente chi mi assume è
sicuro che so fare il mio lavoro.
In altre interviste emerge in maniera piuttosto chiara l’esigenza di riportare alla
memoria e sottolineare, è immaginabile più nei propri confronti che rispetto
all’interlocutore, il proprio ruolo e la propria identità lavorativa.
Beh il lavoro quello che ho scelto come cameriera di sala a me piace
tantissimo l’ho sempre fatto con passione e speravo di poter continuare a
farlo e adesso va beh sono stata operata di una trombo-flebite in una gamba
quindi per quest’inverno presumo che non lavorerò ma non è un problema
grandissimo vedremo poi in seguito. Mi piacerebbe trovare anche un lavoro
un pochino più leggero cioè stare a casa un po’ più di tempo perché il lavoro
in sala impegna tantissimo in quanto esco di casa alle 7 e poi arrivo a casa
alle 3 riesco alle 6 e torno a casa verso le 10 e quindi è abbastanza
impegnativo. Nonostante ciò magari arrivo a casa che sono arrabbiatissima
(ride) che qualcosa è andato storto .. mi è sempre piaciuto tantissimo e come
alternativa di un altro lavoro non saprei cosa scegliere sinceramente … ecco
19
Io sono, sarei fotografa…
Guarda…se parto dall’inizio, ho fatto il liceo scientifico, poi ho iniziato
l’università in una facoltà che non mi piaceva perché quello che voleva fare
era a Parma e non potevo permettermela, ed era la facoltà di veterinaria…
I miei non potevano mantenermi fuori casa. Sono andata in Inghilterra un
anno, per imparare la lingua e anche per togliermi da qui, perché rimasta un
po’ invischiata e risentita per questa cosa dell’università, ho imparato bene
l’inglese e tornando ho subito trovato lavoro, però non come fotografa
Soprattutto per le intervistate donne si evidenzia, fin dall’inizio dell’intervista, la
portata delle proprie scelte familiari all’interno dei propri percorsi lavorativi,
dividendo spesso la narrazione a riguardo tra un ante e un post (matrimonio,
maternità, ecc.)
Attualmente ho 46 anni, quando ho avuto le prime esperienze di lavoro ne
avevo 18, avevo appena terminato la scuola.. Istituto tecnico per ragionieri.
Ho lavorato un po’ di mesi per una agenzia di import/export.. è durato finché
non mi sono sposata, dopo di che non ho più lavorato perché ho avuto il
primo bambino subito e non avevo neanche un gran bisogno di lavorare per
cui mi sono dedicata ai bambini che nel frattempo sono diventati due.. Il mio
ex marito è avvocato per cui i primi anni della vita coniugale non ho lavorato
perché non ce n’era bisogno, poi quando i ragazzi hanno iniziato ad essere
più grandi ho lavorato nel suo studio ..avevo la direzione della segreteria, sia
per il mio ex marito che per mio cognato, entrambi avvocati.. ho lavorato lì
tanti anni così.. si può dire “in proprio” .. poi, dopo la separazione… avevo 40
anni.. ho avuto bisogno di ritrovare un lavoro ma.. niente da fare.. ho
contattato soprattutto le inserzioni sui giornali, alcune erano vere e proprie
bufale gigantesche… altre un po’ così, mi sono capitate delle cose poco
simpatiche… non erano assolutamente serie.. e poi la difficoltà maggiore l’ho
trovata soprattutto nell’età.
Ho iniziato a lavorare molto presto, quando avevo 14 anni e…ho iniziato a
fare la baby sitter poi in un bar poi alla Standa…ho lasciato il mio lavoro
quando ho deciso di sposarmi consapevole di…anche se il mio lavoro mi
piaceva mi sentivo realizzata volevo formare una famiglia ho continuato a
lavorare non ad orari, ma, autonomamente, nella mia famiglia, trascurando il
lavoro “di fuori”, quindi il mio lavoro alla Standa…ho iniziato nuovamente
quando Sara (la figlia più piccola) aveva 11 anni…
Il mio rapporto col mondo del lavoro è iniziato molto giovane, perché ho fatto
gli studi superiori, poi ho fatto subito ricerche di mercato, di
marketing…questo da giovane…poi mi sono spostata, ho smesso di lavorare
perché ho aspettato subito un figlio, poi ho ricominciato le ricerche di mercato,
ho ricominciato con varie società a fare sempre marketing e psicologia di
vendita, ho diretto dei gruppi di lavoro a livello pubblicità e a livello vendite,
poi avuti i figli più grandi sono andata a lavorare nella ditta di proprietà di mio
padre per alcuni anni, poi sono venuta via perché con mio padre c’erano delle
faide familiari antipatiche e sono venuta via…poi nell’82 mi sono buttata in
una catena di negozi in franchising che a quel tempo erano una novità…e mi
sono messa sia a gestire negozi, sia ad aprire negozi nuovi…a gestire i
negozi in tutti i sensi, occupandomi del personale, delle vendite, del
franchisor.
20
Ho cominciato a lavorare prestissimo appena ho finito la scuola media e poi
mi sono sposata ho continuato a lavorare poi ho smesso quando è nato mio
figlio più grande. Quando aveva 2/3 anni ho ripreso però part-time
Ho 53 anni, di lavori in regola ne ho fatti abbastanza pochi, solo per 5 anni. Io
ho cominciato nel ’71 come operaia, poi mi sono sposata e non ho più
lavorato … poi ho fatto lavori a ore e alla Cooperarci ho fatto un corso di
assistente domiciliare, ma poi mio marito ed io abbiamo litigato e lui mi ha
fatto smettere e poi ho cominciato con gli alberghi quando mi sono separata
nel ’97.
Eloquenti sono poi le narrazioni che nel loro avvio attribuiscono una relazione
significativa tra gli esordi dei propri rapporti con il lavoro e le esperienze
condotte o relazionate alle attività familiari, secondo un modello di trasmissione
della cultura del lavoro all’interno della famiglia.
Ho iniziato a lavorare in farmacia quando avevo 14 anni, mi è sempre piaciuto
stare a contatto con la gente perché mio papà aveva una panetteria,
avevamo il forno, facevamo il pane. Andavamo a scuola e al mattino prima di
andare a scuola andavamo a portare il pane. Ci aveva fatto fare delle
biciclette piccole con un portapacchi dietro e uno davanti e sia io che mio
fratello, perché con mia sorella ci sono 7 anni di differenza e quindi…ci
alzavamo presto e in mezz’ora andavamo a portare il pane ai ristoranti che
aprivano presto…poi andavamo a scuola. Però il lavoro nel forno con mio
papà non è che mi piacesse tanto, perché vedevo che c’era molto sacrificio,
lui si alzava alle 2/3 di notte, mia mamma era indaffarata perché oltre ai figli
aveva il discorso della casa e stava in negozio, insomma era troppo
impegnativo. A quei tempi non si chiudeva mai, non c’era la giornata di
chiusura come oggi, lì si lavorava ininterrottamente, anche nell’ora, avevamo
la cucina nel retro del forno che era molto grande, mangiavamo lì e la gente
veniva a comprare il pane anche all’una, le due…perché a quei tempi i negozi
non facevano le chiusure…e allora non mi piaceva molto, però dovevo aiutarli
e li ho aiutati. Poi non avevo più voglia di studiare e finita la 3° media sono
andata in farmacia, vicino al nostro negozio. Volevo stare per conto mio, non
stare con mia mamma e mio papà, perché era pesante per me.
Ho iniziato a lavorare molto presto nel ’70 e ’71. Innanzitutto ho 49 anni. Ho
iniziato nel ’70 perché avevo un vicino di casa che faceva l’impresario perché
sai alla mia età quando ero giovane io i miei genitori ma no dove via a
studiare lontano così era preferivano che io imparassi un lavoro e che
andassi a lavorare Questo mio vicino di casa aveva una piccola impresa era
edile carpentiere e lavorava per un impresario a sua volta e io gli curavo
praticamente tutti gli affari ero la sua segretaria. Praticamente mi ha
insegnato a vivere quest’uomo nel senso mi ha insegnato non solo il lavoro è
stato un padre è stato una mia seconda famiglia perché io ero una ragazza
timidissima per cui per me domani mi devi andare a Savona all’ufficio per
esempio tecnico erariale perché facevo anche le cose loro private di famiglia
e io per me era un grosso enorme difficoltà perché ero sempre vissuta nel
guscio per cui poi oltre ad essere un’esperienza di lavoro è stata
un’esperienza di vita per me perché mi ha fatto l’inizio la partenza della mia
vita nel mondo del lavoro per cui crescita non solo professionale ma
soprattutto personale per cui ho tenuto praticamente facevo di tutto lui aveva
una 40ina di operai
21
Molto spesso gli interlocutori lamentano un inizio precoce dell’attività lavorativa,
descrivendo le proprie storie lavorative professionali profondamente segnate e
legate a questa relativa precocità.
Potrei cominciare parlando di quando ho iniziato a lavorare… era molto
presto e allora sai nel lavoro si possono avere tanti traumi che ti segnano
anche dopo… io per esempio ho cominciato a lavorare a 12 anni sempre
negli alberghi come tra l’altro sto continuando a fare anche adesso, però a
quei tempi quando ho cominciato io si era sfruttati, un po’ come lo sono gli
extracomunitari adesso… era proprio uno sfruttamento… perciò ho
cominciato a 12 anni e poi dal mio paesino in Veneto mi sono spostata a
Padova e poi ancora a Sestri Levante perché c’era già una mia sorella che
lavorava qui e nell’albergo avevano bisogno di altro personale e quindi mi
sono trasferita… qui a Sestri ho conosciuto mio marito e ci siamo sposati
molto presto… avevo 18 anni ed ero incinta e poco dopo ho avuto anche il
secondo… all’inizio abitavamo
Dunque io ho un rapporto di lavoro che si è sviluppato dal…da quando avevo
20 anni, quindi ho un’esperienza di lavoro di più o meno 20 anni. Ho iniziato
abbastanza giovane, perché non mi sono laureata e dopo il liceo ho iniziato a
lavorare. Ho iniziato in una piccola concessionaria di pubblicità a Genova, io
sono nata qui. Dove ho iniziato a fare la mia prima esperienza di lavoro, è
stata come una piccola scuola, dove la mia posizione riguardava la
segreteria, poi l’ufficio stampa. Questa piccola azienda vendeva spazi
pubblicitari su riviste specializzate di vario settore. Io mi occupavo della
produzione, della segreteria, dei contatti con i clienti…ho sviluppato in questi
3 anni una buona esperienza. Poi ero abbastanza giovane e il mio sogno era
sempre stato di diventare stilista, alchè siccome ero abbastanza portata nel
disegno del figurino ho detto perché non provare a fare una scuola a Milano
ed ho lasciato questo lavoro, con dispiacere del datore perché dopo 3 anni,
non dico fossi indispensabile…però ero un elemento importante…però io
volevo fare dell’altro, avevo altri sogni e poi anche per altri motivi vari. Quindi
ho iniziato quest’avventura milanese, partendo proprio con la valigia…io
abitavo ancora con la famiglia. I miei genitori, molto severi, non approvarono
questa scelta, perché lasciare il posto fisso…erano abbastanza allarmati però
mi hanno lasciato fare, e con la liquidazione mi sono pagata questo corso. È
stato molto interessante, a parte che già allora erano carissimi…e mi sono
pagata un corso abbastanza breve dove ho approfondito lo schizzo del
modello
Io ho avuto un negozio di calzature da giovane a 20 anni…prima ho lavorato
in una farmacia, come dipendente…poi ho aperto un’attività mia e l’ho tenuta
per circa sei anni…poi l’ho ceduto e sono stata una decina d’anni a casa, poi
ho iniziato a lavorare nei negozi che aveva mia sorella, ma non è stato un
lavoro continuativo, lavoravo saltuariamente e altre occupazioni non ne ho
avute…avrò lavorato in tutto una decina d’anni, tra l’attività alle dipendenze,
in proprio e con mia sorella…forse un po’ di più, 15 anni…
Diciamo che io ho iniziato a lavorare abbastanza giovane, tutti i tipi di lavoro,
baby sitter, telefonista, assistente pediatrica, assistente per anziani, diversi
tipi di lavoro, anche perché abitando da sola, vivendo da sola, dovevo un po’
adattarmi a quelle che erano le mie esigenze…per forza…io vorrei dire quello
che vorrei…un lavoro…per me part time sarebbe l’ideale, perché ho una
22
bambina da seguire e potrei conciliare le due cose…come tipo mi andrebbe
bene l’ambiente scolastico, per gli orari e perché sarebbe attinente a quello
che ho studiato…ho fatto le magistrali…però so che purtroppo per accedere
alle scuole c’è un percorso in salita, ho fatto i primi tentativi appena diplomata
con scarsissimi risultati, perché c’erano dei casini burocratici, sparivano le
domande per eliminare già in partenza…ero tentata di denunciare poi ho
pensato lasciamo perdere ed ho cambiato strada…poi ho pensato di
accedere ad una segreteria invece che all’insegnamento, mi andrebbe bene
comunque, ma anche lì non so come muovermi e non mi sono nemmeno mai
tanto informata…questo sarebbe il mio ideale poi accetto qualsiasi cosa
anche perché data l’età non posso nemmeno tanto pretendere, quindi mi
adatterei a fare un po’ di tutto… è bello realizzarsi fare qualcosa al di là della
casa e del marito, ma penso anche che sia giusto seguire i propri figli…
Gli incipit riguardanti i percorsi formativi
Con una certa assiduità le interviste hanno preso avvio con un cenno al
percorso formativo effettuato prima di accedere al mondo del lavoro. Tale
richiamo può essere semplicemente teso a rievocare, in termini di identità,
quale siano gli esordi del proprio cammino verso il lavoro, e quindi
considerando l’esperienza scolastica quale un “breve ponte” verso le
specificità dell’attività lavorativa vera e propria. Altre volte invece la descrizione
del percorso formativo costituisce un vero e proprio momento significativo
nell’esistenza degli intervistati individuando nel dispiegarsi dei percorsi
educativi, elementi fondamentali nella spiegazione del proprio destino
lavorativo. Spesso nella descrizione dell’esperienza scolastica, o più in
generale formativa e professionale si esprimono aspettative disilluse, come
vincoli e svantaggi di origine – la mancanza o inadeguatezza del titolo di studio
come elemento determinante nel proprio percorso complessivo.
“Io sono diplomato” “ho fatto un corso”, “allora sono …. ho un diploma di
istituto per il commercio” “io ho una maturità” “ho una licenza media” “ho fatto
una scuola per addetti alle agenzie turistiche” “ho una laurea” “ho fatto solo la
5° elementare”, “ho preso la laurea in scienze biologiche” ecco una rassegna
di titoli di studio e di percorsi formativi di vario livello che sono accomunati,
soprattutto per la precisa definizione del proprio titolo di studio, a volte in
relazione con le identità professionali – difficile che qualcuno dica io sono
ragioniere, avvocato o biologo – segnale evidente di netta cesura tra percorsi
formativi e percorsi lavorativi intrapresi.
Ho fatto il Nautico e appena terminato di studiare mi sono imbarcato come
capitano di lungo corso. Ho navigato 4-5 anni, poi mi sono sposato, è nato un
bambino, la mia famiglia non era contenta ch’io navigassi anche perché ero
imbarcato su una petroliera ed ero praticamente sempre fuori. Non era vita.
Facevo 6 mesi fuori casa, si doveva andare nel golfo Persico e in Africa. Mio
zio aveva un banco sul mercato di tessuti, lui voleva smettere l’attività perché
non ne aveva più voglia, a me provare non sarebbe costato nulla e quindi ho
svolto quest’attività per 15 anni e anche con molto successo
Io sono laureato in Ingegneria. Dal mio punto di vista si possono fare più
scelte, da altri se ne possono fare meno e soprattutto la scelta è consentita
23
alle persone giovani. Per chi ha tanta esperienza la scelta è indirizzata in altro
campo o per un determinato obiettivo ed è praticamente costretto a lavorare
in quella direzione. Difficilmente si trova uno sbocco in un lavoro
completamente diverso. Un giovane può trovarsi senza lavoro
improvvisamente, decidere di farsi assumere per quell’impiego, per quella
ditta e trovare magari il posto perché ha fatto gavetta in un ufficio in due o tre
anni, per un cinquantenne è molto più difficile. Io lavoravo all’Alfa Romeo
nella progettazione, essendomi licenziato per vari motivi, ora ho molte
difficoltà e non so come orientarmi. Tuttora sono senza lavoro.
Ioo va beh a 40 anni eee .. e ho iniziato a cercare lavoro praticamente da
quando ho finito la maturità ho fatto la maturità scientifica e siccome mi sono
adoperata a studiare anche perché avevamo un genitore piuttosto inquadrato
che non ci permetteva di avere delle evasioni oppure di recuperare nel caso
avessimo avuto delle materie indietro quindi ci abbiamo dato dentro, io parlo
di ci abbiamo dato dentro, perché ho una sorella che studiava anche quindi
mi sono diplomata, mi sono diplomata con il massimo dei voti e avevo delle
aspettative nel senso che all’epoca parlo di 20 anni fa si poteva anche
accedere a dei pubblici impieghi oppure nelle banche con una maturità con
un punteggio di .. di diploma abbastanza elevato e niente
Allora sono .. ho un diploma di istituto per il commercio 3 anni di superiori
Dopo questo diploma ho lavorato per circa un anno da un avvocato e … poi
mi sono licenziata e poi ho lavorato in un centro elaborazione dati su un
computer .. sempre nel mio paese (provincia di Trento) ho lavorato in un
caseificio sociale come segretaria. Lì mi sono sposata e sono arrivata in
Liguria quando sono arrivata in Liguria ho iniziato a lavorare una stagione in
un negozio di Borghetto. Poi ho lavorato presso una pensione circa tre anni
dopo di che ho lavorato come cassiera in un negozio di Loano Sono rimasta
incinta dopo di che siccome non ho nessuno che mi guarda la bambina mio
marito fa turni strani quindi non posso contare su di lui ho dovuto rinunciare al
lavoro.
Io ho fatto un corso per donne, organizzato dalla Provincia, indirizzato
soprattutto a vedere cosa uno può…potrebbe fare, indirizzare il curriculum e
spedirlo. Questo l’ho fatto l’anno scorso; non so che tipo di progetto fosse, ma
vedo che li stanno rifacendo però questi corsi. Io comunque sono andata in
questo posto che è il centro Spinelli, della Provincia: c’erano diverse
insegnanti che hanno fatto un primo blocco di lezioni in cui si spiegava come
orizzontarsi nel mondo del lavoro, in realtà…e uno dopo che ha seguito quel
corso si mette le mani nei capelli e dice: “ Ho capito: gli schiavi esistono”.
Abbiamo fatto il curriculum insieme a questa ragazza che ci ha seguite, che è
una che ha un’agenzia di lavoro interinale.
Posso cominciare dalle mie esperienze scolastiche…Sono diplomato in
ragioneria. Che aspettative avevo? Piuttosto i miei…pensavano che in quel
periodo fosse un diploma utile per l’occupazione in posti “sicuri”, tipo
Comune, poi mio padre lavorava in Comune ed erano considerati posti
tranquilli. Ma le mie aspettative erano ben altre…lavori più creativi, infatti poi
mi è piaciuto molto quando ho avuto a che fare con la fotografia, queste cose
qua…Insomma ho fatto studi di contabilità, mi piaceva ma non è che
fosse…avevo altre aspettative.
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Poi le esperienze lavorative…Ho iniziato a lavorare subito in una Agenzia
Marittima, andava bene il lavoro, come contabile, quindi legato a quello che
avevo fatto, non era il mio massimo, comunque. Poi questa Agenzia è fallita
ed è iniziata una situazione …Qui andiamo un po’ nel personale….
Io sono una persona riservata, ma con una persona che ha niente niente
voglia di parlare sei rovinata! Cominciando dalla formazione ho fatto studi
classici, liceo classico, completato ovviamente, maturità con una votazione
non sconvolgente, 44/60; università frequentata fino a…ero iscritto alla facoltà
di lettere e filosofia, corso di laurea in filosofia, non completata. Mi sono
ritirato prima di fare la tesi nel.. adesso non ricordo è passato qualche
tempo…
Io sono nato nel ’55, quindi ho 48 anni compiuti, sono nato il 1 luglio del ’55. a
Catania, ma vivo a Genova da quando avevo 16 mesi, quindi sono
assolutamente genovese. Sono vissuto fino a tutta l’adolescenza a Sori. Liceo
classico, filosofia, poi a 24 anni ho lasciato gli studi universitari
Sarà meglio incominciare dall’inizio…più o meno dalla scuola. Io ho una
maturità linguistica; c’eravamo trasferiti in Italia da poco, quando ho dato la
maturità alla Deutsche Schule di Genova.
Siccome era morta mia madre e mio padre, che era italiano, è andato via,
soldi per proseguire gli studi non ce n’erano.
L’unica possibilità di lavorare era negli alberghi, durante la stagione, e dopo la
stagione il nulla. Qualcosa a Natale, qualche giorno a Pasqua; praticamente
mai in regola. Cioè ti dicevano che ti avrebbero messo in regola, ma alla fine
dell’estate ti tornava indietro il libretto di lavoro e ti avevano messo in regola
per 6 settimane su cinque mesi, praticamente da metà luglio a fine agosto.
Così ho tirato avanti per 4–5 anni, poi ho trovato un compagno con il quale
sono andata a vivere e che aveva già una figlia.
Nell’84 ho preso la Laurea in Scienze Biologiche e subito dopo sono partita
per l’Inghilterra per qualche mese, per un corso d’inglese. Al ritorno .subito
dopo sono partita per l’Abruzzo seguendo una persona che avevo conosciuto
in ambito universitario. Lì ho seguito una ricerca sul lupo e sui cani
inselvatichiti, è durata 8 mesi ed è stato un lavoro che ho svolto ovviamente
gratis…inizialmente si pensava che ci sarebbe stata una borsa di studio, poi
questa eventualità è sfumata. Io avevo dei soldi da parte, ho usato quelli
anche perché i miei genitori non erano troppo d’accordo che io andassi
lì…comunque sono finiti in fretta. Quando sono tornata a Genova ho ottenuto
un contratto con l’Università di Genova.
Io ho il diploma da ragioniere, uscita dalle scuole superiori ho deciso di
studiare altri due anni per prendere un diploma di grafico pubblicitario, a
Firenze. Ho vissuto a Firenze, quindi, per questi due anni, ed è stato un
periodo molto movimentato, quello lì, perché stavo in appartamento con altre
undici ragazze, ovviamente era un appartamento molto grande.. era una vita
anche mi piaceva tantissimo ..ero molto libera, un bell’ambiente, tante
conoscenze nuove ogni giorno, facevamo un sacco di feste.. sempre tanta
gente per casa. Conclusi i due anni di corso, preso il diploma, ho cominciato a
cercarmi un lavoro però mi sarebbe piaciuto rimanere lì, quindi ho cercato a
Firenze ma non ho trovato niente.
Una cosa un po’ limitante è il titolo di studio perché io ho la licenza media e lì
mi sono fermata. A volte mi chiedo se ho fatto bene, ma non lo so.. perché
25
non avevo voglia di studiare, avevo le idee chiare: “vado a lavorare!”. Avevo
però il sogno di fare l’infermiera, ma ci volevano i 18 anni, nel frattempo mi
guardavo intorno, tutte le mie amiche lavoravano e io ho trovato un lavoretto
in una tipografia. Così è
Non so da che parte devo cominciare…ci si potrebbe scrivere un libro…Io
avevo cominciato il tecnico commerciale, solo che ho fatto solo un anno, non
ho finito perché ci sono stati dei momenti difficili; sono andata ad imparare a
fare la sarta ed ho sempre lavorato nel cucito a livello professionale e a livello
industriale per cui è andata bene, ma più male che bene, perché poi le tasse,
lo stato, se sai che stai bene e che lavori, per lo stato non devi lavorare
perché lo stato vuole il povero, lo stato vuole il povero!…perché è vero.
Ho fatto una scuola per addetti alle agenzie turistiche (istituto professionale)
di due anni che adesso credo non esista neanche più; mentre studiavo ho
lavorato per due anni in una farmacia perché andavo a scuola ma volevo
cercarmi anche un lavoretto che ho trovato tramite annuncio sul giornale; poi
dalla farmacia sono passata ad una ditta di farmaceutici, medicinali con la
mansione di terminalista, praticamente prendevo le note per telefono dei
farmacisti.
Ho 52 anni una laurea in medicina e un diploma di perito industriale.
Attualmente sono disoccupato dal ’95; sono sempre stato titolare d’azienda
praticamente dai miei 22-23 anni in poi: ho gestito un albergo a Genova fino
ai miei 36 anni. Dopo di ciò sono stato un paio d’anni fermo poi ho avviato
un’attività nel settore modellistico, che è il settore che, tutto sommato,
conosco meglio e l’ho portata avanti fino a tutto il ’94 incluso; dopo di ciò non
ho più fatto nulla di lavoro come lavoro. Mi sono occupato di moltissime cose,
ho fatto lavori per conto terzi ma mai in maniera ufficiale in quanto erano
lavori che non potevano essere ufficializzati. Sono stato in diversi di questi
uffici di lavoro temporaneo però, tutto sommato, nel momento in cui dicevo la
mia età mi dicevano che posto, per uno di più di 50 anni, era molto dura.
Ho 52 anni, la scuola non è che ne abbia fatta tanta, per cui, ho fatto solo la
5° elementare per cui non è che sia una cosa…però ho cominciato a lavorare
abbastanza presto. Poi a 21 anni mi sono sposata, ho avuto due figlie e poi a
33 mi sono separata per cui mi sono messa a fare la cameriera per
mantenere le mie figlie.
Gli incipit riguardanti la famiglia
Altra importante area tematica spesso ricorrente nell’iniziare le storie di vita è
quella legata alla famiglia, sia essa di origine che acquisita. Nei racconti dove la
dimensione familiare assume particolare importanza spesso emerge il peso di
tali famiglie nelle scelte legate al lavoro, con tutto il relativo peso in termini di
condizionamenti nelle decisioni. La morte di un genitore, la decisione di
sposarsi o di mettere al mondo dei bambini, per motivi diversi diventano
elementi importanti e performativi nelle strategie complessive dell’individuo.
Forse come in nessun altro tema, a parte le questioni legate a malattie occorse,
si può osservare quanto il vissuto soggettivo sia determinato da singoli eventi
legati alla sfera degli affetti più intimi.
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Il mio percorso non è che sia esemplare. Io ho 49 anni. Sono di Genova
anche se ho qualche parentela nella provincia di Pavia. Ho vissuto i primi anni
di vita in una condizione privilegiata, agiata che poi con la morte di mio padre
è venuta a mancare. Lui aveva 43 anni e io 17 e si è venuta a creare una
situazione per cui mi sono in qualche modo sentito crollare addosso tante
cose a cui non ero preparato. In quel periodo il peso di determinate cose per
me è stato eccessivo. Questo lo dico per giustificarmi o per quella che era la
mia giustificazione di un tempo. Vivevo, quindi, in una situazione di
immobilismo. Ho concluso il liceo scientifico, poi mi sono iscritto alla facoltà di
Biologia perché mi sembrava uno sbocco naturale, è stato un errore perché
quella facoltà non mi corrispondeva ma l’ho proseguita ostinatamente per un
paio di anni, dopodiché sono passato a Lettere. Lì ho trovato un ambiente di
tutt’altro tipo, più congeniale alle mie caratteristiche, ai miei interessi. E mi
sono laureato in Lettere però tardissimo perché mi sono arenato; a un certo
punto è successo qualcosa, forse un carico di responsabilità o non saprei
bene descrivere cosa. Mi sentivo inerme, un po’ fragile e ho reagito con una
chiusura, una paralisi, un vero e proprio blocco.
Il mio incipit personale riguardo a questi argomenti l’ho un po’ ricostruito: in
parte tutto è cominciato quando è morto mio padre e io avevo circa 22 anni,
nel ’79. Lì c’è stata una cesura: un ante mortem papà e un post mortem papà.
La cesura è stata che mi sono crollate un mucchio di certezze, mi è crollato il
cielo sulla testa e da lì ho detto…poi specifico un po’ meglio…se la realtà è
questa io non voglio averci niente a che fare. Adesso però mi spiego meglio,
perché già prima con la realtà non avevo molto a che vedere, tutto sommato.
Mio padre aveva un negozio di mobili ed era sull’orlo del fallimento; quando è
morto c’è stata una tonnellata di persone che a ragione avevano diritto di
chiedere soldi da parte di mio padre, ma anche altri che ne hanno chiesto, e
anzi non solo non avevano alcun diritto, ma a volte ne hanno chiesti quando
ne dovevano loro a mio padre, o persone che ci dovevano qualcosa che sono
letteralmente spariti. E si parla anche di parenti, di amici …non è niente di
strano, forse, ma mi aspettavo che il mondo fosse diverso. E mio fratello, che
ha tre anni più di me, ha reagito dicendo se questa è la realtà io diventerò più
dura di lei. Cioè abbiamo reagito in due maniere del tutto complementari.
Io ho cominciato a lavorare abbastanza tardi, perché ho avuto dei grossi
problemi di famiglia, perché mancandomi mio padre ho dovuto occuparmi
abbastanza presto delle cose di famiglia, perché noi facevamo parte della
vecchia legge che i figli passavano come proprietari e quindi mia madre mi ha
spinto molto ad occuparmene io…io urlando…però forse oggi dico
grazie…ecco perché a 21 anni sono cose che stufano…però la cosa poi mi è
servita. Quindi ho cominciato a lavorare abbastanza tardi…c’è stato un
periodo in cui io facevo anche ricerche di mercato per la Miralanza, ma con la
collaborazione…poi la Miralanza ha chiuso diciamo come azienda
grossa…poi avevo saltato un po’ di qua e un po’ di là in vari uffici di amici
miei, proprio per farmi la pratica degli uffici c’era stato questo interscambio,
un po’ come stagista…per cui quando loro avevano dei problemi mi
chiamavano e i dicevano “Vieni, perché abbiamo bisogno di una persona di
fiducia”…tra l’altro io non ho documentate tutte queste cose, perché con gli
amici…mi davano un tot…però era anche un discorso che serviva anche a
me…perché io purtroppo sapevo cose magari molto più importanti, ma non
sapevo fare una fattura, cose di questo genere…
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Io ho 45 anni e sono sposata da 30 .. Quindi già da lì si può capire lo so fa
impressione tutt’e due le cose fanno impressione gli anni e situazione. Di
conseguenza già si evince che io chiaramente sposandomi a 15 anni e
avendo appunti avuto due figli uno dietro l’altro. A 17 anni ne avevo già due.
Chiaramente i miei studi sono stati interrotti Io ero iscritta al Conservatorio di
Parma studiavo pianoforte va beh ho dovuto mollare lì chiaramente … fino a
28 anni ho cresciuto i miei figli 28-29 anni adesso non ricordo fino all’’86 sì 29
anni per scelta proprio cioè mio marito fa un lavoro ringraziando Dio fa il
controllore di volo poi va beh adesso sempre nell’ambito dell’ENAV ha la sua
età di conseguenza adesso è diventato anche direttore però diciamo all’epoca
non erano tanti i soldi però c’era quello stipendio fisso che mi poteva
permettere di poter stare a casa quindi non c’è stata proprio la necessità di
lavorare no?
Beh …. Inizio? … allora …. Ho 44 anni sono sposata da quasi vent’anni
diciannove e ho due figli .. uno di 12 anni e l’altro di 7 … mi sono sposata a
25 anni e prima dei bambini io e mio marito ce la siamo un po’ goduta …..
soprattutto io …. Beh non pensare male …
… Beh ….. anzi mi ero iscritta ma poi sai ho potuto fare un po’ di supplenze
ho iniziato a stare un po’ a casa un po’ a Genova perdevo tempo spendevo
soldi. Andavo in treno alla mattina e tornavo alla sera … quando mi
chiamavano per le supplenze però interrompevo questa routine ed era dura
riprendere … poi studiare era dura cose che non avevo mai fatto … sono
andata avanti un po’ di tempo … un anno e mezzo poi ho scelto di fare la
maestra anche perché ti potevano chiamare anche prima dell’esame … tanto
mi piaceva pure nel frattempo ho conosciuto anche mio .. il mio futuro marito
e allora …..
Mi piaceva lavorare eccome, a volte tornavo a casa… nervosa sì diciamo
nervosa perché i bambini sono bambini ma mi piaceva e pensavo che avevo
fatto bene a scegliere quella strada …. Poi all’università avevo scelto tutt’altro
… per un po’ di anni siamo stati io e mio marito io avevo il mio lavoro lui il suo
avevamo un bella casa stavamo bene …. Non è che adesso non stiamo bene
….. è che sicuramente abbiamo più problemi tu sai i figli ……
Nasco da una famiglia che era già finita in partenza perché mio papà aveva il
vizio di bere e di lavorare poco. Mia mamma l’ha sposato pensando di
cambiarlo e invece ha dovuto andarsene lei di casa perché dopo sposata ha
cominciato a prendere botte a tutto andare. Da lì non sapeva come fare a
mantenere me, abitavamo in campagna, e dovendo andare a lavorare non
sapeva dove mettermi, poi c’era anche l’affidamento, c’era la separazione in
atto che no era consensuale infatti è durata 6-7 anni…così sono finita in
collegio dai sei anni e mezzo ai sedici, ne ho cambiati cinque e questo non
l’ho mai perdonato a mia madre.
La mamma di mia mamma ha avuto un’influenza bestiale su di me,
condivideva tutto con me ed io l’ho considerata la mia vera mamma, perché io
ho fatto da mamma a mia mamma, che non è normale! Ho perso il lavoro
volutamente da mio padre, me l’ha tolto lui perché ero sua impiegata: l’anno
scorso, all’epoca del G8 eravamo in piena zona rossa, così ho preso mia
madre e l’ho portata in montagna; da lì è precipitato tutto.
28
Incipit dedicati alla condizione del non lavoro
Se molti hanno scelto di parlare dei percorsi lavorativi, va sottolineato che non è
altissima la quota di intervistati che ha sentito l’esigenza di partire proprio dalla
situazione del non lavoro, della condizione di disoccupato e dell’insieme di
motivazioni sia dal punto di vista soggettivo e oggettivo che hanno condotto a
questa situazione. Sicuramente il dato più interessante è che in questi casi – in
linea di massima - si decide di avviare la propria storia di vita dall’analisi del
presente descrivendo la propria soggettività rispetto alla propria condizione.
La prima cosa che posso dire è che io sono inoccupata dalla metà del ’95,
quindi sono un disoccupato di lunga durata ampiamente e per dare una
definizione, si può dire che non mi sono più ricollocata dal ’95, non ho più
avuto un lavoro stabile di nessun tipo, però forse dovrei dire brevemente che
cosa facevo prima.
Benissimo …… partiamo dalla grande piaga di lavoro nero che esiste in
Liguria perché purtroppo la situazione ligure è questa. Senza fare nomi
perché non è giusto perché … non ho mai come ex-imprenditore mi darebbe
molto fastidio sapere che qualcuno ha fatto il mio nome se io mi comportassi
come si comportano gli imprenditori liguri e quindi non li faccio i nomi però
esiste gente che effettivamente che magari ha un ristorante o un albergo o un
campeggio e poi ha un pezzo di terra e la moglie l’ha iscritta
come…coltivatrice diretta e poi assume la gente come coltivatori diretti
mentre lavorano come impiegati o quant’altro e viceversa poi ci sono aziende
agricole….beh lo sappiamo tutti com’è la situazione. Il mio grosso problema è
quello di sentirmi dire quando mi chiedono cosa ho fatto non posso dire che
non ho mai fatto niente come non posso neanche dire di aver fatto il
dipendente sin dall’età di 18 anni ho sempre lavorato in proprio di
conseguenza quando si sentono dire che ho avuto aziende fino a 18
dipendenti poi vanno a fare le informazioni dalla realtà dei fatti di
conseguenza non ci si può nascondere
Non ti danno lavoro perché hanno paura … non lo so il motivo che abbiano
paura … o hanno paura di offrirti uno stipendio da fame come succede io
infatti spesso e volentieri piuttosto di lavorare a 1 milione e 8 o 1 milione e 7
al mese o un milione e mezzo ho preferito fatturare lavorando fatturando e
accollandomi un sacco di spese ma almeno da tirar fuori uno stipendio che mi
desse la possibilità di campare anche perché … come le dicevo la famiglia è
grossa e … se lei immagina che io pago un milione e 7 di affitto … al mese …
solo di affitto
Ho 56 e mi sono trovata all’improvviso a essere senza lavoro per la chiusura
dell’attività .. ee .. questo ha portato anche dei problemi un po’ psicologici
perché non mi aspettavo mai … che dopo 40 anni chiudesse perché avevamo
chiesto delle garanzie ci erano state date e poi invece non è stato così eee
comunque io pensando di andare in pensione mi sono adagiata non ho fatto
dei corsi non mi sono aggiornata anche se mi sarebbe sempre piaciuto però il
tempo a disposizione era poco perché gli orari erano molto …. Poi era un
lavoro molto pesante molto impegnativo sia nelle festività che nelle … io ho
cominciato a 13 anni per castigo perché ero un po’ una ribelle a lavorare
all’estate eee … sono andata ad imparare a cucire poi sono stata in collegio
ho imparato a ricamare dalle suore e poi a 18 anni mi sono impiegata prima
29
come telefonista … e poi come aiuto segretaria paghe e contributi però solo
come aiuto ho imparato diverse .. diverse cose poi l’attività ha chiuso nel
frattempo io mi ero sposata aspettavo una bimba .. avevo 21 anni ….. non
sono andata d’accordo col marito ho cercato un lavoro e mi sono adattata per
necessità man mano son sempre stata degradata cioè non mi hanno mai dato
la possibilità di fare quello che a me piaceva cioè …. Eee … tutte le attività
che ho fatto sono state chiuse eee così mi sono trovata a 56 anni a dover
ricominciare daccapo mi sento di dare ancora tanto … ho voglia di imparare
ho voglia di mettermi di nuovo sul mercato ma non con lavori pesanti perché
non ce la faccio però studiando un lavoretto un po’ leggero cioè
impegnandomi
Rispetto alla mia situazione attuale… mi sono ritrovato ad andare a cercare e
usare quello che facevo 10 – 12 anni fa, quando abitavo in Emilia e …cercare
un attimo di guadagnare qualcosa, perché prima o poi i soldi finiscono.
Niente… mi sono trovato con una realtà…ero abituato diversamente con
l’Emilia; mi ricordavo molto bene che là era tutto più facile. Mi sono ritrovato
davanti una mentalità molto chiusa… ormai è più di un anno che sto facendo
questo, ma passa comunque tanto tempo prima che si fidino, che tu puoi
entrare nelle grazie…piano piano entri nel giro, ma non è facile per niente. È
una mentalità che piano piano cambierà anche qui, però è ancora un po’…
Dimmi tu…
Le cose di cui parlare sono…racconto velocemente quello che è la mia vita.
Io sono nato in Argentina, ho studiato, ho fatto studi superiori commerciali là,
ho fatto l’università là e sono praticamente dottore in commercio
internazionale, un titolo che non è riconosciuto in Italia…
Eh, eh i miei rapporti col mondo del lavoro adesso sono nulli perché non si
riesce a trovare appunto lavoro…mi servirebbe lavorare, ma…ho provato ho
cercato anche tramite il giornale, gli annunci…ma vogliono gente esperta,
qualificata, gente esperta oppure giovani…insomma è difficile trovare un
impiego.
Ho fatto la scuola di segretaria d’azienda, ma ho fatto solo i tre anni, quindi ho
un diploma, ma non è quello dei 5 anni che conta di più…il mio vale meno… e
o lavorato, prima che avessi il figlio ho lavorato…ho lavorato in un
negozio…era un negozio di ferramenta, però io insieme ad un’altra signora mi
occupavo della contabilità…poi ho lavorato da un perito navale e poi mi sono
trasferita qui a Genova e ho lavorato presso la chef italia, prima aveva un
altro nome. Poi la ditta si è trasferita a Milano e avevo problemi con il
bambino perché…’ste ragazze, non che non fossero brave, ma
fumavano…quanto fumavano! eh allora insomma mia suocera mi ha
consigliato di lasciare, visto che la ditta si trasferiva…solo che adesso…non si
trova, il foglio è grande, bisogno ce n’è perché ci sono sempre un mucchio di
cose…però non si riesce a inserirsi nel mondo del lavoro…un po’ per l’età, un
po’ perché di certe cose esperienza non ne ho.
Io fino al ’95 non ho avuto problemi perché io cioè, dato che poi mi sono
sposata nel ’88, lavoravo, nel ’95 poi ho deciso di dimettermi dall’ultimo posto
di lavoro, dalla Asl 3, poi oltretutto mi passavano anche come impiegata di 4°
livello, perché ultimamente facevo l’ufficio informazioni come impiegata sia al
pubblico, centralinista, facevo un po’ di tutto; i concorsi non li volevano fare
interni, era da quando c’erano la asl 13, 16 e la 3 quando si dovevano
assorbire.
30
Capitolo 3 - Storie di scelte
Dalla famiglia al lavoro
Gary Becker nel 1957 teorizzava che le preferenze occupazionali delle donne
rispondono a una logica di allocazione ottimale delle risorse della famiglia
piuttosto che individuali. Per poter soddisfare le esigenze familiari nelle diverse
fasi del ciclo della vita le donne presentano vite lavorative di più breve durata. In
considerazione di ciò esse sono poco propense a effettuare elevati
autoinvestimenti formativi e pertanto sono inevitabilmente condannate a essere
inserite in posti di lavoro a bassa qualificazione, con scarse prospettive di
carriera e che non prevedono ulteriori investimenti in capitale umano da parte
dei datori di lavoro. Come se le condizioni di lavoro femminile dipendessero
dallo loro scelta di privilegiare il benessere complessivo della famiglia a scapito
delle loro personali opportunità lavorative.
Molti altri autori successivamente hanno, invece, fatto ricorso al concetto di
discriminazione statistica o reclutamento sulla base di segnali; la
discriminazione avverrebbe quindi dal lato della domanda e sulla base di una
appartenenza ad un gruppo sociale (Bianco, 1997: 11-12).
Certamente gli svantaggi lavorativi che riguardano le donne dipendono sia dalla
domanda sia dall’offerta. Dalla domanda, poiché i pregiudizi dei datori di lavoro
rispetto al fatto che le donne sono meno produttive e più instabili, si riflette su
ogni donna, senza tener conto che le donne non sono un gruppo omogeneo al
proprio interno e fattori come la scolarità, la classe sociale, il tipo di lavoro e di
implicazione domestica sono assai rilevanti. Tuttavia, anche sul fronte
dell’offerta possono esistere delle limitazioni che caratterizzano le traiettorie di
vita e lavorative al femminile.
La condizione sfavorevole del genere comunque non è l’unico fattore a pesare
nell’inserimento lavorativo, soprattutto quando si va innescare su un altro
svantaggio rappresentato dall’età non più giovane.
Alcuni autori sostengono che nuova cultura del lavoro abolisce la
segmentazione della vita in fasi definite (infanzia, educazione, lavoro e
costruzione della famiglia indipendente, riposo). Oggi la formazione al lavoro
tende ad essere permanente, dura tutta la vita e ciò sottopone il lavoratore
industriale, l’impiegato, l’insegnante, il ricercatore, a processi di valutazione e
quindi di riformulazione delle competenze (Dal Lago; Molinari, 2001: 17). Al fine
di non perdere potere concorrenziale anche il lavoratore autonomo e persino il
commerciante devono stare al passo con le nuove tecnologie. In un certo senso
si realizza il famoso adagio “gli esami non finiscono mai”; si è studenti-lavoratori
o lavoratori-studenti a vita (ibidem: 18). Questo è l’aspetto che rende priva di
senso la categoria “giovinezza” in quanto il nuovo soggetto lavoratore è vecchio
fin dall’infanzia ed è costretto ad essere giovane fino alla vecchiaia. Il problema
quindi non è tanto quello dell’età anagrafica, ma quello di essere considerati
vecchi, sulla base di tali presupposti: chi esce da questo processo di riformazione continua, invecchia immediatamente e viene relegato a margine del
mercato del lavoro. Questo fattore è trasversale sia per gli uomini, sia per le
donne, ma per il genere femminile la circostanza del non investimento
31
formativo, oppure dell’uscita dal mercato del lavoro è più frequente e
determinata da contesti sociali e culturali.
La famiglia rappresenta senz’altro il fattore determinante in questo senso; in
primo luogo la famiglia di origine che influisce sulle possibilità formative e la
socializzazione rispetto ai ruoli di genere, che può rappresentare un rifugio,
un’ancora, un ammortizzatore, ma allo stesso modo anche la famiglia attuale è
assai influente rispetto ai vincoli e le possibilità. Si può quindi affermare che
l’ambito familiare si rivela il contesto maggiormente implicato nelle scelte
femminili e per questo motivo da tale fattore si è voluta cominciare l’analisi.
La socializzazione al destino di genere
La socializzazione è spesso utilizzata per spiegare le differenze nei contesti
lavorativi: gli uomini, socializzati alla competizione e all’autoaffermazione, sono
orientati alla carriera e sviluppano i comportamenti adeguati, mentre le donne ,
specializzate nella cura degli altri, sarebbero attente, ma poco inclini alle
situazioni di conflitto e di potere. Se ciò assume una connotazione negativa,
poiché viene spesso strumentalmente utilizzato per fomentare alcuni pregiudizi
di genere sulle attitudini e le capacità lavorative, va tuttavia considerata quanta
parte abbia la socializzazione differenziata all’interno delle diverse famiglie e
all’interno della stessa famiglia per i diversi generi.
I contenuti, le modalità e gli esiti della socializzazione non si distribuiscono in
modo uniforme fra la popolazione, né ovviamente hanno una significativa
varianza di tipo causale. La collocazione sociale delle famiglie non condiziona
soltanto entità e qualità di risorse che esse sono in grado di mobilitare nel
processo, ma influenza sia le modalità che adottano, sia gli obiettivi realistici
che perseguono e il “progetto di vita” che i ragazzi al loro interno costruiscono
interattivamente (Bianco).
Le scelte formative
Il primo meccanismo della segregazione femminile agisce direttamente
attraverso le credenziali educative e una quota tuttora notevolissima di donne
che ne sono prive si trova di fatto esclusa dalle occupazioni retribuite e
segregata nel lavoro riproduttivo, in parte perché la domanda di lavoro
femminile non qualificato è molto ridotta, in parte perché il livello poco appetibile
(in termini di qualità, garanzie, retribuzione) dei posti di lavoro per esse
disponibili in molti casi rende soggettivamente preferibile, e forse
economicamente conveniente, la scelta del ruolo di moglie e di madre a tempo
pieno. Se si considerano quindi le relazioni tra origine sociale e livello educativo
si può comprendere come questa situazione si vada a sviluppare negli strati più
disagiati favorendone la continua riproduzione.
Ho fatto la terza media non ho voluto studiare, ho fatto un corso di
segretaria d’azienda ma non mi ricordo niente e non l’ho mai sfruttato e
anche il corso di pc non mi è servito molto, mi ha dato proprio solo le
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basi…io a 45 anni mi sono messa lì e ho cominciato da capo, ma non
mi è servito molto…si le basi, ma niente di più…
La poca importanza allo studio a volte è da attribuire in una sfiducia rispetto alla
effettiva spendibilità dell’investimento formativo, a volte invece è legata a
necessità economiche delle famiglie. Sicuramente molti intervistati hanno
attribuito un ruolo determinante alla famiglia di origine nelle scelte e nei percorsi
formativi intrapresi:
Forse io non avevo molta voglia di studiare e non sono neanche stata
invogliata dai miei genitori per cui…forse i genitori di adesso spronano un po’
di più i figli, invece una volta si lasciavano un po’ così…
I miei genitori … preferivano che io imparassi un lavoro e che andassi a
lavorare
…Io avevo cominciato il tecnico commerciale, solo che ho fatto solo un anno,
non ho finito perché ci sono stati dei momenti difficili
Anche la ricerca di un’indipendenza e di un’autonomia dalla famiglia di origine
spesso è causa di un abbandono degli studi. L’indipendenza economica, infatti,
rappresenta anche il mezzo per sentirsi più liberi dai legami familiari, che,
all’epoca degli intervistati, rappresentavano comunque un vincolo forte rispetto
ad una serie di comportamenti sociali e di limitazione rispetto ad una possibile
emancipazione:
Forse avrei continuato a studiare e avrei fatto veterinaria…io ho accelerato
per andare a lavorare, per essere indipendente, la prima cosa. Comunque
quando avevo 25-30 e vedevo le mie amiche che magari studiavano ancora
io ero contenta di essere indipendente, avere le mie cose, non mi pento delle
scelte che ho fatto…
Una cosa un po’ limitante è il titolo di studio perché io ho la licenza media e lì
mi sono fermata. A volte mi chiedo se ho fatto bene, ma non lo so..perché
non avevo voglia di studiare, avevo le idee chiare: “vado a lavorare!”.
Ho fatto il liceo classico, poi ho dato diversi esami a filosofia e poi, niente,
avevo questa bambina piccolina che appena aprivo un libro gridava come
un’aquila e non mi sono laureata perché non ne potevo più di quella
situazione delirante. E quindi preparazione scolastica così, classica,
umanistica.
Chi non ha investito in formazione è anche poco motivato rispetto ad una
possibile riqualificazione, molti si sono espressi in questo senso, considerando
inutile uno sforzo di questo tipo motivandolo con un senso di inadeguatezza
rispetto al mercato del lavoro e alla concorrenza giovanile:
Ho fatto la scuola di segretaria d’azienda, ma ho fatto solo i tre anni, quindi ho
un diploma, ma non è quello dei 5 anni che conta di più…il mio vale meno.
Non ho mai pensato a corsi di formazione perché penso che ci sono tanti
giovani che…
33
La famiglia come vincolo
In generale le ricerche sono concordi nell’affermare che le donne svolgono
ancora la maggior parte dei lavori domestici e di cura , in particolare dei figli e
delle persone anziane. Anche nel caso che la donna lavori fuori casa, ella deve
tuttavia a provvedere ad organizzare la vita domestica; questo fatto limita in
generale l’entrata nel lavoro extradomestico, sia intermini di tempo, sia in
termini economici (Scisci e Vinci, 2002: 60). Spesso la cultura patriarcale, che
era ancora forte e pervasiva all’epoca delle scelte degli intervistati, ha influenza
pesantemente le decisioni e le strategie familiari:
Ho fatto la terza media, ma non l’ho potuta usufruire perché mi sono sposata;
all’epoca serviva perché avrei potuto anche entrare in ospedale, ma mio
marito non voleva, allora per il bene della famiglia si rinuncia… mi sono
sposata a 21, sa, allora, 30 anni fa se non ti sposavi eri esclusa, diciamo,
adesso no, adesso è diverso. Ho sempre cercato di andare a lavorare, ma poi
mi faceva smettere perché PRETENDEVA che stessi a casa. Mi diceva: “se
vuoi andare a lavorare prendi i tuoi stracci e te ne vai”.
Certe scelte rispetto al non lavoro hanno ripercussioni di lunghissimo periodo
impedendo di prendere decisioni autonomizzanti che riguardano le diverse
sfere della vita, compresa quella affettiva:
Adesso con mio marito siamo in crisi. Vorrei prendermi un po’ di tempo per
stare da sola e riflettere, ma poi penso a come potrei fare, senza lavoro, non
vedo vie d’uscita, ma del resto quando mi stanco non sono neppure in grado
di fingere, di stare assieme come se niente fosse…è una situazione
complicata.
Come già accennato nell’introduzione, poi, più è bassa è precaria la posizione
lavorativa occupata, più facilmente si opta per una scelta di cura familiare
soprattutto laddove questo sia sconveniente dal punto di vista economico:
È stata una scelta più che condizionata, una scelta che ho fatto io, di lasciare
il lavoro insieme al marito per dedicarmi alla famiglia…un lavoro diverso, un
lavoro con una soddisfazione diversa…tutto lì…
Da questo punto di vista la scelta fatta viene descritta come appagante e, per
certi versi imprescindibile e frasi come “i figli hanno bisogno della mamma”
oppure “volevo godermi i miei bambini” sono ricorse spessissimo.
Anche rispetto alla volontà di tornare a lavorare, la famiglia e la presenza di figli
pongono una serie di limiti rispetto alle opportunità di orario e vicinanza:
Con il bambino mi andrebbe bene anche un part-time. Dico forse tutto il
giorno non lo cercherei neanche più perché dopo che uno ha provato a stare
a casa, sinceramente si gode di più anche la famiglia, il bambino; però stare
proprio a casa no
La posizione occupata ed il ruolo svolto in ambito domestico sono
particolarmente significativi come generatori di differenze tra donne, soprattutto
per ciò che riguarda, ad esempio, le madri che vivono sole, o le donne che
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hanno il coniuge disoccupato; queste categorie sono infatti rappresentate in
percentuali molto basse nel mercato del lavoro, anche a causa della complessa
serie di interazioni che si verificano con le strutture di supporto economiche
(Scisci e Vinci, 2002: 58).
Certamente, quindi, non è solamente l’accudimento dei figli a rappresentare un
vincolo nella scelta rispetto al ruolo produttivo, spesso, infatti, l’impegno diventa
ancora più gravoso per le donne rispetto alla cura degli anziani o di un parente
malato, ambiti anch’essi considerati appannaggio femminile:
Sono tornata a casa quando la mamma ha iniziato a manifestare i primi
sintomi della sua malattia…All’inizio l’ho preso come un gioco grazie al mio
carattere, poi adesso, con la malattia della mamma sta diventando pesante.
Ad esempio quando stava male ed era ricoverata in ospedale io al mattino
stavo con lei fino alle due, facevo delle flebo veramente ma senza farmaci
perché mia madre stava in ospedale solo perché le dicevamo che la malata
ero io…quindi subivo anche questo. Poi tornavo a casa per pranzare e dalle
14.30 alle 20.30 stavo in studio quindi andavo a dormire in ospedale e
leggevo per mia madre che voleva essere sicura che io fossi lì…non so se
era pura cattiveria o se fosse colpa mia che mi prestavo a queste cose… ho
avuto un’educazione in base alla quale la vita è la famiglia e bisogna
rimboccarsi le maniche ed aiutarsi…la stessa cosa non è valsa per mio
fratello che comunque non è neppure in grado di aiutarmi con la mamma…
Io mi sono fatta anche convincere da questo tipo della Uil e ho fatto la lettera
di dimissioni. Loro mi hanno proprio convinto, eh, poi io ero anche scontenta
del lavoro…uno più uno… Mia madre ha avuto a quell’epoca problemi di
salute un po’ gravi: è stata operata ad una gamba. Dato che eravamo sempre
io e lei “molto in confidenza” (in senso ironico), non ho voluto
preoccuparla…mio marito mi ha detto: “non preoccuparti, tanto ci sono io che
lavoro bene e tu mezza giornata la trovi”.
Accudire gli altri è per le donne più di un dovere morale, è considerato un modo
di essere da cui non si può prescindere, senza neanche aspettative di ritorno:
Poi dobbiamo star dietro agli anziani, tutto per gli anziani, i figli che li
mandano a quel paese i vecchi, se in ogni famiglia se li tenessero in casa i
loro vecchi…come me che ho voluto stare dietro a mia mamma, lei è stata
dietro a me per tanti anni e non vedo il motivo per cui avrei dovuto
abbandonarla in un momento critico.
Dai figli, infatti, una volta cresciuti non ci si aspetta nulla, anzi, spesso
rimangono un onere anche quando oramai grandi e indipendenti potrebbero
invece aiutare a stare meglio:
Preferisco, a ‘sto punto, piuttosto che avere troppi impegni, meglio sola…
… hanno sempre bisogno di me, sempre, sempre, sempre. Io se chiedo di
andare da qui a là sembra che caschi…se devo andare all’ospedale a fare
qualcosa “prendi la corriera!”; non sono cattivi, ma sono figli, sono egoisti e io
sono stanca, a dir la verità preferisco rimanere sola, vorrei provare a
starmene da sola, perché non l’ho mai fatto, ho sempre dipeso dagli altri, son
sempre stata per gli altri.
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E figurati se se ne vanno…mia figlia mi aiuta un po’ di più, ma mio figlio è uno
stronzo, l’uomo ormai nasce stronzo e questo fa parte di un altro dei risultati
negativi della mia vita, è la classica delusione. Sono grandi, maggiorenni,
vaccinati, indipendenti, come dicono loro, e allora me ne posso anche andare
io…è finita l’indipendenza! Perché poi sei schiavo di tutte le tipologie, le
strutture, che poi sei obbligato a sottostare per mantenerti e sarai schiavo
come lo sono stata anch’io e tanti altri come me. Conosco tante persone che
a 70 anni, hanno dei figli di 40 anni a casa, vanno a pulire le scale perché il
figlio non da una lira in casa; io non mi ci voglio ritrovare, sai? Credo che sia
una questione di sentimenti: se una persona non sa amare, non sa dare. Non
si ha il tempo di crescere: questo è anche un risultato negativo di ciò che ti
comporta il dover lavorare per vivere perché l’emancipazione della donna può
essere funzionante, bella perché noi abbiamo acquisito tantissime cose, ma
abbiamo perso il doppio di quello che abbiamo acquistato, i valori di una
famiglia non ci sono più, i sentimenti di un uomo non esistono più, la donna
non sa più come curare o gestire una casa, la femminilità in un certo senso è
scomparsa. Noi non abbiamo acquisito niente, sì, abbiamo acquisito tanti
lavori e l’uomo continua a stare con le mani in tasca; quando ci si separa
l’uomo se ne va con le mani in tasca e i problemi rimangono alla donna…con
le 400£ che lo stato dice che vanno per mantenere il figlio, ma non si
mantiene un figlio con quella cifra; senza contare poi che ci sono mariti che
per non dare le 400£ si licenziano e come la mettiamo? E queste sono le
leggi dello stato?! Ah, la donna ha diritto a tutto.
Individualismo e soggettività, infatti, non si traducono solo nella ricerca di
soddisfazione nel lavoro, ma più in generale riguardano la sfera extradomestica. Il problema, in questo caso, è duplice: da un lato infatti la donna non
si sente in “diritto” di avere ambiti così individuali; dall’altro lato la non equa
divisione dei ruoli nell’ambito domestico non le permette di avere altri spazi. Ma
non è solamente questo, a volte la mancanza di lavoro non permette di avere
soldi da spendere nel tempo libero. In questo racconto emergono proprio questi
aspetti:
Beh, mi piacerebbe andare in palestra, piscina, muovermi, uscire, fare cose
che non ho mai potuto fare; ma ci vuole il lavoro, servono i soldi per
mantenere gli hobby; invece sto a casa per non sapere, non vedere, che non
mi si stringa il cuore; evito di andare al mercato per vedere roba che non
posso comprare. Tutto parte dal lavoro.
Dalla scuola al lavoro
Nelle biografie raccolte nel corso dell’indagine di indubbio interesse sono le
parti del racconto dedicato ai percorsi formativi e dei rapporti tra mondo della
scuola, in particolare, e mondo del lavoro.
L’analisi di questo segmento delle narrazioni porta a riflettere sullo stretto
rapporto tra destini professionali e ruolo delle agenzie educative nelle storie di
vita ricostruite nell’indagine. Anche in questo caso gli elementi più importanti
che abbiamo la possibilità di aggregare sono quelli relativi al giudizio sul
rapporto tra i percorsi formativi intrapresi, gli attuali fabbisogni e non di meno
sulla dinamica tra individuo e le istituzioni formative preposte alla trasmissione
del sapere.
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Proprio la metodologia prescelta, inoltre ci permette, di ricostruire il processo
che partendo dal rapporto con il sistema educativo socializza l’individuo e che
permette di mettere il relazione l’identità individuale con l’identificazione nei
gruppi di riferimento e gli insiemi valoriali proposti ponendo, infine, non poche
domande, se si osserva il fenomeno sul versante della struttura educativa sul
perché della difficoltà da parte degli individui intervistati nell’inserimento nella
società.
Dato generale di una certa importanza è quello relativo all’eterogeneità dei
percorsi formativi descritti nelle interviste, eterogeneità che permette di avere
riscontri su diversi livelli di istruzione (confermando già di prima battuta
l’assunto boudoniano per il quale il massiccio aumento dei tassi di
scolarizzazione non ha di certo eliminato la disuguaglianza socio economica
nelle possibilità di accesso al mondo del lavoro).
Come elemento rafforzativo all’importanza dei percorsi formativi sul discorso
generale della storia lavorativa, la metodologia prescelta per la conduzione del
nostro studio, quella delle storie di vita, ha permesso agli intervistati di scegliere
in maniera autonoma quale fosse il tema dal quale iniziare per la narrazione
della propria narrazione biografia. A riguardo si è rilevato che circa un quarto
degli intervistati hanno iniziato i loro racconti con l’esposizione delle loro
esperienze scolastiche o dal passaggio dal mondo della scuola a quello del
lavoro.
Ovviamente molte delle narrazioni hanno privilegiato gli aspetti legati al
percorso formativo, correlando in maniera diretta l’esperienza scolastica, o più
in generale formativa al percorso lavorativo. Del resto il campione considerato
nell’indagine mostra un livello di scolarizzazione piuttosto elevato per il quale
più del 53% possiede almeno un diploma e inoltre un ulteriore 14% dichiara di
avere frequentato un corso di diploma breve.
13%
Scuola elementare
4% 4%
25%
Scuola Media
Diploma 3 anni
Diploma
40%
14%
Laurea
non risponde
Per quel che riguarda i percorsi educativi, nelle complesse storie di vita raccolte
si riscontra una certa varietà di esperienze scolastiche e formative. Spesso la
storia raccontata è una ricostruzione del passato articolata nel quale si
miscelano aspetti legati al percorso formativo in termini di soddisfazione,
aspettative e competenze maturate.
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In alcuni casi la descrizione del percorso formativo esprime l’esistenza di
atteggiamenti di chiusura e di blocco rispetto alle esperienze scolastiche, e che
spesso, a queste esperienze gli intervistati correlano le successive difficoltà
incontrate nel mondo del lavoro.
Questo lo dico per giustificarmi o per quella che era la mia giustificazione di
un tempo, una situazione cioè di immobilismo. Ho concluso il liceo scientifico,
poi mi sono iscritto alla facoltà di Biologia perché mi sembrava uno sbocco
naturale, è stato un errore perché non era per me quella facoltà e invece mi
sono ostinato a proseguirla per un paio di anni, dopodiché sono passato a
Lettere. Lì ho trovato un ambiente di tutt’altro tipo, più congeniale alle mie
caratteristiche, ai miei interessi. E mi sono laureato in Lettere però tardissimo
perché mi sono arenato, a un certo punto è successo qualcosa, forse il carico
di responsabilità, mi sentivo inerme, un po’ fragile e ho reagito con una
chiusura, una paralisi, un vero e proprio blocco. La mia vita si è fermata lì in
qualche modo fino a che dopo tanti anni non si è riaccesa una lampadina e mi
sono reso conto che la mia situazione era completamente cambiata e che
non potevo più contare sulle sicurezze di prima. Già da tempo mi accorgevo
che la mia situazione doveva finire inevitabilmente per concludersi in un
vicolo cieco ma non sono più riuscito a reagire fino a quando non sono
riuscito finalmente a laurearmi togliendo dal cassetto una tesi che tenevo da
anni e sono rientrato nell’ambiente universitario, mi sono laureato benissimo
ma mi sono reso conto che le persone che avevo frequentato all’inizio
dell’università poi le ho ritrovate dopo tanto tempo già avanti nella carriera,
già avanti nel percorso lavorativo e da quel momento ho cominciato ad
arrancare, anche se con buona volontà, con disponibilità, facendo concorsi
per l’insegnamento che in fondo era la mia aspirazione. Ho fatto concorsi
pubblici, concorsi per l’abilitazione però senza successo. E quindi poi mi sono
ripiegato addirittura, sempre ostinatamente, cercando di portare a
compimento questa utopia dell’insegnamento, ho cercato di agganciarla
attraverso l’università con il corso biennale di accesso all’abilitazione che però
prevedeva anche quello una prova di accesso, c’era il numero chiuso e non è
andata come doveva. Nonostante questo sono sempre qui in corsa, in pista.
(…) Quando mi sono laureato è cambiato qualcosa. Questa laurea l’ho
sofferta moltissimo, in maniera viscerale, in maniera fisica come tutti credo.
Era l’ultima possibilità.
In alcuni casi si descrive un atteggiamento piuttosto tranchant rispetto alla
questione formativa dove emergono storie di abbandono della scuola piuttosto
precoci, per entrare al più presto nel mondo del lavoro a causa dei motivi più
disparati. In questo caso i racconti raccolti ci rendono interessanti spunti nella
comprensione dell’atteggiamento di molti degli intervistati rispetto le questioni
formative. Emerge un certo senso di inutilità del mondo della scuola rispetto al
mondo percepito più “reale” e “concreto” del lavoro retribuito o della famiglia
alimentando una prospettiva pregiudiziale per la quale possa esistere una
gerarchia in termini di importanza tra formazione e lavoro. Di certo questi
atteggiamenti devono essere necessariamente legati alla questione
generazionale degli intervistati, infatti questi delicati momenti decisionali
devono essere letti in un diverso contesto sia dal punto di vista delle
opportunità lavorative che delle dinamiche familiari e demografiche. Spesso le
motivazioni dell’abbandono dei percorsi scolastici vengono viste come una
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causa esogena determinata da emergenze o scelte altrui e in ogni caso questo
particolare frammento biografico riemerge con particolari note di rimpianto.
… poi come tutti i ragazzi non volevo più studiare quindi a 12 anni mi sono
messo a lavorare..
Ho fatto la scuola alberghiera la segreteria ho fatto solo due anni il terzo anno
guadagnavo già bene e non l’ho più frequentato […] I primi due anni il terzo
anno ho dato l’esame da privatista non ero passata ho detto va beh lo darò
tanto non è una cosa che mi interessi .. quando si è giovani ho lasciato
perdere
Ho avuto la fortuna di lavorare con della gente molto competente e che mi ha
insegnato veramente questo lavoro più di una scuola alberghiera tra l’altro
Io chiaramente sposandomi a 15 anni e avendo appunti avuto due figli uno
dietro l’altro A 17 anni ne avevo già due Chiaramente i miei studi sono stati
interrotti Io ero iscritta al Conservatorio di Parma studiavo pianoforte va beh
ho dovuto mollare lì chiaramente
Direi di sì…ho frequentato l’istituto magistrale e mentre ero iscritta
all’università lavoravo come supplente nella scuola elementare, era un buon
periodo e lavoravo con continuità, ma poi ho lasciato perdere perché non mi
piacevano i discorsi delle colleghe, il rapporto con loro… …è stato un bel
periodo della mia vita…ho scelto scienze naturali qui a Genova, anche se
avrei voluto fare veterinaria a Torino, ma per non gravare sui miei, in quanto
mi sarei dovuta trasferire là e poi volevo restare vicino alla famiglia…(scienze
naturali) che qualcosa comunque c’entrava con gli insetti! Dopo la laurea ho
fatto un corso di marketing, mi è piaciuto molto e mi ha dato l’opportunità di
lavorare in un campo che mi gratifica.
Io avevo cominciato il tecnico commerciale, solo che ho fatto solo un anno,
non ho finito perché ci sono stati dei momenti difficili; sono andata ad
imparare a fare la sarta ed ho sempre lavorato nel cucito a livello
professionale
Ho fatto il liceo classico, poi ho dato diversi esami a filosofia e poi, niente,
avevo questa bambina piccolina che appena aprivo un libro gridava come
un’aquila e non mi sono laureata perché non ne potevo più di quella
situazione delirante. E quindi preparazione scolastica così, classica,
umanistica. (…) poi, se può essere considerato un percorso di studio, ho
fatto un’analisi personale di cinque anni, anche questa molto classica: lettino,
lei dietro e tre incontri la settimana. Poi per tre o quattro anni ho seguito corsi
di PNL, ma sempre in una prospettiva privata di crescita e formazione
personale Invece durante il periodo della tua formazione scolastica e
universitaria che tipo di aspettative professionali avevi? Hai scelto seguendo
motivazioni di crescita tua personale o…
Non avevo veri pensieri professionali in quel momento… Non ho mai pensato
all’insegnamento perché secondo me ci nasci, non lo impari: un buon
insegnante ha caratteristiche di pazienza, tanto per iniziare…, oppure non è
un buon insegnante; allora è uno che mira a prendere uno stipendio punto e
basta e poi sta male nel posto in cui che non sanno niente, ma credono di
sapere tutto, quindi arroganti, ma eccezionalmente ricettivi: sono
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caratteristiche difficili da reggersi, secondo me…non tutti hanno la tendenza a
farlo bene. Io non ho mai pensato… durante il periodo del liceo ho sempre
fatto lezioni provate, ma mi rompevo le scatole, guadagnavo, sì sì…
… perché non mi sono laureata e dopo il liceo ho iniziato a lavorare.
Io mi occupavo della produzione, della segreteria, dei contatti con i clienti…ho
sviluppato in questi 3 anni una buona esperienza. Poi ero abbastanza
giovane e il mio sogno era sempre stato di diventare stilista, al che siccome
ero abbastanza portata nel disegno del figurino ho detto perché non provare a
fare una scuola a Milano ed ho lasciato questo lavoro, con dispiacere del
datore perché dopo 3 anni, non dico fossi indispensabile…però ero un
elemento importante…però io volevo fare dell’altro, avevo altri sogni e poi
anche per altri motivi vari. Quindi ho iniziato quest’avventura milanese,
partendo proprio con la valigia…io abitavo ancora con la famiglia. I miei
genitori, molto severi, non approvarono questa scelta, perché lasciare il posto
fisso…erano abbastanza allarmati però mi hanno lasciato fare, e con la
liquidazione mi sono pagata questo corso. È stato molto interessante, a parte
che già allora erano carissimi
Ho fatto la terza media non ho voluto studiare, ho fatto un corso di segretaria
d’azienda ma non mi ricordo niente e non l’ho mai sfruttato e anche il corso di
pc non mi è servito molto, mi ha dato proprio solo le basi…io a 45 anni mi
sono messa lì e ho cominciato da capo, ma non mi è servito molto…si le basi,
ma niente di più…
No, nel senso che mi hanno lasciato decidere di fare quello che preferivo: se
volevo studiare non c’era problema, ma io ho preferito una specializzazione
che mi permettesse di trovare presto lavoro e poi il corso che ho fatto mi ha
permesso anche di lavorare e studiare contemporaneamente.
Altro tema spesso emerso nel corso delle interviste è quello dell’esposizione
delle aspettative disilluse rispetto ai percorsi formativi affrontati - ovviamente
riscontrabile soprattutto in profili formativi medio-alti. Inoltre all’estremo
opposto si ravvisano i rimpianti in relazione all’inadeguatezza degli studi fatti
rispetto alle esigenze e all’evoluzione del mercato del lavoro.
Ho fatto geometra che non ho mai fatto in vita mia cioè ho la media superiore
e contemporaneamente già mi piacevano le lingue perché ho una certa
predisposizione a ritenerle Avevo fatto dei corsi di lingue poi sono venuta ad
abitare qui e il mondo qui era un mondo turistico quindi il geometra mi è
servito per scrivere sui fogli scuola media superiore .. e tutto quello che ho
imparato l’ho imparato dall’esperienza
Mi sono diplomata con il massimo dei voti e avevo delle aspettative nel senso
che all’epoca parlo di 20 anni fa si poteva anche accedere a dei pubblici
impieghi oppure nelle banche con una maturità con un punteggio di diploma
abbastanza elevato
Le cose di cui parlare sono…racconto velocemente quello che è la mia vita.
Io sono nato in Argentina, ho studiato, ho fatto studi superiori commerciali là,
ho fatto l’università là e sono praticamente dottore in commercio
internazionale, un titolo che non è riconosciuto in Italia…
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Dovrei fare ancora 8 esami per diventare licenziato in economia e commercio.
Poi ho lavorato in banca, a 21 anni avevo un posto presso la filiale di
responsabile del tesoro e mi sono licenziato e sono venuto via. Sono 22 anni
che giro per il mondo, parlo 4 lingue.
Ah…ho fatto un corso per assistente ai disabili, privato, che aveva anche un
certo costo e al termine doveva rilasciare una specie di attestato, ma non è
giunto al termine e ci abbiamo rimesso i soldi senza ottenere niente. In
compenso mi è servito a livello personale perché ho avuto grandi
soddisfazioni dai ragazzi: avendo la passione per il teatro ho organizzato una
recita con ragazzi disabili, alcuni dei quali a malapena riuscivano a parlare. E’
stato un successo e ne sono stata molto felice.
In quei due anni ho preso un diploma di passamaneria, facevo fiocchi per le
monache, come quelli da appendere alle chiavi. Mia madre pagava all’epoca
25.000 lire al mese di retta e mi facevano lavorare nove ore al giorno…inutile
dire che quel diploma non mi è servito a niente! Poi uscita dal collegio ho
detto: “cerchiamo di sfruttare un attimo quel pochino di intelligenza che ho”
ma mia madre non voleva farmi studiare, non ne avevo voglia neanche tanto
io, neanche mio figlio aveva voglia, ma al diploma ce l’ho fatto
arrivare….avevo chiesto di fare questo corso all’IBM, avevo 17 anni adesso
ne ho 44, pensa quanti anni fa; probabilmente adesso sarei stata
avvantaggiata, col senno di poi…allora i computer…ora non saprei neanche
accenderlo!
Ho fatto la terza media, ma non l’ho potuta usufruire perché mi sono sposata;
all’epoca serviva perché avrei potuto anche entrare in ospedale, ma mio
marito non voleva, allora per il bene della famiglia si rinuncia e me la sono
presa in ….
Attualmente ho 46 anni, quando ho avuto le prime esperienze di lavoro ne
avevo 18, avevo appena terminato la scuola.. Istituto tecnico per ragionieri.
Ho lavorato un po’. Il titolo di studio conta anche se poi si finisce per non fare
sempre quello per cui si ha studiato.. secondo me è nella maggior parte dei
casi che finisce così…poi, si è fortunati se si riesce ad avere tutte e due le
cose.. certo, se non avessi nemmeno il titolo di studio…avresti mille più
difficoltà.. diciamo che il titolo di studio serve soprattutto per garantire una
certa cultura, poi ci sono i casi di delle lauree specifiche, per cui l’ingegnere
farà per forza l’ingegnere, il medico il medico.. però per esempio un impiegato
di banca non necessariamente deve essere ragioniere né necessariamente
deve essere laureato in economia e commercio.. ci sono persone che
lavorano in banca senza avere un titolo specifico. C’è una direttrice di banca
che conosco che ha il linguistico, eppure è funzionario di banca, è direttrice!
Ho fatto un corso di informatica. Ho imparato ad usare il computer, ma
nonostante questo.. non glie ne è fregato niente a nessuno, ma è normale,
ormai lo sanno usare tutti…
Come tipo mi andrebbe bene l’ambiente scolastico, per gli orari e perché
sarebbe attinente a quello che ho studiato…ho fatto le magistrali…però so
che purtroppo per accedere alle scuole c’è un percorso in salita, ho fatto i
primi tentativi appena diplomata con scarsissimi risultati, perché c’erano dei
casini burocratici, sparivano le domande per eliminare già in partenza…ero
tentata di denunciare poi ho pensato lasciamo perdere ed ho cambiato
strada…poi ho pensato di accedere ad una segreteria invece che
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all’insegnamento, mi andrebbe bene comunque, ma anche lì non so come
muovermi e non mi sono nemmeno mai tanto informata…
Ho fatto la scuola di segretaria d’azienda, ma ho fatto solo i tre anni, quindi ho
un diploma, ma non è quello dei 5 anni che conta di più…il mio vale meno.
Non ho mai pensato a fare un corso professionale perché penso che ci sono
tanti giovani che non trovano lavoro.
Allora, io sono andata a scuola dalle suore, avevo fatto un po’ di asilo tedesco
perché avevo uno zio acquisito tedesco a cui volevo molto bene…e mi hanno
tolto da questo asilo perché dicevano che diventavo tedesca. Mi hanno
mandato dalle suore Marcelline dalla prima elementare fino alla maturità
anche perché era il periodo del ’68 e l’artistico che volevo fare io, per carità!
Così ho fatto la scuola professionale per segretaria d’azienda e devo dire che
il corpo docente è stato fantastico. Dalle suore vedi di tutto e di più, non è
vero che sono tutte brave…si andava in divisa e l’educazione ce l’hanno
insegnata con le buone o con le cattive; comunque sono stata contenta di
essere finita lì dalle suore. Durante le medie era mancata la nonna ed ho
voluto stare due anni in collegio per essere più tranquilla perché non si può
stare in una famiglia del genere. Io penso che i genitori andrebbero presi con
il contagocce e poi il tradimento in famiglia è la cosa peggiore che possa
capitare. Poi sono loro che non hanno più voluto che stessi in collegio perché
gli mancavo.
Sono poi stata all’università, ho fatto un anno qui architettura perché mi
piaceva il disegno, ma poi l’ho piantata lì perché dopo tanti anni che non
disegni hai dei problemi, ma degli esami li ho dati. L’anno seguente sono
andata a Bergamo da una mia amica e mi sono iscritta ad economia e
commercio che poi era il mio sbocco; sono tutt’ora iscritta ed ogni tanto do
qualche esame…ed ero tornata perché la mamma stava male ed all’età di 25
anni ho cominciato a lavorare con papà.
Io ho il diploma da ragioniere, uscita dalle scuole superiori ho deciso di
studiare altri due anni per prendere un diploma di grafico pubblicitario, a
Firenze. Ho vissuto a Firenze, quindi, per questi due anni, ed è stato un
periodo molto movimentato , quello lì, perché stavo in appartamento con altre
undici ragazze, ovviamente era un appartamento molto grande.. era una vita
anche mi piaceva tantissimo ..ero molto libera, un bell’ambiente, tante
conoscenze nuove ogni giorno, facevamo un sacco di feste.. sempre tanta
gente per casa. Conclusi i due anni di corso, preso il diploma, ho cominciato a
cercarmi un lavoro però mi sarebbe piaciuto rimanere lì, quindi ho cercato a
Firenze ma non ho trovato niente.
Spesso sono emerse anche problematiche attinenti alle esigenze di
aggiornamento. In questi casi si fa particolarmente sentita l’esigenza di
aggiornarsi ed adeguare la propria preparazione per potersi mantenere in
qualche modo al passo delle mutazioni e alle esigenze del mercato del lavoro.
Ponendo spesso proprio il tema dell’aggiornamento quale possibile trampolino
nell’avvio di nuove strategie di reinserimento nel mercato del lavoro.
Ho fatto tanti corsi in giro per cose varie, così tanto per, mi è capitato. Ad
esempio, ho fatto l’anno scorso un corso di spagnolo perché ho una certa
facilità per le lingue e mi mancava un po’…purtroppo quest’anno non è
andato avanti e quindi ho abbandonato là; ho fatto un corso di amministratore
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immobiliare; ho fatto un corso di venditore per il piacere di vedere come
funzionava poi chiaramente mi avevano anche selezionato, ma non ci sono
andato. Adesso da un anno circa ho assunto l’amministrazione del mio
condominio, che è un condominio parecchio difficile, nel quale sono subito
subentrati dei problemi enormi perché l’amministratore precedente era una
persona molto anziana
Per cui mi sono fatta questo corso ed adesso spero di andare a posto. E’ un
corso da segretaria e tecnico d’ufficio, perché mi mancavano determinate
cose anche programmi del computer…io ho cominciato nell’80 ad usare
computer con word start ma poi ogni azienda li usa secondo le proprie
necessità…cambiavo
sempre
e
cambiavo programma…infatti io
all’insegnante di informatica gliel’ho detto, per me adesso è difficile…ma lei
inizia dalle cose elementari…spero che dopo questi stage, corso…a questi
punti di trovare un lavoro, che ne valga la pena !ecco! poi l’altro giorno ho
incontrato un responsabile della provincia al collocamento che è venuto
anche al corso dicendo state tranquilli che al collocamento tutti sanno che voi
state facendo questo corso, state tranquilli…ed invece siamo andati a vedere
con lui e non c’era scritto nulla (pausa)… meno male che avevo la
certificazione di partecipazione che mi ha fatto Suor Giuliana, la direttrice del
CIOF…devo dire che il corso è fatto molto bene, io posso giudicarlo anche
dal punto di vista lavorativo…
Ho fatto un corso di pc per cercare il più possibile qualcosa che mi potesse
aiutare a trovare lavoro. In Francia ho preso la licenza media e ho preso un
diploma di segretaria che qui equivale a un professionale, ho fatto un corso di
aggiornamento presso la camera di commercio, perché eravamo tutti dopo il
diploma facevano questi corsi di aggiornamento, perfezionamento poi ho fatto
un corso un po’ più amatoriale di catering/somelier di cui sono
appassionatissima, come titolo di studio vero e proprio non è che abbia un
granché…un diploma e basta! Ecco grosso modo non so che altro dirle,
comunque le mie necessità sono ad un livello economico proprio… Ho
cominciato dal niente e sono venuta su che so fare un mestiere … Sono
venuta su che so fare un mestiere
La mia formazione è doppia, in parte: da un lato danza e dall’altro lettere, la
formazione universitaria normale. Come lavoro di danza ho sempre lavorato;
ho sempre insegnato, da quando avevo 17 anni. Sono riuscita a non…
praticamente lavoravo ma guadagnavo talmente poco che non credo si possa
considerare. In ogni caso, la formazione pur essendo doppia era guidata da
una direttiva unica, cioè non economica ma di lavoro per la mia formazione.
L’accesso al mondo del lavoro
Ovviamente nelle storie di vita raccolte il momento dell’accesso al mondo del
lavoro deve essere considerato quale momento cruciale e in qualche modo
punto di appoggio nella ricostruzione dei destini professionali degli intervistati.
Dal complesso delle interviste raccolte durante la rilevazione si ha anche
l’occasione rilevare quali siano state le principali e più diffuse modalità di
accesso al lavoro da parte degli intervistati.
43
Questo momento cruciale nella storia professionale degli individui viene reso
nel corpo delle interviste con una forte livello di eterogeneità e di
differenziazione.
Testimonianze ci indicano esperienze di inserimento che trovano il loro avvio
dalle possibilità scaturite dalla rete famigliare o delle conoscenze. Il vecchio
principio della raccomandazione che in realtà deve essere letto secondo il
criterio della conoscenza privilegiata quale possibilità d’inserimento.
Il primo impiego l’ho avuto per raccomandazione, il direttore era un amico di
famiglia. Io lavoricchiavo non in regola, In questa ditta ho lavorato dal 1972 al
1974 e poi ho cambiato ditte per migliorare, sono passato a ditte di spedizioni,
dopo sono rientrato in agenzia e mi sono specializzato in carichi
convenzionali. Ho incominciato nell’88-89 fino ad arrivare al 1999.
Così ho cercato un po’ e alla fine ho trovato lavoro nella ditta di un amico di
mio padre ..che tu mi dirai.. è un po’ incoerente, però… Ho lavorato come
come contabile.. per un po’ di anni ho lavorato in questa ditta, fino a che non
mi sono fidanzata ed è cambiato tutto nel giro di sei mesi perché ho deciso di
sposarmi e sono rimasta incinta. Ma la decisione di sposarmi era già presa, in
fondo se non lo fai quando c’è entusiasmo. .se aspetti anni…no, ero felice
con mio marito e abbiamo deciso di sposarci subito…così è nata la mia prima
bambina, che si chiama Clara. E’ stato un po’ il motivo per cui ho smesso di
lavorare. Dunque, per la Micerium ho lavorato sei anni con un contratto a
tempo indeterminato, ero proprio assunta…sai, secondo me c’era meno
precarietà rispetto ad oggi. .ero assunta regolarmente, ti assumevano e
”c’eri”. Poi ti ripeto, per me non è stato tanto difficile ..conoscevo già queste
persone, mi sono subito trovata bene..
Ho iniziato a lavorare in farmacia quando avevo 14 anni, mi è sempre piaciuto
stare a contatto con la gente perché mio papà aveva una panetteria,
avevamo il forno, facevamo il pane. Andavamo a scuola e al mattino prima di
andare a scuola andavamo a portare il pane. Ci aveva fatto fare delle
biciclette piccole con un portapacchi dietro e uno davanti e sia io che mio
fratello, perché con mia sorella ci sono 7 anni di differenza e quindi…ci
alzavamo presto e in mezz’ora andavamo a portare il pane ai ristoranti che
aprivano presto…poi andavamo a scuola. Però il lavoro nel forno con mio
papà non è che mi piacesse tanto, perché vedevo che c’era molto sacrificio,
lui si alzava alle 2/3 di notte, mia mamma era indaffarata perché oltre ai figli
aveva il discorso della casa stava in negozio, insomma era troppo
impegnativo. A quei tempi non si chiudeva mai, non c’era la giornata di
chiusura come oggi, lì si lavorava ininterrottamente, anche nell’ora, avevamo
la cucina nel retro del forno che era molto grande, mangiavamo lì e la gente
veniva a comprare il pane anche all’una, le due…perché a quei tempi i negozi
non facevano le chiusure…e allora non mi piaceva molto, però dovevo aiutarli
e li ho aiutati. Poi non avevo più voglia di studiare e finita la 3° media sono
andata in farmacia, vicino al nostro negozio. Volevo stare per conto mio, non
stare con mia mamma, mo papà, perché era pesante per me.
Molto spesso l’inserimento nel mondo del lavoro deve essere messo in
relazione alla evoluzione delle dinamiche familiari.
44
Dopo la nascita di mia figlia Clara sono tornata al lavoro in seguito al periodo
di maternità, ma per poco, anche se non volevo.. più che altro non mi andava
di lasciarla alla baby sitter…il distacco è stato traumatico. .non ne trovavo una
che mi andasse bene, non vedevo l’ora di tornare a casa da mia figlia… è
stato mio marito a convincermi… mi ha detto Monica, ti devi fidare.
Attualmente ho 46 anni, quando ho avuto le prime esperienze di lavoro ne
avevo 18, avevo appena terminato la scuola.. Istituto tecnico per ragionieri.
Ho lavorato un po’ di mesi per una agenzia di import/export.. è durato finché
non mi sono sposata, dopo di che non ho più lavorato perché ho avuto il
primo bambino subito e non avevo neanche un gran bisogno di lavorare per
cui mi sono dedicata ai bambini che nel frattempo sono diventati due.. Il mio
ex marito è avvocato per cui i primi anni della vita coniugale non ho lavorato
perché non ce ne era bisogno, poi quando i ragazzi
Allora…Il mio rapporto col mondo del lavoro è iniziato molto giovane, perché
ho fatto gli studi superiori, poi ho fatto subito ricerche di mercato, di
marketing…questo da giovane…poi mi sono spostata, ho smesso di lavorare
perché ho aspettato subito un figlio, poi ho ricominciato le ricerche di mercato,
ho ricominciato con varie società a fare sempre marketing e psicologia di
vendita, ho diretto dei gruppi di lavoro a livello pubblicità e a livello vendite,
poi avuti i figli più grandi sono andata a lavorare nelle ditta di proprietà di mio
padre per alcuni anni, poi sono venuta via perché con mio padre c’erano delle
faide familiari antipatiche e sono venuta via…
E ho lavorato, prima che avessi il figlio ho lavorato…ho lavorato in un
negozio…era un negozio di ferramenta, però io insieme ad un’altra signora mi
occupavo della contabilità
Ho iniziato a lavorare molto presto, quando avevo 14 anni e…ho iniziato a
fare la baby sitter poi in un bar poi alla Standa…ho lasciato il mio lavoro
quando ho deciso di sposarmi consapevole di…anche se il mio lavoro mi
piaceva mi sentivo realizzata volevo formare una famiglia ho continuato a
lavorare non ad orari, ma, autonomamente, nella mia famiglia, trascurando il
lavoro “di fuori”, quindi il mio lavoro alla Standa…ho iniziato nuovamente
quando Sara (la figlia più piccola) aveva 11 anni…
Rispetto all’attività lavorativa che mi ha citato prima…mi sa dire qualcosa
rispetto al primo lavoro…(non mi lascia finire di parlare)
Il primo lavoro ero molto piccola…ricordo il fatto che ero trattata molto bene,
come una figlia, anche se io facevo la baby-sitter a due bambini, perché
essendo piccola … queste persone mi volevano bene mi agevolavano mi
facevano sentire a casa mia come è stata un’esperienza positiva nel bar
perché essendo due persone anziane mi trattavano non come una commessa
ma come una figlia…io nel mondo del lavoro ho avuto sempre esperienze
positive ho avuto anche una grande volontà di fare, di riuscire… perché…
quando ero baby-sitter cercavo di farla bene, nel bar lavoravo bene...alla
Standa mi hanno preso come apprendista, mi avevano fatto fare il corso e io
frequentavo perché mi piaceva frequentare avendo fatto solo la terza media
mi sembrava di imparare di più…una soddisfazione personale…un traguardo
di non fermarmi alla solita commessa…
45
Spesso fin dagli esordi vengono sottolineati gli aspetti negativi nel rapporto con
il mondo del lavoro, tale atteggiamento è più evidente quando sin dall’inizio i
percorsi lavorativi sono segnati da elementi di precarietà e di frammentarietà.
In fondo non è che non abbia lavorato; sono riuscita a fare anche dei
lavori…All’Università per esempio, ho lavorato un po’ come bibliotecaria
d’istituto…la mia formazione è doppia, in parte: da un lato danza e dall’altro
lettere, la formazione universitaria normale. Come lavoro di danza ho sempre
lavorato; ho sempre insegnato, da quando avevo 17 anni. Sono riuscita a
non… praticamente lavoravo ma guadagnavo talmente poco che non credo si
possa considerare. In ogni caso, la formazione pur essendo doppia era
guidata da una direttiva unica, cioè non economica ma di lavoro per la mia
formazione.
Poi le esperienze lavorative… Ho iniziato a lavorare subito in una Agenzia
Marittima, andava bene il lavoro, come contabile, quindi legato a quello che
avevo fatto, non era il mio massimo, comunque. Poi questa Agenzia è fallita
ed è iniziata una situazione … Qui andiamo un po’ nel personale….
Sono andata in Inghilterra un anno, per imparare la lingua questo sì e anche
per togliermi da qui, perché rimasta un po’ invischiata e risentita per questa
cosa dell’università, ho imparato bene l’inglese e tornando ho subito trovato
lavoro, però non come fotografa… Mio padre è sempre stato appassionato di
fotografia, spesso i figli di appassionati di qualcosa rifiutano di…poi pian
piano è diventata una passione.
Allora, all’inizio ho cominciato a lavorare per queste società americane
appena arrivate qua; dopo ho cominciato a fotografare; erano società di
telefonia, … si chiamava Tie-Italia, “tie” come nodo; credo ci sia ancora, tra
l’altro.
Ho cominciato a fotografare a livello amatoriale; avrei voluto andare a Milano
a fare l’Europeo di Design, ma avrei dovuto troncare per tre anni qua, farmi
pagare tutto dai miei, figurati non potevano mantenermi a Parma,
Ho cominciato a lavorare; a quel punto basta…Però ho voluto un lavoro parttime perché lavorare tutto il giorno….E il lavoro part-time, molto spesso vuol
dire nessuna soddisfazione sul lavoro. Per non avere soddisfazione allora, ho
detto, posso fare anche un altro lavoro; ho cominciato a lavorare in
compagnie di leasing, facevo il commerciale e non era neanche brutto, però
rigorosamente solo al mattino per avere del tempo da dedicare poi a questa
cosa della fotografia e poi, pian piano, con un amico ricco di famiglia, quindi
con meno problemi, abbiamo iniziato…siamo andati un po’ a Milano, abbiamo
cominciato a fare book, cataloghi…
L’unica possibilità di lavorare era negli alberghi, durante la stagione, e dopo la
stagione il nulla. Qualcosa a Natale, qualche giorno a Pasqua; praticamente
mai in regola. Cioè ti dicevano che ti avrebbero messo in regola, ma alla fine
dell’estate ti tornava indietro il libretto di lavoro e ti avevano messo in regola
per 6 settimane su cinque mesi, praticamente da metà luglio a fine agosto.
Così ho tirato avanti per 4–5 anni, poi ho trovato un compagno con il quale
sono andata a vivere e che aveva già una figlia.
Lì ho continuato a fare le stagioni, anche quando è nata mia figlia, continuavo
a fare mezza giornata; ma con due figli era più difficile e quando andavo a
lavorare io doveva stare a casa mio marito: ci rimetteva più lui di soldi, di
quanto guadagnassi io. E così ho rinunciato…anche perché a lui dava
46
moltissimo fastidio. Ed erano lavori che a me non piacciono, come lavorare in
cucina…Fossero stati lavori che mi appassionavano sarei andata lo stesso,
anche gratis, però in questa maniera no.
Avevo iniziato a fare lavori saltuari, ho fatto un po’ di tutto, dai lavori di casa,
lezioni di francese per diversi anni però sempre lavori così, mai sicuri, con
uno stipendio mensile su cui uno sa che può contare…sono arrivata a
quest’anno, a gennaio, e spero ancora di trovare un lavoro fisso, non mi ero
nemmeno iscritta agli uffici del collocamento…dunque quest’anno ho fatto
anche quello.
Io ho avuto un negozio di calzature da giovane a 20 anni…prima ho lavorato
in una farmacia, come dipendente…poi ho aperto un’attività mia e l’ho tenuta
per circa sei anni…poi l’ho ceduto e sono stata una decina d’anni a casa, poi
ho iniziato a lavorare nei negozi che aveva mia sorella, ma non è stato un
lavoro continuativo, lavoravo saltuariamente e altre occupazioni non ne ho
avute…avrò lavorato in tutto una decina d’anni, tra l’attività alle dipendenze,
in proprio e con mia sorella…forse un po’ di più, 15 anni…
Diciamo che io ho iniziato a lavorare abbastanza giovane, tutti i tipi di lavoro,
baby sitter, telefonista, assistente pediatrica, assistente per anziani, diversi
tipi di lavoro, anche perché abitando da sola, vivendo da sola, dovevo un po’
adattarmi a quelle che erano le mie esigenze…per forza…io vorrei dire quello
che vorrei…un lavoro…per me part time sarebbe l’ideale, perché ho una
bambina
Quindi ho cominciato a lavorare abbastanza tardi…c’è stato un periodo in cui
io facevo anche ricerche di mercato per la Miralanza, ma con la
collaborazione…poi la Miralanza ha chiuso diciamo come azienda
grossa…poi avevo saltato un po’ di qua e un po’ di là in vari uffici di amici
miei, proprio per farmi la pratica degli uffici c’era stato questo interscambio,
un po’ come stagista…per cui quando loro avevano dei problemi mi
chiamavano e i dicevano “Vieni, perché abbiamo bisogno di una persona di
fiducia”…tra l’altro io no ho documentate tutte queste cose, perché con gli
amici…mi davano un tot…però era anche un discorso che serviva anche a
me…perché io purtroppo sapevo cose magari molto più importanti, ma non
sapevo fare una fattura, cose di questo genere…
Dunque io ho un rapporto di lavoro che si è sviluppato dal…da quando avevo
20 anni, quindi ho un’esperienza di lavoro di più o meno 20 anni. Ho iniziato
abbastanza giovane, perché non mi sono laureata e dopo il liceo ho iniziato a
lavorare. Ho iniziato in una piccola concessionaria di pubblicità a Genova, io
sono nata qui. Dove ho iniziato a fare la mia prima esperienza di lavoro, è
stata come una piccola scuola, dove la mia posizione riguardava la
segreteria, poi l’ufficio stampa. Questa piccola azienda vendeva spazi
pubblicitari su riviste specializzate di vario settore. Io mi occupavo della
produzione, della segreteria, dei contatti con i clienti…ho sviluppato in questi
3 anni una buona esperienza. Poi ero abbastanza giovane e il mio sogno era
sempre stato di diventare stilista, alchè siccome ero abbastanza portata nel
disegno del figurino ho detto perché non provare a fare una scuola a Milano
ed ho lasciato questo lavoro, con dispiacere del datore perché dopo 3 anni,
non dico fossi indispensabile…però ero un elemento importante…però io
volevo fare dell’altro, avevo altri sogni e poi anche per altri motivi vari. Quindi
ho iniziato quest’avventura milanese, partendo proprio con la valigia…io
abitavo ancora con la famiglia. I miei genitori, molto severi, non approvarono
questa scelta, perché lasciare il posto fisso…erano abbastanza allarmati però
47
mi hanno lasciato fare, e con la liquidazione mi sono pagata questo corso. È
stato molto interessante, a parte che già allora erano carissimi…e mi sono
pagata un corso abbastanza breve dove ho approfondito lo schizzo del
modello.
Altri percorsi di primo inserimento sembrano essere legati a strumenti specifici o
naturali sbocchi relativi ai percorsi di formazione compiuti.
Ho cominciato a lavorare e la mia prima esperienza di lavoro è stata come
educatore per il Comune di Milano. Il Comune di Milano aveva una serie di
case di vacanza nella riviera ligure, che funzionavano come colonie estive e
per un programma che si chiamava Scuola Natura, per le elementari e medie
del Comune di Milano, che prevedeva un soggiorno di 15 giorni per una sorta
di esperienza del territorio ligure; quindi il nostro compito era quello di
preparare e condurre insegnanti e studenti a visitare diverse realtà con le
visite classiche al monte di Portofino, Camogli, al porto di Genova; poi
insieme agli insegnanti si faceva una attività di verifica per rielaborare insieme
ai bambini. È stata la mia prima esperienza di lavoro che è durata per circa 3
anni, dal 79 all’82, 3 anni pieni. Ovviamente non era un contratto di lavoro
fisso., cioè non era dipendente del Comune di Milano, anzi lo ero ma con
contratti a tempo determinato, rinnovati ogni 6 mesi
Ma in realtà subito dopo ho iniziato a lavorare.
La prima esperienza, quando avevo circa 23 anni è stato fondare una
cooperativa agricola-forestale, con altre persone, la prima di quel tipo in
Liguria. Fondata per passione, una passione per natura, ma poi terminata
come esperienza per l’impossibilità ad andare avanti. C’erano realtà che il
Comune aiutava a scapito nostro, per esempio le grosse cooperative emiliane
attive in quell’ambito…Cioè non è che aiutasse, però di fatto gli appalti
venivano sempre presi da queste grosse cooperative perché erano realtà
straconsolidate con capitali etc…Mi ricordo che avevamo fatto un progetto per
la ristrutturazione del parco del Peralto, il progetto era nostro e fatto gratis e il
lavoro, poi, era andato ad una cooperativa emiliana. Non c’era forse la
volontà, da parte del Comune e degli altri enti locali, di incentivare e aiutare
questa realtà… Mi ricordo che fummo quasi scoraggiati dall’aprirla, in quanto
né la Lega delle Cooperative, né altri enti locali volevano aiutarci e anzi
dicevano: ”Ma cosa fate, tanto non avrete lunga vita, finirete subito…”.
La formazione che avevo poteva essere quella che avevo accumulato così,
negli anni della giovinezza abitando in campagna per 3–4 mesi,
nell’entroterra, nel Comune di Montaggio e quindi facevo il fieno coi contadini,
la legna con l’altro contadino…cioè…
Né una preparazione di tipo agrario, né di tipo imprenditoriale: noi siamo
partiti senza sapere cosa fosse una cooperativa, cosa una motosega, come si
usasse o altre tecniche di intervento.Abbiamo improvvisato tutto, ma neanche
tanto perché abbiamo avuto la fortuna di poter lavorare insieme ad una di
queste cooperative emiliane che ci hanno spiegato alcune cose, ma poi…con
l’esperienza sul campo e con l’intelligenza applicata…sbagli, ti accorgi che
hai sbagliato e per prove ed errori trovi il metodo sicuramente migliore.
Quando sono tornata a Genova ho ottenuto un contratto con l’Università di
Genova di collaborazione occasionale, in realtà ero spesata, non pagata…nel
senso che i soldi che mi davano mi bastavano giusti per il rimborso spese.
[…]
48
Era uno studio sui cinghiali, mi è servito perché dovevo fare un anno di
tirocinio prima di sostenere l’esame di stato, quindi sono stata sei mesi
impegnata in questa ricerca, altri sei nel laboratorio di genetica del Gaslini, al
termine…poi.. mi si è presentata l’occasione di rimanere a lavorare lì, mi
avrebbero dato una borsa di studia ma non ho accettato perché era solo un
tentativo di trovare un lavoro che non fosse nella zoologia, così mi sono
buttata sull’indirizzo ospedaliero ma al momento di concretizzare non ho
accettato…quelli del laboratorio sono rimasti.. di sasso ..perché figurati lì c’è
la guerra per avere una borsa e io che l’avevo non l’ho accettata…perché poi
ho l’abitudine di.. quando faccio una cosa alla fine la faccio
Ancora 8 esami per diventare licenziato in economia e commercio. Poi ho
lavorato in banca, a 21 anni avevo un posto presso la filiale di responsabile
del tesoro e mi sono licenziato e sono venuto via. Sono 22 anni che giro per il
mondo, parlo quattro lingue.
49
50
Capitolo 4 - Dal lavoro al non lavoro: i percorsi di
esclusione e la percezione dell’inattività lavorativa
I percorsi di esclusione: le motivazioni
dell’esclusione dal mondo del lavoro
oggettive
e
soggettive
In questo capitolo si procederà ad analizzare quali siano, nelle storie di vita
considerate nell’analisi, lo specifico dell’esclusione dal mercato del lavoro. Si
sottolinea che “è noto che le probabilità di disoccupazione e inoccupazione per
le donne sono ovunque molto più elevate che per gli uomini e non pare
azzardato sostenere che nell’immaginario collettivo ciò non è sentito fino in
fondo un’erosione di un diritto pieno” 4.
In questa prospettiva sembra quasi ovvio considerare gli aspetti soggettivi di
molte delle donne incontrate durante lo svolgimento di questa indagine in
relazione alla ad alcuni comportamenti tipici che caratterizzano il genere e
soprattutto in relazione alle gerarchie di preferenze e di scelte connesse a
quelle legate ai cicli della vita familiare5.
E’ facile sostenere che gli svantaggi lavorativi delle donne in parte dipendono
dalla loro scelta di privilegiare il benessere complessivo a servizio della famiglia
a scapito delle loro opportunità lavorative.
Ovviamente il modello interpretativo neoclassico ben si adatta in una situazione
di prospettiva funzionalista per la quale esistono modelli e ruoli fortemente
differenziati (e in qualche modo pre-socializzati) tra uomini e donne con effetti
ben precisi sul destino esistenziale di ognuno.
Nelle storie di vita analizzate si osserva, a livello generale, un atteggiamento
ovviamente molto differenziato del passaggio tra il mondo del lavoro a quello
del non lavoro, con una fitta trama di cause e motivazioni sia di carattere
oggettivo che soggettivo.
Nella nostra ricerca si è dato spazio alla ricostruzione dei percorsi soggettivi
che attraverso lo strumento della narrazione ricomponga un aspetto del vissuto,
quello della perdita del lavoro o del passaggio da una situazione di lavoro
“sicuro” a quello di lavoro precario, che presubilmente implica e ripropone
momenti critici dell’esistenza degli intervistati.
Narrare la criticità o narrare la crisi rappresenta un recupero del “sapere”, della
memoria e ovviamente una esternalizzazione di aspetti identitari attraverso il
dispiegarsi della narrazione e quindi del linguaggio.
L’esclusione del lavoro rappresenta un momento epocale nel vissuto di
qualsiasi persona che attualmente si trovi in un percorso di ricerca di lavoro, un
evento preciso un breack point esistenziale che determina un mutamento forte
in termini di ridefinizione di identità, strategie e confini esistenziali.
La percezione delle cause ovviamente rappresenta l’attivazione di una
ridefinizione di questo evento critico che pur essendo ovviamente la risultante di
processi complessi e multidimensionali, molto spesso individuano, almeno a
livello di rappresentazione una causa principale, un motivo scatenante.
4
5
Maria Luisa Bianco, Donne al lavoro, Scriptorium, Torino, 1997, p.10
Approccio della teoria neo-classica cfr. Becker. G.,
51
Questo ci permette di compiere una prima analisi di quelli che sono le principali
motivazioni e cause percepite nelle storie di vita considerate.
Innanzitutto, considerando la forte prevalenza di storie di donne, si evidenzia
una forte correlazione nelle scelte classiche della doppia presenza (mondo
della famiglia - mondo del lavoro) che a momenti di crisi strutturali o
congiunturali accentuino la scelta verso la famiglia con forte propensione
all’abbandono dei percorsi lavorativi.
Più in generale vengono evidenziate una ricca gamma di concause che
essenzialmente si legano alle dinamiche congiunturali proprie dell’economia e
della vita delle aziende in cui gli intervistati lavoravano o dalla crisi o fallimento
delle aziende stesse di proprietà degli intervistati: crisi del settore,
ristrutturazione aziendale e inadeguatezze tra storie e professionali e storie di
vita determinano i confini nel quale le narrazioni riscrivono il passaggio tra vita
lavorativa e vita non lavorativa, dando l’impressione che le persone trovino la
propria soggettività spiazzata da eventi esogeni incontrollabili.
Il quadro generale delle interviste ci mostra una amplissima gamma di
motivazioni che hanno condotto i nostri intervistati in una situazione di
esclusione dal mondo del lavoro e che riassumiamo nella successiva tabella.
Motivazioni economico- Crisi/fallimento dell’azienda
aziendali
Crisi economica del settore
Processi di ristrutturazione aziendale
Cambiamento città
Trasferimento azienda
Motivazioni legate alle Inadeguatezza tra offerte dell’azienda e esigenze economiche e
relazioni sul lavoro
di posizione
Cattivi rapporti con i superiori - mobbing
Cattivi rapporti con i colleghi
Molestie sessuali
Motivi legati alla salute Infortuni sul lavoro
Motivi di salute
Insoddisfazione complessiva del lavoro
Motivi familiari
Il matrimonio
la nascita di figli
Problemi familiari (genitori anziani o malati)
L’occorrenza delle diverse tipologie di cause percepite come scatenanti la
condizione di disoccupazione trova ovviamente una maggiore assiduità nel
percepire cause esterne alle proprie responsabilità, con motivazioni derivanti da
fattori relativi ai processi di crisi generali dell’assetto economico, piuttosto che
da dinamiche proprie della vita delle realtà lavorative in cui gli intervistati si
trovavano inseriti.
52
La grande crisi: dal lavoro dipendente alla flessibilità, dal lavoro
autonomo al non lavoro
Le storie venute alla luce riguardano le tipiche vicende che hanno caratterizzato
il tessuto economico ligure nel corso degli anni ’80 e ‘90, nei diversi settori
economici (soprattutto terziario sia pubblico e privato), chiusure e fallimenti di
aziende e di attività commerciali. In molte delle biografie ricostruite nel corso
dell’indagine viene riportano come causa principale, anche se è bene ricordarlo
spesso non univoca, cause esterne al se come quelle relative alle dinamiche
del mercato del lavoro e delle congiunture economiche sfavorevoli,
abbandonando quella certezza della “carriera” termine già di per se stesso di
etimologia rigida e certa (strada dei carri e quindi definita e certa) generando
ovviamente influssi ed effetti fortissimi sul carattere e sulla personalità degli
individui6. Nelle narrazioni relative all’interruzione di rapporti lavorativi da
dipendenti emerge spesso una sorta di condanna nei confronti delle aziende,
denunciando l’abbandono da parte di quelle stesse imprese. che spesso
rappresentavano cardini della soggettività lavorativa propria del modello
industriale, con rapporti definiti in termini di scambio, fiducia e aspettative. La
crisi societaria viene vissuta come un tradimento, nel quale i rapporti tipici delle
trasformazioni del lavoro possono essere compresi, e soprattutto accettati, solo
parzialmente da chi ha dovuto affrontare un allontanamento dal lavoro e quindi
una decisa rimessa in discussione della propria vita lavorativa e quindi
personale.
Io ho dato tutto per l’azienda, io credevo nel mio lavoro, eravamo come una
famiglia, sul mio lavoro hanno guadagnato un sacco si soldi . c’è stato
proprio un crollo per noi…sia perché ci sentivamo molto coinvolti in questa
avventura che era partita alla grande, per cui chi faceva straordinario…tutti
molto partecipi…era come dire “bene, bene siete stati bravi ora tutta la vostra
fatica la servite su un piatto d’argento e quindi c’è stato proprio un crollo non
solo lavorativo, ma proprio nostro…di dire che era nuovo, eravamo partecipi
di una cosa nuova…:
Esistono sempre però hanno solo le linee su containers. Avrebbero dovuto
tenermi anche perché lì ho lavorato tanto e sul mio lavoro hanno guadagnato
tanti soldi. Visto che tutti i ruoli erano comunque presi non hanno fatto niente
per tenermi. Quando hanno deciso di chiudere l’attività convenzionale, l’unica
soluzione che hanno trovato è stata quella di infilarmi nell’altra società ma
nessuno mi toglie dalla testa che sia stata una cosa premeditata.
Spesso nelle narrazioni si evidenzia una certa rassegnazione negli accadimenti
del proprio destino lavorativo, spesso legato in maniera indissolubile con il
destino delle aziende nelle quali lavoravano; un misto di fatalismo e
rassegnazione imposta dagli eventi.
E’ successo che questa ditta è entrata in crisi, dovevano ricollocarmi in
qualche modo e mi hanno fatto passare in una ditta di spedizioni
consociata a questa agenzia marittima. Poi c’è stato anche un discorso
6
Per una trattazione più che esaustiva sugli effetti del nuovo capitalismo sulla vita personale cfr. Sennett
R., L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 1999
53
politico e l’acquisto di un’altra ditta con le stesse caratteristiche fino a
che hanno dovuto fare una scelta su quale ditta conservare e
naturalmente hanno scelta l’ultima, per cui la ditta in cui lavoravo ha
chiuso
Si tutte collaborazioni. .poi, sempre nel tentativo di sganciarmi da
questo settore nel ’90 sono stata assunta da una società di studi
forestali, dove mi occupavo della valutazione dei danni forestali, dove
però sono rimasta un anno.. ero contenta perché credevo di essere
assunta, ma dopo un anno è fallita la società.. quando si dice la sfiga…
Si, cioè.. è fallita.. in realtà ha puntato su un grosso lavoro che poi
all’ultimo momento non gli hanno assegnato e.. queste sono le sfighe
della vita.. fra l’altro mi sono trovata che tutto il resto lo avevo un po’
mollato…anche male perché quelli di Pavia si erano anche arrabbiati
perché dicevano che li avessi lasciati a metà lavoro. .ma non era così,
comunque poi ci siamo chiariti e ora è tutto a posto..[…]
Dalla lettura delle storie che i nostri intervistati ci hanno rilasciato è possibile
ricostruire esempi tipici della storia recente del lavoro e dell’economia nella
nostra società, sprazzi dei passaggi del declino della trasformazione di quello
che è stato definita “la forza lavoro globale” e le conseguenze di queste
trasformazioni di questo nuovo assetto del capitalismo nella vita quotidiana
delle persone. Nei successivi stralci di intervista si racconta il percorso di una
figura professionale medio-alta che da incarichi di una certa responsabilità si
trova a fronteggiare, in maniera piuttosto consapevole, le nuove esigenze del
mercato del lavoro. In un caleidoscopio di attività, ridefinizioni professionali e
ricalibratura di ruoli e delle competenze, si evidenzia una forte energia nel
processo intervallata da momenti di crisi e fatica, e inadeguatezza percepita
nel poter soddisfare le “esigenze di flessibilità” del mercato privando il proprio
futuro di certezze e risorse che impediscano l’avviarsi di circoli viziosi di
recupero di una progettualità in termini professionali solida e consistente.
Da segretaria sono passata ad account junior ed assistente
dell’amministratore delegato. Poi anche lì c’è stata una grossa crisi, prima
generale per cui hanno dovuto ridurre il personale, io ero la segretaria di un
dirigente che doveva andarsene ed automaticamente la mia figura non era
più necessaria. Quindi ci siamo lasciati pacificamente, mi hanno anche dato
un risarcimento, perché c’è stata proprio una crisi aziendale dichiarata. Sono
stata lì dall’88 al ’95. nel ’95 crisi. In questo transito ho fatto qualche lavoretto:
traduttrice, in una casa di moda, ma mi sono trovata un po’ spiazzata perché
il mio terrore era tornare a Genova, mi sono data da fare tantissimo poi per
caso i arriva una telefonata da un’altra agenzia di pubblicità importantissima
dove c’era una richiesta di sostituzione per maternità, quindi a tempo
determinato per 1 anno, come assistente dell’amministratore e per l’ufficio
stampa. Sono stata disoccupata per 6 mesi poi sono entrata in questa
azienda dove sono stata benissimo, ma ahimè questa persona doveva
tornare ed ho dovuto lasciare anche questo posto. Dopo di ché è iniziata per
me una fatica terribile, terribile ma non perché…la famosa flessibilità, bisogna
anche essere portati ad accettarla, perché soprattutto per una persona da
sola, che si mantiene, ha tutto sul gobbo, non ha una sicurezza, non riesce a
fare funzionare il meccanismo della sopravvivenza in una città come Milano,
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molto più cara di Genova…anche in proporzione agli stipendi. È iniziato un
periodo di crisi.
Dopodiché nel 2001 ho lavorato presso una nuova società nata a Genova che
si occupava di organizzare fiere…questo lavoro l’ho trovato tramite il
secolo…sono entrata per organizzare una campagna visitatori per una fiera a
Parma, la società di Genova si è indebitata moltissimo ed ha dovuto chiudere
i battenti, esattamente prima dell’11 settembre
Nel ’79 e sono stata lì fino ad ora; a fine mese mi lasciano a casa questa volta
definitivamente, ma non so come faranno, secondo me si sono già pentiti
perché è un periodo che c’è veramente tanto lavoro.
Scusi, questa volta? Aveva già interrotto il suo lavoro alla (…)? Allora, a
giugno mi avevano detto che mi avrebbero licenziato o, al meglio, passato a
fare un part-time; ovviamente preoccupata, mi sono messa alla ricerca di un
altro lavoro e nel frattempo giugno è passato, del part-time non se n’è fatto
niente e a fine mese mi licenziano.Adesso oltretutto ho 46 anni e non è facile.
Ho provato a rispondere a qualche annuncio sul giornale e appena sentono
l’età non mi vogliono più neanche conoscere perché quando uno dice l’età è
proprio tagliato fuori… “ah no, massimo 32 anni, 35” quindi a rispondere ad
annunci ho rinunciato, non compro neanche più il Secolo. Il lavoro in sé mi è
sempre piaciuto, si lavorava molto bene e anche il rapporto con i dirigenti era
buono soprattutto con il primo capo che era una persona squisita e, secondo
me, ha fallito perché non ha avuto il coraggio di licenziare delle persone nel
momento di crisi, perché era troppo buono, gli spiaceva. Così nel ’96 è fallita
una prima volta e da lì sono subentrate due persone che poi sono andate via,
hanno rivenduto anche loro, quindi adesso è da un anno che ci sono delle
persone di Milano che hanno deciso di rivoluzionare proprio tutto, infatti sono
tutti a contratti diversi, praticamente in regola ci sono soltanto due persone,
hanno cercato di eliminare proprio…infatti al mio posto prenderanno una
persona giovane, con il contratto di formazione o a tempo determinato per
tirare avanti così.
Nel settore del lavoro autonomo, soprattutto nel settore commerciale, si
leggono di altre storie legate alle difficoltà di mantenere, soprattutto in periodo
di crisi economica, un’attività autonoma. In questi casi la perdita del lavoro,
non passando da decisioni altrui ma soprattutto dalle difficoltà di gestire attività
sempre più dispendiose dal punto di vista fisico e psichico e sempre meno
redditizie.
Tutto era comunque a carico mio. Quindi come esperienza lavorativa
principale e per molti anni unica, io ho la gestione di un banco, ma non un
banchettino, era una situazione con un grande movimento economico,
quindi…In una situazione tipo mercato coperto? Sì, via XX Settembre. Era
una mole di lavoro…io ho chiuso ad un passo dal fallimento, ho mollato
perché non ce la facevo più. A reggere una situazione in cui lavoravo 12 o 13
ore al giorno per niente, praticamente, per accumulare debiti. Adesso, per lo
meno, l’accumulo debiti non c’è, non ho soldi e non accumulo debiti
Poi da allora ho lavorato come titolare di un negozio di dischi, occupandomi
della vendita e al di là delle tematiche della conduzione generale del negozio
e dei negozi, quando sono diventati due, sempre del settore di musica
classica. In questo è nata una piccola collaborazione col Secolo XIX, nel
senso che faccio delle presentazioni di discografie su una rubrica del sabato,
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che continua anche adesso, cioè è l’unica attività che ho in questo
momento….finché le vicende di tipo economico finanziario, mi hanno portato
alla crisi della nostra attività e mi hanno costretto all’abbandono dell’attività.
Questo lavoro l’ho mandato avanti per parecchi anni poi è entrata anche mia
figlia che faceva l’indossatrice e non era un lavoro che la soddisfaceva. Lei si
è messa a collaborare con me e abbiamo aperto molti negozi, perché il
negozio che ho aperto io in Italia era il terzo e l’anno scorso quando abbiamo
chiuso erano 130…ne ho aperti parecchi e facevo anche corsi di psicologia di
vendita nella sede di Milano. L’anno scorso purtroppo la catena è fallita,
fallendo i negozi in gestione non li hanno più ritenuti validi i nuovi proprietari
facendo però delle condizioni veramente svantaggiose per cui io e mia figlia
in 7 giorni abbiamo perso il lavoro.
Le motivazioni soggettive: effetti del mobbing e della qualità ambientale
nelle scelte professionali
Come già accennato un'altra categoria di motivazioni riscontrate riguardano la
sfera dei rapporti con i colleghi e i superiori. Nelle successive testimonianze
riportiamo alcuni esempi di passaggio a situazioni di interruzione dei rapporti
lavorativi alle quali cause hanno contribuito motivazioni legate alla sfera delle
relazioni sul luogo del lavoro, sia con i superiori che con i colleghi. In questi casi
difficilmente si tratta di cause uniche ed esclusive, ma sembrano in genere
inserite in più ampi contesti per cui poi la risoluzione può dipendere da una
serie di concause e altre motivazioni.
Si accenna a forme di mobbing da parte dei superiori e di cattivi rapporti con
colleghi
Ho fatto il capo turno per 4 anni e poi siccome ero nei frigoristi e siccome
c’erano appalti truccati e personale gestito male che dormiva sugli impianti, il
capo reparto aveva anche una sua ditta individuale e quindi approfittava
anche dei dipendenti interni per chiedere favori. Mi sono rivolto al dirigente
che mi aveva proposto come impiegato, sapeva di questa situazione, mi ha
messo al centro elaborazione dati come impiegato, mi ha dato il settimo livello
come a tutti e nel momento in cui doveva passarmi di livello non lo ha fatto e
quindi ho interrotto il rapporto di lavoro nel maggio del ’94. Sono stato
bersaglio di particolari attenzioni perciò mi sono rivolto all’Ispettorato del
lavoro, sono finito in ospedale perché mi hanno avvelenato (…), adesso ho la
causa, ho preso un avvocato. Sono finito in mezzo a una strada e adesso
spero che alla fine della causa mi diano dei soldi.
Poi ho lavorato da un perito navale e poi mi sono trasferita qui a Genova e ho
lavorato presso la Chef Italia, prima aveva un altro nome. Poi la ditta si è
trasferita a Milano e avevo problemi con il bambino perché queste ragazze,
non che non fossero brave, ma fumavano…quanto fumavano!eh allora
insomma mia suocera mi ha consigliato di lasciare, visto che la ditta si
trasferiva…solo che adesso…non si trova, il foglio è grande, bisogno ce n’è
perché ci sono sempre un mucchio di cose…però non si riesce a inserirsi nel
mondo del lavoro…un po’ per l’età, un po’ perché di certe cose esperienza
non ne ho!
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…sì, il nuovo presidente ad inizio anno è diventato il più caro amico di mio
papà…e da quel momento sono iniziati i problemi perché ho iniziato ad avere
dei problemi di molestie sessuali…io sono stata zitta per un po’, ho cercato di
far finta di niente, cercando di ammortizzare la cosa, poi sono arrivata alle
minacce di denunciarlo, all’ultimo, non sapendo più cosa fare, mi sono rivolta
al mio ex marito e ad un avvocato…l’ho denunciato. L’avvocato comunque mi
ha detto che mi avrebbero sicuramente messo in condizioni di andarmene o
mi avrebbero licenziata. Le cose sono diventate, infatti, sempre più pesanti
anche perché non ne volevo parlare in casa per paura della reazione di mio
padre; finché il 1°marzo dell’anno scorso mi ha messo le mani addosso di
fronte a soci che sono intervenuti, io a quel punto non ci ho più visto, ho preso
le chiavi dell’ufficio, gliele ho consegnate e me ne sono andata, mi sono
licenziata. Avevo ancora 580 ore di straordinari da recuperare…mi sono
sentita persa anche perché in contemporanea la mia socia dell’ufficio di p. r.
nel giro di 10 giorni mi ha detto che non aveva più voglia di avere relazioni,
era andata in crisi…io da sola non lo potevo gestire quindi nel giro di 15 giorni
sono stata senza lavoro ed ho perso anche tutto un giro di amicizie che
avevo, da un giorno all’altro, da quando la sera sono uscita dall’ufficio
nessuno mi ha più visto…
Dicevamo una prospettiva non univoca, quella dei cattivi rapporti con i colleghi
o i datori di lavoro, che molte volte può essere considerata l’approdo di
percorsi soggettivi di crisi o di difficoltà spesso incompatibili con un normale
dispiegarsi delle dinamiche relazionali che si sviluppano in un ambito
lavorativo.
Si lascia un lavoro senza avere l’alternativa. Poi uno all’alternativa ci pensa
sempre soprattutto se ha qualche soldo da parte. Tiriamo avanti, tutto qui. Ero
arrivato a un punto di collasso e quindi ho pensato di lasciare tutto, eravamo
arrivati a un punto in cui non capivo più, gli altri riuscivano a capire i miei
problemi io no. Io ero sofferente perché ci stavo male, dal mio punto di vista
la situazione era ingestibile, l’avevo chiusa in un cesso e basta. Sembra di
avere una testa grossa così e un cervello piccolo piccolo, la testa che cerca di
capire le cose mentre il cervello si rifiuta. Molte volte non ci si rende conto che
la tua vita cambia di brutto, cambia completamente, tu stai seguendo un tipo
di attività, sei in una città da parecchi anni, ormai ti sei abituato, non sei
abituato a grossi trasferimenti, non sei abituato a cambiare spesso lavoro,
però avere un lavoro e trovarsi improvvisamente a cambiare tutto, dal punto
di vista sostanziale, non avere stipendio, alla fine ti rendi conto di fare un
grosso errore, ma in quel momento sai solo di aver fatto un grosso
cambiamento ma non un grosso errore. La mia vita era cambiata, la vedevo
con un colore diverso. Il colore è cambiato gradatamente. Poi mi sono trovato
nel giro di due o tre mesi a non riuscire più a cambiare la situazione, pensavo
di poter andare avanti bene, mi sono trovato ad affrontare situazioni brutte.
Sono andato in crisi per problemi pratici, operativi che poi andavano a
deteriorare i rapporti che si erano instaurati. Io non volevo che le cose fossero
condotte in quella maniera. E poi mi sono ritrovato a passare le mie giornate
senza fare niente, e per me era insopportabile perché sul lavoro ormai mi ero
messo in una certa situazione. Incomprensioni, qualche attrito personale con i
colleghi, niente di grave ma è stata la somma di alcune cose.
Ero in regola, tempo pieno, avevo vinto un concorso nel ’81: prima sono stata
11 anni al S. Martino poi sono stata 3 anni, dal ’92 fino al ’95, all’ospedale di
Nervi poi ho deciso così di fare la “baggianata”, ma non mi sentivo neanche
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più di stare lì come posto; poi dato che mio marito aveva avuto un buon posto
mi ha detto: “stattene a casa, stattene a casa” e allora mi sono fatta
convincere anche un po’ da lui, diciamo.
Posso chiederle le motivazioni per cui non sentiva più di stare lì?
C’era già un po’ di mobbing a quell’epoca anche se non era…era ancora agli
albori, non si poteva neanche attaccarsi…soprattutto perché poi lì essendo
sotto la sede di Quarto sono venuti tutti, quelli della 10, della 9, c’eravamo
tutti e io non mi trovavo, ma non con i capi, tra noi colleghi ci stavamo
facendo le scarpe a vicenda; era un ambiente che, come io sono stata per i
primi due anni dal ’92 al ’94 che non ero più nei reparti, era tranquillo però
l’ultimo anno era diventato un inferno, un inferno.
Poi qualche capo mi ha detto di stare attenta, che facevo un po’ troppa
mutua, “stai attenta perché noi ti licenziamo” hanno cominciato a fare un po’
tutte queste cose qui.
Io non sapevo come comportarmi, effettivamente dei motivi di salute ne avevo
avuti, grossi anche, a parte che poi nel ’90 avevo perso un bambino, ho avuto
dei problemi neurologici con un esaurimento, poi ho avuto anche mio marito
malato, mio suocero malato, ho dovuto prendermi dei permessi e tra la mutua
e i permessi probabilmente avevo superato il tetto e loro mi mettevano alle
strette.
Mi sono trovata più che bene nel mondo del lavoro logicamente come
dappertutto mi sono trovata male con le colleghe che poi è stata la causa
dell’interruzione del mio rapporto di lavoro, non si andava più d’accordo, si
lavorava male… di conseguenza mi sono licenziata …Lavoravo in una grossa
azienda d’abbigliamento firmato e.. niente occupavo un posto di lavoro che se
non avevo la mente tranquilla non potevo occupare. Quando mi sono sentita
che non potevo più fare il mio lavoro mi sono licenziata… A un certo punto
per stare più vicino alla mia famiglia ho chiesto di lavorare mezza giornata,
perché per me l’ideale è lavorare mezza giornata perché avendo una famiglia
mi interessava anche seguire la famiglia… e un lavoro a mezza giornata non
si trova, non danno la possibilità, io parlo dell’ambito tessile.. questa è una
cosa che mi sembra più che sbagliata perché una madre che ha una famiglia
mi sembra che mezza giornata per lavorare e mezza giornata per i figli è
l’ideale. Finché io non ho avuto figli io questa richiesta non l’ho mai fatta,
dopo che ho avuto i figli ho fatto questa richiesta e non mi è stata concessa.
Sono andata avanti per un po’ di tempo facendo l’orario spezzato,
mezzogiorno a casa e rientravo alle due, ma era troppo pesante, era una
cosa impossibile per me perché non ero più…era impossibile fare una cosa
del genere e da lì è scattato di mollare tutto, era impensabile proseguire così.
Lavoro e salute
Tra le principali motivazioni del mutamento dei destini professionali sono
spesso emersi problemi relativi alla salute e gli infortuni.
Lì caricavo e scaricavo camion, un’esperienza piuttosto brutta: il lavoro
cominciava alle 2 del pomeriggio, finiva quando ti andava bene alle 10 o a
mezzanotte, neanche il tempo per un panino ed il lavoro era molto duro,
perché era tutto a braccia.
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Finché non ebbi un infortunio sul lavoro, nel ’98, mi investì un carrello
elevatore, perché, nonostante tutti i corsi sulla sicurezza che ci avevano fatto
seguire, poi le norme di sicurezza non le osservava nessuno…
Da lì rimasi come socio, ma non lavorai più e sono quindi ritornato a fare il
mio lavoro di giardinaggio con un amico che aveva una piccola ditta, più che
altro un negozio che però voleva allargare al discorso giardini e cominciai di
nuovo….Abbiamo fatto parecchi bei lavori, per esempio al Salone nautico per
la Azimuth, la Ferretti; poi dei lavori per il Salone Nautico di
Dusseldorf…bellissimi giardini…Poi il lavoro è calato e mi sono trovato
nuovamente…
Periodicamente devo recarmi all’ospedale a fare controlli e mi hanno
ricoverato 30 volte circa dal 1989…ho una mielite, il midollo che non crea
anticorpi…questo è il quadro e il perché non lavoro…ho moltissimi altri
disturbi…ispessimento delle meningi, colesterolo…mi hanno dato subito una
pensioncina, ma io sono in una condizione che o mi date un lavoro part time o
mi date una pensione decente…io mi sono dovuto dimettere, non è che mi
hanno detto sei licenziato, ma lei deve venire a lavorare ininterrottamente per
4 mesi, ma io era impossibile…perché almeno 7 mattinate avrei dovuto
passarle in ospedale o dagli specialisti…e poi io mi sono coltivato il
conservatorio, facevo l’analista programmatore, le lingue...non è che non mi
chiamano, quando mi chiamano mi dicono venga anche domani, ma io no
posso quando gli dico cos’ho…questa è la mia storia.
Ma ho avuto la disgrazia di star male quindi ho dovuto, come dire, piantar lì e
nel frattempo sono stata poi assunta in un posto più piccolo per cui le cose
erano un po’ diverse: conduzione familiare quindi non potevano tenermi più di
tanto in mutua o aspettativa…inoltre neanche a farlo apposta,
l’apparecchiatura che usavo io si è rotta in maniera irreparabile per cui
avrebbero dovuto ricomprare tutta l’attrezzatura e a quel punto non se la sono
sentita di investire né su me perché han detto: “adesso sta benino, ma poi?”,
né sull’attrezzatura quindi han fatto finta di niente, han tergiversato un po’.
Quando dopo 6 mesi sono tornata a lavorare mi hanno messo a fare un po’
qui un po’ là…io per fortuna sapevo fare un po’ di cosette e per un po’ mi
sono adattata però quando mi ha messa a fare un cosa che non era idonea
più di tanto alla mia condizione …mi hanno messo con le spalle al muro e
sono stata costretta a licenziarmi.
Se mi avesse licenziato lui avrei potuto chiedere la disoccupazione. Invece ho
pensato: mi licenzio e i soldi della liquidazione li investo, mi compro
l’attrezzatura e vado avanti per conto mio. L’alternativa era quella di andare in
pensione con quella di inabilità quindi io non avrei mai più potuto lavorare,
forse all’epoca arrivavo ad un milione, ma magari! Perché adesso io un
milione non lo guadagno; se lo guadagnassi sarei a posto e comunque anche
con la pensione di inabilità avrei trovato comunque un lavoretto in nero
perché tanto alla fine il risultato è lo stesso: lavoro comunque in nero, non ho
la pensione, né niente perché poi l’invalidità che mi hanno riconosciuto è
bassa e mi serve solo per essere iscritta al collocamento nelle liste dei
disabili.
Poi qualche capo mi ha detto di stare attenta, che facevo un po’ troppa
mutua, “stai attenta perché noi ti licenziamo” hanno cominciato a fare un po’
tutte queste cose qui.
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Io non sapevo come comportarmi, effettivamente dei motivi di salute ne avevo
avuti, grossi anche, a parte che poi nel ’90 avevo perso un bambino, ho avuto
dei problemi neurologici con un esaurimento, poi ho avuto anche mio marito
malato, mio suocero malato, ho dovuto prendermi dei permessi e tra la mutua
e i permessi probabilmente avevo superato il tetto e loro mi mettevano alle
strette.
Sì, quando me ne sono andata me ne sono andata io perché magari volevo
cambiare o cosa; non sono mai stata licenziata…anzi no! Sono stata
licenziata quando mi è venuta la sclerosi multipla che lavoravo in un bar,
l’ultimo lavoro che ho fatto in regola: quando sono arrivata a casa
dall’ospedale che sono tornata a lavorare, dopo 2-3 giorni mi ha detto che
non aveva più bisogno di personale e quindi mi ha lasciata a casa…mi ha
fatto mandare la lettera dal commercialista…Senza spiegazioni perché non
aveva più bisogno di personale… “cosa faccio?” non potevo rivolgermi a
nessuno: eravamo solo due dipendenti più il titolare e la moglie per cui…
Le scelte familiari e il non lavoro
Ultimo gruppo di motivazioni riportate nel corso delle interviste riguardano
essenzialmente le questioni legate alla famiglia sia nel senso della propria che
quella di appartenenza. E’ ovviamente in questa tipologia di motivazioni che
emerge in maniera più rilevante la differenze di genere tra uomini e donne. Nel
teorema della doppia presenza, è sempre la donna a dover scegliere e
rinunciare.
Il mio ruolo doveva essere quello di non essere più statico in un punto bensì
di occuparmi della gestione in diversi punti, cioè fuori Genova che però mi
portavano una settimana da una parte e poi dall’altra ma avendo questo
problema, non si potevano combaciare le cose anche perché questa persona
aveva bisogno di assistenza continua. Avendo un genitore in quelle
condizioni, ho ritenuto di non dover accettare, forse sbagliando, e ho dato le
dimissioni.
Ma prima della morte di mio padre mi ero impostata la vita in una maniera
abbastanza scandita, non so come dire; cioè avevo pensato a impostarla
così: trovare un lavoro part time che mi assicurasse il mantenimento, la
sopravvivenza e poi tutto il resto del tempo libera, a fare quello che volevo io,
senza bisogno di compromessi, di vendermi…questo è stato impedito dalla
morte di mio padre e dalle conseguenze a livello famigliare e economico, in
parte è stato impedito dal fatto che al momento non me ne fregava più niente
di quasi niente…ma non c’è solo questo, che è forse la parte più positiva della
questione: c’è la parte negativa che è la mia parte autodistruttiva, la parte per
cui io faccio una cosa e nello stesso tempo faccio il possibile per
distruggerla…
Non riesco bene a dirlo, né a governare bene questa cosa, altrimenti sarebbe
facile per me anche risolverlo. Poi ci possiamo mettere anche tutta una serie
di idiosincrasie mie personali, come quelle burocratiche, per cui, per esempio,
una volta laureata ho fatto la domanda per essere inserita nelle graduatorie e
l’ho fatta in ritardo ed ero così….dispiaciuta.
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La mia sfiga, però, non solo mia, comunque…, quando c’è stata nel ’92
l’alluvione, il negozio di mio padre, a Borgo Incrociati è stato distrutto,
completamente, dall’onda del Bisagno. Ci siamo trovati una macchina dentro
al negozio, i macchinari divelti e sbattuti nella stanza dietro, sotto 1,80 m di
fango. Mio padre aveva la macchina per stampare, quella da 1 h, ma
soprattutto, nel frattempo, mio fratello era diventato ottico e quindi c’era tutta
la parte dell’ottica, i macchinari…è stata una perdita enorme…
Io tenevo tutto lì, a livello di miei lavori, negativi, etc. quindi adesso mi ritrovo
senza più niente da fare vedere. Mio padre ha dovuto riconsegnare le licenze
in Comune, perché non c’erano incentivi o aiuti…Per cui ho perso tutto,
perché la casa è molto piccola; quello che ho fatto dopo sono poche cose,
perché è arrivato Niccolò…Va beh, comunque…
Come contabile.. per un po’ di anni ho lavorato in questa ditta, fino a che non
mi sono fidanzata ed è cambiato tutto nel giro di sei mesi perché ho deciso di
sposarmi e sono rimasta incinta. Ma la decisione di sposarmi era già presa, in
fondo se non lo fai quando c’è entusiasmo. .se aspetti anni…no, ero felice
con mio marito e abbiamo deciso di sposarci subito…così è nata la mia prima
bambina, che si chiama Clara. E’ stato un po’ il motivo per cui ho smesso di
lavorare.
Poi quando i ragazzi hanno iniziato ad essere più grandi ho lavorato nel suo
studio ..avevo la direzione della segreteria, sia per il mi ex marito che per mio
cognato, entrambi avvocati.. ho lavorato lì tanti anni così.. si può dire “in
proprio” .. poi, dopo la separazione… avevo 40 anni.. ho avuto bisogno di
ritrovare un lavoro ma.. niente da fare.. ho contattato soprattutto le inserzioni
sui giornali, alcune erano vere e proprie bufale gigantesche… altre un po’
così, mi sono capitate delle cose poco simpatiche… non erano assolutamente
serie.. e poi la difficoltà maggiore l’ho trovata soprattutto nell’età. Perché la
maggior parte della difficoltà l’ho trovata lì… quasi insormontabile.. è legata
all’età. Anche se anagraficamente si può essere giovani ma per il mondo del
lavoro… questo proprio no.. non lo si è. Se non si hanno dai 23 ai 35 anni
massimo, proprio... mi sono sempre sentita dire 30 35 massimo.. non si
andava proprio oltre.
Eh si quelle si…si perdono…anche perché io ho lasciato il lavoro anche per
un motivo importante: cambiavo città e allora non è stata una cosa costretta
però non avevo di mezzi, non avevo patente l’ho presa nell’83, io mi sono
licenziata nel ’77…non avevo di mezzi e dove andavo ad abitare dovevo
prendere corriera e treno, il marito faceva i turni era un modo anche di non
vederci no stare insieme e non era una scelta positiva per noi che avevamo
scelto di sposarci prima di tutto per stare insieme…
Tutto quanto, poi è nato mio figlio alché non avendo le possibilità economiche
di prendere una baby sitter, mai, ho rinunciato a lavorare…non che non
volessi, ma dicevo “non posso lasciare mio figlio a una persona”…non mi
andava proprio, insomma. Avevo iniziato a fare lavori saltuari, ho fatto un po’
di tutto, dai lavori di casa, lezioni di francese per diversi anni però sempre
lavori così, mai sicuri, con uno stipendio mensile su cui uno sa che può
contare…sono arrivata a quest’anno, a gennaio, e spero ancora di trovare un
lavoro fisso, non mi ero nemmeno iscritta agli uffici del collocamento
Quando ho avuto la bambina, mi sono fermata completamente dal 1994 al
2002, sono stata bloccata anche dal fatto di essere sola non ho una persona
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a cui lasciarla mia madre è lontana, adesso vedo che si ammala molto meno,
fa i moduli è più impegnata ed io riesco ad avere più ore a disposizione…
Poi dicevo … son rimasta incinta, intanto mettevano tutti in
cassaintegrazione, io ero stata consigliata male e mi avevano fatta licenziare,
con la cosa di avere il pediatra, va beh. Che mi aiutasse con il bambino non
c’era nessuno.
Sono rimasta senza lavoro perché ho dovuto chiudere per stare dietro a mia
madre… stavo lavorando sempre nel mio campo e per esigenze, per problemi
di casa o mi prendo una donna che me la tratta a pesci in faccia e la devo
pagare, poi mi denuncia…ho chiuso e sono stata dietro a mia madre. Non è
stata una scelta, è stata un’esigenza…se avessi avuto la possibilità di pagare
una donna sarebbe stata una scelta…se tu prendi una che la devi mettere in
regola, le devi dare come minimo tre milioni di stipendio al mese, una che
prende un milione e mezzo di pensione e ha la casa da mantenere e il
mangiare, deve pagarsi le medicine, dimmi tu cosa deve fare! Le danno 400
euro di accompagnamento…purtroppo ho dovuto fare così.
Io a un certo punto per stare più vicino alla mia famiglia ho chiesto di lavorare
mezza giornata, perché per me l’ideale è lavorare mezza giornata perché
avendo una famiglia mi interessava anche seguire la famiglia… e un lavoro a
mezza giornata non si trova, non danno la possibilità, io parlo dell’ambito
tessile.. questa è una cosa che mi sembra più che sbagliata perché una
madre che ha una famiglia mi sembra che mezza giornata per lavorare e
mezza giornata per i figli è l’ideale. Finché io non ho avuto figli io questa
richiesta non l’ho mai fatta, dopo che ho avuto i figli ho fatto questa richiesta e
non mi è stata concessa. Sono andata avanti per un po’ di tempo facendo
l’orario spezzato, mezzogiorno a casa e rientravo alle due, ma era troppo
pesante, era una cosa impossibile per me perché non ero più…era
impossibile fare una cosa del genere e da lì è scattato di mollare tutto, era
impensabile proseguire così..
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La condizione del non lavoro: condizione, atteggiamenti e psicologia della
condizione non lavorativa
Nel corso dell’indagine, e in virtù dello strumento utilizzato quello delle storie di
vita, si è privilegiato lasciare spazio alla libera narrazione di quello che è il
senso, l’atteggiamento e il dispiegarsi degli effetti della condizione del non
lavoro.
Questa particolarmente delicata parte della storia professionale degli intervistati
offre numerosi spunti per comprendere, in particolare, quali siano i percorsi di
carattere soggettivo e oggettivo che rappresentano le specificità di una
dimensione,che se considerata in una prospettiva multidimensionale,
favoriscono ed amplificano i processi di etero e autoesclusione dal mondo del
lavoro, innescando, spesso, circoli viziosi che impediscono una prospettiva
strategica nel rientro nella dimensione attiva del lavoro e che miscelano fattori
economici e psicologici.
Alcuni aspetti della non autonomia dal punto di vista economico, con particolare
importanza, anche se non esclusiva, per la variabile genere, rafforzano una
prospettiva per la quale, spesso, la dipendenza da un partner o dalla famiglia di
appartenenza può generare processi depressivi molto forti.
Ovviamente tale atteggiamento deve essere correlato all’esistenza e al
permanere o meno di reti solidali alternative al mondo del lavoro, più strette
sono le maglie di queste reti è minore è la possibilità che si generino processi
psicologici di tipo depressivo, pericolosissimi sia a livello individuale che
sociale. Anche perché dalle interviste non quanto sarebbe auspicabile si ricava
una lettura della propria condizione collegata a una prospettiva di sistema
economico e politico, che in qualche modo, faccia sentire i soggetti meno
“responsabili” dell’andamento della propria condizione lavorativa, e quindi
accentuando la responsabilità collettiva della propria situazione a scapito di
quella individuale.
E’ ovvio che è proprio l’affermazione di una specifica cultura del lavoro, sempre
più basata sull’affermazione individuale che può provocare, in caso di battute di
arresto, e soprattutto nelle fasce di età oggetto della nostra indagine, una
percezione di fallimento in senso assoluto.
In alcuni casi la condizione del non lavoro, soprattutto nei casi dove per vari
motivi la pressione economica non diventa un fattore così incombente e
determinante, può anche diventare occasione per la riappropriazione di tempi,
spazi e interessi non compatibili con i tempi del lavoro.
In ogni caso è importante osservare quali siano le trasformazioni percepite
rispetto all’identità ovviamente, da posizioni dinamiche si passa spesso a
posizioni d’attesa nelle quali sembra difficile alimentare l’ottimismo e la
speranza, condizioni si potrebbe dire essenziali in una strategia di
reinserimento nei circuiti lavorativi. Spesso, troppo spesso, sono venute fuori
parole chiave quali depressione e perdita d’energia. Condizioni psicologiche
che non servono solo al lavoro o alla ricerca dello stesso ma servono persino al
passaggio intermedio fondamentale di quello di definire e disegnare un
progetto, una strategia tesa a ridefinire i propri obiettivi rispetto al lavoro.
Soprattutto per chi ha lavorato in maniera continuativa, e per le donne che a un
certo punto si sono ritrovate con i figli grandi e senza più bisogno di loro,
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sembra subentrare un incolmabile senso di vuoto, un incapacità di ridefinizione
del proprio ruolo all’interno della società al di fuori di quei ruoli che l’identità
lavorativa, e in questo senso nella stessa misura l’identità di genitore “fattivo”
riempiva le persone interpellate.
La lettura delle biografie offre innumerevoli spunti circa l’atteggiamento delle
persone soprattutto quelle che hanno una vita professionalmente strutturata a
ritrovarsi, senza impegni, senza responsabilità e ovviamente con meno
disponibilità economiche
Abbiamo fatto momenti buoni, a volte le formiche, è più che altro una
questione psicologica. A me manca molto non avere un impegno fisso
tutti i giorni, avere una responsabilità che peraltro ho sempre avuto, mi
manca non avere un posto dove poter andare tutti i giorni e fare quello
che so fare. Anche se poi lavorando questi tre o quattro mesi i soldi a
casa arrivano. L’aspetto economico non è un problema, è più che altro
un problema psicologico. Se mancassero i soldi sarebbe un dramma.
Una gran rottura…Perché si ha tanto tempo e non si sa mai cosa fare per
quanto uno cerchi di impegnarlo. Io leggo, studio libri di giardinaggio, faccio
esperienze di fotografia digitale…ma ti manca sempre qualcosa, una
prospettiva fondamentale che è quella sociale e anche quella economica.
Io ho fatto 2 anni della mia vita che quando sono arrivato qua che volevo
picchiare la testa contro il muro ma veramente dopo la sventura di Milano che
non mi hanno pagato la mia azienda non sapevo come tirare a campare ..
Un mix di prospettiva sociale, in termini di ristrutturazione dell’identità e la
ricollocazione in un ruolo sociale nuovo con tempi di trasformazione scanditi
anche dall’inevitabile mutamento in termini di capacità di produrre reddito e
quindi di consumare. Quindi è proprio la qualità della vita nel suo complesso
che si deteriora a partire da alcuni degli aspetti sia oggettivi sia soggettivi che la
definiscono. Emerge una generalizzata consapevolezza circa l’attivazione di
cicli negativi a partire dalla perdita di lavoro che muovendosi dagli aspetti,
diciamo così economico finanziari, rischiano di mettere in gioco anche
l’equilibrio psichico elemento essenziale nella complessa ridefinizione di
strategie attive di ricerca di lavoro.
E’ una situazione terribile, ci si spaventa di tutto, la qualità della vita è
cambiata. Io ora compro il minimo indispensabile, faccio acquisti nei
supermercati tedeschi. E questo succede anche per chi perde il lavoro, pensi
che sia tua la colpa se perdi il lavoro e quindi ti isoli, ti deprimi.
Forse potrei aggiungere qualcosa sull’esperienza del non lavoro: perdi
identità, dignità e autostima, che per me già è bassa ed è un circolo vizioso.
Non è giusto neanche darsi così tanto addosso. Come strategia di
autodistruzione, io credo di essermi scelta la dipendenza economica, pur
amando l’indipendenza moltissimo. (…) Da depresso hai meno forza di trovar
lavoro. Poi se io vedo che per mantenere una posizione bisogna intervenire in
una situazione di conflitto o imparare a gestirla, io esco dal conflitto… forse
sono anche scrupoli di tipo morale. … Di sicurezza.
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Me la sono vissuta male. Male, molto…abbastanza male. Un senso di vuoto,
di sentirsi anche fuori dal contesto sociale, mi sembra essere vuoto. E poi io
ho bisogno di lavorare per una questione mia, morale, direi, per la situazione,
i retroscena che non ho raccontato…Motivi che sono anche finanziari, certo,
ma non solo. Psicologico…Ho piacere e bisogno, perché se no penso
troppo…
Non avere uno stipendio tutti i mesi ti cambia le abitudini. Ho due figli, uno
studia e l’altro è in cerca di lavoro ma anche per lui è difficile perché non ho la
patente, non ha i soldi per comprarsi una macchina. Ti svegli di notte e pensi
a come tirare avanti, ci sono le bollette, l’affitto, il mangiare, uno che ha un
posto di lavoro si gestisce diversamente la vita. Il mio futuro lo vedo nero
perché non ci sono prospettive, stanno privatizzando tutto. Alla mia età poi gli
sbocchi sono pochi. Avrei voluto fare il corso da operatore socio sanitario ma
senza un reddito non lo potevo fare, sono corsi che durano mesi e da mio
marito non ho mai visto una lira.
È una situazione psicologica che dipende dalle persone. Ci sono persone che
….posso garantire che non è facile, ricominciare, magari andando a vendere
come rappresentante in una città che non conosci neanche tutte le strade, le
persone…tante volte si cade nella depressione del non lavorare e della
difficoltà che si incontra con il nuovo. Quando non si lavora, i soldi finiscono.
E non riuscire ad avere neanche un lavoro come manovale, che ho chiesto
anche per questo…ma molte volte la formazione e l’esperienza che le
persone hanno, a me è capitato, imbarazza…è importante riuscire a
conoscere un po’ di più, la persone, la città…
È brutto e facilmente ti abitui alla mentalità del brutto; ti abitui a …stare in una
identità che non è la tua tutto sommato, poi dici come ho fatto a finir così, io
non sono così…e ti ribelli sul niente. Io detesto…no, non considero importanti
i soldi, ma se non li hai non so fino a che punto tu riesca a costruire
molto…qualcosa, forse, ma non ti basta. Forse potrei aggiungere qualcosa
sull’esperienza del non lavoro: perdi identità, dignità e autostima, che per me
già è bassa ed è un circolo vizioso. Non è giusto neanche darsi così tanto
addosso. Come strategia di autodistruzione, io credo di essermi scelta la
dipendenza economica, pur amando l’indipendenza moltissimo. Ci sono
riuscita anche perché c’è poco lavoro. Se fosse stata una situazione diversa
in cui trovar lavoro è facile, forse avrei trovato altre strade per stare e farmi un
po’ male. Non salvo me stessa, ma ci sono persone diverse da me che non
lavorano perché non ci riescono, non lo trovano. Da depresso hai meno forza
di trovar lavoro. Poi se io vedo che per mantenere una posizione bisogna
intervenire in una situazione di conflitto o imparare a gestirla, io esco dal
conflitto… forse sono anche scrupoli di tipo morale. … Di sicurezza.
Oggigiorno senza soldi si è come morti, non si fa niente…uno senza soldi si
sente triste, depresso…
Io dal settembre 2001 sono disoccupata, non ho più guadagnato una lira,
sono entrata in una fase di instabilità mia, anche un po’ psicologica…perché
io ho voglia di fare, mi sento irrealizzata se non faccio nulla…devo avere uno
scopo, rendermi utile, non avendo una famiglia sono a disposizione, non sono
menomata…non vedo perché…sono una donna di 40 anni!ci sono state delle
vicissitudini fortunate o meno però insisto che Genova debba offrire delle
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possibilità, perché non siamo nel Ruanda…questa fase l’ho passata l’anno
scorso nella passività totale, quest’anno…da quando sono venuta qua…
Ovviamente il dato anagrafico viene percepito come un elemento fortemente
penalizzante nelle dinamiche del mercato del lavoro contemporaneo, avere
molta professionalità e molta pratica lavorativa, una qualifica un vissuto e
passato professionale e non di meno l’esperienza e la qualità del lavoro che
una persona con esperienza può dare, automaticamente non diventano fattori
competitivi in un mercato del lavoro che si caratterizza per la ricerca di
competenze sempre più distanti dalla considerazione della crescita
professionale ma piuttosto più legata alla considerazione e di ricerca di
lavoratori meno qualificati ma più “adattabili” alle esigenze di flessibilità delle
aziende
E allora mi sono trovata a 58 anni senza lavoro con molta pratica lavorativa,
però senza lavoro ed io essendo vedova ho bisogno di lavorare…per cui mi
sono data da fare per cercare un lavoro. Purtroppo ho scoperto che prima di
tutto c’è un…una disparità fra uomo e donna, questo è indubbio c’è sempre
stata secondo me…adesso un pochino meno perché la donna si è data da
fare, nel senso che è diventata più aggressiva, più motivata e da meno
importanza all’uomo, probabilmente, le nuove generazioni…e poi una cosa
che in Italia non è tenuto conto, nelle altre nazioni c’é…non è tenuto di conto
la meritocrazia, cioè la qualifica delle persone, il passato lavorativo delle
persone, la qualità del lavoro che può dare una persona di una certa età, le
aziende si buttano tutte su contratto di formazione, di apprendistato e
secondo me c’è tanto pressappochismo, nel senso che c’è poca
professionalità, poca voglia di insegnare e di imparare dall’altra parte
Le motivazioni erano proprio che avevano bisogno di personale giovane da
poter mettere in regola con i nuovi contratti di lavoro, quindi sono
completamente tagliata fuori da questo punto di vista, oltre ovviamente a non
essere stata per tanto tempo nel mondo del lavoro la difficoltà maggiore l’ho
trovata per gli anni… che comunque sono passati..
Mah ... è una questione soprattutto d’età. Si, si.. poi l’esperienza ovviamente..
anche nel campo in cui ho lavorato tanto se non si conosce nessuno.. se non
hai un amico, a un’amica, uno che magari ha uno studio legale eccetera..
erano tutti legati all’età.. dell’esperienza non se ne è fatto niente nessuno.
Ma quando lavoravo no, secondo me quello che c’è adesso è un problema di
troppa richiesta di lavoro o perché i datori di lavoro preferiscono i giovani
perché gli mettono il contratto di formazione…anche mia nipote alla fine del
contratto di formazione non l’hanno più rinnovato…perché pagano meno
tasse…l’essere donna, no….alla mia età, sono vecchia…non ho più il
bambino, quando ero giovane capitava che per il bambino…avessi più
problemi, adesso sarei presente, non avrei motivo di chiedere permessi, se
c’è la salute…non lo so perché, forse le ditte cercano giovani per via di
queste possibilità…no gliene importa niente, fanno i loro interessi.
Il lavoro innanzitutto la possibilità di realizzare noi stesse, donne di una certa
età un po’ scartate bisogna dirlo, ma poi soprattutto il fattore economico, oggi
come oggi penso di si, perché due stipendi sono indispensabili, poi i figli…
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Per le donne il passaggio dal lavoro al non lavoro può voler dire un ritorno ad
un ruolo da casalinga o da mamma a tempo pieno che pur aiutando a non far
perdere, magari, il senso dell’utilità porta a evidenti difficoltà anche a ricostruire
modalità di relazione con il partner e i figli.
Questo bisogno di lavorare proprio per a parte la questione economica
proprio è mia io non riesco infatti è 2 mesi e mezzo che sono disoccupata e io
friggo non .. perché sa i lavori di casa li faccio lo stesso però .. alla lunga alla
lunga mi stancano ho bisogno di cose mie”(…) io mi sento una casalinga
frustrata ecco quando sei frustrata ogni cosa ti da fastidio Anche il bambino
che ti viene a chiedere “mamma dimmi..” mi dai fastidio
Ci sono dei giorni che ho voglia di fare qualcosa, mi annoio a fare sempre le
solite cose anche in casa che poi sono ripetitive, perché tutti i giorni è la
stessa “menata” ecco…mi vengono queste malinconie, però non posso far
niente, purtroppo devo accontentarmi di fare la casalinga
Ora sono tanti anni che non lavoro, perciò sono anche abituata a stare in
casa, faccio altre cose, non so vado al mercato, faccio un giro…però oggi
come oggi se ce l’avessi un lavoro…sarei contenta, ma come le ripeto c’ho
provato, ma poi uno si sfiducia, lascia perdere
Nel momento in cui ho perso il lavoro abbiamo fatto momenti buoni, a volte le
formiche, è più che altro una questione psicologica. A me manca molto non
avere un impegno fisso tutti i giorni, avere una responsabilità che peraltro ho
sempre avuto, mi manca non avere un posto dove poter andare tutti i giorni e
fare quello che so fare. Anche se poi lavorando questi tre o quattro mesi i
soldi a casa arrivano. L’aspetto economico non è un problema, è più che altro
un problema psicologico. Se mancassero i soldi sarebbe un dramma.
Ho vissuto con quello che avevo avuto in eredità da mio padre, dal lavoro di
mio padre. Mio padre lavorava in un’impresa familiare di costruzioni e negli
anni ’60 con il cosiddetto boom si era fatto un certo patrimonio per tutta la
famiglia, per tutti i figli. E ovviamente con questi appartamenti che ci ha
lasciato siamo andati avanti fino adesso. Ho vissuto sempre due situazioni
contrarie e comunque tutte e due negative perché la vita in famiglia, in
compagnia di mia madre, un classico degli individui come tanti ce ne sono, è
una rovina perché si crea una complicità tale, un grado di condizionamento
che impedisce i movimenti naturali, con la comodità di entrambi. Finché sei
giovane te ne rendi meno conto perché cerchi di sfruttare la situazione a tuo
vantaggio poi però alla lunga questa cosa inizia a pesare. Dall’altra parte non
sono riuscito a inserirmi nell’ambiente della famiglia perché lo vivevo con dei
contrasti, con delle distanze di mentalità quindi non sono mai riuscito a
inserirmi sfruttando magari la possibilità del lavoro che aveva creato mio
padre, quello che rimaneva del lavoro paterno, cercando qualche inserimento
in quell’ambito ma io non riuscivo perché avevo difficoltà nell’approccio con i
parenti che ci lavoravano, la famiglia non mi ha dato un grande appoggio in
questo senso
Il passaggio da persona occupata a persona inoccupata è stato veramente
una cosa incredibile: è cambiato che io ora dormo. Io facevo un lavoro per cui
mi svegliavo alle 3, 4 del mattino per andare a comprare, cose veramente
allucinanti: io ho presente tutti i miei anni lavorativi come un sonno continuo,
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sempre sonno. Questo è cambiato in positivo: adesso dormo. E mi sveglio
magari per andare al bagno all’ora in cui mi svegliavo per andare a lavorare e
invece posso dormire…
Tutto questo anche perché c’è qualcuno che mi aiuta, nel senso che mi
hanno dato una casa dove stare, etc. se no, facendo la barbona in mezzo ai
cartoni, non potrei dormire comunque! Insomma una cosa buona c’è stata.
Però sono assolutamente dipendente a livello finanziario, totalmente: reddito
meno zero.
Il mio periodo di in occupazione è iniziato l’anno scorso nel periodo del G8.
Quindi relativamente breve e mi sono anche subito data da fare, per mettermi
a fare qualcosa, perché
Sì non è tantissimo, ma mi sono talmente data da fare che mi aspettavo che il
mondo del lavoro fosse un po’ più ricettivo. Ho l’impressione che veramente
che questi lavori interinali, e li ho battuti tutti a Genova…
Passare da occupati a inoccupati è una situazione psicologica che dipende
dalle persone. Ci sono persone che ….posso garantire che non è facile,
ricominciare, magari andando a vendere come rappresentante in una città
che non conosci neanche tutte le strade, le persone…tante volte si cade nella
depressione del non lavorare e della difficoltà che si incontra con il nuovo.
Quando non si lavora, i soldi finiscono. E non riuscire ad avere neanche un
lavoro come manovale, che ho chiesto anche per questo…ma molte volte la
formazione e l’esperienza che le persone hanno, a me è capitato,
imbarazza…è importante riuscire a conoscere un po’ di più, la persone, la
città…
Io dal settembre 2001 sono disoccupata, non ho più guadagnato una lira,
sono entrata in una fase di instabilità mia, anche un po’ psicologica…perché
io ho voglia di fare, mi sento irrealizzata se non faccio nulla…devo avere uno
scopo, rendermi utile, non avendo una famiglia sono a disposizione, non sono
menomata…non vedo perché…sono una donna di 40 anni!ci sono state delle
vicissitudini fortunate o meno però insisto che Genova debba offrire delle
possibilità, perché non siamo nel Ruanda…questa fase l’ho passata l’anno
scorso nella passività totale, quest’anno…da quando sono venuta qua…
Nei periodi di non lavoro, di passaggio tra un’occupazione e l’altra me la sono
vissuta male. Male, molto…abbastanza male. Un senso di vuoto, di sentirsi
anche fuori dal contesto sociale, mi sembra essere vuoto. E poi io ho bisogno
di lavorare per una questione mia, morale, direi, per la situazione, i retroscena
che non ho raccontato…Motivi che sono anche finanziari, certo, ma non solo.
Psicologico…Ho piacere e bisogno, perché se no penso troppo…
Per adesso no riesco ad avere la sensazione del non lavoro, per essere
sincera. Perché…Io ho un mio lato del carattere, che è quello di prendere al
meglio i lati della vita. Ho fatto del lavoro su di me, sono cresciuta, questo
negli anni, per cui riesco anche molto ad accontentarmi, ma non
accontentarmi poveramente, proprio a scavare nelle cose. Io non avrei mai
pensato di diventare madre… e di tre poi… però invece è una cosa
bellissima, che arricchisce molto e mi sta dando tanto; ma alla mia situazione
ci penso, a momenti, ma non so… prima di addormentarmi, perché non ho
tempo durante il giorno.
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I periodi di inattività li vivo come una gran rottura…Perché si ha tanto tempo e
non si sa mai cosa fare per quanto uno cerchi di impegnarlo. Io leggo, studio
libri di giardinaggio, faccio esperienze di fotografia digitale…ma ti manca
sempre qualcosa, una prospettiva fondamentale che è quella sociale e anche
quella economica. Oggigiorno senza soldi si è come morti, non si fa
niente…uno senza soldi si sente triste, depresso…
Diciamo che come strategie ho fatto abbastanza…poi le possibilità che
escono dagli annunci…e via…
Non ho nessuna preclusione: è chiaro io sono più specializzato nel settore
trasporti e giardinaggio, quindi…ma ho mandato il curriculum in tutte le
direzioni. Ma anche per richieste generiche non c’è problema.
Mi adatto, magari tra un anno cambio di nuovo.
Sono sempre alla ricerca di un percorso migliore…
E’ una sensazione che ho; anche lavorando come dipendente, se dopo un tot
di non noto miglioramento, cambiamenti, non ho la possibilità di fare carriera,
di imparare e guadagnare anche, impegnando le mie risorse per una nuova
crescita, io mi spengo come essere umano, divento passivo… e non voglio
che succeda questo; non mi posso vedere come uno che fa tutti i giorni le
stesse cose, quello e basta: lo reggo per un po’ di tempo, magari finché c’è il
bisogno economico che mi spinge, ma poi basta. Quindi quando trovo una
nuova situazione… e la trovo…
Insomma cerco di combattere il mio atteggiamento nei confronti della ricerca
del lavoro quando ogni tanto affiora; cerco di aver fiducia e speranza…
Se avessi le possibilità mi butterei anche in una situazione imprenditoriale.
Non mi sembra però che in questo momento esista qualcosa a livello di
finanziamenti…occorre poi sempre una base e adesso quello che vorrei fare
è proprio trovare qualcosa che mi consenta di costruire una base minima
economica per poi lanciarmi magari…quando la situazione esterna mi sembra
più opportuna…Mi pare che in questo momento sia tutto un po’ bloccato.
Nel campo del giardinaggio la mia figura professionale va dal trattamento
boschivo, alla manutenzione del giardino, a quella parte che può essere quasi
architettura d’esterno, dall’illuminazione, all’irrigazione, ai mobili…Penso di
essere una persona di buon gusto…Sono in grado di fare un progetto, magari
non ho la manualità, ma ho altri mezzi.
Volevo anche investire in qualche programma per grafica e progettazione,
legati alla foto digitale… ma magari aspetto, visti i costi, di legare questo
investimento ad un uso effettivo, professionale…E nei trasporti vado dalla
professionalità di chi scarica il camion all’organizzazione e alla gestione
logistica di un magazzino… Ho due professionalità complete, quindi…
E comunque tutto viene utile. Anche guidare un carrello elevatore…
Si ma.. guarda, per essere onesti io il posto fisso non l’ho mai voluto.. ma non
è che non faccio niente, è che non ho un ritorno economico…comunque non
ha senso che una persona che non entra nel “pubblico” poi finisca così.. e tra
l’altro mi va bene per la casa.. perché me lo sono potuta permettere
Le motivazioni erano proprio che avevano bisogno di personale giovane da
poter mettere in regola con i nuovi contratti di lavoro, quindi sono
completamente tagliata fuori da questo punto di vista, oltre ovviamente a non
essere stata per tanto tempo nel mondo del lavoro la difficoltà maggiore l’ho
trovata per gli anni… che comunque sono passati..
E il fatto di essere stata per tanto tempo al di fuori dal mercato del lavoro
quanto influisce?
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Ma una questione soprattutto d’età. Si, si.. poi l’esperienza ovviamente..
anche nel campo in cui ho lavorato tanto se non si conosce nessuno.. se non
hai un amico, a un’amica, uno che magari ha uno studio legale eccetera..
erano tutti legati all’età.. dell’esperienza non se ne è fatto niente nessuno.
Quando ho lasciato il mio lavoro ho perso amicizie .. eh si quelle si…si
perdono…anche perché io ho lasciato il lavoro anche per un motivo
importante: cambiavo città e allora non è stata una cosa costretta però non
avevo di mezzi, non avevo patente l’ho presa nell’83, io mi sono licenziata nel
’77…non avevo di mezzi e dove andavo ad abitare dovevo prendere corriera
e treno, il marito faceva i turni era un modo anche di non vederci no stare
insieme e non era una scelta positiva per noi che avevamo scelto di sposarci
prima di tutto per stare insieme…
Adesso…se dovesse scegliere il tipo di lavoro…sceglierei un lavoro part-time,
che non mi obbliga a stare fuori tutto il giorno da casa, mi occupa solo…parttime! Qualsiasi lavoro perché non ho una qualifica avevo lavorato da
commessa però ho lasciato poi perdere…qualsiasi lavoro che mi gratifichi!
Il lavoro è importante ma prima viene la salute, l’amore per le
persone…lavorare si, ma non si vive solo di lavoro
Quando è finito il gruppo di lavoro abbiamo continuato a sentirci e anche a
passarci delle informazioni, se trovo qualcosa che può andare bene per una o
per l’altra io la chiamo…perché il gruppo sostiene, il gruppo appoggia perché
l’appartenenza ad un gruppo intanto da un senso di appartenenza, quando si
perde il lavoro non si ha più nemmeno il senso di appartenenza, del ruolo, ed
in più il fatto che questa cosa si potesse estendere, strutturarla, coinvolgendo
le associazioni femminili, industriali…puntando sul fatto che le donne
industriali aiutano le altre donne in difficoltà, facendoci anche sponsorizzare e
facendo leva su tutte le mie conoscenze…un’associazione senza bandiera,
che utilizzi i fondi europei…avevo anche litigato con una mia amica moglie di
un grande imprenditore che mi ha detto: “ma cosa vuoi fare raccogliere gli
sfigati?si, perché tra gli sfigati ci sono anch’io!”. Difatti io volevo chiamarla
Pierrot, come questo quadro in cui è all’angolo della strada e nessuno gli dà a
mangiare, però c’è la luce accesa, quindi qualcuno c’é…!
Quando ho perso lavoro mi ha aiutato anche se c’è stato un periodo in
cui…perché quando ho perso il lavoro io l’ha perso anche mia figlia, per cui ci
siamo trovati a livello familiare perdendo il lavoro tutte e de insieme, un
lavoro che ci dava parecchi milioni al mese, per cui c’è stato uno smarrimento
sia a livello morale, sia a livello economico…poi io essendo vedova, sola, mia
figlia sposata, ma divorziata con una persona che ha un figlio di 20 anni e
avendo una bimba di 7 anni… ci siamo trovate svasate tutte e due.
Comunque ho continuato il volontariato adesso l’ho sospeso per tre mesi
perché è mancata mia madre e allora c’è una legge della G.G., per cui per
qualche mese quando uno ha un lutto grave in famiglia deve sospendere,
premettendo che è da agosto che non vado più dai malati, però vado alle
riunioni, le conferenze…adesso dalla prossima settimana, due volte a
settimana andrò da un malato nuovo e penso che ce la farò.
Il volontariato non mi ha aiutato a trovare lavoro anche perché lì è tutto
volontariato e di solito i volontari lo fanno perché hanno del tempo libero e
non hanno problemi economici, hanno magari una certa età, e poi dai malati
devi andarci allegra, per cui pietre non va bene, e non è il mio carattere, e
anche con i miei colleghi volontari dire proprio ho bisogno di lavorare per
mangiare era una cosa un po’ difficile da far capire…non perché io sia
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orgogliosa, se uno ha bisogno per carità, lavorare è un diritto…non ho avuto
tanto riscontro e prima mi sono arrabbiata, poi ho analizzato il perché e sono
giunta alla conclusione che è perché non vivendo queste cose in prima
persona, non ci si riesce a mettere nei panni dell’altro e aggiungendo che la
G.G. curando i malati e cercando di apparire sempre senza problemi,
automaticamente loro si identificano che non hanno problemi loro, non
devono averne glia altri, perché non sono malati…inizialmente mi sono
arrabbiata ed ho pensato “si vede che non gli ho spiegato bene i miei
problemi, che non si sono resi conto, non li ho informati bene, mi vedono
sempre allegra e disponibile e non pensano che io abbia veramente bisogno
di lavorare”, anche perché lì nessuno ha bisogno di lavorare, secondo me…e
allora hanno meno pensieri, ed è difficile che si mettano nei panni degli altri,
ameno che non incontrano uno che gli chiede l’elemosina per strada e allora
lo sai…è difficile anche perché è dell’essere umano rifiutare i problemi altrui,
danno fastidio, allora i problemi dei volontari sono i malati e vengono
circoscritti a quello.
Si, sono sfiduciata. Ora sono tanti anni che non lavoro, perciò sono anche
abituata a stare in casa, faccio altre cose, non so vado al mercato, faccio un
giro…però oggi come oggi se ce l’avessi un lavoro…sarei contenta, ma come
le ripeto c’ho provato, ma poi uno si sfiducia, lascia perdere. Ho perso le
speranze, un poì sì … perché è difficile… penso che dipenda dai tempi, visto
che c’è tanta richiesta di lavoro e offerta forse ce n’è meno…non so…
Certo l’età è un ostacolo, perché se fossi più giovane penso che…però non
è…anzi io potrei dare…non ho più i figli piccoli, il bambino che può non stare
bene…che comportano dei vincoli, adesso io non averi bisogno di
permessi…perché ormai mio figlio si arrangia da solo…meglio adesso alla
mia età che una di 20 anni che deve ancora formarsi una famiglia… bhe certo
che più il tempo passa, più è difficile….io adesso ho 53 anni quindi… Io
penso di essere adeguata a questo mercato del lavoro, penso di si… Certo
non posso spendere quello che ho studiato perché ormai tante cose sono
superate, una volta la contabilità si faceva in maniera diversa … le cose si
sono cambiate, si sono evolute, ci sono nuovi sistemi…no non è che vorrei
fare quello che ho studiato purché sia un lavoro non troppo faticoso… Mi
verrebbe bene un part time, così avrei la possibilità di badare alla casa,
tempo per me e anche per lavorare…poi qualunque cosa…
Esperienze negative nel mondo del lavoro non ne ho avute…no, nemmeno
con il datore di lavoro e i colleghi, a parte il primo che era un po’ anziano e
aveva sempre da dire, ma lì ci sono stata poco poi ho cambiato. Quello che
c’è adesso è un problema di troppa richiesta di lavoro o perché i datori di
lavoro preferiscono i giovani perché gli mettono il contratto di
formazione…anche mia nipote alla fine del contratto di formazione non
l’hanno più rinnovato…perché pagano meno tasse … l’essere donna, no …
.alla mia età, sono vecchia … non ho più il bambino, quando ero giovane
capitava che per il bambino … avessi più problemi, adesso sarei presente,
non avrei motivo di chiedere permessi, se c’è la salute … non lo so perché,
forse le ditte cercano giovani per via di queste possibilità…no gliene importa
niente, fanno i loro interessi.
Una volta presso una signora anziana, ma insomma…sa era un po’ una
tipa…eh poi è mancata e non sono più andata … anche perché lavorare mi
farebbe anche comodo perché come marche lavorative non arrivo nemmeno
alla minima, mi farebbe comodo, anche una pensione minima…è solo che è
difficile difficile … io vedo anche nella ditta di mio marito, riducono riducono,
mettono quello come si chiama l’amianto…e allora li lasciano a casa e gli
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danno quello che gli resta per andare in pensione…e allora ecco perché sono
sfiduciata…
Al lavoro io do un grande peso, perché ha occupata il 50 % della mia vita fino
ad ora …. la metà, quindi gli do grande importanza, soprattutto per una
questione di realizzazione personale, interessi, motivazioni, crescita,
curiosità, anche per una mia formazione, per imparare, … c’è sempre da
imparare anche nelle esperienze negative…l’ultima società che ha chiuso i
battenti, io ho imparato ad usare internet…
Il lavoro significa innanzitutto la possibilità di realizzare noi stesse, donne di
una certa età un po’ scartate bisogna dirlo, ma poi soprattutto il fattore
economico, oggi come oggi penso di si, perché due stipendi sono
indispensabili, poi i figli…
Non lavoro dal 1999, però non ce la faccio proprio più sono a tappo, faccio
una vita che…ci penso tanto, poi i pensieri viaggiano…con la liquidazione mi
sono preso un pc aggiornato, da lì mi faccio i miei programmi, non sono un
tipo che sta con le mani in mano…ho sempre risposto a tutte le domande di
lavoro, ma ogni volta che arrivo alla fatidica domanda “a salute come sta?” io
dico solo una cosa “sono epilettico” senza dire tutto quello che ho…
Ma la conosco ha dei lati positivi, ma anche molti negativi…l’attuale
compagno poi mi ha detto non è il caso che vai a lavorare non hai bisogno e
non è che questo lavoro ti risolva la vita e allora…ho lasciato perdere anche
quello…se ci fosse un’occasione diversa da questa che mi è capitata, mi
piacerebbe…però non è facile…se non ti metti in proprio per conto tuo non è
facile trovare senza tirare fuori dei soldi, rischiare anche un pochino è difficile
trovare un lavoro…si potrei trovare qualcosa con mia sorella…lei ha l’idea di
un ristorantino ci sarebbe piaciuto però anche lì è un rischio perché siamo
inesperte del settore e poi un minimo di capitale all’inizio ci vuole…e se poi la
cosa non va…anche lì è un rischio non conviene…cioè è un rischio, chi non
risica non rosica, ma…e allora così non lavoro…tutto qua…
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Capitolo 5 - Dal non lavoro a lavoro: vincoli e risorse, le
immagini del lavoro e le strategie di reinserimento
Immagini e percezioni del lavoro
L’obiettivo di questo capitolo è comprendere quali siano, per gli intervistati, le
immagini e la percezione del proprio rapporto con il mondo del lavoro a partire
dai vincoli e dalle risorse percepite per arrivare alle strategie di reinserimento,
attuate o sperate, nel mercato del lavoro stesso.
Spesso gli intervistati hanno espresso le loro perplessità e le loro riserve nel
pensarsi adeguati alle richieste del mercato. Spesso, e in relazione all’universo
dell’indagine, il primo degli ostacoli percepiti è quello dell’età.
L’atteggiamento generalizzato che emerge è quello della consapevolezza – e
della paura – che settore per settore esista un netto iato, in termini di
competenze, di aspettative, e di retribuzione, rispetto alle persone giovani
competitrici nel mercato del lavoro. Spesso viene sottolineata una delle
contraddizioni principali della domanda di lavoro: quella della ricerca di persone
giovani con tanta esperienza .
Gente della mia età non la prendono probabilmente perché in certi posti
hanno bisogno di ragazzini, ….. la richiesta è avere una persona con una
certa esperienza ma di età decisamente inferiore alla mia.
Chi è oltre i 40 non trova lavoro…… è un grosso problema perché non puoi
prendere lavoro come apprendista perché non ti prende nessuno non puoi
prendere lavoro come responsabile o come persona di fiducia o come .. eh ..
qualunque cosa perché non la cercano perché dovrebbero pagarla troppo ..
eh .. preferiscono prendere gente in lista di mobilità o .. cioè .. la persona di
40 anni o oltre i 40 anni che ha un’esperienza lavorativa non indifferente o
anche comunque ha una buona esperienza lavorativa […] non viene preso
perché deve essere pagato troppo e perché sanno benissimo che andare a
proporre di lavorare in nero o comunque a una cifra irrisoria uno stipendio
irrisorio si sentirebbero rispondere male quindi non c’è lavoro per chi ha oltre
40 anni
Parlando con un amico dicevo che è peggio che nel mondo del calcio; a 30
anni sei finito, però poi fai l’allenatore. E se non fai l’allenatore hai
guadagnato tanto che…
Tutti cercano giovani, giovani, giovani; che secondo me hanno delle qualità
ma hanno mancanze di esperienza, di…stabilità interiore, emotiva, qualità
umane che secondo me sono importantissime, fondamentali. Infatti negli
ambienti di lavoro dove sono capitato e dove erano tutti giovani erano spesso
situazioni in cui la gente si prendeva a ditate negli occhi… Gli anziani spesso
fanno da moderatori spesso, da cuscinetto, le cose vanno avanti meglio.
In particolari segmenti del mercato del lavoro – quello del settore diportistico
nell’esempio sotto riportato – le indiscutibili difficoltà relazionate al dato
anagrafico devono essere lette aggiungendo difficoltà più generali: la
“concorrenza” si amplifica, non solo l’età è un deterrente, ma anche la necessità
di avere un lavoro ‘regolare’.
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Se uno non ti conosce, non ha mai lavorato con te e tu gli dici che hai 52
anni, diventa tutto un po’ difficile. Io non ho perso l’entusiasmo per le cose
che ci sono da fare, di amare ancora moltissimo il lavoro specialmente per
cose nuove. (…)Tornare sulle navi alla mia età è difficilissimo. Attualmente
posso solo trovare dei posti di lavoro in estate sugli yachts in nero, altre cose
non se ne trovano. Posti che durano 4 mesi che fanno guadagnare anche
qualche soldino, non parliamo di contributi né di messa in regola perché c’è
talmente tanta offerta di manodopera, più o meno qualificata, con tanta gente
che arriva anche dall’estero, inglese, sudafricani, neozelandesi …
Viene sottolineata anche la difficoltà, da parte delle persone non più giovani, ad
operare scelte di cambiamento rispetto al proprio settore di esperienza, dove
magari sono state maturate molte competenze specifiche e precise aspettative
in termini di diritti e di livelli contributivi. In questo stralcio d’intervista si mette in
risalto la tendenziale maggiore attitudine, di chi è giovane, nell’adeguarsi a
nuove situazioni rispetto a chi, come l’intervistato, proviene da una cultura del
lavoro di tipo industrialista.
Io sono laureato in Ingegneria. Dal mio punto di vista si possono fare più
scelte, da certi altri si possono fare meno scelte e soprattutto la scelta è
consentita dalle persone giovani. Per chi ha tanta esperienza la scelta è
indirizzata in altro campo o per un determinato obiettivo ed è praticamente
costretto a lavorare in quella direzione. Difficilmente si trova uno sbocco in un
lavoro completamente diverso. Un giovane può trovarsi senza lavoro
improvvisamente, decidere di farsi assumere per quell’impiego, per quella
ditta e trovare magari il posto perché ha fatto gavetta in un ufficio in due o tre
anni, per un cinquantenne è molto più difficile. Io lavoravo all’Alfa Romeo
nella progettazione, essendomi licenziato per vari motivi, con molte difficoltà
non so come orientarmi, tuttora sono senza lavoro.
La percezione che spesso viene manifestata è quella di lontananza e
incompatibilità tra esigenze di persone nel pieno della propria maturità
esistenziale e quelle del mercato del lavoro, alle quali ovviamente, come
abbiamo più volte sottolineato si aggiungono i pericoli e i problemi legati
all’avvio di circoli viziosi di depressione e disillusione verso il proprio futuro.
Hai 40 anni e puoi darti un colpo in testa perché per il mondo lavorativo ormai
sei finita … non puoi dare niente e a 40 anni quando hai raggiunto una certa
maturità hai un po’ di esperienza e tutto il resto non sei considerata valida dal
punto di vista lavorativo […] io ho finito il tempo del lavoro che ho 40 anni.
Sono profondamente amareggiata disillusa
Dalle interviste, spessissimo, emergono alcune istanze circa l’incomprensione
di politiche attive del lavoro in grado di includere il potenziale di questa
importante quota di lavoratori, le loro esigenze e quanto ancora possono dare
alla società in termini di esperienza maturata, competenze e altro. Il pericolo
denunciato è quello che effetti espulsivi ed esclusivi che coinvolgano
significative fasce della popolazione, possono portare a carichi sociali
attualmente non sopportabili.
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Secondo me sarebbe necessario un incoraggiamento ad assumere persone
non più giovanissime, visto anche che l’età della pensione sta lievitando;
perché se da una parte richiedi che…è anche giusto….io ho 52 anni e
ufficialmente quasi ti richiedono ancora 18 anni di lavoro che sono anche in
grado di fare
Bisogna che passi quest’idea dell’assunzione di persone non più giovani,
perché se è richiesta una mobilità di lavoro, è possibile andare in pensione ad
anni non si sa quanti, diventa necessario inserire nel mondo del lavoro anche
50enni. Non si può fare altro, oppure c’è alternativa hitleriana, non lavori, non
puoi lavorare, non produci, fuori, via, eliminazione immediata per ridurre il
carico sociale che diventa troppo gravoso. Carico sociale che comunque non
viene assunto, ma che poi pesa da altre parti….
La mia opinione comunque è che ci vuole più aiuto per certe fasce, questa
degli ultra quarantenni…Io non riesco a capire come mai le aziende siano
lasciate libere di assumere soltanto giovani. E’ anche un controsenso:
giovane e specializzato, con la disoccupazione che c’è stata, c’è e difficile…e
con questo tagliare fuori tutta una serie di figure che sono una ricchezza
professionale, magari investibili nella formazione, …e ricchezza anche
umana. Le persone espulse dal ciclo produttivo con famiglia, figli…è un
delitto, è molto triste. Poi abbiamo tutti diritto al lavoro, che è un po’
un’utopia…Quando si crea un mercato del lavoro ecco che il diritto viene
meno…: il mercato del lavoro come ogni mercato è gestito da persone che
hanno degli interessi, anche nel far lavorare o non far lavorare le persone…E
il diritto finisce in quell’istante.
Spesso la narrazione delle interviste ci indica delle complesse trame di
descrizione e interpretazione della propria situazione rispetto al lavoro dove –
come in quella proponiamo di seguito – si comprende la profonda interrelazione
tra il ruolo specifico all’interno del mercato del lavoro degli individui e le storie
di vita a livello soggettivo e familiare.
L’unico problema serio è che io in questa operazione ho bruciato i miei
risparmi e non solo quelli, anche un po’ di risparmi altrui. E questo mi
impedisce in intraprendere, imprendere qualcosa…
Io ho sempre cucito, è da quando avevo 14 anni che cucio, è il mio lavoro!
Però oggi come oggi avrei più voglia di cambiare e di continuare però è
troppo tardi per cambiare perché non c’è lavoro per i giovani figuriamoci a me
chi mi prende, non ho lo charme, non ho l’estetica, non ho la minigonna, i
titolari oggi vogliono i ragazzini…anche se io volessi cambiare, siamo
sull’assurdo perché comunque io sono in un momento un po’ brutto della mia
vita a livello personale, un po’ perché ho avuto due lutti nell’arco di 4 mesi, un
po’ perché la situazione economica nell’anno che son stata ferma è stata un
po’ distruttiva e un po’ perché sono stanca di aver lavorato tanto per non
avere niente.
Poi dobbiamo star dietro agli anziani, tutto per gli anziani, i figli che li
mandano a quel paese i vecchi, se in ogni famiglia se li tenessero in casa i
loro vecchi…come me che ho voluto stare dietro a mia mamma, lei è stata
dietro a me per tanti anni e non vedo il motivo per cui avrei dovuto
abbandonarla in un momento critico.
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(…….) Se vogliono fare una cosa ben fatta quando c’è una persona che
assiste un malato, per cominciare oltre a percepire un aiuto con
l’accompagnamento, gli considerino anche le marche, un anno, due anni,
secondo le esigenze perché queste persone che stan dietro alla fine si
ritrovano con degli anni vuoti. Io per esempio con mia mamma è durato poco,
solo un anno, ma se fosse durato due-tre anni sarei arrivata all’età della
pensione che mi mancavano gli anni perché son stata dietro a mia mamma.
Sulle possibilità di reintegrazione nel mercato del lavoro degli ultraquarantenni
esclusi dai cicli produttivi si denota troppo spesso un atteggiamento di –
comprensibile - ma pericolosissima rassegnazione, in particolare si nota una
maggiore frequenza di questo atteggiamento nelle donne intervistate. E’
evidente comunque la consapevolezza dei meccanismi attraverso i quali questo
tipo di esclusione avviene
A quarant’anni secondo me se non sei in un determinato giro, se non hai
determinate conoscenze, non ci rientri nel modo del lavoro. A meno che
veramente non ti rimbocchi le maniche. Però è difficile
Un ulteriore vincolo rilevato nelle interviste è quello relativo alla problematica
della ridefinizione della propria identità lavorativa e del proprio ruolo all’interno
del mondo del lavoro, considerando molto spesso l’esigenza di trovare offerte
di lavoro molto al di sotto delle giuste aspettative maturate in decennali
esperienze.
Il doppio svantaggio: donne ultraquarantenni in cerca di lavoro
Come già visto nella sezione precedente emergono da più parti – vista anche la
predominanza delle donne nel nostro campione - gli svantaggi legati alla
condizione femminile, e perché no vista la tendenza generale alla
femminilizzazione quale epigono e modello della precarizzazione dell’attuale
configurazione del mercato del lavoro. Visti questi presupposti è interessante
osservare quanto i pesi e le responsabilità già evidenziati intorno a tutto il
ragionamento della doppia presenza si individuano e si amplificano nelle analisi
delle donne da noi intervistate, dalle problematiche relative al dato anagrafico.
In pratica si considera quanto sia facile osservare che tutte le problematiche
delle attività riproduttive proprie del genere. Spesso infatti, come si è visto nel
precedente capitolo dedicato ai meccanismi esclusivi del mercato del lavoro, le
donne hanno abbandonato il lavoro, trascurato la carriera proprio in virtù del
ruolo attribuito nelle strutture produttive dei decenni passati, di cura e di
responsabilità per le attività riproduttive in seno alla famiglia e quindi di tutta la
società nel complesso. Riprodurre i figli, curare figli, mariti, padri e madri mentre
il marito produceva e permetteva – o volendo subordinava – la donna
all’esplicazione dei fondamentali compiti appena ricordati. Il doppio svantaggio
abbiamo detto, lo svantaggio di genere e lo svantaggio generazionale
costituiscono senz’altro una miscela degenerante per permettere alle donne di
poter pensare un percorso di reinserimento lavorativo nel momento in cui
cresciuti i figli o magari conclusa la fase di cura e di presa in carico dei genitori
anziani.
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In molte – anche se fortunatamente non in tutte – delle narrazioni biografiche
che abbiamo raccolto nel corso dell’indagine si assiste ad una presa di
coscienza circa i processi di dipendenza ricoperti dalle donne all’interno delle
esperienze lavorative così come dei rapporti familiari. Processi subordinativi
che hanno impedito del resto anche la creazione di un capitale culturale in
grado di essere competitivi in un mercato del lavoro sempre più teso
all’abbandono di forme regolamentative e piegato alle richieste di un economia
sofferente e sofferta. Se è vero che nel passaggio dal fordismo al postfordismo
il mercato sempre più tende ad impossessarsi della vita delle persone andando
ad incidere come non mai negli ambiti più profondi e intimi della vita delle
persone, si potrà capire quanto sia difficile per chi - almeno per un lungo
periodo della propria vita – aveva vissuto in semplificati e a volte comodi,
anche se non facili schemi della divisione dei ruoli e oggi si ritrova a ridefinire
una strategia e un’identità in un sistema in continua trasformazione, nel quale
l’individuo è costretto ad essere in grado a sua volta di trasformarsi.
Del resto uno dei principali tabù moderni del mondo maschile, quello del
fallimento in contrapposizione al modello – auspicato, esaltato e dominante del
successo ha sempre risparmiato il genere femminile in virtù della apparente acompetività dell’ambito familiare. Ma nelle interviste si capisce che quella, forse
comoda per il mondo maschile, attribuzione di neutralità goduta dalle donne in
ambito lavorativo, è destinato a mostrarsi con tutta la sua essenziale
drammaticità .
Influisce. Influisce perché sono mamma, moglie e figlia presente per la mia
famiglia Non avrei la possibilità di esserlo se lavorassi… seguo i miei figli, mio
padre che ormai ha una certa età e non può più stare da solo, mia nonna che
è in una casa di cura ma che comunque non voglio che si senta abbandonata
e quindi sono sempre lì…
Sulla scelta di smettere all’inizio il mio ruolo di donna ha tanto influito, però
questo poi mi ha comportato un uscire fuori dal mercato del lavoro e non riuscire
più a rientrarci.. nel modo più assoluto.. cioè sono cambiate anche tante cose nel
frattempo, proprio anche nel mondo del lavoro… non c’erano questi limiti così, di
età.. con i contratti che ci sono attualmente.. per una persona della mia età sono
proprio la causa.. praticamente è un cancellare anagraficamente le persone che
vanno dai trenta anni in su, perché o si ha già un impiego oppure per rientrare
dopo i 35 è quasi impossibile. Poi a 40 è un’utopia! .. è proprio come cancellare
anagraficamente le persone .. cioè non servi più a niente, non hai né qualifiche
né niente .. puoi avere esperienza quanto vuoi, ma la chiedono anche a 23 anni
l’esperienza..
Ulteriori riflessioni sono riferibili al ragionamento in prospettiva, ovvero al
ragionamento su un futuro, diciamo cosi, sempre meno garantito dal punto di
vista degli ammortizzatori sociali, con un sistema pensionistico messo
fortemente in discussione e soprattutto senza una chiara visione di quale
saranno in termini di entità e consistenza le pensioni del futuro. In questa
intervista si esprime un concetto molto chiaro in termini di “mancato
riconoscimento della società” del lavoro – e soprattutto delle rinunce di quelle
donne che hanno dedicato gran parte della propria storia produttiva dedicate
alle attività di cura della famiglia.
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A 46 anni …diciamo che non posso aspettare più ancora tanto tempo,
diciamo, se voglio laurearmi. Però questo è proprio quello che vorrei fare:
lavorare per finanziarmi questo studio… poi adesso comincio anche a
pensare…Non sono mai stata benestante, anzi forse un po’ meno… Ma se
fino a 47 anni è stata lunga, adesso c’è ancora la seconda parte della vita.
Forse avrò una piccola pensione sociale, ma se penso che da vecchi la
situazione economica peggiora… comincio a pensarci.
Va bene, adesso la pensione forse non esiste più, dovremo lavorare fino a 70
anni, ma se a 50 anni, quando hai ancora 20 anni di lavoro da fare, non trovi
lavoro e devi fare dei lavori che magari i giovani non fanno perché faticosi, la
situazione mi sembra veramente assurda…
Poi mi manca un po’ il riconoscimento della società, che ha un atteggiamento
poco chiaro rispetto a questo punto.
In altre interviste la discriminante di genere non è stata considerata così
determinate come ostacolo, considerando una sostanziale eguaglianza nella
ricerca di lavoro tra uomini e donne oltre i 40 anni.
Un po’ si, nel senso che chi andava avanti sono stati soprattutto gli uomini,
però le cariche più importanti nell’agenzia di Milano, tutte professioni che
hanno a che fare con le relazioni esterne erano figure femminili, poi magari le
figure dirigenziali erano maschili…la donna, certo, fa più fatica ad
emergere…devi essere combattiva, calpestare…ho visto delle donne…ma
non è mai stato il mio ruolo, preferisco lasciare una posizione di maggiore
visibilità, carrierista ed essere il braccio destro, l’alter ego…mi ha sempre
spaventato quello che erano le alte cariche…però mi sembra che ci sia
un’apertura già da tempo…quello che io ho trovato più negativo era magari le
proposte…se le faceva un uomo era più ascoltato…ecco…
Strategie di reinserimento e progetti di vita
Una delle principali ricadute conoscitive del processo di ricerca è quella relativo
all’analisi dei racconti sulle modalità di approccio e di ricerca di lavoro
nell’ultimo periodo, ovvero i percorsi di ricerca del lavoro e le strategie di
reinserimento degli ultraquarantenni.
Il materiale in questione ha un particolare interesse in virtù della testimonianza
circa le difficoltà nell’affrontare i percorsi di ricerca, il rapporto con i centri per
l’impiego, le agenzie di lavoro interinale e tutti gli aspetti tipici che caratterizzano
la questione della ricerca di lavoro.
L’obiettivo è comprendere quale sia la struttura del progetto di persone che si
trovano costrette a dover lanciare una nuova sfida a loro stesse e al mondo
circostante per potersi reinserire nei cicli produttivi. E’ proprio nella dimensione
del progetto, crediamo, che si possa cogliere la giusta ridefinizione dell’io delle
persone nei confronti delle dinamiche sempre più indefinite del rapporto tra la
domanda e l’offerta di lavoro.
La lettura delle interviste conduce a molte riflessioni circa le difficoltà delle
persone intervistate nel definire strategie e progetti di reinserimento efficaci e
congruenti alle specificità della particolare condizione di soggetti non più
giovani. Molto spesso gli intervistati raccontano di situazioni percepite come
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inadeguate al proprio ruolo e condizione, trovandosi a concorrere spesso con
persone più giovani. Decisamente inadeguati e in particolare modo indirizzati ai
giovani, ma del resto confermano i risultati di molte analisi sulla questione delle
modalità della ricerca del lavoro, sembrano quei canali “tradizionali” come la
ricerca attraverso la lettura delle inserzioni sui giornali, l’invio dei curriculum alle
aziende o l’iscrizione agli “uffici di collocamento”.
Contattavo qualunque agenzia e ditta di spedizioni, mi sono iscritto alle liste
di collocamento, ho dato il curriculum etc. La difficoltà primaria è sicuramente
l’età, ho quasi 54 anni, per cui la risposta è sempre la stessa, vado bene per
quanto riguarda l’esperienza, c’è sempre entusiasmo ogni volta che mi
presento ma la mia età non la prendono più in considerazione. E poi il lavoro
è cambiato. A questo punto preferirei fare un tipo di lavoro diverso dal mio
perché comunque so che nel mio campo avrei grosse difficoltà, farei un
lavoro di un livello anche più basso per arrivare alla pensione. Mi mancano un
paio d’anni, ovviamente se mi pago i contributi volontari.
In questi anni ho cercato lavoro tramite il Collocamento, ho risposto alle
inserzioni del Secolo, ho avuto tre episodi e per tre volte ho interpellato
l’avvocato. Ho lavorato due mesi all’Alleanza Assicurazioni e mi hanno dato
solo centomila lire. Ne ho speso duecento di avvocato. A Genova c’è una
situazione che fa veramente schifo. Il lavoro interinale lo danno a un milione e
otto, sono cose allucinanti, il sindacato è assente.
Il collocamento e il giornale. Ho conosciuto politicamente alcuni dirigenti. A
quei tempi avevo però un aspetto un po’ da pazzoide perché ero pieno di
psicofarmaci. I problemi di salute sono iniziati quando ad un certo punto mi
hanno preso e scaraventato in ospedale. E’ successo agli inizi del 1980, sono
stato male per 21 anni, adesso sono tre anni che sto bene. Pensi che volevo
addirittura ammazzare mia moglie. Adesso sto studiando un po’ di inglese,
sto frequentando l’UNITRE, ho la mente occupata. Faccio foto molto belle.
E’ impossibile cercare un lavoro meno precario … quando ho iniziato i
socialmente utili avrei voluto ma poi è morto tutto lì. Ho provato però niente..
perché comunque cercano persone più giovani.. poi il mio è un lavoro
particolare, sono settori molto specifici, prendono o quello giovane e se lo
formano o anche quello grande che ha una iper esperienza specificissima..
Disincanto, scarse prospettive, fatica … queste potrebbero essere alcune
parole chiave che emergono dalle storie di vita raccolte. Una sorta di
distacco anche dalle strutture che istituzionalmente sono deputate ad
accompagnare verso il lavoro.
No, il centro per l’impiego non mi aiuta.. sono inserita in mille banche dati
ma.. figurati,
Anche i canali di ricerca del personale sono visti come un ‘pericolo’:
Sì, gli annunci però bisogna anche stare molto attenti perché sono pericolosi.
Mezzi sono fantasma, mezzi sbagliano numero di telefono, mezzi sono truffe.
Ad esempio la settimana scorsa ho trovato un annuncio di una casa editrice
che cerca proprio la mia figura, ho mandato il mio curriculum e dici “oh…..”ma
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io non lo dico più “oh…” non mi chiameranno mai perché ho 45 anni.(…)
Guarda, non ne ho molte, sono disillusa…ho fatto domande, ho inviato
curriculum, ma non ho speranze di trovare un lavoro, non ci credo più. Delle
agenzie interinali non ho nessuna fiducia perché non mi hanno mai chiamata
e per il collocamento è la stessa cosa.
Di curriculum alle aziende ne avrò mandati almeno 50, ma non ho ricevuto
risposta da nessuno. Io sinceramente conto molto su questa agenzia di cui
me ne hanno anche parlato benissimo, sono anche andata a parlare con i
titolari e mi hanno rassicurato che nel giro di breve tempo sicuramente mi
ricollocano.
Si può arrivare al paradosso che i soggetti si trovino di fronte a selezionatori
molto più giovani di loro con la naturale conseguenza di creare situazioni
imbarazzanti e che ovviamente possono generare grossi problemi in termini di
procedure di selezione in grado di far partire tutti i candidati da una sostanziale
posizione di eguaglianza.
Un’altra cosa che mi ha dato fastidio era che quando andavo a fare i
colloqui…non ho niente contro i ragazzi, ma quando andavo a fare i colloqui
di selezione e mi trovavo delle ragazzine di 21 anni…non mi è sembrata una
cosa giusta… è un rapporto sbagliato secondo me, nel senso che una
ragazzina di 21/2 anni non credo sia pronta a fare selezione del
personale…anche perché io avevo risposto ad un annuncio in cui avrei
dovuto io fare selezione del personale, per cui avrei dovuto trovarmi davanti
una persona della mia stessa età, oppure di 10 anni in meno, ma non un
ragazzino di 22 anni, che doveva decidere se ero adatta a fare il lavoro che
faceva lui o lei.
Anche il classico presupposto che indica la cerchia dei conoscenti quale
principale e più efficace canale di accesso alle possibilità di lavoro, anche nella
presente analisi, si rivela spesso utilizzato, anche se sembra che nel caso
delle persone over 40 neanche il giro degli amici, delle conoscenze sia in
grado di sopperire agli svantaggi iniziali determinati dall’età. Nella successiva
intervista in particolare si lamenta l’impossibilità di trovare “veri lavori”, lavori
che permettano di concludere gli iter contributivi necessari al raggiungimento
della pensione. Poi per carità le persone si adattano accettano i lavoretti il
lavoro in nero e tutto il repertorio delle forme di sopravivenza forzata, tipici
dell’epoca della precarizzazione. Una ricerca del lavoro mediata dalla
conoscenza, in questo particolare segmento dell’offerta del lavoro, si spiega
efficacemente anche in termini di motivazioni alla situazione di non lavoro, in
grado insomma di “spiegare”, al di sopra dei facili pregiudizi e preconcetti.
Quindi per la prima volta ho fatto la domanda di disoccupazione e ho fatto i
sei mesi di disoccupazione e poi d’allora riesco a trovare dei lavoretti d’estate,
in nero più che altro, ma un lavoro vero e proprio non mi è mai più capitato.
Ho anche cercato attraverso le solite conoscenze ma non è uscito niente. Ho
52 anni e per altri 4-5 anni ho bisogno di lavorare per arrivare finalmente alla
pensione e anche per dare una ragione a quei trent’anni di contributi lavorativi
che ho già pagato.
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La ricerca del lavoro è avvenuta tramite amicizie. A volte compro il Secolo e
quando lo leggo mi sembra di vivere in una città della Padania, perché non
c’è assolutamente niente riguardo alle professioni legate al mare, inoltre io
parlo quattro lingue e ho tutta una serie di professionalità perché quando ho
smesso con il mercato ho dovuto attivarmi per fare alcuni corsi per
aggiornarmi (sopravvivenza, pronto soccorso, antincendio, corso
specializzato per osservazione dei radar), ho speso molti milioni ma anche
per questo l’età non aiuta.
A questo punto penso a un lavoro a livello commerciale visto che ho un’ottima
comunicativa con le persone, sono capace a vendere, quindi potrei benissimo
mettermi a vendere poltrone piuttosto che altre cose e se poi ci fosse la
possibilità di trovare un lavoro dove poter mettere a frutto le cose che so fare
e che ho imparato fino ad ora, sarebbe ancora meglio. Potrei fare tante cose.
Riprendere il ritmo del lavoro non è difficile in quanto c’è talmente tanto
entusiasmo da parte mia che non è assolutamente difficile. L’estate scorsa io
facevo dalle sette del mattino fino alla sette di sera con una pausa di un’ora al
giorno. Quindi le ore di lavoro sono una follia.
Il modo più efficace per rientrare al lavoro sono le conoscenze. Perché come
ho già detto non hai altra strada, se ti rivolgi a i giornali… ritorniamo sempre
sull’età… perché presentarsi dopo i 40 anni ad una persona che non ti
conosce per niente.. non hai l’età, non puoi dirgli che… non so perché si vede
sempre solo nei giovani questa gran voglia di lavorare, chissà perché una
persona di quarant’anni non può secondo loro avere la stessa voglia.. voglio
dire, la vita è lunga….
Degli over 40 che vogliono tornare a lavorare molto probabilmente pensano
che non ne abbiano bisogno e che lo facciano così, tanto per.. molto
probabilmente pensano che dovevamo pensarci prima.. poi pensano anche
magari di non trovarti aggiornata
Aggiornarsi vuol dire senz’altro.. sicuramente bisogna saper usare il
computer, quando ho iniziato io non serviva, l’informatica insomma e le
lingue, in modo particolare l’inglese poi più se ne conosce meglio è,
comunque è un vantaggio.
A quarant’anni secondo me se non sei in un determinato giro, se non hai
determinate conoscenze, non ci rientri nel modo del lavoro. A meno che
veramente non ti rimbocchi le maniche. .però è difficile. Per esempio nel mio
caso potrei lavorare fissa da mio marito o da qualcuno che conosce lui, o
anche da qualcuno che ho conosciuto attraverso l’attività di mio padre.. ecco
perché ti dico che è necessario conoscere..
Per esempio la mia amica si è separata ed ha avuto bisogno di lavorare e ora
fa la commessa in un panificio… è un lavoro pesante, o comunque più adatto
a qualcuno giovane… in questo senso, se sei più giovane puoi lavorare un
po’ dove ti capita, se cominci ad avere la mia età… ma non solo dalla parte di
chi lavora, anche dalla parte di chi ti assume. Secondo me se devono
scegliere una commessa di 20 anni o una di 40 scelgono quella di 20. Anche
per le agevolazioni, lo vedo anche attraverso Antonio, gli conviene sempre
prendere qualcuno che abbia meno di 24 anni o comunque qualcuno giovane
che ha meno problemi… però penso anche che se ce n’è veramente bisogno
devi accontentarti di qualsiasi lavoro..
Ma c’è anche chi critica il sistema delle conoscenze come modalità di ricerca
sia del lavoro che dei lavoratori.
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Succede che invece di andare sui centri specializzati per le assunzioni, vanno
a cercare l’amico che gli presenta l’amico e tizio e caio…anche il ligure è
proprio così: lo vedo vendendo le risme da fotocopie; una volta che ho
venduto, mi mandano dall’amico e dall’altro, dicendo solo adesso che il
prodotto è buono, il prezzo…funziona un po’ così, invece di andare alla
ricerca di una certa persona, capace di fare questo…non assumere rischio o
lasciare la palla sempre a qualcun altro, quello che ha presentato…Ho
provato a fare qualsiasi cosa, perché c’è stato un momento critico…
Spesso poi emergono quelle situazioni in cui si riscontrano situazioni
caratterizzate da assenza di progetto e di sostanziale rinuncia nella ricerca del
lavoro dopo percorsi di ricerca fortemente strutturati e queste ovviamente sono
lo situazioni più complesse e pericolose. Assenza di progetto ancora una volta
correlata al percepito livello di inadeguatezza nei confronti delle forme di
collocazione come quelle offerte dalle agenzie di lavoro temporaneo.
Ho cercato in qualche concessionaria ma vista la situazione me ne sono stato
a casa, per conto mio. C’erano brutte acque anche lì. Ho fatto dei colloqui ai
quali ho risposto dando le mie generalità, i miei dati, tutto lì. La mia situazione
è molto difficile perché avendo lavorato in una ditta automobilistica, in una
città come Genova e con la mia età non ci sono possibilità. Adesso io ho
smesso di pensarci. Ho cercato lavoro per sei mesi ma nemmeno
assiduamente dopodiché ho smesso di cercare. Non ho fatto una ricerca
sistematica e quindi ho lasciato perdere.
I lavori che ha cercato fino ad adesso sono indirizzati in questo campo o ha
diversificato la sua ricerca?
Non so nemmeno dove andare a cercare un posto di lavoro, al di là del
comprare il Secolo la domenica, dove vado? Nelle agenzie di lavoro
interinale? Ho persino vergogna a rubare il posto a un altro e poi non credo
che cerchino un lavoratore di 52 anni. Normalmente un datore di lavoro cerca
persone più giovani. Una volta sono andato in una di queste agenzie a
Sampierdarena, il posto era pieno di ragazzini e io mi sono vergognato e me
ne sono andato. Io arriverei anche a fare l’autista, magari per un personaggio
importante che abbia voglia di essere accompagnato nei suoi spostamenti,
che abbia voglia di fare quattro chiacchiere. Altrimenti non saprei che
cos’altro fare.
I miei canali per trovare lavoro sono i giornali e il passaparola. Le interinali
non le cerco più, ci sono ragazzi disperati alla ricerca del lavoro ed è giusto
che si dia lavoro alle persone più giovani, che sono anche più in gamba, si
muovono di più. Sono stata anche in Regione. Sono un po’ sfiduciata.
Mamma mia…divento rossa. Questa è l’unica idea che ho. Poi anche ho
perplessità nel ricorrere alle agenzie di lavoro interinale: tutte le persone che
conosco che lo hanno fatto hanno avuto lavoro per un paio di mesi, poi sono
sprofondate: del tipo una volta e mai più…
Non posso impegnarmi più di tanto perché non ho più forza e poi nessuno mi
prende alla mia età, non si fidano. Io ho girato tanto, specialmente il primo
anno che mi sono separata, ho girato tanto, ho girato alberghi, cliniche, niente
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da fare, non c’è niente! Ho cercato anche come assistente giorno e notte
perché prendono le extracomunitarie e per noi…
Io non ci penso. Una cosa che volevo dirti è che io ho vissuto quasi sempre
alla giornata, proprio come mentalità…non sono molto proiettato nel futuro.
Adesso, poi, che ho un’età più avanzata, un po’ mi disturba…mi disturba
proiettare nel futuro, non avere la sicurezza; quindi dico, ora sto bene
e…quindi …sbaglio, forse.
Io comunque faccio qualcosa, magari un minimo, faccio, bene o male, per
modellare il mio fato, ma così vediamo un po’ cosa succede…
Adesso comincio ad essere un po’ più sfiduciata, nel senso che non so dove
sbattere la testa per trovare un lavoro, perché mi sembra di aver già fatto
tanto e non pensavo fosse così dura perché tra l’altro è un settore che non è
che ce ne sono a flotte che van tutte lì a fare le maglieriste, forse è che non
han tutte 44 anni, prenderanno quelle più giovani anche lì e poi la zona
genovese che scarseggia di opportunità in questo settore…poi penso: “metti
che lo trovo tra tre o quattro mesi e nel frattempo cosa faccio? Sì, posso fare
le maglie in casa, ma allora non ho più tempo per cercare lavoro seriamente.
Vorrei avere un lavoro adesso anche per sfuggire ai pensieri su mia madre,
per uscire da casa e sentirne meno la mancanza.
Per la ricerca del lavoro provato tutti i posti possibili, al collocamento, ho
provato a fare domanda per dei corsi, ho fatto delle cose stranissime non so
se era per eliminare infatti poi non sono riuscita in nessun concorso…mi
hanno fatto un po’ scoraggiare, volevo fare un corso di pc, ma alcuni erano a
pagamento ed io non me li posso permettere, per altri ci volevano trafile
lunghissime oppure già delle basi che io non avevo, ho fatto una domanda
qualche mese fa per imparare le basi del pc, ma anche qui mi hanno detto
che ci sono file d’attesa lunghissime, io mi sono iscritta comunque, ma è tutta
un’attesa…tutto così snervante e demoralizzante…allora mi limito a fare le
domande per i trimestrali al collocamento…ho lavorato all’università, come
parcheggiatrice, all’ACI, qualsiasi cosa, però sono sempre quei tre mesi che
non danno una garanzia, sempre lavori temporanei…
Sicuramente la causa per cui non riesco a trovare lavoro è la sfiga! Non ne
trovo uno e sono proprio sfortunata, mi sono vista sorpassare da persone con
nessuna qualifica, amiche, forse perché io più timida non osavo dire so fare
questo, so fare …sono anche più onesta, corretta, io credo che il carattere di
una persona influisca parecchio sul lavoro, mi è capitato anche qualche mese
che uno studio medico cercava una persona, però la voleva che sapesse
anche usare la videoscrittura io non la so usare gliel’ho detto, posso
imparare, ma non lo so fare
Alla mia età è molto difficile trovare lavoro, eccome se ci ho provato! Eh, a
volte non ti rispondono nemmeno! Specialmente quelli a cui basta scrivere
tramite casella postale, non ti rispondono nemmeno.
Ho fatto solo un colloquio di lavoro, in un’agenzia per anziani l’ho fatto, poi
non mi hanno più chiamato e ho lasciato perdere, mi sembrava anche una
cosa strana, bisognava diventare soci…poi altri colloqui non ne ho fatti, ho
lasciato perdere, tanto non…non mi hanno chiamata.
Quindi come strumento principale ho utilizzato il giornale, risposto ad
inserzioni, annunci…e quindi mi aspetto di trovare lavoro attraverso un
annuncio che corrisponda alle mue caratteristiche.
83
Spesso il lavoro interinale viene considerato e molte volte tentato quale
modalità di reinserimento anche se spessissimo viene sottolineata lontana
dalle aspettative e forse dalla stessa idea di lavoro. In questo stralcio
d’intervista, dove vengono indicate le posizioni e le esperienze rispetto a
diverse modalità di reinserimento, si coglie a pieno il senso di estraneità ad
una modalità di lavoro cosi esplicitamente provvisorio e mobile.
Anche nell’ambito dei lavori caratterizzati da forte precarietà esistono delle
differenze. Nella successiva intervista possiamo rilevare quali siano le
differenze che un soggetto può avere tra lavori precari totalmente slegati dalla
propria storia, formazione e competenze e altri che pur non definitivi si leghino
alla storia e alla soggettività degli individui.
Di recente ho fatto lavori interinali perché tutti mi dicevano prova di qui, prova
di là e io ho provato. (…) Anni e anni davanti senza avere uno sbocco
lavorativo e così mi sono rivolto alle agenzie interinali, ho fatto lavori di
guardianaggio, portineria, cose anche poco congeniali con il mio modo di
essere. Ho trovato poi attraverso la mia professoressa di università un lavoro
di schedatura degli oggetti d’arte conservati nella diocesi di Tortona, collegato
a un programma della CEI. Si fanno dei sopralluoghi in queste chiese, si
catalogano questi oggetti, dal candeliere alla cassetta delle elemosine al
paramento sacro. Questo lavoro mi occupa abbastanza e dà un panorama
degli oggetti conservati, della tutela, del patrimonio conservato, per sapere
quanto c’è e cosa c’è e questo non è un lavoro assolutamente semplice
anche perché le mie cognizioni sono minime, studiando storia dell’arte, storia
antica, ho quasi la pretesa, l’illusione di poter dare uno sbocco lavorativo a
questa mia mole di nozioni che ho appreso. Mi sento motivato e interessato.
E poi soprattutto ti senti continuamente alla prova di quello che fai e cerchi di
migliorare, ti documenti. E’ un lavoro che mi interessa e che vorrei proseguire.
In altre interviste si mostrano alcuni esempi di tentativi di ricollocazione
attraverso i canali dell’aggiornamento e della formazione.
Poi sono andata ad iscrivermi al collocamento e ho ricominciato a cercare
lavoro e non mi è andata bene perché non l’ho mai trovato. Ho fatto anche un
corso per il CUP della Liguria dove in realtà non mi hanno insegnato a usare
questo sistema di prenotazione. Non mi è piaciuto il metodo di lavoro anche
se condivido pienamente questo sistema di prenotazione ma non mi è stato
insegnato granché. Ho iniziato a lavorare al CUP, c’era un periodo di prova di
sei settimane che non ho passato perché non accettavo il fatto di essere
schiavizzata dalla responsabile di questo centro. Ci facevano lavorare due
ore al mattino e due o tre ore al pomeriggio. Non ci pagavano più di 4 ore, ne
facevamo sei e per questo perdevamo la disoccupazione. Io non ho voluto
accettare questa condizione, avrei preferito fare sei ore di seguito per potermi
cercare un’altra occupazione in quanto lo stipendio era basso e non mi
bastava per vivere. La responsabile non mi ha confermato ma io sono stata
ben contenta di non lavorarci più perché non andavamo d’accordo, non ero
disposta ad ossequiarla.
(…) Siamo alla fine del 2000 e faccio un corso per (…) rivolto alle donne
senza limiti di età. Eravamo tutte con problemi psicologici in quanto non
trovavamo lavoro e ci sentivamo quindi inutili, senza autostima, con problemi
familiari o di solitudine e lì invece siamo state molto aiutate a ritrovare la stima
in noi stesse. Però non aveva i canali per trovarci lavoro, il corso andava
benissimo ma non c’erano sbocchi.
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Non ho mai fatto bilanci di competenze né passaggi di questo tipo, no, queste
cose non le ho mai fatte anche perché non credo di poter fare un corso
talmente nuovo che mi possa creare una professione. Io so lavorare al
computer per quanto riguarda la videoscrittura, qualunque tipo di fax, di
stampante, di comunicazione satellitare sono cose che faccio normalmente,
senza problemi però se si tratta di creare un programma io non sono certo
capace di farlo e non potrò certo impararlo a fare adesso
Io mi considero una persona estremamente flessibile…Poi nel frattempo ho
coltivato la passione per il computer, l’uso di certi programmi, la fotografia
digitale…
Io sono uno che non sta mai fermo; per me è fondamentale nel lavoro la
formazione e la conoscenza, il fatto di poter conoscere cose nuove e poter
approfondire quello che uno fa, sa…Se mi fermo a livello di crescita
individuale, sto proprio male, mi manca qualcosa fisicamente, non posso, non
riesco a fare sempre lo stesso lavoro per anni, senza avere la prospettiva di
poter migliorare, approfondire quello che faccio…
Sono arrivata all’Art. 16 attraverso ricerche presso aziende private e vengo
sempre qui (al Centro per l’impiego) praticamente ogni settimana ogni lunedì
se non posso venire telefono per sentire se è stato affisso qualcosa per gli
enti pubblici o ci sono delle chiamate particolari ... poi conoscenze in altri
luoghi non ne ho perché al oggigiorno mi sa che l’unico altro che l’ufficio di
collocamento altro che .. bisogna avere delle gran conoscenze .. delle gran
raccomandazioni
Tramite il progetto Match mi han chiamato per un’ausiliaria a tempo
indeterminato part-time, che poi era una cooperativa per Montoggio e per un
lavoro per la Telecom: telemarketing, ma poi non mi hanno richiamato.
Ho risposto ad annunci trovati nell’inserto “lavoro e professioni” del mercoledì
sul Secolo, è molto utile; ho fatto domanda anche alla Coop che sotto Natale
cercano, ma non mi hanno ancora risposto. Volevo approfondire internet, ma
son costretta a lavorare e non ho tempo per seguire questi corsi per
disoccupati che fa anche la provincia; ho fatto sempre l’autodidatta io, a parte
il corso per perforatrice IBM, in ufficio fuori orario magari mi divertivo.
Se ci fosse un corso non di due-tre mesi, ma un accelerato, la sera, un paio di
ore o fare magari un tirocinio, uno stage in qualche ditta, ne avrei bisogno
perché vedo che in tante cose ho un po’ di difficoltà adesso. Anche nel mio
curriculum manca qualcosa perché con tutti quelli che io ho mandato è
impossibile che nessuno mi abbia risposto, vuol dire che c’è qualcosa che
non va qui: mi manca qualche corso di aggiornamento!
Tra i motivi di svantaggio vengono evidenziati quello dell’inadeguatezza dei propri
percorsi formativi alla realtà e all’attualità della realtà del mercato del lavoro
contemporaneo
Non cercherei più un lavoro in quel campo per mille motivi. Innanzitutto sono
rimasta indietro. .comunque è difficile perché ho preso questo diploma un
sacco d anni fa, quindi… è un po’ diversa la cosa ora è tutto diverso, sarei
impreparata rispetto a chi si è diplomato adesso o ha continuato a tenersi
aggiornato…ormai anche i programmi del computer, non li conosco più..
quello che sapevo io non serve più.
85
Nel caso delle nostre interlocutrici femmine, ancora una volta, rispetto alle immagini
del futuro e le strategie da adottare emergono i temi classici della doppia presenza
dove si ritrovano, coniugati allo specifico del tema della ricerca del lavoro, tutti i
topos già sottolineati nell’approccio delle donne con famiglia.
Di sicuro il mio prossimo lavoro sarà il secondo bambino… a livello di
occupazione quindi la ricerca latiterà …
Per me resterebbe comunque il discorso del part-time, necessario per loro e
per me. Io non ce la faccio più a pensare all’impegno a tempo pieno, ci
rimetto io in salute e loro…non lo prenderei nemmeno in considerazione a
meno che non fossi proprio costretta. Neanche per il lavoro della mia vita…il
lavoro della mia vita, forse se mi piovesse dal cielo…ma alla fatina non credo
più, quindi dovrei cercarlo fortemente e adesso non lo farei. Non lo faccio.
Sono veramente molto assorbita, sono tre (i bambini) li vedi, li senti? Io da
loro sto imparando tantissimo…
Devo dire che non ho ancora le idee molto chiare, cioè le ho chiare su quello
voglio oggi, ma non su quello di domani. Il problema è che oggi non puoi
neanche dire che è facile trovare lavoro, quindi ci devi un po’ lavorare per…
Io sicuramente solo la madre non la voglio fare, non l’ho neanche mai fatta
per carattere…ma adesso è anche un momento di stanchezza, quindi hai
anche meno energie per cercare altre cose, ma l’intenzione e la voglia ci
sono, sicuramente…Solo che vorrei, mi sento di dire che ho il diritto adesso di
fare qualcosa di bello e vedo in giro che questa possibilità non c’è…E non
posso nemmeno impegnarmi su tempi troppo lunghi perché loro hanno
esigenze immediate e anche una serie di variabili, sempre legate ai bimbi,
che ti…magari ti alzi per l’appuntamento che hai preso e hanno la febbre…Ho
una madre che mi dà una mano, nei limiti delle due ore e suoceri disponibili
ma verso gli 80 anni, quindi…non puoi pesare più di tanto. Vorrei cominciare
a guardarmi intorno, provarci…
Mio marito mi dice anche di stare a casa, però io, a parte che a me dispiace
perché ho 29 anni di contributi e sinceramente perderli…non è che li perda
perché, però prenderei la pensione a 60 anni però è assurdo perché una
persona che ha sempre lavorato stare poi tutto il giorno a casa…cioè,al limite,
con il bambino mi andrebbe bene anche un part-time. Dico forse tutto il giorno
non lo cercherei neanche più perché dopo che uno ha provato a stare a casa,
sinceramente si gode di più anche la famiglia, il bambino; però stare proprio a
casa no. In più mi spiace anche per mio marito che è impiegato comunale,
siamo abbastanza tranquilli, ma le spese ci sono e uno stipendio in più, anche
piccolo, fa sempre comodo.
Poche sono le testimonianze di iniziative tese alla messa in sistema delle
proprie risorse con quelle degli altri, attraverso la creazione di società,
cooperative, gruppi di lavoro ecc. Mostrando un atteggiamento troppo spesso
individualista ad affrontare il problema del rapporto con il lavoro.
Avevo cercato, anche se per poco, perché Sara è arrivata subito dopo e
quindi per poco tempo io ho avuto un solo figlio, qualche contatto a Genova,
anche solo e sempre per matrimoni, anche i negozi, … ma anche conoscenti,
amici fotografi, che ho conosciuto da quando sono ferma a Genova …mi
dicevano che era difficile pensare di tirarci fuori anche solo i soldi per loro,
quindi di collaborazioni non si parlava proprio. Adesso mi devo un po’
organizzare…Lui, Giovanni comincia adesso a andare all’asilo; loro hanno
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continuamente cose da fare…quindi io devo un po’ prendere la mia vita in
mano. Ma l’idea è di farlo sicuramente, perché ….A me interesserebbe
comunque…
C’è una ragazza, la madre di un amichetto di Sara, che mi diceva che con
gruppo di altre amiche volevano organizzare una specie di società, di quelle
che fanno tutti i servizi per le cerimonie, wedding planner allargato ad altre
cerimonie anche…per me, come fotografa, bisogna anche vedere se la
clientela è del tipo che può apprezzare le mie foto, ma mi
piacerebbe…potrebbe essere un’ipotesi…
Comunque ora ho deciso di riprendere l’attività di p. r.: sto tentando di aprire
un ufficio con un amico d’infanzia che però si sta rivelando poco interessato al
progetto e lascia organizzare il tutto a me, quindi sono un po’ dubbiosa e
preoccupata rispetto agli esiti…
Diamo ancora un esempio di atteggiamento attivo e dinamico nei confronti della
ricerca attiva del lavoro, in una situazione che possiamo definire privilegiata,
senza pressioni ed impellenze e con una strategia articolata, ma purtroppo
inefficace.
Ma non avendo una esperienza nel campo e …ti offri solamente come
disponibilità. Mi interesserebbe anche l’estero, ma credo cerchino persone
con una formazione, competenze tecniche specifiche; non basta buona
volontà e buona cultura; per cui il problema con un curriculum come il mio è
che ti offrono sempre delle attività commerciali di vendita, anche attraverso gli
strumenti tipici…Io mi sono iscritto al Job center e la prima richiesta che mi è
arrivata è stata subito una richiesta per un centro di vendita diretta di prodotti
per la pulizia, aspirapolvere e roba del genere. E di fatto anche nella ricerca
che ho fatto io, la cosa più facile è trovare un’occupazione nelle reti di vendita
dirette.
Un’altra strategia adottata è quella dello spostamento, la disponibilità a
muoversi a cambiare città.
Di domande ne ho fatte tantissime, anche fuori Genova, io e un mio amico
siamo andati fino a Modena, sì là c’è qualcosa di più, ma spostarsi non è
come andare a Ventimiglia.
Mi ero presentata anche come commessa, ma lì non è per l’età, a Finale
Ligure, per un negozio di animali, ci ero andata di persona avevo lasciato il
curriculum e mi han detto che avrebbero anche preso un over 40, ma loro
preferivano trovare una più giovane da “tirar su”, se non l’avessero trovata
avrebbero chiamato me, ma poi han trovato una a Finale di 25 anni…
Mi piacerebbe spostarmi se mi capita l’occasione, ma per il lavoro è relativo il
problema perché io mi porto tutto addosso: è il mio mestiere, quindi aprire a
Roma, Milano, Torino, mi basta una macchina da cucire…da dipendente no,
non sopporterei più di sentirmi dire “fai questo, fai quello”, dopo tanti anni,
bene o male hai sempre una professionalità; io potrei magari sopportarlo se
cambiassi lavoro, allora dovrei per forza essere costretta a seguire delle
direttive, ma nel mio campo no.
Intendo cambiare città perché Genova per me è sempre stata dura già da
quando mi hanno portata qua, avevo tre anni, l’ho sempre sentita una città
ostile, una città chiusa, per me è stata una fatica fronteggiare negli anni la
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città, però se mi dovessi andare ad ambientare in Sicilia non ce la farei
perché là è peggio di qua: laggiù sono tutti intelligenti, tutti ignoranti, tutti
parassiti, quando vengono al Nord diventano tutti quelli che san tutto e così ci
sono molte cose che non quadrano a livello leggi, loro si credono di fare tutto
bene, ma io penso che se ci andasse una casalinga al governo aggiusta tutto!
Finché ci vanno quelli che hanno i soldi in tasca (…..) Mio padre era siciliano,
un semplice operaio, ma non mi ha insegnato a chiedere, solo a lavorare e a
non chiedere niente a nessuno.
Rapporti con i centri per l’impiego
Il tema del rapporto con i servizi per l’impiego è assolutamente centrale, perché
consente di individuare un aspetto apparentemente contraddittorio: da un lato si
evidenzia un processo di ‘delega’ attuato nei confronti degli operatori dei Centri
per l’impiego, dall’altro un non riconoscimento di queste istituzioni (o comunque
del servizio pubblico in generale)
Sicuramente si evidenzia una disinformazione diffusa
Ma, perché esistono agenzie per l’impiego? Gli ex uffici di collocamento ora
sono diventati agenzie per l’impiego? Ah, ma penso che sia complicato, non
lo so, non ho mai provato…bisogna andare all’ufficio di collocamento e
iscriversi un’altra volta? Non sapevo questo … posso provare a riscrivermi
all’agenzia di collocamento, anche se io ci credo poco…
… mah, penso che sia complicato, non lo so, non ho mai provato a rivolgermi
ai centri per l’impiego, bisogna andare all’ufficio di collocamento e iscriversi
un’altra volta? Non lo sapevo … posso provare a riscrivermi all’agenzia di
collocamento, anche se io ci credo poco…
o attese sicuramente elevate rispetto alle modalità di erogazione dei servizi o
scarsa fiducia
Dalle Istituzioni non ho mai avuto risposte, non mi hanno mai chiamato. Sono
andata anche in tutte le agenzie interinali ma non è successo niente. C’è un
settore in provincia di Genova all’assessorato alle pari opportunità dove sono
andata per chiedere consigli per creare un’impresa con altre donne, anche
rilevando una tabaccheria o un’edicola, ma da sola non ce l’avrei mai fatta,
non avevo soldi ma sapevo anche che non ce l’avrei mai fatta a diventare una
commerciante, a truffare le persone.
Così, non con il collocamento, mai trovato lavoro tramite il collocamento, per
cui mi sono iscritta, ma non ci credo molto. Io non ho mai avuto bisogno
dell’ufficio di collocamento, nel senso, non mi hanno mai chiamato, son
sempre stata iscritta quando non lavoravo però appunto, come cameriera me
la cavavo abbastanza bene per cui ho sempre trovato tramite conoscenze…
Dalle istituzioni mi aspettavo qualcosa di più, almeno un orientamento. In
questo settore ci può essere un probabile spazio, un minimo di
coordinamento, cose che non ho trovato.
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In modo correlato alla scarsa fiducia riposta – in modo aprioristico – nei servizi
pubblici, la ‘comodità’ diventa un criterio di accesso ai servizi stessi.
Che poi oltretutto avevamo l’ufficio del collocamento (non è che mi serva
molto l’ufficio di collocamento) era qua a Savona in centro, adesso l’hanno
messo alla zona Paip, a Legino, giù di là; prima in 10 minuti ci andavo anche
a piedi, se uno non ha la macchina non è che metta bene andarci; ci sono i
mezzi, ma proprio lì vicino non ci vanno…
Rispetto all’uso dei nuovi servizi per l’impiego, va sottolineato che molti
intervistati hanno una immagine non aggiornata all’attuale evoluzione. E’
interessante notare come emergano atteggiamenti di stupore positivo.
Sicuramente il Centro per l’impiego ha fatto un salto di qualità. Oggi funziona
molto meglio di ieri e grazie al Centro per l’impiego abbiamo visto anche con
le colleghe di corso che le opportunità ci sono
Perché me li sono sempre trovati da sola, senza dover ricorrere al
collocamento o simili…però recentemente mi hanno chiamata…è stato
bellissimo!
Una modalità di approccio – e quindi di conoscenza – al Centro per l’Impiego è
stato proprio il progetto “Over 40”.
Mi aspettavo qualcosa di più che non fosse solo una cosa burocratica,
riempimento dei moduli a livello statistico per esempio, ma che ci fosse
qualcosa di più concreto. Poi ho partecipato anche al progetto degli Over 40.
A sottolineare che l’accompagnamento delle persone non tanto al lavoro quanto
ai percorsi verso il lavoro si ottiene attraverso la progettazione di interventi
specifici e mirati.
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91
Introduzione
Le storie raccolte con le interviste hanno evidenziato diversi aspetti ricorrenti: i
percorsi di vita femminile e maschile si giocano fondamentalmente su alcuni
cerchi (per certi versi concentrici) che abbiamo individuato nei macro argomenti
in cui si è articolato il rapporto di ricerca (“dalla famiglia al lavoro”, “dal lavoro al
non lavoro” e “il non lavoro”). Nell’universo femminile queste tappe assumono
un significato particolare e fortemente connotato da meccanismi segregativi e
comunque generalmente condizionanti. Per questo motivo, si è scelto di
approfondire, in una seconda fase di ricerca, alcuni aspetti, ritenuti significativi
in questo senso; per le donne le tappe sopra citate sono crocevia prodotti da
condizionamenti vecchi e nuovi, che comportano scelte difficili, a volte,
addirittura l’impossibilità di scegliere. E’ proprio sulla possibilità di scegliere che
ci siamo concentrati, e, per meglio comprendere il contesto e i limiti nei quali si
sviluppano le diverse traiettorie di vita, ci è sembrato opportuno svolgere un
approfondimento anche sulle donne che hanno avuto possibilità di operare delle
scelte esistenziali e che continuano a farlo incessantemente. Per questo sono
stati effettuati focus group a testimoni privilegiati di tali ambiti: rappresentanti
delle pari opportunità, donne che lavorano e donne imprenditrici e dirigenti. Ci è
sembrato altrettanto utile intervistare - in questa fase di ricerca - i cosiddetti
punti di contatto tra offerta e domanda di lavoro (agenzie di consulenza di
placement e interinali) per avere un punto di vista privilegiato sui meccanismi
esterni che operano a livello di sistema e mercato del lavoro.
Il contesto teorico
Un passaggio epocale come quello attuale, che ha visto sconvolte tutte le
categorie della formazione del sé, ha portato grandi mutamenti nell’assetto
sociale e culturale.
La famiglia costruita esplicitamente intorno a uno schema di continuità con la
concezione tradizionale dei rapporti fra i sessi non è stata in grado, per lungo
tempo, di favorire un’educazione calibrata delle nuove esigenze; ha comunque
subito i mutamenti in modo adattivo piuttosto che reattivo a spese dei
componenti più deboli (o più flessibili) [AA.VV. 1997]. I problemi nascono, infatti,
quando la socializzazione al genere comincia a presentare delle incongruenze
e delle discontinuità che riflettono le contraddizioni derivanti da una società in
mutamento.
La scolarizzazione di massa è stata probabilmente il fenomeno che ha
determinato dalle basi - forse più dell’accesso al lavoro, più dell’accesso ai diritti
- il mutamento femminile della percezione del sé7.
7
. Essa ha investito alla radice le forme della socializzazione infantile maschile e femminile, introducendo per la
prima volta nella storia, in particolare dopo la generalizzazione della scuola mista, percorsi uguali e condivisi,
ponendo ragazzi e ragazze di fronte alle stesse esperienze, agli stessi obiettivi. Tuttavia la scuola non ha, se non
raramente e solo negli ultimi anni più recenti, accompagnato questa sua straordinaria funzione di fatto con una
riflessione adeguata, che aiutasse a far comprendere il senso e la direzione per cui avveniva. Donati sostiene che oggi
la socializzazione al genere viene rappresentata come una funzione largamente affidata alla soggettività dei singoli,
nelle interazioni di gruppo e di coppia, assai più che alle istituzioni formative. «Le agenzie formative non tematizzano
più una socializzazione differenziata; o meglio a parole la negano, nei fatti la trasmettono (in modo peraltro latente,
quindi non riflessivo)» [Donati 1998: 155].
92
Il cambiamento sociale è tutt’ora in atto e, come in ogni periodo di transizione,
convivono modelli culturali ed economici vecchi e nuovi, creando contraddizioni
e problemi.
Le donne pagano sicuramente un prezzo alto per questo cambiamento: la
nuova divisione interna al genere femminile. Il costo è alto per tutte le donne
che tendono a costruire tra loro mondi separati, vedendo diminuire la forza che
derivava loro dal senso di appartenenza ad un “mondo”, quello femminile; oggi
soffrono, se poco istruite, l’imposizione di una scelta di vita priva del lavoro
extradomestico o di lavori saltuari e sotto-retribuiti, oppure spinte, se
scolarizzate, a decidere per una visione di sé legata alla segregazione
formativa; ma anche quando, qualificate da un lungo e impegnativo percorso
formativo e occupate in lavori “tipicamente maschili”, rischiano di dovere
rinunciare alla famiglia (Carmignani e Pruna, 1991, Leccardi, 1996, Valentini,
1997), oppure di accumulare sensi di colpa nei confronti dei figli (Silvestri,
1996).
La concezione tradizionale della differenza di genere, coniugata ad una
insufficiente offerta del mercato del lavoro provoca di per sé segregazione
occupazionale, laddove donne ancorché istruite e qualificate lasciano la priorità
del lavoro agli uomini.
Ma un altro prezzo da pagare riguarda la divisione dei compiti anche all’interno
dello stesso genere: di fronte all’élite di donne emergenti nelle fasce più forti
diviene psicologicamente, socialmente ed economicamente sempre più
schiacciante lo scarico sulle fasce più deboli dei costi di questo cambiamento
(Aburrà, 1992, cit. in Silvestri, 1996).
Una delle chiavi della questione si può trovare nel concetto introdotto da Laura
Balbo nel 1977: la doppia presenza; essa rappresenta, infatti, una struttura di
vita in cui tendenzialmente la partecipazione sia nei percorsi familiari sia in
quelli lavorativi ha un uguale peso, «piuttosto che rifarsi al modello di
gerarchizzazione insito nella concezione tradizionale del doppio lavoro
femminile, che vede cioè aggiungere al lavoro e responsabilità familiari quelle
lavorative, ma in modo subordinato, o anche integrativo alle prime»8 [Saraceno
1987: 37].
La scelta metodologica
Proprio partendo da questi presupposti è stata impostata questa fase di
rilevazione; la domanda riguarda cioè i vincoli e le opportunità, percepiti o
effettivi, che le donne che lavorano hanno affrontato e risolto, oppure
continuano a fronteggiare; inoltre, con quali risorse li hanno fronteggiati, ma
soprattutto con quale “bagaglio” hanno deciso di percorrere la propria
esperienza di vita. In definitiva abbiamo cercato di capire dove nascono e come
avvengono le differenze reali nelle traiettorie di vita.
La tecnica del focus group ci è sembrata ideale per far emergere questi aspetti,
altrimenti difficilmente estrinsecabili. Il focus group, infatti, è un intervista rivolta
8
. Ma doppia presenza, per la Saraceno, è anche presenza nel settore dei servizi come cliente familiare, presenza nella
cura nella rete familiare ristretta e allargata, nelle varie traiettorie di moglie, madre, figlia, nipote, e viceversa assenza
- spesso - dai luoghi deputati della partecipazione politica, dalle opportunità di formazione e dalle traiettorie che
queste consentono, dal tempo libero o per sé.
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ad un gruppo omogeneo di persone per approfondire un tema o particolari
aspetti di un argomento. Si svolge come un’intervista di gruppo guidata da un
moderatore che, seguendo una traccia (griglia) più o meno strutturata di
intervista, propone degli “stimoli” ai partecipanti. Gli stimoli possono essere di
tipo verbale (domande dirette, frasi, definizioni, associazioni) oppure visivo
(fotografie, disegni, vignette, filmati).
Dalle risposte a questi stimoli scaturisce (o dovrebbe scaturire) di volta in volta
la discussione. La caratteristica, che poi è anche il grande pregio, del Focus
group sta proprio nell’interazione che si crea tra i partecipanti che produce idee
in misura assai maggiore rispetto all’intervista singola sia a livello di quantità sia
a livello della qualità di approfondimento. Secondo alcuni autori (cfr da ultimo
Corrao, 2000) l'interazione riproduce inoltre in modo più "realistico" il processo
che presiede alla formazione delle opinioni, al contrario di quanto presuppone la
tecnica classica dell'intervista "faccia a faccia" o del questionario.
L’obiettivo è stato quindi quello di far emergere il “dato per scontato”, la
motivazione, ma anche il dubbio o la consapevolezza rispetto alle scelte di vita;
proprio perché sono terreni difficili da indagare, si è cercato, sfruttando al
massimo la potenzialità del focus, di porre gli argomenti di discussione in modo
da superare il problema del “luogo comune” o del “già detto”. A tal fine, sono
stati utilizzati molti stimoli visuali e alcuni temi sono stati ricondotti a metafore;
per questo anche le domande sono state formulate in modo da lasciar la
massima libertà di espressione, e la conduzione della discussione è stata
improntata al minimo grado di direttività9.
I risultati dei focus
Alcune riflessioni sociologiche sui limiti delle scelte femminili pongono in
correlazione l’occupazione con la segregazione occupazionale, con le
differenze di trattamento tra part time e tempo pieno, con il contesto più
generale delle relazioni industriali, con le resistenze culturali dell’ambiente di
lavoro, con la mancata attuazione delle leggi sulle pari opportunità (Scisci,
Vinci: 2002: 57). Una posizione che supera questa impostazione è quella di
Walby che sostiene “le donne scelgono l’opzione migliore tra quelle che hanno
di fronte in maniera razionale, anche se basandosi spesso su conoscenze
imperfette, ma soltanto all’interno della gamma che si offre loro” (1997: 25).
Il peso e l’importanza economica dell’attività femminile sono strettamente
connessi al livello raggiunto in termini di formazione, in particolare per quanto
riguarda le giovani. Ciò si ripercuote sulle qualifiche occupazionali, poiché le
anziane, avendo avuto minor accesso alle risorse educative, hanno meno
possibilità di ottenere lavori maggiormente qualificati e retribuiti. Inoltre, la
differenza tra le donne che lavorano è riassumibile nel concetto che “ i
cambiamenti che in generale hanno migliorato la condizione femminile in
questo settore hanno coinvolto per lo più donne di condizioni socio-economiche
alte” (Scisci e Vinci, 2002: 58).
9
Le tracce dei diversi focus sono allegate in appendice.
94
Tipi di contesti lavorativi
Sebbene le disuguaglianze di opportunità di carriera per le donne siano presenti
in tutti i settori occupazionali, la situazione è certamente variabile tra i tipi diversi
di organizzazione. Le dimensioni medio-piccole spesso offrono condizioni
migliori per uno sviluppo professionale meno sensibile al genere dei soggetti.
Analogamente accade nelle nuove forme organizzative connotate da
connessioni più lasche e prevalenti reti di comunicazione orizzontali, che sono
frequenti nei settori industriali e terziari più innovativi (Bianco, 1997: 73-74).
Anche le intervistate hanno voluto sottolineare questo aspetto:
In certi ambienti la donna viene più penalizzata, ci sono ambienti nei quali per
la donna è più facile far carriera, come in una casa di cosmetici nelle relazioni
esterne più che nel marketing, in meccanica o nei settori produttivi a parità di
competenze e di ruolo.”
“Sono i luoghi in cui il meccanismo è legato al potere, legato al denaro, all’uso
della forza nell’area dell’area della produzione è impossibile far carriera.”
Per poter tradurre il proprio bagaglio di risorse personali di partenza in risorse di
carriera è però anche importante poter accedere ai posti giusti nel momento
giusto. Qui si gioca lo svantaggio femminile: il periodo iniziale, anche se
relativamente breve, è il periodo in cui molte donne sono costrette a dedicare
molto impegno – di tempo ed emotivo – alla famiglia. In questo caso non si può
parlare di debole orientamento alla carriera, ma di un’impasse nella strategia
della “carriera di vita”: la carriera professionale e la carriera privata vedono
dispiegarsi in contemporanea le loro fasi cruciali. Ecco una testimonianza tra le
molte:
Beh credo che sia capitato a tutte … che i figli siano intervenuti a complicare
… i figli sono la cosa migliore nella vita, ma dal punto di vista della carriera
sono la cosa più ingombrante che ci obbliga a fare ed accettare compromessi
di vita, di investimento di carriera, di tempi di vita, di tempo dedicato a me
stessa e credo sia così per tutte.
.. la difficoltà poi per una donna che lavora come libera professionista è fare
figli e riuscire a rimanere e tornare nel giro
Tempi di vita e tempi di lavoro
La decisione di investire più o meno sul lavoro domestico o retribuito è dunque
una scelta razionale, ma queste scelte non possono essere spiegate se non
vengono collocate all’interno delle strutture e delle istituzioni che a loro volta
costruiscono le opzioni di scelta (Scisci e Vinci, 2002: 57).
Resta il problema che le donne devono ancora giustificare che il lavoro
extradomestico non le renda per forza cattive mogli e madri:
C’è un condizionamento psicologico fortissimo per cui la donna che lavora è
sempre e comunque un problema , spesso anche il maschio soffre anche a
livelli culturali alti ed anche in assenza di figli se la donna va via per lavoro tre
95
giorni viene vissuta come una mancanza, io partivo con l’ansia .. la donna a
differenza dell’uomo arriva alla scrivania carica dei problemi familiari
Tutto ciò vale anche per le donne che apparentemente non hanno vincoli
familiari legati ai figli e al marito, poiché il ruolo di cura è sempre e comunque
appannaggio femminile:
Io sono una single e spesso mi sento dire beata te che puoi fare quello che
vuoi, ma non è così io ho gli anziani di cui prendermi cura e da sola e
senza il supporto di un nucleo familiare è difficile gestire.
Sebbene, infatti, non si metta più in discussione il diritto della donna di cercare
e avere un lavoro al di fuori della famiglia, continua a valere l’implicita
assunzione per cui la donna può lavorare soltanto se la sua scelta non
stravolge l’assetto organizzativo familiare nel quotidiano (Scisci e Vinci, 2002:
60). Le strategie messe in atto sono complesse, piene di scelte da compiere e
di priorità da decidere a breve e lungo periodo:
Il lavoro più grande è quello di far combaciare le esigenze di lavoro,
personali, del compagno e dei figli.. a un certo punto della vita ti sembra che
la domanda sia “ ma quale tra queste cose è la più importante?” ma è una
domanda sbagliata, non poteva essere quella giusta… ho capito che non
c’erano domande, ma solo un lavoro di tessitura forte tra quello che nella
quotidianità è il lavoro e la tua dimensione personale che si sovrappone
inevitabilmente alla tua famiglia per un certo periodo. C’è stata una serie di
lettere su repubblica che parlavano di come i figli impediscano la carriera:
quando a casa ha scelto di stare un papà la viveva come dimensione positiva,
la viveva come un sua scelta, mentre per le donne una scelta spesso non è e
vedi più i tagli e le rinunce.. poi dipende da quando fai i figli e dagli uomini
e dalla società costruita a misura d’uomo più che a misura di donna … è
una società in difficoltà perchè fatta di donne ed è una peculiarità italiana non
risolvere il problema degli asili aziendali… lo si porta in ufficio… le nostre
segretarie sono disponibili per fortuna. Comunque è un muro, mia madre che
ha sempre lavorato non l’avrebbe mai fatto.
Nel corso degli ultimi 10 anni, tuttavia, si è registrata una tendenza
all’interscambiabilità domestica dei ruoli della coppia; in particolare le
convinzioni dei membri di una coppia sul significato del proprio lavoro e di
quello del coniuge stanno alla base delle responsabilità familiari e delle loro
differenze: in sostanza ciò si può tradurre nell’assunto: “più potere hanno le
mogli nel matrimonio – in particolare per quanto riguarda le risorse economiche
e la capacità di negoziazione col coniuge – più faccende domestiche sbrigano i
loro mariti” (Ibidem: 62), tuttavia in questo caso le testimonianze sono state per
lo più indirette:
Io vedo tanti papà comunque che vanno a prendere i figli all’asilo serve che
scatti una solidarietà intercoppia, creativa, per non parlare della rete
indispensabile dei vicini di casa
Anche laddove si cerca una situazione di parità, riemerge la struttura cognitiva
che fa affiorare il “senso di colpa”:
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Per me il problema è quello di trovarsi un uomo non competitivo che non ti
faccia sentire in colpa se non riesci a tener in ordine la casa
Tempi femminili
Le donne più degli uomini hanno imparato ad adoperare il tempo in senso
polifunzionale: la creatività femminile, che ha cercato e cerca nuove strade per
superare l’impasse della quotidiana fatica, si impone in modo antagonistico
rispetto ai modelli lineari (Silvestri, 1996).
Secondo le esponenti delle pari opportunità è un errore riproporre modalità di
omologazione del tempo femminile improntate ai modelli professionali maschili:
C’è una ricaduta diretta anche sui tempi del bambino, ok ci possono essere i
nonni, ma non sempre e per sempre . C’è una regolazione dei tempi che
condiziona: comanda il tempo di lavoro, o tu puoi permetterti di scegliere di
regolarlo per esempio non andando al lavoro o non puoi.
La flessibilità dei tempi di lavoro è, a detta dei rappresentanti dei sindacati, uno
dei problemi centrali, e per questo viene ricompresso tra le priorità dell’U.E. E’
un problema sia per le donne che si avvicinano alla formazione, sia nel
momento di ingresso nel mondo del lavoro, per questo è necessario sforzarsi
per trovare soluzioni in tal senso. Il tipo di implicazione nel lavoro è fortemente
condizionante nella gestione dei tempi:
Quando sei il capo sei tu che decidi le priorità e i tempi, ma sappiamo
bene che comunque sia sei sempre al limite .. li decidi tu, ma una volta
che si innesca questa spirale non cambia molto nella sostanza quindi non te li
impone il capo, ma te li imponi tu certi ritmi e il risultato finale è questa
tensione pazzesca che si avvertiva di essere sempre sul filo del minuto che
se una cosa non va per il verso giusto salta tutto
Secondo me dà l’impressione di una debolezza delle donne impropria
perché a priori dici è debole, ma non è cos’è che le situazioni ci portano a
manifestazioni…
(…) crea una differenza tra il lavoro dipendente e il libero professionista per
es. se tu sei una professionista sai cosa succede, hai le cose sotto controllo,
sai che il tuo concorrente ha consegnato le tavole prima di te tu sai, quando
sei dipendente invece l’input è confuso con quello degli altri e arrivi senza
informazioni e devi essere così brava da superare queste mancanze i
problemi ci sono sempre ma in più hai questa mancanza d’info, poi se hai il
capo stupendo hai il capo stupendo..
Casalavoro e il resto?
Come già detto nel capitolo sul rapporto tra famiglia e lavoro la scelta è
continua anche rispetto ad ambiti extra lavorativi; anzi il problema, in questo
caso, è duplice: da un lato infatti la donna non si sente in “diritto” di avere ambiti
così individuali; dall’altro lato la non equa divisione dei ruoli nell’ambito
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domestico non le permette di avere altri spazi (Stagi, 2002). In questo racconto
emergono proprio questi aspetti:
Non è per niente facile e uno può scegliere a un certo punto di vivere non per
il marito, i figli ecc., ma per te stessa perché la vita tua è quasi zero con tutte
le soddisfazioni che puoi prendere da tutti i settori, con la consapevolezza di
aver fatto una scelta giusta e di aver vissuto come hai voluto però non vivi per
te, forse perché si dovrebbe essere capaci di fermarsi, ma non è facile.
Modelli familiari
La difficoltà in un’epoca di transizione è di riuscire ad avere modelli di
riferimento per la socializzazione a nuovi ruoli; questo, come metteva in
evidenza il lavoro di Franca Bimbi del 1990, vale sia per le donne, sia per gli
uomini. Questa ricerca, realizzata su un campione di giovani genitori emiliani,
dimostra che una forte disparità nel lavoro domestico continuava a esistere
anche in una regione tradizionalmente avanzata e anche tra le coppie delle
ultime generazioni. La differenza era che questi giovani padri, al contrario di
quelli più anziani, si rendevano conto del problema, capivano che avrebbero
dovuto fare cose che non avevano mai fatto, che il loro scarso lavoro era un
privilegio che non poteva essere giustificato, ma in concreto però non si
impegnavano più di tanto [cfr. anche Leccardi 1996]. D’altra parte i modelli sono
condizionati da entrambi i lati e non sempre la donna è disposta ad accettare di
trasferire certi ruoli che considera tradizionalmente “suoi”:
I modelli familiari di riferimento sono importantissimi … io avevo un mammo,
ma poi siamo andati in contraddizione e in competizione sui figli.. io sono
diventata come mio padre .. e gli uomini oggi vivono forti richieste da
parte nostra ed anche per loro è difficile superare il modello tradizionale ..
l’uomo deve condividere le responsabilità, ma a volte mi accorgo di essere ad
esagerata, dovrei farli emancipare di più educar figli che diano soddisfazione
alle loro donne
La ricerca del 90 ha messo infatti in luce che, da un lato mancavano i modelli di
comportamento a cui riferirsi; per questo, nel tentativo di essere padri in modo
più profondo, i giovani imitavano i ruoli e i comportamenti delle madri piuttosto
che costruirne di nuovi. In realtà, però, quando si trattava di dividere
concretamente il lavoro domestico scattavano i vecchi tabù e le abitudini
secolari [Valentini 1997]. Ecco una testimonianza:
I padri sembrano partecipare di più ma magari accompagnano il figlio a
calcio, si sono presi la parte più semplice
Stili di leadership femminili
I modelli di direzione e gli stili relazionali che contraddistinguono le donne
dirigenti e imprenditrici nella gestione del personale, secondo le analisi presenti
in letteratura, sarebbero improntati alla dimensione di relazione, basata sulla
98
comunicazione e sull’informalità. Il vantaggio di un tale tipo di leadership è
relativo alla capacità di stabilire un rapporto dialogico10, che incoraggia la
partecipazione, la condivisione del potere e delle informazioni, basato sulla
responsabilità (David, Vicarelli, 1994: 165). Il problema, sottolineato anche dalle
intervistate è riuscire a sfruttare queste potenzialità e non finire invece ad
imitare modelli maschili, anche perché i segni di debolezza vengono
immediatamente connotati al femminile:
Ho visto donne diventare più aggressive non più comprensive, ciascuno di noi
che ha il potere della divisa e la usa e si atteggia
C’è poi una bassa percentuale d donne al top ed è un problema perché la
donna che è più elastica e creativa viene incanalata spesso in un modello
maschile che le viene dal capo che è un uomo, bisognerebbe arrivare al
piano di sopra
Io posso dire questo.. io sono stata per anni capo e un capo anche vittima del
ruolo di capo… che deve essere organizzata al 100%, non può avere aiuti
familiari perché a un certo livello… ok la babysitter si è avvantaggiate perché
le si possono pagare, ma poi non sei più madre dei tuoi figli… a me hai
giardini mi hanno chiesto dov’era la mamma di mia figlia.. poi sei il capo e
devi trattare bene le persone e farle anche lavorare e mediare le simpatie e
antipatie tra di loro, poi sei il capo di te stessa e quindi sei intransigente … poi
se sei una donna e sei un po’ mamma sei fregata… quindi ben
vengano gli uomini dirigenti perché come capo mamma ho avuto dei
boomerang dalle persone che comandavo perché capivano che come
mamma c’era una debolezza… essere donna capo non è per niente
facile
Soprattutto in organizzazioni di grandi dimensioni, non nell’imprenditoria, le
donne devono comunque riferire a qualche superiore, che essendo spesso di
genere maschile, impronta la leadership secondo diversi modelli; può capitare
quindi di trovarsi in posizioni scomode:
Spesso quando la donna fa la maschilista con un’altra donna è perché ha un
capo che la stressa e la usa come intermediario per fare il cerbero
Per molte intervistate è di fondamentale importanza, invece, riuscire a far
passare modelli di lavoro e di gestione del lavoro, più improntati alla flessibilità
femminile:
Nella P.A. ho vissuto una situazione di fortissimo maschilismo ho resistito e
mi sono sforzata di non perdere la mia dimensione femminile.
10
Mentre gli uomini tendono ad utilizzare l’autorità formale e il potere che detengono in virtù della loro
posizione nell’azienda, le donne attribuiscono il loro potere alle caratteristiche personali come il carisma,
la facilità nei rapporti e le conoscenze personali (David, Vicarelli, 1994:165).
99
Saper delegare
Ci sono mamme che lavorano per necessità, che sommano all’occupazione il
lavoro di cura (esso può riguardare oltre i bambini gli anziani ed i malati). È
importante cercare di affrontare e risolvere i problemi, ma il vero problema non
è solamente che il lavoro di cura è totalmente demandato alle donne, ma anche
che le donne spesso riescono a delegare poco, a volte per limiti oggettivi,
spesso anche per vincoli soggettivi:
Dobbiamo tener conto anche del nostro desiderio di essere valutate e di
essere soddisfatte di dove si è arrivate
Le donne devono imparare a delegare di più a casa , necessario veder
quanto peso ha nella soddisfazione personale la cura della casa
Se a una piace lo fa, l’importante è volersi bene e dobbiamo ancora imparare
a questo siamo le prime vittime di noi stesse.
Certamente anche in questo caso sono i modelli culturali che confluiscono sulla
percezione dei diritti e dei doveri, a cui si somma un sistema economico, che
imposta i tempi di vita su quelli di lavoro:
Che cosa si vuole? Non mi basta parcheggiare: il lavoro di cura va visto
anche dal suo lato positivo, mi farebbe piacere essere supportata, ma non
delegherei tutto agli altri.
Il problema è soprattutto delle donne sole, magari senza lavoro con problemi
di sopravvivenza…
Il problema è l’organizzazione rigida del lavoro per tutte le persone, non solo
per le donne, tutto è incentrato sul lavoro. Le aziende cercano di non
soddisfare delle richieste che potrebbero poi trasformarsi in diritti.
Anche la solidarietà all’interno del genere non è così semplice, a volte in essa si
innescano dei meccanismi di competizione oppure di “solitudine metropolitana”.
Secondo le intervistate questo avviene soprattutto nelle fasce più alte, che
tendono a volersi rendere autonome ad ogni costo:
Da un certo livello in poi la rete non c’è più e te le devi superare non
puoi chiedere aiuto e far pensare che sei in difficoltà
Il problema è che anche le donne super organizzate possono vivere l’imprevisto,
e questo può far esplodere anche le situazioni più strutturate:
Mi vengono in mente i miei primi anni di attività da consulente .. quando
dovevo andare in trasferta mio figlio si ammalava quasi sempre… il bambino
è sempre un imprevisto, il granello di sabbia nell’ingranaggio perché il
bambino è così e non solo i bimbi..
Il problema è che il ruolo di cura viene attribuito solo ad una figura
La mia fortuna credo sia stata quella di trovare figure femminili solidali, cioè
mi è capitato di poterlo portare in ufficio
100
Età e genere
A detta degli intervistati i modelli culturali influiscono in modo pervasivo sulle
scelte femminili e per questo spesso rinunciano ai propri tempi.
Non per tutte però si tratta di una scelta. A volta allevare i propri figli è l’unica
scelta, ma poi recuperare il lavoro oltre i 40 anni implica un investimento troppo
forte da parte sia della persona, sia della società. Per questo occorrono azioni
mirate:
Ci deve essere un investimento per permettere questo e chi ha dovuto o
scelto di lasciare il lavoro per prendersi cura dei figli e poi rivogliono lavorare
trovano porte chiuse.
Se ci sono agevolazioni per il primo ingresso nel mondo del lavoro si
dovrebbe pensare anche a progetti per agevolare chi vuole lavorare a questa
età, vanno incentivate le aziende. Finché è premiante assumere il giovane…
dipende anche dal lavoro che si è fatto prima, ma spesso le competenze sono
obsolete.
Si tratta per gli intervistati soprattutto di un fattore di genere, anche se l’età
rimane un problema trasversale:
Over40 è un problema diverso nei due generi. È più difficile il recupero e il
reintegro delle donne, ci sono molte tipologie di lavori dove un uomo può star
fuori e poi rientrare. E comunque l’uomo ha un distacco più breve delle
donne, lo stacco per la famiglia è più lungo, il genere incide.
Se si possono focalizzare degli elementi come l’età il genere e la formazione
non è altrettanto facile comprendere la questione di opportunità e di scelte:
C’è anche una sorta di disoccupazione volontaria perdere un lavoro a
quell’età è un lutto soprattutto dopo aver lavorato una vita in fabbrica e si è
ben coscienti di non avere una professionalità spendibile, neppure dopo un
corso di aggiornamento.
Sono le stesse donne che hanno difficoltà. Una disoccupata giovane ha una
scolarità maggiore, lo zoccolo duro è l’altra quella che era confluita negli Lsu
o nell’art.16: due ammortizzatori sociali…
Il problema è comunque correlato alla scarsa offerta di lavoro:
Il lavoro è diverso da prima, non c’è lavoro… quindi il primo fattore sono i tipi
di lavoro disponibili, l’età e poi il genere
È importante che ci sia la motivazione: … è necessario però costruire
l’autostima ed il desiderio del lavoro.
101
Scarpette e scarponi
Nella cultura di massa, l’orientamento al successo extra-domestico e
l’atteggiamento compiacente sono rappresentati dall’immagine ideale della
superdonna che ha tutto, ed è gradita a un pubblico maschile per la sua
femminilità11 e le sue qualità mondane.
Poiché nella nostra epoca le donne sono costrette a provare il loro valore nel
lavoro e attraverso la produzione intellettuale, molte sentono di dovere
dimostrare di essere uguali agli uomini; per alcune ciò significa liberarsi della
propria femminilità che ha subito una svalutazione culturale [Gordon 1991: 5773] e forse questo è proprio riconducibile al messaggio che provocatoriamente
una intervistata riferisce usando la metafora delle “scarpette e degli scarponi”:
Io dico nella fascia over 40 arriva un punto nel quale ti chiarisci e chiarisci
quello che vuoi, fai il punto e dici cosa ho fatto fin’ora? Sono entrata con gli
scarponi o con le scarpette? Oppure scarponi contro soffitto di cristallo..
cioè scarpette con il tuo part time e lo scarpone con il quale puoi spaccare,
ma non troppo perché comunque sei donna e non ce la farai mai.. e qualcuna
a questo punto dice cosa faccio? Mollo tutto, oppure ce la faccio o cambio
lavoro o riamo un altro uomo, cambio. Secondo me nel mondo delle donne
che lavorano molto quest’analisi succede spesso .. ti consente di soffrire
molto, ma di trovare di nuovo forza ..
Il valore che nelle società occidentali viene ora attribuito al successo e alla
riuscita femminile, rappresenta una brusca inversione di tendenza rispetto alle
precedenti definizioni di ruolo basate sulla condiscendenza, sulla sottomissione,
sulla deferenza e sulla passività. Lo sviluppo dell’identità femminile è reso
difficile dal fatto che la definizione del nuovo ruolo sociale per le donne non è
affatto chiara: oggi la maggioranza delle donne sente che, accanto ad
accresciute aspettative di successo e di riuscita, resta forte la pressione verso
la femminilità tradizionale, basata sulla bellezza, la compiacenza e la passività
[Gordon 1991]. Volendo continuare ad utilizzare delle metafore, è come se la
costruzione dell’identità femminile fosse un labirinto: la donna che vi entra può
scegliere diverse direzioni per arrivare all’uscita, ma alcune di queste possono
implicare l’abbandono di un pezzo di femminilità che è l’unico bagaglio con cui è
partita. Alcune donne rinunciano a trovare l’uscita, altre si perdono, altre ancora
riescono ad uscire ma con la sensazione di aver comunque perso qualcosa.
Anche l’attenzione all’aspetto esteriore è sinonimo di questa ricerca identitaria,
in parte connessa con altri fattori culturali, tipicamente italiani, che comunque
cercano di risolversi nel “compromesso” tra femminilità, la praticità e stili di vita:
Una volta in ufficio si metteva la cappa e le ciabatte non le scarpe nuove.. in
america è normale cambiarsi le scarpe, lo vedo come tenersi in ordine non
come femminilità per colpire immaginario maschile. È un aspetto culturale, noi
non lo faremmo mai usciamo già perfette la mattina..
11
. Storicamente la paura di non essere abbastanza femminili, nello stile o nell’animo, è stata usata contro le
aspirazioni individuali e collettive delle donne, dal momento che il fallimento rispetto ai canoni della femminilità
porta con sé l’accusa di essere asessuate e quindi chiama in causa la stessa identità femminile [Brownmiller 1984/85:
211].
102
Forse ci sono due piani, uno della praticità comodità, noi mettiamo il tacco più
basso ma tutto il giorno, il compromesso, l’altro le cappette quello era la
divisa e lì la divisa era gonna corta e tacchi a spillo, mentre per l’uomo
andava bene anche la cravatta allentata risistemata prima di uscire in realtà.
È per affermare il target della segretaria, poi i capelli che sono i primi che
taglia quando cambia ruolo.. mi aveva colpito il pc in camera da letto.. sono
donne che comunque adottano modelli tipicamente maschili, mentre noi
cerchiamo di mantenere modelli femminili pur facendo carriera
Scelta della borsa
L’utilizzo di metafore è sempre efficace per far emergere significati e immagini
che altrimenti sarebbero difficili da esprimere. Anche noi, come detto nella
spiegazione metodologica, abbiamo utilizzato questo strumento per provocare
rispetto al alcuni temi forti. Uno dei più riusciti è stato quello della “borsa”,
intesa, proprio in senso metaforico, come bagaglio di opportunità, scelte,
alternative, riserve che una donna si porta dietro proprio per far fronte a tutte le
traiettorie possibili. La scelta del tipo di borsa, e quindi delle dimensioni, è già
significativo rispetto alla quantità e diversità dei contenuti che si vorranno
potranno mettere dentro, ma la borsa più è grande e più diventa un peso da
portare. Fuor di metafora si parla dell’identità femminile e dei diversi ruoli che la
donna sceglie di voler interpretare, il problema è che non a tutte le donne viene
concesso di scegliere la borsa.
Ecco le testimonianze più significative:
Guardando la borsa di una donna si capiscono molte cose. La borsa è
soggettiva… ciascuna mette se stessa nella borsa apri la borsa di una
donna e si capisce che tipa è e si tende a nascondere le frugalità
casalinghe come il biglietto per ricordarsi i ceci scritto sul post it
La borsa per me è come un pezzo di casa e mi chiedo come fanno quelle
con la borsettina carina! La borsona mi pesa, ma mi rassicura . è una scelta
soggettiva a monte di divedersi in più ruoli o seguirne solo uno.
Ma noi abbiamo l’opportunità di scegliere quale borsa portare e
l’opportunità di avere la borsa .
le scelte sono fondamentali c’è chi ha opportunità e non vuole cogliere perché
costano fatica .
Bisogna soprattutto dare a tutti la possibilità di avere la borsa
Anche in questo contesto riemerge la differenza di genere, l’onere della borsa è
tipicamente femminile, il peso che rallenta nelle traiettorie lavorative, e la
molteplicità che caratterizza la soggettività femminile:
Ma gli uomini la borsa non l’hanno, qualcuno inizia ad avere lo zaino forse
agli uomini nessuno domanda niente e loro non hanno niente
103
Nuovi modelli da trasmettere
Come si è evidenziato più volte la questione centrale è che il mercato del lavoro
contemporaneo svaluta il ruolo materno tradizionale. Le donne ambiziose
vivono forti conflitti su questa linea, poiché riesce molto difficile conciliare la
carriera con il ruolo materno [Gordon 1991: 73]. Come sottolinea la Di Nicola, la
costruzione dell’identità femminile è infatti segnata da queste possibilità: tra
«desiderio e impotenza, tra liberazione e nuove gabbie, tra volontà di fare a
meno delle categorie tradizionali e incapacità di prescinderne […]» [P. Di Nicola
1990: 65]. Occorre liberarsi dell’”immagine ideale della superdonna che ha
tutto” ed avere più consapevolezza dei propri limiti e dei propri reali desideri,
solo in questo modo si possono superare gli attuali problemi e vivere più
serenamente l’essere donna:
A volte mi riconosco in questa perfezionista dannata con una tensione
esagerata bisogna invece tranquillizzarci e capire che nessuno è perfetto
assolutamente, dobbiamo mantenere la serenità interiore avere tolleranza
verso noi stesse, non siamo perfette
Questo è quello che dobbiamo trasmettere alle nuove donne accettarsi a
fare quello che si vuole con tutta se stessa .. i tuoi figli soffriranno perché
vai alla mostra a Parigi, non importa tu fallo, vuoi fare la mamma casalinga?
Fallo non devi giustificarti perché non hai trovato lavoro perché il lavoro c’è e
se non lo trovi è perché non l’hai cercato, ma non devi venire a dirlo a me,
devi dire che ti accontenti di quello. Se vuoi l’amante fattelo… il fatto di autoaccusarsi sempre di quello che abbiamo scelto, ma quando hai scelto prenditi
le responsabilità, ce la fai… quelle che vogliono fare tutto sono pazze una
non deve fare tutto è pazzia è una malattia, sono delle sfigate, non delle
superdonne.
Poi c’è il senso di colpa delle madri nei confronti dei figli che è una cosa da
non trasmettere… bisogna far capire la nobiltà dell’impegno nel lavoro, la
soddisfazione, ma anche le madri migliori vivono il senso di colpa, gli uomini
che lavorano invece si sentono il re della foresta.
Io dico sempre che è importante la qualità del rapporto coi figli, non la
quantità, se c’è la qualità…
Focus Contatto
Di seguito vengono riportate le sintesi degli interventi più significativi prodotti nel
focus con le agenzie di consulenza e interinali, in merito ad alcune questioni
centrali.
Oltre 40 parità di genere
C’è la persona che non è consapevole del contesto sia tra uomini e tra donne.
Ci sono persone che dicono di essere al loro primo colloquio sia tra gli uomini
così come tra le donne.
104
Certamente l’uomo è maggiormente job oriented e la modalità di approccio e di
reinserimento nel mondo del lavoro da parte di ultraquarantenni uomini e donne
ha sicuramente motivazioni diverse, questo reingresso, ma la modalità di
approccio al discorso “mi ripropongo nel mercato del lavoro” non è così diversa,
certamente con tutte le differenze individuali le differenze culturali. Certamente
c’è la donna che fa la scelta di sospendere il lavoro per un tot di anni per
allevare i figli e poi pensa di rientrare, per quanto riguarda l’uomo non si tratta
di dare dei giudizi. Sull’approccio al reinserimento nel mondo del lavoro non
vediamo grosse differenze, c’è chi “è adeguato” uomo donna non importa.
Esperienza
Laddove vengono richieste professionalità molto particolari, molto skilllate, il
quarantenne o la persona che ha superato i quarant’anni non da tantissimo,
parliamo comunque di posizioni dirigenziali o quadri, molto esperti, ambosessi
l’età non centra. È l’esperienza professionale; se la persona ultraquarantenne
ha avuto un certo percorso e ha avuto dei risultati, l’età può non essere il vero
problema.
Modo di porsi/disponibilità
Si trovano persone che riescono a sopperire a deficit formativi con la
motivazione: infatti se troviamo persone che hanno le caratteristiche personali
valide, le direttive che abbiamo sono quelle di tenerle in considerazione per poi
proporle successivamente alle aziende; noi abbiamo un sacco di ricerche
aperte…impiegate amministrative, contabili, segretarie ma essendo numerose
le ricerche aperte non sempre abbiamo lo stesso numero di candidati da
presentare. Così si può venire incontro presentando una persona che non ha
certe caratteristiche ma ha facilità di apprendimento, magari non conosce
esattamente quel determinato tipo di programma di contabilità ma ne ha usati
altri tre ed è motivata e disponibile.
Le possibilità introdotte dalla riforma universitaria
L’università viene vista o come un canale d’accesso a competenze medio-alte
dei ragazzi o come recupero di competenze di persone collocati nel mercato
del lavoro, più uomini che donne, che potrebbero avere un peso maggiore sul
posto di lavoro se avessero un titolo accademico. Oggi è possibile recuperare
gli esami dati negli anni passati riciclandosi in un percorso triennale più mirato
e specifico con eventuali integrazioni su alcuni esami. È stata anche abolita la
norma che stabiliva la perdita degli esami dopo 8 anni.Tutte queste modifiche
sono state introdotte anche per agevolare il recupero di persone fuori dal
mercato del lavoro, ma questa opportunità non è ancora stata compresa
adeguatamente.
105
I vincoli e le azioni positive secondo i rappresentanti delle pari
opportunità
AZIONI POSITIVE
1) FORMAZIONE
2) SERVIZI AD HOC
3) AUTOSTIMA
4) NUOVA ORGANIZZAZIONE
TEMPI DI LAVORO
5) INCENTIVI
6) INFORMAZIONE
7) ALTRO
a) Progetti di accoglienza, formazione, riqualificazione, rimotivazione, tutoraggio,
inserimenti mirati
b) Valorizzazione delle competenze tramite formazione-addestramento
c) Aumento della formazione e dell’informazione
d) Intervento sulla creazione o la riattualizzazione delle professionalità possedute
e) La formazione continua
f) Opportunità formative individualizzate
g) Possibilità di partecipare, c/o sede di lavoro e/o vicino, ad attività formative che
permettano di evidenziare le capacità esistenti nelle donne
h) Introduzione di contratti di fomazione lavoro specifici
i) un modello di welfare + flessibile ed articolato
j) strutture di sostegno sociale alle necessità di cura (bambini anziani)
k) organizzazione di servizi più flessibili
l) istituzione di servizi aziendali come gli asili
m) strutture di supporto per affrontare i problemi del lavoro di cura
n) Aumentare l’autostima soprattutto di chi è assente dal lavoro da lungo tempo
o) Promuovere l’autostima
p) rafforzare autostima persone
q) puntare su modifica della percezione sociale del valore e delle capacità che le
persone over40 possono mettere in gioco e su cui si dice poco
r) un programma di preorientamento che porti le donne over40 a riconoscersi e a
mettere in atto strategie positive, prima di azioni specifiche di ricerca attiva del
lavoro
s) organizzare il lavoro in modo più accessibile (tempi formazione continua)
t) migliorare la flessibilità lavorativa
u) organizzazione al femminile dell’orario di lavoro che permetta di utilizzare i vari
servizi
v) modificare l’organizzazione del lavoro per accogliere l’offerta di lavoro
femminile over40
w) Più strumenti, anche economici, di sostegno al lavoro, all’autoimprenditoria, alla
famiglia
x) Incentivi all’assunzione ver40 per le aziende
y) Intervento di introduzione di incentivi per le imprese ed enti nel caso di
assunzioni
z) Incentivi alle imprese “woman preedly”? al momento non ci sono iniziative la
L:R 41 non è stata finanziata, non ci sono opportunità nel piano ob 3
aa) Informazione corretta su opportunità di lavoro
bb) individuazione precisa delle necessità del mdl
a) Parola chiave “condivisione”
b) Rafforzare l’associazione che aggrega le donne e da forza alle richieste.
c)
Far emergere consapevolezza di genere
106
VINCOLI
8) POLITICO
STRUTTURALI ?
9) TEMPI?
10) SOCIETA’?
11) ALTRO
a)
b)
c)
d)
e)
f)
g)
a)
b)
c)
d)
a)
b)
c)
a)
b)
restringimento del mdl
crisi economico-produttiva
il modello di welfare che si sta privilegiando
per donne separate il diritto di famiglia non dà garanzie
diminuzione investimenti finanziari per la formazione, ecc
difficoltà di portare avanti questa problematica da parte dell’amministrazione,
sindacati, forze politiche di fronte alla disoccupazione giovanile
rigidità del modello tarato sulla scarsa sensibilità ai problemi individuali
organizzazione della struttura pubblica e privata sui tempi
modificazione dei tempi delle città
modalità dell’organizzazione dei lavori e mentalità che vi sta dietro
rischiare di perdere i tempi di vita perché i tempi di lavoro soverchiano
mantenimento di una cultura del servizio concepito come sostegno alla donna e
non alla famiglia
il modello di società e di rapporto tra individui e politica che rischia di allontanarsi
coscienza sociale della deprivazione al mondo del lavoro se manca l’apporto delle
donne
mancanza di esempi che consentano un innesco di circuito virtuoso
mancanza di sensibilità delle aziende
107
108
109
Presupposti teorici e metodologici
Ogni produzione della lingua è un testo, come tale può essere indagato, nella
sua forma, nei suoi contenuti, a livello semantico, proposizionale, discorsivo,
retorico; oltre che offrirsi all’indagine come documento sociale qualsiasi sia il
suo argomento.
A maggior ragione questo accade se, come nel caso dei “racconti di vita” del
Progetto OVER 40, vi si parla di lavoro, non lavoro, motivi di (auto)esclusione,
età, ruoli e riconoscimento sociale.
Gli elementi - base di questa analisi sono sostanzialmente tre, lingua, sesso,
società, e si può persino pensare di relazionarli in modo quasi assiomatico: se il
sesso determina un certo uso ed una certa percezione della lingua e la lingua
veicola un certo ruolo sociale, allora il sesso stabilisce ruoli sociali e i ruoli
sociali si definiscono (anche) sulla base del sesso.
Ovvero:
le donne parlano in un certo modo e gli uomini parlano in modo diverso (lingua
e sesso); le donne hanno certi ruoli sociali e gli uomini ne hanno altri (sesso e
società); le donne parlano in un certo modo e gli uomini parlano in modo
diverso perché le donne hanno un certo ruolo sociale e gli uomini hanno un
ruolo diverso (sesso, lingua e società).
È forse opportuno sostituire al termine sesso quello di genere, condiviso dalla
terminologia di scienze diverse, come linguistica, grammatica, analisi testuale,
antropologia, sociologia, etc. Si passa da un atteggiamento vetero-femminista
all’ambito precipuo delle pari opportunità, che degli studi di genere hanno fatto
un loro strumento.
Ovviamente tutto questo può funzionare soltanto se si accorda lo statuto di
esistenza ad una serie (percepita in modo cosciente o incosciente) di stereotipi
linguistici, culturali, sociali.
Da questo assunto di partenza, quindi, si desume che:
1. Quello che si indaga è un socioletto, cioè la lingua condivisa ma
differenziata di un certo gruppo, che si riconosce e si pone, proprio in virtù
di quell’uso linguistico, come minoritario rispetto allo standard linguistico.
2. Assumendo come “vero” un primo stereotipo socio-culturale, la lingua
standard è quella parlata dagli uomini e quella minoritaria quella parlata
dalle donne.
3. Lo standard si costruisce sulla base del valore socialmente accordato alla
lingua, anzi a quella lingua, di conseguenza si accorda all’uomo un
maggiore valore socio-culturale rispetto alla donna.
4. Spesso il valore socio-culturale è direttamente connesso al ruolo sociale
del parlante, più semplicemente al suo lavoro.
5. La lingua-donna serve a comunicare in ruoli minoritari rispetto alla lingua
standard e, dunque, in fasce più elevate di società e professionalità si
farà ricorso alla lingua-uomo.
6. Alcuni linguisti hanno definito questa precipua distinzione di forme e modi
d’uso della lingua come lingua della casa, per le donne che “a casa”
restano, lingua del pane, per gli uomini che “se lo guadagnano”.
110
7. La lingua-donna tendenzialmente è meno affermativa, più dubitativa, più
cortese, meno diretta, meno specializzata, più generica e meno creativa,
perché normalmente i ruoli femminili (ecco il secondo stereotipo a cui
accordare statuto di verità) sono così.
8. La lingua-uomo è assertiva, diretta, precisa, specialistica, sicura, perché
normalmente i ruoli maschili sono così.
9. Le donne dimostrano difficoltà - anche linguistiche - a staccarsi dal ruolo
di madre e dall’ambito della famiglia; a determinare le loro competenze e
a giudicarsi12.
10. Non è un caso che tendenzialmente le fiabe abbiano donne per
protagoniste e i romanzi di formazione protagonisti uomini: anche le
principesse sanno “sprimacciare i cuscini” e l’ultimo figlio di mugnaio è un
astuto, fortunato, abile cacciatore che può - “se vuole” - diventare re.
Dall’antropologia alla sociolinguistica ricordando gli studi di genere
Impostare una analisi di tipo linguistico - testuale sul presupposto dell’esistenza
di caratteristiche legate al sesso, in questo caso il sesso di locutori, emittenti del
messaggio, significa assumere fin da principio una logica di genere e, perciò,
inserire l’analisi stessa nell’ambito di ricerca dei genders studies.
L’antropologia, prima tra le scienze umane, ha reso oggetto di studi “di genere” i
tabù linguistici e le verbalizzazioni di formule magiche, proibite a o incomprese
da uno dei due sessi, presenti in società primitive: ha stabilito che c’erano
parole solo per donne, parole a loro incomprensibili e parole a loro proibite. Lo
stesso accadeva per gli uomini.
Il passaggio dall’antropologia alla sociolinguistica avviene se si considerano
non solo società primitive, ma comunità attuali, per le quali, comunque, l’uso
della lingua è strettamente codificato come un elemento della regola del gioco
sociale.
Si può affermare che esiste una “lingua delle donne” connessa a motivazioni
sociali? È immediato accorgersi che se uomini e donne si consacrano a domini
di intervento diversi, anche la loro lingua sarà diversa?
Se non si può affermare che “le donne parlano così, gli uomini cosà”, si può
definire uno stato di tendenze – intese come orientamenti privilegiati – che
consideri che la variabile sesso è inseparabile, comunque, da altre variabili
come la classe sociale, il livello di istruzione, l’età, la categoria di occupazione
(cfr. Yaguello M., 1978, 2002:37 – 38).
Insomma tutto quello che viene indagato dai “racconti di vita” del Progetto
OVER 40.
La lingua che ci interessa indagare è comune, mutuamente compresa da
uomini e donne; non è una lingua “a parte” ma una variante, un socioletto.
Si può addirittura parlare, semplicemente, di repertori diversi, in cui entrano in
gioco differenze lessicali, sintattiche, a volte stilistiche, dovute alla ripartizione
dei ruoli e dei poli di interesse di donne e uomini.
Nel caso dei documenti – campione, il polo di interesse forte era dato a priori
dall’argomento affrontato nei “racconti di vita”: genericamente lavoro e non
12
Il “giudizio” è inteso come riconoscimento di doti buone e di nei cattivi, accettati entrambi e fatti
suggestione di crescita.
111
lavoro, in connessione con motivi di esclusione e auto – esclusione e variabili
anagrafiche; da un lato quindi la lingua darà indicazione dei ruoli sociali attesi,
disattesi, rispettati o infranti e, dall’altro, il ruolo sociale rivestito dal locutore
modellerà la lingua.
Inoltre, questa tipologia di documento13 rientra nella forma dell’ interazione, una
situazione linguistica che si inserisce nella dimensione più ampia della
comunicazione, caricandosi di valenze verbali, certo, e non verbali e che è , in
ogni caso, inseparabile dal contesto - anche sociale - in cui avviene.
In generale si può affermare che l’interazione è diversa se i locutori sono dello
stesso sesso oppure no, se i loro rapporti sono egualitari o gerarchizzati, se
fanno parte della stessa fascia d’età14.
Si possono qui sintetizzare tratti e stereotipi femminili e maschili, senza troppo
curarsi, per il momento, di delimitare gli ambiti di riferimento e quindi
mescolando il lessicale con il sintattico, i contenuti con gli stili. Evidentemente
ognuna delle caratteristiche riferite alla lingua delle donne può trovare, più o
meno pretestuosamente, una giustificazione sociale15.
Una definizione possibile e generica, carica di valenze sociali, dei modi
femminili del dire, è quella di insicurezza linguistica.
Vi si possono contare tutta una serie di scelte, maniere e intonazioni “che
indicano la sottomissione, l’incertezza, la richiesta di approvazione,
l’approvazione di cortesia, l’esitazione, la sorpresa, (…)” (cit. in Yaguello M.,
1978, 2002:45; cfr. Lakof R., 1975. Il corsivo è mio).
Insomma si è tentati di generalizzare dicendo che le donne usano
prevalentemente strutture che suggeriscono invece di affermare, che lasciano
aperta la possibilità del rifiuto, che non rivelano apertamente sentimenti ostili,
che cercano per quanto possibile l’accordo con il partner: sarebbe quindi per
evitare il linguaggio affermat(iv)o e l’asserzione, che le donne usano più degli
uomini costruzioni modali e costruzioni che esprimono il dubbio e l’incertezza.
Semplificando estremamente, si può arrivare ad una sorta di “teoria del non”.
Il fatto di padroneggiare la parola – discorso, di usare modi assertivi e funzionali
è al contrario un modo del parlare uomo, così come l’uso del gergo, l’agio nei
confronti di registri tecnici, politici e sportivi, della parola in pubblico,
dell’autoritarismo anche categorico.
Adeguandosi per un attimo al più banale femminismo, si può arrivare fino a dire
che “le brave donne sono incapaci di parlare di politica, sottinteso: sono
incapaci di pensare politica, (…) poiché, in fondo, tutto ciò si iscrive nella
credenza che siccome il pensiero è strettamente legato al linguaggio, chi non
sa dire non sa pensare” ( Yaguello M., 1978, 2002:67)16.
13
Anche se espressamente richiesto a chi conduceva l’intervista di “intervenire il meno possibile”.
Dunque occorre, in quest’ambito, tener conto che:
• il locutore intervistato può essere uomo o donna;
• il locutore conduttore è sempre donna;
• il rapporto d’età è sempre intervistato > conduttore.
15
Come quasi tutti i socioletti, allora, ci troviamo davanti ad una lingua standard parlata dalla classe
dominante ed una lingua minoritaria: l’esempio, anche se a livello di genere, risulta ribaltato, è la lingua
“degli uomini” delle comunità nere americane: le donne sono assimilate alla lingua standard proprio
grazie al ruolo sociale che occupano (per es. professioni di maggior responsabilità, che favoriscono
contatti con parlanti bianchi).
16
Per fortuna c’è la contro-citazione di Rimbaud che auspica che “poiché ogni parola è un’idea, verrà il
tempo di un linguaggio universale”.
14
112
In ogni caso, senza spingersi tanto oltre, è vero che la forma del discorso
dipende dal suo tema17.
Un altro esempio di differenziazione linguistica di genere, che si lega anche a
forme più o meno consapevoli di conservatorismo linguistico e che mostra forti
implicazioni sociali, è quello che si nota tra lingua della casa e lingua del pane;
la prima, quella femminile è la vera e propria “lingua madre”, l’altra quella
maschile indica il ruolo che permette all’uomo, al padre più spesso, di
“guadagnarsi il pane, (…) farsi posto nella società” (Yaguello M., 1978,
2002:51).
Si ritorna ancora una volta a collegare lingua e ruolo sociale e - soprattutto statuto riconosciuto socialmente e lingua dominante, standard18.
Resta normale, evidente, che un parlante usi e padroneggi il codice
corrispondente al campo d’attività che gli appartiene, che ha scelto. Non è
altrettanto evidente, per esempio, che ad ogni professione scelta corrisponda il
nome d’agente declinato per genere. Si può notare che certe professioni non
hanno (in certi casi tendono a non far entrare nell’uso) la variante femminile e
viceversa, il tutto con una precisa valenza sociale (cfr. Yaguello M., 1978,
2002:153).
È lecito chiedersi, allora, se il genere rifletta una visione del mondo?
Dallo strutturalismo alle reti semantiche
Le interviste raccolte sono paradigmaticamente definite “racconti di vita”.
Il termine racconto dispone ad un approccio decisamente letterario,
interpretativo e, in qualche misura, rivolto all’ambito della semantica e della
lessicologia
Questa direzione di indagine è rafforzata dalla consapevolezza che qualsiasi
produzione linguistica, orale e/o scritta, di qualsiasi argomento e prodotta con
qualsiasi finalità, può essere considerata testo.
Anche altri motivi hanno spinto verso un’indagine di tipo “altro”, non ultima la
classificazione - proposta in sede ancora progettuale - in macro e microaree.
Così formulata, la richiesta di una prima discriminazione delle occorrenze,
presenza - assenza - frequenza degli argomenti chiave, richiama un tipo di
analisi strutturalista ben preciso, che distingue i temi (qui macroaree) dai motivi
(microaree correlate alle prime).
In maniera un po’ tendenziosa, si può fare riferimento, dunque, ad un lavoro di
G. Genette, linguista, critico strutturalista, che sull’articolazione di “temi” e
“motivi” propone una puntualissima analisi de “La recherche du temps perdu” di
Proust: Figure I, II, III.
Il presupposto affascinante di Figure III è che qualsiasi manifestazione testuale,
di nuovo intendendo “testo” nella sua forma più ampia, come ogni
manifestazione linguistica scritta e / o parlata, di ogni registro, soggetto, etc.,
17
Sempre per rimarcare le differenze di genere è evidente che non si usa lo stesso registro linguistico
(insieme di lessico e sintassi, prossemica, prosodia e chinesi) facendo un resoconto d’argomento
economico di fronte ad un pubblico che condivide la stessa specializzazione di quando si passa ad
un’amica (sic!) una ricetta di cucina.
18
Ancora un accenno al socioletto delle comunità nere: per gli stessi motivi indicati nella nota n°.2, in
questo caso si ribaltano i ruoli; la lingua del pane risulta molto più spesso essere quella delle donne!
113
altro non è che una sorta di trasformazione, di metastasi cancerosa, quindi
mostruosa, di un’unica proposizione.
Quella della “Recherche” sarebbe qualcosa come: Marcel vuole diventare
scrittore.19
L’analisi di Figure continua sostenendo che intorno ad ogni metastasi - frase si
articolano appunto quelli che Genette chiama “temi” e “motivi”.
Per intenderci: in termini duecenteschi un tema è l’“amore”, un motivo quello del
“cor gentile”; all’interno del Progetto OVER 40, un tema è sicuramente il
“modulo famigliare attuale”, un motivo gli “orientamenti di valore”.
Sempre facendo riferimento al valore narrativo dei “racconti di vita” collazionati,
e considerata la partenza di tipo strutturalista proposta per questa fase
dell’analisi, si può fare un ulteriore passo verso il romanzo di formazione20, un
romanzo che ha dissolto evidentemente “(…) la forma epica”, ma dove “ (…)
tanto l’eroe che il suo destino possono diventare alcunché di meramente
‘personale’, ed il tutto assume allora il valore di una vicenda privata riprodotta
nei modi del racconto biografico, in guisa che si viene a sapere come e per
quali vie uno abbia raggiunto un accomodamento con il mondo dato che lo
circonda” (Lukàcs G., 1920, 1981:168).
Insomma un vai e vieni da realtà sociolinguistica a finzione romanzesca.
Esistono però delle perplessità nell’applicare strumenti di analisi propri alla
linguistica, alla semantica e alla lessicologia: quanto incide, su un approccio di
questo tipo, il fatto che si tratti di documenti di lingua orale? E quanto il fatto che
questi documenti di lingua orale siano stati “tradotti” in lingua scritta, secondo
un’idea di “intelligenza” piuttosto che di effettiva “fedeltà”?
Per ovviare a questi dubbi di correttezza metodologica, si è pensato di passare
dal lessicale al concettuale, di procedere cioè indagando non tanto i significanti
quanto i significati, non le singole “parole” quanto gli “argomenti”. E, inoltre,
allargando il campo di applicazione di un certo significato dalla singola parola
alla frase.
Ogni parola, infatti, associa un valore denotativo, quello che viene fornito dalle
voci del dizionario, praticamente il “senso”, ad un valore connotativo, quello
stesso senso inserito in una scala d’apprezzamento (morale, estetica o, adesso
più importante, sociale) e, infine, ad un valore associativo, rispetto cioè alle
parole che “ha intorno”. Si tratta allora di indagare le reti semantiche connesse
con i temi ed eventualmente i motivi riscontrati.
A questo punto non si può evitare di indagare anche la forma della frase, che in
buona misura ne determina il contenuto almeno la percezione che l’ “altro” ha
del contenuto: quindi, al di là, del “cosa” si dice, si può analizzare anche il
19
Da sottolineare forse come anche nella “Recherche” si parli di lavoro, di professionalità desiderata,
perseguita, ricercata: “Tout le reste est littérature”. Inoltre esistono almeno due parole in francese che
indicano la “ricerca”; una è appunto recherche, l’altra è quête. Ora, recherche normalmente si usa per le
cose reali, concrete; la recherche scientifique, piuttosto che la recherche d’un travail; quête si usa per le
cose astratte, legate allo spirito: la quête du Graal, la quête du bonheur.…Allora perché non 14 volumi di
“La quête”? Forse, sotto sotto, Genette aveva ragione, supponendo che Marcel stesse cercando di
“definire e perseguire le sue competenze e la sua professionalità”.
20
Il romanzo di formazione, spesso, riprende le forme e i ruoli della fiaba tradizionale, così come la ha
descritta Propp; nel caso del Progetto OVER 40 tutte le fabule tratte dalle interviste potrebbeo essere
rilette e/o riscritte come altrettanti romanzi, che parlino di mancanze, ricerche, aiutanti, antagonisti,
perdite, guadagni, soluzioni, riconoscimenti,…e – perché no? – , fortune, sfortune, innamoramenti,
matrimoni…
114
“come” lo si dice21. Questo come risente, ovviamente, di una scelta di genere
più o meno consapevole.
E il cerchio si chiude.
Finalità e obiettivi
Partendo da questi presupposti, un’analisi che si potrebbe dire genericamente
linguistica può partecipare alla definizione della finalità generale del progetto,
perseguendo una serie di obiettivi che comunichino alla ricerca e all’indagine un
valore aggiunto.
Se, in breve, la finalità del progetto è:
• individuare i meccanismi di esclusione e/o autoesclusione di persone soprattutto donne - OVER 40 dal mercato del lavoro,
la finalità di queste proposte, evidentemente non esaustive, articolate tra
semantica, lessicologia e analisi testuale è:
• confermare, attraverso strumenti altri, la presenza di questi meccanismi
all’interno del medium utilizzato, la lingua, intesa qui come unione
significa(n)tiva22 di contenuti e forme;
• confermare il senso “sociale” e “di genere” di tali meccanismi al di là del
loro significato linguistico – letterario.
Gli obiettivi perseguibili attraverso le tipologie di indagine suggerite dai
“presupposti” , considerando di agire essenzialmente in un’ottica di genere e di
rilevanza anagrafica, sono:
• individuare occorrenze23 a livello macrotestuale;
• individuare occorrenze a livello sintattico (frase, in quanto forma e
contenuto);
• rilevare concordanze di contenuto e discordanze di forme;
• individuare occorrenze a livello lessicale (parola, soprattutto in quanto
significato);
• confrontare e interpretare il risultato delle diverse “collazioni”.
21
Per la terminologia usata si fa riferimento a qualsiasi testo di linguistica, anche semplicemente
divulgativo; si tratta di definizioni ormai entrate nell’uso comune e condivise anche da scienze diverse.
22
Cioè: importante, paradigmatica, ma anche di “significati” e “significanti”.
23
Potenzialmente l’occorrenza richiama anche la “discordanza”; di concerto si potrebbe indagare sulle
“mancanze”, rifacendosi al “non detto” del discorso.
115
L’applicazione degli strumenti
•
Individuare occorrenze a livello macrotestuale
Per livello macrotestuale si intende ora il “racconto di vita” nella sua interezza;
anzi, in termini di analisi testuale, si intende la fabula del racconto di vita.
Riferendosi poi al punto di partenza di Genette in Figure III, cioè al reperimento
di una frase-gamete, più o meno ricca di metastasi narrative (temi e motivi,
macro e microaree), si cerca di individuare proprio questo in ogni intervista:
ovvero l’equivalente del “Marcel vuole diventare scrittore”.
Per ogni frase-gamete, si può poi cercare di indagare un ambito di
appartenenza; sulla base di questi procedere ad una classificazione.
Per esempio:
Intervista 1
“Non voglio aver niente a che fare con la realtà”: stili di vita
Intervista 2
“Non voglio imprendere mai più nulla”: ridefinizione della tipologia di rapporto
professionale
Intervista 3
“Forse dovrei parlare di me”: immagine di sé
Intervista 4
“Io sono bravo”: immagine di sé
Intervista 5
“Ho avuto un’interruzione di 15 – 20 anni…”: tempi di vita e tempi di lavoro
Intervista 6
“Devo e voglio dedicare del tempo ai miei bambini”: tempi di vita e tempi di
lavoro
Intervista 7
“Mi rendo conto di essere un privilegiato”: stili di vita
Intervista 8
“Io mi considero una persona estremamente flessibile”: immagine di sé
Intervista 9
“Voglio guadagnare un po’ per poter fare un altro corso”: lavoro pro-formazione
La recherche de l’insécurité linguistique
•
•
Individuare occorrenze a livello sintattico (frase, in quanto forma e
contenuto)
Rilevare concordanze di contenuto e discordanze di forme
Si passa, a questo livello dell’analisi, a confrontarsi con la proposizione.
La sintassi determina la forma con cui viene presentato un determinato
contenuto, ma presenta anche una serie di marche che possono essere
indicative di situazioni diverse.
Può essere interessante, in un’ottica di genere e secondo quanto detto a
proposito delle stereotipie del parlare donna, considerare la frequenza di
116
indicazioni sintattiche di dubbio o di negazione. Anche in questo caso occorre
poi procedere ad una definizione di ambiti di appartenenza e ad un confronto.
Si è scelto di indagare un tipo di negazione molto “standard”, cioè il non;
evidentemente altre marche di negazione intervengono nel discorso24.
Quello che viene fuori da una banale collazione di occorrenze è forse già
indicativo.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
intervista femminile: 2% DEL TESTO E’ NEGAZIONE – circa 60 frasi con
marche di valore negativo su 3000 parole
intervista femminile: 2,35…% DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 70
frasi con marche di valore negativo su 3100 parole
intervista maschile: 2% DEL TESTO E’ NEGAZIONE – circa 10 frasi con
marche di valore negativo su 500 parole
intervista maschile: 1,8% DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 45 frasi con
marche di valore negativo su 2500 parole
intervista maschile: 1,7% DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 20 frasi
con marche di valore negativo su 1150 parole
intervista femminile: 2,7% DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 60 frasi
con marche di valore negativo su 2200 parole
intervista maschile: 1,875 % DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 45 frasi
con marche di valore negativo su 2400 parole
intervista maschile: 1,4% DEL TESTO E’ NEGAZIONE – circa 38 frasi
con marche di valore negativo su 2700 parole
intervista femminile: 2,105% DEL TESTO E’ NEGAZIONE– circa 40 frasi
con di valore negativo su 1900 parole
Anche da questi pochi esempi, appare chiaro che il numero di negazioni è
maggiore nelle interviste femminili, confermando quanto detto sulla insicurezza
linguistica nel parlare delle donne25.
Non solo: un ulteriore categorizzazione – sebbene casuale e certo non
esaustiva – permette di osservare che queste non – frasi usate da donne,
indicano più spesso che nel discorso maschile, dubbio, sentimenti di
impossibilità, di inadeguatezza o, per restare su territori meno psicologici e più
linguistici, una propensione all’uso di forme e circonlocuzioni non direttamente
assertive.
Compaiono in effetti nelle interviste femminili molte più negazioni apparenti e/o
parziali, alcune delle quali con un effettivo valore stilistico – retorico e definizioni
per negazione, magari con valore avversativo esplicitato subito dopo, come a
voler rendere il dire meno definitivo e/o definitorio.
A questo proposito si possono definire, secondo una terminologia più
precisamente linguistica, queste negazioni, o non – frasi, come aventi un valore
“metalinguistico”, cioè come negazioni “capaci di intervenire su una porzione di
frase attraverso i significati di un particolare accento”. Di solito sono negazioni
24
Avendo scelto la via dell’esemplificazione, non si sono prese in considerazione altre forme di
negazione come per esempio: né… né; neanche, mai, nessuno, niente, etc…Tutte le negazioni considerate
in quest’analisi, sono evidenziate nelle interviste; per un repertorio completo cfr. collegamenti
ipertestuali.
25
Nota polemica: J. L. Austin in How to do things with words sostiene che “dire” è “fare”, quindi
l’insicurezza sarebbe anche stereotipo dell’agire femminile?
117
contrastive, basate sulla ripresa ecoica di una affermazione precedente o
successiva. La forma archetipo di questa negazione metalinguistica è la
costruzione non X, ma Y (cfr. Bouvier Y.- F., 2001: 15, in GG@G 2).
Sono queste, forse, le forme di negazione più femminili, perché in realtà non
negano in maniera definitiva, “logica”, l’intera frase (ponendo allo stesso livello,
rispetto alla negazione, tutti gli elementi componenti la proposizione), ma danno
un’enfasi negativa solo ad alcuni elementi.
Analizzando questo tipo di negazione in una logica stilistica, vi si possono
riconoscere svariate figure del discorso, dall’eufemismo, all’ironia, alla litote;
quindi si è scelto, nella nota che le contiene, di indicarle come “negazioni
apparenti, parziali e negazioni con valore retorico”.
Intervista 1 (per il testo Intervista 1 over 40 )26
Intervista 2 (per il testo Intervista 2 over 40 )27
26
(…) già prima con la realtà non avevo molto a che vedere = la realtà mi era abbastanza distante
NEGAZIONE APPARENTE; non è niente di strano = è normale NEGAZIONE APPARENTE VALORE
RETORICO; Prima comunque ero già in parte impostata male, ma non del tutto = solo in parte
NEGAZIONE PARZIALE; E non mi interessavano le cose che interessano alla maggior parte delle
persone NEGAZIONE PER DEFINIRE; ma non c’è solo questo = ma c’è dell’altro NEGAZIONE
APPARENTE VALORE RETORICO; ma non mi sono ancora del tutto… = ma spero ancora di…
NEGAZIONE APPARENTE; In fondo non è che non abbia lavorato = in fondo ho lavorato NEGAZIONE
APPARENTE; direttiva unica, cioè non economica ma di lavoro per la mia formazione DEFINIZIONE
PER NEGAZIONE; Non sempre il lavoro, almeno per me, coincide con l’occupazione = raramente
NEGAZIONE APPARENTE; ti si obbliga quasi a non lavorare bene = lavorare male NEGAZIONE
APPARENTE VALORE RETORICO; ma non è del tutto vero = forse è falso NEGAZIONE APPARENTE
VALORE RETORICO; io non mi considero deviante, mi considero diversa NEGAZIONE PER
DEFINIRE; E non voglio incensarmi = forse lo voglio NEGAZIONE RETORICA; Io poi nelle rinunce ci
sto bene, quindi questo mi aiuta, non mi pesano = le sopporto, ci sono abituata NEGAZIONE
APPARENTE; Secondo me non sbaglierò le favole = sbaglierò qualcos’altro NEGAZIONE APPARENTE
RETORICA; non indirizzate ad una occupazione, forse neanche ad una condivisione NEGAZIONE PER
DEFINIRE ; … non hanno retto gran ché = hanno retto poco NEGAZIONE APPARENTE VALORE
RETORICO; stare in una identità che non è la tua tutto sommato = diversa dalla tua NEGAZIONE
APPARENTE; io non sono così…NEGAZIONE PER DEFINIRE; Non è giusto neanche darsi così tanto
addosso = è sbagliato NEGAZIONE APPARENTE; Non salvo me stessa = in realtà salvo me stessa
NEGAZIONE RETORICA; perché prendevo delle iniziative, non sempre va bene NEGAZIONE
PARZIALE
27
(…) ma non a livello di professione, cioè per guadagnarci sopra…NEGAZIONE PER DEFINIRE; Non
quindi in una ditta grossa, (…) ma in posti più piccoli NEGAZIONE PER DEFINIRE/NEGAZIONE
APPARENTE; Chiaramente non sono una ragazza giovane = ormai sono anziana NEGAZIONE
RETORICA PER DEFINIRE; quindi non c’è nessun problema a lasciarmi una casa = si può, va bene
NEGAZIONE APPARENTE; non è un lavoro soddisfacente NEGAZIONE PER DEFINIRE; a meno che
non abbia carichi di “doveri” che sono generalmente i genitori anziani = può avere dei “doveri”….
NEGAZIONE APPARENTE; Mio padre, per esempio, non sta male = sta abbastanza bene NEGAZIONE
RETORICA; non un banchettino = un banco grande NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; se i miei
non si fossero incasinati a livello fiscale = i miei si sono incasinati….quindi NEGAZIONE
IPOTETICA/RETORICA; non si è curato troppo dei loro casi = si è curato poco NEGAZIONE
APPARENTE RETORICA; poi non era del tutto pagato = da finir di pagare NEGAZIONE APPARENTE;
oppure non è un buon insegnante = è un insegnante mediocre NEGAZIONE APPARENTE RETORICA;
non è tantissimo (che sono disoccupata) = è poco NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; non è proprio
immediato, occorre una certa precisione = è abbastanza difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA;
le speranze sotto non sono sempre così sorridenti = le speranza sono poche NEGAZIONE APPARENTE
RETORICA; comunque se non mi serve per lavorare mi piace NEGAZIONE IPOTETICA; Non che non lo
capisca (l’inglese) = lo capisco NEGAZIONE RETORICA APPARENTE; assumere persone non più
giovanissime = già più anziane NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; chiaramente non lo stesso
lavoro di una persona di 20 – 30 anni = un lavoro diverso NEGAZIONE PER DEFINIRE; Quello che non
118
Intervista 3 ( per il testo Intervista 3 over 40 )28
Intervista 4 (per il testo Intervista 4 over 40 )29
Intervista 5 (per il testo Intervista 5 over 40 )30
Intervista 6 (per il testo Intervista 6 over 40 )31
Intervista 7 (per il testo Intervista 7 over 40 )32
hanno curato = hanno trascurato NEGAZIONE APPARENTE; dell’assunzione di persone non più giovani
= più anziane NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; Carico sociale che comunque non viene assunto =
disatteso NEGAZIONE APPARENTE; quelle sono rimaste situazioni non remunerative per me
NEGAZIONE PER DEFINIRE.
28
Questa intervista maschile è particolarmente “scarna”…i riferimenti a questo documento saranno
quindi decisamente ridotti.
29
(…) ma non è facile per niente = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; invece…non ci
sono moltissimi sbocchi = ci sono pochi sbocchi NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; La situazione
italiana e ligure non è elastica, non è accogliente…NEGAZIONE PER DEFINIRE; ma non è facile
inserirsi neanche in questi ambiti qui = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; Mia moglie
non si vuole spostare…. = vuole stare qui NEGAZIONE APPARENTE; posso garantire che non è facile,
ricominciare = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; ma non è lo stesso facile = è difficile
NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; ma non è facile = è difficile NEGAZIONE APPARENTE
RETORICA;perciò non è facile = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA;Qui non ho nessuno
= sono solo NEGAZIONE APPARENTE; Sì, e non è facile = è difficile NEGAZIONE APPARENTE
RETORICA; …ma non è facile = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; io non ho mai visto
un paese libero, veramente, come l’Inghilterra = il paese più libero che… NEGAZIONE RETORICA
APPARENTE; relativamente al fatto che non sono italiano NEGAZIONE PER DEFINIRE; Ma non è
facile entrare a livello della grande distribuzione = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA;
ma non è facile = è difficile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; prodotti alimentari che qui non
sono conosciuti NEGAZIONE PER DEFINIRE.
30
(…) non è che sono proprio una guida…NEGAZIONE PER DEFINIRE; no, quest’ultimo non c’entra
niente = è tutt’altra cosa NEGAZIONE IDIOMATICA; Mah…un po’ sì, ma confuso, non definito
NEGAZIONE PER DEFINIRE; con un piccolo ritorno economico, non molto = piuttosto poco
NEGAZIONE APPARENTE; Non ho una compagna = sono solo NEGAZIONE APPARENTE; non mi
piegherei certo a tutti i compromessi NEGAZIONE RETORICA; Motivi che sono anche finanziari, certo,
ma non solo = anche altri NEGAZIONE APPARENTE; anche quello che magari non è propriamente una
competenza professionale NEGAZIONE PER DEFINIRE; Non sono molte cose, magari = sono poche
cose NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; non come esperienza professionale, ma come esperienza di
cose fatte e umane…NEGAZIONE PER DEFINIRE.
31
(…) però non come fotografa NEGAZIONE PER DEFINIRE; e non era neanche brutto = poteva anche
essere bello NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; non ci lavoravo sempre, ma… = ci lavoravo solo
ogni tanto NEGAZIONE APPARENTE; anche se non è che fosse quella gran cosa = era abbastanza brutta
NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; La mia sfiga, però, non solo mia, comunque = anche di altri
NEGAZIONE APPARENTE; quindi di collaborazioni non si parlava proprio = le collaborazioni sono
impossibili NEGAZIONE RETORICA; belle foto non necessariamente di lavoro NEGAZIONE PER
DEFINIRE; perché spesso il lavoro non…è bello = è brutto NEGAZIONE PER DEFINIRE/APPARENTE
RETORICA; Avrei proprio voglia di fare foto che non pagano NEGAZIONE PER DEFINIRE; In verità
forse non c’entra questo NEGAZIONE IDIOMATICA; Se tu non sei proprio disponibile al 1000 per 1000
= o sei disponibile al… NEGAZIONE IPOTETICA APPARENTE; Tanto più che io non sono una di quelle
donne in carriera NEGAZIONE PER DEFINIRE; vorrei che avessero una vita non proprio in salita =
abbastanza serena, facile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; per non avere poi la storia delle
stampe = evitarmi, risparmiarmi NEGAZIONE APPARENTE; non lo prenderei nemmeno in
considerazione a meno che non fossi proprio costretta = lo prenderei in considerazione solo se fossi
davvero costretta NEGAZIONE APPARENTE; io non vorrei né plasmare, né fagocitare NEGAZIONE
PER DEFINIRE; non è il mio carattere NEGAZIONE PER DEFINIRE; un figlio, che non è però molto
felice, ha problemi = è piuttosto infelice NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; Il fatto di dire non è la
quantità del tempo NEGAZIONE PER DEFINIRE; Devo dire che non ho ancora le idee molto chiare =
piuttosto confuse NEGAZIONE APPARENTE; che oggi non puoi neanche dire che è facile trovare lavoro
= oggi è difficile trovare… NEGAZIONE APPARENTE.
32
(…) non sconvolgente = normale NEGAZIONE APPARENTE; non completata = interrotta
NEGAZIONE APPARENTE; Ovviamente non era un contratto di lavoro fisso., cioè non era dipendente
119
Intervista 8 (per il testo Intervista 8 over 40 )33
Intervista n 9 (per il testo Intervista 9 over 40 )34
Se anche nelle interviste maschili appaiono un buon numero di frasi
caratterizzate da una marca negativa, è altresì da evidenziare che, per certi
versi, l’uso del non risulta avere un valore di senso positivo.
È il caso dell’intervista 4 (cfr. Intervista 4 over 40 ), dove molte delle negazioni
apparenti o con valore retorico utilizzate “ammorbidiscono” il significato di
affermazioni oggettivamente negative. Si conta, in questo documento, per ben
10 volte, la proposizione “non è facile”, il cui senso effettivo e affermativo è “è
difficile”, che viene decisamente risentito come negativo, rispetto al primo, che
invece comunica un senso di
maggior fiducia, possibilità di successo,
capacità35.
del Comune di Milano NEGAZIONI PER DEFINIRE; anche quello non finito = interrotto NEGAZIONE
APPARENTE; l’idea non era male, anzi = l’idea era buona NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; Non
tanto la formula…non scegliere le novità ….NEGAZIONE PER DEFINIRE; Non ha bisogno di una vasta
articolazione del prodotto, ma NEGAZIONE PER DEFINIRE; la possibilità di essere reclutato alla mia
età non è molto ampia NEGAZIONE = è ristretta RETORICA APPARENTE; hanno bisogno di un
porgitore, non di una persona consapevole quindi… NEGAZIONE PER DEFINIRE; non ho l’acqua alla
gola NEGAZIONE RETORICA; se io non avessi il tipo di famiglia che ho non potrei permettermi = con il
tipo di famiglia che ho, posso NEGAZIONI IPOTETICHE APPARENTI; io se non altro sono garantito =
comunque NEGAZIONE IDIOMATICA; non di lavoro ma di volontariato NEGAZIONE PER DEFINIRE;
non ha avuto una storia, ma mi sarebbe piaciuto = si è conclusa NEGAZIONE APPARENTE; se non riesci
a realizzare in poco tempo un giro d’affari = devi realizzare….oppure NEGAZIONE IPOTETICA/
APPARENTE; si è arrabbiata molto perché non avevo chiamato = perché avrei dovuto chiamare
NEGAZIONE APPARENTE; lì non c’è tanto la presentazione di un curriculum quanto una serie di
competenze di valore umano… = vale più una serie di competenze umane che… NEGAZIONE
APPARENTE; i risultati non sono stati positivi = sono stati negativi NEGAZIONE APPARENTE
RETORICA; Certo non rifiuterei… = accetterei NEGAZIONE APPARENTERETORICA; io in questa
operazione ho bruciato i miei risparmi e non solo quelli NEGAZIONE APPARENTE; senza un
investimento specifico se non le competenze e le spese vive = oltre le… NEGAZIONI APPARENTI
33
(…) Cioè non è che aiutasse, però di fatto = di fatto aiutava NEGAZIONE RETORICA; “Ma cosa fate,
tanto non avrete lunga vita, finirete subito…” NEGAZIONE APPARENTE; Finché non ebbi un infortunio
sul lavoro = finché ebbi NEGAZIONE APPARENTE; Io sono uno che non sta mai fermo NEGAZIONE
PER DEFINIRE; Sinceramente non ho mai neanche avuto tanta fiducia nei concorsi… = ho poca fiducia
nei concorsi NEGAZIONE RETORICA APPARENTE; anche in modo abbastanza negativo, non amici, ma
si odiavano… = nemici NEGAZIONE APPARENTE; non posso dare responsabilità a nessun altro se non
a me… = solo io sono responsabile NEGAZIONE APPARENTE; Rispetto al lavoro non ho nessuna
chiusura = sono del tutto aperto NEGAZIONE APPARENTE; effettivamente non c’è spesso il piacere
delle cose belle = raramente c’è NEGAZIONE APPARENTE; Non ho nessuna preclusione = sono aperto
NEGAZIONE APPARENTE; Ma anche per richieste generiche non c’è problema = vanno bene anche
NEGAZIONE APPARENTE; e non voglio che succeda questo = voglio dell’altro NEGAZIONE
APPARENTE; non mi posso vedere come uno che fa tutti i giorni NEGAZIONE PER DEFINIRE; magari
non ho la manualità, ma ho altri mezzi NEGAZIONE APPARENTE.
34
(…) non era una formazione professionale NEGAZIONE PER DEFINIRE; chi si è proposto non era poi
veramente motivato…. = era poco motivato NEGAZIONE APPARENTE; non è che ce ne siano pochi di
traduttori… = ce ne sono parecchi NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; spesso non in regola
NEGAZIONE PER DEFINIRE; quindi come curriculum non è gran ché presentabile = è poco
presentabile NEGAZIONE APPARENTE RETORICA; Non sono mai stata benestante, anzi forse un po’
meno… NEGAZIONE PARZIALE/APPARENTE; ma le prospettive non sono tanto rosee = sono piuttosto
grigie NEGAZIONE RETORICA APPARENTE; Ma qui non è come in Germania = in Germania è diverso
NEGAZIONE APPARENTE; però forse non mi interessa neanche il lavoro fisso = mi interessa il lavoro
occasionale NEGAZIONE APPARENTE; anche perché non sono portata ai lavori tipo commessa,
cameriera NEGAZIONE PER DEFINIRE.
35
È singolare, come quest’intervista, che io ho titolato “Io sono bravo”, presenti una straordinaria
occorrenza di termini legati ai concetti di facile e difficile. Oltre a quelli citati, infatti vi compaiono
120
A questo atteggiamento si farà di nuovo riferimento analizzando, secondo un
setaccio non più sintattico ma semantico, l’ambito lessicale della capacità e/o del
giudizio.
La negazione si presenta di nuovo come fortemente legata al genere quando si
intenta una indagine sulle occorrenze di dubbio: la negazione si presenta
normalmente anche in questo caso in proposizioni come “non so, non saprei,
non si sa…”.
Per esempio, su un campione di quattro interviste femminili e quattro interviste
maschili, in tutte le prime (cfr. Intervista 1, Intervista 2, Intervista 6 e Intervista 9)
compaiono espressioni di dubbio quasi tutte rese alla prima persona e al modo
indicativo36; mentre, tra le seconde, (cfr. Intervista 4, Intervista 5, Intervista 7 e
Intervista 8) soltanto due documenti presentano espressioni di dubbio e, quando
queste occorrono, hanno modalità diverse dalle stereotipie femminili, meno
insistenti sulla soggettività del parlante, anzi rivolte all’esterno o addirittura con
funzione retorica; quest’ultima è indicativa perché sotto la forma del dubbio
esprime in realtà una certezza (“E non so quanto abbia potuto contare”),
riportando il discorso alle valenze assertive definite dalle stereotipie maschili37.
Sempre in questa direzione, a ulteriore conferma, si possono indagare le
occorrenze di modo verbale, essendo quelli tipici del dubbio il condizionale e il
congiuntivo, la frequenza di strutture verbali modali e/o servili e di avverbi e
locuzioni avverbiali dubitative, come forse, magari …
Le occorrenze dell’avverbio forse si attestano intorno a valori piuttosto
uniformi38; spesso sono all’interno di proposizioni che contengono forme verbali
al modo condizionale. Comunque anche la presenza di forme verbali al
condizionale e al congiuntivo, andrebbe analizzata più attentamente (non solo
rispetto alla quantità, ma anche alla qualità delle forme), perché si presenta sotto
diversi aspetti: la stessa forma a volte indica dubbio, certo, ma altre volte è
marca di desiderio, speranza, possibilità39.
•
•
individuare occorrenze a livello lessicale (parola soprattutto in quanto
significato)
confrontare e interpretare il risultato delle diverse “collazioni”.
Si riduce la “misura del setaccio”: si passa dalla proposizione alla parola, quindi
ci si ricollega ai temi, alle macroaree. Anche in questo caso, la tesi da
dimostrare a livello sociolinguistico, è la presenza lessicale di marche di
ripetutamente le parole: “problemi, difficile, facilità, fatica, difficoltà,…”. Anche l’explicit (quanto meno
quello “ufficiale”) è sotto questo segno: “questo rende tutto più difficile…”.
36
Su un totale di 18 proposizioni indicanti il dubbio (di cui 9 tutte nella stessa intervista), 16 sono
espresse alla prima persona, 1 alla seconda ed una alla forma impersonale; 17 sono espresse dal verbo
“sapere”, 1 dal verbo “credere”; 17 sono al modo indicativo e 2 soltanto al condizionale; l’uso
dell’indicativo, contrariamente a quanto si penserebbe, mostra una forma di dubbio più forte.
37
Le proposizioni che presentano marche di dubbio nei documenti maschili sono 8 in totale; si contano 4
indicazioni alla prima persona, di cui 3 al modo indicativo ma riferite ad altro (per es.: non so che, non so
per che…) ed una al condizionale; una è alla forma impersonale, un’altra usa il verbo “sembrare” meno
significativo di “sapere”.
38
Si va da un minimo di 2 occorrenze, in una intervista però estremamente lacunosa, ad un massimo di 6;
solo l’intervista 1, femminile, presenta ben 23 avverbi dubitativi!
39
Ancora sull’intervista 1: sono presenti ben 18 forme di condizionale, molte sono strutture modali e
quasi tutte sono accompagnate dall’avverbio “forse”.
121
insicurezza linguistica, quindi l’esistenza o, quanto meno, l’ “esistenza in uso” di
un socioletto femminile.
Alle macroaree possono essere associati campi lessicali come: la famiglia, il
lavoro, il piacere, l’età, il giudizio. Per ognuno di questi campi si può individuare
una rete semantica (cfr. quanto si diceva a proposito del valore connotativo e
associativo che ogni parola accosta al suo senso denotativo); il risultato sarà
dunque una serie di parole, che si associano a formare una categoria, un
grande concetto.
Per esempio:
• al campo lessicale della famiglia si ricollega la rete semantica composta
da madre, padre, mamma, papà, figlio, bambino, affetti, ruoli, doveri, …;
• a quello del lavoro professione, professionalità, mestiere, competenza,
carriera, successo, nonché tutti termini più o meno specifici legati alle
tipologie contrattuali, ai lavori stessi…;
• a quello del piacere passione, voglia, desiderio, amore, disagio,
costrizione, scelta,…;
• a quello dei soldi reddito, guadagno, stipendio, remunerazione, …;
• a quello del giudizio capace, incapace, bravo/a, riuscire, riuscita,
competente, efficace, bene, male, sicuro, insicuro….;
• e infine collegate all’età parole come anni, giovane, vecchio, anziano, ….
Evidentemente questa serie è personale e non esaustiva.
Si può pensare, comunque, di indagare anche su parole isolate, ma
particolarmente indicative di uno status, linguistico, sociale o professionale
interessante e, questo, sempre in una logica di reperimento di indicazioni di
differenze di genere40.
L’età
Considerato che l’altro polo di indagine del progetto OVER 40, oltre al genere, è
proprio l’età, si può procedere ad indicare le occorrenze legate all’ambito
anagrafico.
È singolare che la parola età compaia solo in 4 interviste su 9 (più precisamente
Intervista 2, Intervista 5, Intervista 7 e Intervista 9 ) per poche volte e solo
nell’Intervista 7 si considera esplicitamente questo come un motivo di difficile
(re)inserimento o di esclusione dal mondo del lavoro41.
Quasi lo stesso accade con vecchio/a/i, giovane/i, che compaiono, per altro,
nelle stesse interviste dove già si contavano le occorrenze di “età” e
nell’Intervista 8.
Anche in questo caso la situazione sembra non essere assolutamente risentita
come personale e connessa ai motivi di non lavoro; infatti spesso giovane/i è
usato dall’intervistato - in modo retorico - per definire se stesso, per negazione
(cfr. Intervista 2), mentre la parola vecchio/a, addirittura, compare solo 1 volta
nell’Intervista 4 riferita al padre, 1 volta nell’Intervista 8, in senso “idiomatico”
40
Questa parte dell’analisi verrà condotta “random”: una sorta di paragrafo – ripostiglio conterrà tutte le
parole, occorrenze, specificità in qualche modo non codificabili, ma ritenute interessanti.
41
Intervista 7, maschile: “La possibilità di essere reclutato alla mia età non è molto ampia…o c’è una
ricerca specifica e allora ci sono limiti di età abbastanza rigidi, di solito 35 – 40 anni, oppure si tratta di
vendita diretta oppure…Se no chiedono un limite d’età…”.
122
collegata ad amico e un’ultima volta nell’Intervista 9, finalmente riferita
dall’intervistata a se stessa, ma non con valore assoluto, semplicemente di
confronto con un gruppo di età più bassa!
Per quello che riguarda la parola anni, fatta a priori una prima distinzione,
assolutamente intuitiva, tra il significato legato alla durata e quello connesso
all’età, si ripresenta una situazione analoga. Le occorrenze della parola nel
contesto indagato sono poche; soltanto nell’Intervista 2, nell’Intervista 7 e
nell’Intervista 8 gli anni acquistano il valore associativo che ci interessa ora di
limite d’età e/o motivo di esclusione; ma è solo l’Intervista 8 a definire questo
concetto (sia pure con un’esitazione resa nella trascrizione dai puntini di
sospensione prima del predicato nominale) con sicurezza:”ma sembra che a 43
anni uno sia…finito”.
Al contrario, l’Intervista 6, in prima istanza definisce come problematici i 42
anni, rivalutati subito dopo perché “…potrebbero essere anni di esperienza”.
Nell’Intervista 2, poi, ricorre l’espressione data di nascita, in una proposizione
che a prima vista sembra la tematizzazione di un motivo di esclusione, ma che
è subito “ammorbidita” da un’indicazione condizionale di dubbio42.
Il lavoro
Se il campo lessicale dell’età non ha dato adito ad una interpretazione di
genere, molto più indicativo da questo punto di vista sembra essere quello del
lavoro: professione, professionalità, mestiere, stipendio, reddito, competenza,
carriera, successo, e di conseguenza delle tipologie contrattuali, linguaggi
tecnici e di specialità.
Si è a contatto con la lingua del pane, dichiaratamente uno stereotipo maschile.
La parola che si presenta più frequentemente è quella che si potrebbe definire
iponimo: nel caso di questo campo lessicale, quindi, lavoro è numericamente
più frequente dei suoi sinonimi, professione, mestiere, professionalità,
riportando il registro ad una lingua standard, e dei possibili iperonimi43, che
limiterebbero certo il valore associativo al solo ambito di “quel” lavoro, per
esempio fotografo, professore, avvocato, medico44. Essendo questo, infatti, il
termine “base”, è anche quello che si presta ad essere connotato e associato in
maniera immediata e più vasta, che quindi si presta ad assumere significati
diversi. È il caso, per esempio, dell’Intervista 1, dove la parola lavoro compare
ben 25 volte, quasi sempre senza riscontro di senso occupazionale, ma inteso
come formazione, attività, crescita, studio.
La parola lavoro , dunque, è più frequente, proprio in questo senso – di
maggiore indeterminatezza semantica, di maggiore “associabilità” e di
conseguenza di minore determinatezza professionale – nelle interviste
femminili; in quelle maschili compare numericamente meno e, nelle Interviste 7
42
“…ma probabilmente vedono la data di nascita e…non saprei dire in che misura possa contare la data
di nascita”.
43
Iponimo e iperonimo indicano, il primo, il “nome categoria”, il secondo “l’individuo all’interno della
categoria”; per esempio fiore è iponimo e tulipano, rosa, garofano, margherita sono iperonimi della
stessa categoria.
44
Intendiamoci: i nomi d’agente scelti sono casuali e assolutamente privi di determinazioni volontarie di
genere!
123
e 8 è spesso all’interno di espressioni composte e obbligate, come mondo del
lavoro, libretto di lavoro, infortunio sul lavoro, …45.
I sinonimi di lavoro praticamente non compaiono; professione ricorre solo 1
volta nell’Intervista 2 sotto forma di definizione per negazione46 ed 1 volta
nell’Intervista 9 esattamente come sinonimo, occorrendo nella stessa
proposizione tutte e tre le parole indagate: lavoro, professione, mestiere.
Mestiere si presenta un’altra sola volta, nell’Intervista 747, assumendo il senso
di frequentazione, abitudini, competenza acquisita.
Lo stesso si può dire, senza nessuna differenza di genere, per professionalità48,
parola che ha, però, una valenza meno “pratica”.
Competenza/e anche ricorre poco: mai nelle Interviste 3, 4, 5, 8, 9.
Nell’Intervista 1, addirittura, la prima volta è seguita da un punto interrogativo, la
seconda è inserita in una proposizione comparativa con valore negativo49.
Nell’Intervista 7, quella dove la parola compare più spesso – 4 volte – la si trova
per 3 volte accompagnata da determinazioni d’ambito e una sola volta in senso
generico. Questa parola, forse, tra quelle della rete semantica del lavoro, è
quella che di più offre la possibilità di relazionare questo campo lessicale con
quello, altrettanto significativo, del giudizio.
Carriera compare solo 2 volte: in un’intervista femminile, l’Intervista 6, assume
tratti decisamente negativi; nell’Intervista 8, maschile, al contrario, assume una
valenza positiva, determinata dal valore associativo di quanto la segue nella
proposizione50.
Dopo quanto rilevato, non è strano che la parola successo non compaia mai.
I soldi
Anche per il campo lessicale dei soldi è la forma iponima, standard, generica e
quindi facilmente connotabile e associabile, a presentarsi col maggior numero di
occorrenze51; ed il maggior numero di occorrenze - in questo senso
“indeterminato” – è proprio, ancora, nei documenti di “lingua di donne”.
Sia stipendio52 che reddito53, che guadagno54compaiono pochissimo.
45
Interviste femminili: 1 e 2 – compare 25 e 26 volte “lavoro” in senso molto generico, quindi
assolutamente poco connesso alla lingua del “pane”; 6 – 14 volte; 9 – 15 volte anche in espressioni come
mondo del, libretto di, etc.
Interviste maschili: 3 – non compare mai; 4 – 3 volte e 5 – 5 volte; 7 – 11 volte di cui una come
definizione per negazione “non di lavoro, ma di volontariato”. Fuori dallo schema l’Intervista 8 – 18
occorrenze, però alcune in situazioni linguistiche che potremmo definire “idiomatiche” (mondo del
lavoro, infortunio sul lavoro, etc)
46
E tra l’altro, con una chiarificazione singolare subito dopo, che connota negativamente la parola “…,
cioè per guadagnarci sopra”.
47
“sia per formazione che per mestiere”.
48
Compare 2 sole volte nell’Intervista 8; mai nelle altre.
49
“Ecco, quali sono le mie competenze?” e “…lui è normale, ma le sue competenze ce l’ha, io non
sempre”.
50
“io non sono una di quelle donne in carriera” e “fare carriera, imparare, guadagnare anche”.
51
Nelle Interviste 3, 5 e 7 non compare mai; nelle Interviste 2, 4, 6, 8, e 9 compare rispettivamente 4, 2,
2, 3 e 3 volte
52
Solo nelle Interviste 2, 5 e 7 e solo per 2 volte ognuna.
53
Nelle Interviste 3, 4, 5, 6, 8 e 9 non compare mai; nelle Interviste 2 e 7 una sola volta.
54
Nelle Interviste 3, 4 e 5 per una sola volta ognuna.
124
Forse un po’ stranamente, nell’Intervista 1, soldi compare ben 6 volte come
sostantivo e una volta come riferimento pronominale, e , allo stesso modo,
reddito vi compare 7 volte; la sensazione immediata è che quanto minore è, o è
stato, il rapporto con il reale “mondo del lavoro”, tanto maggiore è la frequenza
di vocaboli indeterminati, potremmo dire, secondo l’ottica presentata più sopra,
femminili per parlarne.
Esattamente il contrario si riscontra nell’Intervista 4, che oppone
all’indeterminatezza tutta femminile dell’iponimo, una precisione “maschile” che
si spinge a dichiarare il compenso rifiutato (“motivo di auto-esclusione”,
potremmo definirlo) e quello auspicabile: si parla di fisso e commissioni, facendo
riferimento ad un contesto linguistico che si presume condiviso55 e
quantificandoli in milioni.
Nell’Intervista 2, ugualmente, si quantifica il risultato di un lavoro, ma di un
lavoro socialmente ritenuto femminile e in maniera economicamente
“femminile”56
La famiglia
Passando ad indagare il campo lessicale della famiglia si giunge subito in un
territorio ricco di implicazioni di genere: approcciandolo linguisticamente, si
contano molte occorrenze nei documenti di donne, poche in quelli degli uomini;
approcciandolo sociologicamente, secondo le istanze del progetto OVER 40, si
rintracciano, connessi a questo ambito, molti argomenti che possono essere
considerati “motivi di (auto)-esclusione” 57.
E, comunque, se le uniche due volte che si parla di calcio, lo si fa nelle interviste
maschili58, niente di strano che tutte le donne parlino della famiglia.
Per non limitare tutto ad computo astratto, si può riconsiderare qualche tratto
stereotipo del parlare femminile, che compare in alcuni dei documenti.
È interessantissima a questo proposito l’Intervista 6; la famiglia vi compare sia
come famiglia di provenienza che come nucleo famigliare attuale.
Nel primo caso ha una forte valenza formativa e decisionale rispetto al lavoro
scelto dall’intervistata: la passione/professione del padre59 diventa anche la sua;
55
Intendo dire: l’intervistato condivide con l’intervistatore un linguaggio - in qualche modo speciale - che
presuppone lo stesso tipo di conoscenza del mondo, per cui è chiaro ad entrambi che “fisso” è relativo a
“stipendio” e “commissioni” non sono quelle che si fanno al mercato. Interessante anche perché il ruolo
dell’intervistatore viene riconsiderato, mettendo in secondo piano il genere (intervistatore=F;
intervistato=M) e l’età intervistatore<intervistato).
56
“…se riesco a fare due ore in una casa alla fine del mese prendo 200 euro (…), niente”.
57
Si possono anche considerare i diversi registri di linguaggio associati a parole “di famiglia”
negli uomini e nelle donne, cosa che però induce ad essere forse troppo – e arbitrariamente –
psico-interpretativi. Si indicherà dunque solo il percorso. Per parlare di “registri” linguistici, quindi,
si può evidenziare che, di norma, il genitore più nominato è anche quello per il quale si usa un
registro d’affetto e non solo un registro standard, cioè mamma e papà al posto di madre e
padre.Questo si risente nell’Intervista 1, dove “padre” ricorre 8 volte e il sostantivo dell’affetto
“papà” 2, in posizione forte di incipit, contro 1 sola occorrenza standard di “madre; e
nell’Intervista 8, dove per la “madre” ricorre anche la lingua dell’affetto con il termine “mamma”,
mentre il “padre” è nominato solo nel registro base.
58
Intervista 4 e8!
59
“mio padre” viene nominato 6 volte, contro 1 unica occorrenza di “mio fratello” e di “mia madre”.
125
nel secondo viene fatta una precisa scelta linguistica, che si cerca qui di
spiegare.
Evidentemente compaiono i sostantivi figli, madre, bambini, riferiti a se stessa e
a terze persone ed una ricca rete pronominale connessa a questi sostantivi, ma
la propria famiglia viene altrettanto spesso indicata con i nomi di battesimo:
Giovanni, Sara, Niccolò, Luca, infatti se “La familiarità tra donne porta all’uso del
nome di battesimo” (cfr. Yaguello M., 1978, 2002:60), è possibile estendere
questa affermazione anche a situazioni di interazione verbale che sono risentite
come paritarie, nel genere e, in certa misura, anche nell’età.
In generale la famiglia, intesa soprattutto come “nucleo famigliare attuale”, viene
considerata come un condizionamento, a volte esplicitamente, come in certe
interviste maschili, più indirettamente in quelle femminili.
Per esempio: nell’Intervista 5 e nell’Intervista 8 si dice “Non ho una compagna, i
miei genitori sono deceduti, ho un fratello. Io mi preoccupo sostanzialmente per
me …e per la gatta”e “non ho nessun condizionamento: non sono sposato,
convivo, non ho figli”; nell’Intervista 3 si dice “…quindi ho smesso…cioè ho
dovuto rallentare un po’ perché c’è stato il bambino: quindi anche impegni di
famiglia, i due bambini piccoli che limitavano un po’ il tempo e la libertà di essere
sempre fuori di casa come prima”, stranamente proponendo una preclusione di
tipo femminile, la stessa che si percepisce, anche se “gradita” e accettata
nell’Intervista 6: Lui ha continuato a fare il fotografo, io sono rimasta incinta di
Niccolò (…). Qua arrivano i primi figli (…) perché Sara è arrivata subito dopo
(…) E comunque io a loro devo dedicare del tempo, devo e voglio (…) E non
posso nemmeno impegnarmi su tempi troppo lunghi perché loro hanno esigenze
immediate e anche una serie di variabili…che magari ti alzi per l’appuntamento
che hai preso e hanno la febbre (…)” e nell’Intervista 9, dove oltre ai figli
compare il marito: “(…) anche quando è nata mia figlia continuavo a fare mezza
giornata; ma con due figli era più difficile (…) E così ho rinunciato …anche
perché a lui dava moltissimo fastidio”.
Una trattazione a parte, piuttosto divertita, benché connessa a quanto sopra,
merita l’Intervista 4, che risente, in qualche modo, di un condizionamento
determinato dalla moglie. L’intervistato, che in realtà si dichiara solo60 continua a
nominare la moglie61, facendone per altro causa e effetto di situazioni non facili e
di limitazioni professionali.
Facendo il “conto della serva” – espressione paradigmaticamente e socialmente
di genere – nelle interviste femminili, Intervista 1, 2, 6 e 9, si contano
rispettivamente 25, 12, 30 e 13 occorrenze di nomi legati al campo lessicale
delle famiglia62; nelle interviste maschili, Intervista 3, 4, 5, 7 e 8 se ne trovano 3,
2263, 5, 8 e 13.
60
“Una cosa è quando uno ha una famiglia, io qua ho – sì – una moglie, ma sono praticamente solo”.
7 volte, ma si intende che una precedente situazione matrimoniale determina “condizionamenti” altri.
62
Non si sono considerate le reti pronominali.
63
L’Intervista 4 alza la media maschile, ma resta comunque sui generis, per la scissione tra ruolo della
famiglia attuale e della famiglia di provenienza e, anche, per la già citata sindrome del Tenente Colombo!
61
126
Il giudizio
Il giudizio su di sé, sugli altri, sul proprio agire professionale, sulla presunta,
possibile o certa riuscita: anche se estremamente importante, questa rete
semantica è poco rappresentata.
Quasi nessuno dei locutori si prende la briga di dichiararsi capace/incapace o di
dichiarare le proprie capacità/incapacità64.
Anche definirsi bravo/a riesce a pochi e, sebbene, le occorrenze riscontrate
vadano proprio nel senso stigmatizzato dal concetto di insicurezza linguistica,
pare difficile e pretestuoso generalizzare con così pochi riscontri65.
Lo stesso concetto di miglioramento viene espresso solo in due interviste
maschili, la 4 e la 8, per due sole volte ciascuna.
Facile e facilità, difficile e difficoltà sono invece i concetti più utilizzati: compaiono
almeno una volta in tutte le interviste66, quasi sempre attribu(i)ti a situazioni
esterne, risentite come oggettive. Contraltare di questa rilevazione, l’altro
concetto molto presente67, quello della riuscita: l’idea espressa da quasi tutti i
documenti è del tipo “non è facile…., quindi non riesco….” oppure “è difficile….,
quindi non riesco”.
L’Intervista 1, femminile, è, quanto meno come scelte linguistiche, esemplicativa.
Vi ricorre per 17 volte il concetto di riuscita, inteso insieme come occorrenza del
sostantivo e di forme verbali; più della metà di queste occorrenze è all’interno di
proposizioni negative o dubitative e, anche negli altri casi, si risente, a livello
associativo, di una qualche forma di negatività; una sola volta il “non riuscire” è
rivolto a terzi68. Contemporaneamente è l’unico documento dove si legga la
parola fallire, non in senso economico69 e dove ricorra più volte il verbo
sbagliare.
64
Nell’Intervista 4 compare 1 sola volta capace, ma riferito a terzi; capacità, invece compare 2 volte
nell’Intervista 2 riferito all’intervistata:mie e di testa; poi altre 2 volte nell’Intervista 7 e una volta occorre
col significato di “possibilità finanziarie”; nell’Intervista 4 compare 1 volta accompagnato da “troppe”.
Incapace e incapacità non compaiono.
65
Nell’Intervista 1- femminile - bravo compare 2 volte in frasi comparative tipo “lui è più bravo di me”;
brava compare 1 sola volta, riferito dall’intervistata a se stessa, ma preceduto significativamente dal
verbo “pare”; nell’Intervista 4 – maschile - bravo compare 2 volte (sempre riferito dall’intervistato a se
stesso) in una proposizione ipotetica con valore retorico “se sono bravo, allora…”.
66
Tranne che nell’Intervista 3, che però come già detto, è estremamente lacunosa; nell’Intervista 5
difficile compare due volte legato all’idea della professionalità da acquisire e dimostrare: “è difficile se
non sei bravo…”.
67
Di nuovo in tutti i documenti, tranne l’Intervista 3 e 5.
68
Si riporta il repertorio dell’Intervista 1 a questo proposito: Non riesco bene a dirlo, né a governare bene
questa cosa, altrimenti sarebbe facile per me anche risolverlo. (…) cerco di risolvere e non ci riesco, ma
non mi sono ancora del tutto…(…) In fondo non è che non abbia lavorato; sono riuscita a fare anche dei
lavori…(…) Sono riuscita a non (…) Io non sono mai riuscita (…) e allora riesco ad entrare – oppure (…)
Poi sono riuscita ad avere occupazioni che erano delle reali sotto occupazioni, per me (…) Però riuscire a
fare di quello un lavoro, entrando in una cooperativa, a me non è riuscito (…) sono riuscita comunque a
farmi male alla schiena e a farmi operare (…) ma forse c’è un motivo, che ho capito e riesco a spiegare
abbastanza bene (…) Comunque appena riesco a capire perché non ho fatto la ballerina ti telefono (…) Sul
part time credo che riuscirei a reggere anche cose che non mi interessano (…) se riesco – già mi viene un
peso qui che non ti dico…(…) e poi come faccio se non riesco ad averlo (…) Ci sono riuscita anche perché
c’è poco lavoro (…) non lavorano perché non ci riescono, non lo trovano
69
Iniziare di nuovo un’altra attività e farla fallire come con tutte le altre, mi fa sentire un po’ male,
comunque…
127
Sempre nella stessa intervista l’idea di difficoltà è legata ad un accenno di
analisi di genere, riferita alle scelte professionali “non fatte” in un certo ambito,
ma poi allargata, in cui si fa notare appunto la difficoltà per una donna di
emergere, anzi di concepire la propria “emersione”; risulta inoltre molto strano
proprio perché l’ambito professionale negato è quello della danza, che
storicamente e socialmente è legato al femminino.
A ulteriore conferma, il fatto che la parola insicurezza compaia due volte e una
volta compaia sicurezza, nel senso però di “mancanza di…”, sempre con valore
psicologico.
Nell’Intervista 5, maschile, per esempio, sicurezza compare due volte, in
associazione ad una mancanza appunto, ma con un esplicito valore economico.
Qualcosa sull’Intervista 4, maschile, rispetto all’uso di facile, difficile e dei relativi
sostantivi, si è già detto parlando della negazione. Questo ambito, considerato
nel suo insieme più vasto, presenta ben 26 occorrenze; si può arrivare ad
associare l’ambito del difficile (e quindi del non è facile) ad un generico “qui, ora”
e quello del facile ad un “altrove, prima”, sempre però utilizzati con riferimenti
esterni al locutore, per esempio, mai seguiti da un “per me”, quindi senza
un’assunzione di responsabilità da parte del parlante – agente.
Questo punto viene ribadito, linguisticamente, anche dalle occorrenze del
concetto di riuscita: su 6 proposizioni che lo contengono, una soltanto si
presenta alla prima persona e con un valore solo parzialmente positivo70.
Negli altri documenti il rapporto tra riuscire e non riuscire appare equilibrato,
anche rispetto al genere dei locutori; mentre per facile e difficile si presenta una
maggior predisposizione al negativo.
Per concludere, senza però sistematizzare un repertorio, che risulterebbe per
altro non esaustivo, si può notare che nei documenti femminili si contano
proposizioni/giudizio che si differenziano da quelle maschili per la minore
incidenza e la minore esplicitazione dei significati. Si va dal “chiaramente in 52
anni di cose ne ho fatte”71, al “ho fatto anche delle belle cose” e “mi sento di dire
che ho il diritto adesso di fare qualcosa di bello” (dove si intuisce che averne il
diritto è anche averne le capacità)72.
I documenti maschili tendono ad essere più diretti: si va dalle conoscenze, alla
consapevolezza, al ruolo di mediazione e di proposta di una certa forma di
cultura73, alla dichiarazione che “molte volte la formazione e l’esperienza che le
persone hanno(…) imbarazza…Ma sono forme di ignoranza; si generalizza;
sono persone che hanno un grado culturale molto basso e non sanno con chi si
confrontano”74.
Anche dove viene posto l’accento sullo sbaglio si pone rimedio con l’esperienza
e l’intelligenza applicata75.
70
“Per un po’ sono riuscito a fare tutte le cose, poi però…”
Intervista 2
72
Intervista 6
73
Intervista 7
74
Intervista 4
75
Intervista 8
71
128
Random tra i documenti
Linguaggi settoriali, lingua della casa e lingua del pane, passioni, piaceri negati, futuro
e sogni
Quest’ultimo paragrafo di analisi vuole essere un “ripostiglio” di parole,
proposizioni e accenni che non hanno trovato una loro sede dichiarata ma che
mostrano comunque un qualche valore “aggiunto” di interesse rispetto a quanto
detto finora.
Verrà dunque proposta una conclusiva panoramica su alcuni degli argomenti
tematizzati dagli intervistati, su alcune parole dette e su altre “non dette”.
Un buon punto di partenza può essere l’Intervista 7, un documento maschile, un
po’ fuori dal coro per quanto riguarda la trattazione della macroarea/tema
famiglia, che vi è raccontata infatti come una “fortuna” e una ragione di
“privilegio”; si dice infatti “Dicevo che sono particolarmente fortunato. Io sono
sposato, ho un figlio…e un cane”.
Quello che ci interessa qui indagare è il linguaggio con cui si parla della moglie,
che riveste un ruolo economicamente tranquillizzante e per la quale viene usata
una “lingua del pane”, facendo sì che - rapidamente - l’ambito linguistico si
sposti dalla famiglia alla professione: il lavoro che la moglie fa è descritto con
una terminologia tecnica, di settore (secondo un modo, quindi, maschile); è
medico, ma al tempo stesso ricercatrice; il marito, fortunato, si dichiara per il
momento casalingo.
La stessa inversione nell’uso dei nomi d’agente, più semplicemente quei nomi
che indicano le professioni, si trova nell’Intervista 9, dove il fatto di avere un
lavoro riconosciuto socialmente darebbe modo all’intervistata di permettersi “la
donna, o l’uomo delle pulizie”.
Questi due “quasi-neo-logismi” confermano per contrasto quanto detto da
Yaguello, cioè che sono le professioni non manuali, quelle che conferiscono il
maggior prestigio sociale e che storicamente e socialmente sono risentite come
maschili, a mostrare le resistenze più forti rispetto alla loro flessione al
femminile; ugualmente di alcune professioni socialmente femminili si fa difficoltà
ad accettare l’uso della forma maschile76.
L’Intervista 1 elenca tra i lavori fatti e quelli non fatti l’insegnante, la bibliotecaria,
l’educatrice, la ballerina, tutti nomi d’agente declinati (tranne “insegnante” che è
neutro e, forse per questo, risente meno di un valore negativo rispetto alla
possibile scelta di “professoressa”).
Bibliotecaria e insegnante ricorrono anche nell’Intervista 2: il primo termine
indica il lavoro auspicato, il secondo quello rifiutato a priori “perché secondo me
ci nasci, non lo impari”. Risulta piuttosto singolare in questo documento la scelta
linguistica applicata per definire i lavori fatti, cercati o desiderati, che sono
“raccontati” grazie a circonlocuzioni, proposizioni agganciate ad altre
proposizioni esplicative, chiariti rispetto alle competenze o alle funzioni, ma mai
assertive e certe. Anche il lavoro/passione, quello “in mezzo ai libri”, è definito in
questo modo e paradigmaticamente la frase si conclude con un “non so…”.
Invece di risentire questo fatto come una marca di insicurezza linguistica, cioè di
femminile incapacità definitoria in ambito professionale, sembra quasi che in
questo modo si arricchisca il ruolo lavorativo d’altro: l’intervistata ha fatto
76
Per una trattazione più vasta, cfr. Yaguello M., 1978, 2002:147 – 169.
129
sostanzialmente la fruttivendola, ma parla di gestione di un banco, che “vuol dire
comprare, vendere, gestire il personale, rapportarsi con le banche, tenere la
contabilità”, insieme di competenze che le servono per proporsi poi come
contabile, altro nome d’agente neutro. Riferimenti al maschile si trovano,
comunque, in questo documento, per figure professionali basse, manuali come
operaio, commesso.
Nell’Intervista 6, in cui la locutrice si dichiara fotografa (prima usando l’indicativo
e poi correggendo con un condizionale la sua situazione professionale) sia
nell’incipit che a conclusione del primo “paragrafo di conversazione”, dove di
nuovo si usa una forma negativa77, compare una nota di genere importante. Si
ritrova infatti una rete associativa che connette la donna in carriera a quelle
donne/mamme che “danno lavoro a qualche altra donna, l’avvocato con la
segretaria, per esempio”. La rete comprende studio, lavoro, ma anche stress e il
nome d’agente utilizzato è sintomaticamente non declinato, cioè usato alla forma
maschile, mentre all’altro, socialmente risentito come inferiore, è al femminile.
Ricorrono ancora nell’Intervista 9 i termini segreteria e segretaria, che alla fine
sembrano essere il “contenitore professionale” deputato di competenze
decisamente più specialistiche come le traduzioni tecniche. Accanto a questo si
trovano parole generiche, definitorie di lavori risentiti come socialmente ed
economicamente inadeguati, come fare le stagioni, la cucina. Casalinga, di per
sé, non si carica di valenze riduttive, anzi78; il valore riduttivo è una
sovrapposizione sociale di genere, perché la casalinga/madre non lavora.
Il riconoscimento esterno, dato dalla società, dunque, sembra essere una delle
caratteristiche prime del lavoro: anche l’Intervista 1 risente di questa limitazione
sociale (in un ruolo biologicamente femminile) verso il lavoro di mamma.
Passando ai documenti maschili si riscontra una maggiore precisione nella
definizione dell’ambito professionale scelto; quando l’ambito, infatti, non è scelto,
ma “capitato”, il linguaggio resta generico, come nel caso dell’Intervista 5, che
associa alla non richiesta di essere qualificato una parallela impossibilità di
definizione.
Se il locutore dell’Intervista 3 si definisce genericamente rappresentante, cosa
che fa anche il locutore dell’Intervista 4, quest’ultimo organizza una chiara rete di
riferimenti terminologici rispetto al suo essere (quasi) dottore in commercio
internazionale, all’essere stato responsabile del tesoro presso una banca (dove
non ha avuto la pazienza di diventare direttore), consulente finanziario
commerciale e all’aver avuto società di import – export. La rete si articola, cioè,
intorno al linguaggio tecnico, economico e commerciale.
L’uso di una lingua di specialità, legata ad un qualsiasi ambito, magari anche
non del tutto professionalizzato e professionalizzante, e contemporaneamente
una definizione “linguistica” della propria professionalità, si riscontra comunque
prevalentemente nelle interviste maschili.
Qualcosa a questo proposito si è accennato, collegandolo però al genere dei
nomi d’agente, e non alle stereotipie maschili e femminili legate ai linguaggi
settoriali.
Quest’uso della lingua si riscontra nell’Interviste 7 e 8, entrambe maschili; e
riguarda quella che si è definita lingua del pane e l’ambito di attività prescelto.
77
Io sono, sarei fotografa. (…) però non come fotografa…
(…) a parte che è un compito estremamente vasto, è anche un compito che prende 12 ore al giorno.
Molto impegnativo. Purtroppo non è riconosciuto (…).
78
130
In realtà nell’Intervista 7 questo discorso è riferito alla moglie, mentre nell’altro
documento è riferito al lavoro/passione, quindi quello per cui c’è maggiore
adesione anche affettiva.
Il padroneggiare una lingua settoriale è stereotipo maschile; la lingua è dunque
precisa, univoca, a volte potrebbe forse risultare criptica, ma si sceglie un
registro divulgativo 79.
In quanto detto prima, si è fatto ricorso alla parola passione, che stranamente
appare molto poco, senza sostanziali differenze di genere, nei documenti
analizzati.
L’Intervista 2 dichiara che “la mia vera passione sono le biblioteche”, l’Intervista
4 che l’import – export è l’ambito che lo ha più “appassionato”, l’Intervista 6 che
la fotografia “piano piano è diventata una passione” (e per due volte rivolge
l’aggettivo appassionato padre), l’Intervista 7 usa l’aggettivo appassionato solo
per il pubblico e l’utenza di un servizio offerto dal negozio, l’Intervista 9 usa la
forma verbale in una proposizione ipotetica con valore negativo “se fossero stati
lavori che mi appassionavano” (cioè “questi lavori non mi appassionavano”).
Si è volontariamente lasciata da parte l’Intervista 8, l’unica che sembra
perseguire professionalmente una passione: l’ambito della passione vi compare
quattro volte e per tre è riferita a piante e giardini, cioè alla professionalità
definita come prevalente, preferita, privilegiata. Dunque perseguita con maggior
volontà.
Analogamente, anzi per contrasto rispetto alla passione, un ambito che presenta
una sottile differenza di genere è quello che si può definire del piacere negato.
Nei documenti femminili il “piacere negato” è spesso legato a situazioni
professionali che comunque sono state provate, accettate.
Nell’Intervista 2, per esempio, pulire qualche casa è risentito come un lavoro non
soddisfacente.
Nell’Intervista 6 la scelta obbligata del part-time significa non avere nessuna
soddisfazione ( e dunque, in previsione di questa mancanza, tanto vale non
sacrificare il lavoro/passione, ma un lavoro unicamente funzionale), lavorare in
“compagnie di leasing (…) non era neanche brutto”, cioè in parte lo era.
Nell’Intervista 9, ugualmente, fare le stagioni, lavorare in cucina, fare la
commessa o la cameriera sono situazioni risentite come altrettante negazioni di
piacere: di queste attività si dice a me non piacciono, non mi piace, mi dà
fastidio, non me ne frega niente.
Al contrario la negazione di piacere, nei documenti maschili, sembra essere una
buona motivazione per lasciare e/o rifiutare un lavoro.
Nell’Intervista 4 si dice “Ho rifiutato altri lavori perché non mi piacevano (…) Io
non ci stavo. Mi piace di più la comunicazione”80. Se in questo caso la
determinazione è del tutto soggettiva, nell’Intervista 7, la decisione di non
79
Intervista 7: “(…) è ricercatrice all’IST, si occupa di banche cellulari; è medico, con una
specializzazione in immunologia (…) competenze in campo bio-tecnologico relativo alla ricerca sul
cancro”. Intervista 8: “(…) il settore di cui mi occupavo io che era l’idrocultura…un sistema di
coltivazione per piante da interno e esterno, che invece di avere come sustrato la terra, ha un sustrato di
argilla espansa e una soluzione nutritiva composta da acqua e sali minerali (…) molte varietà di…per
esempio…di orchidea riescono a fiorire anche in un normale appartamento, mentre con un altro tipo di
coltivazione fiorirebbero solo in serra”.
80
Ancora una volta l’intervento della “moglie” riporta ad una dimensione meno avventurosa e privata:
facendo così ci si ritrova senza nulla!
131
rinunciare al piacere è legata e resa possibile da condizioni oggettive81;
comunque si dice “a me non piace la vendita diretta (…) preferisco fare un
lavoro dequalificato, piuttosto che…” e anche un altro tipo di possibilità è rifiutato
perché “non mi piacerebbe neanche tanto”.
L’Intervista 8, proprio perché vi viene tematizzata in ambito professionale una
passione, per altro perseguita e parzialmente soddisfatta, non presenta questo
tipo di “istanza negata”.
Si potrebbe indagare ancora, sebbene in modo sempre meno sistematico, sul
concetto di piacere, di volontà e di potenzialità, sul concetto di futuro82, di
sogno83 , su quello di progetto84 e di progettualità felice…
Conclusioni
Alla fine di questo tentativo di analisi, tutti gli stereotipi di un parlare donna sono
stati confermati e tutti (o quasi) hanno trovato una motivazione sociale, che fa
pensare che il nome non dipende dalle cose, ma da chi le nomina, meglio
ancora dalla sua condizione sociale e culturale e dal suo sesso.
Questo fa pensare, poi, che il nome dipenda un po’ anche da chi lo ascolta,
meglio ancora dalla sua condizione sociale e culturale e dal suo sesso.
Ma questo forse non era neanche il punto d’arrivo; era anzi l’assunto di
partenza.
Quello a cui si voleva arrivare era usare strumenti altri – la lingua - per detectare
motivazioni, ragioni, cause di una (auto)esclusione dal mondo del lavoro,
contesto sociale per eccellenza. Queste motivazioni sono comparse, discrete,
non necessariamente connesse a sesso ed età, ma veicolate appunto da scelte
linguistiche precise e, queste sì, di genere. La lingua, intendendo qui tutte le
scelte consapevoli ed inconsapevoli fatte a livello di proposizione, lessico,
prosodia, le ha semplicemente veicolate e, a volte, rivelate.
Quindi, riassumendo:
1. La locutrice dell’Intervista 1 dimostra chiaramente attraverso la lingua che
usa che i motivi della sua esclusione dal mondo del lavoro dipendono da
idiosincrasie, insicurezze, scarsa considerazione nel futuro, forse pure nel
prossimo, disinteresse per certe dinamiche che richiedono resistenza,
compromessi (che altri avrebbero definito “diplomazia”) e che attivano
conflitti.
È una sorta di “disoccupazione per concetto”, personalissima e del tutto
assolta da complicazioni anagrafiche.
2. Lo stesso si può dire per il locutore dell’Intervista 4, un altro “disoccupato
per concetto”, ma che nel suo dire dissimula decisione, autostima,
consapevolezza: la sua autoesclusione dal mondo del lavoro sembra
81
Si è già parlato del ruolo della moglie e della situazione di “privilegio”.
Ecco tutto quello che si trova: Intervista 1 “Non ho un gran concetto del futuro”; Intervista 5 “Non sono
molto proiettato nel futuro (…) Mi disturba proiettare nel futuro”; Intervista 7 “(…) Penso che nel mio
futuro ci sarà un’attività diversificata”.
83
Sogni negati nell’Intervista 6 “(…) anche senza quei sogni di quando avevo vent’anni”, l’unica però
dove compaiono! In tutte le interviste compaiono invece “bisogni”.
84
Solo l’Intervista 1 parla di progetto, ma come qualcosa che “consente di reggere” una situazione
risentita come negativa; quando occorre (Interviste 2, 8 e 9) progetto non è mai nel contesto indagato.
82
132
3.
4.
5.
6.
7.
essere stata , confidando nella lingua, prima una scelta determinata dal
“volere qualcosa di più”, poi una condizione obbligata, oggettiva ed
indipendente da lui.
L’Intervista 5 può in certa misura essere considerata “disoccupazione
soggettiva”: per questo locatore, però, sarebbe necessario analizzare il
non detto. L’età ha una rilevanza relativa, per quanto riguarda il suo
sentire, ma sicuramente è sostanziale perché la situazione di vuoto (che
si percepisce anche, proprio, come “vuoto” linguistico rispetto a ciò che
non si è raccontato) lo ha posto nella situazione di cercare un primo (o
quasi primo) impiego in una fascia d’età prossima al pensionamento.
Anche per lui, la poca considerazione del futuro si collega ad una poca
considerazione anagrafica.
I documenti 2 e 7, sebbene uno femminile e l’altro maschile, possono
essere associati in una forma di “disoccupazione oggettiva”, cause
oggettive, dunque, espresse con linguaggio oggettivo. Entrambi, di fronte
ad una ricerca, intendono il cercare di nuovo come un cercare del nuovo:
l’età per loro è una difficoltà, perché costretti a cambiare ambito e profilo,
a passare dall’imprenditoria alle dipendenze.
A mezza strada tra il profilo dell’Intervista 4 e questi delle interviste 2 e 7,
è il locutore dell’Intervista 8, che associa una “disoccupazione per
concetto”, che rivela quando dichiara la sua incapacità a resistere a lungo
nelle situazioni, di voler cambiare per crescere e migliorarsi e quando si
definisce in grado di trovare altro ad una certa forma di “disoccupazione
oggettiva”, tanto più significativa, mi pare, quanto rivolta al lavoropassione.
Le locutrici delle Interviste 6 e 9 presentano una particolare forma di
“disoccupazione soggettiva”, che definirei decisamente femminile; sono
prima di tutto madri e questo ha loro interdetto un procedere del percorso
lavorativo intrapreso. La locutrice dell’Intervista 6 ha interrotto un lavoropassione, mentre nell’Intervista 9 si interrompeva solo un lavoro
“alimentare”. Si intravedono differenze di aspettative (ripresa del lavoropassione per la prima, ridefinizione e formazione continua in vista –
questa volta sì - di un lavoro-passione per la seconda). Anche per loro
l’età non sembra una nota particolarmente dolente.
Per quanto scarna l’interazione, anche il locutore dell’Intervista 3
comunica, a questo livello, qualcosa di preciso: stranamente sembra che
la sua sia una “disoccupazione oggettiva femminile”. Di oggettive ci sono
le difficoltà economiche nella gestione di un certo tipo di rapporto di
lavoro, di femminile l’impegno risentito nei confronti una famiglia che
cresce.
Si riportano, dunque, in guisa di explicit, due frasi particolarmente indicative, una
per il mondo linguistico femminile ed una per quello maschile :
“…ma alla fatina non credo più”85
“è peggio che nel mondo del calcio…”86.
85
86
Intervista 6
Intervista 8
133
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