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Quaderni
del
Liceo Orazio
N. 2
Anno Scolastico 2011/2012
Liceo ginnasio statale Orazio
ROMA
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Questa pubblicazione
è stata curata
da Mario Carini
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INDICE
Introduzione
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SEZIONE DOCENTI
DONATELLA ARCURI, Lettera a Mirto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MARIO CARINI, Trent’anni dopo, riflessioni sulla Libia . . . . . . . . . . . . . . . .
MARIO CARINI, Un poeta “ferroviere”: Gino Andreini . . . . . . . . . . . . . . . . .
ADRIANA DE NICHILO, Ritornare a viaggiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ADRIANA DE NICHILO, Qualcosa di personale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ANNA MARIA ROBUSTELLI, This is not a pipe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
AMITO VACCHIANO, La conversione di Costantino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEZIONE DIDATTICA
(collaborazioni degli studenti)
Prof.ssa Licia Fierro, Introduzione ai progetti realizzati dagli alunni
di II e III B nell’anno scolastico 2010/2011 (Progetto “Roma per
vivere, Roma per pensare”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Libertà e responsabilità nell’etica degli antichi e dei moderni, progetto
realizzato dalla classe II B (anno scolastico 2010-2011), coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della
Prof.ssa Alda Giannì . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Essere e dover essere: aldilà della morale dell’intenzione, progetto
realizzato dalla classe III B (anno scolastico 2010-2011), coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della
Prof.ssa Paola Peretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il romanzo europeo tra Ottocento e Novecento, lavoro del Consiglio
di classe della III M (anno scolastico 2011-2012) . . . . . . . . . . . . . . . .
Prof. Stefano De Stefano, Il Liceo Orazio alla XIX edizione delle
Olimpiadi di Filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan . . . . . .
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INTRODUZIONE
A differenza del primo, questo secondo numero dei Quaderni dedica
ampio spazio alla poesia. Non si tratta, questa volta, però, di un’operazione
di carattere filologico o esegetico nei confronti dei testi che abitualmente
compaiono nelle antologie scolastiche o sono oggetto di studio per l’indiscutibilità del loro valore letterario.
Le poesie che sono state raccolte in queste pagine sono composizioni,
spesso inedite, dei docenti del nostro Istituto o ritrovate dai docenti. La scelta dei docenti di contribuire alla formazione culturale dei nostri studenti,
utilizzando uno strumento di riflessione e di approfondimento dei contenuti
curricolari, come i Quaderni, non è occasionalmente ricaduta sulla produzione poetica, quale ripensamento soggettivo delle proprie esperienze in
chiave lirica. Non crediamo che in questa convergenza di intenti possa solo
ravvisarsi il desiderio, da parte di alcuni docenti, che da anni si confrontano
con i versi altrui, di cimentarsi a comporne di propri: il che non vuole essere
certo una gara con i modelli classici, ma la possibilità, in un certo senso, di
sperimentare le piacevolezze della Mo˚sa lept».
Crediamo, invece, che il proporre ai propri studenti versi spesso custoditi
gelosamente, perché espressione di un vissuto personale, possa scaturire da
una duplice esigenza. Da una parte il desiderio di stabilire un rapporto
autentico con i nostri studenti, dare un volto e concretezza ai contenuti che
trasmettiamo, a quelle esperienze fatte di humanitas che contraddistinguono
ogni percorso individuale: trasmettere loro le nostre emozioni significa
stabilire un dialogo più profondo, attraverso pagine della nostra vita che non
hanno la veste personalistica di uno sfogo diaristico o autobiografico, ma
lasciano che il verso faccia trapelare, in un comune sentire, riflessioni di vita,
di sapore universalistico.
Ma crediamo, anche, che vi sia un’esigenza culturale, una risposta alla
nostra società, nella quale le immagini hanno sostituito le parole, riprendendo
di quelle parole solo la “pesantezza”. Parlare in versi è un richiamo e un
invito alle giovani generazioni, dunque, alla leggerezza, nell’accezione di
Calvino: “La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso;
ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle
città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al
linguaggio”. Scrive sempre l’autore, in riferimento a Lucrezio: “La poesia
dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come
la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità
del mondo”. È a questi testi “leggeri”, che comprendono non solo poesie
ma anche racconti, che invitiamo i lettori esortandoli all’abbandono di ogni
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pregiudizio e alla considerazione che anche un testo frutto della fantasia o
dell’introspezione di un animo può rivelare molto della cultura e della personalità del suo autore, forse ben più che un asettico saggio filologico o culturale in senso lato. Dunque, per tutte queste ragioni non abbiamo ritenuto
necessario aprire un’ulteriore sezione, da intitolare Varia, per raccogliervi le
scritture creative dei docenti.
I contributi pubblicati in questo secondo numero sono distribuiti nelle
consuete sezioni, quella dei docenti e quella didattica: quest’ultima raccoglie
le ricerche degli studenti svolte sotto la guida dei loro insegnanti.
La “Sezione docenti” comprende i seguenti lavori dei professori (in ordine alfabetico): Lettera a Mirto della Prof.ssa Donatella Arcuri; Trent’anni
dopo, riflessioni sulla Libia e Un poeta “ferroviere”: Gino Andreini del
sottoscritto; Ritornare a viaggiare e Qualcosa di personale della Prof.ssa
Adriana de Nichilo; This is not a pipe della Prof.ssa Anna Maria Robustelli,
già docente della nostra scuola; La conversione di Costantino del Prof. Amito
Vacchiano.
La “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)” contiene: l’introduzione della Prof.ssa Licia Fierro ai lavori realizzati dagli alunni di II e III
B nell’anno scolastico 2010/2011 (nell’ambito del Progetto “Roma per
vivere, Roma per pensare”); il progetto Libertà e responsabilità nell’etica
degli antichi e dei moderni, realizzato dalla classe II B (anno scolastico 20102011), coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della
Prof.ssa Alda Giannì; il progetto Essere e dover essere: aldilà della morale
dell’intenzione, realizzato dalla classe III B (anno scolastico 2010-2011),
coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa
Paola Peretti; Il romanzo europeo tra Ottocento e Novecento, lavoro del Consiglio di classe della III M (anno scolastico 2011-2012); la relazione del Prof.
Stefano De Stefano, Il Liceo Orazio alla XIX edizione delle Olimpiadi di
Filosofia; la Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan.
Prima di congedarci ringraziando tutti i collaboratori di questo numero
dei Quaderni e il nostro Dirigente Scolastico, Prof. Massimo Bonciolini, che
ha sostenuto l’iniziativa, vorremmo consigliare di leggere i lavori degli
studenti realizzati per il Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”,
incentrati sulla questione di come si possa operare secondo le regole della
morale e sulle riflessioni che hanno svolto in merito pensatori antichi e
moderni. È un argomento che rimane sempre attuale, soprattutto dopo il
recente e discusso episodio del naufragio di una nave da crociera, che con il
suo tragico esito ha portato alla luce la delicata questione della responsabilità
che spetta a chi detiene poteri e compiti di organizzazione e di comando.
E le ricerche degli studenti mostrano che già gli antichi pensatori avevano
dato ben chiare risposte a questo problema.
Roma, 12 marzo 2012
Mario Carini
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Sezione docenti
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DONATELLA ARCURI
Lettera a Mirto
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«E potremmo scrivere, e... scrivendo chiamare
la fine, affrettare la pacifica fine, la fine che
aspetta»
Franz Kafka, Lettera a Max Brod
Tutto quel che Socrate avrebbe potuto scrivere e non scrisse, i
suoi libri virtuali insomma, dopo lunghi anni trascorsi a coltivare
un fiero e insieme risentito desiderio di essere, presero la decisione
comune di ribellarsi al loro padre mancato. Non avevano in realtà la
minima idea di cosa davvero fosse quell’esistenza reale alla quale
confusamente aspiravano; coltivavano in proposito molte idee superstiziose e teologiche sulla natura dell’essere reale: per esempio che
fosse di per sé preferibile e “maggiore” rispetto al puro possibile. Disgraziatamente Socrate nutriva, a proposito della scrittura, l’ingenuo
convincimento che si trattasse di un’operazione inutile e dannosa alla
filosofia, una sorta di muto residuo calcificato, un cadavere incorruttibile, insomma, incapace di rispondere all’eterna domanda degli
umani. Aveva dunque lasciato non scritti tutti i libri che adesso, nell’imminenza della sua fine, avevano fretta di superare in qualche
modo la propria inesistenza. Si trattava di molti volumi, di cui si dà,
qui di seguito, un parziale approssimativo elenco:
Ironia e maieutica
Genesi e interpretazione del concetto
Aristofane e le miserie della commedia
Contro Policrate
I mali della democrazia e il processo delle Arginuse
Tutto quello che avreste voluto sapere sui sofisti, ecc. ecc.
Molte erano inoltre le epistole, alcune di cospicua importanza storica e documentaria, altre più futili ed inessenziali, ma non abbastanza
1
Il racconto è stato pubblicato nel volume della medesima Autrice La melagrana di
Persefone (12 racconti brevi), Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2000.
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insignificanti – comunque – da tirarsi indietro nella probabile petizione comune, e con una vaga consapevolezza, anzi, di poter costituire,
un giorno, il fronte ragguardevole ed emergente delle dottrine minori.
Erano quelli gli ultimi giorni della prigionia di Socrate: era consuetudine infatti sospendere le esecuzioni capitali, finché non fosse
tornata da Delo la nave sacra.
I libri non scritti osservavano Socrate misurare la cella a piccoli
passi con grande serenità, obbedire con mitezza al pur mite guardiano, respingere il progetto di fuga di Critone con scriteriati argomenti,
attendere la morte come un albero antico in una quieta mattina d’autunno. Per molto tempo ciascuno degli scritti virtuali era rimasto
chiuso in sé, nel proprio indecifrabile cruccio, senza comunicare con
gli altri: anzi, titolare esclusivo di un esclusivo diritto alla vita reale,
a dispetto di chi non sembrava soffrire abbastanza. Solo di recente gli
scritti virtuali avevano trovato un’unità o un accordo, prima che il
nulla nascosto dentro di loro li spingesse in un luogo troppo silenzioso e indeterminato. Tuttavia non sembrava che questo fosse sufficiente, neppure a uno solo di essi, per uscire dalla sua sterile, parallela perfezione.
La nave sacra ha ormai doppiato Capo Sunio e sarà presto ad
Atene. Santippe, Mirto e i tre figli delle due mogli di Socrate sono
stati congedati perché inopportunamente lamentosi, con motivazioni
in realtà un po’ ridicole nella loro natura guerriera.
I libri virtuali sentono il tempo fuggire: come fantasmi e vampiri
poco prima dell’alba. La loro candidatura ad un’esistenza reale non è
sostenuta da ragioni chiare e adeguate, ma tessuta di un fine, complicato e inafferrabile transito di astrazioni che si protendono verso un
futuro di cui Socrate non ha ragione di occuparsi. Essi vorrebbero, per
esempio, ricordare a Socrate, che non è bene, per un filosofo, consegnare tutta la propria vita, le proprie parole volatili e il proprio enigma
(tutti gli uomini ne nascondono almeno uno e non fanno eccezione i
filosofi) al chiacchiericcio fluttuante e postumo, al più dissennato, ma
anche al più fondato deposito di incertezze predisposto dal futuro per
racchiudere il passato, pronunciando su di esso, come in un giuramento, pesanti parole definitive. Non vorresti forse tu, Socrate, rispondere
per tempo a tali Heidegger, Nietzsche, e persino De Crescenzo? Ma
Socrate, che ha scelto di morire, non può essere intimorito ormai, né
blandito con simili argomenti. E in realtà nessuna strategia può ormai
toccare la sua separatezza.
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Per Socrate è appena cominciato l’ultimo giorno di vita. Il suo
animo è lieve. Può vedere il mare dalla piccola finestra della cella:
appena una feritoia che inquadra le pendici del Licabetto e in lontananza un azzurro tratto di Egeo ventoso. Si chiede se i suoi tre figli
(solo il primo è già un ragazzo; i due ultimi, figli di Mirto, appena dei
bambini) abbiano mai visto da vicino il mare. Si chiede se in definitiva sia più virtuoso dedicare le proprie ultime ore a discutere con
Simmia, Fedone, Cebete e altri fedeli compagni dell’immortalità dell’anima, di cui forse nessuno dubita, neppure lo scettico Crizia, o se
non sarebbe più giusto e caro agli dei richiamare Mirto e spiegarle
quanto il mare sia importante nell’educazione dei figli, e pregarla di
condurli, forse oggi stesso, in riva al grande Egeo, perché possano
contemplare, nel movimento delle onde, lo stesso libero movimento
della mente. Stupito, Socrate ha la sensazione di avere omesso qualcosa e che questa omissione abbia alterato, forse, il segreto ordine
della sua vita. Lo vince una dolorosa incertezza: Mirto e i suoi figli
sono cari al suo cuore, ma la migliore conclusione di una buona vita
è sicuramente un alato discorso sull’immortalità dell’anima, ora che
l’anima sta per guarire – finalmente – dall’oscura malattia del corpo.
Socrate tentenna: un dubbio lo trascina come in un piccolo gorgo, dal quale adesso guarda, per la prima volta, un altro se stesso. Il
dubbio si addice ai filosofi, a Socrate in particolare, ma questo somiglia piuttosto all’esordio di un nuovo processo, forse di un’altra specie di morte. Il capo di imputazione che non è chiaro ai giudici, è d’un
tratto chiaro al condannato. Se confronta i dubbi del passato con la
greve, spessa nostalgia racchiusa in questo piccolo gorgo, come in
una bara, essi gli sembrano un lieve, allegro vento d’aprile. Una soluzione piena di difficoltà si fa strada nella sua mente: scriverà una
lettera a Mirto (ma la giovane mogie ha mai imparato a leggere?) e
trascorrerà le ultime ore con i fedeli compagni, come è giusto per un
vecchio filosofo ateniese.
Dal carceriere dunque si fa portare una pergamena sottile e su
quella comincia a scrivere la sua lettera testamento. Di molte cose
parlerà a Mirto e ai suoi figli, le molte cose più eterne dell’eternità,
che aveva dimenticato di dire.
I libri virtuali lo osservano sbalorditi,pronti ad approfittare di
questa improvvisa debolezza di Socrate, che forse offre un’esile speranza a qualcuno di loro. Socrate ha già scritto alcune righe: nei suoi
movimenti rivela adesso una volontà divenuta chiara. Improvvisa– 11 –
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mente, inaspettatamente, anche un piacere. Una rete leggera, eppure
inamovibile, di segni si compone sul foglio; un moto ondoso e sensuale cattura le sue dita e – insieme – la sua mente. E tutto ciò lo colpisce con la forza di una tardiva passione. Forse Mirto non leggerà
questa lettera: la guarderà, muta e dolente, come l’ultimo enigma di
un uomo che ha capito poco. E tuttavia Socrate continua a scrivere:
non è l’eternità della scrittura che insegue, la traccia di sé che resta e
che fa giustizia in anticipo, come vorrebbero gli scritti virtuali, di
tutto ciò che sarà detto di lui. D’un tratto egli sa che la parola scritta
non risponde – lo ha sempre pensato, infatti – ma adesso si accorge
che essa è destinata, al contrario, ad interrogare, scegliendo, tra le
infinite domande, quella che più somiglia alla nostra vita. I pezzi che
sempre mancano per chiudere il cerchio sono adesso lì, nel giorno
della sua morte: non offrono risposte, è vero, ma assumono su di sé
il peso e la paura del caos.
Una parte di Socrate, del resto, una parte che egli non conosce
ancora, non può misteriosamente essere “parlata”; vuole essere scritta
e trattenuta amorevolmente, come una domanda, appunto, a cui potrà
rispondere solo un’intera vita.
È sera ormai. Nella cella di Socrate si addensano le ombre del
tramonto; il giovane Apollodoro, in lacrime, reca una torcia che illumina volti induriti dall’angoscia. È Socrate il primo a parlare. Ciò che
egli dirà ai suoi amati compagni, Platone, fedele all’icona che sta
costruendo, non riporterà integralmente, né mai racconterà ai posteri
della lettera testamento che il filosofo scriveva guardando, da lontano,
il mare.
Dall’altro lato della cella, mentre Socrate si appresta a bere la cicuta, gli scritti virtuali tacciono, rinunziando, vittoriosi, alla sedizione.
(1990)
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MARIO CARINI
Trent’anni dopo,
riflessioni sulla Libia
Misi piede per la prima volta nella Libia di Gheddafi nell’ottobre
del 1982, mandato dall’ENI ad insegnare nella locale scuola italiana.
Il primo impatto fu impressionante. Ricordo ancora, oltre alle indicazioni rigorosamente in arabo, i grandi cartelloni e i manifesti con il ritratto del leader della rivoluzione verde che accoglievano lo straniero
(non il turista, perché allora non c’era, a quanto ricordo, turismo nel
paese libico) all’aeroporto. Si riceveva, allora, una sensazione di sfrenato culto della personalità, che ricordava quello tipico di un paese
veterocomunista, unito al visibile potere del grande capo.
Proprio perché non potevo non riandare con la memoria a quelle
immagini, devo ammettere di aver provato sorpresa e sgomento leggendo gli articoli e vedendo per televisione, nell’ottobre 2011, ossia
ben trent’anni dopo, le sequenze terribili della fine del dittatore.1 Le
ultime immagini di Gheddafi vivo, come tutti ricordiamo, mostrano
un povero corpo insanguinato e sbatacchiato, tra urla e spari, dai suoi
catturatori, i giovani insorti della nuova (e, si spera, democratica)
rivoluzione libica (un ulteriore episodio della fase di grandi cambiamenti politici che sta agitando i paesi del Maghreb dal febbraio del
2011).
Ripeto che mai avrei immaginato di vedere tali scene della fine
di Gheddafi, allorché, appena laureato, giunsi a Tripoli per insegnare
nella locale scuola italiana: ovunque, a partire dall’aeroporto, campeggiavano i ritratti della Guida Suprema della rivoluzione e fondatore della “Jamahiriya araba libica popolare socialista” (questo il
nome ufficiale della Libia assunto nel 1977) guidata dai principi del
1
I quotidiani di tutto il mondo hanno dato ampio risalto alla fine di Gheddafi: ricordiamo, per l’Italia, i titoli a sei colonne del “Corriere della Sera” (Un colpo alla tempia dopo
la cattura) e di “La Repubblica” (Ucciso Gheddafi, la guerra è finita) del 21 ottobre 2011.
Le prime pagine dei più importanti quotidiani stranieri, invece, sono raccolte nel fascicolo
Gheddafi 1942-2011, supplemento a “Internazionale”, n. 921, 28 ottobre 2011.
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Libro Verde. Quello che appariva (ed era) l’indiscusso leader della
Libia sembrò a me, appena arrivato e assolutamente ignaro della
realtà che avrei trovato, un grande statista dotato di un innegabile e
straripante carisma, una sorta di novello Augusto africano (mi si
perdoni il paragone) fondatore di un nuovo ordinamento nel quale
il popolo esercitava la sua sovranità in modo assolutamente e originalmente difforme dai tradizionali regimi parlamentari occidentali e
da quelli comunisti orientali. Gheddafi, che era al potere, allora, da
tredici anni (e vi sarebbe rimasto per altri ventinove), non deteneva
ufficialmente alcuna carica, ma il suo carisma, come quello di un
capo spirituale, lo poneva al di sopra di tutti gli altri e gli assegnava
un potere di ratifica determinante ed esclusivo in ogni questione
politica.
Non tardai comunque ad accorgermi che quel paese era oppresso
da una autentica dittatura, al di là degli slogan sulla democrazia autentica e sulle masse al potere. Una dittatura ferreamente controllata
dal leader libico, che allora mi pareva destinato a un fulgido destino
di gloria (almeno nel suo paese), un destino smentito completamente
dall’imprevista e tragica sua fine.
La fine di Gheddafi è stata quella che, per una sorta di nemesi
storica, tocca a tutti (o quasi) i dittatori che per troppi anni hanno
conculcato la libertà del loro popolo, servendosi di ogni mezzo per
reprimere il dissenso. Quella violenza che il dittatore non aveva esitato a usare contro il suo popolo, in patria e all’estero (pensiamo agli
assassinî degli oppositori politici avvenuti, con il suo avallo, anche
in Italia), alla fine si è rivolta contro di lui. La morte di Gheddafi ha
così assunto le valenze di un rito sacrificale, quasi che quei giovani,
accanendosi a calci e pugni contro quel corpo che grondava sangue,
abbiano voluto distruggere fisicamente l’incarnazione del Male
che aveva tormentato il loro paese e di tutte le tragedie e i lutti che
avevano colpito il popolo libico, e insieme annientare la figura dell’odiato Padre tirannico. Ripresa nelle incerte sequenze filmate dei
video-cellulari, è andata quindi in scena la morte del tiranno, atto
analogo, sul piano simbolico e psicanalitico, alla morte del Padre,
esito di un gigantesco complesso edipico collettivo, quale è stata teorizzata da Freud nel celebre saggio Totem e tabù (1913). Una scena
ricorrente, soprattutto nella storia del Novecento, il secolo dei totalitarismi: ogni tirannide sembra concludersi, per un’inesorabile legge
della storia, con la truculenta fine del tiranno stesso, il padre della
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patria, da parte dei suoi figli, il popolo oppresso da un potere violento
e terrorizzante.2
Vedendo quelle immagini, in effetti, sono stati inevitabili gli
accostamenti con la fine di Mussolini (quell’accanirsi dei ribelli sul
corpo agonizzante e poi senza vita di Gheddafi ha fatto venire alla
mente le terribili scene di Piazzale Loreto)3 o con quella di Ceausescu,
lo spietato dittatore romeno. La terribile legge della storia, quella del
Sic semper tyrannis, sembra peraltro confermata dalla considerazione
che pochi sono stati i dittatori risparmiati dall’ira della folla, come
Saddam Hussein, scovato in una cella sotterranea a Tikrit nel 2003 e
condannato a morte dopo un legittimo processo celebrato da un
tribunale iracheno, e ancor meno quelli che sono riusciti a morire
nel loro letto o in un letto d’ospedale, scampando a una fine tragica e
violenta, come Stalin o Francisco Franco.
Pur considerando che ogni tirannide miete le sue vittime e che a
queste non può anzitutto non andare la nostra solidale compassione,
proprio in nome della civiltà e dell’etica non è comunque accettabile
la logica della pura vendetta, la tragica e barbarica legge dell’occhio
per occhio dente per dente.
Non posso perciò non condividere pienamente la condanna e la
riprovazione espresse, a proposito dell’esecuzione di Gheddafi, con
le sue orribili scene che assomigliano a un vero e proprio linciaggio,
da Vittorio Zucconi nel suo commento Quel corpo profanato, apparso
su “La Repubblica”, di cui riporto una parte:
“In queste deposizioni senza pietà, che espongono il nemico come un
trofeo di caccia, buttato sul cofano di una camionetta proprio come
una capra abbattuta mentre bela ancora per chiedere pietà e si dibatte, si strozza in gola il grido di liberazione e di gioia che dovrebbe
2
La teoria della morte del Padre è stata applicata anche all’analisi, in chiave freudiana,
di altri fenomeni storici del Novecento, come, ad esempio la contestazione giovanile del
Sessantotto: vd. Jacques Mousseau, La morte del padre, in “Pianeta”, n. 24, settembreottobre 1968, pp. 13-23.
3
Analizza la valenza simbolica di ogni atto compiuto sui corpi di Mussolini e dei
gerarchi appesi a Piazzale Loreto il saggio di Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi,
Torino 1998, pp. 63-68. Riscontra singolari analogie tra la morte di Mussolini e quella di
Cola di Rienzo Paolo Monelli in Mussolini piccolo borghese, Garzanti, Milano 1968, rist.,
p. 373. Rappresenta la scena di Piazzale Loreto come una oscena e orribile festa (analoga,
a nostro giudizio, al rito antichissimo del banchetto gioioso dei Figli assassini del Padre
nella teoria freudiana esposta in Totem e tabù) Silvio Bertoldi in Piazzale Loreto, Rizzoli,
Milano 2004, pp. 243-246.
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sempre accogliere la caduta dei tiranni. Non si riesce a gioire per
scene da bassa macelleria, anche quando il finale era già stato scritto
e meritato da quando lui aveva deciso di resistere per vanità e cecità
nel ridotto della propria città natale. Pur sapendo che la sua resistenza avrebbe immolato altre centinaia di libici. È stato un abisso di
orrore quello nel quale il raìs ridotto a un vecchio implorante e sanguinante è stato risucchiato, con una furia vendicativa che fa rabbrividire e fa ripensare alle voci sulle torture e le violenze dei ribelli contro i loro prigionieri lealisti, richiamo alle torture dei “liberatori”
americani nel carcere di Abu Ghraib e all’orrore dei cadaveri dei
figli di Saddam esibiti alle telecamere. La sua inutile resistenza, la
furia bestiale e vile della folla, da branco in rivolta contro il “lupo
alfa” ormai spelacchiato e impotente, entrano, insieme con la profanazione dei corpi di Mussolini, della Petacci, degli altri gerarchi fascisti, nell’archivio delle dittature accecate e condannate all’oscenità
del finale”.4
Eloquenti anche le parole di Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”, che accosta anch’egli gli oltraggi patiti da Gheddafi, nelle
mani dei suoi catturatori, a quelli che subirono i corpi di Mussolini e
dei fascisti appesi a Piazzale Loreto:
“È difficile indicare la via giusta. Ma non c’è memoria delle torture
che gli aguzzini di Gheddafi hanno inflitto al popolo libico che possa
giustificare la rappresentazione brutale che ieri ha macchiato l’atteso epilogo di un dispotismo crudele e disumano, nemmeno attenuato
dalle pose pagliaccesche che l’ex padrone della Libia amava ostentare come segno del suo smisurato e capriccioso potere. La giustizia
sommaria non è mai la via giusta. La brutalità primordiale non è mai
la via giusta. Noi italiani, in special modo, sappiamo che la celebrazione dell’eterna Piazzale Loreto per i dittatori in disgrazia non è mai
la via giusta. Soddisfa il gusto della vendetta, ma non quello della
giustizia. Lava con il sangue del dittatore l’onta delle sofferenze patite, ma non è l’augurio di un nuovo inizio, di una pagina nuova della
storia che sappia chiudere con gli orrori del passato e impedisca a
una nazione liberata di avvitarsi nella spirale delle rappresaglie, nel
bagno di sangue purificatore, prologo di nuovi orrori e ingiustizie.
Ecco perché le scene del corpo straziato di Gheddafi, scandite dalla
comprensibile ma scatenata furia di chi lo ha catturato, non possono
rallegrare chi ha condiviso l’intervento militare della Nato per aiutare i ribelli libici nella loro guerra al dittatore. Forse era inevitabile
che finisse così. Ma forse è giusto ostinarsi a pensare, e a sperare, che
4
Vittorio Zucconi, Quel corpo profanato, in “La Repubblica”, 21 ottobre 2011, p. 6.
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il crepuscolo delle dittature non debba conoscere la carneficina come
suo esito obbligato”.5
Nel segno della pietà che cristianamente si deve a tutti gli sventurati (alla fine anche il potente dittatore, dalla sua nemesi, a essere tale è stato ridotto), svolge il suo commento Carlo Cardia sulla prima
pagina dell’“Avvenire”. Ne cito la parte iniziale:
“Le immagini della morte di Gheddafi hanno provocato in tanti di noi
un grumo di sentimenti e un groviglio di pensieri che si sono intrecciati velocemente come in un caleidoscopio confuso. Un sentimento di
pietà che non deve mai abbandonarci, per il corpo colpito ed esposto
con brutale insistenza anche mediatica, e insieme di commiserazione
per una umanità che fatica a trovare un equilibrio tra giustizia e orrore, che non dovrebbero mai stare insieme. Però, è riaffiorata anche
la pietà per le tante vittime che il regime del rais si è lasciato dietro di
sé. È una pietà profonda, non erosa dal tempo trascorso, perché i dissidenti libici incarcerati, giustiziati, torturati, e gli italiani e gli ebrei
perseguitati e scacciati, fanno parte dello stesso lugubre affresco di
cui Gheddafi è stato autore, come ne fanno parte le vittime straziate e
strazianti degli attentati internazionali organizzati e comandati negli
anni 80, primo fra tutti quello di Lockerbie, da un colonnello trionfante, ebbro di potere, di odio verso l’Occidente. È una pietà senza
fine, perché a voler percorrere all’indietro la scia di sangue e di
dolore che il regime libico ha costruito, la ragione vacilla, potrebbe
quasi giustificare l’orrore di oggi. Ma la nostra umanità non può
cedere a una vendetta che eguagli la ferocia del persecutore.6
Sono parole improntate a pietà umana e cristiana, che però non
escludono la ferma condanna di un regime feroce e sanguinario, quale,
secondo il Cardia, sarebbe stato quello di Gheddafi.
Leggendo questi commenti, viene spontanea una riflessione. Per
una sorta di nemesi storica sembra inevitabile che la transizione dalla
dittatura alla democrazia debba essere sempre accompagnata da una
scia di violenza e di sangue che ne deturpa in qualche modo quella
vittoria che è o dovrebbe essere la festa dei valori riconquistati della
libertà e democrazia. Non sarebbe invece meglio che una dittatura,
ancorché feroce, si chiudesse con il giusto processo al dittatore deposto, anziché con la altrettanto feroce pratica della sua esecuzione
Pierluigi Battista, Ma lo scempio di un cadavere non può mai essere giustizia, in
“Corriere della Sera”, 21 ottobre 2011, p. 6.
6
Carlo Cardia, La pietà e la ragione, in “Avvenire”, 22 ottobre 2011.
5
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senza processo? Se lo è chiesto, a proposito della fine di Osama Bin
Laden, il capo di Al Qaeda scovato e ucciso nel suo fortino in Pakistan dalle Forze Speciali americane nel maggio 2011, il giornalista
Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera”. Questa la sua risposta:
“Sottoporre Osama Bin Laden a un regolare processo, magari davanti al tribunale internazionale costituito proprio allo scopo di provare e punire i crimini contro l’umanità, sarebbe stato un passaggio
difficile per l’America, ma certo avrebbe rafforzato il suo prestigio di
patria della democrazia moderna, uscita scossa dalle vicende dell’Iraq, di Abu Ghraib, di Guantanamo. È difficile avanzare rilievi agli
uomini che hanno liberato il mondo dal fondatore di Al Qaeda e che
oggi un’intera nazione onora, a cominciare dal presidente democratico Obama e da Hillary Clinton, che annuncia secca: «Bin Laden è
morto, giustizia è fatta». Però non c’è dubbio che le buone cause non
escono ridimensionate ma rafforzate da un procedimento giudiziario
condotto secondo il diritto internazionale, che comprende anche le
garanzie per i colpevoli. (...) Ricordare l’esistenza di un’altra via 7
– la cattura, il processo, la condanna, l’espiazione della pena – non
significa abbandonarsi a facili umanitarismi. Significa ribadire la superiorità del diritto e della democrazia sul terrore e sul dispotismo”.8
Venendo a Gheddafi, non sostengo che egli non meritasse di essere punito per i crimini di cui molto probabilmente si è macchiato
(basti ricordare l’appoggio ai movimenti terroristici e il terribile sospetto del suo personale coinvolgimento nella strage di Lockerbie),9
tuttavia la sua fine, a mio avviso, ha rappresentato una pagina oscura
nella vittoria della libertà in Libia. Anzitutto, osservo che il passaggio
dalla dittatura alla libertà non è stato affatto indolore: per porre fine al
regime di Gheddafi è occorso spargere molto più sangue di quando
7
Un’altra via in confronto all’esecuzione senza processo del nemico vinto e catturato.
Cazzullo poco prima cita il caso, che anche per Gheddafi è divenuto un termine di paragone
obbligato, della esecuzione di Mussolini e del suo immaginario processo.
8
Aldo Cazzullo, Processare Osama Bin Laden.Un’occasione (mancata) di forza, in
“Corriere della Sera”, 3 maggio 2011.
9
Il 21 dicembre 1988 il jet 747 della compagnia Pan Am, volando sulla rotta Londra
New York, esplose, per una bomba a bordo, sui cieli di Scozia, a Lockerbie, provocando
270 vittime. Per quell’atto terroristico sono stati riconosciuti colpevoli due agenti libici,
Abdelbasset Ali Al Megrahi e Lamin Khalifa Firman, che la Libia ha dovuto consegnare
agli investigatori scozzesi nel 1999. Il governo libico ha poi versato ai familiari delle vittime un risarcimento di 2,7 milioni di dollari, ottenendo in cambio la revoca delle sanzioni
ONU. Al Megrahi per motivi di salute è stato rilasciato dalle autorità scozzesi ed è rientrato
in Libia nel 2009, ottenendo trionfali accoglienze.
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egli conquistò il potere, assieme al gruppo di giovani ufficiali libici
che detronizzarono il vecchio re Mohammed Idris I, nel settembre
1969.10 E poi, venendo nello specifico alla fine del dittatore, Gheddafi
è stato catturato ancora vivo, massacrato con calci e pugni e infine
ucciso con un colpo sparato alla tempia. Di fatto un vero e proprio
assassinio, comunque lo si voglia chiamare, la cui impressione è stata
amplificata dalla diffusione quasi in contemporanea delle riprese sulle
televisioni e sul Web.
Proprio perché, sul piano umano, depreco e condanno ogni forma
di violenza (soprattutto quella contro gli inermi, e il dittatore catturato
in quel momento era inerme, alla mercé dei suoi catturatori), mi sento
di affermare che Gheddafi avrebbe meritato un processo legittimo, con
tutte le forme di garanzia internazionale. Un processo, magari, a garanzia
di assoluta e incontestabile imparzialità, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, nel quale gli fosse data la possibilità di difendersi
e di esporre le ragioni di tante sue discusse scelte di politica interna ed
estera. È questa anche l’opinione, espressa in tempi non sospetti, dello
storico e politologo Sergio Romano, autorevole commentatore del
“Corriere della Sera”, il quale in un articolo del 24 agosto 2011 (quando
Gheddafi era ancora ben lungi dall’essere braccato) scriveva:
“Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga
strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un
brillante testo teatrale pubblicato a Londra durante la seconda guerra
mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato
sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini
dopo la fine del conflitto.11 Nel brillante pamphlet dell’autore la prima
mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni
tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato.
Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico?”.12
E del sangue versato durante la guerra civile porterebbero la responsabilità anche i
ribelli: pensiamo alle devastazioni che ha subito la città di Sirte, che ha pagato la sua fedeltà
al dittatore deposto con almeno ventimila morti. Vd. Lorenzo Cremonesi, Quel funesto presagio sotto le macerie, in “Sette”, suppl. al “Corriere della Sera”, n. 44, 3 novembre 2011,
pp. 12-13.
11
Michael Foot, Un inglese difende Mussolini, trad. anon., Edizioni Riunite, Milano
19475, I ed. London 1943. Il testo in verità è una lunga apologia di Mussolini di fronte al
tribunale dei vincitori, nella quale il capo del fascismo si difende chiamando in causa politici inglesi come Chamberlain, Halifax, Hoare e soprattutto Churchill.
12
Sergio Romano, I veleni in coda a una dittatura, in “Corriere della Sera”, 24 agosto 2011.
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L’evocazione, nell’articolo, del processo, che non si fece, a Mussolini preconizzava forse, involontariamente e sorprendentemente,
il mancato processo a Gheddafi? Al Raìs13 libico, come tutti abbiamo
visto, non è stato dato il tempo di presentarsi davanti a un tribunale e
quel processo auspicato da Sergio Romano non ha avuto e non avrà
mai luogo, per la buona pace e il sollievo dei tanti personaggi politici,
anche insospettabili, che assai probabilmente sarebbero stati chiamati
a testimoniare dal deposto dittatore.
Un processo ipotetico a Gheddafi appartiene ormai agli argomenti
dell’ucronia, ossia della storia fatta con i “se...”. Su esso ha riflettuto il
giornalista americano David Rieff nel suo articolo Relazioni pericolose,
pubblicato sull’autorevole “Foreign Policy” e apparso in versione italiana sul periodico “Internazionale”.14 Ebbene, come sarebbe stato un
processo a Gheddafi? Che cosa avrebbe probabilmente detto l’ex dittatore, imputato di crimini contro l’umanità (come lo furono i capi nazisti a Norimberga), di fronte ai giudici della Corte penale internazionale
dell’Aja? Assieme a tante bugie e false accuse, scrive il Rieff (ma non
comprendo che interesse avrebbe potuto avere l’ex Raìs nel ricorrere
alle menzogne, nella sua delicata condizione di imputato, dato che facilmente sarebbe stato smentito), Gheddafi avrebbe certamente parlato
dei suoi rapporti con il presidente francese Sarkozy e con il premier inglese Blair, della collaborazione del suo governo con i servizi segreti
occidentali in materia di antiterrorismo, degli accordi con l’Unione
Europea per il controllo del flusso dei migranti dalle coste libiche, dei
contratti concessi alle aziende europee operanti nei più svariati settori,
a partire da quello petrolifero. Avrebbe parlato certamente della collaborazione da lui offerta all’Occidente nella lotta contro il terrorismo islamico, degli stretti rapporti che legavano la sua famiglia a Mark Allen, ex
capo della sezione antiterrorismo dell’Mi6, il servizio segreto inglese. La
sua morte ha definitivamente sepolto tante verità scomode che sarebbero
potute emergere in quell’ipotetico processo.15 Conclude Rieff:
13
Anche se i media hanno utilizzato spesso il termine Raìs per indicare il leader libico, sarebbe più corretto utilizzare il termine Qaìd (Qa-’id), che designa il capo spirituale e
politico di un comunità, come avverte nel suo articolo Karim Mezran, Glossarietto delle
bufale belliche, in La guerra di Libia, Quaderni Speciali di “Limes”, n. 2, 2011, p. 72.
14
David Rieff, Relazioni pericolose (in “Foreign Policy”), trad. in “Internazionale”,
n. 921, 28 ottobre 2011, pp. 28-29.
15
Così afferma anche l’on.Emma Bonino nell’intervista rilasciata a Rosalba Castelletti
(Bonino: “Niente da celebrare, con lui sepolti troppi segreti”, in “La Repubblica”, 21 ottobre 2011).
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“Anche se Gheddafi non era il bersaglio della Nato ed è stato ucciso
durante uno scontro a fuoco, come continua a dire Omran al Oweib,
l’ex ingegnere elettronico che guidava gli uomini responsabili della
cattura di Gheddafi, persone come Sarkozy, Blair e i funzionari del
dipartimento di stato ai tempi di George W. Bush da qualche giorno
dormono sicuramente meglio. Che se lo meritino è tutta un’altra questione”.16
E che dire dei politici italiani, di maggioranza e opposizione, che
dagli anni Settanta sono volati a Tripoli per omaggiare il dittatore, e
che sarebbero stati probabilmente tirati in ballo da un Gheddafi ipoteticamente processato?
Gheddafi quindi era divenuto troppo scomodo per gli occidentali,
i quali sapevano che mai avrebbe spontaneamente rinunciato al
potere. E, a proposito del giudizio complessivo che post eventum si
comincia a dare del personaggio, occorre evitare di cadere nella trappola dei pregiudizi, sia pur alimentati e parzialmente giustificati dai
comportamenti del dittatore. Gheddafi sarà assai probabilmente posto
tra i “Cattivi” della storia e assai probabilmente spunteranno fuori documenti, magari inoppugnabili, sulle nefandezze del regime, che già
comincia a essere definito un bloody regime, un regime sanguinario,
dai media internazionali, specie in Occidente.17 Già sono comparse notizie sugli orribili misfatti commessi dal dittatore e dalla sua famiglia,
come le accuse al Raìs di aver distribuito alle infermiere bulgare il
virus dell’Aids per infettare i bambini libici (ne sarebbero stati contagiati ben quattrocento)18 e la brutalizzazione della giovane bambinaia
etiope Shweyga Mullah, che sarebbe stata compiuta da Hannibal, il
figlio del dittatore ben noto per i suoi comportamenti violenti, e da
sua moglie Aline.19
Eppure, nonostante la sua crudeltà e spietatezza ampiamente testimoniate, non v’è dubbio che Gheddafi sia stato anche uno statista
e abbia amato, a suo modo, il popolo libico. Prova ne sia che negli
David Rieff, Relazioni pericolose, cit., p. 29.
Così è definito il regime di Gheddafi in un commento sulla prima pagina dell’autorevole quotidiano inglese “The Guardian” del 21 ottobre 2011 (riportato nel fascicolo
Gheddafi 1942-2011, cit.).
18
Davide Frattini, Torna il mistero delle infermiere bulgare «Il Raìs diede loro il virus
per infettarci», in “Corriere della Sera”, 3 settembre 2011.
19
«Legata e ustionata» Le torture della moglie di Hannibal alla babysitter, in
“Corriere della Sera”, 30 agosto 2011.
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ultimi anni aveva finanziato con ben trenta miliardi di dollari il colossale progetto del “Grande fiume artificiale” per portare, con una
rete di quattromila chilometri di acquedotti, la purissima acqua dei
pozzi del Gebel Al Hasawinah, in pieno deserto, nelle case di Bengasi,
Sirte e Tripoli. Per permettere agli abitanti della Libia di avere finalmente un buona acqua potabile, al posto di quella salmastra e sabbiosa
che usciva dai rubinetti,20 Gheddafi aveva speso quella enorme somma di denaro rinunciando ad altre iniziative nel campo della chimica
e della siderurgia e al rinnovo degli armamenti.21
Gheddafi, a mio giudizio, non è stato il classico tiranno affamatore e sfruttatore del suo popolo, pur se, ripetiamo, il suo regime ha
avuto assai più ombre che luci. Dovremmo dunque guardarci dalle
facili demonizzazioni postume (come, fin da quando Gheddafi era al
culmine del suo potere, ammoniva Giulio Andreotti che lo “vide da
vicino”),22 se vogliamo tentare di osservare e comprendere, senza uno
sguardo viziato dal preconcetto, la complessa natura del regime instaurato dal dittatore libico e mantenuto per ben quarantadue anni. La
misura temporale di questo regime, la sua longevità, contraddice
vistosamente alla pretesa follia del dittatore. Al contrario, essa gli dà
comunque una sua dimensione di grandezza, nel bene e nel male: la
futura storia dell’Africa dovrà necessariamente riservare un ampio
capitolo a questo assai discusso personaggio. Quantomeno, se ha retto
per quarantadue anni un paese indubbiamente difficile da governare
(per la struttura sociale ancora basata sul modello tribale), e a dispetto
delle decine di attentati e tentativi di colpi di stato che ha dovuto
fronteggiare, Gheddafi ha avuto la tempra dell’uomo politico abile e
accorto e si è dimostrato dotato di un indubbio carisma, di un ascendente sul suo popolo. È vero che abbiamo avuto nella storia altri
esempi di dittatori folli e megalomani, ma essi non sono durati il temAcqua di cui io stesso feci esperienza al tempo della mia permanenza a Tripoli: ricordo che risolsi il problema con l’applicazione costante di un depuratore al rubinetto, senza il quale l’acqua sarebbe riuscita assolutamente imbevibile.
21
Vd. in proposito Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, Editori Laterza, Roma-Bari 2010, nuova ed., pp. 287-290.
22
In Visti da vicino (Rizzoli, Milano 19927, rist.), una raccolta di profili di personaggi politici italiani e stranieri personalmente conosciuti, Andreotti, che andò in visita a Tripoli sia come presidente del consiglio sia come ministro degli esteri, ci dà un ritratto tutto
sommato equilibrato e arguto del leader libico, affermando di far sempre fatica “ad accettare la drastica e semplicistica classificazione degli uomini in buoni e cattivi” (p. 347) e
perciò cercando di motivare razionalmente le apparenti bizzarrie del Colonnello.
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po di Gheddafi. Penso all’ugandese Idi Amin Dada, al crudele imperatore centrafricano Jean-Bedel Bokassa (Bokassa I) e, prima ancora,
per citare il più celebre dittatore del Novecento, a un Hitler, il quale
disponeva del potentissimo strumento della Wehrmacht, di fronte al
quale le forze armate gheddafiane, pur assai potenti in confronto agli
eserciti degli altri stati africani, erano ben misera cosa.23 Hitler (se è
lecito tentare un paragone), per restare all’esempio più eclatante, disponeva, per i suoi piani di dominio sull’Europa, della Wehrmacht,
l’esercito tedesco, e aveva fondato il Terzo Reich pretendendo che
dovesse durare mille anni (ma ne durò solo dodici). Gheddafi, pur
pretendendo, nella prima fase del suo dominio, di esportare la rivoluzione del Libro Verde negli altri paesi africani, disponeva di un esercito potente per armi e mezzi (però in buona parte obsoleti), ed è durato al potere quarantadue anni. Inoltre, a dispetto di tanti bellicosi e
incendiari proclami contro l’Occidente e Israele, non ha scatenato alcun conflitto mondiale. Di più, ha offerto, soprattutto negli ultimi anni, una preziosa collaborazione ai servizi segreti occidentali nella lotta contro il terrorismo fondamentalista islamico. Era davvero un irriducibile nemico dell’Occidente, com’è stato per tanti anni dipinto da
gran parte della stampa? Davvero non esistevano possibilità per accordarsi con lui e per indurlo a mitigare i suoi punti di vista?
Non si può non pensare, del resto, che Gheddafi abbia goduto di
notevoli coperture e appoggi tali che gli hanno permesso di mantenere il potere, praticamente indisturbato, per un lungo periodo di tempo,
nonostante le sue azioni politico-diplomatiche spesso incendiarie, il
dichiarato appoggio a movimenti terroristici come l’IRA e la fama di
imprevedibile e stravagante spietatezza che lo accompagnava e che era
da lui stesso alimentata. Mi attendo naturalmente sensazionali rivelazioni in proposito (quelle che sempre accompagnano e seguono la caduta e la damnatio memoriae di ogni dittatore), ma se dovessero venir
fuori le crudeltà e le nefandezze commesse dal regime sugli oppositori politici o il coinvolgimento in azioni terroristiche, dovrei pormi necessariamente la domanda: davvero i paesi occidentali amici della Libia non ne sapevano nulla? Rispondo subito col dire che non è pensa23
Su Idi Amin Dada, feroce e istrionesco dittatore dell’Uganda dal 1971 al 1979, e su
Bokassa, il crudele “imperatore cannibale” della Repubblica Centrafricana dal 1977 al 1979
(ma il suo dominio era iniziato nel 1966), vd. i sintetici profili in Clive Foss, Tiranni, trad.
di Daniele Ballarini, Newton Compton editori, Roma 2008, pp. 227 e 217 e ss.
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bile, a mio avviso, che i governi occidentali fossero del tutto ignari a
proposito delle crudeltà del regime. Le ambasciate (che notoriamente
hanno collegamenti con i servizi segreti), solo che sappiano fare un
minimo il loro mestiere, sono solitamente ben informate su quanto avviene all’interno del paese che le ospita. I rapporti che gli ambasciatori stilano periodicamente contengono di solito notizie riservate e secretate rispetto alla pubblica opinione: sarebbe oltremodo interessante
conoscere almeno quelli che l’ambasciata italiana inviava al governo
dal colpo di stato del settembre 1969 in poi. E poi i rapporti periodici
di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch
denunciavano con precisione le violazioni dei diritti umani in Libia.
Eppure proprio con la Libia di Gheddafi i paesi occidentali avevano realizzato gli affari più lucrosi. Per restare all’Italia, numerose
erano le imprese italiane che operavano in Libia fin dagli anni Settanta, a cominciare dall’Agip e dalla Fiat, per finire con la Oto-Melara e la Montubi, tanto per citare qualche importante nome. La cooperazione economica tra Libia e Italia è stata assai stretta fin dagli inizi
del regime di Gheddafi: a dispetto della propaganda antitaliana e delle minacciose e ultimative dichiarazioni del leader libico, gli accordi
economici si sono susseguiti invariabilmente nel tempo, e con reciproca soddisfazione delle parti. Particolarmente fruttuosi per l’Italia,
ad esempio, furono gli accordi con l’ENI seguiti alla visita in Italia
del maggiore Jallud, il vicepremier, nel febbraio 1974, come ricorda
lo storico Angelo Del Boca nella sua recente biografia di Gheddafi:
“La visita di Jallud a Roma è seguita da un altro accordo, a livello
operativo, firmato il 21 settembre 1974, fra il governo di Tripoli e
l’Agip. In base alle nuove intese, la società petrolifera dell’ENI ottiene
quattro nuove concessioni: due sulla piattaforma continentale, per una
superficie complessiva di 44 mila chilometri quadrati, e due in Cirenaica, per circa 100 mila chilometri quadrati. L’anno successivo vengono stipulati due nuovi accordi. Il 28 febbraio 1975 viene affidato
alla Snam-Progetti l’incarico di costruire a Tobruk una raffineria della
capacità di lavorazione di 10 milioni di tonnellate di greggio annue.
L’8 luglio, l’ENI e il ministero libico del Petrolio sottoscrivono un accordo di cooperazione economica che prevede la progettazione e l’esecuzione di altri impianti petrolchimici e di raffinazione, di oleodotti
e di iniziative di ingegneria del territorio. Sempre nel 1975 arrivano a
conclusione le trattative per la vendita alla Libia di quattro corvette
lanciamissili, mentre l’Agusta fornisce a Tripoli 24 elicotteri pesanti
del tipo CH-47 C. Né vanno dimenticate le commesse nel settore del-
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l’edilizia. Le imprese italiane costruiscono case a Sebha, Hon, Socna,
Uaddan; fognature e impianti di depurazione a Sebha; fognature e impianti di sollevamento a Bengasi. E numerosi edifici pubblici a Tripoli. A metà degli anni Settanta la Libia è ormai diventata per l’Italia il
paese della cuccagna, dove le commesse piovono a getto continuo e i
pagamenti sono esemplarmente puntuali. La posta in gioco è talmente
importante, che i governi di centro-sinistra possono anche sopportare
che, di tanto in tanto, la Libia risfoderi le sue rivendicazioni e Gheddafi tenga discorsi incendiari contro il colonialismo”.24
Una collaborazione in campo economico che è durata fino ad anni
recentissimi, e soprattutto nel settore delle armi, come ha denunciato
Dacia Maraini in un articolo (Quelle domande sulla Libia) apparso sul
“Corriere della Sera”, di cui riferisco una parte:
“La Libia ha speso in armi, fra il 2005 e il 2008, 1,1 miliardi di dollari.
Molte di queste armi sono state comprate in Italia. Ma andiamo ai
particolari: la Agusta Westland, una società del gruppo Finmeccanica,
«tra il 2006 e il 2009, ha venduto a Gheddafi 10 elicotteri AW109E
Power, per un valore di circa 80 milioni di euro. Si aggiungano una
ventina di velivoli, tra cui l’aereo monorotore AW119K per le missioni mediche di emergenza e il bimotore medio AW139 per le attività di
sicurezza generale». D’altro canto la Libyan Italian Advanced Technology Company (Liatec), posseduta al 50% dalla Lybian Company
for Aviation Industry, al 25% da Finmeccanica e al 25% da Agusta
Westland, ha offerto «servizi di manutenzione e addestramento degli
equipaggi dei velivoli AW119K, AW109 e AW139, tra cui servizi di assistenza tecnica, revisioni e fornitura di pezzi di ricambio». Inoltre, nel
gennaio 2008 la Alenia Aeronautica, un’altra società del Gruppo, «ha
firmato un accordo con la Libia per la fornitura di un ATR-42MP Surveyor, un velivolo adibito al pattugliamento marittimo». Nel contratto,
del valore di 31 milioni di euro, sono compresi l’addestramento dei piloti, degli operatori di sistema, supporto logistico e parti di ricambio.
A sua volta l’Itas srl, un società di La Spezia (secondo il Servizio Studi
- Dipartimento affari esteri della Camera, doc. 140-21/05/2010) si è
offerta di curare il controllo tecnico e la manutenzione dei missili
Otomat, acquistati a partire dagli anni Settanta dal governo di Tripoli.
L’Otomat è un missile a lunga gittata antinave. A seguito degli accordi
contenuti nel Trattato di Bengasi, nel maggio 2009, «la Guardia di
finanza ha proceduto alla consegna delle prime tre motovedette alla
Marina libica per il pattugliamento nel Mar Mediterraneo, seguite nel
febbraio 2010 da altre tre imbarcazioni (da una di queste sono state
24
Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit., pp. 133-134.
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sparate raffiche di mitragliatrice contro un peschereccio italiano nel
2010)»”.25
Si è chiesta polemicamente la Maraini, concludendo l’articolo,
cosa ne sia stato di questi accordi (l’articolo è apparso quando era più
cruenta la guerra civile in Libia e Gheddafi non esitava a usare aerei e
carri armati contro i ribelli) e ha sollevato inquietanti interrogativi.
Perché il nostro governo ha agevolato queste vendite di armamenti?
Perché i cittadini ne sono stati tenuti all’oscuro?Perché trafficare in armi
con un dittatore che palesemente non ha mai rispettato i diritti umani?
Si può tentare in parte una risposta, ricordando che la politica italiana verso la Libia, fin dai tempi di Aldo Moro, è stata ispirata da una
notevole dose di prudenza e acquiescenza verso le pretese, talora provocatorie e assurde, dell’irrequieto vicino di casa: una linea politica,
protratta fino allo scoppio della rivolta in Libia, che però ha concesso
troppo, a mio giudizio, e ha finito per legittimare all’estero l’interlocutore attribuendogli una patente di affidabilità, non si sa quanto meritata.
Sicché non può stupire più di tanto l’accoglienza spettacolare, all’insegna del più sfrenato kitsch, riservata al Colonnello durante la
sua visita ufficiale in Italia nel giugno 2009. Tutto è stato fatto, in
quell’occasione, per accontentare il capriccioso e palesemente divertito leader libico, che si è goduto le piacevolezze dell’ospitalità romana: dalla tenda beduina rizzata a Villa Pamphili26 alla conferenza
sulla condizione femminile tenuta all’Auditorium del Parco della Musica davanti a un pubblico osannante (notati molti politici e imprenditori in platea), dalla “lectio magistralis” sulla democrazia tenuta alla Sapienza,27 alla presenza del rettore Luigi Frati, all’incontro con il
sindaco di Roma Alemanno in Campidoglio, dalla passeggiata a piazza di Spagna e a via Condotti alla cena al ristorante “Il Bolognese” a
piazza del Popolo, con la scorta delle sue amazzoni, le quaranta donne superarmate che fungevano da guardia del corpo.
Dacia Maraini, Quelle domande sulla Libia, in “Corriere della Sera”, 3 maggio 2011.
Cosa che ha scatenato le proteste dei residenti, esclusi in quei giorni dall’accesso
al parco: vd. Valerio Gualerzi, Gheddafi a Roma scatena la polemica, in “La Repubblica”,
10 giugno 2009.
27
Con l’esilarante spiegazione fornita dal Colonnello sul significato di democrazia:
“Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere
sulle sedie” (vd. Gian Antonio Stella, «Il popolo si vuole sedere sulle sedie». A lezione di
democrazia dal Colonnello, in “Corriere della Sera”, 12 giugno 2009).
25
26
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Confesso che, ricordando quelle scene, a me ha fatto una certa
impressione sentir definire per la prima volta Gheddafi post mortem
dagli speaker del TG1 e del TG5 come un “dittatore sanguinario”:
ben altri termini si sono usati fino a poco tempo fa e soprattutto allorché è venuto in Italia per confermare il Trattato di amicizia italo-libica firmato assieme al Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi. Il quale, prodigo di complimenti verso il bizzarro ospite, si è profuso in elogi e gesti di cortesia fino al punto di baciargli la mano,
mentre, dal canto suo, il dittatore si è presentato esibendo provocatoriamente sulla sgargiante uniforme una foto di Omar El Moukhtar.28
Non ho intenzione di stigmatizzare il comportamento tenuto dall’allora capo del governo in occasione della visita di Gheddafi in Italia e delle gradassate di questi, che sono apparse decisamente perfino
al limite se non oltre la buona educazione e il rispetto che si devono
alle cariche istituzionali.29 L’atteggiamento benevolo e (forse troppo)
comprensivo di Berlusconi è stato comunque in linea con una politica italiana che, come si è detto prima, ha riservato molta attenzione
alla Libia e si è sempre sforzata di trovare soluzioni accomodanti con
il bizzarro e scomodo vicino, soprattutto quando questi era diventato
un pericoloso fattore di tensione internazionale.
Ma chi era realmente Muhammar al Gheddafi? L’immagine di
Gheddafi che in Occidente è stata recepita ha dovuto scontare le avventurose e bizzarre iniziative del Colonnello libico, i suoi proclami
incendiari, le durissime prese di posizione contro il dialogo tra Arabi
e Israeliani e soprattutto il sospettato aiuto ai movimenti terroristici in
ogni parte del mondo. Gheddafi il ‘matto’ del deserto era il significativo titolo di un articolo-inchiesta di Ugo Bertone (il quale però alla
fine chiariva che mabul, “matto”, in arabo vuol dire anche “sacro”)
sul leader libico, apparso sul mensile “Storia Illustrata”, n. 10, 1998,
pp. 6-15. Quando è stilato senza pregiudizi ostili il ritratto di Gheddafi
assomiglia a quello di un ingenuo idealista, un appassionato ed esaltato profeta di un progetto di rinnovamento etico-politico universale,
28
Omar El Moukhtar fu il capo della resistenza libica fatto impiccare da Graziani nel
campo di Soluch il 16 settembre 1931. La sua figura era divenuta il simbolo delle rivendicazioni anticolonialiste che Gheddafi avanzava nei confronti dell’Italia e che aveva elevato
a leit motiv della sua strategia politica verso il nostro paese.
29
La più eclatante delle quali, il 12 giugno 2009, è stato l’incomprensibile ritardo di
Gheddafi che ha costretto il presidente della Camera on. Gianfranco Fini ad attenderlo
invano per due ore e poi ad annullare il previsto incontro a Montecitorio.
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come quello che traccia la giornalista francese Mirella Bianco, accostandolo addirittura a Maometto, nella sua biografia piena di ammirazione per il personaggio:
“Comunque, e prescindendo da qualsiasi giudizio su quelle che sono
le sue convinzioni, un fatto salta pur sempre agli occhi: e cioè che si
ha a che fare con un uomo che, pur essendo il capo politico di un
paese arabo, è allo stesso tempo, e forse soprattutto, un mistico alla
costante ricerca di un’ispirazione celeste; un mistico che concepisce
l’avvenire del suo popolo, per non parlare della sua stessa missione
di capo di quel popolo, a un dipresso nello stesso modo in cui il profeta Mohammed, durante i suoi inizi alla Mecca, concepiva il futuro
dei suoi primi fedeli”.30
Giulio Andreotti nel suo volume Visti da vicino narra i suoi tre
incontri con Gheddafi: il primo avvenuto nel novembre del 1978,
quand’era presidente del Consiglio, e gli altri due nel 1983, in qualità
di ministro degli Esteri del governo Craxi.31 Trascrivo di seguito i
ricordi di Andreotti sul terzo incontro, avvenuto il 31 luglio 1983 a
Bengasi:
“Le riunioni a Tripoli con Treki32 e con Jallud ebbero un buon risultato, fissandosi un meccanismo di pagamento in petrolio del loro
debito verso le ditte italiane, con la intermediazione tecnica dell’ENI.
Anche su alcuni casi “penali” pendenti si delineò una via d’uscita
che spero possa andare in porto. Ma certamente mi premeva di più,
da un punto di vista politico, l’incontro con Gheddafi. Avvenne a
Bengasi il 31 luglio e si protrasse per due ore (mi aveva inviato a
Tripoli il suo aereo personale). Il Colonnello espresse senza indugi un
auspicio molto preciso: contava sull’Italia per riprendere migliori
rapporti con i Paesi europei; ed in occasione del nostro imminente
turno di Presidenza. Mi chiese poi notizie sull’istruttoria per l’uccisione del Segretario dell’Ufficio Popolare libico di Roma (ambasciatore). (...) Passammo poi a discutere dei rapporti economici bilaterali. Si compiaceva per l’accordo sui pagamenti e questo a suo avviso
poteva preludere ad un forte impegno di ditte italiane nel programma
di ulteriore sviluppo della Libia. L’interesse era comune e per di più
30
Mirella Bianco, Gheddafi messaggero del deserto, trad. dell’autrice, Mursia, Milano
1977, pp. 134-135.
31
Tra i vari incontri di Andreotti con Gheddafi, ricordiamo quello del 1991 a Tripoli,
in occasione della firma all’accordo di cooperazione Italia-Libia.
32
Il ministro degli Esteri libico all’epoca.
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a me sembra – e lo dissi – che il Colonnello dovesse dare di sé una
immagine diversa da quella del sovventore di turbolenze: apprezzavo
enormemente anche programmi giganteschi come quello idrico di cui
ci avevano parlato. Commentò il mio accenno, ripetendo la condanna del terrorismo e l’obbligo morale di aiutare le “liberazioni”. E mi
disse che nessuno meglio di me poteva testimoniare questa sua opposizione al terrorismo perché negli anni della maggiore virulenza dei
brigatisti in Italia invano questi avevano cercato da lui aiuti in danaro o in... esperti. In Italia nulla c’è da liberare. E la voce che egli
avesse inviato gente in America per uccidere Reagan era falsa e stupida: «Le solite invenzioni calunniose di Israele» (sorridendo gli osservai che a fargli una cattiva stampa non erano solo gli israeliani
ma molti suoi fratelli nell’Islam). Fu scandalizzato ed insieme divertito quando gli dissi che erano giunte voci da noi che volesse far assassinare anche Pertini, ma a cominciare dal Presidente nessuno ci
aveva creduto. Presentai al Colonnello un progetto per la creazione
ad opera italiana di un centro ospedaliero cardiologico in Libia, nella
prospettiva del superamento del contenzioso storico tra i due Paesi,
secondo le linee tracciate nell’incontro del febbraio. Il Colonnello
Gheddafi dichiarò di apprezzare la comprensione dell’Italia attuale e
la condanna dell’era colonialista e di quella fascista. Ripeteva tuttavia il suo pensiero. Egli auspicava che i due Paesi trovassero insieme
un modo senza complicazioni per superare il contenzioso. Non poteva
dare un giudizio sul progetto: credeva tuttavia che alcuni passi si
fossero fatti nella giusta direzione. Forse occorreva sviluppare il progetto per arrivare a qualcosa di più consistente. Il danno subìto dai
libici è grave e vive ancora della gente che lo ricorda. È per lui un
imperativo di carattere generale: affinché il colonialismo non si
ripeta esso deve essere punito, occorre cioè concorrere a determinare
l’esistenza di una nuova norma di diritto internazionale che colpisca
il colonialismo. Gheddafi accennò anche all’esistenza di un problema
di restituzione di reperti archeologici derubati o confiscati che si troverebbero in Italia. Tornò poi a parlare della questione dello sminamento, che riguarda non solo l’Italia ma anche Gran Bretagna e Germania e che dovrebbe sfociare in un progetto di bonifica. Gheddafi è
grato dell’impegno con cui l’Italia cerca di chiarire le posizioni libiche rispetto a Paesi terzi. Attribuisce importanza anche alla cooperazione culturale tra i due Paesi ed è soddisfatto di quanto si cerca di
fare in questa direzione. In particolare desidererebbe che il libro verde fosse maggiormente diffuso fra i giovani, anche in Italia, ciò al fine di combattere le posizioni materialistiche del comunismo. La terza
via del libro verde costituisce infatti un superamento del marxismo.
Occorre favorire l’istituzione di centri culturali (biblioteche, stazioni
radio) in grado di diffondere il libro verde. Secondo me – e lo dissi –
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il modo migliore per condannare e superare il passato è quello di
intensificare la collaborazione nei molti settori in cui ciò è possibile.
È quello che si è fatto ma vi è anche da parte italiana la volontà di
fare di più”.33
Dal colloquio pacato tra Andreotti e Gheddafi emerge un volto
del leader libico decisamente più umano di quello che la stampa abitualmente gli attribuiva. Le smargiassate di Gheddafi, per la verità alquanto contenute, sono rintuzzate dalla proverbiale prudenza e arguzia del ministro italiano, che ne dà un ritratto comunque misurato ed
equilibrato, anche se mette in rilievo certi aspetti un po’ ridicoli delle
affermazioni del leader libico. Però non lo accusa mai esplicitamente
di essere coinvolto in azioni terroristiche o di dar sostegno a movimenti terroristici e tratta l’interlocutore da capo di stato e anche statista. Preme ad Andreotti, soprattutto, il superamento degli ostacoli che
intralciano la piena collaborazione tra l’Italia e la Libia, nella quale
intravede un partner prezioso per la politica economica italiana: la sua
preoccupazione è quella di presentare all’Occidente, e in particolare
agli Stati Uniti, un personaggio politico che, a dispetto di tante iniziative e dichiarazioni turbolente, possa apparire affidabile e tutto
sommato ragionevole. Perciò il nostro politico è attento nel cercare e
trovare i motivi di convergenza politica tra Italia e Libia ed auspica
una più piena collaborazione, compiacendo il suo interlocutore anche
nel toccare il delicato tema delle riparazioni per i danni causati dal dominio coloniale italiano.
Anche il principe dei giornalisti televisivi, Enzo Biagi, ci ha dato
il ritratto di un politico accorto, ondivago tra la minaccia e il dialogo,
e tutto sommato misurato nelle parole anche se pieno di risentimento
verso l’Occidente: per una inattesa coincidenza, il giornalista si trovò
a intervistare il leader libico proprio il giorno dell’attacco dei jet americani a Tripoli, Bengasi e Bab el Aziziya (dov’era ubicato il quartier
generale del Colonnello). Riporto una parte del suo resoconto:
“A mezzogiorno mi vennero a prendere. Finalmente arrivammo alla
presidiatissima caserma di Bal Al Aziza, da varie parti spuntavano le
torrette dei mezzi blindati, cannoncini, mitragliere. Al centro la famosa
tenda dove il colonnello lavorava; in due baracche di legno, stazionava la guardia del corpo, robusti giovani che scrutavano tutto con cordiale insistenza. Dopo poco arrivò Muhammar Gheddafi, sorridente,
33
Giulio Andreotti, Visti da vicino, cit., pp. 347-349.
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camicia e pantaloni kaki: mi salutò in italiano. Nell’intervista fu ironico, rabbioso e anche beffardo quando disse che Reagan, allora presidente degli Stati Uniti, non lo avrebbe mai incontrato perché era
matto. Come prima cosa gli chiesi se temeva, da un momento all’altro,
un attacco. Mi rispose che non esistevano problemi tra la Libia e l’America anche se non c’era accordo sulla politica internazionale. Gli
dissi che gli americani li ritenevano responsabili di attentati: quello
dell’aereo di Atene e quello della discoteca di Berlino. Lui replicò: «E
noi li sfidiamo a offrirci una prova, anzi noi abbiamo altre prove». Ma
io insistetti: «Ma se l’America attacca, conferma che reagirà puntando sulle città del sud d’Europa?». La risposta fu la conferma: «Perché
l’attacco partirà dal sud dell’Europa. Gli obiettivi saranno le nostre
case, le nostre industrie, le nostre città e ciò significa uccidere noi e i
nostri figli e, per il principio del trattamento reciproco, noi dovremo
colpire gli stessi obiettivi, le basi da dove partono gli attacchi». Volli
capire meglio e gli chiesi quale trattamento avrebbe riservato all’Italia. Gheddafi rispose in modo categorico: «La Sesta Flotta parte dal
Sud Italia. Impedite alla Sesta Flotta di fare aggressioni, evacuate le
basi americane». La sensazione fu quella di avere davanti un politico
accorto che sapeva benissimo che la televisione era già allora l’arma
più forte, quando dichiarò che in caso di necessità avrebbe puntato i
suoi cannoni verso l’Italia si tolse gli occhiali scuri e spostò il suo
sguardo verso l’obiettivo della telecamera con un tempo da attore dell’Actor’s Studio”.34
Il ritratto che, invece, esce dalla penna della celebre giornalista
Oriana Fallaci è esattamente l’opposto, dovuto assai probabilmente
al fatto che l’intervista che Gheddafi le rilasciò nel 1979 divenne un
epico match verbale, un tempestoso incontro com’era nello stile della scrittrice fiorentina. Ne cito la parte conclusiva, nella quale la Fallaci affaccia il dubbio che il leader libico sia un uomo mentalmente
disturbato:
“Allora il nodo scorsoio dette un ultimo, definitivo strattone. E mentre quel povero cervello malato penzolava giù dalla corda come un
corpo privo di vita, il delirio esplose di nuovo: così tremendo, stavolta, così spaventoso che la crisi del giorno prima diventava in confronto uno starnuto. Lentamente si alzò, lentamente levò le braccia
ammantate di lino bianco, e tuonando una voce da Messia impazzito
cominciò a urlare la sua risposta in inglese. «E le masse prenderanno il potere: grazie al Libro Verde! E i salariati si trasformeranno in
34
Enzo Biagi, Io c’ero.Un grande giornalista racconta l’Italia del dopoguerra, a cura
di Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano 2008, pp. 496-497.
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partner: grazie al Libro Verde! E i poveri diverranno ricchi: grazie al
Libro Verde! Perché il giorno della rivoluzione mondiale è arrivato:
grazie al Libro Verde! E la guida della rivoluzione sarà il Libro Verde.
Il mio Libro Verde! Il Libro Verde è la bussola dell’emancipazione
umana. Il mio Libro Verde! Il Libro Verde è il nuovo Vangelo. Il Vangelo del futuro, della nuova era. Il Libro Verde è il Verbo! In principio era il Verbo, dicono i vostri Vangeli. Il Libro Verde è il Verbo, il
mio Verbo! Una sua parola può distruggere il mondo, farlo saltare
in aria. Una sua parola può redimerlo e mutare il valore delle cose.
Il loro peso. Il loro volume. Ovunque e per sempre! Perché io sono il
Vangelo. I am the Gospel». Continuò almeno per un minuto a ripetere:
«I am the Gospel, io sono il Vangelo». Senza fermarsi, senza prender
respiro. «I am the Gospel. I am the Gospel. I am the Gospel. I am the
Gospel». Ibrahim appariva terrorizzato, il fotografo addirittura sconvolto. Gli occhi spalancati e le dita rattrappite sulla Leica, balbettava: «Di qui non si esce vivi. Questo ci ammazza tutti». Quanto a me,
non sapevo che dire: «Colonnello, la prego! Colonnello, si calmi!».
Alla fine si calmò. E pallido, sudato, si abbatté sulla poltroncina di
plastica dove rimase a fissare una parete della tenda”.35
Il ritratto della Fallaci è quello di un paranoico da manuale di
psichiatria, per di più affetto da delirio di onnipotenza. Un narcisista
che ama calzare stivaletti con tacchi alti sette centimetri e indossare
un burnus bianco filettato in oro, per venire meglio in fotografia. Una
grottesca maschera isterica, una sorta di abnorme commistione tra
Caligola, re Ubu e Zarathustra, in versione rivoluzionario-islamica e
ad uso e consumo delle masse africane anelanti alla libertà dal bisogno e dallo sfruttamento. Gheddafi appare il finanziatore e addestratore dei movimenti terroristici dell’intero pianeta e alla fine del colloquio si proclama il profeta del Libro Verde, quasi una sorta di superuomo sceso dalla montagna sacra a portare il suo verbo universale a
tutti gli uomini. Con questo delirio messianico si chiude l’intervista di
Oriana Fallaci, compresa nel volume Intervista con il potere (Rizzoli,
Milano 2010, rist.).
L’intervista della Fallaci non era certamente fatta per rassicurare
chiunque nutrisse seri dubbi sull’affidabilità e sulla ragionevolezza
del leader libico. Sospetto però che la scrittrice fiorentina abbia un
po’ calcato la mano, ossia abbia notevolmente esagerato nel rappresentare il leader libico come una sorta di esaltato Zarathustra venuto
35
Oriana Fallaci, Intervista con il Potere, Rizzoli, Milano 2010, rist., p. 206.
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a predicare il vangelo del suo Libro Verde: forse si è voluta prendere
una vendetta in tal modo per lo sgarbo di aver dovuto attendere tre ore
e un quarto l’intervistato (ma Gheddafi, da uomo del deserto e lungi
dall’essere villano, aveva una sua particolare concezione del tempo).
Oppure potrebbe essere stato lo stesso Gheddafi a recitare la parte del
paranoico affetto da messianismo delirante, per impressionare la giornalista e fuorviarla dal porre domande scomode come aveva fatto in
precedenza con l’ayatollah Khomeini. È ben noto, del resto, quanto la
Fallaci fosse sgradita ai potenti che custodivano delicati e inconfessabili segreti,36 e Gheddafi era certamente uno di questi.
Un altro interlocutore di Gheddafi è stato Florio Fiorini, ex direttore finanziario dell’ENI e protagonista di turbinose vicende finanziarie che hanno avuto, purtroppo per lui, serie conseguenze penali.
Nel suo volume di memorie Ricordàti... da lontano, scritto durante il
soggiorno nel carcere svizzero di Champ Dollon, il Fiorini tratteggia
un ritratto ben diverso di Gheddafi rievocando l’incontro avuto nel
1970 con quest’ultimo e con il maggiore Jallud per stabilire un accordo sui campi petroliferi. Cito il brano che interessa:
“Entriamo. Ci sono il Colonnello Gheddafi ed il Maggiore Jallud.
Parla Jallud. Ecco le condizioni definitive stabilite dal Consiglio della Rivoluzione: prezzo del 50% da stabilirsi da perizia indipendente,
pagamento in cinque anni senza intereressi, sono proibiti dalla
sharìa, nessuna garanzia, niente cambiali, e fuori la carta di difesa
della Libia. Ratti si tira su le maniche della giacca. Noto che ha sotto
la camicia con le maniche corte, non ha fatto in tempo a cambiarsela. Si parla in inglese. Attacca, rivolgendosi a Jallud. “Excellency”.
Jallud lo interrompe seccamente. Non sono “excellency”, mi chiami
“Major Jallud”. Va bene, Major Jallud, vorremmo poter riflettere.
Lo capisco. Ce ne andiamo in ambasciata. Ci attacchiamo al telefono e chiediamo istruzioni a Roma. Gheddafi apre finalmente bocca.
Certo che avete il diritto di riflettere, scendete nel giardino, è una
bella serata, fate il giro del palazzo e ritornate su con la risposta. Lo
guardo negli occhi. Mi viene in mente una frase che ho letto nella
Frusta letteraria scritta dal Baretti nel Settecento a proposito di Benvenuto Cellini “... con una dose di matto non comune e con la convinzione di essere il più savio degli uomini”. Ratti mi guarda, alzo
le spalle per fargli capire che secondo me non ci sono margini di
Si veda l’intervista, un autentico match che rischiò di non essere solo verbale, al
direttore della CIA William Colby, in Oriana Fallaci, Intervista con la Storia, Rizzoli,
Milano 1977, rist.
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negoziazione. Attacca: “gentlemen”, subordinatamente a ratifica
dei superiori organi dell’Eni, ratifica da fornire entro pochi giorni,
accettiamo...”.37
È un brano estremamente interessante, perché il Fiorini fu uno
dei primi stranieri ad avere contatti con Gheddafi, praticamente agli
albori del suo potere, nel 1970 (il Colonnello aveva diretto con successo il colpo di stato appena l’anno precedente), e quindi non aveva
motivi preconcetti per giudicare negativamente il personaggio, che
ancora non si era messo in luce nella ribalta mondiale per le sue iniziative turbolente. Eppure, anche se Gheddafi qui veste i panni dell’abile e spregiudicato negoziatore, quell’accostamento al Cellini ritratto dal Baretti (“con una dose di matto non comune...”) non era
molto rassicurante per i futuri interlocutori del leader libico. Non
escludo però che, essendo il volume apparso nel 1993, l’autore abbia
in qualche modo lasciato penetrare nei suoi personali ricordi i giudizi negativi e squalificanti che sono stati dati successivamente sul personaggio.
La migliore rappresentazione di Gheddafi mi sembra però provenire sorprendentemente da chi avrebbe meno ragioni per rispettarlo, ossia dal principe Idriss as-Senussi, il legittimo pretendente al trono di Libia. Egli nel 1985 dichiarava, riconoscendo la legittimità del
regime di Gheddafi, in una intervista concessa al giornalista Gianni
Perrelli de “L’Europeo”:
“Non creda che Gheddafi sia un pazzo, come viene rappresentato.
È un leader fin troppo lucido. Altrimenti non sarebbe durato tutto
questo tempo”.
E poi aggiungeva, con sorprendente premonizione:
“Gheddafi non andrà mai in esilio. È uno che muore sul campo. Non
è un materialista, non ha interessi personali. Si ricordi che è anche la
guida spirituale, non solo politica, del paese”.38
Come classificare dunque questo personaggio, “la più inquietante delle incognite”, com’è stato definito dallo studioso Angelo Del
Boca, che gli ha, fra l’altro, dedicato anche una biografia (Gheddafi.
Florio Fiorini, Ricordàti... da lontano, Videopool Educational, Milano 1993, p. 35.
In Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit., p. 284.
39
Ibid., p. 320.
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Una sfida dal deserto)?39 È certo che la fine che il destino ha riservato
al dittatore proprio nella sua città natale, Sirte, ha provveduto a dargli
una dimensione tragica. Anche se è assai presto per fare un bilancio
del suo operato e trarre un sereno giudizio sulla sua personalità, compito che peraltro spetta agli storici di professione, posso tentare di
tracciare, sia pur in modo approssimativo e giovandomi anche della
mia personale esperienza di residente per due anni a Tripoli, alcune
linee di un profilo del personaggio. Gheddafi è stato certamente, ancorché un narcisista megalomane, un sognatore che ha perseguito un
suo progetto di emancipazione e liberazione delle masse africane dallo sfruttamento capitalista. Tale progetto, un sogno utopistico tradotto
nei principi del suo Libro Verde (che sarebbe dovuto diventare il Vangelo delle masse liberate non solo dell’Africa ma di tutto il mondo),40
non solo è stato imposto al suo popolo con la forza di una brutale dittatura, ma è stato anche esportato con esiti fallimentari negli altri
paesi africani41 ed è stato infine totalmente squalificato dalle ben note iniziative e prese di posizione improvvide e destabilizzanti. Iniziative e prese di posizione che, fossero o no frutto di calcolo politico, si adattavano perfettamente al carattere e ai disegni di un incendiario che sempre ha voluto gettare benzina sul fuoco, soprattutto
nell’ambito dei problematici rapporti arabo-israeliani (all’indomani
degli accordi di Camp David, nel 1978, fra Egitto e Israele, egli divenne l’accanito sostenitore del “fronte del rifiuto” e il più irriducibile nemico di Sadat). Gheddafi ha voluto prima seguire le orme di
Nasser, di cui all’inizio fu ammiratore ed emulo entusiasta, tentando
l’unificazione del mondo arabo in una grandiosa Umma (da cui anche
la radicale ostilità ad Israele e agli Stati Uniti, in quanto sostenitore
dello stato ebraico), poi si è volto all’Africa intervenendo nei conflitti locali e tentando vanamente ancora di associare alla Libia gli altri stati africani, ma dovendo sopportare ulteriori fallimenti e sprechi
di enormi risorse finanziarie e militari, come nel caso della dissen40
Gheddafi stesso ha ammesso che i principi contenuti nel Libro Verde erano principi utopistici, vd. Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit., p. 310.
41
Pensiamo ai tentativi di unione, tutti falliti, da lui perseguiti con l’Egitto e il Sudan
(Carta di Tripoli, 1969), ancora con l’Egitto di Sadat (Carta di Bengasi, 1972), con la
Tunisia di Bourguiba (1974), con il Ciad e con la Siria (1980), con il Marocco (1984).
Pensiamo all’ultimo grande sogno utopistico coltivato dal dittatore, l’abbattimento delle
frontiere tra gli stati africani e la creazione di una grande Unione Africana sul modello di
quella Europea.
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nata avventura in Ciad.42 E poi il dichiarato appoggio a moltissimi
movimenti di liberazione, che però praticavano di fatto la strategia
del terrorismo, come l’IRA e l’esercito basco, ha concorso a screditare ancor più il personaggio e a fornirgli un alone di pericolosa ambiguità o quanto meno di impresentabilità, anche se molti leader occidentali, dell’est e dell’ovest, non disdegnavano di incontrarsi con
lui e di stipulare accordi di ogni genere.
Non potrei facilmente sostenere, però, che questo particolare
“poeta della politica”, capace di coltivare sogni tanto grandiosi quanto irrealistici, sia stato anche un torturatore e massacratore di innocenti come tanti biechi tiranni della storia.43 E neppure un affamatore
del suo popolo, almeno fino a prova contraria. Anzitutto andrebbe
studiato, con ben diversa attenzione rispetto alle facili ironie e al
dileggio di cui è spesso stato bersaglio, il Libro Verde, che contiene la
summa ideologica gheddafiana e resta pur sempre “una delle poche
risposte del mondo arabo-islamico allo strapotere dell’Occidente anche nel campo del pensiero politico”.44 Il sistema socio-politico creato da Gheddafi e fondato sui congressi popolari di base, sui comitati
popolari e sul congresso generale del popolo (in pratica una “terza
via” tra capitalismo liberista e socialismo marxista) era uno strumento adeguato per realizzare la giustizia sociale e il benessere della popolazione, liberandola dalla povertà e dall’ignoranza? In effetti v’è
da considerare che Gheddafi ha speso enormi risorse per migliorare la
qualità della vita della popolazione e il suo regime ha ottenuto indubitabili risultati.45 La Libia, dieci anni dopo l’inizio della rivoluzione
libica, aveva raggiunto nel 1980 un reddito pro capite di seimila dol42
Il percorso ideologico di Gheddafi dall’originario nasserismo fino all’utopistico
sogno degli Stati Uniti d’Africa è tracciato efficacemente nel saggio di Massimiliano Cricco e Federico Cresti, Psicogeopolitica di Gheddafi, in La guerra di Libia, cit., pp. 25-38;
vd. anche Giovanni Sale S.I., La Libia di Gheddafi.Le vicende di un dittatore deposto, in
“La Civiltà Cattolica”, n. 3870, 17 settembre 2011, pp. 467-480.
43
Anche se già sulla stampa cominciano a delinearsi giudizi di netta condanna, sul
piano storico, della figura e dell’opera del dittatore, come nell’articolo di Federica Zoja,
Muammar lo spietato: mille volti di un dittatore, in “Avvenire”, 21 ottobre 2011.
44
Così l’ha definito il Del Boca, in Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit., p. 74. I principi del Libro Verde furono anticipati nel famoso discorso di Zuàra del 15 aprile 1973, con
il quale Gheddafi preannunciava i grandi cambiamenti politici, economici e sociali che
avrebbe realizzato in tutto il paese.
45
Prendiamo i dati seguenti da Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit.,
p. 93-94.
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lari, il più alto reddito d’Africa. In dieci anni di regime erano stati
costruiti duecentomila alloggi, il 99% dei ragazzi era scolarizzato,
l’istruzione e l’assistenza sanitaria erano del tutto gratuite, i postiletto negli ospedali erano 4,5 ogni cento abitanti, l’energia elettrica
era stata portata in ogni località, la rete stradale aumentava al ritmo di
mille chilometri all’anno. E questi risultati sono stati incrementati
negli anni seguenti (fino alla realizzazione del colossale progetto del
“Grande fiume artificiale”, creato per portare l’acqua purissima delle
falde del deserto alle città di Tripoli e Bengasi), anche se la redistribuzione della ricchezza è avvenuta con metodi decisamente poco o
per nulla democratici.
Io stesso rimasi stupito della quantità di automobili Volvo, Audi,
BMW e Mercedes circolanti. Il prezzo della benzina era assai basso
(circa un quinto di quello in Italia). Tripoli era piena di negozi di
elettrodomestici, televisori e apparecchi hi-fi. Mai incontrai né vidi
un mendicante nei miei due anni di residenza in Libia. Tutti apparivano ben vestiti o almeno vestiti decorosamente (moltissimi, soprattutto i ragazzi e le ragazze, circolavano in divisa). In compenso potei
osservare che purtroppo molti, soprattutto gli anziani, erano affetti
dal glaucoma. Mi convinsi quindi che i libici vivevano in una condizione di notevole agiatezza rispetto ai loro fratelli africani. Non
v’erano praticamente problemi di ordine pubblico: quando uscivo mi
sentivo praticamente sicuro, anche se ero in un paese straniero ed ero
italiano per giunta (ma poi capii che l’odio antitaliano era soltanto un
motivo propagandistico). Va però considerato che la sicurezza dei
cittadini è un problema pressoché inesistente sotto ogni dittatura,
dato il ferreo controllo esercitato dalla polizia. Son giunto quindi alla
conclusione, basandomi sulle mie osservazioni ed esperienze personali, che la Libia fosse ben lungi dall’essere un paese delle meraviglie, ma che neppure fosse un inferno per i vivi, dato che, quando vi
entrai, vi risiedeva e lavorava una comunità di diciottomila italiani,
anche se il clima che si respirava non era certamente quello di un
paese libero.
Per quanto riguarda i rapporti con l’Italia, si è detto e scritto più
volte che Gheddafi nutrisse un pervicace odio nei confronti degli
Italiani, sia perché la dominazione coloniale aveva causato migliaia
di vittime tra uccisi e deportati sia perché la sua stessa famiglia era
stata vittima delle mine nascoste dai soldati italiani durante l’ultima
guerra. In effetti il dittatore aveva impostato i rapporti con l’Italia
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nei termini di una continua e assai polemica rimostranza per i danni
causati dalla dominazione coloniale italiana alla Libia, dimenticando
completamente il contributo di civiltà che i nostri coloni avevano dato al paese africano in termini di centri urbani, vie di comunicazione,
coltivazioni, fabbriche, scuole, reti idriche e fognarie, etc.46 Inoltre
aveva elevato a eroe nazionale Omar El Moukhtar, il capo della resistenza libica fatto impiccare da Graziani nel 1931, dedicandogli
l’arteria stradale più importante di Tripoli.47 Quindi aveva proclamato per il 7 ottobre di ogni anno la “Giornata della vendetta”, ossia la
giornata della rabbia antitaliana, promuovendo manifestazioni
davanti al nostro consolato (in una delle quali ci trovammo coinvolti, per fortuna senza alcun danno, io e il mio collega prof. Giuliano
Biasiotto, il quale coraggiosamente volle passare in mezzo ai manifestanti, che lanciavano urla e qualcosa di più davanti al consolato
italiano).48
Gheddafi sarebbe stato, insomma, un nemico accanito dell’Italia? In realtà le cose non sono così semplici. Per tentare una risposta,
dobbiamo cominciare col valutare meglio la reale portata della nostra
presenza sul suolo di Libia. Anzitutto è vero che abbiamo portato noi
la civiltà in un paese dove praticamente non c’era nulla, ma è anche
vero che la dominazione italiana non è stata all’acqua di rose nei
confronti dei Libici. Gli Italiani in Libia, occorre dirlo, al di là della
retorica di “Tripoli, bel suol d’amore” (la celebre canzone che accompagnò l’impresa coloniale del 1911), si sono resi responsabili di
46
Si può avere un’idea della presenza italiana in Libia e di quello che gli italiani avevano creato nel paese africano leggendo le memorie del sacerdote salesiano Antonio Dal
Maso, Ricordi della quarta sponda, Libreria Editrice Salesiana, Verona s.d. Il Dal Maso fu
dal 1940 al 1946 in Cirenaica, insieme con il vescovo di Derna mons. Giovanni Lucato, in
un periodo in cui la comunità italiana in Libia dovette sopportare la sconfitta delle truppe
italo-tedesche e l’occupazione inglese. Alle pp. 98-101 si descrivono i frutti dell’operosità
dei coloni italiani, che dalla fertilissima terra libica avevano ricavato coltivazioni di fagioli,
patate, pomodori, arachidi, meloni, angurie, frumento, granoturco, etc. che davano un’abbondante produzione annuale.
47
Sulle circostanze della cattura e sul processo (non certamente un modello di giustizia) di Omar El Moukhtar vd. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia.Dal fascismo a Gheddafi, Mondadori, Milano 2011, rist., pp. 197-208; Gastone Breccia, Controguerriglia in Cirenaica, 1931: come catturammo Omar Al-Mukhtar, in “I Quaderni Speciali di Limes”,
cit., pp. 131-144.
48
Ho ricordato l’episodio nella mia poesia 7 ottobre 1983: vd. Mario Carini, Ricordi
di Libia, in Liceo ginnasio statale “Orazio”, Annuario, n. 2, anno scolastico 2008-2009,
Roma 2009, p. 241.
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feroci repressioni, che hanno causato migliaia di vittime.49 E poi la
Libia è stata un campo di battaglia per gli opposti eserciti durante la
seconda guerra mondiale. I gravi danni subiti dal paese sono documentati da un libro bianco preparato dal Centro di Studi Libici, che
mi è capitato di acquistare proprio in Italia: Socialist People’s Libyan
Arab Jamahiriya, The White Book, Some examples of the damages
caused by the belligerents of the World War II to the people of the
Jamahiriya, Libyan Studies Centre, 1981. Secondo questo documento, che forse sarebbe ingiusto giudicare solo come un prodotto
della faziosa propaganda, la campagna d’Africa dal 1940 al 1943
avrebbe causato:
“More than one and half million combatants of various nationalities.
3.128 aerial and naval bombardments. 16 billion Kilos of explosives
used in military actions. 127 battles fought. Total destruction of 3
cities and 12 villages. Partial destruction of all cities and agricultural villages. Destruction of the flora and fauna. The almost total
disappearance of pastoral activities... To this must be added the thousands upon thousands of Lybians who perished as a result of the war
and as a result of the neglect of the immediate post-war years...”.50
Il testo aggiunge che nel dopoguerra, per molti anni, i Libici sono
rimasti vittime delle mine sotterrate dagli eserciti belligeranti (lo stesso Gheddafi a causa dello scoppio di una mina, di probabile fabbricazione italiana, perse due cugini e lui stesso riportò ferite a un braccio).
Un esempio eclatante è la storia, riferita nel White Book, del campo
minato di Buerat, una località a 280 km a est di Tripoli, sul golfo della
49
Terribile, ad esempio, fu la deportazione della popolazione libica dalla Cirenaica,
ordinata nel 1930 dal governatore e maresciallo d’Italia Pietro Badoglio: una marcia forzata
in pieno deserto che costò migliaia di morti alle tribù degli Auaghir, degli Abeidat e dei
Marmarici, vd. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia, cit., pp. 179-189. Sulla feroce repressione della resistenza libica, compiuta dagli Italiani negli anni Venti e Trenta, vd. Paolo
Maltese, Sempre inquieto l’impero di Mussolini, in “Storia Illustrata”, n. 180, novembre
1972, pp. 62-68.
50
Socialist People’s Libyan Arab Jamahiriya, The White Book, Some examples of the
damages caused by the belligerents of the World War II to the people of the Jamahiriya,
Libyan Studies Centre, 1981, p.76. Trad.: “Più di un milione e mezzo di combattenti di varie
nazionalità. 3.128 bombardamenti aerei e navali, 16 miliardi di chili di esplosivi usati in
azioni militari, 127 battaglie combattute. Totale distruzione di 3 città e 12 villaggi. Parziale
distruzione di tutte le città e villaggi agricoli. Distruzione della flora e della fauna. La quasi
totale scomparsa delle attività di pastorizia... A questo devono essere aggiunte le migliaia e
migliaia di Libici che perirono come risultato della guerra e degli stenti dell’immediato
dopoguerra” (trad. dell’autore).
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Sirte. Cito dal White Book questo brano significativo, intitolato The
story of a minefield (La storia di un campo minato):
“The Buerat minefield is, without a shadow of doubt, the largest that
the world has ever seen. It extends over a front of 45 Kms. (27 miles)
to a depth of 1 Km. (1,100 yards approximately). At the end of the war
in North Africa 150,000 mines had been laid in the field and there
were still the same number waiting to be laid. The Saly Co. Ltd. of
Tripoli, a firm specialized in the reclamation of minefields, alone
recovered more than 100,000 mines during the years from 1959 to
1962, with a high cost in human lives. The mines laid at Buerat were:
the Italian mines V3 anti-tank and V5 anti-personnel; the French antitank mine Model 36; the German mines Teller Mi 35 anti-tank and the
S Mi anti-personnel. The troops which were to have formed the line
of defence behind the minefield were the German 164th Legion and the
Italian divisions: “Centauro”, “La Spezia”, and “Pistoia”. First the
Italians and then the Germans realized that there was a possibility of
retreat from Cyrenaica and so prepared to defend Tripolitania, which
they considered their last refuge. The nature of the terrain did not permit the exploitation of natural lines of defence, so they thought that
the triangle Buerat – Gheddahia – Bou Ndjem, suitably mined, would
at least delay if not stop, the advance of the British troops. From the
end of 1940 right through 1942 the Axis sappers worked hard, filling
the soil of western Sirte with all kinds of diabolical device, anything
they could lay their hands on: British seven and a half pound Mark
IV’s, found in the ammunition dump of reconquered Tobruk; the long
Italian eighteen and a half pound V 3; the German Teller mines
weighing nearly 20 lbs and hundreds of thousands of German antipersonnel mines known as “Bouncing Betty” and lastly, a rag-bag of
other devices taken from the French in Tunisia and even remnants
from World War I. There were plans for batteries of electric cannon
which would have fired upon the enemy trapped in the minefield, and
for defence works sufficient for two German Armoured Divisions and
three Italian Mobile Divisions. When the Axis military commanders
realized that the English advance was moving too quickly and that the
minefield would not be ready in time, they stepped up the rhythm of
work. They worked out new techniques for laying mines, including
one unorthodox method using camel-drawn ploughs to open furrows
in which to place the explosive devices, as if they were seed potatoes!
What in field Marshal Rommel’s plans for this now tragically famous
minefield was to have been a deadly trap for the enemy, now is a
deadly trap for hundreds of poor shepherds of this part of Libya, who
are still being blown up without even the time to say “shahada” (a
moslem prayer). Many times various bodies have undertaken the
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reclamation of the area and in this way other Libyan citizens have lost
their lives carrying out extremely dangerous operations,... with what
result? Today no-one can be sure that the minefields in the triangle
Buerat – Gheddahia – Bou Ndjem are really cleared. And, since this is
an area with excellent pastures, a terrible danger hangs constantly
over the heads of thousands of Libyans: men, women and children”.51
51
Socialist People’s Libyan Arab Jamahiriya, The White Book, cit., pp. 93-95. Trad.:
“Il campo minato di Buerat è, senza ombra di dubbio, il più grande che il mondo abbia mai
visto. Esso si estende su un fronte di 45 km. (27 miglia) per una profondità di 1 km. (approssimativamente 1.100 iarde). Alla fine della guerra in Nord Africa 150.000 mine sono
state collocate nel campo e altrettante attendevano d’esservi collocate. La Saly Co. Ltd. di
Tripoli, una azienda specializzata nella bonifica dei campi minati, da sola recuperò più di
100.000 mine durante gli anni dal 1959 al 1962, con un alto costo di vite umane. Le mine
collocate a Buerat erano: le mine italiane V3 anticarro e V5 antiuomo; le mine francesi
anticarro Modello 36; le mine tedesche Teller Mi 35 anticarro e S Mi antiuomo. Le truppe
che dovettero formare la linea di difesa dietro il campo minato erano la 164ª Legione
tedesca e le divisioni italiane “Centauro”, “La Spezia” e “Pistoia”. Prima gli Italiani e
poi i Tedeschi si resero conto che c’era la possibilità di una ritirata dalla Cirenaica e così
si prepararono a difendere la Tripolitania, che essi consideravano il loro ultimo rifugio.
La natura del terreno non permetteva lo sfruttamento di linee naturali di difesa, così essi
pensarono che il triangolo Buerat – Gheddahia – Bou Ndjem, adeguatamente minato,
avrebbe ritardato se non fermato l’avanzata delle truppe inglesi. Dalla fine del 1940 a
tutto il 1942 i genieri dell’Asse lavorarono duramente, riempiendo il terreno della Sirte
occidentale con tutti i tipi di congegni diabolici, qualsiasi cosa su cui potessero posare le
mani: le mine inglesi Mark IV da sette libbre e mezzo, trovate nel deposito di munizioni di
Tobruk riconquistata; le lunghe mine italiane V3 da diciotto libbre e mezzo; le mine tedesche Teller del peso di quasi venti libbre e centinaia di migliaia di mine tedesche antiuomo
note come “Bouncing Betty” e da ultimo, una massa di congegni presi ai Francesi in
Tunisia e anche residuati della prima guerra mondiale. C’erano piani per batterie di cannoni elettrici che dovevano fare fuoco sul nemico intrappolato nel campo minato, e per
opere di difesa sufficienti per due divisioni corazzate tedesche e tre divisioni mobili italiane. Quando i generali dell’Asse si resero conto che l’avanzata inglese si stava muovendo
troppo rapidamente e che il campo minato non sarebbe stato apprestato in tempo, aumentarono il ritmo dei lavori. Essi elaborarono nuove tecniche per il posizionamento delle
mine, compreso un metodo non ortodosso con l’uso di aratri tirati da cammelli per aprire
solchi in cui collocare i congegni esplosivi, come se stessero a seminare patate! Quella che
nei piani del feldmaresciallo Rommel per questo campo minato ora tragicamente famoso
avrebbe dovuto essere una trappola mortale per il nemico, ora è una trappola mortale per
centinaia di poveri pastori di questa parte della Libia, che ancor oggi saltano in aria senza
il tempo di dire “shahada” (una preghiera musulmana). Molte volte diversi organismi
hanno intrapreso la bonifica dell’area e in questo modo altri cittadini libici hanno perso le
loro vite effettuando operazioni estremamente pericolose,... con quale risultato? Oggi
nessuno può essere sicuro che i campi minati nel triangolo Buerat – Gheddahia – Bou
Ndjem siano realmente bonificati. E, dal momento che questa è un’area con eccellenti
pascoli, un terribile pericolo pende costantemente sulle teste di migliaia di Libici: uomini,
donne e bambini ” (trad. dell’autore).
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Vi sarà stata dell’esagerazione nelle pretese di risarcimento avanzate da Gheddafi per l’occupazione italiana in Libia (e anche una dose di insopportabile ingiustizia: non va dimenticato che lo stesso
Gheddafi ha espropriato i beni della comunità italiana nel 1970, cacciando i nostri connazionali senza alcun indennizzo ed espellendo dal
paese perfino le ossa dei defunti), pur tuttavia è evidente che questo
paese durante la seconda guerra mondiale ha sofferto danni ingentissimi in termini di distruzioni di beni e vite umane. E ancor oggi, si
può dire, i tristemente noti campi minati mietono le loro innocenti
vittime: il White Book è corredato da decine di eloquenti fotografie di
Libici di tutte le età, anziani, adulti, giovani e giovanissimi, tutti con
atroci mutilazioni agli arti. E quanto a noi Italiani, dobbiamo toglierci una volta per tutte dalla mente l’idea preconcetta degli “Italiani brava gente”: anche noi in Libia, così come nei Balcani, abbiamo le nostre colpe e talvolta non ci siamo comportati meglio dei nazisti.52
D’altra parte non si può neppure dimenticare quanto sia stata
stretta, nonostante la propaganda antitaliana e pur tra gli alti e bassi
causati dalle destabilizzanti e azzardate iniziative politiche del Colonnello, la collaborazione economica tra l’Italia e la Libia di Gheddafi.
Continue sono state le forniture di armi da parte dell’Italia alla Libia,
continua la collaborazione tra servizi segreti (il generale italiano Ambrogio Viviani avrebbe creato un apparato di intelligence per Gheddafi e gli avrebbe compilato anche un manuale sull’organizzazione e
l’impiego di un servizio segreto).53 Gli Italiani avrebbero salvato almeno due volte la dittatura del Colonnello: nel 1971, quando collaborarono alla neutralizzazione del “Piano Hilton”, un progetto di colpo di
stato guidato dagli oppositori del Raìs di Tripoli, e nel 1986, con il
tempestivo preannuncio a Gheddafi dell’imminente bombardamento
americano da parte dell’allora presidente del Consiglio on. Bettino
Craxi, notoriamente di simpatie filoarabe.54
52
Per le atrocità italiane in Libia rimando a quanto ho scritto in Ricordi di Libia, cit,
p. 225 nota 6. Consiglio altresì di leggere il capitolo Soluch come Auschwitz in Angelo Del
Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 20104, pp. 171-192. Sui crimini
di guerra compiuti dagli Italiani in Jugoslavia vd. Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco».I crimini di guerra italiani 1940-1943, Mondadori, Milano 2006 (sui campi di internamento per gli slavi vd. alle pp. 127-136).
53
Così Angelo Del Boca, Gheddafi.Una sfida dal deserto, cit., p. 131.
54
Vd. Livio Caputo, «Fu Craxi a salvare Gheddafi dal raid americano su Tripoli», in
“Il Giornale”, 31 ottobre 2008.
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Concludendo queste mie riflessioni, osservo che, al momento attuale, mi risulta difficile, anche perché sotto l’impressione delle terribili immagini della fine del dittatore, tracciare un giudizio su un personaggio assai complesso, cosparso di luci e ombre (soprattutto di
queste), come Gheddafi. I sentimenti che provo sono anzitutto di
sconcerto e commiserazione, per lui ma anche per le tante vittime che
ha causato o concorso a causare. E poi, il destino che l’uomo ha sofferto gli ha tolto molto di quella dimensione istrionica, giocosamente
e irresponsabilmente clownesca, alla quale si era ben adattato e alla
quale ricorreva per diffondere i suoi minacciosi proclami, e gli ha
fatto acquistare un alone tragico. Il tempo e le testimonianze che gli
storici potranno acquisire sul regime gheddafiano ci diranno se qualcosa della sua figura e della sua opera possa essere in qualche modo
salvato o se il dittatore di Tripoli sia destinato a un posto stabile nel
museo degli orrori della storia.
Quanto ai miei ricordi e alle impressioni ricevute durante la permanenza biennale a Tripoli, aggiungo poche righe a quanto ho scritto
in Ricordi di Libia. In quella città ho anzitutto percepito gli aspetti più
negativi e opprimenti di una dittatura, ho scorto, pur dal mio assai
ridotto ambito di osservazione, i lati più tetri e oscuri del sistema
costruito dal leader libico. Posso ad esempio dire che, appena giunto
all’aeroporto, fui inghiottito da un clima, assolutamente non immaginato né immaginabile, di paura, allarme, diffidenza e sospetto, un
clima diffuso anche tra noi Italiani. Già alla dogana dell’aeroporto fui
trattenuto dai poliziotti e i miei libri sequestrati perché avevo importato materiale “controrivoluzionario” (i testi scolastici in lingua italiana). L’accoglienza del preside della scuola, poi, fu altrettanto singolare. Mentre mi accompagnava nella residenza che avrei abitato a
Gargaresh, vicino Tripoli, con fare sospettoso e a voce bassa mi disse, dandomi confidenzialmente del tu (data la mia giovane età, avevo
ventiquattro anni): “Mario, ora che sei qui, ricordati! Ascolta molto e
parla poco!” “E perché?”, chiesi ingenuamente. “Hai già detto troppo!”, rispose con un sorriso volpino. Era certamente una scena da
film del tipo Casablanca o Il terzo uomo, ma non credo che il preside
volesse scherzare.
Se dicessi, però, che ero capitato nel posto sbagliato mi mostrerei
ingrato verso chi mi diede allora la possibilità di guadagnare una cifra non piccola (commisurata ai parametri degli stipendi dei docenti,
in quell’epoca) e soprattutto di maturare una preziosa esperienza
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professionale, che fu anche una insolita esperienza di vita. Vivendo
soprattutto all’interno della comunità italiana, potei far esperienza di
tanti tipi umani, persone importanti e modeste, allegre e tristi, arroganti e umili, generose ed egoiste, molti con una grande e sofferta
nostalgia per l’Italia e i cari che vi avevano lasciato. Conobbi ambasciatori e consoli, dirigenti di società e imprenditori (dei quali posso
dire che mi sembravano vantarsi spesso delle loro amicizie con i notabili del regime), impiegati e operai, e, ovviamente, i colleghi della
scuola, gli alunni e le loro famiglie. La necessità quotidiana mi portò
a fare cose che mai avrei immaginato in Italia (e mai feci dopo),
come, ad esempio, il dovermi improvvisare macellaio affettando io
stesso la carne (di ottima qualità, peraltro, e a prezzi bassi) che le
macellerie locali vendevano solo a grossi pezzi. Dovetti imparare a
fare la spesa, a scegliere nel suk o nei supermercati la frutta e la
verdura di buona qualità, ad arrangiarmi, nella totale inesperienza, di
fronte ai tanti problemi della vita quotidiana. Ricordo che dovetti passare molto tempo a cercare, nella zona periferica in cui mi trovavo, un
forno per avere il pane fresco, e poi, trovatolo, scoprii che il pane locale (che non era quello che da noi si vende come pane “arabo”) era
davvero ottimo, una sorta di baguette calda, fragrante e profumata
che faceva venire voglia di mangiarla subito. Però era dato dai panettieri brevi manu, senza alcun incarto (alla maniera dei francesi).
Purtroppo quel clima esasperato di sospetto, che faceva nascere e
circolare le storie più inverosimili e mi portava a limitare al massimo
i rapporti al di fuori della comunità italiana, mi fece perdere un’occasione preziosa per conoscere meglio e più a fondo la realtà di un paese la cui storia aveva coinvolto e coinvolgeva per più versi il nostro.
Pubblico perciò di seguito altri versi tratti dalla mia raccolta, tutti
risalenti al periodo del mio soggiorno libico o agli anni successivi:
a questi componimenti, pur formalmente tutt’altro che perfetti, ho
affidato i miei ricordi, i pensieri, le impressioni e le esperienze che ho
vissuto nei miei due anni in Libia. Alcune di queste poesie alludono a
episodi e situazioni decisamente strane e inusuali, altre mettono in
rilievo gli aspetti grotteschi e talvolta ridicoli del regime e del suo
capo. Giacché i versi risalgono tutti al periodo dal 1984 al 1993 (come quelli del primo taccuino pubblicato nei miei Ricordi di Libia),55
pubblicandoli, non ho certamente inteso aggiungere lo scherno alla
55
Nell’“Annuario” del Liceo Orazio, cit., pp. 232-256.
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tragedia, ma soltanto offrire una personale testimonianza. E neppure
ho ceduto alla tentazione, pur forte, di scrivere versi sulla fine del Colonnello: il buon gusto e, soprattutto, l’umana compassione mi hanno
persuaso a non impegnarmi in una prova letteraria che sarebbe stata
troppo inferiore a quell’evento tragico.
Cos’è stata, dunque, per me la Libia? Rispondo citando proprio
Libia, una poesia di Piero Ferrari,56 poeta e addetto culturale dell’ambasciata italiana a Tripoli, nelle cui espressioni in parte mi riconosco:
Un ricordo lontano / lancinante / di sconfitte / di avvilenti contraddizioni / ma anche di sofferte / esaltanti vittorie. / Tripoli aperta sul
mare / chiusa nei bastioni delle mura / nei recinti neri / della dittatura.
SECONDO TACCUINO DI VERSI (1984-1993)
In attesa di partire per il Ciad 57
Ho visto madri urlanti disperate
tentando i grossi camion di fermare:
eran ferme, ai cassoni avvinghiate
non volendo i loro figli più lasciare.
Sui camion stavan docili i ragazzi.
V’era chi ai richiami si sporgeva,
piangendo, della madre, e chi rideva
di scherno: tutti da ordini pazzi
mandati a morire in terra straniera.
❀❀❀
Dalla raccolta di poesie Dissonanze, Edizioni del Sole, Roma 1983.
In quel periodo (1981-1983) Gheddafi aiutò con truppe e ingenti mezzi militari il
presidente ciadiano Goukuni Oueddei contro il suo rivale Hissein Habré, sostenuto dalla
Francia e dagli Stati Uniti. I libici occuparono per qualche tempo in Ciad le basi di Aouzou
e Faya-Largeau, ma da esse furono ricacciati per l’intervento dei bombardieri francesi. In
sostanza questa avventura militare si concluse con enormi perdite per l’esercito di Gheddafi
ed ebbe conseguenze negative anche sulla strategia politica del leader libico per una unione degli stati africani. Eloquente il commento di Angelo Del Boca: “Mai conflitto è stato
tanto inutile, controproducente e disastroso. Anziché favorire il processo di unità araba, ha
richiamato nel Ciad la Francia, l’antica potenza coloniale. Ha umiliato e demotivato
l’esercito libico, che affonda le radici nella resistenza antitaliana, condotta con coraggio
e notevole capacità. Ha fatto un uso improprio della Legione Islamica, in quanto non è
stata impiegata per gli ideali dell’unità araba, ma per progetti confusi, megalomani e
antistorici. Ha sottratto alle casse dello Stato migliaia di miliardi, che avrebbero potuto
essere impiegati per lo sviluppo del paese. Ha alimentato per vent’anni nel Ciad una
guerra civile dagli esiti catastrofici. Ha infine mantenuto l’agitazione, il sospetto, la paura
nell’intera area del Sahel ” (Angelo Del Boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, cit., p. 126).
E per le strade di Tripoli vidi molti di questi giovani che, sui camion dell’esercito, partivano per il fronte ciadiano, destinati alla morte o, se fortunati, alla dura prigionia.
56
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Un posto di blocco
Ti ho visto a un posto di blocco
mentre m’intimavi
– tu furbo, a me sciocco –
l’alt, col tono di un veterano.
Ed eri solo un bimbetto,
in divisa di miliziano
verde col basco rosso.
Mi puntasti addosso
il moschetto
togliendo la sicura,
per incutermi paura.
Ma che avresti fatto
se mi fossi mosso?
Mi avrebbe mandato la sorte
un piccolo angelo della morte?
❀❀❀
Pagina 46
m’aggiro stravolto
in perenne stordimento.
❀❀❀
Lezione all’università58
Nel cortile dell’università
pende legata a un cappio
una disperata sete di libertà.
L’urlo nero della madre
non ha salvato il figlio
(è morta la pietà)
crocifisso a un palo di forca.
E mentre oscilla lieve al triste vento
passa una sfilata tetra
di docenti e studenti.
Guardano in alto silenti,
tace anche la mia cetra.
Attenti alle spie
❀❀❀
Non afferro la logica
che muove i meccanismi
e crea le strutture,
le formae mentis
di questo paese.
Vedo negli altri
grottesche figure
di ebeti o ingegni scaltri.
Il vecchio furbo tripolino
è pronto alla delazione:
ti si professa amico
ma nei suoi occhi ha un odio antico,
frutto di suo padre,
che i nostri hanno ucciso,
e di chi, oggi,
vuol tenere questo popolo
dal nostro diviso.
Ma vano è tentare di capire
il perché di queste cose:
Parla il Capo
Nei tuoi discorsi getti amaro fiele
sugli innocenti figli d’Israele.
Ma non t’illudere:
dalla tua ira resterà immune
questo popolo
e vedrà sorgere
molti soli e molte lune.
❀❀❀
I progetti del Capo
Nei tuoi pensieri pazzi
hai destinato i nuovissimi razzi
all’occupante infedele
della Palestina,
l’odiato Israele,
e credi che l’ora della guerra
58
La poesia fu ispirata da una macabra notizia che una mattina circolò nella scuola:
all’università i militanti rivoluzionari avevano impiccato un oppositore politico e costretto
i docenti e gli studenti a interrompere le lezioni e a sfilare davanti al patibolo, ove pendeva
il corpo del giustiziato.
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sia vicina
(anzi, per te sarebbe fausto
un altro e più terribile Olocausto).
Ti sbagli: su questa Terra
ha vinto ogni odio umano
questo popolo che viene da lontano.
Lo ha vinto e vincerà perché
Dio ascolta il Popolo di Mosè.59
❀❀❀
Il Capo
Ritratto in mille guise,
in costume o nelle divise
multicolori, a piedi
o in groppa a un cavallo rampante,
a figura intera o solo il volto,
severo o sorridente,
con o senza occhiali scuri
sui cartelloni e sui muri
imponente e impunito sta
chi ha tolto al popolo la libertà.
❀❀❀
La sfilata dell’esercito
Sfilano i nuovissimi armamenti,
i carri armati e le autoblindo,
i soldati armati fino ai denti
e i missili terra aria.
Sfilano tra folle plaudenti
al grande Capo della rivoluzione.
E tu, gonfio come un pavone,
col tuo sguardo rapace
già pregusti la gloria
che ti daran questi mezzi di “pace”.
❀❀❀
Pagina 47
Al Capo
Quando incedi ammantato col turbante
mi ricordi dell’India un maharajah.
Ma poi guardo la tua scorta conturbante
e mi sovviene il cantante Claude François.
❀❀❀
Oro nero
Comprando armi e mezzi militari
spendi quanto dall’or nero ricavi:
per la potenza della Jamahiriya
quanta ricchezza hai gettato via!
❀❀❀
A Tripoli e in Ciad
Grida all’alba il muezzin dal minareto
della sua fede il verso rituale.
Poi, alla sera, il telegiornale
annuncia il bombardamento a tappeto.
Il pilota del libico aviogetto
parte da qui col carico di morte
anch’egli all’alba. Triste è la sorte
dell’uom che costringe un ordine abietto
a distruggere esseri inermi.
Quest’è ciò che sento e ciò che vedo
quando a sera davanti a un video siedo:
corpi che saran carne per i vermi
e cumuli, là, di tizzoni ardenti.
Qui, all’alba, spegne il mistico suono
del muezzin che annuncia Dio ai credenti
il rombo implacabile del tuono.
❀❀❀
Bombardamento su Tripoli
Vincere in anni lontani
leggevano i soldati americani,
venuti a liberarci come amici,
Ho scritto questa poesia in reazione a una continua, martellante e aggressiva propaganda antioccidentale e anti-israeliana diffusa dal regime libico. Naturalmente non ho voluto con ciò attenuare le pesanti responsabilità di Israele riguardo al problema palestinese.
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sui muri screpolati delle case
nelle nostre città bombardate.
Al fatha60 su un muro screpolato,
residuo di feroce rappresaglia
compiuta dai piloti americani,
piombati dal cielo come nemici,
ho letto, in inchiostro nero.
Ieri e oggi la stessa menzogna
per celare il triste e orrendo vero
mentre un popolo la pace agogna.
❀❀❀
La villa di Peppino61
Mi fai veder con malcelato orgoglio
le foto della villa principesca
che ti stai costruendo e dici: “Io voglio
che un bosco qui d’abeti mi ci cresca”.
Ma da dieci anni stai in terra straniera
per costruire la villa quale vuoi:
pensando a ciò, ti chiederai la sera
quante carezze hai tolto ai figli tuoi?
❀❀❀
A scuola per le festività natalizie
Oggi è apparsa a scuola la consolessa
con un regalo di consolazione
per noi docenti, e l’ha dato lei stessa:
è il caro, buono e vecchio panettone.
È il panettone con i canditi,
che allieta le mense degli italiani:
è uno dei regali più graditi
per noi che dalla patria siam lontani.
Pagina 48
E noi che l’accettiam riconoscenti
in questa scuola della Jamahiriya,
non siamo più rabbiosi e dolenti:
forse sentiamo in cuor la nostalgia.
❀❀❀
Colloquio con i genitori
Oggi mi viene, per sua degnazione,
a chiedermi del figlio un gran signore,
che s’attende da me notizie buone:
è proprio lui, sì, è l’ambasciatore.
Ora mi tocca fare il diplomatico
e vincere il timor che m’attanaglia:
perciò esalto i buoni risultati
dello studente, suo figliol, di vaglia.
Il ragazzo è sveglio e intelligente,
partecipa e si dimostra attento
a ciò che vien spiegato dal docente,
e afferra i concetti in un momento.
Ma anche se il giudizio è in fondo vero,
tra me e me, mi vien da dire “basta!”:
sono un po’ stufo (e parlo sincero)
di sviolinare il piccolo dinasta.
❀❀❀
La visita del Ministro degli Esteri62
Del diplomatico il tuo stile curiale
il grande Capo della rivoluzione,
sotto la sua tenda nel deserto
ti fa incontrare in visita ufficiale.
Tu, di mille astuzie esperto
Al fatha significa “vittoria” in arabo.
Peppino, com’era familiarmente chiamato da alcuni di noi docenti il prof. Giuseppe
Aronne Cicchini, era il preside della scuola italiana di Tripoli. Di origine abruzzese, in
Italia aveva lasciato la famiglia, tra cui due bambini in tenera età. Passò, poi, a dirigere il
liceo italiano di Atene. In lui ho voluto rappresentare la difficile alternativa imposta in molti
casi dall’emigrazione: la scelta tra un lavoro ricco di guadagni all’estero e la vicinanza
degli affetti familiari.
62
In questi versi non si vuole rappresentare un distinto personaggio politico, quanto
simboleggiare una linea di politica estera italiana, che si destreggiava tra l’adesione alla
NATO (e l’alleanza con gli USA) e più o meno velate simpatie per il mondo arabo, negli
anni Settanta e Ottanta.
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per la tua lunga vita di politico navigato,
gli sorridi con volto amicale,
annuisci alle sue parole e gli prometti
quel gesto atteso di riparazione
per i danni della fascista dominazione:
ma dell’ospedale e dell’autostrada i progetti,
lo sappiamo, rimarranno sulla carta.
Già prima che per l’Italia tu riparta
io comprendo delle tue parole la menzogna:
poi te ne vai, e noi restiamo qui,
compagni di imbarazzo e di vergogna.
Non è con la politica contorta e un poco vile
che ci renderai amico un popolo ostile.
cambia volto e gesto in un momento:
a quella che di tutte è la più altera
e par del Botticelli la Primavera
o una madonna di trecenteschi quadri,
regala, mentre passa il pulmino,
uno smagliante sorriso al veleno,
facendo dei nostri antichi padri
col dito medio il gesto osceno.
❀❀❀
Ode al succo d’uva
Soave e spurio figlio di Iacco,
sulla mia tavola tu mi dai gioia,
❀❀❀
quando nelle pene il cuor mi dilacco.
Il tuo dolce sapor di melassa
...digitum porrigito medium!63
mi fa dimenticare il mondo boia
A bordo del pulmino della scuola
e la mente tormentata mi rilassa.
tornano a casa le nostre studentesse
Ma se penso che sol questo ho qui per vino,
e per le vie si fermano i passanti ammirando: perché quello vero è vietato dal Corano,
una bellezza così, s’è mai vista quando?
credo che in un paese così lontano
L’acerba grazia di queste adolescenti
il mio gusto resterà quello di un bambino.
è una vista che il cuor sempre consola.
❀❀❀
Son brune e bionde, alte e slanciate,
dai lineamenti dolci e angelicati,
Vino della casa
e si tiran dietro le occhiate ardenti
M’invitò un bell’ingegno nostrano,
dei giovani coetanei maghrebini,
quando il pulmino va per le assolate strade. in barba alle leggi del Corano,
a bere il vin ch’avea fatto da sé:
Accende le loro fantasie, le loro brame
“È un vino che più buono non ce n’è!”
il pulmino delle giovani italiane:
All’uva una spremuta aveva dato
son ammirate con languidi sospiri,
e dell’alcol la dose avea mischiato,
le ragazze del Liceo “Al Maziri”.
lasciando la mistura a fermentare.
Quelle civette, poi, dai finestrini,
Mi porse la bevanda da assaggiare,
lanciano piccoli cenni d’intesa
un liquor denso dal riflesso d’ambra,
che gli altri scambiano per inviti veri,
e io pensai che l’amico fosse in gamba
già sentendosi i loro cavalieri.
se da sol s’era fatto quel buon vino.
E mentre il pulmino avanza adagio,
Ma era né parente né vicino
qualcuno già pregusta pure un bacio.
quel beveraggio al liquor di Bacco,
Ma dietro ogni complice ammiccamento
e in bocca mi restò un sapor di macco,
v’è soltanto uno scherzo d’occasione.
un sapore di fave andate a male.
E uno, che ben capisce la situazione
“Questa roba sa proprio di speciale”,
e non inganna il sorriso birichino,
63
Da Marziale 2,28,2.
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pensai di quel vinello dell’amico,
“e or di un tale intruglio che gli dico?”
Non volevo lodar né biasimare
l’amico che m’avea fatto gustare
il vin prodotto dalla sua cantina,
ma quel vino, certo, era una rovina.
“E allor, questo mio vino, infin ti piace?”,
chiese attendendo un responso verace.
Per levarmi da un caso imbarazzante,
pensando un po’, gli diedi tal risposta
con la più bella e bronzea faccia tosta,
ma dentro mi sentivo un lestofante.
“Mio caro, io non sono un Veronelli
che s’intende di vini e di vinelli.
E se bere vino tu l’hai per premio
sappi ch’io son da molto tempo astemio.
Perciò il vin tuo non posso giudicare
e ten prego, rancor non mi portare”.
La delusione allor gli pinse il viso
e mi fece la smorfia d’un sorriso.
Così da quel deluso mi congedai:
ci salutammo, né più lo vidi mai.
Ma or penso che all’amico feci torto
e fui nel mio parlare poco accorto.
Invece d’una atroce delusione
potevo dargli ben soddisfazione,
lodando la virtù inesistente
di quel suo vino frutto d’espediente.
Perché tra gli stranier chi vive solo
sente la nostalgia del patrio suolo
e più forte lo prende un amor acre
per chi ha lasciato nella terra madre.
Si ricordano i cari familiari
a tavola riuniti, e i bei mangiari,
si cerca in ogni angolo di mondo
il nostro sole, il clima e il mar profondo,
e il sapore d’Italia nelle cose.
Quel sapor che si cerca e non si trova,
perché ogni cosa in altra terra è nuova,
io lo trovo nei versi e nelle prose
di Foscolo e dei grandi letterati
quando li spiego a quei volti assonnati
o quando illustro uno scrittor latino.
Lui lo cercava in terra musulmana
facendo di nascosto quel suo vino
che sapeva della patria lontana.
❀❀❀
Alla mensa della Busetta64
T’arrabbi perché il cuoco genovese
ha messo troppa salsa sulla carne.
Ma dimentichi che qui non hai spese:
non paghi della camera l’affitto
e nulla spendi per goder del vitto.
Perciò lamenti proprio non puoi farne.
❀❀❀
All’uscita dalle caserme
Ragazzi e ragazze
escono in fretta dalle caserme
alti e fieri nelle giubbe grigioverdi,
verdi come il prato quand’è marzo,
grigie come l’affusto di un cannone,
con il volto lucente di un sorriso,
con gli occhi bagnati da un raggio di sole.
Ma gli hanno imbottito il cervello
per farne, domani, carne da macello.
❀❀❀
Le notti di Tripoli / 1
Scoppia nella notte sonnacchiosa
un colpo improvviso di fucile
e più lontano un altro gli risponde.
64
La Busetta (da Abu Satta, nome della località in cui sorgeva, a est di Tripoli) era
un grande complesso residenziale che fungeva da Guest House per il personale dell’AGIP
e delle società collegate. Vi fui alloggiato anch’io durante l’anno scolastico 1983-1984.
Il cuoco era italiano e la cucina discreta, date le ovvie limitazioni, ma, come sempre accade,
non tutti apprezzavano quello che “passava il convento”. La poesia è dedicata a uno di questi
commensali scontenti.
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Trasalisco e mi sento un poco vile,
pauroso del domani incerto.
Tripoli la notte non riposa:
dal fondo della strada un urlo avverto,
e altre urla echeggian nella notte assurda,
voci e urla che non mi spiego.
In attesa dell’ignoto penso e prego,
mentre un ignoto spara colpi al cielo.
Di giorno colgo una tensione oscura
nei volti della gente e delle persone
che conosco, all’interno della scuola.
Perché il futuro qui a tutti fa paura.
Qualcuno forse col ferro e col fuoco
prepara al Capo la successione
o s’è capito che non parla per gioco
chi scriverà col sangue la rivoluzione?
e sei qui per una segreta missione.
Ah, tronfia e derelitta umanità!
Per una busta gonfia di dollari ogni mese
tu ti fai complice della distruzione.
❀❀❀
Preside P.
Il pilota mercenario65
T’ho visto al bar della Busetta,
mentre sorseggiavi il tuo liquore,
chiuso nell’uniforme blu stretta.
Il volto duro, angoloso,
l’occhio astuto e indifferente,
parlavi rapido al tuo compagno,
pilota anch’egli come te,
guardando in giro sospettoso.
M’han detto che hai portato le armi
per i ciadiani o il Fronte Polisario,66
non ho capito bene,
e poi sei fuggito via dal tuo paese.
Trasportar certi carichi conviene,
anche se servon per uccidere la gente.
Io non so se sei americano o inglese,
ma so che sei un pilota mercenario
❀❀❀
Al mercato
Sulle teste di donne pazienti,
in fila, a comprar frutta e verdura,
i manganelli roteano gli agenti
per gioco: del terrore di un momento
godono, nella noia della calura,
bastonando per divertimento.
❀❀❀
Il tuo grido ossessivo
duro e forte da spaccare la pietra
sognavo nella quiete della notte.
Mi impose allora
timorosa e servile discrezione.
Oggi che più non sei
della scuola l’ineffabile padrone
mi evoca una sommessa disperazione,
un affetto gettato in un canto,
d’una famiglia lontana il rimpianto,
una voce amica nell’ora tetra.
❀❀❀
Grammatica latina
Quod aliter non posset:
al congiuntivo imperfetto
nella proposizione causale
65
Un giorno vidi alla Busetta alcuni uomini nella divisa dei comandanti d’aereo, e mi
fu detto che erano piloti americani o inglesi, non ricordo bene. Il resto l’ho immaginato io,
ma non ho dovuto sforzare troppo la fantasia: a quel tempo Gheddafi organizzava rifornimenti d’armi e aiuti ai movimenti politico-militari africani e si serviva di apposito personale
reclutato all’estero.
66
Movimento indipendentista armato, appoggiato da Gheddafi, che negli anni Settanta e Ottanta combatté per l’indipendenza del Sahara Occidentale dalla Spagna e, a partire dal
1975, dal Marocco e dalla Mauritania.
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m’aggrappo con l’artiglio dell’intelletto.
Dimentico nell’ora di lezione,
quand’è più assorta la mente,
la strana situazione
di chi straniero vive
tra la straniera gente
e fa i conti col quotidiano male.
In questo tempo brutto e meschino
è ancora bello saper di latino.
❀❀❀
Una lezione del 28 febbraio 1983
Ti parlo d’un poeta solitario
che visse ramingo fuor del suo paese
vagando per spaventosi esigli,
in fuga dagli uncinati artigli:
al termine del viaggio
egli divenne esperto della vita,
un vecchio saggio.
Ancor giovane in queste tristi ore
io consegno a te, giovane studente,
il nostro sapere, mentre in triste esilio
la nostra gioventù precocemente
illanguidisce e rassegnata muore.
Ma d’andar via la cieca fretta
ti possiede, mentre ascolti la compagna
che vicina ti sussurra una dolce paroletta:
e di quel che dico non t’importa niente.
❀❀❀
Farida67
L’impenetrabile sipario
di pesanti lenti verdi fumé
mi lascia scorgere un istante
nei tuoi occhi disfatti
l’irrimediabile calvario
che è in te.
Mi raccontano,
come riflessi di uno specchio,
di un uomo strappato di notte
alla sua casa, ai familiari
attoniti, di pestaggi e botte
in una fetida cella di caserma,
di domande urlate a un prigioniero
fatto precocemente vecchio
nello squarcio di sanguinanti silenzi.
Noi di te spesso sussurriamo
agli intervalli delle ore mattutine
di lezione, come ordinaria faccenda:
non un gesto solidale
conforta la tua vicenda,
il tuo dolore.
E tu, impassibile,
senz’ombra di emozione,
in aula stai, come ogni giorno,
fino alla fine, per spiegare
agli alunni la lezione,
sola con il tuo male.
La tua serena e silente dignità
urla la nostra quotidiana viltà.
❀❀❀
Storia di ieri, storia di oggi
Spiego una mattina in classe
che in Roma antica i comizi centuriati
votavano le leggi e i magistrati.
Oggi della Jamahiriya le masse
sono aggregate nei nuovi comitati,
i comitati popolari.
Decidon le leggi e gli aumenti dei salari
o in segreto anche i misfatti sanguinari?
❀❀❀
Le notti di Tripoli / 2
Squarciato è il silenzio delle notti
da uno sparo e da improvvisi botti.
La poesia è dedicata alla prof.ssa Farida Koobar, insegnante di francese nella scuola
italiana, di cui venni a sapere un giorno che le avevano arrestato un familiare, forse il marito, per motivi politici.
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Poi ripiomba il silenzio e tutto tace.
Il giorno dopo, un altro corpo giace
per la strada, crivellato di colpi
d’ignote armi automatiche da fuoco.
Così apprendo da queste tristi sorti
che la vita d’un uomo qui val poco.
ma una risata in faccia al mondo
e al capriccio del destino,
lo sberleffo di un vecchio bambino
che ride allegro nei giorni amari.
❀❀❀
Una vela alta sul mare69
La lettera68
M’han detto che una lettera
non conserva più segreti
per la polizia di questa città.
Una macchina proietta alle pareti
in qualche modo che nessuno sa
le quattro facciate del foglio
conservato nella busta.
Come cani che fiutano l’usta
i poliziotti cercano nelle lettere
per cacciare prede innocenti
frasi proibite, parole sospette
e di uomini liberi l’orgoglio.
Ma se proietteranno la mia lettera
cosa leggeranno gli agenti?
Non inni di lode alla libertà,
non la denuncia di un popolo oppresso,
non l’eterno amore invano promesso,
non la stanchezza e il dolore
di chi lontano sta dai suoi cari,
non il rimpianto che prova in fondo
quando il sole tramonta e muore,
❀❀❀
Una vela alta sul mare
fu il mio desiderio di fuga
al tempo dell’ignara gioventù.
Ora che m’è spuntata qualche ruga
e il sogno di un tempo non ho più
siedo sulla sabbia a contemplare
il volo di un bianco gabbiano:
si porti il mio pensier lontano,
oltre le sponde di questo mare.
❀❀❀
All’aeroporto di Tripoli
Non credevo che norme assai severe
avrebbero costretto un doganiere
coi guanti bianchi e la divisa grigia
a gettarmi per terra la valigia.
Avrei fatto io di libri contrabbando?
Spiegate, per favore, come e quando:
son insegnante, io, e non bandito
e il mio certificato è ben pulito.
I libri che ho son la mia cultura,
son manuali di letteratura,
68
Tra le tante dicerie che circolavano nell’ambiente degli italiani, non tutte probabilmente autentiche, anzi alcune vere e proprie “favole”, vi fu quella che tutte le lettere spedite erano intercettate dalla polizia che ne proiettava il contenuto su uno schermo mediante una misteriosa macchina. Non posso ovviamente garantire la verità della cosa, ma è certo che almeno le conversazioni telefoniche erano sorvegliate. Molte volte, quando telefonavo ai miei parenti in Italia dalla posta centrale di Tripoli, la linea cadeva bruscamente. Il
preside, poi, telefonava dalla sede della scuola parlando in dialetto abruzzese stretto.
69
Una vela alta sul mare è citazione tratta da una poesia di Piero Ferrari, direttore
dell’Istituto Italiano di Cultura e Addetto Culturale dell’ambasciata italiana a Tripoli (compresa nella raccolta Dissonanze), che qui riporto testualmente: La giovinezza / fu un sorriso/ di fanciulla / trepido. / Una nuvola / all’orizzonte / una vela alta / sul mare. A Piero Ferrari, fine intellettuale e poeta di rara sensibilità, che a Tripoli ebbi il piacere di conoscere e
frequentare, e a sua figlia Alina, che fu mia alunna, va il mio grato e affettuoso ricordo.
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come il Petronio e il Paratore,70
su cui passai lunghe e notturne ore.
E voi vorreste rispedirmi indietro
perché d’importar libri c’è il divieto?
Certo, tutto quel che è occidentale
per voi viene da Satana ed è male,
e i testi in caratteri latini
avvelenan le menti dei bambini.
Una coppia di libri sol vi serve:
uno è il Corano, l’altro è il Libro Verde.
E il militante sarà poi perfetto
se a questi libri aggiungerà il moschetto.
❀❀❀
Dialoghetto tra due imprenditori
- Oggi il contratto vado a stipulare
che mi farà le strade riparare.
- Ma quel contratto, caro, spetta a me
perché mi sono mosso pria di te!
- Il ministro mi conosce da anni
e di me si fida: tu fai solo danni!
- Non contarci, farai brutte figure:
ho io le migliori entrature.
- Ma ancor non sai che in tutti i ministeri
vogliono solo imprenditori seri?
- Sarai capace, ma io valgo ben di più:
se voglio, vado anche da Jallud!71
- Tu vuoi soffiarmi il mio bel contratto,
ma prima ti farò diventar matto!
- E tu ficcati in quel tuo cervello
che amico sono pur del Colonnello!
❀❀❀
Nel cavo della mano
Nel cavo della mano
barbaglia tremolante
il fuoco di un tramonto:
per un ultimo istante
afferro quel debole calore
mentre il sole si tuffa e muore
nelle onde del mare lontano
dove stride l’ultimo gabbiano.
❀❀❀
A Piero Ferrari
Oltre ogni metafora
tragicamente vera
la tua poesia levantina
mi dice un dolce sussurro di pianto,
una dissonanza72 del cuore
che non ha più speranza:
brandelli di vita
che abbiamo perduto per sempre.
❀❀❀
Partita a tennis
Due fanciulle sulla rossa spianata
nel parco d’una villa assai elegante
giocano a tennis sotto il sol cocente
con la divisa bianca immacolata.
E il capo della città di Ghadames
venne un di’ dal suo paese lontano
seguendo lunghe ed inaccesse piste,
a guardar quello spettacolo strano,
il duello delle giovani tenniste.
70
Mi riferisco ai noti manuali L’attività letteraria in Italia di Giuseppe Petronio (ed.
Palumbo) e Storia della letteratura latina di Ettore Paratore (ed. Sansoni), che mi furono
sequestrati, assieme ad altri testi scolastici, dai doganieri appena arrivato all’aeroporto di
Tripoli, in quanto testi “proibiti”.
71
Il maggiore Abdessalam Jallud fu per molti anni il numero due del regime libico.
72
Dissonanze (Edizioni del Sole, Roma 1983, con introduzione di Clotilde Paternostro
e appunti grafici di Gianni Bruni) era appunto il titolo della raccolta di poesie che Piero Ferrari volle donarmi, apponendovi la seguente bella dedica: A Mario con affetto e nel ricordo
della dolce «truce» Libia.
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Corron pel campo come due gazzelle
nella furia dei loro quindici anni:
alte e slanciate, sono proprio belle
e la foga mette ai lor piedi i vanni.
E il capo della città di Ghat
venne un di’ dal suo paese lontano,
seguendo lunghe ed inaccesse piste,
a guardar quello spettacolo strano,
il duello delle giovani tenniste.
Le guardan tutti ammirati e guardo anch’io
le due guerriere battersi sul campo
a colpi di diritto e di rovescio,
mentre la palla saetta come un lampo.
E il capo della città di Sabha
venne un di’ dal suo paese lontano,
seguendo lunghe ed inaccesse piste,
a guardar quello spettacolo strano,
il duello delle giovani tenniste.
A uno smash risponde con una volée
l’una e coglie il punto per far suo il set.
Ma l’altra le tien testa degnamente
e prosegue la partita al tie-break.
E il capo della città di Waha
venne un dì dal suo paese lontano,
seguendo lunghe ed inaccesse piste,
a guardar quello spettacolo strano,
il duello delle giovani tenniste.
Finché una vince set, gioco e incontro.
Termina del tennis lo spettacolo
col plauso alla giovin vincitrice.
A guardarla è di beltà un miracolo
e or si gode la meritata gloria.
Cala il sipario su quel dorato mondo,
su quel mondo pieno di fasto e boria,
ove entrai invitato per due ore
facendomi con gli altri spettatore.
In silenzio dal parco me ne esco
e cerco all’arsura un po’ di fresco:
e in fondo provo un senso di stranezza
per quei capi venuti dal deserto
a mirar la bravura e la bellezza
delle duellanti a quello strano gioco
di cui nessuno era davvero esperto,
giammai visto né conosciuto un poco.
E se ne andaron delle città i capi
venuti quel dì da molto lontano,
seguendo lunghe ed inaccesse piste,
a guardar quello spettacolo strano,
il duello delle giovani tenniste.
Desidero ringraziare l’amica e collega Anna Maria Robustelli per
aver collaborato alla revisione del testo, dispensandomi preziosi
consigli e correzioni.
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MARIO CARINI
Un poeta “ferroviere”:
Gino Andreini
Alla memoria di Luciana e Gabriella Andreini
dedico questo lavoro, che certamente avrebbero
apprezzato
Mario Carini
1) Le poesie di Gino Andreini. Tra i poeti dilettanti, il caso di
Gino Andreini (1884-1977) è emblematico, quale segno di un’attività costretta, appunto, nei limiti del dilettantismo, ma che in non
pochi momenti riesce a elevarsi fino a toccare punte di creativa originalità. Anzitutto, a nostro giudizio, è sostanzialmente corretto, anche se forse poco elegante, chiamare Gino Andreini “poeta ferroviere”, giacché la sua attività di poeta ebbe inizio e continuò per tutto
il corso di quella lavorativa, spesa al servizio delle Ferrovie dello
Stato, e si accentuò dopo il pensionamento. Scrivere versi occupò,
quindi, lo spazio limitato del suo tempo libero, né egli ebbe modo, se
non in pochissime occasioni, di dare alle composizioni dignità di
stampa. Il pensionamento gli diede certamente la possibilità, pur a
una età tarda, di dedicarsi completamente alla poesia. L’Andreini,
però, uscì dal teatro del mondo in assoluto silenzio né i critici si
sarebbero mai potuti accorgere di lui, che certamente non fu un
“poeta laureato” né in minimo modo riconosciuto dal mondo accademico o editoriale, dai lettori colti o dal grosso pubblico (come
talvolta accade per i poeti di gran nome), non avendo mai ottenuto
premi, riconoscimenti o soddisfazioni di sorta. E anche i suoi versi
avrebbero conosciuto la triste sorte dell’oblio, magari aggiunta alla
perdita totale dei testi, se non ci fossimo del tutto casualmente
imbattuti in un fortunato ritrovamento.
Per la sua produzione poetica dilettantesca, potremmo definire
l’Andreini un poeta naïf, ma non nel senso deteriore del termine.
Questi non sono i soliti versi qualunque di una persona qualunque. Il
suo verseggiare, ben lungi dall’essere un’innocente mania o l’improvvisato passatempo di un signore un po’ svagato e avanti con gli
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anni, ha prodotto, sul piano formale, versi dignitosi che mostrano
quantomeno buon gusto e delicatezza di immagini e sentimenti, qualità che oggi sono divenute davvero rare nella attuale produzione letteraria. Non v’è un verso che contenga una descrizione volgare o goffa e approssimativa o, peggio, un inutile luogo comune. Tutto è soffuso di un’arguta e bonaria signorilità. Si tratta, a nostro giudizio, di
esercitazioni poetiche che oltrepassano i confini del dilettantismo, anzi talvolta si elevano – e lo diciamo senza tema di esagerare – fino al
livello di una creazione d’artista.
Sarebbe necessaria, a questo punto, una adeguata presentazione
di Gino Andreini, ma la nostra ricerca, che ci ha permesso di parlare
direttamente con gli ultimi discendenti dell’autore, ha potuto raccogliere ben pochi elementi per determinare i Realien del suo vissuto.
Della vita di Gino Andreini abbiamo perciò raccolto scarse notizie e
al momento possiamo dare soltanto le seguenti indicazioni. Nato a Firenze il 4 febbraio 1884 da Attilio Andreini e Augusta Prucker, trasferitosi giovanissimo a Roma, trovò impiego, dopo un breve periodo
trascorso alla Biblioteca Vaticana come perito calligrafo, nelle Ferrovie dello Stato, ove fu membro della milizia ferroviaria, durante il
Ventennio, e percorse le varie tappe della carriera fino a diventare il
capo della scorta al convoglio reale. In quella funzione poté avvicinare, se non conoscere direttamente, i membri della famiglia reale, il
re Vittorio Emanuele III, la consorte regina Elena, il principe ereditario Umberto (il futuro Umberto II) e la consorte principessa Maria
José: per le nascite dei piccoli Savoia compose poesie e acrostici che
inviò alla famiglia reale, ricevendone in cambio biglietti e cartoline
con parole di apprezzamento e ringraziamento per gli omaggi in versi. Ne riportiamo di seguito alcuni, che abbiamo rinvenuto tra le carte dell’autore:
“Napoli, Palazzo Reale.1 / I versi augurali che Ella ha inviato in
occasione della nascita di S.A.R. la Principessa Maria Pia2 sono stati
molto graditi dalle LL.AA.RR. i Principi di Piemonte che ringraziano
vivamente per il pensiero gentile. / Il Generale di C. d’A. Primo Aiutante di Campo Melchiade Gabba”
1
Testo sul retro di una cartolina con i ritratti di Umberto di Savoia (principe di
Piemonte, il futuro Umberto II) e della consorte principessa Maria José. La cartolina ha
i timbri “Carteggio Reale” e “Regie Poste - Casa di S. A. R. il Principe di Piemonte”.
2
Nata a Napoli il 24 settembre 1934.
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“Napoli, 30 marzo 1937-XV 3 / Signor Gino Andreini, / ROMA. / I versi
da Lei composti per la nascita di S.A.R. il Principe di Napoli 4 sono
stati graditi dalle LL.AA.RR. i Principi di Piemonte Che m’incaricano
di trasmetterLe i Loro ringraziamenti. Con i migliori saluti. / Il Primo
Aiutante di Campo Generale di S.A.R. il Principe di Piemonte Generale di Corpo d’Armata Aldo Aymonino”.
“Le Loro Altezze Reali i Principi di Piemonte ringraziano cordialmente per gli auguri ed i sentimenti da voi espressi per la nascita di
Sua Altezza Reale la Principessa Maria Gabriella. / Il Primo Aiutante
di Campo Generale di S. A. R. il Principe di Piemonte Generale di
Corpo d’Armata E. Gamerra”.5
“Roma, febbraio 1943. / Le Loro Altezze Reali i Principi di Piemonte
ringraziano sentitamente del gentile pensiero augurale. / Il Primo Aiutante di Campo Generale di S. A. R. il Principe di Piemonte Generale
di Corpo d’Armata (E. Gamerra)”.6
Mai però, nonostante gli apprezzamenti ricevuti per i versi inviati,
l’Andreini fu nostalgico della monarchia o coltivò simpatie per il trascorso regime fascista.7 Egli cessò dal servizio nel dopoguerra e l’ozio
serenamente vissuto nel rifugio degli affetti familiari gli permise di
coltivare pienamente la passione per la poesia. Frutto della quale fu
una copiosa produzione di sonetti, madrigali, e soprattutto acrostici,
con i quali fissò le varie ricorrenze (dalle nascite di figli e nipoti, ai
Testo su carta da lettera con il simbolo della corona e l’intestazione “Casa di S.A.R.
il Principe di Piemonte”.
4
Si tratta del futuro erede al trono Vittorio Emanuele di Savoia (padre del principe
Emanuele Filiberto, ben noto per le frequenti apparizioni in spettacoli televisivi), nato a
Napoli il 12 febbraio 1937.
5
Testo sul retro di una cartolina con le immagini dei principini Maria Pia e Vittorio
Emanuele che guardano la neonata Maria Gabriella. La terzogenita nacque a Napoli il
24 febbraio 1940. Il testo è senza data.
6
Testo sul retro di una cartolina con i ritratti dei tre principini Maria Pia, Vittorio
Emanuele e Maria Gabriella. La cartolina è in risposta ai versi scritti per la nascita della
quartogenita, Maria Beatrice, avvenuta a Roma il 2 febbraio 1943.
7
A meno che non gli si voglia imputare la formale adesione al regime fascista
durante il Ventennio, scelta che però fu obbligata per la quasi totalità degli italiani. Non va
dimenticato, del resto, che la prima preoccupazione del regime fu quella di creare le basi
del consenso, attraverso la formazione di una sorta di identità collettiva (la nazione
fascista), per permettere la partecipazione delle masse alla vita politica secondo i modi e
gli indirizzi voluti dal Duce. Sul tema del consenso degli italiani al fascismo vd. Giordano
Bruno Guerri, Fascisti.Gli italiani di Mussolini, il regime degli italiani, Mondadori,
Milano 1996, rist., pp. 176-182.
3
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battesimi e ai matrimoni) che allietarono la sua famiglia: una famiglia
folta (di quelle che venivano propagandate e premiate nel Ventennio),
arricchita da ben nove figli (otto femmine e un maschio), della quale
egli volle essere un po’ il venerando patriarca. La lunga vecchiaia, vissuta serenamente accanto alla diletta moglie Anna, l’unico grande
amore della sua vita, si concluse il 3 marzo 1977, alla invidiabile età di
novantatré anni, dopo pochi mesi dalla morte di lei. Le poche fotografie che di Gino Andreini abbiamo potuto vedere mostrano un signore
anziano, dall’aspetto imponente nonostante l’età avanzata, con un gran
paio di baffi (come si portavano ai primi del Novecento) e il volto
atteggiato a un sorriso lievemente ironico. Lo si vedeva, così ci è stato
detto da chi ebbe l’occasione di conoscerlo, tutte le mattine passeggiare a braccetto con la moglie, percorrendo sempre lo stesso tratto di
strada, per recarsi ai vicini giardinetti, a fumare comodamente il prediletto sigaro toscano, o a curiosare a un mercato all’aperto, ove sceglieva personalmente la frutta e la verdura di stagione. E lì, forse, in
quell’ambiente chiassoso e variopinto, il suo sguardo poteva fissare
soggetti, tipi, situazioni, immagini, scorci, da cui trarre spunti di ispirazione e materia per la composizione poetica.
I familiari dell’autore, con cui abbiamo avuto modo di parlare, ci
hanno evocato l’immagine, per loro consueta, di lui seduto al tavolo,
mentre fumava l’amata pipa e, ascoltando musica lirica,8 era intento a
tracciare i versi sul foglio col lapis, a comporre e limare continuamente le sue poesie, finché non fosse finalmente soddisfatto del risultato.
Una continua lotta dell’ingegno ingaggiata con la misura dei versi, con
le rime, con le parole adattate a far entrare nella poesia i nomi degli
interessati ingabbiandoli in ardui acrostici, una assidua ricerca di immagini per descrivere in modo non rozzo né banale fatti e persone o
per esprimere certe riflessioni sul destino umano e sull’insondabile mistero della vita, e il piacere pregustato che la sua composizione sarebbe riuscita immancabilmente gradita al destinatario: questo era l’esercizio poetico per Gino Andreini. In un suo quaderno egli aveva segnato le ricorrenze della numerosa famiglia: erano compresi in quello scadenzario tutti i compleanni e gli onomastici delle figlie e dei rispettivi
mariti, i battesimi, le comunioni e le cresime dei nipoti e dei pronipoti, gli onomastici di parenti e amici. A ogni ricorrenza, al termine del
8
Non a caso la prima poesia con cui apriamo la silloge è un acrostico dedicato al
grande tenore Beniamino Gigli.
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banchetto conviviale, spuntava fuori l’immancabile pergamena su cui
l’Andreini aveva vergato in artistica calligrafia i suoi versi, e che consegnava personalmente al o alla festeggiata. Sempre i suoi versi riuscivano graditi, anche se quello che ormai era divenuto un immancabile appuntamento con la poesia del “nonno Gino” talvolta muoveva
un po’ al sorriso, forse anche per la tendenza dell’autore a magnificare le virtù del laudandus. Ma è un peccato veniale che ben si comprende: la poesia dell’Andreini promana, infatti, da una atmosfera di
caldi affetti familiari, è una poesia che nasce dall’interno di una famiglia per affidare alla scrittura in versi il ricordo dei momenti più belli.
L’humus di cui si nutre la poesia dell’Andreini è, dunque, la vita
quotidiana vissuta nel tepore caldo e protettivo della famiglia, al riparo dalle brutture del mondo. Senza pretendere di stabilire troppo illustri e impegnativi paragoni col Pascoli e la poetica del “nido” familiare, potremmo semplicemente definire la poesia di Andreini una
poesia di “interni domestici”. E neppure è una poesia delle “piccole
cose di pessimo gusto”, di gozzaniana memoria: proprio quelle vi
mancano, anche se buona parte dei versi sono dedicati agli oggetti
d’uso quotidiano, e vi manca anche quel tono dimesso, rassegnato e
immalinconito dall’evocazione della malattia e della morte, che è la
cifra di un poeta crepuscolare.
Rappresentando scene e situazioni della vita quotidiana di una
famiglia della media borghesia romana, le poesie di Gino Andreini
offrono un quadro certamente fedele di quelli che erano i comportamenti, la mentalità, i gusti, le mode seguite da tante famiglie italiane nel
dopoguerra e negli anni del “boom”, quell’epoca che vide il nostro
Paese attraversato da una tumultuosa crescita economica che apportò
imprevisti e radicali cambiamenti al tessuto sociale italiano. Per tratteggiare rapidamente il contesto storico in cui collocare la produzione
in versi dell’Andreini ricorderemo che l’Italia era uscita praticamente
annientata dalla seconda guerra mondiale, fiaccata nelle risorse e nello
spirito, avendo dovuto pagare un immane prezzo in termini di vite e
distruzioni per riacquistare la libertà e la democrazia perdute durante il
fascismo. Al riguardo ci è sembrato opportuno inserire nella silloge presente una poesia, scritta dall’Andreini durante il Ventennio, che ben rievoca, ci sembra, quello che fu il momento di maggior adesione del popolo italiano al regime, ma anche il momento del suo inganno più subdolo, ossia la giornata dell’“oro alla patria” contro le “inique sanzioni”
(comminate dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia),
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che culminò nella consegna degli anelli nuziali di tante mogli e mariti.
Si tratta della poesia La fede (n. 7), scritta in romanesco, nella quale il
poeta esprime ingenuamente orgoglio per il gesto di sua moglie, ma
anche nostalgia e amaro rimpianto per la perdita di un oggetto che ha
“vissuto” con i due coniugi la comunanza della vita matrimoniale.
Quanti italiani, stregati dall’istrionica personalità del Duce e intorpiditi
dalla propaganda del regime, ripeterono in quel fatidico giorno del 18
dicembre 1935 il gesto diAndreini e di sua moglie?Tutti, praticamente.9
La famiglia Andreini, come tutte le famiglie nelle grandi città
italiane, durante la guerra provò le esperienze durissime della separazione per le più varie vicende (il fidanzato e futuro sposo di una delle
figlie dovette trasferirsi a Verona, impiegandosi nell’amministrazione
della Repubblica Sociale, e scampò fortunosamente ai massacri della
guerra civile), della fame, delle privazioni, della mancanza di generi
di prima necessità e delle medicine, della borsa nera.10 Ma dopo le
vicissitudini della guerra e le enormi difficoltà del dopoguerra, venne
per l’Italia il tempo del “boom”, l’improvvisa espansione economica
apparentemente inarrestabile. Lo sviluppo industriale si accompagnò
all’aumento della produttività, alla stabilità monetaria, all’aumento
delle esportazioni, all’innalzamento del tenore di vita, al ritrovato
rispetto del Paese da parte delle nazioni del mondo; la corsa al benessere vide l’ingresso nelle case degli italiani di nuovi elettrodomestici,
e soprattutto della televisione che apriva l’epoca dei programmi popolari e del divismo televisivo. Di tutti questi fatti che segnarono
un’epoca, probabilmente la più felice e spensierata nella storia dell’Italia repubblicana, i versi di Gino Andreini ci danno una singolare
testimonianza.Attraverso le poesie, vediamo, così, celebrato l’ingresso
in casa Andreini della macchina da cucire (poesia n. 12), della lavatrice Castor (n. 98), del telefono (n. 15), del televisore (n. 64 e n. 65),
Lungi perciò da noi l’idea di sindacare quella poesia evocante un gesto nel quale,
allora, l’Andreini ingenuamente credette, e con lui credettero milioni di italiani trascinati,
poi, nella tragedia del conflitto mondiale. Non vogliamo porci la domanda se e quanto
Gino Andreini sia stato fascista. Se è vero che la mentalità di un uomo si vede anche dalle
piccole cose, osserviamo al riguardo che l’abitudine di fumare la pipa, una vera passione,
non gli avrebbe potuto risparmiare le critiche dei fascisti di “provata fede”, dato che la
pipa nel Ventennio era considerata troppo “borghese” o addirittura “inglese”: vd. Gian
Franco Venè, Mille lire al mese. La vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista,
Mondadori, Milano 198911, pp. 125-126.
10
Per una efficace ricostruzione della vita quotidiana degli italiani durante la seconda
guerra mondiale vd. Gian Franco Venè, Coprifuoco, Mondadori, Milano 1989.
9
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del macinacaffè elettrico (n. 109), del rasoio elettrico (n. 110), del magnetofono (n. 99), della macchina da scrivere (n. 83), della motocicletta Iso del genero Alberto (n. 62). Sono versi che mostrano una
straordinaria capacità di animare le cose e di farle parlare, quasi a voler trasmettere con essi l’illusione di benessere e di felicità che provarono, allora, tante famiglie italiane. E poi ci sono i versi delle vacanze al mare, trascorse sulla riviera adriatica (n. 103), affittando una
casa per i mesi estivi, un invidiato status symbol che, allora, nel dopoguerra, non tutte le famiglie potevano vantare.
La novità che ebbe il più forte impatto sulle famiglie italiane fu
certamente l’avvento della televisione,11 che rivoluzionò il tempo libero e introdusse nuove forme di socializzazione. I pochi apparecchi
televisivi furono prima l’attrazione dei bar, poi, quando entrarono nelle
case private, divennero l’occasione di un passatempo serale collettivo,
sia pur di dimensioni ridotte. Dopo cena si passava la sera, tutti insieme, guardando in silenzio (i commenti sarebbero venuti dopo) i programmi televisivi allora in voga, come il celebre telequiz Lascia o raddoppia?, condotto dall’allora già popolarissimo Mike Bongiorno, il
presentatore destinato a diventare una autentica icona nella storia della
televisione italiana. La poesia “Il televisore in casa” (n. 65) rappresenta, appunto, un realistico quadretto di interno domestico, che allora
doveva essere comune nelle famiglie che vivevano il rito della televisione. Il raduno serale dei parenti nel salottino, la ricerca della migliore postazione strategica davanti al piccolo schermo, il silenzio che
piomba sui familiari assorti e stregati dal programma televisivo, e poi,
al termine della trasmissione, il congedo della piccola comunità di telespettatori dal padrone di casa: si può cogliere in questo quadretto una
certa malinconia, giacché l’autore sembra avvertire come la televisione cambi le abitudini domestiche, accentuando la tendenza a un uso
passivo e individuale del tempo libero rispetto a passatempi collettivi
e più socializzanti (ma nelle poesie di Andreini vi è posto anche per
quelli, vd. “Er bridge”,12 n. 51, in romanesco).
11
Sugli effetti della televisione nelle famiglie e nella società italiana, vd. le osservazioni di Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, a cura di Francesca Occhipinti, Einaudi scuola, Milano 1996, pp. 188-189. Offre un documentato quadro del periodo
1951-1963 il saggio di Rolf Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, in Storia
d’Italia, a cura di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, vol. V La Repubblica 19431963, Editori Laterza, Roma-Bari 20022, pp. 313-440.
12
In corsivo abbiamo trascritto le poesie in dialetto romanesco.
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Le poesie di Andreini non parlano, però, solo di oggetti, anche se
essi costituiscono punti di orientamento, piccole occasioni di conforto
nella vita quotidiana, che l’autore sente marcata dallo scorrere del tempo e dall’inevitabile declino fisico, pur dolcemente sopportato al fianco dell’adorata moglie. Ad alcune poesie egli affida le sue riflessioni
sul mondo, sulla vita e sul destino umano: sono “Er monno” (n. 10),
“Meditazione” (n. 17), “La vita” (n. 22), “La guerra” (n. 36), “Homo”
(n. 37), “La gioia” (n. 53), “Mistero” (n. 75). Da esse trapela una visione ingenuamente gioiosa e giocosa della vita, ma anche consapevole
delle sue brutture e avversità, di questa commistione di bene e male
che l’Andreini sa cogliere e trasmettere con efficaci immagini. Ecco
quindi l’immensa giostra che è questa nostra vita, ecco il mistero dell’uomo che, al termine del suo cammino terreno, si trova di fronte
all’Infinito, ecco la protesta, veemente e accorata, contro la guerra,
“belva indemoniata” molto più forte della pace (evidentemente l’autore in questa poesia riecheggia gli angosciosi timori che opprimevano
l’umanità intera durante il cupo periodo della Guerra Fredda): sono
spunti meditativi che provvedono a collocare la poesia di Andreini
ben al di là del semplice bozzettismo. Per quanto proprio determinati
tipi umani siano quelli che si imprimono forse di più nella mente del
lettore, come l’amico cacciatore Arbogaste, protagonista di un gruppo
di poesie, che vediamo impegnato in una sorta di comica guerra personale con gli uccelletti. Altre poesie contengono ricordi della sua attività nelle ferrovie (“Lo chef”, n. 4, “Vetture ristoranti”, n. 6, “L’inzogno ferroviario”, n. 8, in romanesco, “Alla vecchia locomotiva”, n. 13);
altre ancora sintetizzano efficaci spunti narrativi, come “Delusione”
(n. 39) e “Non è tutt’oro quello che riluce” (n. 125). Sono veri e propri
racconti condensati in pochi versi, ispirati a fatti quotidiani che dovevano certamente essere, in passato, più consueti di quanto oggi possa
sembrare: nella prima un reduce torna a casa e scopre amaramente di
essere stato lasciato dalla fidanzata, nella seconda un anziano passante è raggirato da un truffatore che gli vende un orologio d’ottone, fingendo che sia d’oro. Sono versi scritti in anni lontani, ma mostrano, in
fondo, l’altra Italia di sempre: quella che non sa mantenere la parola
data, quella che si adatta a vivere d’espedienti sfruttando o truffando
l’altrui ingenuità.
Nel mondo affollato di tanti piccoli uomini, che si affannano a
inseguire il loro “particolare” ed erigono monumenti alla loro personale vanità, vi è spazio anche per i buoni sentimenti, riflessi nelle cen– 63 –
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tinaia di acrostici e biglietti augurali in versi con cui Gino Andreini
volle celebrare le liete ricorrenze della sua numerosa famiglia e quelle dei suoi amici: di questa ampia produzione, inevitabilmente ripetitiva nelle forme e nei contenuti, abbiamo voluto dare solo qualche
esempio (le poesie “Nozze d’argento”, n. 50, in romanesco, “Acrostico”, n. 58, “A mio nipote”, n. 59, “Alla madre del mio nuovo nipote”,
n. 73, “A mia nipote Anna Paola”, nn. 93, 94 e 131, “Acrostico”, n. 97,
“Acrostico”, n. 115). Ma delicatezza d’immagini e garbata sensibilità
(potremmo dire, sperando di non scandalizzare nessuno, una sensibilità quasi di poesia ellenistica) appaiono con più evidenza laddove
l’Andreini indugia con tono giocoso a rappresentare il mondo dell’infanzia: la figlioletta che gioca col pulcino (“Il pulcino di mia figlia”, n. 9), le bambole della nipotina di cui “celebra” scherzosamente il battesimo (“Al bambolotto di Anna Paola”, n. 128) e lo sposalizio
(“Sposalizio delle bambole Barbie e Ken”, n. 129).
Il lettore troverà nella silloge che abbiamo compilato anche alcune poesie in dialetto romanesco: quadretti di interni ed esterni allegri e malinconici (“L’ora de scola”, n. 34, “L’orfanelle”, n. 35), episodi di vita vissuta realistici o inaspettatamente surreali (“L’inzogno
ferroviario”, n. 8, “Er moscone”, n. 21, “Er ballo”, n. 21), riflessioni
sulla vita e su come va il mondo esposte nella lingua di Belli e Trilussa. Sono certamente il segno di una profonda affezione che Gino
Andreini, nato fiorentino, sentiva non solo per la nostra capitale, ma
anche per quei grandi autori e, in generale, per la romanità. In proposito abbiamo riscontrato che nella biblioteca dell’autore non mancava
la raccolta completa dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, in una
edizione economica, circolante negli anni Sessanta, curata da Bruno
Cagli.13 Il risultato non è ovviamente né può essere confrontabile con
le opere di quei grandi maestri del vernacolo, tuttavia le composizioni in dialetto di Gino Andreini mostrano arguzia e concretezza nei
dettagli, raggiungendo una notevole dignità formale.
Ma la poesia di Gino Andreini non rimane confinata nei limiti
angusti dell’interno domestico. Essa, talvolta, si apre anche alle grandi vicende dell’epoca e ai loro protagonisti, a quei personaggi e fatti
che dalla cronaca sono passati alla storia: alcuni acrostici sono indiGiuseppe Gioachino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, compresi i sonetti rifiutati,
gli abbozzi e tutte le note dell’autore, per la prima volta pubblicate integralmente, a cura
di Bruno Cagli, voll. 5, Avanzini e Torraca Editori, Roma 1965.
13
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rizzati al papa Paolo VI (“A Sua Santità”, n. 114) e al presidente della repubblica Antonio Segni (“Al Capo dello Stato”, n. 102), una poesia condanna il Muro di Berlino, il più famoso simbolo della divisione dell’Europa durante la Guerra Fredda (“Al Muro di Berlino”, n.
119), un’altra evoca un episodio che fece grande scalpore, il danneggiamento della “Pietà” di Michelangelo ad opera di un esaltato ungherese (“Alla “Pietà” di Michelangelo”, n. 130).
Da ultimo ricordiamo quelle poesie nelle quali l’autore giudica
coraggiosamente se stesso e la sua produzione in versi: la piena coscienza del valore della sua poesia è espressa da una sincera professio
humilitatis accompagnata da una sorridente ed encomiabile autoironia
(vd. “Al poeta”, n. 30; “Vorrei”, n. 41; “Er mio libbrone”, n. 42).
In conclusione, che giudizio riservare alle poesie di Gino Andreini? Era meglio lasciarle dove stavano, ossia dimenticarle? E, soprattutto, perché stamparle oggi?
Lasciamo, anzitutto, decidere ai lettori il valore effettivo di queste poesie. Noi abbiamo voluto pubblicarle non solo perché costituiscono una implicita testimonianza (da offrire alle giovani generazioni, che pochissimo o nulla sanno del passato) dei tempi difficili del
dopoguerra e dell’epoca del “miracolo economico” degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma anche perché i versi di Gino Andreini, con i loro quadretti di un sorridente e sapido realismo, ci narrano di un mondo ormai tramontato, di affetti solidi e solidali che resistono alle inevitabili traversie della vita, dell’amore grato che i figli un tempo avevano per i loro genitori e della costante presenza dei genitori che mai
veniva meno ai figli pur cresciuti, di un patrimonio di affetti e memorie gelosamente protetto dal mondo esterno.
I versi dell’Andreini ci mostrano una di quelle rare famiglie ormai scomparse, in cui l’unità e la solidarietà erano valori praticati, in
cui la convivenza era rallegrata dal piacere di stare insieme per condividere momenti felici e meno felici, in cui anziani e giovani sostanzialmente si rispettavano. È un mondo ormai scomparso, di cui resta
qualche vaga memoria nei padri delle nuove generazioni (e nessun ricordo in queste ultime). Permetteteci in proposito un’ultima considerazione, che non vuole essere affatto moralistica. Se gli anni del
“boom” hanno portato l’emancipazione, soprattutto femminile, dall’autorità del capofamiglia, è venuto, poi, il Sessantotto con i suoi
presunti “anni formidabili”, a contestare e a seppellire definitivamente il principio di autorità di cui hanno fatto le spese, proprio nell’am– 65 –
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bito della famiglia, i cosiddetti “matusa”, gli anziani ingiustamente
considerati un peso “da rottamare”.14 Si è celebrata la “morte della famiglia”, condannata come spazio dell’oppressione e della repressione
esercitata dai genitori sui figli, si è irriso agli sforzi educativi di padri
e madri travolti dalla tempesta della contestazione sessantottina e delle mode conseguenti (per avere un’idea dello sfascio dell’istituzione
familiare operato dal Sessantotto basti leggere Va’ dove ti porta il
cuore di Susanna Tamaro). A noi che viviamo nell’odierna società,
fatta di single e di famiglie atomizzate, frammentate, “allargate”,
atipiche, i versi di Gino Andreini, di questo gentiluomo che osservava
con distacco un po’ ironico e molto comprensivo le debolezze altrui,
come un vecchio sapiente ormai a conoscenza degli arcani della vita,
restituiscono il sapore di un’Italia definitivamente tramontata. Un’Italia che forse si dovrebbe cominciare a guardare con più rispetto, se
non con un po’ di nostalgia.15
Concludiamo trascrivendo una delle pochissime poesie che
l’Andreini pubblicò in vita, versi che costituiscono un inno insieme
alla bellezza muliebre e a quella dell’arte.
RINVENENDO UNA STATUA.16
Chi fu col marmo che ti fè sì bella,
e ti scolpì sul labbro quel sorriso
che mai non si cancella?
Tu ben ricorderai chi fu quel tale
che muta e sorridente a te la vita
diede nel marmo gelido immortale
con voluttà infinita.
14
Quasi che la fresca gioventù, la gagliardia e la bellezza fossero una prerogativa
esclusiva ed eterna dei giovani contestatori, una condizione prolungabile all’infinito: sicché oggi la nostra società è ossessionata dal mito del giovanilismo e dell’efficientismo a
tutti i costi.
15
Tale ci sembra essere il senso di trasmissioni recenti come I migliori anni (Rai
Uno), che vogliono rievocare dagli “scrigni della memoria” degli spettatori il clima sociale
e culturale, la mentalità, i gusti, le mode e le tendenze, il tenore di vita che v’era nell’Italia
della seconda metà del Novecento. Gli SMS inviati al conduttore Carlo Conti dai telespettatori sono stati raccolti in: Carlo Conti, Noi che..., a cura di Emanuele Giovannini e
Leopoldo Siano, RAI - ERI, Roma 2009.
16
Poesia pubblicata nel volume Poesie per voi.Componimenti poetici di telespettatori italiani raccolti alla televisione da ALESSANDRO CUTOLO nella trasmissione
«Una risposta per voi», Casa Editrice Villar, Roma 1960, p. 184.
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Ricorderai il suo sguardo appassionato
nell’abbozzar nel marmo il tuo sorriso,
e forse dopo fatta t’ha baciato
come baciar si può nel paradiso.
Per secoli sepolta tu sei stata
fra i ruderi d’un tempo che finì,
ora alla luce muta sei tornata
ma sorridente come il primo dì.
2) Ricordo di Gino Andreini. Ci piace inserire in questa sommaria e purtroppo incompleta presentazione di Gino Andreini anche una
testimonianza che ci ha cortesemente offerto una nipote dell’autore.
«”Vieni qui, non scappare, che ti leggo una poesia...”, e per noi nipotini era un vero e proprio tormento, starlo ad ascoltare. Ci faceva
sedere vicino a lui, apriva il librone e ci chiedeva: “Ve l’ho letta
questa?” E noi pronti a mentire, anche se erano versi composti cinque minuti prima e che non avevamo mai ascoltato. Poi uno dei
“grandi” veniva in nostro aiuto, rimproverandolo per averci bloccato, vicino a lui: a pensarci bene, però, non c’era dispiaciuto affatto, perché quell’anziano signore, in fondo, giocava come noi. Lui
con le parole rendeva magico il quotidiano, osservava per fissare
sui fogli dei suoi libroni il lato bello, quello buono della vita, delle
cose, degli affetti.
Noi leggevamo fiabe e sognavamo di realtà lontane. Insieme, noi
bambini e lui, il nostro “nonnino”, guardavamo con ingenuo stupore
alla vita, reale o immaginaria che fosse... E fra i ricordi più ricorrenti
un’immagine si impone con prepotenza sulle altre: lo sguardo del
nonno, mentre fuma la pipa o il sigaro toscano. È uno sguardo sereno, pacificato con la vita dalle battaglie, forse, di tempi giovanili, da
quella inquietudine con cui si guarda al mistero dell’esistenza e ci si
pone in atteggiamento di ascolto, senza la presunzione di trovare risposta a quello che si intuisce essere più grande di noi. E allora mentre “spipacchia”, così affettuosamente chiamavamo la sua piccola
nube di uno sbuffo di fumo che proteggeva i suoi pensieri, eccolo a
osservare con amorevolezza la sua famiglia, in una festa continua di
anniversari, onomastici, nascite e compleanni, che non dimenticava
mai di mettere in versi. In ogni ricorrenza, per ognuno di noi, arrivava immancabile la sua poesia, un pensiero d’affetto (“un po’ vanesio”?, chiedeva riferendosi a se stesso) stemperato nel sorriso di chi
vuole partecipare al mondo dei suoi amati affetti, ma soprattutto di
chi vuole che, di quel mondo, niente vada perduto.
Le poesie per il compleanno e persino per l’onomastico, ad una prima
lettura, appaiono versificate in modo quasi ripetitivo, impreziosite
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sempre dalle stesse immagini floreali: poi ci si accorge che esse stesse
vogliono essere un mazzo di fiori, riservato esclusivamente a noi, una
verde composizione destinata, però, a non appassire. E da lui abbiamo
imparato che il tempo della famiglia non conosce i ritmi frenetici della vita che scorre fuori: lui circondato dalle sue “bambine”, otto figlie
(e un maschietto) e poi dai vivaci nipotini, ci ha insegnato che ogni
compleanno è un motivo di festa, anche se le tempeste della vita si sono abbattute su di noi, perché è un modo per rinnovare il nostro sì all’esistenza, che è un insieme di possibilità, forse, limitate, ma possibili e mai limitanti. È così che non mancavano le occasioni, a turno, per
farci sentire importanti, unici, anche se simili agli altri, un po’ come i
suoi versi, con le stesse immagini ma disposte ogni volta in modo personale a formare l’acrostico del nostro nome.
Il suo sguardo bonario, paziente si fermava a cogliere la magia del
quotidiano, a rendere importanti le piccole cose che ci circondano,
ogni volta facendo una nuova scoperta nel grande mistero della vita.
E così “il bel bambino biondo” della sua Firenze, che ricordava sempre con tanta nostalgia, continuava a fissare con rinnovato entusiasmo e profonda semplicità il mondo che lo circondava.
Di me diceva che a colpirlo erano i miei occhioni di bambina che
ogni mattina si svegliava sorridendo, un po’ come lui, che sorrideva
alla bellezza della vita, fosse solo perché ci ha consentito di esistere».
3) Nota editoriale. Questa silloge di 131 poesie è stata ricavata da
quelle che abbiamo reperito in alcuni volumi e quaderni appartenuti a
Gino Andreini e messi a nostra disposizione dalla cortesia degli eredi.
Abbiamo rinvenuto le poesie di Gino Andreini in due vecchi grossi volumi con pagine numerate, che in realtà sono registri esattamente
uguali a quelli che un tempo si usavano per protocollare la corrispondenza negli uffici amministrativi. I due volumi, che contengono le
poesie trascritte dall’Andreini in ordine cronologico, sono rilegati con
copertina di cartone grigio, misurano cm. 20 x 29 e sono stati intitolati
dall’autore stesso “Libroni”. Oltre a questi due “Libroni” doveva
essercene anche un terzo, che però non ci è stato possibile, a tutt’oggi,
reperire: probabilmente, se non è andato disperso, è posseduto da uno
degli eredi dell’autore. Questo “Librone” doveva precedere cronologicamente gli altri due, quelli che sono a nostra disposizione.
Per quanto riguarda i “Libroni” che sono a nostra disposizione,
il secondo di essi comprende 395 pagine numerate dall’autore (precedute da una pagina 0) e contiene 565 componimenti. In copertina
riporta la scritta di pugno dell’autore: Il mio II° librone. Iniziato il
13 settembre 1951, terminato il 25 maggio 1967. Andreini Gino.
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Il terzo “Librone”, che ha le prime pagine asportate, comprende
223 pagine numerate dall’autore, con 373 componimenti. In copertina ha la seguente scritta di pugno dell’autore: III° librone. Animali,
fiori e varie. Iniziato da pagina 97 il 25 maggio 1967, terminato il
3 marzo 1977. Andreini Gino. Giacché le poesie del secondo e del
terzo “Librone” sono disposte in ordine strettamente cronologico, è
facile dedurre che anche le poesie del primo “Librone” abbiano seguito il medesimo ordine. E giacché la prima poesia del secondo
“Librone” è datata al 13 settembre 1951, e non ve ne sono altre con
data anteriore, ne consegue che assai probabilmente le poesie del
primo “Librone” dovevano essere, ancorché disposte in ordine cronologico, tutte antecedenti a questa data.
Dunque, se questa ricostruzione è corretta, nel primo “Librone”,
quello che non si è potuto reperire, l’Andreini avrebbe ricopiato le
poesie scritte negli anni giovanili fino al 1951 (anno in cui aveva raggiunto la rispettabile età di sessantasette anni).
Abbiamo altresì rinvenuto cinque quaderni con la copertina di tela
nera e il bordo rosso (come si usavano fino agli anni Cinquanta), di
cm. 15 x 20, contenenti una scelta di poesie ricopiate dai tre “Libroni”.
La copiatura è stata eseguita dall’Andreini stesso, con la sua artistica
e tondeggiante grafia, da esperto calligrafo quale era. Le poesie sono
trascritte alla rinfusa, senza rispettare un ordine progressivo, con il
titolo e il numero della pagina corrispondente al “Librone” da cui sono
state estratte. Solo uno dei quaderni ha le pagine numerate, per un
totale di 74 pagine. Un altro dei cinque quaderni, in seconda di copertina, contiene la scritta di mano dell’autore: Roma 9 settembre 1976.
Una piccolissima parte dei miei scritti desidero siano conservati dalla
mia cara nipote Anna Paola. Il nonno Gino.
In questa nostra scelta di poesie dell’Andreini abbiamo trascritto,
senza data, dai quaderni neri le poesie che dovevano essere contenute nel primo “Librone” (quello che, si ripete, non ci è stato possibile
rinvenire). Più precisamente, abbiamo trascritto le poesie del primo
“Librone” ordinandole secondo il numero di pagina indicato accanto
a ogni titolo nei quaderni neri, disponendo per prime quelle che avevano un numero di pagina più basso e proseguendo con quelle che
avevano il numero più alto. Abbiamo poi trascritto le poesie a datare
dal 1951 dal secondo e dal terzo “Librone”. Laddove ci è stato possibile, abbiamo scritto sotto il titolo di ciascuna poesia la data di composizione, ricavandola dal secondo e dal terzo “Librone”. Nelle note
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a piè di pagina abbiamo indicato sempre la provenienza delle poesie
dai rispettivi “Libroni”, con le sigle PL (per “Primo Librone”), SL
(per “Secondo Librone”) e TL (per “Terzo Librone”), seguite dalla
pagina in cui si trovano, e abbiamo trascritto le annotazioni dell’autore ai margini dei testi.
GINO ANDREINI
Poesie scelte (1951-1973)
INDICE
1 Acrostico
2 Acrostico
3 La rondine
4 Lo chef
5 La margherita
6 Vetture ristoranti
7 La fede
8 L’inzogno ferroviario
9 Il pulcino di mia figlia
10 Er monno
11 Il girasole
12 Alla macchina da cucire
13 Alla vecchia locomotiva
14 La mia vecchia pipa
15 Il mio telefono
16 Ai miei occhiali
17 Meditazione
18 La lucciola
19 Acrostico
20 Il rospo
21 Er moscone
22 La vita
23 Il ragno
24 La lumaca
25 I pesci
26 La tartaruga
27 Il Poker
28 L’apparenza
29 Er passato
30 Al poeta
31 Il trifoglio
32 Il riso
33 La gelosia
34 L’ora de scola
35 L’orfanelle
36 La guerra
37 Homo
38 Il Colosseo
39 Delusione
40 La casa
41 Vorrei
42 Er mio libbrone
43 Er ballo
44 Non so perché
45 Acrostico
46 L’abbacchio
47 La gallina
48 Gli spaghetti
49 Er pesce
50 Nozze d’argento
51 Er bridge
52 L’avvenire
53 La gioia
54 La nostalgia
55 Una goccia d’acqua
56 La gondola
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57 Ai miei vetri
58 Acrostico
59 A mia nipote
60 La rosa recisa
61 Maremoto
62 Alla moto di Alberto
63 Ritornando
64 La televisione
65 Il televisore in casa
66 Acrostico
67 Acrostico
68 Er candidato de “Lascia o raddoppia”
69 L’amico delli animali
70 Ad una pianta
71 Ad una rondine
72 L’orologio a cuccù
73 Alla madre del mio nuovo nipote
74 A ‘na vorpe
75 Mistero
76 Nuvolette
77 Totocalcio
78 Il Totocalcio
79 Il Totocalcio
80 Er Totocarcio
81 Al naturalista (della RAI-TV)
82 Al naturalista
83 La macchina da scrivere
84 Il mio cortile
85 Il cacciatore
86 L’orologio
87 Acrostico
88 A una gondola
89 La mia stufa
90 Il cacciatore
91 Acrostico
92 Frammento
93 A mia nipote Anna Paola
94 A mia nipote Anna Paola
95 Il cacciatore
96 Ringraziando i cacciatori
97 Acrostico
98 La lavatrice Castor
99 Il magnetofono
100 La sabbia di Ladispoli
101 A mio genero
102 Al Capo dello Stato
103 Da Fano
104 La gabbia dei pappagalletti
105 La ciovetta
106 La civetta imbalsamata
107 Il fucile nuovo
108 Il vecchio fucile
109 Il macinino elettrico
110 Il rasoio elettrico
111 Le seppie
112 Sfumature
113 Il limone
114 A Sua Santità
115 Acrostico
116 Sfumature
117 Al Maestro Alberto Manzi
118 Rinvenendo un antico vaso
119 Al Muro di Berlino
120 Alla “Pietà” di Michelangelo
121 Senza titolo
122 L’orologio felice
123 La banderuola
124 L’acqua che cade
125 Non è tutt’oro quello che riluce
126 Regina Pacis
127 Il girarrosto
128 Al bambolotto di Anna Paola
129 Sposalizio delle bambole Barbie e Ken
130 Alla “Pietà” di Michelangelo
131 A mia nipote Anna Paola
N.B.: in corsivo sono state trascritte le poesie in dialetto romanesco.
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Acrostico17
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1
La rondine19
3
Blanda è la voce pria, che dopo sale
elevata nel cielo, e il gorgheggìo
nel passar da quell’ugola immortale
i brividi regala al cuore mio.
Alta e possente vai, voce canora,
mistica di dolcezza appassionata,
intorno al globo della terra e fora
nell’universo, là ove le stelle
orgogliose diran: che note belle!
Gradisca il mio pensier, poco profondo,
in tanto grande ed infinita gloria,
giusta e miglior, che le tributa il mondo.
Le dico solo, senza ipocrisia:
il canto suo è la passione mia!
Vi voglio raccontare una storiella
la quale ha del fantastico davvero:
si tratta d’una bruna rondinella
che attraversava l’acque del Mar Nero.
In bocca aveva un filettin di grano
e stanca lo posò sull’onde mosse;
sopra vi si adagiò e piano piano
si faceva cullar dall’acque scosse.
Appena ch’ebbe attraversato il mare
si liberò dal peso che portava:
con questo sembra ci volle insegnare
che senza di nessuno s’aiutava!
❀❀❀
Lo chef20
Acrostico18
2
Di sigari si trovano a milioni
or lunghi, corti, tondi oppur quadrati.
Ne han varie di forme, ma i più buoni
nell’assaggiarne tanti, li ho trovati
a Berlino, colà sol fabbricati.
La fabbrica lavora a perfezione
un sigaro, il migliore che vi sia,
che inebria tutte quante le persone.
Il nome vuoi saperlo? È in questo verso,
avendolo trascritto di traverso!
❀❀❀
❀❀❀
4
Ecco il cuoco nel diretto
col zucchetto bianco in testa,
ei lavora, ci scommetto,
svelto come una tempesta.
In un poco tutto è pronto
per quaranta e più persone,
lì per lì diventa tonto,
ma poi dopo sta benone.
Con sollecita manovra,
lesta come va il diretto,
la sua arte mette a prova,
con valor senza difetto.
E quei cibi cucinati
all’inglese o all’italiana
17
Dal “Primo Librone” delle poesie (da qui in avanti PL), p. 17. I testi trascritti dal
n. 1 al n. 44 non riportano la data di composizione, ma sono tutti anteriori al 1951. In questa poesia, un acrostico, le prime lettere di ogni verso danno il nome di Beniamino Gigli
(1890-1957), il grande tenore ammirato dall’autore.
18
PL, p. 32. Dopo il titolo, di mano dell’autore: reclamistico.
19
PL, p. 126.
20
PL, p. 137.
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son da tutti divorati,
dal modesto alla mondana!
❀❀❀
La margherita21
5
Dal giardin la margherita
la recidi e stretta al cuor,
tu l’interroghi d’amor.
Mi vuol bene? M’odia? M’ama?
E con l’ultima sua foglia
l’umil fior ti dice: brama.
Non mentisce il fiorellino
a chi i petali strappò
per conoscere il destino.
Or sol resta al verde stelo
un bottone tutto d’or
che racchiude il vero amor!
❀❀❀
Vetture ristoranti22
6
Attaccata sta ai diretti
la vettura ristorante,
15:32
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se a mangiare ti ci metti
fa l’effetto di un purgante.
Sono intrugli di cucina,
lavorati a perfezione,
con la chimica e la china
te la fanno la porzione.
A veder quelle portate
che ti appagano la vista,
così belle, profumate,
tu non pensi più alla lista.
Lì per lì tutto è gradito,
solo in ultimo il piccante
ti dirà, quand’hai finito,
di pigliare il tuo purgante.
Ed il conto fa palese
quanto costi quel purgante:
ti consiglio il sale inglese23
ch’è miglior del ristorante!
❀❀❀
La fede24
7
La fede delle nozze, Nina mia,
che venne sull’artare consacrata,
PL, p. 130.
PL, p. 136. Sopra il titolo, di mano dell’autore: Parodia.
23
Il sale inglese o solfato di magnesio è ancora usato in medicina come potente lassativo. In Inghilterra è chiamato Epsom Salt, dal nome della città di Epsom, ove venne
estratto per la prima volta dall’ebollizione di acqua minerale.
24
PL, p. 167. La poesia esprime, pur con una vena di malinconia, l’ingenuo ed entusiastico consenso che animò gli Italiani di fronte a una delle trovate più spettacolari del regime fascista, ossia l’offerta dell’oro alla patria. Essa risale evidentemente all’epoca della campagna fascista contro le “inique sanzioni” che la Società delle Nazioni aveva votato
contro l’Italia durante la campagna d’Etiopia nel 1935. L’invito a consegnare la propria
fede d’oro alla patria in cambio di una di ferro, per aiutare l’economia italiana duramente
colpita dalle “inique sanzioni”, fu un motivo propagandistico che ebbe un insperato successo durante il regime fascista. Il 18 dicembre 1935 venne, infatti, proclamata dal regime la “Giornata della fede”, per sostenere la raccolta dell’oro alla patria: gli italiani, in
nome dell’autarchia, offrirono le loro fedi d’oro ricevendone in cambio una di ferro. Così
viene ricordato quell’avvenimento dagli storici Salvatorelli e Mira: “La principale manifestazione antisanzionistica – cioè quella moralmente più spiccata e più spettacolare –
fu l’offerta o raccolta dell’oro, a cui si associò anche quella dell’argento e dei rottami
21
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ieri doppo un bacio, co n’occhiata,
drent’a ‘n ermetto25 se n’anniede26 via.
Ricordo, me dicevi, sò ‘n’arpia
se un giorno te facessi ‘na bojata27
da ditte28 che la fede l’ho impegnata
pe quarche cosa ar monno che ce sia.
E quella fede, cara, dell’amore,
da quanno, Nina bella, t’ho sposata,
ha inteso tutti i parpiti der core.
Ma mo l’Italia, più de ‘n’antra cosa,
la fede te l’ha chiesta e je l’hai data,
la fede d’oro, che te fece sposa!
❀❀❀
8
L’inzogno ferroviario29
Me pareva da stà in un cammerone,
dove ce se vedeva e nun vedeva.
Pagina 74
‘Na vecchia, rannicchiata in un cantone,
me guardava nell’occhi, e me rideva.
“Che fai”, je dissi,“in questa stanza scura?
Mori dar freddo o mori tu de fame?”
“Viè”, m’arispose, “nun avé paura,
io comanno er destino dell’esame”.
“Ma che esame d’Egitto, ‘na parola!
Come posso studià co quattro fij?30
Per me non è più er tempo d’annà a scola:
dalli a quarchidun antro31 ‘sti consij”.32
Detto questo, sparì come ‘n’incanto
lassandome sortanto pe ricordo
quella risata che pareva un pianto,
quella risata farza33 che nun scordo.
Me svejai da quell’inzogno infame
pensanno ch’era er giorno dell’esame.
M’abbraccicai mi moje, li pupetti.
Lei mi disse: “Ritorna superiore!
metallici. Essa venne avviata come una serie di iniziative particolari, spontanee, nelle
diverse città d’Italia; poi fu organizzata come opera nazionale sotto la direzione del
partito nazionale fascista che operava la raccolta. Si portavano oggetti d’oro, monete,
medaglie, busti, lingotti. La forma più generale e solenne fu l’offerta degli anelli nuziali.
Per dare maggior solennità a questa ultima offerta, fu stabilita una giornata speciale per
il “rito della fede”, che fu il 18 dicembre (a un mese data dall’inizio delle sanzioni). A
Roma, il rito si svolse innanzi all’ara del milite ignoto; venne anche la regina Elena, che
ripeté l’offerta già fatta della “fede” sua e del re, e lesse un messaggio esaltante la cerimonia e terminante con l’augurio di buon Natale ai combattenti. Anche donna Rachele
offerse l’anello suo e di Benito. Si annunciò che nella sola Roma gli anelli “donati alla
patria” erano stati più di 250 000; per Milano si fece la cifra di 180 000. Essi furono
sostituiti, all’anulare sinistro dei coniugi offerenti, da un anello di ferro. Tre giorni dopo
furono le 93 madri più prolifiche d’Italia a offrire la “fede” nel solito ricevimento annuale
da parte del “duce” (Luigi Salvatorelli - Giovanni Mira, Storia d’Italia nel periodo
fascista, vol. II, Mondadori, Milano 1969, p. 296); vd. anche Maria Simona Lualdi, Una
fede per l’impero, in “Storia Illustrata”, n. 10, ottobre 1998, pp. 18-21.
25
ermetto: “elmetto”.
26
se n’anniede: “se n’andò”.
27
bojata: “cosa mal fatta, mal eseguita, mal riuscita”, così il Dizionario romanesco
di Fernando Ravaro, Newton Compton editori, Roma 20013, p. 140, alla voce bojata.
28
ditte: “dirti”.
29
PL, p. 159. inzogno sta per “sogno, visione”, in romanesco.
30
fij: “figli”.
31
quarchidun antro: “qualcun altro”.
32
consij: “consigli”.
33
farza: “falsa”.
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Vojo vedé che porti du’ filetti,34
vojo chiamatte capo conduttore!”
Volevo raccontaje quer sognaccio
ma poi me mancò er fiato e la parola,
je detti un antro bacio co ‘n’abbraccio,
come er fijetto quanno va a la scola.
Er boja inzogno35 volle avé raggione,
nun lo posso negà, fu troppo giusto,
perché se svorse36 proprio a perfezione
pe dà a quarcuno un pizzeco de gusto.
Defatti anniedi37 drento a un cammerone
co quindici compagni de cariera,
pe fà l’esame a capo conduttore,
come voleva dimme la meggera.
Dettorno38 er tema, “Treno che va piano”:
stavo seduto, er core me tremava...
socchiusi l’occhi, e vidi da lontano
la vecchia che, ridenno, se n’annava!
❀❀❀
Non sta zitto mai un momento,
sempre vispo e senza posa
lui non ha regolamento,
quando è notte non riposa.
Se lo vedi, com’è grande!
Ha le zampe tale e quale,
e le alucce se le spande,
come un’aquila reale.
Sembra chiami la Silvana,40
la sua piccola mammina,
che si trova assai lontana
mentre lui sta qui in cucina.
E le mosche, che macello!
Lui l’acchiappa con sveltezza,
sembra un vero molinello
nel beccarle con destrezza.
Viè, Silvana, il pulcinetto
non si quieta e strilla ancor:
starà zitto, ci scommetto,
se tu vieni, mio tesor!
9
Il pulcino di mia figlia39
❀❀❀
È la storia di un pulcino
che davvero, ci scommetto,
mentre sembra un bel piumino
all’interno ci ha un fischietto.
Er monno41
10
Er monno42 è tutto quanto bilanciato,
se da ‘na parte cresce, a ‘n’antra43 cala:
da quanno44 er monno, credi, s’è creato,
già c’era quer sistema della scala.
du’ filetti: “due filetti”, i segni distintivi del grado di capo conduttore.
boja inzogno: “furfante d’un sogno”. Propriamente boja è il boia, carnefice, metaforicamente indica il cattivo soggetto, furfante (dal lat. boia, laccio di cuoio che i Romani mettevano al collo dei condannati), vd. Dizionario romanesco di Fernando Ravaro,
cit., p. 140, alla voce boja.
36
se svorse: “si svolse”.
37
anniedi: “andai”.
38
Dettorno: “dettarono”.
39
PL, p. 171.
40
La figlia dell’autore.
41
PL, p. 202.
42
monno: “mondo”.
43
a ‘n’antra: “a un’altra (scil. parte)”.
44
quanno: “quando”.
34
35
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Da ‘na parte t’arrampichi gajardo45,
dall’artra scenni46 moscio e te ne vai:
così lo vedi solo co lo sguardo,
ma da capillo,47 nun ci arivi48 mai!
❀❀❀
Il girasole49
11
Fiore dorato che assomigli al sole,
dal lungo stelo verde flessuoso,
vivi gigante insieme alle viole,
ma soltanto col sol sei affettuoso.
Rigiri il fiore tuo sul forte stelo,
come un destrier dall’invisibil morso,
seguendo il sole per le vie del cielo
nel giornaliero e splendido percorso.
Ti curi solo di guardar quell’oro
abbagliante nel disco rilucente:
in ciò consiste solo il tuo lavoro,
e all’altre cose resti indifferente.
Sei come certi esseri sì avari,
che hanno avanti agli occhi solo l’or:
per possederlo, si può dir, magari
calpestano ogni cosa, anche l’onor!
❀❀❀
12
Alla macchina da cucire50
Macchina, che lavori silenziosa
col filo rigirato nella spola,
sei tu vitale, agile, graziosa,
che si può dir, ti manca la parola.
Pagina 76
Dalle mie bimbe, vieni pedalata,
e dalla sposa mia, che ti vuol bene:
ogni giro che fa la ruota amata
l’ago tuo cuce ove allor conviene.
Quante cose hai cucito col filato!
Le vesti, le lenzuol, le foderette,
i grembiulini ed anche il tovagliato
insieme, si capisce, alle salviette.
Mai ti rifiuti di cucire appieno
ogni cosa che serve per famiglia,
supplisci l’ago a mano e co’ un baleno
il filo lo consumi, a miglia e miglia!
❀❀❀
13
Alla vecchia locomotiva51
Un fischio prolungato, acuto e bello,
veniva da lontano: era il vapore,
e lieto lo portava un venticello
mentre passava la campagna in fiore.
Ed or non più quel fischio bello acuto
lo senti in lontananza, ma un lamento
d’un animal mostruoso e bruto,
che porta da lontan l’onda del vento.
È un’altra tua sorella di lontano,
che ha tolto a noi la bella poesia:
col fischio che si chiama americano52
ti fa quella selvaggia sinfonia!
❀❀❀
gajardo: “gagliardo”.
scenni: “scendi”.
47
capillo: “capirlo”.
48
nun ci arivi: “non ci arrivi”.
49
PL, p. 203.
50
PL, p. 215.
51
PL, p. 216.
52
Il “fischio americano”, nelle locomotive a vapore, era un fischio più cupo e grave
rispetto a quello acuto e squillante delle locomotive italiane.
45
46
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14
La mia vecchia pipa53
Ai miei occhiali55
Vecchia compagna, tu sei la mia musa,
l’ispiratrice dei pensier più belli,
rischiari molte volte la mia ottusa
mente già vecchia, a far nuovi stornelli.
Col fumo che tu m’alzi innanzi agli occhi
mi fai sognare, sveglio, tante cose:
castelli in aria, con dorati cocchi,
selve superbe d’immortali rose.
Ti stringo fra le labbra con piacere,
ti nutro di tabacco profumato,
e con quel fumo tu mi fai vedere
le cose tutte, d’un lontan passato!
Nel tramontar dell’esistenza mia
sentii la vista a me venire meno;
chiedetti a voi la buona compagnia
e voi gradiste la richiesta appieno.
Senza di voi, gemelli uniti e belli,
che sopra al viso mio state sicuri,
a legger non vedrei manco i cartelli
che trovansi incollati sopra i muri.
Voi m’ingrandite ciò che scrivo e leggo,
mi fate veramente compagnia,
perché senza di voi, più non ci veggo
a scriver versi, per la sposa mia!
❀❀❀
❀❀❀
Il mio telefono54
15
Meditazione56
Come un paziente, stai attaccato al muro,
pronto per esser sempre interrogato.
Girando il disco tuo, sono sicuro,
di conversar con chi t’ho ordinato.
Tu lo capisci, il numero che chiamo,
e subito contento allor mi fai,
col suono tuo, squillante, che non amo,
la persona che cerco tu mi dai.
Se qualcuno mi vuole, tu mi chiami,
mi svegli, s’è di notte, col tuo suono,
non chiedi nulla e neppur reclami
se pure il conversar non ti va a tono!
❀❀❀
16
17
Riflettendo alla vita, chi son io,
misterioso in ogni mia movenza?
Chi mi creò se non il sommo Iddio,
artefice perfetto di sapienza?
Ma l’uomo material dice: dal nulla!
È folle, nel veder quello che siamo,
che noi veniam da una parola brulla...
e, dato fosse, al nulla ci inchiniamo.
Perché l’obbligo abbiamo di lodare
chi ci foggiò com’esseri perfetti
e chi ci dié la mente per pensare,
la vista, l’odorato e altri diletti.
È un mistero grande, sconfinato,
un abisso di pensier sbalorditivi,
e certo, non possiamo del creato
il mistero capir finché siam vivi!
❀❀❀
PL, p. 220.
PL, p. 226.
55
PL, p. 228.
56
PL, p. 229.
53
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La lucciola57
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18
Il lumicino tuo, senza calore,
illumina il bel campo coltivato
nelle notti stellate, in cui l’amore
scende silente sopra il gran dorato.
Ne illumini le spighe che mature
ondeggian sullo stelo flessuoso,
lungo i dritti filar delle arature
fatte dall’uomo forte e vigoroso.
Né pur rifiuti di girargli attorno,
in quelle notti buie e senza stelle,
e ti riposi sol quando fa giorno,
spegnendo allor le tue care fiammelle!
❀❀❀
Acrostico58
19
Se volete vestir molto eleganti
e conoscere ben dov’acquistare,
m’impegno d’insegnarlo a tutti quanti,
perciò fate attenzione a non sbagliare.
Ricordate, è un negozio dei più belli,
orgoglio della Roma Capitale
Pagina 78
nella via che si chiama Tomacelli:
il nome ve lo dico in verticale!
❀❀❀
Il rospo59
20
Tu ci hai le forme brutte: la natura
avara fu con te, ad ogni costo,
e comprendendo ben la tua sventura
ti vergogni a mostrarti, e stai nascosto.
Ti credono mordace, velenoso,
ti uccidono nel modo più brutale,
mentre le piante, tu, restando ascoso,
le liberi, mangiando ogni animale.
Ingrata non è sol la dea Natura,
ma l’uomo, credi, rospo, l’è più assai,
perché lui vede sol la tua struttura,
ma non comprende il bene che gli fai!
❀❀❀
Er moscone60
21
Mi madre me diceva: “C’è un moscone,
ch’è entrato adesso adesso dar barcone:
PL, p. 230.
PL, p. 242. Dopo il titolo, di mano dell’autore: reclamistico. L’acrostico fu inviato
al titolare della Ditta di abbigliamento Semproni, per l’inaugurazione del negozio in via
Tomacelli 4, a Roma, nel 1947. Il titolare della ditta, per celebrare il cinquantenario della
fondazione organizzò una serie di trasmissioni radio nell’ottobre-dicembre 1947, a cui
fa riferimento il seguente biglietto inviato dal Semproni all’autore: “La ringrazio di aver
voluto manifestare la sua opinione sulla trasmissione da me organizzata alla Radio. Solo
mi rammarico non Le sia toccato in sorte l’ambito premio. Speri in un’altra trasmissione.
Tuttavia, poiché un premio Ella merita, ed io voglio darle, a presentazione della presente,
Le sarà praticato uno sconto speciale del 10% tanto sulle confezioni che sugli acquisti
che Ella vorrà effettuare, sia in Via Ripetta, 142 /piano primo) che in Via Tomacelli,
4 (Largo Goldoni). Avrà così modo di apprezzare l’alta qualità delle stoffe e la linea
inconfondibile delle mie confezioni. Di nuovo grazie e distinti saluti. SEMPRONI”. Una
interessante ricerca sui negozi storici di Roma (farmacie, abbigliamento, librerie, artigianato, etc.) è quella di Stelio Martini, I negozi d’epoca a Roma, Newton Compton editori,
Roma 1995.
59
PL, p. 259.
60
PL, p. 259.
57
58
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nun l’ammazzà, fallo pe carità,
che quer moscone porta novità”.61
Defatti, doppo poco, un momentino,
sentivi da sonà: era er postino,
che te dava ‘na lettera spedita,
oppuro era ‘na visita gradita.
Insomma, proprio er giorno der moscone,
è vero che provavi n’emozione!
❀❀❀
La vita62
22
La vita è tutta quanta un carosello,
una commedia ove ognun si mostra
or figurando il brutto ed ora il bello:
così cammina questa immensa giostra.
Chi ride e si diverte allegramente,
chi piange perché prova dei dolori,
chi pensa allegro oppure mestamente.
Cambian le parti, poi, gli esecutori:
chi pria piangeva, oggi se la ride,
chi pur rideva ieri, oggi sol piange:
così la giostra gira e le sue guide
alfin le tira, e tutto quanto infrange!
❀❀❀
Il ragno63
23
Minuscolo animal, molto ingegnoso,
una rete tu fai, senza consigli,
e stando fermo, ascoso, silenzioso,
attendi che la preda vi s’impigli.
L’avrai appreso ben dal tuo antenato
il sistema migliore per mangiare,
restando fermo, in casa rintanato,
con la rete all’uscita onde pescare!
❀❀❀
La lumaca64
24
Con la casa sempre in groppa
tu cammini lentamente,
mai la strada ti par troppa,
la tua casa l’hai presente.
Noi invece camminiamo
pe’ arrivare alla dimora,
se lontani ci troviamo
passa il tempo e passa l’ora.
Oh! Se anch’io, come tu hai,
la mia casa avessi appresso,
non avrei forse più guai
e griderei: viva il progresso!
❀❀❀
I pesci65
25
Siete di noi l’opposto: voi senz’aria
vivete dentro l’acqua cristallina.
La creazione tante cose varia
e sempre nel mistero ci trascina.
Noi abbiamo molta voce, e ben parliamo,
mentre voi siete privi di favella,
noi sopra questa terra dimoriamo,
per voi, sott’acqua, la dimora è quella!
❀❀❀
61
Una credenza popolare diffusa a Roma vuole che il moscone che penetra in casa
porti qualche novità a chi vi abita.
62
PL, p. 264.
63
PL, p. 268.
64
PL, p. 270.
65
PL, p. 279.
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La tartaruga66
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26
Sei tanto brutta, sembri una megera
rinchiusa in solidissimo castello,
ma non sei una vera prigioniera
e te ne vai, dove vuol il cervello.
La casa non ti serve, non hai pene:
la natura con te l’ha fabbricata
e dentro tu ci vivi proprio bene,
passando il giorno e anche la nottata!
❀❀❀
Il Poker67
27
Picche, cuori, quadri e fiori,
son figure preferite,
ma ne arrecano dolori
se con lor fai le partite.
Triste, è vero, questo gioco
detto allegro, per giocare:
incominciano con poco,
poi le poste fanno alzare.
Uno piange, perde, implora,
l’altro vince, ride e canta:
passa il tempo, corre l’ora,
sol chi vince se ne vanta.
Spesso, poi, viene cambiata
della ruota la fortuna,
e chi rise in pria serata,
piange, poi, la sua sfortuna.
Questo è il gioco delle carte,
gioco triste, senza amore,
Pagina 80
che finisce la sua parte
dando sempre del dolore!
❀❀❀
L’apparenza68
28
Da ‘na finestra, sotto un palazzetto,
usciva un fumo bbono, de castrato:
de fora, se trovava un regazzetto
senza le scarpe, e tutto rattoppato.
Ci aveva tanta fame, poveretto,
che quell’odore bbono che mannava,69
je parve fosse un fumo benedetto
che er corpo, veramente, je saziava...
Uscì fora un portiere gallonato
e vedenno er regazzo, accanto ar giro
della finestra aperta, der curato,
pensò che je giocasse quarche tiro.
Je disse a muso duro: “Scellerato,
che fai qui fermo, sott’a ‘sta finestra?
Sen te ne vai de corsa, defilato,
te faccio vede...” e je mostrò la destra.
Abbassò l’artro l’occhi sur serciato,
voleva dije: “Stò senza magnà,
se puro un po’ de fumo t’ho rubbato,
pe questo solo, tu me voi menà?”
Ma poi non disse nulla: lo guardò,
fece un sospiro lungo... e se n’andò!
❀❀❀
Er passato70
29
Scrivevo assai, quann’ero regazzetto,
in quella bella età che volò via:
PL, p. 283.
PL, p. 293.
68
PL, p. 296.
69
mannava: “mandava”.
70
PL, p. 301.
66
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15:32
ho ritrovato oggi, in un cassetto,
un verso antico, fatto a Nina mia.71
È ‘na poesia che sa tutta d’amore,
dettata dall’età dell’innocenza,
e ce se sente proprio tutto er core,
un vero affetto, scritta co veemenza.
Je parlavo, ner verso, de giardini,
de rondinelle nere, de farfalle,
d’angeli belli dai capelli fini,
de rose rosse e de ginestre gialle.
In fonno72 je dicevo: Ninni mia,
quanno sarò più grande me te sposo,
te lo giuro in ginocchio, su Maria,
e sarò sempre buono e affettuoso.
E infatti er giuramento fu sincero,
come lo scrissi in quella povesia,73
perché quello che dissi poi fu vero,
e mo è tant’anni ch’è la sposa mia!
❀❀❀
Al poeta74
30
Povero vate, quando te ne andrai
una cosa soltanto resterà:
i versi tuoi, che in vita tu farai
prima di andar dritto all’al di là.
Ti leggeranno quelli che verranno
come tu leggi, or, quelli d’un dì,
e come ancor tu dici, essi diranno:
“Ha scritto tanto, ma anche lui morì!”
❀❀❀
Pagina 81
Il trifoglio75
31
In un prato di trifoglio
tutto verde di color,
disse un tal: “Cercare voglio
uno stelo superior,
uno stel con quattro foglie
che fortuna apporterà!”
Cerca cerca, infin lo coglie
quello stel di rarità.
Lo rinchiuse il talismano
nel cassetto d’un comò,
la fortuna attese invano,
quella mai non capitò!
❀❀❀
Il riso76
32
Sento un fremito nel cuore
tutto pieno d’allegria,
credo solo sia l’amore
che dia pace all’alma mia.
Già mi sento in paradiso
con la gioia vera e bella
provocata da un sorriso
che mi sal sulla mascella!
❀❀❀
La gelosia77
33
È tanto brutta che non v’è l’eguale:
quell’occhio suo è fatto in tal maniera
che tutto vede brutto e fatto male,
e pur la verità non gli par vera.
La moglie dell’autore.
In fonno: “in fondo”.
73
povesia: “poesia”.
74
PL, p. 302. Titolo cancellato dall’autore: A me stesso.
75
PL, p. 305.
76
PL, p. 315.
77
PL, p. 318.
71
72
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15:32
Pagina 82
Guarda appannato tutto e tutto nero,
vede peggior che fosse un animale.
Se un cuore poi gli dice: io son sincero,
lo crede falso, l’occhio suo infernale!
❀❀❀
34
vorrebbe ditte84 ‘na dorce85 parola
e fatte86 addio, lassù, dar mio barcone!
❀❀❀
L’orfanelle87
35
Oggi ho visto pei viali
tante belle regazzine
Dar mio barcone79 vedo la mattina
coi vestiti tutti uguali
‘na regazzina bionna80 che va a scola:
color rosa, a righettine.
cià er canestrello81 co ‘na cartellina,
E ‘na monica,88 de nero,
un fiocco in testa, e sempre ce va sola.
cor suo bianco farfallone,89
82
Penzo ar monnaccio, proprio quant’è che pareva un condottiero
brutto: ⎦
comandante un battajone.
cià ar zinalino83 bianco ‘na striscetta
Quella scia, che camminava
nera, che te vò dì che porta er lutto
sotto l’ombra der viale,
pe la madre ch’è morta, poveretta.
colla sora90 che spiccava,
era un quadro origginale.
La vedo sempre seria, che cammina,
nun guarda gnente, manco le vetrine,
A vedelle, poverelle,
e penzerà: “Ci avessi la mammina,
senti er core te se serra,
come ce l’hanno l’antre regazzine!”
a penzà:91 sò l’orfanelle
delli padri morti in guerra!
Povera cocca! Quanno tu vai a scola
io me te guardo sino sur cantone,
L’ora de scola78
❀❀❀
PL, p. 332.
barcone:”balcone”.
80
bionna: “bionda”.
81
canestrello: “cestino”.
82
monnaccio: “mondaccio”.
83
“Grembiulino, in particolare quello indossato dagli scolari delle scuole elementari
e quello delle donne di servizio”: Dizionario romanesco di Fernando Ravaro, cit. p. 679,
alla voce zinalino.
84
vorrebbe ditte: “vorrei dirti”.
85
dorce: “dolce”.
86
fatte: “farti”.
87
PL, p. 333.
88
monica: “suora”.
89
farfallone: è il tipico copricapo che le suore usavano tradizionalmente, la cui
foggia assomigliava a una grande farfalla.
90
sora: “suora”.
91
a penzà: “a pensare”.
78
79
– 82 –
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La guerra92
20-04-2012
15:32
36
Brutta tu sei, e eternamente imperi.
Su tutto ti scateni in modi strambi:
nei fondi della terra tetri e neri
in terremoto, il nome tuo lo cambi.
Così nel mar, diventi maremoto.
Sopra il suolo, crudele fra i mortali,
in cielo, in ogni angolo remoto,
distruggi quei che ebbero i natali.
Fra i viventi sei tu la scellerata,
brami soltanto di condurli a morte:
guerra ti chiami, belva indemoniata,
che della pace sei molto più forte!
❀❀❀
Homo93
37
Ti credi eccelso, quanto mai profondo,
il perfetto, l’essere maggiore
che può godere in pieno questo mondo
a suo piacere, come superiore.
No, tu sei come gli altri del creato,
ma più superbo e pien di vanità.
Chi è il perfetto, tu non l’hai trovato:
ben diverso è Lui da te, e mai morrà.
Sei fatto come è fatto ogni mortale,
e come gli altri eguale, ti nutrisci:
perciò sei solo un esser materiale
e come loro vivi, e poi finisci.
Il perfetto che credo, è certamente
l’Essere eccelso privo di materia,
che vive in questo mondo eternamente
non conoscendo lussi né miseria!
Pagina 83
Il Colosseo94
38
Rudere antico, i secoli sfidasti
e ancora molti ne dovrai sfidare:
le cose più crudeli tu mirasti
da far, te pietra, ancor forte tremare.
Quante frasi tu udisti, nel frastuono,
dai grandi d’una corte sì corrotta,
tutta rapita dal rombante suono
d’urla selvagge in micidiale lotta.
Al chiaror delle torce umane, al vento,
bruciavan nella giostra gl’innocenti,
nella ridda infernal, pien di spavento,
urlavan donne, avvinte dai serpenti.
Di sangue intrisa la tua rena avevi:
sulle tue logge, nel trionfal retaggio,
Nerone troneggiava, e tu vedevi
chini i vicini che diceangli “saggio”!
❀❀❀
Delusione95
39
La conobbe in un mattino
pien di sole alla riviera,
ammirò quel bel visino,
l’occhio ner di capinera.
Da quel dì un forte affetto
sentì in cuore palpitar
e con umile rispetto
chiese a lei, poterla amar.
Essa allor, con dolce accento,
quell’amor contraccambiò
e finì col giuramento:
finché vivo, t’amerò.
❀❀❀
PL, p. 340.
PL, p. 357.
94
PL, p. 358. Si può perdonare all’autore l’approssimazione storica che gli fa rappresentare Nerone assiso al Colosseo, che invece venne inaugurato da Tito nell’80 d. Cr.
95
PL, p. 365.
92
93
– 83 –
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15:32
Ritornato dalla guerra,
buon soldato di valore,
con l’affetto che rinserra
corre, vola dal suo amore.
Ma, terribile versione,
essa a un altro si sposò:
fu la vera “delusione”
che il suo cuore allor provò!
❀❀❀
La casa96
40
Su la terra ben scavata
poi ripien di calce spenta
una casa viene alzata
sulle forti fondamenta.
E pian piano coi mattoni,
col cemento e ferro ancora
van facendo i cameroni
per formarne la dimora.
Ed alzando i pian sui piani
quella casa sempre sale:
ben divisi sono i piani,
comodissime le scale.
Alla fin vediamo eretto
sulla cima il tricolore:
ciò vuol dir, coperto è il tetto,
pronto è il nido per l’amore!
❀❀❀
Vorrei97
41
Vorrei scriver le cose le più belle,
parlar dei fiori, dei canori augelli,
Pagina 84
dell’azzurro infinito delle stelle
degl’angioli dai morbidi capelli.
Vorrei scrivere versi, rime e prose,
parlar dei verni e dell’estate in fiore,
coi prati erbosi e vellutate rose,
e delle nevi il gelido splendore.
Vorrei scriver, lo sento, ma non posso,
l’età matura avanza e par che dica:
“Che pensi tu, che sei vicino al fosso?
Fa’ che la musa tua ti benedica!”
❀❀❀
Er mio libbrone98
42
Co ‘n cartonaccio tu sei ricoperto,
che tenghi,99 rilegati co lo spago,
li foji scritti dar mio core aperto
ner tempo della vita, come svago.
Là drento ce se trova la passione,
l’amor pe la famiglia cara e santa,
e puro tanti versi a proffusione
della vita passata, tutta quanta.
Ce so strofette fatte all’animali,
alla natura, ar sole, a gigli e rose,
ce so puro de quelle origginali,
che parleno d’oggetti e d’antre cose.
Ma quanno, credi, te dovrò lassare,
pe mmè,100 sarà de certo un gran dolore,
perché fra quelli foji ner rimare,
sicuro, ciò lassato un po’ de core!
E quanno, mio libbron, te leggeranno,
sentenno tutti quanti li sfonnoni,101
sicuro che i lettori te diranno:
è scritto da fa ride li capponi!
❀❀❀
PL, p. 381.
PL, p. 387.
98
PL, p. 389.
99
tenghi: “tieni”.
100
pe mmè: “per me”.
101
sfonnoni: “sfondoni”.
96
97
– 84 –
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Er ballo102
15:32
43
Tira vento ar mio barcone,
ce sò i panni d’asciuttà,103
‘na camicia co ‘n carzone104
pare vojano danzà.
Lei se gonfia, par che voli,
poi se ferma a dondolà,
e i carzoni, soli soli,
stanno appesi a zzompettà.105
Tutt’a ‘n tratto, er forte vento
l’avvicina sempre più,
la camicia in quer momento
par che balli lo spirù.106
Je s’intreccia stretta stretta
fra le gambe der carzone,
fa le mosse, piroletta107
sotto ar filo108 der barcone.
Quelle mosse stravaganti
tutt’e ddue che stanno a fà,
ce fan vede come tanti
fanno proprio pe ballà!
❀❀❀
Non so perché109
44
Non so perché quando tramonta il sole
mi sento in cuore la malinconia,
Pagina 85
non so perché nel prato le viole
s’ascondan tristi pien di nostalgia,
Non so perché allo spuntar dell’alba
mi sento una dolcezza di contento,
non so perché la vita tetra, scialba,
ritorna in me, passato quel momento.
Non so perché nella nottata nera
una tristezza sento dentro al cuore,
non so perché la bruna capinera
canti di sera, quando il giorno muore.
Non so perché al mattino il gallo canta
mentre nel letto ancor vi sta il dormiente,
non so perché v’è l’uomo che si vanta
di saper tutto, mentre non sa niente!
❀❀❀
Acrostico110
13 settembre 1951
45
Rimerò in questo libro, che un signore
omaggiar volle a me, umile vate:
basta che scriverò cose d’amore,
eterne verità, d’oggi e passate.
Ridir tutto dal vero, in versi e rime,
tanto da riempir col nero il bianco,
orgoglio è sol per chi bene si esprime.
Vorrei provare a riempirlo tutto:
è vero che le pagine son tante,
PL, p. 391.
asciuttà: “asciugare”.
104
carzone: “pantalone”.
105
zzompettà (o zzampettà): “modo di camminare proprio dei bambini che imparano
a muovere i primi passi” (Fernando Ravaro, Dizionario romanesco, cit., p. 678).
106
Lo spirù è un tipo di ballo venuto di moda nel 1947 (dal fr. spirou, “scoiattolo”).
107
piroletta: “piroetta” (dal fr. pirouetter).
108
sotto ar filo: sotto al filo dei panni stesi ad asciugare.
109
PL, p. 392.
110
Dal “Secondo Librone” delle poesie (da qui in avanti SL), p. 0. I testi trascritti dal
n. 45 riportano tutti la data di composizione. La poesia è indirizzata al genero dell’autore,
gr. uff. dott. Roberto Venturi, (che fu alto dirigente e direttore generale del Ministero della
Marina Mercantile), il cui nome è composto, in acrostico, dalle prime lettere di ogni verso.
In calce vi è a matita la scritta: Grazie, visto. 18 ottobre 1951, R.
102
103
– 85 –
2ORAZIO2011-2012
20-04-2012
15:32
Pagina 86
nulla trascurerò di bello e brutto
trovando idee banali, serie o sante.
Una cosa vi dico in questo verso
ringraziando chi fu quel donatore:
il nome suo, leggetelo attraverso!
La gallina118
12 ottobre 1951
❀❀❀
L’abbacchio111
11 ottobre 1951
46
Stai intorcinato,112 stretto nella tiella113
cor pepe e er sale, e pe metà spaccato,
ciai le patate messe a girarella114
e bene ar rosmarino pilottato.115
T’hanno acconnito116 proprio a perfezione,
ar forno andrai, er foco già schioppetta,117
e quanno sarai cotto, vai benone,
ar tavolo de chi, bello, t’aspetta!
47
Te vedo tanto bella arosolata119
cor collo storto e l’ale sotto ar petto,
la pajata120 nun ciai, te l’ha levata
la coca,121 co le zampe e cor becchetto.
Ar girarosto stai bene infilata
da dove un giorno ce facevi l’ova,
rigiri su la bracia ch’è infocata
e lo spiedo te tiè, perché ‘un te mova.
Manni un odore forte profumato
de quello che se dice, questo è raro:
nun puzzi più, com’eri ner passato
quann’eri viva, drento ar gallinaro!122
❀❀❀
❀❀❀
SL, p. 3.
intorcinato: “attorcigliato, avvolto su sé stesso”.
113
tiella: “teglia”.
114
messe a girarella: “sistemate tutt’intorno” all’abbacchio. Propriamente il girarello
è un “vocabolo con molti significati, tutti però relativi ad un qualcosa che gira attorno ad
un perno”, come la girandola, il disco del telefono, il girarrosto, etc. (Fernando Ravaro,
Dizionario romanesco, cit., p. 319).
115
pilottato: forato con il “pilotto” (dal lat. pilum), arnese appuntito da cucina usato
per lardellare e insaporire la carne.
116
acconnito: “condito”.
117
schioppetta: “scoppietta”.
118
SL, p. 4.
119
arosolata: “rosolata”.
120
pajata: sono le interiora della gallina; propriamente si chiama così l’intestino
tenue del vitello da latte, con cui si prepara uno dei tipici piatti della cucina romanesca, i
rigatoni co la pajata.
121
coca: “cuoca”.
122
gallinaro: “pollaio” (dal lat. gallinarium).
111
112
– 86 –
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Gli spaghetti123
13 ottobre 1951
48
L’acqua bulle a cavalloni,124
gli spaghetti butta giù,
doppo ar dente, che sò bboni,
l’acconnisci125 a quer biggiù.126
Mentre aspetti ar tavolino,
ner sentì quer bono odore
de spaghetti ar pecorino,
te lo senti sbatte er core!
❀❀❀
Er pesce127
15 ottobre 1951
49
Povero pesce, quanno
sei stato infarinato,
hai detto: “Che malanno,
me trovo rovinato!”
Credevi d’esse dritto,
ma ‘n furbo pescatore
t’ha preso, e mo sei fritto!
❀❀❀
15:32
Pagina 87
Nozze d’argento128
18 ottobre 1951
50
Romolo, cinque lustri sò passati
come fossero solo dei minuti:
er tempo vola pe ll’innamorati
dar giorno che se sono conosciuti.
E credo proprio, te lo dico, Flora,
Romolo te vò ben co tutto er core,
d’un bene, se pò ddì, mejo d’allora,
der primo giorno, che te chiese amore.
Così sete arrivati a stà giornata,
che er monno vò chiamà129 nozze d’argento,
come ‘n aeroplano che ‘n volata
ariva a toccà er celo in un momento.
Gli auguri a tutt’eddue faccio de core
in questo giorno bello ch’è un tesoro,
co tante cose belle, e che er Signore
ve faccia trapassà le nozze d’oro!
❀❀❀
Er bridge130
22 ottobre 1951
51
Sono in quattro ar tavolino,
tutti pronti pe giocà,
e der bridge un girettino
me lo stanno a combinà.
123
SL, p. 4. È la ricetta degli spaghetti cacio e pepe, tipica della cucina romana
(in proposito vd. Giuliano Malizia, La cucina romana in oltre cento ricette tradizionali,
Newton Compton editori, Roma 1994, p. 22).
124
bulle: “bolle” (dal lat. bullire). A cavalloni: iperbole, per rappresentare l’agitarsi
dell’acqua nella bollitura. I cavalloni propriamente sono le grosse ondate del mare mosso.
125
l’acconnisci: “li condisci”, in romanesco.
126
biggiù propriamente sta per “gioiello o oggetto raffinato”, in romanesco (dal
fr. bijou). Qui l’espressione l’acconnisci a quer biggiù vale per “li condisci come una
leccornia, una pietanza succulenta”.
127
SL, p. 5.
128
SL, p. 6.
129
vò chiamà: “vuole chiamare”.
130
SL, p. 6.
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Pagina 88
Te li vedi pensierosi
co le carte lì davanti,
fanno carcoli131 noiosi,
pe fà punti chi sà quanti.
Così passeno la sera
a quer gioco da signore,
poi la notte se fà nera,
se sò persi sonno e ore!
La nostalgia134
11 novembre 1951
La parte miglior di questo mondo,
è quella, veramente, ove sei nato.
La nostalgia la senti sino in fondo
del cuor, pensando al suolo tanto amato.
Se lontano tu sei, dal patrio suolo,
nessuna cosa ti può consolare.
Tutto ti sembra brutto e pensi solo
di potere al più presto ritornare!
❀❀❀
L’avvenire132
7 novembre 1951
52
❀❀❀
Il sogno, che da svegli facciam tutti,
è quello d’esser ricchi e non soffrire,
se al presente si passan giorni brutti
crediamo verran belli in avvenire.
L’avvenire si unisce alla speranza
che ci lusinga sempre in dolce rima,
ci fa sognar ricchezze in abbondanza.
Poi il tempo passa... e si sta come prima!
❀❀❀
La gioia133
8 novembre 1951
54
53
Il dolore rimane in fondo al cuore,
la gioia è solamente passeggera,
vien bella, qual sorriso dell’amore,
e poi svanisce, come una chimera.
La senti in un momento della vita
che ti solleva il cuor pien di contento:
vorresti che restasse in te infinita,
invece fugge, come nebbia al vento!
55
Una goccia d’acqua135
21 novembre 1951
Da rugiada ti formi goccioletta,
che tremolante stai sul fiorellino,
dell’iride i colori, mia diletta,
li prendi tutti, al sole del mattino.
Lieve ti stacchi e corri sull’erbetta
in cerca d’altre gocce, formi un rivo
d’argento puro, e non sei più soletta.
Scendendo lieta pel dolce declivo
al ruscello ti unisci, scendi al piano,
corri nel fiume, al lago vuoi arrivare.
Ma quel pensiero lo facesti invano:
l’infido fiume ti gettò nel mare!
❀❀❀
❀❀❀
carcoli: “calcoli”.
SL, p. 7.
133
SL, p. 8.
134
SL, p. 9.
135
SL, p. 12.
131
132
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La gondola136
22 novembre 1951
15:32
Pagina 89
56
ci liberate dal furor dei venti,
che il vostro trasparente li trattiene!
Nella laguna quieta silenziosa
ti pavoneggi all’onde tremolanti,
sopra di te, qual nobile graziosa,
una casetta hai, fatta pe’ amanti.
Sembra una miniatura incastonata
coi vetri colorati e le tendine
del color della luna inargentata,
e ben disposte, ricche poltroncine.
Quale portiere in piedi, sulla vetta,
di fuori un marinaio sta a remare.
L’acqua ti culla, gondola civetta,
mentre una coppia dentro sta a sognare!
❀❀❀
Ai miei vetri137
23 novembre 1951
57
Dal mio balcone alle finestre tutte,
vi sono i vetri belli scintillanti,
che lasciano veder le cose brutte
e quelle belle, che ci stanno avanti.
La pioggia che vorrebbe penetrare
credendo di far franca la sua entrata
ci batte contro, ma non può passare
e lungo il vetro viene scivolata.
Così anche le mosche e le zanzare
che credono di entrar nella dimora,
sbattono il capo e l’ale per entrare
ma poi sgomente restano di fora.
Bravi vetri, gentili, trasparenti,
a noi ci fate sempre tanto bene,
❀❀❀
Acrostico138
27 marzo 1952
58
È ver ch’è bello scrivere
mostrando un bel sonetto,
il bello è pur dipingere
la luce in un bozzetto,
il dimostrare amena
ogni cosa terrena.
❀❀❀
A mio nipote139
24 aprile 1952
59
Due lustri son passati come il vento
dal dì che tu nascesti, Sandro bello,
ed oggi, ricorrendo il lieto evento,
sarò per te qual vecchio menestrello
che canterà gli auguri più sinceri
al nipotino suo che sempre ha amato:
auguri tanti, cari, veritieri
di nonno veramente affezionato!
❀❀❀
La rosa recisa140
27 maggio 1952
60
La recisi, mi piaceva
di tenerla a me vicino;
poi compresi: non voleva
fosse tolta dal giardino.
SL, p. 13.
SL, p. 13.
138
SL, p. 21.
139
SL, p. 24.
140
SL, p. 27.
136
137
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Appen la colsi un’estasi
m’invase pien d’amor
e con sublime enfasi
la strinsi forte al cuor.
Dentro un limpido vasetto
io la posi con ardor,
volsi a lei un sorrisetto,
alla rosa re dei fior.
❀❀❀
Maremoto141
18 febbraio 1953
61
Un rombo si sente,
proviene dal mare,
un vento potente
fa l’onde innalzare.
La massa sconvolta
spumeggia furiosa,
le onde rivolta
con forza più irosa,
spazzando le navi
le infrange alla riva,
ne restano i travi
senz’anima viva.
Quell’onda s’avanza,
le dighe sconquassa,
con forza e costanza
le supera e passa.
Le case le infrange,
sommerge ogni bene,
chi grida chi piange
fra spasimi e pene.
15:32
Pagina 90
Non più maledetto,
il mare è calmato,
ritorna nel letto,
riposa beato!
❀❀❀
62
Alla moto di Alberto142
16 aprile 1955
“Iso” superbo, dal natal tedesco,143
forte tu sei, e senza alcun sgomento.
Sei stato fabbricato fresco fresco
e volar già vorresti, più del vento.
Alle volte t’impunti, t’impazienti,
la favilla non scocca, e il carburante
gelido resta, e forse gli accidenti
li mandi unito al cavaliere errante.144
“Iso”, sopporta, credimi, sii saggio,
ora non puoi volar, sei ancor bambino.
Vai piano, lo comprendi, è quel rodaggio
che t’obbliga ad andar piano pianino.
Sei buono, lo so che hai coraggio
di volar per le vie, come fa il vento:
abbi pazienza, è solo pel rodaggio,
e poi vedrai che ne sarai contento!
❀❀❀
Ritornando145
1 settembre 1955
63
Tornan le rondinelle da lontano,
le spiagge si riempion di bagnanti,
e noi da Roma siam tornati a Fano,
perché ci piace tanto a tutti quanti.
SL, p. 40.
SL, p. 75. Alberto era il genero dell’autore. La moto in questione era un modello
(Iso 125) della famosa casa produttrice Iso Rivolta, attiva dal 1948 al 1974.
143
dal natal tedesco: la moto era stata fabbricata in Germania.
144
Allusione, forse, alle prestazioni velocistiche poco brillanti della moto.
145
SL, p. 79.
141
142
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Pagina 91
Rivediamo la stella artificiale
sull’asta eretta sopra il fabbricato
e sotto vi troneggia il bel locale
che la “Lanterna Azzurra” vien chiamato.
Non solo l’Italian potrà albergare
ma anche lo Stranier che vi pernotta,
perché tutte le lingue sa parlare
quel proprietario, vero poliglotta!146
e la voce d’ognuno per incanto
si ascolta così bene pronunciata.
Perplesso nel vedere tutto il mondo
in un cristallo così ben visivo,
come guardando un grande mappamondo,
se il suo complesso si vedesse vivo!
❀❀❀
65
Il televisore in casa148
18 gennaio 1956
La televisione147
16 gennaio 1956
64
Sul tavolino di legname scuro
v’è l’apparecchio di televisione,
si appoggia su un cristallo ben sicuro
e dentro ha la più magica visione.
Nell’interno ha le valvole brillanti,
aggrovigliate da svariati fili,
una finestra aperta sul davanti
che fa veder del globo i suoi profili.
Vedo apparire pur l’umana gente
i monti, i mari, tutta la natura,
e pur vedo e ascolto beatamente
una commedia di saggezza pura.
Gli sguardi, le movenze, tutto quanto
si osservano da cosa ch’è animata,
❀❀❀
Nel salottino mio tutto dorato
v’è l’apparecchio di televisione:
i mobili lì sono del passato,
ma quello è di nuova costruzione.
La sera la famiglia si raduna
nel salottino, e prende i primi posti.
Per prenderli qualcuno pur digiuna
perché non vogliam star molto discosti.
Vicino al grande specchio v’è un sofà,
e un posto è occupato da un cappello.
Pensano, sarà un posto per papà.
Invece è per Roberto,149 è proprio quello!
Infin dall’altro lato un altro posto,
la Lady150 pensa, lo potrò occupar.
Ma quando tutto ben viene disposto,
arriva Alberto151 e Lady se ne va.
146
La “Lanterna Azzurra” era un rinomato albergo ristorante di Fano (Pu), di cui fu
cliente l’Andreini. Abbiamo rinvenuto tra le carte dell’autore la seguente lettera, datata al
21 agosto 1954, che il proprietario della “Lanterna Azzurra” inviò all’Andreini: “Egregio
Signore sig. Gino Andreini, delle lodi che sono state fatte e si fanno in prosa e in poesia
del mio Albergo Ristorante “Lanterna Azzurra” è umano ch’io sia riconoscente e lieto.
I vostri versi belli e significativi accrescono il programma reclamistico della mia azienda
alberghiera, per ciò li conserverò nell’Album della “Lanterna Azzurra”, ormai pieno di
lodi di clienti italiani e stranieri, che qui hanno soggiornato. Io non so come corrispondere alle tante attestazioni di stima e di fiducia ricevute da ogni parte se non impegnandomi sempre di più di mettere tutte le mie modeste forze al servizio della clientela per il
bene della mia Azienda e per il buon nome della mia città. Raffaele Vagnini”.
147
SL, p. 86.
148
SL, p. 87.
149
Genero dell’autore.
150
Il cagnolino dell’autore.
151
Altro genero dell’autore.
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Così comincia ben la trasmissione.
Tutto è silenzio nella casa mia:
il salottino è pieno di persone,
ma terminata, se ne vanno via!
❀❀❀
Acrostico152
21 febbraio 1956
66
Al bel progresso va la mente mia:
l’atomo che lasciato era in disparte
e dividerlo sembrava una follia,
scienziati lo diviser d’ogni parte.
Si vedon poi con gran soddisfazione
ancor altre scoperte sempre nuove
nel campo della Rai-Televisione,
dove tutto ci appare e ben si muove.
Rivedere ci fa pur Lei a Milano,
ove Ella parla al pubblico lontano:
Pagina 92
contento di sentire dal suo accento
una risposta di sagge parole,
tanto grata e gentil che in quel momento
ognun ripensa a Napoli col sole.
La sera chi Le scrive non si sposta
onde ascoltare ben la Sua risposta!
❀❀❀
Acrostico153
8 marzo 1956
67
Alla televisione ho un gran piacere
nel guardar lo spettacolo più grande:
graziosi animal Lei fa vedere
e invita a preparar delle domande.
L’ascoltiamo con gioia, e tanta gente
osa chiederLe sol cose da niente.
Le dicono: “Posseggo due farfalle
oppur due lucciolette, e ancor due tarle,
minuscole, graziose, rosse e gialle:
bisògnami un consiglio pe’ allevarle”.
152
SL, p. 94. La poesia è dedicata al professor Alessandro Cutolo (1899-1995), l’onnisciente ideatore e conduttore della popolare trasmissione televisiva di divulgazione culturale Una risposta per voi, che ebbe grande successo negli anni Cinquanta e Sessanta.
“Per anni la cultura pedagogica della televisione delle origini si è espressa attraverso
questo signore che, con un garofano all’occhiello, zelo, meticolosità, sapienza enciclopedica e un pizzico di civetteria, regalava «sapere» a un pubblico curioso e stupito. (...) La
semplicità, la parola facile, l’ironia, l’eleganza e una rara arte affabulatoria erano il segreto del suo successo e gli permettevano di essere accolto nel salotto buono come un
ospite gradito, mai intrusivo, sempre pronto a regalare una risposta” (da Storia della Televisione, a cura di Aldo Grasso, vol. 2° Dizionario dei personaggi e dei termini tecnici e
gergali, Garzanti, Milano 1998, p. 80). In calce alla poesia, di mano dell’autore: Ricevuti
ringraziamenti il 1° marzo 1956. Abbiamo rinvenuto tra le carte dell’autore una cartolina,
senza data, che il prof. Cutolo gli inviò da Garessio (Cuneo), con i ringraziamenti per la
poesia: Molto grazioso l’acrostico! Grazie e saluti cordiali, A. Cutolo.
153
SL, p. 96. A sinistra del titolo, di mano dell’autore: Amico degli animali. La poesia è dedicata allo zoologo e cacciatore di animali esotici Angelo Lombardi (1910-1996),
che fu il conduttore della popolarissima trasmissione L’amico degli animali negli anni
Cinquanta. “Con il fedelissimo assistente Andalù fece conoscere il mondo degli animali a
tutto il pubblico televisivo, proponendo per tre anni una delle mezzore settimanali più interessanti che la nascente televisione italiana potesse offrire. Si ricorda il saluto che con
candida calorosità, rivolgeva agli spettatori all’inizio del suo programma: «Amici dei
miei amici [cioè gli animali], buonasera!»” (da Storia della Televisione, a cura di Aldo
Grasso, vol. 2°, cit., p. 158).
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Altri ancora: “Abbiamo un verminino154
ridotto male, e non vuol più mangiare.
Dobbiam guarirlo, come? Col chinino?”
Io credo sian domande da non fare!
❀❀❀
68
Er candidato de “Lascia o raddoppia”155
14 maggio 1956
Lo vedi nello schermo, quant’è buffo,
sta drento ar bussolotto de cristallo.156
In quer momento er core je fà ‘n tuffo.
Ce credi? Me fa pena ner guardallo.
Sbatte quell’occhi, sbuffa come ‘n toro,
pensa: si sbajo, mo che sò arivato
a possedé quelli gettoni d’oro,
sta a vede, va a fenì che sò bocciato.
Diminutivo di vérmine, “verme”.
SL, p. 101. La poesia è stata pubblicata nel volume Echi di poesia, Villar Editore,
Roma 1963, p. 126, col titolo A “Lascia o raddoppia”. Lascia o raddoppia? è probabilmente il più celebre quiz della storia della televisione italiana, capostipite di tutti i successivi giochi a quiz (così l’Enciclopedia della Televisione, a cura di Aldo Grasso, Garzanti,
Milano 2003, rist., p. 365). Trasmesso in prima serata dal 1955 al 1959 per un totale di 191
puntate, con la conduzione del famoso presentatore Mike Bongiorno, questo programma fece risaltare per la prima volta i concorrenti, fra i quali personaggi divenuti celebri come il
prof. Marianini o il musicologo prof. Degoli (che passò alla storia per aver contestato gli
autori in una domanda sul “controfagotto”) o Maria Luisa Garoppo dalle forme prorompenti. L’incidenza di questo telequiz nella società fu tale da produrre “una sorta di «fanatismo» nazionale, determinando la prima aggregazione collettiva intorno al neonato medium e facendo scoprire agli italiani la consuetudine di riunirsi intorno ai rari apparecchi
televisivi esistenti nei bar, nei circoli, nelle piazze e nelle abitazioni dei più fortunati” (Enciclopedia della Televisione, cit., ibid.). A proposito di alcuni concorrenti divenuti popolarissimi, citiamo Walter Veltroni: “Vado nel chiostro dei fosforescenti”. Così Gian Luigi Marianini, andando nella magica cabina, si accomiatava da Mike Bongiorno per rispondere,
da perfetto concorrente, alla domanda del raddoppio. Marianini è stato uno dei grandi
personaggi di Lascia o raddoppia?. Parlava un italiano arcaico, era affettato, barocco, indisponente. Si presentava per rispondere a domande sulla moda. Vestiva improbabili vestiti e in complesso era una specie di dandy. Era strano, come lo erano Lando Degoli, che alla storia passò per il Controfagotto, o Maria Luisa Garoppo, che portava a spasso un seno che, nella sinistra, la fece definire “il petto atlantico”. I concorrenti del quiz dovevano
essere strani. Essi erano il contrappunto della assoluta, grande, normalità di Mike Bongiorno”. (Walter Veltroni, I programmi che hanno cambiato l’Italia.Quarant’anni di televisione, Feltrinelli, Milano 1992, p. 141). Per quanto riguarda Maria Luisa Garoppo, la concorrente così era menzionata in un tema di uno scolaro di quinta elementare negli anni Cinquanta: “A me piaceva, a «Lascia o Raddoppia», la signorina Garoppo perché quando Miche la mandava a chiamare allora quasi arrivava prima il suo pettorale e poi lei, e a casa
mia erano tutti contenti” (da: Bruno Rossi - Paola Pastacaldi, Hitler è buono e vuol bene all’Italia, La storia e il costume nei quaderni dagli anni ’30 a oggi. Come è cambiata l’Italia agli occhi dei bambini, Longanesi & C., Milano 1992, p. 95).
156
bussolotto de cristallo: la postazione dei concorrenti al telequiz.
154
155
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Se sente ‘na domanna da de fora.
“Ha capito?”, je fa Mike Bongiorno.157
E quello drento: “La ripeta ancora...”
Mentre quell’occhi li riggira attorno,
je s’abbottan158 le vene, se fa rosso,
pensa e ripensa, la memoria è ita.159
Solo arisponne: “Nun lo so, nun posso...”
Esce de fora, e perde la partita!
❀❀❀
e puro tanti ucelli, er trampoliere,
le cicogne, li struzzi, i pappagalli.
Mo stà in Italia, a tutti li fà vvede,
quelli animali a la televisione:
in der guardalli,162 proprio ce poi crede,
pe ll’animali senti n’affezzione!
❀❀❀
Ad una pianta163
12 giugno 1956
69
L’amico delli animali160
3 giugno 1956
È aritornato da caccià Lombardi
dall’Africa sfidanno l’elementi,
portanno l’elefanti, i gattopardi,
li coccodrilli eppuro161 li serpenti.
Co l’astuzia ha cacciato er formichiere,
er leone, la jena, li sciacalli
70
Le tue foglie, qual spade striate,
orgogliose s’innalzano al ciel:
sono verdi, ed in giro dorate,
senza l’ombra d’un umile stel.
Rigogliosa, tu sembri augurarmi
ogni gioia, ogni bene per me:
sulla porta stai là ad aspettarmi,
ed entrando saluto anche te!
157
Il famoso presentatore televisivo (1924-2009), che è entrato nella storia della
televisione italiana, conducendo, fra l’altro, telequiz celebri come Lascia o raddoppia e
Rischiatutto, è stato anche oggetto di numerosi contributi critici, tra cui il celeberrimo
Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco (che vedeva nel presentatore il campione della rassicurante mediocrità assoluta, così spiegando il suo essere divenuto il più
amato e popolare beniamino dei telespettatori: “Non provoca complessi di inferiorità pur
offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello”,
in Umberto Eco, Diario minimo, Mondadori, Milano 1988, rist., p. 35). La storia dei successi televisivi di Mike Bongiorno si interseca con i cambiamenti politici e sociali del nostro Paese nel saggio di Luca Goldoni (con Pierluigi Ronchetti), Storia d’Italia da Mike
Bongiorno in poi, Mondadori, Milano 1996; vd. anche l’articolo di Tony Damascelli, Mike
l’unico grande vecchio d’Italia, in “Il Giornale”, 27 ottobre 1996.
158
je s’abbottan: “gli si ingrossano”, da abbottasse, “ingrassare, gonfiarsi”.
159
è ita: “è andata”.
160
SL, p. 102. Un’altra poesia dedicata allo zoologo Angelo Lombardi. Il Lombardi
rispose con il seguente biglietto (da me rinvenuto tra le carte dell’autore) datato Roma 25
giugno 1956: Caro amico degli animali e mio, grazie per i Suoi bei versi, sono lieto che il
mio programma Le piaccia e mi auguro che ascoltando le mie trasmissioni Lei possa
amare sempre di più tutti gli animali. La saluto cordialmente. L’amico degli animali,
Angelo Lombardi.
161
eppuro: “e anche”.
162
in der guardalli: “nel guardarli”.
163
SL, p. 103. Tra parentesi dopo il titolo, di mano dell’autore: San Severo.
– 94 –
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Deh, ben cresci qual fida custode,
della casa guardiana sei tu:
sei graziosa e ricevi ogni lode
da chi viene a trovarmi quassù!
❀❀❀
Ad una rondine164
18 giugno 1956
71
Rondine, sei partita da lontano,
dalla region dell’Africa infuocata,
per ritornare a soggiornar a Fano,
all’aria mite, dolce e profumata.
Anch’io son qua, mia bruna rondinella,
sul balcone ove mi lasciasti solo.
Or lieta mi sorvoli, e in tua favella
par mi sussurri: il tuo partir fu duolo.
Oggi tu mi ritrovi come allora,
nel dì che il pianto mio sentisti invano,
fuggendo dalla vecchia tua dimora,
quando partisti dalla bella Fano!
❀❀❀
72
L’orologio a cuccù165
22 giugno 1956
Questa vecchia cappuccina,
che da un frate fu inventata,
suona, è ver, sera e mattina
ed ancor nella nottata.
Suona? No, io sbaglio: canta
l’uccellin, che sta lassù.
Sembra cosa viva e santa,
lui s’affaccia e fa cuccù.
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Poi richiude lo sportello,
dopo aver cantato l’ora,
che risuona nel cervello
rintronando la dimora.
Nella notte è sempre sveglio,
anzi canta ancor di più,
perché al buio canta meglio
quel bel piccolo cuccù.
❀❀❀
73
Alla madre del mio nuovo nipote166
25 giugno 1956
Una cicogna dal becco lungo e fino,
portando un fagottin tutto ovattato,
volò su una finestra un bel mattino,
con dentro un bimbo bello appena nato.
Vide dietro quei vetri ben tre figli:
non si curò che erano abbastanza,
non chiese né permesso né consigli,
buttando il fagottino in quella stanza.
La finestra s’aprì come d’incanto:
una nuvola bianca andò sul letto,
e in mezzo al nuvolone un dolce pianto
s’intese, uscendo fuori un pargoletto!
❀❀❀
A ‘na vorpe167
27 aprile 1958
74
‘Na vorpe se credeva tanto furba,
“Ve giuro”, lei diceva, “nun me sposo,
nissuna ce sarà che a me me turba
e sola resterò ner bosco ombroso”.
SL, p. 104. Tra parentesi dopo il titolo, di mano dell’autore: Da Fano.
SL, p. 107.
166
SL, p. 106. Sotto la data, di mano dell’autore: a Maria.
167
SL, p. 125.
164
165
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Pagina 96
Ma un giorno ‘na gazzella dritta dritta
annò da quella vorpe capricciosa.
La vorpe la guardò e restò fritta,
se fece mette er laccio... e mo se sposa!
con cavalli magnifici e giganti,
girando e confondendosi fra loro.
Vi guardo su nel cielo che volate
sia sole che in immensa compagnia,
e tante cose strane voi formate
che l’immagina sol la fantasia!
❀❀❀
Mistero168
23 novembre 1957
75
❀❀❀
Totocalcio170
13 febbraio 1958
Il sigaro è formato da materia,
lo spirito è quel fumo che sen va.
Così è la massa nostra, che miseria:
la cenere soltanto resta qua.
La fiamma si sviluppa se l’accendi:
a noi s’accende al nostro comparir.
Ma poi si spegne e tu non lo comprendi
dopo ch’è spenta, dove va a finir.
Quell’alma nostra, penso spesso io,
e Dante lo conferma in dolce verso,
attraversa gli spazi e torna a Dio
varcando quel confin dell’Universo!
La schedina l’ho composta,
l’ho studiata notte e dì.
Cento lire ho messo in posta,
se la vinco, sposo sì.
Sposerò la mia diletta,
se ben ricco diverrò.
Se non vinco, che disdetta!
Dovrò dirle sempre no.
La fortun mi dice dura:
gioca, ch’io t’aiuterò,
finirà la jettatura,
milionario ti farò.
❀❀❀
Nuvolette169
24 novembre 1957
77
76
❀❀❀
Qual gregge voi formate nuvolette,
pascolanti nel cielo sconfinato!
A quel candore il sole si riflette
e il bianco vello ne divien dorato.
Quante forme prendete, voi solette,
vaganti in quello spazio ch’ho accennato!
Sembrate a volte capre sulle vette
mirando in lontananza un verde prato.
Prendete pose d’animali erranti,
di castelli di marmo, cocchi d’oro
Il Totocalcio171
15 febbraio 1958
78
Gioco bello che arricchisce
ogni tanto un vincitor
e chi perde si stupisce
ma rigioca con più ardor.
La speranza è quella cosa
che fa sempre ben sperar,
fa veder color di rosa
pur se il nero spesso appar.
SL, p. 128.
SL, p. 129.
170
SL, p. 134.
171
SL, p. 135.
168
169
– 96 –
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La fortuna dice dura:
“Perché io t’aiuterò
finirà la jettatura,
milionario ti farò.
Perciò gioca e poi vedrai
che alla fine vincerai”.
❀❀❀
Il Totocalcio172
18 febbraio 1958
79
La schedina l’ho composta,
l’ho studiata notte e dì.
Cento lire ho messo in posta,
basta questo pe’ arricchì.
Sposerò la mia diletta
se la vincita farò,
ma se perdo, che disdetta!,
dovrò dirle sempre no.
La speranza so ch’esiste,
lei mi fa sempre sperar,
quando perdo, sono triste,
ma vorrò sempre giocar.
❀❀❀
Er Totocarcio173
24 febbraio 1958
80
Na vorta174 se diceva: nun è bello
tirà li carci come i mascalzoni.
Pagina 97
Mo carci cor pallone, sei ‘n gioiello,
se vinci co li carci fai i milioni.
Er Totocarcio venne pe scommette
quelle partite fatte cor pallone
e se ce metti cento o più lirette
poi175 vince assai de più de un milione.
Er sabbato, paziente più d’un bue,
riempi ‘na schedina rossa o blu:
ce metti i “pari”,un“uno”oppuro un“due”,
se vinci a lavorà nun ce vai più!
❀❀❀
81
Al naturalista (della RAI-TV)176
13 aprile 1958
Prima erano i Santi i protettori
delle bestie più brutte del creato.
Ora c’è lei, che tanto ben le cura
quelle povere bestie disprezzate
poiché comprende che la dea Natura
fu avara sì, ma vanno rispettate.
Lo vedo nello schermo: l’accarezza,
usa le frasi pien di sentimento.
Povere bestie, a tanta gentilezza
il corpo lor sussulta di contento.
A guardarle si vede che son brutte,
benché quell’apparir sia molto breve:
vorrei capir, quando lei parla a tutte,
la risposta da lor che lei riceve!
❀❀❀
SL, p. 136.
SL, p. 136.
174
Na vorta: “una volta”.
175
poi: “puoi”.
176
SL, p. 141. La poesia è stata inviata al naturalista in questione, forse il celebre
“amico degli animali” Angelo Lombardi. In calce vi è la seguente nota dell’autore: Inviata anche una descrizione del rospo, composta il 18 febbraio 1948, che trovasi nel primo
librone a pagina 259.
172
173
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Al naturalista177
26 aprile 1958
15:32
Pagina 98
82
Da ragazzo avevo un bel ramarro
quando in casa vivevo con la mamma.
Creda, è una storia vera che le narro
e a parlarne il cuore mi s’infiamma.
Lo tenni tanti mesi con affetto,
ma un giorno, un brutto giorno, mi morì.
Per me formava proprio un gran diletto
che più non provo, da quel brutto dì.
Oggi, pensando, lo avessi ancora,
trovandomi sì vecchio pensionato,
lo terrei con più affetto, con più cura,
ritrovando le gioie del passato.
Vorrei andare in macchia a catturarlo,
tenerlo bene e non lasciarlo più,
ma or son vecchio e non so come farlo,
andar lontan nel bosco, sin laggiù...
Con la speranza d’esser fortunato
trovando che qualcun me lo donasse,
ritroverei le gioie del passato
con quel ramarro, che non paga tasse!
❀❀❀
Quante cose trascrive con lena
sulla carta che va su e giù,
quella carta che bianca e serena
si riempie di nero o di blu.
❀❀❀
Il mio cortile179
28 settembre 1959
84
Dalla finestra mia, guardando in basso,
nell’immenso cortile sottostante
i ragazzi che vedo fanno un chiasso
da udirlo pure, è ver, stando distante.
Non stan mai quieti, è proprio un uragano
che scoppia e par distrugga tutto in giro,
e quel rumore sale al quinto piano,
da far svegliar chi dorma come un ghiro.
Penso di qui a vent’anni, al cambiamento
di quei discoli sparsi nel cortile:
chi diverrà davvero un gran talento,
chi resterà un somaro, triste e vile.
Anche quelle bambine sì chiassose
gridano forte, da formarne un coro:
un giorno pur diventeranno spose,
chi avrà saggezza e chi neppur decoro!
83
La macchina da scrivere178
1 novembre 1958
❀❀❀
Le parole son messe a distanza,
sopra i tasti, scolpite così.
Ma abbassate con gran maestranza
vanno unite, scrivendo ben sì.
Con la mano leggera che batte
sopra i tasti, qual placido vol,
le parole diventano atte
ad esprimere ciò che si vuol.
Il cacciatore180
2 ottobre 1959
85
All’alba che il sonno al cacciator priva,
part’ei per la campagna addormentata,
percorre tante miglia e alfine arriva
al luogo per poter far la cacciata.
177
SL, p. 142. È il medesimo personaggio della poesia precedente. Sotto il titolo, di
mano dell’autore: non spedita.
178
SL, p. 153.
179
SL, p. 178. Sopra il titolo, di mano dell’autore: Sfumature.
180
SL, p. 177.
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Pagina 99
Tra gli alberi e le fratte delle more
trova un riparo sotto tramontana:
attende fermo e ha un sussulto al cuore
scorgendo alla pianura un po’ lontana
una lepre coi figli che passeggia.
Mirando al gruppo abbraccia il suo fucile:
un colpo parte e nella valle echeggia
senza poter colpir... “Chi uccide è vile!”,
dice quel cacciator che ha spadellato:181
per non aver colpito... ha proverbiato!
❀❀❀
L’orologio182
15 novembre 1959
86
L’orologio in antico, incatenato,
era legato come un galeotto,
per restar tutta la vita condannato,
nascosto nella tasca del panciotto.
La catena gli venne poi levata,
fu messo al braccio e si sentì rinato.
Felice fu della nuova trovata
ed ora brilla al sole, liberato!
❀❀❀
A una gondola184
17 febbraio 1961
87
Al cacciator che sol pensa a cacciare
rinnova un bel sogno l’illusione,
brutta al risveglio: non potea durare
oltre quel sogno, che direi burlone.
Grosse nubi d’uccelli, un nuvolone
avea avvistato a tiro di fucile:
88
Nella laguna quieta, addormentata,
ondeggi, bella e nobil gondoletta:
sembri una miniatura incastonata
con sopra una magnifica casetta
dai vetri variopinti, e le tendine
del color della luna inargentata
nascondon dietro ricche poltroncine,
che per gli amanti sembri esser creata.
Un marinaio in piedi, senza fretta,
di fuori la casetta sta a remare,
e tu sorridi, gondola civetta,
mentre una coppia, dentro, sta a sognare!
❀❀❀
La mia stufa185
17 febbraio 1961
❀❀❀
Acrostico183
9 febbraio 1961
sicuro d’una caccia d’eccezione
tutto contento col fucil spianato
era pronto a sparar, ma s’è svegliato!
89
Stufa che al corridoio stai appoggiata,
ti nutri col carbone brillantato,
sbuffi se vieni troppo caricata,
ma sol così il calor tuo c’è dato.
Il tubo tuo aspirante avevi nero,
ma ora sei contenta, è inargentato:
credi, ti dico il vero, son sincero,
l’inverno con l’estate ci hai cambiato.
“Spadellare” nel gergo dei cacciatori vuol dire mancare il bersaglio.
SL, p. 184.
183
SL, p. 215.
184
SL, p. 215.
185
SL, p. 216.
181
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Pagina 100
Il genero mio, Alberto, solamente
comprende quando pronta sei a mangiare:
ti spalanca la bocca e come niente,
tanto carbone te lo fa ingoiare.
Sopra di te c’è una vaschetta bianca
ricolma d’acqua, e tu, cara, la bevi
piano pianino, e non ti senti stanca
perché quei sorsi tuoi son molto brevi.
Il tuo calore è pur nella cucina
passando da quel tubo fra le mura.
Giancarlo186 corre quando s’avvicina
a te infuocata, dalla gran paura!
❀❀❀
Il cacciatore187
5 marzo 1961
90
Il cacciator, che stanco è di cacciare,
non sente per gli uccelli più le voglie,
vede le lattughelle germogliare
ed invogliato tante ne raccoglie.
Il carniere lo empie con l’erbetta
che toglie alle graziose pecorelle,
e della caccia dice: “Che disdetta,
d’uccelli vedo sol le rondinelle”.
Ritorna a casa stanco, trafelato,
con quella insalatina tenerella,
dicendo: “Questo è quello ch’ho portato
perché ho cacciato sol la lattughella”.
❀❀❀
Acrostico188
20 marzo 1961
91
Molto gradito è in Televisione
il suo apparir a “Campanile Sera”,
k’è veramente un gioco d’eccezione
e bene presentato in tal maniera.
“Bravo!”, in coro gridano i Romani.
Ormai sono milion di spettatori
nel mondo che gli battono le mani.
Gustando il “Campanil” nessuno mente.
Io dico questo sol, di vero cuore:
oltre che entusiasmare tanta gente
rinfranca l’allegria e il buonumore.
Nel terminare il verso mio augurale
omaggio faccio al nome in verticale!
❀❀❀
Il nipotino dell’autore.
SL, p. 218. Sotto la data, tra parentesi, di mano dell’autore: all’amico Arbogaste.
188
SL, p. 220. Tra parentesi, accanto alla data, il termine spedito indica che la poesia
è stata spedita al presentatore Mike Bongiorno, il cui nome compare in acrostico. Campanile Sera, programma di gioco a premi trasmesso in prima serata fra il 1959 e il 1962,
fu una trasmissione di grande successo e un formidabile veicolo di valorizzazione delle
tradizioni e delle bellezze artistiche dei nostri comuni. Così la ricorda Walter Veltroni: “Le
città, a due per volta, entravano in cimento. Mandavano i loro “intellettuali” a Milano
per rispondere in studio alle domande di Mike Bongiorno e si riunivano nella piazza centrale, collegata in diretta, dove le glorie locali si battevano con gli avversari in prove di
destrezza. Sul palco stavano le autorità del luogo, quelli che contano. Il che diede modo
di leggere la struttura del programma come il puro riproporsi della gerarchia sociale: gli
intellettuali e i potenti sotto la luce dei riflettori, la folla anonima a stringersi nelle piazze
e a cercare, con il frenetico agitar della mano, un momento di celebrità. La verità è che
invece quell’occasione consentiva a una comunità cittadina di ritrovarsi, riconoscersi,
proporsi. Le città si organizzavano, attivando tutte le energie” (Walter Veltroni, I programmi che hanno cambiato l’Italia, cit., p. 36).
186
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Frammento189
23 aprile 1961
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A mia nipote Anna Paola191
26 luglio 1961
.......................
.......................
Io amo il fiore, tanto a me soave:
son di Firenze, la città del giglio,
e il fior mi serve, si può dir, di chiave
ai versi miei, ché al fior chiedo consiglio.
❀❀❀
93
A mia nipote Anna Paola190
20 luglio 1961
Una stella staccata dal cielo
la cicogna col becco afferrò
e coperta da un candido velo
lievemente a mia figlia donò.
Quella stella, ch’è un essere umano,
stringe al petto mia figlia quaggiù,
e accanto, non nel cielo lontano,
la rimira ch’è bella ancor più.
Or riposa, tranquilla, beata,
con la mamma ogni notte e ogni dì,
nulla teme, dal cielo è calata,
e protetta si sente così.
Tanti auguri di cuore a te invio,
a te, stella discesa dal ciel,
ti sognava così il cuore mio,
che scendevi col serico vel.
❀❀❀
Pagina 101
Il tuo nome è festeggiato
il primier, per te, piccina:
che bel nome ti fu dato
dalla cara tua mammina!
Ora abbiam tutti allegria
nel vederti così bella,
nipotina cara mia,
che già dissi, sei una stella.
Tanti auguri a te, stelletta,
il tuo nonno ha insieme uniti
nella breve sua strofetta
e diventano infiniti.
❀❀❀
Il cacciatore192
9 ottobre 1961
95
Prima della bonifica in campagna
andava il cacciatore per cacciare:
allora era davvero una cuccagna
con tanta selvaggina da ammazzare.
Oggi non più: cammina ore e ore
senza vedere l’ombra d’un uccello
e stanco morto, pieno di sudore
si ferma a rinfrescarsi in un ruscello.
Così finisce la brutta cacciata:
rimpiange il tempo bello ch’è passato,
riempie il suo carniere d’insalata
e torna a casa tutto affaticato.
❀❀❀
SL, p. 219.
SL, p. 231.
191
SL, p. 232.
192
SL, p. 237. Sotto la data, di mano dell’autore: a Arbogaste.
189
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Pagina 102
96
Ringraziando i cacciatori193
25 ottobre 1961
98
La lavatrice Castor196
10 febbraio 1962
Nella campagna un folto nascondiglio
è stato fabbricato per cacciare:
nascosti si son messi padre e figlio
con i fucili pronti per sparare.
Dal sole son protetti in un fienile
e provenienti giù da quei burroni
volano a coppie, a tiro di fucile,
le lodolette, insieme ai calandroni.194
Due spari che la valle ripercuote
partono dal fucile ch’ha puntato:
il tiro è giusto, e più scappar non puote
il pennuto animal che pria ha volato.
E ritornati stanchi dalla gita
con tanti uccelletti da spennare,
conoscendo di far cosa gradita,
a me la cacciagion vollero dare!
Nell’interno tutto frulla,
par che volan le lenzuola,
la fatica, credi, è nulla,
di guardarla, è quella sola.
Ha i comandi sul cassone
che la mette in movimento,
quel che vuoi, senza eccezione,
lava e asciuga in un momento.
La corrente al suo contatto
la fa muovere benone,
poi si ferma quando ha fatto
un bucato a perfezione!
❀❀❀
Acrostico
26 dicembre 1961
97
195
All’alba il cacciator parte da casa
ricco di bei pensieri per cacciare:
beato lui, che quei pensier li basa,
oltre ogni dir, su quello d’ammazzare!
Giunge nel prato verde sconfinato
al sorgere del sol che lo riscalda:
segue una pista d’animal passato,
tira un sospir per quella via trovata
e infin la lepre è da lui ammazzata!
❀❀❀
❀❀❀
Il magnetofono197
10 aprile 1962
99
È una macchina davvero indiavolata,
ma a vederla è buona come un santo,
sta zitta zitta, tutta imbambolata,
mentre ascolta silente tutto quanto.
Le voci riprende proprio tutte,
con certi nastri messi a rotazione:
prende le voci belle o quelle brutte,
e poi te le ripete a perfezione.
A casa mia, da quando è arrivata
quella macchina proprio originale,
devi star zitto tutta la giornata
per non parlar di cose dette male.
Al telefono pure ascolta tutto
quello che dici. È lui che ti risponde:
SL, p. 238. Tra parentesi dopo il titolo, di mano dell’autore: Arbogaste e Erminio.
Il calandro è un piccolo uccello dell’ordine dei Passeracei, cacciato per le sue
carni saporite. Con calandrone si intende anche un tipo di flauto.
195
SL, p. 241.
196
SL, p. 246.
197
SL, p. 255.
193
194
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Pagina 103
sente un discorso bello oppure brutto,
te lo ripete, e mai non si confonde.
Se la macchina mando in casa altrui
e poi ritorna qua, a casa mia,
sento quel ch’hanno detto lei o lui
e non mi dice mai una bugia.
Sento il padre d’Alberto recitare
un umil verso che gli feci io,
il rumor di bottiglie da sturare
e quello dei bicchieri, il tintinnio!
per guarir cose malate,
ma non certo i raffreddori.
Ad Alberto, all’improvviso,
oggi venne il raffreddore:
e dal naso, rosso in viso,
gli gocciava un triste umore.
A un pranzo era invitato:
lui era pronto, ben vestito,
ma di colpo ha starnutato
e a quel pranzo non è ito!
❀❀❀
❀❀❀
100
La sabbia di Ladispoli198
18 aprile 1962
102
Al Capo dello Stato200
15 maggio 1962
A Ladispoli conviene
nell’estate spesso andar,
sulla sabbia che contiene
il balsamico del mar.
Sì, quel mare sulle spiagge
molta sabbia porta ancor.
Son parole vere e sagge:
fa guarire ogni dolor.
È di ferro saturata
quella sabbia, e molto vale:
la persona ch’è malata
vien guarita dal suo male!
Saggia fu l’assemblea che fece eletto
emerito al grado più importante,
giusta il buon risultato del verdetto.
Noi lo sentimmo pieni d’esultanza
il nome Suo chiamato a maggioranza.
A Lei che già capì le brutte cose
nella Sua vita fra la gente nostra,
tutto avverrà per farle a noi gioiose,
or che la fede Sua ce lo dimostra.
Nell’inviarLe l’umil madrigale
imprimo in esso il voto più sincero,
ornato dal Suo nome in verticale.
❀❀❀
❀❀❀
A mio genero199
25 aprile 1962
101
Molte cose hanno inventate
i dottori e i professori
Da Fano201
22 agosto 1962
103
Mi trovo qua da Roma un po’ lontano
alle infuocate arene del gran mare,
198
A fianco, di pugno dell’autore: Poesia scritta dopo un convegno di scienziati. Si
trattava evidentemente di un convegno sulla talassoterapia.
199
SL, p. 257.
200
SL, p. 261. La poesia è dedicata ad Antonio Segni (1891-1972), giurista e uomo
politico, Presidente della Repubblica dal 1962 al 1964. Coinvolto nel famoso “scandalo
SIFAR”, dovette dimettersi per ragioni di salute.
201
SL, p. 269. Sotto la data, di mano dell’autore: al caro amico.
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Pagina 104
nella città marina detta Fano
che tanti veramente fa sognare.
In lontananza il ciel par si confonda
col mar turchino e con la vela bianca
della paranza, che mossa dall’onda
dondola lieve, da parerne stanca.
Di là dal mare e d’altri monti ancora
penso a Roma, la nostra capitale,
ma ospitarvi non è bello ora,
perché c’è un gran calore tropicale.
Ma a Roma un pescator non ha paura:
verrò a trovarvi presso un bel ruscello
d’acqua sorgiva, cristallina e pura,
mentre pescate trote o un bel nasello.
Arbogaste, perciò non mi invidiare:
a Fano le zanzare mi dan pene
cercando di volermi punzecchiare,
e penso a Roma, quanto stavo bene!
Il piumaggio lo avete tanto bello
dai colori smaglianti e vellutati,
che quei colori mai nessun pennello
potrà vantar d’averli superati.
Il più leggiadro fra i campioni gialli
di Arbogaste sulla man si posa:
è vero, è il miglior dei pappagalli
nella gabbia racchiusi, verdi e rosa.
❀❀❀
La ciovetta203
29 novembre 1962
105
La vedo sur mazzolo imbalsamata
co quegl’occhioni fatti a girasole:
Arbogaste accossì204 l’ha sistemata
pe portalla in campagna ar primo sole.
Là sta ferma a ‘ncantà la cacciagione
che je riggira intorno pe guardalla,
mentre Arbogaste dietro un capannone
spara a quell’uccelletti, e mai nun falla!
❀❀❀
104
La gabbia dei pappagalletti202
25 novembre 1962
❀❀❀
Quante cose gentili col gorgheggìo
voi dite a lui, seppur non vi comprende!
Ma vi risponde, come è suo desio,
quando il becchime dolce vi protende.
Lui s’avvicina a voi con tanto affetto,
per porgervi il buon seme da mangiare
e voi con gli occhi tondi, ci scommetto,
vorreste con lo sguardo ringraziare.
106
La civetta imbalsamata205
5 dicembre 1962
Dal mazzolo sei scesa imbalsamata,
non servi più a attirar la cacciagione,
or sul comò stai ferma, accoccolata:
Arbogaste ti ha dato lo scaccione.206
Il progresso ha inventato lo specchietto,207
messo su un perno tondo, che ben gira:
SL, p. 279. Sotto la data, di mano dell’autore: all’amico Arbogaste.
SL, p. 278. Si tratta di un uccello impagliato che doveva servire ad attirare la selvaggina.
204
accossì: “così”.
205
SL, p. 280.
206
Dare lo scaccione, espressione romanesca equivalente a “licenziare, mandar via,
scacciare in malo modo” (dal Dizionario romanesco di Fernando Ravaro, cit., p. 555).
207
Altro dispositivo per attirare la selvaggina.
202
203
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Pagina 105
alla civetta ha fatto un gran dispetto,
di non veder Arbogaste quando mira.
Ora gli uccelli scappan dal fienile
onde specchiarsi in quel molino a vento,
mentre Arbogaste punta il suo fucile
e con bel colpo ne fa fuori cento!
Benché vecchio tu sia, non t’abbandono,
sulla mia spalla sempre tu starai,
e insieme andrem dove col vento buono
la strage dei pennuti ancor farai!
❀❀❀
109
Il macinino elettrico210
8 gennaio 1963
Il fucile nuovo208
13 dicembre 1962
107
Prima a mano macinavi
quel caffè con gran fatica,
e sovente tu pensavi
ch’è una cosa molto antica.
Mentre ora co’ un contatto
tu lo vedi macinare,
il caffè vien fine, esatto,
senza farti faticare.
Che invenzione il macinino,
con l’elettrica corrente
lui lo macina benino
quel caffè così eccellente!
Ora sì, farò faville
col fucile ch’ho comprato,
l’ho pagato più di mille
ma ci ho sempre guadagnato.
Con il vecchio spadellavo,
non potevo più cacciare,
questo nuovo lo sognavo
di poterlo un dì comprare.
Col carniere tutto pieno
e il fucile luccicante,
tornerò in un baleno
con la caccia assai abbondante!
❀❀❀
❀❀❀
Il vecchio fucile209
15 dicembre 1962
❀❀❀
Il rasoio elettrico211
20 febbraio 1963
108
Vecchio fucile, sempre mi hai seguito
nei boschi ombrosi e nelle valli in fiore,
con te sarei andato all’infinito
sfidando il freddo acuto e il calore.
Mi consolavi se nulla prendevo,
eri triste se il colpo tuo falliva,
ma credi che sovente io vedevo
la jella dal fucil che se ne usciva.
110
Alla splendida invenzione
tutti danno il benvenuto,
son contente le persone
di sbarbarsi in un minuto.
Con la spina, alla corrente,
quelle lamine arrotate
giran più delle saette
quando sono scatenate.
Sulla guancia con piacere
tu lo posi con amor,
SL, p. 282. Sotto il titolo, tra parentesi, di mano dell’autore: a Erminio.
SL, p. 282.
210
SL, p. 286. Sotto la data, tra parentesi, di mano dell’autore: All’amico Arbogaste.
211
SL, p .290.
208
209
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Pagina 106
lui funziona da barbiere,
tutto fa, senza dolor!
Ed in terra le pernici
vanno a frotte in quantità
sulle facili pendici:
buona caccia là si fa!
❀❀❀
Le seppie212
4 marzo 1963
❀❀❀
111
Dal mar le seppie vengono pescate
nei modi più diversi e stravaganti,
in cesti poi al mercato son portate
per venderle ai migliori ristoranti.
Pulite dai tentacoli rugosi,
tagliate a fette e fatte rosolare,
son cibo si può dir dei più gustosi,
che i palati ben potran gustare.
Dentro hanno un osso bianco e levigato,
lungo il corpo molliccio che s’unisce:
serve per l’uccelletto imprigionato,
che il becco tanto ben vi si pulisce!
❀❀❀
Sfumature213
25 marzo 1963
112
Entro casa quante cose
la TV ci fa vedere,
cose, è ver, meravigliose,
stando comodi a sedere.
In Sardegna, nel suo mare,
le aragoste e i pesci rari
sono facil da pescare
e son splendidi esemplari.
Il limone214
4 giugno 1963
113
Dall’Asia sei venuto, bel limone,
giallo rugoso e internamente bianco:
vivi egualmente a Roma al mio balcone
e di mirarti mai mi sento stanco.
Nell’endocarpo tanti spicchi hai
pieni di succo a noi così gradito,
e con quel succo cosa grata fai:
ci rendi il pesce ancor più saporito!
❀❀❀
A Sua Santità215
24 giugno 1963
114
Per voler dello Spirito Santo
acclamato fu al trono di Pietro
or coperto col vasto Suo manto.
La bontà Sua sì dolce e armoniosa
offra a tutti la pace ch’è ascosa.
Santità, il mio dir d’umil vate
emanato è dal fondo del cuore,
senza frasi grandiose o esaltate.
Tutti, è vero, con fede ed amore
ora insieme preghiamo il Signore.
❀❀❀
SL, p.290. Sotto la data, tra parentesi, di mano dell’autore:al caro Arbogaste dedico.
SL, p. 292.
214
SL, p. 299.
215
SL, p. 303. La poesia è stata composta in occasione dell’elezione al soglio pontificio dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (Paolo VI), avvenuta al quarto
scrutinio il 21 giugno 1963. Dopo il titolo, fra parentesi, di mano dell’autore: Acrostico.
In calce, fra parentesi, la seguente nota dell’autore: Ricevuti ringraziamenti dal S. Padre
il 5 luglio 1963.
212
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Acrostico216
20 luglio 1963
15:32
115
Al venti del mese nascesti graziosa
nel tempo che i fiori son belli di più:
nascendo alla mezza qual splendida rosa
aulente la vita facesti quaggiù.
Più svelta ora sei, comprendi ogni cosa,
anche l’augurio che il cuore ti diè.
Orbene a te tanti li mando a gran josa:
lanciati nell’aria dal vecchio mio cuor
a te giungeranno ricolmi d’amor.
❀❀❀
Sfumature217
14 ottobre 1963
116
Con il passo accelerato
Arbogaste va a cacciare
e fermandosi in un prato
finalmente può sparare.
Pagina 107
Gli uccelletti da mangiare
che in breve egli ha cacciato,
lui li porta a regalare
al poeta pensionato.
Il poeta soddisfatto
lo ringrazia con calore
per quel dono che gli ha fatto
Arbogaste, il cacciatore!
❀❀❀
117
Al Maestro Alberto Manzi218
24 gennaio 1964
Alla televisione sto ammirando
con gran piacere il modo come insegna,
con la sua man che spiega disegnando.
Col suo disegno e con le sue parole
ci mostra quant’è bella la natura,
parlando della terra e pur del sole
che fa germogliare ogni coltura.
SL, p. 304. Sotto la data, tra parentesi, di mano dell’autore: a Anna Paola.
SL, p. 309.
218
SL, p. 316. Alberto Manzi (1924-1997) fu il popolare conduttore della famosa
trasmissione Non è mai troppo tardi, dedicata all’alfabetizzazione degli adulti, negli anni
Sessanta. Maestro elementare di notevole spessore culturale, promotore di una grande
opera educativa attraverso il mezzo televisivo, sapeva avvicinare i giovani alla novità del
sapere in modo intelligente e critico. Ne ricordiamo il ritratto tracciato da Walter Veltroni:
“Aveva una meravigliosa lavagna bianca, usava gessetti neri, sembrava un negativo, quell’eroe positivo. Aveva la faccia lunga, gli occhi segnati da occhiaie profonde, la voce calda e rassicurante. Io ero analfabeta, a quel tempo, forse perché avevo cinque anni. Però
la televisione la sapevo guardare. E guardando imparavo e la mia mano sui fogli del quaderno con le righe larghe seguiva il percorso che sul teleschermo compiva quel gessetto,
stretto tra dita adulte e sicure. Forse è stato il maestro Alberto Manzi a insegnarmi a scrivere. So che la sua trasmissione non era rivolta a me, che a scuola potevo andarci. Lui si
rivolgeva a chi, nel tempo, aveva perso la speranza di imparare lettura e scrittura e gli diceva, incoraggiandoli: Non è mai troppo tardi (Walter Veltroni, i programmi che hanno
cambiato l’Italia, cit., p. 169); vd. anche Marco Imarisio, Due mostre su Manzi. La nostalgia per la scuola dei tempi del maestro TV, in “Corriere della Sera”, 9 settembre 2011.
La trasmissione Non è mai troppo tardi andò in onda, in vari cicli, dal 1960 al 1968, anno
in cui fu soppressa, perché nel frattempo la frequenza alla scuola dell’obbligo era notevolmente aumentata (Storia della Televisione, a cura di Aldo Grasso, vol. 1° La TV italiana
dalle origini, Garzanti, Milano 1998, pp. 108-109). Alberto Manzi è stato anche autore di
romanzi per ragazzi, tra cui Orzowei, che ha avuto una versione televisiva.
216
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Pagina 108
Spiega per chi non sa scrivere ancora
il modo per poter ben sillabare;
per viver bene, a chi certo l’ignora,
consiglia una ricetta salutare.
Ancora fa il Maestro ben vedere
le cose tutte che si fanno a scuola:
di quelle cose sagge e veritiere
a noi disiata vien la sua parola.
Vorresti forse dirlo, ma non puoi
spiegare a me da chi fosti dipinto
e come trasportato qua fra noi.
❀❀❀
Sei vergognoso, o Muro, che ti elevi
a divider la grande tua cittade:
ma dimmi, forse opporti non potevi
a separar quelle tedesche strade?
Colpa, lo so, non hai, sei solo un muro
fatto di pietre e calce che scherani221
hanno innalzato con sprezzo sicuro
per divider così gli esseri umani.
Ricordati che sopra a te c’è Dio
che tutto vede, giudica e punisce:
e tu cadrai nel fango e nell’oblio,
mentre la tua città ben si riunisce!
118
Rinvenendo un antico vaso219
22 febbraio 1964
Vaso etrusco, con grazia modellato,
pien di figure arcaiche del tempo,
col sarcofago pur fosti interrato.
Or con gli scavi a luce sei venuto
conservando nei secoli il colore.
Io ben ti guardo, e tu mi resti muto:
dimmi, chi fu che ti formò sì bello
mettendoti un color che mai scolora,
trattato da sì nobile pennello?
❀❀❀
119
Al Muro di Berlino220
31 marzo 1964
❀❀❀
SL, p. 317.
SL, p. 318. Il più famoso simbolo della Guerra Fredda fu costruito nell’agosto del
1961, per decisione del premier comunista della DDR Walter Ulbricht, che intendeva arginare la continua emigrazione di migliaia di tedeschi, in cerca di libertà e di migliori condizioni di vita, nella Germania Ovest. Il Muro di Berlino, che aveva diviso in due la metropoli tedesca, resistette per ventotto anni, fino al novembre 1989, quando, per il mutato
clima internazionale a seguito della politica riformatrice di Michail Gorbaciov, l’ultimo
leader sovietico, venne abbattuto da una folla festante. La sua caduta significò, oltre alla
riunificazione della Germania, la fine del comunismo che dal dopoguerra aveva diviso
l’Europa. A differenza di quanto auspicato dall’autore, il Muro di Berlino non è caduto
nell’oblio, ma è rimasto impresso nella memoria collettiva e storica quale il simbolo più
evidente di un’epoca di violente e angosciose tensioni tra est e ovest, che spesso misero a
rischio la pace mondiale.
221
I poliziotti e i militari della Germania Est (la DDR).
219
220
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Alla “Pietà” di Michelangelo222
12 aprile 1964
Sei partita così, senza pietade
di chi volle mandarti, tanto bella,
sul grande mare e per straniere strade,
fra accenti di cui ignori la favella.
Ritornerai nel nostro patrio suolo,
che più non lascerai, ne son sicuro,
perché il saperti lungi fammi duolo:
ben credilo, Pietà, io te lo giuro.
Quando vorran vederti in avvenire
in Italia verranno ad ammirarti,
ma tu prometti di non più partire
per far mostra di te fra vecchie arti!
❀❀❀
Senza titolo223
20 febbraio 1965
121
De Fabritiis, il dottore,224
ben consiglia l’Ipogen:225
per magia, in poche ore,
la pressione cala ben.
Pagina 109
L’Ipogen bene consiglia
per calare la pressione:
tanto a me che alla famiglia
quella cura fa benone.
Io ringrazio del consiglio
il suddetto buon dottore:
l’Ipogen sempre lo piglio
e sparisce ogni dolore.
❀❀❀
L’orologio felice226
13 aprile 1965
122
L’orologio in antico incatenato
era legato come un galeotto,
per star tutta la vita condannato,
rinchiuso nel taschino del panciotto.
La catena gli venne poi levata
e messo al braccio sol col cinturino:
così felice fu della trovata
perché non si sentiva più meschino.
Ed ora gode risplendente al sole
con le lancette d’oro sopraffino,
dimenticare la prigione vuole,
quel tempo ch’era chiuso nel taschino.
222
SL, p. 320. A lato vi è una nota dell’autore: Spedita al Papa il 13 settembre 1965,
ricevuti i ringraziamenti il 28 settembre 1965. Di questa poesia ho trovato una prima versione, su un foglietto dattiloscritto, datata all’11 settembre 1960: ALLA PIETÀ DI MICHELANGELO / Sei partita così senza pietade / di chi volle mandarti, tanto bella, / nel
grande mare, e per variate strade / d’accenti di cui ignori la favella. // Ritornerai qua nel
patrio suolo / e più non lascerai, ne son sicuro / perché il vederti lungi a me fa duolo, / ben
credilo, Pietà, io te lo giuro. // Quando vorran vederti in avvenire / in Italia verranno ad
ammirarti, / ma tu prometti di non più partire / per far la mostra fra le vecchie arti. La
poesia fu scritta in occasione dell’emanazione di un regolamento approvato dal Papa che
vietava il prestito delle opere d’arte possedute dalla S. Sede.
223
SL, p. 334.
224
Il dott. Alberto De Fabritiis, che fu medico curante dell’autore. Del dott. De Fabritiis ho rinvenuto un biglietto dattiloscritto, datato Roma 4 febbraio 1974, con i seguenti versi augurali indirizzati all’autore per il suo compleanno: All’Altissimo Poeta / che conosce a perfezione / dalla “a” fino alla “zeta” / il sonetto e la canzone / va l’augurio mio
sincero / di raggiungere in salute / un’età con... doppio zero!
225
L’Ipogen è un farmaco vasodilatatore antiipertensivo, ancora in uso.
226
SL, p. 337.
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Pagina 110
E son felice anch’io del cambiamento,
perché mi hanno donato, tutto d’oro,
lo Zenith, che porto ogni momento
al polso stretto, come un gran tesoro!
finché il sol l’asciuga e la scolora,
mutandola in vapore, già com’era!
❀❀❀
125
Non è tutt’oro quello che riluce229
6 ottobre 1965
La banderuola227
24 agosto 1965
❀❀❀
123
Dalla finestra mia vedo su un tetto
una robusta e vecchia banderuola
fatta di ferro, a forma d’un elmetto,
e gira, e par le manchi la parola.
Il vento soffia e la fa ben girare
da tutti i versi a dritta oppure a manca:
dove quel vento forte vuol soffiare,
lei, credi, là lo segue e mai si stanca.
Guardo la banderuola, e penso sia
come chi passa dal primier pensiero
in altro opposto al primo, e così via...
❀❀❀
L’acqua che cade228
31 agosto 1965
124
Il ciel color celeste, molto bello,
presto si oscura e grossi nuvoloni
girano come un grande carosello
e l’acqua scroscia ai monti e nei valloni.
L’acqua che dal ciel limpida scende
cambia color mischiandosi alla terra:
vien giù fangosa e sul terren si stende
formando un lago che l’argine serra.
Ma rotta poi la sponda, corre ancora
quell’acqua divenuta tutta nera,
Di imbroglioni a questo mondo
ve ne sono un finimondo.
L’altra notte in una strada
un tal che parea un signore,
fermo al buio della contrada
se ne stava da tant’ore.
Poi s’appressa a un uomo anziano
e gli mostra luccicante,
come fosse un talismano,
l’orologio col quadrante.
“È di oro sopraffino,
di valor molto elevato”,
dice al vecchio contadino
che l’oggetto gli ha comprato.
Fatto il colpo, quel “signore”
se ne va tutto contento,
mentre al vecchio scende in cuore
un atroce pentimento.
Fa veder quel talismano
tutto lucido e brillante
a un orefice più umano
che gli dice: “Quel birbante
t’ha truffato, è tutto ottone
l’orologio lucidato.
Chissà quante altre persone
quel “signore” avrà ingannato!”
❀❀❀
SL, p. 350.
SL, p. 352.
229
SL, p. 354.
227
228
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20-04-2012
Regina Pacis230
27 ottobre 1965
15:32
126
da quando al mondo venne fabbricato
vent’anni fa da un fabbro marchigiano?
Madre nostra, intercedi per noi
che chiediamo le grazie al Divino,
Tu soltanto, Sovrana, lo puoi,
Tu che in cielo Gli siedi vicino.
Fa’ che pura la pace più bella
scenda in terra fra noi peccator,
allontana la nera procella
della guerra, lo strazio e il dolor.
Deh, proteggi il buon Papa che implora
coi fedeli la pace sincera,
dai la fede a chi stolto l’ignora
e nemico del bene si schiera!
❀❀❀
Il girarrosto231
28 ottobre 1965
127
È ritornato, e pria era riposto
in cantina fra cose non più usate,
il vecchio e tanto caro girarrosto
che lavorò nelle lontan casate.
La forma ha d’antico bel castello
con la molla sì forte e ancor potente
che ben lo fa girar, qual carosello,
sopra il fuoco che arde allegramente.
Quanti uccelletti avrà mai rosolato,
compresi i polli e pur qualche fagiano,
Pagina 111
❀❀❀
128
Al bambolotto di Anna Paola232
25 gennaio 1966
Sei un pupazzo, mio Gigino,
ma ti voglio battezzare,
così il nome tuo carino
lo potrò sempre chiamare.
Oggi è festa per l’evento
e dei nonni in compagnia
ti vediamo più contento,
mio Gigino, gioia mia.
Or brindiamo con piacere
al tuo bel battesimale,
e pur stando anche a sedere
non ci sembra sia gran male!
❀❀❀
129
Sposalizio delle bambole Barbie e Ken233
28 novembre 1971
Bambolette state allegre,
che si sposa la più bella,
e saran le cinciallegre
a cantar la tarantella.
Tutte unite, brave e care,
le farete voi la festa,
230
SL, p. 356. La poesia fu inviata dall’autore al Papa Paolo VI che rispose, attraverso
la Segreteria di Stato, con il seguente messaggio del 4 novembre 1965: La Segreteria di
Stato di Sua Santità compie il venerato incarico di significare che l’Augusto Pontefice ha
ricevuto le espressioni di filiale omaggio e che con animo riconoscente imparte l’implorata
Benedizione Apostolica (testo trascritto da una copia della poesia dattiloscritta dall’autore).
231
SL, p. 356.
232
SL, p. 365.
233
Dal “Terzo Librone” delle poesie (da qui in avanti TL), p. 182. Le bambole erano
quelle della nipotina Anna Paola. In calce vi è la nota dell’autore: Il vecchio poeta di anni 87 e 1/2 per la nipotina Anna Paola.
– 111 –
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la starete a festeggiare
con il velo sulla testa.
“Tanti auguri!”, esclamerete
tutte in coro con amore,
sempre cara la vedrete
dal sincero vostro cuore.
Griderete alla sposina
tanti auguri e tante cose:
lei si sposa stamattina
col profumo delle rose.
❀❀❀
130
Alla “Pietà” di Michelangelo234
10 marzo 1973
Bella Pietà, io sempre t’ho seguita
da quando tu partisti sì lontana
per l’America grande ed infinita,
con la bellezza tua, che sembra umana.
Ritornasti in San Pietro venerata
varcando i mari senza la procella,
per essere da noi ben conservata
nell’immagine Tua sì tanto bella.
Ricordo che Ti dissi, al Tuo ritorno,
di non partire più tanto lontano;
così restai tranquillo da quel giorno,
sicuro che restavi in buona mano.
Ma veramente poi non fu così:
un mostro, che non era un Italiano,
varcò la grande Chiesa un brutto dì
tenendo un gran martello nella mano.
Si avvicinò a Te, Pietà mia cara,
e furibondo ben volle colpire
la Tua bellezza così tanto rara
con molti colpi da non mai finire.235
Pagina 112
La gente apparve dopo all’improvviso
togliendogli di mano il gran martello,
dopo ch’avea già deturpato il viso,
il braccio destro e anche il bel mantello.
Come fatta di carne all’ospedale
fosti condotta con paterno amore:
medicata e composta tale e quale
sei ritornata col primier splendore.
Ed ora sola nella tua cappella
nel tempio ove da tutti sei ammirata,
la Tua bellezza è come una gran stella
quando nel cielo viene illuminata.
❀❀❀
131
A mia nipote Anna Paola236
20 luglio 1973
Dodici anni son passati
a formarti il compleanno,
veramente son volati
così ben anno per anno.
Tanti auguri, lui, di cuore
il tuo nonno ti vuol fare,
perché proprio sei un amore,
sulla terra e anche in mare.
Studi tanto e con ardore,
vuoi imparar le cose strane,
e sui libri passi l’ore
dalla sera fino a mane.
Ma con gran soddisfazione
lo studiare ti conforta:
pur lo sai che vai benone,
d’altre cose non t’importa!
TL, p. 190.
L’autore si riferisce a un fatto di cronaca che molto impressionò l’opinione pubblica: il 24 maggio 1972 un esaltato di origine ungherese, tale Laszlo Toth, si arrampicò
sulla statua e la colpì ripetutamente con un martello spezzandole il braccio sinistro e il
naso. A seguito di quell’episodio fu installato davanti alla statua un cristallo protettivo.
236
TL, p. 198. Dopo la data, di mano dell’autore: Da Fano.
234
235
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Pagina 113
ADRIANA DE NICHILO
Ritornare a viaggiare
Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes,
l’univers est égal à son vaste appétit.
Ah! que le monde est grand à la clarté des lampes!
Aux yeux du souvenir que le monde est petit!
Per il bambino innamorato delle mappe e delle stampe
l’universo è pari alla sua immensa voglia.
Ah! com’è grande il mondo alla luce della lampada!
com’è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!
Un matin nous partons, le cerveau plain de flamme,
le coeur gros de rancune et de désirs amers,
et nous allons, suivant le rhythme de la lame,
berçant notre infini sur le fini des mers:
Un mattino si parte, cervello in fiamme, gonfio
il cuore di rancori e desideri amari,
e andiamo, abbandonati al ritmo delle onde,
cullando il nostro infinito sul finito dei mari:
Les uns, joyeux de fuir une patrie infâme ;
d’autres, l’horreur de leurs berceaux, et quelques-uns,
astrologues noyés dans les yeux d’une femme,
la Circé tyrannique aux dangereux parfums.
chi lieto di fuggire una patria ignobile;
altri l’orrore della propria nascita, e alcuni,
negli occhi d’una donna inabissati astrologhi,
la tirannica Circe dagli insidiosi profumi.
Pour n’être pas changés en bêtes, ils s’enivrent
d’espace et de lumière et de cieux embrasés ;
la glace qui les mord, les soleils qui les cuivrent,
effacent lentement la marque des baisers.
Per non essere mutati in bestie, s’ubriacano
di spazio e di luce e dei cieli di brace;
il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
scancellano lentamente la traccia dei baci.
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Mais les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent
pour partir, coeurs légers, semblables aux ballons,
de leur fatalité jamais ils ne s’écartent,
et, sans savoir pourquoi, disent toujours : Allons!
Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, simili a palloni,
mai cercano di sfuggire al loro destino,
e, senza sapere perché, dicono sempre: Andiamo!1
Il 4 Agosto della passata estate, verso le 9,30 di mattina, saluto
mio figlio che, dopo una breve vacanza in Italia, ritorna in Svizzera;
carico fino all’inverosimile (come al solito) la mia vecchia Clio; salgo in macchina e parto. Dopo anni di forzata relativa immobilità, ho
infine deciso di rispolverare una mia antica passione: conoscere altri
luoghi, altri popoli, altri paesaggi, altre tradizioni, per nutrire il mio
animo delle sensazioni che solo il trasferirsi altrove può dare.
Sono leggermente preoccupata perché questa volta il mio viaggio
ho deciso di farlo da sola: un po’ per sfida, un po’ per necessità, un
po’ per essere libera di agire secondo l’esigenza del momento.
Mentre mi accingo a partire, ripenso al mio primo viaggio all’estero fatto insieme a mia sorella maggiore quando avevo diciotto anni nell’isola di Malta: ricordo ancora il sole abbagliante, i fichi d’india nei campi polverosi, gli uomini vestiti di nero con la coppola nei
paesini dell’entroterra. Poi ci fu Parigi, con un’amica di Liceo e di
Università, per recuperare il francese e fare vita bohémien, sfamandoci con baguette e camembert: era il 1973 e festeggiavo la maggiore età. Parigi col suo maggio era un mito. Seguirono innumerevoli
altri viaggi in molti luoghi del pianeta, con ogni possibile mezzo di
trasporto e pochi soldi, alberghi modesti, campeggi e ostelli, zaino in
spalla e passaporto tra i denti. Occhi spalancati sul mondo di cui scrutavo ricchezze e miserie, bellezze ed orrori, paesaggi, città, opere
d’arte e bidonville. Quest’ansia di conoscere e vedere il mondo approda a sei anni vissuti all’estero, tre in Ecuador e tre in Grecia, che
mi costringono a cimentarmi con l’esperienza dell’espatrio, le sue
gioie ed i suoi dolori. Nostalgia di casa, rimpianto degli amici e delle
persone care, vuoto da inerzia, ma anche totale immersione in stili di
1
Ch. Baudelaire, Le Voyage, in I fiori del male. Introduzione di G. Macchia. A c. di
L. Frezza. BUR Milano, 2008, pp. 320-321.
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vita profondamente diversi, di cui, nonostante tutto, si riesce a cogliere sempre e solo la patina superficiale, perché vivi la condizione
di essere straniero: l’estraneità.
Finita la parentesi migrante, ritorno in Italia, tra mille problemi e
contraddizioni. La patria è avara ed entro nel tunnel della responsabilità. Qualche boccata d’aria ogni tanto: per esempio in Siria, terra
affascinante e misteriosa, con i sontuosi resti di Palmira, il Krak dei
Cavalieri, la labirintica Damasco, la colonna di San Simeone lo stilita
a Qalah Siman e la cesta di S. Paolo. Mestamente dico a me stessa che
oggi in Siria non sarebbe possibile fare il turista: non resta che sperare
in tempi decisamente migliori.
Oppure i viaggi con gli alunni. Ogni viaggio d’istruzione un suo
stile ed un suo lascito. Due volte in Tunisia: musei, siti archeologici,
città, oasi e deserto, ed anche disavventure: la prima volta caddi dal
cammello, la seconda provammo il brivido di correre con i fuoristrada sulle dune. E poi Praga, Budapest, la Grecia, Berlino, ma anche
Pompei, Caserta e Paestum.
Quindi, ho sempre viaggiato, ma... c’è stata una sosta, per me
troppo lunga, quando finalmente il 4 Agosto 2011 salgo sulla mia
Clio, che rigurgita bagaglio, diretta ad Ancona, dove mi imbarcherò
per il Montenegro. Voglio festeggiare a modo mio il ritorno alla pace,
alla libertà, al progresso di un paese dei Balcani dopo anni bui e tempestosi. Voglio visitare quella piccola nazione, prospiciente l’Italia,
vicina e lontana, sorella e diversa.
Il traghetto parte con quattro ore di ritardo, manca l’aria condizionata, i servizi sono pessimi: mi sdraio per terra perché solo così
posso riposare qualche ora. La maggior parte del tempo la trascorro,
però, sul ponte a respirare aria di mare e nuotare nel chiarore dell’alba.
Attracco a Buda: la lingua non si capisce proprio, ma la segnaletica è chiara. Debbo arrivare a Budva. Con ogni cautela affronto la
strada costiera, tortuosa, trafficata, panoramica. Gli occhi sono incollati all’asfalto. Attraverso in apnea una galleria completamente oscura: riemergo alla luce e riprendo fiato. Le strade sono veramente orribili: non è un luogo comune, mio figlio aveva ragione ad essere
preoccupato, ma la mia voglia di sperimentare è stata più forte di
qualsiasi dissuasione.
Giungo al mio albergo confortevole: è un villaggio, ma prossimo
alla città vecchia. Prendo possesso dell’appartamentino e comincio
a svuotare una valigia dopo l’altra. Infine vado al mare e mi sdraio
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sulla spiaggia di sassi: la baia è superba, ma alla mia sinistra, su di
un promontorio c’è un ecomostro in rovina che deturpa il paesaggio.
L’idillio non c’è: la dura legge del profitto non risparmia i paradisi
della natura. Di fronte ai miei occhi, però, si profila un’isola verde,
che appare invitante.
L’antica città di Budva è un gioiello: la sua Cittadella veneziana
si proietta sul golfo come una nave pirata, pronta a balzare sulla preda. Cielo, mare ma anche disastri ecologici. Il centro storico ed il porticciolo mi riconciliano, tuttavia, con la bellezza. Due chiese affiancate, come spesso in questo paese, una ortodossa ed una cattolica,
testimonianza di un passato di convivenza e condivisione. Delle tensioni recenti non c’è più traccia: il desiderio di ricominciare qui è
stato più forte dell’odio.
I montenegrini mi appaiono di indole gaudente: la mattina affollano le spiagge, la sera passeggiano per le strade, costeggiate da
ristorantini, pasticcerie e gelaterie, oppure da infinite bancarelle, che
vendono paccottiglia per turisti. I locali sono affollati e nei piatti
troneggiano colossali grigliate, ma anche pizze e spaghetti. L’odore
della carne alla brace e delle palačinke (crêpes) dolci e salate penetra
in ogni angolo del movimentato lungomare pedonale di Budva. Mi
adeguo ai sapori locali, evitando con cura gli spaghetti: non mi voglio
avvelenare. Musica assordante ad ogni ora ed in ogni luogo: davvero
importuna e fastidiosa.
Decido di esplorare questa terra e, prudentemente, abbandonata
l’idea di fare il viaggiatore solitario, opto per gite organizzate: del
resto, voglio vedere il paese non i suoi curvilinei nastri d’asfalto che,
più ci si allontana dalla costa e ci si inerpica per le boscose impervie
montagne, più divengono strette, tortuose e a strapiombo.
Prima meta: le mitiche Bocche di Cattaro, dense di storia ed incomparabilmente belle. Mentalmente le raffronto con Rio e con Hong
Kong e questo luogo mi pare addirittura più incantevole. Ma forse
sono solo scherzi della memoria. Ovunque edifici veneziani, ma anche turchi, che l’odio inveterato contro gli Ottomani non ha potuto
completamente cancellare. Le guide tuttavia ripetono con fierezza che
Kotor non è stata mai conquistata dai Turchi, annidata com’è nel seno
profondo del fiordo mediterraneo.
Poi un’escursione all’interno, tra placidi monasteri allietati dal
gorgogliare di limpidi ruscelletti e da grandi, odorosi, cespugli di rose ed i canyons selvaggi del Tara e della Morača che si fanno strada
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tra le rocce aspre, formando innumerevoli meandri. Il ponte a cinque
archi sul Tara, prodigio architettonico che uno dei suoi stessi ingegneri, Lazar Jauković, distrusse nel 1942 per impedire il passaggio
delle truppe naziste. Jauković fu poi catturato da italiani e cetnici e
giustiziato presso le macerie del ponte. È un popolo fiero questo, che
narra come per un uomo uscire senza pugnale fosse anticamente un
insopportabile disonore.
Nelle ore trascorse a crogiolarmi al sole, tra un bagno ed un altro,
leggo un romanzo di una scrittrice serbo-montenegrina, Ljljana
Habjanovic-Djurovic, intitolato Genealogia femminile, che narra la
saga di una famiglia attraverso la testimonianza delle sue donne, nel
succedersi delle generazioni. Dal libro apprendo che per una donna
del Montenegro non avere marito era la maggiore disgrazia che potesse capitarle, cosicché, almeno in passato, le donne erano pronte a
sopportare qualsiasi sopruso, qualsiasi prepotenza o violenza, pur di
non vivere l’onta di essere sole. Inoltre, il lavoro era appannaggio
quasi esclusivo delle donne ed esse eseguivano i lavori più ingrati e
faticosi. Gli uomini erano poco meno che sultani. Oggi le montenegrine appaiono autonome ed indipendenti, truccate e vestite in maniera seducente, ma, osservando meglio, quasi sempre sono accompagnate da un uomo oppure lavorano incessantemente. Il mio breve
soggiorno mi impedisce di andare più a fondo nella questione, che mi
riprometto di indagare al rientro. Il mio viaggiare da sola suscita un
po’ di stupore, ma questo avviene anche in Italia.
Due parchi nazionali con i loro alberi maestosi, i loro laghi “neri” di origine glaciale, le alte cime dei monti svettanti mi incantano,
perché mi mettono in contatto con il cuore profondo di questa piccola, selvaggia nazione a due passi da casa nostra: aspri, contraddittori
Balcani.
L’ultima meta è il lago di Scutari al confine con l’Albania: è
un’oasi naturalistica per la flora e la fauna che lo popolano. Mi tuffo
nelle acque tiepide e torbide, riporto a bordo della barca una candida
ninfea. Paesini da presepe sono abbarbicati alle rive, un antico ponte
di pietra a schiena d’asino me ne ricorda altri che la guerra ha polverizzato. Oggi in questi luoghi si pesca, si fa il bagno, si prende il sole: è bella la pace.
La vacanza è finita, una nave di Caronte un po’ meno inospitale
ma affollatissima mi riporta alla mia bella Italia, costeggiando a lungo il litorale in un tramonto di fuoco.
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Ancona: le sue eleganti strade, le sue piazze, le sue chiese pregevoli mi dicono subito che sono a casa perché la bellezza artistica che
c’è nel nostro Paese non esiste in nessun’altra parte del mondo. Il mio
viaggio curioso di tutto ciò che il pianeta ci offre può dunque proseguire anche qui nel nostro impareggiabile e travagliato paese.
“Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono
buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di
mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri
qualcosa di più che un comune giro di stagione”2 afferma Anguilla
nel capitolo iniziale di La luna e i falò di Cesare Pavese.
Allora perché viaggiare? Per ritrovare il calore rassicurante del
nido al ritorno? Per caricarsi di nuovo d’amore per la propria terra ed
i volti amati? Oppure perché, come dice ancora Anguilla, “Un paese
ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via[...] mi piace
sapere che il mondo è rotondo e avere un piede sulle passerelle”.3
Forse gli esseri umani conservano ancora in qualche luogo recondito della propria psiche l’istinto irrefrenabile al nomadismo, forse si è
pellegrini per necessità, forse, come affermava Seneca, l’uomo vuole solo
fuggire da se stesso, senza riuscirci di fatto mai. “[16]...Quamdiu quidem
nescieris quid fugiendum, quid petendum, quid necessarium, quid supervacuum, quid iustum, quid iniustum, quid honestum sit, non erit hoc
peregrinari sed errare.[17]Nullam tibi opem feret iste discursus; peregrinaris enim cum adfectibus tuis et mala te tua sequuntur. Utinam quidem
sequerentur! Longius abessent: nunc fers illa, non ducis. Itaque ubique te
premunt et paribus incommodis urunt.Medicina aegro, non regio quaerenda est. [...]”. (“[16]...Invero finché ignorerai cosa devi fuggire e che
cosa ricercare, che cosa è necessario e che cosa è inutile, che cosa è giusto
e che cosa è ingiusto, che cosa è onesto, il tuo non sarà già un viaggiare,
bensì un vagabondare.[17] Così correndo qua e là non conseguirai alcun
vantaggio; giacché viaggi con le tue passioni e i tuoi vizi ti seguono. Oh
se ti seguissero! Sarebbero più distanti: ora li porti con te, non te li tiri
dietro. Pertanto ovunque ti incalzano e ti affliggono con uguali molestie.
Il malato deve cercare una medicina non una contrada.[...]).4
C. Pavese, La luna e i falò, Gruppo Editoriale L’Espresso S.P.A, Roma, 2005, p.925.
C. Pavese, ibidem, p. 928.
4
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, a c. di U. Boella, Libri XVII-XVIII 104,
UTET, Torino, 1969, pp. 830-833.
2
3
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Oppure i potenziali viaggiatori dovrebbero meditare di più sulle
parole di Francesco Petrarca: “Que dum mirarer singula et nunc
terrenum aliquid saperem, nunc exemplo corporis animum ad altiora
subveherem, visum est michi Confessionum Augustini librum, caritatis tue munus, inspicere; quem et conditoris et donatoris in memoriam servo habeoque semper in manibus: pugillare opusculum,
perexigui voluminis sed infinite dulcedinis. Aperio, lecturus quicquid occurreret; quid enim nisi pium et devotum posset occurrere?
Forte autem decimus illius operis liber oblatus est. Frater expectans
per os meum ab Augustino aliquid audire, intentis auribus stabat.
Deum testor ipsumque qui aderat, quod ubi primum defixi oculos,
scriptum erat: “Et eunt homines admirari alta montium et ingentes
fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et
giros siderum, et relinquunt se ipsos”. (“Mentre ammiravo questo
spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora,
invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima,
credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono
del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha
donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita
dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio:
quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il
decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una
parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio
che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: “E vanno gli uomini a
contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”).5
Pur consapevole della necessità di guardare bene in primo luogo
in se stessi, resto tuttavia saldamente dell’opinione che l’esperienza
dell’altro rimane una ricchezza inestimabile, l’essenza stessa della insaziabile curiositas che potrebbe essere la vera, radicale differenza
tra l’essere umano ed altre specie, che certamente si spostano, ma
prevalentemente seguendo istinti biologici.
Senza dimenticare, prima durante e dopo il viaggio le riflessioni
dolenti di Baudelaire:
5
F. Petrarca, Le familiari [libri I-XI ], Vol. I,1. Introduzione, traduzione, note di
U. Dotti. Argalìa editore, Urbino, 1974. Libro IV, 1 pp. 372-375.
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Amer savoir, celui qu’on tire du voyage!
Le monde,monotone et petit,aujourd’hui,
hier, demain, toujours, nous fait voir notre image:
Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!
Sapienza amara quella che si ricava dal viaggio!
Il mondo, monotono e piccolo, ieri, oggi,
domani, sempre, ci mostra di noi la stessa immagine:
un’oasi d’orrore in un deserto di noia!
Faut-il partir? rester? Si tu peux rester, reste ;
pars, s’il le faut. L’un court, et l’autre se tapit,
pour tromper l’ennemi vigilant et funeste,
le Temps! [...]
Partire? restare? Se puoi restare, resta;
parti, se necessario. Chi corre e chi si tappa in casa
per ingannare il nemico vigilante e funesto,
il Tempo! [...]6
A dispetto di tanti distinguo ora mi chiedo dove mai mi porteranno le strade del mondo, che non mi stancherò mai di percorrere,
sia in senso materiale che metaforico, sospinta da un insopprimibile
desiderio di conoscenza di ciò che è fuori di me e dentro di me.
È un’esperienza, quella del viaggio, che dovrebbe essere vissuta
da ognuno di noi perché, se intimamente meditata e rielaborata, muta
radicalmente la Weltanschauung che abbiamo ereditato o maturato
nascendo e crescendo nel nostro paese.
Ritornare a viaggiare vuol dire ritornare ad aprirsi all’esistenza e
all’esistente, caricarsi di energie per affrontare le prove che la sorte ci
riserva, tornare a guardare al presente e al futuro con rinnovato slancio e vigore, in una parola: riaprirsi alla vita.
6
Ch. Baudelaire, op. cit., pp. 328-329.
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ADRIANA DE NICHILO
Qualcosa di personale
Sono le cinque del pomeriggio di una domenica qualunque successiva al 27 settembre 2011 ed il telefono non squilla. È Natale ed
il telefono è muto. A Capodanno guardo sconsolata l’apparecchio telefonico che non suona. Oggi sono felice e non posso dirlo a nessuno.
Ho una preoccupazione o un dispiacere e non so a chi confidarlo. Mia
sorella Paola non c’è più ed io mi sento sola a questo mondo, anche
se non sono priva di affetti e di persone care: mio figlio, mia sorella
Marcella, alcuni amici ed altro ancora.
Eppure l’assenza ha un rumore assordante. Una parte di me è
come morta. Tra mia sorella Paola e me c’erano circa tre anni di differenza d’età: siamo cresciute insieme, abbiamo condiviso i giochi
infantili e le emozioni adolescenziali, le esperienze di donne e le difficoltà dell’età adulta, ogni momento della vita. Molto diverse nelle
scelte concrete, ci siamo aiutate e capite in ogni frangente: soprattutto
lei ha aiutato me con straordinaria generosità e ammirevole disinteresse. A Paola vanno la mia gratitudine, il mio affetto, il mio perpetuo
ricordo e questi pochi versi.
PER PAOLA
Compagna di giochi
fidata confidente
mite
indifesa
creatura
perché te ne sei andata
con le nostre bambole
e le nostre risate
lasciandomi nel silenzio
di un mondo vuoto?
Inconsapevole
che stavi per lasciarmi,
non ti potrò accompagnare
nel tuo viaggio misterioso.
Vigilare,
avrei dovuto vigilare
sul tuo dolore.
Sorella
del cuore
io vivo con te
e vorrei che tu fossi in eterno
conforto sapiente
di ogni mia pena.
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ANNA MARIA ROBUSTELLI
This is not a pipe
“È strano, pensava, ma se si è soli, ci si appoggia
alle cose, le cose inanimate, gli alberi, i torrenti,
i fiori, come se esprimessero ciò che siamo, come
se fossimo la stessa cosa,come se ci conoscessero,
come se fossero noi”
(Virginia Woolf)1
“Questa non è una pipa”: così recita R. Magritte in un suo quadro
famoso del 1935, de La Trahison des images che fa parte della collection Galerie Isy Brachot a Bruxelles, inducendoci a sorridere di
questo suo scherzo pittorico che noi avremmo già chiamato pipa.
Quindi le immagini degli oggetti tradiscono, ingannano, ma a dispetto di tutto restano lì a stabilire un dialogo con le persone che fa parte
della nostra quotidianità e della nostra vita.
Un altro grande pittore di due secoli prima, Jean Siméon Chardin, aveva dipinto un’altra pipa con il necessaire per fumatori corredata da vasi dai colori sbiaditi. Anche questa non pipa ci guarda immobile dal quadro, mentre noi siamo rapiti dal biancore del vaso, dal
suo coperchio e dalla tazza che, nonostante un’aria di solennità, denunciano nel tessuto rovinato del coccio, la loro deperibilità.
Tengo in mano il plettro con il quale mio nonno suonava il mandolino: è un piccolo oggetto di osso a forma di goccia, fatto apposta
per essere tenuto da un polpastrello e dall’indice della mano, ha un’aria leggera e preziosa. Noto dei segni di uso che lo rigano impercettibilmente. Deve avere lavorato molto, essere collegato a situazioni
conviviali di gioia, di piacere. A mio nonno piaceva stare con gli
altri da giovane. Apparteneva a una famiglia romana molto legata
ai propri parenti. Era un modo di vivere che si è ormai perduto nella
1
Da Al faro in Romanzi, Mondadori, Milano 1998. Riprendo questa citazione dall’intervento di Mirella Sessa (Il pensiero degli oggetti) al Laboratorio La disposizione
degli oggetti ci tradirà?, incluso nel Convegno “Io sono molte. L’invenzione delle personagge”, svoltosi a Genova dal 18 al 20 novembre 2011.
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famiglia nucleare contemporanea. Si racconta che dopo aver fatto la
festa di nozze con il pranzo, il giorno dopo mia nonna scoprisse che
non c’erano rimasti soldi per andare avanti nel mese. Fu il suo primo
amaro risveglio. Mio nonno non aveva pensato al dopo, per lui erano
più importanti i parenti.
In realtà non ho mai visto mio nonno suonare il mandolino, mi è
solo stato raccontato che lo faceva. Quando l’ho conosciuto – doveva
già avere sui settant’anni – non c’era nemmeno più un mandolino in
casa sua.
Pure il plettro è rimasto a me, dopo i traslochi in cui transitano
tutte le famiglie ed è l’ultimo testimone di un mondo estinto, ormai da
quasi un secolo. Provo ad immaginare più dettagliatamente quando
questo oggetto possa essere stato usato. Mio nonno era un tipo molto
sentimentale. Conservo ancora biglietti appassionati scritti per mia
nonna quando erano fidanzati. Forse le avrà fatto delle serenate con il
mandolino, oppure nelle feste con i parenti li avrà allietati suonando
questo strumento. Strano che io non abbia mai saputo niente di questo mandolino, ma quante cose omettiamo di chiedere quando i nostri
vecchi sono ancora in vita e rimpiangiamo poi!
Ed eccolo qui questo plettro-goccia che si offre ancora al tatto,
per essere usato e che invita al pianto, data la sua forma, e forse anche
perché nessuno mai l’ha usato da tanto tempo. Il fatto è che abbiamo
un rapporto affettivo con gli oggetti, collegati con tanti ricordi e abitudini di vita.
Nella poesia spesso gli oggetti ritornano in vita, sono riesumati
dalle polveri del tempo e ritrovano una collocazione nella mappe
mentali delle persone, riposizionandosi infine in uno spazio di contemporaneità. Da questo punto di vista la poesia tende a conservare
la memoria, ancora più di una disciplina come la storia, che non è
connotata dalla stessa vibrante emotività.
La poetessa irlandese Eavan Boland si chiede riguardo a vecchi
oggetti dimenticati:
Che ne è stato di tutti loro?2
perché ha il desiderio di risuscitarli e curarli, non diversamente da
come si fa per gli animali per i quali, nel mondo irlandese e anglo2
Eavan Boland, New Collected Poems, Carcanet Press, Manchester 2005. La traduzione di questa poesia è di Anna Maria Robustelli.
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sassone esiste una consolidata preoccupazione di cura:
c’era un bricco canterino...
E c’erano alari d’ottone...
C’era un cavallo di legno per i vestiti.3
Queste antiche cose perdute – dice la poetessa – meritano di
essere aggiunte al catalogo di quello che ci serve sempre, come meritava sua madre. E lei conserva e ricorda con il linguaggio, che cerca
di ricordare per timore di perdere le cose e le parole per dirle:
Una elegia per mia madre nella quale lei quasi non appare
Da tanto tempo sapevo che si deve provare dolore
per gli animali: piangere per loro, averne compassione.
Sapevo che era un nostro strano dovere umano
scrivere elegie per loro dopo aver provveduto al decesso.
Ero giovane allora e portata al paradosso.
Sono più vecchia ora e ho una domanda:
che ne è di tutti loro? Mi riferisco a quei
vecchi utensili muti che non hanno
occhi per supplicarci come i loro,
né richieste da fare come le loro? Insomma
c’era un bricco canterino. Voglio sapere
perché nessuno gli ha messo un’etichetta al collo o ha inanellato
la base di latta della sua forma estinta o si è accucciato per udirne
il grido crescente d’inverno o ne ha scritto insieme
agli uccelli nelle maniche azzurre dell’aria
scomparsi con gli alberi che li ospitavano.
E c’erano alari d’ottone che stavano
tutta la sera sulla grata e nel calore
che si riversava dai resti del fuoco
ma nessuno ha annotato la loro storia o li ha messi
nei vecchi pacchi sotto il chiaro di luna blu lavagna.
C’era un cavallo di legno per i vestiti, veramente solido
pur senza tendini, senza criniera e senza prati
su cui galoppare piano; che portava, invece
di signori o monaci irlandesi, stracci da tè sciacquati
ma che senza dubbio meritava di essere aggiunto al
catalogo di quello che ci serve, quello che ci serve sempre
3
Ibidem.
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come meritava mia madre, in questa serata dublinese di
cristalli di nebbia e gelo mentre si sporge per sentire
se un angolo dello straccio è asciutto mentre il crepuscolo
irlandese anteguerra si richiude sulla stanza
e le tende sono tirate ed eccomi qui,
neanche nata e già conservatrice,
con nulla che mi aiuti se non l’ultima
e la più favolosa delle bestie – il linguaggio, il linguaggio –
che sa, come io so, che è troppo tardi
per registrare la perdita di queste cose, eppure lo fa,
con ansia, temendo di condividere il loro destino.4
Nella poesia di Bianca Tarozzi i ricordi sono cinti dagli oggetti
del passato e sarebbe impossibile per questa poetessa rievocarli senza
restituire alla vita quei cimeli di un tempo che fu.
A poco a poco dal flusso ininterrotto delle parole poetiche riemergono i castelli di carta fatti da bambina con vecchie cartoline, i
vestiti rinnovati dalla madre, le tovaglie, le riviste di ricamo della madre in cui la vita le appariva eternamente una tavola imbandita / mai
profanata da cibi o commensali: // di quei fasti spettrali, / non mi saziavo gli occhi; contemplavo / in quelle foto il momento perfetto / prima che i convitati / arrivino al banchetto, / spargano briciole, / macchino i ricami...5
Si noti come l’uso sapiente della rima e delle consonanze in questa
poetessa accomuni alcune parole (patinata/ammirata), ne metta sullo
stesso piano altre (commensali/spettrali), sintetizzi la perfezione di
quelle immagini tratte dalle riviste (perfetto/banchetto). È uno slalom
fonico quello attraverso cui ci guida la poetessa che ricrea un’atmosfera
di molti anni prima, i desideri indotti dalle foto immacolate di quelle
riviste:
E vidi in quelle pagine un castello
incantato, con un delfino a lato,
e un ingenuo presepio, colorato,
di lucida ceramica.
Ho ritrovato entrambi, or non è molto,
dal vero, non su un foglio,
e ho provato lo stesso desiderio
di allora – il desiderio
4
5
Ibidem.
Fili in La buranella,, Marsilio Poesia, Venezia 1996.
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di entrare nel presepio e nel castello
– in un mondo più bello, levigato.6
Tutti gli oggetti della sua infanzia sono scomparsi ma
Restano i fili, i fili
invisibili, tanto
sono sottili.7
Qui la rima, con la ripetizione struggente della sillaba li, enfatizza la leggerezza di questi fili impalpabili che tessono la trama della
vita di una persona e restano appunto a collegare gli oggetti nella
mente della poetessa, restano a ribadire un legame con lo scomparso
che non possiamo veramente comprendere fino in fondo.
Le cose vengono recuperate quando si ha paura di perderle per
sempre.
La poetessa bosniaca Jozefina Dautbegovic ci parla della casa di
famiglia che lascia al momento della vendita:
Io vendo la casa con tutto quello che per casa si intende
tu compri solo un tetto sopra la testa
Io vendo la soffitta piena di piccioni e fasci di luce
che a strisce gialle si insinuano tra le tegole
tu compri uno spazio adatto per gli oggetti superflui
Io vendo tutte le cene con gli amici le loro voci sonore
tu compri abbastanza metri quadri dove poter sistemare
una cucina italiana dal design moderno
Io vendo la vista sulle colline viola
e trent’anni di raggi di sole moltiplicati per 365 giorni all’anno
senza contare quelli bisestili
tu compri una finestra rivolta a est
Io vendo latte di luna il suo argento fuso
versato sui tetti dei vicini
tu compri soltanto una veranda adatta per asciugare i panni
Della camera da letto non voglio parlare
per educazione
Ma posso facilmente supporre quello che compreresti
vendo anche il suono nervoso dei miei tacchi che andavano
avanti e indietro avanti e indietro
6
7
Ibidem.
Ibidem.
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su e giù
giù e su
mentre aspettavo i suoi passi per le scale
nel soggiorno
Tu compri il parquet di quercia ben conservato
e mi chiedi
quanto costano i ricordi
a metro quadro?8
Qui si confrontano due visioni degli oggetti: quella che impernia
su di loro i fili della propria vita e quella puramente commerciale o
consumistica che imperversa nel mondo moderno. Così alla casa, ai
suoi fasci di luce, alla soffitta, ai piccioni, alla camera da letto, ai tacchi che ancora picchiettano il pavimento si contrappongono un tetto
sulla testa, gli oggetti superflui, la cucina italiana dal design moderno,
la veranda per i panni.
Il poeta polacco Wladyslaw Szlengel si sofferma sulla pentola
che è rimasta nella cucina di una donna deportata a Treblinka, durante
le persecuzioni riguardanti il ghetto di Varsavia. Intorno alla pentola
ruotava un mondo di cura e di amore che è stato lasciato muto, dopo
la terribile violenza subita. La pentola richiama attenzione e resta a
testimoniare una perdita insanabile:
Il monumento
Agli eroi canti e poemi!
Eroi celebrati dai posteri,
nomi incisi su piedistalli,
su monumenti di marmo.
Ai valorosi soldati una medaglia!
alla morte da soldato, una croce!
Scolpite sono la sofferenza e la gloria
nell’acciaio, nel bronzo, nel granito.
Resteranno dei Grandi le leggende,
il mito dei Giganti
diventerà roccia,
monumento.
Ma chi racconterà a voi, Posteri,
che LEI è stata presa, uccisa?
Che LEI non c’è più,
lo inciderà qualcuno nel bronzo, nel granito?
8
Dal sito In punta di penna2007.blogspot.com/2009_05_01_archive.html.
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Era buona? Forse nemmeno.
Litigava spesso, borbottava,
sbatteva la porta
ma c’era.
Bella? Mai stata,
neanche da ragazza.
Intelligente? Come tante, forse non sciocca.
Ma c’era.
Capisci: lei c’era, ed ora
ogni angolo ha occhi cattivi,
la sua assenza è in ogni dove.
Non usiamo paroloni come “casa”
Dio mio, non per quel tugurio!
(non erano nemmeno di Varsavia)
il marito tutto il giorno in fabbrica,
anche il figlio aveva il suo daffare.
La stanza era spesso da sistemare
(l’acqua doveva portarla dabbasso),
alla rinfusa stava la mobilia,
in un angolo l’orologio sorridente.
Ma lei c’era.
C’era.
E allora? Una persona in meno? Cosa conta,
quale statistica ne parlerà,
per il mondo, per l’Europa
era meno che polvere,
valeva forse qualcosa il suo lavoro?
Ma se ti accostavi all’uscio
Prima ancora di toccare la maniglia,
prima di sospingere la porta,
avvertivi nell’aria un profumo
di minestra calda, asciugamani puliti,
ti avvolgeva quel tepore,
dunque...
lei c’era.
E l’hanno presa.
È andata via, così come stava
accanto al fuoco.
La minestra, non l’hanno potuta...
l’hanno presa, se n’è andata, non c’è,
l’hanno uccisa,
Torna dalla fabbrica il marito
si lascia andare sulla sedia
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le braccia gli cadono in grembo
gira la testa e guarda.
Non c’è fuoco nella stufa
lo straccio è caduto in terra,
sul tavolo un piatto sporco.
Non si alza. Si incurva. Pensa.
Niente da fare.
Dalla fabbrica porta pane e minestra,
miseri, estranei.
Mangia e guarda: sullo scaffale muta
La pentola fredda, fredda e morta.
Non andrà più in fabbrica,
il figlio tornerà a casa affamato,
con gli stivali infangati
si getterà sul letto disfatto.
Non dormirà.
Guarderà senza dimenticare...
La pentola ormai fredda,
IL MONUMENTO alla madre.9
Szlengel, riprendendo una poetica che è stata inaugurata da Thomas Gray nella sua celebre Elegy Written in a Country Churchyard nel
Settecento, si chiede chi racconterà ai posteri che è stata presa, uccisa?
Che LEI non c’è più, dando quasi per scontato che degli eroi, dei soldati
ci si ricorderà. Qui gli angoli della casa si animano già, arrabbiati per la
scomparsa della donna, che è stata portata a Treblinka. In un angolo
l’orologio sorride. Anche questo oggetto si anima, conscio della sua
funzione importante.
Ma lei c’era.
C’era.
Queste parole sono ripetute come un martellamento durante tutta
la poesia come le parole mai più mai più ne Il corvo di Edgar Allan
Poe, che scandiscono la perdita della donna amata.
Non era una casa particolarmente ricca o bella, né la donna di
cui si parla si distingueva per qualche caratteristica eminente ma
c’era.
9
W. Szlengel, Cosa leggevo ai morti, a cura di Laura Quercioli Mincer. Postfazione
di Jaroslaw Mikolajewski. Sipintegrazioni Editore, 2010 Casoria (Na).
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E c’erano la minestra calda, gli asciugamani puliti. Solo la pentola è rimasta nella cucina senza parole a testimoniare la perdita del
rapporto con la donna che la usava. Non possiamo fare a meno di vederla, nella sua matericità, rimasta come un monumento umile nello
spazio divenuto estraneo.
Maureen Duffy salva dal passato le forbici da ritaglio di sua madre nella poesia Salvage che ho tradotto con Quello che si è salvato
ma che potrebbe significare anche Relitto. Fin dall’inizio della poesia
viene ribadito che le forbici erano sacre e questa reverenziale sacralità viene associata a immagini di segretezza dei bambini (inghiottito
come messaggi segreti). La domesticità delle azioni ricordate si mescola con la severità della figura della madre che tiene le forbici salde come un fucile sulla spalla. Ma perché parlare di queste forbici?
Non definivano soltanto il lavoro della madre e la personalità della
madre ma – dice la poetessa – mi rifinivano nella forma, sforbiciavano le mie cimose secche. Quelle forbici hanno foggiato anche la personalità della figlia-poeta fino a ritagliare su misura la taglia giusta, la
sua vita. Tutta la poesia è un intersecarsi di ricordi e immagini di
bambina con la risolutezza con cui la madre maneggiava le forbici. Il
messaggio che ne emerge, ammesso che le poesie veicolino messaggi, è quello della perizia e della forza necessarie per arrivare alla “giusta misura” nella vita.
Quello che si è salvato
Le forbici da ritaglio di mia madre erano sacre.
Non mi era permesso di smussarne la punta nemmeno
sul cartamodello così leggero che avrebbe potuto
essere attaccato ai fondi dolci degli amaretti
e inghiottito come messaggi segreti.
Le vedo ancora sull’orlo del modello
o sulla riga tracciata dalla moneta grigia di gesso che scuriva
dove mettevo la punta della lingua, e vedo
il piano di legno del tavolo che si doveva ricoprire
con una tovaglia di giornali per il tè, intagliando
dall’alto in basso con quell’inconfondibile
stridore sul legno, deciso, senza
riaprire le lame, quelle fauci troppo sinistramente
pesanti nelle sue dita ossute che le tenevano
salde come un fucile sulla spalla; ora
che manca da un tempo che è quasi pari agli anni
della sua vita. Mi rifinivano
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nella forma, sforbiciavano le mie cimose secche
anche se altri me le fermavano con le spille e le
imbastivano, allentavano una cucitura o due.
Era il suo modo di brandirle, non quelle
che lei usava a volte che lasciavano cadere coriandoli
a triangolo, piccole vele di seta, spore di tweed, neri
nei di serge, dentellati, ma le fatali
tranciatrici che stritolavano quello con cui si deve lavorare.
E da allora piego, plissetto
accorcio o allungo orli e polsini per avere
una misura giusta, una cosa per uscire
che non sia confezionata, fatta in serie, ma su misura
come le piaceva chiamarsi, chiudendo le mandibole
con uno scatto metallico sul tavolo.10
A volte le incursioni nel passato sono piene di ironia. Guardiamo
la poesia della poetessa romana Fiorenza Mormile Portobello Market.
Prima di tutto la rima sottolinea l’essere andati a Portobello nel giorno
sbagliato. Le cose non sono visibili, stanno dietro usci sbarrati. Ci si
chiede che cosa si è cercato. Aleggia tra le rime l’idea che quello che
si è cercato fosse sbagliato. L’ultima strofa enfatizza l’assurdo di questa ricerca: ritornare indietro troppo tardi per dare vita a un usato e
prolungarsi almeno nel passato. Ci si dovrebbe prolungare nel futuro
ma in realtà si torna nel passato e – come dice la poetessa – lo si fa
fuori tempo. Qui le cose che cerchiamo, appena adontate dietro quell’uscio sbarrato, sono espedienti per rievocare un mondo disperso che
sarebbe difficile risuscitare solo con le parole. Certo, per il fatto di essere andata al Mercato di Portobello nel giorno sbagliato, queste cose
sono ancora più evanescenti e più arduo rimane il sapere che cosa esattamente si andasse cercando. Pure è inquietante la ricerca di un rapporto con cose antiche, appartenute a un tempo finito per sempre.
Portobello Market
A Portobello nel giorno sbagliato.
Quel più d’assenza tra le cose morte
nelle botteghe dall’uscio sbarrato
costringe a chiedersi cosa si è cercato.
La traduzione in italiano di questa poesia, opera squisita di Maureen Duffy, curata
da Anna Maria Robustelli, è comparsa sul numero di Luglio-Settembre 2011, n. 3 / 2011,
della rivista online formafluens.
10
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Cacciatori di tempo – spesso fuori tempo –
incorporiamo la vita dell’usato
per prolungarci almeno nel passato.11
Altrove il rapporto con le cose è goduto nella sua matericità.
Così Barbara Carle ci parla del piacere di toccare un libro di carta:
La sua copertina rigida
contiene
angoli
che si aprono
al tocco.
Offre pagine
che bisbigliano
tra le mani.
Attira le dita
completamente
ma non si completa
senza essere toccato.12
La magia di qualcosa che si apre se toccata, le pagine che frusciano, le dita che si sentono attratte verso la carta e che entrano in
rapporto con il libro, tutte queste notazioni restituiscono il fascino
della relazione che unisce il lettore al libro di fronte a sé. Si noti anche come la disposizione parca delle parole nei versi brevi sia un efficace artificio per indurre chi legge a soffermarsi su ciascuna immagine evocata dai versi della poesia. In questo modo abbiamo la possibilità di soppesare ciascuna parola, di contenerla nella nostra mente
per alcuni istanti, di sentirla dentro di noi. È come se avessimo la possibilità di entrare nelle pagine del libro, libro che non consiste solo di
parole che configuriamo nel cervello ma anche di fisicità.
In un’altra poesia è la scopa a possedere una forte carica di matericità, fatta com’è di erica e conserva ancora l’odore di quella pianta
e tracce di sole:
La mia scopa possiede questo forte odore dell’aperto
smuove la mia casa col profumo di erica
spazzola via la polvere grigia con piume solari.13
Fiorenza Mormile, Le calibrate spine, Fermenti Editrice, Roma 1999.
Barbara Carle, TangibleRemains Toccare quello che resta, a cura di Domenico
Adriano, Ghenomena Edizioni, Formia 2009.
13
Ibid. p. 27.
11
12
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Questo amore sconfinato per le cose ci rimanda nel passato alla
poesia di Gerald Manley Hopkins tra cui la famosissima Pied
Beauty/La bellezza cangiante:
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:
i cieli bicolori, pezzati come vacche,
la striscia roseo-biliottata della trota in acqua;
il tonfar delle castagne–crollo di tizzi giovani nel fuoco–e l’ali del fringuello;
per le toppe dei campi arati e dissodati;
e tutti i traffici e gli arnesi e tutto ch’è
fuor di squadra, difforme, impari e strambo;
tutto che muta, punto da lentiggini (chissà com’è?)
di fretta o di lentezza; di dolce o d’aspro; di lucore o buio;
Quegli le esprime – lode a Lui – ch’è sola bellezza non mutabile.14
L’amore per le cose si riflette nella lingua scelta, nello sfrigolare
delle c, o negli effetti delle fricative (fresh/firecoal/falls/finches), nel
battito delle p, nel sibilare delle s che creano un concerto di suoni che
si libera in tutte le direzioni. Questa bellissima poesia ben si pone nella
storia della poesia come una moderna laudatio delle bellezze della vita
e ci fa ricordare Il Cantico di Frate Sole del nostro Francesco D’Assisi.
Di questo amore per le cose è pervaso un film di recente comparso sul panorama cinematografico, Miracolo a Le Havre. Come
asserisce acutamente Piero Valesio nel suo commento al film su Il
Fatto Quotidiano online: “Tutto è vecchio, tutto è meravigliosamente
datato, tutto rifiuta il presente. È una Le Havre dove non ci sono televisioni: l’unica è appesa, piccolissima, al muro di un bar dove gli
astanti sono usciti da un film di Maigret, bevono Cassis in bicchieri
14
Traduzione di Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni” Edizioni della Meridiana, 1948. La poesia va apprezzata anche nello smagliante originale inglese che qui di
seguito riportiamo:
Glory to God for dappled things –
For skies of couple-colour as a brinded cow;
For rose-moles all in stipple upon trout that swim;
Fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings;
Landscapes plotted and pieced – fold, fallow, and plough;
And all trades, their gear and tackle and trim.
All things counter, original, spare, strange;
Whatever is fickle, freckled (who knows how?)
With swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;
He fathers-forth whose beauty is past change:
Praise Him.
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stretti che si allargano in punta”. Se tutto sembra vecchio e datato, è
anche impercettibilmente prezioso: i colori dei vasi dove il lustrascarpe mette i fiori per la moglie, gli stessi colori dei fiori, la sua cucina non certo moderna, estremamente parca, semplice, ma che sembra il quadro di un qualche pittore famoso. Tutti gli oggetti di questo
film, come le persone, sono importanti e preziosi. Penso che il fascino
del film si trasmetta soprattutto da tutti questi particolari che costituiscono la vera tessitura dell’opera.
Vorrei finire questo articolo che mira ad aprire delle riflessioni
sul nostro rapporto con le cose con una poesia che io stessa ho scritto
sulla casa in cui ho vissuto per più di cinquant’anni. Ho difficoltà a
ripensarla da quando l’ho lasciata, forse perché l’amavo e mi è dispiaciuto separarmi da lei.
Ecco, penso che i pezzi di quella frattura non si siano mai
ricomposti in me e questa poesia è uno dei pochi strumenti che ho
per conservare gli oggetti di quella casa con cui avevo dialogato così
a lungo.
Io e la casa
Di notte
io e la casa
viviamo quei chiarori
che vengono da fuori.
Io abbracciata al piumino,
ma lei più verginale,
contenuta e un po’ astrale.
Le sue porte imbiancate
recingono lo scuro
si staccano dal muro.
Arrivano da fuori rumori
di motori
di macchine insistenti
che molestano i sensi.
La sveglia ticche tacca,
il comò si stiracchia.
Per un po’ il pensiero
si allunga sul viale
insegue il viavai.
La casa resta uguale,
contiene le sue cose,
ritocca le sue pose,
sfodera i suoi colori
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cremosi, delicati,
sempre disincantati.
Di notte
io e la casa fissiamo quei chiarori
e il mondo scorre fuori.
Posso ancora rivivere gli oggetti di quella casa con cui ero in
contatto, le sue luci speciali e incantate sia di giorno che di notte,
scorrendo i versi di questo componimento. Le porte, le finestre, le
pareti, la sveglia, il vecchio comò di mia nonna, i mobili e i soprammobili riemergono per un attimo dalla nebbia della memoria. Sono le
parole – come ben sanno i poeti – che conservano i pensieri e le cose.
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AMITO VACCHIANO
La conversione di Costantino
Il grande archeologo e storico francese Paul Veyne in un suo
recente saggio,1 rimettendo audacemente in discussione un’opinione
molto diffusa e ormai data generalmente per acquisita,2 ha avuto il
merito di riaprire la ricerca su Costantino il Grande e la sua conversione al cristianesimo: uno degli avvenimenti più straordinari nella
storia dell’umanità. Paul Veyne, che è considerato uno dei massimi
esperti di Roma antica, sostiene in maniera brillante e assai convincente che la famosa “conversione” di Costantino, non fu, come per lo
più si ritiene, la mossa tattica di un politico spregiudicato, il quale,
spinto da mero calcolo e opportunismo, con ottima scelta di tempi
cerca di portare dalla sua parte i cristiani per rafforzare con il loro
appoggio il suo potere, ma fu in realtà una vera conversione, un fatto
semplice, irrazionale e inspiegabile, come è sempre l’adesione ad una
fede che, quando avviene, coinvolge l’uomo in tutto il suo essere. La
tesi di Veyne, sostenuta con solidi argomenti e documenti di grande
valore probatorio, con poche “picconate” ben assestate demolisce un
sistema di idee, le cui origini vanno ricercate, a suo avviso, a partire
dalle opere del grande Jacob Burckhardt e sono ancora oggi prevalenti e diffuse, persino nei manuali di storia.
«Quale vantaggio sul piano politico poteva ricavare Costantino
dalla conversione?», si chiede in sostanza Veyne che, riassumendo la
sua ricerca, conclude: «Un abile statista come lui non avrebbe avuto
bisogno di cercare l’approvazione e l’appoggio di una minoranza cristiana priva di influenza, senza peso politico e detestata dai più. Egli
non poteva ignorare che adorare una divinità diversa da quella della
maggioranza dei suoi sudditi e della classe dirigente al potere non era
certo il modo migliore per guadagnarsi il loro favore».3 Veyne, dunque,
1
PAUL VEYNE, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti, Milano 2008.
2
Si tratta di una convinzione assai diffusa e radicata non solo fra gli specialisti, che
l’hanno spesso accettata in modo acritico, ma anche fra i “non addetti ai lavori”, tanto da
apparire oggi quasi come un luogo comune.
3
VEYNE, Quando l’Europa..., cit., p. 57.
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analizza dettagliatamente le conseguenze che tale “conversione” comportò: Costantino aveva aderito a una fede che si guardò bene dall’imporre ai suoi sudditi e rimase sempre un fatto personale dell’imperatore: certo l’evento fu incomprensibile per la grande massa della popolazione, in maggioranza ancora pagana, e gli procurò anche irritazione e
resistenze soprattutto nell’ambito dell’aristocrazia senatoria, da secoli
depositaria della tradizione, degli antichi culti e della religiosità pagana.
Rinviando, ovviamente, chi vorrà saperne di più alla lettura dell’ottimo saggio di Veyne, in questa sede sarà opportuno esaminare un
aspetto non secondario della questione: è possibile indagare su questa
conversione? In altre parole, è lecito per uno storico analizzarne le
cause?
A questo proposito Paul Veyne sostiene che la conversione di
Costantino fu solo un fatto personale e privato, alle cui soglie uno
storico deve sapersi arrestare, rischiando altrimenti di invadere una
sfera troppo personale e soggettiva. Si possono analizzare le conseguenze, ma non le cause, che restano un mistero per chiunque.
«Quanto alla ragione profonda di questa conversione, non la sapremo
mai [...]: i motivi più profondi di ogni conversione sono impenetrabili, si trovano in quella “scatola nera” che non si può aprire, di cui parlano gli psicologi (o, per chi è credente, in una Grazia attuale). Provare sentimenti religiosi è un affetto, credere al fatto nudo e crudo
dell’esistenza di un essere, di un dio è una rappresentazione che rimane inspiegabile; essa consente di vivere questi sentimenti, piuttosto
che trovare spiegazioni in essi, e un non credente può intravederla
senza che in lui nasca la fede».4
Per Veyne, che si dichiara non credente, la difficoltà maggiore
va ricercata soprattutto nell’impossibilità di tentare di comprendere
come scatta la molla della conversione e quali aspetti intimi e segreti
essa penetra. In definitiva, a suo parere, un non credente non potrà
mai capire fino in fondo un credente, le “ragioni” della fede e dei suoi
arcani meccanismi.
Rispettiamo dunque la riservatezza e il tatto del grande storico:
un maestro dotato di sensibilità e acume sa sempre fin dove può spingersi, ma sa anche, soprattutto, quando deve fermarsi. Si tratta, infatti,
di un aspetto molto delicato ed è bene accostarsi ad esso con grande
misura.
4
VEYNE, Quando l’Europa..., cit., p. 72.
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Anche per i credenti, però, la fede è in gran parte inspiegabile:
essa è un “dono gratuito” che nasce da un’iniziativa di Dio (grazia), il
quale in maniera imperscrutabile si rivela all’uomo, ma la nascita della fede presuppone sempre una risposta umana libera e volontaria.
«Nessuno [...] può essere costretto ad abbracciare la fede contro la
sua volontà. Infatti l’atto di fede è volontario per sua stessa natura».5
Dio “parla” a ogni uomo, può farsi conoscere in molti modi, anche
con una “folgorazione improvvisa” (come ad esempio a Paolo di Tarso), ma più frequentemente la fede nasce dall’ascolto di un annuncio:
«ı p…stij ™x ¢ko◊j, ı d∑ ¢koΔ di⁄ ·»matoj Cristo˚» (“la fede
viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo”).6 Per un
cristiano la fede non è qualcosa di teorico, come l’adesione intellettuale a un sistema di idee, ma è sempre “un incontro personale con
Cristo”, personaggio storico, vero Dio e vero uomo, in cui «humanis
divina iunguntur».7 È un evento che si cala nella storia dell’umanità e
nello stesso tempo nella storia di ciascun uomo. Un fatto che determina un forte cambiamento di vita, una “conversione” o, come dicono i greci, una «met£noia».
Esiste, dunque, sempre un “prima” e un “dopo” e l’intervento divino si cala in un “contesto” che precede la “conversione”, da cui poi
scaturiscono tutta una serie di conseguenze (il “dopo”). Su questo
“contesto”, dunque, e – si badi bene! – non sulla fede o le sue imperscrutabili motivazioni, si possono fare delle riflessioni, avanzare delle ipotesi, ed è proprio su tale “contesto” che in questa sede soffermeremo la nostra attenzione.
Anche nella vita di Costantino, infatti, vi fu un “prima” e un “dopo”, cioè un “contesto” in cui maturò la sua conversione al cristianesimo, un’esperienza personale molto forte, e quindi un “nuovo corso”
alla luce della fede. Questo “percorso” interessa ovviamente il credente, che può scorgervi l’intervento divino nella Storia, ma può essere preso in esame anche da uno storico che ne studia la dinamica
senza finalità religiose.
Non sappiamo nulla di preciso, come vedremo, su dove e quando
Costantino abbia avuto i suoi primi contatti con il “messaggio” di
Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 36.2.
Rm 10,17. La traduzione italiana è quella tratta dall’ultima edizione della Bibbia
C.E.I. (2008).
7
«Le cose divine si uniscono alle umane», espressione tratta dal Praeconium Paschale.
5
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Cristo e dei suoi seguaci, ma il “fatto” storico, dirimente nella sua
vita, avvenne poco prima del 28 ottobre 312, quando fu combattuta la
battaglia dei Saxa Rubra o di Ponte Milvio, forse proprio il giorno (o
la notte) precedente. Ciò che accadde realmente quel giorno, forse, non
lo sapremo mai. Dell’evento esistono due versioni: quella di Lattanzio,
che scrive quasi a ridosso degli avvenimenti, e quella di Eusebio di
Cesarea. Secondo Lattanzio: «Commonitus est in quiete Constantinus,
ut caeleste signum dei notaret in scutis, atque ita proelium committeret.
Facit ut iussus est, et transversa X littera, summo capite circumflexo,
Christum in scutis notat. Quo signo armatus exercitus capit ferrum».8
Durante il riposo (in quiete), dunque, Costantino ha una rivelazione: la
divinità lo esorta a dipingere sugli scudi dei soldati il caeleste signum,
vale a dire il celebre chrisma, formato dalle prime due lettere del nome
di Cristo, le lettere greche X (chi) e P (rho), sovrapposte e incrociate,
e, munito di questo “amuleto”, attaccare battaglia.
Eusebio, invece, mentre nella sua Storia ecclesiastica, pubblicata poco dopo gli avvenimenti, non riferisce nulla di tutto ciò, nella Vita di Costantino (I.28-31), scritta dopo la morte dell’imperatore
(337), quindi a grande distanza dai fatti narrati, riferisce quanto gli fu
raccontato dallo stesso Costantino, che lo onorava della sua amicizia.
Secondo Eusebio, dunque, Costantino, alla vigilia di un’impresa che
appariva molto difficile, giacché già ben due Augusti, Severo e Galerio, avevano fallito miseramente, cioè attaccare Massenzio a Roma,
nel cuore stesso del suo potere, era in preda a un’indicibile angoscia.
Era convinto di aver bisogno di un aiuto divino, ma diffidava non solo dei sacerdoti e degli indovini pagani, ciarlatani che spesso in passato avevano profetizzato vittorie che non si erano mai realizzate, ma
anche degli dei pagani, che non erano stati in grado di aiutare Severo
e Galerio, che erano a loro molto devoti e in loro confidavano grandemente.9 Costantino, quindi, decide di chiedere aiuto al Dio a cui era
stato devoto suo padre Costanzo, il Dio dei cristiani, e naturalmente
chiedergli un segno del suo favore. Allora avvenne un fatto incredibile: «Intorno all’ora meridiana», scrive Eusebio, «quando il giorno comincia a declinare, [Costantino] riferì di aver visto con i propri occhi
in mezzo al cielo un trofeo luminoso a forma di croce che sovrastava
Lact. De mort. pers. 44.5.
Secondo Lattanzio, fu proprio il fanatismo di Galerio a spingere il riluttante Diocleziano a decidersi per la grande persecuzione cristiana nel 303.
8
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il sole, e accanto a esso una scritta che diceva: “vinci con questo!”. Di
fronte a quello spettacolo uno sbigottimento generale pervase l’imperatore e tutto l’esercito, che lo aveva seguito nei suoi spostamenti e
che fu testimone del prodigio».10 Costantino, tuttavia, non sa come interpretare questa apparizione. «Mentre rifletteva e ponderava a lungo
ciò che era avvenuto, calò rapidamente la notte. Allora in sogno gli si
mostrò Cristo, figlio di Dio, con il segno che era apparso nel cielo e
gli ordinò di costruire un oggetto a immagine del simbolo che si era
palesato in cielo e di servirsene come protezione nei combattimenti
contro i nemici».11 Si tratta della visione in cui Dio ordina a Costantino di costruire il celebre labarum, un’insegna a forma di croce, di cui
fece uso in tutte le sue guerre e ordinò che copie fossero messe alla
testa di tutti i suoi eserciti.
I racconti, come si vede, appaiono diversi, ma non inconciliabili:
più articolato quello di Eusebio, quasi un suo compendio quello di
Lattanzio, che evidentemente lavorava su notizie di seconda mano.
Cosa accadde veramente quel giorno non lo sapremo mai e forse
non è neppure fondamentale indagare su ciò. Un fatto però appare indiscutibile: quel giorno avvenne qualcosa di straordinario nella vita di
Costantino o almeno qualcosa che così da lui venne interpretato. Non
si può negare, quindi, di essere in presenza di un evento storico reale
e non di una pia ricostruzione creata a posteriori da Costantino o
dagli ideologi del suo entourage. Questo evento cambiò la vita di
Costantino: mentre “prima” appare ancora profondamente pagano, legato cioè a tutto quel sistema di idee, quella “mentalità primitiva”,
che lo vincolava nel suo agire con un’infinità di superstizioni, da
questo momento in poi cambia tutto: non solo la sua politica religiosa,
ma tutte le sue decisioni appaiono prese alla luce della nuova fede:
10
Eus. Vita Constantini, I.28.2: «¢mfˆ meshmbrin⁄j ıl…ou êraj, h”dh t◊j ım√raj
¢poklinoÚshj, aÙtoi~j Ñfqalmoi~j „dei~n œfh ™n aÙtπ oÙranπ Øperke…menon to˚
ıl…ou stauro˚ trÒpaion ™k fwtÕj sunist£menon, graf»n te aÙtπ sun◊fqai
l√gousan: toÚtJ n…ka. q£mboj dfl™pˆ tπ qe£mati krat◊sai aÙtÒn te kaˆ tÕ stratiwtikÕn ¤pan, Ó dΔ stellom√nJ poi pore…an sune…petÒ te kaˆ qewrÕn ™g…neto to˚
qaÚmatoj».
La traduzione italiana è di Laura Franco, Edizione BUR, Milano 2009.
11
Eus. Vita Constantini, I.29: «kaˆ dΔ diaporei~n prÕj eautÕn œlege, t… pote e‡h
tÕ f£sma, ™nqumoum√nJ dflaÙtπ kaˆ ™pˆ pol‚ logizom√nJ n‚x ™pÇei katalabo˚sa.
œnqa dΔ Øpno˚nti aÙtπ tÕn CristÕn to˚ qeo˚ s‚n tπ fan√nti katfloÙranÕn shme…J
Ñfq◊na… te kaˆ parakeleÚsasqai, m…mhma poihs£menon to˚ katfloÙranÕn Ñfq√ntoj
shme…ou toÚtJ prÕj t⁄j t≈n polem…wn sumbol⁄j ¢lex»mati cr◊sqai».
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«Costantino non ha posto l’altare al servizio del trono, ha fatto il contrario; ha ritenuto che gli affari e i progressi della chiesa fossero una
missione essenziale dello stato».12
I cristiani, se vogliono, possono continuare a leggere in questo
“evento” un intervento divino, mentre i non cristiani possono pensare che il sogno di Costantino non fosse nient’altro che, come spesso
avviene, una rielaborazione onirica di fatti reali che accadono nella
vita di tutti i giorni. Certo è, però, che l’imperatore lesse in quella
“visione” un deciso intervento della divinità a suo favore nella sua
lotta contro Massenzio. Negare la sua “buonafede” in quest’occasione
oggi non ha più molto senso.
Del resto, a partire da questo momento nell’agire di Costantino
emergono fatti nuovi di portata inaudita: il rifiuto – implicito nel silenzio di tutte le fonti – del tradizionale rendimento di grazie a Giove
Ottimo Massimo, che inaugurava il nuovo cerimoniale, ripreso poi
dagli imperatori cristiani, che prevedeva l’assunzione dei caratteri del
trionfo, ma senza i tradizionali sacrifici alle divinità pagane. Il nuovo
corso, poi, rendeva palese un fastidio così aperto verso gli dei pagani
da parte di Costantino, che l’anno successivo, il 313, l’anonimo panegirista evita persino di nominare gli dei in sua presenza, bandendoli addirittura dal suo armamentario retorico. La stessa reticenza imbarazzata sembra riscontrarsi anche nell’iscrizione dell’arco di trionfo,
inaugurato nel 315, ma decretato fin dal 312, a pochi giorni di distanza dalla battaglia, dal senato e dal popolo romano per onorare la vittoria di Costantino; in esso si legge: «Imp(eratori) Caes(ari) Fl(avio)
Constantino Maximo / P(io) F(elici) Augusto s(enatus) p(opulus)
q(ue) R(omanus), / quod instinctu divinitatis, mentis / magnitudine
cum exercitu suo / tam de tyranno quam de omni eius factione uno
tempore iustis / rem publicam ultus est armis / arcum triumphis insignem dicavit».13 L’espressione «instinctu divinitatis», comunque la si
voglia intendere, rappresenta una novità: se fu dettata dall’imperatore stesso, può essere il segno dell’incertezza di Costantino che non sa
bene ancora se e come aderire alla nuova fede, oppure può essere letta
VEYNE, Quando l’Europa..., cit., p. 77.
«All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il
senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del
suo spirito con il suo esercito vendicò con giuste armi lo Stato ad un tempo sia del tiranno
(= Massenzio), sia di tutta la sua fazione, dedicarono questo arco insigne per i trionfi».
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come il tentativo da parte dell’imperatore, sinceramente convertito ad
una fede che fino a poco tempo prima era ancora religio illicita, di
non urtare troppo la sensibilità dei suoi sudditi ancora pagani; oppure, se l’iscrizione è espressione del pensiero e dei sentimenti dei
senatori, indica in modo evidente che essi avvertivano che qualcosa di
importante e di nuovo era avvenuto in quel preciso momento storico
o che almeno tale appariva agli occhi Costantino.
Da quanto detto si può rilevare un altro dato importante: prima
del 312 Costantino non era cristiano, o almeno, qualora avesse avuto
già qualche contatto con il cristianesimo, non aveva ancora fatto la
sua scelta definitiva. La decisione presa prima della battaglia, cioè
quella di adottare il chrisma come simbolo da esibire sugli scudi e il
labarum come insegna da battaglia, equivale alla pubblica professione di fede, che a quell’epoca era normalmente richiesta a tutti i
catecumeni prima di ricevere il battesimo.
E dunque, prima del 312 in cosa credeva Costantino? Difficile a
dirsi. Si può supporre che, come molti soldati a quel tempo, fosse in
qualche misura legato a culti di origine orientale, come quello del dio
Sole o quello di Mitra, assai diffusi fra i soldati. Gli iniziati a questi
culti, uomini costretti a rischiare la vita ogni giorno, ottenevano la
speranza che, almeno dopo la morte, avrebbero potuto raggiungere
uno stato di felicità. Per lo stesso motivo, probabilmente, a quell’epoca anche il cristianesimo aveva cominciato a diffondersi tra i soldati, benché certo ancora in misura largamente minoritaria.
Non è da escludere quindi, a mio avviso, che proprio qui, nella
vita militare, tra i soldati, negli accampamenti invernali sulla frontiera, nelle lunghe giornate di ozio in attesa della primavera, o nei momenti di straordinaria tensione prima della battaglia, vadano ricercati
i primi contatti tra il giovane Costantino e i cristiani.
Il futuro imperatore, infatti, nato sulla frontiera, a Naissus (odierna Niš) in Mesia, era un soldato, figlio di soldati. Il padre, Costanzo,
un militare di professione, formatosi alla dura scuola di imperatorisoldato come Aureliano, Probo e Diocleziano, non era certo un cristiano, ma non era neppure un feroce persecutore: bastò questo perché un
certa agiografia cristiana tardoantica, per celebrare il figlio, facesse di
lui un cristiano ante litteram. Effettivamente, però, si ha l’impressione
che, durante la grande persecuzione scatenata da Diocleziano e Galerio, nei territori sotto il controllo di Costanzo gli editti imperiali avessero un’applicazione assai più blanda che in altre aree, o che in qual– 142 –
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che misura venissero addirittura elusi. Costanzo era un militare e obbediva agli ordini: visse da soldato, morì da soldato. Come tutti i soldati, non amava le operazioni di polizia: tali, infatti, potevano apparire ai suoi occhi le persecuzioni anticristiane nell’Impero.
La madre di Costantino, Elena, era la prima moglie di Costanzo
(e non una concubina di infime origini, come purtroppo ancora si
ripete, specialmente in alcuni testi, anche recenti, poco informati).
Nel 293 era stata ripudiata da Costanzo per sposare Teodora, figlia di
Massimiano, Augustus per l’Occidente: un matrimonio che suggellava un accordo politico, una parentela che gli avrebbe fruttato prima la
sua elezione a Caesar, nel 293, e poi, nel 305, quando Diocleziano e
Massimiano abdicarono contemporaneamente, quella ad Augustus. Di
Elena, a causa anche della scarsità di notizie su di lei, presto si impadronì la leggenda; per noi, perciò, è difficile capire come stessero
realmente le cose. Ad esempio, non sapremo mai se fosse stata già
cristiana prima della conversione di suo figlio Costantino e sia stata
quindi lei per prima a parlare al figlio di questa fede o a creare almeno un clima non sfavorevole nei suoi confronti, o se, come volle più
tardi la tradizione, fosse lei ad essere convertita dal figlio una volta
divenuto cristiano.
Dopo il ripudio di Elena, Costanzo non dimenticò Costantino, suo
primogenito; anzi, benché avesse avuto anche altri figli da Teodora, lo
considerò sempre il figlio prediletto, in cui riponeva grandi speranze.
Il giovane Costantino ricevette una formazione retorica accurata, ma
non approfondita, degna quindi dei Romani antichi, che non amarono
mai un’erudizione fine a se stessa, e assai presto fu avviato alla carriera militare. Sappiamo dalla descrizione che ci ha lasciato Eusebio di
Cesarea che aveva una bella presenza e un fisico imponente; inoltre
era audace e risoluto nel prendere le decisioni (dote quest’ultima che
non guasta anche in un politico): caratteristiche che ben presto lo rendono celebre e stimato fra i soldati che vedono in lui innanzitutto un
commilitone, un dux su cui si può fare affidamento in battaglia. Non
conosciamo con precisione le tappe della sua carriera e neppure esattamente tutte le campagne cui partecipò, ma è abbastanza certo che
nel 296 fu al seguito di Diocleziano e Galerio in Egitto, dove non
mancò di segnalarsi e ricoprirsi di onore sui campi di battaglia.
Si trattava, però, di una guerra civile contro un usurpatore (tyrannus). Nel corso di questa Diocleziano dimostrò il lato più feroce del
suo carattere: sembra che abbia dato addirittura l’ordine di massacra– 143 –
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re gli abitanti di una città ribelle fino a che il sangue dei morti non
giungesse all’altezza della zampe del suo cavallo e lo abbia revocato
solo quando l’animale, scivolato nel sangue, cadde a terra ed ebbe le
zampe completamente sporche di sangue.
Quasi sicuramente l’anno successivo Costantino prese parte alla
grande spedizione del Caesar Galerio in Persia, che dopo una sconfitta iniziale (296) si trasformò in una delle vittorie più belle e decisive di tutto il principato di Diocleziano (297). Questa vittoria che fu
celebrata con grandissimo fasto e un trionfo degno degli antichi condottieri, assicurò per molti anni il rispetto e la pace all’Impero. Non è
un caso, dunque, se Costantino, dopo un simile tirocinio, si rivelerà in
seguito uno dei più grandi geni militari della storia.
È proprio nel contesto militare, dunque, che il giovane Costantino
potrebbe aver avuto i suoi primi contatti con i cristiani e con la loro
fede. C’è poi un fatto che, a mio avviso, non è stato messo nella dovuta
considerazione.
Proprio nell’anno della grande vittoria persiana, il 297, forse proprio per influsso di Galerio, dopo aver dimostrato per anni tolleranza
nei confronti delle minoranze religiose (ebrei, cristiani, manichei,
ecc.), la politica religiosa di Diocleziano subisce una repentina inversione di marcia.
Già negli anni precedenti avevano destato sospetto e allarme
singoli casi di insubordinazione di soldati cristiani che, rifiutandosi
di obbedire agli ordini, mostravano chiari segni di insofferenza verso
il servizio militare e verso la stessa persona degli imperatori.14 Non
sappiamo esattamente cosa stesse succedendo nell’esercito in quegli
anni, ma vi è la sensazione che non si trattasse di casi isolati. Al contrario, ci sembra che in quest’epoca il disagio fra i soldati di fede
cristiana e il clima di sospetto nei loro confronti da parte dei commilitoni e delle alte gerarchie militari comincia a diventare un fenomeno
crescente e sempre più diffuso.
Sull’argomento le fonti di quest’epoca, assai scarse, sono reticenti, perciò non conosciamo con esattezza i fatti e la reale portata del
14
Sono noti i casi di soldati cristiani, condannati a morte per insubordinazione, e
poi venerati come martiri dalla Chiesa; di alcuni di essi si sono persino conservati gli atti
processuali. È questo il caso, ad esempio, di Massimiliano di Tebessa, la cui condanna fu
eseguita il 12 marzo 295. La sua vicenda ci è nota grazie alla Passio S. Maximiliani, che
si basa sul verbale del processo tenuto a Cartagine.
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fenomeno. In questi anni indubbiamente emerge un senso diffuso di
disagio fra i cristiani che militavano nell’esercito e dei cristiani in generale verso il servizio militare. Parallelamente si diffonde un clima
di sospetto verso questa minoranza in continua, inarrestabile crescita,
che invadeva ormai tutti gli spazi, anche quelli un tempo riservati alle classi più elevate, come la politica e la guerra. Ma cosa stava accadendo in realtà? Le opinioni degli studiosi in merito non sono unanimi. Si è ipotizzato che si potesse trattare di casi di coscienza individuali. In un’epoca in cui i soldati spesso assumevano comportamenti
di vera e propria brutalità non solo verso i nemici interni ed esterni,
ma anche verso la popolazione civile, come nel caso di guerre contro
usurpatori che erano ovviamente cittadini romani, questa violenza
certo non poteva non urtare la sensibilità dei soldati di fede cristiana,
a cui ripugnava la violenza gratuita o quella contro consanguinei:
questa potrebbe essere la matrice di quegli episodi che sono stati definiti dei veri e propri casi di “obiezione di coscienza”.15
L’ampiezza del fenomeno, però, ha indotto gli studiosi a cercare
anche altre motivazioni. Molti ritengono, ad esempio, che nel corso
del III secolo i cristiani, particolarmente quelli dell’Egitto e dell’Africa
romana, fossero divenuti assai sensibili al richiamo delle sette cristiane
rigoriste e millenariste (montanisti, sabelliani, ecc.) o dei gruppi
gnostici, allora in grande espansione. Più tardi, poi, grande successo
ebbero anche i predicatori manichei, che proprio sotto Diocleziano,
espulsi dalla Persia dove erano perseguitati, avevano cominciato a
diffondersi con rapidità impressionante nell’Impero romano.
Quest’ipotesi, certo fondata su solidi argomenti, può render conto in qualche misura di un certo “radicalismo” cristiano, in quest’epoca documentabile in qualche misura. Grande perplessità, infatti, suscita non solo il caso dei numerosi santi militari di quest’epoca, ma
anche la rivolta di interi reparti. Emblematico e di difficile lettura,
tanto da suscitare dubbi sulla sua autenticità, è il caso della legione
Tebea di stanza in Raetia (approssimativamente l’odierna Svizzera).
Si tratta di un episodio la cui notizia ci è stata tramandata da Eucherio, vescovo di Lione, morto nel 449 o 450 e venerato come santo
dalla Chiesa cattolica. Egli narra di aver raccolto dalla viva voce del
vescovo di Octodurum (odierna Martigny o Martignac, nel cantone
15
EMILIO GABBA, Per la storia dell’esercito romano in età imperiale, Bologna 1974,
p. 88.
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svizzero del Vallese) il ricordo di un eccidio perpetrato più di centocinquanta anni prima nei pressi di Agaunum (odierna Saint-Maurice
nel Vallese, Svizzera). Un’intera legione, detta Thebaea e costituita da
soldati di origine orientale, forse egiziani della Tebaide, venne completamente massacrata. Ad impartire l’ordine pare sia stato lo stesso
Massimiano. Alcuni soldati avevano rifiutato di obbedire agli ordini:
perciò fu ordinata una prima decimazione, poi, di fronte all’ostinazione compatta di tutti i soldati, una seconda, ed infine il massacro
dell’intera unità.
Non si conosce l’anno preciso dell’eccidio: Eucherio lo pone in
relazione con le persecuzioni anticristiane che Diocleziano e Massimiano scatenarono in maniera ufficiale in tutto l’impero a partire dal
303. Una tarda Passio del secolo VII, invece, lo colloca all’epoca della campagna condotta da Massimiano contro i Bagaudi negli anni
285-286.
Senza entrare nel merito della controversa questione sull’autenticità del massacro e sul reale numero delle vittime, dal racconto di
Eucherio emerge con chiarezza che in quel luogo avvenne un fatto
straordinario, di cui, a distanza di anni, era ancora vivo il ricordo. Un
dato appare sicuro: ad Agaunum un numero imprecisabile (ma consistente) di soldati cristiani fu massacrato a causa della fede.
Vale la pena soffermarsi anche su un altro particolare messo in rilievo dal racconto di Eucherio: «Hi in auxilium Maximiano ab orientis partibus acciti venerant, viri in rebus bellicis strenui et virtute nobiles, sed nobiliores fide». Questi soldati, venuti dall’Oriente, dunque, e ceduti da Diocleziano e Galerio come truppe di supporto per
qualche attività bellica di Massimiano, erano «viri in rebus bellicis
strenui et virtute nobiles», cioè veterani di provata capacità e alto valore, non certo truppe raccogliticce e inaffidabili, punite quindi per
episodi di insubordinazione o codardia.
Non è da escludere, inoltre, che questo episodio potrebbe non
essere stato l’unico: se di questo massacro quasi per caso ci è giunto
un ricordo vago e lacunoso, di quanti altri episodi la memoria potrebbe essersi smarrita o addirittura potrebbe esserne stata pianificata la
cancellazione? Non dimentichiamo che chi commette uno sterminio
spesso se ne vergogna e tenta di nasconderlo in tutti i modi. Basti pensare all’eccidio delle Fosse Ardeatine, ad esempio, oppure ai tentativi
di nascondere, negare (o ridimensionare) l’entità di stermini di massa
come il genocidio degli armeni nel 1917 nell’Impero ottomano, l’o– 146 –
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locausto degli ebrei e degli zingari perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, gli eccidi di italiani in Istria e in Dalmazia ad
opera dei titini alla fine della guerra, o ancora, in tempi più recenti, la
“pulizia etnica” dei musulmani in Bosnia e degli albanesi del Kosovo
ad opera dei nazionalisti serbi. In tutti questi casi (e, purtroppo, in
tanti altri) i massacri, una volta perpetrati, vennero accuratamente celati, e solo molti anni dopo, tra mille difficoltà e incredulità, la verità
è finalmente venuta a galla.
C’è da chiedersi, dunque, quale effetto potrebbe aver avuto l’eco
di simili massacri su militari di professione come Costanzo e Costantino, che potrebbero anche essere stati testimoni oculari in episodi di
questo tipo: uomini valorosi che in Oriente si erano coperti di gloria
su tutti i campi di battaglia, veterani che avevano dato il loro sangue
per Roma e per gli Augusti, ora venivano sterminati unicamente per il
loro credo religioso?
Abbiamo motivo di credere, poi, che episodi di questo tipo non
fossero casi isolati e, poiché dal 296 cominciano a essere molto diffusi, si potrebbe pensare a qualche tipo di pianificazione “dall’alto”:
in questo modo gli eccidi di cui abbiamo notizia sarebbero solo la “cima di un iceberg”. Le fonti storiche relative a questo periodo, piuttosto scarse, non ci permettono di giungere a conclusioni definitive.
Di particolare rilievo, dunque, in questi casi appare la motivazione religiosa. La religione nel mondo antico era sempre stata un nodo delicato e le persecuzioni di cristiani nell’Impero non erano certo
una novità, ma durante il III secolo si erano registrati dei cambiamenti
di grande portata.
È universalmente noto che Diocleziano, seguito fedelmente da
Massimiano, fin dall’inizio del suo regno si affidò esclusivamente
a un’origine divina per giustificare la natura del proprio potere: già
nel 285 (aveva preso il potere solo l’anno precedente) le sue prime
emissioni monetarie a Roma recavano la dicitura Iuppiter conservator
Augusti. È evidente inoltre la netta inversione di tendenza di Diocleziano rispetto ai suoi predecessori: fin dal primo momento non sente
alcun bisogno di riconoscere la concordia militum né l’adsensus senatus. Già da tempo altri imperatori avevano accentuato il carattere
sacro del principato e la divinizzazione dell’imperatore, ma con Diocleziano l’investitura divina diventa un fatto di fondamentale importanza. In una società che da secoli era estromessa da ogni forma di
votazione o partecipazione diretta alla vita pubblica, l’unica conce– 147 –
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zione che giustificasse l’esistenza del potere era l’interpretazione
religiosa. Ciò spiega le novità introdotte da Diocleziano nel cerimoniale di corte: fu lui, infatti, a creare il consistorium: alla presenza
dell’imperatore, cioè, la corte doveva stare in piedi; a lui si deve
anche il silentium, per accentuare la ieraticità delle cerimonie e la
sacralità dell’atto di avvicinarsi alla persona del sovrano. Lo stesso
Diocleziano introdusse anche l’uso del diadema e della clamide da
parte dell’imperatore quando si mostrava in pubblico e il rito dell’adoratio (in gr. proskÚnhsij), in base al quale chi era ammesso alla presenza dell’imperatore doveva inchinarsi profondamente e prostrarsi
fino a toccare il pavimento con la fronte. Anche la relazione tra i due
sovrani venne ridefinita in termini religiosi: Diocleziano assunse
l’appellativo Iovius e Massimiano quello di Herculius. Si tratta di
titoli pregni di simbolismo: Diocleziano-Giove aveva il ruolo dominante di pianificare e comandare, Massimiano-Ercole aveva il ruolo
eroico di portare a termine le imprese assegnategli. Nonostante ciò, i
due imperatori non erano “divinità” (sebbene nei panegirici fossero
talvolta presentati in questo modo), ma, secondo la tradizione del culto imperiale, erano piuttosto strumenti degli dei, pronti a far rispettare la volontà divina sulla terra. Per rafforzare quindi la coesione e la
fedeltà dell’esercito ai due Augusti, si incentivò l’uso di celebrare solenni sacrifici comuni a Giove e Ercole e si moltiplicarono le occasioni (assunzione di consolato, genetliaci, anniversari: quinquennalia,
decennalia, vicennalia), in cui questi sacrifici costituivano il momento centrale della festa comune (i partecipanti erano aspersi con il sangue delle vittime e al termine dei sacrifici tutti erano tenuti a partecipare al banchetto sacro in cui si consumavano le carni degli animali
sacrificati).16
Appare chiaro che tutto ciò diventava sempre più inaccettabile
per i soldati cristiani, che tendevano ad evitare questi momenti di vita
comune o addirittura a ribellarsi. Soprattutto in occasione di calamità
naturali o pestilenze essi venivano additati come i responsabili di esse,
ma durante le guerre esterne essi si attiravano il sospetto del mancato
favore degli dei verso i Romani, se non addirittura quello di collusione
con i nemici.
Non a caso, dunque, fra i primi provvedimenti presi da Costantino, vi sarà il divieto
dei sacrifici e della celebrazione comune delle feste antiche: nessuno doveva essere costretto a contaminarsi partecipando a questi riti.
16
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Secondo alcuni studiosi, una prima, ma decisiva svolta nella
politica religiosa di Diocleziano e Massimiano va collocata negli anni
296-297, all’epoca della guerra contro i Sasanidi.
Proprio mentre fervevano i preparativi per la spedizione contro la
Persia, una guerra che, come sempre, presentava giustificati motivi di
apprensione, anche da altre aree dell’Impero cominciano a giungere
notizie preoccupanti: Giuliano, proconsole d’Africa, segnala l’attività
di missionari manichei nella sua provincia.17 La reazione di Diocleziano e Massimiano è durissima! In un rescriptus a Giuliano del 31 marzo 296, l’imperatore ordina una dura persecuzione contro la setta dei
manichei, che ai suoi occhi apparivano seguaci d’una religione proveniente dalla Persia, quindi fortemente sospetti di collusione con il
nemico dell’Impero. È interessante anche la motivazione sottesa a tale
provvedimento: «Eos [scil. Manichaeos] audivimus nuperrime veluti
nova et inopinata prodigia in hunc mundum de Persica adversaria
nobis gente progressa vel orta esse [...] et verendum est, ne forte [...]
conentur per execrandas consuetudines et scaevas leges Persarum
innocentiores naturae homines, Romanam gentem modestam atque
tranquillam, et universum orbem nostrum, veluti venenis anguis malivoli, inficere».18 I manichei, dunque, sono riguardati come pericolosi
non solo perché originari della Persia, e quindi potenzialmente una
“quinta colonna” dei Sasanidi, ma anche perché portatori di «execrandae consuetudines» e «scaevae leges» dei Persiani, paragonabili al veleno di un serpente pronto per essere inoculato nella «modesta atque
tranquilla gens Romana».
Non sappiamo quante furono le vittime di questa persecuzione
fra i manichei, perché non esistono notizie e dati al riguardo; ma è ovvio pensare che per Diocleziano e Massimiano altrettanto pericolosi
potessero essere anche i cristiani. Del resto erano difficilmente distinguibili dai manichei, i quali potevano benissimo spacciarsi per
cristiani al fine di evitare le condanne. E i cristiani erano già diffusi
dovunque, persino nel palazzo imperiale e, ovviamente, anche nell’esercito: un vero “cancro” che doveva essere estirpato al più presto!
17
Il manicheismo nacque nella seconda metà del III secolo in Persia dalla predicazione di un profeta pacifista, Ma-nı- detto hayya-, cioè “il vivente”, vittima in patria di una
brutale repressione.
18
Cfr. EDOARDO VOLTERRA, La costituzione di Diocleziano contro i Manichei, in
La Persia e il mondo greco-romano (Accademia dei lincei, anno 363, quaderno 76), 1966,
pp. 27-50, e specialmente pp. 40-44.
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Non è da escludere, poi, come abbiamo visto, che il malcontento
all’interno dell’esercito fosse addirittura pianificato e promosso “dall’alto”, al fine di consentire epurazioni su vasta scala.
Eco di queste epurazioni ci è stato conservato da Eusebio di
Cesarea. Nella sua celebre Storia ecclesiastica il grande storico narra
che, prima ancora che venisse decretata l’ultima grande persecuzione,
«il giudizio di Dio annunciò a poco a poco la sua visita iniziando
le persecuzioni dai fratelli che militavano nell’esercito».19 Lo stesso
Eusebio nel Chronicon (pervenutoci integralmente solo nella versione armena) poneva l’evento nell’anno 296-297: «Veturius magister
militiae eos, qui in exercitu Christiani erant, clanculum opprimebat
atque ex illo iam tempore ubique locorum persecutio se extendit»20
La data sarebbe confermata anche da Teofane, uno storico di età
bizantina, che attinge però al perduto testo originale del Chronicon
di Eusebio: «ToÚtJ tπ œtei OÙet»rioj stratoped£rchj to‚j ™n
~ Cristiano‚j h” laune metr…wj, œktote to˚ kat⁄
t˙~ strativ
p£ntwn ØpotÚfontoj diwgmo˚».21 Anche Gerolamo, quasi con le
stesse parole, segnala l’evento: «Veturius magister militiae Christianos milites persequitur, paulatim ex illo iam tempore persecutione adversus nos incipiente», collocandolo all’epoca della guerra contro la
Persia.
Ci piacerebbe avere maggiori informazioni su questo Veturio,
non altrimenti noto, e su queste epurazioni nell’esercito: di esse ci
sfugge la vera motivazione e la loro reale portata.
Si possono ricollegare a questa prima fase della persecuzione
anche altri episodi che vedono l’uccisione di singoli soldati come
Massimiliano; condannato a morte dal proconsole d’Africa Cassio
Dione il 15 marzo 295, come l’egiziano Menas, che una fonte colloca l’11 novembre 295 a Cotieo nella Frigia Salutare,22 come Tipasio
di Tigava in Mauretania, veterano richiamato in servizio, che in una
19
Eus. Hist. Eccl. VIII.1.7: «ı m∑n dΔ qe…a kr…sij, oŒa f…lon aÙt˙~, pefeism√nwj,
t≈n ¢qroism£twn œti sugkrotoum√nwn, ºr√ma kaˆ metr…wj tΔn aÙt◊j ™piskopΔn
¢nek…nei, ™k t≈n ™n strate…aij ¢delf≈n katarcom√nou to˚ diwgmo˚».
20
Eusebii Pamphili Caesariensis episcopi Chronicon bipartitum, ed. J.B. Aucher,
Venetiis 1818, vol. II, p. 303.
21
«In quest’anno il comandante di accampamento [prefetto del pretorio?] Veterio
perseguitò moderatamente i cristiani nell’esercito, da quel momento bruciava di nascosto
la persecuzione contro tutti».
22
Chronicon Paschale, ad ann. 295.
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data incerta, ma sicuramente anteriore al 300, fu decapitato poiché
non volle sacrificare agli dei pagani, così come tanti altri, il cui ricordo ci è giunto in varie tradizioni più o meno fondate. Essi naturalmente furono venerati come santi martiri soldati dai cristiani, ma il
loro sacrificio non fu certo inutile.23
Non sappiamo in che misura, ma certo questi episodi furono noti
a Costantino, che forse partecipò personalmente sia a processi che ad
esecuzioni. L’esempio di attaccamento alla propria fede di questi
veterani certo lasciò un segno indelebile nell’animo del giovane
Costantino. Così come certo ebbe un forte impatto su di lui il totale
fallimento del progetto di Diocleziano, Massimiano, Galerio e Severo
di sradicare completamente la fede cristiana. Tutti costoro non solo
furono frustrati nei i loro progetti politici e militari, ma anche le loro
vicende personali fanno registrare clamorosi fallimenti.
Diocleziano, costretto ad abdicare forse da una precoce demenza
senile, morì solo e dimenticato a Spalato in Dalmazia, non prima di
aver visto il fallimento completo del suo sistema tetrarchico, e soprattutto non poté mai più rivedere la moglie Prisca, la figlia Valeria e il
nipote Candidiano, prima presi in ostaggio da Massimino Daia e poi
brutalmente eliminati da Licinio. Massimiano, dopo aver ripreso invano il titolo di Augustus e aver tentato un’impossibile mediazione tra
suo figlio Massenzio e Costantino, venne eliminato da quest’ultimo
a Marsiglia. Galerio morì nel 311, devastato da un terribile cancro e,
dopo essere giunto persino ad invocare l’aiuto di quel Dio che aveva
ferocemente perseguitato nei suoi seguaci, il giorno prima di morire
promulgò il celebre editto in cui dichiarava, per la prima volta nella
storia, il cristianesimo religio licita. Severo, infine, non ebbe neppure
il tempo di consolidare la sua recente elezione ad Augustus, che, circondato da persone infide e abbandonato dai suoi stessi soldati, venne
23
Fra gli altri santi martiri militari riconducibili a quest’epoca possiamo ricordare:
Acacio di Bisanzio (Thracia), Andrea il Generale (Cilicia), Callistrato di Roma, Cristoforo
di Antiochia (Syria), Demetrio di Tessalonica (Macedonia), Emeterio e Chelidonio di
Calagurris (Hispania Tarraconensis), Fedele, Esanto e Carpoforo di Silvula (presso
Como, in Liguria), Floriano di Lauriaco (Noricum), Giorgio di Diospoli (Palaestina),
Lussurio di Cagliari (Sardinia), Marcello di Tingis (Mauretania Tingitana), Mercurio di
Cesarea (Cappadocia), Sergio e Bacco di Raesafa e Barbalisso (Syria Euphratensis), Teagene di Pario (Hellespontus), Teodoro di Amasea (Helenopontus), Tipasio il Veterano di
Tigava (Mauretania Caesariensis), Varo (Aegyptus), Vittore il barcaiolo di Milano (Italia),
i 60 martiri di Gaza a Gerusalemme e Eleuteriopoli (Palaestina).
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convinto ad arrendersi da Massimiano e poi strangolato da sicari
inviati da Massenzio.
Con questi precedenti, come continuare a fidarsi degli dei pagani?
Agli occhi di Costantino essi sembravano aver ormai abbandonato non
solo coloro che detenevano le redini del potere, ma Roma stessa e
il suo impero plurisecolare. Costantino quindi decide di rischiare e
confidare in un Dio a lui in gran parte ancora sconosciuto: a Lui riconobbe il merito di averlo aiutato proprio nel momento del maggior
bisogno e a Lui si dimostrerà sinceramente devoto per tutta la sua
vita. Quanto avrà influito in questa scelta l’esempio dei martiri della
cui morte forse fu anche testimone? Non potremo mai saperlo con
certezza, ma è indubbio che l’animo di Costantino potrebbe esserne
stato segnato in maniera indelebile. Anche dal sangue versato dai
martiri, dunque, potrebbe essere scaturita e aver mosso i primi passi
la decisione che ha cambiato la storia dell’umanità.
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Sezione didattica
(collaborazioni degli studenti)
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LICIA FIERRO
Progetto “Roma per vivere,
Roma per pensare”
INTRODUZIONE
Nell’anno scolastico 2010/2011 il dipartimento XImo del Comune di Roma (Progetti Speciali) in collaborazione con la Società Filosofica e la Facoltà di Storia e Filosofia dell’Università Roma Tre ha
organizzato e presentato un progetto incentrato su un tema di grande
interesse ed attualità dal titolo “Ai confini della responsabilità: il crocevia di Roma”. Si tratta di porre l’accento su un concetto, o meglio un
principio quello di responsabilità che fin dai primordi della scienza
filosofica è stato intimamente collegato al riconoscimento dell’identità stessa del soggetto agente. In tempi in cui i giovani appaiono poco propensi ad accettare compiti ed impegni, in cui sembra possibile
delegare ad altri fuggendo il peso della scelta, ci è sembrato oltremodo educativo scegliere di aderire all’iniziativa coinvolgendo la seconda e la terza liceale del corso B del nostro liceo nel lavoro di ricerca.
Come di consueto l’articolazione del progetto è stata pensata nella
prospettiva inter- e pluridisciplinare prevedendo una serie di percorsi
e di approfondimenti particolari assimilabili ai vari ambiti curriculari
a seconda dei vari indirizzi scolastici e delle esigenze degli insegnanti. Nella fase preparatoria gli Enti di riferimento, già menzionati, hanno previsto un seminario di formazione per gli insegnanti nel mese
di ottobre 2010 della durata di due giorni. Sono stati presentati veri
e propri “itinerari” per cogliere gli aspetti storico-filosofici dello
sviluppo del concetto di responsabilità dal mondo classico a quello
cristiano, dalle elaborazioni teoriche dell’etica moderna fino ai condizionamenti della comunicazione massmediatica, dal rapporto fra
responsabilità e memoria alle particolari soluzioni che sul tema vengono proposte dal nuovo pensiero femminile. Il discorso teorico è
stato collegato alle diverse declinazioni etico-politiche sottese all’ideazione, progettazione e realizzazione delle strutture urbanistiche
ed artistiche della città di Roma. In tal modo è stato possibile cogliere
connessioni tra il pensare e l’operare, ovvero un’indagine capace di
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indicare il contesto storico, sociale, religioso, in cui si sono mossi
intellettuali, artisti, grandi personalità che per il loro spiccato senso
di responsabilità sono diventate figure paradigmatiche, modelli di
riferimento con i quali confrontarsi a maggior ragione nel nostro
tempo.
Quest’anno, come una vera novità, è stata prevista una collaborazione attiva con il teatro Eliseo ed un percorso Virtual Set inserito
nel programma di Technotown, un insieme di esperienze educative
ad alto tasso di tecnologia e innovazione con sede in Villa Torlonia.
Durante lo svolgimento dei lavori seminariali, i relatori hanno
fornito un’ampia documentazione bibliografica, filmati, dossier e
molti contributi adattati con gli strumenti della multimedialità per
diventare utili supporti didattici.
La coordinatrice del progetto e le due insegnanti del corso B che
hanno con lei collaborato, si sono incaricate di raccogliere e riordinare tutta la documentazione acquisita. Si sono poi consultate per scegliere, rispetto al tema centrale, un argomento specifico su cui indirizzare il lavoro di ricerca delle due classi coinvolte nel progetto,
ovvero la II e la III B. Le professoresse hanno ritenuto di dover considerare gli ambiti disciplinari in cui meglio poteva essere inserita
l’analisi del principio di responsabilità per integrare e arricchire di
nuovi contenuti culturali il percorso formativo degli alunni. E ciò è
avvenuto in piena sintonia con gli studenti sulla base di lezioni in
copresenza tenute dalle medesime insegnati nella prima fase, (e poi
continuate per tutto l’anno dalla coordinatrice), non solo per presentare il progetto ma per spiegarne le finalità, le modalità di svolgimento,
i tempi di attuazione anche in orario extra-scolastico. Negli incontri
preliminari sono stati suddivisi i compiti fra gli studenti e stabilite le
varie fasi di monitoraggio dei risultati parziali dell’indagine. Inoltre
tra le varie proposte del Dipartimento e dell’Università di Roma Tre
funzionali a sostenere il lavoro di ricerca, abbiamo scelto, con i
ragazzi, di partecipare ad incontri con professori universitari nella
forma di conferenze e le visite guidate ad alcuni musei e mostre con
la guida del personale specializzato messo a disposizione dal Comune
di Roma.
Gli studenti si sono subito attivati per raccogliere e fotocopiare il
materiale necessario alla ricerca e sono stati indirizzati a consultare
testi nella Biblioteca scolastica e in quelle di altre Biblioteche della
città. Hanno pure capito quanto sia indispensabile un uso intelligente
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di Internet specie per arricchire l’apparato bibliografico ricavabile dai
molteplici documenti forniti dalla Società Filosofica.
Per la classe II B è stato concordato il seguente argomento di ricerca: “Libertà e responsabilità nell’etica degli antichi e dei moderni”.
Partendo dall’accezione semantica del termine responsabilità, gli studenti ne hanno introdotto l’analisi configurando la connessione fra
libertà e responsabilità a partire da alcuni modelli di riferimento:
Abramo che sceglie di ubbidire a Dio, Antigone che sceglie di non
rispettare l’editto di Creonte, Socrate che preferisce morire per non
venir meno alle leggi della città.
La libertà politica e quella personale si intrecciano necessariamente fin dal mondo antico come si riscontra nella Grecia classica
quando si contrappone alla libertà democratica la non libertà della
tirannide e dell’oligarchia come si evince dall’opera di Tucidide dalla
quale gli alunni hanno tratto utili spunti per collegare e individuare
relazioni tra i concetti di libertà e di uguaglianza, di responsabilità
individuale ed etica pubblica dai tardo-sofisti a Platone, ad Aristotele,
anche se presso i greci non esisteva il termine responsabilità ma era
comunque presente tutto l’universo concettuale che lo caratterizza.
Esisteva l’“aitìa” da tradurre non letteralmente come causa ma filosoficamente come imputabilità, la cui migliore esemplificazione è
contenuta nel mito di Er con il quale Platone chiude la “Repubblica”.
Si delinea poi uno spaccato della visione stoica secondo la quale
ognuno è responsabile del proprio destino, inutile sarebbe attribuirne
il peso alla divinità.
Rispetto alla cultura greca, nel modo romano si afferma la concezione secondo la quale non si è liberi o schiavi per natura, ma solo
per legge. E qui il pensiero ciceroniano fornisce ampi riscontri: la
libertà del cittadino, la possibilità stessa di agire come tale è garantita
dalle leggi, dalla saldezza delle istituzioni. Non a caso la “libertas”,
insieme alla “civitas” e alla “familia” rappresentavano i tre valori
fondamentali e qualificanti nell’antica società romana. L’indagine si è
allargata fino alle “Storie” di Sallustio per cogliere il rapporto tra la
res publica e la libertà come valore costitutivo della repubblica. Solo
con il cristianesimo si trascorre dalla libertà politica come presupposto dell’agire etico alla libertà personale. La buona volontà e non più
solo la razionalità assumono un carattere fondante della moralità.
Agostino riconosce l’autonomia della coscienza umana nella scelta
responsabile come desiderio.
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Fare un salto storico di secoli è sicuramente operazione discutibile, ma non impossibile se si cerca, come hanno tentato di fare i
ragazzi, un filo conduttore che riconosca in alcune costanti dell’animo umano le componenti psicologiche dell’agire inserite, peraltro, in
contesti storicamente ordinati.
Così l’indagine si è spostata verso il pensiero moderno a partire
da Hobbes fino a Spinoza e Leibniz, un excursus in cui vengono illustrate nella prospettiva comune del razionalismo soluzioni molto
differenziate circa la soggettività agente in rapporto alla società, allo
stato, alle convinzioni religiose. L’io si configura come identità forte
e consapevole nello stato (Hobbes), si riconosce passionale ed attivo
nel guidare razionalmente il suo sforzo di autoconservazione (Spinoza), si radica in un disegno perfetto come un punto di vista, una monade quasi perfetta, uno specchio di Dio sull’universo (Leibniz). E se
appare repressivo della libertà individuale un ordine costituito attraverso la rinuncia o meglio l’alienazione dei diritti naturali, non meno
problematica risulta la conciliazione tra libertà e necessità in Spinoza
e Leibniz, tema su cui gli alunni hanno animatamente dibattuto traendo conclusioni spesso antitetiche dallo studio delle fonti. In ultimo:
“quale nuova etica della responsabilità è pensabile?”.
H. Jonas afferma un principio: agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra. Da qui si parte per ascoltare più che
soltanto leggere alcune voci significative del nostro tempo. Jonas
costruisce un percorso filosofico-religioso in cui l’oscuramento della
coscienza che ha prodotto lo sterminio degli ebrei non diventa elemento di accusa a un Dio non Onnipotente, ma paradossalmente
dimostra la non onnipotenza del Male se ancora dopo Auschwitz
esistono i giusti, se hanno continuato ad esistere giusti anche durante
quell’immensa notte dell’umanità.
L’analisi del dualismo etico proprio di M. Weber consente di intersecare nuovamente la sfera pubblica e quella privata dell’agire umano. Senza assumere principi assoluti, l’etica della responsabilità deve
portare l’uomo a rendersi conto delle conseguenze del suo agire, essa,
a differenza di un’etica dei principi è sempre connessa alla politica,
proprio perché non perde mai di vista le conseguenze dell’azione.
Anche l’“uomo economico”, colui che persegue l’utile non può
sottrarsi all’imperativo etico, come ben dimostra l’economista indiano A. Sen il quale si pone il problema delle motivazioni che guidano
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l’essere umano per raggiungere gli scopi che si prefigge. Il successo
del libero mercato non rivela la natura delle motivazioni soggiacenti
all’azione economica. Contro un tipo di economia predittiva legata
all’efficienza, alla formulazione di previsioni precise sull’andamento
futuro delle Borse, Sen rivaluta un’economia del benessere che può
dirsi tale se in essa si reinseriscono considerazioni etiche in modo che
il vantaggio della persona consista non tanto nei risultati raggiunti
ma sia misurato in termini di libertà, di diritti, di valori conseguiti e
condivisi.
Il riferimento all’ultimo ventennio del ‘900 ed in particolare agli
studi nel campo della genetica e della bioetica chiude questo lavoro
con una serie di interrogativi sui quali gli studenti continueranno ad
interrogarsi per lungo tempo.
Questo piccolo Saggio è stato presentato ed esposto nella forma
del Dossier nella Sala dell’Acquario Romano alla presenza dell’assessore alle politiche scolastiche del comune di Roma, dottor De Palo,
della presidente della Società Filosofica, prof.ssa M.T. Pansera, di
tutto lo staff di cui si sono avvalsi gli Enti di riferimento già menzionati. Gli alunni hanno inoltre presentato il loro lavoro con una performance dal titolo: “la difficoltà di scegliere” in cui hanno inserito brani
cantati e recitati. Gli studenti hanno poi ricevuto l’Attestato di Merito
con i complimenti di tutti i promotori dell’iniziativa.
Per la classe III B l’argomento specifico tratto dal nucleo tematico
centrale della ricerca è stato individuato col seguente titolo: “Essere e
dover essere: aldilà della morale dell’intenzione”.
Questa scelta è stata anche motivata per la possibilità che l’argomento offre di compiere un approfondimento dei temi curriculari del
terzo anno con una estensione alla letteratura e alla filosofia contemporanea.
Gli alunni, che già nello scorso anno si erano cimentati in un
lavoro di questo tipo, si sono organizzati nei gruppi di lavoro utilizzando fin dall’inizio la documentazione loro fornita dalle insegnanti e
dagli Enti di riferimento. Ben consapevoli della necessità di contemperare lo studio delle fonti, la loro comparazione e la storiografia
aggiornata su di esse, hanno frequentato biblioteche e librerie con una
certa destrezza.
Partendo dalla precisazione riguardo l’ambito etico e quello morale ci si è subito trovati di fronte al problema delle motivazioni dell’agire umano e della varietà degli approcci ad esso da parte di filo– 159 –
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sofi e intellettuali fin dall’antichità quando, in linea di massima, l’individuale era immediatamente universale: il momento culminante
dell’etica era come l’atto di comunicazione dell’elaborazione soggettiva che permetteva al singolo di diventare effettivamente operante
nella comunità. Nel mondo attuale spicca la distanza tra la responsabilità individuale ed il senso comune delle cose e dell’agire così come
vengono prodotti attraverso i mezzi massmediatici di cui dispone la
società globalizzata.
Diventa, perciò più urgente riappropriarsi del desiderio di leggere ed attualizzare quei pensieri “forti” da cui ricavare risposte agli
interrogativi eterni sull’identità del soggetto, sul corpo che muta, sulla
memoria, che poi significa chiarirsi le idee sulla domanda essenziale:
siamo agenti liberi o agenti naturali, determinati ad essere e diventare
ciò che siamo a prescindere da volontà e coscienza?
Jonas considera la paura come lo stato d’animo che spinge alla
ricerca. Se si conosce la paura, si comprende il pericolo e allora si ha
coscienza di ciò da cui bisogna difendersi, di ciò che occorre evitare.
Il Bene come dover essere è l’idea da salvare perché prima ancora di
salvare l’uomo è necessario salvare l’idea di uomo.
Rispetto a questi assunti l’uomo politico weberiano spezza le
catene teoriche e si cala nel vissuto per fare tutto ciò che è in suo
potere per realizzare gli scopi che si è prefissato. La forma dell’agire
politico implica una decisione che è anche rischio, le conseguenze
non sono del tutto prevedibili, ma devono essere calcolate in modo
che il fine sia perseguito sulla base dei valori assunti e difesi soggettivamente: la responsabilità è sempre individuale.
E qui ritorna il vecchio Kant: la morale si basa sull’uomo, sulla
sua dignità di essere razionale finito, essa è del tutto autonoma, non
prevede moventi esterni o interni di alcuna natura cui dovrebbe adeguarsi la nostra condotta. La purezza dell’imperativo etico è tale da
rendere l’uomo legislatore di se stesso, partecipe di un regno soprasensibile dei fini di cui egli è di fatto legislatore e suddito, del tutto
libero rispetto al determinismo naturale del mondo sensibile. La morale implica una totale interiore adesione della volontà al comando
della ragione: non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si
fa, essendo la “volontà buona” quella che ubbidisce alla ragione: tra
la volontà e la legge il rapporto è “di dipendenza”, ovvero di vera e
propria obbligazione. Il reale separato dal razionale appare ad Hegel
come una chimera, una fantasticheria vuota. La morale deve avere
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un oggetto, non può rimanere un vagheggiamento astratto, una semplice intenzione soggettiva. Il suo contenuto universale è il Bene.
Dunque l’impostazione kantiana aprirebbe per il grande architetto
dell’idealismo tedesco, un processo all’infinito dove l’intenzione
sarebbe contrapposta alla realizzazione, la volontà al bene, l’essere al
dover essere.
La “verità” della morale è dunque l’eticità, ovvero quella sfera in
cui si compie l’unificazione fra soggettività ed oggettività, fra individuale ed universale.
Queste analisi hanno consentito agli studenti di apprezzare aldilà
della formulazione manualistica una discussione fra gli studiosi che
a distanza continua anche ai nostri giorni, come si può vedere nella
seconda e terza parte del lavoro di ricerca.
L’accento sulla riflessione di Habermas che contempla le differenze tra il mondo oggettivo degli eventi, quello sociale delle norme
ed il mondo soggettivo dei dialoganti serve a ridefinire i confini dell’etica giacché il filosofo francofortese distingue sulla base dei tre
mondi le varie forme dell’agire umano: teleologico, regolato da norme, strategico. In tale universo pluralistico, gli studenti hanno inserito un breve excursus sulle “risposte” del pensiero femminile al tema
etico, da H. Arendt, ad A. Cavarero a C. Gilligan a F. Brezzi. Si è
notato che nel pensiero femminile l’approccio alle questioni etiche
privilegia la comunità rispetto all’individuo. C’è l’esigenza di mettere
in relazione, di stabilire rapporti oltre le differenze, specie quelle di
tipo sessuale. E se l’etica della cura secondo la linea della Cavarero
non ha sortito grande entusiasmo, molto più forte si è rivelato l’impatto con il tema del male e il “pensare senza ringhiera” di H. Arendt.
Nell’ultima parte dell’indagine si è tentata una sorta di ricostruzione del soggetto agente come riappropriazione progressiva del
senso delle cose e della vita.
Qui la dimensione dell’uomo contemporaneo dimidiato tra l’essere e il nulla viene riletta attraverso la produzione letteraria del
Decadentismo e delle sue voci più significative nella cultura italiana
ed europea. In particolare il teatro di Pirandello in cui più emblematica è la disgregazione dell’io, il conflitto fra realtà e apparenza, la
faticosa accettazione dell’“assurdità” della condizione umana.
Il soggetto è comunque teso verso uno sbocco, verso una direzione, cerca di darsi un volto. E ciò avviene pure nelle ultime espressioni
di un pensiero filosofico oscillante fra il recupero di una soggettività
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forte e fondante ed un essere che vaga nelle nebbie del nichilismo. Da
Natoli a Garimberti a stranieri come C. Taylor Z. Bauman, A. Giddens
il problema di ricomporre la lacerazione del soggetto, di ridisegnare un
mondo di valori condivisi, di ricostruire il senso di responsabilità si è
posto all’attenzione degli studenti con argomentazioni che essi hanno
avvertito così vicine alla loro sensibilità, tanto da esserne veramente
affascinati e coinvolti.
Questo breve saggio è stato presentato ed esposto nella forma del
Dossier presso la Sala dell’Acquario Romano. I ragazzi si sono impegnati in una performance dal titolo: “la difficoltà di scegliere” in
cui hanno alternato brani recitati, canzoni e musica, quasi a testimoniare la varietà delle forme in cui può essere espresso il nostro mondo
interiore. Tutte le autorità presenti, dall’Assessore, ai professori dell’Università Roma Tre, alla presidente della Società Filosofica, ai
giornalisti Rai si sono complimentati con i ragazzi che hanno poi ricevuto l’Attestato di merito per aver partecipato al progetto con risultati
concreti di studio e di creatività.
Prof.ssa Licia Fierro
Coordinatrice
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LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Libertà e responsabilità nell’etica
degli antichi e dei moderni
- Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare -
(anno scolastico 2010-2011)
Classe II B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro
Collaboratrice:Prof.ssa Alda Giannì
GLI ALUNNI:
Andrea Antonioli - Laura Baldini - Eleonora Benedetti - Daniele Benvenuti
Eugenia Ciaravolo - Goffredo Colini - Alice della Corte - Alessandra Iannarelli
Ilaria Marinelli - Chiara Pauzano - Chiara Peciccia - Edoardo Pugliese
Daniele Razzicchia - Alessandro Sacchetti - Irene Tavolucci -Valeria Termolino
INDICE
Introduzione
CAPITOLO I
Il concetto di libertà presso i Greci e i Romani:
l’etica della polis greca e dell’urbs romana
CAPITOLO II
La ricodificazione dell’etica tra rivendicazione della libertà e “repressione”
nel pensiero moderno
CAPITOLO III
Quale nuova etica della responsabilità è pensabile?
Bibliografia
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INTRODUZIONE
Essere responsabili vuol dire letteralmente essere capaci di rispondere in maniera “abile”, appropriata a qualsiasi evento (dal latino
spondeo e respondeo rispettivamente prometto e rispondo, quindi,
tradotto alla lettera, io mi obbligo a rispondere). Responsabile non
significa colpevole, ma capace di in maniera efficace.
Essere responsabili significa scegliere i propri pensieri, le proprie
azioni, e non vivere in balia degli eventi, lasciando che il proprio stato
d’animo sia determinato da fattori esterni, o che alibi, scuse e giustificazioni ci impediscano di agire.
La responsabilità può essere definita come la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo
stesso sulla base di tale previsione.
Si tratta di un concetto centrale nella filosofia morale, nel diritto,
nelle scienze sociali in genere e perfino nel linguaggio aziendale corrente, campi nei quali il termine assume significati specifici.
Con il nostro lavoro ci siamo proposti di analizzare l’evoluzione
del concetto di responsabilità legato a quelli di etica e di libertà partendo dall’età classica per arrivare ai giorni nostri.
La responsabilità presuppone una situazione di libertà, in cui la persona può scegliere quale comportamento tenere: Abramo scelse di ubbidire a Dio, Antigone di non rispettare l’editto di Creonte in nome del
legame di sangue e di regole fondate sul volere degli dei, Socrate di non
fuggire la morte, confermando fino all’ultimo di essere cittadino ateniese.
Nella civiltà greca il concetto di libertà era riservato principalmente alla politica e alla religione; ad analizzarlo in modo particolare furono gli stoici, con la loro dottrina del determinismo, secondo il
quale nessun uomo è in grado di uscire dall’ordine necessario nel
quale siamo tutti inseriti. La libertà è una condizione fisica, strutturale del nostro cervello: per essere liberi bisogna raggiungere la condizione del saggio che sintonizza se stesso rispetto al tutto raggiungendo la conoscenza totale. Solo chi conosce tutto può prevedere ciò che
accadrà anche se non può cambiarlo.
Pur nell’ambito di un’autorità vincolante dello stato, il pensiero
antico greco-romano lasciava spazio alla libertà del cittadino che
godeva dei diritti civili da cui erano esclusi invece i sudditi degli stati
assolutistici orientali sottoposti al potere incondizionato del monarca
o del tiranno.
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In questo senso gli unici a non godere della libertà erano coloro
che in condizione di schiavitù personale o politica erano ritenuti non
del tutto umani.
La teologia cristiana modificò ampiamente la concezione classica della libertà rapportandola non più alla libertà politica e alla libertà
personale ma contrapponendola a quella schiavitù interiore derivante
dal peccato originale di Adamo.
La buona volontà, e non più la razionalità, è quella che origina la
libertà, che non è possibile esercitare senza l’intervento divino procacciatore della grazia, mezzo essenziale di liberazione dell’uomo.
Nella prospettiva razionalistica, Cartesio definisce la libertà come impegnativa scelta concreta di cercare la verità tramite il dubbio.
La concezione empirista porta invece Hobbes a contrapporre al
pensiero cartesiano la concezione della libertà come «assenza di ogni
impedimento al moto»1 per cui ognuno «gode di una maggiore o minore libertà secondo l’ampiezza dello spazio di cui dispone per muoversi»: la libertà non è dunque altro che avere la possibilità di agire
senza alcun ostacolo materiale. Tesi questa ripresa da John Locke e
David Hume.
In contrasto con queste concezioni empiristiche della libertà,
Leibniz osservava che «quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa far ciò che
vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza».2
Spinoza da parte sua, riprendendo temi stoici e neoplatonici concepisce l’uomo come un “modo” (modo di essere, un’espressione
contingente) della sostanza unica e se egli vuole essere libero deve
convincersi della sua assoluta limitazione, negare tutto ciò che lo allontana da questa persuasione, mettere da parte ogni desiderio e passionalità ed accettare di far parte di quella essenziale identificazione
di Deus sive Natura, per cui la libertà dell’uomo non è altro che la
capacità di accettare la legge della necessità che domina l’universo.
Tenendo conto di questa visione spinoziana, Leibniz accetta
l’idea della libertà come semplice autonomia dell’uomo, accettazione
di una legge che egli stesso riconosce come tale, ma nel contempo
vuole mantenere la concezione cristiana della libertà individuale e
della conseguente responsabilità. Infine nell’età contemporanea il
1
2
Hobbes, De cive, IX, 9.
Leibniz, Nuovi saggi, II, 21.
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progresso dei saperi e delle tecnologie ha comportato una modificazione delle concezioni etiche. L’etica privata è stata regolata per diciotto secoli, a partire dal tardo Impero Romano, attorno alla centralità del nucleo familiare, ma ora le tecniche di riproduzione assistita
stanno scardinando il presunto significato naturale della famiglia, e
stanno consegnando alla responsabilità e all’inventiva degli individui
i modi in cui far nascere e crescere i figli. Così il senso della morte ha
subito una forte modificazione: il suo significato intuitivo, come la fine della vita fisica e spirituale, si sta scomponendo. La possibilità di
tenere in vita persone con malattie degenerative gravi produce il fenomeno della morte a rate, e mette in luce la labilità della nostra nozione di identità personale, come un concetto chiaro e univoco. Nell’etica pubblica assistiamo ad analoghe trasformazioni naturali. Il senso del giusto deve tenere conto della nostra accresciuta conoscenza,
delle conseguenze delle azioni. Le generazioni future non sono più
solo le possibili custodi della nostra memoria, ma sono entrate in conflitto con noi. Sono portatrici di interessi e ci chiedono di modificare
la percezione della moralità della nostra condotta in campi come la
demografia, l’inquinamento e il patrimonio genetico. Le nostre responsabilità morali sono diventate più difficili e incerte. In molti casi
l’illusione dell’assolutismo etico è ancora più insensata. Tuttavia resta
forte negli individui il bisogno di certezze, attorno cui far scorrere le
proprie esistenze. Per concludere ci sembra pertinente al tema trattato una citazione del politico e docente italiano di medicina Giovanni
Berlinguer:
“... La responsabilità è un dovere umano tipico dei nostri tempi.
Un po’ richiama l’insegnamento cristiano, ama il prossimo tuo come
te stesso, e un po’ l’insegnamento di Immanuel Kant, considera
sempre l’uomo non come mezzo ma come fine. Questi principi sono
sicuramente validi ancora oggi. La differenza è che noi dobbiamo
riflettere non più in termini di “prossimo” o di singoli esseri umani,
ma nei termini dell’impatto che hanno le conoscenze e le applicazioni
della tecnica nello spazio, nonché nel tempo vicini a noi...”.
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CAPITOLO I
IL CONCETTO DI LIBERTÀ PRESSO I GRECI E I ROMANI:
L’ETICA DELLA POLIS GRECA E DELL’URBS ROMANA
Il concetto che abbiamo noi oggi di libertà risale alla libertas
romana e all’eleutherìa greca. Anche se i due termini appaiono
profondamente diversi, la radice indoeuropea è la medesima e si
ritrova nella parola “leud”, termine sanscrito che significa “elevazione”
e che ha a che fare con il popolo: quindi la condizione di liber o di
elèutheros ha a che fare col popolo.3
La “non libertà” era tutto ciò che non apparteneva al popolo e, di
conseguenza, alla città. Ed è proprio questo che ha sempre differenziato il cittadino greco e poi quello romano dal barbaro, è proprio quest’appartenenza che lo indica come cittadino della polis/urbs. È perciò
necessario per comprendere appieno il significato della libertas latina
e dell’eleutherìa greca inserire questi concetti nel loro particolare
contesto storico.
In Grecia l’eleutherìa nasce su un terreno prettamente politico: è
durante le guerre persiane (499 a. Cr. - 479 a. Cr.) che si esprime
compiutamente la profonda aspirazione alla libertà del popolo greco,
il quale si coalizza per far fronte alla comune minaccia di un’invasione
persiana. Infatti per tutte le stirpi greche il bene supremo è la libertà,
un grande traguardo raggiunto dalle diverse poleis in seguito ad una
lunga evoluzione.
A riguardo si osserva che “dal punto di vista politico e ideale, la
polis nasce alla vigilia delle guerre persiane, e si rafforza con esse,
con l’acquisita coscienza di questa autonomia e di questa eleutherìa,
che diventa coscienza, da parte dell’uomo greco, di una differenza
essenziale fra lui e il barbaro, di una differenza che non è sentita,
come più tardi nel IV secolo, sul piano etnico e razziale, ma, come appunto nei Persiani di Eschilo4 e in Erodoto, su quello profondo delle
concezioni di vita, fra l’uomo libero e l’uomo servo, fra il cittadino e
3
Il Prof. Moreno Morani, docente di Glottologia presso l’Università degli Studi di
Genova e presidente del comitato scientifico di Zetesis, ha sostenuto questa tesi durante un
incontro alla sala Neri.
4
Eschilo, I Persiani, traduzione a cura di L. Belloni, Vita e Pensiero.
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il suddito”.5 Circa la tragedia eschilea “I Persiani”, rappresentata per
la prima volta ad Atene nel 472 a. Cr. l’autore riporta la testimonianza del concetto di libertà per gli antichi greci attraverso le parole, o
meglio il grido, del popolo ateniese (siamo durante la battaglia di Salamina, i Persiani vengono sconfitti grazie all’inganno di un disertore
che li spinge nello stretto braccio di mare dove li attendeva la flotta
greca): «O figli d’Èllade, movete, orsú, liberate la patria, le spose, i
figli liberate, e l’are dei Numi patrî, e l’arche dei nostri avoli!».
Nello specifico, gli ateniesi hanno una spiccata sensibilità statale
e disposizione al sacrificio ma per loro non è tollerabile trascorrere
la vita soggetti alla coercizione dello stato. Inoltre ad Atene la sfera
privata è separata dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare qualsiasi
ingerenza e di lasciare ad ogni cittadino la possibilità di strutturare
liberamente la propria vita. E tutto ciò è possibile solo all’interno di
una democrazia, di cui le poleis greche costituiscono il primo esempio. Il simbolo più rappresentativo di questa democrazia per gli ateniesi è l’invito dell’araldo che, durante le assemblee, è solito chiedere
se qualcuno desideri prendere la parola.
A questo punto bisogna chiedersi: che rapporto c’è tra libertà e
democrazia? Sono identificabili tra di loro o sono in antitesi?
Dalle opere dello storico Tucidide emerge un nesso contemporaneamente di identità e contraddizione tra i due concetti. Il Pericle tucidideo,
descrivendo il sistema politico ateniese, pone una contrapposizione tra
democrazia e libertà. La democrazia, in realtà, sembra far prevalere la
parte violenta del demo, tanto da assumere le caratteristiche proprie della tirannide, prima fra tutte la rivendicazione da parte del popolo del diritto di essere al disopra della legge, rivendicazione questa che è propria
del tiranno. Per altro, nel linguaggio politico ateniese si afferma anche
il ben diverso concetto che colloca da un lato la democrazia e la libertà
e, dall’altro, l’oligarchia e la tirannide. Lo stesso Tucidide, quando esamina il significato e le conseguenze del colpo di stato oligarchico del
411, evidenzia che gli oligarchi hanno “tolto al popolo di Atene la libertà
cento anni dopo la cacciata dei tiranni”. Il che significa contrapporre,
alla libertà democratica, la non libertà della tirannide e dell’oligarchia.
Verosimilmente tali contrastanti teorizzazioni della democrazia sono
connesse con il fatto che, in concreto, la democrazia, nella Grecia classica, è sorta da un compromesso tra popolo e signori ai quali il popolo
5
M. Sordi, Storia politica del mondo greco, Vita e Pensiero, Milano, 1982, p. 45.
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affida il governo della città democratica, signori che ritengono tale
regime accettabile perché depurato da ogni residuo tirannico.
Secondo il pensiero di Platone, invece, “quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che
gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che,
se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi,
sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato
nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo;
che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e
non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e
costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti,
le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo
severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome
della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale
licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”.6
Senza la concezione periclea di libertà e uguaglianza sarebbe inconcepibile il liberalismo moderno, che però nasce da una mentalità
individualistica, mentre per Pericle l’individuo deve essere socialmente libero, ma allo stesso tempo si deve inserire all’interno del “regime di un soggetto politico collettivo” (quindi anti-individualistico),
qual è la democrazia. Il modello della democrazia ateniese viene
esemplificato dalle stesse parole di Pericle nelle “Storie” di Tucidide
dove il politico, durante un discorso commemorativo che accompagnava la sepoltura dei morti del primo anno di guerra, enumera con
fierezza i valori su cui essa si regge, i motivi di orgoglio, i punti di
forza che hanno fatto di Atene una grandiosa potenza: “Utilizziamo
infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d’esempio per
qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si
governa nell’interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia
[...] viviamo liberamente come cittadini nell’occuparci degli affari
pubblici e nei confronti del sospetto che sorge nei confronti l’uno dell’altro dalle attività quotidiane, non adirandoci con il nostro vicino, se
fa qualcosa per proprio piacere, né infliggendo umiliazioni, non dannose ma penose a vedersi”.7 Lo stato ha la priorità perché è la sola
Platone, La Repubblica, a cura di Sartori F., Laterza, libro VIII, 23-25.
Tucidide, Storie, traduzione a cura di Ezio Savino, Garzanti - I grandi libri, 1992,
libro II, 37-39.
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comunità di formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal
benessere della quale dipende quello del singolo. Di conseguenza
l’individuo può usufruire della sua libertà subordinatamente agli interessi della società: Pericle afferma che “trattando le faccende private,
dunque, senza offenderci, a maggior ragione, per timore, non commettiamo illegalità nelle faccende pubbliche”.8 Il timore di cui parla
lo statista ateniese è un timore etico: è paura di violare i limiti che i
doveri verso la società impongono alla libertà individuale. A tal
proposito possiamo riportare il pensiero di Aristotele: “una prova della libertà consiste nell’essere governati e nel governare a turno... un
altro è di vivere ciascuno come vuole, perché questo, dicono, è opera
della libertà; in quanto che è proprio di chi è schiavo vivere come non
vuole”.9
Nello stesso periodo si va affermando la teoria che il giusto e
l’immorale si fondano su convenzioni e non provengono dalla natura;
anche lo stato viene investito da questa concezione. Il sofista Antifonte dichiara che le leggi sono una limitazione alla natura umana
dalla quale l’individuo è spinto a perseguire i propri interessi: viene
così abolito il limite posto dalle leggi sociali e dall’etica alla libertà
individuale. Contemporaneamente si fa largo la tendenza a considerare la stato un’associazione di deboli contro il diritto naturale dei più
forti. Dunque nella mentalità greca avviene un cambiamento che porta l’individuo a sentirsi parte non più di un tutto – lo stato – a cui sia
legato indissolubilmente, ma comprimario dei suoi diritti di fronte allo stesso. Si assiste dunque nel IV secolo all’emergere di un egoismo
individuale e di classe che prende il sopravvento su una sensibilità
politica che guarda soprattutto alla collettività. Ciò comporta il passaggio del concetto di libertà dall’ambito del popolo, della collettività
a quello dell’uomo, per cui si distingue una natura (physis) ed una
legge (nòmos): si è liberi o schiavi per natura, non per legge.
In ogni caso gli studiosi contemporanei non hanno analizzato
esclusivamente il concetto di libertà ma hanno preso in considerazione, insieme ad esso, anche tutto ciò che gli si può riferire, come la
responsabilità. Bisogna però sottolineare che presso i greci non esisteva il termine responsabilità ma era comunque presente tutto l’uniTuc., op. cit.
Aristotele, Politica VI, Opere filosofiche vol. 2, Politica e Costituzione di Atene
(a cura di C.A. Viano), Utet, Torino, 1974.
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verso concettuale che lo caratterizza. Esisteva dunque l’“aitìa”, da
tradurre non letteralmente come “causa” ma filosoficamente come
“imputabilità”, la cui migliore esemplificazione viene data nel “mito
di Er” con il quale Platone chiude “la Repubblica”.
Una delle migliori riletture critiche della “Repubblica” è quella
scritta da Adorno, il quale asserisce che quella di Platone è anche
un’opera filosofica o fondativa e non semplicemente letteraria o
descrittiva: essa indaga le condizioni formali di un possibile Stato
giusto [...].10
Nel mito il filosofo presenta la tesi, secondo la quale la sorte dell’uomo dipende da una scelta precedentemente compiuta nel mondo
delle idee (“ognuno è responsabile del proprio destino, la divinità non
ne è responsabile”11). Questa scelta, comporta che l’imputabilità sia
solo dell’uomo, una volta fatta non può essere cambiata. Si può
quindi asserire che presso i greci c’era un concetto ambiguo di libertà:
infatti non era concepibile che ognuno fosse completamente libero
nelle sue scelte. Lo dimostra il fatto che la libertà per Platone non
comporta un assoluto arbitrio individuale, ma una coerenza e conformità a quegli ideali il più possibile omogenei alle forme di bellezza,
di giustizia, di bontà quali richiede una società perfettibile.
Questa posizione è portata all’estremo con il “determinismo”
stoico: esiste un’“infinita series causarum”, ossia ciascuno di noi ha
un copione che non può essere cambiato, di conseguenza non c’è
nemmeno il riconoscimento di una qualsiasi responsabilità dell’uomo
rispetto alla “series causarum”. L’unica cosa che gli uomini possono
fare è accettare il destino che è stato loro prefissato senza alcuna possibilità di sfuggirgli. Spinelli sostiene addirittura che nessuno stoico
abbia mai ritenuto che si potesse fare qualcosa che fosse in più o almeno un po’ diverso rispetto all’ordine necessario ed universale del
Logos, che governa il cosmo. In altri termini, la libertà, per questi
filosofi, consiste nell’essere causa di sé o dei propri atti o movimenti.
Per indicare tale libertà i greci coniarono il termine “autopraghìa”
(autodeterminazione), attribuendola solo ai sapienti, poiché solo questi ultimi venivano ritenuti liberi in quanto capaci di determinarsi da
sé. Soltanto il sapiente può essere veramente libero, in quanto si
Platone, La Repubblica, a cura di F. Adorno, in Tutti i dialoghi, Utet, Torino 1988.
Platone, De Republica, a cura di Franco Sartori, in Opere complete, vol. 6, Laterza,
Bari 1980.
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conforma al destino, e solamente lui può essere felice in quanto ha in
sé tutto quanto gli occorre per vivere virtuosamente.
In questo contesto si pone in contrasto la concezione romana, per
la quale non si è liberi o schiavi per natura, ma per legge. Nel suo senso più generale, che può essere allo tempo stesso negativo e positivo,
il termine “libertas” può essere inteso come “assenza di impedimenti” o “possibilità di fare ciò che si vuole”; ma esso può anche assumere, a seconda del contesto, una assai più vasta estensione a livello
etimologico del termine.
Solitamente la parola “libertas” è messa in relazione con la struttura della società antica. In opposizione all’idea di schiavitù essa designa la qualità di “uomo libero”: posseduta per nascita o acquisita
per emancipazione (in uno dei tre modi previsti della legge) la “libertas” non può essere dissociata dalla “civitas”, o diritto di cittadinanza, che rappresenta il suo correlativo. “Come si può infatti essere libero in virtù del diritto dei Quiriti, senza appartenere al numero dei
Quiriti?”12 – declama Cicerone. Infatti la libertà del cittadino, garantita dall’insieme delle istituzioni repubblicane, dipende strettamente,
per diventare effettiva, dal regime politico che le è congeniale. Essa
esige che le leggi si sostituiscano all’arbitrio del potere e alla violenza. D’altra parte queste leggi devono anche porre dei limiti alle libertà individuali, al fine di rendere possibile la coesistenza di queste
libertà e del bene comune. Ma soprattutto lo stato deve essere in grado, attraverso il suo ordinamento giuridico, di difendersi dalla stessa
libertà dei singoli cittadini, quando il comportamento di questi lo richiede, ricorrendo anche alla sospensione dei loro diritti, se necessario. Si può dire che il conflitto tra i due tipi di libertà, quella politica
e personale, è onnipresente nella storia: in effetti, secondo Aristotele,
il cittadino non è definito altro che dalla partecipazione alle funzioni
giuridiche e alle cariche: ma accanto a questa libertà politica egli stesso ha riconosciuto la libertà personale, individuale, come elemento
essenziale per qualificare l’individuo.
E questo medesimo contenuto lo ritroviamo nella realtà storica
romana, nella quale ogni manifestazione di questa libertà personale
può essere considerata esercizio di un diritto. Si tratta insomma di un
processo “antinomico” di adattamento alle condizioni sociali, deri12
Cicerone, De oratione, I, 182, per la discussione giuridica cf. E. Ciaceri, Cicerone
e i suoi tempi, p. 97.
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vante dal rapporto tra esigenze di libertà ed esigenze di uguaglianza;
un processo storico che anche a Roma dà alla libertà un’estensione ed
un contenuto giuridici diversi, secondo la classe sociale e la categoria
a cui appartengono gli individui, classe e categoria per le quali è d’altronde assicurata una larga mobilità.
Appare evidente che, presso i romani, la libertà personale è quasi
un lusso: infatti un soggetto non nasce necessariamente libero e, pur
quando goda di una simile fortuna, può perdere lo status libertatis.
Non a caso la “libertas”, insieme alla “civitas” e alla “familia”,
rappresentava uno dei tre valori qualificanti della persona nell’antica
società romana. Basti pensare che tra gli dei della mitologia romana si
distingueva la dea della Libertà, che rappresentava simbolicamente la
libertà personale di ognuno e, successivamente, il diritto riservato a
coloro che godevano della cittadinanza romana (a questa divinità i romani avevano innalzato due templi: nel Foro e nell’Aventino).
Inoltre, a prescindere da altre importanti prospettive (politiche,
economiche ecc), la libertà fu intesa a Roma anche come valore equivalente a quello moderno di capacità giuridica. Il presupposto perché
una persona fisica potesse considerarsi punto di riferimento di situazioni giuridiche era ovviamente la sua esistenza, anche se essa non era
comunque sufficiente nella Roma antica, a differenza di quanto avviene negli ordinamenti giuridici moderni. Difatti, fin dall’epoca arcaica,
soltanto i soggetti che si trovassero in particolari situazioni rispetto ai
gruppi sociali di appartenenza potevano essere titolari di diritti e di
obblighi, avere cioè capacità giuridica. Nell’ordinamento giuridico
romano si prevedeva anche che alcune categorie di persone, pur possedendo capacità giuridica, non potessero operare direttamente. Alle
origini, la piena capacità giuridica spettava soltanto alle persone libere appartenenti alla comunità romana, che fossero “sui iuris”, ossia
non soggette all’altrui potere familiare. La posizione di un soggetto
rispetto ad un dato gruppo sociale veniva chiamato status, distinguendosi poi in “status libertatis”, “status civilitatis” e “status familiae”. In
particolare, lo “status civitatis” ha inizialmente un’importanza fondamentale, perché solo il “civis” ha la piena capacità giuridica.
A Roma, dunque, i diritti di qualsiasi natura ed estensione vengono attribuiti dall’ordinamento giuridico proprio in funzione di questo particolare status.
Questo rapporto tra libertà e status giuridico emerge con tutta
chiarezza in Cicerone, l’autore più celebre della tradizione latina non
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solo sotto il profilo letterario, ma anche sotto quello storico-culturale
in quanto operò una sintesi equilibrata della cultura romana arcaica e
del pensiero filosofico greco. Egli afferma in una lettera al fratello
Quinto che “non vi è repubblica, non vi sono più tribunali”:13 appare
evidente che nella visione ciceroniana il concetto di tribunale si identifica con quello di repubblica in quanto i tribunali esprimono l’uguaglianza del popolo di fronte alla legge.
Cicerone può essere considerato senza dubbio come il più grande difensore latino della libertà: Leopardi definì le orazioni Filippiche, che gli procurarono l’odio di Antonio e la conseguente morte il
7 dicembre del 43 a. Cr., “l’ultimo monumento della libertà antica”.
Infatti in un passo dell’orazione sottolinea l’impossibilità da parte del
popolo romano di tollerare la schiavitù: “Non è lecito servire per il
popolo romano, che gli dei immortali vollero che comandasse tutti
i popoli. La situazione è giunta all’estremo pericolo: si decide della
libertà. O vi impegnerete a vincere, Quiriti, cosa che di certo raggiungerete sia con la vostra devozione sia con tanta concordia, oppure qualsiasi altra cosa piuttosto che la schiavitù. Altri popoli possono
tollerare la schiavitù, ma la libertà è un possesso inalienabile del
popolo romano”.14
Secondo la tesi del filologo e storico dell’antichità Luciano
Canfora, Cicerone con queste parole intendeva proporre una nozione
di “libertas” non universale ma corrispondente al privilegio di alcuni,
strenuamente difeso contro le rivendicazioni di libertà di quello che
Canfora chiama “il genere umano di seconda classe”.15
Cicerone si distingue nella storia romana grazie all’eclettismo
della sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, all’interno della quale il tema
della libertà ha un ruolo centrale: basti pensare all’ideale politico che
lo animò durante la sua carica di console, ossia l’amore per la libertà
(nonostante fosse concepita secondo gli schemi oramai antiquati del
partito degli optimates). Nella sua visione esistono diverse sfere di
libertà che corrispondono ai differenti ambiti del sapere e della vita
umana. Per quanto riguarda l’ambito etico egli, ispirandosi allo stoicismo di Panezio, elogia la libertà delle passioni, “per la quale gli
Cicerone, Ad Quintum fratrem, libro III, 5, 4.
Cicerone, Philippicae (Orationes), libro VI, 18,19.
15
Luciano Canfora, Manifesto della libertà, Sellerio editore, Palermo, 1994, pp.35-37.
13
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uomini magnanimi devono lottare in ogni modo”;16 questa libertà, che
permette all’uomo di elevarsi al di sopra delle bassezze e dei desideri che lo accomunano alle bestie, deve essere perseguita dall’uomo
politico, perché è la sola cosa che sia in grado di procurargli la gloria.
Nell’ambito politico, invece, la libertà, che risiede nel popolo, è,
secondo Cicerone, uno degli elementi costitutivi della “res publica”
insieme alla “potestas” dei consoli e all’“auctoritas” del Senato. Egli
infatti definisce il tribunato della plebe e l’istituto della “provocatio”
(che consente al cittadino di appellarsi al popolo) “garanti e difensori
della libertà”.
La sua opera politica più importante è il “De Republica”, un dialogo in sei libri che si presenta fin dal titolo ispirato alla Repubblica di
Platone e nel quale, alla luce proprio del pensiero filosofico greco, Cicerone discute i problemi riguardanti l’organizzazione dello Stato, la
miglior forma di governo e le istituzioni politiche romane. Scipione,
protagonista del dialogo e proiezione degli ideali e delle aspirazioni
di Cicerone, nel I libro dà la sua definizione dello Stato: esso è “res
populi”, cosa del popolo, mentre il popolo viene definito “l’aggregazione di un gruppo di persone unite da un’osservanza dello stesso
diritto e degli stessi interessi”.17 Dopo aver presentato e discusso le tre
forme di governo, monarchia, aristocrazia e democrazia, e le loro
rispettive degenerazioni, tirannide, oligarchia e demagogia, Scipione
afferma che la migliore forma di governo è quella “mista”, in quanto è
la sola che possa assicurare il perfetto equilibrio di poteri che garantisce la stabilità dello Stato. Esempio eccellente di tale forma mista è la
costituzione romana dove, oltre ad esserci un’equilibrata divisione del
potere, i cittadini si trovano in una condizione di uguaglianza. Infatti
“solo in quello Stato in cui il popolo ha il sommo potere sussiste la
vera libertà, di cui non v’è bene più prezioso, e che neppure può chiamarsi libertà se non comporta una assoluta uguaglianza di diritti”;18 da
questa uguaglianza deriva l’autogoverno della repubblica: “un popolo
libero” afferma Scipione “sceglierà da sé gli uomini cui affidarsi”.19
Un evidente influsso sul pensiero repubblicano, sebbene oggi sia
poco riconosciuto, lo ebbero le “Historiae” di Sallustio, specialmenCicerone, De officiis, I, 20.
Cicerone, De republica, I, 25.
18
Cicerone, op. cit. nota 14, I, 31.
19
Cicerone, op. cit. nota 14, I, 34.
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te per la loro esposizione delle cause della grandezza e del declino
della repubblica romana.
Nella sua opera “De Catilinae coniuratione”, Sallustio, nato da
una famiglia plebea e appartenente alla fazione dei “populares”, dipinge Catilina come il tipico rappresentante della nobiltà degenere che
complotta per rovesciare il “mos maiorum” e la repubblica. Nonostante avversi gli aristocratici, egli non condivide gli infiammati discorsi
che i suoi personaggi pronunciano contro i nobili, in quanto mirano a
sovvertire quell’ordine repubblicano tradizionale che egli reputa il valore più alto. Infatti, nei discorsi che Sallustio riporta, la libertà appare uno dei valori sacri e costitutivi della repubblica, ma si identifica
con la libertà della plebe dall’oppressione dei tiranni e, in particolare,
degli ottimati: “pro patria, pro libertate, pro vita certamus”,20 afferma
Catilina, sintetizzando i tre valori supremi cui si ispira la sua congiura.
Allo stesso modo Manlio dice di non cercare il potere o le ricchezze
ma “libertatem, quam nemo bonus nisi cum anima simul amittit”21 e
M. Porcio Catone nel supremo pericolo afferma che “sono in gioco la
libertà e la nostra stessa anima”.22 Come sostiene Canfora, Sallustio
presenta il diverbio, al quale aveva preso parte, tra i capi populares,
che si proclamavano difensori della libertas, e i loro avversari, che
allo stesso modo sostenevano di avversarli in nome della difesa della
libertas. Da una parte infatti fa pronunciare al tribuno della plebe
Licino Macro un ampio discorso che culmina nell’appello a “repetere
libertatem” (“riprenderci la libertà”) e con il rimprovero al popolo cui
si rivolge di avere un’idea meschina e riduttiva della libertà: “credete
che basti, come libertas, se ci si astiene dall’affliggervi con punizioni
corporali o se vi si lascia il diritto di spostarvi da un sito ad un
altro?!”. Dall’altra però è riporta anche l’atteggiamento a paladini
della libertà degli ottimati, come dimostra Catilina nel momento in cui
afferma di fronte ai congiurati: “Ecco infine quella libertas cui sempre
aspirate”.23
Invece nelle “Historiae” sallustiane troviamo spesso espresso il
rapporto tra la “res publica” e la “libertas populi Romani”, così come
20
“per la patria, per la libertà, per la vita noi combattiamo”, Sallustio, De Catilina
coniuratione, 58,7.
21
Sallustio, op. cit. nota 13, 33,1.
22
Sallustio, op. cit. nota 13, 51,43.
23
Luciano Canfora, op. cit. nota 13, pp. 29-30.
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la contrapposizione comune tra la libertà garantita dalla repubblica e la
“servitus” a cui si è costretti sotto un re o un tiranno. Nella stessa
opera, Sallustio riprende anche l’interpretazione classica della libertà
come fattore di potenza politica: “fu soltanto quando la città di Roma
riuscì a liberarsi dai re che riuscì, in pochissimo tempo, a raggiungere
una tale grandezza”.24
24
Sallustio, Historiae, 7,3.
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CAPITOLO II
LA RICODIFICAZIONE DELL’ETICA
TRA RIVENDICAZIONE DELLA LIBERTÀ E “REPRESSIONE”
NEL PENSIERO MODERNO
Nella prima parte del nostro lavoro la ricerca si interrompe con
Sallustio, in un’epoca in cui la libertà morale trova espressione nella
codificazione giuridica secondo una differenza strutturale fra il cittadino e lo schiavo. Fare un salto storico di secoli è sicuramente operazione discutibile, ma non impossibile se si cerca, come abbiamo
tentato di fare, un filo conduttore che riconosca in alcune costanti dell’animo umano le componenti psicologiche dell’agire inserite, peraltro, in contesti storicamente ordinati.
D’altra parte le categorie di antichità-modernità devono anche
essere ripensate da noi studenti alla luce delle domande che in campo
morale si pongono sul piano letterario e filosofico negli ambiti curricolari che stiamo affrontando in secondo liceo.
Vale la pena, in questa prospettiva, di recuperare il concetto
generale di etica partendo semplicemente dalla sua etimologia.
«L’etica (dal gr. Ethos, “costume”) o morale (dal lat. Mos, “costume”) è quella parte della filosofia che studia il nostro comportamento e le norme cui esso obbedisce, sia descrivendo come di fatto
agiamo, sia prescrivendo come dovremmo agire. In altri termini, l’etica è quella sezione del pensiero filosofico che si è storicamente
concretizzata in domande del tipo “Che cos’è il bene?”, “Qual è il
fine ultimo delle nostre azioni?” Strettamente connessa all’etica è la
filosofia politica che si occupa (in modo descrittivo o prescrittivo) dei
problemi relativi alla vita associata».25
L’etica è la disciplina filosofica che ha come oggetto l’azione
umana e i valori a cui essa dovrebbe conformarsi. In linea generale
questo termine è inteso come equivalente della parola “morale”, anche se molti pensatori hanno voluto sottolinearne le differenze. Hegel
ad esempio, intendeva l’etica come l’aspetto concreto della morale,
alla quale riservava un significato più astratto (ad esempio, la mente
25
Nicola Abbagnano, Protagonisti e Testi della Filosofia, volume A tomo 1, Paravia,
p. 3.
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concreta sta all’etica, come il “mondo delle idee” sta alla morale). Già
Aristotele aveva posto una differenza filosofica, associando l’una all’eternità del mondo materiale (legato però al mutamento del tempo),
e l’altra all’eternità delle sfere celesti (intesa come Verità atemporale).
Oggi la parola “morale” ha perso gran parte del suo significato
originario, ed è comunemente utilizzata per definire una serie di consuetudini socialmente accettate, differenti da popolo a popolo e principalmente influenzate dalla cultura religiosa. Per questa ragione noi preferiamo parlare di “Etica” intesa come espressione di valori universali
che prescindono dal tempo (e quindi dalla storia e dal succedersi degli
usi e dei costumi sociali). Da questo punto di vista esiste – o dovrebbe
esistere – un’etica universale che, dal mondo delle idee, discende nel
mondo dell’azione. Questa però non può che legarsi ineluttabilmente alla coscienza individuale, che essendo differente per ogni essere umano
(secondo la sua evoluzione intellettiva e interiore), si trasforma nella
vita in una differente scala di valori. Ad esempio, possiamo affermare
che vivere preoccupandosi solo e unicamente di se stessi è meno elevato
che occuparsi anche degli altri; però, non può esistere un criterio di misura universale per valutare l’eticità delle azioni altrui. In alcuni casi
agire violentemente per proteggere un innocente da un sopruso, anche
a rischio della propria vita, può rappresentare un atto d’elevato spessore etico. In altre circostanze la medesima azione, compiuta con volontà
di vendetta e per un coinvolgimento personale, può essere considerata
come un semplice esercizio di violenza. L’Etica, esaminata in termini
razionali e intellettuali, oppure emozionali e sentimentali, si trasforma
facilmente in un codice di regolamentazioni comuni, dove il bene e il
male, il giusto e l’ingiusto, non hanno più a che vedere con lo sviluppo
consapevole dell’autocoscienza, quanto piuttosto con l’accettazione di
una serie di convenzioni morali, ben distanti da quel bene superiore che
dovrebbe essere rappresentato dal valore della Libertà interiore.
Perfino Agostino, pur all’interno di un esame del cogito che si
eleva alla dimensione dell’eterno, riconosce l’autonomia della coscienza umana nella scelta responsabile come desiderio.26 Senza
26
Agostino d’Ippona è stato un filosofo, vescovo e teologo romano. Padre, dottore e
santo della Chiesa cattolica, è conosciuto semplicemente come sant’Agostino, detto anche
Doctor Gratiae (“Dottore della Grazia”). Secondo Antonio Livi, filosofo, editore e saggista italiano di orientamento cattolico, è stato «il massimo pensatore cristiano del primo
millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell’umanità in assoluto». Le Confessioni sono la sua opera più celebre.
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Libertà, ossia in mancanza della capacità di scegliere secondo coscienza, a causa dei condizionamenti che ci rendono succubi di regole arbitrarie, non possiamo sviluppare una vera aderenza ad un’Etica
Superiore. In ultima analisi, esiste l’Etica quando siamo in presenza
della Libertà vera, che presuppone una scelta consapevole, attuata secondo la propria coscienza e percezione del giusto e del non giusto.
Qualsiasi atto compiuto per salvaguardare la propria immagine di
fronte al mondo, per quanto elevato e positivo possa apparire, non
possiede di fatto una profonda eticità, in quanto privo di motivazioni
che trascendono l’interesse personale. Ugualmente, ogni atto compiuto sotto la pressione di un’educazione sociale condizionante, per
quanto elevato e positivo possa apparire, non possiede di fatto una
profonda eticità, perché privo di quella Libertà nell’autocoscienza,
che sola può descrivere il valore della vera Etica. L’Etica, da questo
punto di vista, non è più qualcosa che possa essere studiato e applicato, ma il risultato di una maturazione umana e di un’evoluzione interiore che porta alla vera libertà e alla coscienza di sé. Hobbes afferma “Homo homini lupus”: nello stato di natura ognuno ha diritto su
tutto ed è un lupo per l’altro uomo.27 Si tratta dunque di un io forte,
che pretende di godere individualmente dei beni comuni. Il diritto di
tutti su tutto e la volontà di distruggersi a vicenda, determinata dal
contrasto di opinioni e dal desiderio dell’uso esclusivo dei beni comuni, fanno sì che lo stato di natura sia un potenziale stato di guerra
incessante di tutti contro tutti. Questa possibilità di guerra universale
non può realizzarsi e stabilizzarsi in modo totale, perché coinciderebbe ovviamente con la distruzione totale del genere umano. Ora, se
l’uomo fosse privo di ragione, la condizione di guerra totale sarebbe
insormontabile. Ma la ragione, in virtù della quale gli uomini si differenziano da tutti gli altri animali, è la capacità di prevedere e provvedere, mediante un calcolo accorto, ai bisogni e alle esigenze dell’uomo. È la ragione naturale quindi (per la quale ognuno rifugge dalla morte violenta come dal peggiore dei mali naturali) che suggerisce
all’uomo la norma dalla quale discendono le leggi naturali del vivere
27
Thomas Hobbes (1588-1679) fu un filosofo inglese che influenzò tutta la successiva filosofia politica occidentale. Egli concepì un’opera grandiosa, intitolata Elementi
di filosofia, divisa in tre parti: De cive (del 1642, sui corpi artificiali, quali lo stato), De
corpore (del 1655, sui corpi naturali), De homine (del 1658, sui corpi umani). Il De cive,
rielaborato e sviluppato, ha dato origine al capolavoro di Hobbes, il Leviatano, del 1651.
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civile, proibendogli di fare tutto ciò che potrebbe mettere a rischio la
sua vita o addirittura ne comporterebbe la distruzione. Per Hobbes,
dunque, la legge naturale è intesa come una sorta di tecnica di autoconservazione. Per liberarsi dalla condizione primitiva in cui tutti
competono con tutti (bellum omnium contra omnes) la moltitudine
deve costituire una società efficiente, che garantisca la sicurezza degli individui, condizione primaria per il perseguimento dei desideri.
“La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre quella
restrizione su loro stessi, è la previsione di ottenere con quel mezzo
la propria preservazione e una vita più soddisfacente, vale a dire,
di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente, alle passioni naturali degli uomini, quando
non c’è un potere visibile per tenerli in soggezione col timore della
punizione”.28
A questo scopo tutti gli individui rinunciano ai propri diritti naturali, stringendo tra loro un patto con cui li trasferiscono a una singola persona, che può essere o un monarca, oppure un’assemblea di
uomini, che si assume il compito di garantire la pace entro la società.
“Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu
gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile.
Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata
uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande
Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio
mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra
pace e la nostra difesa...».29
Per questo Hobbes è spesso considerato un teorico del giusnaturalismo, dove il diritto naturale precede e fonda quello civile. Tuttavia
tale visione è dibattuta: difatti, solitamente, il giusnaturalismo tende
a stabilire delle leggi naturali che facciano da limite al potere statale;
da parte sua, invece, Hobbes utilizza le leggi naturali per dimostrare
che il potere statale, per poter funzionare efficacemente, dev’essere
illimitato, privo di vincoli, e indiviso; in questo modo si pone agli
antipodi di pensatori classici del giusnaturalismo, come ad esempio
John Locke. I diritti naturali che ognuno abbandona per poter vivere
28
29
T. Hobbes, Leviatano, Bompiani, 2004, p. 139.
T. Hobbes, Leviatano, Bompiani, 2004, p. 167.
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in pace nella società non sono altro che la libertà assoluta di fare
tutto secondo la propria volontà e di utilizzare qualsiasi risorsa per
il proprio vantaggio. L’uomo per natura ha diritto di usare tutte le
risorse naturali (terreno, acqua, frutti, bestiame etc.), anche a spese
altrui. Con l’istituzione della società si rinuncia a questo diritto e la
propria libertà assoluta viene sospesa. I limiti della propria libertà
sono stabiliti a partire dal riconoscimento di quelli altrui: tuttavia,
poiché secondo Hobbes non si può avere garanzia che questo principio (che corrisponde all’evangelico: “non fare agli altri ciò che non
vuoi gli altri facciano a te”) venga rispettato da tutti, è necessario un
potere coercitivo che lo mantenga, il potere statale. Solo il sovrano
quindi mantiene effettivamente tutti i diritti naturali nei confronti dei
sudditi, ed è il sovrano, tramite le leggi, a poter stabilire ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto, mentre per i sudditi giusto significa obbedienza alle leggi del sovrano, e ingiusto la disobbedienza. Inoltre,
una volta che i diritti di tutti gli individui siano stati trasferiti al sovrano, tale trasferimento è irreversibile se non per volontà del sovrano stesso. È interessante tuttavia notare che il suddito rimane completamente libero in tutti quegli ambiti che non sono coperti dalla legislazione del sovrano, fintantoché rimangono tali. Ad esempio, se il
sovrano non regolasse le transazioni economiche, queste sarebbero
del tutto libere. Per questa tesi, Hobbes è stato considerato, nonostante affermi esplicitamente di sostenere uno Stato assoluto, come
uno dei precursori del liberalismo moderno. Diversi sono, infatti, i
dissensi interpretativi a proposito del pensiero politico hobbesiano:
inequivocabile teorico della prassi assolutistica delle monarchie
nazionali e profeta del totalitarismo moderno, oppure un giusnaturalista30 con “spiriti liberali”, che, nel momento stesso in cui fonda l’assolutismo, pone dei limiti all’assolutismo stesso, sui quali farà leva il
liberalismo successivo? Tutte domande che sono tuttora al vaglio della critica e che costituiscono oggetto di approfondimento e confronto
fra gli studiosi.
30
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, “diritto di natura”) è il termine generale
che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l’esistenza di un diritto
naturale, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla “natura” e conoscibili dall’essere umano. Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest’ultimo come corpus legislativo creato da una
comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata
efficacemente definita “dualismo”.
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Hobbes nega decisamente la possibilità dell’insurrezione. Definisce legittima la resistenza del suddito al sovrano nell’unico caso in
cui questi minacci l’incolumità fisica del suddito; tuttavia, nel momento in cui il suddito resiste al sovrano, anche legittimamente, il sovrano ha ancora il diritto di combattere contro il suddito che gli resiste, e di ucciderlo: difatti la resistenza del suddito al sovrano non è altro che una riproposizione dello stato di natura, all’interno del quale
tutti hanno diritto a tutto, e la vittoria è del più forte.
Da notare inoltre che Hobbes assegna al sovrano la possibilità
di stabilire cosa sia omicidio, furto o minaccia alla sicurezza: per
questo il sovrano può legittimamente ordinare ai sudditi di uccidere
un altro suddito, o di andare in guerra, nel momento in cui lo ritenga
necessario alla sicurezza dello Stato. Per quanto riguarda la forma
dello Stato, Hobbes afferma che il sovrano può essere un individuo
solo (un monarca) o un’assemblea. Tuttavia, esprime chiaramente la
sua preferenza per la monarchia, in quanto un’assemblea può più facilmente dividersi in fazioni e giungere alla guerra civile. La guerra
civile, in cui una parte dello Stato avoca a sé il potere del sovrano, è
definita da Hobbes come una ricaduta nello stato di natura, e dunque
nel peggiore dei mali. Se Hobbes afferma che il suo Stato assoluto
può degenerare in una tirannide, tuttavia ripete a più riprese che questa situazione sarà sempre migliore e più sopportabile della guerra
civile.
Se per Hobbes, come abbiamo detto, la legge naturale è espressione di quella ratio naturalis che distrugge la cupiditas naturalis,
vale a dire la tendenza dell’uomo ad appropriarsi dei beni comuni,
limitandone la libertà nello Stato civile, per Spinoza invece la garantisce.31 È vero infatti che Spinoza professa una forma di determinismo che riduce il “libero arbitrio” ad una illusione della mente, derivante dal fatto che gli uomini «sono consapevoli delle loro azioni e
31
Baruch Spinoza (Amsterdam, 24 novembre 1632 - L’Aia, 21 febbraio 1677) è
stato un filosofo olandese, ritenuto uno dei maggiori esponenti del razionalismo del XVII
secolo, antesignano dell’Illuminismo e della moderna esegesi biblica. Il suo fondamentale
capolavoro filosofico fu la celebre Ethica more geometrico demonstrata (“Etica dimostrata con metodo geometrico”), pubblicata solo nella raccolta delle opere postume del
1677, dove il suo pensiero è esposto nel modo più sistematico e completo. Grazie al suo
rigore e alla sua profondità, Spinoza riuscì a superare molte di quelle che considerava
le incongruenze proprie non solo della filosofia cartesiana ma dell’intera tradizione occidentale, offrendo dimostrazioni matematiche tese a confutare il creazionismo e una
visione antropomorfica della divinità, superando il dualismo mente/corpo.
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dei loro appetiti, ma ignari delle cause da cui sono determinati ad
appetire qualche cosa».32 Tuttavia il filosofo si domanda se l’uomo,
pur senza pretendere di “evadere” dal determinismo naturale, possa
raggiungere, in virtù della ragione, una qualche forma di autodominio
e di libertà. Spinoza definisce la schiavitù «l’impotenza dell’uomo a
moderare e a reprimere gli affetti, giacché l’uomo sottoposto agli
affetti non è padrone di sé, ma in balia della fortuna».33
Ora, se l’uomo fosse solo passione non sarebbe mai libero, poiché sarebbe sempre dominato da forze esterne che lo tiranneggiano,
rendendolo simile ad un burattino. Però l’uomo è anche ragione, cioè
conoscenza.
La libertà umana non consiste in una impossibile evasione dal
determinismo naturale, ma nella possibilità da parte dell’uomo di
esercitare il potere della ragione sugli affetti, ponendosi come
soggetto attivo e non puramente passivo, della propria tendenza all’autoconservazione. In questo senso la libertà umana fa tutt’uno con
la virtù. La virtù per Spinoza, non è altro che “l’agire secondo le
leggi della propria natura”, ossia lo sforzo di autoconservazione divenuto cosciente di sé e saggiamente diretto. In quanto tale, la virtù
è una tecnica razionale del ben vivere che si concretizza in una retta considerazione dell’utile, ossia un calcolo intelligente circa ciò
che si deve fare o meno in vista della migliore sopravvivenza possibile: “Agire per virtù non è altro che agire, vivere, conservare il
proprio essere sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento
del proprio utile”.34 L’uomo agisce virtuosamente e attivamente solo
in quanto ha una conoscenza vera delle cose e possiede delle idee
adeguate. Infatti, quando ce ne facciamo un’idea chiara e distinta,
le passioni, cessano di essere tali: “Un affetto, che è una passione,
cessa di essere una passione, appena ne formiamo un’idea chiara
distinta”.35
In un certo senso, quindi, si può dire che Spinoza si ricollega al
rigorismo dell’antica Stoà. Come gli Stoici, infatti, egli considera
l’astensione dalle passioni quale unico rifugio razionale e naturale
32
B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Universale Bollati
Boringhieri, 2006, parte IV, Prefazione.
33
V. nota 5.
34
V. nota 6.
35
V. nota 6.
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per l’uomo. L’uomo virtuoso è ontologicamente superiore a chi è
schiavo delle passioni e dell’edonismo fine a se stesso. Colui che si
limita al livello della sensibilità è condizionato da un tipo di conoscenza per immagini. Tuttavia, rifiutare l’enfasi sulle passioni non
equivale a rinnegarle del tutto. Infatti, bisogna sbarazzarsi delle passioni negative, come la tristezza, l’odio, l’ira incontrollata. Il rimedio a questa tipologia di passioni, la più grave delle schiavitù umane perché impediscono un pieno sviluppo dell’uomo rappresentato
dalla libertà, è la consapevolezza della necessità che tutto avvenga in
un modo e non in un altro, e che le nostre reazioni sono quindi immotivate, prive di ogni coerenza razionale. Le pene e le punizioni
somministrate dalla società non debbono essere viste come riparazioni a torti subiti, ma come garanzia dell’ordine e della salute pubblica. Nell’Etica, specialmente nelle parti quarta (La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti, con relativa appendice) e quinta (La
potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana), Spinoza si propone
di emancipare la morale dalle ipoteche etico-religiose, come l’idea
di un Dio personale, legislatore dell’universo e giudice unico delle
anime dopo la morte, mentre, per il filosofo olandese, la morte è il
momento della fusione con la natura, e l’immortalità dell’anima è
una semplice credenza, una superstizione ingenua. L’uomo nuovo
del razionalismo spinoziano deve compiere un balzo in avanti rispetto al passato, dovendo trasformare ex-novo le sue caratteristiche
antropologiche, abolendo le facili certezze, l’abbandono ai miti – e
ai riti – del passato. In questo senso, Spinoza crede possibile un
cambiamento nelle abitudini e nelle credenze, che liberi l’individuo
dalla schiavitù delle passioni, delle aspettative e delle forme mentali placidamente acquisite, senza nessuno sforzo critico di fronte alla
tirannia delle convenzioni e al giogo delle convinzioni. Quello di
Spinoza è certamente un punto di vista antropologico, che privilegia
l’attenzione all’uomo, non più come ente o intermediario tra realtà
mondana e realtà spirituale, ma come protagonista indiscusso del
dramma dell’esistenza umana, soggetto di libertà e non più oggetto
della “traditio”. Infatti, Spinoza elabora un modello di filosofia che
rifiuta del tutto l’ideale della “traditio” umanistica, che vedeva nella storia un retaggio di forme e valori da conservare per aiutare l’individuo a maturare come uomo favorendo una espressione totale
delle sue potenzialità, anzi, è proprio la liberazione da quelle forme
e da quei valori l’unica garanzia di una raggiunta maturità intellet– 185 –
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tuale. Spinoza definisce questo processo di crescita dell’uomo con
l’espressione “potenza dell’intelletto”, che corrisponde alla vera, autentica libertà. Tuttavia la realizzazione dell’umanità di ciascuno
non investe soltanto l’aspetto antropologico, ma riguarda anche l’aspetto psicologico, in primo luogo quello gnoseologico.
Nel Tractatus de intellectus emendatione36 Spinoza sviluppa un
concetto di Campanella: scire est alienari, cioè l’atto del conoscere è
alienarsi nelle cose che ci circondano. Conoscere è quindi identificarsi nell’oggetto, perdersi in Dio, giacché ogni ente è parte attiva della
Sostanza.
La conoscenza dell’uomo è sempre passiva assimilazione di contenuti che sono già nel mondo, nell’estensione e nel pensiero, entrambi attributi di Dio, gli unici accessibili alla mente umana.
La conoscenza è un processo graduale, scandito in tre fasi: il
senso, la ragione e l’intuizione. Quando conosco, sono io a dovermi
adeguare alla realtà, non viceversa. In altri termini, conoscere è pensare con la mente della natura. Tuttavia, l’atto del conoscere, che è
alla base della psicologia di Spinoza, non è completamente passivo,
in quanto, pur senza inventarmi nulla, devo comunque ricreare,
entro i confini del mio orizzonte d’idee, quei nessi radicati nella
natura e in essa anticipatamente determinati. Questo perché io, e
con me tutti gli uomini, comprendo solamente gli elementi costruiti o ricostruiti dall’intelletto. La passività costitutiva della nostra
mente, il fatto che il microcosmo individuale è costretto a trovare
autonomamente le leggi già presenti nel macrocosmo, per conoscere, è espresso chiaramente in una proposizione del Tractatus
de intellectus emendatione:37 “l’ordine e la connessione delle idee
sono gli stessi che l’ordine e la connessione delle cose”. Nelle prime due parti dell’Etica, riguardanti Dio e Natura e origine della
mente, Spinoza ritiene che ogni definizione dell’Etica dev’essere di
tipo costruttivo-genetico, cioè, a partire dall’origine (genesi) deve
mostrare le varie fasi della sua costruzione. La costruibilità di una
definizione, di una espressione del pensiero umano, è garanzia di
controllo razionale. Infatti, la conoscenza di qualcosa si realizza
36
B. Spinoza, Tractatus de Intellectus Emendatione (Trattato sull’emendazione dell’intelletto) [incompiuto], a cura di Filippo Mignini, in Spinoza, Opere, Mondadori, Milano,
2007.
37
V. nota 12.
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mediante il rinvenimento di connessioni causa-effetto, costituenti
le essentiae formales di un oggetto (idee) e questo rinvenimento
corrisponde esattamente a definire e a costruire, secondo l’ordine
genetico, una proposizione vera, che è tale proprio in virtù della sua
costruibilità. Da un punto di vista razionalistico, contrario quindi
all’empirismo di Bacone, Spinoza rifiuta l’uso in sede gnoseologica
del metodo induttivo, che si risolverebbe in una esperienza vaga
(non scientifica). Comprendere i fenomeni solo sulla base dei rapporti causa-effetto comporta una conoscenza eterna dal momento
che questi rapporti sono le idee, comuni alla nostra mente e alla
Sostanza divina, che si manifesta in un numero infinito di modi. Ma
di quali modi si tratta? Sono i singoli uomini, e tutti gli aspetti della
realtà biologica, fisica, naturale, che trovano nella ratio la loro
intima essenza, o ragion d’essere, la quale può essere intesa dagli
uomini quando questi si sforzano di leggere in chiave cosmica il Libro della Natura. Spinoza considera la comprensione della Natura
sotto la specie di un atto di devozione, misticamente laica e quindi
non religiosa in senso tradizionale. Questo slancio mistico verso la
totalità del mondo, che è lo stesso di Dio in prospettiva panteistica,
ha la forza e l’impeto di un sentimento umano, come l’amore. È un
amore universale, che si applica razionalmente ai diversi modi della Sostanza, una teoria chiaramente derivata da Leone Ebreo, che
nei Dialoghi d’amore aveva sostenuto delle idee analoghe relativamente a questo tipo di amore, che l’autore dell’Etica chiama
amor intellectualis Dei, considerandolo l’unico strumento per conoscere il segreto della nostra immortalità. “Io sono immortale”,
“non potrò mai morire”, pensa il Filosofo, perché quella che chiamiamo morte è in realtà il momento della fusione con Dio, cioè la
natura immortale.
Contrariamente a Spinoza, Leibniz lasciò molto campo al libero
arbitrio nel suo sistema. Egli sostiene un “Principio di ragion sufficiente”, secondo il quale nulla accade senza una ragione; ma per
quanto riguarda le persone libere, i motivi delle loro azioni “orientano senza costringere”.
Ciò che un essere umano fa, ha sempre un motivo, ma la ragion
sufficiente della sua azione ha una necessità logica.
“Con Leibniz la ragione perde rilevanza nell’ottica della libertà
umana poiché pur non essendoci predeterminazione divina la volontà
dell’uomo tende verso il meglio. Infatti l’ordine dell’universo è pro– 187 –
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prio orientato secondo il bene e la scelta degli esseri viventi riguardo
esso rimane libera e responsabile”.38
Punto di partenza per il problema della teodicea, utile al nostro
fine di analizzare la libertà umana, può essere considerato anche in
questo campo il principio di ragion sufficiente: esso infatti deve spiegare non solo perché il mondo esista, ma anche perché tra gli infiniti
mondi possibili concepiti dall’intelletto di Dio proprio questo sia stato scelto dalla sua volontà: «supposto che alcune cose debbano esistere, è necessario poter rendere ragione perché esse debbano esistere così e non altrimenti».39 Dalla risposta a questa domanda discende
una delle dottrine più caratteristiche di Leibniz:
«Dalla perfezione suprema di Dio segue che egli, producendo
l’universo, ha scelto il miglior piano possibile, in cui c’è la più grande varietà unita al massimo ordine; in cui il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati, il maggior effetto è ottenuto con i mezzi
più semplici e le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicità e bontà che l’universo poteva conseguire. Infatti, poiché tutti i
possibili pretendono all’esistenza nell’intelletto di Dio, il risultato di
tutte queste pretese dev’essere il più perfetto mondo attuale che sia
possibile. Senza di ciò non si potrebbe rendere ragione di perché le
cose sono andate così e non altrimenti».40 In sostanza, quindi, Leibniz
ritiene che il mondo reale sia il migliore dei mondi possibili in virtù
del criterio del meglio che è alla base della scelta di Dio. Che poi tale scelta da parte di Dio non impedisca la libertà dell’uomo, si deduce dallo stesso motivo per il quale sussiste una reale differenza tra
proposizioni contingenti e necessarie.
38
Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, III volume, p. 765. Bertrand
Arthur William Russell, terzo conte Russell (Trellech, 18 maggio 1872 - Penrhyndeudraeth, 2 febbraio 1970), è stato un filosofo, logico e matematico gallese. Gottfried
Wilhelm von Leibniz (Lipsia, 1º luglio 1646 - Hannover, 14 novembre 1716) è stato un
matematico, filosofo, scienziato, glottoteta, diplomatico, giurista, storico, magistrato e
bibliotecario tedesco. A lui si deve il termine funzione (coniato nel 1694) che egli usò per
individuare varie quantità associate ad una curva, tra cui il suo valore, la pendenza, la
perpendicolare e la corda in un punto. A Leibniz, assieme a Isaac Newton, vengono
generalmente attribuiti l’introduzione e i primi sviluppi del calcolo infinitesimale, in
particolare del concetto di integrale, per il quale si usano ancora oggi molte delle sue
notazioni.
39
G. W. Leibniz, Principi della filosofia o Monadologia. Principi razionali della
natura e della grazia, a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano, 2001.
40
V. nota 13.
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E tuttavia la teodicea leibniziana pone il mondo in una strana
condizione: essere la copia esatta di un pensiero divino, e non potersi svolgere se non in un modo prefissato da tutta l’eternità.
Il nostro mondo, infatti, è la posizione nell’esistenza di un insieme di possibili a cui nulla può essere sottratto (perché ne nascerebbe
un’imperfezione) e nulla può essere aggiunto (perché ne nascerebbe
un’impossibilità). Dunque, è un insieme di possibili che non può
assolutamente essere variato. Allora, se ogni diversità è impensabile
negli avvenimenti del mondo, come potrà l’uomo essere libero? Ove
un uomo si comportasse diversamente da come fa, il mondo reale non
corrisponderebbe più esattamente al mondo scelto da Dio, che è il
migliore possibile, e non può esser diverso: dunque, la libertà è
impensabile.
Leibniz risponde che la relativa perfezione del mondo non
implica che esso non sia “contingente”, perché il nostro mondo è
pur sempre soltanto uno degli infiniti mondi possibili, e Dio “avrebbe potuto” anche sceglierne un altro. Ma, per considerare libero
un uomo che agisce nel nostro mondo, non basta ammettere che, in
linea teorica, sarebbe potuto esistere un altro mondo al posto del nostro, in cui un altro individuo, più o meno simile (ma non identico)
a questo, si comporterebbe in modo diverso, etc. Per considerare
libero l’uomo bisogna che questo individuo, di questo mondo possa
comportarsi diversamente: ipotesi che, nell’impostazione leibniziana, è impensabile. C’è dunque un groviglio di difficoltà, che è
opportuno vedere dove nascano. Il fatto è che la libertà umana (e, a
ben vedere, anche la divina) riesce incompatibile con la concezione
che Leibniz ha del reale. Per un verso egli (a differenza di Spinoza)
vuole che l’agire umano e l’operare divino siano liberi e non frutto
di assoluta necessità. Ma d’altra parte concepisce la realtà come
tutta preordinata, nel suo contenuto e nel suo svolgimento, da una
sorta di calcolo combinatorio automatico, che si svolge nella mente
di Dio: e, questo, perché Leibniz vuole avere una realtà perfettamente padroneggiabile dalla ragione, e quindi dal calcolo che è
strumento della ragione. Nulla può esservi d’incerto nel risultato di
un calcolo; nulla può prodursi di nuovo, se non relativamente alla
nostra ignoranza: nonostante l’impegno che il filosofo mostra, per
così dire, nel liberarsi della “necessario” tutto discende necessariamente dai dati iniziali. E, in una libertà siffatta, la libertà non può
trovare posto.
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CAPITOLO III
QUALE NUOVA ETICA DELLA RESPONSABILITÀ
È PENSABILE?
Gli eventi storici che hanno caratterizzato l’epoca contemporanea, dalla guerra di Secessione Americana, passando per le due Guerre Mondiali fino ad arrivare alla più vicina Guerra Fredda, hanno fortemente segnato il pensiero filosofico andando a scuotere le certezze
umane fino ad allora ben salde. Il tema della responsabilità, parte integrante e guida basilare dell’agire umano, chiaramente collegata all’etica, la disciplina che meglio descrive e rappresenta la capacità dell’uomo di entrare in relazione con i propri simili, non si esaurisce
quindi con i filosofi del Medioevo e del Rinascimento, ma anzi diviene ancor più acceso con l’avanzare della tecnologia e dello sviluppo socio-economico.
Risulta chiaro all’uomo contemporaneo che la responsabilità si
debba intendere non soltanto considerando le conseguenze delle azioni
portate avanti, ma che la sua valutazione aprioristica debba guidare
ogni scelta, misurandola eticamente: “Il potere diventa oggettivamente
responsabile per ciò che gli viene affidato e vi si impegna affettivamente mediante la presa di posizione del senso di responsabilità”.41
Date queste indispensabili premesse, risulta lampante come legislatori, governanti, tecnici e scienziati abbiano nelle loro mani grandi
poteri ed enormi responsabilità. L’etica professionale delle varie discipline presuppone scelte responsabili e che portino con sé la consapevolezza che gli effetti di scelte inadeguate ed avventate potrebbero
ledere in maniera profonda il futuro delle generazioni a venire: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili
con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”.42
Il filosofo tedesco Max Weber43 ha dedicato gran parte della sua
vita all’analisi dell’etica della responsabilità e in particolare come es41
Hans Jonas. Il principio di responsabilità, Piccola Biblioteca Einaudi, 1979,
p. 117.
Hans Jonas. Il principio di responsabilità, cit., p. 16.
Max Weber, nato nel 1864, dopo aver conseguito nel 1889 il dottorato in giurisprudenza e nel 1891 la libera docenza presso l’Università di Berlino, ed aver compiuto
42
43
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sa si rapporti con la politica, giungendo, dopo lunghi studi, ad una
forma di dualismo etico:44 egli rintraccia da una parte l’etica dei principi (Gesinnungsethik), la quale fa riferimento a principi assoluti che
assume a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono, come
l’etica del religioso, del rivoluzionario o del sindacalista, i quali agiscono solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente
dalle loro conseguenze; e dall’altra l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik), che si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mettono in atto. Senza assumere principi assoluti, l’etica
della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza
del suo agire: è proprio guardando a tali conseguenze che essa agisce.
Seppur esse siano l’una il completamento dell’altra e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione per
la politica”, l’etica dei principi e quella della responsabilità sono due
etiche opposte e inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di
intendere la politica: l’etica dei principi si può definire un’etica apolitica, come è testimoniato dal cristiano che agisce seguendo i suoi
principi e senza chiedersi se il suo agire possa trasformare il mondo;
al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa
alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume
come guida) le conseguenze dell’agire.
Ma l’ambito politico non è il solo di cui Weber si interessa nell’analisi del rapporto tra etica e responsabilità: egli infatti, vivendo in
un epoca che ha segnato importanti innovazioni in campo industriale
e manifatturiero, non può fare a meno di analizzare il rapporto tra etistudi giuridici, economici e storici in varie università, si distinse precocemente in alcune
ricerche economico-sociali svolte con il . Fu nominato professore di economia nelle università di Friburgo dal 1894 e di Heidelberg dal 1896. Guarito da un’acuta forma di depressione in seguito alla morte del padre, nell’autunno 1903 rinunciò al posto di professore
e accettò l’incarico di direttore associato del neonato (Archivio per la scienza sociale e la
politica sociale) sul quale pubblicò in due parti nel 1904 e 1905 l’articolo fondamentale
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Nello stesso anno visitò gli Stati Uniti. Durante la prima guerra mondiale prestò servizio come direttore degli ospedali militari di
Heidelberg e al termine del conflitto tornò all’insegnamento con una cattedra di economia
prima a Vienna e nel 1919 a Monaco di Baviera, dove guidò il primo istituto universitario
di sociologia in Germania. Nel 1918 fu tra i delegati dalla Germania a Versailles per la
firma del trattato di pace e fu consulente dei redattori della Costituzione della Repubblica
di Weimar. Morì nel 1920.
44
Max Weber, La politica come professione, Armando editore, 1997.
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ca e capitalismo.45 Egli identifica come “spirito capitalistico” la tendenza a organizzare la propria vita e il proprio tempo in funzione del
lavoro e del guadagno. Lo spirito capitalistico non si identifica nella
brama di denaro, che tutte le epoche hanno conosciuto, ma piuttosto
nella volontà di orientare ogni atto verso una progressiva accumulazione della ricchezza.
Data questa importante premessa, il filosofo tedesco parte nella
sua analisi da una altrettanto importante constatazione: “un’occhiata
alla statistica professionale di un paese di confessioni miste suole
mostrare, con una frequenza che colpisce, un fenomeno che è stato
vivacemente discusso più volte nella stampa e letteratura cattolica, e
nei congressi cattolici della Germania: il carattere prevalentemente
protestante sia della proprietà capitalistica e dell’impresa che degli
strati superiori e più colti del ceto operaio, ma anche e soprattutto
del personale delle imprese moderne dotato di una superiore preparazione tecnica o commerciale”.46
Questo dato non è, secondo Weber, dovuto alla diffusione delle
idee della Riforma nelle zone economicamente più agiate dell’Europa,
ma al contrario dalla confessione religiosa si è sviluppata la mentalità
capitalistica. Infatti il punto cardine della teologia protestante, soprattutto di quella calvinista, è la dottrina della predestinazione, secondo
il destino dell’uomo è dominato da Dio, la cui volontà è imperscrutabile, e l’individuo in nessun modo può influire sulla decisione divina
riguardo la propria salvezza o dannazione. Di fronte a questa situazione l’uomo protestante non ha altra via, per verificare di far parte
del numero degli eletti, che quella di attenersi a una condotta di vita
moralmente irreprensibile. Nella costanza del lavoro, nella metodicità,
nella ferrea organizzazione del tempo, nella fedeltà a una propria
Beruf, ovvero la laica vocazione, egli trova modo di lenire il senso
di angoscia che gli deriva dal timore di non essere in grazia di Dio.
L’etica ferrea cui il protestante si attiene gli impedisce, d’altra parte, di
dissipare il denaro guadagnato in divertimenti futili o in lussi, reinvestendo continuamente i propri guadagni e determinando l’accumulazione, caratteristica fondamentale dell’economia capitalistica.
45
Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, RCS Libri, Milano
2009-2010.
46
Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, RCS Libri, Milano
2009-2010, p. 11.
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Anche l’economista indiano Amartya Sen,47 ha dedicato, in molti suoi scritti, particolare attenzione ad analizzare il rapporto tra economia moderna ed etica, analizzandone le radici e l’evoluzione nella
storia.
Egli parte da una considerazione iniziale, riguardante il progressivo distacco creatosi tra l’economia moderna e l’etica: con l’evolversi dell’economia moderna, si ha il progressivo indebolimento dell’interesse per le considerazioni etiche. L’evoluzione storica della
disciplina economica ci dimostra come essa abbia una duplice derivazione: un’origine etica, i cui presupposti sono chiaramente ascrivibili ad Aristotele, che analizza il problema della motivazione umana
e il giudizio dei risultati sociali; ed un’origine ingegneristica, interessata a problemi logistici e meno a questioni etiche e caratterizzata dall’assoluta mancanza di cordialità nelle spinte motivazionali degli uomini, ma non per questo incapace di fornire validi contributi pratici.
“Nessuno dei due tipi (di approccio), naturalmente, è puro in alcun
senso, ed è tutta una questione di equilibrio dei due approcci dell’economia. In realtà molti esponenti dell’approccio etico, da Aristotele
ad Adam Smith, erano anche molto interessati alle questioni di ingegneria, pur entro un approccio prevalentemente orientato sul ragionamento etico”.48
L’approccio non etico all’economia, per Sen, non è totalmente
improduttivo, ma la produttività economica sarebbe incrementata
qualora si prestasse maggiore attenzione alle considerazioni di natura
etica che influenzano il comportamento e il giudizio sociale umani.
Nella teoria economica corrente svolge un ruolo primario il comportamento razionale, dove per razionalità si intende coerenza interna
delle scelte e massimizzazione dell’interesse personale: l’uomo economico agisce perseguendo il proprio interesse personale e così faAmartya Sen, nato nel Bengala nel 1933, termina la formazione accademica di primo livello in India ed in seguito ottiene il Dottorato in Economia nel 1959 presso l’Università di Cambridge. Inizia quindi a lavorare come professore e ricercatore presso l’Università di Calcutta dal 1956 al 1963; lavora poi all’Università di Delhi dal 1964 al 1971,
alla London School of Economics dal 1971 al 1977, all’All Saints College ad Oxford dal
1977 al 1988 e all’Università di Harvard dal 1987 al 1997, dove riveste contemporaneamente le cattedre di Economia e di Filosofia. Ritorna al Trinity College di Cambridge nel
1998 dove ricopre la carica di Master, una delle più alte posizioni accademiche del Regno
Unito. Nello stesso anno ad Amartya Sen viene conferito il premio Nobel per l’Economia,
per i suoi studi nel campo dell’economia del benessere.
48
Amartya Sen, Etica ed Economia, Editori Laterza, Bari 2004, p. 13.
47
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cendo si comporta razionalmente. È però assurdo e riduttivo sostenere che tutto ciò che non è massimizzazione dell’interesse personale
sia da considerare come irrazionale data l’assenza di qualsiasi testimonianza che provi come questo modo di procedere porti necessariamente a condizioni economiche ottimali. Il successo di un libero mercato in realtà non rivela la natura delle motivazioni soggiacenti all’azione economica. La vera questione è se ci sia una pluralità di motivazioni, o se sia solo l’interesse personale a guidare gli esseri umani:
cercare di fare del proprio meglio per raggiungere ciò che ci si è prefissato è razionale, e questo può includere il perseguimento di obiettivi non dettati dall’interesse personale ai quali noi assegniamo un valore intrinseco. Sen affronta quindi il problema dell’errata interpretazione del pensiero del padre del liberismo Adam Smith, da sempre
considerato come lo strenuo difensore dell’interesse personale senza
che la sua analisi etica dei sentimenti e del comportamento sia esaminata. Questo impoverimento è strettamente collegato all’allontanamento dell’economia dall’etica.
Un’altra grave conseguenza di questo distacco è costituita dall’indebolimento della posizione dell’economia del benessere a favore
dell’economia predittiva, che si basa sul principio dell’efficienza delle informazioni economiche per mezzo delle quali è possibile formulare previsioni molto precise sull’andamento futuro delle borse economiche, laddove quest’ultima può influenzare la prima ma non viceversa. Con lo sviluppo dell’atteggiamento antietico l’unico criterio
rimasto è quello dell’efficienza economica e delle utilità individuali.
Sen muove due critiche all’utilità intesa come unica fonte di valore:
essa infatti, così come il successo di una persona, non può essere considerata solo in termini di benessere personale ma anche in quelli di
facoltà d’agire, ossia della capacità di scegliere i propri obiettivi e di
rispettare i propri valori non esclusivamente in vista dell’immediato
benessere personale. Inoltre non si può giudicare il benessere di una
persona solo in base al criterio della felicità o dell’appagamento dei
desideri perché sarebbe troppo riduttivo.
L’autore giunge così ad affermare che se viene fatto esplodere lo
spazio ristretto in cui è relegata l’economia del benessere inserendovi considerazioni etiche più ampie, allora non può più essere giustificata l’indipendenza totale da quest’ultima dell’economia predittiva.
Ne consegue che l’efficienza non possa più essere considerata l’unico criterio economico di giudizio: il modo migliore di vedere il van– 194 –
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taggio di una persona non è da considerarsi in termini di risultati raggiunti ma anche in termini di libertà raggiunta e di importanza intrinseca assegnata a diritti e valori.
L’accettazione morale dei diritti può richiedere un sistematico allontanamento dal comportamento mosso dall’interesse personale. Infine, Sen analizza il rapporto tra etica ed economia sottolineando l’esigenza per entrambe le discipline di un più stretto contatto. Infatti
non solo la ricchezza delle considerazioni etiche può essere rilevante
per l’economia, ma anche la stessa disciplina etica potrebbe trarre
giovamento utilizzando alcuni approcci economici nell’analizzare
questioni particolarmente complesse. Sen ci lascia con la certezza che
l’avvicinamento di etica ed economia è necessario sia per l’arricchimento reciproco delle due discipline sia per il vantaggio futuro del
bene sociale.
Molti filosofi e teologi di fama mondiale hanno alimentato il dibattito portando la questione del rapporto fra uomo e responsabilità
anche in ambito religioso. Il filosofo di origine ebraica Hans Jonas,49
intellettuale di fama internazionale affronta questo tema in molte delle sue opere, non solo da un punto di vista oggettivo e filosofico, ma
anche raccogliendo dalla sua esperienza personale e privata. Date le
sue origini familiari, egli è naturalmente spinto ad interrogarsi50 su
quali siano le reali qualità da attribuire a Dio e quanta responsabilità
divina ci sia nella Shoah. Jonas ritiene che la totale disumanità di Auschwitz non possa che condurre a una alternativa radicale ai tentativi
della tradizione di tener uniti gli attributi divini di “bontà”, “onnipotenza” e “comprensibilità”. Questa alternativa si può identificare in
una riforma radicale del concetto biblico di Dio che salvi ciò che è essenziale e abbandoni ciò che non è essenziale, per la quale noi non
possiamo separare il nostro concetto di Dio dalla sua bontà, cioè dalHans Jonas, nato nel 1903 in Germania, dopo la laurea a Marburgo, si dedicò allo
studio dello gnosticismo. Egli fu costretto, come molti altri intellettuali a lui contemporanei, a emigrare dapprima in Inghilterra dopo l’avvento del nazismo per poi trasferirsi in
Palestina. Partecipò come volontario alla seconda guerra mondiale, militando nell’esercito inglese. Contribuì alla liberazione dell’Italia e nell’ultima fase della guerra si spostò in
Germania. Tornato in Palestina, partecipò alla guerra di indipendenza israeliana del 1948,
quindi iniziò la sua carriera di docente alla “Hebrew University” di Gerusalemme, prima
di trasferirsi a New York dove visse tutto il resto della sua vita, continuando negli Stati
Uniti la professione di insegnante in varie università fino alla morte nel 1993.
50
H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, a cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo, 1993.
49
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la sua volontà di bene. Ma non ci si può nemmeno spingere sino all’idea dell’incomprensibilità, altrimenti verrebbe negata la rivelazione del divino. Quindi, «dopo Auschwitz, possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di
bontà o è totalmente incomprensibile [...]. Ma se Dio può essere compreso in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà non
deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio
non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che
Dio è comprensibile e buono e nonostante ciò nel mondo c’è il male».51 Ma un Dio debole, che non interviene a impedire l’eccesso di
malvagità e di ingiustizia nel mondo e nella storia, è compatibile con
la rivelazione biblica di Dio? Jonas ritiene di sì. Dunque Dio «non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di
farlo».52
Per il filosofo, infatti, bisogna guardarsi dal concepire l’onnipotenza di Dio come una capacità “magica” e miracolistica, ma Egli,
decidendo di creare l’uomo e di conferirgli la libertà morale, ha limitato volontariamente la propria onnipotenza, per lasciare spazio all’autonoma iniziativa umana. Quindi ricade completamente sull’uomo la cura del mondo: da lui dipende totalmente «che accada o non
accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi
di aver concesso il divenire del mondo».53 Ma anche ad Auschwitz,
che rappresenta il totale oscuramento dalla coscienza e della ragione,
emerge una possibile nota di speranza: anche allora ci furono uomini
giusti che si adoperarono anonimamente, e senza chiedere nulla in
cambio, per aiutare, nascondere, salvare vittime, spesso a rischio della vita. Essi rappresentano un segno e una dimostrazione della nononnipotenza del Male: «grazie alla superiorità del male sul bene»,
che è l’oggetto fondamentale della nostra fede in Dio, l’esistenza di
quei giusti, «la loro nascosta santità, può controbilanciare una colpa
incalcolabile, saldare il conto di una generazione e salvare la pace
del regno invisibile».54
Negli ultimi decenni del XX secolo e nella prima decade del XXI
sono stati compiuti grandissimi passi avanti nel campo scientifico che
H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, cit., p. 34.
H. Jonas. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, cit., p. 35.
53
H. Jonas. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, cit., p. 39.
54
H. Jonas. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica.
51
52
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hanno portato il patrimonio della conoscenza umana a livelli impensabili fino all’inizio del ‘900. Il progresso tecnologico a cui stiamo
assistendo, che ci porta ogni giorno a superare molti dei limiti impostici dalla natura e a renderci capaci, con gli strumenti adeguati, di
manipolare la natura e l’uomo stesso, ha naturalmente riacceso il dibattito su quali siano i capisaldi e i punti fermi deontologicamente validi dell’etica e fino a dove l’uomo può spingersi senza oltrepassare la
linea sottile che separa l’eticità dal suo contrario. A questo proposito,
riportiamo la frase di Jonas: “Non si deve mai fare dell’esistenza o
dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle
scommesse dell’agire”.55 Organismi internazionali come la World
Health Organization (WHO), fondata nel 1946, sanciscono le linee
guida per una corretta gestione del potere che caratterizza il campo
delle biotecnologie e delle neuroscienze. L’immissione sul mercato
di specifici prodotti (i cosiddetti OGM, Organismi Geneticamente
Modificati), l’utilizzo di additivi chimici o ormonali in campo farmaceutico, industriale ed agricolo, devono essere soggetti a stringenti
normative per scongiurare il pericolo di un incongruo e persino antietico uso di tali sostanze.
L’ultimo ventennio, in particolare, ha visto importanti acquisizioni nel campo della genetica, culminate nel 2000 con il completamento della mappatura del genoma umano. Queste informazioni hanno garantito l’individuazione delle cause genetiche di numerose patologie, con la prospettiva di poterle, in un prossimo futuro, tempestivamente individuarle e correggerle. Tuttavia, l’iniziale entusiasmo
che ha caratterizzato queste nuove scoperte ha subìto una parziale battuta d’arresto quando si è divenuti consapevoli che i dati relativi al
genoma del singolo individuo potevano risultare armi da usare contro
l’individuo stesso e che ne avrebbero potuto danneggiare prospettive
e privacy. La libertà di questi individui potrebbe risultare favorita o
pregiudicata a seconda delle situazioni; indagini genetiche che portino all’individuazione di rischi oggettivi di sviluppare una determinata patologia aprono due distinte strade al paziente.
Indipendentemente dall’esito infatti, il soggetto potrebbe vedere
riconfermate le proprie scelte e ribaditi i propri progetti di vita, oppure potrebbe trovarsi a dover riscrivere e ridisegnare il proprio futuro
in maniera più consapevole. Da una parte quindi la libertà di scelta
55
Hans Jonas. Il principio di responsabilità, Piccola Biblioteca Einaudi, 1979, p. 47.
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potrebbe vedersi riconfermata, garantendo all’individuo ampi spazi
di manovra, dall’altra potrebbe generarsi un senso di profonda limitazione della libertà di scelta dovuta proprio all’acquisizione del proprio rischio genetico.
Sono molti gli ambiti nei quali la responsabilità etica è viva e
fondamentale nelle scelte da compiere; questi sono il campo delle
analisi embriologica, della eutanasia e relativo testamento biologico.
L’embriologia ha subito infatti attente valutazioni sullo status giuridico, in una prima fase, dell’embrione, in una seconda, del feto, che nel
corso degli anni hanno generato un vivo, talvolta infuocato, dibattito
sulla liceità di scelte specifiche in tale ambito. Tra queste ricordiamo
l’analisi preimpianto e l’interruzione volontaria di gravidanza. Il primo caso riguarda una metodica impiegata per garantire la salute dell’embrione concepito, qualora uno o entrambi i genitori biologici siano portatori di alterazioni genetiche trasmissibili alla prole: le responsabilità etiche sono da ascrivere a coloro che hanno in passato legiferato in materia e a coloro che ad oggi sono chiamati a seguire tali normative nella loro pratica clinica. Il secondo caso tratta di una
scelta consapevole dell’individuo che, trovandosi in una condizione
fisica ormai definitivamente compromessa, prende la decisione, tramite testamento biologico, di non perseverare nei trattamenti terapeutici e di mantenimento: “Il diritto di vivere, inteso come fonte di
tutti i diritti, in determinate circostanze include anche il diritto di morire”.56 Nel caso dell’eutanasia è invece un sanitario a praticare un atto medico che porta l’individuo, consenziente o no, alla morte, scelta
molto sofferta e spesso rifiutata dal personale sanitario: “Scegliere
l’eutanasia non è un gesto facile: è e va intesa come un atto estremo
che va considerato con discrezione, va deciso nel segreto delle proprie coscienze, senza clamore e senza prescindere dalle proprie concezioni etiche e morali”.57
In Italia, testamento biologico ed eutanasia non sono soggette ad
alcuna normativa vigente, non essendosi ancora garantito un proficuo, libero, democratico dibattito sul tema tale da produrre punti di
vista condivisi che forniscano le basi per Leggi dello Stato: attualmente, infatti, l’eutanasia attiva è assimilabile, in generale, all’omicidio volontario, secondo l’art. 575 C.P., mentre in caso di consenso del
56
57
Hans Jonas. Il diritto di morire, 1985.
Umberto Veronesi, in Serena Foglia, Il posto delle fragole (prefazione), 1999.
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malato si configura la fattispecie prevista dall’art. 579 C.P. (Omicidio
del consenziente), punito con reclusione da 6 a 15 anni. Anche il suicidio assistito è un reato, secondo l’art. 580 C.P. (Istigazione o aiuto
al suicidio). Sono pochi gli Stati europei che consentono tali pratiche, dimostrando come sia molto complicato raggiungere un comune
accordo sui temi etici di questo tipo: in Svizzera, ad esempio, è previsto il suicidio assistito, che viene però praticato esclusivamente al di
fuori delle istituzioni mediche statali dall’associazione, che accetta le
richieste indipendentemente dalla nazionalità del richiedente, mentre
in Lussemburgo è stata approvata nel 2008 una proposta di legge che
prevede l’eliminazione delle sanzioni penali contro i medici che mettono fine, su richiesta, alla vita dei malati; in particolare, il provvedimento prevede che l’eutanasia venga autorizzata per i malati terminali
e coloro che soffrono di malattie incurabili, solo su richiesta ripetuta
e col consenso di due medici e una commissione di esperti.
Un ruolo fondamentale all’interno della regolamentazione delle
attività-tecnico scientifiche nei riguardi della vita umana lo giocano
sicuramente i governi e le leggi, ma secondo anche quanto riferisce
Jonas ne Il principio di responsabilità, è la morale umana a dover guidare internamente il comportamento di ciascuno tramite il rispetto e il
senso di responsabilità che ogni individuo deve sentire e far proprio.
La bioetica deve potersi giovare di menti libere, consapevoli, responsabili, amanti e rispettose della vita, consapevoli del fatto che il
loro operato di oggi avrà importanti ripercussioni sulle generazioni
future che dovranno essere educate a quello stesso amore e rispetto
per ogni forma di vita che le ha generate.
Bibliografia I gruppo
ESCHILO, I Persiani, traduzione a cura di L. Belloni, Vita e Pensiero.
M. SORDI, Storia politica del mondo greco, Vita e Pensiero, Milano,
1982, p. 45.
PLATONE, La Repubblica, a cura di Sartori F., Laterza, Bari 1980.
PLATONE, La Repubblica, a cura di F. Adorno, in Tutti i dialoghi, Utet,
Torino 1988.
CICERONE, De oratore, I, 182, per la discussione giuridica cf. E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi.
CICERONE, Ad Quintum fratrem, libro III, 5, 4.
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CICERONE, Philippicae (Orationes), libro VI, 18,19.
LUCIANO CANFORA, Manifesto della libertà, Sellerio editore, Palermo,
1994.
CICERONE, De officiis.
CICERONE, De republica.
SALLUSTIO, De Catilinae coniuratione.
SALLUSTIO, Historiae.
Bibliografia II gruppo
T. HOBBES, Leviatano, Bompiani, 2004.
B. SPINOZA, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Universale
Bollati Boringhieri, 2006.
B. SPINOZA, Tractatus de Intellectus Emendatione (Trattato sull’emendazione dell’intelletto) [incompiuto], a cura di Filippo Mignini,
in Spinoza, Opere, Mondadori, Milano, 2007.
G.W. LEIBNIZ, Principi della filosofia o Monadologia. Principi razionali della natura e della grazia, a cura di S. Cariati, Bompiani,
Milano, 2001.
NICOLA ABBAGNANO, Protagonisti e Testi della Filosofia, volume A
tomo 1, Paravia.
BERTRAND RUSSELL, Storia della filosofia occidentale, III volume.
Bibliografia III gruppo
HANS JONAS, Il principio di responsabilità, Piccola Biblioteca Einaudi,
1979.
Max Weber, La politica come professione, Armando editore, 1997.
Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, RCS
Libri, Milano 2009-2010.
Amartya Sen, Etica ed Economia, Editori Laterza, Bari 2004.
Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, a
cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo, 1993.
Hans Jonas, Il diritto di morire, 1985.
Umberto Veronesi, in Serena Foglia, Il posto delle fragole (prefazione),
1999.
J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2001.
– 200 –
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LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Essere e dover essere:
aldilà della morale dell’intenzione
- Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare -
(anno scolastico 2010-2011)
Classe III B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro
Collaboratrice:Prof.ssa Paola Peretti
GLI ALUNNI:
Giorgia Amendola - Frances Ascione - Maristella Cecinato - Flavia Cioffi
Alessia Coletta - Giulia Durante - Adriano Folgori - Giacomo Franchi
Giulia Ietto - Edoardo Lisi - Giulia Lollobrigida - Arianna Massimi
Francesca Musci - Germana Palmeri - Denise Reina - Maria Sofia Romeo
Valentina Tancredi - Agnese Tartaglia
INDICE
Introduzione
CAPITOLO I
Polemica Kant-Hegel sul tema etico
CAPITOLO II
Scelta individuale e fini sociali dell’agire: l’etica della responsabilità
da M. Weber a J. Habermas al pensiero femminile
CAPITOLO III
La ricostruzione del soggetto agente attraverso la riappropriazione
del senso delle cose e della vita
Bibliografia
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INTRODUZIONE
La responsabilità (dal latino respondeo, rispondere, ma anche
corrispondere, rispondere alle aspettative, ricambiare), può essere definita come la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio
comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione.1
In quanto tale essa riguarda le relazioni intersoggettive che il singolo
detiene con la collettività; diventa corresponsabilità quando investe la
totalità delle azioni umane. La responsabilità è sicuramente un concetto di natura giuridica, ma poco ce ne avvediamo, proprio perché il termine è ormai diventato di uso comune: ogni persona che è consapevole del suo agire ne sa pure prevedere le conseguenze. Sarebbe moralmente irresponsabile chi, pur libero di agire, non fosse capace di contemplare gli esiti del suo agire, come avviene pure in campo politico
quando un soggetto che ricopre un ruolo pubblico e deve rendere conto del suo operato alla collettività si giustifica di scelte sbagliate sulla
base di un errato calcolo del rapporto causa-effetto delle sue azioni.
Dunque il concetto di responsabilità si collega immediatamente a
quello di libertà.
Fin dall’antichità si trovano esempi: Antigone esercita una libertà
responsabile quando, pur rispettosa delle leggi della polis, contrasta
il potere; Socrate, per mantenersi fedele alla sua coscienza morale e
alle regole della polis, che altro non sono se non principi di etica
civile, preferisce la morte alla scelta irresponsabile della fuga.
Per Hannah Arendt, noi siamo e dobbiamo riconoscerci come
soggetti morali nella libertà di cambiare il mondo e di introdurvi il
nuovo. Senza questa libertà mentale di riconoscere o di negare l’esistenza, di dire sì o no, non ci sarebbe alcuna possibilità d’azione; e
l’azione è evidentemente la sostanza stessa di cui è fatta la vita politica.2 “Non ci sono pensieri pericolosi, ma è il pensiero in sé ad essere
pericoloso, anche se il nichilismo non è un suo prodotto. Esso non è
altro che l’altro lato del convenzionalismo; il suo credo consiste nella negazione dei valori correnti, cosiddetti positivi, a cui rimane legato. Anche il non pensare, che sembra essere una situazione tanto
1
È questa la definizione che ne dà Nicola Abbagnano nel suo Dizionario di filosofia,
UTET, Torino, 1971.
2
http://www.filosofico.net/arendt11.htm a cura di Diego Fusaro, La disobbedienza
civile.
– 202 –
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raccomandabile in campo politico e morale, comporta i suoi rischi.
Corazzando la gente contro i rischi dell’analisi, li abitua ad accettare immediatamente qualunque regola di condotta vigente in un dato
tempo e in una data società. La gente è abituata a non prendere mai
decisioni”. Se “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”
(Apologia 30 e 38), allora il pensare accompagna il vivere quando si
occupa di concetti quali giustizia, felicità, temperanza, piacere, con
parole che designano cose invisibili, parole che il linguaggio ha dato
per esprimere il significato di tutto quello che accade nella vita e ci
capita mentre siamo vivi.3
Chi non rispetta le leggi non può essere definito cittadino, membro della società civile: la responsabilità ha questo ruolo primario,
interviene quando ci troviamo a dover scegliere, ovvero il soggetto è
posto di fronte ad una serie di alternative opposte e contrarie; rimanda
al singolo la decisione di agire in conformità delle norme sulla base di
quei concetti che la stessa Arendt ritiene universali e irreversibili.
È necessario precisare l’ambito etico e quello morale. L’etica (dal
greco costume, consuetudine di un popolo) si incentra sui rapporti interpersonali, riguarda i principi dei comportamenti condivisi ed equivale al latino mos (plurale mores) da cui “morale”; si può affermare,
dunque, che l’etica è lo studio della morale come insieme delle regole
del comportamento.
È fondamentale inoltre distinguere l’etica dell’intenzione, dall’etica della responsabilità.
La prima implica la tensione al dover essere, all’agire per il dovere morale slegato da qualsiasi fine pratico; si può facilmente spiegare nella formula kantiana del “Tu devi, tu puoi”, la seconda coinvolge necessariamente anche gli altri individui, su cui l’azione ha
concrete conseguenze.
L’approccio all’etica da parte di filosofi e studiosi è stato articolato e complesso, è possibile intravedere molteplici collocazioni del
fondamento dell’etica: esso per Kant è nella continua tensione dell’essere al dover essere, per Hegel è proprio nell’identificazione tra
essere e dover essere e nella concretizzazione della moralità, attraverso l’attuazione della coscienza individuale nelle istituzioni quali
la famiglia, la società civile e lo Stato come realizzazione dello Spirito
nella Volontà Universale.
3
Hannah Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè editore, 1985.
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Presso gli antichi la possibilità di armonizzare l’etica dell’intenzione all’etica della responsabilità costituiva un fatto sociale, l’individuale era immediatamente universale e intelligibile per la comunità,
in cui ogni cittadino era chiamato a svolgere pubblicamente la sua
funzione, in quanto parte integrante e operante dell’organismo civile.
Il momento culminante dell’etica è l’atto di comunicazione del convincimento, dell’elaborazione del soggetto, che permette al singolo
di collegarsi alla collettività.
Nella società attuale, globalizzata, i mass media hanno la funzione di comunicare, attribuire il significato alle notizie che vengono trasferite poi alla massa indistinta. Qual è, pertanto, la distanza fra la
responsabilità individuale e coloro che hanno il compito di produrre,
attraverso le notizie, il senso delle cose? Interessante in merito la tesi
di Popper che difende la libertà di pensiero, come espressione del dissenso: “una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino
a quando il potere della televisione non sarà pienamente scoperto.
Ci vorrebbe una patente per fare televisione”.4 La responsabilità sociale dei mass media deve diventare un tema etico. Noi siamo soggetti
storici consapevoli del nostro passato: di fronte all’apparente pluralismo delle fonti, alla molteplicità di informazioni che circolano e “ci
passano sotto il naso” è necessario applicare il nostro vaglio critico
attraverso la riflessione.
La manipolazione delle notizie porta ad una radicale immobilità
del soggetto, focalizzato in un eterno presente, perdendo conseguentemente di vista l’effetto delle proprie azioni nel futuro: questo processo conduce ad una fissità, una sorta di staticità dell’identità che trascura la riflessione su se stessa e rimuove la volontà e la consapevolezza della propria esistenza e del proprio agire. Al giorno d’oggi siamo passati dall’identità kantiana forte, dall’idealismo all’esistenzialismo per arrivare alla totale decostruzione del soggetto espressa nella
fatale domanda: “Chi sono io?” Qual è la mia identità? Nel corpo che
muta o nella mia memoria? Siamo agenti liberi o agenti di natura?
Se guardiamo al nostro tempo in cui la caduta dei valori ha
aperto ampi margini allo individualismo esagerato ed irresponsabile,
ci consolano pensieri come quello di Hannah Arendt.
4
Karl Popper, Cattiva maestra televisione, a cura di Giancarlo Bosetti, Marsilio
editore, 2002.
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Il nostro lavoro cerca di rispondere a questi innumerevoli quesiti attraverso lo studio delle posizioni di alcuni letterati e filosofi, alla
ricerca della nostra personale identità e di un fondamento dell’etica
della responsabilità che possa illuminarci nell’arduo compito sociale
e civile di cittadini. Dalla polemica kantiano-hegeliana sul tema morale, agli studi di Max Weber e Habermas in merito alla scelta individuale e ai fini sociali dell’agire, per concludere con la ricostruzione
del soggetto agente attraverso la riappropriazione del senso delle cose e della vita.
Non è un percorso “concluso” ma un’apertura, uno squarcio di
luce in attesa che il tempo e la maturazione intellettuale ci forniscano
ancora motivi per riflettere e ridefinire quello che a fatica abbiamo
oggi conquistato.
Perché ne siamo certi, a questo serve studiare.
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CAPITOLO I
POLEMICA KANT-HEGEL SUL TEMA ETICO
Nel titolo del nostro progetto compare la parola responsabilità,
una parola comune, usata quotidianamente e qualche volta anche con
superficialità, ma siamo sicuri del suo vero significato? Se cerchiamo
la parola responsabilità su un dizionario la definizione che troviamo
suona più o meno così: “Congruenza con un impegno assunto o un
comportamento, in quanto importa e sottende l’accettazione di ogni
conseguenza, specialmente dal punto di vista dell’azione morale”5 o
così: “In diritto, situazione per la quale un soggetto giuridico può
essere chiamato a rispondere della violazione colposa o dolosa di un
obbligo”.6 È bene precisare inoltre che la parola responsabilità deriva
dal verbo greco respondeo (trad. rispondere, obbligazione a garantire),
un composto del verbo spondeo (trad. prometto).
Secondo Hans Jonas, filosofo tedesco di origine ebraica, la responsabilità diviene corresponsabilità quando investe tutte le azioni
umane, ovvero quando si agisce in modo che le azioni non danneggino la vita futura. Jonas è convinto che, per evitare di giungere ad una
catastrofe universale, sia necessaria un’etica della responsabilità, diversa da tutte le etiche tradizionali, incentrate sull’uomo ed interessate esclusivamente a coloro che vivono nello stesso periodo; la nuova
etica di Jonas invece prende in considerazione l’intero pianeta e le generazioni future. Chiave di tale etica è l’imperativo ecologico: “Agisci
in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la
permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. Oppure, tradotto in negativo: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione
non distruggano la possibilità futura di tale vita”.7 Secondo il filosofo
tedesco, quindi, non si possono più ignorare le conseguenze delle
nostre azioni; bisogna saper prevedere gli effetti che esse potranno
avere sul futuro dell’umanità e del pianeta. In questo modo, il nuovo
5
Giacomo Devoto - Gian Carlo Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua
italiana, Selezione dal Reader’s Digest (Le Monnier), Milano, 1988.
6
Giacomo Devoto - Gian Carlo Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua
italiana, Selezione dal Reader’s Digest (Le Monnier), Milano, 1988.
7
Jonas H., Il Principio di Responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica,
Einaudi, Torino, 2002.
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imperativo si contrappone al vecchio imperativo kantiano “Devi perché devi”, ovvero “agisci per senso del dovere, esclusivamente in
rispetto della legge, senza preoccuparti del perché delle tue azioni”.
Seguendo l’imperativo ecologico, invece, si agisce per senso di responsabilità, segno concreto della disponibilità a favorire la vita attraverso i nostri gesti. Questo senso di responsabilità è lo stesso che caratterizza i genitori nelle cure verso i figli; il neonato, nudo ed indifeso, col fatto stesso di esistere obbliga l’ambiente circostante a prendersi cura di lui! A questo punto si comprende come l’obiettivo principale di Jonas sia la sopravvivenza, e non la perfezione. Per questo si
può parlare anche di un’etica dell’emergenza. Avere senso di responsabilità significa avere sia speranza sia paura. La paura non è quella
che ci distoglie dall’azione, ma è quella che ci spinge a compiere l’azione. È la paura per l’oggetto di cui siamo responsabili e che quindi
ci spinge a difenderlo. Secondo Jonas la paura è lo stato d’animo che
stimola una ricerca, attraverso la quale il filosofo crede di poter trovare i nuovi principi etici. Finché infatti non si è provata la paura
significa che non si è conosciuto il pericolo; non conoscendo il pericolo non si sa cosa bisogna difendere e perché. Sapendo cosa bisogna
difendere e perché si comprende cosa bisogna evitare. Avere sia speranza sia paura significa avere cautela. La cautela è considerata il lato
migliore del coraggio e quindi il modo per agire. A questo punto ci si
potrebbe chiedere: perché dobbiamo sacrificarci per le generazioni future? Jonas dice che se il Bene è quella cosa la cui possibilità impone
la sua esistenza, diventando così una cosa che deve essere, allora il
dover essere dell’uomo deriva dalla possibilità dell’uomo. Quindi noi,
prima ancora di salvare l’uomo, dobbiamo salvare l’idea di uomo.
Jonas afferma la superiorità dell’essere sul non essere; l’essere per natura deve essere, quindi la vita pretende la conservazione della vita.
Parlando del concetto di responsabilità nel campo del diritto, invece, è doveroso dire che fin dall’antichità chi non rispetta le leggi,
nomoi in greco, non è considerato un cittadino e deve essere punito.
La punizione deve essere adeguata al reato commesso e si basa su
quattro punti fondamentali:
• Deterrenza, l’esempio per la società
• Protezione sociale, in quanto la società si deve difendere
• Retribuzione, bisogna punire la persona responsabile di un reato
• Riabilitazione, bisogna punire affinché il reo si riscatti
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Ovviamente, se venisse usata solo la retribuzione si rischierebbe
di cadere nella vendetta e di tornare indietro di quasi 4000 anni, quando con il codice di Hammurabi veniva legalizzata la legge del taglione, la quale autorizzava gli uomini a vendicarsi privatamente e generava faide e rivalità lunghissime e talvolta interminabili.
Il concetto di responsabilità è legato a doppio filo con quello di
etica. Il termine etica, dal greco ethos (trad. consuetudini, costumi) significa “dottrina o indagine speculativa intorno al comportamento
pratico dell’uomo di fronte ai due concetti del bene e del male”. Si
possono indicare due tipi diversi di etica, quella dell’intenzione, o
della convinzione, e quella della responsabilità, che di fatto non sono
in contrasto, esplicative di un altro dualismo, quello tra essere e dover
essere. Infatti, secondo Max Weber, economista, sociologo, filosofo e
storico tedesco, l’universo della morale e quello della politica si muovono entro l’ambito di due sistemi etici diversi, anzi contrapposti.
Questa è la distinzione weberiana fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, ovvero due universi etici che si muovono secondo principi diversi, secondo le diverse situazioni in cui gli uomini
si trovano ad agire. La cosiddetta immoralità della politica si risolve
a ben guardare in una morale diversa da quella del dovere per il dovere: è la morale per cui si deve fare tutto quello che è in nostro potere per realizzare lo scopo che ci siamo proposti, perché sappiamo
sin dall’inizio che saremo giudicati in base al successo. L’uomo politico deve possedere tre caratteristiche per essere definito tale, ovvero:
passione/dedizione appassionata ad una causa, al dio o al demone che
la dirige, una passione autenticamente vissuta; senso di responsabilità
nei confronti della causa che deve essere guida decisiva del suo agire; da cui deriva la terza peculiarità dell’uomo politico, la lungimiranza, ovvero la capacità di far agire su di sé la realtà con la distanza
delle cose e degli uomini. L’agire politico è chiamato a spezzare la rete del determinismo attraverso una decisione, le cui conseguenze sono in larga misura imprevedibili, ma che il politico deve sempre calcolare. Egli non deriva il senso del suo agire dal grado di realizzabilità del proprio fine, ma ciò non comporta in alcun modo che egli lo
persegua comunque e nonostante tutto. La vera e propria decisione
politica ha sempre luogo all’interno della dimensione tecnico-burocratico-razionale del moderno politico e lo spazio dell’agire politico
di conseguenza è un’indefinibile tensione tra due polarità che lo costituiscono proprio per la loro opposizione: da un lato la routine bu– 208 –
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rocratica, dall’altro l’impeto sradicante della rivoluzione permanente.
Questa è la forma del politico weberiano: un equilibrio tra queste due
tendenze. Non si dà vocazione politica se non si avverte un primato
della politica, ma esso lo si avverte come responsabilità di ciò di cui
il politico è convinto: un essere chiamato da quei valori che è suo affare portare alla vittoria. La politica non può che essere un agire secondo imperativi, ma non secondo un dovere assoluto, e certamente
senza prescindere dalla convinzione sui valori che afferma. La forma
dell’agire politico è caratterizzata quindi dal tentativo di combinare,
per quanto possibile, etica della convinzione ed etica della responsabilità. «Ma se si debba agire in base all’etica dei principi (della convinzione) o all’etica della responsabilità, e quando in base all’una o
all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. [...] Pertanto l’etica dei
principi e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e
che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la
“vocazione alla politica”. [...] La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. [...] Soltanto chi è sicuro di non cedere
anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrigli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: “non importa, andiamo avanti”, soltanto quest’uomo ha la “vocazione” per la politica».8
L’etica è stata oggetto di studi per tutti i più grandi filosofi dal
mondo greco fino ai giorni nostri, ma in questo paragrafo approfondiremo gli studi su essa di due “mostri sacri”, due dei più grandi filosofi di tutti i tempi, Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
L’Etica kantiana
La morale è la dimensione della ragion pura pratica, è incondizionata in quanto legge morale valida a priori per tutti sempre, quindi
universale, assoluta e necessaria. Alla base della morale vi sono due
concetti di fondo: la libertà dell’agire e la validità universale della
legge. La morale implica la capacità umana di autodeterminarsi dagli
impulsi sensibili in modo tale che la libertà sia il primo presupposto
della vita etica. Inoltre il fondamento della morale è da ricercasi nella
8
Max Weber, La politica come professione, Oscar Mondadori, Milano, 2006, 84-87.
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legge morale stessa, che in quanto assoluta, si presenta all’uomo come
dovere, espresso dall’imperativo categorico nella forma del “tu devi”.
La “Fondazione della metafisica dei costumi” contiene le tre formule
dell’imperativo categorico. La prima che Kant ricava dall’analisi del
concetto stesso di imperativo categorico, che si differenzia da quello
ipotetico per il carattere di incondizionabilità, non contiene altro che
la legge nella sua universalità: “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”. È interessante notare che, subito dopo, Kant propone una variante
di tale formula in cui compare il concetto di natura e aggiunge quattro
esempi che dimostrano come è possibile applicare efficacemente nel
particolare e nel concreto ciò che nella regola risulta universale e
astratto. “Siccome l’universalità della legge, in base alla quale si producono effetti, costituisce ciò che è detto propriamente natura nel senso più generale, ossia è l’esistenza delle cose in quanto determinata
da leggi universali, l’imperativo universale del dovere potrebbe essere
formulato cosi: agisci come se la massima della tua azione dovesse
essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura”.9
L’imperativo categorico, così come risulta nella seconda Formula
dell’Imperativo Categorico, prescrive il rispetto assoluto dell’umanità
nella propria come nell’altrui persona e, secondo Kant, non fa che rendere esplicito ciò che era implicito nella prima formula, in quanto quest’ultima, prescrivendo di subordinare la massima soggettiva ad una
legislazione universale, cioè valida per ogni essere razionale, sottintende il riconoscimento dell’umanità come valore assoluto. Negli
scritti giovanili, influenzati dalla letteratura dei moralisti inglesi e di
Rousseau, Kant aveva già posto in evidenza proprio il principio del
rispetto della dignità umana. “Agisci in modo da trattare l’umanità,
tanto nella persona tua, quanto nella persona di ogni altro, sempre
come fine e giammai unicamente come mezzo”.10 Se la prima formula
dell’imperativo categorico sottolinea la forma della legge morale,
ovvero l’universalità, e la seconda ne sottolinea la materia, ovvero il
fine che è l’umanità, la terza formula sottolinea l’autonomia della
volontà, la quale mediante la sua massima può considerare se stessa
come legislatrice. L’autonomia, come requisito fondamentale della
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di P.
Chiodi, Utet, Torino, 1986, pp. 78-82.
10
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 87-88.
9
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moralità, è spesso richiamata da Kant anche nella critica della ragion
pratica, ed è alla base della rivoluzione copernicana, nell’ambito morale. Questa idea dell’auto-normatività morale dell’uomo grazie alla
ragion pratica non va, comunque, interpretata nel senso convenzionalistico-contrattualistico che essa ha assunto in qualche dottrina contemporanea “neo kantiana”: la legge morale, per Kant, è un “fatto della ragione” e non a caso egli considera l’uomo allo stesso tempo
legislatore ma anche suddito della legge morale. “Il concetto che ogni
essere ragionevole deve considerarsi autore, in virtù delle massime
della sua volontà, di una legislazione universale affinché possa, da
questo punto di vista, giudicare se stesso e le sue azioni, conduce a un
concetto assai fecondo che si connette a questo, cioè al concetto di un
regno dei fini. [...] Ora, poiché le leggi determinano i fini in base alla
loro validità universale, se si astrae dalle differenze personali degli
esseri ragionevoli e anche dall’intero contenuto dei loro fini privati, si
potrà concepire una totalità di tutti i fini in sistematica connessione,
ossia un regno dei fini possibile sulla base dei principi suddetti. [...]
La moralità consiste pertanto nel rapporto di ogni azione con quella
legislazione che è la condizione dell’esistenza del regno dei fini. Ma
questa legislazione deve valere per ogni essere ragionevole e deve
poter derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna azione secondo una massima, diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base
alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come
universalmente legislatrice”.11
Agire in conformità alla legge differisce dall’agire per il dovere,
per il rispetto della legge stessa: poiché, nel primo caso, l’azione può
essere rivolta al conseguimento di un fine, che, se esterno al carattere
del dovere, rimane nel campo della soggettività, nel secondo caso invece, il valore morale è posto nell’intenzione stessa dell’azione, fine
a se stessa ovvero al dovere medesimo. Il rigorismo della morale kantiana è espresso proprio nel carattere formale, incondizionato e antiutilitaristico della legge morale stessa, nell’espressione dovere per il
dovere, ossia non nell’agire per propensione a ciò che le azioni devono produrre, ma nello sforzo di attuare la legge solo per ossequio ad
essa. La morale, identificandosi come necessità, è un obbligo, un costringimento dell’individuo, che deve configurarsi come intrinseco al11
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 92-93.
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la natura stessa del soggetto, a cui peraltro non è negata la libertà dell’azione, espressa nel concetto di volontà. La moralità risiede nell’intenzione di agire per il dovere, noi siamo legislatori di noi stessi ma
allo stesso tempo sudditi dell’autorità della legge. “Dovere! – esclama
Kant – nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che importo lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non
minacci nulla... ma presenti semplicemente una legge che penetra da
se sola nell’animo e si procura venerazione”.12 Il fondamento dell’etica è quindi nell’uomo, nella sua ragione, nella sua capacità di autodeterminarsi, nella prerogativa auto-legislatrice della volontà che fa sì
che l’umanità sia norma di se stessa. Pertanto la moralità non può basarsi sull’educazione o sul governo perché perderebbe il carattere universale per rimanere nel campo del relativo e della soggettività. Se i
motivi della morale risiedessero nell’educazione, nella società, nel
piacere fisico o nel sentimento della benevolenza, l’azione non sarebbe più libera ed universale in quanto tali realtà sarebbero fattori mutevoli, quindi forze soggette al cambiamento. Né può identificarsi con
Dio come concetto di perfezione etica assoluta, poiché sarebbe frutto
di una rivelazione esterna, determinata in modo volontaristico, cessando di essere libero e disinteressato. Dire che la moralità consiste
nel realizzare un’ideale di perfezione e quindi Dio è una palese tautologia poiché sarebbe come affermare che la moralità risiede nella moralità. Inoltre dicendo che Dio è la Perfezione morale stessa, che l’uomo deve seguire, si cade in un circolo vizioso fondato sull’affermazione che la morale consiste nel seguire la morale (identificata con
Dio); oppure ci si sottomette alla volontà onnipotente e superiore di
Dio e la morale cessa così di essere libera e disinteressata, poiché
l’obbedienza a essa è ormai frutto di una costrizione dettata dal timore di punizioni o dalla speranza di premi. Notiamo come il modello
etico di Kant si distingua nettamente dai sistemi morali dell’empirismo e del razionalismo.
Contro l’empirismo, che libera la morale dalla metafisica, ma la
lega al sentimento (la “simpatia” di Hume), Kant afferma che l’unico
fondamento della morale è la ragione che in quanto sentimento è troppo soggettivo per assurgere al ruolo di pilastro per la dottrina etica.
Contro il razionalismo, che fonda la morale sulla ragione ma la
fa dipendere dalla metafisica fondandola ad esempio sull’ordine del
12
I. Kant, Critica della ragion pratica, A 154.
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mondo, su Dio, etc., Kant sostiene che la morale si basa unicamente
sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito e non dipende
da preesistenti conoscenze metafisiche. Quindi la morale è autonoma, non deriva dalla religione, ma essa stessa, in quanto universale, si
fonda e rende validi i suoi principi. In quanto all’obbligo non si può
adempiere volentieri, la morale non obbedisce alla ricerca della felicità o al piacere, che è soggettivo, scadrebbe altrimenti in una massima valida individualmente. Il tema dell’autonomia morale, lasciando
fuori qualsiasi causa esterna alla condotta, scioglie anche quell’apparente “paradosso” della ragion pratica, secondo cui non sono i concetti di bene e di male a fondare la legge etica bensì, al contrario, la
legge etica a fondare e a dare un senso alle nozioni di bene e di male.
La “rivoluzione copernicana” morale di Kant, che fa dell’uomo
l’unico legislatore del suo comportamento, trova in tal modo il suo
ultimo e significativo compimento. Questo precetto presenta un ideale di santità morale ovvero di perfezione, coronamento di un percorso etico, infinito per una creatura finita come l’uomo. “Il dovere per
il dovere nel rispetto della legge, ecco le uniche condizioni affinché vi
siano moralità e virtù e non si passi dalla moralità alla semplice
legalità”. Infatti, secondo Kant, non basta che un’azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme ad essa. La
morale indica una partecipazione interiore: non è morale ciò che si fa,
ma l’intenzione con cui lo si fa essendo la “volontà buona”, l’unica
cosa incondizionatamente buona al mondo. Il dovere e la volontà
buona innalzano l’uomo al di sopra del mondo sensibile, dove vige
il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo
intelligibile, dove vige la libertà. In altri termini la vita morale è la
costituzione di una natura soprasensibile nella quale la legislazione
morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale. Nell’Inno al
dovere il filosofo scrive infatti: “non è altro che la personalità, cioè la
libertà e l’indipendenza nei confronti del meccanismo dell’intera
natura, considerata tuttavia contemporaneamente come facoltà di un
essere sottostante a leggi speciali, cioè a leggi pure pratiche, che la
sua stessa ragione gli fornisce; pertanto la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla proprio personalità
perché appartiene allo stesso tempo al mondo intelligibile. Non bisogna dunque meravigliarsi se l’uomo, appartenendo a due mondi debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema
determinazione, con venerazione e le leggi di essa col massimo ri– 213 –
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spetto”.13 Questa noumenicità del soggetto morale non significa tuttavia l’abbandono della sensibilità e l’eliminazione di ogni legame con
il mondo sensibile. Difatti, proprio perché l’uomo partecipa strutturalmente dei due mondi, egli non può affermare il secondo se non nel
primo e in virtù del primo. Su un piano differente da quello razionale
dell’etica si pongono alcune osservazioni di Kant in cui entrano in
gioco anche dei dati sentimentali. Essi sono considerati da Kant come
una sorta di requisiti, offerti dalla natura affinché gli esseri umani,
non essendo solo razionali, possano accedere alla vita morale. “Congratulazione e compassione sono sentimenti sensibili di piacere o per
lo stato di benessere o dolore degli altri per i quali già la natura ha
posto negli uomini la recettività. Tuttavia il far uso di questi come di
mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce
un dovere ulteriore, benché solo condizionato che va sotto il nome di
umanità, poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come
essere razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa
può essere posta solo nella facoltà e volontà di essere partecipi gli
uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti, oppure puramente
nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore,
che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata partecipativa, la seconda non è libera e può chiamarsi comunicativa, o anche passione comune, giacché essa si diffonde naturalmente tra uomini che vivono gli uni accanto agli altri”.
Etica hegeliana
Sicuramente uno dei pensieri più originali della filosofia moderna sul tema etico è quello Hegel. La sua etica non è fine a stessa, non
è astratta, al contrario l’etica per Hegel si attua concretamente nelle
istituzioni storiche della famiglia, della società civile e dello stato. Il
filosofo arriverà a questa conclusione solo nella fase finale della sua
vita quando a Berlino pubblicherà Lineamenti della filosofia del
diritto ossia diritto naturale e scienza dello stato in compendio nel
1821. Ovviamente egli non è ricordato esclusivamente per le sue originali riflessioni sul tema etico: conservatore nel sistema ma rivoluzionario nel metodo influenzerà tutto il pensiero filosofico successivo.
Se per Kant, nel campo morale, la volontà, non coincidendo con la ra13
I. Kant, Critica della ragion pratica, A 154-155.
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gione, non raggiungerà mai la “santità” (ovvero la completa conformità della volontà alla legge) poiché questa è propria solo di Dio, per
cui, detto in altri termini, l’essere non si adegua mai al “dover essere”
(che è una meta che sempre si prefigge ma mai raggiunge), la posizione hegeliana si configura in tutt’altra prospettiva. Secondo questo
filosofo tale “adeguazione” è invece necessità dell’essere.
La critica che Hegel14 muove a Kant è quella di promuovere una
ulteriore scissione tra ragione e realtà, tra il dover essere e l’essere.
Secondo il pensiero kantiano, le idee della ragione sono solo ideali,
regole che impegnano e che spingono l’uomo alla ricerca del sapere
all’infinito, ma tale ricerca non condurrà mai né ad una sistematizzazione né ad una compiutezza, dato il limite strutturale della natura
umana.
La tesi da cui parte e su cui si fonda il sistema filosofico hegeliano è l’identità di realtà e ragione, ovvero di pensiero ed essere, da
cui deriva il noto aforisma “ciò che è razionale è reale, e ciò che reale è razionale”. Con tale formula Hegel intende dire che la razionalità
non è pura astrazione, bensì la vera e propria forma dell’esistente e
del reale, a sua volta inteso non come materia caotica, ma come lo
sviluppo dell’Idea, ovvero della struttura razionale. Importante è sottolineare l’aspetto di necessità di tale identità sostanziale. Il filosofo
sostiene che separare il reale dal razionale significa vedere nelle idee
e negli ideali nient’altro che chimere, fantasie cerebrali, il che equivarrebbe a dire che le idee o sono qualcosa di troppo eccellente per
avere realtà o di troppo impotente per riuscire ad edificarla. Proprio
14
Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque a Stoccarda nel 1770. A 18 anni entrò nel
famoso Stift di Tubinga per studiarvi teologia e si legò a Schelling e Hoelderlin, con i
quali condivise l’entusiasmo per la Rivoluzione francese. In seguito alla morte del padre,
che gli lasciò una piccola eredità, poté smettere di lavorare come precettore e si dedicò
agli studi per intraprendere la carriera accademica. Nel 1801 ottenne a Jena l’abilitazione
all’insegnamento universitario con la dissertazione De orbitis planetarum. Nel 1807 pubblicò il primo dei suoi capolavori, la Fenomenologia dello Spirito. L’anno successivo fu
nominato direttore del Ginnasio di Norimberga e poco dopo si sposò con Marie von Tuecher, da cui avrà due figli. Nel 1813 diventò provveditore agli studi e si impegnò in una
vasta opera di riforma scolastica. L’opera più importante di questo periodo è la Scienza
della logica. Nel 1816 fu chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg,
dove rimase un paio d’anni prima di passare a Berlino, dove rimarrà fino alla morte. Nel
1817 pubblicò l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che rappresenta, come suggerisce il nome, la sintesi del suo pensiero. Nel 1821 pubblicò l’ultima sua grande
opera, i Lineamenti della Filosofia del diritto. Molti altri scritti saranno pubblicati postumi, ad esempio le varie lezioni universitarie sull’arte, la storia e la religione.
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tale identità implica quella tra “essere e dover essere”, in quanto tutto ciò che è risulta ciò che deve essere razionalmente.15
In tutte le opere di Hegel si possono trovare osservazioni molto
ironiche a proposito del dover essere che non è, dell’ideale che non è
reale, della ragione che si suppone impotente a realizzarsi nel mondo.
Nel dire come deve essere il mondo, la filosofia arriva con ritardo,
egli sostiene, poiché essa formula i suoi concetti quando la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione.
Dopo aver costruito l’equazione realtà = ragione = razionalità Hegel deve stabilire quale sia il compito della filosofia. In tutte le opere
di Hegel si possono trovare osservazioni molto ironiche a proposito
del dover essere che non è, dell’ideale che non è reale, della ragione
che si suppone impotente a realizzarsi nel mondo. Nel dire come deve essere il mondo, la filosofia arriva con ritardo, egli sostiene, poiché
essa formula i suoi concetti quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Dopo aver costruito l’equazione realtà = ragione
= razionalità Hegel deve stabilire quale sia il compito della filosofia.
Egli lo individua nel prendere atto della realtà quale essa è. La filosofia, intesa come “la più alta e compiuta manifestazione dell’Assoluto”, non può essere presente in ogni stadio del pensiero umano, ma
solo all’apice del suo sviluppo, quando ormai la realtà è già compiuta e non vi è più nulla da trasformare.
La filosofia deve dunque giustificare la realtà presente, senza
contrapporre ad essa degli ideali alternativi (poiché la realtà, sostanzialmente, è già come deve essere). Compito della filosofia è prendere atto della realtà storica e giustificarla in quanto razionalità compiuta. Non spetta alla filosofia trasformare la società, determinarla o
guidarla, deve solo spiegarla. Tale spiegazione della realtà può avvenire solo al termine del suo processo di realizzazione. Infatti, un periodo storico può essere pienamente compreso solo al termine del suo
sviluppo, quando ha espresso tutte le sue potenzialità. Con l’affermazione suddetta della complementarietà fra reale e razionale, Hegel
non vuole tuttavia sostenere che tutto ciò che accade è da considerarsi razionale (e quindi necessario e giusto) nei minimi particolari.
È vero che il reale è razionale, cioè perfettamente necessario, ma
non è vero che tutto ciò che esiste in un determinato momento debba
essere considerato come reale. Ciò negherebbe l’assunto dialettico,
15
G. Giannantoni, Profilo della storia della filosofia, Loescher, Torino, 1969.
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ovvero quella legge del pensiero e della realtà che segue la storia nel
suo divenire. Hegel, infatti, distingue fra reale ed esistente. Solo gli
aspetti più profondi e universali dell’esistenza sono reali e quindi razionali. Invece, le manifestazioni particolari dell’esistenza (ciò che è
contingente e inessenziale) non sono veramente reali. Ad esempio,
sul piano politico, veramente reali non sono i sentimenti e le passioni
degli individui, ma sono reali e razionali le istituzioni e soprattutto lo
Stato. Analogamente, sul piano naturale, veramente reale non è il singolo fenomeno, come, per esempio, l’iridescenza dell’arcobaleno, ma
lo sono ben più le leggi fisiche che lo determinano. Reale non è, dunque, per Hegel, il particolare, l’individuo, ma l’universale.
L’illustrazione del principio di risoluzione del finito nell’infinito,
quindi dell’identità tra razionale e reale, ci è data da Hegel nella sua
opera Fenomenologia dello spirito, in cui egli spiega la via che la
coscienza umana ha dovuto percorrere per pervenire ad esso.
La Fenomenologia viene definita da Hegel stesso come la “storia
romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi
infelicità e dolore esce dalla sua individualità e raggiunge l’universalità, riconoscendosi come ragione che è realtà e realtà che è ragione”.
La Fenomenologia descrive perciò “l’esperienza” della coscienza che passa progressivamente dai gradi più bassi della conoscenza
al “sapere assoluto”, ossia la forma di conoscenza con cui lo spirito
conosce la sua autentica essenza.16
Il soggetto del processo fenomenologico è quindi sempre l’Assoluto, il quale però nelle prime fasi non ha ancora coscienza di sé,
bensì solamente al termine del processo, quando lo spirito ha esplicato completamente se stesso, la coscienza giunge a conoscere completamente se stessa come assoluto (ovvero identità di razionale e reale).
I diversi momenti del processo si esprimono in “figure dello Spirito”.
Queste figure “sono delle entità allo stesso tempo ideali e storiche, in quanto esse esprimono delle tappe ideali dello spirito che hanno trovato una loro esemplificazione tipica nel corso della storia, e
rappresentano un materiale eterogeneo che riflette o rimanda ai settori più disparati della vita dello Spirito (gnoseologia, società, storia
della filosofia, religione, politica, ecc.)”.17
16
17
G. Giannantoni, Profilo della storia della filosofia, Loescher, Torino, 1969.
N. Abbagnano - G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, 2000,
p. 185.
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Ciascuna figura rappresenta insieme il superamento e la conservazione delle figure che la precedono, le quali non vengono da essa
eliminate, ma soltanto integrate con gli aspetti di cui esse ancora non
erano consapevoli, fino a pervenire alla consapevolezza totale dell’Assoluto.
La prima parte della Fenomenologia si articola in tre fasi, Coscienza, Autocoscienza e Ragione, che coincidono rispettivamente
con i momenti dialettici della tesi, della antitesi e della sintesi.
Nella prima fase, in cui predomina l’attenzione verso l’oggetto,
la coscienza, attraversando i tre momenti della certezza sensibile, della percezione, e dell’intelletto, comprende di dover risolvere l’intero
oggetto in se stessa diventando coscienza di sé, ovvero Autocoscienza. In questa seconda sezione l’attenzione si sposta dall’oggetto sul
soggetto, ovvero, l’io considerato in relazione con gli altri. Hegel
spiega come l’autocoscienza, solo dopo essere stata soggiogata da
un’altra e dopo aver provato la paura della morte e la fatica del servizio e del lavoro, giunge ad intuirsi come essere indipendente, acquisendo l’autonomia nei confronti delle cose.
Però questa libertà rispetto al mondo esterno non elimina un’altra e più profonda scissione: quella tra il finito e l’infinito, tra il
mutevole e l’immutabile, cioè tra l’autocoscienza e la divinità. La
consapevolezza di questa separazione, ancora irrisolta, dà luogo alla
figura della coscienza infelice: “essa è la figura più celebre, in cui
può essere riassunto l’intero ciclo della fenomenologia. La coscienza
infelice è quella che non sa di essere tutta la realtà e che perciò si
ritrova scissa in differenze, opposizioni conflitti dai quali è interamente dilaniata”.18 Per risolvere questa scissione e realizzare pienamente la propria libertà, l’autocoscienza cerca di perdersi nell’immutabile, nell’infinito: è il momento dell’ascetismo cristiano medioevale, in cui l’uomo (l’autocoscienza) si innalza a Dio e si perde in lui.
Grazie a questa unificazione la coscienza riconosce la propria assolutezza, si rende conto di comprendere in sé l’intera realtà diventa ragione; si realizza cosi la consapevolezza che la realtà è l’idea, ovvero
il pensiero stesso.
Questo processo di appropriazione della realtà da parte del pensiero avviene naturalmente in diversi gradi. Inizialmente, la ragione os18
N. Abbagnano - G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia,2000,
p. 185.
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servativa si appropria della natura conoscendola, cioè cercando nella
struttura del mondo naturale (inorganico e organico) la legge di se
stessa. Poi però, in un secondo momento, la ragione si accorge che, per
oggettivarsi nella realtà, non può limitarsi a conoscerla e ricercare in essa la giustificazione della “certezza di essere ogni realtà”, ma deve operare su di essa e produrre da sé con la sua attività consapevole. Quest’ultima però inizialmente assume la forma di una azione individuale,
e l’autocoscienza prima fa della realtà l’oggetto del proprio godimento
(l’azione indirizzata al piacere) poi cerca di imporre al corso delle cose
la propria norma interiore (la romantica “legge del cuore”). Ma l’obiettivo della completa appropriazione del mondo da parte della ragione è
raggiunto soltanto quando l’autocoscienza si realizza non più come ragione individuale, in singole azioni e singole opere, ma come ragione
universale, nei costumi e nelle istituzioni storico-politiche di un popolo.
Non più confinata nella sfera dell’individualità, ma oggettivata
nella concreta vita dei popoli, la ragione è diventata Spirito, ovvero
ciò che Hegel nella fase sistematica del suo pensiero denominerà
“Spirito oggettivo” o “eticità”, intendendo con ciò la Ragione che si
è realmente concretizzata nello Stato.
Lo Stato
La filosofia del diritto occupa un posto di enorme importanza
nella filosofia politica del XIX secolo e non solo.
Ripercorrendo il percorso hegeliano si nota come egli già nella
Fenomenologia accenni all’impossibilità per lo Spirito di superare la
sfera dell’individualità: essa, infatti, non è superabile finché ci si
pone dal punto di vista dell’individuo, si realizza solo nella fase dello
Spirito oggettivo e più precisamente nell’ultima fase dell’eticità.
In questa fase lo Spirito giunge a realizzarsi concretamente nelle
istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto dello Stato che
per Hegel è “l’ingresso di dio nel mondo”.
Tale questione viene affrontata dal filosofo nella sua fase più matura, infatti tracce significative di essa si rintracciano soprattutto nell’Enciclopedia e nei Lineamenti.
Ma lo Stato non potrebbe essere sintesi se non ci fosse un antitesi e l’antitesi non potrebbe esistere se non ci fosse una tesi.
Tesi ed antitesi sono rispettivamente rappresentate dal momento
della famiglia e da quello della società civile.
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La famiglia consta a sua volta di tre momenti: il matrimonio (basato sul “libero consenso delle persone [...] proprio a costituire una
persona, a rinunziare alla loro personalità naturale e singola in quella unità” e dunque “come ciò che è elevato sopra l’accidentalità delle passioni e del temporaneo libido particolare, come ciò che è in sé
indissolubile”),19 il patrimonio e l’educazione dei figli (che Hegel definisce come una loro “seconda nascita”).
Più complesso è il discorso sulla società civile. Infatti i nuovi nuclei famigliari che si sono venuti a creare si frantumano nel sistema
atomistico e conflittuale della società civile, che si identifica sostanzialmente con la sfera economico-sociale, giuridico-amministrativa
del vivere insieme, cioè come luogo di scontro e incontro che dovranno coesistere tra loro.
Esso a sua volta si articola in tre momenti: il sistema dei bisogni,
che nasce dal fatto che gli individui dovendo soddisfare i propri bisogni danno origine a diverse classi (sostanziale, formale,
universale), l’amministrazione della giustizia, che concerne la sfera
delle leggi e la loro tutela, la polizia e le corporazioni, che provvedono alla sicurezza sociale. Pur rappresentando il momento dell’antitesi, Hegel tiene a precisare che in realtà il momento della società civile è necessario, infatti, a questo punto, lo Stato deve solo indirizzare i vari particolarismi venutisi a creare verso il bene collettivo.
Dopo questi due momenti diventa più semplice percepire perché
Hegel intende lo Stato come la riaffermazione dell’unità della famiglia al di là della dispersione della società civile, esso è la “sostanza
etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile”.20
Lo Stato, inoltre, è fondamentalmente “etico”, cioè è inteso come
incarnazione suprema della moralità sociale e del bene comune.
Da questo punto di vista egli rifiuta il modello liberale (elaborato da autori come Locke e Kant), ovvero rifiuta uno Stato volto a garantire la sicurezza e i diritti degli individui, cosa che attribuirebbe ad
esso lo stesso compito della società civile, ossia di mediatore fra gli
interessi particolari degli individui. Tale visione comporterebbe una
confusione tra società civile e Stato, ovvero una sorta di riduzione di
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto: diritto naturale e scienza dello
Stato, Laterza, Bari, 1996.
20
G.W.F. Hegel, Enciclopedia, Laterza, Bari 1994.
19
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quest’ultimo a semplice tutore dei particolarismi della società civile:
“Se lo stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso vien posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti, e ne segue parimenti che esser
membro dello stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento.
Ma lo stato ha un rapporto del tutto diverso con l’individuo; giacché
lo stato è spirito oggettivo, l’individuo stesso ha oggettività, verità ed
eticità soltanto in quanto è un membro del medesimo”.21
Egli rifiuta inoltre il modello democratico che attribuisce la
sovranità al popolo, in realtà la sovranità dello Stato deriva dallo Stato
medesimo che ha in se stesso la sua ragion d’essere (“i molti come singoli la qual cosa si intende volentieri per popolo, sono certamente un
insieme ma soltanto come una moltitudine, una massa informe”).22
Hegel rifiuta inoltre il giusnaturalismo che concepisce i diritti naturali come esistenti prima ed oltre lo Stato, infatti “soltanto la società è la condizione in cui il diritto ha la sua realtà”.23
Nonostante ciò, Norberto Bobbio, comparando la filosofia hegeliana e quella giusnaturalista, definisce la filosofia del diritto di Hegel
“dissoluzione” e “compimento” della tradizione giusnaturalistica, intendendo con “dissoluzione” il rifiuto e la critica alle categorie fondamentali in base alle quali i giusnaturalisti avevano elaborato la teoria generale del diritto e dello Stato, e con “compimento” il tendere,
in fondo, alla stessa meta.
I motivi della dissoluzione sono fondamentalmente quattro:
• Mentre per i giusnaturalisti il singolo e l’individuo vengono prima
del tutto, per Hegel è vero esattamente l’opposto, cioè il tutto non
solo viene prima delle parti, ma è anche superiore alle parti di cui
è composto.
• Hegel, al contrario dei giusnaturalisti, rifiuta il contrattualismo
per la sua inconsistenza razionale: la volontà universale non può
essere costituita dalle singole volontà particolari. In questo modo la costituzione sarebbe solo un accordo arbitrario tra volontà
singole e non l’espressione di una razionalità universale e necessaria.
G.W.F. Hegel, op. cit. (1), par. 258.
G.W.F. Hegel, op. cit. (1), par. 303.
23
G.W.F. Hegel, op. cit. (2), par. 502.
21
22
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Mentre per i teorici del diritto naturale lo “stato di natura” era lo
stato immaginario di innocenza primitivo, punto di partenza ipotetico per arrivare allo stato civile in atto, per Hegel è lo stato
reale di guerra e violenza che si verifica là dove non esiste lo
Stato.
Lo stato di natura è per Hegel l’antitesi dello stato civile, è l’assenza di ogni forma di società.
• Mentre per giusnaturalisti esisteva un diritto naturale diverso e
superiore rispetto al diritto positivo, e quindi ha senso affermare
che una legge non è legge se non è giusta, in Hegel è lecito dire
che una legge è giusta solo per il fatto di essere legge, in quanto
la realtà è espressione della razionalità.24
Lo stato di Hegel ha in sé la sua ragion d’essere, il proprio scopo
e la sua sovranità e dunque non può che dipendere da esso stesso.
Lo Stato è organicistico, un’unione, un organismo vivente,
un tutto superiore alle sue singole parti, infatti non è l’individuo a
fondare lo Stato, ma lo Stato a fondare l’individuo, sia dal punto
di vista storico-temporale poiché lo stato è cronologicamente nato
prima degli individui, sia dal punto di vista ideale poiché lo Stato è
superiore agli individui esattamente come il tutto è superiore alle
parti.25
Pur essendo assolutamente sovrano lo Stato non è illegale in
quanto opera solo attraverso le leggi e nella forma delle leggi, di conseguenza si configura come uno stato di diritto fondato sul rispetto
delle leggi.
In esso la forma migliore di governo è la monarchia costituzionale che contiene in se stessa anche le forme classiche di governo:
monarchia (perché il monarca è uno), aristocrazia (al potere governativo intervengono alcuni) e democrazia (con il potere legislativo si
manifesta la pluralità in genere).
I tre poteri che regolano la vita politica della comunità sono:
il potere legislativo, il potere governativo (esecutivo) e il potere
sovrano, che compendia nella figura del monarca l’aspetto dell’in24
25
N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino, 1981.
N. Abbagnano - G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Milano,
1994.
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dividualità (il sovrano è una persona singola, cui spetta la decisione
finale) e quello dell’universalità (il sovrano rappresenta lo Stato e
decide in base al quadro normativo generale apprestato dal potere
legislativo).
Per questo Hegel si dice a favore della monarchia costituzionale,
nella quale il sovrano non comanda arbitrariamente (e quindi non è
pura soggettività), ma fonda la propria volontà sul rispetto della volontà popolare (ossia della componente oggettiva dello Stato).
I sudditi fanno sentire la propria voce attraverso l’attività legislatrice delle due Camere in cui si divide il potere legislativo: la prima, riservata al ceto agrario, è espressioni delle componenti politiche
più conservatrici e ha la funzione di garantire la continuità con il passato, la seconda, composta dai rappresentanti delle corporazioni in cui
si divide il ceto artigianale-manifatturiero, è portavoce delle forze più
innovatrici e progressiste.
Il potere legislativo, secondo il filosofo è il “potere di determinare e di stabilire l’universale”, concernendo “le leggi come tali” che
hanno, infatti, un carattere di universalità. Hegel ritiene che i ceti, in
qualità di rappresentanze alle due camere, svolgano una funzione mediatrice tra il governo e il popolo, essi, tuttavia, tendono a perseguire
i propri interessi trascurando l’interesse generale. Il popolo, del resto,
“non sa ciò che vuole” e il governo può agire nel modo migliore non
tenendo conto del punto di vista espresso dall’assemblea dei ceti. Il
potere governativo, che comprende in sé i poteri giudiziari e di polizia è rappresentato dalla “sussunzione delle sfere particolari e dei casi singoli sotto l’universale”,26 esso consiste nel riferire ai singoli
eventi le leggi universali.
Il potere sovrano, in ultimo, esprime, nel modo più ampio l’unità dello Stato: il sovrano rappresenta, nella sua persona, la sovranità dello Stato stesso. È, peraltro, necessario distinguere il potere
sovrano dal vero e proprio potere politico, il quale appartiene al governo.
Posizioni a confronto: conclusione
Proponendo un confronto fra la filosofia pratica di Kant e l’attuazione dello Spirito assoluto di Hegel, è senza dubbio necessario
26
G.W.F. Hegel, op. cit. (1), par. 273.
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sottolineare come lo spirito illuminista influenzi il primo liberalismo
contrattualistico kantiano, strettamente connesso alla capacità del singolo di auto-determinarsi attraverso la razionalità, in una continua
tensione al dover essere; ed è impossibile prescindere dalla tendenza
giustificazionista dello Stato prussiano esistente, di stampo conservatore e monarchico influenzata dal clima post-rivoluzionario della restaurazione.
La morale kantiana è una morale formale, non contenutistica:
l’imperativo categorico si configura come un dovere che rimanda ad
un principio di legislazione universale; la legge non riguarda il contenuto dell’azione, ma il come agiamo: “La rappresentazione di un
principio oggettivo, in quanto esso costringe la volontà, si chiama un
comando della ragione, la formula del comando si chiama imperativo. Tutti gli imperativi sono espressi con la parola del dovere, ed indicano con questo la relazione tra una legge oggettiva della ragione
e una volontà”.27
Inoltre, non c’è alcun principio eudemonistico alla base dell’etica; nel conflitto fra razionalità e felicità prevale il senso del dovere.
Pertanto, la tensione dell’essere al dover essere non viene mai
meno; la libertà esprime, in quanto presupposto della validità della
legge universale la possibilità della scelta da parte dell’individuo.
“È la legge morale” scrive Kant “della quale diventiamo consci,
ciò che ci si offre per il primo e ci conduce direttamente al concetto
di libertà, in quanto la ragione, presenta quella legge come un motivo determinante, che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche, perché del tutto indipendente da esse”.28
Importante merito kantiano è l’aver rivendicato il carattere autonomo della morale che fonda la propria validità nell’interiorità della
persona, la cui azione ha valore universale; la coscienza della legge
morale è coscienza di principi teoretici puri, che trovano compiuta
realizzazione nell’agire etico.
Kant afferma che la volontà buona, inerente alla sfera della moralità, per il suo carattere disinteressato è l’unico bene assoluto, in
quanto concerne l’intenzione come volontà di adempiere al dovere,
indipendentemente da fini particolari: “La volontà buona è tale non in
27
28
I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., pp. 12-13.
I. Kant, Critica della Ragion pratica, cit., pp. 166-167.
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grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, ma soltanto per il dovere ossia per se stessa... Potere, ricchezza, onori, la stessa salute, quel completo benessere e quella contentezza del proprio stato che prendono il
nome di felicità, producono coraggio e sovente anche presunzione
quando faccia difetto la buona volontà che rende ben diretto e indirizzato a fini universali il loro influsso sull’animo e sul principio generale dell’agire...”.29
Hegel assume l’essenzialità della morale kantiana, la inserisce
nel contesto della politica aristotelica che egli adotta come percorso
verso l’eticità e, di conseguenza, la moralità del sistema hegeliano è
nel luogo giusto e con il ruolo che le spetta.30
Nella Filosofia del Diritto, Hegel supera l’antinomia kantiana
tra essere e dover essere: lo Spirito oggettivo ha il compito di conciliare la libertà individuale dei singoli io e subordinarla al bene concreto, esistente e oggettivo, incarnato dallo Stato etico. Lo Spirito si
dialettizza in Diritto, Moralità ed Eticità che è la sintesi delle prime
due, in quanto promuove nel concreto l’obbedienza alle leggi dello
Stato, accettate in quanto corrispondenti all’intima spiritualità; il cittadino è membro dello stato, garante delle norme giuridiche e risolve in ultimo la sua completa oggettivazione nella realtà delle istituzione prussiane precostituite. “Il bene”, afferma Hegel, “che qui è il
fine universale, deve non restare semplicemente nel mio interno, ma
anche realizzarsi. La volontà soggettiva, cioè, esige che il suo interno, ossia il fine, consegua esistenza interna, che, quindi il bene debba esser compiuto nell’esistenza esterna. La moralità e il momento
precedente del diritto sono due astrazioni, la cui verità è solamente
l’eticità”.31
Se, dunque, Kant identifica la libertà dell’individuo, condizione
necessaria del sorgere della moralità, Hegel fa altrettanto, identificando la libertà come natura dell’autocoscienza realizzatasi definitivamente nell’eticità; ma per Kant la libertà rimanda alla scelta, alla
possibilità pura dell’azione, di matrice chiaramente illuministica; Hegel, al contrario, attribuisce al dovere la liberazione dell’attuazione
dell’autocoscienza, associando all’idea della libertà, quella della necessità nel quadro di una progressiva e definitiva realizzazione dello
I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., pp. 49-50.
C. Lacorte, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni, 1959, pp. 101-111.
31
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto, pp. 200-220.
29
30
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Spirito, della razionalità nel reale. “L’eticità”, scrive Hegel, “è l’idea
della libertà intesa come il bene vivente, il quale ha nell’autocoscienza il suo sapere, volere, e ha la sua realtà grazie all’agire dell’autocoscienza, così come questa ha nell’essere etico la sua base essente in sé e per sé e il suo fine: motore il concetto di libertà divenuto mondo sussistente e natura dell’autocoscienza. Il dovere vincolante può apparire come limitazione, soltanto di fronte alla soggettività
indeterminata o libertà astratta, ma l’individuo ha nel dovere la sua
liberazione dalla dipendenza degli impulsi naturali, dalla depressione della particolarità soggettiva. Nel dovere l’individuo si libera alla
libertà sostanziale”.32
La volontà dell’individuo, che Kant riteneva unica legislatrice,
garante dell’universalità dei precetti etici che trovano riscontro della
propria validità nell’intenzione del singolo, agisce non solo in conformità, ma nell’interesse e per ossequio alla legge morale stessa; in Hegel, questa volontà concerne la sfera della moralità, ma non si esaurisce, per il suo carattere astratto, nella dispersione degli interessi particolaristici della società civile, ha necessità di uniformarsi alla volontà
dello Stato, spirito etico consapevole del suo compimento: “L’autodeterminazione della volontà è insieme momento del concetto della
volontà e la soggettività non soltanto il lato dell’esserci della volontà,
bensì la determinazione propria di questa. Il punto di vista morale è,
perciò, nella sua figura il diritto della volontà soggettiva. Secondo
questo diritto la volontà riconosce ed è qualcosa solo nella misura
in cui questo qualcosa è il suo, essa vi è a sé come cosa soggettiva”.33
L’universalità della volontà data dai valori concreti, realmente
perseguibili e la sua esistenza particolare incarnata negli individui sono strettamente interconnesse, poiché la volontà soggettiva è presupposto della volontà universale sintesi della prima e del diritto astratto;
ciascun individuo coglie la distinzione fra la determinazione volontaria della volontà e la sua attuazione rispecchiandosi perfettamente
nell’una e nell’altra.34
In conclusione la maggiore differenza tra Kant e Hegel è caratterizzata dal problema del dualismo tra essere e dover essere. Kant è
G.W.F. Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto, pp. 133-136.
G.W.F. Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto, pp. 95-96.
34
N. Abbagnano - G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Milano,
32
33
1994.
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convinto che il dover essere non può ridursi all’essere. Hegel in un
certo senso, concorda con Kant nel sostenere che l’essere non possa
esser ridotto al dover essere, insiste però sul fatto che l’essere abbia
esso stesso le proprie radici in una sfera ideale e che perciò proprio
nella realtà si attui quel dover essere, che nella prospettiva kantiana
rimane un compito incessante verso cui l’individuo indirizza i propri
sforzi. Hegel è convinto che nella realtà storica si manifesti una ragione e che le istituzioni si ispirino a criteri di razionalità. Nell’ambito della filosofia pratica Kant insiste sulla decisione del singolo individuo di essere morale, Hegel invece è convinto che la scelta dell’individuo di essere morale è necessaria e un fatto sociale di grande rilevanza. Hegel ha intravisto il pericolo insito nell’attitudine morale ed
implicito nella capacità di riflettersi fuori dal mondo reale, che può
condurre all’arbitrio di una soggettività, che rimane tale e non si eleva all’universalità.35
35
http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=58 Intervista a Vittorio Hösle, Da
Kant a Hegel.
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CAPITOLO II
SCELTA INDIVIDUALE E FINI SOCIALI DELL’AGIRE:
L’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ
DA M. WEBER A J. HABERMAS AL PENSIERO FEMMINILE
L’uomo da sempre si interroga su quali siano i fini sociali dell’agire e come si possa operare secondo le regole della morale. In questa
sezione abbiamo scelto di prendere in considerazione, mettendo a confronto fra loro, le diverse posizioni di alcuni filosofi che hanno trattato questo argomento tra il XIX e il XX secolo. In continuità con il capitolo precedente, in cui è stato trattato il medesimo tema riferito alle
codificazioni classiche sull’etica e ai riflessi di esso nella cultura europea, riteniamo opportuno fornire una breve delucidazione riguardo il
termine “Etica”. Sin dai tempi di Socrate, i filosofi hanno mostrato un
grande interesse nei confronti dell’uomo e di come debba agire. Nonostante questo argomento sia ancora oggi oggetto di un acceso dibattito, gli studiosi concordano nel ritenere l’etica come quel ramo della
filosofia, che si occupa dei fondamenti oggettivi e razionali in base ai
quali giudichiamo un comportamento buono e giusto oppure deplorevole e moralmente scorretto. Partendo da questa definizione, il dibattito verte in primo luogo sulla possibilità o meno di estendere la questione morale indistintamente a entrambi i sessi e così giungere ad una
morale universale. Si è scelto di riportare fra le varie posizioni quella
di Max Weber36 (1864-1920), iniziatore della sociologia moderna.
Questi parte da una “filosofia dei valori”, all’interno della quale riconosce come presupposti la distinzione tra essere (Sein) e dover essere
36
Max Weber nasce a Erfurt, in Turingia, nel 1864. Figlio di un’agiata famiglia borghese di tendenze nazional liberali, sin da giovane entra in contatto con vari intellettuali
dell’intelligentsia tedesca. Frequenta la facoltà di giurisprudenza e contemporaneamente
coltiva i suoi interessi riguardanti la storia, l’economia, la filosofia e la teologia. Docente
di economia politica, a causa di una malattia interrompe gli impegni scientifici e accademici. Oltre ai numerosi viaggi in Europa compie, nel 1904, un viaggio in America dove
fonda la rivista “Archivio di scienza sociale e politica sociale”. Nel 1908 è fra i fondatori
della Società tedesca di Sociologia. Al termine del primo conflitto mondiale è uno dei costituenti per la Repubblica di Weimar (è uno degli ispiratori dell’articolo 48 che, in caso
di emergenza, riconosceva al presidente della Repubblica il potere di sospendere le garanzie costituzionali). Nel 1918 insegna prima a Vienna e poi Monaco, dove muore due
anni più tardi.
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(Sollen) e quel “politeismo dei valori” espressione del riconoscimento
di una pluralità di sfere dei valori. Mentre la scienza si sofferma sulle
azioni concrete, la filosofia ha come oggetto lo studio dei valori, come
un qualcosa di mutevole e relativo e non inteso in una maniera assolutistica e immutabile. All’interno di un mondo che per sua natura è privo di significato, il compito fondamentale di ogni essere umano è proprio quello di attribuirgliene uno: per questo motivo, il mondo si è spopolato degli dèi e delle forze magiche per diventare il puro e semplice
teatro dell’agire razionale dell’uomo. Proprio perché i valori sono tanti e divergenti, qualora ne vengano tralasciati, non ne verrebbero annoverati altri: in ciò consiste quella che Weber chiama “collisione” dei
valori. Tuttavia la conflittualità non si esaurisce esclusivamente in questo ambito, bensì procede entro i limiti di uno stesso campo di valori:
così, se prendiamo come esempio l’ambito estetico, gli artisti ricercano il bello, ma lo concepiscono poi in maniera differente. Così un artista prenderà spunto dai valori barocchi, un altro artista da quelli gotici, un altro ancora da quelli classici.
Il dibattito sul tema etico è, ancora ai giorni nostri, molto attuale e
frutto di diverse riflessioni da parte dei diversi intellettuali. Una posizione di grande rilievo ha assunto il pensiero filosofico di Max Weber.
La medesima frammentazione di valori si riscontra anche nell’etica, alla quale Weber dedica uno tra i suoi saggi più emblematici,
Tra due leggi37 (1916). Il “politeismo dei valori” si rispecchia nell’etica sotto forma del dualismo tra l’etica dei principi e l’etica della
responsabilità.
Nel primo caso si ha a che fare con principi assoluti, di cui l’etica si nutre non curandosi delle conseguenze a cui essi conducono. Nel
caso in cui ci si sofferma sul rapporto tra mezzi e fini parliamo, invece, di etica della responsabilità. Questa, rifiutando principi assoluti,
opera valutando in ogni situazione il prodotto delle sue azioni. Di
conseguenza è evidente che l’etica della responsabilità e l’etica dei
principi risultano essere antitetiche e in netta contrapposizione dal
momento che entrambe si riferiscono a differenti tipologie all’interno
della concezione politica. D’altronde, come puntualizza lo stesso Weber, “la politica scatena forze demoniache”.
Scritto nel 1916, con questo testo Weber interviene nella polemica giornalistica,
condotta da un periodico femminista ante litteram, il “Die Frau”. Lo scritto è annoverato
fra quelli appartenenti al gruppo riguardante l’etica e le scienze sociali.
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La differenza sostanziale fra i due modelli di etica sopracitati risiede nel diverso rapporto instaurato con la politica. L’etica dei principi trascura la sfera politica in quanto non si cura delle possibili ripercussioni che il suo agire potrebbe avere sul mondo e in maniera
specifica sul genere umano. Al contrario, l’etica della responsabilità
presenta, per sua stessa natura, un legame indissolubile con il mondo
della politica.
Max Weber analizza le condizioni necessarie al buon funzionamento del capitalismo. Dall’età moderna e soprattutto dallo svilupparsi in Europa dell’etica calvinista, la quale sostiene il primato della
coscienza, è iniziato un percorso di razionalizzazione che ha avuto lo
scopo di far cessare tutte le premesse teologiche o metafisiche sulle
quali si basavano i giudizi universali di valore. L’uomo non è più “illuso” dai suoi ideali e dalla visione positivistica su cui questi ultimi
possono essere fondati. Per contro vi sono dei “tipi ideali” che non si
possono vagliare in base a criteri assoluti, ma in base alla loro adeguatezza all’interno dei fatti storici. Questi “tipi” sono quindi i concetti generali di diverse realtà storiche e sociali, che possiedono un
carattere utopico dal momento che presentano dei modelli razionali a
cui si deve confrontare la realtà. L’uomo sempre di più si chiude in
una “campana di cristallo” creata da lui stesso e accentua la crisi causata dall’opposizione delle norme alle quali la persona obbedisce come specialista e le norme alla quali propenderebbe come uomo. Alla
responsabilità dell’uomo di fronte a sé si giunge così ad una responsabilità del funzionario di fronte all’istituzione. Da questi fattori la libertà si presenta come pura intenzione e la razionalità non si configura come l’opposto della libertà stessa.
Compito dell’uomo non è propendere verso un impossibile blocco
e cambiamento radicale di rotta del processo di razionalizzazione, ma
prenderne coscienza, con l’obbiettivo di muoversi al suo interno con la
maggior cognizione possibile dei motivi finali del proprio agire.
Per Weber dunque l’agire umano si configura come un agire sociale; questo fa un continuo riferimento all’agire degli altri. Weber in
una delle sue opere più importanti, Economia e società,38 distingue
quattro differenti tipi di agire sociale:39
Compreso nel gruppo degli scritti riguardanti gli studi di sociologia generale,
viene scritto nel 1922 e pubblicato postumo, è la summa delle idee e delle esperienze di
Weber nella ricerca storica e sociologica. In quanto tale ha condizionato la successiva
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L’agire razionale rispetto allo scopo, che si basa sulla ricerca dei
mezzi più idonei per conseguire scopi prefissati
L’agire razionale rispetto al valore
L’agire affettivo (fondato sulle emozioni)
L’agire tradizionale (dettato da consuetudini e costumi acquisiti).
Mentre i primi due si riferiscono ad un atteggiamento razionale
contrapposto; l’agire affettivo e quello tradizionale concernono un atteggiamento non razionale. Fra questi Weber sofferma la propria attenzione sul primo tipo di agire, in quanto sostiene che sia ciò che caratterizza la fisionomia del mondo moderno.
Questi modi di agire nella realtà si trovano fusi tra di loro. Ogni
conoscenza concettuale della infinita realtà da parte dello spirito umano finito poggia sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di
essa debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò
risulterà “essenziale” nel senso di essere “degna di venir conosciuta”.
La concezione weberiana di etica ha contribuito ad alimentare
maggiormente la riflessione tra i contemporanei. Per Weber, dunque
l’agire umano si configura come agire sociale nella misura in cui il
coinvolgimento dell’altro definiva le modalità e le regole che caratterizzano un gruppo umano in una determinata situazione storica.
La posizione di Weber viene corretta e in parte integrata da J.
Habermas.40
evoluzione della sociologia, mentre nel campo della storiografia ha svolto una funzione
meno rilevante. In particolare essa ha influito sugli studi relativi alla nascita dello stato
moderno e della burocrazia e, in misura più ridotta, alla religione in epoca moderna e
contemporanea.
39
Nicola Abbagnano - Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia,
Milano, 1994, p. 118.
40
J. Habermas ha vissuto fino al conseguimento del diploma di maturità a Gummersbach. Ha studiato a Gottinga (1949-50), Zurigo (1950-51) e Bonn (1951-54) dove
nel 1954 si laurea con una tesi dal titolo: “L’Assoluto e la storia. Sull’ambivalenza nel
pensiero di Schelling” (Das Absolute und die Geschichte. Von der Zwiespältigkeit in
Schellings Denken). Inizia una straordinaria carriera come professore di filosofia all’Università di Heidelberg, dove insegna fino al 1964. Dal 1964 al 1971 Habermas è stato professore di filosofia e sociologia alla Goethe-Universität di Francoforte. Nel 1971 si trasferisce a Monaco, dove insieme a Carl Friedrich von Weizsäcker guida il “Max-PlanckInstitut per la ricerca delle condizioni vitali del mondo tecnico scientifico”. Nel 1981 pubblica il suo lavoro più importante, Teoria dell’agire comunicativo. Nel 1983 torna a Francoforte dove gli viene assegnata la cattedra di filosofia sociale e filosofia della storia e nel
1994 viene nominato Professore Emerito.
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Il filosofo francofortese ritiene che il deficit delle sue teorie è da
vedersi nel fatto che sono prive di un concetto sufficientemente differenziato e complesso della razionalità, e di conseguenza delle possibili
dimensioni di razionalità degli ordinamenti sociali: “i concetti fondamentali di azione di Max Weber (...) non sono abbastanza complessi
per cogliere nelle azioni sociali tutti gli aspetti ai quali si può applicare la razionalizzazione sociale”.41 La sola dimensione riscontrabile nella teoria di Weber è di tipo teologico strumentale (riguardante dunque
l’idoneità dei mezzi rispetto al fine desiderato); essa si traduce, per
Weber, in “una gabbia d’acciaio”, che porta alla perdita di senso e di
libertà. Nella filosofia di Weber sono riscontrabili indicazioni che permettono di operare una distinzione tra le tre “dimensioni fondamentali della modernizzazione”.42 All’interno della sfera sociale la modernizzazione dà vita a due “ambiti autonomi” rispetto allo scopo: l’economia capitalistica e lo stato centralizzato;43 per quanto riguarda la sfera culturale, invece, questo processo di razionalizzazione del mondo si
concretizza in diversi ambiti culturali (scienza e tecnica indipendenti
dalla metafisica; arte indipendente rispetto al sacro). Nel piano della
personalità Weber identifica la modernizzazione con l’affermazione di
quella che Petrucciani definisce una “condotta metodica di vita”, la cui
base ideale è la religione protestante. Tuttavia il limite di Weber risiede anche nel fatto che questi non attribuisce alle differenti sfere in cui
si divide la modernità un valore universale, ma concepisce l’esistenza
di diversi punti di vista. Habermas non concorda con quest’ultima affermazione di Weber in virtù del fatto che egli è convinto che queste
“strutture della modernità” siano dotate di un valore universale. Tuttavia il pensiero di Habermas non si discosta del tutto dalla tradizione
weberiana e da quella della Scuola di Francoforte: come infatti egli dice in Teoria dell’agire comunicativo, “il tema filosofico fondamentale
è la ragione”. Il problema principale viene riscontrato, come sottolinea
S. Petrucciani,44 nell’identificazione della vera razionalità nel mondo
41
J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt 1981, trad. italiana di P. Rinaudo, Teorie dell’agire comunicativo, a cura di G. Rusconi, Il Mulino, Bologna, 1986, volume I, p. 231.
42
S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Bari, p. 106.
43
Ivi, pp. 246-247.
44
Stefano Petrucciani è Professore ordinario di Filosofia Politica presso la facoltà
di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”. Ha diretto il Dipartimento di Studi
Filosofici ed Epistemologici (dal 1 novembre 2006 al 30 giugno 2010) e dal luglio 2010
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compiutamente razionalizzato. Il punto di partenza in Teoria dell’agire
comunicativo è costituito dall’analisi dedicata al tema della razionalità
che viene articolato dal filosofo in due differenti direzioni:
• Razionalità di azioni che mirano al perseguimento di uno scopo
• Razionalità di espressioni linguistiche (come ad esempio le affermazioni o le domande).
Il primo punto ha come fine un’azione direzionata verso un determinato oggetto che trova soddisfazione qualora trovi le condizioni
necessarie per agire nel mondo oggettivo. Nel secondo caso, invece,
un’azione definita linguistica è razionale “soltanto se il parlante soddisfa le condizioni che sono necessarie per il conseguimento dello
scopo illocutivo di intendersi su qualcosa nel mondo con almeno un
altro partecipante alla comunicazione”.45
Richiamandoci alla distinzione appena fatta è possibile tracciare
il concetto di agire comunicativo che costituisce il cardine dell’opera
habermasiana del 1981. Come sostiene S. Petrucciani, l’agire comunicativo è contraddistinto da un’azione in cui vengono completamente messe in atto le potenzialità di intesa del linguaggio. Dunque il valore assoluto dell’agire comunicativo secondo Habermas si ha dunque
quando “i progetti di azione degli attori partecipi non vengono ordinati secondo egocentrici calcoli di successo, bensì attraverso atti dell’intendersi”.46
Inoltre, Habermas, basandosi sulla distinzione di Popper47 dei tre
mondi (il primo quello degli oggetti fisici, il secondo proprio degli
stati mentali, il terzo tipico dei contenuti di pensiero), ne distingue tre
differenti:
dirige il Dipartimento di Filosofia. È membro della Giunta della Società Italiana di Filosofia Politica. È stato responsabile di Unità di Ricerca Prin (Cofin) negli anni 2001, 2003,
2005. Oggetto primario delle sue ricerche è stata la teoria critica della società della Scuola
di Francoforte. Al pensiero di Adorno e Horkheimer Petrucciani ha dedicato un volume
nel 1984 (Ragione e dominio, Roma 1984) e numerosi studi negli anni successivi.
45
Op. cit., p. 65.
46
Op. cit., pp. 394-406.
47
Sir Karl Raimund Popper (Vienna, 28 luglio 1902 - Londra, 17 settembre 1994) è
stato un filosofo epistemologo austriaco, naturalizzato britannico. Popper è anche considerato un filosofo politico di statura considerevole, difensore della democrazia e del liberalismo e avversario di ogni forma di totalitarismo. Egli è noto per il rifiuto e la critica dell’induzione, la proposta della falsificabilità come criterio di demarcazione tra scienza e
non scienza, la difesa della “società aperta”.
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1) il mondo oggettivo degli eventi;
2) il mondo sociale delle norme;
3) il mondo soggettivo dei dialoganti.
Ad ognuno di questi tre mondi corrisponderebbe un determinato modus agendi: al mondo oggettivo coincide l’“agire teleologico”
(ovvero quello che si pone come obiettivo principale quello di raggiungere scopi fissati in precedenza), al quale corrisponde la verità
della proposizione; al mondo sociale delle norme corrisponde l’agire
determinato da leggi, alle quali a sua volta corrisponde la correttezza
della regolamentazione. Ultimo ma non per questo meno importante,
si ha l’agire drammaturgico che si configura come “un’interazione
sociale come un incontro nel quale i partecipanti costituiscono gli
uni per gli altri un pubblico visibile e si rappresentano reciprocamente qualcosa”.48 La divisione proposta da Habermas riprende, in
certa misura (in molti punti mutandola), quella compiuta in precedenza da Weber in Economia e società, opera all’interno della quale
classificava anch’egli quattro differenti tipologie dell’agire (l’agire
razionale rispetto allo scopo, l’agire razionale rispetto al valore,
l’agire affettivo, l’agire tradizionale). L’agire strategico (detto anche
“teleologico”) su cui Habermas si sofferma è, sotto molti punti di
vista, una riproposizione dell’“agire razionale rispetto allo scopo” di
Weber.
Entrando nel particolare, l’agire strategico ha alla base il presupposto secondo cui noi agiamo in vista di scopi ben determinati (perciò è anche detto “agire teleologico”), adottando una certa strategia:
a dirigere tale agire sono il calcolo dell’utile e dello scopo finale.
Significativamente Habermas dice che si ha agire strategico “se prendiamo le mosse da almeno due soggetti agenti, in modo finalizzato,
che realizzano i loro scopi mediante l’orientamento e l’influenza sulle
decisioni di altri attori”.
Per quanto riguarda l’agire regolato da norme, in esso si riconosce l’esistenza di una dimensione in cui vige l’inganno, ma si ritiene
anche che, accanto ad esso, ve ne sia un’altra, coincidente con il
mondo dell’agire morale e del dovere. L’agire strategico fa riferimento ad un solo mondo, (quello degli stati di fatto e degli eventi); al
contrario, nell’agire regolato da norme, l’immaginario dell’attore si è
48
M. Weber, Il metodo delle scienze storico-naturali, Mondadori, Milano, p. 63.
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sdoppiato e, oltre al mondo reale riesce a vedere quello dei fini e dei
valori. Scrive Habermas: “il concetto di agire regolato da norme presuppone relazioni tra un attore e due mondi: al mondo oggettivo degli stati di fatto esistenti, si aggiunge il mondo sociale [...] dell’agire
regolato da norme”.
Penultimo tipo di agire è quello drammaturgico, nel quale gli
individui agiscono ai fini di un’autorealizzazione simbolica. Con esso
si fa riferimento ad un’interazione sociale come un incontro nel quale
i partecipanti costituiscono gli uni per gli altri un pubblico visibile e
si rappresentano reciprocamente qualcosa. È particolarmente importante la nozione di pubblico. Nel caso dell’agire drammaturgico, il
pubblico acquisisce la fondamentale valenza di essere costitutivo di
quell’agire stesso, che si svolge fine a se stesso (si può parlare, in
questa prospettiva, di “agire per l’agire”); si tratta, evidentemente, di
un agire espressivo in cui rientra l’arte stessa. È la forma di agire in
cui meglio sono racchiuse e custodite le componenti sentimentali dell’azione umana (le passioni, le volizioni, le pulsioni, ecc). In questa
sezione abbiamo dunque deciso di affrontare e trattare i diversi tipi di
agire, presentando le posizioni che a nostro giudizio sono più rilevanti all’interno del pensiero sia maschile che femminile. Al di là delle dispute metodologiche riguardo la questione, qualunque teoria non
risulta, a nostro giudizio, abbastanza convincente nella sua applicazione pratica in maniera tale da permettere la risoluzione definitiva
del dibattito a favore di una o dell’altra posizione. Infatti sarebbe
opportuno, vista la validità di diversi punti contenuti in entrambe le
tesi, operare una commistione fra queste e da qui porre le basi per una
rifondazione etica e civile, valida per tutti gli esseri umani, senza
distinzione di sesso o razza. Il nodo principale del problema verte sull’individuazione della corretta definizione del termine “etica”, la
quale risulta non essere ancora del tutto delineata. Come accennato
all’inizio, la parola “etica” concerne la sfera sociale in cui l’uomo agisce e si rapporta con i suoi simili. Nonostante questa definizione sia
generalmente accettata dalla maggior parte degli intellettuali, il problema sorge nel momento in cui, andando oltre l’aspetto formale, ci si
sofferma sulle possibilità di interpretazioni che questo concetto suggerisce ad una più attenta osservazione, all’interno di una società
industrializzata e capitalista, quali quelle occidentali.
Infatti esclusivamente all’interno di civiltà che presentano un tale
livello di modernizzazione irrompe in modo prorompente la neces– 235 –
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sità di stabilire un corpus di principi generali che siano validi per tutti
gli individui.
Dopo aver trattato ed analizzato a fondo le posizioni di due tra i
più importanti pensatori che hanno contribuito in maniera significativa a tale dibattito riteniamo opportuno riportare un punto di vista
femminile: quello di Hannah Arendt,49 specificando prima cosa si
intende per “pensiero femminile”.
Con l’espressione ‘pensiero femminile’ si indica una riflessione
fenomenologica sulla soggettività femminile, posta a confronto con la
soggettività maschile, al fine di porre in evidenza elementi comuni e
differenti, allo scopo di integrare il sapere tradizionale che non aveva
posto specifica attenzione sul tema. Tuttavia è necessario precisare
come nel femminismo classico si cercava di costruire l’identità femminile partendo da un soggetto centrale, il maschio, ed elaborando
differenze rispetto a questo: in tal modo, la donna manteneva connotati di marginalità e risultava essere un polo contrapposto e non paritetico rispetto alla dominanza del polo maschile, che così diveniva
quasi un soggetto universale neutro.
Questo avviene anche nelle società contemporanee in cui come
afferma Adriana Cavarero:50 “Gli stereotipi permangono, ma in compagnia di meccanismi che consentono alle donne di essere immesse in
ruoli prima riservati agli uomini. [...] Le donne fanno il loro ingresso
nei luoghi tradizionali dei saperi e dei poteri solo se diventano surrogati del modello maschile, arrivando persino a scimmiottarne i gesti”.
49
Hanna Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 - New York, 4 dicembre 1975) è stata una
filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense. I lavori della Arendt riguardarono la
natura del potere, la politica, l’autorità e il totalitarismo. Fra le sue opere più significative ricordiamo: La banalità del male, pubblicato nel 1963, nella quale la Arendt ha
sollevato la questione che il male possa non essere radicale. Scrisse anche Le origini
del totalitarismo (1951), in cui tracciò le radici dello stalinismo e del nazismo, e le loro
connessioni con l’antisemitismo. L’opera però che delinea in maniera esemplare la sua
teoria politica venne pubblicata nel 1958 con il titolo Vita activa. La Condizione umana,
in cui ella intende recuperare tutta la portata del politico nella dimensione dell’uomo nel
tentativo di restituire “una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo
sociale”.
50
Adriana Cavarero nasce a Bra (in provincia di Cuneo) nel 1947. Si laurea in filosofia e lavora all’Università di Padova, sino al 1984. Insieme a Luisa Muraro è tra le fondatrici della “Libreria delle Donne” di Milano (1975) e nel 1984 della comunità filosofica “Diotima”. Attualmente insegna filosofia politica all’Università degli studi di Verona ed
è Visiting Professor presso la New York University. Fa parte inoltre del comitato scientifico di «Biennale Democrazia».
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La donna, quindi come soggetto pensante ed attivo all’interno
della società viene continuamente associata ad una sorta di surrogato
maschile e conseguenza di ciò è la perdita della propria femminilità,
senza che ne consegua un riconoscimento reale nel “mondo maschile”.
Considerando ciò si può facilmente intuire come il problema dell’eticità venga affrontato, nell’ambito del pensiero femminile, da un
punto di vista che tende molto più a considerare la comunità rispetto
all’individuo, ponendo il problema in una sfera che mira a conciliare
l’essere umano nella sua individualità con la società civile, senza differenziazioni di sesso o giustificazionismi.
La stessa Cavarero asserisce che: “Pensare la differenza sessuale significa non registrarla più con una gerarchia, giacché la differenza presuppone e mette in luce un differire. Immediatamente siamo
o di un sesso o di un altro. Un sesso non deriva dall’altro. Il femminile non è una specificazione del maschile, e viceversa”.
Dunque la filosofia deve prefiggersi il dovere, anche morale, di
eliminare il pensare la differenza dalla propria speculazione. Dovere,
questo, morale ed anche politico.
Rimanendo sempre all’interno della critica delle differenze sessuali e della diversa concezione dell’etica, è necessario ricavare uno
spazio anche al pensiero di Carol Gilligan la quale all’interno del suo
libro La Nascita del Piacere, sottolinea come, nonostante le conquiste dei movimenti femministi, il modello alla base dei rapporti tra i
sessi preveda comunque che l’amore porti alla perdizione e il piacere
sia associato alla morte: ciò accade perché le storie fondanti della civiltà occidentale sono narrazioni di traumi, e il patriarcato è intrinsecamente tragico.
È inoltre molto importante sottolineare come l’autrice abbia nel
corso della propria speculazione sviluppato un pensiero teso a considerare la donna non solo nell’ambito del suo essere madre, seguendo
anche la linea della Cavarero, ma anche del suo essere persona che si
trova a dover essere responsabile. In riferimento allo standard maschile, la morale femminile viene infatti ritenuta inferiore in quanto
maggiormente legata alla sensibilità. Le donne dunque non riuscirebbero a prescindere dai rapporti personali e dalla dimensione individuale. Infatti, in quest’ottica vediamo contrapposti due modelli etici:
quello maschile più legato ai concetti di equità, diritti, libertà, e quello femminile maggiormente legato a responsabilità, affetti, risposte ai
bisogni.
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La Gilligan, a questo punto elabora il concetto di “etica della cura”, che si caratterizza per un riferimento costante al “soggetto concreto” definito anche dai suoi legami affettivi, i quali sono da considerarsi come beni da tutelare. Questa, come è evidente, è una teoria
dell’etica che si contrappone alla cosiddetta “etica della giustizia”.
Tuttavia il punto debole dell’“etica della cura” sta proprio nel rischio
di cadere in posizioni relativiste e di conseguenza di non essere una
valida guida nell’affrontare questioni etiche.
Sicuramente più rigida nelle sue posizioni è Hannah Arendt, la
quale segue una linea di pensiero tesa a comprendere, ovvero a portarsi consapevolmente sulle spalle il fardello del nostro tempo. Da ciò
nasce la sempre rinnovantesi esigenza di spazzare il campo dai pregiudizi, in maniera tale da poter affrontare la realtà nella maniera
più obiettiva e per venire a capo della realtà del male, del perché lo
compiamo. Tre sono i grandi momenti della riflessione arendtiana sul
male: a) normalità e incommensurabilità del male; b) radicalità del
male; c) banalità del male. Sono tre modi di concepirlo in base a tre
questioni: 1) qual è la natura del male?; 2) qual è il suo rapporto con
la modernità?; 3) come può la filosofia resistere ad esso?
“Ho una metafora che non ho mai pubblicato, ma conservo per
me stessa, la chiamo pensare senza ringhiera. Si va su e giù per le
scale, si è sempre trattenuti dalla ringhiera, così non si può cadere.
Ma noi abbiamo perduto la ringhiera, questo mi sono detta”.51
Il “pensare senza ringhiera” di cui parla la Arendt è una metafora facilmente comprensibile: siamo abituati ad appoggiarci alla ringhiera dell’identità, al valore dell’unità, al pensiero, al sistema; oggi,
invece, “abbiamo perso la ringhiera”.
Da ciò si evince dunque come l’idea filosofica della Arendt riguardi “lo spessore pratico e politico dell’attività razionale”,52 una filosofia dunque che ha il dovere di rendere gli individui liberi e pensanti, consapevoli delle proprie azioni. Una filosofia quasi materna,
una guida che non permetta l’annullamento della coscienza morale
ma porti l’uomo ad una continua scoperta di se stesso e delle proprie
capacità mediante l’esperienza, che arricchisce e rende il singolo possessore di una responsabilità personale.
H. Arendt, Political thinking without a banister, M. Hill, New York 1979, p. 336.
F. Brezzi, presentazione a M.C. Briganti, Amo dunque sono. L’esperienza femminile tra filosofia e testimonianza, FrancoAngeli, Milano, 2002, p. 11.
51
52
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Il pensiero deve essere dunque legato all’azione e in particolar
all’azione politica nel momento in cui diviene prassi politica, ovvero
Etica. Esso infatti non può essere estraneo all’agire in quanto assumerebbe un valore distante ed estraneo all’individuo il quale non lo
sentirebbe più come proprio e, dunque, perdendo di significato, non
potrebbe realmente dare vita ad una responsabilità etica che poi si
esprime in un agire etico.
Da qui sorgono aporie, ma anche interrogativi di grande rilevanza; il filone che ci apprestiamo a seguire è identificabile come espressione della differenza sessuale, o filosofia, intrecciato con i temi, relativi al crollo della ragione sistematica, a cui si deve aggiungere la
messa in crisi del soggetto e l’irrompere dell’estraneità o della pluralità nel cuore del sé. Dunque possiamo individuare la dualità di genere come un necessario strumento di interpretazione del sé, del mondo
e della storia.
Affrontare il pensiero femminista all’inizio del Terzo Millennio
significa fare i conti non solo con una ricca produzione bibliografica,
ma anche con una vasta quantità di posizioni talora anche divergenti.
Si è infatti parlato di “pensare senza ringhiera”, si è detto che le filosofie contemporanee intraprendono un itinerario tentando l’interpretazione dei segni delle cifre del mondo in cui ci troviamo.
Dopo quanto detto è importante soffermarsi su come l’interrogarsi della donna su se stessa, la ricerca sull’identità femminile in
quanto tale, comporti dei cambiamenti radicali non unicamente in relazione all’indagine sulla verità, non solo in riferimento al recupero
del soggetto dimenticato nell’odierna crisi del Cogito ma in vista di
una ricodificazione etica e quindi di un’etica della differenza sessuale; il pensiero femminista diventa qui interlocutore primario di quel
dibattito costituisce uno dei momenti più interessanti, soprattutto nell’ambito bioetica. La vita quotidiana pone, infatti, in maniera ineludibile e stringente questioni etiche: ad esempio le scelte e le azioni riguardo la fecondazione assistita, gli interventi sugli embrioni, il dibattito sull’eutanasia, il tema dell’aborto. Queste sono tutte questioni
etiche che richiedono una rinnovata elaborazione etica, poiché la decisione che verrà presa cambierà le condizioni della vita associata e la
concezione stessa di vita, di morte, di corpo, connessa all’idea e alla
consapevolezza di maternità e paternità.
Il punto di partenza è dunque, come già sottolineato, ripensare il
sé da parte del soggetto, e del soggetto femminile, evitando almeno
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nelle riflessioni più “pensate” l’egualitarismo astratto come una mistica della femminilità. Tuttavia la differenza sessuale incontra nell’ambito dell’etica una sfida drammatica: parlare di soggetto morale
femminile e tentare di risolvere il problema della soggettività morale
contrasta con il concetto di morale come superamento delle inclinazioni particolari sensibili e ricerca dell’universale, teoria secondo la
quale la differenza sessuale è solo un vincolo naturale da superare per
giungere al soggetto morale che è neutro.
È necessario quindi decostruire i valori di fatto esistenti e costruire criticamente valori che possano essere condivisi come risultato di una procedura razionale accettata.53
53
C. Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano, 1987.
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CAPITOLO III
LA RICOSTRUZIONE DEL SOGGETTO AGENTE
ATTRAVERSO LA RIAPPROPRIAZIONE
DEL SENSO DELLE COSE E DELLA VITA
Se i postmoderni, trovandosi di fronte a una realtà “compatta”,
sentivano la necessità di decostruire, oggi sembra che ci si trovi di
fronte a un processo inverso, ossia a una realtà profondamente decostruita e delegittimata. Bisogna dunque ripartire dalla realtà, “perché
se non abbiamo la realtà e la verità non si capisce come si possa riconoscere la differenza tra trasformare il mondo e credere di trasformarlo”.54 Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento all’interno della società italiana, ormai in bilico tra il vecchio e il nuovo, si riscontrano profondi mutamenti. Autentici sconvolgimenti si susseguono con così grande velocità, tanto che si è potuto parlare di “accelerazione della storia”.
La situazione politica italiana di questo periodo è caratterizzata
anzitutto dal fenomeno del trasformismo parlamentare. Questo termine, che si diffuse dal 1882 durante il governo di A. Depretis, indica
una pratica politica, che consiste nell’abbandono e nell’annullamento
della tradizionale dialettica e della differenza ideologica fra parti politiche opposte all’interno del Parlamento.
Infatti si costituiscono maggioranze parlamentari a larga partecipazione, anche a prescindere dagli schieramenti ideologici e dunque
dei partiti di riferimento. I cosiddetti governi “tecnici” giustificano la
mancanza di un’autentica coesione politica.
Al tempo stesso, con l’evoluzione della società di massa all’interno di una produzione industriale sempre più orientata alla logica
del profitto si acuisce la conflittualità di classe e si assiste ad una sempre più forte mercificazione del lavoro intellettuale. Il mutamento è
stato così radicale e violento da provocare situazioni di smarrimento,
uno stato di dubbio permanente e in genere una condizione d’inquietudine, di diffuso malessere, che sicuramente ha influenzato la cultura
e il costume.
54
M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano, 2010.
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Le idee del Romanticismo si scontrano con le delusioni causate
in quegli anni dalla crisi dell’Europa, la quale, con il diffondersi dei
nazionalismi, si avvia verso la tragedia della prima guerra mondiale.
Anche le convinzioni del Positivismo, la nuova cultura predominante
nella classe borghese, che contava di risolvere ogni difficoltà alla luce
della ragione ritenendo che la storia umana si evolvesse solo in senso
positivo, si rivelarono del tutto insufficienti.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivista, gli intellettuali
del ’900, generalmente provenienti dal ceto medio borghese, una classe sociale che si vede schiacciata dalla forza indiscussa della grande
borghesia finanziario-industriale, vivono una profonda crisi d’identità. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di
malcontento, nonché la sensazione del vuoto e del nulla. “Come un
coperchio il cielo pesa grave e basso sull’anima gemente in preda a
lunghi affanni, e quando versa su noi, dell’orizzonte tutto il giro abbracciando, una luce nera triste più delle notti; e quando si è mutata
la terra in una cella umida, dove se ne va su pei muri la Speranza
sbattendo la sua timida ala, come un pipistrello che la testa picchia
su fradici soffitti”.55
È interessante notare come questi nuovi sentimenti non siano
sfociati in un “serio impegno di lotta politica volta appunto alla instaurazione di una nuova società. (...) non l’impegno di trasformazione caratterizza questo movimento ma un cupo senso di stanchezza,
una tristezza, una sfiducia nell’agire umano, quasi un’ebbrezza di
rovina, dovuta alla coscienza di essere epigoni, la voce di un’età di
decadenza, di tramonto”.56 “Decadenti” vengono chiamati, in modo
dispregiativo, dai loro avversari.
Questi atteggiamenti fanno sì che l’artista si senta un emarginato, incapace di vivere in una società, in cui non si riconosce, totalmente estraneo al mondo che lo circonda e ai valori che lo dominano;
un mondo da cui è necessario fuggire, per rifugiarsi in nuovi “paradisi
artificiali”.
Il movimento del Decadentismo ebbe la sua concreta origine in
Francia con C. Baudelaire, P. Verlaine e A. Rimbaud e divenne un
fenomeno di carattere europeo che interessò ben presto anche l’Italia.
C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma (I ed. Parigi, 1875).
56
S. Guglielmino, Guida al ’900, Principato editore, Milano, 1971, p. 129.
55
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Il Decadentismo italiano ha le sue prime manifestazioni nell’opera poetica di G. Pascoli e G. D’Annunzio.
Le contemporanee esperienze culturali europee alimentano negli
scrittori italiani la tendenza ad evadere dal deprimente quadro della
realtà quotidiana e contribuiscono a suscitare sia esasperati sogni di
affermazione individuale (G. D’Annunzio) sia vagheggiamenti di un
mondo semplice, estraneo al tumulto e alla “cattiveria” della società
(Pascoli).
Tra gli autori del nostro decadentismo D’Annunzio è senza dubbio quello che più ampiamente riscosse l’ammirazione di una numerosa schiera di lettori; egli seppe infatti rivelare e incarnare, in se
stesso come nei propri personaggi, tutto un complesso di torbidi risentimenti, di vaghe rivendicazioni, di sogni di prestigio e di grandezza comuni a gran parte di uno sfumato ceto borghese deluso. Con
la presentazione di Andrea Sperelli, protagonista de Il Piacere,
D’Annunzio descrive quella che è la vera incarnazione dell’eroe decadente: “[...](A.S.) ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto spassionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità
del piacere[...]”. È qui importante notare come la raffinatezza si aggiunga al disprezzo per la mediocrità: questa è la strada, che anche
grazie ad una attenta lettura di Nietzsche, porterà D’Annunzio alla
ideologia del superuomo. A seguire: “[...]Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. [...]”.57 Questa è la massima fondamentale
dell’eroe decadente che tuttavia comporta un sostanziale impoverimento della vita affettiva a causa della incessante ricerca di una dimensione estetica del vivere.
I rapporti di Pascoli con il decadentismo sono più profondi e la
sua influenza sulla posteriore poesia italiana, sul piano del linguaggio
e dei moduli espressivi, sarà determinante.
La posizione pascoliana si lega ai motivi più autentici del decadentismo e – a differenza di quella dannunziana – appare oggi come
l’esperienza poetica più fertile, in Italia, di tale movimento. Smarrito
di fronte al mistero del cosmo e al dolore dell’uomo Pascoli tenta di
carpire alle cose di ogni giorno, il loro senso riposto, la loro componente di mistero.
57
G. D’Annunzio, Il piacere, a cura di Giansiro Ferrata, Oscar Mondadori, 1989,
cap. II, pp. 18-19.
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[...]
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
[...]58
In questi versi tratti da “X agosto”, Pascoli è in grado, partendo
da una malinconica e apparentemente innocua immagine naturalistica, di esprimere al tempo stesso la perdita della protezione familiare
del nido, la più assoluta assenza di conforto nella religione e soprattutto la solitudine che impedisce una qualsiasi apertura o comunicazione con il mondo esterno.
Pascoli con la sua poetica delle “piccole cose” e dello sperimentalismo linguistico (ad esempio le onomatopee presenti nel componimento “La mia sera”) rinnova profondamente il linguaggio e le strutture poetiche secondo canoni decadentistici.
Fu però solo più tardi, nei primi decenni del Novecento, con L.
Pirandello e I. Svevo, che il movimento del Decadentismo venne a
caratterizzare, in modo sempre più consapevole, le diverse correnti
artistiche ed ideali della nostra letteratura. La più grande scoperta della fine dell’Ottocento è l’inconscio. Freud è l’iniziatore della psicoanalisi, cioè di quella scienza che studia la mente umana nei suoi processi irrazionali. La psicoanalisi ispira inoltre molte opere letterarie,
sia per quanto riguarda gli argomenti sia per quanto riguarda la forma
narrativa (monologo interiore dei personaggi, flusso di coscienza),
come La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Il romanzo procede per
nuclei tematici nei quali il punto di vista di Zeno-narratore si scontra
con i molteplici Zeno che costituiscono l’io narrato. La dissoluzione
del personaggio è allusivamente anticipata dalla metafora iniziale: “la
vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale,
quello dell’onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istan58
G. Pascoli, Myricae, Rizzoli, Milano, 1981, p. 102.
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te finché non muore!”;59 e, per quanto non possa essere colta compitamente nell’ambito di poche pagine, è già accennata in alcune significative considerazioni, che riguardano per ora non tanto il trasmutare del personaggio nel tempo (che emergerà dal contesto di tutto il
romanzo) quanto la stratificazione ambigua della personalità. Ad
esempio, riguardo ai suoi rapporti con il suocero, Zeno afferma: “io
gli volli veramente bene, tant’è vero che ricercai la sua compagnia”;60
ma, nella stessa pagina la riflessione del presente, cioè dell’io narrante, suggerisce un’altra interpretazione di quell’affetto: “alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche
a quella parte di me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzione per
me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante, feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la
mia timidezza!”. Comincia ad emergere la natura egoistica di un sentimento che poi, nel corso della storia, disvelerà il suo fondo di odio.
Con questo romanzo, Svevo abbandona ormai i moduli narrativi tradizionali. Cambia il piano di rappresentazione: da quello oggettivo
del narratore demiurgico, creatore e organizzatore della vicenda, si
passa al piano soggettivo del protagonista. Per definire questo mutamento di prospettive che caratterizza tanta narrativa del Novecento
Auerbach61 ha scritto: “L’autore, quale narratore di fatti obiettivi,
passa quasi completamente in secondo piano; quasi tutto ciò che è
detto è il riflesso della coscienza dei personaggi”.
Il personaggio appare spaccato in numerose identità fluttuanti e
in divenire nel tempo, inserite nell’unica e immobile cornice della
Trieste piccolo-borghese. Il romanzo è narrato in prima persona, in
forma di memoriale: il personaggio protagonista, dall’identità scissa
e contraddittoria, scrive, su consiglio dello psicanalista, per “vedersi
intero”. Zeno frantuma la propria memoria in miriadi di ricordi,
lasciando emergere solo le esperienze cruciali della sua vita: ognuna
di esse dà il titolo ad una sezione del romanzo che, complessivamente, ne conta sei. I fatti, quindi, non si susseguono cronologicamente
secondo uno schema lineare. Spesso il passato si confonde con il
presente formando un unico impasto non scindibile. Il presente per
Svevo appare “frazionato come la luce di un prisma”, citando una
I. Svevo, La coscienza di Zeno, dall’Oglio Editore, Milano, 1976, p. 64.
I. Svevo, La coscienza di Zeno, dall’Oglio Editore, Milano, 1976, p. 68.
61
Erich Auerbach (1892-1957), filologo tedesco.
59
60
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celebre definizione dello storico della letteratura Arcangelo Leone de
Castris.62 Narrando oggi i fatti di ieri, Zeno scardina le categorie temporali in quanto il fatto o l’atteggiamento psicologico non vengono
presentati come una realtà definita una volta per tutte, ma con una
contaminazione di passato e di presente, con una molteplicità di prospettive e di valutazioni che si intersecano e sono dovute alle progressive modificazioni che quel ricordo ha assunto alla luce dei ripensamenti e delle esperienze posteriori. Tutto questo comporta la necessità di dipanare l’aggrovigliata matassa dell’interiorità. Si ha come
conseguenza il dissolversi del personaggio: il narratore tradizionale
ce lo presentava oggettivamente, come una realtà autonoma da descrivere, ora invece questa realtà non solo la vediamo nel suo fluire,
nel suo farsi, ma non assume – non può – una sua forma definitiva, in
quanto l’accumulo dei ricordi a posteriori proiettati su di essa non ne
permettono la cristallizzazione.
In realtà, questo viaggio a ritroso nella memoria non ricostruisce
l’identità frantumata, anzi la conferma. La frantumazione dell’io e le
contraddizioni che la accompagnano non sono vissute come un dramma, una perdita radicale, ma come una nuova possibilità di vita. Secondo de Castris il punto focale del romanzo è rappresentato dall’esigenza di una nuova conoscenza della realtà attraverso un catartico
processo di interiorizzazione: un procedimento artistico che si può
definire come “realismo della coscienza”, il quale consiste nella ricostruzione del dramma umano attraverso la disintegrazione della decadente e tarata realtà individuale.
Zeno non è una tra le tante incarnazioni dell’inetto novecentesco, ma il modello di un individuo nuovo, segnato dalla contraddittorietà degli impulsi e da una razionalità lucida e destabilizzante. Se
Pirandello teorizza la disgregazione dell’io, Svevo la realizza narrativamente. Ciò avviene non col metodo del flusso di coscienza, ma attraverso una scomposizione paradossale della realtà e dell’individuo.
A causa della frantumazione dell’identità del personaggio narrante, il
protagonista non è più una figura a tutto tondo ma una coscienza che
si costruisce attraverso il ricordo. Anche Pirandello come Svevo è, all’inizio della sua attività letteraria, incompreso. Riesce ad ottenere riconoscimento solo nel periodo critico del primo dopoguerra, momen62
A.L. De Castris (1929-2010), ordinario di letteratura italiana all’Università di Bari,
saggista e critico letterario.
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to in cui la sua opera diventa più facilmente comprensibile grazie alla concretizzazione del nuovo personaggio-uomo da lui già previsto
negli ultimi anni dell’800. Se Svevo aveva individuato come causa
dell’inquinamento alle radici della vita attuale l’accumulazione dei
beni e dei mezzi (anche di distruzione), a Pirandello invece interessa
semplicemente descrivere la vita così come è, senza alcun interesse
nei confronti delle cause che hanno concorso a renderla tale. “La sua
produzione descrive una piccola borghesia – impiegati, insegnanti,
possidenti, modesti interni di case di provincia o di palazzotti – ma
solo nella sua dimensione esistenziale”.63
In particolare, con un atteggiamento quasi anarchico o roussoiano individua come ragioni di tale condizione la storia ed il caso.
È indispensabile compiere in primo luogo un’osservazione rispetto all’opera di Pirandello: i temi di fondo che la caratterizzano
sono già presenti fin dai suoi primi romanzi. Contrariamente a molti
artisti il cui pensiero si costruisce gradualmente non senza incontrare
svolte e ripensamenti, Pirandello, invece, intraprende fin dal principio
una strada che non abbandonerà mai.
Del contrasto tra apparenza e realtà, dell’assurdità della condizione dell’uomo, del caso che regna nelle vicende umane è testimone
esemplare Mattia Pascal.
L’impossibilità di trovare un’unitarietà e la tendenza allo sdoppiamento raggiungono l’apice nel dialogo tra Adriano Meis e la propria ombra nel capitolo XV. In queste che possiamo considerare le
pagine più drammatiche del romanzo la tematica del “doppio” viene
resa evidente e drammatizzata:
“[...]Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l’ombra
del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi
la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta.
L’ombra d’un morto: ecco la mia vita...
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le
quattro zampe, poi le ruote del carro.
63
S. Guglielmino, Guida al ’900, Principato editore, Milano, 1971, p. 182.
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– Là, cosi! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da
bravo, sì: alza un’anca! Alza un’anca!
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via,
spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi.
Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per
cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre;
alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
«E se mi metto a correre», pensai, «mi seguirà!»
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione.
Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto
alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra
per le vie di Roma [...]”.64
Tra realtà e apparenza ci sono due distinte dimensioni:
1) la dimensione della realtà oggettiva, che è esterna agli individui
e che apparentemente è uguale e valida per tutti;
2) la dimensione della realtà soggettiva, che è la particolare visione
che coglie l’individuo solo negli aspetti che sono maggiormente
propri al particolare momento che sta vivendo e alla sua condizione sociale.
Quindi ci sono tante dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita dell’individuo.
Lo stesso Pirandello in una lettera alla fidanzata Antonietta, pochi giorni prima del matrimonio, confessa una propria vocazione allo
sdoppiamento: “[...]In me sono quasi due persone: Tu già ne conosci
una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso [...]”.65
Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi, una realtà oggettiva, ma solo una realtà soggettiva, che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra. L’uomo deve adeguarsi alle convenzioni impo64
65
L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (I ed. 1904), Bur, Milano, p. 196
Jean-Michel Guardair, Pirandello e il suo doppio, Edizioni Abete, Roma, 1977,
p.-58
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ste dalla società. Egli assume quindi una maschera, perché così è visto e giudicato.
Questa maschera è l’aspetto esteriore dell’individuo. “[...]Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella
matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane,
per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso
sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime,
per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime [...]”.66
Siccome il personaggio è condannato a recitare sempre la stessa
parte, non ha nessuna possibilità di mutare la propria maschera, e risulta essere lacerato da come vede se stesso, da come è visto dagli altri, da come crede di essere visto dagli altri. Quando il personaggio
scopre di essere calato in una maschera, determinata da un atto accaduto una sola volta e di essere riconosciuto e identificato in esso, cade in una condizione angosciosa.
Nella società l’unico modo per evitare l’isolamento è il mantenimento della maschera: quando un personaggio cerca di liberarsene
con un diverso comportamento viene considerato preso dalla follia;
per questo viene allontanato, rifiutato e considerato un elemento di disturbo della società.
Solo la follia permette al personaggio la possibilità di scoprire
che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi sono solo
momenti passeggeri, spesso irripetibili, perché il legame con le norme
della società è troppo forte.
È proprio l’antitesi tra “forma” e vita che diviene uno dei nodi
fondamentali della critica contemporanea e successiva. Il mondo dipinto da Pirandello appare ad Adriano Tilgher67 come il luogo del perenne scontro tra vita e “forma”: da una parte la vita dove tutto scorre, in continuo movimento e rigenerazione; dall’altra un mondo di
leggi e forme imbalsamate, di obblighi morali ed intellettuali che tentano di arginare e frenare il flusso rigenerante della vita. Secondo Tilgher la risposta a questo dilemma è rintracciabile all’interno dell’opera stessa di Pirandello: tentare di vivere la vita facendosi trasporta66
67
L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (I ed. 1904), Bur, Milano, pp. 50-51
A. Tilgher (1887-1941), filosofo e saggista italiano.
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re dalla follia, stadio puro e primordiale della mente umana, oppure
rinunciare alla Vita e uniformarsi alle leggi e agli obblighi determinando così una sorta di auto-pietrificazione. Tilgher propende verso la
prima eventualità identificando, con una notevole forzatura, la vita
con la libertà: tutto l’elemento doloroso, difficile, problematico della
ricerca pirandelliana viene così ad annullarsi. Se quindi da una parte
la sintesi tilgheriana presenta tratti di eccessiva sinteticità, tuttavia,
ha il merito di aver collocato Pirandello nell’ambito europeo e di
averne identificato i nessi con la filosofia contemporanea.
Decisamente pessimista è la posizione di Federigo Tozzi,68 il quale, sottolinea invece, il perenne dissidio tra spunto realistico e astrazione. Tale dicotomia genera quella che possiamo definire una “lirica
negativa”: nel mondo pirandelliano le uniche certezze sono le innumerevoli sfaccettature della sofferenza umana, che l’uomo mette in
scena come in una sorta di autopunizione, di riscatto da un peccato
originale che è il punto di partenza dell’esperienza umana. Tuttavia,
in conclusione, è forse lecito dare all’opera di Pirandello un’interpretazione diversa: questa vita collettiva regolata da rigidi codici di comportamento, spesso privi di senso e naturalezza, non è altro che il punto di partenza per la ricerca, da parte dell’individuo, dei propri limiti
e di quelli della società con lo scopo di superarli attraverso una dolorosa, ma anche umoristica, coscienza di sé.
La filosofia e in genere la cultura contemporanea hanno posto
come uno tra i temi privilegiati di analisi la questione del soggetto. Il
soggetto ha dato luogo così ad un decisivo dibattito che si enuncia
nella filosofia idealista, si mantiene in forme diverse nella sua crisi ed
oltre e sussiste ancora oggi come problema aperto.
Gran parte del pensiero contemporaneo sembra ormai vivere nell’assillo tardo-moderno caratterizzato da una smisurata nostalgia dell’essere. Il paradosso è quello rappresentato dal tentativo disperato
della filosofia di riappropriarsi del senso del mondo e delle sue cose.
Il soggetto è sempre in cerca di una direzione, di uno sbocco. L’io
profondo è un soggetto che cerca disperatamente di darsi un senso, un
volto, è come un attore che interpreta se stesso. Questo soggetto mancante è un soggetto in cerca di una consistenza, di una credibilità, di
una rappresentazione che lo rassicuri. Nella comunità ciò che si condivide non è la presenza, bensì l’assenza, la dissipazione dell’essere.
68
F. Tozzi (1883-1920), scrittore italiano.
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È l’assenza dei soggetti a rendere possibile la comunità. Pertanto è
necessario che l’identità del soggetto venga fatta a pezzi.
Il processo di riappropriazione del senso delle cose e della vita si
concretizza per Salvatore Natoli come una novità in ordine al senso
della storia, perché nell’avanzare l’esigenza di una differente fondazione della realtà opera una critica che va al di là di una semplice trasformazione di costume.
Nel contesto del dibattito sulla “crisi della ragione”, la preoccupazione del filosofo è quella di ricostruire il carattere costitutivo del razionalismo moderno a partire dall’idea di soggetto e di quella di fondamento. Se ancora oggi si continua a parlare del declino della modernità, con l’inevitabile deperimento del soggetto e l’inesorabile dissoluzione dei fondamenti, è perché, secondo Natoli, non si è riflettuto
abbastanza sulla particolarità metafisica della soggettività classica. È
tesi ormai largamente diffusa che il declino della modernità altro non
sia che l’esito necessario della dissoluzione dell’idea di soggettività
intesa come coscienza, che risulta essere il fondamento originario della modernità stessa. Il soggetto è esso stesso un’attività fondante, una
inquieta e incessante attività tesa a fondare, di volta in volta, e sempre
provvisoriamente, ciò che costitutivamente non dispone di alcun fondamento: il mondo e con esso la nostra stessa esperienza. Qualsiasi
tentativo da parte del soggetto di diventare padrone di se stesso mediante il processo dell’autocoscienza è vano. La cosa migliore, come
aveva affermato Schopenhauer, sarebbe piuttosto non essere mai nati.
Fondamentali in Natoli sono le opere Stare al mondo69 e Soggetto e Fondamento.70 Nella prefazione della prima il filosofo identifica
la condizione umana proprio con lo stare al mondo, ovvero con la
possibilità “per i singoli e anche per i diversi gruppi umani, semplicemente di venirsi a trovare in esso: per necessità o per caso poco
importa. Ma [...] anche di muoversi in esso, percorrere in lungo e
largo la terra soggiornando in spazi diversi, per tempi diversi e tuttavia nella condizione di essere sempre e inevitabilmente situati”.71
Una delle tematiche maggiori, su cui l’opera è incentrata, è la rivalutazione del quotidiano e la necessaria riconquista del presente. Infat69
Salvatore Natoli, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli,
Milano, 2002.
70
Salvatore Natoli, Soggetto e fondamento, Feltrinelli, Milano, 2010.
71
Op. cit., p. 7.
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ti, come Natoli fa notare, di fronte all’incertezza del futuro, e quindi
in assenza dei grandi progetti e dei programmi teorici e pratici a lunga scadenza, molti uomini trovano di fatto riparo e rifugio nel puro
presente, senza pensare né al passato né al futuro, e pretendendo in tal
modo “di saltare il tempo, di conquistare d’un colpo l’eternità. Ma
coincidere con l’assolutezza del momentaneo non è un modo adeguato per vivere davvero il presente, anzi è un’astuzia per fuggirlo. Questa fuga è soprattutto prerogativa dei deboli o comunque di quelli meno attrezzati a farsi carico delle fatiche del tempo, vale a dire di un
presente che è spazio, ambiente, circostanza che coincide in generale con il quotidiano ed è fatto di reti sociali, relazioni, impegni”.72
Con la seconda opera Soggetto e Fondamento, invece, Natoli intende chiarire più esplicitamente il significato e il valore della nozione di soggetto nei suoi tratti costitutivi e dominanti. Il soggetto, infatti, viene studiato nella sua figura originaria, vale a dire appunto come
“fondamento”, come ciò che sta sotto, soggiace e regge: il soggetto
fonda in virtù del fatto che con esso si pone il principio dell’identità
e della differenza.
Il saggio “mostra come il soggetto, che dovrebbe avere consistenza in sé, sia esso stesso mobile e, come l’inevitabile istanza di fondare, necessaria per dare senso alle cose, sia essa stessa mobile. Più
esattamente ciò che viene a evidenza è proprio il costante decentramento del soggetto da se stesso: l’estrema mobilità di quel che di per
sé dovrebbe essere immobile a fondare. Tuttavia nel momento in cui il
soggetto è posto come fondamento, si decentra da sé, poiché nessuna
sua configurazione materiale è sufficientemente forte a fondare”.73
L’uomo deve entrare in potere di se stesso. I greci definivano la
padronanza di sé enkrateia; questo è il nuovo compito dell’uomo:
“diventare signore di sé”. “Più l’uomo sviluppa la propria enkrateia,
meno dipende dalle passioni. Meno dipende dalle passioni, meno dipende dagli altri cioè da coloro che, approfittando della sua debolezza, lo assoggettano e lo sottomettono”.74
Il soggetto morale non è colui che è assoggettato ad una legge,
ma è colui che diventa legge a se stesso, sa darsi un limite. È proprio
Op. cit., p. 8.
Op. cit., pp. 7-8.
74
Salvatore Natoli, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 108.
72
73
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per questa ragione che Natoli è ostile a qualsiasi forma di dipendenza, non solo verso altri uomini ma anche verso le proprie debolezze
(come ad esempio la dipendenza dalle droghe). Se si è schiavi del
proprio essere sarà facilissimo essere ricattati da altri. “Bisogna
quindi essere istituiti entro legami esemplari. Legami che educano a
essere liberi, perché dissipano l’illusoria idea di libertà incondizionata e quindi il delirio di onnipotenza, che caratterizza buona parte
delle nuove generazioni ed è appunto il prodotto distorto di questa
falsa idea di libertà”.75
La rilevanza delle tematiche considerate ci consente di scorgere
come, pur nella diversità del contesto culturale, dei metodi e dei
punti di vista filosofici di volta in volta assunti, vi è un filo conduttore della ricerca che nasce dall’esigenza di rispondere ad un’unica
domanda fondamentale: “Come si configura la ricostruzione del
soggetto agente?”, “Come è possibile riunire l’uomo miseramente
ammezzato, ricomporlo dopo le empie lacerazioni delle filosofie
varie?”.76
In Umberto Galimberti è possibile rinvenire l’ambivalenza della
modernità nei riguardi del soggetto agente. Egli pone come origine
del problema ne Il tramonto dell’occidente77 il disinteresse che oggi
l’uomo occidentale rivela nei confronti del dilemma del senso dell’essere, nei confronti del problema dei valori, della vita, del mondo,
della storia. Ciò è dimostrato dal fatto che “l’uomo continua non a misurare ma ad essere misurato dal nichilismo, ossia dalla persuasione
che passare in sé è niente, perché è qualcosa solo nell’ente che vale,
che vive, che è utile, che diviene, che è causa di altri enti o di tutti gli
enti”.78 Ne consegue che l’oggettività deve essere disposta secondo le
istanze del soggetto e il mondo deve diventare immagine del mondo.
Il soggetto sperimenta così una riappropriazione della propria identità
in cui il ritrovamento della propria interiorità è direttamente proporzionale alla sua oggettivazione.
La modernità è l’espressione ed esplicitazione di una crisi instauratrice, di una rottura che non ha precedenti nell’allargare lo spazio dell’esperienza rispetto agli orizzonti delle attese.
Op. cit., pag. 109.
Lino Prenna, Dall’essere all’uomo, Quaderni della cattedra Rosmini, Roma, 1979.
77
Umberto Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2005.
78
Umberto Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 15.
75
76
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Creata dall’uomo e spinta ai suoi massimi livelli, la tecnologia
domina oggi l’uomo nel senso che si è emancipata da esso, ha ottenuto autonomia e libertà ed è in grado di vivere di vita propria. Ha
imposto le sue regole e le sue leggi, si è sganciata da ogni forma di
controllo, da mezzo e strumento si è trasformata in fine, utile solo a se
stessa. Un fine che tende ad allargarsi, ampliarsi, progredire, perdendo di vista lo scopo per cui si accresce. Di fronte a tutto questo il soggetto resta alienato, estraneo a se stesso, non sa più quale sia il suo
progetto, a cosa sta lavorando. L’uomo smarrisce senso e significato
del suo stare in vita, del suo relazionarsi agli altri. Si è accorto che la
tecnocrazia non risolve i suoi problemi. La soggettività, nell’età della tecnica, perisce in quanto “soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità si pensa autonomo, indipendente,
libero fino ai confini della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli altri”.79 Si manifesta così un sostanziale capovolgimento, mentre prima gli uomini dipendevano l’uno dall’altro,
ora dipendono dalle procedure tecniche che nel loro insieme esprimono la forma generale dei rapporti di dipendenza personali. Ciò significa che se la tecnica ha liberato l’uomo dal vincolo della natura e
dal vincolo che lo assoggettava ad un altro uomo, l’ha potuto fare ponendosi come vincolo di tutti i vincoli, come elaborazione secondaria
e sostitutiva del vincolo naturale. In questo modo la tecnica ha creato
un uomo nuovo, la cui caratteristica essenziale è quella di essere in relazione ad altro, soltanto che l’altro non è più natura ma apparato tecnico, all’interno del quale si è in relazione non con la propria identità,
ma con la propria funzione. In questo teatro, in cui a muoversi non
sono tanto gli uomini, quanto quelle loro maschere, che sono poi le
loro funzioni, agli individui è dato solo d’interpretare un copione già
noto, al quale non è possibile sottrarsi poiché, in tale copione, sono
scritte le condizioni generali dell’esistenza. A contare non è più quindi la personalità dell’individuo, ma la sua uniformità che ne garantisce la sostituibilità per il corretto funzionamento dell’apparato.
Secondo Galimberti “sperare in un recupero dell’identità individuale
al di là della funzionalità è sperare in un controsenso”.80
79
U. Galimberti, Psiche e Techne: l’uomo nell’età della tecnica, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2004, p. 43.
80
U. Galimberti, Psiche e Techne: l’uomo nell’età della tecnica, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2004, p. 560.
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La tecnica, infatti, proprio perché non ha alcun fine da raggiungere è iscritta nella tautologia che consiste nell’essere essa stessa il
suo principale prodotto: la tecnica è la sua riproduzione. La produzione della tecnica mediante la sua riproduzione fa sì che la tecnica
non sia solo produzione di strumenti, ma produzione di rapporti sociali mediante strumenti. Ciò significa che gli strumenti prodotti dalla tecnica sono solo i termini medi di rapporti tra funzioni, dietro le
quali si nascondono individui che smarriscono la propria individualità, nell’atto stesso in cui percepiscono la socialità come propria della funzione. L’individuo viene così annullato nell’atto stesso della sua
percezione. La riduzione della percezione a “percezione funzionale”
fa sì che l’individuo non percepisca neppure lo sforzo di omologarsi
alla sua funzione anzi, la stessa distinzione tra auto-omologarsi e venire omologati decade in quanto l’onnipotenza della tecnica, saturando per intero l’ambiente, non concede spazi non omologati, né la possibilità di pensare forme di vita non omologate. Risulta di conseguenza una totale iscrizione dell’individuo all’interno dell’apparato
tecnico.
In particolare si tratta del problema dell’autoaffermazione dell’uomo quale programma di vita che è in grado di affrontare la realtà
che lo circonda e cogliere le proprie possibilità. Proprio attorno alla
forza dirompente di tale autoaffermazione, si addensa un corollario
terminologico ricco di senso: parole come emancipazione, progresso,
rivoluzione, coscienza storica, assumono i contorni di concetti-orizzonte dal valore esponenziale, indicativi di una trasmutazione in atto.
Charles Taylor81 considera come un fenomeno propriamente moderno il conseguimento dell’identità nella forma dello scambio, e di
un processo intersoggettivo dall’esito non garantito. L’identità, dunque, consegue da un riconoscimento ma la modernità è l’epoca nella
quale la ricerca di tale riconoscimento è anche allo stesso tempo
un’esposizione ai rischi del non riconoscimento stesso; in questo
senso è l’epoca della fallibilità dell’io, in quanto non ancorato ad un
status predefinito: “nell’epoca precedente il riconoscimento non
costituiva mai un problema; c’era un riconoscimento generale, connaturato alla identità derivata socialmente per il semplice fatto che
quest’ultima si basava su categorie sociali che tutti davano per
81
Charles Taylor ha insegnato a Oxford, Princeton, Berkeley. Attualmente docente di
Scienza della Politica e di Filosofia presso la McGill University.
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scontate. Ora, un’identità prodotta interiormente, personale, originale, deve conquistarselo attraverso uno scambio, e può non riuscire
nel tentativo”.82
Si evince quindi che il bisogno di riconoscimento non è nato con
l’età moderna, ma con l’età moderna è nata la possibilità che la ricerca di tale riconoscimento fallisca. È proprio in virtù di tale rischio
che, proprio oggi, è sempre più forte il desiderio di essere riconosciuti. L’identità è legata a forme di riconoscimento e al loro venir meno.
L’io fallibile è il soggetto che si mette alla prova e si espone al rischio del disconoscimento. Tuttavia se l’io non si mette nella condizione di essere disconosciuto non potrà mai verificarsi un suo effettivo riconoscimento, quando non si espone apertamente va incontro ad
una falsificazione ineludibile ed incontrollabile.
Il rischio originario è quello di una irriconoscibilità o dell’esposizione ad un disconoscimento radicale. In questo senso, l’identità è
essenzialmente precaria e non-riconoscibile o meglio, costitutivamente disconoscibile.
In virtù di questa sua natura l’io è perciò strutturalmente fallibile, nel senso che non può fare a meno di sottoporsi alle prove per le
quali ne va del suo senso e del suo valore. È necessario fare della
fallibilità dell’identità, non solo un possibile rischio connesso con la
ricerca del riconoscimento, ma un dato strutturale dell’identità stessa.
Rendersi disconoscibile non è solo un rischio inevitabile, ma deve
configurarsi come un modo d’essere attivo ed autentico dell’identità,
che accetta di mettersi in gioco e sfida il disconoscimento altrui; essa
deve predisporre le condizioni all’interno delle quali gli altri possono
esercitare il disconoscimento. In questo senso, l’identità autentica è
intrinsecamente disconoscibile.
Taylor propone una costituzione dell’identità dialettica. Scoprire
la propria identità non vuol dire trovarsi in completo isolamento ma
“negoziarla attraverso il dialogo – in parte aperto, in parte interiorizzato – con gli altri”.83
L’identità, infatti, dipende essenzialmente dai rapporti dialogici
con gli altri in una sorta di forma di dipendenza.
Guardiamo il mondo globalizzato: è pieno di uomini costantemente in cerca di qualcosa, sembra che corrano e invece stanno fermi,
82
83
Charles Taylor, Il disagio della modernità, Economica Laterza, 1999, pp. 56-57.
Charles Taylor, Il disagio della modernità, Economica Laterza, 1999, p. 15.
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non progrediscono mai, inseguono qualcosa che è fuori da sé, che non
possono raggiungere perché non hanno radici nella propria identità.
La velocità di cambiamento, che investe ogni settore (economico,
scientifico...) ha creato nella gente una condizione di continua incertezza.
Il nostro mondo è in declino, l’occidente “affonda”, vittima del
suo senso di competitività esasperato, del suo liberismo, nel suo progressivo ridimensionamento delle strutture sociali.
In questo evidente quadro di declino e decadenza generale abbiamo deciso di proporre le soluzioni di due personalità di spicco del
pensiero contemporaneo: Zygmunt Bauman84 e Anthony Giddens.85
Questi due grandi sociologi propongono soluzioni simili e di carattere
sostanzialmente ottimista.
Bauman sostiene che il mito del cambiamento e della velocità,
che pure ha causato una crisi di valori senza precedenti, porta con sé
gli anticorpi per una ricostruzione efficace: “l’individualismo, il culto
di sé stessi, la ricerca esasperata della felicità sono le ragioni della
crisi, ma insieme offrono possibilità straordinarie”.86 Tutto questo inseguire la realizzazione dell’io ci ha alienati, ma anche responsabilizzati. E da questa nuova consapevolezza della responsabilità individuale potrà nascere una nuova morale, adatta ai nostri tempi. Anthony
Giddens ha cercato di tratteggiare un possibile percorso di rinnovamento etico e spirituale e per primo ha parlato di relazioni pure, non
più contraddistinte da rapporti gerarchici e da patti di convenienza, ma
basate sul rapporto reciproco e su una comunicazione emozionale.
Bisogna essere in grado di capire che la frammentarietà della realtà
ha una potenza creativa di notevole portata. Abbattuti i dogmi e i valori, ci siamo conformati a modelli culturali da spot. Dobbiamo riappropriarci del reale senso del valore delle cose e della vita attraverso una
conoscenza che è di per sé libertà. Invece di uniformarci a comportamenti stereotipati abbiamo tutte le capacità per trovare una nuova morale, fatta di solidarietà, e abbiamo tutte le capacità di comprendere l’indispensabilità di ciascuno per il funzionamento della collettività.
84
Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, è stato professore di Sociologia all’Università di Leeds.
85
Anthony Giddens, sociologo e politologo britannico, ha insegnato presso la London School of Economics e dal 2004 siede presso la Camera dei Lord.
86
Zygmunt Bauman, Modernità e globalizzazione (intervista di Giuliano Battiston),
Edizioni dell’Asino, Roma, 2009, p. 76.
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Bibliografia I gruppo
GIACOMO DEVOTO - GIAN CARLO OLI, Nuovo vocabolario illustrato
della lingua italiana, Selezione dal Reader’s Digest (Le Monnier), Milano, 1988.
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MAX WEBER, La politica come professione, Oscar Mondadori, Milano,
2006.
I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a
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I. KANT, Critica della ragion pratica.
G. GIANNANTONI, Profilo di storia della filosofia, Loescher, Torino,
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N. ABBAGNANO - G. FORNERO, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, 2000.
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia, Laterza, Bari, 1994.
N. BOBBIO, Studi hegeliani, Einaudi, Torino, 1981.
LACORTE C., Il primo Hegel, Sansoni, Firenze, 1959.
Sitografia
http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=58 Intervista a Vittorio
Hösle da Kant a Hegel
Bibliografia II gruppo
J. HABERMAS, Teorie dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna,
1986.
S. PETRUCCIANI, Introduzione ad Habermas, Laterza.
M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-naturali, Mondadori,
Milano.
N. ABBAGNANO - G. FORNERO, Protagonisti e testi della filosofia,
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C. GILLIGAN, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano, 1987.
MAX WEBER, Tra due leggi, in “La Critica Sociologica”, n. 53, 1980.
HANNAH ARENDT, Political thinking without a banister, New York,
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Sitografia
http://www.filosofico.net/weber999.htm, L’etica di M. Weber
http://it.wikipedia.org/wiki/Max_Weberwww.treccani.it, Opere di M.
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http://www.appuntidiscienzesociali.it/Autori/Habermas.htm, Pensiero
di J. Habermas
Bibliografia III gruppo
M. FERRARIS, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano, 2010.
C. BAUDELAIRE, I fiori del male e tutte le poesie (I ed. Parigi, 1857),
Grandi Tascabili Economici Newton.
S. GUGLIELMINO, Guida al 900, Principato editore, Milano, 1971.
G. D’ANNUNZIO, Il piacere a cura di Giansiro Ferrata, Oscar Mondadori, 1989.
G. PASCOLI, Myricae, Rizzoli, Milano, 1981.
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, dall’Oglio Editore, Milano, 1976.
L. PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal (I ed. 1904), Bur, Milano.
JEAN-MICHEL GUARDAIR, Pirandello e il suo doppio, Edizioni Abete,
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SALVATORE NATOLI, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente,
Feltrinelli, Milano, 2002.
SALVATORE NATOLI, Soggetto e fondamento, Feltrinelli, Milano, 2010.
LINO PRENNA, Dall’essere all’uomo, Quaderni della cattedra Rosmini,
Roma, 1979.
UMBERTO GALIMBERTI, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano,
2005.
UMBERTO GALIMBERTI, Psiche e Techne: l’uomo nell’età della tecnica,
Universale Economica. Feltrinelli, Milano, 2004.
CHARLES TAYLOR, Il disagio della modernità, Economica Laterza,
1999.
ZYGMUNT BAUMAN, Modernità e globalizzazione (intervista di Giuliano Battiston), Edizioni dell’Asino, Roma, 2009.
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LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Il romanzo europeo
tra Ottocento e Novecento
- Lavoro del Consiglio di classe III M -
(anno scolastico 2011-2012)
PRESENTAZIONE
I docenti del Consiglio di classe della III M hanno condiviso la
progettazione e realizzazione di un lavoro di approfondimento tematico di alcuni contenuti curriculari, perseguendo, come intento comune, le seguenti finalità:
• non inseguire la pretesa di esaurire il tema individuato e di definirne la complessità;
• indicare agli studenti della III M un modello di lavoro. Non ci si
è limitati solo a fornire indicazioni di carattere metodologico,
benché necessarie per avviare un lavoro di ricerca, bensì si è cercato di dare concretezza e visibilità ad un metodologia didattica:
quella del lavoro cooperativo. Un gruppo di docenti, infatti,
quando riesce a coordinare le diverse professionalità, competenze e sensibilità e ad indirizzarle verso un obiettivo condiviso,
propone un modello educativo di altissima efficacia. Mettere al
servizio di un progetto più ampio il proprio ambito disciplinare,
significa, superando la convenzionale separatezza delle singole
materie, dare un contributo visibile alla ricomposizione e costruzione di un sapere unitario;
• indicare agli studenti un metodo di lavoro, studio e ricerca finalizzato alla progettazione del percorso individuale con cui si apre
il colloquio dell’Esame di Stato e al tempo stesso offrire un reticolo di conoscenze, veicolanti saperi comuni, a cui l’alunno può
fare riferimento nella elaborazione del proprio lavoro.
La nostra esperienza di lavoro di approfondimento tematico, come si è detto, di contenuti curricolari, nasce quindi da una duplice
motivazione: se da una parte vuole offrire agli studenti un’esemplificazione di studio interdisciplinare dei contenuti proposti, vuole esse– 260 –
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re, al tempo stesso, per gli stessi allievi espressione di un lavoro cooperativo dei loro docenti. Il consiglio di classe ha individuato, pensato, progettato, articolato un percorso in grado di impegnare docenti e
allievi nell’elaborazione e partecipazione di un tema di approfondimento, trasversale alle discipline e arricchito dagli apporti dei singoli docenti, svolto durante un’apposita settimana, in cui l’ordinaria
scansione oraria della didattica ha lasciato spazio a un parallelismo
sincronico e sinergico di apporti.
È stato così possibile trattare il romanzo, quale struttura narrativa e strumento di osservazione e analisi della realtà, sotto diversi punti di vista prospettici, rendendo l’interdisciplinarietà una possibilità
per comprendere meglio lo statuto epistemologico delle singole materie, attraverso l’apporto che esse possono fornire alla lettura di un
problema o fenomeno, sia letterario che scientifico: confronto di prospettive, dunque, piuttosto che semplicistica riduzione a parallelismi
fra materie diverse. Si fa presente inoltre che gli allievi hanno elaborato la realizzazione in power point dei contenuti proposti.
Riteniamo, infine, che aver progettato e realizzato questo lavoro
insieme con la nostra classe, significa, per noi docenti, aver assolto ad
uno dei compiti più difficili, ma anche più gratificanti, a cui siamo
chiamati: rendere la scuola pubblica, ancor più, un luogo di impegno,
responsabilità, un luogo in cui dalla fase dell’io si passi, con maggiore slancio e generosità, alla fase del noi.
I DOCENTI
Mario Carini (latino e greco) - Maurizio Castellan (matematica e fisica)
Maurizio Gigli (scienze) - Valentina Pellegrini (italiano)
GLI STUDENTI
Andrea Ancona - Sara Bruno - Edoardo Bussani - Sara Ciarimboli
Federico Compagnucci - Cristina Coronelli - Arianna Durante
Francesca Evangelisti - Tommaso Ferrari - Federico Finocchiaro
Lorenzo Guerra - Tiziano Iacoboni - Ginevra Latini - Alessia Lombardini
Clarissa Lorenzatti - Veronica Mancini - Chiara Mancuso - Eleonora Morante
Ludovico Ninotti - Flavia Palieri - Elena Pallini - Giampaolo Vetta
Gabriele Vianello - Sara Wielich
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IL ROMANZO EUROPEO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
I precedenti nella letteratura greca e latina
AUTORE
AREA CULTURALE
OPERA
TEMI E CONCETTI
FONDAMENTALI
Il romanzo greco
Letteratura greca
dell’età imperiale
Seconda Sofistica
(II sec. d. Cr.)
Secondo
una tradizionale teoria,
i romanzi greci
sarebbero il prodotto
delle scuole di retorica
della Seconda Sofistica,
movimento culturale
che si sviluppò
in età imperiale,
nel II secolo d. Cr.
Tuttavia gli studiosi
moderni hanno
avanzato altre teorie,
che riferiamo
sinteticamente più oltre.
Definizione. Non esiste
una specifica definizione
del romanzo greco e
latino in quanto genere
letterario. Gli antichi non
coniarono un termine
proprio sia per la
difficoltà di catalogare
per la prima volta lunghi
testi narrativi in cui le
vicende dei personaggi
erano completamente
inventate, sia perché
queste opere erano
considerate una forma
deteriore di produzione
letteraria. I Greci
chiamavano i romanzi
con i termini lÒgoj,
m˚qoj, di»ghsij,
pl£sma, ¢pÒlogoj.
I Latini usavano
i termini fabula, fabella,
enarratio, historia, res
ficta, exemplum fictum,
argumentum.
Storie di Cherea e
Calliroe
(8 libri)
Brani letti: T 4 La morte
apparente (1,8-9).
Trama: Calliroe, figlia
del generale siracusano
Ermocrate, sposa Cherea.
Questi, sospettando che
la moglie lo tradisca, la
colpisce con un calcio.
Calliroe, creduta morta,
viene seppellita nella
tomba. In essa penetrano
i pirati per rubare il
corredo d’oro: si
accorgono che Calliroe è
viva e la portano via con
loro. Giunti a Mileto, la
vendono come schiava al
ricco Dionisio, che se ne
innamora e la costringe a
sposarlo. A Mileto
giunge anche Cherea, in
cerca della moglie: viene
fatto schiavo di
Mitridate, satrapo della
Caria. Anche Mitridate si
innamora di Calliroe e
cerca di strapparla a
Dionisio, che però lo
denuncia al re di Persia.
Davanti al re si
affrontano Dionisio e
Cherea, pretendendo
entrambi Calliroe.
Giunge la notizia che
l’Egitto si è ribellato e il
re parte per reprimere la
rivolta. Cherea combatte
per gli Egiziani, vince il
re e libera Calliroe, con
la quale ritorna a
Siracusa.
Tematiche e strutture
narrative.
Il divario fra queste
cinque opere è notevole,
sia per quanto riguarda
la materia sia per la
composizione e lo stile.
L’unico legame che le
accomuna è l’argomento
trattato, cioè la vicenda
di un amore tra due
giovani di non comune
bellezza, i quali per
diverse ragioni sono
spinti a lunghi e difficili
viaggi in paesi greci e
barbari, costretti ad
affrontare pericoli di
ogni genere e restar
lontani l’uno dall’altra,
fino a quando con
l’aiuto di una divinità
riescono a tornare nella
loro patria e a coronare
il sogno d’amore. Per
quanto riguarda il genere
letterario, il romanzo, la
cui origine è stata
discussa dagli studiosi e
si è prestata a differenti
teorie, ha ricevuto un
indubbio influsso da altri
generi, come la
storiografia, la letteratura
di viaggi e
l’epistolografia. Mentre
nella storiografia
l’interesse per i fatti
meravigliosi è marginale,
nel romanzo invece essi
rivestono preminente
importanza. Complesso,
poi, è il rapporto che
intercorre tra la novella e
Caritone d’Afrodisia,
I sec. a. Cr. - II sec. d. Cr.
Un’unica notizia
autobiografica,
fornitaci dall’autore
nel suo romanzo (1,1,1),
attesta che Caritone
sarebbe stato segretario
del retore Atenagora.
Studi recenti pongono
la fioritura di Caritone
tra la fine del I sec. d. Cr.
e gli inizi del II sec. d. Cr.
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Achille Tazio
Metà del II sec. d. Cr
Il lessico bizantino
della Suda
ci dà poche e incerte
notizie biografiche:
avrebbe scritto
un romanzo d’amore
in otto libri,
un trattato sulla sfera,
sull’etimologia e
una storia di personaggi
meravigliosi.
Alla fine della vita
si sarebbe convertito
alla religione cristiana e
sarebbe diventato
vescovo (un’analoga
notizia si riscontra
nel caso di Eliodoro).
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Le principali teorie
sull’origine
del romanzo greco
1) Teoria di Erwin
Rohde (1876): è la prima
fondamentale teoria sul
romanzo greco, destinata
ad essere molto discussa
dagli studiosi. Secondo il
Rohde il romanzo greco
sarebbe nato dalla
fusione della tematica
amorosa propria della
poesia erotica
alessandrina e della
tematica dei viaggi in
terre lontane. Questa
fusione sarebbe stata
operata nell’ambito delle
scuole retoriche della
Seconda Sofistica (II sec.
d. Cr.). La teoria del
Rohde fu però smentita
dal ritrovamento
dei frammenti del
Romanzo di Nino (1893),
datati al I sec. a. Cr.
2) Teoria di Eduard
Schwartz (1896): lo
Schwartz individua
l’archetipo del romanzo
greco nell’Odissea, in
particolare nei canti IXXII, che contengono il
racconto dei viaggi di
Odisseo. Nel romanzo
greco si congiungono il
tema del viaggio e
dell’avventura e quello
dell’amore, anch’esso
presente nell’Odissea (si
pensi alle donne che
amano Odisseo:
Nausicaa, Calipso, Circe,
Penelope, la cui fedeltà
all’amato è messa a dura
prova come quella delle
fanciulle protagoniste dei
romanzi greci). Altri
precedenti del romanzo
greco sono per lo
Leucippe e Clitofonte
(8 libri)
Trama: Il romanzo è il
racconto che il
protagonista, Clitofonte,
fa all’autore mentre
questi osserva un
bellissimo quadro
raffigurante il ratto
d’Europa, a Sidone.
Clitofonte, un giovane di
Tiro, ama la bellissima
cugina Leucippe e fugge
con lei verso l’Egitto.
Colti in mare da una
tempesta, i due
innamorati fanno
naufragio in Egitto, ove
Leucippe è rapita dai
briganti del Nilo.
Liberata da Clitofonte
con l’aiuto dei soldati, è
rapita una seconda volta
ad Alessandria. I pirati la
uccidono, o almeno così
crede Clitofonte che ne
seppellisce disperato il
corpo. Quindi il giovane
non resiste alla passione
di una ricca vedova,
Mélite, che si è
innamorato di lui, e la
sposa. Ad Efeso, tra le
schiave di Mélite vi è
però la rediviva
Leucippe, che
rimprovera Clitofonte di
non esserle stato fedele.
Riappare anche il primo
marito di Mélite,
Tersandro, che picchia e
mette in prigione
Clitofonte. Clitofonte
però è aiutato a fuggire
da Mélite. Tersandro, a
sua volta, si innamora di
Leucippe, che lo rifiuta
perché ancora
innamorata di Clitofonte.
Tersandro fa allora
credere a Clitofonte che
– 263 –
il romanzo. Novelle
erano inserite nelle opere
storiografiche (Candaule
e Gige in Erodoto,
Pantea e Abradata nella
Ciropedia di Senofonte),
ma è possibile che il
maggior influsso sia
stato esercitato dalle
fabulae Milesiae, il
genere delle novelle
licenziose creato da
Aristide di Mileto (II
sec. a. Cr.). Notevole è
poi l’influsso della
Commedia Nuova (si
pensi al ruolo che gioca
la TÚch nell’ostacolare i
due giovani innamorati).
Il romanzo che più si
distacca dagli altri è le
Avventure pastorali di
Dafni e Cloe, di Longo
Sofista, attento, più che
alle peripezie, a narrare
l’educazione sentimentale
dei due giovinetti
protagonisti, che si
svolge in una cornice
idealizzata bucolicopastorale. Gli intrecci
sono lineari, presentano
uno schema ripetitivo
(rottura dell’equilibrio –
peripezie dei protagonisti
– ricongiungimento
finale) con gli stessi
motivi topici ricorrenti:
1) l’idealizzazione
astratta dei due
protagonisti, dalla
bellezza straordinaria,
quasi “divina”;
2) la psicologia
convenzionale dei
personaggi, in cui la
bellezza si unisce
all’amore, alla fedeltà e
alla gelosia;
3) l’innamoramento a
prima vista e il
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Schwartz l’Epos degli
Arimaspi di Aristea di
Proconneso (VII sec. a.
Cr.), la Periegesi della
terra di Ecateo di
Mileto, i lÒgoiÄ di
Erodoto, il Timeo
platonico per il mito di
Atlantide, la Ciropedia di
Senofonte, il Romanzo di
Alessandro dello Ps.
Callistene (III sec. a. Cr.).
3) Teoria di Bruno
Lavagnini (1921):
secondo il Lavagnini il
romanzo greco sarebbe
derivato dalle saghe
leggendarie di eroi locali
rielaborate come racconti
in prosa a carattere
Senofonte Efesio
popolare, in età
Seconda metà
ellenistica (III sec. a. Cr.)
del II sec. d. Cr.
e forse anche nel IV
Di lui si hanno scarse
secolo. Gli scrittori
notizie biografiche.
misero in ombra l’aspetto
Non è sicuro
religioso e accentuarono
che sia nato a Efeso.
La Suda gli attribuisce quello eroico: l’eroe
il romanzo in dieci libri locale nei loro racconti
diventava così il
delle avventure
fidanzato o promesso
di Abrocome e Anzia,
sposo di una fanciulla
un trattato sulla città
che in vario modo gli
di Efeso e altri scritti.
Certamente il romanzo veniva sottratta, ma che
alla fine riusciva a
fu scritto prima della
distruzione del tempio liberare o con la quale
poteva riunirsi.
di Artemide ad Efeso
4) Teoria di Karoly
(263 d. Cr.).
Kerenyi (1927): per il
Kerenyi, storico delle
religioni, la costante
struttura narrativa dei
romanzi greci (con lo
schema: separazione dei
due amanti – peripezie –
ricongiungimento finale)
rifletterebbe la vicenda
rituale della coppia
divina Iside e Osiride.
Secondo il mito, Osiride,
che ha civilizzato
l’Egitto, aspira a
Leucippe sia stata uccisa
da Mélite. Clitofonte,
disperato e pieno d’odio
verso Mélite, in tribunale
accusa la donna di aver
ucciso Leucippe con la
sua stessa complicità. Un
testimone però smentisce
Clitofonte e prova la sua
innocenza. Il giovane
viene così liberato.
Infine, Clitofonte ritrova
Leucippe nel tempio di
Artemide. La ragazza gli
dimostra la sua verginità
e i due, ricongiuntisi,
possono sposarsi e
tornare a Tiro.
Storie efesiache
di Anzia e Abrocome
(5 libri)
Brani letti: T 3 L’incontro
e l’innamoramento dei
protagonisti (1,1-7);
T 6 Il lieto fine (5,13-15).
Trama: I due giovani di
Efeso Anzia e Abrocome
si sono innamorati
durante la festa di
Artemide e si struggono
entrambi d’amore. I
genitori di entrambi,
obbedendo all’oracolo di
Apollo a Colofone, li
fanno sposare e li
mandano in Egitto.
Durante il viaggio la
nave è catturata dai
pirati. Abrocome è
insidiato dal pirata
Corimbo, un altro pirata,
Euxino, si invaghisce di
Anzia. Questa è ceduta a
un capraio, poi a
mercanti cilici, quindi
viene rapita dai pirati e
salvata dai soldati
comandati da Perilao,
che si innamora della
ragazza. Per non
– 264 –
conseguente
fidanzamento o
matrimonio, al principio
della vicenda;
4) il rapimento della
fanciulla ad opera dei
pirati;
5) il viaggio in terre
lontane del fidanzato alla
ricerca dell’amata rapita;
6) la morte apparente
della ragazza;
7) il naufragio della
nave su cui viaggiano i
protagonisti o uno dei
due;
8) la disperazione del
fidanzato e il suo
proposito di suicidarsi,
quando crede di aver
perduto per sempre
l’amata;
9) un potente
personaggio che
interviene in favore di
uno dei due o un
brigante che diventa
amico di uno dei due;
10) la presenza delle
divinità come Iside ed
Helios;
11) il ruolo della TÚch
nel complicare le
vicende;
12) una soluzione
inaspettata che salva i
protagonisti da una
situazione disperata;
13) il riconoscimento
finale (con la scoperta
dei veri genitori, in
genere ricchi e nobili) e
l’immancabile lieto fine.
Stile delle Storie di
Cherea e Calliroe
L’opera ha continui
riferimenti a Omero, ai
tragici e ai comici. È
uno stile tronfio e
retorico, ove abbondano
i paragoni mitologici e
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Longo Sofista
II-III sec. d. Cr.
Di lui non possediamo
nessuna notizia
biografica.
Il cognome Sofista
è una invenzione dei
moderni.
Una ipotesi avanzata
dallo Hermann
identifica Longo
con Velio Longo,
grammatico e familiare
di Adriano.
15:33
Pagina 265
diventare il sovrano di
questa terra, ma viene
ucciso dal malvagio
fratello Seth, chiuso in
un cofano e gettato nel
Nilo. Iside trova il corpo
del marito e lo nasconde,
Seth lo scopre, lo fa a
pezzi e sparge i pezzi in
tutto il paese. Iside
ricompone il corpo e gli
ridà vita. Si congiunge
con lui e genera un
figlio, Horus. Questi
vendica il padre
vincendo in duello Seth.
quindi Horus diventa il
re dell’Egitto e Osiride il
sovrano del regno dei
morti. Le Etiopiche di
Eliodoro (III-IV sec. d.
Cr.) sono ricche di
riferimenti al culto di
Iside e Osiride, così
come le Metamorfosi di
Apuleio.
5) Teoria di Otto
Weinreich (1950): il
romanzo assieme alla
novella è l’erede della
poesia epica, adattato a
una nuova e più ampia
cerchia di destinatari, i
lettori dell’età ellenistica
e romana: come un
tempo la poesia epica,
ridotta in età ellenistica a
una stanca imitazione
delle forme antiche, era
leggibile solo dai dotti,
così il romanzo e la
novella si rivolgono ai
lettori della società
borghese: un pubblico
sufficientemente istruito,
non colto né letterato, di
gusto semplice,
prevalentemente
femminile.
6) Teoria
di Franz Altheim
sposarlo Anzia si
avvelena, ma la sua
morte è solo apparente.
Viene sepolta, ma la
tomba è profanata dai
predoni, che catturano la
ragazza. Anzia viene
venduta e ancora una
volta rapita dai pirati,
quindi liberata dai
soldati comandati da
Poliido, che si innamora
anch’egli della ragazza.
La moglie di Poliido,
infuriata, fa frustare
Anzia e la fa vendere a
un lenone di Taranto.
Per evitare di prostituirsi
Anzia si finge epilettica,
viene venduta quindi a
un brigante e portata a
Rodi. Qui è ritrovata,
dopo varie peripezie, da
Abrocome. I due si
ricongiungono nel
tempio di Iside, si
ripromettono eterno
amore e ritornano felici
a Efeso.
Avventure pastorali
di Dafni e Cloe
(4 libri)
Brani letti:
T 5 Il riconoscimento
(4,19-21);
T 8 Modelli bucolici nel
Dafni e Cloe (2,35-37).
Trama: Dafni e Cloe
sono due giovinetti di
nobile famiglia,
dell’isola di Lesbo,
abbandonati dai genitori
alla nascita. Crescono
allevati dai pastori e si
innamorano, pur del tutto
inesperti, l’uno dell’altra.
Cloe viene rapita dai
pirati e liberata con
l’intervento del dio Pan.
I genitori adottivi di
– 265 –
le iperboli. La lingua
presenta semplici
strutture sintattiche.
Stile di Leucippe e
Clitofonte
Le novità del romanzo
sono il racconto fatto in
prima persona e le
numerose digressioni che
interrompono la
narrazione. Il romanzo si
apre con la œkfrasij
del dipinto raffigurante il
ratto di Europa. Vi sono
poi digressioni su piante
e animali (l’ippopotamo,
il coccodrillo, la fenice),
favole (Prometeo e il
leone), dissertazioni
sull’amore, sogni e
prodigi. L’intreccio è
complesso e presenta
notevoli incongruenze.
Leucippe per ben tre
volte è creduta morta da
Clitofonte e in un
episodio il giovane ne
seppellisce addirittura il
cadavere. Leucippe però
compare poi rediviva. Vi
sono citazioni letterarie
da Omero, Esiodo, i
tragici, Aristofane. Lo
stile è retorico e
artificioso, come
l’intreccio, la lingua è
complessa.
Stile delle Storie
efesiache di Anzia e
Abrocome.
Si è pensato che il testo
pervenutoci sia una
epitome, giacché il
lessico della Suda attesta
che i libri erano dieci. Il
testo presenta poche
descrizioni e digressioni,
incentrandosi tutto sullo
svolgimento dei fatti.
Mancano le citazioni da
Omero, vi sono invece
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(1957): lo studioso ha
esaminato la presenza e
l’influsso delle divinità
solari nel romanzo delle
Etiopiche di Eliodoro di
Emesa (III-IV sec. d.
Cr.), avanzando l’ipotesi
che esso abbia avuto la
funzione di propagandare
il culto del dio Helios,
venerato a Emesa,
all’interno del mondo
romano. Va ricordato che
l’imperatore Eliogabalo
Eliodoro
(218-222 d. Cr.) era
III-IV sec. d. Cr.
Lo stesso autore fornisce devoto e sacerdote di
notizie autobiografiche Helios, e nativo di
nel romanzo, indicando Emesa in Siria, quindi
come sua patria la città della stessa città di
Eliodoro.
di Emesa (Homs),
7) Teoria di Quintino
in Siria.
Lo storico ecclesiastico Cataudella (1958):
partendo dalla tesi del
Socrate (V sec. d. Cr.)
Rohde, il Cataudella
riporta la notizia
sostiene che il romanzo
che Eliodoro,
sia nato nelle scuole di
dopo la conversione
alla religione cristiana, retorica del I sec. a. Cr.,
quindi ben prima della
sarebbe stato eletto
Seconda Sofistica: gli
vescovo di Tricca
studenti elaboravano i
in Tessaglia.
discorsi fittizi, le
Ma piuttosto
declamationes
che distruggere
(controversiae e
il suo romanzo,
come gli era stato chiesto, suasoriae) su temi di
avrebbe preferito lasciare discussione simili a
trame di novelle o molto
la carica episcopale.
verosimilmente ispirati
alle novelle. Il Cataudella
si preoccupa di
rintracciare nei romanzi
quegli spunti e quelle
situazioni novellistiche
presenti nelle
declamationes, da cui
nacquero i romanzi
Luciano di Samosata stessi. I casi delle
declamationes erano
II sec. d. Cr.
ispirati a fatti realmente
Luciano di Samosata
accaduti. Per il
(120-180 a. Cr. circa),
Cataudella la novità è
fu scrittore e oratore
costituita dal fatto che i
itinerante.
Cloe vogliono dare in
sposa la ragazza a un
uomo benestante, ma
Dafni, grazie a un
sogno, trova un tesoro e
così può chiedere la
mano di Cloe. Dopo
alcune peripezie Dafni e
Cloe scoprono la loro
vera origine e possono
così celebrare sontuose
nozze.
Etiopiche
(10 libri)
Brani letti: T 1 Un inizio
in medias res (1,1-2).
Trama: Cariclea, figlia
del re d’Etiopia, è nata
con la pelle bianca e la
madre l’ha fatta esporre,
temendo di essere
accusata d’adulterio,
giacché gli Etiopi hanno
la pelle scura. Teagene,
il protagonista maschile,
è un giovane della
Tessaglia. I due giovani
si incontrano a Delfi e si
innamorano a prima
vista. Cadono poi nelle
mani dei briganti e
quindi sono fatti
prigionieri dagli Etiopi.
Stanno per essere
sacrificati agli dei Helios
e Selene, quando
Cariclea viene
riconosciuta come figlia
del re. La ragazza
ottiene la salvezza di
Teagene e i due giovani
possono così sposarsi,
nel tripudio generale.
Storia vera
(2 libri)
Brani letti: T 9 L’esercito
di Endimione,
re della Luna (1,14-16);
T 10 La balena (1,30-33).
– 266 –
motivi tratti dalle
tragedie (ad esempio,
Abrocome disprezza
Eros come Ippolito
Afrodite nell’Ippolito
coronato di Euripide, e
viene punito dal dio). La
lingua e lo stile sono
semplici, predomina la
paratassi.
Stile delle Avventure
pastorali di Dafni e
Cloe
Il romanzo è ispirato
all’autore dalla
descrizione (œkfrasij)
di un dipinto raffigurante
una storia d’amore. A
differenza degli altri, il
romanzo è ambientato in
un contesto bucolicopastorale, che rimanda a
Teocrito e al mito
ellenistico della vita
semplice, innocente e
felice, condotta secondo
natura. Vi è il ripudio
dell’elemento
avventuroso, le peripezie
sono poche e si
svolgono tutte sull’isola
di Lesbo. La lingua
presenta semplici
strutture sintattiche.
Stile delle Etiopiche
Il romanzo presenta i
motivi consueti, dando
un ampio spazio alle
peripezie. L’inizio è in
medias res e connette tre
motivi topici: il
naufragio, la
presentazione dei due
giovani innamorati, i
predoni.
L’innamoramento di
Teagene e Cariclea è
narrato in un lungo
flashback. Hanno ampio
spazio anche le
avventure di personaggi
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Brillante conferenziere,
esponente tipico
della Seconda Sofistica,
ci ha lasciato un corpus
di circa ottanta scritti,
tra cui
i Dialoghi degli dei,
i Dialoghi marini,
i Dialoghi delle cortigiane,
i Dialoghi dei morti,
scritti diatribici e satirici
e il celeberrimo romanzo
di avventure fantastiche
Storia vera.
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personaggi e le vicende
narrate nei romanzi sono
di pura invenzione;
secondo lo studioso il
romanzo sarebbe una
forma deteriore di storia,
trasformata in un
racconto di finzione, per
l’influsso delle scuole di
retorica.
8) Teoria di Reinhold
Merkelbach (1962):
per il Merkelbach, che
come Kerenyi presta
attenzione in particolare
all’elemento religioso,
buona parte dei romanzi
greci conterrebbero
precise allusioni ai culti
misterici di Iside, Mitra,
Dioniso, Helios, e le
peripezie dei romanzi
sarebbero le tappe di un
percorso iniziatico che
compie il protagonista ed
è scandito nelle fasi della
morte, della resurrezione
e dell’unione mistica
col dio.
9) Teoria di Alessandro
Barchiesi e Massimo
Fusillo (1988): secondo i
due studiosi sul romanzo
greco esercita un
fortissimo influsso
formativo la Commedia
Nuova. Elementi comuni
alla Commedia nuova nel
romanzo greco sono la
dimensione privata delle
vicende (che interessano,
in genere, personaggi del
popolo, non politici o
condottieri), l’intreccio
basato su un amore
contrastato dagli uomini
e dalle circostanze, e
soprattutto il ruolo
preminente della TÚch
(la Fortuna) nello
svolgimento della storia.
Trama: Il narratoreprotagonista giunge a
bordo di una nave sulla
Luna, ove assiste a una
battaglia tra i Seleniti e
gli Elioti. Ritornato sulla
Terra, è inghiottito con i
suoi compagni da una
balena e nel ventre del
cetaceo vive altre
fantastiche avventure.
Poi giunge all’isola dei
Beati e ai Campi Elisi,
ove incontra le anime
dei grandi uomini
dell’antichità, compreso
Omero. Quindi riprende
il viaggio e incontra altri
esseri favolosi.
– 267 –
secondari, che
ingarbugliano la trama.
L’autore indulge a
riflessioni moraleggianti.
La lingua è complessa e
anticipa il greco
bizantino. Compaiono
termini rari.
Stile della Storia vera È
un romanzo fantastico,
considerato dagli studiosi
come una parodia dei
romanzi greci. La lingua
di Luciano è chiara ed
elegante, l’autore è un
modello della prosa
attica.
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A differenza della
Commedia Nuova, nel
romanzo greco la TÚch
ha un ruolo in
prevalenza negativo, crea
le peripezie ed ostacola
il ricongiungimento della
coppia di amanti.
Il romanzo latino
Petronio
(I sec. d. Cr.)
Il Petronio autore dei
Satyricon libri va
identificato, secondo
l’ipotesi di Ettore
Paratore oggi accettata
dagli studiosi, con un
personaggio molto in
vista della corte di
Nerone, quel Petronio
arbiter elegantiarum,
maestro del buon gusto e
della raffinatezza. di lui
parla Tacito nel libro
XVI degli Annales
(capp. 18-19), ricordando
che Petronio fu tra gli
intimi di Nerone e che,
sospettato di aver preso
parte alla congiura dei
Pisoni, fu costretto a
suicidarsi (66 d. Cr.). Il
termine Arbiter, che
accompagna il nome di
Petronio nella tradizione
manoscritta o è derivato
dalla definizione
tacitiana o era il vero
cognome di Petronio, a
cui Tacito avrebbe alluso
con un gioco di parole.
Letteratura latina
dell’età giulio-claudia
Il romanzo è un’opera
d’ambiente neroniano: di
esso descrive le mode, i
gusti, le tendenze,
talvolta al limite del
grottesco, ma anche gli
aspetti di corruzione e di
decadimento morale. I
frammenti del Satyricon
furono conosciuti già nel
1423 grazie al
ritrovamento, menzionato
da Poggio Bracciolini
nella lettera a Niccolò
Niccoli, dell’ampia
sezione riguardante la
Cena Trimalchionis. Il
romanzo doveva essere
ampio almeno 16 libri,
ma si è ipotizzato anche
che i libri fossero 20 o
24 (come i canti dei
poemi omerici). Il
filologo tedesco Elimar
Klebs, in un saggio
uscito nel 1889 sulla
rivista “Philologus”, ha
collegato il testo
petroniano con l’Odissea
per i seguenti aspetti:
1) i libri del Satyricon
forse erano 24 come i
canti dell’Odissea;
2) Encolpio è
perseguitato dall’ira di
Priapo come Odisseo da
Poseidone;
3) la nave di Lica su cui
si imbarcano i
protagonisti è paragonata
Petronii Arbitri
Satyricon libri
Dell’opera ci sono
pervenuti i libri XIV,
XV e XVI, divisi dagli
editori moderni in
141 capitoli. Brani letti:
cap. 37 Il ritratto di
Fortunata; cap. 38
Le ricchezze di
Trimalchione; 1.1 La
decadenza dell’oratoria
(1-4); 2.2 Trimalchione
giunge a tavola (31-33);
3.2 Il lupo mannaro (6162); 3.3 La matrona di
Efeso (111-112).
L’intreccio. Nel libro
XIV Encolpio discute
con il retore
Agamennone sulle cause
della decadenza
dell’oratoria. Poi
compare Ascilto, rivale
di Encolpio nel
contendersi l’amore del
giovinetto Gitone.
Quindi Encolpio, Ascilto
e Gitone vengono
accusati da Quartilla,
sacerdotessa di Priapo, di
aver violato i segreti
misteri del dio. La donna
li costringe a subire per
tre giorni rituali e sevizie
erotiche per espiare la
colpa e placare l’ira del
dio. Nel libro XV i tre,
sfuggiti a Quartilla, si
recano a cena dal
ricchissimo liberto
Trimalchione, assieme ad
– 268 –
Il genere.
L’individuazione del
genere letterario cui
appartiene il Satyricon
ha dato origine a molte
discussioni. Gli studiosi
hanno distinto quattro
influssi formativi
esercitati da generi
letterari diversi:
1) l’influsso del
romanzo greco.
Il Satyricon è una
parodia dei romanzi
d’amore ellenistici,
da cui riprende il tema
della separazione e
del ricongiungimento
della coppia di
innamorati. I personaggi
però sono rappresentati
in modo grottesco e
caricaturale, mentre il
tema dell’amore è
rovesciato in quello
omosessuale e la fedeltà
degli amanti (altro
motivo topico dei
romanzi greci) è di
continuo tradita.
L’intreccio è ambientato
nei paesi costieri del
Mediterraneo
Occidentale, mentre il
romanzo greco è
ambientato nel
Mediterraneo Orientale;
2) l’influsso dell’epica.
Il Satyricon, secondo il
Klebs, si presenta come
una parodia dell’Odissea
(vd. sopra);
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all’antro del Ciclope;
4) Gitone, nascostosi
sotto il letto, è
paragonato a Odisseo
sotto il montone (cap. 97);
5) Encolpio a Crotone
incontra una matrona di
nome Circe, che si
invaghisce di lui;
6) Encolpio a Crotone
assume il nome falso di
Polieno, che è anche il
nome con cui le Sirene
invocano Odisseo. Un
altro studioso tedesco,
Richard Heinze, nel
1899, ha avanzato
l’ipotesi che il Satyricon
sia una parodia del
romanzo greco
convenzionale (i temi
del legame amoroso e
della fedeltà che lega i
due giovani innamorati
sono rovesciati negli
amori omosessuali e
nell’infedeltà di cui
danno prova i
personaggi del Satyricon.
Tra le numerose vicende
del Satyricon trovano
posto tentativi di
suicidio, lunghi viaggi
per mare, descrizioni di
opere d’arte, scene di
processi, tempeste e
naufragi, così come nel
romanzo greco.
All’interno di questo
impianto vi sono cinque
novelle, concepite come
intermezzi narrativi e
ispirate alle fabulae
Milesiae:
1) la novella del vetro
infrangibile (cap. 51);
2) la novella del lupo
mannaro (capp. 61-62);
3) la novella del
manichino di paglia e
delle streghe (cap. 63);
Agamennone. Durante il
lungo banchetto il liberto
esibisce il lusso e la
ricchezza nei modi più
spettacolari e grotteschi
disgustando Encolpio.
Andati via dal banchetto,
Encolpio e Ascilto
litigano per Gitone. Nel
libro XVI Encolpio,
abbandonato da Gitone,
incontra in una
pinacoteca il vecchio
letterato Eumolpo, che
gli recita il suo poemetto
sulla presa di Troia
(Troiae Halosis). I due
divengono amici e si
mettono in viaggio,
assieme a Gitone, sulla
nave di Lica. Anche
Eumolpo è attratto da
Gitone e litiga con
Encolpio. Quindi la nave
fa naufragio e i tre
giungono a Crotone, ove
riescono a vivere alle
spalle dei cacciatori di
testamenti. Lungo la via
verso Crotone Eumolpo
recita il poema sulla
guerra civile fra Cesare
e Pompeo (Bellum
civile). Una matrona del
luogo, Circe, si innamora
di Encolpio, che si fa
chiamare Polieno.
Encolpio perde la sua
virilità ad opera di
Priapo e la matrona,
adirata, ordina di
frustarlo. Poi la recupera
grazie a Mercurio.
Intanto Eumolpo redige
il suo testamento nel
quale stabilisce la
condizione che gli eredi
mangino in pubblico il
suo cadavere. Un
abitante di Crotone è
disposto ad accettare
– 269 –
3) l’influsso della satira.
Il Satyricon può essere
ricondotto al genere
tipicamente romano della
satira. Il Satyricon si
inserisce come ultimo
esempio del filone più
antico del genere
satirico, ossia il filone
della varietas, rispetto al
filone più recente di
carattere moralistico,
finalizzato al carpere
hominum vitia. La
varietas dell’antica satira
riguardava i contenuti, di
vario genere, e la forma
(mista, in prosa e versi).
Tale filone risale ad
Ennio, si sviluppa con
Pacuvio e Varrone
Reatino e culmina con
Petronio. Il carattere
miscellaneo del
Satyricon si coglie
nell’inserzione, nella
narrazione in prosa, di
parti poetiche, come la
declamazione in versi
(coliambi ed esametri)
del retore Agamennone
(cap. 5), la Troiae
Halosis in trimetri
giambici (cap. 89), il
Bellum civile in esametri
(cap. 119);
4) l’influsso della
novella milesia.
Nel romanzo sono
inserite cinque novelle,
che testimoniano
l’influsso della fabula
Milesia, il genere delle
novelle volgari e
licenziose di carattere
popolare (il cui più
celebre esponente fu
Aristide di Mileto, nel II
sec. a. Cr., autore dei
Milhsiak£, le storie
milesie). Le novelle
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Apuleio
(II sec. d. Cr.)
Apuleio di Madaura
(125-170 d. Cr. circa),
scrittore e conferenziere,
ci ha lasciato nelle sue
opere molti elementi
biografici. Di famiglia
ricca, studiò a Cartagine
e ad Atene. Compì
numerosi viaggi e fu
iniziato ai culti misterici.
Ad Atene conobbe
Sicinio Ponziano, che lo
convinse a sposare sua
madre, la ricca vedova
Emilia Pudentilla. Ma
dopo il matrimonio
Sicinio Pudente, il figlio
minore di Pudentilla,
accusò Apuleio di aver
sedotto la madre con
filtri magici, per sposarla
e impadronirsi della
ricca dote. Il processo,
tenuto a Sabratha nel
158-159 d. Cr., vide
Apuleio assolto: del
processo ci resta il suo
discorso di difesa,
rielaborato col titolo di
Apologia sive de magia
liber. Ritornato a
Cartagine, Apuleio
riprese la sua attività di
oratore e pubblico
conferenziere, ottenendo
grande successo, giacché
fu onorato con statue e
iscrizioni. Queste sono le
sue opere principali:
Metamorphoseon libri
15:33
Pagina 270
4) la novella del
fanciullo di Pergamo
(cap. 85);
5) la novella della
matrona di Efeso (cap.
111).
sono: il vetro
quella particolare
infrangibile, il lupo
condizione e qui si
interrompe la narrazione. mannaro, il manichino di
paglia, il fanciullo di
Pergamo, la matrona di
Efeso.
Letteratura latina
dell’età degli Antonini
Carattere allegorico
dell’opera.
Il romanzo, di cui il
libro XI presenta la
chiave interpretativa
della vicenda, ha i suoi
nuclei ispiratori nel
gusto retorico-oratorio di
Apuleio, nel medio
platonismo, nel
misticismo salvifico e
nel culto isiaco diffusi
nel II sec. d. Cr. Esso è
stato definito
mistagogico (da mÚsthj
e ¥gw: “colui che
introduce il fedele ai
misteri della divinità”),
perché si configura come
un percorso di
iniziazione ai misteri di
Iside e la metamorfosi di
Lucio in asino si spiega
col fatto che l’asino si
identifica con Tifone (o
Seth), dio infernale del
male. L’interpretazione
allegorica si deve a
Reinhold Merkelbach,
che ha fissato nel
romanzo lo schema:
1) commissione di una
colpa da parte del
protagonista;
2) punizione e
degradazione del
protagonista
(trasformazione in
asino);
3) sottoposizione a una
serie di prove;
4) intervento della
Le metamorfosi
La trama del romanzo.
Libri I-III: il giovane
Lucio si reca a Ipata,
città della Tessaglia
(tradizionale terra della
magia), dove viene
ospitato dal ricco Milone,
la cui moglie è la maga
Panfile. Desideroso di
conoscere la magia,
Lucio chiede alla servetta
Fotide, che ha sedotto,
un unguento magico per
diventare uccello. Ma
Fotide sbaglia pozione e
Lucio si trasforma in
asino, conservando
l’intelligenza umana.
Quella notte alcuni
banditi irrompono nella
casa di Milone e si
impossessano dell’asino
Lucio. Libri IV-VI:
giunto nella caverna dei
briganti, Lucio ascolta
una favola che una
vecchia racconta a una
fanciulla rapita, Càrite,
per distrarla: è la favola
di Amore e Psiche, che
ha una importanza
peculiare per
comprendere il
significato allegorico del
romanzo. Dopo il
racconto della vecchia
riprendono le avventure
di Lucio nel libro VII.
Libri VII-IX: Tlepòlemo,
il promesso sposo di
Càrite,viene in incognito
– 270 –
Le fonti del romanzo.
Le Metamorfosi sono
conosciute anche come
L’asino d’oro. Così
l’opera è citata da S.
Agostino nel De civitate
Dei (27,28), in
riferimento o al valore
dell’opera o al pregio di
un tale asino, bestia
dall’intelligenza umana e
protagonista di una
vicenda di caduta e di
rinascita. Secondo le
fonti, il romanzo ha una
trama comune al
racconto Lucio o l’asino
di Luciano di Samosata
(120-180 d. Cr.),
contemporaneo di
Apuleio. In Luciano,
però, manca ogni
riferimento religioso e il
carattere del racconto è
prettamente comico.
Entrambi gli scrittori,
Luciano e Apuleio,
potrebbero poi essersi
ispirati alla perduta
opera delle Metamorfosi
di Lucio di Patre (II sec.
d. Cr.), una raccolta di
trasformazioni prodigiose
tra cui anche quella di
un uomo in asino
(secondo il patriarca
bizantino Fozio, IX sec.
d. Cr., che la menziona
nella sua Biblioteca).
Quindi dallo scritto di
Lucio di Patre sarebbero
derivati il racconto dello
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XI, il suo capolavoro,
conosciuto come Le
metamorfosi o l’asino
d’oro; Apologia sive de
magia liber, il discorso
di difesa di Apuleio al
processo di Sabratha;
Florida (4 libri), raccolta
di brani di vario
argomento (letteratura,
filosofia, politica), tratti
dalle sue conferenze; De
Platone et eius dogmate
(2 libri), sorta di
riassunto della filosofia
di Platone; De deo
Socratis, esposizione
della dottrina sui
demoni, propria del
medio platonismo; De
mundo, rifacimento di un
trattatello pseudoaristotelico.
15:33
Pagina 271
divinità e salvezza del
protagonista (recupero
della forma umana);
5) iniziazione al culto di
Iside. Tale iter è
riprodotto, in piccolo,
nella favola di Amore e
Psiche. Ma solo il libro
XI ha questo carattere
mistico-allegorico.
Nei libri precedenti
domina il tema
dell’avventura, anche
se le peripezie hanno
la funzione di preparare
la conversione finale
del protagonista.
Le vicende esasperano
una condizione fatta
di violenze e soprusi
(il Paratore ha parlato
di iper-realismo).
Secondo il Paratore
il coinvolgimento del
lettore ha lo scopo di
provocare in lui il
disgusto, affinché attui
in sé una conversione
morale e religiosa
aderendo alla religione
isiaca. Il libro XI, col
suo carattere misticoallegorico, testimonia
quel clima di
inquietudine religiosa
che fu proprio del II sec.
d. Cr. e contribuì alla
diffusione dei culti
misterici (Iside e Mitra).
nella grotta, uccide i
banditi e libera la
ragazza. Anche Lucio è
lasciato libero, ma non
terminano le sue
peripezie, giacché
conosce una serie di
nuovi padroni: la moglie
di un pastore, la
malvagia moglie di un
asinaio, i depravati
sacerdoti della dea
Siriaca, un mugnaio, un
ortolano, un soldato, un
cuoco e un pasticciere,
suo fratello. Libro X:
l’ultimo padrone decide
di far esibire l’asino
nell’anfiteatro facendolo
congiungere con una
donna assassina
condannata a morte.
Lucio però riesce a
fuggire e giunge sulla
spiaggia di Cencrea.
Qui si getta nel mare
per purificarsi e invoca
la luna, simbolo visibile
di Iside. Libro XI:
Iside appare in sogno
all’asino Lucio e lo
istruisce su come
ritornare uomo.
Lucio mangia le rose,
fiore sacro alla dea,
riacquista la forma
umana e viene infine
iniziato ai misteri di
Iside e Osiride.
– 271 –
Ps. Luciano, da una
parte, e il romanzo di
Apuleio, dall’altra.
Per stessa ammissione
di Apuleio, alla base
delle Metamorfosi vi è
una fabula Graecanica.
Apuleio chiama il
romanzo anche sermo
Milesius, ad indicare il
carattere meraviglioso e
anche piccante del testo.
Alcuni critici però
attribuiscono ad Apuleio
soltanto la favola di
Amore e Psiche e
il libro XI, con
l’apparizione di Iside e
l’iniziazione di Lucio ai
misteri della dea. Il resto
Apuleio lo avrebbe
copiato dallo Ps. Luciano
o da Lucio di Patre.
La scelta dell’asino
come oggetto della
metamorfosi assume nel
romanzo un carattere
simbolico, in riferimento
al culto di Iside. Plutarco
(De Iside et Osiride 30)
ci dice che l’asino era
simbolo dell’impurità e
aveva carattere malefico,
poiché rappresentava la
divinità infernale Tifone.
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IL ROMANZO EUROPEO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
AUTORE
AREA CULTURALE
OPERA
TEMI E CONCETTI
FONDAMENTALI
Flaubert (1821-1880)
Proveniente da una
famiglia borghese, figlio
di un medico, inizia la
sua attività letteraria a
diciotto anni. Trasferitosi
a Parigi, inizia gli studi
di diritto che
abbandonerà subito per
dedicarsi agli studi
letterari. Dopo la morte
del padre (1846), si
stabilisce a Croisset,
dove rimarrà quasi
sempre e stabilisce una
fitta corrispondenza con
la scrittrice L. Colet.
Non prese parte attiva
alle vicende del ’48 e,
isolatosi nella sua tenuta,
compose tutte le sue
opere fra cui, le più note
Salambò, Educazione
sentimentale, Bouvard e
Pecuchet, ...
Naturalismo
La crescente fiducia
nella scienza, giunta
ormai a livelli avanzati,
spinse l’intellettuale a
ritenerla un valido
strumento di indagine
applicabile in tutti i
campi, incluso quello
della psicologia umana.
Hippolyte Taine,
considerato il teorico del
N., affermò che “il vizio
e la virtù sono dei
prodotti come il vetriolo
e lo zucchero”; pertanto
la letteratura doveva
assumere il compito di
un’analisi scientifica
della realtà, sulla base
dell’influenza della
razza, dell’ambiente e
del momento storico.
Flaubert, adottando uno
stile caratterizzato da
sapienti costruzioni
stilistiche e tramite la
sua teoria
dell’impersonalità
(“L’artista nella sua
opera deve essere come
Dio nella creazione,
invisibile e onnipotente”)
opera una dura irrisione
nei confronti della
società, in particolare
quella borghese, e della
cultura contemporanea
come è evidente nel
Gran sciocchezzaio e nel
Dizionario dei luoghi
comuni.
M.me Bovary 1857
Emma, protagonista del
romanzo, desidera
dedicarsi alla passione,
agli agi e frequentare
l’alta società; ma questi
ideali romantici e la
realtà asfissiante del suo
paese la spingeranno ad
intrattenere due relazioni
extraconiugali e ad
indebitarsi pesantemente.
Emma è una sognatrice i
cui desideri non possono
essere esauditi da un
uomo semplice come il
marito Charles, un
medico dalla personalità
mediocre ed ordinaria.
Charles adora sua moglie
e non sospetta delle sue
relazioni tanto da
lasciarle il completo
controllo dei suoi averi;
Emma da parte sua lo
detesta, giudicandolo il
perfetto esempio di tutto
ciò che è noioso ed
insignificante. Diviene
così l’amante di Léon
Dupuis, anch’egli un
sognatore frustrato dalla
vita di provincia e
Rodolphe Boulanger,
ricco proprietario
meschino e volgare; ma
entrambe le relazioni
finiranno per deluderla.
Cade infine preda di un
usuraio, Monsieur
Lheureux, che convince
Emma a comprare beni a
mezzo di cambiali; il
sequestro giudiziario dei
beni indurrà Emma al
suicidio.
Emma, attraverso i suoi
sogni e le sue
aspirazioni verso una
vita più autentica, mette
a nudo la grettezza e la
stupidità degli ambienti
borghesi. Insofferenza
per orizzonti limitati.
Bisogno di autenticità.
Tramonto del romanzo
autoriale e del narratore
onnisciente.
– 272 –
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Zola
(Parigi 1840-1902)
A causa della morte del
padre, un ingegnere
italiano, inizia a lavorare
precocemente.
Intraprende la carriera
letteraria con racconti di
impronta romantica, ma
l’influenza di Taine fa
assumere al suo stile un
carattere scientifico già a
partire dal ’67, quando
scrive Therese Raquin.
Dopo la pubblicazione
del ciclo di RougonMacquart (1871-1893),
ottiene successo e
celebrità con
L’Assommoir. Altri
romanzi notevoli furono
Nanà, sull’ambiente del
teatro e delle cortigiane,
La terra, sulla
degradazione e la ferocia
animalesca dell’ambiente
contadino, La bestia
umana, sull’ambiente
delle ferrovie, in cui
viene studiato l’istinto
ferino che è proprio
dell’uomo. Con Le tre
città, Lourdes, Roma e
Parigi (’94-’97), apre la
polemica contro la
religione ed al tempo
dell’“affare Dreyfus”,
combatte contro
l’antisemitismo,
scrivendo l’articolo che
ebbe grande risonanza,
J’accuse, a causa del
quale fu condannato ad
un anno di reclusione,
evitata con una fuga in
Inghilterra. Al suo
ritorno in patria, nel ’99,
la stagione del
15:33
Pagina 273
Il Darwinismo
La formazione
di Darwin
Si esamina il processo di
formazione delle idee
innovative di Charles
Darwin, nato in un
periodo di contrasto tra
la tradizionale visione
fissista e creazionista
della vita e del Mondo,
e le nascenti idee di un
Mondo in continua
trasformazione. Dalla
iniziale formazione
ortodossa, dovuta a studi
intrapresi per dedicarsi
ad una carriera
ecclesiastica,
all’influenza sul giovane
Darwin delle idee del
nonno Erasmus,
precursore delle teorie
evolutive,
all’osservazione della
diversità biologica e
degli adattamenti degli
esseri viventi dovuta al
suo interesse giovanile,
coltivato poi per tutta la
vita, per l’entomologia e
la botanica.
Contemporaneamente si
appassionava agli studi
geologici, costruendosi
così una solida base in
tutte le scienze naturali.
Le prime esperienze e
la spedizione del Beagle
Durante gli anni della
gioventù Darwin compì
studi su animali
d’allevamento, la
selezione delle razze,
l’acquicoltura, la
botanica e una
importante spedizione
geologica in Galles al
seguito di un noto
geologo, iniziando in
questa occasione ad
Il metodo sperimentale
delle scienze deve essere
applicato anche alla sfera
L’Assommoir 1877
spirituale, agli atti
(brano L’alcol inonda
intellettuali e alle
Parigi p. 81)
passioni. (Il romanzo
Assommoir significa
sperimentale) Fiducia
propriamente “mattatoio” nella possibilità della
perché l’acquavite porta letteratura di incidere
all’abbrutimento e alla sul reale.
morte gli operai che la F. De Sanctis, Zola e
frequentano. Gervaise è “L’Assommoir” (1879)
una lavandaia che,
abbandonata dall’amante
con i due piccoli figli, si
risposa con Coupou, un
operaio onesto e
laborioso. La famiglia fa
progressi finché Coupou
non cade vittima di un
incidente e sopravvive
grazie al duro lavoro di
Gervaise, mentre Coupou
si dà all’alcol e la figlia
Anna incomincia a
frequentare ambienti
degradati e squallidi.
Anche Gervaise, alla
fine, distrutta dalla
fatica, incomincia a bere
e muore nella miseria e
nella disperazione.
– 273 –
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Naturalismo si era
esaurita per lasciare il
posto a tendenze
antipositivistiche. Muore
nel 1902, asfissiato dalle
esalazioni di una stufa,
in circostanze misteriose.
15:33
Pagina 274
avere dubbi sulla durata
delle ere geologiche a
quel tempo accettata.
Immediatamente dopo
partecipò come
geologo/naturalista alla
spedizione cartografica
del Beagle (1831-1836),
circumnavigando il
pianeta e facendo sosta
in numerose località di
isole oceaniche, del Sud
America, Australia e Sud
Africa. Durante questo
viaggio raccolse un gran
numero di campioni
zoologici e geologici. Le
osservazioni compiute
sul campo, unitamente ai
risultati dell’esame del
materiale raccolto, gli
permisero di intuire i
meccanismi da cui
dipende l’evoluzione.
On the Origin
of Species by Means
of Natural Selection,
or the Preservation
of Favoured Races
in the Struggle for Life
Nel 1842 cominciò a
strutturare la sua teoria
dell’evoluzione per
selezione naturale, che
continuò ad affinare ed
ampliare, finché nel
1858, confortato, e forse
spinto, da osservazioni e
deduzioni molto simili
alle sue, compiute in
Borneo da Alfred Russel
Wallace, presentò la sua
opera più importante,
pubblicata l’anno
successivo:
On the Origin
of Species by Means
of Natural Selection,
or the Preservation
of Favoured Races
in the Struggle for Life
– 274 –
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(Sulla Origine delle
Specie per Selezione
Naturale, ovvero la
Conservazione delle
Razze Favorite nella
Lotta per la Vita).
Si analizza la struttura
della sua opera
principale, e si leggono e
commentano alcuni brani
nella traduzione italiana
del 1863, anche
comparando alcune frasi
con quelle del testo
originale del 1859. In
particolare si affrontano i
capitoli riguardanti la
lotta per l’esistenza e la
selezione naturale, per
comprendere cosa
effettivamente Darwin
intendesse con questi
termini.
Conseguenze dell’opera
di Darwin Vengono
esaminati i principali
elementi innovativi che
la concezione di Darwin
della vita introduceva
non solo nelle scienze
naturali, ma in tutti gli
altri aspetti della cultura
e della società ponendo
l’accento soprattutto
sugli aspetti che
mettevano in difficoltà la
religione ed alcuni
aspetti della società, con
le conseguenze che ne
derivavano:
1 - Gli esseri viventi si
sono originati per caso, e
sempre per casualità,
sotto la pressione della
selezione naturale, si
sono evoluti fino a
raggiungere gli attuali
livelli di complessità
(negazione della
creazione da parte di
un’entità superiore).
– 275 –
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2 - Gli esseri viventi non
sono stati creati perfetti,
ma si modificano
continuamente per
adattarsi alle condizioni
di vita, utilizzando le
caratteristiche che già
possiedono, affinandole e
migliorandole nel corso
del tempo (negazione
della perfezione del
Creato).
3 - Il concetto di
selezione naturale è
completamente privo di
qualsiasi connotazione
finalistica, che invece
permeava la concezione
precedente della vita
(negazione del finalismo).
4 - Non è possibile
prevedere gli sviluppi
futuri della vita
conoscendo gli elementi
del mondo attuale ed i
suoi processi, poiché
tutto è legato al caso
(negazione del
determinismo).
Joris-Karl Huysmans
nasce nel 1848 a Parigi.
Nel 1880 dà il suo
contributo, insieme a
Zola, alle “Serate di
Medan”, manifesto del
Naturalismo, da cui
presto si distaccherà per
avvicinarsi al
Decadentismo. È del
1884 À rebours
(Controcorrente),
considerata una delle
“bibbie” del
Decadentismo. Nel 1890
entra in una profonda
crisi mistica che
dapprima lo spinge verso
l’occultismo, poi lo porta
Arthur Schopenhauer
Il mondo come volontà e
come rappresentazione.
Il mondo è la mia
volontà, T 2 pag. 51
Il testo è del 1818.
Ecco i punti essenziali:
la realtà come struttura a
sé stante, non orientata da
alcun fine che non sia la
sua riproduzione;
l’individuo come
elemento e strumento di
questo meccanismo
immodificabile.
Nell’indagare la natura
come dato di fatto, va
tenuta in considerazione
la formazione
materialistico-illuminista
dell’autore.
À rebours (1884)
Il romanzo si può
definire “la storia di una
nevrosi” vissuta da Jean
Floresses Des Esseintes
nella Parigi di fine
secolo. Giovane
aristocratico deluso dalla
frivola vita mondana,
decide di sciogliere
definitivamente ogni
contatto con la società.
Si rifugia così in un
piccolo paese della
campagna parigina,
Fontenay, iniziando il
suo eremitaggio distante
da qualsiasi distrazione
che gli possa offrire la
– 276 –
Nel romanzo di
Huysmans troviamo i
capisaldi della visione
decadente: il rifiuto della
realtà, a cui è anteposta
l’immaginazione,
e il rifiuto della natura,
ritenuta ormai banale e
usurata, da sostituire,
in una ricerca raffinata
di realtà inedite,
con la realtà artificiale
creata dall’uomo.
Il protagonista riprende
la figura decadente
dell’esteta, ossia colui che
trasforma la sua vita in
opera d’arte, assumendo
come principio regolatore
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ad abbracciare
l’ortodossia cattolica e
infine ad entrare
nell’abbazia benedettina
di Ligugè nel 1898.
Muore a Parigi nel 1907.
15:33
Pagina 277
Decadentismo
Il 26 Maggio 1883
sul periodico parigino
“Le Chat Noir”,
Paul Verlaine pubblica
un sonetto, Langueur,
considerato il manifesto
del Decadentismo. Alla
base di questo fenomeno
culturale vi è un
irrazionalismo
misticheggiante, il rifiuto
radicale della visione
positivistica, la
convinzione che la
conoscenza del reale
avviene rinunciando
all’abito razionale.
L’unità tra io e mondo,
tra soggetto e oggetto,
avviene sul piano
dell’inconscio: in questa
zona oscura
l’individualità scompare
e si fonde con un Tutto
inconsapevole (Panismo).
La conoscenza della
realtà avviene tramite la
malattia, la follia, la
nevrosi, il delirio, il
sogno e l’allucinazione,
metafore di una
condizione storica di
profonda crisi, in grado
di aprire al nostro
sguardo interiore
prospettive ignote. Gli
stati di alterazione
possono essere provocati
anche artificialmente,
attraverso l’uso
dell’alcol, dell’assenzio e
delle droghe (hashish,
morfina, oppio). Tra i
temi fondamentali della
letteratura decadente
troviamo l’ammirazione
per le epoche di
decadenza (tarda latinità
imperiale, età bizantina,
ecc.). Al culto per la
civiltà, evitando il più
possibile i contatti con i
domestici e con il
mondo esterno. Qui Des
Esseintes si dedica a
soddisfare ogni suo
desiderio e piacere:
arreda la casa con una
cura maniacale, acquista
una tartaruga e,
insoddisfatto
dell’accostamento dei
colori di questa con
quelli della sua
abitazione, le fa
incastonare sul carapace
una composizione di
pietre preziose
accuratamente
selezionate; allestisce
una biblioteca contenente
i volumi da lui preferiti.
La sua vita scorre così
tra la lettura, la
degustazione di alcolici e
bevande, la
composizione di profumi
e la cura delle piante. La
solitudine gli permette di
immergersi in ricordi e
di abbandonarsi a
pensieri, partoriti dalla
sua mente isterica ed
inquieta. La malattia
nevrotica, così, intacca la
sua salute,
costringendolo
febbricitante a letto.
La consapevolezza
del suo stato d’infermità
lo costringe, infine,
a riallacciare i legami
con la società ritornando
deluso a Parigi. Il
romanzo non presenta
un intreccio, una serie
di personaggi legati
da rapporti, uno sfondo
sociale le cui radici
sociali affondino in un
dato momento storico.
– 277 –
il “bello”. La noia e la
sazietà per la banalità e
la volgarità della gente
comune lo spingono a
realizzare un modello
alternativo, caratterizzato
da una ricerca di
sensazioni rare e squisite.
La realtà comune viene
disprezzata e abolita,
per dare luogo a una
costruzione artificiale,
in cui la fantasia riesce a
concretizzare ogni suo
desiderio. La “realtà
fantasticata” diventa
la vera e più alta forma
di realtà.
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Lev Tolstoj
Nasce nella Russia
centrale nel 1828 da
famiglia nobile. Nel 1869
conclude il suo capolavoro
Guerra e Pace. Del 1877
è Anna Karènina.
Conduce una vita
apparentemente serena
nonostante sia dilaniato
da una inquietudine
esistenziale che culmina
nel 1880 in una crisi
(espressa in romanzi come
La morte di Ivan Ilijc o
La sonata a Kreutzer)
le cui conseguenze lo
indussero a rinunciare
a tutti i suoi beni e
a modificare la sua
concezione della
letteratura e dell’arte,
intendendola come
strumento pedagogico e
morale. Morì nel 1910.
15:33
Pagina 278
raffinatezza di tali
epoche si unisce il
vagheggiamento del
lusso raro e prezioso e
della lussuria, complicata
da perversità e crudeltà.
In queste fantasie
perverse si manifesta una
sensibilità esasperata, al
limite della nevrastenia.
Accanto alla nevrosi, la
malattia in genere è un
altro grande tema
decadente, a cui si
associa anche la malattia
delle cose: il gusto
decadente ama tutto ciò
che è corrotto e impuro.
La malattia e la
corruzione affascinano i
decadenti anche perché
sono immagini della
morte, uno dei temi
dominanti del
Decadentismo.
È il ritratto di un uomo
eccezionale, fuori dal
comune, delle sue
abitudini, delle sue
predilezioni, dei suoi
gusti e dei suoi disgusti,
delle sue ricerche di
sensazioni rare e
preziose che rovesciano i
comportamenti abituali,
delle sue nevrosi e delle
sue manie.
Realismo russo
La Russia ottocentesca si
presenta come una realtà
arretrata sul piano
economico e politico.
Nonostante il controllo
esercitato sulla cultura
da parte della monarchia
assoluta, esiste
un’intellettualità di
opposizione che si ispira
a posizioni nichiliste e
rivoluzionarie o a
principi democratici, di
matrice liberale o
socialista. Su questo
sfondo si sviluppa il
romanzo realista, che
analizza la società russa
in tutti i suoi aspetti. Le
opere di Tolstoj sono
permeate da una forte
carica etico-religiosa.
Egli si focalizza sulle
tematiche sociali,
Anna Karènina (1878)
L’opera si incentra sulle
vicende di due coppie,
Anna e Vronskij e Levin
e Kitty. Nonostante Anna
sia sposata con Karenin,
rimane incinta
dell’amante Vronskij.
Vedendosi rifiutare il
divorzio dal marito e
convinta che l’amante
non la ami più, si
uccide. Vronskij,
sconvolto, si arruola
nell’esercito. Levin vive
una vicenda antitetica a
quella di Anna,
ricercando la felicità nei
suoi affetti familiari e in
una fede autentica e
profonda.
– 278 –
Le cause dell’infelicità e
della colpa sono i temi
su cui si struttura il
romanzo. Anna, infatti,
all’inizio viene
presentata come una
donna serena e appagata
della vita che conduce;
ma quando l’amore fa
irruzione, questo
equilibrio si sconvolge e
in lei si scontrano il
bisogno di amore e di
assoluto e la realtà.
Risulta così evidente
l’opposizione tra il
mondo delle convenzioni
e l’autenticità dei
sentimenti. L’Eros è
concepito come una
forza distruttrice che non
si concilia con il mondo
delle convenzioni.
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intendendo la storia
quale il prodotto della
forza delle masse popolari.
Fëdor Dostoievskij
Nasce a Mosca (18211881). A causa delle sue
simpatie socialiste, fu
condannato ai lavori
forzati in Siberia. Nel
1865 pubblicò Memorie
del Sottosuolo,
esplorazione degli
impulsi indecifrabili e
oscuri di un personaggio
emarginato e inetto. Nel
1866 apparve Delitto e
Castigo, uno dei suoi
capolavori. Del 1869 è
l’Idiota, la storia di un
uomo assolutamente
buono e diverso, ma che
è sconfitto nello scontro
con gli altri, mentre
nel 1871 compone
I Demoni, romanzo che
ruota intorno ad alcune
figure di terroristi
nichilisti. Abbandonate le
simpatie socialiste e
mosso da un odio per la
civilizzazione europea
materialista e capitalista,
egli aderì al
nazionalismo “slavofilo”,
ritenendo che al popolo
russo spettasse il compito
di pacificare il mondo.
L’ultimo romanzo è
I Fratelli Karamazov
(1879-80), storia di una
famiglia percorsa dagli
odi e dai risentimenti,
che determinano
l’uccisione del padre da
parte di uno dei figli.
Solo Alesa, innocente e
puro, il più giovane dei
fratelli, tenta di opporsi a
questa tragedia.
Realismo russo
La Russia ottocentesca si
presenta come una realtà
arretrata sul piano
economico e politico.
Nonostante il controllo
esercitato sulla cultura
da parte della monarchia
assoluta, esiste
un’intellettualità di
opposizione che si ispira
a posizioni nichiliste e
rivoluzionarie o a
principi democratici, di
matrice liberale o
socialista. Su questo
sfondo si sviluppa il
romanzo realista che
verte ad analizzare la
società russa in tutti i
suoi aspetti. Nei romanzi
dostoievskiani, vivo è il
senso della doppiezza
della psiche umana,
agitata da impulsi non
razionali. Ne deriva una
tensione disperata che
sfocia in una narrazione
fortemente
soggettivizzata.
Friedrich Nietzsche
Così parlò Zarathustra e
Frammenti postumi
1887-1888. L’annuncio
di Zarathustra T5 pag.
444 Critica e distruzione
dei valori etici.
Negazione del valore
morale della verità. È la
cosiddetta distruzione
delle certezze che apre
la via a molteplici e
possibili sviluppi. Il suo
carattere teorico non ne
impedì l’influenza
pratica, sull’agire degli
individui e delle masse
avvenire.
Delitto e castigo (1866)
Un giovane e povero
provinciale, Raskolnikov,
uccide una vecchia
usuraia e la sorella. Il
protagonista uccide per
provare a se stesso di
essere un uomo
superiore che ha il
diritto di violare le leggi
morali, ma è tormentato
dai rimorsi. Infine, Sonja
raccoglie la confessione
del delitto e lo spinge a
costituirsi. Ma l’animo
del giovane si oppone ad
un autentico pentimento
e solo in Siberia si
profila la sua redenzione.
– 279 –
Dostoievskij descrive
l’uomo del “sottosuolo”,
la parte più profonda
dell’io, dove bene e
male sono
indissolubilmente legati.
Attenzione ai problemi
filosofici e morali
(esistenzialismo).
Legittimazione al male,
connessa all’esistenza o
meno di Dio. Attenzione
alle dinamiche
dell’inconscio. Rifiuto
del narratore onnisciente,
struttura polifonica del
romanzo.
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Federico De Roberto
Nasce a Napoli nel 1861.
Appartenente ad una
nobile famiglia, dopo la
morte del padre, si
trasferì prima a Milano
e successivamente, per
un breve periodo, a
Roma. Fu grande
sostenitore della poetica
verista e naturalista, sotto
la guida e l’amicizia di
Verga e Capuana. Al
soggiorno milanese risale
la stesura della sua
opera più celebre,
I Viceré. Nel 1897
ritornò a Catania dove
trascorse il resto dei suoi
giorni. Morì nel 1927.
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Pagina 280
Verismo
Il Verismo nasce in Italia
sulle orme del
naturalismo francese, da
cui acquisisce
l’impersonalità della
narrazione, ma si
distingue dalla corrente
francese per quanto
riguarda la concezione
dell’arte. Essa infatti,
secondo Capuana, il
teorico del Verismo,
deve avere una forma
impersonale, ma, al
contempo, deve
conservare la sua
espressione artistica e
non adottare strumenti
che sono propri della
scienza. Inoltre il
Verismo, a differenza del
Naturalismo, non si
occupa della classe
operaia ma della realtà
arretrata e statica del
Meridione d’Italia, in cui
non si era ancora
verificato il processo di
industrializzazione.
I Viceré (1894)
Romanzo antistorico,
venne presentato così
dall’autore: “La storia
d’una grande famiglia, la
quale deve essere
composta di quattordici
o quindici tipi, uno più
forte e stravagante
dell’altro”. L’opera
venne scritta a Catania
tra il 1891 e il 1892 e
rappresenta il più grande
romanzo dell’autore.
Narra le vicende degli
Uzeda di Francalanza,
nobile famiglia
discendente dai viceré
spagnoli, dal 1855 al
1882. Le vicende si
svolgono all’interno
dell’ambiente familiare
dove penetrano gli eventi
storici risorgimentali, sia
quelli siciliani che
nazionali. Si sviluppano
così odi e rivalità tra i
vari membri cosicché
l’autore riesce, con la
descrizione dei vari
ambienti sociali, dalla
nobiltà al clero fino ad
arrivare ai ceti più
poveri, a provocare il
lettore sul senso della
storia. C’è un continuo
scambio tra gli eventi
storici e quelli familiari,
e da questi ultimi
emerge la spiccata
avidità, la sete di potere
e le meschinità. Ogni
membro della famiglia
ha una storia segnata
dalla corruzione morale
e biologica che si
evidenzia nella loro
fisionomia.
– 280 –
All’alba del
romanticismo De Roberto
cominciò ad avvicinarsi
alla letteratura, per usare
le parole del De Sanctis,
in una «Arcadia con
licenza de’ superiori»;
l’autore nutrì ben presto
un’avversione tenace,
radicata, a volte persino
furiosa contro l’enfasi
sentimentale, i rapimenti
lirici e tutte le forme di
idealizzazione o
comunque di
mistificazione del vero,
di cui si eran resi
colpevoli, ai suoi occhi,
gli autori tardo-romantici.
In lui fu sempre
accesissima la volontà di
scoprire i concreti,
terreni motivi dell’agire
umano, fuori di ogni
prospettiva metafisica,
rimuovendo ogni velame
di pietà o di ipocrisia:
tutta la sua miglior
narrativa vive in questo
impegno di assoluta
dedizione al reale, in
quest’ansia di scrutare il
vero volto e l’animo
della civiltà
contemporanea,
adempiendo così ad un
urgente dovere civico e
al tempo stesso
contribuendo ad un
radicale rinnovamento
letterario.
L’osservazione della vita,
la quale è «il tema unico
e molteplice, semplice e
formidabilmente
complicato che si offre
all’esame del
romanziere» è la colonna
portante di tutta la sua
poetica. Bisogna ricavare
dalla realtà dei
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“documenti umani”; ma
questa stessa parola
d’ordine, che De Roberto
assumerà a titolo di uno
dei suoi primi volumi,
mentre parrebbe segnare
il più stretto legame col
naturalismo francese,
rivela invece le profonde
divergenze che separano
lo Zola e la sua scuola
dal movimento verista di
cui De Roberto fu
partecipe.
Thomas Mann
Lubecca (1875)
Zurigo (1955).
Nel 1893 muore il padre
e si trasferisce a Monaco
di Baviera. Nel 1901
scrive I Buddenbrook,
che narra la decadenza
di una famiglia borghese
attraverso quattro
generazioni. Nel 1929
ottiene il Nobel per la
letteratura con l’opera
“La montagna incantata”,
un romanzo-saggio in
cui l’autore mette in
scena personaggi che
rappresentano diverse
posizioni politiche,
culturali e morali
dell’Europa degli anni
Dieci. Nel1933 critica i
rapporti tra nazismo e
arte tedesca e, a seguito
di questa scelta, va a
vivere da esule in
California. Nel1952 gli
viene proposta la prima
presidenza della
Repubblica tedesca, ma
rifiuta. Muore nel 1955.
La teoria
della relatività
di Einstein
Un contributo decisivo
ad una visione
relativistica della realtà
lo diedero le ricerche e
le ipotesi scientifiche di
Einstein. La teoria della
relatività ristretta (1905)
e quella della relatività
generale (1916)
contribuiscono in
maniera determinante
alle trasformazioni che
contemporaneamente
coinvolgono
l’immaginario e hanno
perciò profonde
conseguenze nella
letteratura e nell’arte. Il
tempo e lo spazio
cessano di esser
categorie oggettive; il
passato, il presente ed il
futuro coesistono nella
coscienza umana e la
dimensione del tempo
acquista
progressivamente una
risonanza interiore.
Tramonta così il
personaggio a tutto
tondo di stampo
ottocentesco e subentra
un personaggio
La morte a Venezia
(1912) (brano Il bel
fanciullo e il mare
p.397) Lo scrittore von
Aschenbach è attratto
dalla bellezza di un
ragazzo polacco, in una
Venezia voluttuosa e
decadente in cui si
diffonde il colera. Il caos
dell’irrazionale, della
bellezza e della morte
devasta il sogno di
classico equilibrio del
protagonista che muore
inseguendo il ragazzo.
– 281 –
Rappresentazione dei
conflitti più profondi del
proprio tempo, del
malessere della società
occidentale e delle sue
inquietudini.
Irriducibilità del
contrasto fra l’artista e
la meschinità dei valori
borghesi.
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parcellizzato, incoerente,
privo di identità.
Esemplare, sotto questo
profilo, è l’opera di
Pirandello e, in
particolare, il romanzo
Uno, nessuno e
centomila, il cui
protagonista rifiuta
totalmente ogni identità
individuale.
Narrativa
in lingua tedesca.
Si possono distinguere
due gruppi di scrittori: il
primo gruppo (18641877), a cui appartiene
Mann, è legato al
romanzo tradizionale e
ne mette in crisi le
strutture dall’interno. Le
tematiche fondamentali
ruotano intorno alle
contraddizioni dello stile
di vita borghese
(Buddenbrook, La morte
a Venezia).
Robert Musil
Klagenfurt (1880) Ginevra (1942) Nel1876
muore la sorella che
ispirerà il personaggio di
Agathe nell’Uomo senza
qualità. Studia presso un
collegio militare e nel
1901 si laurea in
Ingegneria meccanica. È
del1906 il primo
romanzo, I turbamenti
del giovane Törless.
Viene arruolato con il
grado di ufficiale allo
scoppio della Prima
guerra mondiale e
destinato al fronte
italiano. Dal1923 lavora
all’Uomo senza qualità.
1924 riceve il premio
Kleist. 1938 esule a
Narrativa
in lingua tedesca
Musil è il principale
esponente del secondo
gruppo insieme a Kafka
(nati tra 1878-1886). Da
esso prende le mosse il
clima culturale
dell’Espressionismo,
orientamento più radicale
sul piano contenutistico
e formale. Kafka affronta
i temi dell’assenza di
significato, dell’oscurità
e dell’insensatezza del
potere tirannico.
L’uomo senza qualità
(1931) (p. 39); p. 1033
Luperini Il protagonista
Ulrich rappresenta
l’uomo senza qualità
che, proteso verso tutte
le possibilità intellettuali
e pratiche, non riesce a
dare un indirizzo
univoco alle sue
aspirazioni. Egli
riassume in sé tutte le
qualità e non qualità del
secolo appena iniziato;
con la frequentazione
degli ambienti più
elevati fa risaltare il
nulla che sta dietro le
apparenze, la vacuità
delle cerimonie ufficiali,
la falsità dei rapporti
umani. Nel romanzo si
– 282 –
Influenza di E. Mach.
Coscienza della crisi
dell’oggettivismo e
dell’impossibilità di ogni
conoscenza sicura del
mondo, ma anche delle
infinite possibilità
dell’uomo.
Intreccio fra nichilismo e
utopia. Aberrazione dei
rituali mondani, assenza
di ogni valore autentico
nei rapporti umani.
Rappresentazione dello
sfacelo della civiltà
dell’Impero asburgico,
crollo dei valori del
mondo contemporaneo.
Mentre in Mann
l’opposizione interna
all’ordine borghese è
data prevalentemente dal
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intuiscono numerosi
elementi autobiografici;
inizialmente vi è una
temporanea
identificazione
dell’autore con
l’assassino Moosbrugger.
Il rapporto incestuoso
con la sorella nei
successivi
rimaneggiamenti perde i
connotati erotici a favore
di una “unio mystica”. Il
romanzo, rimasto
incompiuto, presenta una
trama di minima
importanza tanto da
risultare un labirinto
inafferrabile nel suo
significato.
Zurigo. Avverso al
nazismo, si rifugia a
Ginevra, dove muore nel
1942.
Henri Bergson
L’evoluzione creatrice.
Il mondo materiale e
il movimento della
vita T 2 pag. 285.
Testo del 1907.
Adesione alla teoria
evoluzionista, liberata,
però, da tutti i
condizionamenti di tipo
materialisticomeccanicistico. È qui
che si costruisce l’idea
di flusso vitale come
essenza della vita e della
realtà. Azioni e non cose
sono gli elementi
costitutivi di questa
inesauribile attività
creatrice. Le azioni
presuppongono un totale
dinamismo (materia,
spirito, progresso,
regresso...) mediante
il quale la stessa materia
può assumere
configurazioni molteplici
che possono dar luogo
ai più svariati punti
di vista.
Teoria
della relatività ristretta
(Albert Einstein 1905)
Tempo e spazio non
sono più grandezze
assolute ma al contrario
sono grandezze relative
all’osservatore.
→ Postulati della
relatività ristretta
→ Relatività della
nozione di simultaneità
→ Trasformazioni di
Lorentz
→ Dilatazione del tempo
→ Contrazione delle
lunghezze
→ Somma relativistica
delle velocità
→ Paradosso dei gemelli
– 283 –
connubio arte-malattia
(Montagna incantata)
in Musil predomina il
nesso delitto-malattia.
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Narrativa in Francia
Marcel Proust Nasce a
Parigi nel 1872 da una
famiglia borghese. Nel
1896 pubblica I piaceri
e i giorni (raccolta di
prose d’occasione) e
inizia a scrivere Jean
Santeuil, opere in cui
risulta già evidente il
gusto per l’introspezione
che sarà sviluppato nella
Ricerca. Dal 1906, dopo
la morte di entrambi i
genitori, inizia un
periodo di isolamento in
cui si dedicherà alla
scrittura, che
comprenderà la stesura
di Alla ricerca del tempo
perduto. Muore nel
1922, a causa di una
bronchite malcurata.
Declino del Positivismo,
che ammetteva la realtà
solo come un complesso
di fenomeni materiali
regolati da leggi
meccaniche e
deterministiche. → Ogni
forma visibile è simbolo
di un’altra realtà più
profonda, comprensibile
solo in un abbandono
di empatia irrazionale.
Questo comporta nuove
concezioni:
Della Storia → gli
eventi perdono
consistenza oggettiva per
divenire riflesso di
un’esperienza soggettiva;
Dello Spazio → ricopre
un valore simbolico (non
rappresenta la realtà
concreta);
Del Tempo → viene
filtrato attraverso la
percezione del singolo.
Alla ricerca
del tempo perduto (1913)
(brano p. 405,
Le intermittenze
del cuore)
- Dalla parte di Swann
(1913)
- All’ombra delle
fanciulle in fiore (1919)
- I Guermantes (1920)
- Sodoma e Gomorra
(1922)
- La prigioniera
(postumo, come i
seguenti)
- Albertine scomparsa
- Il tempo ritrovato
Il protagonista
dell’opera, Marcel, ha
trascorso la sua
fanciullezza a Combray,
dove è entrato in
contatto con i duchi di
Guermantes e con
Swann, marito della
cortigiana Odette de
Crécy. Dopo l’amore
Sul piano letterario
fanciullesco con
queste innovazioni
Gilbertine e la
determinano un forte
conoscenza di Albertine
sperimentalismo
narrativo e linguistico, presso i bagni, si
e nuove tecniche
innamora della contessa
narrative come il
Oriane; tuttavia in
“monologo interiore” e il seguito intraprende una
“flusso di coscienza”.
difficile relazione con
Albertine, con cui vive a
Parigi, ma la sua gelosia,
così profonda da
costringere la ragazza
quasi a una reclusione
domestica, ne provoca
l’allontanamento. Egli
prova a ricondurla a sé,
ma proprio quando sta
per riuscirci, Albertine
muore in un incidente. Il
dolore di Marcel col
tempo si tramuta in
– 284 –
Il protagonista-narratore
ricostruisce le vicende
attraverso una
prospettiva soggettiva.
La realtà non vale per se
stessa, ma in quanto
filtrata e rivissuta
nell’interiorità del
soggetto. Solo la
memoria può cogliere le
trasformazioni apportate
sugli uomini dal
trascorrere del tempo.
Solo la memoria
involontaria è in grado
di far riaffiorare, da una
“grande profondità”, la
verità, la totalità del
ricordo.
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oblio e indifferenza,
mentre la sua sensibilità
nervosa lo costringe a
recarsi presso una casa
di cura; quando torna a
Parigi l’ambiente è
profondamente mutato,
ma i cambiamenti non
gli interessano: il suo
unico desiderio è
concentrarsi sul ricordo
del suo tempo, la ricerca
del tempo perduto.
Federigo Tozzi Nasce a
Siena il primo Gennaio
del 1883. Nel 1897-98
frequenta l’Accademia
delle Belle Arti e le
Scuole Tecniche. Nel
1895 gli muore la
madre, a cui era molto
affezionato. Nel 1900, il
padre, Ghigo Del Sasso,
si risposa. La sua natura
ribelle lo induce ad
abbandonare
definitivamente gli studi
e ad iscriversi al Partito
socialista di Siena. A
seguito della sua vita
disordinata, nel 1904 si
ammala agli occhi. Nel
1908 viene assunto dalle
Ferrovie Dello Stato (da
questa esperienza
nascono i Ricordi di un
impiegato); il 15 maggio
del 1908 muore il padre
ed il 30 si sposa con
Emma Palagi. In questo
periodo decide di
lasciare l’impiego, di
vendere i suoi poderi e
di dedicarsi interamente
al lavoro intellettuale.
Nel 1913 scrive Con gli
occhi chiusi, pubblicato
postumo il 15 Maggio
1924 e ritenuto il suo
capolavoro. Gli altri
Con gli occhi chiusi
(1913)
(brano p. 470,
Con espressionismo si La castrazione degli
animali)
indica una corrente
culturale sviluppatasi agli (p. 1087 Luperini, Come
inizi del ’900 nel mondo leggo io)
tedesco. Il termine nasce
nell’ambito della pittura, Il rapporto con il
padre Il padre di Tozzi,
nel 1901, quando un
gruppo di artisti lo coniò Ghigo del Sasso, era un
contadino senese, tenace
in opposizione
lavoratore attaccato al
all’Impressionismo,
denaro, dispotico e
considerato
manesco. Decisamente
un’emanazione del
avverso alle inclinazioni
Naturalismo. In
culturali e letterarie del
particolare, i caratteri
figlio, visto solamente
generali
come un erede, non
dell’espressionismo
narrativo sono i seguenti: riusciva ad ammettere
che le cose da lui
1) Superamento delle
desiderate (denaro e
gerarchie e delle
successo) fossero
proporzioni: la realtà
oggettiva non esiste più, disprezzate dal figlio.
Nel romanzo Con gli
esiste solo il mondo
occhi chiusi, che tratta
soggettivo.
delle vicende del
2) Forza e vivacità
giovane Pietro,
espressiva con cui gli
autori portano in scena innamorato di Ghisola,
una contadina scaltra che
le problematiche più
cerca di ingannarlo e che
varie della psicologia
diventa la mantenuta di
umana.
3) Rapporto padre-figlio, un commerciante,
ritroviamo nel
un conflitto
generazionale vissuto in protagonista la figura di
Tozzi e nel gigantesco e
prima persona dagli
sanguigno padre
autori.
Espressionismo
narrativo
– 285 –
Rovesciamento
dell’andamento realistico
della narrazione. Scelte
linguistiche orientate
verso un percorso
conoscitivo dagli esiti
visionari e surreali.
Viene posta in primo
piano la sensibilità
dell’inetto, dell’infermo,
privilegiando lo sguardo
spento degli “occhi
chiusi” rispetto al
clamore e alla violenza
della realtà che li
circonda. I personaggi di
Tozzi sono il simbolo di
una coscienza che ha
smarrito i solidi punti di
riferimento della cultura
positivistica.
Come leggo io
L’articolo, pubblicato
postumo ne “Lo
spettatore italiano”, è di
fondamentale importanza
per apprendere la poetica
tozziana dei “misteriosi
atti nostri” e la visione
del senese sulle modalità
di scrittura (avversione
per la trama, considerata
di scarsa importanza,
rispetto al “come si
scrive”). Si può
suddividere il testo in tre
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romanzi che lo hanno
reso celebre sono Il
podere e Tre croci.
Muore il 21 Marzo del
1920, a seguito di una
forte polmonite.
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4) Opere introspettive,
che nascondono dietro le
parole i segreti e la lotta
contro i desideri repressi.
5) Profondo biografismo,
disincanto e lucido
realismo.
Domenico, lo stesso
Ghigo del Sasso. Questa
brutalità è evidente
nell’episodio della
castrazione degli animali
che è assolutamente
necessaria alla
funzionalità del romanzo,
assumendo il valore di
una sintesi altamente
emblematica delle
motivazioni oscure e
profonde sottese
all’opera. Il padre si
serve della sua tirannica
autorità per infierire
crudelmente sulla
debolezza del figlio,
decretandone il
fallimento e la sconfitta.
Domenico, tenendo una
mano alzata, sentenziò
con la sua aria di
padrone: “Io me ne
intendo più di tutti gli
scienziati, perché sono
tuo padre. Nessuno
meglio di me sa quello
che ci vuole per te”.
La metafora del titolo
Duplice è il significato
del titolo: in chiave
naturalistica, gli “Occhi
chiusi” alludono
all’incapacità, da parte di
Pietro, di vedere le cose
attraverso quella
ingenuità che ne fa una
vittima dei raggiri di
Ghisola. Questa, però, è
un’interpretazione del
tutto superficiale. In
realtà il titolo del
romanzo è da collegarsi
con quel rifiuto e con
quella paura di vedere
che non caratterizzano
solo il protagonista, ma
anche gli altri personaggi
del complesso mondo
– 286 –
sezioni:
1) “Apro il libro a caso;
ma, piuttosto, verso la
fine. [...] Finalmente,
assicuratomi che non
sono in uno stato
d’animo suscettibile a
lasciarsi ingannare, mi
decido a leggermi un
periodo: dalla maiuscola
fino al punto. Da come è
fatto questo periodo,
giudico se ne debbo
leggere un altro”.
L’autore inizialmente si
paragona ad un mercante
quando vuole rendersi
conto bene di quello che
sta per comprare per non
essere ingannato. Tozzi
sulla base della lettura di
un periodo a caso, se
questo rispetta i suoi
canoni di scrittura, si
convince a leggere il
libro, ma in modo
disomogeneo, dal
momento che intende
soffermarsi
principalmente sui
particolari, le descrizioni
e i dialoghi, “sentire,
cioè, come lo scrittore è
riuscito a creare”.
2) “Gli effetti sicuri sono
l’opposto della forza
lirica. Gli svolazzi, gli
scorci, le svoltate, le
disinvolture, i
pavoneggiamenti, le
alzate della trama non
contano niente. Anzi
tanto più lo scrittore si è
compiaciuto degli effetti
cinematografici che
potevano ritrarsi dagli
elementi della trama [...]
e tanto più egli avrà
dovuto trascurare la
profondità”. Tozzi ritiene
inutili gli artifizi letterari
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tozziano. L’autore stesso
non può vedere, se non
chiudendo gli occhi,
perché la vera realtà è
per lui quella dell’anima:
una realtà visionaria,
“malata”, affollata di
incubi, allucinazioni,
sogni. È possibile
riscontrare in
quest’ultimo aspetto un
riferimento alla cecità
che lo ha perseguitato
quasi per tutta la vita.
e rifiuta trame
sbalorditive, ma allo
stesso tempo banali,
ritenendo interessante
anche un qualsiasi
“misterioso atto nostro”,
come un uomo che
raccoglie un sasso che
vede e poi prosegue la
sua passeggiata. Nella
sua visione, la tematica
centrale consiste nel
‘come’ è vista l’umanità
e la natura, il resto è di
poca rilevanza.
3) “Io odio i libri scritti
male, non solo perché
sono inutili; ma perché
guastano il gusto dei
lettori non preparati
abbastanza. Essi, inoltre,
mi irritano da pigliare a
pugni chi li ha scritti.
[...] Come si vede, io
sono un pessimo lettore;
e, quel che è peggio, me
ne vanto”.
Dopo aver ribadito il suo
rifiuto per le trame di
qualsiasi romanzo, (“Io
dichiaro d’ignorare le
trame di qualsiasi
romanzo; perché, a
conoscerle, avrei perso
tempo e basta. La mia
soddisfazione è di poter
trovare qualche pezzo
dove sul serio lo
scrittore sia riuscito ad
indicarmi una qualunque
parvenza della nostra
fuggitiva realtà”), egli
critica la letteratura a lui
contemporanea, ma
soprattutto i pessimi
lettori che sono attratti
da intrecci banali.
N.B.: I “grandi assenti” di questo percorso (Verga, Kafka, Pirandello, Svevo...) sono oggetto di un’analisi
più approfondita, essendo le loro opere parte essenziale della programmazione di italiano.
– 287 –
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STEFANO DE STEFANO
Il Liceo Orazio alla XIX edizione
delle Olimpiadi di Filosofia
Nel 2011 il nostro Liceo ha partecipato alla XIX edizione delle
“Olimpiadi di Filosofia”, organizzate dalla Società Filosofica Italiana
(SFI) d’intesa con il Ministero dell’Istruzione. La manifestazione è
riservata agli studenti e alle studentesse frequentanti i due ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado. La prova consiste nella
redazione di un saggio di argomento filosofico.
Quest’anno gli studenti sono stati chiamati a presentare le loro
posizioni in relazione al seguente orizzonte tematico: Power and
Powerlessness of Philosophy.
Il tema dell’efficacia o meno del sapere filosofico, in un’epoca
nella quale la tecnica sembra prevalere in tutti gli ambiti delle relazioni umane, ci costringe a guardare ai nostri tempi con l’occhio vigile e indagatore, attento alle trasformazioni e pronto a cogliere la genesi dei fenomeni sociali e culturali, anche quando questi ci vengono
presentati come risultati naturali di un’evoluzione spontanea della
società. I giovani che si cimentano sui banchi di scuola con gli studi
filosofici, hanno questa opportunità: osservare il mondo come sistema
ma anche come prodotto storico e ciò al fine di acquisire la forma
mentale del pensare criticamente, contro ogni tentativo di “ipnosi”
intellettuale.
Nella nostra scuola, una commissione composta dai proff. Arcuri,
De Stefano e Palesati, d’intesa con tutto il Dipartimento di filosofia
dell’Orazio, ha provveduto ad organizzare la prova scritta per la selezione regionale, quindi alla correzione degli elaborati e all’individuazione dei candidati dell’Orazio che avrebbero partecipato alla selezione regionale per accedere alla gara nazionale.
Nel nostro Istituto la prova si è tenuta il 10 marzo 2011, dalle
12,30 alle 14,30. Sono state proposte ai candidati due tracce (riportate
più avanti); i due elaborati selezionati sono stati, nell’ordine: il saggio
di Beatrice Ardigò della 2a liceo classico L e il saggio di Lorenzo
Caprini della 3a liceo classico M.
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All’Università di RomaTre si è svolta la gara regionale per accedere alla fase nazionale. In rappresentanza dell’Orazio erano presenti
i due studenti indicati. Ardigò ha partecipato al canale internazionale
ed è arrivata terza su dieci concorrenti di altrettanti istituti superiori
del Lazio; Caprini ha partecipato al canale nazionale ed è arrivato
sesto su undici concorrenti.
Beatrice Ardigò, classe 2L - indirizzo classico, a.s. 2010/2011
Traccia scelta:
Nel VII libro della Repubblica, dopo aver delineato la visione
della realtà intellegibile, Platone così caratterizza il ritorno del filosofo nella “caverna”: “E se di nuovo dovesse tornare a conoscere
quelle ombre[...] non farebbe forse ridere e non si direbbe di lui che
[...] è disceso con gli occhi guasti, e che dunque non mette conto di
salire su? E chi tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero?”
Svolgimento.
Filosofia, amore per il sapere. Quali potranno mai essere i frutti
di un tale sentimento? Passione, esaltazione ma anche uno smisurato
dolore. Amore per il sapere significa accettare la ricerca di una verità
che si cela continuamente ai nostri occhi e che, anche nel caso in cui
venga rivelata parzialmente, non allevia le nostre sofferenze. La realtà
guardata senza veli, senza pregiudizi, senza idoli (come avrebbe detto
Bacone), ci colpisce e ci ferisce, in quanto la nostra ignoranza è uno
strumento di protezione, che con le sue dolci tenebre ci impedisce di
rimanere abbagliati dalla luce, come nel mito della caverna di Platone.
“Beata ignoranza”, recita la saggezza popolare. Montaigne rimaneva
stupito di come la vita inconsapevole degli animali potesse essere beata, naturale, perfetta. Ma chi di noi si abbandonerebbe ciecamente alla
vita, senza porre domande, senza ribellarsi, lasciandosi semplicemente
esistere? “Nihil humani alienum a me puto” scriveva Terenzio. Vivere
da uomo significa accettare tutto ciò che la natura umana comporta,
anche ciò che ci distrugge. Il vero uomo si lascia abbagliare, colpire,
ferire, distruggere dalla luce, perché odia le tenebre che, se anche
lo proteggono, rendono insicuro e incerto il suo passo, costringendolo
ad abbandonarsi al fato. Ecco un’altra caratteristica dell’essere umano:
la volontà di sottrarsi al disordine, al caos degli eventi, ordinandoli
matematicamente e rivendicando così la propria libertà da essi.
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Un uomo che rifiuta il sapere è umano solo nell’aspetto ed è
più miserabile del più infelice dei sapienti. Egli vivrà senza sapere di
vivere, sarà felice, ma si renderà conto della propria felicità solo
dopo averla persa, sarà triste senza conoscere la causa della propria
infelicità. Chi di noi dirà il cieco più fortunato di chi vede, per quanto
orribile possa essere la visione della realtà?
Chi cerca la verità non rifiuta il dolore, ma si immerge in esso, si
lancia nel mare in tempesta senza saper nuotare, si getta nel vuoto per
vedere ciò che accade durante la caduta. Vivere ogni giorno da filosofo significa compiere ogni giorno un atto di coraggio, perché il potere della filosofia non è quello di comandare le masse o liberarsi dal
dolore, ma di spezzare le catene della morale comune, dei pregiudizi,
dell’ignoranza.
Gli uomini sono nati per essere liberi, perciò, per quanto quello
che vedremo e sentiremo, una volta che i nostri occhi si saranno aperti e le nostre menti liberate, sarà lo sfacelo di una società che va in
cenere e le grida della verità e della giustizia soffocate dai luoghi
comuni scanditi dalla bocca di una massa, umana solo nell’aspetto,
comunque una vita libera, anche se dolorosa, è più degna di essere
vissuta di una vita in catene.
Lorenzo Caprini, classe 3M - indirizzo classico, a.s. 2010/2011
Traccia scelta:
Sapere è potere (Francis Bacon) vs sapere è dolore (Arthur
Schopenhauer). Nell’agone filosofico è questo uno scontro che
potrebbe costituire la ragione stessa dell’esistenza della filosofia,
giacché tutte e due le alternative presuppongono una filosofia.
Svolgimento.
Nel corso dei secoli, riguardo alla funzione e al campo d’indagine della filosofia, sono state formulate le tesi più disparate, spesso
anche diametralmente opposte: chi ha esposto il proprio programma
fondato sulla matematica, in un’ottica nella quale la conoscenza
viene considerata il motore della filosofia, chi invece ha preferito
utilizzare tale attività per la spiegazione dei fenomeni naturali oppure per la causa prima. Ad ogni modo è evidente come l’“oggetto”
filosofico, con il susseguirsi delle diverse epoche storiche, sia stato
soggetto a numerosi cambiamenti. Ma dunque cos’è la filosofia?
Senza dubbio si tratta di un’attività umana, perché in effetti il ter– 290 –
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mine venne coniato in Grecia, e, dal momento che tale termine indica un’attività astratta che si nutre di riflessioni e di speculazioni,
per capire il significato di questa è opportuno analizzare i diversi
“oggetti” filosofici delle diverse epoche storiche. Come si è detto,
essi, nella loro totalità, non presentano alcun carattere in comune, se
non la tendenza alla ricerca della “comprensione”, al “capire”; dunque l’ottica nella quale si sviluppa ciascuna riflessione è quella del
“conoscere”. In verità l’oggetto della filosofia non è altro se non il
sapere.
Per Francis Bacon “sapere è potere”. Ed è proprio di questo che
si tratta quando ci si riferisce ai limiti della filosofia, dal momento
che “i suoi confini coincidono con quelli della conoscenza”. Tuttavia
tale affermazione non è da fraintendere: con tale termine non ci si riferisce unicamente alla conoscenza scientifica, la quale, dati degli assiomi di riferimento, sviluppa delle conclusioni con un grado di certezza massima, ma anche ad una conoscenza fondata sulla base di altri metodi, come quello analogico, sviluppato sul confronto e sull’analogia, i quali metodi, anche non sviluppando un sapere certo, costituiscono ugualmente una forma di conoscenza probabile o possibile.
Dunque perché spesso si arriva risultati diametralmente opposti per
quanto riguarda le conclusioni filosofiche? Ciò avviene perché un sistema filosofico è migliore di un altro? Ovviamente no. A cambiare
sono semplicemente gli assiomi, ossia le certezze, e il metodo utilizzato che vengono assunti in un determinato contesto. Cambiando gli
assiomi risultano cambiare anche i risultati filosofici. Ma per quale
motivo alcuni vengono preferiti ad altri? In virtù di che cosa? Il criterio di scelta non è assoluto, ma semplicemente costituisce il risultato
di un diverso contesto storico; ciascuna epoca infatti ha le sue necessità, o comunque ha raggiunto un grado di conoscenza scientifica diversa dalle altre.
L’unico fattore unificante, come si è già detto, è costituito dalla
tendenza alla “comprensione”, a pervenire ad una forma di conoscenza superiore, che non necessariamente deve presentare una qualche
utilità pratica per l’uomo; questa finalità può essere presente come
può non esserlo.
Infine il concetto di filosofia non deve essere considerato un
“prius”, poiché è semplicemente il termine con il quale vengono designati i diversi “oggetti filosofici”, e dunque deve essere elaborato
sulla base di questi ultimi.
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Tuttavia se i limiti della filosofia sembrano coincidere con quelli
della conoscenza possibile, viene da chiedersi quali siano i confini
della conoscenza stessa. Infiniti? Finiti? Non possiamo saperlo con
certezza. Ma è essenziale osservare che, per il momento, lo sviluppo
sembra inarrestabile, secondo la celebra formula “veritas filia temporis”, che esprime la progressione del sapere. In realtà, però, ad oggi si
può osservare un vero e proprio rallentamento nel progresso: infatti
con l’allungarsi della strada del progresso, sembra sempre più difficile
produrre innovazioni, perché l’eccessiva specializzazione necessita di
tempi sempre maggiori prima di poter realizzare nuove acquisizioni.
Per questo motivo si tenderebbe quasi ad arrivare ad un arresto del
progresso, poiché non è scontato che le facoltà conoscitive umane
riescano a spingersi infinitamente lontano, secondo quanto potrebbe
essere possibile.
Il fatto poi che il conoscere possa costituire un dolore per l’umanità, mi sembra un concetto estremamente relativo all’ambito soggettivo. La prima forma di conoscenza, infatti, può essere considerata
l’autocoscienza, in quanto autoconsapevolezza di sé, e dunque, se
questa venisse meno, sarebbe impossibile anche il solo rendersi conto delle emozioni, tra le quali è da inserire il dolore.
Inoltre la tendenza alla “comprensione”, volta ad ampliare l’edificio della comprensione, da cui si sviluppa la filosofia, può essere spiegata antropologicamente ed è in strettissima connessione con la curiosità che, collegata al “caso”, consente all’uomo un proprio miglioramento, che è essenziale alla specie affinché essa possa conservarsi, dal
momento che costituisce l’unica arma che ha permesso all’uomo di
sopravvivere nella selezione naturale, di darwiniana memoria.
Pertanto, in conclusione, la filosofia è quella attività umana che
enuncia e argomenta le proprie tesi al fine di ampliare l’edificio del sapere umano oltre le possibilità della scienza di un determinato contesto storico. In quest’ottica, una filosofia funzionale è sicuramente quella che si propone di incoraggiare la ricerca scientifica, o quella che
analizza i sistemi assiomatici fondamentali (dunque i vari metodi e i
linguaggi), oppure quella che si propone di collegare i vari e molteplici risultati raggiunti dalle scienze. Ma nessuna di queste può essere
considerata sostitutiva di un’altra ma semplicemente più funzionale.
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MAURIZIO CASTELLAN
Miscellanea di matematica
INTRODUZIONE
Come già accaduto per il passato anno scolastico, questa sezione raccoglie i lavori frutto di un esperimento di didattica volto a
rendere gli allievi “più protagonisti” nel processo di apprendimento
della matematica. Questo avviene attraverso la proposta di percorsi
di ricerca nei quali gli allievi, tutorati da un docente, cercano risultati originali e li raccolgono in un articolo scientifico. Si percorrono
così le diverse fasi del “lavoro” del matematico che partendo da congetture si dipana nella ricerca di giustificazioni rigorose mediante
il metodo dimostrativo.
Dall’anno scolastico 2009-2010 tale attività avviene nell’ambito
del progetto lauree scientifiche in collaborazione con l’Università
di Tor Vergata (responsabile del progetto il prof. Franco Ghione,
ordinario di Geometria del corso di laurea di Matematica e direttore
del Centro interdipartimentale di ricerca e formazione permanente
per l’insegnamento delle discipline scientifiche, direzione scientifica
a cura del prof. Paolo Francini).
Gli articoli che seguono sono stati presentati nella conferenza
di fine progetto (giugno 2011) e pubblicati integralmente sul sito
http://crf.uniroma2.it; qui per ragioni di spazio vengono pubblicati
in forma parziale.
Maurizio Castellan
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COEFFICIENTI TRINOMALI
Simone Castellan (4C) - Federico Morodei (4C) - Martino Wong (4C)
A.S. 2010-2011
ABSTRACT
In questo articolo vengono studiate alcune proprietà combinatoriche che nascono dallo sviluppo della potenza ennesima di un trinomio.
1. Introduzione
Abbiamo deciso di occuparci dello sviluppo della potenza ennesima di un trinomio, cercando di trovare una regola generale, similmente allo sviluppo della potenza ennesima di un binomio.
2. Prerequisiti
Per risolvere il problema abbiamo bisogno di alcuni prerequisiti.
2.1 Fattoriale
Definizione
Dato un numero naturale n si dice fattoriale di n e si indica con
n! il numero:
n! = n⋅ (n−1) ⋅ (n−2) ⋅ … 3 ⋅ 2 ⋅ 1 se n > 0 , mentre si pone 0! = 1
Esempio: 4! = 4 ⋅ 3 ⋅ 2 ⋅ 1 = 24
3. Coefficienti binomiali
Dati due numeri naturali n, k con n ≥ k, definiamo coefficiente
binomiale la scrittura
n!
⎧n⎫= –––––––––––––
⎩k⎭ k!(n−k)!
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Esempio:
5!
120
⎧5⎫= –––––––––––––
––––––
⎩3⎭ 3!(5−3)!= 12 = 10
Il coefficiente binomiale ha le seguenti proprietà:
⎧n⎫ ⎧n⎫
⎩0⎭=⎩n⎭= 1
⎧n+1⎫=⎧ n ⎫+⎧n⎫
⎩k+1⎭ ⎩k+1⎭ ⎩k⎭
proprietà che permette di costruire i coefficienti binomiali con il
Triangolo di Tartaglia
1
1
1
1
1
6
3
1
3
1
4
6 4 1
+
5 10 10 5 1
→
1
2
→
1
1
15 20 15
6
1
. . . . . . . . . . . . . . . . .
TRIANGOLO DI TARTAGLIA
I coefficienti binomiali devono il loro nome all’importante risultato che segue.
4. Sviluppo della potenza ennesima di un binomio
(Teorema binomiale di Newton)
Se a, b rappresentano due monomi allora per ogni n∈N
n
(a+b) =
n
∑⎧⎩nk⎫⎭a
b
n–k k
k=0
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5. Coefficienti trinomiali
Sulla scorta dei coefficienti binomiali studiamo ora delle scritture
che saranno determinanti nello sviluppo delle potenze di un trinomio
così come i coefficienti binomiali lo sono per lo sviluppo delle potenze dei binomi.
Definizione
Dati tre numeri naturali n, k e h, con n ≥ h+k, definiamo coefficiente trinomiale la scrittura
n!
⎧ n ⎫= –––––––––––––––––––––
⎩h,k⎭ h!k!(n−h−k)!
Esempio:
7!
7⋅6⋅5⋅4
⎧ 7 ⎫= –––––––––––––––––––––––––
––––––––––––––
⎩2,3⎭ 2! ⋅ 3! ⋅ (7−2−3)! = 2 ⋅ 2 = 210
Valgono le seguenti proprietà
⎧ n ⎫= 1 ⎧ n ⎫= 1 ⎧ n ⎫= 1 ⎧ n ⎫=⎧n−1⎫+⎧ n−1 ⎫+⎧ n−1 ⎫
⎩0,n⎭
⎩n,0⎭
⎩h,k⎭ ⎩ h,k ⎭ ⎩ h−1,k ⎭ ⎩ h,k −1⎭
⎩0,0⎭
6. Tetraedro di Tartaglia
Così come dalle proprietà dei coefficienti binomiali si può costruire il triangolo di Tartaglia, dalla proprietà dei coefficienti trinomiali si ottiene una figura tridimensionale che chiameremo tetraedro
di Tartaglia.
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in cui ogni numero si ottiene come somma dei tre che si trovano ai
vertici di un triangolo immediatamente al di sopra del numero stesso.
7. Sviluppo della potenza ennesima di un trinomio
(teorema trinomiale)
Si può ora dimostrare la formula dello sviluppo della potenza
ennesima di un trinomio.
Teorema
n
n−k
∑∑⎩⎧h,kn ⎫⎭a
(a+b+c) =
n
bc
n−h−k k h
h=0 k=0
La dimostrazione (omessa per ragioni di spazio) utilizza il metodo
di induzione. In essa giocano un ruolo chiave le proprietà dei coefficienti trinomiali.
8. Conclusione
Nel passare dallo sviluppo della potenza ennesima di un trinomio
a quello di un quadrinomio, bisognerebbe utilizzare dei “coefficienti
tetranomiali”, che dovrebbero avere questa forma:
n!
⎧ n ⎫= –––––––––––––––––––––––––––––––
⎩h,k,l⎭ h! ⋅ k! ⋅ l!(n−h−k−l)!
con n ≥ h+k+l
Nel rappresentarli graficamente in modo simile ai coefficienti
binomiali e trinomiali si otterrebbe una figura quadridimensionale, un
ipertetraedro di Tartaglia.
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LA MATEMATICA DELLE CORSE DEI CAVALLI
Ivan Colavita (4H) - Emanuele Di Caro (4M) - Chiara Cerocchi (4M)
Elisabetta Avizzano (4M) - Alexandru Viorel Pupaza (4H)
A.S. 2010-2011
1. Introduzione
DEI
SEMIFINALI ITALIANE
CAMPIONATI INTERNAZIONALI DI GIOCHI MATEMATICI
15 MARZO 2008
Quando in una gara ci sono due cavalli, ci sono solo tre piazzamenti possibili: due in cui non c’è parità e uno in cui i due cavalli
arrivano a pari merito. Quando la gara è fra tre cavalli, ci sono tredici
piazzamenti possibili : sei in cui non c’è alcuna parità, sei in cui due
cavalli sono a pari merito (essendo il terzo davanti o dietro a loro)
e uno in cui i tre cavalli sono tutti a pari merito. Quando corrono
cinque cavalli, quanti piazzamenti possibili ci sono?
2. Prerequisiti
2.1 Insiemi ordinati
Definizione
Un insieme S si dice ordinato quando si è associato ad ogni elemento un numero naturale:1(al primo),2(al secondo),3(al terzo),... ecc.
2.2 Calcolo degli ordinamenti di un insieme finito
Ogni insieme S può essere ordinato in modi diversi.
Se S ha n elementi, il numero di ordinamenti diversi di S vale: n!
Infatti:
il primo numero può essere scelto in n modi diversi,
il secondo in (n-1) modi diversi,
il terzo in (n-2) modi diversi,
l’ultimo in n-(n-1) modi diversi, cioè in un solo modo,
ottenendo quindi : n(n-1)(n-2)…3 . 2 . 1 = n!
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2.3 Partizione additiva (ordinata) di un numero naturale
Definizione
Dato un numero naturale n si dice partizione additiva ordinata
in m parti, con m > 0, ogni m-pla ordinata (λ1 , λ2 , λ3 , λ4 , ..., λm) di
numeri naturali positivi tale che:
n = λ1+λ2+λ3+λ4+...+λm
Esempio 2: (una partizione di 5 in 3 parti): 5 = 1+2+2
Per determinare tutte le partizioni si possono utilizzare degli schemi
ad albero:
Esempio 3: (tutte le partizioni di 5 in 3 parti)
3. Determinazione delle partizioni ordinate di 5 in 1, 2, 3, 4, 5 parti
•
•
•
•
•
partizioni in 1 parte:
partizioni in 2 parti:
partizioni in 3 parti:
(3;1;1)
partizioni in 4 parti:
partizioni in 5 parti:
(5)
(1;4), (2;3), (3;2), (4;1)
(1;1;3), (1;2;2), (1;3;1), (2;1;2), (2;2;1),
(1;1;1;2), (1;1;2;1), (1;2;1;1), (2;1;1;1)
(1;1;1;1;1)
4. Dalle partizioni ordinate ai piazzamenti
Vediamo ora come le partizioni ordinate ci aiutino a contare i
piazzamenti.
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Illustriamo l’idea con alcuni esempi:
Consideriamo 5 cavalli a,b,c,d,e: scelta la partizione ordinata di
5 (1;1;3) e scelto un ordinamento dei cavalli si ha:
a
b
c
d
e
Se si sceglie un altro ordinamento dei cavalli mediante la stessa
partizione ordinata di 5 (1;1;3) si ottiene un altro piazzamento:
b
a
c
d
e
Possiamo continuare così cambiando ogni volta l’ordinamento
dei 5 cavalli e questo può avvenire in 5! = 5 . 4 . 3 . 2 . 1 = 120 modi
diversi.
5. Correzione del calcolo
Osserviamo che considerare per ogni partizione ordinata tutti gli
ordinamenti non risolve ancora il problema.
Infatti: ci sono ordinamenti diversi dei cavalli che generano lo
stesso piazzamento.
Esempio:
a
a
b
b
c
d
d
c
e
e
E quindi se si considerano tutti gli ordinamenti dei 5 cavalli
associati ad alcune partizioni otteniamo più volte alcuni piazzamenti.
Ma quante volte accade?
Per ogni piazzamento associato alla partizione (1;1;3) ritroviamo più volte quelli che si ottengono scambiando tra di loro i tre cavalli che arrivano insieme al terzo posto, e questo avviene un numero
di volte uguale a 3! = 3 . 2 . 1 = 6
Dunque i piazzamenti associati alla partizione (1;1;3) non sono 5!
bensì:
5!
3!
cioè 20.
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6. Conclusione
•
•
•
•
•
Ripetendo il ragionamento per tutte le partizioni si ha:
partizioni in 1 parte: (5) ⇒ 1
partizioni in 2 parti: (1;4) ⇒ 5, (2;3) ⇒ 10, (3;2) ⇒ 10, (4;1) ⇒ 5
partizioni in 3 parti: (1;1;3) ⇒ 20, (1;2;2) ⇒ 30, (1;3;1) ⇒ 20,
(2;1;2) ⇒ 30, (2;2;1) ⇒ 30, (3;1;1) ⇒ 20
partizioni in 4 parti: (1;1;1;2) ⇒ 60, (1;1;2;1) ⇒ 60, (1;2;1;1) ⇒
60, (2;1;1;1) ⇒ 60
partizioni in 5 parti: (1;1;1;1;1) ⇒ 120
Si avranno quindi in totale 541 piazzamenti
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PROBLEMI SULLE TORRI DI HANOI
Margherita Moretti (1D) - Caterina Costanzo (1D) - Sara Mancini (1D)
Simone Moretti (1H) - Gabriele Argirò (1H)
A.S. 2010-2011
ABSTRACT
Nel presente articolo si studiano alcune varianti del gioco classico della torre di Hanoi legate a vincoli nel movimento dei pezzi del
gioco e alle colorazioni. In questo ultimo caso si ottiene un algoritmo
risolutivo per il gioco classico equivalente a quello noto che permette di evitare il meccanismo ricorsivo.
1. Introduzione: la torre di Hanoi
Il gioco della “Torre di Hanoi” [1], nella sua variante classica, si
presenta costituito da tre aste (o pioli), in una delle quali sono infilati
alcuni dischi di misura diversa, disposti in ordine di grandezza, partendo dal basso, dal più grande al più piccolo.
LA TORRE DI HANOI CON OTTO DISCHI
Le regole del gioco sono due e molto semplici: si può spostare
solo il disco situato sulla sommità di una torre, e un disco più grande
non può essere posato sopra un disco più piccolo.
Lo scopo è quello di spostare tutti i dischi su un’altra asta in
modo che risultino ancora disposti nello stesso ordine.
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2. La soluzione del gioco (variante classica)
Illustriamo ora la soluzione nota che presenta alla base un meccanismo “ricorsivo”, cioè per spostare n dischi si usa il procedimento
per spostare n-1 dischi.
Ora siccome è banale spostare una torre di un solo disco, si userà
tale procedimento per spostare una torre di 2 dischi, e con tale procedimento si potrà spostare una torre di 3 dischi e così via per ogni torre
di altezza arbitraria
Chiameremo tale procedimento “soluzione ricorsiva”.
CONFIGURAZIONE INIZIALE E FINALE
DELLA TORRE DI HANOI CON TRE DISCHI
2.1 Teorema (Soluzione ricorsiva)
Per ogni n ≥ 1 (numero di dischi nella torre di partenza), c’è una
sequenza di 2n–1 mosse che permette di spostare l’intera torre in uno
dei pioli liberi.
La dimostrazione è un ottimo esempio di uso del principio di induzione.
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2.2 Teorema (Ottimalità della soluzione ricorsiva)
Ogni soluzione della torre di Hanoi con n dischi ha un numero di
mosse m con m ≥ 2n−1
3. Spostamenti a “ passo uno”
Prendendo spunto da un quesito di una gara di matematica, si è
voluta analizzare una variante del gioco classico; ecco il testo del problema:
SEMIFINALE ITALIANA
DEI CAMPIONATI INTERNAZIONALI DI GIOCHI MATEMATICI
19 MARZO 2011
Il problema porta a considerare una variante del gioco nel quale
oltre agli altri vincoli è permesso spostare dischi solo da un piolo ad
uno adiacente.
3.1 Teorema (Soluzione ricorsiva per l’arrocco corto)
Per ogni n ≥ 1, la torre di Hanoi di n dischi posta in un piolo
(A o B) può essere spostata in un piolo adiacente (B o C) con una
3n−1
sequenza di –––– mosse.
2
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3.2 Teorema (Soluzione ricorsiva per l’arrocco lungo)
Per ogni n ≥ 1, la torre di Hanoi di n dischi posta in un piolo laterale (A) può essere spostata sul piolo più lontano (C) con una sequenza di 3n−1 mosse.
Anche per la variante “passo uno” valgono dei teoremi di ottimalità.
3.3 Teorema (Ottimalità della soluzione ricorsiva per l’arrocco
corto e per l’arrocco lungo)
•
•
Ogni soluzione per l’arrocco corto con n dischi ha un numero di
3n−1
mosse m con m ≥ ––––
2
Ogni soluzione per l’arrocco lungo con n dischi ha un numero di
mosse m con m ≥ 3n−1
4. La torre di Hanoi bicolore
Abbiamo infine considerato un’ultima variante che conduce a
colorare i dischi con due colori in maniera alternata:
Chiameremo tali torri: “torri di Hanoi bicolori”.
Si introduce a questo punto l’ulteriore vincolo che nello spostamento dei dischi: non si può poggiare un disco su un altro dello stesso colore ovvero (regola della torre di Hanoi bicolori):
tutte le torri che si creano devono essere torri di Hanoi bicolori.
E dallo studio del gioco abbiamo scoperto che tale vincolo non
ostacola l’applicazione della soluzione “ricorsiva” della variante
classica.
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4.1 Teorema di compatibilità per torri bicolori
Applicando la “soluzione ricorsiva” ad una torre di Hanoi bicolore, si verificano i seguenti fatti:
•
•
•
tutte le torri che si vengono a trovare sul piolo iniziale e su quello
finale hanno alla base dischi dello stesso colore;
tutte le torri che si vengono a trovare sull’altro piolo hanno alla
base dischi del colore opposto;
tutte le torri che si creano sono torri di Hanoi bicolori.
Esempio: in figura è illustrata una fase dello spostamento di una torre
bicolore di 5 dischi posta inizialmente in A con l’obiettivo di essere
ricostruita sul piolo B.
Ebbene per tutte le restanti mosse:
•
•
•
•
poggeranno sulla base del piolo A solo dischi bianchi;
poggeranno sulla base del piolo B solo dischi bianchi;
poggeranno sulla base del piolo C solo dischi neri;
tutte le torri che si creeranno nel corso del gioco saranno “torri
di Hanoi bicolori”.
4.2 Torre di Hanoi bicolore con basi colorate
Per quanto stabilito nel teorema 4.1 il colore dei dischi base sono
una costante.
Se ora si dipingono le basi dei pioli con colori “opposti” a quelli
dei dischi base, durante la sequenza di mosse si conserverà un’alternanza anche tra dischi e basi dei pioli.
Chiameremo tale gioco: torre di Hanoi bicolore “con basi colorate”. (Osserviamo che i pioli iniziale e finale devono essere colorati
del colore opposto al disco base della torre iniziale, l’altro, invece,
dovrà avere lo stesso colore).
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4.3 Riformulazione della soluzione ricorsiva
Vediamo ora come, attraverso le colorazioni delle torri di Hanoi,
sia possibile ricostruire la soluzione ricorsiva mediante una sequenza
di “mosse obbligate”.
4.4 Teorema
Data una torre di Hanoi bicolore con basi colorate, in ogni mossa
della soluzione ricorsiva: esistono un unico disco che si può spostare
(se si esclude l’ultimo mosso) e un’unica posizione nella quale può
essere spostato, che rispettino i vincoli della dimensione dei dischi e
dell’alternanza dei colori (dei dischi e delle basi dei pioli)
Osserviamo che nella soluzione ricorsiva un disco appena mosso,
non verrà spostato nella mossa successiva (altrimenti si perderebbe la
proprietà di minimalità), ne consegue che la scelta del disco da muovere (e la sua posizione finale) cadrà sull’altro disco univocamente
individuato dai vincoli di dimensione e colore.
4.5 Soluzione della torre di Hanoi mediante colorazione
Si può dunque risolvere una torre di Hanoi con l’aiuto dei colori,
nel seguente modo:
1) Si colorano di bianco e di nero alternativamente i dischi della
torre e la base del piolo di partenza;
2) Si colora la base del piolo di arrivo dello stesso colore della base
del piolo di partenza;
3) Si colora la base del piolo restante del colore opposto di quello
della base del piolo di partenza (e di arrivo);
4) Si esegue la sequenza di mosse obbligate dai vincoli di dimensione
e di colorazione, senza mai muovere un disco appena mosso;
5) Si eliminano i colori.
Esempio: spostamento di una torre di Hanoi di 3 dischi dal piolo A al
piolo B
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5. Conclusione
Abbiamo così visto come nella torre di Hanoi nella sua variante
classica e nelle altre introdotte in questo lavoro, giochi un ruolo
chiave “la ricorsività”, cioè la realizzazione dello spostamento di una
torre si ottiene spostando tutte le sue sottotorri iniziando da quella di
un solo disco.
Con i teoremi di ottimalità abbiamo mostrato che le soluzioni
ricorsive non sono solo eleganti ma anche le più efficienti.
La struttura ricorsiva delle procedure ci ha permesso di trovare
dimostrazioni che fanno un uso costante del principio di induzione.
L’esecuzione della strategia ricorsiva ha lo svantaggio che ogni
mossa è scelta sulla base dell’intera successione di mosse precedenti
e non dall’ultima; mediante colorazioni alternate abbiamo visto come
la stessa strategia ricorsiva può essere sviluppata a partire dalla mossa precedente, scegliendo “l’unica” mossa compatibile con (gli accresciuti) vincoli introdotti mediante il colore dei dischi: aumentando
le informazioni è risultato più facile operare un controllo sull’esecuzione della sequenza di mosse con la possibilità di “guidarla”.
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ILLUSIONI GEOMETRICHE E NUMERI DI FIBONACCI
Guglielmo Sacco (2C) - Enrico Izzo (2C)
A.S. 2010-2011
1. Prerequisiti
Iniziamo introducendo i numeri di Fibonacci e le loro proprietà.
1.1 I numeri di Fibonacci
La successione di Fibonacci è una successione di numeri interi
naturali definibile assegnando i valori dei due primi termini, F0 : = 1 ed
F1 : = 1, in modo tale che per ogni successivo sia Fn : = Fn−1+Fn−2 con
n>2
1; 1; 2; 3; 5; 8; 13; 21; 34 … ecc.
Di particolare utilità per la dimostrazione è la proprietà secondo
la quale: il limite che tende ad infinito del rapporto tra un numero tra
il suo precedente è uguale al numero irrazionale
1+√⎯5 = 1,618.. (numero aureo)
ϕ = ––––––––––––
2
Fn−1
lim ––––––
=ϕ
n→∞ Fn
2. Identità di Cassini
Per ogni n ≥ 1 si ha: Fn+1 · Fn−1−Fn2 = (−1)n+1
3. L’illusione dei quadrati
3.1 Costruzione
Il punto di partenza della costruzione è quello di tracciare i punti
della serie di Fibonacci su di una semiretta, ottenendo il seguente
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risultato:
Continuando, si costruiscono quadrati aventi come dimensioni i
numeri di Fibonacci corrispondenti:
Tracciando gli assi cartesiani e colorando diversamente ogni quadrato, si tracci una linea che passi per il vertice in alto a destra di ogni
quadrato escludendo il primo.
Ad una prima osservazione sembrerebbe una retta, ovvero che
esista una retta che passi per il vertice in alto a destra di ogni quadrato ad eccezione del primo. Tuttavia non è così: la retta che abbiamo
tracciato non appartiene a tutti i vertici in alto a destra dei quadrati,
come poteva sembrare ad una prima osservazione. Lo scarto con il
quale la retta non appartiene ai vertici non è casuale. E che questo
scarto si mantiene costante all’infinito per tutta la serie dei numeri di
Fibonacci, è possibile dimostrarlo nel modo che segue.
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3.2 Allineamento di tre vertici di tre quadrati consecutivi
Se applichiamo la formula del coefficiente angolare alla retta
passante per i vertici del secondo e del terzo dei quadrati costruiti,
cioè la retta passante per i punti A(2;1) e B(4;2) si ottiene
2−1 1
m = ––––– = ––
4−2 2
Se vogliamo ripetere il calcolo per il terzo e il quarto dei quadrati
costruiti, dobbiamo considerare i punti B(4;2) e C(7;3). Si ottiene in
questo caso:
3−2 1
m = ––––– = ––
7−4 3
Avendo le due rette coefficiente angolare diverso, i punti non
sono allineati, come poteva apparire inizialmente:
Questo ragionamento può essere generalizzato per una qualunque terna di vertici consecutivi.
Quindi si giunge alla conclusione che i punti non sono allineati, tuttavia estendendo questo ragionamento per n che tende
all’infinito, si noti come il coefficiente angolare della “illusoria”
retta si avvicini sempre più al valore:
1
–––
ϕ2
4. L’illusione dei triangoli rettangoli
4.1 Costruzione
Utilizzando ancora l’identità di Cassini Fn+1 · Fn−1−Fn2 = (−1)n+1 è
possibile con tre numeri di Fibonacci consecutivi costruire dei “falsi”
triangoli rettangoli che soddisfano il secondo teorema di Euclide a
meno di una unità. L’errore che si commette è sempre di ± 1.
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Se ad esempio si costruisce un triangolo di altezza 5 e proiezioni
dei lati sulla base pari a 3 e 8 assegnando all’altezza ed alle due basi
che si formano tre numeri consecutivi di Fibonacci (es: 3,5 e 8) si ottiene l’apparente triangolo rettangolo in figura:
L’illusione cresce con l’aumentare della grandezza dei numeri di
Fibonacci scelti.
5. Conclusione
Il presente lavoro ha messo in luce alcune curiose proprietà dei
numeri di Fibonacci che ben si prestano alla costruzione di figure
ingannevoli. Ne viene fuori da una parte la ricchezza delle proprietà
di questa importanti numeri, ma anche la necessità e la potenza della
matematica che con i suoi strumenti analitici riesce a svelare le illusioni prodotte da una erronea percezione della realtà.
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TAVOLA DI FAUST E STRATEGIE NON SIMMETRICHE
Rossella Palazzo (2C) - Chiara Eleuteri (3L P.N.I)
Angela Iula (3L P.N.I)
A.S. 2010-2011
1. La tavola di Faust
Il gioco della tavola di Faust è stato il punto di partenza di questo lavoro che stimolando la nostra mente ci ha indotti ad indagare e
ricercare oltre.
Esso consiste nel mettere a turno una moneta perfettamente
tonda su un tavolo circolare, fino a esaurire tutto lo spazio sul piano
in maniera tale che nessuna moneta si sovrapponga ad un’altra: perde
il giocatore che al suo turno non riesce a poggiare la sua moneta.
Esempio: ecco la posizione finale di una partita.
Ora il giocatore di turno, non avendo più spazio per la sua
moneta, perde (una moneta può anche sporgere ma il suo centro deve
cadere all’interno della tavola).
Mostreremo ora come il primo giocatore può sempre vincere
utilizzando una strategia basata su mosse simmetriche.
2. Strategia con mosse simmetriche
Il primo giocatore (A), pone la moneta (indicata con un cerchio
bianco) al centro della tavola, e poi ogni volta che il secondo giocatore
(B) posa una moneta (indicato
con un cerchio grigio) in uno
spazio libero, (A) pone la sua
nella posizione simmetrica rispetto al centro:
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In questo modo A avrà sempre lo spazio per posare la sua moneta
dopo che B ha messo la sua (se così non fosse vorrebbe dire che la
moneta di A è intralciata da qualche moneta già presente alla quale corrisponde in posizione simmetrica una moneta che impedirebbe a B di
posare la sua);così quando ad un certo punto non ci sarà più spazio sulla tavola sarà B a non poter posare la sua moneta, perdendo la partita.
3. Il gioco delle scacchiere lineari
Con l’obiettivo di studiare strategie “non simmetriche” abbiamo
introdotto una semplificazione del gioco: le scacchiere lineari.
La tavola è sostituita da una fila di caselle quadrate adiacenti e le
monete (aventi come diametro il lato di una casella) possono essere
poste solo con i centri coincidenti con i centri delle caselle o con i
punti medi dei lati che separano le caselle.
In esse abbiamo potuto constatare che la strategia vincente è
ancora quella a mosse simmetriche, tuttavia ci siamo chiesti se esistono altre strategie vincenti che partano da prime mosse non centrali. Per poter rispondere a questa domanda abbiamo abbiamo studiato
il grafo del gioco. Consideriamo ad esempio il caso con tre caselle
(con V si indicano le posizioni vincenti con P quelle perdenti):
Caso n = 3
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4. Congettura
Nel caso delle scacchiere lineari abbiamo verificato che:
n = 2 dopo la prima mossa c’è una sola posizione P
n = 3 dopo la prima mossa c’è una sola posizione P
n = 4 dopo la prima mossa ci sono più posizioni P
n = 5 dopo la prima mossa c’è una sola posizione P
Quindi siamo giunti alla formulazione della seguente congettura:
se n è dispari dopo la prima mossa c’è una sola posizione P
se n è pari dopo la prima mossa ci sono più posizioni P
5. Conclusioni
Al momento della stesura di questo articolo la nostra congettura
non è stata ancora dimostrata.
Sia nel gioco della tavola di Faust che in quello delle scacchiere
lineari, le posizioni finali che portano alla vittoria il primo giocatore
hanno un numero dispari, mentre quelle che portano alla vittoria il
secondo ne hanno un numero pari. La presenza di strategie alternative
a quella simmetrica sembra legata allo spazio di gioco e a come indirizzare la partita in modo da lasciare sempre lo spazio per un numero
pari di monete.
Si noti che la strategia a mosse simmetriche rispetta questo criterio.
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Tipolitografia Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide 11 - 00181 Roma
Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: [email protected]
Finito di stampare: Aprile 2012
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Quaderni del Liceo Orazio N 2