ANNIVERSARI «HISTRIA DOCUMENTUM» La Capodistria secentesca nella pianta di Giacomo Fino di Kristjan Knez C trario, valorizzando proprio il documento, inteso come elemento irrinunciabile per ricostruire e cogliere i tempi andati. “Pianta di Capod’Istria di com.ne dell’ill.mo sig.r Bernardo Malip.o Podestà e Cap.o P.o agosto MDCXIX disse.a da Giacomo Fino” è il titolo della pubblicazione bilingue, sloveno ed italiano – curata da Dean Krmac, “Histria documentum I” – nonché dell’omonima fonte conservata all’Archivio di Stato di Venezia (Senato Mar, filza 223), che in occasione del 390.mo anniversario della sua realizzazione è stata presentata a Capodistria dalla Società umanistica Histria con sede proprio nella città di San Nazario. L’iniziativa, indubbiamente positiva e pregevole, merita un plauso in particolare in quanto ha proposto al pubblico la riproduzione della pianta medesima accompagnata da un agile quanto interessante volumetto in cui si analizza la fonte. A nostro avviso, il progetto, che è stato accolto con interesse, nonostante il periodo estivo, si annovera a pieno titolo nelle iniziative tese a valorizzare il passato delle nostre contrade e si inserisce appieno negli studi di storia patria. Segue a pagina 8 Fa sempre piacere trovarsi di fronte a un progetto che valorizza o semplicemente fa conoscere al pubblico, possibilmente quello più vasto, una parte del nostro passato. Così come alle volte proviamo gusto nel rispolverare le vecchie cartoline per vedere com’eravamo, così si prova un certo fascino nell’andare a studiare com’era, anni o secoli fa, la città in cui viviamo oggi. Lo hanno fatto per noi Dean Krmac e la società umanistia Histria, proponendo in versione bilingue italiano-slovena la pianta di Capodistria di Giacomo Fino, del 1.mo agosto 1619. Ne parla in apertura Kristjan Knez, un laureando in Storia, irrimebiabilmente – intendiamoci, poi noi fortunatamente – appassionato delle vicende istriane, anzi giuliano-dalmate. E non solo. La firma di Knez torna nelle pagine centrali (4-5) per illustrare un’epoca, descritta nell’ambito di una mostra allestita a Lubiana, quella delle Province illiriche. Fu un periodo significativo, soprattutto forse per la maturazione del risveglio nazionale sloveno. E di movimenti nazionali si occupa, sebbene solo in parte, anche Daniela Jugo-Superina, che illustra la poliedrica attività dei gemelli Bastian (pp. 6-7). Di tutt’altro argomento, invece, il contributo di Roberto Palisca (pp. 2-3), che si inserisce però nel contesto delle iniziative e degli articoli volti al recupero dei numerosi e affascinanti tasselli del nostro patrimonio. Riaprendo le pagine di un breviario del 1896, Palisca riscopre una delle “fortune” di Fiume: quella di essere stata protetta dai suoi santi e dal “Miracoloso Crocefisso”. Buona Lettura DEL POPOLO storia e ricerca e oc av r/l it.h .ed www om’è noto le origini della storiografia istriana erano vincolate per lo più all’analisi della dimensione urbana. Lo studio della storia e delle espressioni culturali delle città rappresentò l’interesse precipuo di una folta schiera di ricercatori e proprio grazie a siffatta curiosità intellettuale – dettata anche dalla valenza che l’indagine del passato assumeva sul versante del confronto nazionale – annoveriamo una notevole bibliografia, in molti casi ancora fondamentale e imprescindibile. I saggi e le pubblicazioni in generale, usciti tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, rappresentano tuttoggi dei punti fermi in quanto si basano sulle fonti dei più diversi archivi, i quali offrono elementi di prima mano sugli aspetti più disparati della penisola. La ricerca dei documenti e la loro pubblicazione rappresentavano, infatti, uno degli obiettivi primari degli studiosi, di conseguenza uscirono copiose raccolte che diffusero materiali altrimenti confinati nei fondi archivistici e non sempre di facile consultazione. Tale lavorio rifletteva inequivocabilmente lo spirito con cui operavano gli storici di quel periodo, profondamente consapevoli dell’importanza del documento. Con il passare dei decenni, però, s’iniziò a riscontrare vieppiù un disinteresse per l’edizione a stampa delle fonti e attualmente non di rado escono lavori storiografici che sovente non si ba- sano affatto sullo spoglio della documentazione inedita, anche su argomenti per i quali esiste un’abbondante messe di fonti negli archivi, e che in molti casi nessuno ha consultato, o lo ha fatto solo parzialmente. Ormai, anche a livello universitario, specie con la Dichiarazione di Bologna e l’introduzione del cosiddetto “nuovo ordinamento”, le tesi – in particolare quelle di primo livello – nella stragrande maggioranza dei casi sono prodotte senza aver visto né un documento né un archivio. Eppure il lavoro dello storico si fonda in primo luogo sull’analisi critica delle fonti nonché sull’utilizzo di materiali tra i più eterogenei, inclusa la bibliografia. Tutto ciò rappresenta un inconveniente, perché non pochi si laureano in storia ma non tutti hanno avuto modo di conoscere il lavoro d’archivio. Quest’ultimo sarà probabilmente poco popolare in quanto richiede tempo, fatica, dedizione, l’applicazione delle conoscenze acquisite ed una certa abilità a districarsi tra le “vecchie carte”, e poi non sempre, malgrado l’impegno investito, i risultati sono dei migliori, poiché la ricerca d’archivio di per sé è “imprevedibile” e non di rado riserva piacevoli sorprese o amare delusioni. Però dovrebbe rappresentare un passaggio obbligatorio per ogni storico. La digressione era doverosa per illustrare lo stato delle cose sul versante degli studi storici e anche per parlare di una recente ed interessante iniziativa che, invece, si è mossa in senso con- IN QUESTO NUMERO An no V • n. 43 • Sa 009 bato, 3 ottobre 2 Sabato, 3 ottobre 2009 MONUMENTI Cenni storici sul Crocifisso che si venera nel capoluogo quarnerino e che sa «Terra Fluminis Sancti V Ne parla un prezioso volumetto stampato nella Tipografia di P. Battara e conserv di Roberto Palisca N on a caso, nel lontano passato, il capoluogo del Quarnero veniva chiamato “Terra Fluminis Sancti Viti”. Tutto a quei tempi, a Fiume, era all’insegna del suo principale protettore, San Vito. La sua immagine, con il ramo di palma in una mano e nell’altra la città, era impressa nei cuori della popolazione, ma anche sui timbri e sui sigilli municipali. Le navi battevano la sua bandiera, i portoni delle case venivano abbelliti con la sua effigie, la sua figura compariva sulla colonna di pietra sulla quale sventolava lo stendardo della Città. In epoca medievale la chiesa in cui i fiumani lo veneravano era una costruzione di piccole dimensioni, a una sola navata. Nel 1599 Fiume viene colpita duramente da un’epidemia di peste. La città si ritrova con la popolazione letteralmente decimata. Riesce a riprendersi soltanto all’inizio del XVI secolo. Fiume si ripopola e con la ripresa economica iniziano a rifiorire pure le iniziative culturali. Sono gli anni in cui i Gesuiti, giunti in città già nel 1540, riescono ad ottenere dalle autorità di allora, nell’odierna Cittavecchia, la proprietà di un ampio spazio presso le antiche mura della città. È quello del rione detto delle Zudecche, dove sorge l’antica chiesetta di San Vito. La Compagnia di Gesù chiede di erigere un convento, un seminario e una nuova chiesa. Le autorità acconsentono, a patto che quest’ultima sia consacrata a San Vito, che il 15 giugno di ogni anno, in occasione della ricorrenza patronale, vi si svolga la festa già a quei tempi tradizionale, che il Comune abbia il diritto di usare le campane per annunciare morti, incendi e pericoli di attacchi nemici e di svolgere in quella chiesa le funzioni consuetudinarie, quali il rito del giuramento di ogni nuovo Capitano della Città e la processione del perdono. Ma impongono anche un’ultima condizione: la Chiesa (a differenza di quanto succede oggi) deve restare aperta alla devozione del popolo verso il miracoloso Crocefisso fino al suono della seconda Ave Maria. L’edizione «pocket» della M. Polonio Balbi del 1896 Di quanto stesse a cuore a tutti i fiumani la devozione a quel Cristo in croce che tutt’oggi impreziosisce e rende unico l’altare principale della Cattedrale fiumana, e dal cui costato, secondo un’antichissima leggenda, nel 1296 sgorgò sangue, gli archivi sono ricchi di testimonianze. Ne parla con dovizia di particolari anche un libriccino pubblicato a Fiume nel 1896 in formato che oggi chiameremmo tascabile, dalla Premiata Libreria editrice M. Polonio Balbi. Un volumetto del quale vi riproponiamo qui in parte il contenuto, grazie a una copia che ci è stata inviata in redazione da Alfredo Fucci, uno dei tanti fiumani esuli che ancora oggi conservano con gelosia, ma anche con una punta d’orgoglio, tutto ciò (e spesso è molto poco) che nonni e genitori sono riusciti a portarsi appresso lasciando la loro città alla fine della Seconda guerra mondiale o nei tristi anni dell’immediato dopoguerra. È un libriccino di 56 pagine, intitolato “Brevi notizie in- torno al Miracoloso Crocifisso che si venera nel celebre santuario di S. Vito nella libera Città di Fiume”, stampato, come dice la scritta che compare in prima pagina sotto questo lunghissimo titolo e sotto al logo della ditta, dalla Tipografia P. Battara (di proprietà, supponiamo, di Pietro Battara, uno dei figli di quella Marina Battara, vedova di Antonio Luigi, che agli inizi dell’Ottocento fu proprietaria della prima stamperia di Zara, le tipografie della quale sfornarono all’epoca tantissimi libri sta, coperta dalla base della croce. E al di sopra dei tetti delle minuscole case svettano tre campanili: sono quelli del Duomo, della Cattedrale e della chiesa di San Gerolamo. La didascalia dice: “Vero ritratto del Miracoloso Crocifisso che percosso da un giuocatore l’anno 1296 sparse copioso sangue e questo s’adora nella città di Fiume nella Chiesa di S.Vito”. Ma veniamo a ciò che si dice nella prefazione, in cui si accenna ripetutamente a “tempi pericolosissimi”: onoriamo cogli omaggi della più fervorosa pietà Gesù Crocefisso ed il Suo S.S. Cuore. Corriamo dunque supplichevoli a Gesù Crocefisso ed al Suo sacratissimo Cuore, affinché Ci dia forza di resistere ad ogni tentazione e pericolo e ci accolga nel suo Cuore divino, specialmente ora in cui corrono tempi pericolosissimi e disastrosi: poiché emissari di Satana, veri apostoli di incredulità e di libertinaggio, colla potenza della parola, col mezzo di una stampa libera e sfrenata, e con ogni manie- ne 1296 (come attesta la tradizione) quando certo Pietro Lonzarich si pose a giuocare alle carte con due altri suoi compagni innanzi il simulacro del crocefisso Gesù, e perché il giuoco non gli andava a verso, contrariandogli la sorte alle di lui brame s’arrabbiò in guisa tale, che presa furiosamente da terra una pietra, la scagliò contro quell’adorabile Crocefisso cui venne a colpire nel lato sinistro. Ma cosa lagrimevole e orribile ecco miracolo! Dal percosso lato, come fosse corpo vivo, scaturì copioso il sangue. Né un tal delitto poteva restar inulto; dappoiché apertasi in un baleno la terra, quasi sdegnata di sostenere uomo sì perverso, ingoiò il tristissimo, lasciandone al di fuori la sola mano destra, colla quale l’empio aveva percosso la sacra effigie, come corpo del delitto e testimonio dell’esecrando misfatto alle più severe vendette dell’umana giustizia”. Sangue che finì pure a Pola e Roma La riproduzione della litografia La copertina del libretto anche a Fiume, oltre che in quasi tutte le principali località della Dalmazia). Le litanie bilingui Ma veniamo ai contenuti di questo interessante volumetto. Si tratta di un breviario uscito dalle stampe in occasione del sesto centenario del miracoloso Crocefisso di San Vito, celebrato a Fiume dal 30 aprile al 3 maggio del 1896. Ciò che cade immediatamente nell’occhio a chi lo sfoglia anche in maniera superficiale, è che è scritto in parte in italiano e in altra parte in latino e che contiene pure delle preghiere in lingua croata. Si tratta delle litanie, al cui capitolo si rileva che “si dicono ogni terza Domenica del mese, nonché la settimana di passione, come d’uso antico”. In seconda pagina la riproduzione di una litografia che raffigura il miracoloso Crocefisso e in prospettiva, dietro alla Sacra croce, che domina in primo piano, una minuziosa panoramica su Fiume, nella quale lo scrupoloso artista che la ritrasse, ha raffigurato tantissimi dettagli. Nell’angolo a destra si intravedono il colle e il Castello di Tersatto. Dietro alla figura del Cristo invece, illuminati dai raggi irradiati dalla sacra immagine di Gesù, il colle del Calvario, con in cima le tre croci e, in basso il porto della Fiume di quegli anni: dietro ai velieri, ai mercantili e alle piccole barche, le antiche mura della città. La Torre civica si intravede soltanto, perché parzialmente nasco- “La ineffabile bontà del Signore in questi tempi (sotto ogni riguardo pericolosi alla fede, alla pietà, ai costumi) consola la Sua chiesa donandole una preziosissima divozione che si propaga per singolar beneficio del Cielo fra il popolo Cristiano; apporta una elettissima copia di grazie e di benedizioni celesti, accresce la divozione colla quale La palla di cannone ra di seduzione e di insidie spargono non solo nelle città, ma ben anche nei villaggi, massime corrotte, pestiferi errori, e dottrine riprovate e condannate dalla Chiesa. Intanto i deboli i tiepidi e specialmente gl’incauti giovinetti bevono alle fonti avvelenate dell’errore, corrompono i loro cuori, e miseramente trascinano innumerevoli anime all’eterna dannazione; per cui raccomandiamoci a Gesù Crocefisso ed al suo divin Cuore, affinché ci offra pronto ed efficace rimedio, per estirpare i mali, che affliggono la società e la chiesa”. La gran confusione con le... maiuscole A quest’introduzione segue un “ragguaglio storico” sul miracoloso Crocefisso scritto in latino, quindi la traduzione in italiano. A proposito di lettere iniziali maiuscole e minuscole, anche allora chi si occupava di stampa faceva evidentemente gran confusione. Lo deduciamo dal fatto che nel breviario diverse parole, tra le quali “miracoloso”, “crocefisso”, “croce”, “santa” e “fiumani”, appaiono scritte di volta in volta in tutte le possibili varianti. Motivo per cui noi qui le riportiamo scritte come compaiono nel testo originale. Ecco quanto dice: “Questo Crocefisso di legno si trovava nel secolo XIII avanti il tempio di S. Vito, tenuto in grande rispetto dai cittadini di Fiume. Correva l’anno della nostra Redenzio- “I cittadini commossi ed in specie il Prefetto della città. barone de Rauber – continua il racconto – accorsero tantosto a raccogliere con somma riverenza il prodigioso Sangue che grondava dal piagato Crocefisso e quanto si raccolse, fu deposto nell’insigne chiesa collegiata di questa città, ove una parte si conserva in una fiaschetta fra le reliquie del Duomo, l’altra nella chiesa di Pola sotto il cui vescovato dipendeva in quel tempo la città di Fiume, ed infine una parte fu spedita anche a Roma. Il prezioso sangue, come pure la pietra colla quale fu percosso il miracoloso crocefisso consopravi l’inscrizione “Hoc lapidis ictu percussus fuit crucifixus 1296” viene ogni anno il giorno del giovedì e venerdì santo esposto alla pubblica venerazione sull’altare maggiore della chiesa di S. Vito”. Quanto al destino del sacrilego, “l’empio fu processato e la sua mano venne pubblicamente abbruciata. Per memoria del fatto poi fu appesa una mano di bronzo con la rispettiva iscrizione sotto ai piedi dello stesso Crocefisso, ed il sasso con cui fu ferito, vedesi ancora oggidì attaccato al lato sinistro. Si scorgon di più al presente alquante goccie vivaci di sangue intorno alla prodigiosa piaga”. Il sacro Crocefisso, che fino a quel giorno stava “sopra un muro della strada”, fu per venerazione portato in una piccola chiesetta in cui… “stette fino all’anno 1638, nel qual tempo dovendosi demolire quella piccola chiesa per fabbricare la chiesa di S. Vito, quale ora l’abbiamo, fu dal Comune concesso ai Gesuiti che il miracoloso Crocefisso fosse con solennità trasportato alla vicina chiesa di S. Rocco (purtroppo anche quella abbattuta nda). Il che fu eseguito nel giorno 19 Aprile 1638. Intanto demolita quella piccola chiesa, il 15 Giugno 1638 veniva posta la prima pietra del tempio di S. Vito, sulla quale in principio fu così scritto”: D.O.M., JESU CHRISTO CRUCIFIXO ecc.” “Nel 1659 – si spiega poi al lettore – essendo stato in qualche modo compiuto l’Altar maggiore, fu ivi trasportato il famoso crocefisso dalla Chiesa di S. Rocco. Poi dovendo farsi l’altar Maggiore tutto in marmo, fu il crocefisso collocato Sabato, 3 ottobre 2009 alvò la città dalle varie (ma ahimè non tutte) intemperie Viti»: miracolata vato con tanta nostalgia dall’esule Alfredo Fucci in un altare leterale. Compiuto l’altar Maggiore, nel 1712, il 14 Settembre, giorno dell’Esaltazione della croce, vi fu posto, il vetusto crocefisso, dove rimane tutt’ora esposto alla venerazione del pubblico”. Salvi da pirati, peste, terremoto e Francesi “Coll’andar poi dei secoli – apprendiamo – fu grande la divozione alla miracolosa effigie. E ben a ragione. Quasi di continuo i Fiumani risentirono i favori di questa Santa Croce; più volte – ci rassicura l’autore del testo – furono allontanati i pericoli, fugate le malattie e superate calamità private e pubbliche. Alla metà circa del secolo XV p.e. i pirati Veneti, infestissimi alle vicine isole, armarono moltissime navi, coll’intenzione di devastare Fiume. I cittadini ricorsero alla S. Croce, ed i pirati si ritirarono, non avendo arrecato danni di conto. Nell’anno 1599 essendo afflitte queste regioni da gravissima pestilenza, infierendo sempre più il morbo, apparve nell’aria tra il monte Calvario e il monte di Tersatto il segno della croce di color bianco, la quale spiccatasi dal monte di Tersatto, con soave moto si avviò verso la città di Fiume, ove si fermò circa mezz’ora, da tutta la gente molto ben veduta ed osservata e che svanendo dagli occhi loro, li lasciò attoniti e stupefatti quasi fuor di sé stessi per il miracolo veduto, implorando misericordia a Dio ed alla Vergine. I Fiumani allora istituirono feste nella Chiesa del Crocifisso e si obbligarono per voto alla B. Vergine di Tersatto; ciò fatto in quell’istesso giorno cessò la pestilenza”. Ma, secondo le credenze, il miracoloso Crocefisso della Cattedrale di San Vito non salvò Fiume e i fiumani soltanto dalle epidemie. “Più volte scosso il suolo, essendo per crollare gli edifizi, ricorrendo i Fiumani alla s. Croce, ebbero propizio Iddio. Né si deve passare sotto silenzio ciò che accadde al cominciar del presente secolo. Scoppiata nell’anno 1813 la rivoluzione contro i Francesi, che volevano impossessarsi delle nostre coste, il prefetto dell’Illirio Marmont spedì a Fiume un forte presidio e comandò venisse devastata la città coll’incendio e decimati i cittadini. Spaventati questi, ricorrono alla sicurissima loro difesa. Ed ecco che i Francesi, notte tempo, improvvisamente si ritirarono”. L’indulgenza di Pio VI Un’altra parte del libriccino, uscito come dicevamo, in occasione del sesto centenario del miracolo, riferisce con dovizia di dettagli dei festeggiamenti che ebbero luogo a Fiume cent’anni prima, quando papa Pio VI concesse l’indulgenza a tutti coloro che fecero visita alla Cattedrale di Fiume in occasione degli otto giorni di durata dei festeggiamenti liturgici. Si tratta di un estratto degli atti del Magistrato Civico. E anche qui, com’era usanza all’epoca, c’è gran spreco di maiuscole. “Avvicinandosi il tempo, in cui coll’approvazione di Sua Sacratissima Maestà e consenso del Monsignor Vescovo nella chiesa di St. Vito della città di Fiume, con solenne pompa e Cerimonie Ecclesiastiche celebrerassi nel prossimo Marzo di Quinto Secolo dall’accaduto stupen- do prodigio, quando da un empio Giuocatore con una pietra scagliata nel lato sinistro, fu percosso l’anno 1296 il Crocifisso di legno e versò miracolosamente copioso sangue. Così – prosegue la nota – vengono cortesemente invitati tutti gli Ordini di Persone: acciocché si compiacessero di comparre alla suddetta Solennità per prevalersi dei Tesori delle Indulgenze, che a questo oggetto Sua Santità di Pio VI si è degnata di conferire per otto giorni intieri in forma di Giubbileo a tutti quelli, che Confessati e Comunicati, visiteranno la suddetta Chiesa, e pregheranno per la concordia dè principi Cristiani, per l’estirpazione delle Eresie e per l’Esaltamento della Santa Madre Chiesa. La Funzione sacra comincierà alli 12 di Marzo e compirassi colla sera dei 19 di detto Mese”. Segue un’altrettanto interessante e pittoresca cronaca delle solennità che ebbero luogo nella Cattedrale dal 12 al 19 marzo del 1796. “A tenore della brama degli abitanti di Fiume condiscese l’Augusto nostro Monarca col Monsignor Diocesano, che la memoria del Prodigioso Miracolo seguito in questa Città nell’anno 1296, in cui il Simulacro del Crocifisso di Legno sparse copioso sangue per un colpo di sasso scagliato da un empio giuocatore al Lato sinistro, dopo 500 anni di quell’Epoca si celebrasse per 8 continui giorni nella Chiesa di S. Vito Confalone di questa città. Fu indi questa stabilita col principio delli 12 Marzo corrente anno fino li 19, in cui si diede principio con una solenne Processione ed intervento dello stesso Prelato, il quale sotto Baldacchino portato da Patrizi, ed attorniato da altri con Torcie in Abiti di Lutto, Milizie Urbane nell’Uniformi accompagnato da questo Venerabile Capitolo ed Ordini Religiosi, Magistrato, e Cittadinanza spiccosi da questa insigne Collegiata alla Sacra Reliquia del prodigioso Sangue, che riservasi nella medema, la mattina del giorno suddetto incaminarsi con solenne Pompa, e numeroso Popolo accorso (sebbene il tempo non sia stato troppo acconcio) alla Chiesa di St. Vito, ove si venera il Miracoloso Crocefisso, e giunto fu collocata la detta Santa Reliquia all’Altare Maggiore di detta Chiesa sopra la Tribuna ornata di Veluto Cremise ricamato d’Oro, nonché l’interno del tempio videsi fornito a bella posta con pitture di Marmi Festoni con fiori a tutte le Arcate, Lampadari con Lumi alle Colonne, ed Ornamento d’addobbo ricco dell’altare con raggi e cornici dorati di lavoro straordinario entro nel Nicchio (Lavoro eccelente da Maestro fatto venire da Lubiana) ove è collocato il prodigioso Simulacro a quell’opera corrispose nella maggior parte la beneficenza di Sua Eccelenza Monsignore Kertiza Vescovo di Diakovar nel sirmio e nativo di questa Città”. Si elencano quindi “vari Emblemi e cronografie allusive al Prodi- gio” che vennero collocati in quell’occasione “sopra le porte del Tempio, ed alli Lati della stessa, entro cui per tutti gli 8 giorni fu esposta la Sacra Reliquia alla pubblica Venerazione”. Apprendiamo quindi che sopra l’arco della porta principale della chiesa sta scritto “Vexilla Regis nostri Jesu Christi in sinistro Latere Factu Lapidis cruentati Perpetui hujus Urbis Patroni in Fine quinti Saeculi piis. Reispue solenniter prodeunt”. Sopra la porta, sotto la figura del Crocifisso fu scritto invece “Unde tibi Plaga ista in sinistro Latere? Lusor sacrilegus Petrus Lonzarich jactu saxi hanc fecit”. Ai lati destro e sinistro dell’entrata si scrisse invece: “Ut tanti Prodigìi celebritas cvoluto quinto Saeculopie peragatur Christi Vicarius Universis vere Poenitentibus Indulgentias Jubilaei largitur. Jesu. Propitiare cuncto Pio Coetui In Lanedìbus tuae prodigiosae Crucis hic congregato” e “Sitientes venite bibite haurietis Aquas de Fontibus ex sinistro Latere Salvatoris Jesu christi Crucifixi Lapidis Ictu Percusso Fluentibus. Jesu. Propitiare Fluminensi Urbi tua prodigiosa Cruce quingentis Anni servatae”. In quanto all’indulgenza di Pio VI, si rileva: “Ed affine maggior Divozione si praticasse, e maggiore vi sia la concorrenza delli vicini Popoli per celebrare questa solennità fu similmente ottenuto dal Santo Padre in forma di Jubìleo il Tesoro delle Sante Indulgenze concesso a tutti i fedeli, che entro un giorno delli 8 prescritti a piacimento da scegliersi confessati e comunicati visiteranno la detta Chiesa, e supplicheranno il Signore secondo le formule usitate”. Il quinto centenario Ma anche la cronaca del quinto centenario è ricchissima di interessanti dati. Diremmo quasi giornalistica. “Il concorso fu sì numeroso dalle circonvicine parti di tutto il Litorale Ungarico, Austriaco, Vinodol, Colonie Camerali, Istria e Provincia del Cragno, che contansi ascendere a più di 60 milla, dimodo che appena furono sufficienti tanto li Sacerdoti, Ecclesiastici che Religiosi per suplire al numero dei Penitenti accorsi a tali funzioni, nei quali eziandio il Monsignor Prelato esaudì parecchi, pontificò per due giorni consecutivi, e la mattina in questo intervallo sotto la cantata solenne Messa ogni giorno da valenti Predicatori vi fu Discorso Italiano a riserva del Mercoledì, che fu in Allemano, ed il dopopranzo sempre Illirico, ma tutto bensì allusivi al Prodigio per animare vi è più alla Venerazione e Divozione tutti li Fedeli accorsi per conseguire li tesori che la Santa Madre Chiesa, quale provida mediante il Santo Padre in questa emergenza generalmente concedeva a tutti, che la visitarono”. “Dal Numero delle Sacre Particole distribuite a coloro che inter- vennero in questa Epoca nella sola Chiesa di Santo Vito, rilevasi, ne ammontino a più di 50 mila, a queste aggiungasi quelle che similmente si compartirono nella Collegiata Chiesa, di St. Rocco, di San Gerolamo, e Tersatto nonché nella Parrocchia delli P.P. Cappuccini, e si deduca il loro Numero totale. Quindi è, che se la predetta Funzione si avesse potuta continuare per un altro ottavario, certamente non si avrebbe avuto modo di soddisfarli. Tanta era la Folla del Popolo da tutte le Parti, che li Cancelli di Marmo delli Santuari delle Chiese di S. Vito e Collegiata furono affatto rotti, e rovesciati, oltre li Banchi, e Confessionali, dalli quali gli ultimi venivano trascinati colli Sacerdoti dagli urti ed affollamento dei penitenti: perciò a buona sorte fu la chiusa delle contumacie in tale incontro; poiché il Numero almeno di 50 mila Persone fu scemato di comparire dalle vicine Isole, se quelle fossero state di libera pratica; ciò non ostante non riesce di poca meraviglia che verun accidente sinistro per la calca accadè per tutto il tempo dell’ottavario nella detta Chiesa e quindi alla fine dello stesso il giorno 19, che fu l’ultimo il dopopranzo cantato il Salmo Ambrosiano con solenne processione assistita da questo Rev.mo Signor Arcidiacono, Venerabile Capitolo e Religiosi nonché accompagnato dal Governo, Magistrato e Cittadinanza con candele, Patrizi sotto il Baldacchino, ed altri con torcie accese e guardie Urbane in uniforme alli lati, fu fra numeroso Popolo riportata per fuori della città nuovamente tra continui sbari di mortaretti la Sacra Reliquia nella surriferita Collegiata, ove entrata fu riposta all’Altare, e data la Santa Benedizione col Venerabile, e così terminò la Funzione di tale Solennità con magnificenza, giubilo e decoro universale di tutti che la componevano. Ricolmi di rispettosa umiliazione in verso il Miracoloso Simulacro, in seguito di che per eternare la memoria di questa solennità celebrata in Fiume presso li Posteri, furono fatte distribuire delle Medaglie coniate in Rame parte durate coll’esposizione di una parte del Crocefisso, e dall’altra l’iscrizione del V. Secolo, che fu celebrato come già si disse in questa fedelissima Città sotto il Regno dell’Augusto Monarca Francesce II cui piaccia all’Altissimo di conservarlo per lunga serie d’anni alla felicità dei suoi Popoli”. Seguono le preghiere e le orazioni (per l’acquisto di numerose indulgenze, da recitarsi in ginocchio in particolar modo il venerdì, al suono della campana o tre ore innanzi l’Angelus) e le litanie in italiano e in croato. Dai contenuti di questo volumetto ogni lettore capisce quanto ai fiumani stessero a cuore già a quei tempi la fede e le tradizioni. Tanto quanto ci tengono ancora oggi coloro che non vivono più nella loro amata città. Per capirlo basta leggere le poche frasi che Alfredo Fucci ha allegato alla copia del breviario che ci ha fatto arrivare per posta. Le ha scritte in dialetto fiumano: “La mia mama non ghe xe più e, come succede nell’esodo, raminghi come semo, svodando el suo quartierin de affitto, se ingruma tute le robe che l’affetto ne consiglia de conservar. E se le mete in un scatolon che finisse in sufita. Poi, ogni tanto, te prende la nostalgia: e alora se va a sbisigar fra ste robe”. 4 storia e ricerca Sabato, 3 ottobre 2009 Sabato, 3 ottobre 2009 5 MOSTRE Nel bicentenario della loro istituzione, un’esposizione al Museo civico di Lubiana (visitabile fino al 31 ottobre) ripercorre le vicende delle Province illiriche (1809 — 1813) Napoleone disse: «Illiria sollevati». Contro Vienna L’imperatore francese «donò» agli Sloveni l’uso della propria lingua nell’insegnamento, l’organizzazione dei licei-ginnasi e, parzialmente, l’università di Kristjan Knez F ino al 31 ottobre prossimo, presso il Mestni muzej (Museo civico) di Lubiana, è possibile visitare la mostra “Napoleon rezhe Iliria vstan” (Napoleone dice Illiria sollevati), allestita in occasione del bicentenario dell’istituzione delle Province illiriche. L’esposizione s’intitola prendendo in prestito un verso della “Ilirija oživljena” – “Iliria oshivlena” nella grafia originale – cioè l’“Illiria rediviva”, del poeta ed erudito Valentin Vodnik, redatta per esprimere le speranze che nutriva nei confronti dei notevoli cambiamenti apportati dai Francesi nel breve periodo della loro amministrazione. Mutamenti che determinarono l’affermarsi di una prima forma di coscienza nazionale presso gli Sloveni della Carniola che furono accompagnati altresì dall’introduzione ufficiale della lingua slovena – anche se ancora solo parzialmente – negli uffici e soprattutto a livello scolastico. L’ode in questione era un omaggio a Bonaparte o meglio trasmetteva un sincero entusiasmo per il nuovo potere che stava offrendo a quel popolo le condizioni per uno sviluppo culturale e linguistico. La lirica però è soprattutto un inno alla storia slovena e alla patria, e il fulcro è dedicato in primo luogo al risveglio dell’Illiria, vale a dire a quella realtà statuale che a suo parere sarebbe esistita nel passato e successivamente scomparsa, quindi ridestata a nuova vita proprio dall’Imperatore. L’esposizione si svolge in una cornice ideale, in primo luogo perché Lubiana era la capitale della realtà territoriale voluta dai Francesi nonché per il fatto che proprio in tale città si trova un monumento – l’unico in Europa – dedicato a Bonaparte e alla sua azione politica nell’ambito delle Province illiriche medesime. Su siffatta testimonianza torneremo più in là. Attraverso un’accurata scelta dei materiali archivistici, delle opere d’arte e degli oggetti coevi, la mostra si sofferma in particolare sulla Carniola, evidenziando i caratteri del mutamento nonché il ruolo svolto dagli Sloveni che in quel frangente storico divennero protagonisti a tutti gli effetti. Un accorpamento di territori affatto diversi diventa una realtà di rilevanza geo-strategica Nel 1809 la “Grande armée” stava penetrando nei territori settentrionali dell’odierna Slovenia, sconfisse le forze militari austriache a Razdrto aprendosi così la via per Lubiana che si arrese il 23 maggio di quell’anno. Le unità francesi si riunirono poi a Wagram, non lungi da Vienna, e colà inflissero un duro colpo alle armi asburgiche. La corte viennese dovette intavolare le trattative di pace e dopo alcuni mesi si arrivò finalmente alla pace di Schönbrunn (14 ottobre 1809). In base a quelle clausole l’Austria dovette cedere la Carniola, la Carinzia occidentale e la Croazia a meridione della Sava. Assieme alle terre ex veneziaIl 13 ottobre del 1929, a Lubiana fu inaugurata una cone dell’Adriatico orientale già in suo possesso, Napoleone dette lonna di 13 metri d’altezza, in marmo di Lesina, realizzavita ad una realtà statuale particolare, nella quale fu incluso anta dall’architetto Jože Plečnik. Ai lati della stessa furono che il territorio dell’ex Repubblica di Ragusa, abbattuta proprio collocate le teste in bronzo dorato di Napoleone e dell’Ildai Francesi. La capitale fu fissata a Lubiana. Successivamente il liria quest’ultima rappresentata mediante il volto di una maresciallo Marmont, primo governatore, avrebbe annotato che ragazza, entrambe opera dello scultore Lojze Dolinar anziché quella città, sita vicino alla frontiera asburgica, avrebbe preferito Trieste in quanto annoverava una maggiore popolazione, ricchezza ed importanza. Le Province illiriche erano una sorta di accorpamento di territori e di regioni tra loro diversi e storicamente mai uniti il cui scopo era la costituzione di un baluardo contro l’Austria, doveCon la pace di Schönbrunn del 14 ottobre 1809 va rappresentare una sorta di marca a difesa del Regno d’Italia, Napoleone ottenne dall’Austria sconfitta una serie di e al contempo annoverava un’importanza strategica vuoi per le territori compresi tra le Alpi e le Bocche di Cattaro vie commerciali in direzione delle province balcaniche dell’Imche di lì a breve avrebbero formato una sorta di marpero ottomano vuoi perché avrebbe permesso il passaggio degli ca di frontiera tra il Regno d’Italia ed i possedimeneserciti francesi in previsione di ipotetiche campagne militari ad ti degli Asburgo, che permetteva ai Francesi di conOriente. La rilevanza geo-strategica non era affatto di poco controllare l’intero Adriatico ed i suoi commerci. Con il to, Napoleone, infatti, avrebbe esclamato che con il possesso di trattato in questione Vienna dovette cedere all’impequei territori “aveva un piede a Roma e l’altro a Costantinopoli”. ratore corso le importanti quanto strategiche regioni Quella creazione pertanto non era stata assolutamente il tentatiadriatiche. Oltre all’Istria, ossia alla Contea di Pisino, vo napoleonico di dare una patria agli Slavi del Sud situati tra la gli Asburgo dovettero lasciare le città di Trieste e di catena alpina e l’Albania, come, invece, molti avevano creduto. Fiume, il Monfalconese, l’intera Carniola, parte della Difatti è sufficiente segnalare che le Province illiriche non seguivano affatto una sorta di “confine etnico” e lo stesso territorio Carinzia (Villaco, Lienz e Sillian), una notevole pardell’odierna Slovenia non fu incluso nella sua interezza, poiché te della Croazia civile sino alla Sava e la cosiddetta Croazia militare che raggiungeva i confini della Boil confine con i possessi ereditari della Casa d’Austria era fissato sul fiume Sava. La convinzione della volontà francese di creare snia turca. Successivamente, invece, con l’inclusiouna nazione che abbracciasse le varie anime degli Slavi meridione di due cantoni tirolesi, l’ex Repubblica di Ragusa nali fu propagata in particolare agli albori del Novecento in con(fatta crollare da Bonaparte), dell’Istria e della Dalcomitanza con il presentarsi dell’idea jugoslava, o del trialismo, mazia – quest’ultime due già possedute dalla Francia che mirava alla trasformazione della duplice monarchia, creando –, furono istituite le Provincie illiriche note anche con un regno slavo la cui capitale doveva essere fissata a Trieste. Per il nome di Illiria. Come scrive lo storico zaratino Giuseppe Praga, sostenere siffatto progetto politico non di rado si rammentava l’esperienza francese intesa come un tentativo precorritore volto nella relativa voce per l’“Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti”, la loro costituzione era finaad unire gli Slavi meridionali per l’appunto. Le Province annoveravano una popolazione di circa due lizzata ad “erigere un antemurale per la difesa del Remilioni d’abitanti “(…) e si componeva d’Alemanni, d’Illirici, gno italico, arginare verso sud l’influenza e l’espand’Italiani e d’Albanesi, infine di tutti i paesi riuniti a Trieste. I sione dell’Austria e costituirsi un punto d’appoggio costumi vi erano varii al pari delle provincie, ed i prodotti quanper lo sviluppo della politica orientale”. to le località, e specialmente i loro costumi non hanno fra loro rapporto”, scrive il maresciallo Marmont, duca di Ragusa, nelle sue “Memorie”. Per quanto concerne la denominazione, va evidenziato che fu riportato in vita un epiteto arcaico, come era accaduto in diverse parti d’Italia, il cui intento era rimuovere l’attaccamento delle popolazioni ai precedenti regimi. Cimeli di un’epoca forse effimera ma che lasciò un segno indelebile Tra limiti e autonomie: uno status singolare Lo status delle Province medesime era alquanto singolare poiché furono sì annesse all’Impero francese ma al contempo non costituivano una sua parte. Inoltre, se da un lato esse erano soggette alla compagine imperiale, e pertanto utilizzavano lo stemma imperiale e la bandiera francese, dall’altro godevano di una certa autonomia e così, per esempio, i funzionari di quel territorio potevano rilasciare dei regolari passaporti. Un altro aspetto interessante è il fatto che i giornali, come la “Gazzette National” o “Le moniteur universel” riportavano le notizie provenienti da quella realtà nientemeno che nelle rubriche di politica estera. Per l’intellighenzia slovena l’effimera stagione francese rappresentò una sorta di “età dell’oro”, poiché, grazie alla loro politica, la lingua e la cultura slovene ebbero finalmente dignità ed un ruolo all’interno della società. Lubiana, oltre ad essere il capoluogo e a rivestire quindi un’importanza politico-amministrativa, divenne un centro di notevole importanza culturale che poggiava sulle esperienze maturate nel corso dell’età dei Lumi, che facevano presagire l’inizio di una nuova epoca e che la storiografia definisce con il termine di rinascita. Il “dono” francese si concretizzò con l’introduzione dello sloveno nell’insegnamento, nell’organizzazione dei licei-ginnasi e parzialmente dell’università. In pratica si assistette all’applicazione dei diritti linguistici elementari che gli Sloveni, nonostante la riforma scolastica di Maria Teresa, non avevano conosciuto. Gli anni dell’amministrazione francese furono però transitori e pertanto anche i risultati concreti furono modesti ossia appena abbozzati. Malgrado tutto ciò l’operato degli oltremontani fu idealizzato e, soprattutto dall’ultimo quarto del XIX secolo in poi, fu utilizzato nell’ambito degli scontri politico-nazionali, per sottolineare le ventate di novità, di democrazia e di uguaglianza introdotte dai Francesi. Siffatta rappresentazione era confacente alle battaglie condotte dai politici sloveni che si confrontavano con le autori- Antemurale per la difesa del Regno italico La cartina delle Province illiriche di conseguenza mancava una certa dimestichezza e, soprattutto, non esisteva una terminologia e un vocabolario adatti a cogliere la modernità introdotta in Carniola, come quella del Codice civile, ad esempio. Inoltre, i funzionari della burocrazia rimasero nella stragrande maggioranza dei casi gli stessi che prestavano servizio sotto la corona asburgica, pertanto la lingua d’uso rimase il tedesco. Un altro problema si riscontrò a scuola: infatti, non esistevano i volumi di testo e per ovviare a tale mancanza ci pensò Vodnik, che in breve tempo redasse diverse opere scolastiche che furono date alle stampe nel 1811. Nella seconda metà del XIX secolo s’iniziò a presentare gli anni delle Province illiriche come il momento della “liberazione nazionale” e di conseguenza si enfatizzava l’operato dell’entourage napoleonico. Nonostante tutti i limiti e l’effimera durata delle Province medesime, quell’esperienza lasciò un segno indelebile e una reminiscenza positiva. Tuttora la storiografia slovena sottolinea l’importanza che rivestì l’introduzione e l’uso dello sloveno, poiché avrebbe contribuito in maniera decisiva al successivo impegno teso a dare dignità a quell’idioma nell’ambito della cornice austro-ungarica. In base alle convinzioni di partenza i Francesi ritenevano che tutti gli Slavi meridionali parlassero una sola lingua e di conseguenza ritennero di estendere a tutta la popolazione slava l’insegnamento del serbo croato o, usando il termine dell’epoca, la “lingua illirica”. Una cattedra di “illirico” doveva essere istituita proprio a Lubiana; se essa non vide mai la luce lo si deve agli eruditi e filologi sloveni – in primo luogo Valentin Vodnik e Jernej Kopitar – i quali, grazie ai loro studi intrapresi già alcuni decenni prima, dimostrarono la specificità della loro lingua, evidenziando le sostanziali differenze con il serbo-croato. denaro suonante si aveva quasi la sensazione d’essere a Vienna o a Milano. Il centenario dell’istituzione delle Province illiriche fu salutato positivamente soprattutto a Lubiana, però non si poté andare troppo in là con i festeggiamenti a causa dei limiti imposti dalle autorità asburgiche. Nonostante questo i giornali sloveni dedicarono ampio spazio all’avvenimento, presentando l’importanza della parentesi francese in primo luogo per l’introduzione di uno spirito nuovo ma anche per il fatto si dovesse considerarla come foriera di futuri e alquanto felici cambiamenti. La carta stampata evidenziò il clima di libertà che il popolo Sloveno aveva conosciuto con il venir meno del giogo austriaco, per poi nuovamente perderla. Quel periodo storico era perciò utilizzato per esprimere l’auspicio nel vedere un cambiamento significativo in un momento in cui erano in corso le rivendicazioni nazionali, le cui istanze non sempre venivano prese in considerazione dal governo di Vienna. Il poeta Anton Aškerc, ad esempio, sulle colonne del giornale “Slovan” scrisse: “la storia slovena non deve mai dimenticare quanto di utile fece l’amministrazione di Napoleone in Illiria, e in particolare a Lubiana, nel promuovere il progresso, e non deve dimenticare nemmeno ciò che essa volle compiere. Il fatto è che i Francesi introdussero la nostra lingua madre più di quanto non avessero fatto i loro predecessori”. L’inizio della metamorfosi della «capitale» tà di Vienna per l’ottenimento di maggiori diritti nazionali. Di conseguenza il primo centenario dell’istituzione delle Province (1909) fu salutato con una serie di iniziative, mentre fu ostacolata l’erezione di un monumento che rimembrasse quella stagione. L’iniziativa si sarebbe concretizzata un ventennio più tardi. Se i pochi intellettuali colsero il nuovo corso introdotto dalle autorità giunte d’oltralpe come una novità di notevole importanza, diverso fu l’atteggiamento delle masse contadine, le quali, invece, videro nelle medesime solo un’accozzaglia assetata di denaro, che da subito impose una serie di gravami. Le reazioni furono decisamente violente e le insurrezioni non tardarono a scoppiare nelle campagne, per lo più della Slovenia meridionale, che si conclusero solo con il duro intervento militare francese. Lo spirito nuovo si scontra con i problemi Nella nuova realtà si riscontrarono anche non pochi problemi, in primo luogo nell’uso dello sloveno, che fino a quel periodo era esclusivamente la lingua del popolo, e usata per lo più in chiesa; Per la città di Lubiana quello fu l’inizio di una metamorfosi. Le trasformazioni erano iniziate già sul finire del XVIII secolo con l’abbattimento delle mura e l’assestamento delle strade. Agli albori dell’Ottocento si registrarono anche non pochi interventi che abbellirono il centro urbano, nel 1810, ad esempio, fu inaugurato il primo orto botanico, mentre l’ingegnere francese Blanchard progettò una passeggiata che fu realizzata solo successivamente dagli Austriaci. Contemporaneamente il giornale “Corriere Illirico” scriveva che chi aveva visitato la città solo due anni prima difficilmente l’avrebbe riconosciuta e aggiungeva che nel Il busto di Napoleone vedere tante persone, diligenze e Furono anticipatrici della Jugoslavia? Ma fu il 1929 l’anno delle importanti celebrazioni in occasione del 120.mo anniversario delle Province illiriche. In quella circostanza (13 ottobre), infatti, a Lubiana fu inaugurata una colonna di 13 metri d’altezza, in marmo di Lesina, realizzata dall’architetto Jože Plečnik. Ai lati della stessa furono collocate le teste in bronzo dorato di Napoleone e dell’Illiria quest’ultima rappresentata mediante il volto di una ragazza, entrambe opera dello scultore Lojze Dolinar. Sulla stele furono inoltre incisi i versi di Valentin Vodnik e di Oton Župančič in lode a Bonaparte. I giornali coevi parlarono dell’Illiria come di un’anticipatrice della futura Jugoslavia. Lo “Slovence”, invece, colse l’occasione per evidenziare la necessità di dare una maggiore autonomia agli Sloveni nell’ambito della corona dei Karađorđević. L’avvenimento, che i quotidiani definirono niente meno che una delle maggiori manifestazioni del popolo sloveno, in occasione di un’importante ricorrenza, aveva pure un notevole significato politico, in quanto fu utilizzata per sottolineare gli stretti legami con la Francia, nazione – ricordiamolo – con la quale, nel novembre del 1927, il Regno di Jugoslavia aveva firmato un patto d’amicizia e di cooperazione. La mostra, di dimensioni non eccessivamente ampie, documenta con particolare attenzione, e con un copioso numero di cimeli e oggetti di varia natura, giunti da un importante numero di sedi museali, biblioteche e collezionisti, la vita politica, economica, sociale culturale, religiosa e militare nella capitale delle Province illiriche. Nell’impossibilità di illustrare l’intero insieme delle anticaglie, della documentazione e delle opere d’arte esposte, segnaleremo esclusivamente una serie di oggetti che a nostro giudizio risultano tra i più interessanti e significativi. Al Museo civico di Lubiana sono state riunite testimonianze storiche di particolare importanza per cogliere le trasformazioni avvenute in Carniola e le ventate di novità che interessarono l’intera società. Un busto raffigurante l’imperatore Bonaparte (155 x 91 x 76 cm), realizzato da Lorenzo Bartolini e proveniente direttamente dal Louvre di Parigi è indubbiamente uno dei pezzi più considerevoli che si possono ammirare. Non meno interessanti risultano le carte geografiche delle Province illiriche, tra le quali segnaliamo la “Carte montrant les fonds de la baie de Piran”. Tra le opere d’arte esposte rammentiamo la tela di Robert Lefèvre raffigurante Napoleone in uniforme o il “Napoleone con figlio” di Joseph Lancedelli della prima metà del XIX secolo. Tra i documenti d’archivio molto interessante è la minuta originale del decreto della costituzione delle Province nonché le carte del trattato di Schönbrunn. Non mancano nemmeno gli avvisi, le pagelle scolastiche, i giornali che uscivano nel corso degli anni dell’amministrazione francese, come il “Télégraphe officiel” di Lubiana o il “Corriere Illirico” di Trieste. Tra i volumi ricordiamo un’edizione tascabile del Codice napoleonico o il catechismo in lingua slovena redatto da Valentin Vodnik. Vi sono poi le monete francesi in circolazione, i sigilli e le medaglie. Particolarmente ricco è altresì l’insieme degli arredamenti coevi, che hanno permesso ai curatori la ricostruzione di alcuni ambienti tipici dei primi anni del XIX secolo. Si evidenzia la presenza di uno specchio in legno dorato, la scrivania del barone Zois, tavolini e credenze, vari candelabri, tappeti e servizi da tavola oltreché oliere, zuccheriere, teiere, ecc, in argento. Non meno interessanti sono indubbiamente gli alveari a forma di soldato francese o le assicelle di arnia raffiguranti scene diverse: scontri militari tra Francesi e Austriaci, i contadini che cullano i soldati napoleonici oppure quella con il diavolo che rapisce Napoleone. Una sezione è invece dedicata all’inaugurazione del monumento dedicato alle Province illiriche, avvenuta nel 1929, con foto, cartoline, manifesti e giornali che riportano l’avvenimento. La realizzazione della mostra è stata possibile grazie al coinvolgimento di molte istituzioni, tra le quali non poche francesi, nonché di privati, che hanno prestato i cimeli al fine di rendere quanto più completa l’esposizione. All’iniziativa hanno collaborato: il Musée du Louvre di Parigi; l’Archives nationales de France, Site de Paris, di Parigi; il Musée Carnavalet di Parigi; l’Archives du Ministère des Affaires extérieures de France di Parigi; il Musée du Pays Châtillonnais di Chatillon sur Seine; il Musée National des châteaux de Malmaison & BoisPréau di Rueil-Malmaison; il Muzej in galerije mesta Ljubljane-Mestni muzej Ljubljana, la Narodna galerija di Lubiana, il Nadškofijski arhiv di Lubiana; la Narodna in univerzitetna knjižnica di Lubiana, il Sadnikarjev muzej di Kamnik; lo Zgodovinski arhiv Ljubljana; la Slovanska knjižnica di Lubiana; il Vojni muzej Logatec; lo Zgodovinski arhiv Celje; il Museo del mare “Sergej Mašera” di Pirano; il Pokrajinski muzej Celje; lo Slovenski šolski muzej di Lubiana, il Muzej krščanstva na Slovenskem di Stična; il Mestni muzej Idrija, Muzej za Idrijsko in Cerkljansko di Idrija; il Dolenjski muzej Novo mesto, i Muzeji radovljiške občine, Čebelarski muzej di Radovljica; il Loški muzej Šfofja Loka; il Medobčinski muzej Kamnik; il Koroški pokrajinski muzej di Slovenj Gradec; il Pokrajinski muzej Murska Sobota; la Univerzitetna knjižnica v Ljubljani; l’Arhiv Republike Slovenije, Slovenski filmski arhiv di Lubiana, il Narodni muzej Slovenije di Lubiana; il Posavski muzej Brežice; il Goriški muzej di Nova Gorica e lo Zavod za varstvo kulturne dediščine Slovenije, Območna enota Nova Gorica. Tra i privati ricordiamo: Jernej Sekolec, Zmago Jelinčič Plemeniti, Jana Valenčič, Saša Vuga, Franc Kersnik, Stanislav Južnič più altre due persone che desiderarono mantenere l’anonimato. 6 storia e ricerca Sabato, 3 ottobre 2009 La lapide rinnovata La lapide prima del rinnovo PILLOLE L’attività e la figura di due gemelli castuani nel quadro della multietnica I fratelli Bastian: una vita dedic di Daniela Jugo-Superina D al nostro punto di vista, il XIX secolo è stato un periodo che potremmo definire anomalo. C’è una parola, però, nell’espressione letteraria e artistica, che meglio di ogni altra potrebbe descrivere questo periodo: entusiasmo, o magari esaltazione. Esaltazione nella letteratura, esaltazione nella pittura, esaltazione nell’architettura, quasi a evocare tempi che furono. Va detto, però, che il XIX secolo è stato caratterizzato anzitutto da un’esaltazione nazionale. Scandagliando la storia medievale e dell’età moderna, scopriamo che la cosa più importante era l’appartenenza a un determinato ceto sociale. Nel XIX secolo, però, è l’appartenenza nazionale ad assumere il primato in questo senso. Nascono, così, nelle nazioni moderne, che aspirano a creare un proprio stato nazionale. Per animare delle masse popolari prevalentemente incolte – contadini, agricoltori e operai – ci voleva l’esaltazione. Le “vecchie nazioni” – gli inglesi e i francesi – avevano già da tempo il proprio stato. Le “nuove nazioni” – italiani e tedeschi – raggiungevano lo stesso obiettivo nella seconda metà del XIX secolo, dopo un lungo e sanguinoso processo di unificazione nazionale. Le “piccole nazioni” nascono prevalentemente all’interno dei grandi stati. Il più grande coacervo di popoli lo possiamo individuare nella Monarchia asburgica (dal 1867 Monarchia austro-ungarica). I movimenti nazionali scoppiati nel corso del XIX secolo danno vita alle “piccole nazioni”, grazie all’azione dei loro fautori, che in un primo momento sono di carattere culturale e poi anche politico. I confronti con i detentori del potere – che spesso si identificano con la maggioranza della nazione alla quale appartengono – erano a quel punto inevitabili. Nella Monarchia asburgica erano i tedeschi e gli ungheresi, nel Litorale gli italiani. In questo contesto storico possiamo inquadrare l’attività di due castuani, i fratelli gemelli Ivan e Mate (Matko) Bastian (Baštijan). Testimoni degli eventi del 1848 Nacquero il 3 settembre 1828 nel paesetto di Gornji Jugi, che successivamente venne denominato Baštijani. Il battesimo lo ottenere due giorni più tardi a Castua. La famiglia Bastian, in base ai criteri di allora, era ricca e distinta, cosa che ancor oggi può venir testimoniata dall’ingresso monumentale e dall’alto muro di cinta attorno al loro possedimento e alla casa natale. All’epoca non c’era ancora la scuola nella vicina Sveti Matej (oggi Viškovo), per cui le prime nozioni venivano date ai bambini dal prete Premuda. Non è dato a sapere se avessero frequentato la scuola elementare a Castua. Dal 1841 al 1846 frequentarono il ginnasio di Fiume ed entrambi vennero giudicati col voto “eminentes”. Ultimarono ancora due classi ginnasiali a Zagabria (1846-1848), e furono testimoni così di grandi eventi rivoluzionari. Le nuove idee nazionali li entusiasmarono. Dopo aver avuto una formazione teologica presso i noti seminari di Gorizia (1848-1851) e Trieste (1851-1852), presero i voti. Lavorano come catechisti e parroci in giro per l’Istria, e dal 1856 hanno dimora fissa a Trieste. Entrambi i fratelli prestano servizio come catechisti presso diverse scuole triestine, mentre Mate si trattiene a lungo all’istituito nautico e al ginnasio civico. La cerimonia d’inaugurazione della lapide ai fratelli Bastian nel 1930 ordine nell’attività risorgimentale dei croati istriani e del litorale. Mate Bastian era in primo luogo un poeta, anche se gli esperti concordano che durante il primo de- Mate, cuore e anima del giornale «Naša sloga» La circoscrizione Istria, con centro a Pisino e poi a Parenzo, faceva parte all’epoca di un insieme amministrativo più grande – il Litorale austriaco – il cui capoluogo era Trieste. Dal Compromesso del 1867, entra a far parte della metà austriaca della monarchia, la cosiddetta Cisleithania. Trieste era, come del resto anche oggi, un centro multinazionale e multiculturale. Oltre agli italiani, a Trieste vivevano e creavano sloveni, serbi, cechi, croati e altri ancora. A Trieste, i fratelli Bastian partecipano alla creazione del primo circolo riformista croato. Il risultato principale di questa azione era la fondazione del giornale “Naša sloga” nel 1870, con l’aiuto e il sostegno del vescovo Juraj Dobrila. All’inizio, il giornale usciva due volte al mese, poi settimanalmente e dalla fine del XIX secolo con scadenza bisettimanale. L’ultimo numero è uscito dalle stampe nel 1915. Il giornale ha avuto un ruolo di primo i dialoghi “Jurina e Franina”, e via di seguito. Non avendo mai voluto mettere in risalto il suo ruolo di redattore, allo stesso modo non ha mai voluto firmare i suoi articoli. Le lettere di Bastian, dalle quali si evince chiaramente che era stato proprio lui a concepire la politica redazionale di “Naša sloga”, sono state conservate. Da una lettera scritta al sacerdote Ernest Jelušić nel 1869, si apprende che Mate Bastian voleva dare al giornale il nome di “Istarska straža” (“La vedetta istriana”) e pubblicarlo a Fiume, aggiungendovi col tempo anche una parte in italiano. La lotta per la lingua croata nelle scuole Ivan Bastian cennio di uscita del giornale “Naša sloga” ne fosse stato il cuore e l’anima, scrivendo la maggior parte degli articoli, come “Pogled po svietu” (“Uno sguardo al mondo”), articoli politici, articoli sulle scuole, Le posizioni politiche di Mate Bastian erano vicine a quelle del vescovo Strossmayer, ossia al partito popolare croato, che si era fatto promotore dell’idea jugoslava. L’obiettivo principale di “Naša sloga” e di Mate Bastian era la lotta per la parità di trattamento della lingua croata in Istria e nel Litorale, con particolare riferimento alla necessità di una sua introduzione nelle scuole. Gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo erano gli anni di un intenso movi- Il dipinto di S mento risorgimentale italiano all’interno della monarchia, manifestantesi anche mediante un’insistente pressione volta all’uso esclusivo della lingua italiana nel Litorale austriaco. Il giornale si proponeva di istruire i contadini, motivo per cui scriveva in maniera semplice, ma allo stesso tempo pittoresca e spiri- storia e ricerca 7 Sabato, 3 ottobre 2009 La casa natale dei fratelli Bastian Alcune personalità dell’epoca all’inaugurazione della lapide nel 1930 Monarchia asburgica, tra entusiasmi, aneliti e movimenti nazionali di fine Ottocento ata al popolo, all’arte e alla fede “Naša sloga” comincia a pubblicare anche contributi letterari, poesie e novelle. Oltre all’espressione letteraria, nel giornale è molto presente il dialetto ciacavo, in particolar modo attraverso i dialoghi, scherzosi ma istruttivi, tra i contadini istriani Jurina e Franina. Bastian scrive questi dialoghi proprio nel vernacolo della sua terra, in ciacavo castuano. Il rimprovero ai contadini an Matteo nella chiesa di Viškovo tosa, degli avvenimenti principali nel mondo, in Europa e nella Monarchia austro-ungarica. Venivano pubblicati regolarmente articoli che proponevano l’introduzione di nuovi metodi di lavorazione della terra, dell’allevamento del bestiame, dando una serie di consigli utili per l’economia domestica in campagna. Ben presto L’opera poetica e letteraria di Mate Bastian, da lui considerata come missione di vita, è scarsamente conosciuta e piuttosto trascurata, e molte sue opere sono andate perse o risultano essere incompiute. Ha cominciato a scrivere poesie, in latino, ancora al seminario. Ben presto è passato alla sua lingua, il croato. Nella sua opera poetica è possibile notare l’influsso dell’epoca antica, di Gundulić, di Njegoš e Torquato Tasso. La sua prima poesia (“Liburnjanin, s vrha Učke na povratku u domovinu” – Un liburnico, dalla vetta del Monte Maggiore, al suo ritorno in patria) è stata pubblicata a Zagabria nel “Neven”. La maggior parte della altre sue poesie è stata pubblicata nel giornale “Naša sloga”, ma anche nell’“Obzor” di Zagabria e in altre riviste. Lui ha consapevolmente soffocato il suo L’ingresso e il muro di cinta attorno al possedimento della famiglia Bastian talento per una poesia profonda e contemplativa, sacrificandolo al bisogno di scrivere poesie patriottiche. Dovevano essere leggere, facilmente memorizzabili, quasi cantabili. Dovevano richiamare alla lotta per la propria lingua, per l’istruzione, per la legge e la giustizia. Nella poesia “Seljakom” (“Con il contadino”), pubblicata nel 1884, rimproverava ai contadini vittime degli usurai il loro silenzio e la mancata ribellione. Nella poesia “Istarskim hrvatskim roditeljima” (“Ai genitori istriani croati”) dello stesso anno, afferma che da ogni paese almeno un ragazzo dovrebbe partire per ottenere un’istruzione più elevata, di modo che l’intellighenzia italiana potrebbe venir affiancata anche da quella croata, ed entrambi potrebbero allora combattere per il progresso. Le poesie patriottiche di Bastian infierivano spesso sugli oppositori del risorgimento, esponendoli al pubblico ludibrio. In alcune sue elegie, però, possiamo notare un sentimento di tristezza e solitudine. È proprio da queste poesie che traspare il suo immenso talento. Delle altre sue opere (il dramma incompiuto “Zadnji kastavski kapetanì” – L’ultimo capitano castuano, poema comico sulla muratura della loggia di Laurana, il poema religioso-filosofico “Trsat” – Tersatto), sono conosciuti soltanto dei frammenti. Il talento pittorico di Ivan Anche Ivan Bastian era attivo nei circoli risorgimentali triestini, come deducibile dalla sua corrispondenza epistolare. Era un pittore di grande talento, anche se non risulta avesse frequentato qualche scuola d’arte. A Gorizia, ma particolarmente a Trieste, che all’epoca era un centro d’arte, ha avuto modo di vendere molte opere famose, per cui possiamo supporre che fosse autodidatta, assorbendo le proprie nozioni dall’osservazione. Quanto fosse stimato come conoscitore dell’arte pittorica, lo si intuisce dal fatto che procurava e stimava i quadri per il vescovo Strossmayer. In una lettera scritta da Ivan a Franjo Rački, gli ricorda che il vescovo gli aveva promesso una borsa di studio a Roma per perfezionare la pittura. Sembra che il suo desiderio sia rimasto irrealizzato. Non ha lasciato molte opere. Si tratta, prevalentemente, di quadri che oggi ornano gli altari di diverse chiese in Istria e nel Litorale. Va sottolineato in questo contesto il quadro di San Matteo, nell’omonima chiesa locale nella natia Viškovo, e poi San Nicolò a Kukuljanovo, Sant’Anna a Volosca, Sant’Antonio a Colmo, San Luca a Ricavazzo e San Sebastiano a Castua. Ha dipinto ancora San Girolamo e San Marco, però non è dato a sapere per quali chiese né dove si Matko Bastian potrebbero trovare oggi questi quadri. La sua arte pittorica potrebbe venir definita classicista-romantica. La tranquillità classicista e l’elevatezza dei personaggi trovano sistemazione in un ambiente pittoresco e colorito di stampo romantico. La bandiera per la Madonna Ivan Bastian ha dipinto anche la bandiera, andata persa, che i castuani portavano per anni durante i loro pellegrinaggi a Tersatto. Sulla bandiera erano dipinti da una parte Sant’Elena con la Croce, dall’altra la Madonna di Tersatto. Viene menzionato anche il ritratto del vescovo Strossmayer, ma non sappiamo dove si trovi e se fosse veramente esistito. Sono suoi anche i personaggi Jurina e Franina, disegnati per il fratello Mate e il giornale “Naša sloga”. Entrambi i fratelli sono morti a Trieste nell’arco di poco più di tre mesi, prima di compiere i ses- sant’anni. Per entrambi si è trattato di morte improvvisa. Mate è morto il 25 novembre 1885, Ivan l’11 marzo 1886. Nella triste circostanza della morte di Ivan, “Naša sloga” scriveva che Ivan e Mate erano venuti al mondo insieme, che avevano trascorso l’intera vita insieme, e che ora sono uniti anche nella morte e giacciono uno accanto all’altro nel cimitero triestino di Sant’Anna. Manca l’entusiasmo del XIX secolo Pur essendo stati sempre pronti al sacrificio, dediti al lavoro con grande spirito di abnegazione, col passare degli anni sono finiti praticamente nel dimenticatoio. Nonostante tutto, nel centenario della nascita era stata avviata l’iniziativa per affiggere una lapide-ricordo sulla loro casa natale. La lapide era stata scolpita dal noto insegnante castuano Milan Brozović. Vi troviamo tre simboli: il calice e l’ostia, un libro, nonché il pennello e la tavolozza. Scrive, inoltre, che la lapide viene posta “dal popolo con gratitudine”. La grande cerimonia si è tenuta a Baštijani il 18 maggio 1930. Nel settembre di quest’anno, il 2009, grazie all’impegno della Matica croata – sezione di Viškovo, la lapide è stata restaurata e nel corso di una modesta cerimonia, i presenti hanno voluto ricordare l’opera e il significato dei fratelli Bastian. Molti fatti relativi ai fratelli Mate e Ivan Bastian non ci sono noti. Alcune loro opere sono andate smarrite. Quelle esistenti non sono state sufficientemente studiate, trattate e men che meno valorizzate. Mate viene considerato da alcuni studiosi il primo poeta moderno dell’Istria, però non esiste nemmeno una raccolta di sue poesie. Ben poco si sa, invece, dei quadri di Ivan. A richiamarli alla memoria c’è soltanto il nome di qualche via. Oggi, quando ciascuno di noi avrebbe bisogno di un rinnovamento anzitutto morale, persone come i fratelli Bastian, che hanno dedicato la loro vita agli altri, sarebbero le benvenute. Sarebbe benvenuto anche l’entusiasmo del XIX secolo, con il suo desiderio di sapere e progresso spirituale, aspirando alla ricchezza dello spirito. Patetico? Forse. Realizzabile? Sì. 8 storia e ricerca Sabato, 3 ottobre 2009 «HISTRIA DOCUMENTUM» Preziosa pubblicazione bilingue, sloveno e italiano, curata da Dean Krmac La Capodistria secentesca nella pianta di Giacomo Fino Dalla prima pagina L’interesse è sì di natura scientifica ma al contempo è pure un omaggio al territorio di provenienza, non sempre al centro delle attenzioni da parte di coloro che a livello istituzionale dovrebbero tutelare e divulgare le ricchezze del patrimonio storico-artistico-architettonico delle cittadine costiere. La pianta di Giacomo Fino, consegnata al capitano e podestà di Capodistria Bernardo Malipiero, è una delle più conosciute rappresentazioni del capoluogo dell’Istria veneta della prima metà del XVII secolo, ed i motivi – come annota Krmac – sono indubbiamente la precisione con la quale è stata eseguita e poi perché è una delle più antiche riproduzioni in pianta della città giunte sino a noi. La raffigurazione permette di cogliere lo sviluppo urbanistico – che dall’epoca romana all’età moderna aveva conosciuto una continuità nell’antropizzazione dello spazio insulare – e una particolare attenzione è rivolta al tessuto urbano e allo sviluppo della cinta muraria. La mappa fu eseguita a seguito della guerra di Gradisca, conflitto che aveva devastato buona parte del territorio istriano, in primo luogo le zone di confine tra la Repubblica di Venezia e la Casa d’Austria, mentre le cittadine marittime furono oggetto degli assalti uscocchi. Quindi aveva una finalità pratica. “Il disegno a penna, di elevata fattura, non si limita pertanto al solo elenco dei contenuti topografico-urbani più rilevanti, quali le strade, i piazzali, i principali edifici pubblici e religiosi nonché le porte e le torri, ma si estende anche ad una dettagliata descrizione dell’apparato di difesa per l’appunto. Mentre fuori le mura, oltre alle paludi, esso tiene soprattutto conto dei diversi luoghi di approdo di quello che è stato all’epoca il capoluogo e maggiore centro culturale della penisola”, leggiamo nella presentazione del curatore. Krmac rileva ancora che la riproduzione in questione viene proposta “(…) in un periodo in cui i caratteri architettonici del centro storico stanno cambiando in modo piuttosto repentino mentre quelli to- ponomastici sono oramai passati in quasi completo disuso”. Il contributo di Salvator Žitko Il volumetto è accompagnato dallo studio di Salvator Žitko, “Capodistria nella pianta di Giacomo Fino del 1619”, ossia una versione abbreviata e riveduta di un contributo che l’autore aveva pubblicato nel 1989 sulla rivista “Kronika”. Come è messo in evidenza, ad alcuni anni dal termine della guerra degli Uscocchi le cittadine istriane presentavano gli evidenti segni della decadenza, pertanto sia i porti sia i tratti murari necessitavano di urgenti lavori di consolidamento. Per far fronte a siffatta situazione la Repubblica inviò in Istria, già all’inizio del 1618, il provveditore Antonio Barbaro e l’ingegnere Camillo Cattaneo con il compito di esaminare gli approdi siti lungo la costa occidentale della penisola. Nel caso specifico di Capodistria, il 25 maggio 1619 il podestà Bernardo Malipiero gli arrivò l’ordinanza di provvedere al rifacimento delle mura del perimetro urbano. Al contempo molto probabilmente dovette ricevere pure la proposta di realizzare un disegno concernente la piantina della località. Il podestà medesimo si rivolse all’ingegner Giacomo Fino e gli commissionò l’ordine; la mappa fu presentata il primo agosto di quello stesso anno. Grazie alla medesima, alla fine di settembre, dalla città lagunare giunse un decreto con il quale si riteneva necessario dare una nuova forma alla cinta muraria, che in parte era addirittura crollata. Poiché nel capoluogo dell’Istria veneziana non si registrò alcun intervento, l’8 gennaio 1620 il Senato sollecitò l’avvio dei lavori. Lo studioso passa quindi ad analizzare gli edifici rappresentati da Giacomo Fino, che in taluni casi appaiono nelle forme di un tempo, come, ad esempio, il Duomo dell’Assunta raffigurato nella sua pianta romanica con le tre absidi che danno sul Brolo. Le ristrutturazioni avvenute nel XVIII secolo, infatti, contribuirono a cancellare la forma originaria, con un pro- lungamento della chiesa in direzione est, mentre la parte frontale era stata allargata sino al campanile già nel corso del XV secolo contribuendo così a ridurre notevolmente l’area della piazza. Tra gli altri edifici di particolare importanza e segnalati da Fino rammentiamo l’ospizio di San Nazario sito nei pressi della porta della Muda, laddove tuttora si trova la chiesa di San Basso del XVI secolo. Žitko annota ancora che “buona parte dello spazio cittadino era occupata oltre che dalle piazze e dalle vie anche dai complessi monasteriali e dagli edifici sacrali. Fino ha segnato queste costruzioni in modo alquanto schematico anche se in maniera piuttosto coerente. Sulla sua pianta vengono rappresentati 24 chiese nonché 7 monasteri a testimonianza che Capodistria, oltre che sede vescovile, rappresentava un importante centro ecclesia- stico e monastico dell’Istria” (p. 28). Grazie alla pianta in questione otteniamo delle informazioni utili sul sistema difensivo del centro giustinopolitano. La parte delle mura tra la Porta Isolana e la Porta di Bossadraga, ad esempio, annoverava una torre quadrangolare, le difese proseguivano poi in una forma ad arco teso che lambiva il mare e volgeva verso sudest, mentre la parte urbana compresa tra Porta Bossadraga e Porta San Pietro era difesa addirittura da quattro torri. A meridione di quest’ultima era ubicata la “Torre della munition”, alla quale seguivano fino a “Porta Ogni Santi” altre due strutture. “Accanto alle due porte si aprivano altrettanti porticcioli di pescatori, funzionali per la parte meridionale della città. Da qui la cinta scorreva in linea retta fino alla Porta della Muda, dove, fuori dalle mura, un ampio spiazzo era stato adibito all’addestramento militare. Qui i tiratori cittadini (bombardieri) si esercitavano nell’uso di diverse armi, per cui questo spazio veniva chiamato Bressaglio” (p. 33). Attraverso il suo disegno, Giacomo Fino evidenzia che nei primi decenni del XVII secolo l’intero specchio di mare prospiciente la parte meridionale dell’isola era già impaludato. Il fango ammassato in gran copia dai fiumi Risano e Fiumisel (Cornalunga) impediva ormai addirittura la navigazione e di conseguenza con il passare del tempo Capodistria iniziò a perdere l’importanza di città insulare fortificata. Tra gli altri contributi presenti nella pubblicazione ricordiamo la trascrizione della legenda e l’elenco dei nomi nonché la scheda della fonte, curati rispettivamente da Matej Župančič e Deborah Rogoznica. Kristjan Knez Intramontabile fascino delle vicende descritte da Omero Scoperti i resti di una coppia dell’età della guerra di Troia Alcuni archeologi hanno trovato nell’antica città di Troia, in Turchia, i resti di un uomo e una donna che si crede siano morti nel 1.200 a.C., nell’era della leggendaria guerra narrata da Omero. Lo ha reso noto un importante professore tedesco di archeometria dell’Università di Tubingen. Ernst Pernicka, che dirige gli scavi nella Turchia nordoccidentale, ha spiegato che i corpi sono stati rinvenuti vicino ad una linea di difesa all’interno della città costruita nella tarda età del Bronzo. La scoperta potrebbe fornire nuove prove a conferma che la zona bassa di Troia a quell’epoca era più grande di quanto si pensasse precedentemente, cosa che modificherebbe la percezione degli studiosi della città dell’”Iliade”. “Se sarà confermato che i resti sono del 1.200 a.C., significa che risalgono al periodo della guerra di Troia. Stiamo conducendo un test di datazione del radiocarbonio, ma la scoperta è elettrizzante”, ha detto Pernicka. L’antica Troia, situata nella parte nordoccidentale dell’attuale Turchia, alla bocca dello stretto dei Dardanelli, non lontano da Istanbul, è stata riportata alla luce intorno al 1870 da Heinrich Schliemann, imprenditore e archeologo tedesco che ha riscoperto la città ventosa descritta da Omero. Pernicka ha è stato accertato che gli oggetti di ceramica trovati vicino ai corpi – a cui mancava la parte inferiore – risalgono al 1.200 a.C., ma ha aggiunto che la coppia potrebbe essere stata sepolta 400 anni più tardi in sito di quella che gli archeologi chiamano Troia VI o Troia VII, rovine diverse da Troia. Decine di migliaia di persone visitano ogni anno le rovine di Troia, dove, tra gli scavi, si erge un’enorme replica del famoso cavallo di legno. Anno V / n. 43 del 3 ottobre 2009 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić Collaboratori: Daniela Jugo-Superina, Kristjan Knez e Roberto Palisca Foto: Daniela Jugo-Superina, Kristjan Knez, archivio e internet La pubblicazione del presente supplemento, sostenuta dall’Unione Italiana di Fiume / Capodistria e dall’Università Popolare di Trieste, viene supportata dal Governo italiano all’interno del progetto EDITPIÙ in esecuzione della Convenzione MAE-UPT N° 1868 del 22 dicembre 2008, Contratto 248a del 18/10/2006 con Novazione oggettiva del 7 luglio 2009