Emiliano Grisostolo
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Romanzo Sci-Fi
IL MURO DI LUCE
Autore: Emiliano Grisostolo
Copyright © 2014 CIESSE Edizioni
P.O. Box 51 – 35036 Montegrotto Terme (PD)
[email protected] - [email protected]
www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it
ISBN 978-88-6660-114-2
I Edizione stampata nel mese di febbraio 2014
Impostazione grafica e progetto copertina:
© 2014 CIESSE Edizioni
Collana: Silver
Editing a cura di: Sonia Dal Cason
PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione
dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi,
personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia
dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza
con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
A chi è accanto a me e io non vedo.
A chi è nell’altra dimensione e ascolta.
A chi da sempre osserva il mio cammino.
A chi, da una parte o dall’altra di questo mondo,
mi accompagna per mano verso terre che non conosco.
La scienza non è nient'altro che una perversione se non ha
come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni
dell'umanità.
Secondo una teoria adottata, ogni atomo misurabile è
differenziato da un fluido tenue che riempie tutto lo spazio
con un movimento circolare, come un vortice di acqua in un
lago calmo. Mettendo in movimento questo fluido, l'etere
diviene materia. Arrestato il suo movimento, la sostanza
primaria regredisce al suo stato normale. Quindi sembra
possibile per l'uomo, attraverso l'energia imprigionata del
mezzo e degli agenti idonei, azionare o fermare il moto
dell'etere provocando la formazione o la scomparsa della
materia. Al suo comando, i vecchi mondi svanirebbero quasi
senza sforzo da parte sua, e i nuovi verrebbero a esistere.
Nikola Tesla
La realtà è ciò che, quando smetti di crederle, non va via.
Lei deve leggere e accettare il mio libro per il suo valore
nominale, così come io accetto ciò che vedo.
Philip K. Dick
Prologo
La luce di un Sole estivo si era alzata da alcune ore, riportando vitalità in quella New York assopita. Una forte luminosità sembrava rivitalizzare ogni angolo di un mondo caotico che
all’occorrenza poteva divenire quieto, silenzioso, addormentandosi come un bambino in braccio alla madre per paura di
un buio nero come la pece. Un bambino che aveva deciso di risvegliarsi.
All’interno l’albergo appariva di buon livello, uno dei più
moderni, e veniva spesso scelto dai migliori uomini d’affari per
passare la notte durante i viaggi di lavoro in compagnia di
qualche donna ammiccante.
L’impiegato alla reception, sulla cinquantina, di
bell’aspetto, con i capelli radi nascosti da un cappello
d’ordinanza e vestito con un abito di un buon taglio, si mosse
verso il bancone, contro cui erano accalcate alcune coppie scese dalle loro camere. Di sicuro volevano i documenti per uscire
e perdersi nell’abbraccio della città.
Due minuti più tardi, l’uomo con il cappello e il bell’abito
sartoriale salutò gli ospiti, infilando i soldi della tariffa per la
notte in una cassetta. Gettò uno sguardo all’orologio e si avvicinò al telefono interno. Compose il numero della stanza e attese. Dall’altro capo qualcuno stava ancora dormendo, lasciò
squillare, poi l’ospite rispose.
«Buongiorno Frank, grazie».
«Buongiorno a lei. Oggi è una splendida giornata».
«Grazie Frank, più tardi forse scenderò».
Il click della cornetta riagganciata fu un messaggio più che
eloquente per Frank. Anche quel giorno l’uomo non avrebbe
voluto essere disturbato. Era un po’ ormai che non lo vedeva
uscire, mangiava di rado, ma si curava. Qualcuno un paio di
giorni prima era salito a controllare che stesse bene, e glielo
aveva confermato. Non c’era nulla di cui preoccuparsi. L’ospite
era un tipo strano, eccentrico, in piena crisi depressiva, ma lui
non era un medico, lui era solo il dipendente di uno dei migliori alberghi di New York. Non era affare suo il comportamento
che sceglievano di adottare e di mantenere i clienti, ma quel
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vecchio gli era simpatico, anche se a modo suo, per via di quel
carattere così particolare. Lo conosceva di nome e di fama, un
vero genio, un uomo fuori dal comune, un visionario nascosto
tra le mura di una stanza d’albergo, nascosto alla vista del
mondo, gettato in un limbo nel quale, ne era certo, si sarebbe
perduto.
«Ci siamo addormentati, Frank?»
L’uomo si riprese di soprassalto, si guardò attorno trovando
la causa di quello spavento.
«No signore, stavo riflettendo sui compiti che devo svolgere».
«Bene Frank, ricorda che sei pagato per lavorare, non per
sognare a occhi aperti».
Con un movimento noncurante della mano, in segno di saluto sufficiente, la persona che aveva ripreso Frank si diresse
verso la porta girevole, scomparendo ben presto alla vista.
Frank lo guardò uscire, abbassando lo sguardo. Già, lui non
era pagato per dormire, anche se in realtà stava pensando alla
vita fuori dal comune che aveva avuto il loro cliente. Un vecchio in apparenza uguale a molti altri, senza importanza.
Lui aveva solo il compito di svegliarlo. Così era stato. Era
ora di tornare al lavoro.
Il puzzo di chiuso e l’aria stantia, carica di polvere, potevano
far venire il voltastomaco a chi non fosse abituato. Una cantina
sarebbe stata più salubre, il vecchio lo sapeva. Era a letto con il
telefono in mano. Forse era venuto il momento di far girare un
po’ d’aria, giusto qualche minuto. Avrebbe aperto le finestre
della stanza, ultimo rifugio di una vita vissuta intensamente,
oltre ogni limite.
Con un movimento fluido l’ottantasettenne riappoggiò la
cornetta, chiudendo la comunicazione. Gentili anche quella
mattina. Ogni sua richiesta era per loro un ordine, e
quell’impiegato avrebbe anche voluto vederlo uscire. Aveva già
mandato qualcuno a controllare che stesse bene, e sospettava
che non facesse parte dei compiti imposti dalla direzione
dell’albergo. Di uscire non ne aveva la minima voglia,
dall’ultima volta che lo aveva fatto erano trascorsi giorni, forse
due settimane.
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Si alzò mettendosi dapprima a sedere, poi si diresse verso il
bagno. Ogni passo era calcolato, gli anni erano molti, quasi faticava a rammentarli, ma in fondo ne era consapevole. Erano
troppi per essere certo di concludere i suoi progetti. L’uomo
che lo aveva deluso più di ogni altro non si faceva sentire da
tempo. Da troppo tempo.
Si sciacquò il viso, si spogliò e si lavò il busto con acqua tiepida, si asciugò e tornò accanto al letto, dove c’era una sedia
con i vestiti che usava da tre giorni.
Cosa doveva fare quel giorno? Era forse venuto il momento
di uscire e fare ritorno al suo laboratorio, quello che nessuno, a
parte lui, conosceva? Anzi no, si stava quasi dimenticando che
ne aveva parlato con uno dei generali del progetto, ma erano
mesi che non aveva contatti. Dapprima era stato la loro guida,
tutto era nato dalle sue intuizioni, ma poi… Quel pensiero lo
stava distruggendo dentro, come una piaga che diviene così vasta da portare alla cancrena. Quello era lui, nient’altro che un
pezzo marcio di un grande meccanismo al quale non serviva
più, e allora lo avevano eliminato, come si elimina una scarpa
vecchia.
Gli abiti non andavano più bene, erano da lavare, ce n’erano
di puliti nell’armadio. Fece pochi passi avvicinandosi all’anta,
la aprì e guardò dentro. Una fila di giacche e pantaloni su misura erano appesi in ordine. Scelse un completo nero, molti
erano di toni scuri o neri, i suoi preferiti. Camicia bianca e
cappello, anch’esso nero. Dieci minuti più tardi era pronto. Si
stava dirigendo verso la finestra per osservare la via affollata di
una mattina newyorkese, quando qualcuno bussò alla porta.
«La colazione, signore».
Attese un momento senza voltarsi. I suoi occhi erano persi
in una luce abbagliante che non era quella del Sole. Udì appena
la frase oltre la porta di legno.
«Grazie».
Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare.
Le visioni erano tornate, ora come un tempo stava librandosi in un mondo parallelo di cui lui solo poteva vedere le meraviglie. Il traffico oltre la finestra, il caos di una città che si stava
risvegliando, il sole caldo e la temperatura piacevole di
quell’agosto del 1942 erano un lontano ricordo.
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Venti minuti più tardi fu nelle condizioni di uscire
dall’edificio.
Il primo passo era mettere il naso oltre la soglia della stanza
e, con grande sorpresa, si rese conto che lo sforzo era fattibile.
Con movimenti calcolati, senza esagerare, arrivò in prossimità
della reception, molti piani più in basso, come se tutto dovesse
svolgersi in un perpetuo movimento, senza richiesta di ulteriore energia per ridare slancio al primo passo, sfruttando
l’inerzia del moto senza gravità e frizione contro quel mondo
terrestre nel quale aveva vissuto per tutti quegli anni.
Nessuno parve riconoscerlo tanto era trascorso dall’ultima
volta in cui era uscito. Solo Frank sembrò sorpreso nel vederlo
così attivo, ma non poteva conoscere la meticolosità con la
quale il vecchio si teneva in forma ogni giorno. Lo vide muoversi con tanta fluidità che quasi pensò di aver preso un abbaglio. Lo osservò ancora, prima di rendersi conto che la persona
che aveva davanti era colui che sperava di vedere da giorni.
«Buongiorno».
«Buongiorno a lei, signore. Oggi esce?»
«Sì, Frank. Avete detto che è una splendida giornata, quindi
ho pensato: perché non fare due passi?»
«Bene, vedo che è in ottima forma, signore. Immagino voglia i suoi documenti».
«Certo Frank, grazie».
Frank si voltò verso l’armadio alle sue spalle e fece scorrere
una porta di legno che rivelò una piccola cassaforte. Con movimenti veloci e senza farsi notare, compose la combinazione e
la aprì. Dentro, su tre ripiani, erano adagiati i documenti dei
clienti, i contratti riservati dell’albergo, e in un altro alcune buste con dei contanti in attesa che il responsabile della banca
passasse per ritirarli e depositarli sul loro conto.
Frank scelse il secondo ripiano, su cui erano incise alcune
lettere in ordine alfabetico, trovò quella che faceva al caso suo,
prese alcuni documenti, li sfogliò, trovò quello che cercava e
ripose gli altri. Richiuse la porta a combinazione.
«Questi sono i suoi documenti, signore».
«La ringrazio».
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Il vecchio diede una veloce occhiata al libretto che gli era
stato dato, riponendolo nella tasca della giacca. Con un cenno
del capo e senza altri convenevoli si allontanò verso l’uscita.
Ascoltando il vento caldo del mattino contro la pelle ruvida,
ripensò ai sogni a occhi aperti che era solito fare. Davanti a lui
scorrevano le vie caotiche attraversate da carrozze e da alcune
auto, poche a dire il vero, ma interessanti. Nuovi mezzi che
erano apparsi ovunque da alcuni decenni, ma erano le città le
cattedrali che custodivano quella scienza. Così come erano
suoi, e solo suoi, i luoghi che custodivano le sue scoperte. Dimensioni parallele in cui le idee e i progetti si materializzavano
come per magia: visioni di macchine funzionanti o da elaborare, il suo vero mondo, la grande fortuna grazie alla quale aveva
mangiato, ma allo stesso tempo il suo unico incubo.
Attraversò la via attendendo che due carrozze trainate da
una coppia di cavalli ciascuna si allontanassero, aveva timore
di quegli animali, nonostante provasse per loro grande rispetto. Aveva ancora ben stampata in mente la morte del fratello,
caduto da cavallo. Ogni momento era sufficiente per rievocare
quel dolore mai sopito, latente e mai cancellato.
Giunto dall’altra parte, si diresse con calma verso la panchina del parco che conosceva molto bene, perché sede di una
vecchia base militare degli anni trenta per prevenire eventuali
attacchi dal mare, ormai dismessa. Ma solo in apparenza. Si
chiamava Montauk. Vi era entrato una sola volta durante gli
esperimenti sugli animali, poi condotti nella stiva dell’USS Eldridge. Esperimenti che aveva portato avanti con l’appoggio
del governo e che poi la marina militare aveva voluto per sé.
Per circa dodici anni, dal 1930, era stato a capo del progetto
che studiava la possibilità di muoversi nel continuo spazio
tempo, venendo a conoscenza degli esperimenti del dr. John
Hutchinson dell'università di Chicago, e del fisico austriaco dr.
Kurtenaur sulla possibilità di raggiungere l’invisibilità grazie
all’uso dell’elettricità. Per qualche motivo che non conosceva, il
progetto era stato trasferito a Princeton e seguito dal dr. John
Erich Von Neumann e da Albert Einstein, con il quale più volte
era entrato in contrasto, anche se entrambi erano concordi nel
dichiarare che tale scoperta non sarebbe stata a favore
dell’umanità. Anche lui temeva che qualche potente mettesse
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le mani sui risultati ottenuti, timore confermato quando era
stato allontanato dal progetto di cui era rimasto responsabile
Von Neumann. Era in atto il piano di sperimentazione con esseri umani, e ricordava ancora gli effetti avuti sugli animali,
prima nella base di Montauk e poi nella stiva dell’USS Eldridge. Non poteva credere che qualcuno volesse continuare su
quella strada dopo i suoi avvertimenti. Ma era vecchio, la via
era in parte spianata e nomi illustri stavano lavorando da anni.
Non poteva pensare di fermare tutto, ma non poteva neppure
credere che qualcuno volesse portare a morte certa così tante
persone.
Quei pensieri lo avevano sconvolto per settimane, da quando, nel marzo di quell’anno, era stato allontanato e tutto aveva
iniziato ad apparire sbiadito, lontano. Le visioni che lo avevano
portato alla fama, che a lui non interessava, quei flash di luce
che lo sorprendevano e grazie ai quali aveva scoperto la sua più
grande creatura di cui ora tutto il mondo godeva, erano scomparse. Si era chiuso nella camera d’albergo e aveva lasciato che
il mondo continuasse la sua folle corsa senza di lui.
Fino a quel momento, quando all’improvviso le visioni avevano fatto ritorno.
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-1Il vento leggero non si placava e, combinato al caldo di quel
mattino e dei giorni precedenti che aveva arso le strade della
città impolverando le vetrine dei negozi, seccò la gola del vecchio che respirava a fatica. I movimenti fluidi ingannavano
l’occhio di chiunque gli passasse accanto. Un uomo diritto, dai
lineamenti fini, con baffi curati e di bell’aspetto non dava
l’impressione di un ottantasettenne appena uscito da una crisi
depressiva.
Il parco si estendeva a perdita d’occhio, tra alberi e prati in
cui la gente passeggiava e portava i cani a correre. Non troppo
lontano, la linea della collina si stagliava contro il cielo azzurro
sopra New York. Poco distante, la sua panchina preferita. Doveva raggiungerla. Gli girava la testa. “Sarà il caldo” pensò.
Camminava barcollando, nessuno si avvicinava. Qualcuno
lo osservava distratto, ma passava oltre. Quando credette di
essere nei pressi della panchina gli occhi si chiusero, mentre il
mondo assumeva nuove forme. Era solo un malessere passeggero. Appena si sentì meglio, riaprì gli occhi, ma non avrebbe
saputo quantificare il tempo trascorso. Si alzò sulle gambe
stanche e riprese il cammino verso la destinazione alla quale
pensava da quella mattina.
Giunse nei pressi del palazzo che rincorreva da diversi minuti, si guardò attorno ed entrò solo quando fu sicuro che nessuno lo stesse pedinando.
Le scale si inerpicavano per altri otto piani, ma lui non doveva salire, il laboratorio si trovava più giù, e le rampe scendevano alla sua sinistra. Con calma iniziò a calpestare ogni gradino con grande attenzione. Sentì sopra di lui delle voci di
bambini e poi quella di una donna. In lontananza, oltre le mura dell’edificio, udì molto bene le carrozze, quelle poche che
ancora giravano per le vie della città, e le auto che arrecavano
disturbo con il loro fumo e il loro rumore assordante. In certi
periodi della sua vita aveva percepito ogni rumore in maniera
amplificata. Aveva una sensibilità tredici volte superiore al
normale, e questo gli causava un mal di testa continuo.
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Ora quella sensazione di dolore non c’era, era solo un dono
con il quale giocare e di cui fare buon uso.
I bambini arrivarono al piano terra seguiti da una donna,
forse la tata, non poteva vedere i suoi abiti dal nascondiglio
nell’ombra, ma dal modo di comportarsi dei bambini poteva
intuire che non fossero figli suoi. Uscì dal sottoscala del piano
interrato, e riprese il suo passo tranquillo e calcolato solo
quando udì la porta d’entrata del palazzo chiudersi. Tra poco
avrebbe raggiunto il laboratorio.
Aveva acquistato quelle mura alcuni anni prima con i pochi
soldi che gli erano rimasti. Un suo amico ingegnere, progettista
di quel palazzo, gli aveva suggerito di comprare una cantina al
piano interrato, perché un giorno i prezzi degli immobili sarebbero saliti alle stelle, e rivenderla gli avrebbe fruttato parecchi dollari. Lui aveva riflettuto a lungo sull’investimento. Il denaro gli serviva per portare a termine i suoi esperimenti, le sue
ricerche. In quel periodo faticava a trovare finanziatori. Allora
gli era venuta l’idea di chiedere delle modifiche strutturali al
suo amico. L’altro era rimasto sulle sue, aveva ragionato sulle
variazioni propostegli in cambio dell’acquisto della cantina, e
alla fine aveva ceduto.
Raggiunta la porta d’entrata, mise una mano nella tasca della giacca, tirò fuori una chiave e la infilò nella toppa. Si guardò
attorno, nell’estenuante ricerca di qualcuno che lo stesse pedinando, ascoltò con il suo udito fino ogni suono, e solo quando
fu certo che nessuno fosse sulle sue tracce, decise di entrare.
La puzza di muffa e polvere lo colpì in pieno volto, facendolo barcollare. Non poteva tenere la porta aperta, era consapevole che qualcuno potesse incuriosirsi, così si ritrovò nel suo
piccolo mondo con la porta chiusa a chiave e quasi senza la
possibilità di respirare.
Si avvicinò rapido all’armadio che usava come ripostiglio.
Nel passare da un lato all’altro della stanza fu distratto da una
vecchia bicicletta che aveva acquistato da giovane e che poi
aveva gettato in quel sotterraneo, dimenticandosene. Raggiunse l’armadio poggiato a una parete e sostenuto da grossi zoccoli
in legno che lo tenevano saldamente in piedi. Aprì le ante e osservò l’interno vuoto. Tutti i suoi averi e i progetti erano custoditi nei laboratori in cui aveva lavorato, e che più d’una volta
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erano andati bruciati. Altri lavori preziosi, pochi a dire il vero,
aveva deciso di celarli alla vista del mondo, dei suoi amici, dei
finanziatori. E ora era venuto il momento di rimetterci mano.
In particolare a quello che riguardava la visione di quella mattina.
Spinse una delle mensole verso la parete di mattoni rossi e
pieni di polvere fino a che udì un click secco, poi si allontanò in
attesa. L’intera scaffalatura scivolò verso destra, al suo posto
rimase una porta di ferro con al centro lo scaffale che aveva
premuto, incastonato in una fessura del metallo.
Nel mucchio di chiavi che teneva in tasca, scelse quella che
pareva giusta, cercando tra le molte legate da un anello che ne
attraversava il foro nella parte superiore. La infilò nella serratura e l’aprì, scomparendo nel passaggio che il suo amico ingegnere gli aveva costruito.
La scaffalatura ritornò al suo posto davanti alla porta, e un
click di chiusura sigillò il suo mondo.
Immobile tra quelle quattro pareti, all’interno del suo laboratorio segreto, l’uomo si guardò attorno spaesato. Sapeva cosa
cercare, ma le visioni del mattino lo avevano così sorpreso che
quasi non capiva se in quel momento si trovasse lì, celato agli
occhi del mondo che lo conosceva e lo spiava e per cui aveva
lavorato tutta la vita, o se si trovasse sospeso in quel limbo grazie al quale aveva vissuto una vita piena. Gli ci vollero alcuni
minuti di calma, riflessione, sospensione nel nulla che sembrava sostenerlo in posizione eretta contro la porta di ferro per riprendersi e capire la realtà, vederla, comprenderla.
Poteva rilassarsi ora, nessun rumore sarebbe uscito da quel
luogo. Era infine giunto il momento di riprendere il lavoro. Il
progetto che gli avrebbe consentito di muoversi nel continuo
spazio tempo attraverso il muro di luce, che vedeva come
un’immagine stampata di fronte a lui, poteva divenire realtà.
La macchina era già costruita e gli errori di progettazione
nell’esperimento dell’USS Eldridge erano stati risolti. Se allora
non aveva capito il problema, adesso la visione glielo aveva
chiarito e risolto. Solo pochi cambiamenti nelle regolazioni per
il flusso d’energia, così i danni collaterali causati agli animali
dei precedenti esperimenti non si sarebbero più presentati.
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Lavorò alacremente per un paio d’ore, più metteva mano alla macchina, più piccola e potente di quella utilizzata con il governo all’interno della collina, più le immagini mentali divenivano vivide, dandogli nuove indicazioni su come apportare alcune migliorie. Per passare dal progetto base all’idea di cambiare solo alcune regolazioni, si era trovato a rimontare un terzo dell’apparecchio per raggiungere la perfezione, unica via per
poterlo testare su se stesso. Non poteva permettersi di lasciarsi
sfuggire quell’occasione. Ora sapeva come fare, vedeva tutto e
sapeva che così avrebbe funzionato, aveva già funzionato nelle
sue visioni. Non poteva essere altrimenti. Piccoli passi per raggiungere un nuovo traguardo. Un nuovo stadio per il progresso
dell’umanità, alla quale avrebbe lasciato i progetti se fosse stato certo che non sarebbero stati usati per scopi militari. Le implicazioni del suo esperimento potevano essere devastanti per
l’intero genere umano. Le potenzialità erano multiple e quindi
o catastrofiche, oppure benefiche. Il genere umano avrebbe deciso e scelto l’utilizzo e lo scopo che la sua creatura avrebbe
svolto. Le sue idee di non belligeranza andavano contro le gerarchie militari. Quando era stato escluso a favore di Von
Neumann, che nel mese di marzo aveva preferito apportare dei
cambiamenti al progetto modificando la nave che sarebbe dovuta scomparire con alcune decine di militari volontari a bordo, aveva compreso la vera natura degli uomini. La sua scoperta non sarebbe uscita da quelle mura. Sarebbe rimasta nascosta, ma lui, solo lui doveva provarla prima di passare ad altro.
Se il progetto di inviare corrente elettrica attraverso la ionosfera era fallito per mancanza di fondi, questa volta il piano era
attuabile, e l’avere acquistato quel laboratorio nascosto si era
rivelata negli anni una scelta vincente.
Non conosceva appieno le capacità del suo collega, e non
era informato sui progressi che il dottore e la marina avevano
fatto, ma se un giorno avessero deciso di accendere la macchina e tentato di far scomparire la nave e i suoi volontari, avrebbero corso un pericolo mortale.
Solo quando fu sicuro del risultato, si fermò sudato, stanco,
stravolto da oltre due ore di lavoro intenso e frenetico. La temperatura esterna doveva essere salita, in quel sotterraneo l’afa
e la ventilazione forzata erano insopportabili. Ma aveva termi18
nato la sua creatura, e questa volta avrebbe funzionato senza
pericolo per l’umanità.
Decise di accenderla. Lui solo poteva testarla e vederne i risultati. Aprire uno squarcio nel continuo spazio tempo era il
suo obiettivo da decenni. Inseguiva quella meta da tanto di
quel tempo che quasi non poteva pensare, credere, di essere a
un passo dall’ottenere una vittoria. Avrebbe cambiato, avrebbe
potuto cambiare, rifletté, le sorti dell’umanità, se solo qualcuno lo avesse ascoltato. Se i militari non si fossero messi in mezzo. Le sue visioni non andavano bene per quei tempi. La seconda guerra mondiale lontana oltre l’Oceano, ma così vicina
con le sue implicazioni interne allo Stato. Migliaia di arruolamenti, migliaia di uomini, ragazzi, inviati al fronte. Inviati a
morire. Quella scoperta avrebbe potuto mutare le sorti delle
battaglie, sorprendere l’asse italo-tedesca e giapponese. Dettagli che non sembravano di alcuna importanza per i vertici militari con cui aveva collaborato. A loro importavano le sue idee
per offendere, non per difendere. E insistevano sul fatto di avere tutto e subito, mettendo a repentaglio vite umane. Contro la
logica della sua semplice esistenza. Lui non faceva parte di
quel programma, non avrebbe fatto parte di quella distruzione.
In quel laboratorio ogni cosa avrebbe avuto un decorso
nuovo, logico, senza vittime. Era venuto il momento di testare
la macchina di persona, ancora pochi attimi di riflessione, di
attesa, in quella tomba che avvolgeva il suo mondo.
Quando premette il pulsante, osservò con gli occhi di un
bambino ogni secondo. Il tempo parve fermarsi, bloccarsi per
un istante, poi riprendere la sua corsa, mentre appariva quello
che aveva già visto nelle visioni. Il muro di luce che tremolava
sospeso nel nulla a pochi centimetri da terra, un varco nel continuo spazio tempo che gli avrebbe permesso di muoversi in
una dimensione parallela, nella quale nessuno lo avrebbe visto,
e ricomparire nel luogo desiderato grazie a un congegno portatile di sua invenzione che gli permetteva di creare vortici temporali per tornare da qualunque punto.
Era così affascinato dall’onda magnetica che tremolava ed
era pronto a saltarci dentro non appena avesse riacquistato le
piene facoltà motorie dopo quel momento di assoluta estasi,
che quasi non si rese conto della figura minuta, dell’altezza ap19
prossimativa di un bambino di otto, dieci anni, che stava attraversando il passaggio. Non riuscì a pensare in fretta, non riuscì
a riflettere. Bloccato, osservò lo svolgersi della scena come se si
trattasse di una realtà che non gli apparteneva. Ma stava accadendo in senso inverso, proprio quello che aveva sperato.
Non era lui a essere uscito dal suo tempo per muoversi dietro le quinte della realtà quotidiana. C’era qualcun altro che
aveva deciso di uscire dalla sua realtà, unendosi al suo mondo,
alla sua dimensione, attraversando il muro di luce e il continuo
spazio tempo per chissà quale motivo. E più lo osservava, più
si rendeva conto che quella figura minuta dal colore grigio, con
una testa sproporzionata al corpo e con incastonati due occhi
di un nero profondo e due fessure al posto del naso, non poteva essere umana.
Lo aveva immaginato, grazie alle visioni aveva visto lo
squarcio temporale, anche se di modeste dimensioni, funzionare. E ora qualcosa stava attraversando quella porta. A suo
modo non ci credeva, non credeva ai suoi occhi. Ma era conscio
che sarebbe potuto accadere.
Tutti i suoi studi e quelli dei colleghi sulla fattibilità di viaggiare nello spazio, muovendosi indisturbati e invisibili agli occhi del mondo, o nel tempo, calcolando l’entrata e l’uscita nei
vari anni, lo avevano portato infine a un risultato eccezionale.
Aveva il fiato corto, era impaurito, consapevole di aver creato
la possibilità per altri esseri di attraversare quella sottile membrana di energia che li teneva su due livelli paralleli ma non
comunicanti. E poteva essere pericoloso per gli abitanti della
Terra, o per quegli esseri che vivevano al di là del varco. Già,
non poteva essere altrimenti, non vi erano altre spiegazioni.
Quell’umanoide stava attraversando la porta, perché, come lui,
si era trovato dinanzi a un mezzo per spostarsi e lo stava sperimentando. Quindi non poteva continuare a usare il condizionale per descrivere una forma di vita in un piano dimensionale
parallelo. La vita era davanti a lui. Era lì. Immobile. E lo osservava muovendo di lato la testa come un cane che non sa cosa
fare.
Si osservarono per lunghissimi secondi. Dietro la figura grigia, l’energia creata dal suo congegno vibrava come acqua so20
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