REGATT
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14.21 Pagina 4
ROMANO PENNA
Gesù di Nazaret
nelle culture del suo tempo
Alcuni aspetti del Gesù storico
2012
quindicinale di attualità e documenti
2
«BIBLICA»
pp. 216 - € 19,00
Attualità
001 Politica in Italia: il tripartito?
006 Tra crisi religiosa e democrazia:
Belgio e Ungheria
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DELLO STESSO AUTORE 027 Theobald: come recepire il Vaticano II
047 Nuovo cinema religioso
057 Studio del Mese
L’Europa, un’avventura spirituale
J. Delors – G. Ambrosio
Profili di Gesù pp. 200 - € 16,50
EDB
! Anno LVII - N. 1115 - 15 gennaio 2012 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - 40123 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
! !
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quindicinale di attualità e documenti
A
CHRISTOPH THEOBALD
ttualità
La recezione del Vaticano II
15.1.2012 - n. 2 (1115)
Caro lettore,
Libri del mese
1 (G. Brunelli)
per una rivista come la nostra, ogni
nuovo anno è un viaggio che a un
tempo prosegue e ricomincia, con
tanti passeggeri – lei e gli altri
abbonati – ritrovati e alcuni nuovi,
e con tante tappe da affrontare: solo
limitandoci all’attività di Benedetto
XVI e della Santa Sede, si va dalla
nomina di 22 nuovi cardinali, già
annunciata, all’Incontro mondiale
delle famiglie a Milano e al Sinodo
dei vescovi sulla nuova
evangelizzazione; dal viaggio del
papa in Messico e a Cuba all’avvio
dell’«anno della fede» in
concomitanza con il 20° del
Catechismo della Chiesa cattolica e
soprattutto con il 50° dell’apertura
del Vaticano II, come ha sottolineato
Benedetto XVI al n. 5 della Porta
fidei: «Ho ritenuto che far iniziare
l’Anno della fede in coincidenza con
il 50° anniversario dell’apertura del
concilio Vaticano II possa essere
un’occasione propizia per comprendere
che i testi lasciati in eredità dai
padri conciliari, secondo le parole del
beato Giovanni Paolo II, “non
perdono il loro valore né il loro
smalto”».
Affrontiamo questo viaggio con
sempre maggiore impegno
e responsabilità, forti anche del
consenso che il nostro lavoro continua
a riscuotere e che rappresenta
la migliore motivazione a proseguire
in questo servizio.
Con i migliori auguri
di un buon 2012.
R
Italia - Politica: il tripartito?
{ Dal governo Monti alla prossima
legislatura }
4 (M. Bombardieri)
Italia - Islam: il dialogo continua…
{ Università, associazioni islamiche
e Ministero }
6 (A. Máté-Tóth)
Ungheria - V. Orbán e l’Europa:
avventura democrazia
{ L’evoluzione del paese
e della Chiesa dal muro di Berlino
alla crisi europea }
9 (M. Bernardoni)
Chiesa in Belgio - Indagine CRISP:
Interpretare le trasformazioni
{ Da una pratica religiosa
strutturata a una più disseminata }
13 (M.E. Gandolfi)
Benelux - Violenze sui minori:
ripartire dai frammenti
{ Linee interpretative dalle
commissioni d’inchiesta di Belgio,
Olanda e Lussemburgo }
Olanda (M.E. G.)
Belgio (M. B., M.E. G.)
Lussemburgo (M.E. G.)
17 (E. Pirazzoli)
Ex Iugoslavia - Crimini di guerra:
tra politica e riconciliazione
{ Intervista a F. Pocar,
già presidente del Tribunale penale
internazionale (2005-2009) }
19 (G. Brunelli)
Benedetto XVI - IV Concistoro
Il ritorno della curia
20 (G. Mocellin)
Santa sede - Lefebvriani
Il senso della continuità
21 (D. Sala)
Stati Uniti - Chiesa:
da episcopaliani a cattolici
{ Un nuovo ordinariato personale
dopo quello per il Regno Unito }
21 (F. Strazzari)
America Latina - Ecuador:
la rivoluzione di Correa
{ Il difficile rapporto tra la Chiesa
e i leader progressisti }
26 (D. S.)
Corea del Nord
Dopo il dittatore
1. Tornare alla sorgente
27 (C. Theobald)
Tornare alla sorgente
{ La recezione del Vaticano II }
33
Schede (a cura di M.E. Gandolfi)
Segnalazioni
43 (M. Veladiano)
C. Frugoni, Storia di Chiara e
Francesco
43 (L. Pedrazzi)
G. Forcesi, Il Vaticano II a Bologna.
La riforma conciliare nella città
di Lercaro
44 (R. Castagnetti)
Musica e liturgia
47 (T. Subini)
Arti - Cinema e religioni:
se si mostra Dio
{ Dagli studi alle mostre, da Pasolini
ai lavori più recenti: la tradizione
e la vitalità del film religioso }
51 (M. Bernardoni)
NUOVI SAGGI TEOLOGICI
SERIES MAIOR
Dialoghi - Fede e scienze:
passione per la verità
{ Intervista al fisico Ugo Amaldi }
pp. 728 - € 65,00
55 (D. Sala)
Diario ecumenico
56 (L. Accattoli)
Agenda vaticana
Studio del mese
{ La crisi dell’Unione Europea }
57 (J. Delors)
Europa: un’avventura spirituale
nella nostra storia
64 (G. Ambrosio)
COMECE - Crisi europea: una
comunità solidale e responsabile
68 (P. Stefani)
Parole delle religioni
Padre onnipotente
!
70
I lettori ci scrivono
71 (L. Accattoli)
Io non mi vergogno del Vangelo
… E la privacy?
26 (D. S.)
India - Chiese cristiane
Vietare la violenza interreligiosa
Colophon a p. 69
DELLO STESSO AUTORE Vocazione?!
EDB
pp.728 - € 65,00
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quindicinale di attualità e documenti
A
CHRISTOPH THEOBALD
ttualità
La recezione del Vaticano II
15.1.2012 - n. 2 (1115)
Caro lettore,
Libri del mese
1 (G. Brunelli)
per una rivista come la nostra, ogni
nuovo anno è un viaggio che a un
tempo prosegue e ricomincia, con
tanti passeggeri – lei e gli altri
abbonati – ritrovati e alcuni nuovi,
e con tante tappe da affrontare: solo
limitandoci all’attività di Benedetto
XVI e della Santa Sede, si va dalla
nomina di 22 nuovi cardinali, già
annunciata, all’Incontro mondiale
delle famiglie a Milano e al Sinodo
dei vescovi sulla nuova
evangelizzazione; dal viaggio del
papa in Messico e a Cuba all’avvio
dell’«anno della fede» in
concomitanza con il 20° del
Catechismo della Chiesa cattolica e
soprattutto con il 50° dell’apertura
del Vaticano II, come ha sottolineato
Benedetto XVI al n. 5 della Porta
fidei: «Ho ritenuto che far iniziare
l’Anno della fede in coincidenza con
il 50° anniversario dell’apertura del
concilio Vaticano II possa essere
un’occasione propizia per comprendere
che i testi lasciati in eredità dai
padri conciliari, secondo le parole del
beato Giovanni Paolo II, “non
perdono il loro valore né il loro
smalto”».
Affrontiamo questo viaggio con
sempre maggiore impegno
e responsabilità, forti anche del
consenso che il nostro lavoro continua
a riscuotere e che rappresenta
la migliore motivazione a proseguire
in questo servizio.
Con i migliori auguri
di un buon 2012.
R
Italia - Politica: il tripartito?
{ Dal governo Monti alla prossima
legislatura }
4 (M. Bombardieri)
Italia - Islam: il dialogo continua…
{ Università, associazioni islamiche
e Ministero }
6 (A. Máté-Tóth)
Ungheria - V. Orbán e l’Europa:
avventura democrazia
{ L’evoluzione del paese
e della Chiesa dal muro di Berlino
alla crisi europea }
9 (M. Bernardoni)
Chiesa in Belgio - Indagine CRISP:
Interpretare le trasformazioni
{ Da una pratica religiosa
strutturata a una più disseminata }
13 (M.E. Gandolfi)
Benelux - Violenze sui minori:
ripartire dai frammenti
{ Linee interpretative dalle
commissioni d’inchiesta di Belgio,
Olanda e Lussemburgo }
Olanda (M.E. G.)
Belgio (M. B., M.E. G.)
Lussemburgo (M.E. G.)
17 (E. Pirazzoli)
Ex Iugoslavia - Crimini di guerra:
tra politica e riconciliazione
{ Intervista a F. Pocar,
già presidente del Tribunale penale
internazionale (2005-2009) }
19 (G. Brunelli)
Benedetto XVI - IV Concistoro
Il ritorno della curia
20 (G. Mocellin)
Santa sede - Lefebvriani
Il senso della continuità
21 (D. Sala)
Stati Uniti - Chiesa:
da episcopaliani a cattolici
{ Un nuovo ordinariato personale
dopo quello per il Regno Unito }
21 (F. Strazzari)
America Latina - Ecuador:
la rivoluzione di Correa
{ Il difficile rapporto tra la Chiesa
e i leader progressisti }
26 (D. S.)
Corea del Nord
Dopo il dittatore
1. Tornare alla sorgente
27 (C. Theobald)
Tornare alla sorgente
{ La recezione del Vaticano II }
33
Schede (a cura di M.E. Gandolfi)
Segnalazioni
43 (M. Veladiano)
C. Frugoni, Storia di Chiara e
Francesco
43 (L. Pedrazzi)
G. Forcesi, Il Vaticano II a Bologna.
La riforma conciliare nella città
di Lercaro
44 (R. Castagnetti)
Musica e liturgia
47 (T. Subini)
Arti - Cinema e religioni:
se si mostra Dio
{ Dagli studi alle mostre, da Pasolini
ai lavori più recenti: la tradizione
e la vitalità del film religioso }
51 (M. Bernardoni)
NUOVI SAGGI TEOLOGICI
SERIES MAIOR
Dialoghi - Fede e scienze:
passione per la verità
{ Intervista al fisico Ugo Amaldi }
pp. 728 - € 65,00
55 (D. Sala)
Diario ecumenico
56 (L. Accattoli)
Agenda vaticana
Studio del mese
{ La crisi dell’Unione Europea }
57 (J. Delors)
Europa: un’avventura spirituale
nella nostra storia
64 (G. Ambrosio)
COMECE - Crisi europea: una
comunità solidale e responsabile
68 (P. Stefani)
Parole delle religioni
Padre onnipotente
!
70
I lettori ci scrivono
71 (L. Accattoli)
Io non mi vergogno del Vangelo
… E la privacy?
26 (D. S.)
India - Chiese cristiane
Vietare la violenza interreligiosa
Colophon a p. 69
DELLO STESSO AUTORE Vocazione?!
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pp.728 - € 65,00
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Politica
I TA L I A
i
l tripartito?
Dal gover no Monti alla prossima legislatura
I
l 12 gennaio 2012, con il doppio no pronunciato dalla
Corte costituzionale sui due
quesiti referendari abrogativi
della legge elettorale vigente
(il cosiddetto Porcellum), si chiude
un’intera stagione politica. Il no
della Corte è stato pronunciato naturalmente secondo motivazioni tecnico-giuridiche, ma l’effetto è politico e istituzionale.
Il no della Consulta
ai referendum
C’è una giurisprudenza della
Consulta, secondo la quale non bisogna creare il vuoto sulla legge elettorale. Il referendum non può essere
solo abrogativo o demolitivo. I precedenti referendum sono stati ammessi perché lasciavano in piedi una
normativa. A questa giurisprudenza
si è richiamata la Corte, dal momento che la legge elettorale è «costituzionalmente necessaria»: se venisse meno, infatti, si creerebbe un
vuoto normativo inconcepibile, che
paralizzerebbe le istituzioni democratiche. «Gli organi costituzionali o
di rilevanza costituzionale – si legge
nella sentenza – non possono essere
esposti neppure temporaneamente
all’eventualità di paralisi di funzionamento, anche soltanto teorica».
Di diverso parere erano stati in
precedenza 111 costituzionalisti (tra
cui due ex presidenti della Corte),
che avevano firmato un appello alla
vigilia della sentenza. Essi ritenevano
sufficiente l’automatico ripristino
della legge elettorale precedente per
evitare il vuoto normativo. Ma il relatore, il presidente Sabino Cassese,
ha definito impossibile il richiamo
all’istituto della cosiddetta «reviviscenza». In questo modo la Corte
boccia recisamente la «visione “stratificata” dell’ordine giuridico, in cui
le norme di ciascuno strato, pur
quando abrogate, sarebbero da considerarsi quiescenti e sempre pronte
a ridiventare vigenti». «L’abrogazione totale della legge 270 del 2005
riguarderebbe l’attuale metodo di
scelta dei componenti dei detti organi costituzionali nel suo complesso
e di conseguenza il referendum, ove
avesse un esito favorevole all’abrogazione, produrrebbe l’assenza di
una legge costituzionalmente necessaria, che deve essere operante e
auto-applicabile, in ogni momento,
nella sua interezza». Ancora più
dura e netta la posizione della Corte
sul secondo quesito, che mirava ad
abrogare le «formule introduttive»
di ogni articolo del Porcellum. La
Consulta liquida il quesito perché viziato da contraddittorietà e da assenza di chiarezza.
Nei giorni precedenti la sentenza,
aveva stupito il fatto che alcuni organi
di stampa riferissero unanimemente e
articolatamente le motivazioni negative della Corte, accompagnate dal
giudizio politico di un no di fatto motivato dalla preoccupazione per le ripercussioni che il referendum avrebbe
avuto sulla stabilità dei rapporti tra i
partiti che sostengono il governo
Monti. La crescente certezza di un
no della Corte aveva poi modificato
l’atteggiamento delle forze politiche.
All’indomani della raccolta delle
firme, di fronte a un così ampio successo (1.200.000 in un mese), i vari
esponenti delle forze politiche avevano fatto a gara nel dimostrare attenzione alle ragioni del referendum
e all’indifendibilità di questa legge
(dal Popolo della libertà [PDL] a Maroni), fino a episodi di vera e propria
intestazione del risultato (il Partito
democratico [PD], con Bersani, aveva
rivendicato il proprio protagonismo
nella raccolta delle firme). Per poi
scoprire, una volta posti al sicuro dal
no della Corte, quello che si sapeva
da sempre: per il PDL e per la Lega
questa legge va bene com’è; l’Unione
di centro (UDC) chiede un ritocco in
senso proporzionale, eliminando il
premio di maggioranza; così come il
PD di Bersani, il quale peraltro non
aveva neppure firmato. La sentenza
della Corte ha innescato l’«indietro
tutta» della politica e la fine di un ciclo di riforme istituzionali.
Una par titocrazia
senza par titi
Ora si allontana la possibilità di
avere un sistema maggioritario che
consenta ai cittadini di decidere. La
maggioranza delle forze politiche
vuole tornare al proporzionale,
identificato come il sistema migliore
per perpetuare sé stessi. Il rischio
dunque è che una correzione dell’ultima ora ripristini il massimo di
proporzionale possibile. Con i partiti
pronti a farsi riconoscere ognuno la
propria quota e l’autorizzazione a
IL REGNO -
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gestirla al meglio, fuori da ogni decisione dei cittadini circa le alleanze,
i governi e conseguentemente i programmi, la politica torna a essere
identificata con la gestione del consenso pro quota dei diversi soggetti.
È in atto un tentativo di ritorno al
multipartitismo polarizzato, quello
che nella prima Repubblica vedeva
da una parte la Democrazia cristiana
(DC) e dall’altra il Partito comunista
(PCI). Il risultato attuale è di descrivere un campo di piccoli soggetti politici dominato dai due principali
partiti, che assomigliano ai partiti di
un tempo, ma solo di nome.
Una partitocrazia senza partiti. Il
che significa l’autodeterminazione
di gruppi dirigenti senza un minimo
di dialettica democratica interna ai
partiti e, grazie al proporzionale,
senza alcun controllo da parte del
cittadino elettore. Anche in questo
sistema i partiti sono obbligati ad
allearsi con le forze minori per avere
la maggioranza più uno, ma solo
dopo il voto. Questo sistema non supera le cosiddette «coalizioni coatte», toglie semplicemente il principio di trasparenza, poiché in
democrazia rimane inevitabile la necessità di assicurare ai governi la
maggioranza assoluta dei voti. Il
problema è se le alleanze debbano
essere dichiarate prima delle elezioni
o dopo. Il diverso tempo di quella
dichiarazione non descrive solo una
dinamica impropria o insufficiente
da un punto di vista democratico
per i soggetti politici, spinti verso
forme oligarchiche, ma deresponsabilizza anche i cittadini, che demandano ai partiti la gestione di
ogni scelta e di ogni compromesso.
Chi vuole il ritorno al proporzionale non si batte contro i limiti
del maggioritario, ma contro l’obbligo di dichiarare le sue alleanze
davanti agli elettori.
Dal tripar tito
al bipar titismo
Naturalmente le difficoltà degli
attuali soggetti politici rimangono
tutte, a partire dalla situazione di fallimento generale della politica, attraverso la quale si è giunti al governo Monti senza passare per le
elezioni. Se ci fosse stata un’alterna-
2
IL REGNO -
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tiva, come in Spagna, il presidente
Napolitano avrebbe potuto sciogliere
le Camere. Ma qui non c’era un’alternativa politica al governo Berlusconi. Le forze del centro-sinistra non
erano state in grado di costruirla.
L’antiberlusconismo ha prodotto
quel che poteva produrre: una mera
delegittimazione del «leader avverso»
e, grazie anche alla sua progressiva
decadenza, la sua demolizione.1 Non
la costruzione di un’alternativa politica e di governo.
Questa condizione mette oggi in
difficoltà i protagonisti, loro malgrado, di questa maggioranza tripartita sulla quale si regge in Parlamento il governo Monti. Di fronte a
un «governo del presidente», il partito del presidente (il PD) ha pochi
margini di manovra. Spera di trarre
da questo contraddittorio esercizio
di responsabilità (rimangono indeterminati i rapporti con le altre forze
politiche del campo di centro-sinistra, e precarie le relazioni con le
componenti sindacali di riferimento
di fronte a politiche socialmente costose) un qualche guadagno in termini di voto moderato e rimane il
«sogno» di un’alleanza con l’UDC di
Casini su un piano nazionale. Tutte
queste difficoltà, ricondotte nell’alveo di un sistema politico modellato
sulla prima Repubblica, sono nulla
per il PD, fanno parte di un lungo tirocinio storico (quello del PCI).
Ciò che è intollerabile, e lo è stato
per un quindicennio per il partito
erede del PCI, è la messa in discussione che il sistema maggioritario e
la proposta dell’Ulivo avevano fatto
del partito come tale. Basterà riprendersi le dichiarazioni recenti di
leader storici del PCI (oggi PD) come
Violante e Macaluso, oltre che quelle
di Bersani e D’Alema, per avere
chiaro lo schema: l’unica cosa che
non si può discutere è il partito, la
sua unità, al punto che è preferibile
sbagliare assieme piuttosto che avere
ragione singolarmente.
La colpa del maggioritario e dello
schema di coalizione degli anni Novanta era quella, all’opposto, di mettere in discussione la forma partito,
di farla evolvere per poter andare al
governo e governare. Ma questo è un
prezzo che il PD non intende pa-
gare. Meglio, piuttosto, tornare all’opposizione. Il PD ha mancato
l’appuntamento storico con la cultura liberal-democratica.
Non minori difficoltà mostra il
PDL di Alfano e Berlusconi. La decadenza berlusconiana mette certamente Alfano nella condizione di
fare uscire il partito dalla fase precedente. Ma quanto è veloce davvero
la fine di Berlusconi? Alfano è
l’uomo del tripartito, dell’appoggio a
Monti, ma tra pochi mesi ci saranno
le elezioni amministrative e tra un
anno le politiche.
C’è per il PDL la scelta, che attraversa entrambi gli appuntamenti
elettorali, di un’alleanza alternativa:
o con Casini o con la Lega. Berlusconi è l’uomo dell’alleanza con la
Lega, Alfano con l’UDC. Senza la
Lega un partito già provato in termini di consenso come il PDL, che
esce comunque drammaticamente
sconfitto dalla recente prova di governo, rischia di frantumarsi in molte
regioni e comuni del Nord. Il ripristino dell’alleanza con la Lega è diventato oneroso e incerto. Oneroso
quanto alla volontà della Lega di
stare all’opposizione del governo
Monti e di andare prima possibile
alle elezioni politiche. Il prezzo chiesto dalla Lega al PDL (la crisi di governo) è altissimo, difficilmente sopportabile in questa fase dal partito di
Berlusconi. Incerto, perché la relazione con la Lega è resa precaria per
il conflitto, interno alla Lega stessa,
tra Bossi e Maroni.
La resa dei conti tra i due per la
leadership del partito è definitiva, e
per vincerla Maroni è costretto a radicalizzare la propria posizione, non
a moderarla. Almeno in questa
prima fase. Fino alle elezioni politiche. Dunque si allontana un ipotetico dialogo tra Lega e UDC, patrocinabile da Maroni e dalla classe
leghista veneta, quasi tutta di provenienza democristiana, mentre si ripropone in termini nuovi lo schema
di un’alleanza competitiva tra Lega e
PDL. Il che mette in difficoltà il rapporto tra PDL e UDC.
Grazie alla fine del governo Berlusconi, e posta al riparo del governo
Monti, l’UDC di Casini è in certo
modo vincente in termini politici.
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Ha di fronte a sé la possibilità di costruire una condizione politica neocentrista. Il ritorno al proporzionale
favorisce questo esito. Il tripartito
che sostiene il governo prefigura
questa situazione. Difficile però immaginare che il PD regga a lungo
questo posizionamento, che lo colloca di fatto nella posizione che fu
del Partito socialista di Craxi, in
un’area sociale ed elettorale che allora si chiamava Pentapartito. Finché
Berlusconi rimane fuori scena, il PD
può stare nella stessa maggioranza
parlamentare, ma appena rientra…
A un certo punto tutti dovranno
scegliere. Alle prossime amministrative, ad esempio, è certamente possibile che scaturiscano alleanze locali
tra PD e UDC, fino a spingersi a un
esperimento lombardo, qualora saltasse l’equilibrio su cui si è sostenuto
finora Formigoni. Più difficile è
un’alleanza strategica su un piano
nazionale senza la partecipazione del
PDL. L’evoluzione del quadro politico rimane ancora incerta e per
molti aspetti indeterminata. Le prossime elezioni amministrative determineranno una spinta decisiva a
chiarire l’esito di questa sospensione
della politica.
Il bipolarismo delle gerarchie:
né con Berlusconi, né con il PD
A rendere difficile l’esito neocentrista dell’UDC è, potrà sembrare
paradossale, la posizione della gerarchia ecclesiastica. A voler risolvere con uno slogan la posizione
della Conferenza episcopale italiana
e della Santa Sede, che su questo
punto sembrano sostanzialmente
concordare, si potrebbe dire che la
Chiesa non intende andare (o mandare i cattolici italiani) né con Berlusconi, né con il PD. Gli sviluppi
antiberlusconiani della scorsa estate,
approdati a Todi,2 hanno reso definitivo il no a Berlusconi. Il che non
significa un no ad Alfano o al PDL o
un sì esclusivo a Casini. Quanto piuttosto un sì a un’alleanza tra un PDL
non berlusconiano e un’UDC non
semplicemente neocentrista.
Analogamente, dopo il fallimento
della stagione ulivista, la presa d’atto
che il PD è un partito culturalmente
radicale, anche se dagli atteggia-
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menti politici moderati, sembra definitiva. Ci sono tra gli esponenti del
PD diversi cattolici, ma al di fuori di
uno schema sistemico che costringa
il PD a tener conto strutturalmente
del pluralismo culturale e della cultura cattolica, la presenza di singoli
è ricondotta nel migliore dei casi a
un ruolo testimoniale: quello che fu
degli indipendenti di sinistra nel
PCI. Non è poi detto che tutta la
pattuglia degli ex popolari alla fine di
questo processo rimanga. Saranno
proprio gli esperimenti locali di alleanza con l’UDC a legittimarne
l’uscita verso il centro.
Per la gerarchia ecclesiastica appare insufficiente (numericamente
insufficiente) lo stesso esperimento
neocentrista di Casini. Non può essere quello l’approdo. Identificherebbe i cattolici italiani con una corrente. Senza dire che oggi in quel
contesto politico abita anche Fini,
portatore di una cultura laicista non
dissimile sui temi ecclesialmente sensibili da quella di molti esponenti del
PD. Le gerarchie ecclesiastiche guardano a un modello europeo, al Partito popolare europeo. In Italia
quello schema deve poter mettere
assieme PDL e UDC, senza Berlusconi. E dall’altra parte il PD e il resto della sinistra. Il Partito popolare
europeo è in grado di riprendere
quasi per intero lo spazio politico
elettorale che fu della DC e dei suoi
alleati e stare pressoché stabilmente
al governo, costringendo il PD e le sinistre antagoniste all’opposizione.
Non è la DC. Non è la «Cosa
bianca». È un’altra «Cosa». Non è
un progetto culturalmente avanzato
su un piano politico, tale da contribuire a riformare la nostra democrazia. Ma realisticamente può bastare.
Del resto, l’esperienza storica della
DC è finita con Moro, con la fine
(simbolicamente alta e drammatica)
di un’intera generazione cresciuta in
Azione cattolica e diffusa in maniera
omogenea sul piano nazionale.
Quella stagione è irripetibile.
Non c’è oggi un’altra generazione di
cattolici posta in condizioni simili.
Ma già il decennio successivo alla
morte di Moro aveva cominciato a
descrivere una DC diversa, pienamente secolarizzata nei pensieri e
nelle abitudini, nei comportamenti e
nei valori. Che non tematizzava più
il confronto filosofico e teologico tra
morale e politica (e spesso praticava
altro). Se ci fosse bisogno di altri simboli al riguardo, a riguardo di quella
generazione, la morte di Oscar Luigi
Scalfaro ne è un ulteriore sigillo.
Quello che restava di quella stagione è stato investito con grandi
speranze, sotto la definizione di «cattolicesimo democratico», nell’esperienza dell’Ulivo. E con la fine dell’Ulivo ha avuto termine anche quel
«resto». Fuori da un progetto politico nazionale, sostenuto da una continuità culturale innestata in una
grande tradizione, anche il futuro
dei cattolici nel PD, dal piano locale
a quello nazionale, sarà difficile.
Senza dire del riverbero che tutto
questo avrà su un piano elettorale
per lo stesso PD.
In una compagine di centro-destra moderato, la gerarchia vede non
la possibilità di una condivisione generalizzata di valori, ma la possibilità
pratica che vi trovi spazio in maniera
nuovamente influente una quota di
classe dirigente cattolica, tale da salvaguardare alcune posizioni. Le gerarchie ecclesiastiche hanno preso
saldamente in mano il pasticcio di
Todi e lo ordinano diversamente. In
questo senso Todi è il fallimento di
quello che rimane dell’associazionismo variamente cattolico. Del resto
l’elaborazione piuttosto rigida della
nozione di «valori non negoziabili» è
la formula con la quale si prende
atto della secolarizzazione dello
stesso mondo cattolico e ci si riserva,
da parte ecclesiastica, il diritto d’intervenire pubblicamente sui temi che
maggiormente interessano la gerarchia e determinare, di fatto, in funzione di quella rigidità, la maggiore
o minore vicinanza di singoli e di
gruppi alle posizioni della Chiesa.
In questo senso non serve più neppure lo strumento dell’unità politica
dei cattolici. Ricomincia una storia.
Gianfranco Brunelli
1
Cf. G. BRUNELLI, «Da Berlusconi a Napolitano. La fine di un ciclo politico», in Regno-att. 20,2011,649.
2
Cf. G. BRUNELLI, «Cattolici e politica:
Todi prima e dopo», in Regno-att. 18,2011,578.
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Islam
I TA L I A
i
l dialogo continua...
Università, associazioni islamiche e Ministero
I
l progetto «Nuove presenze religiose in Italia. Un percorso di integrazione» ha visto chiudere, nel
mese di dicembre, i lavori del secondo anno di formazione rivolto
agli esponenti dell’associazionismo islamico italiano (cf. Regno-att. 22,2010,732).
Il corso all’educazione interculturale e
al pluralismo religioso organizzato dalle
cinque università italiane costituenti il
Forum internazionale Democrazia &
religioni (FIDR), con il patrocinio del
Ministero dell’interno e il sostegno della
Compagnia di San Paolo di Torino, si è
sviluppato durante l’intero arco dell’anno, in cinque weekend, nelle città di
Alessandria e Varese.
I soggetti coinvolti nella formazione
2011 sono quindi le università italiane
consorziate nel FIDR (Università dell’Insubria di Varese, Università del Piemonte orientale, Università Statale e
Università Cattolica di Milano e l’Università degli studi di Padova),1 il Dipartimento per le libertà civili del Ministero
dell’interno, e le comunità islamiche.
Nello specifico sono stati più di una
trentina i corsisti aderenti all’iniziativa,
di cui ben 15 già partecipanti nell’anno
2010 e desiderosi di proseguire ulteriormente nel percorso intrapreso. I
nuovi iscritti provengono per lo più dal
Maghreb; tuttavia si registra anche la
presenza di mediorientali, pakistani e
senegalesi. Più dell’80% risiede nel
Nord del paese, dove maggiori e ben
più stabili sono le possibilità impiegatizie; il 68% è dotato di un’istruzione
universitaria e appena la metà gode
della cittadinanza italiana. Rispetto all’anno precedente si evidenzia una
4
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maggiore partecipazione giovanile, migliore istruzione, conoscenza della lingua italiana e coinvolgimento nei tavoli
di lavoro, e – non senza il rammarico
degli organizzatori – l’assenza della
componente femminile, la quale una
volta selezionata ha abbandonato il
corso – per motivi familiari e logistici.
I corsisti sono stati scelti sulla base
della carriera associativa, nonché sul
grado di attivismo civico nella società
italiana; alcuni di essi sono impegnati
politicamente in partiti politici italiani
ed esteri. Si tratta, dunque, di persone
che hanno acquisito negli anni un ruolo
decisivo nella leadership islamica locale
o che – nel caso dei giovani – si stanno
ritagliando uno spazio che potrebbe determinare nel lungo periodo un’influenza cruciale sulla comunità di riferimento. Risultano inoltre figure
«ponte» tra le istituzioni e i musulmani
stessi; fanno riferimento a organizzazioni islamiche che estendono il loro
controllo sociale sulla umma e nello
stesso tempo dialogano con le istituzioni laiche e religiose organizzando
importanti iniziative sia a livello locale
che nazionale.
Percorso d’integrazione 2011
È guardando ai leader di oggi e intravedendo quelli di domani che il Forum
internazionale Democrazia & religioni
colloca la propria azione formativa, delineando un percorso di integrazione, che
focalizzato sui dirigenti e le guide religiose intende investire a cascata la pluralità della umma in Italia.
Nello specifico, «Nuove presenze religiose in Italia. Un percorso di inte-
grazione» ha affrontato una serie di tematiche, secondo approcci multidisciplinari (sociologico, giuridico, culturale,
pedagogico), concernenti le problematiche storico-politiche, che hanno contribuito a definire l’orientamento dello
stato italiano nei confronti del fenomeno religioso; le dinamiche sociali
connesse al pluralismo religioso; il rapporto tra religioni e democrazia e per finire le questioni giuridiche legate all’esercizio del diritto della libertà
religiosa. Declinate nei cinque finesettimana come segue:
– 25-26 giugno, «Libertà, pluralismo e intercultura»;
– 17-18 settembre, «Islam, media e
comunicazione»;
– 22-23 ottobre, «Famiglia, rapporti
di genere, seconde generazioni, counselling coppie miste»;
– 19-20 novembre, «Moschee, zakaˉ t, halaˉ l »;
– 17-18 dicembre, «Dialogo intramusulmano, interreligioso e con le istituzioni».2
Voci dai leader musulmani
e dalla Chiesa cat tolica
Come nel 2010 anche nel 2011 i lavori si sono chiusi all’insegna del dialogo
interreligioso e intramusulmano.
Nello specifico del dialogo islamo-cristiano, don Gino Battaglia, direttore dell’Ufficio nazionale ecumenismo e dialogo
interreligioso della Conferenza episcopale italiana, partendo dai documenti del
concilio Vaticano II, dove la Chiesa cattolica fonda il dialogo insegnando «a non
rigettare niente di quanto è “vero e santo”
nelle altre religioni, dato che esse “non ra-
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ramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”, ha sottolineato l’importanza di un dialogo possibile, nonostante punti di incontro e di
distacco, imparando a conoscersi e a conoscere». Ed è proprio per promuovere
una migliore conoscenza reciproca che in
molte diocesi sono sorti uffici preposti al
dialogo interreligioso e centri di documentazione che offrono materiale informativo sulle religioni, ma anche counselling per coppie miste, corsi di cultura e
lingua araba. Dei principali ricordiamo il
Centro ambrosiano di documentazione
per le religioni, diretto da don Giampiero
Alberti, e fondato dal lungimirante ex arcivescovo card. Carlo Maria Martini, che
già nel 1990 richiamava l’attenzione della
Chiesa e di Milano con il discorso Noi e
l’islam, tuttora di infinita e cruciale attualità. «Erano tempi – afferma don Alberti – in cui i preti non conoscevano
l’islam, e andavano formati e preparati.
Perché lo spirito di Dio – incalza don
Giampiero – soffia dove vuole, non solo
sui cristiani, era necessario per cui un discernimento cristiano sull’islam per conoscere i musulmani».
«Per i musulmani, invece, il dialogo
interreligioso – afferma Kamel Layachi
del Consiglio delle relazioni islamiche italiane – si fonda su una profonda conoscenza del tawhid (unicità di Dio), base
della vita del credente che guarda al pluralismo e alla diversità quale volontà dell’unico Dio che ha creato e amato tutti gli
esseri e ci chiede di amare tutti come lui
ha amato. Il Corano poi ricorda che “se
Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi
una sola comunità. Vi ha voluto però
provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad
Allah ed egli vi informerà a proposito
delle cose sulle quali siete discordi”».
Dunque chiosa Layachi: «Il musulmano
si impegna nel dialogo interreligioso, alimentato dalla fede, a partire dalla quale
comprende se stesso, il mondo e stabilisce
rette relazioni nel proprio ambiente sociale».
Spostandoci sul versante del dialogo
tra i musulmani, Alessandro Ferrari, coordinatore del progetto, spiega come
«uno dei principali obiettivi del FIDR è
stato proprio quello di offrire uno spazio
dove esponenti di associazioni con sensibilità religiose e orientamenti giuridici
differenti potessero incontrarsi e confrontarsi”. Il secondo anno di corso rileva,
Pagina 5
infatti, come il FIDR abbia colto a segno
nel suo proposito; buona parte dei corsisti del primo anno hanno avviato al di
fuori del Forum iniziative private e pubbliche ove dibattere su specifici temi.
Le testimonianze: Seck Mansour dell’Associazione Cheikh Ahmadou Bamba
di Varese afferma che le conoscenze acquisite durante il corso gli hanno permesso di promuovere incontri formativi
nei propri centri, mentre Sajad Hussain
Shah dell’Associazione Muhammadiah
di Brescia sottolinea migliorie nell’interazione con le amministrazioni pubbliche.
Nel proseguire tale percorso, i leader
nazionali presenti alla tavola rotonda sul
futuro dell’islam italiano hanno con coraggio espresso l’intento e l’esigenza di
creare un organo di coordinamento nazionale delle associazioni islamiche con rispetto alle specifiche identità. Dunque
d’intraprendere un percorso comune
mettendo da parte gli antichi antagonismi, al fine di raggiungere nel lungo periodo un mirato e coeso intervento nazionale, fino alla firma dell’intesa con lo
stato italiano.
Prospet tive future
In vista della terza edizione di «Nuove
presenze religiose in Italia. Un percorso di
integrazione», il FIDR potrebbe sostenere i buoni propositi dei partecipanti
musulmani con azioni formative, di mediazione e di tutoring che contribuiscano
difatti al processo di costituzione di una
rappresentanza «dal basso» dell’islam italiano, bilanciando per quanto possibile
l’esigenza di democraticità e rappresentatività della umma. Diversi infatti sono
già stati i tentativi di creare organismi di
rappresentanza «dall’alto»: negli anni
Novanta e dal 2005 a oggi, si sono susseguiti consigli, consulte e comitati naufragati per attriti nella prima classe dirigente
islamica oppure per poca lungimiranza e
inadempienza politica.
Il patrocinio del Ministero dell’interno
concesso al progetto pilota sull’integrazione delle comunità musulmane risulta
essere, quindi, di grande importanza per
il FIDR, pur tuttavia inscrivendosi all’interno di un quadro politico alquanto instabile. Se nel 2010 il corso ha goduto
della costante presenza di un funzionario
ministeriale, lungo tutto il 2011 la sua totale assenza è stata assordante. Appena all’incontro conclusivo ha presenziato il
prefetto di Varese, Giorgio Zanzi, por-
tando i saluti del neo ministro Cancellieri;
durante il quale ha ribadito l’interesse del
Ministero a sostenere iniziative per l’integrazione, «affinché questa risulti il più
possibile omogenea e in linea con il
paese». Un giusto riconoscimento del lavoro fin qui svolto è giunto – oltre che dai
corsisti – dal Comitato per l’islam italiano, che nel parere sugli imaˉm ha segnalato il progetto come «buona pratica
da riprodurre e ripetere in altre parti
d’Italia, in quanto capace di coinvolgere
il mondo musulmano in un percorso di
valorizzazione delle identità culturali e
religiose consentendo un’armoniosa convivenza nel rispetto di una logica pluralistica».
Per concludere, facciamo nostro il desiderio del direttore del Forum internazionale Democrazia & religioni, Roberto
Mazzola, che nel ricordare come gli
obiettivi del progetto abbiano sposato appieno le finalità del centro interdipartimentale, asserisce con vigore l’intento di
proseguire con quanto iniziato. Ovvero
«rinnovando le sinergie tra atenei italiani
e centri di ricerca stranieri, continuando
lo studio in forma interdisciplinare dei
fenomeni religiosi nelle attuali democrazie, facendo ricerca applicata utile per la
società civile, e soprattutto stringendo
sempre più proficue cooperazioni con le
istituzioni pubbliche».
Maria Bombardieri
1
I seguenti docenti costituiscono il Comitato
scientifico del progetto «Nuove presenze religiose in
Italia. Un percorso di integrazione»: Alessandro
Ferrari (coordinatore), Roberto Mazzola, Stefano
Allievi, Paolo Branca, Silvio Ferrari e Milena Santerini. Sono inoltre affiancati dai ricercatori Antonio Angelucci, Maria Bombardieri e Davide Tacchini, nella pianificazione scientifica e nella
realizzazione degli incontri.
2
Alla tavola rotonda islamo-cristiana hanno
preso parte da parte cristiana: i responsabili del dialogo cristiano-islamico diocesano (don Giampiero
Alberti – CADR di Milano, don Andrea Pacini –
Facoltà teologica di Torino) e nazionale (don Gino
Battaglia – CEI), invece da parte musulmana:
Lubna Ammoune, giovane redattrice del blog
«Yalla Italia» e l’imam Kamel Layachi del Consiglio delle relazioni islamiche italiane. Mentre all’incontro intramusulmano erano presenti i presidenti delle maggiori associazioni islamiche
nazionali: Gulshan Jivraj Antivalle – Comunità
ismailita italiana, Izzedin Elzir – Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, Bakari
Idriss – Partecipazione spiritualità musulmana,
Omar Jibril – Giovani musulmani d’Italia, Abdelaziz Khounati – Unione musulmani in Italia, Yahya Pallavicini – Comunità religiosa islamica Italiana, Abdellah Redouane – Centro islamico
culturale d’Italia – Grande moschea di Roma.
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Victor Orbán e l’Europa
UNGHERIA
a
vventura democrazia
L’ e v o l u z i o n e d e l p a e s e e d e l l a C h i e s a
dal muro di Berlino alla crisi europea
G
uardandosi attorno in
Europa, non si trova praticamente alcun paese
nel quale i media non riprendano a lettere cubitali in prima pagina parole quali crisi o
perdita di fiducia. Sarebbe un miracolo
se l’Ungheria o altre società ex comuniste facessero eccezione. Esperti, politici e
giornalisti stanno continuamente aggrappati alla corda della campana dell’opinione pubblica. Alcuni sentono suonare l’allarme della crisi, altri già i
rintocchi del funerale dell’economia,
della democrazia e dell’appartenenza all’Unione Europea. L’incessante ritornello
trasmette sempre meno informazioni,
ma riesce a rendere isterica la società. La
domanda è giustificata: come si è arrivati
a questo? Gli abitanti del paese si chiedono con sempre maggiore impazienza
quanto ancora durerà.
A 20 anni dalla svolta
Circa 20 anni fa, quando l’onnipotente Unione Sovietica perse la battaglia, sul piano della concorrenza economica e dell’armamento militare, con gli
Stati Uniti, i cosiddetti paesi satelliti ottennero la libertà politica per incamminarsi verso la democrazia e la possibilità
di passare dall’economia pianificata all’economia di mercato. Allora l’Ungheria
era considerata, già da un decennio, la felice baracca del blocco orientale, un arcipelago gulasch. Solo in pochi paesi del
blocco orientale gli abitanti hanno dovuto pagare con il loro sangue l’avvento
del nuovo sistema: in Romania e in seguito nelle guerre iugoslave.
Le speranze erano molto alte e – oggi
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appare chiaramente – l’ingenuità ancora
maggiore. Il valore della libertà è caduto
sotto la spada dei problemi economici e
sociali. Le drastiche costrizioni al cambiamento hanno colpito duramente la
società inesperta e impreparata all’economia di mercato; il divario sociale è aumentato. Al breve periodo dell’euforia è
subentrato il lungo periodo della delusione. A un libro che ho scritto insieme a
Pavel Mikluščák sulle sfide pastorali nell’Europa centro-orientale ho dato il titolo
Non come latte e miele.1 All’inizio molti
pensarono che la peregrinazione della
società nel deserto fosse finita con la
svolta attorno al 1990, ma in seguito ci si
è resi sempre più conto che essa era appena all’inizio.
Riguardo all’Europa orientale si ricorda come principale cesura la caduta
del muro di Berlino il 9 novembre 1989.
Un dato molto concreto, molto evidente.
Io stesso conservo nello scaffale sopra la
mia scrivania un frammento del muro
come reliquia. In altri paesi della regione,
specialmente in Ungheria, non esistono
alcuna data e simbolo della svolta riconosciuti da tutti. Ha avuto una risonanza
mondiale il gesto compiuto, alcuni mesi
prima della caduta del muro, già il 27
giugno 1989, dall’allora ministro degli
esteri austriaco Alois Mock e dal suo
omologo ungherese Gyula Horn, i quali
hanno simbolicamente attraversato insieme il segnale di confine, cioè la Cortina di ferro che dopo la Seconda guerra
mondiale aveva diviso in due l’Europa. A
livello nazionale, gli ungheresi considerano importante come momento di
svolta la nuova tumulazione simbolica di
Imre Nagy (16.6.1989), il martire della ri-
voluzione del 1956, in occasione della
quale proprio l’attuale primo ministro
Viktor Orbán tenne il discorso più infuocato. Questi simboli quasi incomprensibili della svolta, del passaggio, indicano già di per sé che la svolta deve
essere continuamente realizzata e molti si
chiedono se qualcuno non l’abbia loro
rubata.
Evoluzione o involuzione
democratica?
Oggi parecchi osservatori occidentali – ma che cosa significa «occidentale» a vent’anni di distanza dalla caduta del muro? – segnalano la crisi della
democrazia, ma occorre fare una distinzione fra le istituzioni democratiche
e la cultura democratica. In tutti gli stati
dell’Europa centrale le istituzioni della
democrazia sono presenti e piuttosto
stabili. Stanno in piedi le colonne capitali della democrazia: multipartitismo,
elezioni parlamentari libere e controllate, magistratura indipendente, corte
costituzionale, libertà di stampa. Ma la
relazione del potere con queste istituzioni e l’accettazione delle decisioni da
parte della società corrispondono sempre più alla disparità della cultura politica nelle società, con brevi interruzioni
totalitarie. Le società post-totalitarie
hanno assolto i loro compiti democratici
per quanto riguarda le istituzioni, ma riguardo alla cultura sembrano a volte
oscillare fra sufficiente e insufficiente.
Su questo punto occorre uno sviluppo,
all’ombra di una crisi economica mondiale.
La coalizione di governo ungherese,
guidata dal primo ministro Viktor Or-
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bán, si trova a livello nazionale e internazionale sotto l’appassionato fuoco incrociato della critica. I brutali e non infrequenti epiteti con cui viene
apostrofato il presidente – spaziano da
idiota a fascista – sono termini di battaglia sommari che nascondono più che
svelare la reale situazione del paese. Secondo le sue costanti e coerenti affermazioni, il premier è un inequivocabile
sostenitore dell’Unione Europea e un
volenteroso partner di dialogo e discussione di tutte le sue istituzioni economiche, giuridiche e politiche. D’altra parte
è un appassionato sostenitore degli interessi nazionali e della sovranità statale dei magiari.
Con la sua politica cerca di bilanciare gli interessi dell’Unione Europea e
dell’Ungheria e parallelamente di stabilire un’assoluta cesura rispetto alle ombre del comunismo. Con una maggioranza di due terzi nel Parlamento
ungherese, sente di aver ricevuto dal suo
paese il compito di cancellare «finalmente» i compromessi con il passato
comunista e di fondare la nuova Ungheria. Vuole realizzare in fretta il suo
impegnativo programma, come chi sa di
aver ricevuto dalla storia un’opportunità unica e di avere poco tempo per coglierla. Il presidente ha subordinato
tutto a quest’obiettivo e a questa rapidità e ora ne sconta le conseguenze. Chi
semina vento raccoglie tempesta, e Orbán ha ammassato un ricco raccolto.
In base agli attuali punti nodali della
critica nazionale e internazionale, Orbán avrebbe imposto attraverso il Parlamento una Costituzione e molte altre
leggi che riguardano anche le garanzie
istituzionali della democrazia. Si sottolinea, con grande preoccupazione, che
sarebbe stata soppressa l’indipendenza
della magistratura e della Banca centrale e non sarebbe stata rispettata la
regola dell’Unione Europea in materia
di deficit di bilancio. Negli ultimi giorni
il governo ha lanciato chiari segnali di
una ripresa dei negoziati con il Fondo
monetario internazionale senza se e
senza ma, e di una disponibilità del governo a valutare attentamente tutte le
critiche giustificate riguardo alle leggi
incriminate e anche a procedere alle necessarie correzioni.
La comune crisi finanziaria e i traballanti confini della capacità funzionale dell’Unione Europea nel suo com-
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plesso sono le cornici esterne del progetto della fondazione dell’Ungheria
perseguito da Orbán. Nella politica interna, i ceppi ai piedi con i quali deve
camminare sono costituiti da una totale
perdita di fiducia. Non solo la critica
distruttiva dell’opposizione, non solo i
sentimenti di disperazione della popolazione, ma l’afflosciamento della fiducia all’interno della coalizione e del suo
stesso partito abbreviano il ballo sulle
punte di Orbán. Con la maggioranza di
due terzi, la coalizione Fidesz-Partito
popolare cristiano-democratico ha formalmente possibilità quasi illimitate di
varare leggi. Ma la preparazione e l’attuazione di leggi prodotte a ritmo di catena di montaggio deve/dovrebbe essere
assicurata da persone professionalmente
competenti e ancor più da un apparato
statale assolutamente leale. Le necessità di render conto della politica del governo ha lentamente subordinato la
competenza alla lealtà. In tutti gli angoli della società si diffonde sempre più
l’impressione che a comandare siano
soprattutto burocrati meschini e mediocri. Questo tipo di politica personale ricorda i tempi del comunismo,
quando il libro del Partito comunista
contava più di tutti i diplomi e di tutte
le competenze specifiche. Il risultato è
una politica economica discutibile, leggi
inconsistenti, odio e agitazione disseminati ovunque.
Strascichi della storia
L’intera regione, che io amo definire
«regione delle società in transizione», sviluppa attivamente relazioni economiche
e politiche vitali. In questo gioca un ruolo
importante, accanto ai fattori già ricordati, l’intreccio con il nazionalismo, che
ricorda in parte il tempo dello sviluppo
degli stati nazionali europei nel XIX secolo.
Nella regione vi sono degli stati che
hanno conseguito la loro sovranità solo
nel XX secolo grazie alla benevolenza
delle grandi potenze di riferimento, come
la maggior parte degli stati dei Balcani o
la Slovacchia. E ve ne sono altri che sono
stati per secoli regni indipendenti, come
la Polonia e l’Ungheria. L’azione del nazionalismo in queste società ha un elevato
parallelismo con la lunghezza del periodo storico dell’indipendenza. Dove
questo è più breve, lo stato nazionale basato per lo più sulle etnie ha bisogno di
assicurare e sottolineare maggiormente la
pratica e la cultura dell’indipendenza con
mezzi politici.
Come affermava già István Bibó nei
suoi studi, questa regione è tormentata
dalla situazione precaria dei piccoli stati
dell’Europa orientale. Le tensioni fra le
etnie e la logica nazionalistica dell’esercizio della politica non offrono solo la
maggior parte della polvere da sparo ai
conflitti, ma anche l’opportunità di un
rafforzamento della coesione sociale. Di
questo avevano bisogno le succitate società dopo la svolta e hanno ancor più bisogno nell’attuale crisi economica. Ciò
che risuona da parte dell’Ungheria come
una forte accentuazione dell’autonomia
nazionale nelle discussioni con l’Unione
Europea esprime chiaramente l’opinione
della maggioranza delle società della regione, solo in una forma essenzialmente
più moderata di quanto si può ascoltare
dalla bocca di altri politici della regione.
Chiesa in transizione
La domanda alla quale devono rispondere i cattolici in tutti i paesi dell’Europa centro-orientale, ma certamente
anche in tutto il mondo, è questa: quali
sono i valori fondamentali che Dio
chiede loro di testimoniare in modo credibile? Qui non penso a profonde teorie
a livello di dogmatica o etica sociale, che
sono certamente importanti, ma nelle
quali ci si sente spesso come persi in una
giungla. Penso agli imperativi più semplici, basati sulla fede cristiana, che oggi
in questa regione presentano una particolare validità. Penso ai valori cattolici
fondamentali, comuni a tutti, non all’interesse particolare della Chiesa cattolica.
Per noi, nella ricerca e nelle lunghe
discussioni notturne, sono particolarmente importanti tre di questi valori fondamentali, sui quali vorrei soffermarmi
brevemente: ricordare, credere, imparare.
Ricordare. Le società dell’Europa centro-orientale, e in esse anche le grandi
Chiese cristiane, hanno conseguito solo
negli ultimi vent’anni la libertà di elaborare il loro passato. Le discussioni pubbliche al riguardo dominano in parte l’intera politica ufficiale. Ma ricordare non
significa mai rappresentarsi esclusivamente il passato, bensì sempre anche costruire il futuro. Nessun ricordo è neutrale, e neppure mai libero da interessi.
Le analisi dei discorsi pubblici mostrano
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chiaramente che anche le Chiese e i cristiani usano il passato per riposizionare le
stesse Chiese e altre comunità religiose.
Questo fenomeno appartiene alla
normalità dell’elaborazione pubblica del
passato, ma non dispensa i credenti e i
rappresentanti delle comunità religiose
dal dovere religioso dell’autocritica, compresa la confessione dei peccati. Soprattutto il leitmotiv «vittime» richiede una
profonda e decisiva nuova ermeneutica.
Nell’opinione pubblica le istituzioni religiose chiedono diritti e privilegi speciali,
richiamandosi per lo più al fatto di essere
state perseguitate più di tutte le altre durante la dittatura comunista. In una discussione, alla domanda se i vescovi in
Ungheria dovessero imitare il papa Giovanni Paolo II nella sua confessione di
colpa nella Pasqua del 2000, un vescovo
ungherese rispose: no, noi siamo stati le
vittime del regime, a noi deve essere chiesto anzitutto perdono. Al contrario i vescovi cechi, in una lettera, hanno chiesto
perdono per non essere stati sempre abbastanza coraggiosi a schierarsi dalla
parte dei loro fedeli durante la persecuzione della Chiesa.
Oggi un’elaborazione critica del passato della Chiesa è importante per l’onestà e credibilità della sua presenza. Se la
Chiesa chiede giustamente una purificazione della società, lo può fare in modo
credibile solo dopo aver riconosciuto
pubblicamente le sue decisioni sbagliate
e la sua corruzione. Se le Chiese chiedono a ragione una maggiore giustizia
nella società, devono anche domandarsi
come si comportano in materia di etica
sociale, di morale del lavoro, di diritti dei
dipendenti o delle donne al loro interno.
Se la Chiesa proclama giustamente
l’amore, fino all’amore dei nemici, a partire dal Vangelo, deve anche chiedersi se
essa non corrompa l’olio della guarigione
con le lotte gladiatorie delle nazioni.
Usare misericordia. È sempre difficile
porre le dure domande dell’autocritica
cristiana ed ecclesiale. Le esperienze della
persecuzione religiosa sotto i regimi totalitari hanno insegnato ai cristiani che la
confessione delle debolezze avvantaggia
i nemici della Chiesa, per cui hanno evitato l’autocritica con il pretesto dell’unità
della Chiesa e con il rinvio all’amore per
la Chiesa nostra madre. Ma senza riconoscere pubblicamente i propri problemi
non si ottiene misericordia; si impedisce
persino a Dio di mostrare la forza della
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sua misericordia. L’autocritica della
Chiesa, proprio riguardo alla società moderna e in caso estremo riguardo all’ateismo, è stata un leitmotiv della Gaudium et spes. La Chiesa cattolica ha
annullato la sua critica accusatoria unilaterale della modernità con l’affermazione dei diritti umani, della libertà religiosa e così via, e ha riconosciuto,
facendo autocritica, che persino l’ateismo può essere considerato una critica
giustificata di una falsa predicazione e
pratica della Chiesa.
Imparare. Le Chiese sanno di dover
proclamare la verità rivelata da Dio, per
cui si considerano istituzioni magisteriali.
Soprattutto in un tempo nel quale i canali dell’opinione pubblica sono diventati
accessibili anche alle Chiese, esse hanno
preso sul serio il compito dell’insegnamento e hanno investito molte energie
per far giungere l’insegnamento a tutte le
generazioni e fin negli angoli più remoti
della società. Al riguardo, la loro domanda principale è stata come riuscirvi e
quali mezzi, tempi di trasmissione, leggi
e così via occorrevano. In tutte le società
post-totalitarie i mezzi sono più o meno
assicurati da circa un decennio. Molti di
coloro che sono impegnati nella proclamazione del Vangelo constatano sempre
più spesso che bisogna porsi una domanda più radicale sui contenuti dell’insegnamento. Scoprono che le reazioni
spesso negative dei destinatari del messaggio della Chiesa non sono dovute al
loro cuore di pietra, ma probabilmente al
fatto che la Chiesa proclama la parola del
passato o, secondo l’espressione che un
poeta della Romania mette in bocca a un
profeta di oggi, «la parola, sì ho dimenticato la parola».
Secondo molti ricercatori della regione, la Chiesa cattolica in questi paesi
avrebbe dei problemi con la recezione del
concilio Vaticano II. La recezione è già di
per sé una questione piuttosto complicata; è oggetto di molte discussioni teoriche, e del resto la recezione del Concilio
non è ancora terminata, come dimostra
fra l’altro la nuova serie di commentari
dei documenti conciliari (a cura di Peter
Hünermann e altri). Ma io non vedo più
il problema in primo luogo nel modo in
cui le singole affermazioni conciliari sono
state ricevute nella Chiesa della nostra regione e introdotte nella riflessione e nella
pratica locale. Forse la domanda fondamentale posta a queste Chiese è piuttosto
questa: con quale atteggiamento teologico e spirituale la Chiesa si pone in dialogo con la cultura e la politica contemporanea? Dal Concilio la Chiesa ha
imparato molto, si è lasciata provocare
dall’epoca moderna, ha approfondito la
tradizione cattolica e ha prodotto nuove
risposte e un nuovo atteggiamento. Anche nella nostra regione la Chiesa è provocata, è chiamata e stimolata, ad abbandonare i comportamenti del passato,
a riscoprire qui e ora la sua propria tradizione. La Chiesa docente diventa credibile se è credibile anche come discente.
Visione e previsione
Considerando l’attuale cammino
delle società nell’Europa centro-orientale come passaggio, molti possono vedere chiaramente il punto dal quale si è
partiti: comunismo, dittatura, persecuzione della religione e della Chiesa. Ma
la questione della meta, del «verso dove»
continua a porsi. La risposta non può
fermarsi a un «mai più dittatura», ma
deve essere formulata anche in forma
positiva: democrazia, diritti umani, tolleranza religiosa. Le pietre angolari europee del futuro sono messe in discussione in questi paesi, e soprattutto in
Ungheria, al massimo da gruppi radicali di destra e di sinistra. La grande
maggioranza della popolazione e le forze
politiche decisive accettano e rappresentano concordemente i valori fondamentali europei. Anche le discussioni profonde in Ungheria, e in Europa
sull’Ungheria, indicano l’esistenza di
questa comune base valoriale. Le ingenuità dei primi anni dopo la svolta sono
da tempo superate. Una seconda ingenuità – quella secondo cui la democrazia
significa anche mancanza di discussione
e secondo cui oggi nel mondo globalizzato si dovrebbe perseguire una totale
indipendenza statale – può dimostrarsi
dannosa e deve essere demistificata dall’intellighenzia politica ed ecclesiale, in
armonia con il coro europeo.
András Máté-Tóth*
* Titolare della cattedra di Scienza della religione presso l’Università di Szeged (Seghedino).
1
A. MÁTÉ-TÓTH, P. MIKLUŠČÁK, Nije kao
med i mlijeko. Bog nakon komunizma, Kriscanska
sadasnjost, Zagreb 2001; ed. tedesca Nicht wie
Milch und Honig. Unterwegs zu einer Pastoraltheologie der postkommunistischer Ländern Ost(Mittel)Europas, Schwabenverlag, Ostfildern 2000.
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CHIESA
IN
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Indagine CRISP
BELGIO
i
nterpretare le trasformazioni
B
ruxelles, ora di religione: la
maggioranza sceglie il corso
di islam». Così titolavano i
giornali lo scorso 20 gennaio
riportando i risultati di un’indagine del Centre de recherche et d’information socio-politiques (CRISP), secondo il quale nelle scuole della città che è sede delle istituzioni europee
«l’insegnamento della religione musulmana ha superato per numero di studenti quello della religione cattolica», essendo quest’ultima «insidiata» anche
dalla possibile scelta di «corsi di morale
laica» offerti nelle scuole superiori.
Il dato richiede di essere letto nel con-
La chiesa di Sainte-Catherine a Bruxelles.
Da una pratica religiosa strutturata
a una più disseminata
testo. La regione di Bruxelles-Capitale –
una delle tre regioni autonome del paese
insieme a quella fiamminga (Fiandra) e a
quella vallona (Vallonia) – è quella dove
gli effetti incrociati della secolarizzazione
e dell’immigrazione straniera, in particolare di religione musulmana, fanno sentire maggiormente il loro peso. Col suo
milione di abitanti, l’area di Bruxelles è
oggi tra le regioni europee più cosmopolite e multietniche. La stessa indagine rivela, infatti, che nel resto del paese le proporzioni si ribaltano: nella Fiandra sono
ancora più dell’80% i liceali che scelgono
i corsi di religione cattolica (contro meno
del 4% per la religione islamica), mentre
nella Vallonia francofona sono ancora
più del 50% (contro l’8% per i corsi di religione islamica), ma qui sale sensibilmente la percentuale di coloro che si avvalgono in alternativa dei «corsi di morale
laica» (64%).
Il paese rimane dunque legato alla
sua tradizione cattolica. Ma i segnali di
una crisi profonda ci sono tutti. Secolarizzazione, calo vertiginoso della pratica
religiosa e delle vocazioni sacerdotali,
flussi migratori che accrescono comunità
di altre confessioni e mutano il contesto
socio-religioso. Ma anche il grave scandalo delle violenze sessuali e le polemiche
seguite alle ultime nomine episcopali,
eventi che hanno suscitato anche in Belgio – dopo altri paesi europei – un movimento di protesta da parte del clero e dei
fedeli per domandare riforme ritenute
«urgenti e necessarie». Tanti segni di una
Chiesa in sofferenza, che da alcuni anni
ormai sta attraversando una crisi preoccupante e di difficile lettura.
La cronaca recente ne offre testimonianza. A fine dicembre suscita un certo
clamore l’annuncio (in realtà risalente a
metà agosto) che la chiesa di Sainte-Catherine, spazio di preghiera condiviso da
cattolici e ortodossi nel cuore della capitale belga, verrà sconsacrata e forse «convertita» – mantenendo la struttura attuale
– in un mercato coperto: sovradimensionata e con «costi di gestione e mantenimento troppo elevati», dice l’autorità
cittadina che ne è proprietaria. La stessa
sorte potrebbe toccare presto ad altre
chiese della capitale e dintorni, a motivo
del calo impressionante di fedeli degli ultimi anni. Una conferma è venuta dall’accordo con il quale – a metà gennaio –
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Mons. André Léonard.
l’arcivescovo di Malines-Bruxelles, André-Joseph Léonard, ha concesso che
parte della chiesa di Saint-Hubert a Watermael-Boitsfort sia sconsacrata e trasformata in un lotto di abitazioni
(www.dhnet.be, 19.1.2012).
Una Chiesa nella tormenta
«L’anno 2010 resterà per la Chiesa in
Belgio un annus horribilis». Si apre così
un’altra recente indagine del CRISP dedicata al funzionamento della Chiesa cattolica in Belgio «in un contesto di crisi».1
La ricerca ricostruisce anzitutto le vicende che hanno scatenato la «tormenta»
nella quale la comunità ecclesiale si trova
attualmente, individuando nel corso del
2010 due eventi chiave: la nomina di
mons. Léonard come successore del card.
Godfried Danneels per la sede di Malines-Bruxelles, a gennaio, e la successiva
esplosione, nel mese di aprile, del «più
grande scandalo cui abbia mai dovuto
far fronte la Chiesa del Belgio»: le dimissioni del vescovo di Bruges, Roger Van-
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gheluwe, per il suo coinvolgimento in una
vicenda di pedofilia cui è seguita – nei
mesi successivi – la scoperta dolorosa e
sconcertante di una lunga serie di casi di
violenza sessuale commessi da sacerdoti e
religiosi nel corso di diversi decenni (cf.
qui a p. 15).
La nomina di mons. Léonard a successore di Danneels suscita reazioni contrastanti (cf. Regno-att. 4,2010,85). Egli,
infatti, era già noto per le sue prese di posizione pubbliche piuttosto intransigenti
in materia di bioetica, aborto, eutanasia
e omosessualità, nonché per le sue scelte
in ambito formativo e pastorale.
Il nuovo arcivescovo, appena insediato, inizia una sistematica visita pastorale ai decanati della sua diocesi, senza
però manifestare propositi di riorganizzazione della struttura esistente. Le sue
posizioni dottrinali, in parte pubblicamente riconfermate, suscitano interrogativi in particolare all’Università cattolica
di Lovanio, di cui l’arcivescovo di Malines-Bruxelles è gran cancelliere e con la
quale l’allora vescovo di Namur si era
scontrato, nel 2002, su questioni di bioetica: «Léonard adotterà o meno la posizione del suo predecessore» che aveva
scelto «una linea di dialogo piuttosto che
una posizione autoritaria nei confronti
delle università?».
Pochi mesi dopo il suo insediamento
esplode pubblicamente in Belgio lo scandalo delle violenze sessuali commesse da
chierici al quale si aggiunge – in seguito
alle clamorose perquisizioni all’arcivescovado di Malines-Bruxelles e all’abitazione del card. Danneels del giugno 2010
(cf. Regno-att. 14,2010,437ss) – uno scontro istituzionale tuttora in corso tra la
Chiesa e la magistratura, che mina il
«compromesso belga» tra Chiesa e stato.
Infatti, nonostante la Corte d’appello di
Bruxelles abbia dichiarato «illegali» le
stesse perquisizioni (29.11.2011), il 17
gennaio scorso il portavoce della Conferenza episcopale, p. Tommy Scholtes, ha
confermato che le autorità giudiziarie
hanno effettuato nuove perquisizioni negli uffici delle diocesi di Malines-Bruxelles, di Anversa e Hasselt, e negli uffici
della diocesi di Bruges, quella nella quale
è esploso lo scandalo pedofilia.
Un occhio alle statistiche
L’indagine del CRISP traccia poi un
quadro sociologico della pratica religiosa
in Belgio, il cui continuo declino indica
«la fine di una religione di “massa” alla
quale si apparteneva per eredità familiare e della quale si osservavano i precetti
come si rispetta una norma sociale». Esiste ormai una generazione di cattolici per
cui le forme di appartenenza tradizionali
sono integrate, o addirittura sostituite da
altre forme di coinvolgimento, come
quelle offerte da gruppi e movimenti, vecchi e nuovi, riconosciuti o meno dalla
Chiesa, che sono espressione di sensibilità
religiose anche molto diverse.
Nel quadro tracciato si vede come il
declino della pratica religiosa inizi a essere
rilevante dopo gli anni Sessanta e subisca
un’accelerazione durante i trent’anni dell’episcopato di Danneels a Malines-Bruxelles. L’indagine mette a confronto i dati
relativi a frequenza alla messa, battesimi,
matrimoni e funerali rilevati dal servizio
statistico della Conferenza episcopale
(1977 e 1996) e dall’Università cattolica di
Lovanio (2007 e 2009).
Confrontando i differenziali del periodo 1977-1996 con quelli del 20072009 è chiara l’accelerazione di cui si è
detto. Se tra il 1977 e il 1996 la percentuale dei battezzati era scesa da 85,2% a
68,1% (20% in meno su 20 anni), il 54%
di battesimi del 2009 indica un ulteriore
calo del 15%, ma stavolta in soli 11 anni.
I matrimoni civili seguiti da quello religioso erano 3 su 4 nel 1977, 1 su 2 nel
1996, e 1 su 4 nel 2007. Il numero di funerali è il dato che in trent’anni ha resistito meglio; ma è anche quello che negli
ultimi 11 anni ha conosciuto il calo più vistoso, segnando una diminuzione superiore al 20%.
La pratica domenicale ha registrato
un crollo difficile da spiegare e ben più
preoccupante di quello legato a battesimi, matrimoni e funerali: dal 30% del
1977 al 13% del 1996 (meno 55% in 20
anni), fino al 5% registrato nel 2009
(meno 62% in 11 anni). La distribuzione
del dato per regioni mostra ovviamente
delle differenze notevoli. Occorre ricordare che la pratica religiosa è stimata in
rapporto alla popolazione totale, per cui
sono cause di riduzione del dato sia la
maggior secolarizzazione sia il tasso di
immigrazione di una determinata area.
Quanto alla dichiarazione di appartenenza, un sondaggio del 2000 – commissionato dalla Fondation Roi Baudouin
– conferma che la Fiandra rimane la regione più cattolica del paese (60%), mentre Bruxelles-Capitale è quella dove tale
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identificazione è minore (46%). Nella
stessa regione si registra però inaspettatamente anche il minor numero di coloro
che si dichiarano «non religiosi», a conferma del fatto che il calo della pratica religiosa nella capitale è piuttosto legato
alla presenza crescente di persone di confessione diversa (entrambe le comunità
protestante e musulmana superano già
l’8% della popolazione).
Negli ultimi trent’anni la società belga
ha senz’altro conosciuto un processo di
rapida secolarizzazione. I riflessi di questo processo si colgono nel calo della pratica religiosa, ma anche in una «deconfessionalizzazione» della vita politica dai
due risvolti: da un lato, il progressivo abbandono del riferimento al cattolicesimo
di partiti tradizionalmente cattolici; dall’altro, l’esaurirsi dell’anticlericalismo di
partiti socialisti e liberali. Questo ha permesso l’adozione di disposizioni legislative
tendenti ad «adattare le norme sociali
alla modernità», in un progressivo allontanamento dal riferimento alla morale
cattolica.
La prima significativa svolta si registra
nel 1990, quando viene votata – nonostante la presenza nel governo di partiti
cattolici e l’opposizione del re Baldovino
– la depenalizzazione parziale dell’aborto.
Altri provvedimenti legislativi, relativi in
particolare all’eutanasia e all’apertura
prima al matrimonio e poi all’adozione
per coppie omosessuali, approvati in particolare dai governi guidati da Guy Verhofstadt tra il 1999 e il 2007, hanno confermato in seguito che l’influenza e il peso
condizionante della Chiesa cattolica nella
società e nella politica belga è andato
progressivamente riducendosi.
Come si finanzia la Chiesa?
La ricerca si occupa anche del finanziamento di una Chiesa la cui struttura, nonostante la contrazione numerica di fedeli e sacerdoti degli ultimi
decenni, è rimasta pressoché invariata
nella sua onerosa complessità.
Il finanziamento del culto cattolico
avviene nel quadro di un «regime
ibrido», non essendovi in Belgio né un
Concordato tra Chiesa e stato né un regime di separazione formale, ma un sistema «d’indipendenza reciproca, moderato dall’esistenza di un finanziamento
pubblico».
È riservato ai ministri dei «culti riconosciuti», concetto che fa riferimento
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Card. Godfried Danneels.
alle forme di culto per cui esistono delle
disposizioni legali. Sono 6 quelli finora
«riconosciuti»: cattolico, protestante, anglicano, ebraico, musulmano e ortodosso. Il sistema è stato recentemente
esteso a organizzazioni filosofiche non
confessionali (si deve quindi più propriamente parlare di un finanziamento
pubblico del culto e della «laicità organizzata»).
Alla sua costituzione, lo stato belga
ha rinunciato a ogni diritto sull’organizzazione interna della Chiesa, sebbene
tale organizzazione abbia delle ricadute
sul diritto civile. Le circoscrizioni ecclesiastiche, infatti, sono tuttora oggetto di
una ratifica amministrativa e alla nomina di un ministro di culto corrisponde
un atto di presa in carico da parte dello
stato.
Ogni parrocchia «riconosciuta» è
amministrata da un ente pubblico, la
«Fabbrica della chiesa», il cui controllo e
finanziamento è di competenza dell’amministrazione pubblica, la quale sot-
topone i conti e i budget all’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Dal luglio 2001, l’organizzazione, la tutela e il
finanziamento delle «fabbriche delle
chiese» (o di entità analoghe per gli altri
culti) avviene a livello regionale.
La ripartizione delle competenze è
così fotografata: all’autorità federale
compete la definizione del «quadro del
personale», il cui trattamento economico
e pensionistico è a carico del Tesoro, così come la determinazione dell’importo
delle retribuzioni e il pagamento delle
stesse. Alle entità federate (le tre regioni
e la comunità germanofona) compete il
riconoscimento delle parrocchie; la legislazione concernente l’organizzazione
delle «fabbriche»; il finanziamento e il
controllo di queste ultime. Anche la
competenza sul patrimonio e i monumenti pubblici collegati ai luoghi di culto
è regionale.
Il finanziamento pubblico della
Chiesa cattolica avviene dunque su tre livelli: la presa in carico delle retribuzioni
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e delle pensioni dei ministri del culto da
parte dell’autorità federale; gli interventi
del potere regionale per l’organizzazione
e il finanziamento delle «fabbriche delle
chiese»; altre forme di finanziamento
(come quelle dei cappellani dell’esercito,
degli ospedali e delle carceri).
La Chiesa cattolica dispone del finanziamento pubblico per 6.938 ministri. Tuttavia, la crisi delle vocazioni determina un utilizzo sempre più ridotto di
tale risorsa: nel 2009, i ministri di culto
cattolici sovvenzionati erano soltanto
2.776. I sacerdoti sono inoltre sempre
più vecchi: quasi il 60% supera i 55 anni
(con un 10% già oltre i 75). Per far fronte
a tale situazione sono state decise alcune
misure: un aumento del salario (del 50%)
ai sacerdoti che hanno in carico più di
una parrocchia; l’ingresso di sacerdoti
stranieri nel personale finanziato dallo
stato (già il 12% del totale) e la possibilità di assegnare un compenso a collaboratori parrocchiali laici (già 340 quelli
nominati, soprattutto donne).
Nel 2008, alla Chiesa cattolica è andato il 77% dell’ammontare complessivo per il finanziamento pubblico del
culto. Nel 1996 lo stesso dato era ancora
superiore al 92%.
Una società
«sovra-istituzionalizzata»
Non si può che rimanere colpiti, secondo i ricercatori del CRISP, dal contrasto evidente tra l’abbondanza e la
permanenza delle strutture diocesane e
interdiocesane e la drastica diminuzione
della frequenza domenicale e del numero delle vocazioni. «Si può dunque
parlare di “sovra-istituzionalizzazione”
di una società che, a ben vedere, è relativamente semplice, non avendo al suo
interno che due livelli di potere: quello
del papa e quello dei vescovi».
Gli annuari diocesani impressionano
per il numero di servizi, commissioni,
gruppi di lavoro che assistono il vescovo
nei diversi aspetti della sua funzione di
governo della Chiesa. A livello interdiocesano, l’esistenza di due grandi gruppi
linguistici genera un sistematico raddoppiamento di queste strutture.
Se, da un lato, la «pletora istituzionale» contrasta con l’invecchiamento e la
diminuzione della popolazione a cui si rivolge, dall’altro essa sembra in difficoltà
di fronte al moltiplicarsi delle nuove
forme di associazionismo di ispirazione
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cristiana, ma senza più una chiara o diretta dipendenza dalla Chiesa istituzione. Il quadro istituzionale della
Chiesa belga è giudicato «anacronistico»
rispetto all’umanità a cui si rivolge – risalendo la sua definizione a un tempo in
cui la Chiesa era e si pensava in espansione – e al contempo «inadatto alle trasformazioni» che hanno interessato le
forme del credere nella società.
Il declino della pratica religiosa insieme al calo delle vocazioni sacerdotali
e religiose è interpretato dai ricercatori
del CRISP come il segno della «fine di
una forma di “cattolicesimo sociologico”», che segnava profondamente le
condizioni spazio-temporali della vita
sociale. La fitta rete territoriale delle parrocchie permetteva infatti di seguire ogni
persona in tutti i passaggi significativi
della sua vita, dalla nascita alla morte.
Le risposte a questa situazione di crisi
evidenziano una sfaldatura profonda,
ma poco visibile, all’interno della Chiesa
tra due grandi tendenze, esse stesse declinate secondo molte varianti. Una
prima, che cerca di «ridefinire il posto
della Chiesa nella società accompagnando la modernità e la secolarizzazione in modo positivo, benché critico».
Tale corrente fa riferimento alle opzioni
del Vaticano II e presta un ascolto positivo all’evoluzione del mondo contemporaneo. Prende atto dello statuto di minorità della Chiesa in un contesto di
crescente indifferenza religiosa. È sostenuta da una parte del clero autoctono,
quella tendenzialmente più anziana, e
valorizza fortemente il ruolo dei laici
preparandosi così a far fronte alla rapida diminuzione dei preti.
Una seconda tendenza «rifiuta la
modernità e spera in una riconquista da
parte della Chiesa della sua influenza
del passato sulla società». Appare più
giovane, ma «mostra anch’essa segni di
difficoltà». Ospita correnti che inseguono «un ripiegamento identitario su
valori pre-conciliari e continuano a sacralizzare il ruolo dei sacerdoti. È sostenuta dalle autorità romane, da una parte
del clero autoctono e dal clero straniero,
in particolare polacco e africano». Considera il Belgio una terra di missione,
compromessa dalla secolarizzazione, e
«sogna una restaurazione della Chiesa su
basi non contaminate». Le cosiddette
«nuove comunità» vi sono naturalmente
prossime. Viene segnalato, inoltre, che
«certe componenti, come l’Opus Dei,
potrebbero approfittare dell’attuale disseminazione del quadro per occupare
posizioni d’influenza e visibilità».
Rispetto a queste due tendenze, le
autorità ecclesiastiche del paese hanno finora mantenuto una «posizione centrista», ma la nomina a Bruxelles di mons.
Léonard potrebbe spostare qualche
equilibrio.
Una coraggiosa fedeltà
La pratica religiosa, per rarefatta che
sia, «resta, senza eccezioni, disseminata
in una moltitudine di luoghi di culto».
Tale disseminazione ha per effetto il fatto
che «le due tendenze sopra descritte
s’ignorano largamente, perché non coabitano, ma occupano in qualche modo
dei territori differenti». Sarà ancora possibile gestire questa disseminazione di
fronte alla contrazione delle forze a cui
si va incontro? L’incomunicabilità delle
«due anime» descritte non rischia di
ostacolare lo sviluppo locale delle previste «unità pastorali»? Quali riforme sono
necessarie e quali praticabili per ridare
forza all’annuncio del Vangelo?
Diverse domande animano la riflessione di una Chiesa che, sotto la pressione incrociata degli avvenimenti recenti e di un crescente movimento di
protesta interna, cerca di interpretare le
trasformazioni e di valorizzare i segni di
vitalità che, pur nella loro attuale disseminazione, non mancano. Si tratterà anzitutto di recuperare quella «preoccupazione per la partecipazione» a tutti i
livelli – dei laici in particolare – che ha
animato gli anni del postconcilio e che
oggi, di fronte alla contrazione numerica, appare inceppata ma inevitabile.
Se la storia può venire in aiuto alla
Chiesa anche attraverso le sue epoche di
secolarizzazione, permettendole di ritrovare nella purificazione e nella riforma un nuovo punto di partenza, allora il presente esige dalla Chiesa in
Belgio una disponibilità profonda a capire il suo tempo, a riconoscere le nuove
risorse e a impegnarsi con tutte le forze
a una rinnovata, coraggiosa e creativa fedeltà.
Marco Bernardoni
1
É. ARCQ , C. SÄGESSER, Le fonctionnement
de l’Église catholique dans un contexte de crise, numero monografico di Courrier hebdomadaire, n.
2112-2113, CRISP, Bruxelles 2011.
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Violenze su minori
BENELUX
r
ipartire dai frammenti
P
iù che per i numeri,
l’emergere delle violenze
sessuali su minori in contesti pastorali nei paesi del
Benelux ha messo in luce alcuni tratti
specifici: la frammentazione della
Chiesa olandese; la crisi della cattolicità
belga (cf. l’articolo qui a p. 9); la presenza delle violenze anche in un’area
molto ristretta come il Lussemburgo (cf.
il riquadro qui a p. 16). Tre casi molto
diversi che confermano che le violenze
sessuali in contesti ecclesiali non sono
una prerogativa di talune zone geografiche e linguistiche, ma sono diffuse trasversalmente, ben oltre l’area anglosassone, così come esse non sono più
frequenti in ambito ecclesiastico che in
quello civile in generale.
In particolare, la recente pubblicazione in Olanda del rapporto finale della
Commissione d’inchiesta indipendente
Deetman Sexual abuse of minors in the
Roman Catholic Church (16 dicembre;
cf. riquadro qui a p. 14) e in Belgio del
documento dei vescovi e dei superiori
maggiori (13 gennaio) Une souffrance
cachée (entrambi saranno pubblicati in
Regno-doc.) ha riproposto gli interrogativi di fondo su quanto è accaduto: un
passaggio obbligato per ogni commissione d’inchiesta. Interpretare correttamente ciò che è avvenuto all’interno
della Chiesa è infatti la condicio sine qua
non per individuare percorsi di prevenzione adeguati.
Un «caso» Olanda?
Il primo interrogativo pone l’accento sul contesto culturale in cui sono
avvenute le violenze: a più riprese nella
Linee inter pretative dalle commissioni
d’inchiesta di Belgio, Olanda e Lussemburgo
pubblicistica tradizionalista, talora sostenuta anche da dichiarazioni di qualche figura ecclesiastica, ritorna l’idea
che il fermento del Vaticano II abbia
creato un clima libertario nel campo
della sessualità. La Chiesa olandese,
poi, con l’aver dato i natali al noto Catechismo omonimo e spazio al dibattito
sul celibato ecclesiastico, avrebbe
creato secondo alcuni le condizioni più
propizie per comportamenti sessuali
trasgressivi.
Va da sé che basterebbe citare i casi
noti del fondatore dei Legionari, M.
Maciel, o dell’ex arcivescovo di Vienna, card. H. Groër, per smontare questo teorema. Ma le conclusioni del
Rapporto Deetman, che ha preso in
considerazione il periodo 1945-2010,
forniscono alcune risposte alternative
senza occultamenti o semplificazioni.
Da un lato «fino agli anni Cinquanta si è registrato nel paese un costante aumento di delitti sessuali» contro minori «in relazione di dipendenza».
In quegli anni «la percentuale dei casi
che coinvolsero i cattolici rimase sempre al di sopra della media». Poi però,
a partire dal 1963, le ordinazioni presbiterali «registrarono un calo drammatico, che, sommato al numero crescente di abbandoni del presbiterato,
determinò una “diminuzione allarmante” dei sacerdoti nei Paesi Bassi. A
partire dal 1966 il numero dei nuovi
sacerdoti ordinati rimase costantemente al di sotto di quello dei sacerdoti
deceduti».
E se da un lato la società olandese
a partire dal 1960 adottò «comportamenti più liberi nei riguardi della ses-
sualità, (…) al tema della violenza sessuale sui minori si cominciò a prestare
attenzione solo durante gli anni Ottanta», quando cadde un vero e proprio tabù.
La Commissione che ha curato il
rapporto ha effettuato un’indagine ad
hoc inviando un questionario a un
gruppo di persone che aveva sporto
denuncia e a un campione di 34.234
olandesi dai 40 anni in su. Dai risultati
emerge che «1 olandese su 10 ha subito contro la sua volontà contatti sessuali da parte di un adulto non appartenente alla famiglia prima dei 18
anni». Il rischio è risultato doppio per
chi ha frequentato istituti (collegi,
scuole private, seminari, orfanotrofi)
«ma senza alcuna significativa differenza fra istituzioni cattoliche e non
cattoliche». Per quanto riguarda, poi,
il rischio di avere subito violenza da
parte di personale operante all’interno
della Chiesa cattolica, «tra 1 su 100
(0,9%) e uno su 300 (0,3)» degli olandesi con più di 40 anni ha subito contatti non voluti prima dei 18 anni da
parte di personale cattolico. Questo ha
portato a una stima che «oscilla tra le
10.000 e 20.000» vittime nell’arco di
65 anni, che hanno subito contatti sessuali inappropriati di varia gravità all’interno delle strutture della Chiesa
cattolica.1
Pertanto la Commissione afferma
che «la violenza sessuale su minori è
stata ed è diffusa nella società olandese». Quanto alla questione se il celibato sia un fattore di rischio per questo
tipo di violenza, il che significherebbe
dire «che la violenza sessuale è molto
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più frequente nella Chiesa cattolica»
che in altri contesti, «così non è, a giudicare dai risultati dell’indagine effettuata» per conto della Commissione.2
Tuttavia – afferma la Commissione
Deetman – «non si può neppure concludere che non esiste alcun collegamento fra queste due realtà», soprattutto a motivo del «legame giuridico
fra il presbiterato e l’obbligo di vivere
nel celibato. Secondo gli esperti di salute mentale, è proprio questo obbligo
a rendere i preti e i religiosi vulnerabili
e inclini a varie forme di comportamento inappropriato. (…) In realtà la
richiesta del celibato come primo e
principale criterio di selezione (perché
senza di esso non c’è ordinazione al
presbiterato) richiede un diverso tipo di
formazione e consulenza rispetto a
quello puramente spirituale».
Riecheggiano le considerazioni del
primo Rapporto sulla crisi stilate dal
Consiglio nazionale di riesame – l’organismo laicale incaricato nel 2002 dai
vescovi statunitensi di monitorare l’applicazione delle proprie normative in
materia – nel 2004: «Benché l’obbligo
del celibato non sia di per sé una causa
della crisi attuale, la mancanza di
un’adeguata illustrazione del celibato e
preparazione dei seminaristi alla vita
celibe l’ha certamente favorita» (Regno-doc. 7,2004,243).
Nella medesima direzione vanno
anche le considerazioni del documento
dei vescovi e superiori religiosi belgi a
seguito delle diverse commissioni d’inchiesta, Une souffrance caché, che dice
in merito: «Lo sviluppo di una sessualità sana esige qualcosa di più della
spiritualità o dell’ascesi. Le occorre un
inquadramento umano e un accompagnamento che permetta alla sessualità d’essere affrontata esplicitamente e
senza pregiudizi».
In conclusione – afferma la Commissione Deetman – «nel contesto storico e socio-culturale tra il 1945 e i nostri giorni, è degno di nota [che] il tabù
della sessualità [sia] esistito così a lungo
nella Chiesa cattolica e in altri settori
della società olandese». A ben vedere,
quindi, lo snodo della visione sulla sessualità rimane irrisolto; ma d’altra
parte i dati non consentono semplificazioni in un senso o in un altro.
Un approccio strut turale
Il secondo interrogativo è quello
relativo a come considerare gli episodi
delle violenze e l’approccio che essi
hanno ricevuto dai responsabili ecclesiastici, vescovi e superiori religiosi:
non si tratta tanto e solo – dicono i diversi rapporti – di deplorevoli incidenti
da trattare caso per caso all’interno di
strutture fondamentalmente funzionanti, ma costituiscono, pur nel diverso grado di gravità, una cartina di
tornasole per questioni più profonde.
«Abbiamo l’occasione di ripensare
la Chiesa», aveva dichiarato il vicario
generale di Lussemburgo mons. Ma-
thias Schiltz all’indomani della pubblicazione del Rapporto della Commissione d’inchiesta (novembre 2010):
se può sembrare, questa, un’affermazione radicale, non lo è meno quella
del Rapporto Deetman, che dice che
«non esisteva un approccio strutturale
al problema», o quella degli ordinari
belgi, secondo i quali «nel contesto ecclesiale si corre il rischio di spiritualizzare il potere. L’abuso di potere è allora camuffato dietro a considerazioni
o a visioni di tipo religioso». Il valore di
queste affermazioni va soppesato con
alcuni clamorosi casi di cronaca che
sono emersi in Olanda e Belgio: nel
primo caso le affermazioni fatte dai
salesiani; nel secondo quelle del vescovo emerito di Bruges (cf. box qui a
p. 15).
Secondo la Commissione Deetman
in Olanda «la struttura di governo
[della Chiesa] era ed è frammentata. È
basata sul principio dell’autonomia
delle singole diocesi». Ma analizzando
gli archivi di 7 diocesi e 16 congregazioni religiose, la Commissione ha rilevato che tale autonomia è diventata
frammentarietà quando si è trattato di
gestire i vari casi. «Benché l’espressione “violenza sessuale” non fosse comunemente usata prima del 2000, la
commissione d’inchiesta ha trovato negli archivi ecclesiastici molte informazioni riguardo a comportamenti sessuali inappropriati da parte di preti e di
religiosi fin dalla metà degli anni Cin-
Olanda
24.8.2010: viene insediata la Commissione d’inchiesta sulle presunte violenze sessuali commesse da membri del clero cattolico in
Olanda presieduta dall’ex ministro per l’educazione W. Deetman.
In dicembre dichiara d’avere ricevuto 2.000 segnalazioni; raccomanda alla Chiesa un risarcimento collettivo per le vittime e una
riorganizzazione robusta della commissione consultiva episcopale
Aiuto e giustizia (creata nel 1995).
10.2.2011: un servizio radiofonico rivela che mentre era vescovo
di Utrecht, il card. Simonis trasferì su consiglio di uno psicologo un
prete colpevole di pedofilia in un’altra parrocchia.
Maggio 2011: viene rivelata la militanza di un salesiano settantatreenne in un’associazione per la liberalizzazione della pedofilia.
Il superiore per l’Olanda p. H. Spronck si dice a conoscenza del fatto
e aggiunge che le relazioni sessuali con minori sono legittime, «dipende dal bambino». Il 23 la curia generalizia salesiana sospende i
due religiosi da ogni incarico pastorale.
7.11.2011: la Conferenza episcopale accoglie il parere della Com-
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missione Lindenbergh (che studia gli aspetti legali delle violenze
nella Chiesa) di creare un fondo per l’indennizzo delle vittime di
violenze sessuali, secondo alcuni parametri: da 5.000 € per molestie
a 25.000 per violenze sessuali, fino a 100.000 per casi gravi o che
hanno creato gravi conseguenze per le vittime.
16.12.2011: presentazione del rapporto finale della Commissione
Deetman e dichiarazione dell’episcopato olandese che si dice
«scioccato» dalle conclusioni. Anche il card. Simonis parla di «rammarico e profonda vergogna».
18.12.2011: viene letta in tutte le chiese una lettera di richiesta
di perdono a firma di mons. W. Eijk, arcivescovo di Utrecht, a nome
di tutta la Chiesa cattolica.
20.12.2011: il vescovo di Roermond F. Wiertz dichiara all’agenzia
ANP di aver appreso che il suo predecessore, mons. J. Gijsen (cf.
Regno-att. 6,1993,152s), ha distrutto i documenti dell’archivio diocesano che vanno dal 1972 al 1993.
M.E. G.
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Belgio
Febbraio 2009: si dimette G. Halsberghe, presidente della
Commissione interdiocesana per il trattamento delle denunce di
violenze sessuali nel contesto di relazioni pastorali (creata nel 2000).
La commissione si scioglie perché la Chiesa non intende concedere
risarcimenti alle vittime.
23.4.2010: la Santa Sede accetta le dimissioni del vescovo di Bruges, R. Vangheluwe, colpevole di atti di pedofilia verso un nipote.
19.5.2010: lettera pastorale dei vescovi che chiedono perdono
alle vittime e annunciano riforme nella gestione e nella prevenzione
dei casi di violenze.
10.6.2010: nuova Commissione interdiocesana, presieduta da P.
Adriaenssens.
24.6.2010: perquisizioni nell’arcivescovado di Malines (cf.
Regno-att. 14,2010,437ss; 16,2010,516). Pochi giorni dopo Adriaenssens si dimette.
9.9.2010: reso noto il Rapporto Adriaenssens (cf. Regno-doc.
17,2010,571ss).
Fine ottobre 2010: il Parlamento belga crea la Commissione
speciale per il trattamento dei casi di pedofilia nelle relazioni d’autorità, in particolare in seno alla Chiesa, presieduta da K. Lalieux.
3.11.2010: si dimette il portavoce di mons. A. Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles, J. Mettepenningen.
29.12.2010: il sacerdote F. Houtard, già docente a Lovanio e fon-
quanta. La documentazione comprende regole e codici di condotta, ma
anche rapporti su singoli casi. Dalla
metà degli anni Quaranta alla metà
degli anni Cinquanta venne emanata
una serie di norme di condotta riguardo alla vita morale dei religiosi.
(...) Le autorità diocesane e i superiori
di ordini e congregazioni religiose si
sforzarono di conoscere e combattere
la violenza sessuale perpetrata da preti
e religiosi della Chiesa cattolica romana nei Paesi Bassi. Perciò a livello
amministrativo è impossibile parlare
di ignoranza dovuta alla cultura del silenzio nelle diocesi, negli ordini e nelle
congregazioni religiose».
Più che altro furono date risposte
«su misura del singolo autore della violenza. Non esisteva un approccio strutturale al problema». In molti casi, anche per un eccesso di fiducia nelle
terapie psicologiche, le decisioni pastorali furono demandate agli esperti.
In altri le stesse congregazioni religiose
investite dal fenomeno approntarono
centri di consulenza ma – afferma il
rapporto Deetman – «si può dubitare
che quei centri fossero autenticamente
equipaggiati per trattare le persone
colpevoli di violenza sessuale su mi-
datore della rivista Alternatives Sud, viene accusato di pedofilia; gli
atti sono prescritti.
7.4.2011: il Parlamento approva il rapporto della Commissione.
14.4.2011: mons. Vangheluwe in un’intervista alla rete televisiva
fiamminga VT4 rivela d’avere avuto rapporti anche con un secondo nipote, ma di non aver pensato che ciò potesse avere un tale impatto.
30.5.2011: un comunicato dei vescovi e dei religiosi belgi s’impegna a risarcire le vittime.
14.12.2011: i vescovi e i religiosi belgi si dicono soddisfatti dell’istituzione di un tribunale d’arbitrato che deciderà i risarcimenti finanziari
per le vittime che andranno da 2.500 fino a 25.000 € a seconda che si
tratti di attentati contro il pudore, minacce o violenze in generale fino
allo stupro con le aggravanti della durata, dell’eccezionalità delle circostanze e della gravità dei danni subiti dalle vittime.
13.1.2012: mons. G. Harpigny, vescovo di Tournai e referente
della Conferenza episcopale per le violenze sessuali, presenta alla
stampa il documento a firma dei vescovi e dei superiori maggiori
del Belgio Une souffrance cachée. Pour une approche globale des
abus sexuels dans l’Église.
16.1.2012: nuova ondata di perquisizioni nei vescovadi di Anversa, Malines, Hasselt; nei giorni successivi anche a Bruges, Gand,
Tournai e Namur.
M. B., M.E. G.
nori». Un caso emblematico è dato dal
salesiano Spronk, che fino alle recenti
dichiarazioni prendeva parte agli incontri con gruppi di vittime.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, anche su pressione di Roma, le
diocesi favorirono un approccio eminentemente psicologico al problema.
Così, «essendo considerato una questione riguardante l’individuo, il problema della violenza sessuale non fu
oggetto di un’attenzione strategica o
strutturale, benché le autorità (...) fossero normalmente consapevoli dei problemi».
Il testo belga invece, di natura diversa quanto a genesi perché costituisce la risposta di vescovi e religiosi
dopo la pubblicazione dei lavori di più
commissioni d’inchiesta, nella parte finale afferma: «In un contesto pastorale
dobbiamo vigilare continuamente a
che non si creino posizioni intoccabili.
All’interno di ogni nostra struttura noi
vogliamo continuare a promuovere dei
modelli di animazione collegiale e di
responsabilità condivisa. Forme di
esercizio di potere di tipo abusivo devono essere bandite dalla Chiesa. Non
è un caso che una violenza sessuale
avvenga più facilmente in un contesto
in cui le differenze di potere sono sancite istituzionalmente e per questo non
possono essere messe in discussione.
Perché si possa fare davvero prevenzione – dicono i vescovi e i religiosi –
occorre che sia esplicitamente incentivata e garantita la possibilità nella
Chiesa di comunicare in maniera
aperta e senza timore di avere un contraddittorio».
Sono parole che impegnano la gerarchia, messa sotto accusa per la gestione della pedofilia, a cambiamenti
strutturali non marginali in prospettiva futura.
Il peso del silenzio
Il terzo interrogativo è quello sulla
prospettiva: se non si parte dalla prospettiva delle vittime, dall’ascolto del
loro dolore, della rabbia e della frustrazione, la pedofilia nella Chiesa
viene trattata con i meccanismi difensivi tipici dell’istituzione, che si sente
assediata – in questo caso – dai mezzi
di comunicazione ma non responsabile. «Noi non sapevamo», la frase
detta dal card. Simonis, vescovo emerito di Utrecht, in un’intervista televisiva per la quale successivamente si è
scusato, è l’emblema di una reazione di
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Lussemburgo
18.11.2010: viene pubblicato il rapporto finale della Cellula d’accoglienza per le vittime di violenze sessuali o fisiche all’interno della
Chiesa.
19.11.2010: l’arcivescovo di Lussemburgo, mons. F. Franck, firma una
lettera in cui chiede perdono alle vittime per gli atti compiuti da sacerdoti, religiosi e laici: «Questi atti sono in contraddizione flagrante
con il Vangelo di Cristo e con la missione e i doveri della Chiesa».
difesa rispetto a situazioni che solo oggi
– ha dichiarato successivamente lo
stesso Simonis – si comprende siano
state trattate con un eccesso di «buona
fede».
È a partire da questo riconoscimento che i vescovi e i religiosi belgi insistono a più riprese nel loro testo programmatico: «Per elaborare questo
documento ci siamo lasciati guidare
innanzitutto da ciò che abbiamo appreso dalle vittime». Affermano i presuli: «Nel corso degli ultimi 18 mesi ci
è stata data la possibilità di ascoltare
personalmente le vittime, nella maggior parte dei casi, purtroppo, per la
prima volta. Questi racconti si sono
dunque associati a nomi e a volti,
spesso dopo anni di sofferenza nascosta e di tristezza. Il male inflitto alle vittime per non avere riconosciuto i fatti
ha riempito di confusione noi responsabili della Chiesa. È proprio vero: le
violenze sessuali contraddicono l’etica
e il messaggio che la Chiesa vorrebbe
diffondere».
«Non possiamo riscrivere il passato
– proseguono –, ma dobbiamo pur volgerci al futuro». Ciò significa imboccare due vie: quella del ristabilimento
della giustizia e quella della prevenzione. «La principale lezione da trarre
dal passato recente riguarda la rottura
del silenzio. Si è taciuto anche nella
Chiesa. Molte vittime non hanno potuto condividere le proprie storie».
Qualcuno forse l’ha scelto per un eccesso di sofferenza, altri perché hanno
trovato porte sbarrate. Ma parola e
trasparenza sono importanti per impedire il ripetersi di tali fatti dolorosi.
Per questo la Conferenza episcopale belga e la Conferenza dei superiori maggiori delineano e rafforzano
la presenza e l’attività dei cosiddetti
«punti di contatto»: 8, uno per ciascuna diocesi e 2 per i religiosi, uno per
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31.12.2010: durante una celebrazione liturgica in cattedrale,
mons. Franck chiede pubblicamente perdono alle vittime; prega affinché si possano «demolire i muri di silenzio»; si riesca a porre
«sempre i diritti dell’uomo al di sopra dell’immagine dell’istituzione»
e non si rifiuti «mai l’aiuto a chi ne ha bisogno».
i fiamminghi e l’altro per i francofoni,
dal 1o gennaio. Il loro finanziamento –
ogni punto avrà una serie di collaboratori di varie discipline – proverrà
dalle diocesi.
Le vittime – di violenze sessuali avvenute in contesti pastorali – possono
naturalmente scegliere altre vie e sono
vivamente incoraggiate a rivolgersi direttamente alla magistratura nel caso
in cui i reati non siano prescritti. «I colpevoli che ricoprono cariche ecclesiastiche o che sono membri di congregazioni religiose» sono assoggettati alla
legislazione penale «come ogni cittadino». Poi la Chiesa al suo interno ricorrerà alle sanzioni canoniche «che
non sono alternative al diritto civile e
che non possono contraddire l’intervento della giustizia».
Tuttavia i punti di contatto si offrono come luogo di mediazione e
semplificazione per tutte le procedure
nel caso la vittima voglia accedere a un
procedimento penale; ma anche,
quando non sia possibile per decorrenza dei termini, per adire a istituti
giuridici alternativi in vista di un risarcimento, come la mediazione o l’arbitrato con i quali, sotto la supervisione di un mediatore terzo, la Chiesa
collaborerà.
Il principio che regolerà l’intervento dei punti di contatto è quello di
evitare che «l’interessato si senta sballottato da una parte e dall’altra» e far
sì che il percorso «sia il più rapido possibile». Ogni anno, poi, sulla base dei
rapporti di ogni punto di contatto la
Commissione interdiocesana per la
protezione dei bambini e dei giovani
stenderà un rapporto e alcune raccomandazioni ai vescovi e ai superiori
maggiori.
La cornice essenziale entro cui questi organismi saranno inseriti e che renderà efficace il loro intervento è co-
M.E. G.
munque data da un rinnovato clima
complessivo: «Vivere in comunione»,
dicono i vescovi e i religiosi belgi.
«Molte cose sono per fortuna già cambiate: all’interno di un’équipe pastorale i sacerdoti lavorano con uomini e
donne, sposati e non. Le canoniche e le
case religiose sono diventate sempre
più luoghi d’incontro largamente
aperti. (…) Ma le tentazioni nondimeno rimangono: solitudine, mancanza d’attenzione al proprio stile di
vita, mancanza d’intimità, di calore
umano o di cordialità, debole adesione
a reti sociali che permettano un feedback e una riflessione critica libera,
scoraggiamento, mancanza di contatti
stimolanti. Coloro che non si trovano
bene nel proprio lavoro o nel proprio
ruolo potrebbero andare a cercare
compensazioni che possono portare a
comportamenti inadatti e anche destrutturanti».
«Anche il periodo difficile che attraversa la Chiesa – prosegue il testo
belga – può avere un peso. I sacerdoti
e i religiosi potrebbero sentirsi delusi e
scoraggiati, come potrebbero aggrapparsi a posizioni di potere o a soluzioni di ricambio adatte a nascondere
il loro sentimento di vuoto». Così –
conclude il documento – «dobbiamo
cercare nuove forme di comunione e di
sostegno reciproco»; dobbiamo collaborare in maniera «trasparente ed efficace».
Maria Elisabetta Gandolfi
1
Tra marzo e dicembre 2010 la Commissione ha ricevuto direttamente 1.795 segnalazioni di casi di violenza in cui era coinvolto personale ecclesiastico.
2
Dati confermati dai rapporti del John Jay
Institute, l’organismo indipendente incaricato
dai vescovi statunitensi sin dal 2004 (cf. Regnoatt. 6,2004,166; Regno-doc. 11,2011,337) d’effettuare indagini sistematiche in tutto il paese.
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Crimini di guerra
E X I U G O S L AV I A
t
ra politica e riconciliazione
N
el corso del 2011, a distanza
di pochi mesi, le indagini e
i processi per i crimini nella
ex Iugoslavia hanno portato alla sentenza di condanna per il generale croato Ante Gotovina (insieme a Mladen Markač) e
all’arresto di Ratko Mladič, generale nell’Armata popolare di Iugoslavia e capo di
stato maggiore dell’Esercito della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina: nelle rispettive patrie ci sono state manifestazioni
e presidî permanenti, soprattutto di ex
combattenti, per chiedere la loro liberazione. A Zagabria uno dei temi di rivendicazione era quello reducista: «Quello che
ha fatto Gotovina l’abbiamo fatto tutti, arrestate anche noi, allora», mentre parallelamente si è registrato in quei mesi un calo
di adesione al progetto di ingresso della
Croazia nell’Unione Europea (poi approvato nel referendum del 22.1). Rispetto
alla situazione serba, il procuratore Serge
Brammertz ha dichiarato che quel paese
ha ora un’importante opportunità: «Quella
di aiutare i propri cittadini a capire perché
Mladič è stato arrestato e perché la giustizia richiede che egli venga processato».
Per approfondire, accanto alle questioni politiche, gli aspetti giuridici di questo importante e difficile lavoro, il suo immediato futuro e la ricaduta nelle diverse
aree locali, abbiamo rivolto alcune domande sull’attività del Tribunale penale internazionale per i crimini dell’ex Iugoslavia a uno dei suoi giudici, l’italiano Fausto
Pocar, già docente di Diritto internazionale
presso l’Università di Milano e membro
del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, presidente dello stesso Tribunale dal 2005 al 2009.
I n t e r v i s t a a Fa u s t o P o c a r, g i à p r e s i d e n t e
d e l Tr i b u n a l e p e n a l e i n t e r n a z i o n a l e ( 2 0 0 5 - 2 0 0 9 )
– Il Tribunale penale internazionale
per i crimini dell’ex Iugoslavia è un tribunale ad hoc, ovvero ha una missione
«a tempo». Qual è lo stato dei lavori? Alcuni processi sono passati di competenza
ai tribunali locali: quali sono i rapporti
con queste corti e con le nazioni corrispondenti (scaturite dalla dissoluzione
iugoslava e quindi dalle guerre stesse)?
«Il Tribunale per la ex Iugoslavia è
stato istituito per una durata indefinita,
ma è divenuto “a tempo” quando il
Consiglio di sicurezza dell’ONU ha deciso che le indagini del procuratore dovevano terminare nel dicembre 2004. A
quella data erano stati incriminati 161
individui. Attualmente vi sono sei processi in appello e sette in primo grado
(anche se alcuni riguardano più accusati), e solo due accusati il cui processo
deve ancora cominciare. Una quindicina di casi, relativi ad accusati di minore profilo, sono stati rimandati alle
giurisdizioni nazionali, nel quadro di
una collaborazione sempre più significativa con i giudici nazionali. È evidente che la giurisdizione assunta dal
Tribunale nel momento del conflitto
debba essere “restituita” alle autorità
giudiziarie nazionali in tutti i casi e non
appena questo sarà possibile».
– Tutte le parti in causa, tutte le
«nazionalità», hanno avuto allo stesso
tempo vittime e carnefici al loro interno.
Il Tribunale come si rapporta con questo
aspetto?
«Un tribunale, e il nostro non fa eccezione, ha il compito di accertare i
fatti in un processo equo e di pronunciare una sentenza secondo diritto, di
condanna o di assoluzione. La circostanza che in una comunità possano esservi vittime e responsabili di crimini
non deve fermare l’amministrazione
della giustizia. Un tribunale deve investigare in tutte le direzioni e pronun-
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ciarsi su tutti i casi secondo gli stessi
parametri».
Conoscere il passato
– Lei ha lavorato e lavora anche sui
crimini in Ruanda: senza mettere in
campo difficili e forse inutili confronti tra
le due situazioni, che cosa pensa di come
attualmente sono vissute le due tragedie
nelle aree che ne sono state teatro?
«È sempre difficile fare un confronto
fra situazioni dissimili, determinate da
cause diverse e caratterizzate da contesti diversi. Quello che accomuna le diverse situazioni è solo la circostanza
della commissione di crimini internazionali che hanno gli stessi elementi giuridici. Inoltre, credo che in ogni caso in
cui una società sia attraversata da conflitti interni che portano alla commissione di crimini internazionali, tutta la
popolazione senta il bisogno di ricostruire una convivenza accettabile e di
guardare avanti. Penso però che ciò sia
possibile solo se quella comunità fa i
conti col suo passato, attraverso un riconoscimento da parte di tutti di quello
che è avvenuto. E un riconoscimento
passa anche attraverso l’individuazione
di coloro che si sono resi responsabili di
crimini e, almeno nei casi più gravi, la
persecuzione dei crimini stessi».
– I processi per i crimini di guerra
hanno tempi molto lunghi: tempi necessari, tempi importanti anche per fare depositare nella storia l’accaduto. D’altra
parte, esiste ora una generazione già
maggiorenne che sa pochissimo di questi
fatti. Pensa che una comunicazione maggiore, o anche un lavoro storico approfondito sul «processo processuale» possa
essere utile per comprendere e far conoscere
i fatti? E quale può essere il ruolo del Tribunale penale internazionale nei processi
di riconciliazione?
«Alla luce di quanto dicevo prima, è
estremamente importante che i processi
contro i responsabili di gravi crimini
siano pubblici e possano essere seguiti
dal maggior numero possibile di persone interessate. A questo aspetto il Tribunale ha dedicato molta attenzione
sin dai primi processi che ha celebrato,
che non solo sono pubblici all’Aja, ma
vengono trasmessi per televisione nei
paesi della ex Iugoslavia nelle lingue locali, in modo che possano essere seguiti
da tutti. La conoscenza dei processi non
deve però esaurire le fonti di informa-
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zione delle nuove generazioni sui fatti
accaduti. Un tribunale può invero accertare solo la verità “processuale”,
quale risulta dai casi e dalle prove portati alla sua attenzione, e comunque un
tribunale internazionale può trattare
solo un numero limitato di casi, rispetto
ai numerosi che caratterizzano conflitti
di questa natura. È necessario quindi
che altre fonti di informazione vengano
attivate e messe a disposizione per arrivare a quella conoscenza più ampia necessaria per costituire la base di un vero
processo di riconciliazione di una società colpita da avvenimenti di questo
genere. Il nostro Tribunale ha cercato di
ampliare il suo ruolo in questa direzione attivando una serie di contatti e
attività con i procuratori e giudici nazionali nei Balcani, al fine di assicurare
che questi continuino a perseguire i crimini di guerra e contro l’umanità commessi negli anni Novanta secondo procedure e criteri simili a quelli finora
seguiti».
Una valutazione non giuridica
– Qual è la differenza tra i tribunali
ad hoc (Iugoslavia, Ruanda, o il caso
delle Camere straordinarie per la Cambogia e della Corte speciale per la Sierra
Leone) e la Corte penale internazionale?
Quali sono i casi in cui per intervenire è
necessaria la richiesta di intervento da
parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU? E qual è il riconoscimento dell’attività della Corte da parte degli stati
membri?
«A differenza dei tribunali ad hoc,
istituti dal Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite in base ai suoi poteri di
intervento non armato per il mantenimento o il ristabilimento della pace, per
far fronte a situazioni particolari, la
Corte penale internazionale ha uno statuto adottato a Roma nel 1998 mediante un trattato internazionale, al
quale hanno finora aderito 118 stati.
Questo significa che la Corte può giudicare solo di crimini commessi in uno
degli stati parte o da cittadini di uno di
tali stati. Tuttavia è prevista la possibilità che il Consiglio di sicurezza deferisca alla Corte situazioni di paesi che
non sono parte dello statuto. Solo in
questo caso il procuratore della Corte
può trattare di situazioni estranee agli
stati parte e sottoporre casi specifici alla
Corte. È quanto è avvenuto in questi
anni per la situazione del Sudan e, più
recentemente, della Libia. Gli stati
membri sono tenuti a cooperare con la
Corte in ogni caso, ma la pratica ha fin
qui mostrato che la cooperazione è
molto meno attiva quando la situazione
riguardi uno stato terzo rispetto allo
statuto».
– Un’ultima domanda, che ci porta
all’attualità. Una figura come quella di
Milošević è stata, prima di essere incriminata, una personalità legittimata politicamente, con un ruolo di referente politico anche a livello internazionale
(pensiamo alle trattative di pace di Dayton nel 1995). Allo stesso modo potremmo
parlare oggi di Mubarak o di Gheddafi,
dopo i fatti della primavera araba. Se il
primo è oggetto di un processo celebrato
presso un tribunale egiziano, il procuratore capo della Corte penale internazionale, dopo un’inchiesta del Consiglio di
sicurezza dell’ONU, aveva chiesto l’incriminazione di Gheddafi, che non avverrà per il recente sanguinoso epilogo.
Come si stabilisce in quali situazioni intervenire a vicenda conclusa o ancora
in corso?
«La domanda relativa a come si
stabilisce in quali situazioni intervenire a vicenda conclusa o ancora in
corso andrebbe girata al Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite, perché
in tutti i casi ora menzionati la giurisdizione della Corte è stata attivata
dal Consiglio, la cui valutazione è essenzialmente politica e non giuridica.
Una volta che la giurisdizione sia attivata o conferita, non importa se per
un deferimento alla Corte penale internazionale o la creazione di un tribunale ad hoc, l’organo giudiziario
non dovrebbe procedere a valutazioni
di convenienza politica sul momento
in cui intervenire con un atto di accusa
e un possibile arresto. La valutazione
del procuratore dovrebbe essere solo
giuridica, anche relativamente al momento più opportuno perché un atto
di accusa e un arresto possano avvenire efficacemente. Non tocca a me
stabilire se questo si sia sempre verificato in tutti i tribunali. Quanto ai giudici, questi ovviamente procedono all’esame dei casi non appena essi siano
loro sottoposti».
a cura di
Elena Pirazzoli
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ENEDETTO
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XVI - IV Concistoro
I
l ritorno della curia
C
on il quarto concistoro del suo pontificato, Benedetto XVI avrà
creato 68 cardinali elettori, dei quali 63 sono attualmente votanti. Il numero complessivo dei cardinali votanti diventerà di
125. Supera di cinque il numero fissato da Paolo VI. Ma a novembre
prossimo sarà già tornato a 120.
Annunciato il 6 gennaio 2012, il prossimo concistoro si celebrerà a
Roma il 18 febbraio e prevede la consegna di 22 nuove berrette cardinalizie: 18 a vescovi votanti; 4 a ultra-ottantenni. Tra essi, 7 sono italiani
(6 di curia). In occasione dell’ultimo concistoro, nel novembre del 2010,
gli italiani erano stati 8 su 20. Se un ipotetico conclave si riunisse tra
qualche mese gli italiani sarebbero 30 su 120 (il 25%), mentre erano 20
su 117 (il 17%) nel conclave del 2005 che elesse Benedetto XVI. Papa Benedetto intende dunque riportare il papato in Italia? È presto per dirlo.
Le nuove nomine segnalano anche altri equilibri. Complice il gran numero degli italiani, l’Europa torna a essere in maggioranza: i cardinali
elettori europei sono infatti attualmente 67 (di questi 39 creati da Benedetto), mentre erano 58 su 115 nel conclave del 2005.
Vi è poi una ulteriore e più significativa variabile: il forte rafforzamento della curia romana. Dei nuovi cardinali 10 sono infatti di curia.
Su 125 elettori, 43 sono o capi dicastero in carica o emeriti; ma anche
altri 14 cardinali residenziali sono stati in passato in curia. Dunque, da
un terzo alla metà dell’attuale collegio votante può considerarsi curiale o vicino alla curia. È questo il dato istituzionale più significativo,
quello maggiormente carico di conseguenze ecclesiologiche: una minore rappresentanza delle Chiese locali. Anche se gli spostamenti, pur
significativi, a favore di curiali ed europei di per sé non significano un
orientamento decisivo nell’eventualità della scelta di un nuovo papa.
Essi infatti sembrano rispondere più al desiderio di Benedetto di avere
collaboratori a lui più vicini per mentalità e cultura. Il dato del rafforzamento curiale è stato generalmente interpretato come un rafforzamento del segretario di stato, card. Bertone, anche per la contiguità
regionale tra lui e alcuni neocardinali. Sono certamente presenti figure
vicine al segretario di stato, ma l’alto numero di curiali può anche significare la ricerca di consenso.
La lista dei nuovi cardinali
Ecco i nomi dei nuovi porporati nell’ordine col quale il papa li ha
pronunciati: mons. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli; mons. Manuel Monteiro de Castro, penitenziere maggiore; mons. Santos Abril y Castelló, arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore; mons. Antonio Maria Vegliò, presidente
del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti;
mons. Giuseppe Bertello, presidente della Pontificia commissione per
lo Stato della Città del Vaticano e presidente del Governatorato; mons.
Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio consiglio per i testi
legislativi; mons. João Braz De Aviz, prefetto della Congregazione per
gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica; mons. Edwin
Frederik O’Brien, pro-gran maestro dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; mons. Domenico Calcagno, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica; mons.
Giuseppe Versaldi, presidente della Prefettura degli affari economici
della Santa Sede; sua beatitudine George Alencherry, arcivescovo maggiore di Ernakulam-Angamaly dei siro-malabaresi (India); mons. Thomas Christopher Collins, arcivescovo di Toronto (Canada); mons.
Dominik Duka op, arcivescovo di Praga (Repubblica Ceca); mons. Willem Jacobus Eijk, arcivescovo di Utrecht (Paesi Bassi); mons. Giuseppe
Betori, arcivescovo di Firenze (Italia); mons. Timothy Michael Dolan,
arcivescovo di New York (Stati Uniti); mons. Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Berlino (Repubblica federale di Germania); mons. John Tong
Hon, vescovo di Hong Kong (Repubblica popolare cinese). A questi il
papa ha aggiunto «un venerato presule, che svolge il suo ministero di
pastore e padre di una Chiesa, e tre benemeriti ecclesiastici, che si
sono distinti per il loro impegno a servizio della Chiesa». Essi sono: sua
beatitudine Lucian Muresan, arcivescovo maggiore di Făgăras˛ e Alba
Iulia dei romeni (Romania); mons. Julien Ries, professore emerito di Storia delle religioni presso l’Università cattolica di Lovanio; p. Prosper
Grech osa, consultore presso la Congregazione per la dottrina della
fede; p. Karl Becker si, docente emerito della Pontificia università gregoriana, consultore della Congregazione per la dottrina della fede.
I non italiani che sono vescovi di grandi diocesi sparse per il mondo
sono 6: John Tong Hon di Hong Kong, Timothy Michael Dolan di New
York (è presidente dei vescovi statunitensi), Dominik Duka di Praga,
Thomas Christopher Collins di Toronto, Willem Jacobus Eijk di Utrecht,
George Alencherry di Ernakulam-Angamaly (India, di rito siro-malabarese), Rainer Maria Woelki di Berlino (55 anni: il più giovane tra i cardinali). Due gli orientamenti: mons. Tong Hon rappresenta una novità
significativa rispetto al suo predecessore, il card. Zen, perché meno intransigente nei rapporti con il regime cinese. Mentre Dolan va a rafforzare la componente conservatrice dei vescovi americani.
Chiese in at tesa
Non breve l’elenco dei candidati curiali e residenziali che sono rimasti fuori. Tra gli ecclesiastici italiani che ricoprono incarichi cardinalizi ma che non hanno avuto per ora la nomina e dovranno perciò
attendere il prossimo concistoro, ci sono l’arcivescovo di Torino Cesare
Nosiglia e i curiali Rino Fisichella e Claudio M. Celli. I due curiali non
sono stati inseriti per non inflazionare il numero degli italiani; Nosiglia
perché l’arcivescovo emerito di Torino – Severino Poletto – ha meno di
80 anni e dunque in caso di conclave Torino esprimerebbe due elettori.
Per la stessa norma non scritta avevano atteso nei precedenti concistori
gli arcivescovi di Palermo, Paolo Romeo (nominato nel 2010), di Firenze,
Giuseppe Betori e di New York, Dolan (tra i nominati in questa occasione).
In attesa di nomina l’arcivescovo di Philadelphia, mons. Chaput; di
Manila (Filippine), mons. Luis Tagle; il patriarca maronita del Libano, Béchara Rai; Gerard Lacroix, arcivescovo del Québec; Ricardo Ezzati, arcivescovo di Santiago (Cile); Braulio Rodríguez Plaza, arcivescovo di
Toledo, che ha un predecessore cardinale in curia (Cañizares Llovera);
l’arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols; l’arcivescovo maggiore
dei greco-cattolici in Ucraina, Sviatoslav Schevchuk. Tra i nuovi cardinali non c’è nessun africano (aspettano: Angola, Mozambico, Uganda,
Costa D’Avorio e Camerun), così come mancano all’appello Taiwan (ma
qui il problema è politico-diplomatico nei confronti della Cina) e la
Thailandia.
La scelta di privilegiare il rafforzamento della curia e il tetto dei
120 non ha consentito altro in questa occasione.
Gianfranco Brunelli
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S
A N TA
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SEDE - Lefebvriani
I
l senso della continuità
N
iente nuove, a livello ufficiale, nei negoziati tra la Santa Sede,
attraverso la Commissione Ecclesia Dei, e la Fraternità sacerdotale San Pio X (FSSPX), in vista di un ritorno dei seguaci di
mons. Lefebvre nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Nessuna delle due istituzioni ha dato notizia dell’esistenza di una risposta vera e propria di Ecône al «preambolo dottrinale» ricevuto da
Roma il 14 settembre, e sul quale si era svolta ad Albano Laziale, il 78 ottobre 2011, una riunione dei 28 responsabili mondiali della FSSPX
(cf. Regno-att. 18,2011,587; cf. anche Regno-att. 22,2011,747, dove P.
Stefani ragiona della vicenda in prospettiva storica a partire dal recente volume di P. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio).
Tuttavia, i sensibili sismografi che tengono monitorata questa
piccola ma significativa faglia del pianeta cattolico hanno registrato,
non diremo delle scosse, ma certo diversi movimenti. Il primo è
un’intervista rilasciata il 28 novembre da mons. Bernard Fellay, superiore della Fraternità, all’agenzia DICI, organo ufficiale della Fraternità stessa, in cui egli accredita l’idea, già filtrata dopo l’incontro
di Albano, che «questo preambolo dottrinale non può ricevere»
l’avallo della FSSPX, «benché comporti un margine per una “legittima discussione” su certi punti del Concilio», e parla della «proposta che avanzerò in questi giorni alle autorità romane» e della
relativa risposta come degli strumenti per misurare tale margine.
Ocáriz e Gleize, dialogo pubblico
Di soli quattro giorni dopo un saggio breve di mons. Fernando
Ocáriz, «Sull’adesione al concilio Vaticano II», comparso in italiano
sull’edizione a stampa de L’Osservatore romano (2.12.2011, 6) e in
altre cinque lingue sul sito web, pur senza riferirsi esplicitamente
alla disputa con i lefebvriani, ribadisce che «un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa». L’autore, oltre che vicario generale dell’Opus
Dei, è anche membro per parte romana della commissione mista di
studio istituita nel 2009 per «chiarire i problemi di ordine dottrinale» tra le due parti.
Ancora mons. Fellay, nell’omelia per la festa dell’Immacolata (8
dicembre, anch’essa riportata dall’agenzia DICI), dedica un lungo passaggio alle «recenti proposte di Roma», e le riassume così: «“Sì, potete
criticare il Concilio, ma a una condizione: bisogna prima accettarlo”.
E noi replichiamo: “E dopo, che cosa ci resta da criticare?”».
E dopo che il 21, su Vatican Insider (il sito web che La Stampa
ha consacrato all’informazione religiosa), Andrea Tornielli – attraendosi le ire degli ambienti tradizionalisti – rivela (e p. Lombardi su
Radio Vaticana conferma) che la Fraternità ha inviato alla Santa
Sede non una «risposta» al preambolo dottrinale ma una interlocutoria «documentazione», ecco comparire, il 23, sempre sull’agenzia ufficiale lefebvriana DICI, gli estratti del lungo saggio «Une
question cruciale», che p. Jean-Michel Gleize, docente di ecclesiologia a Ecône e anch’egli membro, per parte tradizionalista, della
Commissione mista, pubblica sul numero di dicembre 2011 del Courrier de Rome, rivista della Fraternità.
Una risposta, anzi due
Descritto dall’agenzia come «risposta all’articolo di mons. Ocáriz», verrà poi accreditato il 13 gennaio dalla stessa DICI come «com-
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Mons. Bernard Fellay.
plemento della risposta» fatta pervenire da mons. Fellay a Roma, e
individua nei quattro punti della libertà religiosa (Dignitatis humane, n. 2), dell’ecclesiologia (Lumen gentium, n. 8), dell’ecumenismo (ancora Lumen gentium, n. 8 e Unitatis redintegratio, n. 3) e
della collegialità (Lumen gentium, n. 22 e Nota explicativa praevia,
n. 3) gli insegnamenti del Vaticano II che «sono evidentemente in
contraddizione logica» col magistero precedente, ovvero non interpretabili in continuità con esso.
Da ultimo, mentre scriviamo queste righe, è ancora Tornielli su
Vatican Insider (18 gennaio) a raccontare che a fronte di un giudizio di inadeguatezza espresso dalla Santa Sede rispetto ai documenti ricevuti prima di Natale dalla FSSPX, a essi Fellay ha aggiunto
«un secondo testo, più stringato», che ora sarebbe all’esame della
Commissione Ecclesia Dei.
In sintesi, dai fatti di questi ultimi tre mesi par di capire che la
trattativa, questa volta, non si sia ancora arenata, ma che le secche
siano sempre vicine. Se è vero infatti che Benedetto XVI, nel famoso discorso alla curia romana del 2005 (Regno-doc. 1,2006,5), ha
raccomandato per gli insegnamenti del Vaticano II l’«ermeneutica
della riforma, del rinnovamento nella continuità», incrociando una
prospettiva indicata da mons. Lefebvre sin dagli anni Settanta, rimane diverso, spiega p. Gleize, il senso che si attribuisce alla parola
«continuità»: tradizionalmente essa andrebbe intesa in senso oggettivo, «senza che la predicazione presente possa contraddire la
predicazione passata», mentre «nel discorso attuale degli uomini di
Chiesa» (l’allusione è allo stesso Benedetto XVI) si parla di continuità a proposito non di un oggetto del dogma o della dottrina,
ma «di un soggetto che evolve nel corso del tempo», la Chiesa.
Guido Mocellin
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Chiese
STAT I U N I T I
d
a episcopaliani a cattolici
I
l primo ordinariato per ex anglicani, quello di Nostra Signora di
Walsingham, ha compiuto un
anno il 15 gennaio,1 e negli stessi
giorni vede ora la luce il suo omologo statunitense, l’ordinariato personale della Cattedra di San Pietro, per
accogliere i gruppi di fedeli ex episcopaliani (come vengono chiamati gli anglicani degli Stati Uniti) insieme ai loro
pastori nella Chiesa cattolica. Già annunciato come imminente lo scorso 17
novembre nel corso dell’Assemblea generale dei vescovi cattolici americani a
Baltimora dal card. D. Wuerl, arcivescovo di Washington e incaricato della
questione, è stato eretto il 1° gennaio
con un decreto della Congregazione
per la dottrina della fede.2
L’ordinariato personale è un organismo giuridicamente paragonabile a una
diocesi, ma che ha giurisdizione non su
un territorio bensì su un gruppo di persone che condividono determinate caratteristiche – analogamente all’ordinariato militare – e con un proprio
«ordinario», che può essere un prete o un
vescovo, nominato dal papa e che entra
a far parte della conferenza episcopale locale. È lo strumento tecnico istituito da
Benedetto XVI nel 2009 con la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus,3
per rispondere ai «gruppi anglicani» che
avevano chiesto «più volte e insistentemente» di entrare, «anche corporativamente, nella piena comunione cattolica».
Il «provvedimento
pastorale» del 1980
In precedenza nel territorio degli
Stati Uniti era in vigore la cosiddetta
Un nuovo ordinariato per sonale
d o p o q u e l l o p e r i l Re g n o U n i t o
Pastoral provision, un «provvedimento
pastorale», appunto, concesso dalla
Congregazione per la dottrina della
fede nel 1980 per consentire agli episcopaliani che lo desideravano di entrare nella piena comunione con la
Chiesa cattolica «conservando alcuni
elementi della loro identità» anglicana;4 ai preti episcopaliani sposati,
che erano ri-ordinati come preti cattolici, veniva caso per caso concessa la dispensa dal celibato. La Pastoral provision andava considerata, secondo la
dichiarazione della Congregazione,5
«come la riconciliazione di singole persone», descritta dal decreto Unitatis
redintegratio del concilio Vaticano II al
n. 4, e dunque in quanto tale non in
conflitto con il cammino di riconciliazione ecumenica tra le Chiese. In questi 30 anni così sono state costituite dai
vescovi diocesani interessati tre parrocchie personali e alcuni gruppi minori in quattro stati: Massachusetts,
Pennsylvania, Missouri e Texas. Sono
definite di «anglican use», con riferimento alle forme liturgiche mantenute.
Le ragioni principali per l’abbandono della Chiesa episcopaliana sono
state prima la decisione di questa di ordinare donne prete (1975) a vescovo
(1989), e in questi ultimi anni l’atteggiamento nei confronti del clero omosessuale, in particolare dopo l’ordinazione episcopale di un prete gay impegnato in una relazione omosessuale
stabile, Gene Robinson.6
Benché la Pastoral provision, in
quanto intesa a salvaguardare la «comune identità» anglicana degli ex episcopaliani, costituisca effettivamente il
Jeffrey N. Steenson.
precedente principale dell’Anglicanorum coetibus, questa se ne distingue in
primo luogo perché ha una portata
universale e non limitata al territorio
statunitense, benché l’erezione dei singoli ordinariati venga attuata in collaborazione con l’episcopato locale; e in
secondo luogo perché configura il su-
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peramento del ruolo del vescovo locale, al quale prima competeva la
scelta se costituire o meno una parrocchia personale per gli ex episcopaliani. Alcuni vescovi, per non creare
problemi nelle relazioni con la Chiesa
episcopaliana, hanno deciso di non costituire la parrocchia di «uso anglicano», indirizzando i fedeli ex episcopaliani nelle parrocchie già esistenti. Il
basso numero delle parrocchie personali costituite in 30 anni fa capire che
per la maggior parte i circa 80 preti
usciti dalla Chiesa episcopaliana sono
entrati nelle diocesi e nella pastorale
ordinaria senza più alcun riferimento
all’«uso anglicano». Ora invece l’adesione all’ordinariato personale è subordinata solo alla manifestazione del
desiderio per iscritto, all’adesione a un
programma di formazione catechetica
e alla professione di fede previa la
piena accettazione del contenuto dottrinale del Catechismo della Chiesa cattolica. I preti e i vescovi verranno riordinati sacerdoti.
Che cosa accadrà ora alle parrocchie di «uso anglicano»? Il decreto
CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE
(COP)
Educarsi
alla corresponsabilità
I battezzati nel mondo
alla prova della vita quotidiana
cinquant’anni dal Vaticano II, il ruolo dei
laici nella Chiesa è ancora assai sottovalutato; tale situazione impone un approfondito
ripensamento. La 61ª Settimana nazionale di
aggiornamento pastorale organizzata dal COP
(Firenze, 20-23/6/2011), invita a riflettere
sulla relazione pastorale per aiutare le comunità cristiane a elaborare esperienze e
percorsi formativi.
A
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della Congregazione per la dottrina
della fede non lo precisa, ma sul sito ufficiale dell’ordinariato USA si afferma:
«Benché sia verosimile che molte parrocchie del provvedimento pastorale
chiederanno di unirsi all’ordinariato,
non è d’obbligo. Alcune possono scegliere di rimanere a far parte della diocesi alla quale appartengono già».7 La
Pastoral provision sembra rimanere in
vigore – visto che è stato nominato un
nuovo delegato nella persona del vescovo di Fort Worth, Kevin Vann – secondo alcuni per quei singoli preti che
lasciano la Chiesa episcopaliana senza
portarsi dietro una comunità, ma intorno a questo vi è ancora una buona
dose di indeterminatezza.
Liturgia anglicana tradizionale
Contestualmente all’erezione del
nuovo ordinariato Benedetto XVI ha
nominato il relativo ordinario. È Jeffrey
N. Steenson, prete cattolico, già vescovo episcopaliano di Rio Grande,
sposato e con tre figli. I preti che hanno
chiesto di diventare cattolici sarebbero
un centinaio. I gruppi che hanno già
manifestato l’intenzione di aderire all’ordinariato sono due: la comunità
episcopaliana di St. Peter of the Rock
di Fort Worth, Texas, e la parrocchia
episcopaliana di St. Luke a Bladensburg, Maryland.
Mentre non è stato reso noto come
si finanzierà l’ordinariato, questione
che appare già problematica nel Regno Unito,8 è stato precisato che le
parrocchie useranno il Book of Divine
Worship, un adattamento dell’anglicano Book of Common Prayer già in
uso nelle parrocchie di «uso anglicano», approvato dalla Congregazione per il culto divino e dai vescovi
statunitensi nel 1983, che ha associato
al rito eucaristico cattolico una grande
quantità di preghiere in inglese tradizionale e la tipica salmodia detta «anglican chant». Benché non si tratti di
un rito separato, è l’unica variante del
rito latino approvata nella Chiesa cattolica degli Stati Uniti. È chiaro comunque che gli ambienti episcopaliani interessati all’ordinariato sono
molto più contigui al tradizionalismo
cattolico che non all’anglicanesimo
turbo-liberal a cui si pensa solitamente
parlando di Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti.9
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I prossimi ordinariati che potrebbero nascere sono quello canadese e
quello australiano. Tuttavia le vicende
personali di John Hepworth, primate
della Comunione anglicana tradizionale (TAC, anglicani tradizionalisti) e
firmatario nel 2007 della richiesta di
entrare nella Chiesa cattolica romana,
potrebbero rallentare i tempi. John
Hepworth ha rivelato nello scorso settembre di aver abbandonato l’Australia
e il sacerdozio cattolico durante la giovinezza, dopo un decennio di violenze
sessuali sistematiche per mano di preti
e seminaristi più anziani negli anni Settanta. Dopo che un’inchiesta interna
della Conferenza episcopale australiana ha concluso che le sue accuse non
erano fondate, ha sporto denuncia alla
polizia. Nel frattempo però da Roma
avrebbe saputo di non poter rientrare
nell’ordinariato se non come laico, perché secondo le Norme complementari
dell’Anglicanorum coetibus «coloro che
erano stati ordinati nella Chiesa cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione anglicana non possono essere
ammessi all’esercizio del ministero sacro nell’ordinariato» (art. 6 § 2; Regnodoc. 21,2009,708). A metà dicembre
ha annunciato l’intenzione di dimettersi da primate della TAC.
Daniela Sala
1
Cf. Regno-doc. 3,2011,117.
Cf. L’Osservatore romano 4.1.2012.
Cf. Regno-att. 20,2009,657-661; Regnodoc. 21,2009,705.
4
Cf. Regno-doc. 21,2009,709.
5
La dichiarazione è dell’1.4.1981; EV
7/123.
6
Cf. Regno-att. 12,2003,370. L’ordinazione
del vescovo Robinson ha provocato un terremoto nella Chiesa episcopaliana e in tutta la
Comunione anglicana, fino a indurre i vertici di
quest’ultima a mettere in campo un processo
per la gestione delle controversie relative alla comunione, il Patto anglicano. La nostra rivista ha
seguito la vicenda passo passo; per un quadro
sintetico cf. Regno-att. 2,2010,16.
7
Cf. www.usordinariate.org, «Frequently
asked questions», visitato il 20.1.2012.
8
Cf. l’ultima edizione del bollettino The
Portal dell’ordinariato di Nostra Signora di Walsingham, www.portalmag.co.uk, gennaio 2012,
9. Molti dei preti dell’ordinariato hanno moglie
e figli.
9
Anche nel Regno Unito si segnala la tendenza dei nuovi fedeli ex anglicani e dei loro
preti a privilegiare nella liturgia le forme più tradizionaliste, dal latino al culto celebrato verso
l’altare (cf. The Tablet 15.10.2011, 12ss; A. BURNHAM, Liturgical patrimony of the ordinariate
and the reform of the reform, 15.10.2011, in ordinariateportal.wordpress.com).
2
3
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AMERICA
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Ecuador
L AT I N A
l
a rivoluzione di Correa
R
afael Correa è il presidente della Repubblica
dell’Ecuador, che conta
più di 14 milioni di abitanti. Fu eletto il 26 novembre 2006 come candidato della
Alianza PAIS-Patria Altiva Y Soberana, un movimento da lui fondato,
che propugnava la sovranità politica
dell’Ecuador, l’integrazione regionale
e l’aiuto economico ai meno abbienti.
Nato nel 1963 a Guayaquil, popolosa
città di oltre 2 milioni di abitanti, la
perla del Pacifico, in carica dal 15
gennaio 2007, rieletto il 26 aprile
2009. Si formò negli ambienti universitari: studi di economia all’Università cattolica di Guayaquil (1987);
laurea di primo livello in Economia
all’Università cattolica di Lovanio
(Belgio, 1991); laurea magistrale in
Economia all’Università dell’Illinois
(1999); dottorato nella stessa università (2001).
Dice di ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa ed è un assertore
convinto della teologia della liberazione. Si è sempre impegnato in ambito sociale come dirigente studentesco: volontario in attività promosse
dai salesiani tra gli indigeni di Zumbahua nelle Ande equatoriali, accademico e politico. Leader della Rivoluzione cittadina in Ecuador, ha
ottenuto sei vittorie elettorali consecutive; e oggi continua la sua azione
rinnovatrice, come lui sostiene, alla
ricerca della seconda e definitiva indipendenza dell’Ecuador.
Il sociologo e politologo marxista
argentino Atilio Boron ha firmato il
Il difficile rapporto tra la Chiesa
e i leader progressisti
Rafael Correa.
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prologo al libro di Correa Ecuador: de
Banana Republic a la No República,
uscito nel 2009 e già giunto alla terza
edizione (2011), presentandolo ovviamente con grande enfasi. Bastino queste espressioni: «Rafael Correa è il
presidente di un paese che sotto la
sua leadership ha cambiato per sempre e in bene, superando le polemiche
che, senza dubbio, suscitano una gestione che come quella di Hugo Chávez in Venezuela ed Evo Morales in
Bolivia, hanno diviso la storia del suo
paese in un prima e in un dopo».
Scrive Correa, presentando l’edizione
riveduta e corretta del volume, che,
pur avendo per oggetto la situazione
dell’Ecuador, induce tuttavia ad allargare l’orizzonte su tutta l’America
Latina: si appella a un imperativo, che
fa da cornice a tutta l’attività del presidente, «Proibito dimenticare!», che
sta alla base della Rivoluzione cittadina, programma della sua presidenza.
Ricorda inoltre quanto avvenne il
30 settembre 2010 in Ecuador,
quando si tentò di destabilizzare il go-
a cura di Roberto Reggi
Pentateuco
Traduzione interlineare
in italiano
D
ei cinque libri del Pentateuco, il
volume offre il testo ebraico, la
traduzione interlineare in italiano (da
destra a sinistra, seguendo la direzione
dell’ebraico) e il testo della Bibbia CEI
(a piè di pagina, con a margine i passi
paralleli). Non si tratta di una ‘traduzione’, ma di un ‘aiuto alla traduzione’: un
utile strumento di sostegno per affrontare le difficoltà dell’ebraico e introdursi nel testo biblico in lingua originale.
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verno della Rivoluzione cittadina fino
al progetto di assassinare il presidente.
Osserva Correa: «Non è casualità che
tutti i golpe di stato del XXI secolo in
America Latina – Venezuela nel 2002,
Bolivia nel 2008, Honduras nel 2009
ed Ecuador nel 2010 – siano stati fatti
contro governi che operavano per
cambiamenti profondi e contro paesi
appartenenti all’Alleanza bolivariana
dei popoli della nostra America».
Mercato e democrazia:
l’irrisolto rapporto con gli USA
Atilio Boron definisce Correa uno
dei più importanti leader dell’epoca
contemporanea in America Latina. Vediamo sinteticamente i punti principali
della sua dottrina e azione politica. Riguardo al debito pubblico il governo
presieduto da Correa ha introdotto una
novità fondamentale esigendo l’istituzione di un tribunale internazionale
per determinare quale parte del debito
sia legittima e quale no. Correa si appella al saccheggio di cui è stato vittima
l’Ecuador, il cui debito tra il 1970 e il
1981 crebbe ben 19 volte.
Un altro tema caro a Correa riguarda l’autonomia della Banca centrale. In nome di questa autonomia si
è commessa in Ecuador ogni sorta di
latrocini, che dissanguarono economicamente il paese a vantaggio dell’oligarchia finanziaria internazionale
e i suoi rappresentanti locali. L’autonomia della Banca centrale priva il
governo di turno di uno strumento
fondamentale di politica finanziaria
oltre a essere profondamente contraria allo spirito democratico. Promuove
progetti che, nel caso concreto dell’Ecuador, ebbero paradossalmente il
risultato che, mentre il paese espelleva più di due milioni di ecuadoregni,
con le loro rimesse essi avrebbero permesso di raggiungere un certo equilibrio nella bilancia dei pagamenti. La
Banca centrale «autonoma» facilitava
la fuga di capitali e la crescita esponenziale del debito estero.
Un terzo punto della sua teoria
economico-politica è la questione
della «dollarizzazione», la sostituzione
della moneta nazionale con il dollaro,
la quale priva – come insegna l’Argentina di Carlos Menem e di Fernando de la Rua – i governi di uno
strumento fondamentale come la po-
24
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litica monetaria che, a sua volta, permetta, mediante il controllo del cambio,
di dar vita a politiche che favoriscano lo
sviluppo dell’economia e del benessere sociale e affrontino gli effetti di
una eventuale recessione.
Uno dei capitoli più significativi del
libro di Correa riguarda «la fallacia
del libero commercio», un mito che
ha recato danni enormi ai paesi sottosviluppati. Un autentico inganno, che
ha rafforzato le pressioni e i condizionamenti di istituzioni finanziarie internazionali in nome dei mandanti.
Nelle pagine successive Correa si
sofferma sui concetti tradizionali di
«sviluppo» e di «stabilità economica»
e sferra duri attacchi al capitalismo,
che definisce «predatorio», soprattutto riguardo all’ambiente. Capitalismo inteso e praticato come ideologia
da alcuni organismi internazionali,
quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca interamericana di sviluppo e altri simili
che promuovono e perpetuano un
modello di accumulazione capitalista,
che ha prodotto un olocausto sociale
ed ecologico senza precedenti nei
paesi latinoamericani. Per Correa
queste istituzioni non sono altro che la
longa manus del dipartimento del Tesoro degli USA e cita Robert Reich, il
quale di recente ha scritto che la politica estera americana è nelle mani
del Fondo monetario internazionale
con alcune direttive del dipartimento
del Tesoro. I risultati – secondo Correa – sono sotto gli occhi di tutti: le
non-repubbliche latinoamericane,
sotto la pressione dei paesi economicamente più potenti e delle oligarchie
locali, sono puramente «mercati».
Il confronto con la Chiesa
Non resta che andare verso una
nuova politica economica, che sia indipendente dagli organismi finanziari
internazionali, i quali giocano a vantaggio solo degli interessi stranieri. Occorre che si ponga al centro il ruolo dei
leader. «La leadership è semplicemente
la capacità di influire sugli altri, quello
che, disgraziatamente, è prevalso in
America Latina quando vi erano leader forti. Buone leadership sono fondamentali per supplire all’assenza di
capitale sociale, istituzionale e culturale e la loro importanza diminuirà
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nella misura in cui di fatto aiutano a
consolidare questi capitali» (213).
Alla mancanza di leader coraggiosi e capaci si deve la lunga e triste
notte neoliberale. Correa deve fare i
conti con una forte congiuntura economica. Il paese è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e
dall’andamento dei prezzi degli idrocarburi sui mercati internazionali, soprattutto canadesi e cinesi. Questo ha
causato l’aggravamento del deficit
dello stato, notevolmente cresciuto anche a motivo dell’espansione della
spesa sociale. Nel 2009 l’Ecuador di
Correa ha rinegoziato il debito dello
stato detenuto da investitoti stranieri.
Correa in più deve fare i conti con la
disoccupazione di oltre il 7% della
popolazione e la continua emigrazione, che però fa entrare nelle casse
dello stato flussi di rimesse.
Alcuni mesi dopo il suo insediamento, nel maggio 2007, Rafael Correa, cattolico praticante, dovette confrontarsi con i vescovi, i quali chiesero
che nel progetto della nuova Costituzione venissero rispettati e protetti alcuni valori fondamentali. Nel campo
dell’educazione chiesero che fosse
mantenuto l’art. 71 della Costituzione
vigente, secondo il quale lo stato deve
aiutare l’educazione. Essi chiesero che
lo stato e le leggi proteggessero la vita
dal concepimento fino alla sua fine
naturale e ne favorissero lo sviluppo e
la crescita in salute, sicurezza, educazione e lavoro. Chiesero allo stato che
si facesse carico della lotta contro la
corruzione in tutte le sue forme, sradicasse la povertà e prestasse un’attenzione preferenziale ai settori meno favoriti della società.
Il 12 settembre 2007, in vista dell’elezione dei rappresentanti per l’Assemblea costituente, che aveva il compito
di elaborare una nuova Costituzione, i
vescovi riaffermarono che la Chiesa non
interviene a favore di uno o l’altro partito, ma fecero uso del loro diritto e obbligo di dire una parola di orientamento affinché venissero eletti quei
cittadini che avessero veramente l’intenzione di servire la patria, perché i
cambiamenti avessero di mira il bene
delle persone e del paese e non promuovessero falsi progressi. Non si facesse insomma uso della condizione di
«cattolico» per prendere voti.
11:21
Pagina 25
Quattro erano le caratteristiche di
chi si voleva eleggere rappresentante
alla Costituente: che fosse cosciente
che l’Ecuador è un paese multietnico
e multiculturale con quattro regioni
geografiche che abbisognano di integrazione e di complementarietà; che
avesse dimostrato capacità di collaborazione e disinteresse; che difendesse l’uguaglianza dei diritti: l’inviolabile e sacro diritto alla vita e alla
dignità della persona umana dal suo
concepimento fino alla sua morte naturale, la libertà e la pluralità nell’educazione, la libertà religiosa, il rispetto della coscienza e del pensiero
altrui e una moderna concezione di
laicità; che promuovesse un sistema
economico-sociale equo.
Il 24 giugno 2008 l’Assemblea costituente approvò alcuni articoli riguardanti il diritto alla vita che irritarono l’episcopato, che vide in essi la
possibilità di prendere in qualsiasi momento la decisione di ricorrere all’aborto. Il 28 luglio un comunicato
della segreteria dell’episcopato fece il
punto sul progetto della nuova Costituzione, che venne sottoposto a referendum popolare nel mese di settembre. Si dichiararono soddisfatti perché
il progetto accolse gli enunciati circa la
centralità della persona umana nei
vari campi e lamentarono che non vi
fosse chiarezza sui cosiddetti «principi
non negoziabili». Il neostatalismo pare
essere il filo conduttore della nuova
Costituzione, che non è certamente di
gradimento della Chiesa. Non chiara
in particolare la posizione di Correa
sull’aborto: il testo lascia aperta ogni
porta alla soppressione della creatura
nel seno della madre. In questo i vescovi vedono un serio attentato alla
famiglia, cellula fondamentale della
società, mentre criticano che si equipari alla famiglia l’unione di persone
dello stesso sesso.
Limitare per legge
l’azione della Chiesa
In occasione del bicentenario della
liberazione dei territori di Quito
(10.8.1809), quando il paese insorse
contro il dominio spagnolo, i vescovi
hanno inviato un messaggio al paese,
dicendosi favorevoli a una sana laicità,
che superi la concezione di quanti non
riconoscono alla fede lo spazio di li-
bertà che le corrisponde. Questa laicità
rinuncia alle discriminazioni per motivi religiosi, assume la propria responsabilità per il bene comune e procede con metodi e norme propri.
Il 30 settembre 2010, all’indomani
del tentato colpo di stato, – una rivolta
di poliziotti e militari, ostili alla legge
che equipara le forze dell’ordine agli
altri dipendenti riducendone i benefici economici e di carriera – i vescovi
hanno invitato i fedeli alla serenità, all’impegno per la pace sociale e l’esercito e la polizia a rientrare nei loro
ranghi di guardiani dello stato di diritto.
Di fronte alla campagna aggressiva
e massiccia di pianificazione familiare
e di controllo della natalità annunciata
dal governo, i vescovi hanno affermato
che quest’ultima non si controlla con
metodi meccanici né con trattamenti
farmacologici, ma con un’adeguata
educazione sessuale. Hanno attaccato
la diffusa e ostinata propaganda a favore degli anticoncezionali, che risponde a interessi economici.
In un comunicato del 21 ottobre
2011 i vescovi hanno manifestato inquietudine per la notizia di un articolo
del progetto del nuovo Codice penale,
il numero 270, che pretende di limitare
in forma drastica la libertà religiosa e di
espressione, così come l’uguaglianza
davanti alla legge. Indignazione ha provocato inoltre il progetto di riforma
della legislazione penale. Con un altro
comunicato del 25 ottobre seguente, i
vescovi hanno preso posizione contro la
proposta concreta di sanzionare i ministri di qualsiasi culto quando intervengono direttamente in favore o contro partiti e movimenti politici. Si è
trattato – sempre a parere dei vescovi –
di una discriminazione per motivi religiosi perché si proibiva al ministro ciò
che si permetteva a tutti gli altri, privandolo del diritto di pari trattamento
di fronte alla legge. In quell’occasione
il presidente della Conferenza episcopale e arcivescovo di Quayaquil, mons.
Antonio Arregui, aveva ricordato che la
proibizione ai sacerdoti di entrare in
politica è una norma interna della
Chiesa cattolica, acquisita nel modus
vivendi che in Ecuador regola i rapporti tra stato e Chiesa.
Francesco Strazzari
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Corea
del Nord
Dopo
il dittatore
I
l caro leader» è morto per «sovraffaticamento eccessivo dovuto ai suoi
sforzi senza fine per fare in modo di costruire una nazione potente»: così la presentatrice in lacrime sulla TV di stato
nord-coreana il 19 dicembre ha dato la notizia della morte del dittatore Kim Jong-il.
69 anni, al potere ininterrottamente dal
1994, è morto d’infarto il 17 dicembre, lasciando tutto il potere al figlio Kim Jongun, neanche trentenne.
La morte del dittatore nord-coreano ha
suscitato apprensione in tutta la diplomazia
internazionale, non ancora certa dell’affidabilità del giovane successore e anzi tendenzialmente preoccupata delle sue
performances negli ultimi anni. Recentemente nominato generale e promosso dal
padre alla testa delle forze armate – pilastro del potere nel paese –, ha giocato un
ruolo rilevante nella politica militarista e
aggressiva della Corea del Nord nei confronti della Corea del Sud. E il cambio al
vertice arriva in un momento delicato, nel
quale si stavano svolgendo trattative per la
denuclearizzazione del paese, presupposto
richiesto dagli Stati Uniti per la ripresa degli
aiuti alimentari.
Un paese prostrato
Pochi giorni dopo la morte di Kim Jongil, il 21 dicembre, il segretario generale della
Caritas internationalis, Michel Roy, ha levato
un allarme sulla situazione umanitaria del
paese: «È un imperativo umanitario aiutare
la popolazione nord-coreana senza che essa
diventi ostaggio delle questioni geopolitiche». Un inverno molto freddo e inondazioni durante l’estate hanno aggravato lo
stato di penuria alimentare già endemico
nel paese, dopo la carestia che fece un milione di morti tra il 1995 e il 1999. Il regime ha
sempre coperto il problema, avviando una
serie di liberalizzazioni embrionali del sistema di produzione agricola, ancora del
tutto insufficienti. Finora anche la risposta
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della comunità internazionale è stata scarsa.
Il principale aiuto alla popolazione viene
dalla Cina.
Alcuni segnali provenienti dalla Corea
del Sud tuttavia fanno pensare che si possa
aprire una fase di distensione. Il ministro
dell’Unificazione sud-coreano Yu Woo Ik ha
affermato che il suo paese è pronto a tenere colloqui di altissimo livello e a fornire
aiuti alimentari su larga scala alla Corea del
Nord, anche se Pyongyang non ha presentato «scuse ufficiali» dopo i due attacchi militari del 2010. Secondo il vescovo di Cheju,
mons. Peter Kang, che già un mese fa aveva
definito l’elezione di Kim Jong-un «un’opportunità per la pace e la riconciliazione», è
un passo di apertura importante e rimarchevole, perché finora il governo di Lee
Myung Bak aveva mantenuto una linea piuttosto dura verso il Nord. Ora sembra voler
cogliere un’opportunità di dialogo, che potrebbe essere decisiva per il futuro della penisola. La Caritas Korea è da molto tempo
impegnata in prima linea negli aiuti umanitari al Nord.
Il 10 gennaio il nuovo leader nord-coreano ha annunciato un’amnistia, in occasione dell’anniversario della nascita del padre
Kim Jong-il e del nonno Kim Il-sung. Tuttavia
secondo un gruppo di organizzazioni non
governative alcune delle quali cristiane, che
gli ha scritto una lettera aperta il 19 dicembre,
più che un gesto simbolico è necessaria «una
nuova era per il pieno rispetto dei diritti
umani nel paese». La Coalizione internazionale per fermare i crimini contro l’umanità in
Corea del Nord (ICNK) chiede al nuovo leader di «abbandonare il pluridecennale modello di abusi dei diritti umani commessi dal
governo di Pyongyang contro il popolo della
Corea del Nord». Secondo la Coalizione nel
paese oltre 200.000 uomini, donne e bambini sono detenuti per motivi politici in
campi di prigionia.
D. S.
India
Chiese cristiane
Vietare
la violenza
interreligiosa
I
l progetto di legge «per prevenire la violenza sulle minoranze religiose», proposto
dal National Advisory Council di Sonia
Gandhi lo scorso anno e fortemente appoggiato dal Consiglio cristiano dell’India e
dalla Conferenza dei vescovi cattolici dell’India (CBCI), dovrà attendere. Il Parlamento
federale infatti non ha inserito l’esame del
Communal violence bill nella programmazione della sessione invernale, suscitando
le proteste dei vescovi indiani, che hanno
definito la legge «urgente» e di «primaria
importanza» per una democrazia matura
come quella indiana.
Il progetto di legge, la cui necessità è
emersa dopo i gravi tumulti che hanno col-
pito le minoranze religiose (contro i sikh a
Nuova Delhi nel 1984, il pogrom contro i
musulmani nel Gujarat del 2002, la strage
anti-cristiana in Orissa del 2008), attribuisce
al governo centrale il potere di intervenire
direttamente nei casi di violenza interreligiosa. Il nodo critico si colloca infatti al livello delle autorità locali che, pur in presenza di legislazioni statali sufficienti a
fermare e punire tale crimine, sono invece
state conniventi o complici nell’orchestrare
le campagne d’odio anti-cristiano (cf. Regno-att. 10,2011,337 e il recente rapporto del
Tribunale nazionale del popolo di Kandhamal, Orissa, in Fides 5.12.2011), a causa della
presenza massiccia di radicali indù nel governo.
I due punti giudicati controversi dagli oppositori della legge riguardano la definizione
di «gruppo», inteso come una minoranza religiosa o etnica o le caste e tribù registrate secondo l’art. 366 della Costituzione, che risulterebbe divisiva per la nazione; e l’intervento
diretto del governo centrale con il potere di
dare disposizioni ai funzionari statali.
Ma secondo i vescovi indiani «la legge
prevede solo la creazione di un’autorità nazionale con il compito di controllare gli episodi di violenza interreligiosa. Tale organismo avrebbe solo carattere informativo,
registrando i casi in cui sono riscontrate lacune giudiziarie» (Asianews 2.1.2012).
D. S.
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L ibri del mese
Tornare alla sorgente
La recezione del Vaticano II
C
he possiamo attenderci
oggi dal Vaticano II?
Che cosa dobbiamo necessariamente attenderci
da esso? E come interpretarlo? È con queste tre domande che
abbiamo iniziato il nostro percorso sulla
recezione del Vaticano II, ed è con esse
che ora terminiamo la sua prima tappa.*
Invece di riconsiderarne gli elementi es-
I
senziali secondo l’ordine storico riflesso
dalle cinque parti di questo volume, ne
raccoglieremo i tre risultati principali,
rispondendo alle domande in questione,
sperando così di porre in risalto la logica
interna dell’itinerario seguito.
1) Se si parte dal titolo del volume,
che indica che siamo entrati nell’opera
del Concilio attraverso la fase della recezione, bisogna iniziare la rilettura dalla
quarta parte, che ha voluto rispondere
alle ultime due domande. Uno spirito di
«sintesi» e di «equilibrio» ha dominato
i circa quarant’anni che ci separano dall’evento stesso: la liturgia, le istituzioni
ecclesiali e la dottrina cattolica sono
state gradualmente adattate e riarticolate secondo le esigenze normative del
Vaticano II, in interazione con i cambiamenti di contesto avvenuti successivamente, soprattutto nel 1989. Da questo paesaggio emergono alcuni «picchi
profetici» di recezione ufficiale, come,
tra gli altri, l’esortazione postsinodale
Evangelii nuntiandi (1975), l’incontro
di Assisi (1986) e l’enciclica Ut unum
sint (1995). Per il resto, è più una logica
del «sì, però…» a essersi imposta; essa
consiste certamente nel prendere atto del
fatto che con il Concilio la Chiesa cattolica ha varcato la soglia di una nuova
era, ma anche nel ribadire – al contempo e sempre più fermamente – che
la recezione del Vaticano II si deve inscrivere armoniosamente nelle esperienze e nelle riflessioni dell’epoca precedente, di cui rappresenta lo sviluppo.
Questo processo complesso e conflittuale, orientato dal centro romano e
vissuto in modo differenziato sul campo
delle Chiese locali, è stato accompagnato da una riflessione ermeneutica di
cui abbiamo reso conto nel primo capitolo della quarta parte. Durante l’ultimo decennio del XX secolo, questa
riflessione ha preso nuovo slancio, in
parte a motivo degli sviluppi della recezione. Il gioco di contrasti che l’ha segnata sin dagli inizi, tra la lettera e lo
spirito o tra l’evento e il corpus testuale
del Vaticano II, continua a ossessionare
gli spiriti; la sua ultima espressione è la
contrapposizione tra un’«ermeneutica
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P. CATI, La Chiesa trionfante schiaccia l’eresia, sullo sfondo del Concilio di Trento, 1588.
della discontinuità» e una «ermeneutica della continuità o della riforma».
Da una quindicina di anni, però, questo
dibattito deve affrontare l’inevitabile
«storicizzazione» del Concilio, difficile
da accettare da parte di alcuni protagonisti: essa si è realizzata a causa del
cambiamento di generazione avvenuto
dal 1965, ma anche grazie a opere
nuove, tanto nel campo della storia e dei
commentari quanto in quello delle ricerche sul campo della recezione. Tutti
– soggetti ecclesiali, storici e teologi –
devono quindi esplicitare il proprio interesse nei riguardi del Concilio, necessariamente segnato dal proprio modo di
collocarsi nel presente e in rapporto al
futuro del cristianesimo e della Chiesa.
L’ermeneutica del Vaticano II è quindi
divenuta più complessa.
Un primo risultato del nostro percorso è quello di aver affrontato il problema dell’interpretazione in tutte le
sue dimensioni. Contrariamente all’idea
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ampiamente diffusa che le difficoltà
della recezione del Concilio provengono
dallo scontro postconciliare tra diverse
ermeneutiche – cosa che presupporrebbe l’identità del Vaticano II come
dato certo –, abbiamo avanzato l’ipotesi
che, per una grandissima parte, la causa
dei problemi postconciliari sia da cercarsi
nello stesso sinodo e, in particolare, nelle
dimensioni eccezionali del suo corpus.
I due assi della recezione
a. Avendo preso coscienza di questo
fenomeno, dovevamo anzitutto ripercorrere la storia della composizione del
corpus testuale, accreditare l’idea che si
tratti effettivamente di un corpus e porre
in evidenza le sue relazioni intertestuali;
l’abbiamo fatto nella terza parte di questo volume. Non solo i «compromessi»
tra maggioranza e minoranza, ma anche
e soprattutto il carattere incompiuto
della «retroazione» di alcuni documenti
su altri pongono difficoltà alla recezione;
svariati esempi sono stati analizzati nell’ultima parte. Visto che l’edizione dei testi non ci dava alcuna indicazione decisiva sulla struttura del corpus né su ciò
che l’unifica, ci era necessario affrontare
tale questione decisiva. L’unità è data
forse da una «sintesi» dell’insegnamento
del Vaticano II sulle istituzioni della
Chiesa, la sua liturgia e la sua dottrina,
come ha supposto la recezione ufficiale e
pratica, basandosi sulla posizione di coloro che – Paolo VI in primis – hanno
considerato la Chiesa come «argomento
principale» del Concilio? O bisogna
piuttosto seguire quelli che, come il relatore di Dei Verbum, considerano il prologo della costituzione dogmatica sulla rivelazione come introduzione e principio
di tutti gli altri testi conciliari?
Dinanzi a questa alternativa, abbiamo scelto di descrivere il corpus conciliare sulla base dei preamboli e delle
introduzioni delle quattro costituzioni,
il che articola una struttura a due assi:
l’asse teologale o verticale, che è quello
della rivelazione e della sua recezione
per fede, e l’asse orizzontale o «sociale», che è quello della comunicazione tra la Chiesa e tutte le componenti della società, cioè delle società
umane nella loro estensione mondiale.
Introdotto da Giovanni XXIII nel suo
discorso d’apertura, il principio di pastoralità si colloca al crocevia tra questi due assi e rappresenta in qualche
modo il punto focale in cui si costituisce l’unità interna del corpus.
Vivendo nella storia e nella società,
la Chiesa occupa di certo un posto essenziale in tale dispositivo, ma essa si
trova decentrata grazie a una doppia
alterità: quella della parola di Dio, che
essa ascolta, e quella dei destinatari di
tale Parola, che le rimandano la sua
stessa eco, dato che essa è già all’opera
in loro. Del resto, tale struttura elementare è fondamentalmente «aperta»:
fatta dai padri conciliari stessi, l’esperienza teologale del doppio ascolto è
proiettata sulla scena del testo in una
forma enunciativa; quest’ultima, a sua
volta, non è reale se l’esperienza che
configura non è nuovamente vissuta
dai destinatari o ricettori dei testi conciliari – un percorso implicato nella
struttura «aperta» del corpus, che fa
comprendere il legame intrinseco tra
l’opera del Vaticano II e la sua rece-
II
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zione. Oltre alle ragioni che ci consegna la storia della composizione del
corpus, tale scelta spiega in ultima
istanza perché abbiamo preferito presentare anzitutto questa doppia esperienza teologale prima di affrontare,
nel secondo volume, le questioni propriamente ecclesiologiche.
Controversie interpretative
b. Così descritto nella sua configurazione, il corpus pone però un secondo
problema agli interpreti: quello del suo
rapporto con la Scrittura e la tradizione,
che «mediano» l’ascolto della parola
di Dio. Abbiamo visto che tale riferimento è complesso, essendo al contempo inscritto nel corpus e riflesso
come tale in alcuni dei suoi testi. Il
conflitto principale tra padri conciliari
a proposito di tale riferimento solleva,
dopo il Concilio e più ancora negli ultimi tempi, la questione di sapere come
collocare il Vaticano II nella lunga storia del cristianesimo e, su questo sfondo,
come comprendere l’identità stessa dell’assemblea, per la quale Giovanni
XXIII non ha trovato altro modello
che quello della «Pentecoste». In definitiva, è in merito alla risposta a questa domanda che si dividono oggi gli
interpreti del Vaticano II.
Per questa ragione, abbiamo iniziato con il ripercorrere, in una prima
parte, la storia dei concili «ecumenici»
riconosciuti come tali dalla Chiesa latina: questa storia ci ha offerto lo sfondo
necessario per situare il Vaticano II in
rapporto alle origini del cristianesimo e
in seno alla sua tradizione bimillenaria;
ci ha messo anche sul sentiero di una
teologia dell’istituzione conciliare, necessaria se si vuol comprendere la relazione che, in modo riflessivo, il Concilio
ha stabilito con questa tradizione.
Due dei quattro punti cardinali di
una tale teologia – il ruolo e l’identità
di coloro che trasmettono il Vangelo in
una forma conciliare (tradentes) e ciò
che essi trasmettono o devono trasmettere (traditum, tradendum) – sono
stati poi affrontati nella seconda parte di
questo volume, mentre gli altri due – lo
statuto del corpus dei testi e il funzionamento della sua recezione – hanno
accompagnato la terza e la quarta
parte. Il fine di questo percorso era
quello di mostrare, nella quinta parte,
III
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Pagina III
come viene gestito, da parte del Concilio, il riferimento alla totalità della
Tradizione, comprese le Scritture, e
come tale riferimento diviene esso
stesso oggetto di riflessione nella costituzione Dei Verbum e in altri testi maggiori. Sono essi che, per finire, ci hanno
fatto cogliere il senso teologico dell’espressione così spesso malintesa di
«concilio pastorale».
Le regole dell’analisi
c. Da questa doppia osservazione e
analisi, possiamo desumere ora una regola d’interpretazione che ci sembra rispondere al meglio alla controversia
tra differenti ermeneutiche conciliari.
Bisogna prima di tutto rispettare la circolarità, non solo tra l’opera del concilio Vaticano II e i ricettori di oggi,
collocati in un altro universo culturale,
ma anche tra questi due «poli» e la
lunga tradizione della Chiesa. Si tratta
di un compito difficile, poiché nessuno
di questi tre «poli» sussiste in se stesso,
ma esiste sempre in relazione con gli
altri due. La nostra percezione dell’evento e del corpus conciliari si avvantaggia della distanza storica che ci
separa da essi; all’inverso, però, il riferimento al Vaticano II consente di interpretare teologicamente ciò che una
diagnosi culturale ci rivela del contesto
dei destinatari attuali del Vangelo. Del
resto, la lunga tradizione del cristianesimo – soprattutto, ma non esclusivamente, le separazioni che si sono originate nel suo seno – si chiarisce alla
luce del rapporto che il Vaticano II stabilisce con essa; all’inverso, però, e rispettata in tutta la sua complessità,
questa tradizione dona alla «soglia»
varcata dalla Chiesa durante il Concilio e nell’epoca postconciliare il suo
vero significato teologale.
Poco importa, in definitiva, mediante quale «polo» si entri in tale circolarità ermeneutica. La regola non stabilisce che il necessario rispetto
dell’insieme dei tre «poli», rispetto che
fa sì che il risultato di un’analisi, per
esempio l’ipotesi della struttura «aperta» del corpus conciliare, debba sempre
essere testato dalla virtù euristica che
esso esercita nella trattazione degli altri
due poli.
Siamo allora condotti a un relativismo ermeneutico? Certamente no,
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quanto meno per una ragione teologica che è stata lungamente discussa
nel terzo capitolo della quarta parte,
quando abbiamo abbozzato la nostra
teoria della recezione. Se l’interpretazione dell’identità cristiana obbedisce
sempre a una struttura circolare a motivo della nostra «incarnazione» nella
storia, essa deve restare al servizio della
relazione kerygmatica e pastorale tra
emittenti (tradentes) e destinatari (recipientes) del Vangelo (tradendum).
Come dimensione escatologica e pentecostale, questa relazione «aperta»
rappresenta la struttura elementare del
corpus e fonda al contempo il circolo
ermeneutico. Di qui la nostra distinzione tra due livelli testuali in seno al
corpus conciliare: un primo livello elementare, che regola il processo pastorale o kerygmatico, così come dev’essere vissuto concretamente sul campo
nella sua novità teologale sempre inesauribile; un secondo livello di regolazione, che verte sul rispetto del radicamento variabile di emittenti e ricettori.
a cura di Roberto Reggi
Profeti
Traduzione interlineare
in italiano
D
ei diciotto libri profetici, il volume
offre il testo ebraico, la traduzione
interlineare in italiano (da destra a sinistra, seguendo la direzione dell’ebraico)
e il testo della Bibbia CEI (a piè di pagina, con a margine i passi paralleli).
Non si tratta di una ‘traduzione’, ma di
un ‘aiuto alla traduzione’: un utile strumento di sostegno per affrontare le difficoltà dell’ebraico e introdursi nel testo
biblico in lingua originale.
pp. 624 - € 35,00
www.dehoniane.it
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella, 6
40123 - Bologna
Tel. 051.4290011
Fax 051. 4290099
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donne del nostro tempo alla sorgente
della vita. È il secondo risultato del nostro percorso, prospettato dal titolo di
questo volume: quello di avere esplorato
la dimensione della «pastoralità», già
evocata, in ciò che precede, in quanto
principio stesso del Concilio. La ripresa
che ne offriremo adesso partirà dalla
fine della seconda e della terza parte; essa
intende illustrare allo stesso tempo come
abbiamo concretamente applicato la regola ermeneutica appena formulata.
A sinistra: Costantino convoca i vescovi a Nicea per il concilio, 1000, Istanbul, Santa Sofia.
A destra: Ecclesia romana, XII sec., Città del Vaticano, San Pietro.
Quando si prende coscienza della complessità ecumenica e storico-culturale
dell’atto elementare di «tradizione»,
inevitabilmente si pone il problema ermeneutico. I padri conciliari hanno
fatto fatica a darne una formulazione
soddisfacente, che integri non solo l’insieme dei suoi parametri ma segni anche, di ritorno, la trattazione di tutte le
altre questioni affrontate dal Concilio.
Questa difficoltà manifesta chiaramente il carattere incompiuto dell’opera
conciliare. Aggiungiamo però subito
che questa incompiutezza è strutturale:
al secondo livello, il corpus conciliare è
infatti la traccia di un gigantesco processo teologale di apprendimento individuale e collettivo, che continuerà dopo
il 1965, essendo la capacità di apprendimento o di riforma di ordine principiale, dal momento che essa condiziona
e condizionerà sempre la trasmissione,
collocata al primo livello.
È questa capacità teologale a rappresentare la difficoltà maggiore della
recezione conciliare: una difficoltà inerente al Concilio stesso, che non si lascia
aggirare riducendo i problemi postconciliari a un conflitto tra ermeneutiche diverse. Riconoscerlo onestamente non porta a minimizzare la
struttura normativa dell’opera del Vaticano II, ma la apre a un modo di
comprendere la recezione che coniuga
e articola l’esperienza kerygmatica,
fatta sul terreno delle Chiese locali, e la
prosecuzione di un lavoro d’interpre-
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tazione del Vangelo in una prospettiva
al contempo culturale ed ecumenica.
Le at tese del postconcilio
2) Questa apertura ci riporta allora
verso la prima delle nostre tre domande: che possiamo attenderci oggi
dal concilio Vaticano II? A dire il vero,
quando l’avevamo posta nell’introduzione generale essa voleva semplicemente far prendere coscienza dei vari
«interessi» che ci spingono verso il Concilio: alcuni manifestano una certa assenza di interesse; altri ritengono che –
essendo terminata la sua applicazione –
sia sufficiente continuare fedelmente
nella stessa direzione; altri ancora invitano a una rilettura attuale del Vaticano II, per ricevere da tale assemblea
un’ispirazione per il nostro tempo.
Quando siamo tornati sulla medesima domanda, dopo aver riletto nella
quarta parte i circa quarant’anni della
recezione conciliare, l’abbiamo intesa in
un altro modo: è la dimensione di «possibilità» che abbiamo percepito nella domanda, e l’appello alla libertà che questo «possibile» ci rivolge. Un certo tipo
di recezione liturgica, canonica e dottrinale è di fatto giunto al proprio termine,
suscitando l’interrogativo circa le «soglie» che restano ora da varcare.
Quello che oggi ci si può aspettare
dal Vaticano II, e quello che si può
ascoltare al cuore stesso dell’opera conciliare, è rappresentato dall’appello pastorale a far accedere gli uomini e le
Appello alla pastoralità
a. Il principio di «pastoralità» è stato
di fatto consegnato all’assemblea da Giovanni XXIII nel suo discorso Gaudet
mater Ecclesia, che abbiamo analizzato
alla fine della seconda parte di questo volume: «È necessario che tale dottrina autentica sia studiata ed esposta seguendo
i metodi di ricerca e lo stile espositivo di
cui fa uso il pensiero moderno. Una cosa
è infatti la sostanza del deposito della
fede, un’altra è la formulazione di cui la
si riveste; bisogna tener conto di tale distinzione – con pazienza, se necessario –
, ponderando tutto secondo le forme e le
proporzioni di un magistero dal carattere
soprattutto pastorale». Il punto nodale
della terza parte è rappresentato dal ripercorrere l’itinerario di recezione conciliare di questo principio, un itinerario
che consiste nel mettere gradualmente in
luce tutte le sue implicazioni, la sua dimensione ecumenica, l’esigenza di autoriforma e il rispetto dei ricettori del Vangelo e del loro radicamento culturale.
Siamo stati particolarmente attenti al
fatto che tale recezione e l’ordine dei lavori conciliari (e quindi la composizione
del corpus) diano luogo a due itinerari
sfasati l’uno rispetto all’altro. Questo
«parallelismo» ha un certo significato
per l’interpretazione dell’insieme del corpus: è all’origine della tensione, già evocata, tra una lettura che colloca il principio del futuro insieme testuale nella
coscienza ecclesiale, protesa tra l’interno
e l’esterno della Chiesa, e un’altra che
parte dalla parola di Dio ricevuta dalla
Chiesa nel mondo di oggi, grazie a un
nuovo rapporto – detto «pastorale» –
con la tradizione e i destinatari del Vangelo.
Basandoci sull’analisi del processo di
composizione sulla nostra descrizione
stilistica del corpus conciliare, abbiamo
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potuto identificare i testi più prossimi al
principio di «pastoralità» che va precisandosi nei dibattiti conciliari: la costituzione dogmatica Dei Verbum, l’esposizione preliminare e altri passi chiave
della costituzione pastorale Gaudium et
spes sulla lettura dei «segni dei tempi» e
la dichiarazione Dignitatis humanae sulla
libertà religiosa come paradigma di un
tale discernimento. Sono questi i testi
che abbiamo poi affrontato nella quinta
parte del presente volume.
Con un significativo ritorno alle
Scritture, ispirato da uno spirito ecumenico, i nn. 10-12 di Dignitatis humanae
riescono a unificare i concetti di fede e di
rivelazione a partire dal modus agendi di
Gesù di Nazaret e dei suoi apostoli, presentato da subito nella sua forma costitutivamente relazionale; tale modus
fonda sia l’esigenza di coerenza che
verte su tutta l’opera riformatrice del Vaticano II e il rispetto dei destinatari del
Vangelo sin nel loro radicamento storico
e nella loro libera ricerca della verità.
Poiché questi numeri, che restano un
hapax nell’insieme dei documenti considerati, sono l’ultima esplicitazione
della «pastoralità», senza peraltro utilizzare questa parola, abbiamo riconosciuto loro una posizione principiale nell’opera del Concilio.
Essi illustrano al contempo il carattere incompiuto del corpus e i suoi limiti,
in quanto, come abbiamo segnalato a
più riprese, il principio in questione non
può più agire in senso inverso sugli altri
testi, né può farlo sulla trattazione delle
molteplici problematiche che vanno accumulandosi durante l’ultimo periodo
del Concilio. Appare così una distanza
tra la prima menzione – in qualche
modo «nucleare» – del «magistero a carattere soprattutto pastorale» da parte di
Giovanni XXIII – menzione che
avrebbe meritato, secondo il desiderio
del card. Bea, un dibattito di fondo in
seno all’assemblea – e la sua formulazione ultima in Dignitatis humanae; una
formulazione principiale, senza essere
però identificata come tale, né riconosciuta nelle sue implicazioni propriamente «rivoluzionarie».
Rileggere l’identità
del Concilio
Secondo la regola ermeneutica
enunciata in precedenza, tale perce-
V
16:46
Pagina V
zione non è possibile senza riferimento
agli altri due «poli», che sono la lunga
tradizione della Chiesa e l’attuale situazione culturale di coloro che si riferiscono all’opera conciliare. Per quanto
riguarda il primo «polo», la quinta
parte di questo volume ci riconduce
alle prime due, in particolare al secondo
capitolo della seconda parte, dove abbiamo ripercorso le tre tappe della coscienza ermeneutica della Chiesa, la
messa in atto della sua «istituzione (dispositio)» di regolazione (tradizione,
Scrittura e magistero vivente), il ritorno
al principio evangelico della «continua
riforma» e l’ingresso della coscienza
storica nella Tradizione.
Situando le acquisizioni di Dei Verbum, di Gaudium et spes e di Dignitatis
humanae in seno a tale coscienza, abbiamo potuto soppesare la posta in
gioco del discorso di Giovanni XXIII e
il cammino percorso dall’assemblea tra
il 1962 e il 1965. La nozione ermeneutica di «reinquadramento», esplicitata nella conclusione della quarta
parte, si situa nel punto di intersezione
tra questa rilettura della Tradizione e
del percorso del Vaticano II, considerando che il semplice riferimento allo
sviluppo organico non permette più di
rendere conto di ciò che rivela, sul versante del Concilio e su quello della
Tradizione, un’attenzione nuova al modus agendi di Cristo e al «fermento»
(DH 12 § 2) che tale modus ha introdotto nella storia dell’umanità.
Secondo la stessa regola, il terzo
«polo», la nostra rilettura del processo
di recezione che, come abbiamo visto
sin dall’introduzione generale, è il nostro vero punto di partenza, interviene
nell’attenzione prestata al modus
agendi Christi e al concetto di «reinquadramento». Il punto cruciale e ultimo del nostro percorso è infatti l’interpretazione del Concilio nella sua identità
in seno alla Tradizione, percepita a partire dal punto in cui ci troviamo nella
sua recezione. Dinanzi allo sfondo della
logica del «sì, però…» si profila il carattere «profetico» del Vaticano II. Intendiamo questo termine non come la
designazione di una delle tre funzioni
(tria munera) di Cristo, dei fedeli e della
Chiesa, una distinzione che ha giocato
un ruolo importante nell’aggiornamento postconciliare delle istituzioni
cristiane; lo definiamo invece in modo
inglobante e, nel senso neotestamentario del termine, come caratteristica
pentecostale dell’identità del cristiano
e della Chiesa (At 2,17s).1
Giovanni XXIII cercava analogie
nella tradizione e noi continuiamo a
esitare in rapporto all’identità del Vaticano II: una questione che il papa
aveva risolto con il suo riferimento alla
Pentecoste. È il processo storico della
mondializzazione (DV 1e LG 1) che obbliga la Chiesa a prendere posizione
sull’insieme delle questioni che le vengono poste in funzione di un’identità
cristiana da «ridefinire» nel suo insieme, affinché essa e i cristiani possano,
nel contesto ormai globale, trovare il
«modo» che conviene all’annuncio del
Vangelo. Questo atto di «reinquadramento» è unico nella storia del cristianesimo, anche se viene già annunciato
al tempo della prima «mondializzazione» e al concilio di Trento. È a questo titolo che lo si deve dire «profetico».
Tale qualifica dà ragione allora a
coloro che, una volta posto questo atto,
invocano il ritorno alla normalità? Certamente no, poiché se questa normalità
fosse esplicitamente considerata finirebbe per essere in contraddizione con
la promessa del Cristo, che non può
realizzarsi se non in una concezione
profetica dell’istituzione ecclesiale.
Il criterio della
coerenza stilistica
b. Il Concilio ha definito e ha applicato a se stesso un efficace criterio per
rendere credibile tale statuto «profetico»,
uno statuto che – del resto – non ha mai
rivendicato. È il criterio di coerenza stilistica tra ciò che è trasmesso (traditum) e
il modo di farlo, una coerenza che si mostra nel gioco relazionale tra coloro che
trasmettono il Vangelo (tradentes) e coloro che lo ricevono (recipientes).Tale criterio si ritrova nei nn. 11 e 12 di Dignitatis humanae; esso fa parte del principio
di «pastoralità» e fonda l’esigenza di riforma, come abbiamo già menzionato.
L’analisi dei testi, nella quinta parte,
ci ha permesso di individuare un esplicito legame tra questo modus agendi di
Cristo e il modus procedendi del Concilio,
che nel primo capitolo della terza parte
avevamo soltanto presupposto. Vi ab-
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biamo mostrato come il Concilio precisi
progressivamente il suo modo di procedere: la ricerca in comune della verità,
identificata con «le insondabili ricchezze
di Cristo» (Ef 3,8), una posizione che
esclude ogni atteggiamento di possesso
ed esige delle «virtù» che corrispondono
a Colui che tutti cercano: «Amore della
verità, carità e umiltà» (UR 11).
Questo modus però viene messo a
dura prova quando l’accordo sul modo
di procedere non è più garantito, in
quanto ciascuna parte difende la propria
concezione del cattolicesimo e del ruolo
che deve svolgervi l’istituzione conciliare. Il regolamento del Concilio, che
deve garantire l’intesa tra tutti nei limiti
di tempo disponibile, non può imporre
questo modo evangelico di procedere,
poiché esso dipende da una conversione
non programmabile da parte di tutti i
partecipanti. È degno di nota come i
principali soggetti conciliari propongano
la regola del gioco in modo tale che risulti sviluppato uno «spazio» di conversione in vista di una libera intesa fra
tutti.
È questo modus procedendi, inclusa la
sua messa alla prova in seno all’assemblea, a rendere credibile il suo modo di
definire le relazioni ecumeniche e le relazioni con i membri di altre religioni e
di altre componenti della società.
L’ascolto di colui che è vicino è la condizione dell’ascolto dei meno vicini o dei
lontani; e l’ascolto della parola di Dio
non può essere separato dall’ascolto di
ciò che si mostra umano nell’altro, visto
che la lettura delle sante Scritture e il discernimento dei «segni messianici» devono andare di pari passo. A questo titolo il modus procedendi del Concilio,
fondato sul modus agendi di Cristo e degli apostoli, entra nella composizione del
corpus conciliare: è ciò che avevamo mostrato nel terzo capitolo della terza parte.
Alla luce dell’intimo legame tra il modus agendi di Cristo e il modus procedendi del Concilio, si illumina anche la
nostra rilettura della tradizione conciliare nella prospettiva della forma delle
assemblee e del giudizio storico che si
esercita a loro riguardo nella storia. È lo
stesso criterio di credibilità che abbiamo
messo in atto nella prima parte e nel
primo capitolo della seconda parte di
questo volume. Ed è ancora il criterio di
apprendimento (discere) e di autocorre-
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zione che ha determinato la nostra rilettura della recezione del Concilio, nella
quarta parte, e ci ha permesso di indicarvi alcuni vertici «profetici». Quando,
nel 2001, Giovanni Paolo II presenta il
Vaticano II come «la grande grazia di cui
la Chiesa ha beneficiato nel XX secolo»,
avendo fatto riferimento nel 1994 al
«tono nuovo, sconosciuto prima di allora
con il quale le questioni sono state presentate dal Concilio», possiamo comprendere questa grazia come quella della
«profezia» neotestamentaria. Se oggi ci
interroghiamo su ciò che ci è dato di attenderci dall’opera del Vaticano II, il riferimento a questa grazia è senz’altro la
risposta ultima.
Il più piccolo di tutti i semi
3) Ora questa risposta esige, nella logica del principio di «pastoralità» e dell’intreccio relazionale che esso implica,
che i ricettori del Concilio siano essi stessi
– fino alla fine – messi in grado di entrare
liberamente in tale attesa e in un modo
di vivere il modus agendi di Cristo. Il
terzo risultato del nostro percorso consiste nell’avere dato rilievo a tale scommessa pedagogica del Vaticano II. La
sua recezione canonica, liturgica e dottrinale ne è stata senz’altro un po’ eclissata, e l’abbiamo fatto presente nella
quinta parte di questo volume. Per varie
ragioni, i movimenti biblici, liturgici, catechetici, apostolici, sociali ecc. (cf. UR 6),
che hanno sorretto per buona parte il
Concilio, si sono indeboliti nel periodo
postconciliare.
La loro dispersione ha avuto senz’altro un motivo; e la pedagogia dell’Azione
cattolica, che fino agli anni Ottanta ha
giocato un ruolo determinante nell’unificazione del lavoro apostolico, ha poi
smesso di farlo, per ragioni culturali
come la scomparsa della figura del militante, e per ragioni epistemologiche e
teologiche – essenzialmente il sospetto
nei riguardi del suo schema «vedere-giudicare-agire».
Di qui la necessità di rivisitare le pratiche pastorali suggerite dal Concilio e di
mettere in evidenza la loro unità interna.
In nome di ciò che è, la fede cristiana
non può rinunciare al discernimento dei
«segni messianici» praticata da Gaudium
et spes e da Dignitatis humanae. Questa
pratica rappresenta l’altro versante di
una certa lettura attuale delle Scritture
richiesta dal capitolo VI di Dei Verbum.
L’uno e l’altro versante sono inseparabilmente legati, come lo sono Gesù Cristo e i tempi messianici. È però impossibile andare a fondo in queste due
pratiche, basate su una capacità di
ascolto e di apprendimento e orientate
a una conversione permanente, senza
un’iniziazione spirituale che dia accesso
all’interiorità e, ultimamente, al «colloquio» tra Dio e l’uomo, nella solitudine
e nella liturgia.
Solo questa triplice pratica pedagogica permetterà alla recezione conciliare
di varcare una nuova soglia. La principale scommessa della pastorale è quindi
quella di creare degli «spazi» in cui la
grazia «profetica» del Vaticano II possa
essere recepita. Questi spazi devono senz’altro essere oggi molto più ristretti, per
rendere possibile un’autentica attenzione
al «più piccolo di tutti i semi del mondo»,
al quale le Scritture hanno promesso una
fecondità incommensurabile.
Sono questi tre risultati – una regola
ermeneutica, il principio di «pastoralità»
e una pratica spirituale e apostolica –
che tenteremo di far fruttificare nel secondo volume di quest’opera. In particolare, due prospettive ci accompagneranno: anzitutto il criterio di coerenza di
cui il concilio esplora tutta la profondità,
grazie all’«invito universale alla santità»
che, venendo dal Dio tre volte santo, risuona nella Chiesa e grazie a essa nell’umanità intera – un invito, però, che la
giudica, la mobilita e al contempo la precede già misteriosamente nella storia e
nella società; poi una visione genetica
della Chiesa e della sua missione, già
presente nell’ultima parte di questo volume, una visione che ci viene suggerita
dal momento presente e dalle Scritture.
Secondo la lettura a ritroso dell’opera
conciliare, adottata in quest’opera, tale
percorso ci farà risalire al suo primo testo, la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia in quanto fonte
e culmine dell’esistenza cristiana.
Christoph Theobald
* Il testo che qui pubblichiamo costituisce la
conclusione (691-699) del primo volume di C.
THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare
alla sorgente, pubblicato dalle EDB, Bologna 2011,
pp. 724, € 65,00; nostra titolazione.
1
Cf. il secondo capitolo della seconda parte,
con il riferimento a Giovanni da Segovia, 143s.
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I Libri del mese si possono ordinare indicando
il numero ISBN a 13 cifre:
per telefono, chiamando lo 049.8805313;
per fax, scrivendo allo 049.686168;
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per posta, scrivendo a Centro Editoriale Dehoniano,
via Nosadella 6, 40123 Bologna.
Sacra Scrittura, Teologia
ANELLI A., Heidegger e la teologia, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 145,
€ 12,50. 9788837225094
autore di Essere e tempo ebbe sin dagli inizi del suo lavoro filosofico
L’
un dialogo serrato con la teologia e il suo contributo al discorso teologico è ormai un dato acquisito. L’a., rigoroso studioso di Heidegger, con
questo nuovo vol. pubblicato nella pregevole collana «Novecento teologico» privilegia un percorso che si discosta dalla consueta ricostruzione storica tra il maggiore filosofo del secolo scorso e il pensiero teologico. Viene,
infatti, abolita la pur utile rassegna storica per favorire la ricostruzione di
ciò che ha permesso questo mai ininterrotto confronto. Ne risulta una disamina approfondita, chiara, efficace sul problema di fondo che venne affrontato da H.: quello dello statuto epistemologico della teologia dal medesimo messo in discussione.
BOCCACCINI G., STEFANI P., Dallo stesso grembo. Le origini del
cristianesimo e del giudaismo rabbinico, EDB, Bologna 2012,
pp. 179, € 16,50. 9788810207048
rapporto tra ebrei e cristiani ricorda quello di Esaù e Giacobbe. Due
Iforte,lgemelli,
così simili e così diversi: l’uno peloso e l’altro glabro, l’uno così
l’altro troppo furbo; si combatterono fin nel ventre materno per condurre una vita nello scontro, nella paura o nell’indifferenza reciproca. Ma
poi l’impossibile accadde: dopo anni di separazione e pur tra mille sospetti e ripensamenti, le loro strade s’incontrarono di nuovo e allora, corsisi incontro, s’abbracciarono, si baciarono e piansero (cf. Gen 33,4). Il vol. intende fare luce sulla complessità delle origini cristiane e del giudaismo coevo, per leggerne vicinanze e richiami, difficoltà e malintesi. Nella prospettiva che le due strade s’incontrino di nuovo.
BRACCI M., Nel seno della Trinità. Il mistero dell’Ascensione di
Gesù, ETS, Pisa 2011, pp. 436, € 30,00. 9788846728241
imettere l’ascensione in posizione corretta nella cristologia, evidenziandone il significato proprio all’interno del nexus mysterii, al fine di
recuperarne il prezioso «servizio ermeneutico» del mistero di Dio Trinità.
È quanto si propone il presente studio nei suoi due momenti. Nella sezione biblica, l’a. fa emergere «il modello e il paradigma teologico proprio del
mistero dell’ascensione» dalla narrazione dell’evento pasquale-pentecostale. La ripresa sistematica (II parte) si concentra sulla rivelazione connessa
all’ascensione quale scomparsa della corporeità di Gesù «dallo spazio del
mondo» e «nuova presenza» del Crocifisso-Risorto nella sfera divina. Testo di studio.
R
COMPIANI M., Fuga, silenzio e paura. La conclusione del Vangelo di Mc.
Studio di Mc 16,1-20, Editrice Pontificia università gregoriana, Roma
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vol., tesi di dottorato dell’a. in teologia biblica, si occupa del finale «auIdettoltentico»
del Vangelo di Marco (Mc 16,8) e della sua relazione col cosid«finale lungo» (Mc 16,9-20). Dopo lo status quaestionis intorno al
versetto – vera crux interpretum dell’esegesi biblica –, la reazione di «fu-
VII
Servizio a cura di Maria Elisabetta Gandolfi
ga, silenzio e paura» delle donne davanti al sepolcro vuoto viene studiata
assecondandone il «carattere performativo» che permette di rilevarne il
«senso positivo» alla luce dell’economia complessiva del racconto, e di coglierne i legami col «finale lungo» canonico. Sono proprio tali nessi che, a
giudizio dell’a., consentono di «superare l’enigmaticità del versetto» senza
alterare in alcun modo il testo recepito. Testo di studio.
DEWEY J., MICHIE D., RHOADS D., Il racconto di Marco. Introduzione
narratologica a un Vangelo, Paideia, Brescia 2011, pp. 241, € 25,40.
9788839407979
differenza dell’analisi semiotica (struttura) e dell’analisi retorica (comA
posizione), l’analisi narrativa si occupa del testo come evento che vive solo grazie al suo «lettore». Il vol. si propone di leggere il Vangelo di
Marco dischiudendone il «mondo del racconto» nel quale l’evangelista ha
composto personaggi, luoghi ed eventi. La lettura degli aa. coglie il testo
«come una storia, piuttosto che come storia», senza «spiegarlo o arricchirlo» con gli altri Vangeli e cercando di evitare, per quanto possibile, di
applicarvi «presupposti culturali o concezioni teologiche moderne». Interessante invece l’utilizzo, ai fini dell’interpretazione, delle «informazioni di
base tratte dalla cultura generale del I secolo», che fu una cultura prevalentemente orale.
MEISTER ECKHART, Il libro delle parabole della Genesi. A cura di
Marco Vannini, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 256, € 18,00.
9788837224974
issuto tra il XIII e il XIV sec., tra le più grandi personalità sia delV
l’ordine domenicano sia della spiritualità cattolica, Meister Eckhart si
distingue per il suo tentativo d’interpretare le Scritture alla luce della ragione. Come acutamente sottolinea nella sua presentazione Marco Vannini, curatore dell’edizione, «il punto fondamentale d’interesse metodologico ed ermeneutico è dunque questo: non si tratta di dimostrare le realtà
divine, naturali e morali attraverso le parabole, quasi deducendole da esse, ma mostrare invece che quanto affermiamo di tali realtà si accorda con
ciò che la Scrittura dice, sia pure in forma di parabole, ovvero in modo
quasi nascosto”. In tutto il suo commento E. enfatizza il primato di quella scintilla d’intelligenza presente nell’uomo dovuta a Dio stesso che l’ha
impressa in quest’ultimo. Al contempo Dio che è intelletto sente la necessità di salvaguardare la Scrittura come veritas. Tra la ragione e la Scrittura E. stabilisce un raccordo tale per cui individua come primo dovere del
cristiano quello di passare dalla storia all’essenza. Il libro delle parabole
della Genesi ne è un straordinario esempio.
GRILLI M., «Paradosso e mistero». Il Vangelo di Marco, EDB, Bologna
2012, pp. 118, € 11,00. 9788810221600
a vita di Gesù e la fede, secondo Marco, sono legate al «paradosso» e
L
al «mistero». Due termini che danno coerenza all’intera struttura del
testo e che vengono sviluppati come filo tematico dal vol.: dall’iniziale paradosso/mistero del Figlio messo alla prova, al Cristo che si nasconde, ai
vicini che «stanno fuori» e ai discepoli senza intelligenza, fino al paradosso/mistero della croce come via da seguire, dell’impotenza trasfigurata e
dell’impotenza che salva, di un tempio senza Dio, della luce che sgorga
dalle tenebre e al paradosso/mistero finale di una bella notizia avvolta nel
silenzio.
KNAUSS S., ZORDAN D., La promessa immaginata. Proposte per una
teologia estetica fondamentale, EDB, Bologna 2012, pp. 400, € 28,00.
9788810415252
l presupposto che accomuna i saggi raccolti nel vol. è che la teologia fonIl’apologetica,
damentale, per non accontentarsi d’essere un vago aggiornamento deldeve implicare un’estetica, intesa inscindibilmente come teoria dell’arte e del sentire. Solo così la sostanza teologica della rivelazione e
la forma antropologica della fede possono essere adeguatamente vagliate
alla luce del sentire umano. Affinché la promessa cristiana ci appaia degna
di fede non basta considerarla ragionevole, occorre saperla immaginare:
impegnare cioè nei suoi confronti le risorse della sensibilità e dell’immaginazione.
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NICOSIA P.S., Gesù mediatore. Cristo, la Legge e il giudizio, Monti,
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hi scrive è un conciliatore credente che osserva la figura di Gesù, fiC
glio di Dio, che testimonia con la sua vita e la sua morte il senso più
profondo della Legge (la Legge mosaica nel suo contesto storico) e del giudizio, nella visione fondante e perenne del Padre». Impegnato nella pratica e nella formazione sui temi della mediazione e della conciliazione, l’a.
– docente di mediazione e conciliazione all’Università di Pisa e in passato
team leader del progetto UE per l’introduzione della mediazione nei tribunali serbi – cerca nei Vangeli l’esempio di Gesù come conciliatore, sia
tra gli uomini sia con il Padre. Una lettura inusuale e attuale.
PENNA R., Gesù di Nazaret nelle culture del suo tempo. Alcuni aspetti
del Gesù storico, EDB, Bologna 2012, pp. 211, € 19,00 9788810221631
Ernesto Borghi
Il mistero appassionato
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Che cosa dovrebbe fare chi desidera incontrare Gesù
di Nazaret in modo significativo e coinvolgente?
Una lettura intelligente del Vangelo secondo Marco:
sedici capitoli evangelici che parlano di un mistero
appassionato, quello dell’amore di Dio per gli esseri umani.
esù di Nazaret visse in un preciso contesto culturale e il messaggio
G
dell’incarnazione di Dio non sarebbe neppure intellegibile, se non
comprendesse la dimensione della sua inculturazione. Proprio lo studio
dell’ambiente culturale del Gesù storico ci aiuta a comprendere meglio la
sua umanità. Essa è quella di un giudeo, che conservava i tratti specifici di
un semita, appartenente alla tradizione mosaica e profetica d’Israele, pur
essendo inserito in un quadro di cui l’ellenismo rappresentava la cornice
culturale dominante. Gli studi presentati dall’a. richiamano l’attenzione
sui due versanti storico-culturali dell’umanità di Gesù. Dopo un c. introduttivo, tre cc. approfondiscono la figura di Gesù all’interno del giudaismo
e tre in riferimento all’ellenismo. Il c. conclusivo apre la prospettiva al dopo Gesù, affrontando l’universalismo di Paolo.
PEREGO G. (a cura di), Vangelo secondo Marco. Introduzione,
traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011,
pp. 364, € 28,00. 9788821571015
l vol. appartiene al progetto editoriale «Nuova versione della Bibbia dai
Icontemporanee»
testi antichi», che si propone – «alla luce della ricerca e della sensibilità
– di offrire, insieme al testo ebraico, aramaico o greco
una versione italiana «che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza rinunciare a una buona qualità letteraria». Ogni vol., curato da un noto biblista italiano, comprende una sintetica introduzione generale e un commento «su due livelli»: un primo livello «dedicato alle note filologico-testuali-lessicografiche», e un secondo livello «dedicato al commento esegetico-teologico». Il presente vol. è a cura di uno dei tre direttori della serie.
SALVADORI I., L’autocoscienza di Gesù. «In tutto simile a noi eccetto
il peccato», Città nuova, Roma 2011, pp. 421, € 28,00. 9788831133746
n errore di giudizio circa la scienza di Gesù può avere conseguenze
U
devastanti sulla cristologia». Così affermava H. Riedlinger, negli anni Sessanta, riaprendo dopo la modernità la «questione dell’autocoscienza
Éloi Leclerc
I simboli dell’unione
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Un classico in cui l’autore analizza il Cantico di frate
Sole strofa per strofa, offrendone una lettura interiore
rigorosa, che, oltre a fraternizzare con le creature,
porta il lettore a imparare e assorbire il lessico
e la grammatica della trasformazione interiore
di Francesco d’Assisi.
di Gesù». Il tema, sulle orme di Riedlinger, sarà sviluppato in area tedesca
da teologi del calibro di Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar e Georg Essen, aa. di cui lo studio si occupa per ricostruire criticamente una vicenda
complessa e decisiva: confessare la «reale coscienza umana di Gesù, contro le tendenze monofisite della teologia tradizionale», salvaguardando al
contempo la «conoscenza unica della sua peculiare missione dal Padre e
un suo rapporto assolutamente particolare con lui».
SESBOUÉ B., Salvati per grazia. Il dibattito sulla giustificazione dalla
Riforma ai nostri giorni, EDB, Bologna 2012, pp. 319, € 29,50.
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a giustificazione per grazia mediante la fede è il tema simbolo del conL
flitto che ha separato cattolici e luterani al tempo della Riforma. Oggi è tornata a essere l’oggetto di un dialogo condotto in un clima di reciproca benevolenza ritrovata e coltivato nella speranza di una piena riconciliazione fra le Chiese. Il vol. presenta il dossier di questa vicenda, che si
estende su cinque secoli, e costituisce anche un contributo teologico, di tipo sistematico ed ecumenico. Si tratta di uno strumento di lavoro assai documentato e insieme di un tentativo d’interpretazione sia del passato sia
della situazione attuale. La sintesi e il bilancio offerti dall’a. – attivo da 40
anni nel dialogo ecumenico – sono strettamente coerenti con la sua radi-
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Pagina IX
Giuseppe Barbaglio
ce ecclesiale: un cattolico che propone il suo lavoro a cattolici e protestanti con l’intento di fornire una nuova occasione di dialogo. Un testo rilevante per completezza e chiarezza, nonché per l’attualità che il tema assume nei rapporti tra le Chiese.
VIGINI G., Dizionario del Nuovo Testamento. Concetti fondamentali,
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n circa 2.400 voci (nomi, luoghi, temi principali del Nuovo Testamento,
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frasi, termini, immagini ed espressioni caratteristiche, come «pianto e
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Pace e violenza
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neggevole che può avvicinare a una migliore comprensione del messaggio
evangelico anche chi non è sorretto da una formazione specialistica.
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messe feriali, che partendo dal confronto con situazioni ordinarie vissute dagli stessi aa., propongono una riflessione nuova alla luce della parola di Dio. Un cammino per vivere e pensare la Quaresima attraverso la
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2011, pp. 237, € 22,00. 9788882273354
onaco di Bose e liturgista, l’a. propone una guida per accedere al senM
so spirituale della liturgia e poterla vivere, comprendere e interiorizzare, perché «il futuro del cristianesimo in Occidente dipende in larga misura dalla capacità che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della
vita spirituale dei credenti». Il principio guida è: «Quello che la lectio divina è per le Scritture, la mistagogia lo è per la liturgia», la conoscenza cioè
del mistero narrato dalle Scritture e celebrato nella liturgia.
CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE (COP), Educarsi alla
corresponsabilità. I battezzati nel mondo alla prova della vita
quotidiana. 61a Settimana nazionale di aggiornamento
pastorale, EDB, Bologna 2012, pp. 268, € 19,50. 9788810531174
tema proposto da questa 61ª Settimana nazionale d’aggiornamento
Irale,lpastorale,
ultima della serie realizzata dal Centro orientamento pastoha subito attirato la mia attenzione per l’attualità che la tematica scelta, «Educarsi alla corresponsabilità – I battezzati nel mondo alla prova
della vita quotidiana», riveste nel quadro degli orientamenti pastorali della Chiesa italiana in questo decennio. È così che ho prontamente accolto
la proposta di organizzare a Firenze, i lavori della Settimana. Si tratta di
un tema certamente urgente e coinvolgente per la sua importanza e consistenza» (dalla prefazione di mons. G. Betori, arcivescovo di Firenze).
FRIGERIO L., Cene ultime. Dai mosaici di Ravenna al Cenacolo di
Leonardo, Àncora, Milano 2011, pp. 254, € 29,50. 9788851408770
n queste pagine vengono presentate alcune opere che hanno a tema l’UlIartistica
tima cena, compiendo attraverso la loro interpretazione e comparazione
e teologica una vero percorso sull’eucaristia nell’arte. Dai mosaici di
Ravenna del VI secolo alla scultura romanica, dagli affreschi di Giotto alla
pittura del beato Angelico, dalle tavole dei maestri fiamminghi fino al Ghirlandaio e al Perugino. Chiude il vol. la presentazione del capolavoro leonardesco del Cenacolo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano.
PILLONI F., CENTRO DI SPIRITUALITÀ «P. ENRICO MAURI», Amore che
educa. Il compito spirituale degli sposi e dei genitori, Effatà,
Cantalupa (TO) 2011, pp. 206, € 13,00. 9788874026791
I
l compito educativo secondo gli aa. – alcuni dei quali sono coppie di
sposi attive nella pastorale della famiglia, altri sono sacerdoti e docenti
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I
l filone pace-guerra-violenza è stato centrale
nella ricerca biblica di Giuseppe Barbaglio. Il
volume utilizza tre livelli di analisi. Quello biblicoesegetico, con visioni d’insieme e analisi di singoli
versetti. Quello teologico, che chiama in causa
il monoteismo e la sua pretesa di assolutezza, i
binomi colpa/castigo, perdono/espiazione. Quello
antropologico: Bibbia e diritti umani, esperienza storica e di fede, laicità e presenza del credente nel
mondo.
«Biblica - sez. Scritti di Giuseppe Barbaglio»
pp. 112 - € 10,00
Dello stesso autore:
Il mondo di cui Dio non si è pentito
Temi laici della Bibbia
pp. 280 - € 25,50
EDB
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Dehoniane
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Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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L
ibri del mese / schede
Notker Wolf
con Leo G. Linder
Pellegrini verso chi?
Pellegrini verso dove?
Strade antiche e mete nuove
A
ttraverso ricordi personali e letture
di antichi diari, riflessioni sull’uomo
e la società, sulla fede e le sue manifestazioni, l’abate primate dei benedettini discorre di pellegrinaggio, di
santuari e del credere. Ma anche dell’oggi e del bisogno di senso che ogni
persona, prima o poi, avverte nella
propria vita. Perché il viaggio è la vita,
e il pellegrino è ciascun uomo.
TÀBET M., DE VIRGILIO G., Sinfonia della Parola. Commento
teologico all’esortazione apostolica post-sinodale «Verbum
Domini» di Benedetto XVI, Rogate, Roma 2011, pp. 184, € 16,00.
9788880754060
testo dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, scritto da
IdellBenedetto
XVI a conclusione della XII Assemblea generale ordinaria
Sinodo dei vescovi su «La parola di Dio nella vita della Chiesa», viene
qui commentato con intento divulgativo da alcuni docenti della Pontificia
università della Santa Croce, che fa capo all’Opus Dei.
VERDON T., Bellezza e vita. La spiritualità nell’arte contemporanea, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011, pp. 167, € 24,00.
«Itinerari»
pp. 320 - € 23,00
9788821572265
Dello stesso autore:
Il tempo è vita: non correre!
pp. 208 - € 17,50
EDB
di teologia e pedagogia – ha una natura intrinsecamente spirituale trattandosi non soltanto di una responsabilità genitoriale ma soprattutto di
una vocazione. Educare, quindi, è un atto di fede per mezzo del quale la
coppia cristiana può esprimere il proprio rapporto con il divino testimoniando ai figli «l’amore stesso che li anima e il più grande amore che li ha
creati» perché anch’essi possano incontrarlo. Il vol. è dunque un sussidio
sul ruolo formativo della famiglia come principale agente della costituzione affettiva e dinamica dell’essere umano.
Edizioni
Dehoniane
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Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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vol. scaturisce dalla recente esperienza della costruzione della ChieIvalsacomunità
della Trasfigurazione a Orleans, Massachusetts, sede di una nuocristiana che s’identifica nella tradizione monastica e in
particolare nel cenobitismo benedettino. Si tratta della Comunità di
Gesù, che ha la peculiarità d’essere nata nell’ambito della Riforma e di
avere diversi membri provenienti dal protestantesimo. Il vol. riflette la
profonda compenetrazione tra espressione artistica e vita della comunità. Con contributi di A. Ciferni, J. Cottin, F. Rossi, M.I. Rupnik, M.
Shannon.
BUSCHINI P., La morte nel cuore della vita. Commento alle letture
festive dell’anno B, Effatà, Cantalupa (TO) 2011, pp. 124, € 9,50.
9788874022724
Carmela Gaini Rebora
Padre Marella
L’orgoglio vinto dalla carità
Nuova edizione
CASPANI P., Viviamo la messa. Commento alla celebrazione
eucaristica, EDB, Bologna 2012, pp. 61, € 5,50. 9788810512081
CILIA A., Lectio divina. Sui Vangeli feriali. Tempo ordinario.
Meditando giorno e notte nella legge del Signore (regola
carmelitana 10), Elledici, Cascine Vica (TO) 2011, pp. 895, € 25,00.
9788801048698
DE VANNA U., Giorno di festa. Riflessioni sulla Parola di Dio della
domenica. Anno B, Àncora, Milano 2011, pp. 400, € 17,50.
9788851409128
I
pubblici riconoscimenti che hanno
accompagnato in vita l’azione educativa e di carità di don Olinto Marella –
autentico “padre” per i moltissimi di
cui si prese cura – sono continuati dopo la morte. La nuova edizione della sua
biografia è stata accresciuta dal resoconto delle grazie e dei miracoli che
stanno accompagnando il necessario
cammino affinché la Chiesa possa proclamarlo beato.
«Itinerari»
pp. 192 - € 14,00
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
GUGLIELMONI L., NEGRI F., Effonda ovunque il tuo profumo. Via
crucis col Vangelo di Marco, EDB, Bologna 2012, pp. 47, € 2,40.
9788810710616
In cammino Pasqua 2012. Adulti. Bambini. Ragazzi, EDB, Bologna
2012, pp. 64+47+47, € 4,30+3,60+3,60.
MACHETTA D., Le luci del sabato. Spunti di riflessione per una
«Lectio Divina» sulla 1a lettura e sul Vangelo delle domeniche e
delle solennità dell’anno, Elledici, Cascine Vica (TO) 2011, pp. 213,
€ 12,00. 9788801049138
SEMERARO D. (a cura di), Messa e preghiera quotidiana/marzo 2012.
Riflessioni a cura di di fratel MichaelDavide, EDB, Bologna 2012,
pp. 329, € 3,90.
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Innocenzo Gargano
Lectio divina
sul Vangelo di Marco
Spiritualità
AA.VV., Comunione e solitudine. Atti del XVIII Convegno ecumenico
internazionale di spiritualità ortodossa. Bose, 8-11 settembre
2010, Qiqajon, Magnano (BI) 2011, pp. 375, € 28,00. 9788882273408
l convegno, registrando la presenza di molte Chiese cristiane e ricevenIpresentato
do i messaggi di molti personaggi di primo piano di tali Chiese, ha rapun momento concretamente ecumenico. Ma il motivo di interesse è sicuramente nel tema prescelto, in quanto la necessaria correlazione fra solitudine e comunione con gli altri è un elemento centrale per il cristiano, monaco o no, e per l’uomo in generale, specialmente per quello
moderno che sembra averne smarrito il significato.
ACCATTOLI L., Solo dinanzi all’unico Dio. A colloquio con il priore
della Certosa di Serra San Bruno, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)
2011, pp. 140, € 12,00. 9788849831313
all’incontro di due stili di vita agli antipodi nasce questo vol.-intervista:
D
da quello «divagante [del] giornalista nell’intento esplorativo» a quello «concentrato [del] monaco, nell’impresa di comunicare quello che in cella ha contemplato». A partire dall’occasione della visita del papa alla Certosa durante il viaggio in Calabria, A. partecipa alla vita dei monaci per tre
giorni; colloquia a lungo con il superiore e poi stende e rielabora il frutto di
tali conversazioni, anche alla luce di precedenti esperienze fatte accanto a
monaci. La domanda che torna a più riprese è quella relativa al «senso» sulla vita monacale nel mondo contemporaneo. Cf. Regno-att. 18,2011,647s.
CASTELLANO CERVERA J., CIARDI F., Il castello esteriore. Il «nuovo»
nella spiritualità di Chiara Lubich, Città nuova, Roma 2011, pp. 124,
€ 9,00. 9788831158503
cinque anni dalla scomparsa dell’a., l’editore raccoglie in un vol. – a cura di F. Ciardi, che firma anche l’introduzione – gli scritti da lui dedicati alla spiritualità di Chiara Lubich. L’antologia racconta di un incontro
possibile e fecondo tra due spiritualità distanti nel tempo, ma capaci d’accogliersi e illuminarsi, come attesta la biografia del religioso carmelitano.
Autentico discepolo della «mistica dell’interiorità» di Teresa d’Avila, egli ritenne «una grazia ancora più grande» l’incontro col Movimento dei focolari, che gli diede la possibilità «di vivere l’avventura della santità comunitaria
ed ecclesiale, nella costruzione di uno splendido e luminoso castello esteriore, incarnato nell’Opera di Maria, per la Chiesa e per l’umanità».
A
CHIALÀ S., Silenzi. Ombre e luci del tacere, Qiqajon, Magnano (BI)
2011, pp. 82, € 8,00. 9788882273224
silenzio non è un’esperienza necessaria solo per i monaci ma «un’esiInélgenza
umanamente irrinunciabile». Esso però non è un valore assoluto
è sempre positivo; ecco dunque che la I parte del libro fornisce alcuni
criteri per operare un discernimento e riconoscere i vari silenzi. La II offre poi le motivazioni per le quali il silenzio è particolarmente importante
per il credente. Infine, la III indica alcune vie per entrare nella lotta per il
silenzio e viverlo in modo fruttuoso. L’a., monaco di Bose, non intende fare un trattato sul silenzio, ma condividere i frutti dell’esperienza che lui e
i padri del deserto ne hanno fatto.
EVDOKIMOV P., La vita spirituale nella città, Qiqajon, Magnano (BI) 2011,
pp. 233, € 22,00. 9788882273415
idea del «monachesimo interiorizzato», sostenuta dal teologo ortodosL’
so russo Evdokimov esule a Parigi, è sviluppata nei cc. del vol., che costituiscono la riedizione di saggi e articoli ormai introvabili del celebre pensatore, tra i fondatori della «scuola di Parigi». Un saggio significativo del
pensiero di una delle figure più illuminate dell’ortodossia, che ha avuto un
ruolo di ponte tra le ricchezze dell’Oriente e dell’Occidente cristiani.
FÉDRY J., Decidere secondo Dio. Il metodo di Ignazio di Loyola, ADP
- Apostolato della preghiera, Roma 2011, pp. 167, € 10,00. 9788873575207
spirituale che attraverso la vita di s. Ignazio di LoIlyolavol. eè iunsuoiitinerario
Esercizi spirituali, intende mostrare l’arte del prendere
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Ciclo di conferenze tenute a Camaldoli
I
l cofanetto propone in CD formato
MP3 cinque conferenze del monaco
camaldolese che introducono alla meditazione del Vangelo di Marco attraverso
la lectio divina. Uno strumento adeguato
al pubblico di oggi, utile all’interno di
gruppi biblici o per la meditazione personale, particolarmente indicato per chi
ha difficoltà di lettura.
«Lectio divina»
CD/MP3 - € 17,40
Dello stesso autore:
La Lectio divina
Ciclo di conferenze tenute a Camaldoli
EDB
CD/MP3 - € 17,40
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Dehoniane
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Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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Lázaro Iriarte
Esercizi spirituali
con Francesco e Chiara
I
a pubblicazione in traduzione italiana
degli esercizi spirituali di fr. Iriarte
non costituisce soltanto un omaggio
alla sua memoria, ma il riconoscergli
«il merito di aver colto l’essenziale da
dire a coloro che sono consacrati al
Signore con i voti religiosi. Egli ha
voluto lasciarci uno strumento per vivere, con la filigrana degli scritti di Francesco e Chiara, l’ascolto e l’annuncio
della Parola di Dio» (dall’Introduzione di fr. M. Jöhri, ministro generale dell’Ordine dei frati minori
cappuccini).
«Teologia spirituale»
pp. 224 - € 20,00
EDB
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Dehoniane
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decisioni cercando la volontà divina. La I parte è centrata sulla decisione nel cuore della vita di Ignazio: come egli sia stato «condotto a ordinare la propria vita senza prendere decisioni in base ad alcun effetto disordinato». Nella II seguono i riferimenti per prendere decisioni: le condizioni per effettuarle, sfuggendo sia alla confusione sia all’illusione dei
propri immaginari, e infine i mezzi per fondare la decisione sulla preghiera, sapendo discernere le priorità guidati da una sensibilità ecclesiale.
FRÈRE EMMANUEL DI TAIZÉ, Un amore misconosciuto. Al di là delle
rappresentazioni spontanee di Dio, EMP - Edizioni Messaggero,
Padova 2011, pp. 271, € 24,00. 9788825025347
uando si allude alla questione di Dio, l’uomo – “credente” o “non
Q
credente”, “in ricerca” o semplicemente “aperto” – è condizionato
da proiezioni psicologiche inconsce. Alcune di esse possono suscitare
una rappresentazione di Dio che alimenta rivolta, rifiuto, paura o indifferenza». L’a., membro della comunità religiosa ecumenica di Taizé, in
una ricerca ai confini tra la teologia e la psicologia vuole smascherare
l’influenza inconscia nelle rappresentazioni spontanee di Dio più ricorrenti – sull’onnipotenza, il giudizio, la trascendenza, la tenerezza divini
– «per riuscire a considerare, scoprire o riscoprire un amore misconosciuto».
GRÜN A., MÜLLER W., Chi sei tu, o Dio?, Queriniana, Brescia 2011,
pp. 270, € 22,00. 9788839928757
l monaco benedettino Grün, noto a. di temi spirituali, e il teologo e
Icristiano
psicologo Müller non intendono redigere un trattato teologico sul Dio
ma, più umilmente, parlare della loro esperienza di Dio, nella
convinzione che questi possa essere conosciuto più nella propria vita intima e concreta che nelle speculazioni astratte. Il libro, in forma di dialogo, parla dunque del Dio uno e trino, manifestatosi in Gesù, delle idee
false che di lui si possono avere, del rapporto del credente coi dogmi,
con la Chiesa e con la pratica religiosa e dei modi in cui si può incontrare Dio.
KNAUSS S., La saggia inquietudine. Il corpo nell’ebraismo, nel
cristianesimo e nell’islam, Effatà, Cantalupa (TO) 2011, pp. 237,
€ 15,00. 9788874027347
l corpo è segno di mortalità e di vita, di peccato e di salvezza, autonoIsi costituiscono
mo e in relazione, bassamente fisico e intimamente sacro: tali paradosun limite e una sfida possibile per il contatto con il divino.
L’a. indaga, in prospettiva storica e sistematica, il coinvolgimento del corpo nelle tre grandi religioni monoteistiche, dipanando una vicenda che
passa, attraverso rituali, regole alimentari, aspetti teologici e mistici, dal
corpo sociale dell’ebraismo all’incarnazione di Cristo, fino al carattere comunitario e materno dell’islam.
MAZZI A., Le beatitudini del marciapiede, Monti, Saronno (VA) 2011,
pp. 168, € 13,50. 9788884772046
SERVAN-SCHREIBER D., GAUTHIER U., Ho vissuto più di un addio,
Sperling & Kupfer, Milano 2011, pp. 126, € 14,90. 9788820051747
testamento spirituale dell’a. – scomparso a cinquant’anni nel luglio del
Iunl2011
– di Guarire e Anticancro, i testi che tra i primi hanno elaborato
approccio olistico preventivo alla malattia del secolo, il cancro. Rimangono validi i consigli elargiti in questi voll. e in tante interviste e conferenze che l’a. ha rilasciato negli anni di febbrile attività. Qui però la riflessione si concentra su come «affrontare bene la morte»: salutare gli amici; riconciliarsi con le persone con cui si è rimasti in sospeso per qualche cosa;
sistemare le proprie cose. Non è esclusa la visita di un sacerdote e neppure l’esperienza di Lourdes: quello che viene definito come «una grande
privilegio» è quello di «avere la possibilità di preparare la propria partenza».
ZELINSKIJ V., Come un mosaico restaurato. Il Volto di Cristo cuore
dell’incontro con Dio, Effatà, Cantalupa (TO) 2011, pp. 201, € 13,00.
9788874026982
vol. raccoglie scritti diversi e apparsi in occasioni diverse che l’a., saIsitàlcerdote
ortodosso e docente di Lingua e civiltà russa presso l’Univercattolica del sacro cuore, oggi raccoglie sotto il filo conduttore del
mosaico. «In questo libro cercherò di ri-scoprire e ripulire alcune tessere del mosaico della fede, costituito con le immagini e le figure maggiormente essenziali»: il tema del volto di Cristo, la Sindone, la Trinità
di Rublëv; il messaggio degli apostoli Andrea e Paolo; chiudono il vol. 4
conversazioni immaginarie con V. Solov’ëv, M. Skobcova, S. Averincev,
O. Clément.
Storia della Chiesa
DELL’OMO M., Storia del monachesimo occidentale dal Medioevo
all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX
secolo, Jaca Book, Milano 2011, pp. 611, € 65,00. 9788816304932
n testo impegnativo che si presenta come «nuova sintesi rigorosaU
mente scientifica» di storia della tradizione monastica benedettina e
dei suoi effetti dalle origini al Novecento. L’a., benedettino e docente di
Storia del monachesimo, ha organizzato il vol. in due parti: una I parte
(«Da Benedetto a Bernardo») indaga la diffusione dell’esperienza monastica della Regola benedettina nel Medioevo, attraverso le vicende che ne
fecero «uno dei fattori più rilevanti» nello sviluppo della civiltà occidentale. La II parte («Dall’autunno del Medioevo alle soglie del terzo millennio»), si occupa del monachesimo europeo, tra crisi e riforme, fino al rinnovamento seguito al Vaticano II.
GHIBERTI G., CORONA M.I. (a cura di), Marianna Fontanella beata Maria
degli Angeli. Storia spiritualità arte nella Torino barocca, Effatà,
Cantalupa (TO) 2011, pp. 393, € 28,00. 9788874027378
350 anni dalla nascita (7.1.1661) la diocesi dedica uno studio alla fin’autobiografia sui generis del fondatore delle comunità Exodus per
U
ragazzi borderline: nelle beatitudini rivisitate prende vita tutta la «spi- A gura di una monaca di clausura che, pur di origini nobiliari, non esiritualità del marciapiede» – profondamente segnata dalla contemplazione tò a dedicarsi anima e corpo alla vita monastica in un costante dialogo spidel mistero dell’incarnazione – di un prete ormai ottantenne che, tuttavia,
non si è stancato di cercare ancora «un modo nuovo, più sommesso ma
non meno evangelico, per incontrare Cristo».
MOIX Y., Morte e vita di Edith Stein. Storie di giovani che hanno
dato volto all’amore di Dio, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2011,
pp. 126, € 11,00. 9788825017946
iografia romanzata – senza forzature – della santa filosofa, miglioB
re allieva di Husserl, nata da famiglia ebrea e che ha finito i propri
giorni come carmelitana. L’a., che è anche romanziere e cineasta, rende con vivacità un percorso di ricerca interiore fatto di grandi slanci
ma anche di grandi abbattimenti. Fino al mansueto abbandono all’arresto da parte dei nazisti e della morte in campo di concentramento nel
1942.
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rituale e di solidarietà con la città di Torino. Ricchi e poveri, principesse
Savoia e gente semplice spesso bussava alle porte del monastero per chiedere consiglio e aiuto. Tanto che nel 1703 viene messo mano alla costruzione di un nuovo Carmelo a Moncalieri, dove ora giacciono le spoglie
mortali della beata.
LUCHINO DAL CAMPO, Viaggio del marchese Nicolò d’Este al Santo
Sepolcro (1413). Edizione e commento a cura di Caterina Brandoli,
Olschki, Firenze 2011, pp. 325, € 36,00. 9788822260611
ella figura leggendaria di Nicolò III d’Este, di cui tanta letteratura si
D
è occupata per via dell’aver egli ucciso moglie e figliastro scoperti in
un rapporto incestuoso, è meno noto il viaggio-pellegrinaggio in Terra
Santa compiuto 10 anni prima e del cui resoconto il vol. presenta un testo
con apparato critico rivisto e aggiornato. Presentazione di F. Cardini.
XII
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Pagina XIII
PIERPAOLO CASPANI
RAMELLI I., I cristiani e l’impero romano, Marietti, Milano 2011, pp. 107,
€ 12,00. 9788821193132
ra il 2009 e il 2010 la storica dell’antichità Ilaria Ramelli ha pubblicato sul quotidiano Avvenire, nella rubrica «Colombario», una serie
di articoli che rappresentavano una stretta selezione e condensazione, a
scopo divulgativo, di alcuni risultati delle sue ricerche sulle origini del cristianesimo, in particolare con riferimento al I secolo d.C. Sono divisi in 4
sezioni, che trattano rispettivamente della presenza di Gesù nelle fonti non
cristiane, dell’arrivo del cristianesimo a Roma, del cristianesimo nei romanzi e nelle satire pagane e delle fonti dell’Oriente cristiano antico. La
studiosa è tra quanti propendono per l’autenticità di una parte dell’epistolario Seneca-Paolo.
Viviamo la messa
Commento alla celebrazione eucaristica
T
Attualità ecclesiale
ALETTI M., GALEA P., Preti pedofili? La questione degli abusi
sessuali nella Chiesa, Cittadella, Assisi 2011, pp. 125, € 9,80.
9788830811645
gile libretto che invita a non semplificare un fenomeno complesso nel
A
quale entrano in gioco fattori emotivi e sociali non sempre facilmente controllabili. Da parte dell’istituzione ecclesiastica, gli aa., uno psicoanalista e uno psicologo, chiedono un’attenzione partecipe non solo ai responsabili degli atti contro i minori ma anche e soprattutto alle vittime. Citando vari casi di Chiese locali e delle loro risposte (i testi sono tutti tratti
da Il Regno), viene messo in evidenza il fatto che vi sono stati diversi approcci al problema e che ormai vi sono prassi virtuose consolidate che occorrerebbe far conoscere e renderle patrimonio comune.
BUSCHINI P., Cristiani laici nella vita della Chiesa e nella società. Con
un commento alla Christifideles laici, Effatà, Cantalupa (TO) 2011,
pp. 125, € 9,50. 9788874027132
I
l volumetto presenta lo svolgimento della
celebrazione eucaristica, così com’è indicato dalle norme liturgiche, mostrandone il
senso e offrendo sobrie indicazioni per una
partecipazione consapevole e fruttuosa.
Il riferimento è alla messa secondo il rito
romano, con qualche nota anche sul rito
ambrosiano. Il linguaggio, preciso dal punto
di vista teologico e liturgico, risulta accessibile a tutti.
«CAMMINI DI CHIESA» pp. 64 - € 5,50
EDB
a., gesuita dalla lunghissima esperienza di docente e animatore spiL’
rituale, non intende condurre una disamina teologica del ruolo del
laico nella vita della Chiesa ma stimolare una riflessione sia nei laici sia
nella gerarchia sul fatto che il laico, come ogni cristiano, necessiti di farsi
rinnovare dallo Spirito Santo ed essere innanzitutto un uomo controcorrente, profeta di una realtà nuova che egli stesso deve realizzare. Lo spunto è fornito dall’esortazione Christifideles laici, commentata brevemente e
criticamente, dalla quale ci si sposta alle Beatitudini, modello per l’uomo
nuovo che il laico deve incarnare in ogni ambito della sua vita.
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Dehoniane
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MASSIMO GRILLI
«Paradosso» e «mistero»
Il Vangelo di Marco
GALEAZZI G., PINOTTI F., Wojtyla segreto, Chiarelettere, Milano 2011,
pp. 315, € 16,00. 9788861901148
no dei vaticanisti de La stampa firma con un giornalista d’inchiesta
U
questa «prima controinchiesta» su Giovanni Paolo II, nella convinzione che «con la beatificazione lampo di Wojtyla la Chiesa celebra soprattutto la sua ossessione secolare per il potere». Si ricostruisce dapprima
la storia del vescovo di Cracovia fin dai tempi della sua gioventù sottolineando quanto sia stato osteggiato dai servizi segreti polacchi. Si denunciano poi due dei principali elementi critici del suo pontificato: i presunti finanziamenti a movimenti anticomunisti con denaro di dubbia provenienza e la durezza, ritenuta intransigente, verso la teologia e le istanze ecclesiali innovatrici.
VIRGILI R., FALLICA L., CASATI A., Giustizia della legge giustizia
dell’amore. Chiesa e cambiamento dopo il dolore della pedofilia,
Il Segno dei Gabrielli, S. Pietro in Cariano (VR) 2011, pp. 93, € 10,00.
9788860991423
e «riflessioni che compongono questo vol., frutto del VI Convegno sulL
la vita monastica, organizzato dalla Piccola famiglia della risurrezione
di Marango (VE) e dalla Piccola fraternità di Gesù di Pian del Levro (TN),
vogliono essere un contributo serio al dibattito in corso, nella speranza di
un cammino evangelicamente significativo della Chiesa che è in Italia. Il
superamento del manicheismo e del legalismo, un’autentica guida pasto-
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econdo Grilli, il forte impianto teologico
del Vangelo di Marco è legato ai concetti
di «paradosso» e «mistero», che danno coerenza all’intera struttura del testo. Dall’iniziale
paradosso/mistero del Figlio messo alla
prova, al Cristo che si nasconde, si giunge fino
al paradosso/mistero della croce, dell’impotenza trasfigurata che salva, di un tempio
senza Dio, della luce che sgorga dalle tenebre, di una bella notizia avvolta nel silenzio.
S
«BIBLICA» pp. 120 - € 11,00
DELLO STESSO AUTORE
SCRIBA DELL’ANTICO E DEL NUOVO. IL VANGELO DI MATTEO
pp. 128 - € 11,50
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Edizioni Edizioni
Dehoniane
Dehoniane
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Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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ibri del mese / schede
rale delle comunità , il radicamento nelle sacre Scritture e nella grande tradizione sapienziale del nostro popolo potranno, con fiducia, indicarci la
strada». Testi di G. Scatto, R. Virgili, L.A. Fallica e A. Casati.
Filosofia
COURCELLE P., Conosci te stesso. Da Socrate a San Bernardo, Vita e
pensiero, Milano 2010, pp. XXIV+679, € 40,00. 9788834320297
suo ramificarsi in una crescente complessità e lungo «linee evolutive privilegiate» che conducono prima allo «psichismo» e poi, nell’uomo, allo sviluppo dell’intelligenza riflessiva (noosfera). «Uno stupendo quadro di quella “salita” verso l’uomo che è il senso profondo della cosmogenesi» (dalla
prefazione di J. Piveteau). Imperdibile.
VIVARELLI V., Nietzsche e gli ebrei. Con due saggi di Jacob Golomb
e Andrea Orsucci, Giuntina, Firenze 2011, pp. 270, € 15,00.
9788880574200
na leggenda ancora perdura nonostante sia stata efficacemente smena storia del precetto delfico «conosci te stesso» viene percorsa attraL
verso le numerose riprese dello stesso che hanno caratterizzato il pen- U tita dagli studiosi del filosofo della volontà di potenza: Nietzche prosiero occidentale da Socrate a san Bernardo, passando per aa. come Cice- feta del nazismo. Come, invece, dimostrano i due magnifici saggi introrone, Plotino, Origene e Agostino. Il vol., pubblicato nel 1974-75 e ora riproposto nella sua 2a edizione italiana, rivela l’esistenza nella storia dell’interpretazione di due linee: una «socratica», che sottolinea l’aspetto della finitezza umana «rispetto a Dio e al divino», e una «neoplatonica», che
il pensiero cristiano esalterà, tesa a far emergere invece la grandezza dell’uomo per la sua sorprendente «tangenza col divino». «Un opera di riferimento, al momento unica nel suo genere» (dalla presentazione di G.
Reale).
GARDNER H., Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel
ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 222, € 20,00.
9788807104749
a bellezza, la bontà e, prima di tutto, la verità sono state virtù dichiarate superate se non addirittura morte. Stranamente mai come in questo convulso inizio millennio si sente la necessità non più procrastinabile di
un criterio che sappia distinguere il vero dal falso, un segno artistico da
uno scarabocchio. L’a. con una scrittura lontana da qualsiasi tecnicismo
invita il lettore, nella pluralità di modi d’intendere il vero, il bello ed il giusto, a riflettere sulla sua proposta di come immaginare i prossimi decenni
nella condivisione di principi trasversali a tutte le culture. Un invito a evitare i conflitti, dunque, un appello alle virtù. Da leggere.
L
GRASSI P., Trascendenza fra i tempi. Dimensioni dell’esperienza
religiosa, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 115, € 18,00. 9788837224684
el tempo in cui sfumano i contorni della verità e il senso dell’agire, si
N
avverte il richiamo all’evento della salvezza». Il vol., dopo aver ripercorso le questioni principali affrontate nel Novecento tra filosofia e teologia della religione (I parte), cerca di «decriptare» la sfida del religioso nei
nostri tempi (II parte). Sotto quali interrogativi – si chiede l’a. – è presente oggi «il problema religioso, in senso lato, come rapporto fra l’uomo e ciò
che lo trascende»? Ne emerge una ricerca di salvezza che, «con o senza
Dio», si lascia cogliere sotto la cifra della responsabilità, ovvero come «invito a mettere in gioco sin da ora il nostro futuro». Testo di studio.
MARASSI M.Y., Il Sutra del diamante. La cerca del paradiso, Marietti,
Milano 2011, pp. 245, € 26,00. 9788821165177
Sutra del diamante, opera indiana del II secolo, è la base di tutta la
Idottol«mistica»
del buddhismo mahayana. Viene qui per la prima volta trae commentato in italiano, accompagnato da un’introduzione al senso del Sutra oggi. Nella II parte del vol. un saggio di Gennaro Iorio, filosofo, già collaboratore di Raimon Panikkar al progetto «The spirit of religion», esamina le analogie linguistiche tra l’opera indiana e la mistica occidentale.
TEILHARD DE CHARDIN P., TASSONE A., Il posto dell’uomo nella natura.
Struttura e direzioni evolutive, Jaca Book, Milano 2011, pp. 122,
€ 16,00. 9788816370142
editore sceglie un classico per iniziare la ripubblicazione delle opere
L’
di de Chardin, gesuita e paleontologo, figura straordinaria e fondamentale per superare il conflitto tra l’idea di evoluzione del cosmo e il pensiero teologico cristiano. Nel vol., una raccolta di 5 conferenze programmate alla Sorbona nel 1949, l’a. si occupa della comparsa del «fenomeno
umano» nell’evoluzione dell’universo: dal sorgere della vita (biosfera) al
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duttivi all’antologia degli scritti nicciani sul mondo ebraico, il suo anti-antisemitismo è un dato inoppugnabile. Tuttavia la sua critica al mondo giudaico e a quello cristiano è tale da essere tutt’oggi motivo di controversia.
L’antologia ha il pregio di trovare il giusto equilibrio, grazie anche a una
rete di note oltreché di eccellenti introduzioni che sottendono ogni brano
scelto, tale da permettere al lettore di farsi un’idea il più possibile oggettiva sui rapporti che il pensatore tedesco ebbe con l’ebraismo e con il cristianesimo.
Storia, Saggistica
BRANCA P., DE POLI B., ZANELLI P., Il sorriso della Mezzaluna.
Umorismo, ironia e satira nella cultura araba, Carocci, Roma
2011, pp. 196, € 18,00. 9788843059942
ulla civiltà islamica la nostra cultura media è ancora attaccata a steS
reotipi più o meno antichi, rinfocolati negli ultimi anni a causa del terrorismo di matrice islamica, che ha rafforzato l’immagine negativa di una
civiltà incapace di leggerezza e ironia. L’analisi della letteratura classica,
della satira proverbiale, della pubblicistica rivela invece che il divertimento e l’ironia accomunano tutte le civiltà – compresa quella araba o più latamente musulmana –, spesso come unica forma di dissenso e di protesta
a disposizione. Un c. finale, firmato da P. Branca, esamina le «reazioni a
vere o presunte provocazioni», per suggerire alcuni possibili anticorpi da
far crescere in entrambe le culture, quella occidentale e quella orientale,
contro la violenza religiosa.
CALCHI NOVATI G.P., L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e
postcoloniale, Carocci, Roma 2011, pp. 442, € 26,40. 9788843059997
«d’uso iniziare le storie del colonialismo italiano con una lamentazioÈ
ne per i ritardi della ricerca e della pubblicistica in Italia su un tema
che tanta importanza ha avuto nella nostra storia e per la lunga egemonia
della storiografia d’impianto apologetico e sostanzialmente colonialista. Le
recriminazioni sono giustificate (…) ma il libro parte dal presupposto che
gli studi sul colonialismo italiano sono entrati da tempo in una nuova fase
(…) e che perciò si può cominciare a ragionare sui risultati. (…) È così che
si è sentito il bisogno (…) di fare una rilevazione dello stato dell’arte in materia producendo un’opera d’insieme capace di sottoporre a un riesame
critico le molte dimensioni di un fenomeno di per sé complesso e multiforme che riguarda in pari grado l’Italia e l’Africa».
CANNELLI S., Cattolici d’Africa. La nascita della democrazia in
Benin, Guerini e associati, Milano 2011, pp. 255, € 24,00. 9788862502375
«rappresenta uno dei rari casi africani in cui la transizione da
I– silunBenin
regime autoritario alla democrazia – avvenuta tra il 1989 e il 1990
è svolto secondo modalità consensuali e negoziate. Con la Conferenza nazionale di tutte le forze vive della nazione, convocata e preparata in meno di tre mesi e svoltasi nell’arco temporale di dieci giorni, il
Benin è uscito dalla dittatura senza violenza e spargimento di sangue».
In tale assise giocò un ruolo chiave la Chiesa cattolica, nella persona di
mons. Isidore de Souza, vescovo coadiutore di Cotonou. «Un concorso
di ragioni (…) ha reso così significativa l’azione di De Souza durante e
dopo la Conferenza nazionale: le sue indubbie capacità di mediazione
e moderazione e il rapporto personale da lui instaurato con il capo del
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LUIGI GUGLIELMONI - FAUSTO NEGRI
regime marxista Mathieu Kérékou; il profondo radicamento della giovane Chiesa cattolica nella storia del Dahomey coloniale e del Benin indipendente, in particolare il suo ruolo nell’opera di formazione delle élites istruite, in un paese che fu definito dal filosofo Emmanuel Mounier
il “quartiere latino” dell’Africa».
DE BENEDETTI P., L’alfabeto ebraico. A cura di Caramore G.,
Morcelliana, Brescia 2011, pp. 103, € 10,00. 9788837224912
iproponendo uno dei cicli monografici della trasmissione di Radio 3,
«Uomini e profeti», l’alfabeto ebraico viene raccontato dall’a. in dialogo con la curatrice e conduttrice. Attenzione, amore, cura per ogni lettera emergono in questa narrazione, che si presenta come un utile strumento per chi approccia per la prima volta la conoscenza della lingua, intessendo l’apprendimento linguistico con quello della cultura, della parola,
cui tale alfabeto assume e veicola. Grafia, significato, pronuncia, valore
numerico e lessicale vengono presentati insieme a racconti talmudici e rabbinici, in modo tale da alleggerire con la narrazione gli aspetti più mnemonici dello studio.
R
BOURKE J., Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi,
Laterza, Roma - Bari 2009, pp. 600, € 20,00. 9788842085409
BUONANNO M., Se vent’anni sembran pochi. La fiction italiana,
l’Italia nella fiction. Anni ventesimo e ventunesimo, Rai, Roma
2010, pp. XXIV+506, s.i.p. 9788839715159
DE TULLIO E., La ricchezza intangibile. Proprietà intellettuale e
competitività del settore audiovisivo, Rai, Roma 2011, pp. 333, s.i.p.
9788839715333
Effonda ovunque
il tuo profumo
Via Crucis col Vangelo di Marco
l cammino della Via Crucis si
snoda lasciandosi sollecitare dai
personaggi della Passione presenti
nel Vangelo di Marco. A ogni stazione,
l’attenzione si concentra attorno a
un gesto/simbolo che aiuta ad
addentrarsi nel mistero della «follia
d’amore» della croce.
I
«SUSSIDI PER I TEMPI LITURGICI» pp. 48 a due colori - € 2,40
EDB
!# !! & GISOTTI R., SAVINI M., TV buona dottoressa?. La medicina nella
televisione italiana dal 1954 a oggi, Rai, Roma 2010, pp. 292, s.i.p.
9788839715142
PADOAN P., Momenti di preghiera e di implorazione nell’opera lirica, Ed.
Insieme, Terlizzi (BA) 2010, pp. 406, € 20,00. 9788876021145
RAPELLI G., Giuseppe Rapelli e «Il lavoratore». La formazione di un
sindacalista cattolico nella Torino degli anni ’20. Con la
ristampa anastatica della rivista «Il lavoratore», Effatà, Cantalupa
(TO) 2011, pp. 227, € 27,00. 9788874026760
ZAULI G., I cancelli d’Europa. Quando l’unità non è stata una parola,
Ares, Milano 2010, pp. 177, € 13,00. 9788881555130
BURUMA I., Domare gli dei. Religione e democrazia in tre
continenti, Laterza, Roma - Bari 2011, pp. 138, € 15,00. 9788842094951
a più grande novità degli ultimi decenni è stato indubbiamente il riL
torno della religione. In realtà il pensiero religioso, nelle sue diverse
fedi, non è mai stato superato da un razionalismo di stampo neoilluminista. Di questo ritorno e dei suoi effetti sulla democrazia è acuto indagatore l’a., esperto mondiale delle culture orientali, in particolare di
quella giapponese. Il vol. è, infatti, un tentativo, intellettualmente onesto da parte di un agnostico, di focalizzare sul modo in cui culture diverse hanno affrontato le tensioni causate dall’impatto che le religioni
hanno avuto con il sistema delle varie democrazie. Nel saggio si affrontano innanzitutto i rapporti tra Chiesa e stato in Europa e negli USA,
successivamente il problema dell’autorità religiosa in Cina e in Giappone e, da ultimo, le sfide dell’islam nell’Europa contemporanea. Da leggere.
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RINALDO PAGANELLI
Con Cristo
dalla testa ai piedi
Via Crucis ispirata agli scritti di mons. TONINO BELLO
enere in testa e acqua sui piedi:
tra questi due riti si snoda la strada
della Quaresima. Un percorso faticoso,
perché si tratta di partire dalla propria
testa per arrivare ai piedi degli altri.
La riflessione della Via crucis è guidata
dalle annotazioni suggestive tratte
dagli scritti di mons. Tonino Bello.
La nuova edizione, a caratteri grandi, è
particolarmente apprezzata da persone
anziane o con difficoltà di lettura.
C
Politica, Economia, Società
XV
A CURA DI
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NUOVA ED
«SUSSIDI PER I TEMPI LITURGICI» pp. 36 a due colori - € 1,80
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IZIONE
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ibri del mese / schede
CASALI A., Tra cielo e terra. Cinema, artisti e religione. Interviste ai
protagonisti del grande schermo, Pendragon, Bologna 2011, pp. 212,
€ 16,00. 9788865980798
a alcuni anni, ogni autunno si svolge a Terni il festival cinematografico Popoli e religioni, ideato dal vescovo mons. Vincenzo Paglia e
promosso dall’Istituto di studi teologici e storico-sociali: da quella esperienza nasce questo vol., che raccoglie interviste, contributi e dialoghi di
protagonisti del mondo del cinema sul rapporto tra il loro lavoro, la loro
ricerca e la religione. Da Liliana Cavani a Carlo Verdone passando per
Ascanio Celestini, emerge un quadro di vivissima attenzione e dialettica.
In particolare, si segnala il dialogo fra Nanni Moretti (che non solo dal recente Habemus papam è attento al tema della Chiesa) e la giovanissima regista Alice Rohrwacher, autrice del duro e delicato Corpo celeste.
D
DAL BELLO M., I ricercati. Padri e figli nel cinema italiano
contemporaneo, Effatà, Cantalupa (TO) 2011, pp. 175, € 12,50.
9788874026722
gionando sull’emotività e sull’empatia come strumenti per imparare a relazionarsi con l’altro.
CASTENETTO D., L’educatore e il suo profilo spirituale. Sulle orme
dell’unico maestro, La scuola, Brescia 2011, pp. 85, € 8,50.
9788835026860
a. intende offrire alcuni elementi fondamentali per una spiritualità
L’
dell’educatore, un compito che da sempre rappresenta una «sfida»
perché esige la capacità di mettersi in ascolto della Parola attendendo da
essa con fiducia, che necessita di tempo senza rinunciare ad amare. Su
questa traccia anche l’esperienza dell’educare si può definire «spirituale
nella misura in cui chi educa vive e mantiene l’assoluto riferimento a Cristo, in obbedienza allo Spirito» e se ne lascia plasmare.
ORLANDO V., PACUCCI M., La paura di volare. Il difficile passaggio
all’adultità dei giovani italiani, Elledici, Cascine Vica (TO) 2011,
pp. 200, € 13,00. 9788801048063
uando si parla d’urgenza educativa, si pensa solitamente agli adoledifficile rapporto con la figura paterna e lo scontro generazionale sono
Ile, lunpopolare
tema classico nella letteratura e ora anche di «quel romanzo globa- Q scenti e ai giovani, ma non alla categoria ambigua e complessa dei
e mediatico che è il cinema». L’a. dunque esplora «i molti pa- giovani adulti, alle prese con un passaggio alla condizione adulta sempre
dri» che sono raffigurati dal cinema italiano dell’ultima decade, dopo aver
velocemente fatto la stessa cosa per i film americani e quelli europei dello
stesso periodo. Ne emerge tutta la difficoltà e la complessità del rapporto
attuale fra figli e padri, che tuttavia si cercano reciprocamente. Conclude
il lavoro una serie d’interviste ad autori e interpreti che hanno rappresentato questi temi.
GIRARD R., PALAVER W., Violenza e religione. Causa o effetto,
Raffaello Cortina, Milano 2011, pp. 85, € 11,00. 9788860304315
e «religioni arcaiche non sono semplicemente spiegazioni sbagliate delL
l’universo. (…) Avevano il compito di mantenere la pace. Per raggiungere questo scopo hanno dovuto fare ricorso a mezzi violenti, che in realtà
non erano veramente una loro invenzione, ma erano stati messi a disposizione (…) dall’evoluzione spontanea delle relazioni umane. Non possiamo
considerare queste religioni estranee rispetto alla natura umana. Anche
cercando di apportare miglioramenti, non c’è dubbio che il compito sia infinitamente più difficile di quanto non fosse un centinaio di anni fa. La violenza che vorremmo attribuire alla religione è in realtà la nostra violenza,
e dobbiamo affrontarla direttamente. trasformare le religioni in capri espiatori della nostra violenza può alla fine, avere solo l’effetto opposto».
LAMY A., NIEZBORALA M., Lavorare senza crollare. Vivere bene il
lavoro è ancora possibile?, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2011,
pp. 109, € 9,50. 9788825025880
a globalizzazione ha spinto l’economia occidentale verso derive semL
pre più onerose da sopportare per i lavoratori dipendenti, anche del
terziario. Questo agile libro, scritto da un medico del lavoro e da una giornalista, parla della realtà francese ma può essere trasferito con relativa facilità a quella italiana. Il lavoratore comune si sente sempre più in difficoltà – solitamente si dice «stressato» – fino a esiti nocivi per la salute. Le dimensioni del fenomeno fanno pensare che esso non sia un’eccezione ma
una caratteristica generale, che necessiterebbe dunque di una riflessione
individuale e collettiva, in cui il libro ci accompagna.
Pedagogia, Psicologia
BONAFEDE F., SOPRANI M., Empatico sarà lei! Per la mediazione dei
conflitti e l’educazione alle relazioni, Effatà, Cantalupa (TO) 2010,
pp. 110, € 9,50. 9788874026449
i fronte alle difficoltà nel saper gestire le relazioni sociali, spesso perD
cepite come fonte di conflitti, il libro vuole essere un primo approccio al tema della mediazione e dell’educazione alle relazioni. Per questo gli
aa., soci fondatori di un’Associazione per la promozione sociale, per mezzo della rielaborazione degli incontri e dei corsi di formazione tenuti negli
ultimi anni, offrono alcune linee guida per uscire dalla concezione negativa del conflitto. L’obbiettivo è di giungere alla risoluzione delle ostilità ra-
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più difficile. Essi «sono stati lasciati alla solitudine e alla intraprendenza individuale, ad una visione fatalistica del destino», ma hanno bisogno di essere ancora accompagnati e di farsi protagonisti della propria formazione,
non in modo individualistico ma collettivo. C’è bisogno di relazione e solidarietà fra le generazioni e all’interno delle generazioni. Con questi punti fermi gli aa. tentano di definire la condizione dei giovani adulti e tracciare un percorso per la loro formazione.
SZERMAN S., GRAVILLON I., L’arte della lentezza. Come riconquistare
il proprio tempo?, EMP - Edizioni Messaggero Padova, Padova 2011,
pp. 87, € 8,50. 9788825025897
iccola serie di consigli furbi cui è sottesa l’idea che riappropriarsi del
P
tempo significa acquisire il senso del proprio limite che spesso, proprio
attraverso la variabile tempo, mettiamo a dura prova.
WANG L., L’istruzione di base in Cina, LAS, Roma 2011, pp. 176, € 12,00.
9788821307768
vol. appartiene a una collana scaturita dalla collaborazione fra la PonIrireltificia
università salesiana e la Zhejiang University (Cina), volta a favola reciproca conoscenza fra i sistemi educativi dei due paesi e a stimolare la ricerca in ambito pedagogico. I voll. dedicati alla realtà educativa
cinese colmano un vuoto finora non superato a causa dello scoglio linguistico. Questo libro, dopo un sintetico excursus storico sulla nascita del sistema scolastico moderno in Cina, descrive l’organizzazione e il funzionamento dell’istruzione di base in Cina, comprendente l’educazione prescolare, l’istruzione primaria e quella secondaria generalista.
FOGAROLO F., SCAPIN C., Competenze compensative. Tecnologie e
strategie per l’autonomia scolastica degli alunni con dislessia e
altri DSA, Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 216, € 19,00. 9788861376458
NEENAN M., DRYDEN W., I cento punti chiave della psicoterapia
cognitiva. Teoria e pratica, Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 245,
€ 20,00. 9788861376663
ORTNER G., Dimmelo con una fiaba. Migliorare il rapporto con i
propri figli, Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 238, € 15,50.
9788861376830
Ristampe
ACETI E., Amarsi e capirsi. Per un’educazione alla reciprocità,
Monti, Saronno (VA) 22010, pp. 100, € 8,00. 9788884772138
PAGANELLI R., Con Cristo dalla testa ai piedi. Via crucis ispirata agli
scritti di mons. Tonino Bello, EDB, Bologna 52012, pp. 35, € 1,80.
9788810710623
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Pagina XVII
L ibri del mese / segnalazioni
C. FRUGONI,
STORIA
DI CHIARA
E FRANCESCO,
Einaudi, Torino
2011, pp. 202,
€ 18,00.
9788806205133
P
er amore si torna ancora e poi ancora
e poi di nuovo a frequentare la stessa
persona, a ripercorrere luoghi di cui
sappiamo colori e ombre, a riascoltare parole che potremmo ripetere a memoria più
di una preghiera cara dell’infanzia, alla ricerca di quel nucleo di luce che promette
ogni volta uno stupore diverso. Qualcosa di
molto simile all’amore sembra portare
Chiara Frugoni a regalarci ora un nuovo libro, tessuto con passione intorno a quella
storia straordinaria che ha visto insieme san
Francesco e santa Chiara in un’avventura
spirituale che non finisce di parlare alla nostra vita di uomini e donne. Storia di Chiara
e Francesco, uscito in questi giorni da Einaudi, viene dopo una quantità di saggi, interventi, studi che Chiara Frugoni ha già dedicato sia a san Francesco e santa Chiara, sia
al «tempo del pressappoco» come ama
chiamare nel testo il Medioevo, in cui un
anno può anche essere quello prima o
quello dopo, quasi un anticipo dell’unico
tempo eterno che san Francesco sapeva
essere la promessa di Dio al mondo.
E così con la spigliatezza che le arriva da
una conoscenza meravigliosa di documenti,
fatti, luoghi e persone, l’autrice segue le
strade di Chiara e Francesco non ancora
santi (ma per poco, saranno santi subito, entrambi due anni dopo la morte). Lui in spontanea e precocissima lotta contro i «chiusi
pensieri di profitto e guadagni» del suo ambiente familiare, dentro un clima cittadino
di pesante lotta fra la sua classe, quella degli homines populi, e la classe dei boni homines, nobili, potenti e inaccessibili, «da
odiare ma anche da ammirare». E ancora
segue Francesco dopo la battaglia di Collestrada, rinchiuso nell’atroce prigione di Perugia, circondato da feriti per i quali «la
morte non riesce a venire». E poi nei molti
scontri tremendi e necessari: con il padre,
con i concittadini, con se stesso, in una tormenta di umanissimi slanci e abbandoni e
ritorni, fino alla solitudine nella quale incontra insieme Dio e l’uomo. Dio per
l’uomo.
E una nuova storia nasce, e nulla è più
come prima, e Francesco, ora in buona com-
XVII
pagnia del suo Signore, mostra con la sua
bizzarra e mai vista comunità di laici e chierici e nobili e colti e illetterati, che il Vangelo può essere messo in pratica davvero.
Intanto Chiara bambina cresce e le fonti
dicono che prestissimo si interessò a quel
che capitava intorno a Francesco, fino agli
incontri con lui, alla vocazione, alla fuga e
alla nascita della sua comunità a San Damiano. In tutto simile a quella di Francesco:
povera, a servizio degli uomini, con la straordinaria novità delle sorores extra monasterium servientes, sorelle attive fra gli uomini e le donne del mondo, testimoni del
Vangelo come i frati di Francesco, con la
stessa libertà.
È libertà la parola che Chiara Frugoni ci
consegna come sigla di questa storia. In una
società costretta nella lotta per il potere e
per il denaro i fratelli di Francesco e le sorelle
di Chiara rifiutavano ogni onore, avevano in
odio il potere, supplicavano il pontefice per
conservare il «privilegio della povertà». Una
purezza implacabile arrivava loro dal Vangelo e diventava volontà fermissima di costruire «un modello di comportamento che
pacificamente si contrapponesse a quello in
auge e che pacificamente lo scardinasse».
Pacificamente, rinunciando anche alla violenza implicita in ogni giudizio, liberi anche
dalle sante attese: «E nel Signore amali. E
non pretendere che siano cristiani migliori»,
scrive Francesco a un ministro suo confratello turbato da chi lo accusava ingiustamente. Fu la stagione degli inizi, alleanza
inimmaginabile fra terra e cielo. Prestissimo
venne il tempo degli accomodamenti a cui la
storia sempre obbliga.
Certo la lettura insieme rigorosa e combattente di Chiara Frugoni può fare nascere
qualche critica, come accade sempre
quando l’amore per una persona o una storia è condiviso con molti. Perché l’amore è
spesso geloso.
È forse vero che l’esito della vicenda di
Chiara, la clausura stretta decretata nel 1263
da Urbano IV, somiglia molto a un umano
fallimento. Ma non sempre gli esiti diversi
da quelli attesi son fallimenti. Chi crede
può ben riconoscere nella vita nascosta
delle clarisse la potenza carsica di una beatitudine ugualmente profetica.
È invece difficile negare che la battaglia
per la povertà sia stata un vero fallimento,
visto lo scandalo che ancora oggi la ricchezza della Chiesa rappresenta agli occhi
del mondo. Eppure anche qui la fede salva
dall’amarezza pur nella determinazione
della verità da affermare. Ecco quel che
scrive santa Chiara ad Agnese di Boemia, a
capo del monastero di Praga, a proposito
della loro comune lotta con le autorità religiose per la difesa del privilegio di essere
povere: «Con corsa spedita, passo leggero,
piede sicuro, in modo che i tuoi passi non
sollevino polvere, avanza sicura, gioiosa e vivace, sul sentiero di una pensosa felicità».
Mariapia Veladiano*
* Il testo, che pubblichiamo per gentile
concessione di La Repubblica, riprende l’articolo «Chiara e Francesco soldati della povertà.
Un nuovo studio della storica Frugoni dedicato ai santi di Assisi», apparso sul quotidiano
il 14.11.2011.
G. FORCESI,
IL VATICANO II
A BOLOGNA.
La riforma conciliare nella città di
Lercaro e Dossetti,
Il Mulino, Bologna
2011, pp. 559,
€ 41,00.
97888815233189
D
a qualche mese è in libreria, pubblicato dal Mulino, un libro intitolato Il
Vaticano II a Bologna. La riforma
conciliare nella città di Lercaro e Dossetti,
di cui è autore Giampiero Forcesi. Prima di
riferire brevemente sul contenuto del volume, articolato in cinque parti (distinte
cronologicamente e relative all’intero episcopato bolognese di Lercaro: 1952-59;
1960-61; 1962-63; 1964-65; 1966-68), è opportuno dire qualcosa dell’autore e dell’origine di questo singolare testo.
Giampiero Forcesi è nato a Roma nel
1949 e, dopo aver lavorato come operaio
edile e fatto l’educatore popolare, è giunto
a laurearsi in Storia del cristianesimo nel
1985 a Roma, con i professori Monticone e
Pitocco. Aveva 36 anni ed era animato dalla
passione per l’autonomia di studio e ricerca,
così forte in quegli anni, comprese le tematiche religiose tanto ravvivate dal Concilio. Forcesi le aveva incontrate, quando
era sui vent’anni, nelle comunità di base,
numerose allora nelle periferie romane, sperimentandosi, su fogli del dissenso, come
«osservatore religioso», nuovo professionista rispetto alla figura tradizionale del «vaticanista».
Per scegliere l’argomento della sua tesi
aveva pensato alle Chiese di Torino e Bologna, dove era stata avvertita più forte – anche nei vescovi Pellegrino e Lercaro – l’at-
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Musica e liturgia
I
l rapporto tra musica e liturgia è da sempre oggetto di aspri dibattimenti polemici. Si tratta di una questione che, presente già nei testi dei padri della Chiesa, si
è periodicamente riproposta all’interno
della riflessione ecclesiale, giungendo fino
ai nostri giorni. A essere messi in discussione sono stati di volta in volta il significato
teologico dell’espressione musicale, la sua
funzione all’interno della celebrazione, la
valutazione estetica dei brani e la qualità
della loro esecuzione. In particolare, a questi ultimi due aspetti è dedicata la maggior
parte dei contributi prodotti nel secolo
scorso, che di norma riservano a essi una
critica estremamente negativa. Se da un
lato, infatti, risulta ormai acquisita a livello
teorico la rilevanza teologica e antropologica della presenza della musica all’interno
della liturgia, dall’altro la prassi concreta è
comunemente additata come inadeguata,
sia sotto il profilo della comunicazione della
fede che dal punto di vista estetico. A rettifica di una situazione giudicata da più parti
disastrosa, si invoca spesso il ritorno alla
tradizione musicale del passato, sia monodica che polifonica, con particolare enfasi
sul canto gregoriano.
Una recente pubblicazione antologica
raccoglie numerosi contributi dell’attuale
pontefice sul tema del rapporto tra musica
e liturgia.1 Si tratta di testi in parte già tradotti e pubblicati in italiano, scritti a partire
dalla metà degli anni Settanta, uniti a brevi
discorsi pronunciati in occasioni pubbliche.
Il saggio di apertura sul fondamento teologico della musica sacra, pubblicato originariamente nel 1974, colloca questa riflessione
tenzione alle problematiche del rinnovamento ecclesiale: alla fine, contatti preliminari lo portarono a preferire Bologna, dove
compì, per oltre due anni, intense ricerche
e numerosi colloqui, tra fine anni Settanta
e inizio anni Ottanta.
A quell’epoca, pur lontani da più che un
decennio, gli avvenimenti seguiti al Vaticano II, a Bologna particolarmente intensi e
segnati da contraddizioni e contrasti culminati nella rimozione del cardinal Lercaro
(12 febbraio 1968, cui si accompagnò il contemporaneo ritiro di Dossetti dall’incarico
di provicario della diocesi), erano ancora
vivi nell’animo e nella riflessione di molti.
Forcesi visitò queste «situazioni» con attenzione, studiandole in una misura certo
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all’interno del dibattito sulla recezione e interpretazione del concilio Vaticano II. L’assunto di base da cui muove l’allora docente
di teologia dogmatica presso l’Università di
Ratisbona è che la musica, in quanto elemento insostituibile della liturgia, partecipa
della crisi che ha colpito quest’ultima nel
suo insieme. La causa di questo impoverimento risiederebbe nella progressiva riduzione della liturgia postconciliare (e di
quanto a essa connesso, musica compresa)
alla mera dimensione funzionale. La razionalità strumentale che caratterizza l’epoca
contemporanea avrebbe quindi appiattito la
celebrazione al mero livello antropologico.
Nel saggio «La trasposizione artistica
della fede. Problemi teologici della musica
sacra», redatto nel 1978, la musica sacra è vista come schiacciata da due concezioni teologiche della liturgia che nascono all’interno
di quello che Ratzinger addita come l’ermeneutica della rottura nell’interpretazione del
Vaticano II: da un lato, il «funzionalismo puritano», secondo cui «l’evento liturgico dovrebbe venire (…) de-cultizzato e ricondotto
al suo semplice punto di partenza, un pasto
comunitario» (49). A tale concezione corrisponde una visione della musica liturgica
non come oggetto estetico ma come puro
oggetto d’uso. Dall’altro lato, si staglierebbe
invece il «funzionalismo dell’adeguamento»:
la liturgia si deve adeguare alle modalità comunicative tipiche del contesto in cui viene
celebrata, con la conseguenza che tutto ciò
che proviene dalla tradizione musicale ecclesiale sia considerato come ormai superato
e inadeguato all’uso liturgico. Questo si configura come «un atteggiamento secondo cui
l’intera musica sacra, anzi la cultura fino ad allora sviluppatasi nel mondo occidentale»
non sarebbe più «attributo dell’attualità»,
cessando perciò di «far parte del processo
attuale, come invece la liturgia vorrebbe e
dovrebbe» (50).
Secondo questo schema argomentativo, per superare la banalizzazione in cui
pare caduta la musica liturgica occorre ritrovare la vitalità della tradizione musicale
innescando un fecondo processo di purificazione della cultura attuale per permetterle di essere nuovamente uno strumento
di comunicazione della fede.
Negli stessi decenni in cui maturano
queste considerazioni del futuro pontefice,
veniva redatto il primo documento programmatico di Universa laus, un gruppo di
studio formato da liturgisti e musicologi
nato alla fine degli anni Sessanta al fine di
sostenere la diffusione e l’applicazione delle
linee guida della riforma liturgica del Vaticano II in materia di musica. Il documento
del 1980, intitolato Musica – liturgia – cultura (cf. Regno-att. 20,2003,702ss), cercava
di tradurre in indicazioni teorico-pratiche le
linee guida contenute nella costituzione
Sacrosanctum concilium prendendo le
mosse non da una critica della musica liturgica contemporanea alla quale opporsi,
ma esplicitando alcuni requisiti fondamentali che la musica deve possedere per svolgere all’interno della liturgia la propria funzione senza essere né un mero elemento
decorativo, ma nemmeno un corpo estraneo. L’impegno di Universa laus, tutt’ora
molto attivo a livello europeo, è portato
avanti dalla rivista quadrimestrale Musica e
sovrabbondante rispetto alle necessità di
una tesi universitaria, la quale, alla fine, tra
testo e note, sfiorò le 900 pagine fittamente dattiloscritte, collocando a fuoco
tutta la dinamica spirituale e pastorale di un
grande vescovo italiano operante in una
città politicamente simbolica, durante
un’«epoca» segnata da pontefici italiani del
livello di Pacelli, Roncalli, Montini, tutti venerati da Lercaro con devozione e indipendenza personali.
Forcesi fece conoscere il testo della sua
lunga e complessa tesi ad alcuni degli ambienti bolognesi, che doveva ringraziare per
la disponibilità mostrata a rispondere alle
sue domande. Fu così che l’Istituto per le
scienze religiose diretto dal prof. Alberigo
venne a possederne una copia, che fece
conoscere ad alcuni studiosi, i quali poterono citarla in pubblicazioni successive. E
mons. Fraccaroli, segretario di Lercaro e
primo presidente dell’omonima Fondazione, avuta e letta la tesi, assegnò un premio al suo autore: tutto questo era avvenuto in un passato remoto, ma non sparito.
Recenti iniziative editoriali (in particolare
quelle delle «memorie» del card. Biffi, pubblicate e ripubblicate), hanno presentato critiche, anche pungenti, della figura e dell’opera
di Dossetti: questo amarcord polemico, a
molti spiaciuto, ha concorso a provocare una
circolazione della tesi (fotocopiata) di Forcesi, e suscitato lo svolgimento di alcuni seminari in ambienti ecclesiali di memoria lunga
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assemblea (EDB, Bologna), nella quale sono
raccolti numerosi contributi a sostegno
della prassi liturgico-musicale concreta.
Negli ultimi anni il panorama dell’editoria religiosa si è arricchito di numerosi testi
(seppur di diverso valore euristico), segno
dell’interesse che la questione della musica
liturgica suscita. Una sistematizzazione d’indirizzo tradizionalista del rapporto tra musica e liturgia a partire dai testi del magistero
dei pontefici novecenteschi (sostanzialmente a partire da Pio XII) è contenuta nel
volume di Marco Ronchi.2
Una riflessione più articolata, condotta
a partire non dal rapporto tra musica e liturgia, ma dall’analisi dell’espressione musicale stessa come forma simbolica capace
di esprimere attraverso i suoni l’esperienza
del divino, è sviluppata nel volume di Marie
Thérèse Henderson, accompagnato da una
prefazione di Pierangelo Sequeri.3 Mettendo
al centro non il problema del repertorio
come fa Ronchi, ma analizzando direttamente il fatto musicale concreto nella sua
capacità di dire il mistero religioso, l’autrice,
compositrice del gruppo internazionale Gen
verde, ripercorre le tappe della storia della
musica come elemento di comunione tra
Dio e gli uomini. Facendo interagire le riflessioni di Chiara Lubich e di Hans Urs von
Balthasar, la musicista e studiosa mostra la
capacità teologica dell’espressione musicale.
La musica è considerata qui come una forma
di espressione e non come un determinato
insieme di repertori, vedendola da un punto
di vista storico e teologico: musica, quindi,
come relazione, reciprocità, comunicazione
e comunione.
Questa universalità del linguaggio musicale è un elemento che ne ha permesso il
ricorso all’interno delle relazioni ecumeni-
che. Come ricorda il musicologo Nicola
Sfredda, esiste uno scambio reciproco tra il
repertorio musicale cattolico e quello luterano o riformato, occasione importante per
costruire la comunione fraterna e anche la
conoscenza reciproca.4
All’interno del mondo della Riforma il
problema della musica liturgica è percepito
con altrettanta – se non maggiore – urgenza che in ambito cattolico, mostrando
una polarizzazione del dibattito intorno a
due posizioni: «La Chiesa deve esprimere
valori artistici alti o deve parlare il linguaggio della quotidianità, più comprensibile
dalle masse?» (206). L’approccio storico che
connota questo volume fornisce un utile
quadro d’insieme dell’evoluzione della musica liturgica in ambito riformato; proprio
l’approfondimento diacronico in epoche e
contesti differenti può aiutare a superare
l’apparente impasse – musica alta o linguaggio della quotidianità? – mostra come
il problema di individuare il repertorio della
musica sacra abbia accompagnato la storia
della Chiesa cattolica e delle Chiese luterane e riformate. Esso non rappresenta
quindi una novità postmoderna. Basti ricordare che già nel concilio di Toledo del
587 veniva affrontato il problema della presenza di canti e danze di origine siriana ed
ebraica all’interno della liturgia.
Tuttavia, il problema pratico di quale
musica eseguire rimane e pertanto anche di
come e su quali principi guida selezionare e
fondare la produzione di un repertorio musicale adeguato alla liturgia. In ambito italiano, in questa direzione si è mossa la Conferenza episcopale italiana, individuando
un repertorio nazionale di canti per la liturgia che cerca di mettere ordine all’interno di uno sterminato numero di brani.
quanto affettuosa, finalizzati a un approfondimento di conoscenze e valutazioni del periodo e dei personaggi che ne erano stati i
maggiori protagonisti. È merito di un amico,
promotore di queste iniziative, aver rintracciato a Roma Giampiero Forcesi, e averlo
coinvolto in alcuni dei seminari svolti nel 2010
e 2011, fino all’ipotesi di una stampa, più di 20
anni dopo, di quell’appassionato e ricco documento di una «fase» così importante della
Chiesa di Bologna.
Quel tempo era stato notevole davvero: non solo per l’episcopato di Lercaro
dal 1952 al 1968, inclusa la nomina (decisa da
Paolo VI) inserente il cardinale bolognese,
unico italiano, tra i quattro moderatori del
Concilio; contò molto anche il ruolo di Dos-
setti, in città e al fianco del suo vescovo a
Roma, e il forte coinvolgimento bolognese
all’evento conciliare (in primo piano il «Centro» di Alberigo e l’Avvenire di La Valle). E
fu notevole pure l’accoglienza effettuata
dall’amministrazione comunale al «ritorno»
in diocesi del vescovo bolognese, e lo slancio con cui questi avviò, nominando Dossetti provicario generale, il progetto di uno
«studio per l’applicazione locale» delle indicazioni teologiche e pastorali del Vaticano II.
Tutti questi anni, con i loro appassionati
eventi, meritavano una forte attenzione, e
l’avevano ricevuta da Forcesi. Ma, ad accrescere l’interesse oggettivo di questa «storica tesi», rimasta però inedita, ha contato
XIX
Resta però ancora molto lavoro da fare:
la produzione musicale liturgica non si arresta e occorre sempre confrontarsi nuovamente con una cultura in rapido cambiamento. La sfida appare quindi quella di
riuscire a scrivere musica che possa non
solo risultare comprensibile e accessibile a
chi la ascolta, ma anche in grado di comunicare in modo sempre nuovo la realtà della
fede e l’annuncio. In questa direzione vanno
alcune recenti raccolte di canti che presentano brani né ascrivibili al solo indirizzo
della musica di consumo né a una rigida
conservazione di un depositum di brani
musicali tradizionali.5
Per concludere, una strada da percorrere può essere quella di ripartire dal rapporto tra musica, liturgia e cultura, facendo
sì che la liturgia riesca a essere comprensibile all’interno di una cultura e che le forme
musicali che questa cultura esprime siano
assunte in modo significativo all’interno
della liturgia.
Riccardo Castagnetti
1
J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Lodate Dio
con arte. Sul canto e la musica, Marcianum
Press, Venezia 2010, pp. 270, € 28,00.
2
M. RONCHI, La musica nella liturgia, Lindau,
Torino 2011, pp. 160, € 15,00.
3
M. T. HENDERSON, Il velo sottile. Il mistero
della musica, Città Nuova, Roma 2011, pp. 208,
€ 16,00.
4
N. SFREDDA, La musica nelle chiese della Riforma, Claudiana, Torino 2010, pp. 236, € 19,00.
5
F. MASSIMILLO, Ti cerco Signore mia speranza. Canti per la liturgia e la preghiera, con CD
musicale (39’), Elledici, Cascine Vica (TO) 2011, pp.
48, € 11,00; D. MACHETTA, Canta e cammina. Canti
per la celebrazione dell’eucaristia sul tema della
Chiesa in cammino, Elledici, Cascine Vica (TO)
2011, pp. 24, € 8,00.
anche l’ulteriore vicenda della Chiesa bolognese, con i due primi successori di Lercaro, cioè Poma (1968-1983) e Biffi (19842003), per le interpretazioni che essi vollero
e seppero dare del loro «predecessore», nonostante tutto indimenticabile, e dell’intensa collaborazione di quel suo provicario, rimasto di fatto – anche dopo la rimozione di Lercaro, con i suoi frequenti soggiorni in Israele e la missione ricevuta da
Biffi a Monte Sole –, una personalità fortemente significativa in Bologna e nella sua
Chiesa. E di fatto il volume viene anche a
colmare una carenza storiografica nella ricostruzione di questo tratto della biografia
di Dossetti.
A un certo punto, la figura di Dossetti fu
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sorprendentemente «riattualizzata sul
piano nazionale» dagli interventi svolti in difesa della Costituzione repubblicana, minacciata dal populismo telecratico di Berlusconi, a lungo ben accolto in Italia da
autorevoli esponenti ecclesiali, che lo preferirono a un politico «cattolico adulto»
come l’ulivista Prodi, localizzato anch’esso
in Bologna.
Il volume di Forcesi, fornisce un affresco
esauriente e riflessivo, in misura oggi rara per
completezza ed equilibrio, di una Chiesa locale indubbiamente «esemplare», in un momento che fu straordinario per l’intera
Chiesa, la quale vi conosceva un’alternativa
potenziale impegnativa, tuttora aperta a
progetti problematici. La tesi di Forcesi, pubblicata nell’estate 2011 (con la sollecitazione
di circa 200 prenotazioni a prezzo di copertina), risveglia molto più della «memoria»
(pur base preziosa per ogni rinnovamento),
ma fornisce anche un «termometro» per
avere una misura della qualità pastorale e
teologica elevata che è possibile recuperare guardando nelle esperienze forti della
Chiesa bolognese, soprattutto nelle sue relazioni più intrinseche con il grande XXI
Concilio, davvero ecumenico della Chiesa
cattolica e bussola per la sua strada nella società mondiale globalizzata.
Il titolo preposto alla pubblicazione
della vecchia tesi del 1985 ha concentrato,
molto opportunamente, i due elementi caratterizzanti il testo ora ripreso in vista del
2012 e degli anni seguenti, accostando la
forza del «messaggio universale» e i limiti di
una «ricezione intensamente adeguata ma
iniziale e locale», cioè «il Vaticano II» e «a
Bologna». Nel sottotitolo, poi, si allude con
coraggio a una sua forte ammonizione: «La
riforma conciliare», accostata al dato di verità da non dimenticare perché veramente
significativo: «Nella città di Lercaro e Dossetti».
Nel libro appena stampato, tre aggiunte
completano con tre informazioni utili e ben
fatte il «testo storico» della tesi di Forcesi:
1. Premessa, in cui Forcesi dà conto della sua
iniziativa di allora, nelle condizioni e convinzioni del tempo, e della sorpresa e soddisfazione per la decisione di procedere a
questa «voluta» pubblicazione odierna. 2.
Introduzione, in cui Giovanni Turbanti, da
anni collaboratore della Fondazione per le
scienze religiose «Giovanni XXIII», illustra
intenzioni e meriti del testo di Forcesi, nel
contesto più ampio degli studi su Lercaro,
la Chiesa bolognese, l’evento conciliare.
E chiude il suo utilissimo contributo
con un inedito molto interessante, una lettera di Lercaro a Dossetti del giugno 1966 in
cui anticipa la sua intenzione di nominare
Dossetti suo vicario, ma con finalità cen-
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trate sulla cultura, che in realtà nel giro di
pochi mesi si estese per logica interna a un
proposito assai più ampio, trasformando
questo formale invito alla collaborazione
di Dossetti nel lavoro dell’applicazione in
Bologna delle novità conciliari: evento sul
quale occorrerebbe riflettere sia alla luce
degli avvenimenti seguiti, sia di altri documenti lercariani e dossettiani oggi accessibili. 3. Aggiornamento bibliografico, a cura
di Enrico Galavotti, pure esso autorevole
collaboratore della Fondazione per le
scienze religiose «Giovanni XXIII»: completa
e aggiorna esaurientemente categorie e informazioni bibliografiche della tesi di Forcesi.
Quanto al contenuto del volume, l’interesse di Forcesi per le «motivazioni» peculiari di spiritualità e azione pastorale del
vescovo Lercaro, lo portano a estendere la
sua analisi partendo dall’inizio, dal «primo
quinquennio di episcopato bolognese»,
considerando con attenzione il mix di «spiritualità liturgica» e «integrismo» che caratterizzarono i suoi primi «gesti» (attenzione
per la liturgia, rifare cristiana Bologna, fini e
strumenti della campagna per le nuove
chiese in periferia, suoi sviluppi culturali
con risvolti urbanistici e politici).
Una seconda parte completa questa
prima, giungendo «al bivio – che Forcesi
vede affrontato da Lercaro – tra approfondimento spirituale e dottrina sociale», con
un successo evolutivo maturato tra il 1960 e
il 1961. Al termine di queste due prime parti
introduttive, il libro che ora riproduce la
tesi di Forcesi ha raggiunto la pagina 222, cui
subito ne aggiunge altre 50 di una parte
terza, intitolata «Dalla cristianità alla Chiesaeucarestia. Il passaggio decisivo (1962-1963)»:
Lercaro è così seguito da Forcesi per tutto
il primo periodo conciliare, realmente fondamentale per le scelte che preparano la
gloria della svolta effettuata poi nel secondo periodo, nei confronti della stessa
preparazione conciliare, abbandonata perché troppo ancora segnata da cultura e
orientamenti preconciliari e «difensivisti».
La parte quarta e quinta riempiono la
seconda metà esatta del ponderoso volume. La quarta affronta i «Primi lineamenti
di una proposta ecclesiale rinnovata (19641965)», e Forcesi vi espone anche alcuni dei
contributi di Lercaro più importanti (quelli
pronunciati a Beirut, su «Eucarestia ed ecumenismo», e su «La povertà nella Chiesa», e
altri pronunciati a Roma a latere del Concilio, su «La libertà religiosa» e su «Papa
Giovanni»). La quinta (la più estesa, riempie
quasi 200 pagine), finalmente espone «Il
progetto di riforma e di valorizzazione della
Chiesa locale». Vi compaiono con franchezza i problemi del postconcilio bolo-
gnese (con documenti anche inediti sulla
«questione dell’Avvenire d’Italia»), la formazione e il lavoro dei «Dieci gruppi di studio per la riforma della diocesi»,1 attacchi di
curiali a Lercaro, tensioni con Paolo VI, un
esame interessante delle «due scelte religiose – quella montiniana e quella bolognese», l’accoglienza a Poma, insignito di
un «diritto di successione», tutto sotto il titolo «L’interruzione di un’esperienza ecclesiale carica di attese (luglio 1967 – febbraio
1968)».
Le dieci pagine di «Osservazioni conclusive» con cui Forcesi chiuse la sua tesi discussa a Roma nel 1985, lette ora acquistano una grande chiarezza e lucidità di
valutazione che fanno onore al «giovane»
autore, per la tranquillità severa con cui giudica «l’approdo cui Lercaro è giunto nel dopoconcilio: l’inizio di un cammino nuovo
che sarebbe stato tutto da compiere. Questo nuovo punto di partenza stava proprio
nell’aver liberato l’essenza del cristianesimo
da quelle che gli erano apparse come delle
incrostazioni storiche contingenti e nell’aver riproposto nella sua purezza il nesso
tra Vangelo e storia perché il Vangelo potesse riacquistare in pieno la sua forza dinamica per il cammino del popolo di Dio e
di tutto il genere umano. E questo in una
fase della storia che segna un cambio
d’epoca e che esige dalla Chiesa una disponibilità profonda a capire il suo tempo, a riconoscere le nuove risorse e le nuove miserie, e a cooperare con tutte le forze che
si muovono verso un autentico progresso
umano. E ha individuato anche il criterio
con cui il nuovo cammino deve essere intrapreso, sottolineando l’assoluta necessità
di ridare spazio alla riflessione di fede del
popolo di Dio. Nel diffondersi di una rete
capillare di comunità locali inserite nella
vita quotidiana ha individuato l’alveo in cui
il popolo di Dio può tornare a vivere un’autentica vita di fede, ponendo concretamente le proprie esperienze esistenziali e
storiche a contatto con la parola di Dio e ricercando a partire di qui i modi per servire
la comunità umana in relazione al piano di
salvezza di Dio» (541).
Luigi Pedrazzi
1
Segnaliamo sull’argomento della riforma
conciliare a Bologna due saggi in uscita in Rivista di teologia dell’evangelizzazione (2011)
28, uno di taglio storico (G. TURBANTI, «Una riforma ecclesiale secondo il Concilio») e uno di
taglio teologico (F. MANDREOLI, «Un “laboratorio” di Chiesa significativo: note su alcune
istanze teologiche dei primi progetti di riforma post-conciliare della diocesi di Bologna»).
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Cinema e religioni
ARTI
s
e si mostra Dio
L
o studio del cinema religioso si è ormai strutturato, nell’ambito dei
religious studies anglofoni, in una sorta di disciplina, con
tanto di nome proprio, Religion and
film, e di luoghi dedicati.1 Qualcosa di
simile da qualche anno comincia a
mettere radici anche nelle università
italiane, sebbene non sia ancora chiaro
(e forse non lo sarà mai, trattandosi di
un tema per sua natura interdisciplinare) se debba prendere posto presso i
dipartimenti e i corsi di laurea dove
trovano collocazione gli studi di cinema o presso quelli di cristianistica e
di storia delle religioni. La questione
non è di poco conto: in gioco vi sono
gli statuti epistemologici, gli scopi stessi
che una specifica disciplina, proprio
in quanto tale, si pone, le modalità con
cui questi scopi sono perseguiti. Sul
tavolo c’è insomma il problema di
come sia possibile per gli studiosi di
due distinti campi disciplinari, come
quelli che affrontano il cinema e le religioni, percorrere un tratto comune
di strada, segnato dallo studio del film
religioso, senza mascherare le proprie
origini, ma condividendo le rispettive
specifiche competenze.
Ma si tratta di un tema il cui interesse travalica gli steccati dell’accademia, come testimoniano due mostre
che tra il 2010 e il 2011 lo hanno proposto all’attenzione di un pubblico di
non specialisti con riscontri senz’altro
significativi.
Allestita nel maggio 2010 in Vaticano (Sala Nervi) e aperta al pubblico
qualche mese dopo in due distinte oc-
Dag li studi alle mostre, da Pasolini ai lavori più recenti:
la tradizione e la vitalità del film religioso
casioni, prima presso l’Università lateranense di Roma e poi presso la Curia
arcivescovile di Milano, la mostra
«Preti al cinema: i sacerdoti e l’immaginario cinematografico» viene inaugurata dal card. Bagnasco alla presenza
di Carlo Verdone (che ha interpretato
la figura di un sacerdote, per la verità
alquanto stereotipato, nel suo ultimo
film Io, loro e Lara). Il percorso espositivo, a cura della Fondazione Ente
dello spettacolo e della Cineteca nazionale di Roma, ha passato in rassegna, attraverso un centinaio di immagini (tra foto di scena e fotogrammi
tratti direttamente dai film), le figure di
alcuni sacerdoti affrontati dal cinema:
dai preti del neorealismo a don Camillo, dal curato bernanosiano messo
in scena da Robert Bresson agli irriverenti e problematici preti di Luis Buñuel, per giungere ai sacerdoti del cinema italiano contemporaneo di
Mimmo Calopresti (Preferisco il rumore
del mare, 2000), di Alessandro D’Alatri
(Casomai, 2002), di Roberto Faenza
(Alla luce del sole, 2005), di Saverio
Costanzo (In memoria di me, 2007) e
dello stesso Verdone.2
Di ancora maggiore impegno (e
Il card. Bagnasco e Carlo Verdone all’inaugurazione della mostra «Preti al cinema».
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impatto) è stata l’altra mostra recentemente dedicata al cinema religioso.
Curata da Silvio Alovisio, Nicoletta
Pacini e Tamara Sillo, e intitolata «Ecce
homo: l’immagine di Gesù nella storia
del cinema», si è svolta durante i mesi
dell’ostensione della Sindone negli
spazi del Museo nazionale del cinema
di Torino. I quasi trecento materiali
esposti (fotografie di scena e di lavorazione, manifesti, locandine, fotosoggetti, riviste, libri, partiture e dischi)
hanno articolato un percorso che, a
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partire dalle Passioni del cinema delle
origini, ha toccato alcune celebri realizzazioni dell’epoca muta (come il
Christus di Giulio Antamoro ed Enrico
Guazzoni del 1916 o il Re dei re di Cecil B. DeMille del 1927), numerosi kolossal americani (come Il Re dei re di
Nicholar Ray del 1961 o La più grande
storia mai raccontata di George Stevens del 1965, ma anche La tunica di
Henry Koster del 1953 o il Ben-Hur di
William Wyler del 1959, dove Gesù
non è il protagonista ma condiziona,
sfiorandoli, i destini dei personaggi),
alcuni celebrati film d’autore (come Il
Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo
Pasolini del 1964 o L’ultima tentazione
di Cristo di Martin Scorsese del 1988),
per giungere infine alle più recenti produzioni.3 Quel che è apparso chiaro
dal percorso espositivo è lo straordinario rilievo che la storia del cinema ha
assegnato alla figura di Gesù: la mostra
dava conto di una settantina di film, un
numero piuttosto elevato nell’esperienza che ne faceva il visitatore, ma
relativamente esiguo se commisurato
alle rappresentazioni cinematografiche di argomento cristologico effettivamente esistenti, che qualche anno
fa Dario Viganò ha provato a contare
e a catalogare.4
Come sottolinea Jean-Michel Frodon nel catalogo della mostra, «il cristianesimo non ha paura delle immagini, o piuttosto ha superato questa
paura», dal momento in cui ha autorizzato, con il secondo Concilio di Nicea, l’uso di immagini devozionali. Il
cristianesimo si inserisce nella tradizionale dialettica del mostrato/celato,
con cui le religioni antiche si accostavano al divino, privilegiando la visibilità, in considerazione proprio del passaggio terreno di Cristo: evento rivelatore per eccellenza grazie al quale
Dio «si mostra»; evento che non a caso
il cinema (l’arte della visibilità del Novecento) ha a sua volta così spesso
«mostrato».
Il cinema è uno strumento meccanico in grado di riprodurre un calco di
ciò che gli è transitato davanti e in
quanto tale capace di rendere presente
ciò che è ormai assente, di dare visibilità a ciò che non è più visibile: quanto
vediamo scorrere sullo schermo è di
fatto qualcosa che non c’è, ma è stato
là, davanti alla macchina da presa. André Bazin, uno dei fondatori della critica cinematografica cattolica, per spiegare il funzionamento del cinema
(inalterato fino all’avvento del digitale)
e la sua vocazione primaria (conservare le apparenze del reale tramite un
processo meccanico) porta ad esempio la sacra Sindone di Torino.5 Per
questo la mostra sull’immagine di
Gesù nella storia del cinema si è rivelata particolarmente appropriata nel
contesto delle manifestazioni per
l’ostensione. La Sindone è in qualche
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modo la progenitrice del cinema; o
meglio, il processo di impressione del
reale messo a punto prima con la fotografia e poi con il cinema è parente di
quello che ci consente di vedere ancora
oggi la sagoma di un uomo crocifisso
2.000 anni fa.
Il cinema, la Chiesa e il sacro:
i «tre stili» di Ayfre
Da La ricotta (1963) di Pier Paolo
Pasolini, a Totò che visse due volte
(1998) di Daniele Ciprì e Franco Maresco, al recente La passione di Cristo
(2004) di Mel Gibson, il film religioso
ha fatto e continua a fare discutere
molto.6 Del resto il cinema ha svolto (e
in parte continua a svolgere) un ruolo
di straordinaria importanza nel consentire e regolare l’accesso a un sapere
visivo altrimenti inaccessibile: Francesco Casetti lo ha definito «l’occhio del
Novecento».7 Nell’ambito dell’esperienza religiosa, il cinema è stato per
molti il principale (se non l’unico)
luogo per entrare in contatto con narrazioni e immaginari biblici, per
quanto spesso falsati da logiche spettacolari: per lo spettatore medio degli
anni Cinquanta Mosè aveva il volto di
Charlton Heston, nondimeno per
quello odierno la passione di Gesù ha
avuto luogo su una collina di Matera.
In considerazione del fatto che il cinema è stato e in alcuni casi è ancora
uno dei principali veicoli (nel bene e
nel male) con cui le narrazioni religiose trovano diffusione, la Chiesa ha
spesso attivamente partecipato alla realizzazione di film d’argomento religioso, dietro ai quali, abbiano essi
come protagonista Gesù o un suo sacerdote, siano stati effettivamente realizzati o solo progettati, vi è quasi sempre la figura di un religioso, chiamato
a fare da guida, ora indirizzando, ora
vigilando: dall’abate Giuseppe Ricciotti a don Giacomo Alberione, dal
domenicano Félix Morlion al servita
David Maria Turoldo, per limitarci a
qualche nome noto prestato al contesto
del cinema italiano.
Anche don Lorenzo Milani nei
primi anni Cinquanta riflette sulla possibilità di collaborare a un film su Gesù
studiando «uno schema generale (…)
dal punto di vista catechistico e dell’apostolato». Milani auspica «un film
che abbia l’austerità di un documen-
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tario scientifico, fonte d’informazione
utile per lo specialista e nello stesso
tempo appassionante testimonianza
per l’analfabeta». Guidato dalla sua
potente vocazione pedagogica, Milani
ripercorre le tappe della vita terrena di
Gesù che a suo avviso il film dovrebbe
rappresentare. E poiché «lo scopo del
film (…) deve essere catechistico», il
suo stile dovrà di conseguenza essere
improntato a un forte realismo.
«È strano – scrive –, ma oggi è più
facile che si creda Gesù Dio che Gesù
uomo. Il film dovrà far capire a fondo
che cosa significa in concreto “la Parola si è fatta carne”. Immagini di Palestina (paesaggi, case, strade, mercati,
lavori, visi, occupazioni domestiche,
miseria, sporcizia, ecc.) daranno
un’idea più precisa che molte parole.
Andare a fotografare dal vero la fame
che tormenta oggi la Palestina ci darà
il più giusto sfondo alla vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza
pane, bambini rachitici, sofferenze di
tutti i generi (…), ecco il mondo che
Gesù ha abbracciato».8
Anni dopo, in una sala di Borgo,
Milani riconoscerà alcune caratteristiche del suo film su Gesù, rimasto allo
stadio di progetto, assistendo insieme ai
ragazzi di Barbiana a una proiezione
de Il Vangelo secondo Matteo (1964) di
Pier Paolo Pasolini.
Negli stessi mesi in cui Pasolini lavorava a quello che ancora oggi è considerato «il più riuscito, il più autentico
e il più religioso film su Gesù mai realizzato»,9 uno studioso francese appartenente alla Compagnie des prêtres de
Saint-Sulpice, Amédée Ayfre, rifletteva
sulla possibilità del cinema di evocare,
con propri mezzi specifici, il sacro. Secondo Ayfre sono tre gli stili con cui il
cinema può rappresentare il sacro.10 Il
primo, definito da Ayfre lo «stile dell’idealizzazione», trova una perfetta
declinazione nei film religiosi di Cecil
B. DeMille (come I dieci comandamenti, 1923, 1956): tramite la magia
del mezzo, ovvero degli effetti speciali,
si mitizza Dio e il rapporto tra Dio e gli
uomini. Ayfre respinge questo stile, riconoscendo in esso il pericolo dell’evasione: è uno stile irrealistico, che
falsifica il fatto religioso. Sulle incongruenze di un simile stile ha riflettuto
anche Martin Scorsese, l’autore de
L’ultima tentazione di Cristo (1988).
«Quando avevo circa quindici anni
– afferma –, in un piccolo cinema di
New York vidi la riedizione del film
muto del 1927 di Cecil B. DeMille Il
Re dei re. (...) La prima volta che si
vede Gesù nel film, quando cura il
bambino cieco ed è inquadrato dal
punto di vista del bambino, De Mille
usa, piuttosto ingenuamente ma al
tempo stesso efficacemente, l’effetto
speciale di un fascio di luce. Mi chiedevo: se Gesù era davvero così, come è
possibile che nessuno lo ascoltasse?
Come mai la sua predicazione non
ebbe successo e perché venne crocifisso?».11
Dopo la venuta di Cristo un qualsiasi volto di uomo può essere il volto
umano di Dio: da qui la possibilità del
secondo stile con cui il cinema ha trattato il sacro, definito da Ayfre lo «stile
dell’incarnazione». Se lo «stile dell’idealizzazione» è da rifiutare in
quanto irreale e insincero, lo «stile dell’incarnazione» ci ha regalato importantissimi film religiosi, molti dei quali
non riconosciuti tali da subito.
Ma c’è anche un terzo (e ultimo)
stile in grado di rappresentare il mistero del sacro tramite il mezzo cinematografico: Ayfre lo chiama lo «stile
della trascendenza». Mettendo l’uomo
direttamente in presenza di Dio, esso
vuole aprire un varco verso il trascendente, ma a partire da una posizione di
onestà nei confronti del reale: evitando
di «truccare» l’esistente, esso intende
«evocare» l’invisibile.
Due recenti film:
fra Tibhirine e Nazaret
La tradizione del film religioso è oggi
tutt’altro che spenta. Due recenti film
d’argomento religioso hanno riattivato il
dibattito, proponendo due diversi, direi
quasi antitetici, modi di approccio e raccogliendo ben diversi riscontri di pubblico e critica. Il primo è un film francese di Xavier Beauvois. Uscito nelle
sale italiane nell’autunno 2010 con il titolo Uomini di Dio,12 affronta l’assassinio
dei sette monaci di Tibhirine (Algeria),
rapiti nel 1996 da uomini del Gruppo
islamico armato (GIA) e morti in circostanze mai del tutto chiarite: il principale dubbio è se a uccidere i monaci
siano stati i gruppi islamici o le forze governative che secondo alcuni avrebbero
prima bombardato il luogo in cui i mo-
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naci erano tenuti prigionieri e poi messo
in scena le decapitazioni per screditare
a livello internazionale il GIA. Beauvois aveva fatto realizzare dei manichini
decapitati ma alla fine ha (saggiamente)
preferito sfumare sulle modalità con cui
si consumò la tragedia.
Il titolo con cui il film è stato distribuito nelle sale italiane non restituisce
appieno il senso veicolato dall’originale
Des hommes et des Dieux. Il film infatti,
oltre a raccontare la storia di alcuni
«uomini di Dio», svolge anzitutto una
riflessione sui rapporti tra gli uomini e
gli Dei. Ci pare che esso raggiunga tale
scopo proprio attivando entrambi gli
stili con cui secondo Ayfre il cinema
può mettere in scena il trascendente:
Des hommes ovvero lo «stile dell’incarnazione», des Dieux ovvero lo «stile
della trascendenza».
Lo «stile della trascendenza» sostiene le sequenze in cui è protagonista
Dio, a partire da quelle, registrate in
presa diretta, dedicate alla rappresentazione dei momenti di preghiera che
scandiscono la giornata dei monaci. Ma
soprattutto dà corpo a quella che è forse
la sequenza più bella del film. Prima
dell’epilogo tragico viene rivissuto il memoriale dell’ultima cena: sulle note del
Lago dei cigni di Tchaïkovski i monaci
si siedono intorno alla tavola e, bevendo
il vino del sacrificio, godono di un momento di grazia. Con grande maestria,
Beauvois sottolinea la dimensione comunitaria che sostiene la storia di questi uomini di Dio, le cui identità sono tenute insieme da un montaggio serrato
che, in un crescendo di grande impatto,
alterna inquadrature sempre più ravvicinate dei singoli monaci.
Lo «stile dell’incarnazione» governa
invece il resto del film – la quotidianità
del lavoro dei monaci, i loro rapporti
con la comunità locale, il sacrificio finale – adottando, e riattualizzando, toni
di ispirazione neorealista.13
Diverso è il caso di Io sono con te,
film italiano diretto da Guido Chiesa,
centrato sulla maternità di Maria di
Nazaret e sul progetto educativo con cui
ci si immagina possa essere stato cresciuto suo figlio Gesù. Realizzato nel
2010 e presentato al Festival di Roma
dello stesso anno, il film ha poi avuto
una distribuzione a singhiozzo che ha di
fatto suscitato più perplessità che entusiasmi.
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Se Beauvois si dimostra attento nel
conservarsi a distanza dalla materia
rappresentata, nell’evitare di indirizzare
in modo univoco la lettura degli eventi
messi in scena, l’intento di Chiesa è di
realizzare un film a tesi. Una tesi così
sintetizzabile: dietro alla vicenda della
nascita del Salvatore vi sarebbe la straordinarietà di Maria, una pedagoga ribelle, che cresce suo figlio secondo i
principi dell’amore, in aperto contrasto
con la mentalità maschilista e legalista
della cultura ebraica dell’epoca.
Si tratta con tutta evidenza di un
film che ribalta (un po’ schematicamente) la «prospettiva di genere» con
cui ci è stata tramandata la storia sacra,
facendo di Giuseppe sostanzialmente
un debole che accetta con poca convinzione le imposizioni di Maria, la
quale al contrario è rappresentata come
un personaggio forte e volitivo, oltre
che sempre sorridente, mai a disagio,
sostenuta da un’energia incrollabile, che
le consente di partorire da sola e di crescere poi suo figlio ignorando le leggi
ebraiche. Il rischio è che l’agiografia
cacciata dalla porta rientri dalla finestra: un’agiografia di nuovo conio, senz’altro più umana della precedente, ma
non meno eroica. Di un eroismo di
stampo troppo scopertamente moderno
(figlio della cultura della «non violenza»
e di un certo femminismo) per non rischiare di fare a pugni con la tradizione
evangelica. Un film così palesemente a
tesi è naturale che venga discusso sulla
base dell’accettazione o meno della tesi
in questione.14 Ma ciò per un film d’argomento religioso rappresenta un
grosso rischio: il rischio è che la personale prospettiva del regista finisca di
fatto per occupare l’intera scena, spingendo in un angolo il mistero del sacro.
Che è precisamente quanto non accade
in Uomini di Dio, dove, pur nel contesto
di una vicenda molto più umana di
quella raccontata da Chiesa, si respira
la verticalità dell’esperienza religiosa.
Tomaso Subini
1
Come la rivista dell’Università del Nebraska The Journal of Religion and Film, on-line
all’indirizzo Internet www.unomaha.edu.
2
Sul prete nel cinema si veda E. ALBERIONE, D.E. VIGANÒ, I preti del cinema, Effatà,
Milano 1995; D.E. VIGANÒ, Tonaca nera vs colletto bianco. Immagini del prete nel cinema. Nove
sguardi d’autore, La Cittadella, Assisi 2010.
3
Alcuni materiali della mostra sono ancora
disponibili on-line all’indirizzo internet www.museonazionaledelcinema.it, aprendo la pagina
«Collezioni» e successivamente quella «Collezioni on-line».
4
D.E. VIGANÒ, Gesù e la macchina da
presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, Lateran University Press, Roma 2005. Sul
cinema cristologico cf. L. BAUGH, Imaging the Divine. Jesus and Christ-Figures in Film, Rowman
& Littlefield, Lanham-Boulder et alia, Kansas
City (MO) 1997. Un originale e agile percorso in
lingua italiana è tracciato in G. BERTAGNA, Il
volto di Gesù nel cinema, Pardes, Bologna 2005.
5
Cf. A. BAZIN, Qu’est-ce que le cinéma? I.
Ontologie et Langage, Cerf, Paris 1958, 17.
6
Per l’importanza assunta da questo tema,
tanto a livello accademico quanto a livello più divulgativo, Il Regno ha deciso di aprire le sue pagine a una serie di contributi a esso dedicati. Si
cercherà di evitare l’errore di concentrare l’analisi esclusivamente su film con tematiche apertamente religiose: una tale chiusura correrebbe
infatti il rischio di riportarci all’epoca in cui le
sale parrocchiali proiettavano quasi esclusivamente film biblici e agiografici, nonostante fossero spesso espressione di propositi unicamente
commerciali. Ma nondimeno riteniamo pericolosa un’eccessiva apertura, contestabile a molti
studi recenti sugli aspetti religiosi del cinema
popolare, a volte impegnati in dotte disquisizioni sui sottotesti biblici di Psyco e Terminator.
Ci si occuperà prevalentemente di film contemporanei, ma con qualche apertura su film del
passato ancora «vitali». Si cercherà di capire il
presente e quanto ci accade intorno, ma mettendo in gioco un bagaglio di sapere figlio di una
tradizione ormai consolidata.
7
F. CASETTI, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienze, modernità, Bompiani, Milano
2005.
8
Tutte le citazioni relative a don Milani
sono tratte dalla lettera inviata il 15 febbraio
1952 da Milani al regista Maurice Cloche, in M.
GESUALDI (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, Milano
1970, 6-14.
9
BAUGH, Imaging the Divine, 94.
10
A. AYFRE, «Il senso cristiano del mondo
delle immagini. Primi passi verso una teologia
delle immagini», in Rivista del cinematografo n.
2, febbraio 1964, 70-75.
11
M. SCORSESE, Scorsese on Scorsese, a cura
di Ian Christie e David Thompson, Faber and
Faber, London 2003; tr. it. Scorsese secondo Scorsese, Ubulibri, Milano 2003, 160-161.
12
Su Regno-att. 18,2010,592 lo ha presentato al pubblico italiano, definendolo «un dono
di Dio», l’arcivescovo emerito di Algeri, mons.
H. Teissier.
13
Del resto per Ayfre uno dei più grandi
maestri dello «stile dell’incarnazione» è proprio
il padre del cosiddetto Neorealismo italiano, Roberto Rossellini. Il film di Beauvois condivide
con il cinema di Rossellini l’aderenza del soggetto a fatti reali della storia recente, le ambientazioni autentiche (la location è in Marocco,
presso un antico monastero benedettino in rovina rimesso in sesto dallo scenografo), l’amalgama tra interpreti presi dalla strada e attori
professionisti, la confezione dimessa (troupe leggera, basso budget).
14
Un’equilibrata lettura del film, intelligentemente dosata nel mettere in luce i pregi e i difetti
del testo, è in D. ZORDAN, «Gesù, il figlio del desiderio? “Io sono con te” di Guido Chiesa tra
umanizzazione e idealizzazione», in Cabiria nuova
serie n. 168, maggio-settembre 2011, 83-101.
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Fede e scienze
DIALOGHI
p
assione per la verità
Intervista al fisico Ugo Amaldi
N
12 gennaio 2012.
egli ultimi mesi del
2011, il CERN di Ginevra ha annunciato due
risultati sperimentali che
hanno riscosso l’attenzione mondiale per le possibili sorprendenti conseguenze. Il 23 settembre: un esperimento che cercava
tutt’altro sembra indicare che i neutrini
viaggino a una velocità superiore a
quella della luce, ritenuta finora il limite
della velocità nel cosmo. Il 13 dicembre:
due esperimenti con l’acceleratore
Large Hadron Collider (LHC) segnano
Il rivelatore ATLAS di LHC presso il CERN di Ginevra.
un passo avanti nella ricerca dell’elusivo
bosone di Higgs. Alcune evidenze registrate permettono ora di restringere il
campo d’indagine: se esiste, questa cosiddetta «particella di Dio» ha una
massa inclusa con grande probabilità in
un certo intervallo individuato.
«Nessuno come l’uomo chino sulla
materia – scriveva Teilhard de Chardin
– comprende quanto Cristo, grazie alla
sua incarnazione, sia interno al mondo,
radicato nel mondo fin nel cuore del più
piccolo atomo». L’originale definizione
«particella di Dio» interroga. Da un
lato, sul permanere tenace di categorie
religiose in tempo e ambiti di forte secolarità. Dall’altro, sul significato e sul
valore che l’uomo di fede può e deve attribuire a tali risultati e alla scienza in
generale. Tanto più interessante ascoltare quest’uomo se, oltre a essere credente, ha dedicato tutta la sua vita alla
ricerca scientifica ad altissimo livello,
come il prof. Ugo Amaldi.
Figlio di Edoardo, anch’egli fisico
nel celebre gruppo di Enrico Fermi, è
stato per 25 anni ricercatore al CERN,
dove ha fondato e diretto una delle
grandi collaborazioni internazionali –
di oltre 500 fisici – che ha lavorato sul
precedente acceleratore di particelle, il
Large Electron-Positron Collider (LEP).
Oltre 400 pubblicazioni testimoniano
la sua attività scientifica nei campi della
fisica atomica, delle particelle fondamentali e degli acceleratori. Conoscendo la sua passione per l’insegnamento e la divulgazione, e sapendo del
suo vivo interesse per le cosiddette questioni «di confine» tra scienza e fede, lo
abbiamo raggiunto per intervistarlo durante un viaggio tra Berna e Ginevra.
Ritorno alle origini
– Prof. Amaldi, partiamo dai suoi
interessi attuali che, se non sbaglio, la vedono impegnato a tempo pieno su un
fronte che la riporta in qualche modo
agli inizi della sua carriera di ricercatore.
«Proprio così. Da giovane ricercatore mi ero occupato, presso i laboratori
di fisica dell’Istituto superiore di sanità,
di radiazioni per la terapia del cancro.
Vent’anni fa insieme a dei colleghi abbiamo creato la Fondazione per l’adro-
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terapia oncologica (TERA), di cui sono
presidente, allo scopo di promuovere in
Italia e in Europa una radioterapia che
non utilizza fasci di raggi X, ma fasci di
protoni o ioni carbonio (che sono tra le
particelle denominate “adroni”; ndr), i
quali penetrano nel corpo del paziente
depositando nel tumore solido, anche
profondo, dosi letali di radiazione risparmiando i tessuti sani meglio dei
convenzionali raggi X. In particolare,
gli ioni carbonio permettono di trattare anche i cosiddetti tumori radioresistenti, quelli che non si riescono a curare coi raggi X e nemmeno coi
protoni.
A partire dal 1992 TERA ha progettato, in collaborazione con il CERN,
l’acceleratore e tutti i sistemi tecnici necessari al trattamento di migliaia di pazienti all’anno e, finalmente, nel 2001
abbiamo ottenuto l’approvazione del
primo finanziamento dall’allora ministro Veronesi. Con la conferma del finanziamento ministeriale da parte del
ministro Sirchia, è stato realizzato a Pavia il primo centro italiano (il secondo in
Europa) di radioterapia adronica. Il
progetto è stato affidato a una fondazione creata ad hoc e denominata Centro nazionale di adroterapia oncologica
(CNAO), la quale si è avvalsa del prezioso contributo dell’Istituto nazionale
di fisica nucleare (INFN). Nell’ottobre
del 2010 sono stati prodotti i primi fasci di particelle accelerate all’energia
necessaria per penetrare fino a 30 centimetri nel corpo umano. Lo scorso settembre è stato trattato il primo paziente.
Tra tre anni si prevede di trattarne tra
2.000 e 3.000 all’anno, in particolare
con ioni carbonio. In Italia, ogni anno,
sono circa 3.500 i casi di tumori radioresistenti che necessiterebbero di questa
terapia».
– I risultati sperimentali annunciati
tra settembre e dicembre hanno fatto scalpore e messo in fibrillazione il mondo
scientifico. Qualcuno ha parlato della
possibile soglia di una nuova fisica.
Quali scenari si possono prevedere?
«Anzitutto bisogna chiarire che si
tratta di due problematiche del tutto
diverse e indipendenti. La questione
della velocità dei neutrini ha a che fare
con una delle teorie – la Relatività ristretta di Einstein – tra le più utilizzate
e verificate nell’ultimo secolo da una
serie innumerevole di esperimenti. La
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ricerca della particella di Higgs, invece,
riguarda la teoria del “modello standard” della fisica delle particelle, e in
particolare è legata alla necessità di capire come mai nel nostro universo esistano – e si possono produrre con gli acceleratori – 24 tipi di particelle che
hanno caratteristiche e massa completamente differenti».
Modificare la Teoria
della relatività?
– Cominciamo dai neutrini.
«I neutrini sono particelle molto
particolari, simili agli elettroni, ma
senza carica e poco reattivi, tanto che
possono attraversare l’universo intero
senza praticamente interagire. La notizia è che per la prima volta è stata eseguita una misura accurata della velocità
con cui tali particelle viaggiano nello
spazio che, per le loro caratteristiche, è
come se fosse assolutamente vuoto.
Tutte le misure finora effettuate sulla velocità di altre particelle avevano confermato l’assunto fondamentale della
Relatività, secondo il quale nessuna di
esse può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. La velocità dei
neutrini non era mai stata misurata con
tanta precisione.
Durante l’esperimento OPERA
(Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus), condotto da un
gruppo di fisici in prevalenza italiani e
giapponesi e guidata dal prof. Antonio
Ereditato – un fisico dell’INFN di Napoli chiamato alla cattedra di Berna – è
stato usato uno strumento, costruito per
tutt’altro scopo, modificato con l’aggiunta di strumentazioni molto precise
al fine di misurare il tempo impiegato
dai neutrini tra il punto di produzione
– un tunnel del CERN – e il rivelatore
dell’interazione di neutrini, in una caverna nei laboratori dell’INFN al Gran
Sasso. La distanza (circa 730 Km) è
stata stimata con un errore inferiore ai
2 metri da due sistemi GPS metrologici
accuratissimi. Dalla misura del tempo
di percorrenza – invero piuttosto complicata – ci si attendeva una conferma
che non è arrivata: i neutrini sembrano
impiegare un tempo, seppur di pochissimo, inferiore a quello che impiegherebbe un fascio di luce.
Il risultato deve essere ovviamente
confermato e si rendono necessarie misure indipendenti. Motivo per cui il
gruppo di OPERA ha deciso di sottoporre i risultati all’esame della comunità
scientifica. Due gruppi di scienziati, negli Stati Uniti e in Giappone, stanno ripetendo l’esperimento. Prima di trarre
qualsiasi conclusione si deve attendere
una conferma almeno altrettanto attendibile».
– Che cosa accadrebbe nella comunità scientifica se il fenomeno venisse
confermato?
«La reazione degli scienziati non sarebbe la stessa. Già oggi c’è chi non
crede ai risultati, ritenendo la cosa impossibile, e chi vorrebbe modificare drasticamente la Teoria della relatività. Il
metodo scientifico ci suggerisce la scelta
più conservativa, ovvero non abbandonare subito quanto è già stato raggiunto
a livello teorico – soprattutto se ben
provato come la Relatività –, tentando
prima altre spiegazioni. Si potrebbe, ad
esempio, ipotizzare che il fenomeno – se
fosse verificato – riguardi solo i neutrini e non le altre particelle. In forza
della loro particolarissima natura essi
potrebbero esplorare durante il viaggio
una quarta dimensione fisica prendendo, per così dire, una sorta di scorciatoia lungo il percorso. Si tratta, ovviamente, solo di un’ipotesi che, pur
richiamando in qualche modo la Teoria
delle superstringhe, non ha al momento
il sostegno di alcuna teoria provata e ha
anche alcune gravi controindicazioni».
Il grande ricercato
– Veniamo alla seconda questione: le
evidenze sperimentali della particella di
Higgs che LHC sembra aver registrato e
che sono state annunciate ufficialmente
nel seminario del 13 dicembre.
«La costruzione del “modello standard” della fisica delle particelle è stata
un’avventura straordinaria del XX secolo: dall’ipotesi dei quanti di energia di
Max Planck (1900) allo spegnimento
del LEP (2000).
Questo modello – per cui “la stoffa”
del nostro universo fisico sarebbe costituita di 24 particelle, 12 “particellemateria” e 12 “particelle-forza” – è
però insoddisfacente. Infatti, non c’è
modo di capire come tutte queste particelle abbiano massa. Esiste, infatti, un
potentissimo principio teorico, che in
italiano si può chiamare principio di
“invarianza locale per ricalibratura” (in
inglese local gauge invariance), che per-
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mette di dedurre dal fatto che esistono
le 12 particelle-materia la necessità che
esistano proprio quelle 12 particelleforza.
Poter ricavare le forze dalle particelle è un risultato straordinario dal
punto di vista teorico; probabilmente è
il più grande successo della fisica teorica
del XX secolo dopo la meccanica quantistica. Ma tale principio ha un grave inconveniente: prevede che tutte le 24
particelle del modello abbiano massa
nulla, il che significherebbe l’impossibilità fisica dell’esistenza di tutto ciò che
esiste, ovvero dell’universo materiale.
Per risolvere questo problema, i fisici
non hanno trovato di meglio che ipotizzare l’esistenza di un campo – il cosiddetto campo di Higgs – che dovrebbe
esistere in tutto lo spazio fin dal tempo
del Big Bang e interagire con le altre
particelle in modo differenziato: molto
con quelle più pesanti, che verrebbero
maggiormente rallentate; meno con
quelle più leggere e più veloci, come il
neutrino. Si tratta di un ingrediente essenziale della fisica del XX secolo che al
LEP abbiamo inseguito disperatamente
fino all’ultimo giorno, perché sembrava
che fossimo davvero vicini a rintracciarlo».
– Spento il LEP si è aperta la stagione
attuale, quella di LHC.
«È stata una decisione combattuta,
ma alla fine si è stabilito che il LEP non
avesse abbastanza energia per proseguire gli esperimenti. Si è così scelto di
smantellarlo per fare posto all’LHC col
quale – grazie a collisioni tra protoni
che circolano in un anello di mille magneti superconduttori – si dispone di
un’energia dieci volte superiore. L’energia però non è tutto, perché la particella
di Higgs è un evento estremamente raro
e difficile da registrare per la sua instabilità: ci sono voluti due anni di raccolta
dati e la produzione di milioni di miliardi di eventi per arrivare, forse, all’evidenza di qualche decina di tali particelle.
Il 13 dicembre, i responsabili di due
degli esperimenti di LHC – i fisici italiani Fabiola Gianotti e Guido Tonelli2
– hanno comunicato lo stato della ricerca, senza poter fare alcun annuncio
circa l’esistenza o la non esistenza della
particella. Infatti, sebbene i dati raccolti siano già cinque volte superiori a
quelli preventivati, non sono ancora suf-
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ficienti a fare affermazioni conclusive.
Diciamo così: combinando i risultati
ottenuti la probabilità che la particella
di Higgs, se esiste, sia nell’intervallo di
massa individuato è superiore al 9899%. Si è ristretto il campo di ricerca,
ma al momento non si può dire di più.
Entro il 2012 si spera di arrivare alla risposta definitiva. A quel punto o si vedrà confermata la presenza della particella di Higgs in quell’intervallo, oppure
saremo quasi certi che non esiste».
– E se si dovesse ammettere che il ricercato non esiste?
«Mi lasci dire che il pensiero della
non esistenza per uno scienziato è perfino più eccitante. Se esiste la particella
– e quindi se esiste il campo di Higgs –
avremo conferma di una bellissima teoria. Ma se non esiste… allora saremo
“in braghe di tela” e si aprirebbe davvero una stagione nuova e diversa per la
fisica».
Questioni tra scienza e fede
– «Sono convinto che non ci sia per la
vita religiosa nutrimento naturale più
potente del contatto con le realtà scientifiche ben comprese», scriveva ancora Teilhard. Quali sono i punti di distanza e
quelli di contatto, e direi anche quali attenzioni è necessario avere, ipotizzando
possibili ricadute di tali risultati sul dialogo tra il mondo scientifico e quello della
fede? Penso al nome «particella di Dio»,
ma anche al significato della realtà, questione che la nuova comprensione fisica
del mondo ripropone con forza.
«Anzitutto, a me la definizione “particella di Dio” non piace affatto. La
dobbiamo a una scelta del Nobel americano Leon Ledermann, che la inventò
con intelligenza per vendere un bel libro3 sulla teoria di Higgs e sugli esperimenti che conduceva al Fermilab di
Chicago. Se si volesse far uso della metafora sarebbe più corretto parlare di
“campo di Dio”, in quanto la teoria
prevede l’esistenza del campo di Higgs
per dare massa, cioè consistenza, a tutte
le altre particelle. Utilizzando il linguaggio filosofico, un passaggio necessario ogni volta che affrontiamo questioni di “confine”, avere massa vuol
dire esistere. Si potrebbe quindi sostenere che il campo di Higgs sia quell’entità diffusa ovunque che mantiene
nell’essere le particelle, le quali, di loro
natura, avrebbero massa nulla per il
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A CURA DI STEFANIE KNAUSS
DAVIDE ZORDAN
La promessa
immaginata
Proposte per una teologia
estetica fondamentale
saggi raccolti nel volume intendono contribuire alla comprensione del ruolo della
teologia nell’epoca contemporanea. Li accomuna il presupposto che la teologia fondamentale, per non accontentarsi di essere un
vago aggiornamento dell’apologetica, deve
implicare un’estetica intesa inscindibilmente
come teoria dell’arte e del sentire.
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«SCIENZE RELIGIOSE - NUOVA SERIE» pp. 400 - € 28,50
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Famiglia, educazione,
maturazione umana
A cura di Lorenzo Macario
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L’
Istituto di ricerche e studi sull’educazione e la famiglia presenta un’importante riflessione pedagogica sul rapporto
tra l’ambiente educativo e la maturazione umana, e sul ruolo dell’esperienza individuale e di
gruppo nella crescita della persona. Il testo,
frutto di incontri con genitori, operatori di
pastorale familiare e responsabili di gruppi
giovanili, è anche l’ultimo lavoro del prof.
Macario, sdb (1934-2011).
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51-54_intervista CERN:Layout 2
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principio di invarianza di cui ho parlato.
L’unico modo in cui posso giustificare l’uso della metafora per uscire dall’ambito scientifico è quello di sostenere che il Creatore, creando un
universo che “si fa da sé” – come io
penso si debba dire oggi –, ovvero creando una realtà in grado di sviluppare
le sue potenzialità fino all’autocoscienza
e alla libertà, che sono le strutture di
base dello spirito, abbia potuto “scegliere” l’esistenza di questo campo, che
occuperebbe tutto lo spazio fin dal Big
Bang, quale riflesso del suo “mantenere
le cose nell’essere”. Questo mi sembra
l’unico modo di utilizzare una dizione
che è del tutto ingiustificata per una
particella. Ma una cosa deve essere
chiara: anche riferendoci a un impalpabile campo, diffuso da sempre in
tutto l’universo, parliamo sempre di fenomeni fisici che non hanno di per sé
alcuna relazione immediata col mondo
spirituale e non possono essere strumentalizzati né a favore né contro tale
dimensione».
– La fisica dell’infinitamente piccolo
solleva domande importanti sulla realtà
degli oggetti studiati e quindi sul senso
della realtà più in generale. Che cosa è
reale e che cosa non lo è in fisica? Qual
è la posizione dello scienziato credente?
«Sono convinto che tra gli scienziati
di opzioni filosofiche o religiose diverse
non vi sia alcuna sostanziale differenza
di approccio all’attività scientifica, rispondendo tutti alla curiosità intrinseca
dell’essere umano che spinge a voler
sapere come è fatta la realtà. La sola differenza che io vedo è sui fondamenti,
non sul modo di fare scienza: si tratta
quindi proprio della visione della realtà. Mi sembra evidente che uno scienziato, se è credente, non può che essere
ciò che filosoficamente si dice un “realista”, ovvero uno che crede all’esistenza
di una realtà fuori di sé, ritenendo egli
che tale realtà sia opera di un Creatore
e, quindi, essendo consapevole che coi
suoi esperimenti osserva un riflesso,
sempre parziale e mai del tutto soddisfacente, di questa realtà. Se invece è
ateo, o agnostico, potrà più facilmente
parlare di quanto osserva rifiutandosi di
entrare nella questione, eminentemente
filosofica, dell’esistenza o dell’origine
della realtà osservata.
Il risultato del suo lavoro può essere
interpretato da un fisico delle particelle
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come semplice fenomeno naturale, o
come il riflesso della volontà di un creatore trascendente di dare forma a un
universo straordinariamente complesso
e “fertile”, come dice p. George Coyne.
Ricordando bene, però, – e ci tengo a
sottolinearlo ancora – che Dio non ha
creato nei dettagli tutto quello che noi
osserviamo oggi, ma ha dato vita a un
universo che aveva e ha in sé le potenzialità di produrre l’incredibile varietà
di sistemi, di esseri, di fenomeni che
noi possiamo ammirare, anche facendo
ricerca nel campo della fisica subatomica».
Fiducia nello «sforzo umano»
– Come vive, da credente, l’avventura di una ricerca scientifica a questo livello, così avanzata per strumenti, mezzi
e personale investito, ma anche al centro
dell’attenzione mondiale per l’importanza
dei risultati attesi?
«In un momento così difficile per la
vita sociale, soprattutto nel mondo occidentale, vedere tanti giovani scienziati
– molti dei quali italiani – pieni di entusiasmo che dedicano la loro vita, con
stipendi spesso modesti, a cercare di capire come è fatto il mondo, collaborando a partire da posizioni filosofiche
e culturali del tutto differenti, è una
bella speranza per il futuro dell’umanità
che non può che far piacere all’uomo
credente. Il cristiano, infatti, crede in un
Dio che lo invita ad avere fiducia nelle
potenzialità dell’uomo. Verificare a questi livelli che esiste la possibilità di lavorare insieme senza essere mossi solo da
ambizioni o da intrecci economici, è
una bella speranza per chi crede nella
capacità dell’uomo di ricercare la verità
al di sopra degli interessi e degli egoismi
di parte.
Ci sono senz’altro forti volontà di
primeggiare dietro le grandi collaborazioni scientifiche internazionali. Ma nei
laboratori c’è sempre anche una sincera volontà di superare le differenze
che crea uno spirito di collaborazione
convinta e appassionata superiore a
convinzioni e opzioni di vita anche
molto differenti. Un atteggiamento a
cui noi credenti dovremmo puntare
sempre».
– Mi sembra di capire che a questo livello la scienza si annuncia come terreno di possibile avanguardia, o almeno
di valida sperimentazione, per quella ri-
cerca comune nel dialogo tra credenti e
non credenti, che è una delle linee del
pontificato attuale. Le chiederei in conclusione se ha un suggerimento da rivolgere agli uomini di Chiesa in vista del
dialogo col mondo scientifico.
«Se posso iniziare con una battuta,
direi che già Galilei si era mostrato più
avanti di certi uomini di Chiesa del suo
tempo quando, citando il card. Baronio, aveva scritto che la Bibbia ci insegna come si va in cielo e non come
vanno i cieli. Giovanni Paolo II ha saputo riconoscerlo e non mi sorprende
costatare che anche oggi gli scienziati
possano essere in qualche modo all’avanguardia in quel dialogo tra appassionati cercatori della verità che il
papa sollecita.
Quanto al mio suggerimento direi
così. Mentre quando si parla di fisica o
astronomia i contrasti tra fede e scienza
sono abbastanza facili da dirimere, se si
ha una visione aperta e non ideologica,
quando ci si avvicina ad ambiti della
scienza che toccano nelle applicazioni
temi eticamente sensibili, ovvero nell’ambito dei cosiddetti valori non negoziabili, le questioni si fanno più delicate. Il mio desiderio sarebbe che gli
uomini di Chiesa, quando si pronunciano su determinati argomenti, fossero capaci di una chiara distinzione
delle questioni e cogliessero che parlare
di temi non negoziabili rischia, all’orecchio degli scienziati, di suonare
come una preclusione alla ricerca per
essi difficilmente accettabile. Si dovrebbe distinguere, dunque, tra i necessari consigli e orientamenti etici e un
eventuale freno alla ricerca imposto per
paura che possano nascere questioni
delicate. È su questo che molto spesso
si divide la coscienza degli scienziati
credenti».
a cura di
Marco Bernardoni
1
L’intervallo di massa individuato per la
particella di Higgs incrociando i dati degli esperimenti ATLAS (A Toroidal LHC Apparatus) e
CMS (Compact Muon Solenoid) è compreso tra
117 GeV e 131 GeV.
2
La dott.ssa Fabiola Gianotti e il dott.
Guido Tonelli sono direttori e portavoce rispettivamente degli esperimenti ATLAS e CMS.
3
L. LEDERMAN (e D. TERESI), The God particle. If the Universe is the Answer, What is the Question?, Dell Publishing, New York 1993.
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diario ecumenico
DICEMBRE 2011
CEC – Libertà religiosa. Il Consiglio ecumenico delle Chiese
(CEC) ha avviato un processo di studio sulla situazione della libertà
religiosa nel mondo nel corso di una consultazione internazionale
tenutasi a Istanbul dal 28 novembre al 1° dicembre presso il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli. Sono stati esaminati 27 paesi in
diverse regioni del mondo, oltre a diversi esempi di violazione della
libertà religiosa e di soluzioni positive per la tutela di tale diritto. Il
prossimo incontro – nel quale sarà presentato un primo rapporto
sulla libertà religiosa – si terrà in Cina in giugno.
Mosca – Chiesa ortodossa ed elezioni. Il 4 dicembre si
svolgono in Russia le elezioni per il rinnovo della Duma, la Camera
bassa del Parlamento, con la vittoria, tra accuse di brogli e irregolarità, del partito di governo Russia unita. Dopo la proclamazione dei
risultati monta un movimento di protesta che porta in piazza oltre
50.000 persone il 10 dicembre e oltre 100.000 il 24 dicembre, nelle
manifestazioni più grandi degli ultimi 15 anni. Gli indignados russi
sono per lo più cittadini appartenenti alla classe media, che chiedono l’annullamento del voto e l’indizione di nuove elezioni politiche in febbraio. Il Patriarcato di Mosca, schierato su una posizione
I cristiani nel mondo – Statistiche. Il 21 dicembre viene
diffusa dal Pew Forum (www.pewforum.org), autorevole istituto
di statistica americano, la ricerca Gobal Christianity sulla diffusione e la distribuzione della popolazione cristiana globale. Il cristianesimo emerge come la religione più diffusa nel mondo,
con 2,18 miliardi di persone (1,6 miliardi i musulmani). I cattolici
sono il 50,1% dei cristiani, i protestanti il 37%, gli ortodossi il 12%
e il resto seguaci di varie denominazioni. Globalmente i cristiani
rappresentano all’incirca la stessa percentuale di popolazione di
cento anni fa, ma è molto diversa la loro distribuzione geografica. Oggi il maggior numero di cristiani (36,8%) è nelle Americhe,
mentre l’Europa è al secondo posto (25,9%). L’Africa sub-sahariana
ora rappresenta il 23,6% dei cristiani e l’Asia-Pacifico il 13,1%.
«Alcuni dati – si legge nella sintesi della ricerca – evidenziano
quanta strada il cristianesimo abbia percorso dalle sue origini
storiche: benché sia nato nel Medio Oriente, oggi questa regione
ha sia la minore concentrazione di cristiani (circa il 4% della popolazione) sia il minor numero di cristiani (circa 13 milioni); l’Indonesia, un paese a maggioranza musulmana, ospita più cristiani
di tutti i 20 paesi del Medio Oriente messi insieme; la Nigeria ora
ha il doppio dei protestanti (in senso lato, compresi anglicani e
Chiese indipendenti) della Germania, luogo d’origine della Riforma; il Brasile ha il doppio dei cattolici che ha l’Italia; benché
i cristiani costituiscano meno di un terzo della popolazione
mondiale, sono la maggioranza in 158 paesi, circa i due terzi del
totale; circa il 90% dei cristiani vive in paesi dove i cristiani costituiscono la maggioranza della popolazione, mentre solo il 10%
circa dei cristiani nel mondo vive in condizione di minoranza».
I cattolici sono in tutto 1.100 milioni. I protestanti sono 801
milioni. Solo 2 dei paesi con la più numerosa comunità protestante sono ormai europei. Gli ortodossi sono 260 milioni, il 39%
dei quali in Russia. Quanto ai movimenti trans-denominazionali,
i cristiani pentecostali sono circa 279 milioni, i carismatici 305 milioni e gli evangelicali 285 milioni.
di endorsement rispetto al governo, è costretto a mediare rispetto
a un discreto numero di preti e fedeli che condividono le ragioni
della protesta. Il patriarca Cirillo chiede il 18 dicembre l’apertura di
«un vero dialogo civile in modo da non distruggere la vita della nazione»; esorta le autorità civili ad ascoltare le ragioni del popolo; e
a metà gennaio, in un’intervista trasmessa sul primo canale della televisione, esorta il potere politico ad agire secondo verità e a dimostrare di sapersi riformare.
Cipro – Ebrei e ortodossi. Il 6 dicembre Yona Metzger, gran
rabbino d’Israele, e l’arcivescovo ortodosso Chrysostomos, primate
della Chiesa di Cipro (una delle 14 Chiese ortodosse autocefale, cioè
indipendenti), firmano a Nicosia una dichiarazione comune che definisce illegittima la dottrina della colpevolezza collettiva degli ebrei
per il deicidio di Gesù. È la prima volta che una Chiesa ortodossa rigetta esplicitamente tale dottrina, che ha costituito nella storia uno
dei principali fattori di sviluppo dell’antisemitismo. Nella dichiarazione i due leader religiosi condannano il proselitismo e s’impegnano
inoltre a rafforzare le relazioni tra la Chiesa e il popolo ebraico. Il
gesto si accompagna a un più generale rafforzamento dei legami tra
Cipro e Israele, contemporaneamente all’indebolirsi delle relazioni
tra quest’ultimo e la Turchia.
Dialogo cattolici-giainisti. Ha luogo a Roma il 6 dicembre il
secondo incontro (il primo si era tenuto nel 1995) fra una delegazione del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, guidata
dal presidente, il card. Jean-Louis Tauran, e una delegazione giainista,
presieduta da Nemu Chandaria, vicepresidente del Consiglio direttivo dell’Istituto giainista. Il giainismo, che conta circa 3 milioni di
adepti concentrati soprattutto nella regione indiana del Gujarat, predica la dottrina della ahimsa, il rispetto assoluto verso qualsiasi
forma di vita. Nel corso del colloquio vengono esaminati il principio
giainista della «non violenza» e quello cristiano della «carità», e vengono individuati elementi comuni che possono promuovere la collaborazione reciproca.
Il rabbino Jonathan Sacks dal papa. Ricambiando la visita
ricevuta nel settembre 2010 da Benedetto XVI nel corso del suo
viaggio nel Regno Unito, e ricordata come «un bellissimo momento», il 12 dicembre il rabbino capo delle Congregazioni ebraiche unite del Commonwealth, Jonathan Sacks, fa visita a Benedetto XVI. Durante l’incontro, a porte chiuse, lord Sacks esprime
le proprie preoccupazioni per il declino della fede e la perdita
dell’anima dell’Europa, incontrando profonda consonanza spirituale da parte del papa. Le stesse riflessioni vengono successivamente proposte dal rabbino nella conferenza su «L’Europa ha
perso la sua anima?», presso il Centro «Cardinale Bea» della Pontificia università gregoriana.
Berlino – Incontro europeo dei giovani di Taizé. Si volge
a Berlino dal 28 dicembre al 1° gennaio il XXXIV Pellegrinaggio di fiducia sulla terra. Frère Alois, priore della comunità di Taizé, che ogni
fine anno organizza questo momento di spiritualità e scambio tra
giovani di paesi e confessioni cristiane diverse in una città europea,
annuncia ufficialmente che l’edizione 2012 si svolgerà a Roma, su invito e con la partecipazione del papa. L’appuntamento dunque sarà
un po’ diverso dal solito; i giovani si riuniranno per pregare ma nelle
grandi basiliche romane anziché presso la fiera.
Daniela Sala
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agenda vaticana
DICEMBRE 2011
Mozambico. Un accordo di cooperazione e di amicizia viene
firmato il 7 dicembre tra Santa Sede e Mozambico: è il primo accordo
di quadro con un paese dell’Africa australe e si compone di un preambolo e di 23 articoli che regolano vari ambiti tra i quali lo statuto
giuridico della Chiesa cattolica in Mozambico, il riconoscimento dei
titoli di studio e del matrimonio canonico, il regime fiscale.
ICI-IMU e Chiesa. «Il problema dell’ICI – dice ai giornalisti il
card. Tarcisio Bertone il 7 dicembre in risposta a una polemica abituale ma riaccesa dal dibattito sulla “manovra” del governo Monti
(cf. Regno-att. 22,2011,729) – è un problema particolare, da studiare
e da approfondire. Però la Chiesa fa la sua parte, soprattutto a favore
delle fasce più deboli della popolazione». Più puntuali il giorno dopo
le parole del card. Angelo Bagnasco: «In linea di principio, la normativa vigente è giusta, in quanto riconosce il valore sociale delle attività svolte da una pluralità di enti non profit e, fra questi, dagli enti
ecclesiastici. È altrettanto giusto, se vi sono dei casi concreti nei
quali un tributo dovuto non è stato pagato, che l’abuso sia accertato
e abbia fine. In quest’ottica non vi sono da parte nostra preclusioni
pregiudiziali circa eventuali approfondimenti volti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il
mondo dei soggetti non profit, oggetto dell’attuale esenzione».
Segnata dai nostri peccati. «L’unica insidia di cui la Chiesa
può e deve aver timore è il peccato dei suoi membri. Mentre infatti
Maria è immacolata, libera da ogni macchia di peccato, la Chiesa è
santa, ma al tempo stesso segnata dai nostri peccati. Per questo il
popolo di Dio, peregrinante nel tempo, si rivolge alla sua Madre celeste e domanda il suo aiuto; lo domanda perché ella accompagni il
cammino di fede, perché incoraggi l’impegno di vita cristiana e perché dia sostengo alla nostra speranza. Ne abbiamo bisogno, soprattutto in questo momento così difficile per l’Italia, per l’Europa, per
varie parti del mondo»: così parla Benedetto XVI nell’omelia dell’8
dicembre durante l’omaggio all’Immacolata in piazza di Spagna.
Foley. L’11 dicembre muore il cardinale statunitense John Patrick
Foley, 76 anni, gran maestro emerito dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e già presidente del Consiglio delle comunicazioni sociali. Il numero dei cardinali scende a 192, dei quali 109 elettori.
Educare i giovani alla pace. «Essere attenti al mondo giovanile, saperlo ascoltare e valorizzare, non è solamente un’opportunità, ma un dovere primario di tutta la società, per la costruzione di
un futuro di giustizia e di pace»: l’afferma Benedetto XVI nel messaggio per la XLV Giornata mondiale della pace «Educare i giovani
alla giustizia e alla pace» pubblicato il 16 dicembre. E ancora: «Per essere veramente operatori di pace, dobbiamo educarci alla compassione, alla solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità, essere attivi
all’interno della comunità e vigili nel destare le coscienze sulle questioni nazionali e internazionali e sull’importanza di ricercare adeguate modalità di ridistribuzione della ricchezza, di promozione
della crescita, di cooperazione allo sviluppo e di risoluzione dei conflitti». Cf. Regno-doc. 1,2012,1.
Ai carcerati di Rebibbia. «So che il sovraffollamento e il degrado delle carceri possono rendere ancora più amara la detenzione:
mi sono giunte varie lettere di detenuti che lo sottolineano. È im-
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portante che le istituzioni promuovano un’attenta analisi della situazione carceraria oggi, verifichino le strutture, i mezzi, il personale, in modo che i detenuti non scontino mai una “doppia pena”;
ed è importante promuovere uno sviluppo del sistema carcerario,
che, pur nel rispetto della giustizia, sia sempre più adeguato alle esigenze della persona umana, con il ricorso anche alle pene non detentive o a modalità diverse di detenzione»: così il papa il 18
dicembre in visita ai carcerati di Rebibbia con i quali intavola un dialogo molto vivo, con sei domande e sei risposte, presente il ministro
della Giustizia Paola Severino. Cf. Regno-doc. 1,2012,8.
Cause dei santi. Il 19 dicembre il papa autorizza la pubblicazione di 23 decreti riguardanti nuovi santi e beati. Tra i sette nuovi
santi vi è il sacerdote bresciano e fondatore della Congregazione
della Sacra famiglia di Nazaret e della Congregazione delle suore
umili serve del Signore (1841-1913), beato dal 1997; nonché la prima
santa pellerossa: Caterina Tekakwitha, laica vissuta tra Stati Uniti e
Canada dal 1656 al 1680, beata dal 1980.
Tedio e gioia della fede. «Il nocciolo della crisi della Chiesa
in Europa è la crisi della fede. Se a essa non troviamo una risposta,
se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione e una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le
altre riforme rimarranno inefficaci. In questo senso l’incontro in
Africa con la gioiosa passione per la fede è stato un grande incoraggiamento. Lì non si percepiva alcun cenno di quella stanchezza
della fede, tra noi così diffusa, niente di quel tedio dell’essere cristiani da noi sempre nuovamente percepibile»: così il papa nel discorso alla curia del 22 dicembre nel quale ricorda anche il «modo
nuovo dell’essere cristiani» mostrato dai giovani nella Giornata mondiale di Madrid, caratterizzato dall’entusiasmo come quello africano:
«La fede rende lieti a partire dal di dentro». Cf. Regno-doc. 1,2012,5.
«Dimostra la tua potenza». «In questo momento, in cui il
mondo è continuamente minacciato dalla violenza in molti luoghi e in
molteplici modi, gridiamo al Signore: amiamo il tuo essere bambino, la
tua non violenza, ma soffriamo per il fatto che la violenza perdura nel
mondo, e così ti preghiamo anche: dimostra la tua potenza, o Dio. In
questo nostro tempo, in questo nostro mondo, fa’ che i bastoni dell’aguzzino, i mantelli intrisi di sangue e gli stivali rimbombanti dei soldati
vengano bruciati, così che la tua pace vinca in questo nostro mondo»:
così prega papa Benedetto XVI la notte di Natale in San Pietro, facendo
suo il grido di Isaia 9. Il giorno di Natale al termine del messaggio Urbi
et orbi Benedetto augura il «buon Natale» in 65 lingue.
Nigeria. «Ho appreso con profonda tristezza la notizia degli attentati che, anche quest’anno nel giorno della nascita di Gesù,
hanno portato lutto e dolore in alcune chiese della Nigeria. Desidero manifestare la mia sincera e affettuosa vicinanza alla comunità
cristiana e a tutti coloro che sono stati colpiti da questo assurdo
gesto e invito a pregare il Signore per le numerose vittime. In questo momento voglio ripetere ancora una volta con forza: la violenza
è una via che conduce solamente al dolore, alla distruzione e alla
morte; il rispetto, la riconciliazione e l’amore sono l’unica via per
giungere alla pace»: così parla il papa all’Angelus del 26 dicembre,
con riferimento agli attentati che nel giorno di Natale hanno colpito tre chiese cattoliche della Nigeria del Nord provocando la
morte di una quarantina di persone.
Luigi Accattoli
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S
studio del mese
La crisi
dell’Unione
Europea
Europa:
un’avventura
spirituale
nella nostra storia
«Stiamo vivendo la fine o la metamorfosi
di una grande idea attraverso il ritorno
in Europa della politica degli stati?».
La domanda che si pone Jacques Delors,
che appartiene alla «seconda generazione»
dei fondatori dell’Unione Europea, lo porta
a definirne l’ispirazione fondatrice
come un’«avventura spirituale»,
perché «lo spirituale abita nelle istituzioni,
nelle regole del gioco, nelle politiche
e soprattutto nelle pratiche».
Essa tuttavia oggi si trova in mezzo alla sua
crisi più grave, per non aver conquistato
un radicamento popolare e non aver
raggiunto il livello dell’unione politica.
Ma – sostengono i vescovi dell’UE in un loro
recente documento, qui presentato da mons.
Gianni Ambrosio – questa «avventura
spirituale» si è fatta sin qui promotrice
di valori come la solidarietà
e la responsabilità, che hanno ispirato
un modello socio-economico, l’economia
sociale di mercato, che richiede di essere
riscoperto e attuato nella sua forma
caratteristica a beneficio di tutta l’umanità.
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tudio del mese
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l tema potrà apparirvi strano e inusitato.
Infatti, si tratta di parlare dell’Europa come
di un’avventura spirituale, nel momento in
cui una grave crisi economica scuote l’Unione economica e monetaria e nel quale gli
egoismi nazionali si scontrano con l’imperativo di estinguere l’incendio che minaccia
la zona euro.
Vorrei sbarazzarmi subito dei rimproveri di ambiguità, affermando che nessuno ha il monopolio
dello spirituale. Ma aggiungo immediatamente che i
riferimenti che delimitano la mia riflessione mi collegano a un approccio cristiano. E per giustificare
questo confronto fra lo spirituale e la nostra storia
umana riprenderò questa riflessione da mons. Dalloz: «Una vera dimensione spirituale non è, oggi più
di ieri, una questione di grandi parole e di grandi
sentimenti. Se lo spirituale è in sé carnale, bisogna
che anche il carnale sia in qualche modo spirituale».
Il fondamento di questa riflessione è per me l’appello di Robert Schuman del 9 maggio 1950. A partire di lì, come definire una sessantina d’anni di
costruzione europea che ha conosciuto alti e bassi?
Essa non è mai stata, come mi piace ripetere, un
lungo fiume tranquillo: conflitto di sovranità, conflitto di squilibri economici e conflitto della globalizzazione. Le sfide lanciate sono state superate più o
meno bene, senza spezzare il filo dell’ispirazione.
Ma indubbiamente la crisi più grave è quella che
gli europei affrontano ora. E per il nostro tema non
si può evitare di esaminarla, perché lo spirituale abita
nelle istituzioni, nelle regole del gioco, nelle politiche
e soprattutto nelle pratiche.
Allora siamo presi dal dubbio. Stiamo vivendo la
fine o la metamorfosi di una grande idea attraverso il
ritorno in Europa della politica degli stati, questi
«mostri freddi»? O questo progetto ha ancora tutta la
sua pertinenza, perché corrisponde alle esigenze della
storia e della globalizzazione, e anche perché nasconde un supplemento d’anima che trascende le attività umane?
In principio il perdono e la promessa
L’idea di unire i popoli e le nazioni d’Europa
nasce nelle tenebre degli anni Trenta del secolo
scorso. Sarà una parola profetica, che purtroppo non
impedirà gli orrori perpetrati dal razzismo e dalla
guerra. Ma diventerà la piccola fata Speranza al
Congresso dell’Aia del 1948, con questo tema centrale: «Mai più la guerra fra noi». Gli uomini e le
donne presenti a quella riunione non dimenticheranno mai quella specie di giuramento, e molti di
loro svolsero in seguito un ruolo decisivo per consolidare il cammino verso un’Europa unita.
Ma occorreva un gesto più forte, più intriso di
spiritualità. E fu l’appello di Robert Schuman del
1950. Jacques René Rabier, uno dei pionieri di quest’Europa, racconta che all’uscita dalla conferenza
del 9 maggio 1950 un giornalista avrebbe chiesto a
Schuman: «Ma, signor ministro, ciò che lei propone
è un salto nel buio». E Schuman, maliziosamente,
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avrebbe risposto: «Lei ha ragione, è un salto nel
buio».
Mi sembra che dobbiamo ad Hannah Arendt la
spiegazione più profonda di quest’avvenimento. Nel
suo libro La condizione dell’uomo moderno, del 1961,
ella fa appello al Vangelo, e più precisamente a Matteo, per sostenere la sua tesi: «Se voi perdonerete agli
altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi» (Mt 6,14).
Ella lega così il perdono e la promessa. Il perdono,
che non è oblio, perché senza memoria non si può
concepire né costruire un avvenire. La promessa, perché l’altro, dopo i suoi crimini, non sprofondi nella
disperazione e nel desiderio di vendetta.
Chi potrebbe contestare la grande portata spirituale di questo appello? Questa riconciliazione fra
la Germania e i suoi avversari di ieri non piaceva a
tutti. C’erano troppi ricordi tragici, troppi rancori,
troppe idee di rivincita. Ma la forza spirituale ebbe
il sopravvento.
Molte iniziative sono seguite per dare un contenuto a questa comunità europea. Alcuni contenuti
sono falliti, come la Comunità europea di difesa o
come la traduzione costituzionale di un’Europa politica. E infine si è dovuto cominciare dall’economia,
e in realtà non ne siamo ancora veramente venuti a
capo.
Mettere in comune il carbone e l’acciaio, nerbo
della guerra all’epoca. Costruire istituzioni capaci di
interiorizzare un’autentica cooperazione fra i paesi
membri. Fu la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la CECA. Robert Schuman vedeva lontano
quando giustificava la sua proposta: «L’Europa ha
bisogno di vivere meglio, mettendo in comune la pienezza delle sue risorse. Essa deve diventare un’entità
operante, cosciente delle sue particolarità, e organizzarsi in vista delle sue necessità e delle sue possibilità, in un mondo che cessa di essere una massa
informe e confusa».
Altri due trattati ebbero come oggetto essenziale
l’approfondimento dell’integrazione economica: il
trattato del Mercato comune (1957) e il trattato dell’Atto unico (1987), che si spingeva oltre nel campo
della solidarietà e tentava di gettare le basi di una
politica estera comune. I dibattiti si incentravano
sulla realizzazione di questo mercato unico, sull’approfondimento delle politiche comuni – fra cui
l’agricoltura, l’aiuto alle regioni in difficoltà o in ritardo – e ovviamente sul contributo finanziario di
ogni stato membro alle spese comuni…
Ma che cosa diventava il piccolo sassolino bianco
collocato da Robert Schuman sul cammino della storia?
Allora, presidente della Commissione europea,
presi l’iniziativa di consultare tutte le correnti spirituali, compresa la Federazione dei non credenti.
Speravo in questo modo di alimentare l’ispirazione
iniziale. Al punto che nel 1992, ricevendo il presidente della Chiesa evangelica in Germania, Karl
Engelhardt, lanciai un appello a tutte le coscienze in
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Da sinistra: Jean Monnet e Robert Schuman.
questi termini: «Se nel giro di dieci anni non saremo
riusciti a dare un’anima, una spiritualità all’Europa,
avremo perso la partita».
Il mio successore, Jacques Santer, continuò, insistendo sul fatto che le questioni che devono affrontare i responsabili politici «riguardano sempre più
spesso il senso, l’orientamento spirituale e la dimensione etica dell’unificazione europea e delle politiche
attuate in questo contesto».
Venne creato un programma, intitolato «Un’a nima per l’Europa», per finanziare iniziative di riflessione e di stimolo a dare un senso a quest’avventura
collettiva. Dello spirituale nel carnale, per riprendere
l’espressione di mons. Dalloz. Lo si ritrova in due
testi adottati dal Consiglio europeo: la Dichiarazione
sui diritti dei lavoratori del 1989 e la Carta dei diritti
fondamentali, che costituisce ormai il preambolo dei
Trattati europei.
Il Parlamento europeo sperava che questa Carta
«contribuisse alla definizione di un patrimonio collettivo di valori e di principi, nonché di un sistema di
diritto, fondamentali in cui i cittadini si riconoscessero e che ispirasse la politica dell’Unione».
Non fu mai un lungo fiume tranquillo
Cercare la pace e la giustizia nei comportamenti,
nelle regole del vivere insieme, nelle istituzioni. È ciò
a cui ci invita Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: «La giustizia è lo scopo e quindi anche la
misura intrinseca di ogni politica. La politica è più
che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura
etica» (n. 28; EV 23/1580). Effettivamente i fondamenti dell’Unione Europea mirano a sostenere istituzioni protettrici dei diritti umani, che è l’imperativo primario della giustizia. Lo spirito di giustizia deve ispirare anche l’esercizio in comune di
una parte della sovranità, una ripartizione chiara
delle competenze fra l’Unione e gli stati membri, con
la preoccupazione della sussidiarietà, e la creazione
di una comunità di diritti sotto il controllo della
Corte di giustizia. Ma c’è anche una responsabilità
democratica che implica sia il livello europeo (e
quindi i poteri di co-decisione del Parlamento europeo) sia il livello nazionale, che dovrebbe approfittare di ogni questione d’interesse europeo per
discutere con i cittadini, specialmente in seno ai parlamenti nazionali.
Queste affermazioni dei trattati possono sembrare soddisfacenti sulla carta, ma occorre che i responsabili e i cittadini diano loro vita. Senza stancarvi con il richiamo di tutta la storia della costruzione europea, vorrei sottolineare alcune difficoltà
essenziali.
Anzitutto, lo scontro delle sovranità. L’integrazione europea si costruisce nella tensione. Fu la politica della sedia vuota praticata dal generale de
Gaulle, di fronte agli eccessi della corrente più federalista. Di conseguenza, fino al 1987 (l’Atto unico)
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la generalizzazione del voto all’unanimità fu un ostacolo alla realizzazione del mercato comune, deciso
nel 1957. La soluzione fu quindi l’adattamento del
voto alla maggioranza qualificata per permettere la
realizzazione dell’obiettivo 92: il mercato unico.
Ma l’avanzamento istituzionale non era sufficiente. Ricordo unicamente, ad esempio, la crisi provocata in Europa dall’abbandono da parte del
dollaro del sistema monetario ancorato all’oro e dall’enorme aumento del prezzo del petrolio. I primi
anni Settanta furono i peggiori vissuti dalla costruzione europea. Ogni paese tirava la coperta dalla sua
parte, finché, nel 1979, venne creato il Sistema monetario europeo. Questo balzo in avanti non fu la
conseguenza di un buon sistema istituzionale in
grado di condurre a una concertazione approfondita
fra gli stati membri. Fu la visione dei dirigenti dell’epoca. La loro iniziativa trascese situazioni nazionali molto divergenti, le visioni a breve termine, per
creare un sistema basato sulle convergenze necessarie e sulle discipline comuni in materia economica e
monetaria.
È un esempio che i responsabili di oggi dovrebbero meditare. In ogni episodio della storia dell’integrazione europea voi ritroverete questo eterno
dibattito sui ruoli rispettivi delle istituzioni e degli
uomini.
Allora, nel 1992, la Comunità europea subì un
primo contraccolpo monetario. Lo superò elaborando e adottando le regole del Sistema monetario
europeo. In seguito essa dovette gestire la spettacolare disgregazione dell’Europa orientale, che usciva
dalla notte del totalitarismo per imboccare le strade
della libertà. Quale gioia per tutti gli europei, quale
sfida per l’Europa occidentale per essere all’altezza
delle speranze nutrite dall’Europa orientale! Si poté
fare molto grazie alla prontezza e alla consistenza
dell’aiuto offerto dalla Comunità.
Ritorniamo al Trattato di Maastricht, nel quale,
specialmente su richiesta degli inglesi, si abbandonò
il bel termine «comunità» per quello più banale di
«unione». Purtroppo il seguito degli avvenimenti dimostrò che questo cambiamento voleva essere ben
più di un semplice cambiamento di nome: segnalava
le reticenze di fronte all’integrazione dei popoli in
un’Europa unita e riunita dagli stessi valori e soprattutto dagli stessi fini.
Tuttavia si deve a quel trattato la creazione di una
moneta unica – una vera rivoluzione – e passi avanti
nei campi del diritto civile e della politica dei cittadini. Senza dimenticare il passo avanti democratico
costituito dalla co-decisione legislativa fra il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo, che ha permesso a quest’ultimo di accrescere la propria influenza politica e fare conoscere meglio la grande
qualità dei suoi dibattiti.
Quest’Unione ha affrontato una sfida storica con
la globalizzazione e ha subito un attacco terribile, a
partire dal 2008, con la crisi finanziaria mondiale.
La globalizzazione vede l’Occidente sfidato da
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nuove potenze emergenti, proprio nel momento in
cui si afferma il dominio dell’ideologia neo-liberale
basata sul mercato sovrano e il trionfo insolente della
finanza. L’Unione Europea non ha ancora trovato
delle buone difese. Lo scontro culturale mette profondamente in discussione la supremazia dell’Occidente, del suo modo di pensare e di agire. Gli
europei non ne sono ancora consapevoli.
Ma, in modo ancor più fondamentale, non si
tratta di uno scontro di vitalità? Abbiamo ancora le
forze necessarie, spirituali e materiali, per affrontare
questo mondo della competizione, dell’affermazione
del diritto di vivere per ognuno, mentre le ricadute
negative dell’attività umana sull’ambiente si fanno
sempre più pesanti?
Di fronte a queste sfide, alcuni parlano dell’indispensabile forza per rispondervi, altri pongono l’accento sulla generosità e sull’apertura verso le altre
civiltà. Ma non è essenziale che la nostra Europa sia
potente e generosa al tempo stesso?
Nella crisi più grave, una grande sfida
Quando gli europei decisero di passare dalla realizzazione del mercato unico all’adozione di una moneta unica, avvertivano chiaramente che si trattava
di un salto radicale. Non ne comprendevano bene le
ragioni: perfezionare l’integrazione economica, facilitare i viaggi delle persone e i trasferimenti di capitali, potenziare i vantaggi dell’Unione Europea
nelle sue relazioni e nei suoi negoziati con il resto del
mondo. Alcuni fra i più favorevoli alla causa europea vi vedevano anche il passaporto verso l’unione
politica. Personalmente non condividevo questo
punto di vista, considerando gli ostacoli fino ad allora insormontabili che si ergevano contro ogni tentativo di politica estera comune. Ma lo slancio
spirituale impresso dai padri dell’Europa non si spingeva fino alla soppressione delle barriere della sovranità nazionale, del peso della storia e delle diverse
tradizioni diplomatiche.
A causa della sua forza simbolica, della sua accessibilità, la moneta unica potrebbe partecipare, per
quanto paradossale possa sembrare, allo slancio spirituale. Infatti essa è essenzialmente un bene comune, la cui sorte determina non solo il grado di
potenza dell’Unione, ma anche le condizioni e il livello di vita degli europei.
Per valutarne correttamente il carattere strategico, conviene ricordare che il rilancio del 1985 e il
suo trattato, l’Atto unico, prendevano atto dei limiti
ai trasferimenti di sovranità verso l’Unione ed erano,
di conseguenza, basati su un trittico: la competizione
che stimola (attraverso il mercato e le norme che devono inquadrarlo), la solidarietà che unisce (attraverso le politiche di coesione economiche e sociali),
la cooperazione che rafforza.
Non insisterò mai abbastanza sul legame fra la
dimensione spirituale e lo spirito di cooperazione.
Ora la cooperazione fu, e resta, l’anello mancante, il
che spiega in gran parte la crisi dell’euro.
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Poiché il passaggio alla moneta unica non era accompagnato dalla creazione di un’entità politica europea responsabile della sua gestione, la riuscita
dell’impresa dipendeva non solo dalle regole definite
dal trattato, ma soprattutto dalla volontà e dalla capacità dei governi di orientare le loro politiche verso
una convergenza. Quest’ultima doveva assicurare al
tempo stesso la solidità e la stabilità dell’euro, la realizzazione degli obiettivi economici e sociali dell’Unione economica e monetaria (UEM).
Per dirla in termini semplici, la UEM doveva
camminare sulle sue due gambe: quella monetaria,
con una banca centrale indipendente, e quella economica, grazie a una cooperazione efficace fra i
paesi membri. È la ragione per cui avevo perorato,
nel 1997, un patto di coordinamento delle politiche
economiche che, con le sue proprie regole, affiancasse il patto di stabilità monetaria.
Questa proposta non venne accolta per vari motivi che sarebbe inopportuno commentare in questa
sede. Nei primi dieci anni del suo funzionamento,
l’UEM ha potuto indubbiamente mostrare risultati
onorevoli in materia di crescita e d’inflazione, ma
senza che la zona potesse ricuperare il suo ritardo in
materia di competitività, di fronte alla concorrenza
dei paesi emergenti e all’impatto della potenza americana.
All’epoca, cioè nel 1998, osai affermare: «L’euro
protegge ma non stimola». E aggiungevo: «Ci protegge anche dalle nostre stupidità». In altri termini,
l’organo responsabile, il Consiglio dei ministri dell’euro, non si è accorto di ciò che stava arrivando:
né dell’aumento esplosivo dell’indebitamento pubblico greco, e poi di altri paesi, né dell’aumento dell’indebitamento privato in Irlanda, Spagna, Italia.
Nell’euforia e nella follia del neo-liberalismo finanziario si è assistito in Europa a una distorsione dello
stesso tipo di quella, di ben altra ampiezza, vissuta
negli Stati Uniti, che ha portato a questa crisi mondiale. Ho sempre affermato che si è trattato, da parte
del Consiglio dei ministri, di una colpa morale, della
dimenticanza dell’eredità di voler vivere e agire insieme, precisamente per il bene comune.
Di conseguenza l’euro vive sull’orlo dell’abisso. I
governi non hanno accettato quest’idea della responsabilità morale che comporta una responsabilità politica. Da tre anni intervengono troppo tardi o
fanno troppo poco. Cosa altrettanto grave, ci subissano di dichiarazioni non coordinate, che producono
solo una cacofonia che spaventa i mercati, alimenta
la speculazione e riempie i cittadini di inquietudine
e di scetticismo.
Di qui i disordini istituzionali, l’abbandono del
metodo di lavoro che aveva assicurato il successo dei
periodi dinamici della costruzione europea, e, recentemente, la presa del potere da parte della coppia
franco-tedesca. Finché si tratta di spegnere il fuoco,
si può solo sperare nel successo delle ultime iniziative. Ma dopo occorrerà ricostruire, abbozzare un
altro sistema. Di qui la fiammata di iniziative o più
GIORGIO VECCHIO
Un «Giusto fra le Nazioni»
Odoardo Focherini
(1907-1944)
Dall’Azione Cattolica ai Lager nazisti
O
doardo Focherini, un uomo del tutto «normale»
che fu, tra l’altro, amministratore de L’ Avvenire
d’Italia, nel 1969 è stato proclamato «Giusto fra le Nazioni» per aver salvato decine di ebrei tra il 1943 e il
1944, pagando con la sua stessa vita. Scoperto e
deportato, trovò infatti la morte nel lager di Hersbruck. Il volume ne costituisce la prima biografia
completa, condotta con criteri scientifici e fondata
sui molti documenti custoditi dalla sua famiglia e
in archivi pubblici e privati.
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semplicemente di discorsi a favore di una riforma
istituzionale. Alcuni ne parlano alla leggera, specialmente in Francia, dove non ci si è resi conto delle dismissioni di sovranità che una riforma del genere
comporterebbe in campo finanziario e fiscale, ma
anche in campo economico e sociale.
È nello stesso spirito che vorrei evocare ogni operazione di mutualizzazione fra gli stati membri, che
è dopotutto semplicemente un approfondimento
della cooperazione. Questa ci conduce allora verso
una condivisione certamente limitata dei rischi e
delle opportunità, come contropartita – anche in
questo caso – di discipline comuni. Può trattarsi di
una mutualizzazione parziale dei debiti sovrani o dei
bilanci degli stati membri o anche dell’emissione di
obbligazioni europee che offrono il doppio vantaggio
della garanzia dell’Unione e di un costo di prestito
inferiore a quello che gli stati membri dell’Unione
sopportano separatamente.
Le responsabilità di ciascuno stato
Concentrandosi troppo sul progetto europeo si rischia di trasformarlo in una panacea e dimenticare
che le nostre autorità nazionali hanno voltato le
spalle a certe esigenze di amministrazione e di solidarietà. E quindi allo slancio spirituale.
Il card. André Vingt-Trois ce lo ha recentemente
ricordato con forza: «Separare lo spirituale dal sociale equivale a cedere a un certo fatalismo», concludendo che «se non si può cambiare la società, non
resta più che pregare».
Anzitutto, la solidarietà deve concretizzarsi anche
fra le generazioni. In un «libro bianco» presentato
nel 1993 al Consiglio europeo avevo denunciato la
tendenza dei responsabili a regolare fra loro i loro
problemi di potere e di ripartizione dei frutti dell’attività collettiva, senza preoccuparsi dei giovani e
quindi del futuro. È lì che si trova il male dell’indebitamento, perché si addossa alle nuove generazioni
un peso eccessivo e scoraggiante.
Siamo in questa situazione e dobbiamo affrontare
la doppia sfida della solidarietà e della giustizia. Possiamo superare questa difficoltà centrale dimenticando due imperativi?
Il primo è quello del dialogo sociale. Molti specialisti mi avevano giudicato eccessivamente idealista
quando, giungendo nel 1985 alla Commissione,
avevo invitato patronati e sindacati a discutere seriamente obiettivi che potevano essere assegnati alla
Comunità europea. La riuscita di quel dialogo sociale contribuì allo slancio impresso al rilancio del
progetto europeo. Per una ragione più fondamentale: la vita democratica si basa su due pilastri, quello
delle nostre istituzioni centrali e decentralizzate e
quello della concertazione e del negoziato fra gli attori economici e sociali e fra loro e il potere politico.
Basta vedere il successo delle riforme realizzate nei
paesi nordici per rendersi conto dell’utilità democratica ed economica del dialogo sociale. Si sbaglierebbe a dimenticarlo, a livello sia europeo sia
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nazionale, adagiandosi sulla facilità dei rapporti di
forze, rapporti poco favorevoli, in questo periodo, al
mondo del lavoro.
Il secondo imperativo riguarda il futuro dei nostri sistemi di protezione sociale: il loro peso finanziario è sempre maggiore alla luce dell’evoluzione
demografica e del progresso della medicina. Bisogna
preservarli. Essi costituiscono una dimensione essenziale del modello europeo. Non si può più contare su un po’ più di indebitamento, ogni anno, per
rinviare gli adattamenti necessari. Non è e non sarà
facile. Ma lo slancio spirituale deve aiutarci a trovare
le soluzioni in grado di conciliare la copertura dei rischi per tutti e l’attenzione ai più poveri e ai meno
fortunati. E anche di coniugare meglio responsabilità
collettiva e responsabilità individuale.
Ma, soprattutto, come combinare questo sforzo
necessario di consolidamento delle spese pubbliche
con il sostegno di un’attività economica? Si impone
la strada di un nuovo sviluppo, più rispettoso della
natura e dei tempi dell’uomo: un modello che dia a
ciascuno la capacità e, attraverso l’educazione, il
passaporto della riuscita e un impiego, un lavoro,
elemento fondante della dignità umana.
Spetta a ciascun paese mettersi al lavoro, tenendo
conto delle tradizioni, dell’eredità del welfare state,
delle prospettive demografiche. In queste condizioni,
è un obiettivo veramente formidabile trovare un
quadro accettabile a livello dell’Europa e anzitutto
e soprattutto a livello dell’UEM; in altri termini,
un’azione europea che, attraverso le sue politiche e i
suoi interventi, assicuri questo supplemento di attività indispensabile per non cadere nella pericolosa
illusione dei deficit nell’atonia economica e sociale.
Ma è urgente. E le chiavi della riuscita sono legate a questo slancio spirituale, attraverso una cooperazione franca ed efficace, una mutualizzazione
parziale dei dati finanziari, un allargamento e rafforzamento delle politiche comuni. Limito i miei
commenti tecnici per sottolineare semplicemente la
vera sfida che è legata al senso da dare all’avventura europea. Perciò lo spirito di cooperazione è fondamentale per l’avvenire dell’Europa. Anche supponendo che si accettino e realizzino nuovi abbandoni di sovranità, non sarà possibile fare nulla di
grande senza ravvivare lo spirito fondatore, la scelta
a favore dei valori fondamentali dell’Europa, la capacità di vivere e lavorare insieme: la conciliazione,
così ben riuscita in varie fasi di questa storia di sessant’anni, fra l’ideale e la necessità, la forza e la generosità.
Mi piace ricordare e citare uno degli animatori
del Congresso dell’Aia, Denis de Rougement, che affermava: «La vocazione dell’Europa si definisce
chiaramente. È quella di unire i suoi popoli in base
al loro vero genio, che è quello della sua diversità, e
nelle condizioni del XX secolo, che sono quelle della
comunità, per aprire al mondo la strada che esso
cerca, la strada delle libertà organizzate».
Egli ci invita quindi, nelle condizioni di questo
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inizio del XXI secolo, a confermare la pertinenza
del progetto europeo.
Confermare la per tinenza
del proget to europeo
Di fronte a tutte le difficoltà che l’avventura europea incontra, ci si chiede se il progetto non sia superato a causa dell’evoluzione radicale che stiamo
sperimentando. È vero che l’Occidente è sempre
meno il centro del mondo e che questo genera paure
e ripiegamenti su sé stessi, di cui si nutrono il populismo e una forma – purtroppo diffusa – di nazionalismo strisciante.
È vero, anche se quest’analisi è contestata, che viviamo al tempo dell’individualismo esasperato, favorito dall’arretramento delle religioni, dalla società
consumistica delle immagini, dal culto dell’istantaneo, cioè da una società troppo emotiva.
Avrete certamente notato che quest’individualismo coincide con l’epoca del mercato sovrano e giudice universale. Lo spirito di competizione – certamente necessario – pervade tutta la vita economica
e sociale, inquina il sistema educativo e accantona
ogni progetto collettivo e portatore di senso. E anzitutto portatore di solidarietà, di spirito di solidarietà,
come ricorda il card. André Vingt-Trois: «È quindi
anzitutto l’educazione alla solidarietà che costruisce
la pace. La costrizione può essere un mezzo necessario per accompagnare i progressi dell’integrazione
alla vita sociale. Ma non potrà in alcun caso sostituirsi a essa».
Questo quadro, abbozzato a grandi linee, è
troppo schematico e potrebbe indurre al pessimismo.
Lo riconosco. Ma esso pone l’accento su alcune delle
cause del malessere contemporaneo e quindi sulle
difficoltà di fare l’Europa. E tuttavia tutto è collegato. C’è un rapporto stretto fra riforma sociale e rilancio del progetto europeo. L’Europa è il continente
nel quale si è cercato sempre un equilibrio fra la società e l’individuo, fra la solidarietà collettiva e la responsabilità individuale. Questo si traduce, nella
maggior parte dei nostri paesi, in una dialettica positiva fra le autorità pubbliche e i mercati, fra le regole comuni e l’esercizio delle libertà individuali.
Questo modello è scosso dai cambiamenti del
mondo e dagli eccessi del liberalismo. Ma i suoi fondamenti restano validi, ispirati dal giudeo-cristianesimo, dal pensiero greco e dal suo apporto alla
democrazia, dal diritto romano. Poi, più tardi, dalla
Riforma, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione.
Il progetto europeo ci offre l’argomento per evitare il ripiegamento eccessivo dell’individuo su se
stesso e il ritorno al nazionalismo dei «mostri
freddi». Ma è un’Europa fedele al meglio di se stessa,
come proponeva Vaclav Havel: «La missione dell’Europa non è più e non sarà mai più quella di governare il mondo, né quella di diffondervi con la
forza la sua rappresentazione della felicità e del
bene, né quella di inculcargli la sua cultura, e neppure quella di dargli delle lezioni. L’unica missione
pertinente è quella di essere il meglio possibile se
stessa, cioè di risuscitare e proiettare nella sua vita
la sue tradizioni spirituali migliori, e così contribuire
a creare un nuovo modo di coesistenza a livello mondiale».
Vi sono stati periodi in cui si poteva parlare, secondo la linea di Vaclav Havel, del sogno europeo.
Occorre ricordare il momento felice in cui paesi, che
uscivano dalla dittatura e imparavano una nuova democrazia, entravano a far parte della Comunità europea: la Grecia, poi la Spagna e il Portogallo?
Occorre ripetere che fu una vera gioia accogliere i
popoli che uscivano dalla dittatura comunista e bolscevica? Non conviene sottolineare l’influenza che
ebbe la parola di Giovanni Paolo II su quest’evoluzione e non trascurare la forza d’attrazione della Comunità europea?
Non saremo più capaci di questi slanci? In ogni
caso occorre vigilare, perché il progetto europeo rimette continuamente in gioco il proprio titolo.
Nell’ottobre 1989, quando la costruzione europea era in pieno svolgimento, esprimevo i miei timori, parlando agli studenti del Collegio di Bruges e
rispondendo a coloro che, oltre Manica, si allarmavano per questa riuscita. Sostenevo l’unione dei popoli, l’associazione delle nazioni, lo sviluppo del
sentimento di appartenenza e aggiungevo: «Se si rifiuta tutto questo, la costruzione europea fallirà, gli
egoismi nazionali riprenderanno il sopravvento, perché la nostra comunità non avrà conquistato quel
supplemento d’anima e quel radicamento popolare
senza i quali ogni avventura umana è condannata al
fallimento».
Noi europei siamo solo in mezzo al guado. Abbiamo lasciato la sponda della vecchia Europa minata dalle sue guerre civili e minacciata di perdere
ogni influenza, per tentare di raggiungere l’altra
sponda, quella di un’Europa potente e generosa,
esemplare nelle sue forme interne di organizzazione
e di relazione. E il mondo, da parte sua, si è allontanato dalla sponda del dopo guerra per andare in
modo caotico verso la sponda del villaggio globale.
La nostra ambizione deve essere quindi quella di
dire definitivamente no al declino morale e politico
e di ritrovare la buona bussola, cioè il vero senso dell’attività umana. Senza questo slancio spirituale, non
si potrà compiere nulla di grande e di duraturo. La
piccola Speranza è sempre lì, con il suo tesoro fatto
di pace, di comprensione reciproca e di solidarietà
per tutta l’umanità. Domani saremo abbastanza numerosi e sufficientemente determinati per raccogliere e far fruttificare questa Speranza?
Jacques Delors*
* Già ministro francese delle Finanze e presidente della
Commissione europea dal 1985 al 1995, ha tenuto questo intervento, che pubblichiamo in una nostra traduzione dal francese,
il 24.11.2011 in occasione del conferimento del dottorato honoris causa presso l’Institut catholique di Parigi.
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CO M E C E /C r i s i e u ro p e a
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Una comunità
solidale
e responsabile
L
a Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE), che riunisce i vescovi rappresentanti degli episcopati degli stati membri dell’Unione Europea, ha pubblicato lo scorso 12 gennaio
una dichiarazione intitolata Una Comunità Europea di solidarietà e di responsabilità. Nel sottotitolo si precisa che i vescovi intervengono «sull’obiettivo di un’economia sociale di
mercato competitiva nel Trattato dell’Unione Europea». Precisiamo in che cosa consiste l’economia so-
L’economia sociale di mercato
I vescovi della COMECE fanno riferimento all’economia sociale di mercato innanzi tutto perché essa
– al di là delle differenze di impostazione e delle diverse
realizzazioni – ha contribuito e contribuisce in modo
sostanziale all’evoluzione della teoria economica: il
compito dello stato non è semplicemente quello di
«guardiano notturno», tipico del liberalismo del laissez
faire, bensì è quello di uno stato capace di contrastare
l’assalto contro il funzionamento del mercato da parte
dei monopoli e dei «cacciatori di rendite».
È poi molto significativa l’affermazione della
Scuola di Friburgo della dimensione istituzionale da
inserire nel paradigma liberale, dimensione assente o
negata dalla letteratura liberale-libertaria. Questa dimensione istituzionale necessita di essere difesa e garantita per due motivi. In primo luogo per superare le
chiusure, i privilegi, le rendite, gli interessi corporativi o localistici. In secondo luogo per valorizzare il
«sociale» nelle sue diverse espressioni, sia come libertà, responsabilità, capacità personali, proprietà
privata, concorrenza sia come sussidiarietà, solidarietà, reti sociali che proteggono dai rischi. Le istituzioni pubbliche – in primo luogo lo stato – non
possono essere neutrali rispetto alle diverse forme di
vita socio-economica e anche rispetto ai diversi stili
di vita personale. L’agnosticismo delle istituzioni
tende a escludere di fatto l’etica come principio alla
base degli scambi economici e finanziari e della com-
Konrad Adenauer.
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ciale di mercato prima di esporre alcuni punti significativi della dichiarazione.
L’espressione «economia sociale di mercato» è di
derivazione tedesca e va inquadrata nella travagliata
esperienza della crisi della Repubblica di Weimar e
della successiva ascesa del nazionalsocialismo. Durante gli anni del regime nazista, si raccolsero intorno
alla cosiddetta Scuola di Friburgo (sotto la guida del
prof. Walter Eucken) alcuni studiosi, decisamente critici delle teorie di Adam Smith e della sua fede in una
spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall’opera della «mano invisibile», e altrettanto critici nei
confronti delle diverse forme dello statalismo autoritario e della pianificazione economica centralizzata.
Questi studiosi di molteplici scienze umane erano interessati ai grandi temi della democrazia, dello sviluppo e delle istituzioni pubbliche. Per la Scuola di
Friburgo, è compito dello stato fissare l’ordine costituzionale dentro il quale opera l’economia di mercato, che non deve cadere in forme monopolistiche e
corporative. Queste forme di chiusura non solo rallentano lo sviluppo e producono danni economici, ma
arrivano a indebolire il potere politico, fino a impedire una seria politica di solidarietà e di equità. Il sistema economico, basato sul mercato competitivo
garantito e regolato dall’ordine costituzionale, deve
contribuire in modo ordinato al bene pubblico: è ancora compito delle istituzioni pubbliche, come pure
di tutti i cittadini, favorire questo impegno per il bene
comune.
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plessiva vita sociale, mentre è compito delle istituzioni
favorire e sostenere le forme e gli stili che creano e custodiscono valori sociali e «capitali sociali».
Proprio la crisi che stiamo vivendo – che mette in
difficoltà il welfare state – esige dunque un ripensamento e un superamento di quell’idea che sta alla
base della neutralità, secondo la quale i diritti sarebbero da intendere esclusivamente come diritti individuali.
Non dimentichiamo che l’economia sociale di
mercato non si richiama solo a una teoria economica
ma a concrete realizzazioni presenti in diversi paesi
europei. Anzi, il nostro documento afferma che questo tipo di economia è già presente come modello sociopolitico in quasi tutti i paesi europei: forse vi è un
eccesso di generosità da parte dei vescovi, in quanto
non sembra – fino a prova contraria – che questo modello abbia un’effettiva concretizzazione almeno in
parecchi paesi della nostra Europa. Tuttavia vi è il
caso esemplare della Germania. La teoria economica
fu infatti ripresa, sviluppata e soprattutto applicata
nell’immediato dopoguerra da Ludwig Erhart che,
come influente ministro federale dell’Economia durante il cancellierato di Konrad Adenauer, gettò le
basi del «miracolo economico» della Repubblica federale di Germania, realizzato all’insegna di quella
che egli stesso denominò «economia sociale di mercato».
Vale la pena di soffermarci sulla realizzazione di
questo tipo di economia realizzata in Germania,
anche se la dichiarazione dei vescovi non fa alcun
cenno diretto all’esperienza tedesca. Senza addentrarci nell’esame analitico dei molti indicatori economici, almeno a livello generale si può affermare che
anche oggi – forse soprattutto oggi – il caso della Germania si presenta come emblematico. Soprattutto se
si tiene conto che per anni nei media e anche in molta
letteratura economica sono stati celebrati i successi
del cosiddetto liberismo anglosassone, come pure il
successo di alcune economie europee che si sono ispirate allo stesso modello, come la Spagna e l’Irlanda.
I fatti dicono che i decantati successi sono stati effimeri e hanno anche causato gravi problemi ovunque.
Proprio la grande crisi generata dal modello anglosassone (più esattamente generata dagli Stati Uniti,
con tutte le bolle speculative, compresa quella edilizia), ha portato l’economia tedesca ai vertici della
competitività mondiale, insieme alla Cina.
I dati sono chiari e significativi. Partiamo dal 1990,
anno in cui è iniziata la riunificazione con la ex Germania Est, che ha appesantito e rallentato per anni
l’economia tedesca: le stime del costo della riunificazione sono altissime e a tutt’oggi vi è uno speciale trasferimento di miliardi di euro ogni anno ai territori
dell’ex Repubblica democratica tedesca per la ricostruzione. Nonostante questo, se prendiamo in considerazione il periodo che va dal 1990 al 2010, la
crescita media annua della Germania è stata
dell’1,32%, molto inferiore a quella USA, pari al
2,53%. Ma gli Stati Uniti hanno aumentato il loro de-
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bito pubblico (più che raddoppiato dal 2000 al 2010)
con gravi squilibri finanziari e commerciali e con risvolti sociali problematici. La Germania è invece cresciuta con regolarità ed è oggi l’economia più solida
e più forte del mondo, se si considerano da un lato le
finanze pubbliche, la ricerca e l’internazionalità commerciale e d’altro lato la protezione sociale e la qualità della vita.
Per cui, insieme alla teoria dell’economia sociale
di mercato che ha precisi risvolti culturali ed etici, vi
è anche un concreto esempio proprio nel cuore stesso
dell’Unione Europea. Naturalmente il riferimento al
caso tedesco non significa voler «germanizzare» l’Europa: la dichiarazione della COMECE non parla
della Germania, ma invita tutta l’Unione Europea a
prendere sul serio l’economia sociale di mercato per
favorire un mercato competitivo e dinamico, ma regolato anche rispetto al sistema finanziario, e per far
crescere la responsabilità, la generosità e la solidarietà
all’interno della vita associata.
Superare la sfiducia
Il documento della COMECE viene pubblicato in
un preciso momento di crisi economica e finanziaria
dell’Unione Europea (e non solo). I vescovi della COMECE invitano l’Unione Europea a favorire la libertà
del mercato eliminando chiusure e sprechi: solo con
un’economia competitiva si può avanzare nello svi-
Aimone Gelardi
Il bruco
e la farfalla
Una rivisitazione delle virtù
I
l discorso sulle virtù fatica oggi a
trovare un proprio spazio, poiché
“virtù” è parola impopolare e percepita
come fuori moda. Occorrerebbe, invece,
“dire” di nuovo le virtù con parole attuali. L’autore accompagna il lettore a
comprendere il più autentico significato
e la ricchezza delle tre virtù teologali
come delle quattro cardinali.
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S
tudio del mese
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luppo, ridurre il debito e finanziare il welfare. Ma la libertà di mercato deve essere associata a strumenti che
intensificano l’impegno di solidarietà e di equità sociale: la protezione sociale deve essere assicurata dalle
istituzioni pubbliche e dallo stato. La libertà economica, la solidarietà e la responsabilità non fanno solo
parte della «filosofia sociale» dell’Unione Europea,
ma anche delle indicazioni normative contenute nei
trattati. In un certo senso già nel Trattato di Roma
troviamo alcuni cenni in linea con l’affermazione sia
del libero mercato sia della solidarietà.
Nel Trattato di Lisbona del 2010 si afferma formalmente per la prima volta che l’Unione Europea
ambisce a essere un’economia sociale di mercato. Da
qui parte la dichiarazione che intende fornire un contributo, in un momento delicato della storia europea,
per dare slancio e contenuto alle indicazioni del Trattato, che in verità sembrano essere più elencative che
esplicative, più esortative che pratiche. Comunque,
l’intento della COMECE è quello di aiutare l’Unione
Europea a dare concretezza alla formale indicazione
dell’economia sociale di mercato. Se il mercato ha
oggi, in un sistema globalizzato, un ruolo essenziale,
come l’ha avuto fin dall’inizio dell’Unione Europea
(UE), il «mercato comune» sta soffrendo perché non
è poi così «comune» e nemmeno così «mercato»,
anche a causa delle tensioni derivanti dalla faticosa
integrazione europea e dalle varie forme di rigidità.
Con l’avvento della globalizzazione non governata e
poi con la grave crisi finanziaria (dal 2008), in molti è
venuta meno la fiducia nell’economia di mercato così
come in molti è cresciuto il timore di una riduzione
marcata del welfare.
Per superare la sfiducia e per vincere il timore, il
documento invita a perseguire con determinazione la
conciliazione del mercato con il «sociale», anche se
l’impresa può apparire ardua. L’Unione Europea
deve dare slancio alla propria competitività rispetto
al resto del mondo: non può permettersi di isolarsi dal
mondo e non può rinunciare al «mercato comune» o
acconsentire alla sua progressiva frammentazione.
Questo renderebbe il «sociale» ancora più precario,
mentre il «sociale» deve invece entrare in gioco come
esigenza di fondo della civiltà europea, non solo da
parte dei singoli stati ma dell’Unione Europea in
quanto tale. Un’esigenza dovuta ai problemi sociali di
vario genere (dalla questione occupazionale al welfare)
causati dalla situazione di crisi. Ma, ancor prima, dovuta alla priorità che deve avere il «sociale» in una società degna dell’uomo. Anche per questo occorre
favorire un mercato competitivo: solo favorendo l’iniziativa, la responsabilità, la cooperazione delle persone e dei gruppi sociali si può venire effettivamente
incontro al diritto all’istruzione, alla sicurezza, alla salute e alla qualità ambientale.
Questa è la sfida che sta davanti all’Europa. È necessaria un’economia aperta e internazionalizzata,
dove le imprese competono tra di loro all’interno e all’estero e dove le posizioni dominanti e monopolistiche sono vietate: «I monopoli, i cartelli, le intese sui
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prezzi e la distorsione della concorrenza per abuso di
potere economico o di aiuti pubblici devono essere attivamente combattuti e impediti dal legislatore e dall’esecutivo dell’UE», afferma il documento. Ma fa
parte della stessa sfida evitare un’economia tesa unicamente al profitto, che «minaccia di eclissare le dimensioni sociali ed ecologiche della qualità della vita
(…), di trasferire i costi dell’attività economica su altre
persone, in particolare sulle generazioni future». Così
pure occorre tener presente che «un aiuto pubblico
sproporzionato può generare relazioni di dipendenza
e impedire l’assunzione di responsabilità, la carità attiva e la solidarietà», così come «orientare l’economia
verso il solo fine di massimizzare i profitti è un errore».
Per cui da un lato si invita l’autorità pubblica a
«garantire i beni essenziali, i servizi di interesse generale», e d’altro lato si invitano «i consumatori» (ma si
poteva dire «i cittadini») a ricordare che «con le loro
abitudini di consumo determinano in gran parte la
vita economica in Europa e nel mondo». Dato che
«ogni decisione economica ha una conseguenza morale», i vescovi invitano a «uno sforzo culturale determinato per permettere ai cittadini un consumo
responsabile. La Chiesa è, anche qui, pronta a dare il
suo contributo».
Così pure i vescovi invitano con forza a rispettare
il principio etico ed economico dello sviluppo durevole: «Né la competitività economica né la giustizia
sociale possono essere realizzate senza un’integrazione
sistematica dei fattori ecologici». Per cui, anche in questo caso, i vescovi invocano l’impegno di tutti e una
garanzia istituzionale specifica, sia a livello europeo
sia a livello mondiale per la protezione dell’ambiente.
La COMECE invita l’Unione Europea a procedere con più determinazione e con maggior concretezza sulla strada di questo modello socio-economico
in quanto tale indicazione – e, in un certo senso, tale
normativa europea – è presente nel Trattato stesso di
Lisbona. Ma l’invito dei vescovi è anche – et quidem
– motivato dal fatto che l’economia sociale di mercato
è in linea con alcuni fondamentali principi della dottrina sociale della Chiesa. Certo, non può sfuggire il
paradosso: l’Unione Europea, dopo aver rifiutato di
menzionare le radici cristiane, ha affermato nel Trattato di Lisbona di volere un’economia sociale di mercato. Ora, come viene giustamente evidenziato nella
prefazione del documento dal presidente della COMECE, mons. Adrianus van Luyn, «le radici del concetto di economia sociale di mercato affondano
nell’eredità filosofica e religiosa, e in particolare cristiana, dell’Europa».
Il novus ordo
Sarebbe facile fare dell’ironia. In ogni caso, l’economia sociale di mercato presenta effettivamente
molte affinità con alcuni principi fondamentali del
pensiero sociale cristiano. Anzi, parecchi sostenitori
di questa teoria economica, partendo dalla triste esperienza della storia tedesca, fecero propria la nozione
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Alcide De Gasperi.
di «giustizia sociale» proposta dalla dottrina sociale
della Chiesa. Prima che la seconda guerra mondiale
finisse, il novus ordo pensato da alcuni studiosi tedeschi non era solo economico ma culturale, morale e
spirituale, istanze necessarie per la ricostruzione della
società tedesca. Naturalmente al centro di questa ricostruzione – e di ogni altra ricostruzione della società –, vi è sempre la persona umana da accogliere
nella sua unicità, nella sua libertà e nella sua socialità: questa è la condizione di base per evitare che la
persona sia ridotta a semplice mezzo o strumento. È
dunque viva e forte l’istanza umanistico-cristiana alla
base dell’economia sociale di mercato.
Questa istanza parte dalle (e si fonda sulle) seguenti premesse: la natura dell’uomo è capace del
bene, questo bene si compie nella comunità ed è a servizio della comunità, questo bene va oltre la sola esistenza materiale. Concretamente, o meglio, politicamente e istituzionalmente, questa istanza si esplicita
nella divisione dei poteri, nel federalismo, nelle sfere
indipendenti ma collaborative dello stato, nel riconoscimento e nella valorizzazione dei corpi intermedi.
Ma resta ancora da evidenziare con maggior determinazione il ruolo decisivo della famiglia e le reti comunitarie e sociali. Così come resta da evidenziare
l’importanza del dono, della gratuità, della volontarietà, della generosità: sono energie e istanze indispensabili «perché nutrono la sensibilità morale e
creano un capitale di fiducia». Per questo «le istitu-
zioni che corrispondo a questa forma libera di solidarietà (dalle mutue alle cooperative alle forme dell’economia sociale e dell’investimento etico) richiedono un’attenzione particolare in vista dell’elaborazione di un’economia sociale di mercato europea» (c. 2).
La dichiarazione della COMECE riguarda
l’Unione Europea, ma interpella i singoli paesi membri. Interpella in particolare il nostro paese che vive
da anni, come sappiamo, in una situazione difficile e
grave, senza slancio progettuale, senza indirizzo politico, senza coesione sociale. Credo che nella dichiarazione della COMECE l’Italia possa trovare molte
precise sollecitazioni per arrivare a una condivisa responsabilità e tentare di superare l’attuale stagnazione
(che non è solo economica). Dopo la ricostruzione postbellica e dopo un certo slancio in vista del nostro inserimento in Europa, non vi è stato più sviluppo (non
solo crescita) in forma dinamica e creativa.
La stessa solidarietà – su cui, giustamente, ci soffermiamo piuttosto compiaciuti, con qualche ironia
su alcune rigidità nordiche – non appare, in verità,
vera e autentica, perché spesso è pensata e realizzata
in forme prevalentemente redistributive, rischiando
di cadere nell’assistenzialismo. Basti solo pensare a ciò
che richiederebbe una seria e doverosa solidarietà intergenerazionale all’interno del nostro paese: proprio
questa solidarietà così decisiva risulta nei fatti sottovalutata o addirittura ignorata. Eppure ci sono molti
elementi della nostra tradizione storica e culturale che
depongono a favore di una più convinta e determinata scelta italiana per un’economia sociale di mercato, declinandola secondo lo «stile mediterraneo»,
ma capace di valorizzare lo sviluppo, la solidarietà e
la sussidiarietà.
Ci troviamo invece con una pubblica amministrazione costosa, con una caotica distribuzione di competenze tra molteplici istituzioni, con le varie
categorie sociali e professionali arroccate in difesa,
con un sistema produttivo forte ma troppo frammentato, con divisioni culturali e sociali di ogni tipo, con
un tasso di educazione superiore tra i più bassi in Europa. Se saremo capaci di favorire il dinamismo e la
competitività del sistema economico e di attuare una
semplificazione radicale del sistema istituzionale e
nello stesso di far valere le istanze capaci di dare slancio ed efficienza alle reti sociali e comunitarie, potremo reinserirci in un processo capace di «produrre
beni» tra istituzioni, società ed economia: è la finalità
dell’economia sociale di mercato.
Le istanze per «produrre beni», e dunque per un
serio sviluppo economico e sociale, esistono nel nostro paese: speriamo che queste istanze possano non
solo esistere potenzialmente ma anche agire fattivamente.
Gianni Ambrosio*
* Vescovo di Piacenza-Bobbio, e delegato della Conferenza
episcopale italiana presso la COMECE.
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delle religioni
Padre onnipotente
Un Dio che guarda
con amore il suo mondo
I
l trascorrere delle età fa mutare la maniera di percepire
molte affermazioni. Le si ripete, ma esse risuonano in
modo diverso. La massima non perde di valore se applicata ai dettami della fede. Anzi in quest’ambito, spesso,
un simile procedere risulta più intenso.
La prima proposizione contenuta nel Credo, che qualifica
Dio come «Padre onnipotente creatore del cielo e della terra»,
ha creato, per molti secoli, pochi problemi. A livello generale
ciò è avvenuto perché l’onnipotenza era da tutti collegata alla
creazione. Chi altri, se non chi può tutto, sarebbe stato in
grado di dar origine al sole, alla luna, alle stelle, alla terra e
all’acqua, alle piante, agli animali e, infine, al genere umano?
Chi, se non l’Onnipotente, avrebbe potuto creare dal nulla
tutte le cose? Si trattava di pura evidenza. I più dotti erano
poi in grado di pensare anche all’originale termine greco,
pantokrator, colui che sostiene ogni cosa. Quanto al termine
«Padre», chi sapeva di teologia lo riferiva innanzitutto all’eterna esistenza del Figlio. In fin dei conti, non si sta recitando il Padre nostro: si proclama il Credo in cui la fede
trinitaria è pienamente affermata. Non a caso, subito dopo
essersi riferito al Padre, il Simbolo niceno-costantinopolitano
parla del Figlio inteso come colui per mezzo del quale sono
state create tutte le cose.
Essere padre
Il modo di sentire contemporaneo coglie, dal canto suo, la
paternità di Dio riferita, fin da subito, anche a noi: il contesto trinitario e creazionistico non racchiude più nel suo seno
il significato pieno dell’essere Padre. Questo spostamento di
asse fa nascere una domanda che, formulata provocatoriamente, suonerebbe così: «Ma che razza di paternità è mai la
sua visto che, tanto spesso, lascia i propri figli soccombere e
perire tra i gorghi dell’esistenza?». In termini aulici si direbbe
che il riferimento al Padre onnipotente solleva, ipso facto, il
problema della teodicea. Per dirla con Peter L. Berger, nell’affermazione si coglie subito una straordinaria tensione tra
il sostantivo e l’aggettivo a esso riferito. Dio, secondo le nostre esperienze, «usa il suo potere in maniera assai parsimoniosa» e lo fa anche di fronte alle richieste più autentiche e
strazianti.1 Come tener assieme, da un lato, paternità e potenza divine e, dall’altro, le sciagure di cui è piena la terra?
Vi è un altro celebre inizio di un testo di fede: «Altissimu,
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onnipotente, bon Signore». Francesco, nell’atto di dettare
quei versi aveva, tra gli altri, anche l’intento di replicare al
dualismo dei catari, per i quali tutto il mondo materiale era
segnato in modo irrimediabile dal male. Probabilmente per
questo l’inizio del Cantico di frate Sole è contraddistinto dall’aggettivo «bon». Tuttavia un poeta moderno, se mai gli toccasse in sorte di scrivere un simile verso, sarebbe tentato di
introdurre un «incomprensibile» al posto di «altissimu».
Quella sarebbe, infatti, la qualifica più consona al suo essere
contemporaneamente onnipotente e buono. Di fronte alla
misera condizione in cui giace tanta parte dell’umanità, l’interrogativo di come il Signore possa essere a un tempo onnipotente e buono rimane senza risposta.
Per uscire dalla precaria dialettica tra sostantivo e aggettivo, più volte si è optato per la drastica scelta di sostantivare
l’ultimo termine parlando semplicemente di onnipotente.
Così facendo, si accantona a un tempo tanto la speculazione
trinitaria quanto la teodicea. Ora lo sguardo è tutto rivolto
alla potenza di Dio creatore.
Avviene qualcosa di simile nei capitoli finali del libro di
Giobbe (cf. Gb 38-41). Se si considera la descrizione dell’azione di Dio creatore, espressa in quei versi come una risposta alla domanda del perché il giusto soffra, lo sconcerto
diviene inevitabile. In tal caso si deve per forza dar ragione a
Ernst Bloch, che giudicava quel Dio onnipotente un faraone
celeste che tenta di replicare a domande etiche attraverso divagazioni estetiche incentrate sulla sfolgorante bellezza del
creato. Altro è il discorso se quei capitoli (negli ultimi anni
fortemente rivalutati) sono orientati a evidenziare la sproporzione tra la piccolezza umana (entro la quale rientra
anche il dolore) e la grandezza di un immenso cosmo frutto
dell’azione creatrice di Dio. Le misure allora divengono reciprocamente incommensurabili. Percorrendo questa via non
si ottiene risposta alcuna al perché si soffra, si è solo obbligati
a confrontarsi con grandezze imparagonabili con quelle proprie del cerchio entro il quale è racchiuso il nostro vivere.
Colui che sostiene
«Pantokrator, colui che sostiene». Il modo più appropriato per giudicare la qualifica di onnipotente è di vedere
Dio, ancor prima che come principio di tutte le cose, come
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chi perennemente sostiene il suo mondo. Ciò equivale ad
affermare che l’universo, lasciato a se stesso, è contraddistinto da un’intrinseca tendenza ad autodistruggersi. Alla
creazione non è dato di autofondarsi partendo dal nulla; a
essa è però concessa la paradossale capacità di precipitare
verso il proprio annichilimento. Questi pensieri, che a qualcuno possono suonare stravaganti, sono, in realtà, la spina
dorsale della visione cosmologica di Isaac Newton. Il suo
celebre Scholium generale (in cui la parola pantokrator è giudicata tanto qualificante da essere scritta in caratteri greci)
prospetta un Dio non trinitario, che signoreggia su una creazione posta sempre sul bilico del precipizio: «E affinché i sistemi delle stelle fisse non cadano l’uno sull’altro, a causa
della gravità, egli pose una distanza immensa tra loro». La
legge che regge e regola l’universo può trasformarsi in cagione di distruzione. L’onnipotenza dell’Uno si manifesta
nel contrastare le dinamiche nichilistiche presenti nell’universo da lui creato.
La qualifica di «Colui che sostiene» in Newton è da prendersi alla lettera. Come scrisse a suo tempo Alexander Koyré,
per quanto possa sembrare paradossale: «Il credo nella creazione diventa il fondamento della scienza empirico-matematica».2 Spingendo il discorso all’eccesso, si potrebbe affermare
che la Philosophia naturalis principia mathematica è una specie di riscrittura scientifica di alcuni versi del libro di Giobbe,
i quali (proprio come fa la legge della gravitazione universale) collegano tra loro cielo e terra: «Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi / e sciogliere i vincoli di Orione? Puoi tu
far spuntare a suo tempo le costellazioni / e guidare l’Orsa
assieme ai suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo / e ne applichi le norme sulla terra?» (Gb 38,31-33).
Chi signoreggia può anche distruggere; appunto questo,
alla fine, farà il Dio onnipotente di Newton. Ci chiediamo: vi
è un modo diverso di guardare al Pantokrator o si è per forza
costretti a celebrarne la forza? Si può evitare di porre l’accento sull’insindacabile signoria divina anche quando si è
consapevoli del fatto che la realtà corre costantemente il rischio di cadere nel nulla? Ci è dato di vedere «Colui che sostiene» sotto una veste diversa da quella del potente e
indiscutibile reggitore universale? Per andare alla ricerca di
una risposta affermativa occorre risalire a circa tre secoli
prima di Newton. Dalla stessa terra, si alzò allora una voce
veggente che, consapevole della precarietà di tutte le cose,
trovò non nel dominio bensì nell’amore la ragione della loro
non estinzione: «E mi mostrò una piccola cosa, grossa quanto
una nocciola, che stava nel palmo della mia mano, così mi
sembrava ed era rotonda come una palla. La guardai con
l’occhio della mia intelligenza e pensai: “Cosa mai può essere?”. E mi fu risposto così: “È tutto ciò che è creato”. Mi
chiedevo con meraviglia come potesse durare, perché mi
sembrava che si sarebbe in fretta ridotta al nulla, tanto era
piccola. E alla mia mente fu risposto: “Dura e durerà per
sempre, perché Dio l’ama; e così tutte le cose ricevono il loro
essere dall’amore di Dio» (Giuliana di Norwich).3 Qui si afferma con la massima nettezza la sproporzione tra l’intrinseca precarietà della realtà (qui non c’è proprio nulla che
possa evocare la consistenza, sia pure relativa, della natura) e
l’amore che la regge. Diviene perciò pertinente evocare la pagina forse più famosa di Giuliana, quella in cui, accanto alla
paternità, si evoca la divina maternità: «Come è vero che Dio
è nostro Padre, così è vero che Dio è nostra madre». Poco
dopo, alla veggente di Norwich, fu rivelato: «Sono io, la forza
e la bontà della paternità, sono io la sapienza e la dolcezza
della maternità».4
Una voce nel tempo a noi più prossima continua ancora
a parlare di amore divino, ma afferma che, perché esso sia a
noi comprensibile, occorre che sia connesso più con l’impotenza che con la potenza. Con quale sguardo, si chiede, Dio
pieno di amore può guardare al suo mondo? Un paragone ce
lo comunica con straordinaria capacità evocativa: Dio rassomiglia a «un padre afflitto che guarda il suo piccolo fatto “diversamente” e vorrebbe rimediare ma non può. E lo ama
“così com’è”».5 Per noi la «teodicea» del Dio creatore si situa
su questa soglia.
Piero Stefani
1
P.L. BERGER, Questioni di fede. Una professione scettica del cristianesimo, Il Mulino, Bologna 2005, 53.
2
A. KOYRÉ, Studi newtoniani, Einaudi, Torino 1965, 103.
3
GIULIANA DI NORWICH, Libro delle rivelazioni, Àncora, Milano 2003,
110
4
ID., Libro delle rivelazioni, c. 53.
5
V. ROZANOV, L’apocalisse del nostro tempo, Adelphi, Milano 1979, 72.
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Il n. 1 è stato spedito il 13.1.2012;
il n. 22 il 29.12.2011.
Registrazione del Tribunale di Bologna
N. 2237 del 24.10.1957.
Associato all’Unione Stampa
Periodica Italiana
In copertina: P. CATI,
La Chiesa trionfante schiaccia l’eresia,
sullo sfondo del Concilio di Trento (part.),
1588, Roma, Santa Maria in Trastevere.
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i lettori ci scrivono
La vecchiaia che vorrei
Caro direttore,
e cari amici de Il Regno, vi scrivo solo per dirvi grazie della
pubblicazione nello studio del mese di dicembre: «La vecchiaia
che vorrei» (22,2011,769ss). Sento come un impegno di gratitudine esprimere questa piccola riflessione per confermare soprattutto la seconda parte del documento citato. Sono un sacerdote
che entra nell’ottantesimo anno di età e nel cinquantasettesimo
di sacerdozio. Dopo tante incombenze ecclesiali sono ora uno di
quelli che voi chiamate i «grandi vecchi». Sto vivendo le mie
giornate in un piccolo appartamento che però è sempre occupato da visite che rendono attraente l’amicizia sia, e questo mi
meraviglia, da parte di giovani sia di anziani. La mia è una fortunata convivenza con Marisa. Ci conosciamo da tanti anni e
abbiamo approfondito la nostra amicizia alla luce dei beati Charles de Foucauld per Marisa e di p. Chevrier per me. Posso tranquillamente affermare che questa piena convivenza mi ha aiutato
tantissimo a scoprire l’attrattiva e la fecondità del celibato e a viverlo anche insieme al «gruppo famiglie» della parrocchia.
Vivo il mio quotidiano nella gratitudine e nell’attrattiva del
nuovo orizzonte che mi attende. La fine della possibilità di usufruire dell’auto mi obbliga a camminare e a incontrare persone
e sempre a causa della gratuità della vita non mi viene neanche
lontanamente l’idea di non avere tempo di intrattenermi con
loro. Godere di un tempo liberato da impegni e occupazioni prestabilite, mi fa gustare i dialoghi e le amicizie, la disponibilità di
trovarmi con la gente semplice, di andare oltre un semplice saluto e di camminare insieme. Sono scoperte dei volti e dei cuori
delle persone, comunione reale che inizia ogni mattina con il piccolo gruppo di donne con le quali concelebriamo l’eucaristia in
una piccola cappella ricavata da una vecchia cantina della canonica e parlante con vari segnali delle Chiese sorelle e di quei
semi del Verbo presenti in ogni religione. Mi sembra di essere
inserito in quella storia sacra che nei libri sapienziali e nella Lettera agli Ebrei capitoli 11 e 12, mi aiutano e mi immettono tra
le figure dei vari patriarchi che hanno fatto la storia sacra degli
ebrei e dei cristiani. Così riscopro anche la realtà della Chiesa e
delle Chiese che continuano nella memoria a essere vive nell’oggi
di Dio e nella profezia ad aprire orizzonti sempre nuovi e affascinanti.
Avrei anche un desiderio da esprimere, che i nostri «superiori» (non so come chiamare questi responsabili dell’organizzazione ecclesiastica) avessero il tempo di fermarsi anche loro a
dialogare con noi e di accogliere e di ascoltare. Parlando qualche
volta con loro li sento impegnati ma usurati dal tempo sempre
avaro per loro e abbondante per noi. Nella nostra diocesi dal vescovo ai vari vicari generali e foranei, c’è attenzione, pensano a
strutture per alleviare le inevitabili difficoltà della vecchiaia, ma
il vero ascolto è merce molto rara. Nell’attualità della nostra vita
la decrescita ci aiuta anche a perdere quel «sacro» che crea distanze e qualche volta anche caste chiuse e non dà proprio il
tempo per camminare insieme.
Avete accennato nello stesso numero della rivista alla famosa
lettera del card. Pellegrino Camminare insieme (Regno-att.
22,2011,775-778), che resta sempre un’attrattiva e una nostalgia
che dona speranza al quotidiano.
Ringraziandovi del vostro lavoro, mi piacerebbe tanto vivere
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non solo personalmente, ma mettere a disposizione questi ultimi
momenti di vita qui in terra, non solo come assistiti dalla Chiesa,
ma come continuatori del dono della nostra vita alle Chiese che
tanto amiamo.
Cordiali saluti e buon lavoro,
don Olivo Bolzon
Il santo ateismo del buon Samaritano
Caro direttore,
leggo che nelle Parole delle religioni di dicembre, intitolate «Il
santo ateismo del buon Samaritano» (Regno-att. 22,2011,779s), P.
Stefani, dopo aver liquidato le cosiddette «precomprensioni» della
volontà di ridurre la morale a un codice di comportamento e della
morale intesa come «un insieme di imperativi di una legge naturale
ritenuta universale», aggiunge che la «morale biblica» sarebbe «seconda» in quanto «primo e fondante è l’iniziativa di Dio».
Stefani non si accorge che la deprecata «legge naturale ritenuta universale» è proprio quella derivata dal piano creativo divino (che lui chiama «fondante iniziativa di Dio»!), giacchè il
pensiero etico medievale (che ovviamente Stefani o ignora o disprezza!) indicava proprio la «legge naturale» come «participatio
legis aeternae in rationali creatura» (Summa theologiae I-II, q. 91,
a. 2), ovviamente dopo aver rilevato (Summa theologiae I-II, q.
91, a. 1) «supposito quod mundus divina providentia regatur, ut
in Primo habitum est» (cf. Summa theologiae I, q. 22, art.1, ad
2um).
Mi sembra quindi che anche il sig. Stefani debba fare i conti
con questi… precedenti.
Che poi la «morale», che piace a Stefani, debba essere chiamata «atea» o «laica», perché prescinderebbe da un riferimento
fondante a Dio, è tutto da… dimostrare, in quanto anche «il
commuoversi nelle viscere» del testo greco, splanchnizomai, è
dovuto alla convinzione (etico-razionale!) che l’altro (ritenuto
uguale a me, perché si trova nella stessa condizione di «dipendenza creaturale da Dio») va aiutato per rispetto e solidarietà
con il prossimo e, nella concezione religiosa, anche per amore di
Dio.
Che «il comandamento divino qui non c’entra per nulla» è
asserzione che lasciamo dimostrare al sig. Stefani, che non lo ha
dimostrato!
Quanto alla tesi che «tutto culmini nel vedere e nel commuoversi» di fronte a chi è nel bisogno, si può vedere anche «razionalmente» collegato al fatto che «l’uomo è per natura un
animale socievole» (Aristotele, pagano!) e che l’uomo può vivere
da solo o perché non sopporta il consorzio umano per durezza di
cuore (e ciò è da bestia selvatica!), oppure per dedicarsi maggiormente alla contemplazione della realtà divina (e ciò è oltre
l’umano!). Si veda sempre Aristotele (pagano!) riportato e condiviso (!) da Tommaso d’Aquino, nel Commento all’Etica nicomachea.
Distinti saluti.
Bergamo.
Angelo Marchesi
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... E la privacy?
Quando parlare e quando tacere nelle cose della fede
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IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
“
U
so il blog –
www.luigiaccattoli.it – come laboratorio per la ricerca di «fatti
di Vangelo» e con esso raccolgo buoni
materiali, o cerco ampliamenti di storie che mi sono già note, chiedendo ai
visitatori «chi sa mi dica». Con un
post del 3 gennaio ho chiesto aiuto
per avere un completamento della storia di Aurelio Andreoli, malato di
AIDS, che ha narrato la sua vicenda
– compreso il recupero della fede nella
malattia – in un diario pubblicato da
Marsilio nel 1999 (Il bacio di Francesco. Un credente nella notte dell’AIDS):
dall’editore e da Ernesto Olivero prefatore del volumetto ho saputo che
nel frattempo Aurelio è morto, ma
non sono riuscito a conoscere la data
né le circostanze della morte. Dai visitatori non ho avuto contributi conoscitivi, ma varie considerazioni e
una dura protesta.
«Scusate se sono brutale – ha scritto
a commento di quel post una visitatrice
che si firma discepolo – ma trovo che
questo ficcare il naso nella morte di una
persona sia una forma sublimata di voyeurismo morboso, anche se a fin di
bene. La morte ha una sua intimità che
nessuno ha diritto di violare, neanche
per la legittima curiosità di sapere che
cosa ha detto questo sant’uomo negli ultimi istanti. Gli ultimi istanti e le eventuali ultime parole vanno lasciati al silenzio».
LE PAROLE DI CHI MUORE
NELLA SPERANZA DELLA RISURREZIONE
Sono quasi vent’anni che vado raccogliendo storie di vite convertite e ritengo importante l’attestazione di chi
muore nella speranza della risurrezione. Quell’attestazione passa per i
testamenti, il modo della morte, l’eventuale conversazione del morente
con chi gli è vicino, le sue indicazioni
per la tomba o la messa di addio.
Ho cercato di ottenere questi elementi informativi ogni volta che mi
parevano utili e li ho narrati in centinaia di storie che sono consultabili nei
due volumi intitolati Cerco fatti di Vangelo, pubblicati uno dalla SEI nel 1995
e un altro dalle EDB nel 2011 (un
terzo uscirà con le EDB il prossimo
marzo), ma anche nella pagina del
blog che ha quello stesso titolo. Tra le
storie presenti nel blog al capitolo 14
(«Dalla droga dall’AIDS dalla strada e
da ogni male») c’è quella di Aurelio
Andreoli.
Desiderando completarla così avevo scritto nel post, provocando la protesta della visitatrice: «Da quando lessi
il diario di Aurelio sono alla ricerca di
notizie sulla morte di questo cristiano
meritevole di memoria. Vorrei sapere
chi l’ha accompagnato negli ultimi
giorni, se abbiamo le sue ultime parole, dove sia sepolto. Ho chiesto qua
e là ma senza esito. Ora lancio la richiesta nella rete: chi sa di Aurelio mi
parli di lui».
È lecita una tale indagine o costituisce violazione della privacy? Più
volte mi è capitato – nonostante la
prudenza del giornalista sperimentato
– di incappare in obiezioni simili a
quella della visitatrice: «Come si è permesso di pubblicare quel testamento,
quella lettera, quella preghiera letta
in chiesa, di farsi raccontare quelle ultime parole dai familiari». Ho sempre
seguito le regole del buon giornalismo,
riproducendo testi già pubblici o chiedendo l’autorizzazione a riportare
quelli inediti. Ma avverto che la correttezza del pubblicista non è l’obiettivo della protesta di tanti, che piuttosto mettono in discussione la stessa
opportunità di indagare, e non solo
sulla morte ma anche sulla vita delle
persone, sui gesti di carità, sulle attestazioni della fede.
Una visitatrice milanese di nome
Emilia dice di condividere la mia passione per i «fatti di Vangelo», ma di
trovarsi in difficoltà a rispondere
quando le obiettano che non è il caso
di «anticipare il giudizio della Chiesa»
o le ricordano che «Paolo ha scritto a
Timoteo d’insistere in ogni occasione
nell’annunciare la Parola, non la storia
di chissà chi».
«VOI RISPLENDETE
COME ASTRI NEL MONDO»
Anch’io sono stato rimproverato
da lettori o uditori occasionali per aver
usato la parola «santo» o «giusto» nell’accezione biblica, come se ciò fosse
facoltà d’ognuno. E ho sentito usare
contro di me le raccomandazioni
evangeliche: «Quando tu preghi, entra
nella tua camera, chiudi la porta e
prega il Padre tuo, che è nel segreto»
(Mt 6,6); «Non sappia la tua sinistra
ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3); «Ciò
che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole» (Lc
16,15); «Come potete credere, voi che
ricevete gloria gli uni dagli altri, e non
cercate la gloria che viene dall’unico
Dio?» (Gv 5,44).
Alle citazioni rispondo con le citazioni: «Voi siete la luce del mondo;
non può restare nascosta una città che
sta sopra un monte, né si accende una
lampada per metterla sotto il moggio,
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ma sul candelabro, e così fa luce a tutti
quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al Padre vostro
che è nei cieli» (Mt 5,14-16); «Chiunque infatti fa il male, odia la luce (…).
Invece chi fa la verità viene verso la
luce, perché appaia chiaramente che le
sue opere sono state fatte in Dio» (Gv
3,20s); «In mezzo a una generazione
malvagia e perversa (…) voi risplendete
come astri nel mondo» (Fil 2,15).
Citando e controcitando ci si diverte – io mi diverto – ma non si va
lontano. Già dovettero avvedersene
Gesù e il Satana nel deserto. Occorre
interpretare ogni detto nell’insieme
della Scrittura e alla luce del comportamento di Gesù e dell’intelligenza che
ne ha avuto e ne ha la Chiesa.
Un punto per me è chiaro: è inaccettabile ogni esibizione della preghiera, dell’elemosina, del digiuno che
sia dettata da intento promozionale
mondano. Denaro, audience, fama di
santità: nella Chiesa nulla si vende
meglio della fama di santità. Ma questo divieto non toglie che si faccia conoscere il bene operato disinteressatamente e disinteressatamente a noi
narrato. Chi narra sa sempre perché
narra.
LA PROPAGANDA DELLA FEDE
HA LA SUA LEGITTIMITÀ
Altro punto chiaro: io racconto. A
me non compete comprovare, valutare, riconoscere. A me – giornalista
trovarobe – spetta la sola narrazione.
Nel condurla è giusto che io mi ispiri
ai Vangeli, che sono anche narrazioni.
In essi sono narrate le ultime parole
dei morenti (comprese quelle di Gesù
e del ladrone), le preghiere di tanti, le
conversioni, atti di generosità minimi
e massimi. Se di tutto questo non dovesse esservi narrazione, allora vuol
dire che i Vangeli sono sbagliati.
Un ragazzo fa una preghiera di
perdono alla messa di addio per l’intera sua famiglia sterminata da un
folle. Gli chiedo di pubblicare quel testo. Egli – che nel frattempo è divenuto adulto e ha figli – obietta che il
Vangelo invita a pregare nel segreto.
Io osservo che quella sua preghiera fu
comunque pubblica. Egli replica che
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«lì» quella preghiera pubblica era nel
giusto luogo perché si trattava di
un’assemblea liturgica che pregava
con lui mentre al di fuori di un contesto orante si verrebbe a configurare
un elemento di propaganda. Io controargomento che la propaganda della
fede (De propaganda fide) ha la sua legittimità, purché svolta disinteressatamente, e faccio riferimento alle invocazioni che riempiono i Vangeli e che
furono preghiera in atto e poi – nel testo evangelico – preghiera narrata:
dunque la narrazione della preghiera
non è proibita.
Se Matteo 8 narra la preghiera del
centurione («Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto»,
Mt 8,8) e se Luca 22 narra l’invocazione di Gesù al Padre nell’Orto degli
ulivi («Padre, se vuoi, allontana da me
questo calice», Lc 22,42) vuol dire che
la preghiera è narrabile.
IL CONVERTITO DI MEDJUGORJE
COME ZACCHEO CHE DONA AI POVERI
Lo stesso dirò per le conversioni.
Poniamo che il nostro fatto sia la conversione di un bandito o di un morente di AIDS. L’obiezione prima sarà
che facciamo propaganda, e qui qualcosa abbiamo già detto: la propaganda
è riscattata dal disinteresse. Ma diranno anche che narrando quella conversione facciamo violenza a quella
persona, o alla sua memoria, o alla
famiglia. Ma allora – dico io – come
spieghiamo che i Vangeli narrino la
conversione in morte del ladrone,
quella della samaritana con i cinque
mariti «e quello che hai ora non è tuo
marito» (Gv 4,18) e quella della peccatrice che bagna di lacrime i piedi di
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IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
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Gesù? Il Maestro non proibisce questi
racconti, anzi li sollecita: segnala ai
discepoli la vedova che getta due monetine nel tesoro del tempio e dice
della donna con il vaso di alabastro:
«Dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di
lei si dirà anche quello che ha fatto»
(Mc 14,9 e cf. Mc 12,13).
Qualcuno vive una conversione a
Medjugorje e spende 10 milioni di
euro per realizzare in loco un cittadella per giovani disadattati. «Raccontare questo fatto non è pubblicità?». Controdomando: e Luca 12,
che narra di Zaccheo che dà ai poveri
«la metà di ciò che possiede» (cf. Lc
12,8)?
IMPARO A DISTINGUERE
LE STORIE DALLE PARABOLE
Il narratore rispetta la volontà di
nascondimento dell’interlocutore ma
anche si propone un lavoro di convincimento. Intervisto un malato di AIDS
che accetta di apparire con nome e cognome ma sa che i genitori sono contrari: è un caso che mi è capitato. Propongo ai genitori di partecipare alla
conversazione perché vedano che cosa
cerco. Alla fine accettano che io metta
il nome e la città e le date, tacendo il
cognome: «Perché il cognome non è
solo nostro».
La giusta via – io credo – è quella
di una reciproca pedagogia: del giornalista che mira alla comunicazione e
dei protagonisti intesi alla riservatezza.
Si pianta la bandierina dove arriva il
convincimento. Molte storie per questa ragione restano inedite o vengono
derubricate come «parabole». Se non
si possono mettere i dati essenziali per
un riscontro documentale – nome e
cognome, luogo e date – il «fatto» potrà essere comunque narrato ma secondo un genere morale più che fattuale. Tra i capitoli della mia pagina
Internet intitolata Cerco fatti di Vangelo l’ultimo, che ha il numero 21, è intitolato «Parabole» e contiene fatti minimi o anche grandi ma privi di
verificabilità documentale. Un giorno
forse pubblicherò un volume di «parabole».
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
REGATT
02-2012 cop:REGATT
02-2010 cop.qxd 27/01/2012
14.21 Pagina 4
ROMANO PENNA
Gesù di Nazaret
nelle culture del suo tempo
Alcuni aspetti del Gesù storico
2012
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Attualità
001 Politica in Italia: il tripartito?
006 Tra crisi religiosa e democrazia:
Belgio e Ungheria
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DELLO STESSO AUTORE 027 Theobald: come recepire il Vaticano II
047 Nuovo cinema religioso
057 Studio del Mese
L’Europa, un’avventura spirituale
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! Anno LVII - N. 1115 - 15 gennaio 2012 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - 40123 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
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