Salvatore Cosentino
il giallo
della
BENZINA
SOLIDA
ininfiammabile che
riduce i costi del 50%
Romanzo storico
Bonfirraro Editore
Attenzione! Si tratta di un giallo vero
da maneggiare con cura.
© 2007 by Bonfirraro Editore
Viale Ritrovato, 5 - 94012 Barrafranca - Enna
Tel. 0934.464646 - 0934.519716 - telefax 0934.400091
E-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6272-001-4
Questo libro comincia dalla fine dei fatti narrati, per quella
preponderanza logica che la realtà, certe volte, ha sulla fantasia. Infatti, non sempre si possono sgomitolare a piacimento le
furbizie narrative per dipanare matasse aggrovigliate, tradendo
i personaggi. E né imporre soluzioni artificiose a fatti che, di
per se stessi, hanno esplosioni drammatiche ed economiche
mai viste. Quindi un racconto a ruota libera, imprevedibile e
discontinuo sino alla fine.
La storia iniziò tanti anni fa e si ripropone ancora per le sue
vicissitudini, tutte le volte che se ne parla, specialmente a proposito della sempre attuale crisi petrolifera.
Il dattiloscritto era rimasto sepolto in una cassaforte, unitamente ai documenti probatori. In attesa di trovare un editore
coraggioso e spregiudicato, disposto a portare alla luce una
grande scoperta scientifica che potrebbe rivoluzionare l’economia petrolifera. Al di sopra di interessi egoistici e speculativi.
Si tratta dell’invenzione di un nuovo tipo di carburante, che
minaccia colossali interessi e della vita del suo inventore,
morto in miseria, dopo episodi romanzeschi e prospettive di
guadagni miliardari.
Anche a parlarne, misteriosi interessi internazionali intervengono subito, imponendo con ogni mezzo il silenzio.
Dunque una scoperta da soffocare.
Specialmente in Francia e in Germania, il discorso della
Benzina solida ininfiammabile viene chiuso sbrigativamente
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con lo slogan: non se ne deve parlare. Perché? Quali ragioni
di stato si nascondono? Quali interessi economici vengono
minacciati da una scoperta scientifica veramente prodigiosa
per l’umanità?
Intanto, da qualche tempo, l’autore dell’inchiesta ha la fondata impressione che la vicenda si complichi, anche se la scoperta è conosciuta ormai in tutti gli ambienti interessati. Quindi
bisogna renderla pubblica subito, nel timore che si speri la
morte dell’unico detentore della formula. Infatti nessuno
sarebbe più in grado di rivelarne i fatti ed i retroscena. Con
buona pace dei petrolieri.
Adesso si hanno buone ragioni per sospettare degli intrighi
di un giornalista che fece perdere le tracce di se, dopo avere
avuto in mano la storia e i documenti originali di questa scoperta. Ed allora, con alcuni elementi disponibili per rendere
pubblica la storia, non resta che ispezionare, con un marchingegno metaforico, la cassaforte del giornalista M.M., dove si
ritiene che siano conservate importanti testimonianze.
Dato che la verità, come diceva un filosofo greco, spesso,
ha bisogno del travestimento per assumere credibilità, non
resta che cercare l’ausilio della fantasia che, in certi casi, supera la stessa realtà. Per rendere credibile la vicenda. Come fece
quel contadino siciliano che, per farsi ascoltare dal re borbonico e per rendere pubblica la sua stravagante rivelazione, indossò gli abiti del giullare, e rivelò i fatti sconvolgenti, cantando
in versi. Come nelle satire. Ma cerchiamo di mettere in ordine
la narrazione, cominciando dal materiale conservato nella cassaforte del giornalista.
S. C.
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ARCHIVIO PERSONALE di M.M. (riservato)
cassetta N.OO3, indice
- IL GIALLO DELLA BENZINA SOLIDA
- IL MISTERO DELLO SPEZIALE DI ERBITA
- LA FORMULA E I DOCUMENTI.
- LA CHIAVE DEL TESORO NASCOSTO
- LA TRAGICA CHIUSURA DEL CASO
APPUNTI
Trovo sul mio tavolo, in redazione, alcuni ritagli di giornale col biglietto di un collega che dice: “vedi se puoi fare qualcosa, l’interessato vorrebbe entrare in contatto con qualcuno
della Poleone editore per pubblicare un giallo”
Da una rapida scorsa, i primi documenti mi sembrano interessanti anche per redigere un servizio giornalistico.
Parlo con i capi, ed ho subito l’autorizzazione a occuparmene .
Telefono alla Poleone – che, poi, è la stessa casa editrice
del settimanale per cui lavoro - ed ottengo il via, con la promessa: “dopo l’articolo, molto probabilmente pubblicheremo
il libro”.
Mi metto subito in contatto con l’autore, e volo in Sicilia
per una intervista.
Sull’aereo, sfogliando il materiale ricevuto per posta, mi
convinco che esistono gli elementi per uno scoop a livello
internazionale.
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Questo giallo, infatti, cade a proposito della crisi petrolifera in Medioriente e potrebbe avere interessanti risvolti economici mondiali.
Lo sconosciuto scrittore raccomandatomi mi accoglie
all’aeroporto di Catania con euforia. D’altronde, non è facile
provocare un servizio su una rivista come la mia, e nemmeno
una semplice recensione, se non si è sponsorizzati adeguatamente da poteri forti.
L’incontro è stato interessante.
Si tratta di uno di quegli intellettuali di provincia che vivono fuori del nostro tempo e che ti piombano addosso, inaspettatamente, come una meteora.
Anziano di età, ma molto in forma. Vive facendo lo speziale a Erbita, un paesino dell’interno della Sicilia, noto nella
storia soltanto per aver dato i natali ad uno spregiudicatissimo papa santo: Leone II°, e per un terremoto catastrofico subito nella preistoria.
Lo speziale – che, stranamente, fa anche lo scrittore ed il
“libero” giornalista – dice subito che prende la penna soltanto quando ha qualcosa da dire e se viene preso da “un particolare stato di grazia”, ma, non sempre gli lasciano pubblicare ciò che pensa, perchè predilige il ruolo anarcoide dell’eretico.
Parla a ruota libera, senza quella riserva mentale che
impreziosisce la merce in vendita, con una fiducia disarmante
nell’interlocutore. Come se si ritenesse un fratello, prima di
conoscerlo.
Eclettico, di idee ribelli, non è con nessuno, non avalla politici e né idee partitiche correnti, anzi è contro tutti. Non per
nulla si vanta di essere amico di Montanelli. Credo che forse
scriva soltanto per divertimento.
Dice che legge poco gli autori contemporanei, per non
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lasciarsi influenzare negativamente. Preferisce i classici, perchè li paragona a quegli artigiani che hanno fiducia nella
bontà del loro prodotto e che ancora non hanno conosciuto la
mistificazione consumistica.
Tutto ciò lo afferma col sorriso di chi trae divertimento da
ogni evento, persino umorizzando su se stesso.
Nell’affollato aeroporto catanese lo avevo identificato subito: come segno di riconoscimento, mi aveva detto per telefono,
“ho la zucca pelata, porto i baffi e fumo clandestinamente il
sigaro toscano”.
Vado subito all’argomento della mia intervista, anche perchè dopo il pranzo (che molto gentilmente mi viene offerto),
debbo riprendere l’aereo di ritorno per Roma.
Lo speziale – così ama farsi chiamare – mi racconta la sua
stranissima storia.
Dispone di documenti probatori inediti, raccolti con molta
pazienza. Me li mette a disposizione in copia, senza la necessaria diffidenza per quanti – capita spesso nel nostro mestiere
– potrebbero approfittarsene.
È sicuro del fatto suo, chissà perchè.
Mi consegna il tutto, e, infine, mi affida anche il dattiloscritto dell’inchiesta da presentare alla Poleone editore per la
pubblicazione.
Gli prometto il mio interessamento e riparto.
Viaggiando, ripensando all’incontro, intravvedo per la mia
rivista un articolo di successo a buon mercato: soltanto la
spesa dell’aereo!
A Roma trovo tutti d’accordo, e mi metto subito al lavoro.
Ecco la registrazione su nastro della storia che avrei dovuto pubblicare se non fossero intervenuti fatti imprevedibili e
preoccupanti.
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IL GIALLO DELLA BENZINA SOLIDA
Siamo a Erbita, un tranquillo paesino dell’interno della
Sicilia, che la sera abbandona tutte le realtà quotidiane come
per darsi appuntamento con i sogni.
Per le strade, dopo il tramonto, non circola più nessuno. Le
porte e le finestre delle case sono serrate come per assicurare
la protezione dell’intimità familiare. Molti vanno presto a dormire, dopo avere trascorso diverse ore in piazza, per le strade
e nei cortili, chiacchierando del più e del meno, magari pettegolando o dibattendo problemi irrisolvibili.
Tre quarti della popolazione è emigrata in Germania,
lasciando un paese che sembra un reclusorio di vecchi.
Squilla il mio telefono a notte fonda.
(Proprio quel giorno avevo messo la parola fine alla mia
inchiesta, dopo I7 anni di ricerca, ed avevo ripreso l’abitudine
di andare a letto alle ventidue.)
Chi poteva telefonare a quell’ora?
È una voce dall’accento siciliano, sconosciuta, rauca e
perentoria che dice: “un amico mi ha incaricato di dirle di non
occuparsi più di “benzina solida”. Ne resterebbe scottato.
Baciamo le mani”.
Altre quattro telefonate anonime (puntuali alla stessa ora) si
ripeterono in altrettante nottate, ma tutte seguite dal compiaciuto silenzio dall’altra parte del filo.
Chi minacciava, evidentemente, era sicuro di avere provocato un incubo, e, col silenzio, pensava di avere superato il
peso delle parole.
In Sicilia, il silenzio, ha un linguaggio paradossale, supera il segno fonetico più acuto, uccide meglio di ogni arma e
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raggiunge la forza della più raffinata intimidazione.
Non ha faccia, ma può assumere la forma più eloquente del
disprezzo. Esprime l’atmosfera più propria della morte, anche
per quanti accettano quest’ultima con animo rassegnato. Non è
mai virtù – contrariamente all’affermazione dei sapienti e dei
proverbi che lo rivestono d’oro – e non è costume delle anime
buone, come spesso è stato detto. I miti e gli ingenui sono
grandi ciarloni, come i cani non aggressivi che abbaiano soltanto la notte per dare sfogo alle loro fantasie imprescrutabili.
Ma non mordono. Il silenzio è un dramma senza autore e una
minaccia senza voce. Forse questo è il vero volto della mafia.
Decisi ugualmente di insistere nella mia ricerca, malgrado
le minacce.
Gli interrogativi, però, restarono angosciosi. La esumazione
della storia della “benzina solida” aveva fatto perdere la testa
ad una gran quantità di persone, e la mia testardaggine di arrivare fino in fondo, era diventata infrenabile e caparbia.
Ma cominciamo da principio.
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UN FANTASMA
La mia lunga ricerca, che turba ancora il sonno di petrolieri, di affaristi e dei servizi segreti di mezzo mondo, inizia nel
mese di Ottobre del I973.
Avevo appreso, per caso, la notizia che era morto in miseria
l’ing. Gaetano Fuardo, nato in Sicilia, a Piazza Armerina,
inventore della famosa Benzina ininfiammabile. La notizia mi
incuriosì, anche perché in questa Sicilia dell’interno, dove si
vive al di sopra del bene e del male, circolano figure di estrosi
dalla fantasia molto accesa da rasentare l’alienazione. Non
ultimo il caso di un maestro elementare che riteneva di avere
inventato il “moto perpetuo”, portando la sua scoperta alla
conoscenza (inviando un messaggio per raccomandata R.R.)
alle massime autorità nazionali. Papa compreso.
Mi recai nella città natale di Fuardo, che dista pochi chilometri dal paesino in cui vivo, e raccolsi le notizie necessarie
per pubblicare il 3 novembre 1973 un servizio speciale per un
quotidiano catanese .Ma il giorno dopo accaddero fatti strani
che mi preoccuparono.
Numerose telefonate, addirittura anche da parte di giornali
esteri. Qualcuno mi proponeva la cessione dei diritti esclusivi
sull’articolo per l’estero. Altri giornalisti si fecero avanti per
intervistarmi. Molte chiacchiere sui rischi che stavo affrontando, tante curiosità da farmi ritenere che ero diventato un giornalista importante. Qualcuno, addirittura, sospettò che avessi
una lontana parentela con lo scenziato piazzese e che aspiravo
a diventare suo erede.
Era scoppiato un caso, proprio nella piccola oasi di quiete
in questo interno della Sicilia, dove si attende la peste, o il
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terremoto, per salire agli onori della cronaca.
Qualche giorno dopo, di buon mattino, due sconosciuti bussarono alla mia porta. Uno si presentò come il dott. S.S. di
Palermo e l’altro sibilò un nome breve e incomprensibile. Il
primo, entrando, precisò che era un parente dell’inventore
Gaetano Fuardo, e, l’altro, si limitò ad acconsentire col capo
tutte le volte che S.S. parlava. (Il classico testa di legno che fa
da accompagnatore nelle missioni importanti e che suole testimoniare nelle contrattazioni di affari.).
Erano venuti per protestare e per capire quale interesse
avessi a scrivere sul suo parente. S.S. si doleva di non essere
stato interpellato, prima che scrivessi sul cugino, vantandosi di
essere l’unico erede. Mi accusava di avere fotografato per il
giornale la sua tomba di famiglia, nel cimitero di Piazza
Armerina, senza l’autorizzazione. Di avere, inoltre, svelato
pubblicamente che Fuardo era stato tumulato nella tomba di
S.S. senza una lapide che lo ricordasse. Infine, insinuò che il
mio articolo era stato scritto, probabilmente, nell’interesse di
personaggi oscuri. (Borbottò nomi, da me allora sconosciuti,
fra i quali un certo Chiappori). Poi, mi diffidò a non scrivere
più sul parente inventore e nè sulla “benzina solida”, perchè lui
era personalmente impegnato in una complicata vicenda giudiziaria. Era implicita una minaccia di querela.
Ma le principali ragioni del suo risentimento erano basate
sul timore che potessi avanzare diritti ereditari.
Mi resi conto subito che bollivano in pentola complicate
controversie e consistenti interessi su una scoperta tutta da
dimostrare.
Fu così che si accese la mia curiosità e mi trasformai in un
vero e proprio detective, incurante delle minacce ricevute.
Mi recai a Piazza Armerina per saperne di più.
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PIAZZA ARMERINA
Piazza Armerina è una città paradossale, dove il tempo scorre come un fiume a zigzag, lento e quasi stagnante. Le sue bellissime case in pietra intagliata, di color giallo-ferrigno, il
silenzio sonnolento dei suoi cortili, danno il senso dell’austerità cimiteriale. Le sculture antropomorfe delle mensole che reggono i lastroni di pietra dei balconi, sembrano i testimoni
divertiti, che seguono la vita dei passanti che nascondono, di
giorno, le loro vicissitudini e, di notte, i soliloqui spesso esaltati dal buon vino.
Questo centro dell’interno, nella zona orientale dell’isola, fa
parte della Sicilia babba, cioè bonaria, rassegnata, dell’antica
civiltà contadina dei Siculi.
Gli uomini qui nascono col destino influenzato da un paesaggio idilliaco, della oscura macchia mediterranea, che
sopravvive miracolosamente fin dalla preistoria. Una terra di
profumi acri di lumache, di uomini dotati di fertile fantasia e di
poeti dialettali, (della tradizione gallo-italica), ma sconosciuti
oltre le mura della città.
Molti, però, si pentono di non esser nati nell’altra Sicilia
(quella di Occidente, di tradizione Sicana) mafiosa e furba,
dove si può toccare col dito il cielo del potere e della ricchezza, del successo politico, della rapida carriera, senza molta fatica. Infatti Sciascia diceva che a Palermo basta trovare la chiave giusta o la intermediazione adatta, per ottenere l’impossibile. Le attività produttive che non sono connaturate ai piazzesi,
sono l’industria e la speculazione economica. Vive qui, infatti,
un inconsueto genere di umanità che, per un sorriso di donna,
per un caso pietoso, o per la commozione di un vecchio, si può
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mandare a gambe per aria un buon affare. Non parliamo del
fascino abnorme che esercita il forestiero. Infatti, il linguaggio
di chi viene da lontano ha il potere di disarmare l’iracondo, il
diffidente o il furbo, come per un prodigio.
D’altro canto, in Sicilia, il culto antico dell’ospitalità è ben
noto e rasenta spesso la dabbenaggine.
Diversi anni fa, un mercante piazzese di antiquariato mi
propose l’acquisto di un quadro dell’Ottocento, un bellissimo
San Francesco in estasi, se gli davo soltanto 100 mila lire per
la bellissima cornice indorata. A suo parere, il valore del pezzo
stava nella cornice. E la tela l’avrebbe regalata, dopo, al primo
cliente di passaggio.
Il ministro di Giuliano l’Apostata, Claudio Mamertino, duemila anni fa, fu il più illustre forestiero che restò affascinato
dall’ambiente piazzese e dal costume bonario e aggraziato
della sua gente. Proprio qui, costruì la famosa villa del Casale
ornandola con i preziosi mosaici, ormai noti in tutto il mondo.
I Normanni, affascinati dai languidi occhi neri delle donne
piazzesi, segnati da un velo di tristezza – che è forza irresistibile e ammaliante –, innestarono il seme inconfondibile della
loro razza, dando la più felice caratterizzazione etnica della
fusione degli opposti. Infatti oggi si incontrano facilmente
belle brune che ti elettrizzano con due grandi occhi azzurri o,
donne dai capelli biondi naturali, con occhi nerissimi.
In questo ambiente fantasioso, vivificato soltanto dalle
periodiche controversie politiche e dal pettegolezzo di provincia, gli esclusi e i vinti trovano vitalità soltanto nella poesia e
nella meditazione filosofica, anzichè nelle idee positive.
Qui nacque Gaetano Fuardo l’8 Settembre I878.
Don Ferdinando, suo padre, era lo speziale del paese, cioè
il gestore di quella bottega-sodalizio che, nella provincia italiana dell’8OO, riuniva le lingue più pungenti del paese, gli
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ingegnacci sciattoni più estrosi, i borghesi illuminati che citavano Voltaire come un compaesano. (Le vere battaglie dei
Carbonari, dei Garibaldini o dei Conservatori Borbonici, furono combattute proprio nelle “spezierie”, fra pestello e mortaio.) Gaetano era figlio unico. La madre si chiamava Maria
Grazia Turino.
Fin dall’infanzia mostrò interesse per l’ambiente professionale del padre da restarne coinvolto. Frequentava la farmacia
come una scuola. Traeva spunti che, subito dopo, andava ad
approfondire ed a verificare sui libri. Aveva un carattere introverso e testardo. Era curioso anche dei particolari più insignificanti.
Furono queste le prime notizie raccolte nella città natale di
Fuardo, ma erano insufficienti. Della sua clamorosa scoperta
nessuno era informato. Molti, addirittura, lo sconoscevano.
Qualcuno affermò che si trattava di un visionario, di uno dei
soliti folli che, nei paesini, suscitano il motteggio generale.
Un amico mi disse che esisteva ancora l’ultimo dei Fuardo
a Piazza, e mi indicò dove poterlo trovare.
S.V., cugino dell’inventore, si aiutava a vivere vendendo
bombole di butangas. Corpulento. Mite di carattere.
Rassegnato. Trasandato e triste, come quel tale che, quando
gli domandano come stai, suole rispondere: attendo la morte. Il
suo unico vezzo era la ripetuta carezza sull’accurato riporto dei
capelli, da valle a monte.
S.V. prima mi accolse con diffidenza, ma dopo, come un
vecchio diesel che ha bisogno di una lunga carburazione, diede
il via ad un lungo sfogo su controversie ereditarie familiari che
teneva in animo da chissà quanto tempo.
Mi parlò della figura dello zio Don Ferdinando, uomo di
cultura e, nello stesso tempo, abile miscelatore di intrugli efficaci in terapia. Disse che lo zio speziale era anche poeta, sia in
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lingua italiana, come nel dialetto siciliano (gallo italico). I suoi
brindisi di occasione, le sue aggressive satire politiche in versi,
i discorsi funebri commemorativi, erano ben noti anche nel circondario. “Oggi, queste poesie, che tutti recitavano a memoria,
sono introvabili. Sopravvive qualche verso nella memoria dei
vecchi, dato che mio zio non ebbe mai cura di raccoglierle.”
Gaetano ebbe, dunque, come suo primo maestro, il padre e
la élite culturale della farmacia. Ma, aggiunse il cugino, ne
ebbe per pochi anni perchè perdette i genitori in giovanissima
età, a causa della epidemia della spagnola. La famiglia piombò nella miseria. La farmacia fu svenduta e Gaetano rischiò di
non potere continuare gli studi.
Un lascito, però, gli piovve dal cielo come una manna. Si
venne a scoprire l’esistenza del legato di un vecchio zio, frate
Ignazio, “morto in odore di santità”, di lire sessanta mensili.
Beneficio destinato “agli eredi maschi Fuardo, meritevoli e
volenterosi a proseguire negli studi”.
Con questa provvidenziale fortuna, Gaetano Fuardo iniziò
gli studi ginnasiali.
Dopo il liceo, frequentato a Realsedani in un collegio dei
Gesuiti, completato in due anni (anziché in tre), si trasferì a
Milano per frequentare il Politecnico e per laurearsi poi in
ingegneria chimica, col massimo dei voti.
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REALSEDANI
Dopo le notizie fornitemi dal cugino, mi incuriosiva l’ambiente
scolastico che aveva frequentato Fuardo. Fu così che andai nella
città etnea di Realsedani nella speranza di raccogliere ulteriori
informazioni.
Il collegio S. Ignazio, retto dai Gesuiti, arroccato sulla sommità
di una collina ricca di frutteti e di verde intenso, guarda il suggestivo vulcano Etna da una parte e, dall’altra, il mare Jonio col suo
intenso colore blu. Fino agli anni cinquanta, questo collegio aveva
avuto fama nazionale. I giovani della borghesia meridionale più
illuminata – quelli che resistettero alla rigida disciplina – passarono da qui.
Un college all’inglese per struttura, per autonomia e per alto
livello didattico. Una piccola università per chi iniziava con la
quinta elementare e completava gli studi con la maturità classica.
Questo convitto, svolgeva anche molte attività sportive, compresa la scuola di scherma. Disponeva di un molino–pastificio per
uso privato, di un’azienda agricola, di una tipografia, di laboratori
scientifici e persino di un osservatorio astronomico con attrezzature sismologiche.
La sua ricca biblioteca, famosa nel circondario, era dotata anche
di un reparto librario per le pubblicazioni messe all’indice dalla
Chiesa. Naturalmente tenuto rigorosamente sotto chiave. In questo
collegio Fuardo era entrato come studente all’età di 12 anni.
Giunto nella grande portineria chiesi subito di parlare con il
padre Gesuita più avanzato negli anni. Poco dopo, mi trovai di
fronte un lucido vecchio novantaseienne, smilzo, basso di statura,
con molti capelli bianchi mal contenuti, ermetico e lapidario nel
fraseggiare, vivace con quegli occhi che ti colpisono subito.
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Vestiva col tradizionale abito talare, austero e solenne, tanto da
ingigantire la sua piccola statura.
Come prima cosa mi disse: “ben poche informazioni le posso
dare su Gaetano Fuardo. Mi sento come il sopravvissuto dopo un
terremoto. O come un carcerato, condannato al silenzio, ma felice
di incontrare un interlocutore disposto ad ascoltarmi.
Mi ricordo vagamente di questo alunno che si esprimeva bene
nel dialetto siciliano gallo-italico di Piazza Armerina, che raddoppiava spesso le consonanti e che aveva difficoltà a parlare e scrivere in perfetta lingua italiana.
Spesso mi aiutava nel montaggio dei circuiti nella stazione
sismologica del collegio.
Non so se lei è informato dei recenti studi americani per lo sfruttamento energetico dei vulcani: io avevo pensato molti anni prima
a questo progetto ed a questi studi, mirando alla economicità della
sostituzione della energia vulcanica con i carburanti petroliferi.
Scrissi anche un libretto. Ma tutto è piombato nel dimenticatoio,
perché la società consumistica non ama più gli studi approfonditi.
Non ricordo altro di questo giovane piazzese e nè sono in grado
di promuovere una ricerca dal momento in cui l’archivio del collegio è stato trasferito alla Casa Professa di Palermo, sede del
Provincialato. Oggi non esiste più nemmeno la struttura didattica
di questo antico collegio, ormai in disarmo a causa delle vocazioni
mancanti nell’Ordine dei Gesuiti. (Così si dice ufficialmente, per
giustificare la vendita del palazzo).
Io sono rimasto come il custode delle sue macerie, fino alla
morte.”
Subito dopo il vecchio padre chiuse improvvisamente il nostro
incontro, come preso da uno scatto d’ira dominata a stento. Si alzò,
e andò via senza salutarmi .Mi accorsi che, voltandomi le spalle,
aveva preso in mano il Rosario che portava legato alla cintola,
dando l’impressione di aggrapparsi ad un punto fermo.
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