ANNIVERSARI «HISTRIA DOCUMENTUM»
La Capodistria secentesca
nella pianta di Giacomo Fino
di Kristjan Knez
C
trario, valorizzando proprio il
documento, inteso come elemento irrinunciabile per ricostruire e
cogliere i tempi andati. “Pianta
di Capod’Istria di com.ne dell’ill.mo sig.r Bernardo Malip.o
Podestà e Cap.o P.o agosto
MDCXIX disse.a da Giacomo
Fino” è il titolo della pubblicazione bilingue, sloveno ed italiano – curata da Dean Krmac, “Histria documentum I” – nonché
dell’omonima fonte conservata
all’Archivio di Stato di Venezia
(Senato Mar, filza 223), che in
occasione del 390.mo anniversario della sua realizzazione è stata
presentata a Capodistria dalla Società umanistica Histria con sede
proprio nella città di San Nazario. L’iniziativa, indubbiamente
positiva e pregevole, merita un
plauso in particolare in quanto ha
proposto al pubblico la riproduzione della pianta medesima accompagnata da un
agile quanto interessante
volumetto in cui si analizza la fonte.
A nostro avviso,
il progetto, che è
stato accolto con
interesse, nonostante il periodo
estivo, si annovera a pieno titolo nelle iniziative tese a
valorizzare il
passato delle
nostre contrade
e si inserisce appieno negli studi
di storia patria.
Segue a pagina 8
Fa sempre piacere trovarsi di fronte a un progetto che valorizza o semplicemente fa conoscere al pubblico, possibilmente quello più vasto, una parte del nostro passato. Così come alle
volte proviamo gusto nel rispolverare le vecchie cartoline per
vedere com’eravamo, così si prova un certo fascino nell’andare a studiare com’era, anni o secoli fa, la città in cui viviamo
oggi. Lo hanno fatto per noi Dean Krmac e la società umanistia Histria, proponendo in versione bilingue italiano-slovena la
pianta di Capodistria di Giacomo Fino, del 1.mo agosto 1619. Ne
parla in apertura Kristjan Knez, un laureando in Storia, irrimebiabilmente – intendiamoci, poi noi fortunatamente – appassionato delle vicende istriane, anzi giuliano-dalmate. E non solo.
La firma di Knez torna nelle pagine centrali (4-5) per illustrare
un’epoca, descritta nell’ambito di una mostra allestita a Lubiana, quella delle Province illiriche. Fu un periodo significativo,
soprattutto forse per la maturazione del risveglio nazionale sloveno. E di movimenti nazionali si occupa, sebbene solo in parte,
anche Daniela Jugo-Superina, che illustra la poliedrica attività dei gemelli Bastian (pp. 6-7). Di tutt’altro argomento, invece,
il contributo di Roberto Palisca (pp. 2-3), che si inserisce però
nel contesto delle iniziative e degli articoli volti al recupero dei
numerosi e affascinanti tasselli del nostro patrimonio. Riaprendo le pagine di un breviario del 1896, Palisca riscopre una delle
“fortune” di Fiume: quella di essere stata protetta dai suoi santi
e dal “Miracoloso Crocefisso”. Buona Lettura
DEL POPOLO
storia
e ricerca
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om’è noto le origini della
storiografia istriana erano vincolate per lo più
all’analisi della dimensione urbana. Lo studio della storia e
delle espressioni culturali delle città rappresentò l’interesse
precipuo di una folta schiera di
ricercatori e proprio grazie a siffatta curiosità intellettuale – dettata anche dalla valenza che l’indagine del passato assumeva sul
versante del confronto nazionale
– annoveriamo una notevole bibliografia, in molti casi ancora
fondamentale e imprescindibile.
I saggi e le pubblicazioni in generale, usciti tra la fine del XIX
e i primi decenni del XX secolo,
rappresentano tuttoggi dei punti
fermi in quanto si basano sulle
fonti dei più diversi archivi, i
quali offrono elementi di prima
mano sugli aspetti più disparati della penisola. La ricerca dei
documenti e la loro pubblicazione rappresentavano, infatti, uno
degli obiettivi primari degli studiosi, di conseguenza uscirono
copiose raccolte che diffusero
materiali altrimenti confinati nei
fondi archivistici e non sempre
di facile consultazione. Tale lavorio rifletteva inequivocabilmente lo spirito con cui operavano gli storici di quel periodo, profondamente consapevoli
dell’importanza del documento.
Con il passare dei decenni, però,
s’iniziò a riscontrare vieppiù
un disinteresse per l’edizione a
stampa delle fonti e attualmente non di rado escono lavori storiografici che sovente non si ba-
sano affatto sullo spoglio della
documentazione inedita, anche
su argomenti per i quali esiste
un’abbondante messe di fonti
negli archivi, e che in molti casi
nessuno ha consultato, o lo ha
fatto solo parzialmente. Ormai,
anche a livello universitario,
specie con la Dichiarazione di
Bologna e l’introduzione del cosiddetto “nuovo ordinamento”,
le tesi – in particolare quelle di
primo livello – nella stragrande
maggioranza dei casi sono prodotte senza aver visto né un documento né un archivio. Eppure
il lavoro dello storico si fonda
in primo luogo sull’analisi critica delle fonti nonché sull’utilizzo di materiali tra i più eterogenei, inclusa la bibliografia. Tutto
ciò rappresenta un inconveniente, perché non pochi si laureano
in storia ma non tutti hanno avuto modo di conoscere il lavoro
d’archivio. Quest’ultimo sarà
probabilmente poco popolare in
quanto richiede tempo, fatica,
dedizione, l’applicazione delle conoscenze acquisite ed una
certa abilità a districarsi tra le
“vecchie carte”, e poi non sempre, malgrado l’impegno investito, i risultati sono dei migliori, poiché la ricerca d’archivio di
per sé è “imprevedibile” e non di
rado riserva piacevoli sorprese o
amare delusioni. Però dovrebbe
rappresentare un passaggio obbligatorio per ogni storico.
La digressione era doverosa
per illustrare lo stato delle cose
sul versante degli studi storici e
anche per parlare di una recente ed interessante iniziativa che,
invece, si è mossa in senso con-
IN QUESTO NUMERO
An
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V
• n.
43 • Sa
009
bato, 3 ottobre 2
Sabato, 3 ottobre 2009
MONUMENTI Cenni storici sul Crocifisso che si venera nel capoluogo quarnerino e che sa
«Terra Fluminis Sancti V
Ne parla un prezioso volumetto stampato nella Tipografia di P. Battara e conserv
di Roberto Palisca
N
on a caso, nel lontano passato, il capoluogo del Quarnero
veniva chiamato “Terra Fluminis Sancti Viti”. Tutto a quei tempi, a Fiume, era all’insegna del suo
principale protettore, San Vito. La
sua immagine, con il ramo di palma
in una mano e nell’altra la città, era
impressa nei cuori della popolazione, ma anche sui timbri e sui sigilli
municipali. Le navi battevano la sua
bandiera, i portoni delle case venivano abbelliti con la sua effigie, la sua
figura compariva sulla colonna di
pietra sulla quale sventolava lo stendardo della Città.
In epoca medievale la chiesa in
cui i fiumani lo veneravano era una
costruzione di piccole dimensioni,
a una sola navata. Nel 1599 Fiume
viene colpita duramente da un’epidemia di peste. La città si ritrova
con la popolazione letteralmente decimata. Riesce a riprendersi soltanto
all’inizio del XVI secolo. Fiume si
ripopola e con la ripresa economica iniziano a rifiorire pure le iniziative culturali. Sono gli anni in cui i
Gesuiti, giunti in città già nel 1540,
riescono ad ottenere dalle autorità di
allora, nell’odierna Cittavecchia, la
proprietà di un ampio spazio presso
le antiche mura della città. È quello del rione detto delle Zudecche,
dove sorge l’antica chiesetta di San
Vito. La Compagnia di Gesù chiede
di erigere un convento, un seminario e una nuova chiesa. Le autorità
acconsentono, a patto che quest’ultima sia consacrata a San Vito, che il
15 giugno di ogni anno, in occasione
della ricorrenza patronale, vi si svolga la festa già a quei tempi tradizionale, che il Comune abbia il diritto
di usare le campane per annunciare
morti, incendi e pericoli di attacchi
nemici e di svolgere in quella chiesa le funzioni consuetudinarie, quali
il rito del giuramento di ogni nuovo
Capitano della Città e la processione
del perdono. Ma impongono anche
un’ultima condizione: la Chiesa (a
differenza di quanto succede oggi)
deve restare aperta alla devozione
del popolo verso il miracoloso Crocefisso fino al suono della seconda
Ave Maria.
L’edizione «pocket»
della M. Polonio
Balbi del 1896
Di quanto stesse a cuore a tutti i
fiumani la devozione a quel Cristo
in croce che tutt’oggi impreziosisce
e rende unico l’altare principale della Cattedrale fiumana, e dal cui costato, secondo un’antichissima leggenda, nel 1296 sgorgò sangue, gli
archivi sono ricchi di testimonianze. Ne parla con dovizia di particolari anche un libriccino pubblicato a
Fiume nel 1896 in formato che oggi
chiameremmo tascabile, dalla Premiata Libreria editrice M. Polonio
Balbi. Un volumetto del quale vi riproponiamo qui in parte il contenuto, grazie a una copia che ci è stata
inviata in redazione da Alfredo Fucci, uno dei tanti fiumani esuli che ancora oggi conservano con gelosia,
ma anche con una punta d’orgoglio,
tutto ciò (e spesso è molto poco) che
nonni e genitori sono riusciti a portarsi appresso lasciando la loro città
alla fine della Seconda guerra mondiale o nei tristi anni dell’immediato dopoguerra. È un libriccino di 56
pagine, intitolato “Brevi notizie in-
torno al Miracoloso Crocifisso che
si venera nel celebre santuario di
S. Vito nella libera Città di Fiume”,
stampato, come dice la scritta che
compare in prima pagina sotto questo lunghissimo titolo e sotto al logo
della ditta, dalla Tipografia P. Battara (di proprietà, supponiamo, di Pietro Battara, uno dei figli di quella
Marina Battara, vedova di Antonio
Luigi, che agli inizi dell’Ottocento
fu proprietaria della prima stamperia di Zara, le tipografie della quale
sfornarono all’epoca tantissimi libri
sta, coperta dalla base della croce. E
al di sopra dei tetti delle minuscole
case svettano tre campanili: sono
quelli del Duomo, della Cattedrale
e della chiesa di San Gerolamo. La
didascalia dice: “Vero ritratto del
Miracoloso Crocifisso che percosso
da un giuocatore l’anno 1296 sparse copioso sangue e questo s’adora
nella città di Fiume nella Chiesa di
S.Vito”. Ma veniamo a ciò che si
dice nella prefazione, in cui si accenna ripetutamente a “tempi pericolosissimi”:
onoriamo cogli omaggi della più
fervorosa pietà Gesù Crocefisso ed
il Suo S.S. Cuore. Corriamo dunque
supplichevoli a Gesù Crocefisso ed
al Suo sacratissimo Cuore, affinché
Ci dia forza di resistere ad ogni tentazione e pericolo e ci accolga nel
suo Cuore divino, specialmente ora
in cui corrono tempi pericolosissimi
e disastrosi: poiché emissari di Satana, veri apostoli di incredulità e
di libertinaggio, colla potenza della parola, col mezzo di una stampa
libera e sfrenata, e con ogni manie-
ne 1296 (come attesta la tradizione) quando certo Pietro Lonzarich
si pose a giuocare alle carte con due
altri suoi compagni innanzi il simulacro del crocefisso Gesù, e perché il
giuoco non gli andava a verso, contrariandogli la sorte alle di lui brame
s’arrabbiò in guisa tale, che presa
furiosamente da terra una pietra, la
scagliò contro quell’adorabile Crocefisso cui venne a colpire nel lato
sinistro. Ma cosa lagrimevole e orribile ecco miracolo! Dal percosso
lato, come fosse corpo vivo, scaturì
copioso il sangue. Né un tal delitto
poteva restar inulto; dappoiché apertasi in un baleno la terra, quasi sdegnata di sostenere uomo sì perverso,
ingoiò il tristissimo, lasciandone al
di fuori la sola mano destra, colla
quale l’empio aveva percosso la sacra effigie, come corpo del delitto e
testimonio dell’esecrando misfatto
alle più severe vendette dell’umana
giustizia”.
Sangue che finì pure
a Pola e Roma
La riproduzione della litografia
La copertina del libretto
anche a Fiume, oltre che in quasi
tutte le principali località della Dalmazia).
Le litanie bilingui
Ma veniamo ai contenuti di questo interessante volumetto. Si tratta
di un breviario uscito dalle stampe
in occasione del sesto centenario del
miracoloso Crocefisso di San Vito,
celebrato a Fiume dal 30 aprile al 3
maggio del 1896. Ciò che cade immediatamente nell’occhio a chi lo
sfoglia anche in maniera superficiale, è che è scritto in parte in italiano
e in altra parte in latino e che contiene pure delle preghiere in lingua
croata. Si tratta delle litanie, al cui
capitolo si rileva che “si dicono
ogni terza Domenica del mese,
nonché la settimana di passione, come d’uso antico”.
In seconda pagina la riproduzione di una litografia
che raffigura il miracoloso
Crocefisso e in prospettiva,
dietro alla Sacra croce, che
domina in primo piano, una
minuziosa panoramica su
Fiume, nella quale lo scrupoloso artista che la ritrasse, ha raffigurato tantissimi
dettagli. Nell’angolo a destra si intravedono il colle e
il Castello di Tersatto. Dietro alla figura del Cristo invece, illuminati dai raggi irradiati dalla sacra immagine di
Gesù, il colle del Calvario, con
in cima le tre croci e, in basso il
porto della Fiume di quegli anni:
dietro ai velieri, ai mercantili e alle
piccole barche, le antiche mura della città. La Torre civica si intravede
soltanto, perché parzialmente nasco-
“La ineffabile bontà del Signore
in questi tempi (sotto ogni riguardo
pericolosi alla fede, alla pietà, ai costumi) consola la Sua chiesa donandole una preziosissima divozione
che si propaga per singolar beneficio del Cielo fra il popolo Cristiano; apporta una elettissima copia
di grazie e di benedizioni celesti,
accresce la divozione colla quale
La palla
di cannone
ra di seduzione e di insidie spargono
non solo nelle città, ma ben anche
nei villaggi, massime corrotte, pestiferi errori, e dottrine riprovate e
condannate dalla Chiesa. Intanto i
deboli i tiepidi e specialmente gl’incauti giovinetti bevono alle fonti avvelenate dell’errore, corrompono i
loro cuori, e miseramente trascinano innumerevoli anime all’eterna
dannazione; per cui raccomandiamoci a Gesù Crocefisso ed al suo
divin Cuore, affinché ci offra pronto ed efficace rimedio, per estirpare
i mali, che affliggono la società e la
chiesa”.
La gran confusione
con le... maiuscole
A quest’introduzione segue
un “ragguaglio storico” sul
miracoloso Crocefisso scritto
in latino, quindi la traduzione in italiano. A proposito
di lettere iniziali maiuscole
e minuscole, anche allora
chi si occupava di stampa
faceva evidentemente gran
confusione. Lo deduciamo
dal fatto che nel breviario
diverse parole, tra le quali
“miracoloso”, “crocefisso”,
“croce”, “santa” e “fiumani”, appaiono scritte di volta
in volta in tutte le possibili varianti. Motivo per cui noi qui
le riportiamo scritte come compaiono nel testo originale. Ecco
quanto dice:
“Questo Crocefisso di legno
si trovava nel secolo XIII avanti il
tempio di S. Vito, tenuto in grande
rispetto dai cittadini di Fiume. Correva l’anno della nostra Redenzio-
“I cittadini commossi ed in specie il Prefetto della città. barone de
Rauber – continua il racconto – accorsero tantosto a raccogliere con
somma riverenza il prodigioso Sangue che grondava dal piagato Crocefisso e quanto si raccolse, fu deposto nell’insigne chiesa collegiata di
questa città, ove una parte si conserva in una fiaschetta fra le reliquie del Duomo, l’altra nella chiesa
di Pola sotto il cui vescovato dipendeva in quel tempo la città di Fiume,
ed infine una parte fu spedita anche
a Roma. Il prezioso sangue, come
pure la pietra colla quale fu percosso
il miracoloso crocefisso consopravi
l’inscrizione “Hoc lapidis ictu percussus fuit crucifixus 1296” viene
ogni anno il giorno del giovedì e venerdì santo esposto alla pubblica venerazione sull’altare maggiore della
chiesa di S. Vito”.
Quanto al destino del sacrilego, “l’empio fu processato e la sua
mano venne pubblicamente abbruciata. Per memoria del fatto poi fu
appesa una mano di bronzo con la
rispettiva iscrizione sotto ai piedi
dello stesso Crocefisso, ed il sasso
con cui fu ferito, vedesi ancora oggidì attaccato al lato sinistro. Si scorgon di più al presente alquante goccie vivaci di sangue intorno alla prodigiosa piaga”.
Il sacro Crocefisso, che fino a
quel giorno stava “sopra un muro
della strada”, fu per venerazione
portato in una piccola chiesetta in
cui… “stette fino all’anno 1638,
nel qual tempo dovendosi demolire
quella piccola chiesa per fabbricare
la chiesa di S. Vito, quale ora l’abbiamo, fu dal Comune concesso ai
Gesuiti che il miracoloso Crocefisso
fosse con solennità trasportato alla
vicina chiesa di S. Rocco (purtroppo anche quella abbattuta nda). Il
che fu eseguito nel giorno 19 Aprile
1638. Intanto demolita quella piccola chiesa, il 15 Giugno 1638 veniva
posta la prima pietra del tempio di S.
Vito, sulla quale in principio fu così
scritto”: D.O.M., JESU CHRISTO
CRUCIFIXO ecc.”
“Nel 1659 – si spiega poi al
lettore – essendo stato in qualche
modo compiuto l’Altar maggiore,
fu ivi trasportato il famoso crocefisso dalla Chiesa di S. Rocco. Poi
dovendo farsi l’altar Maggiore tutto
in marmo, fu il crocefisso collocato
Sabato, 3 ottobre 2009
alvò la città dalle varie (ma ahimè non tutte) intemperie
Viti»: miracolata
vato con tanta nostalgia dall’esule Alfredo Fucci
in un altare leterale. Compiuto l’altar
Maggiore, nel 1712, il 14 Settembre,
giorno dell’Esaltazione della croce,
vi fu posto, il vetusto crocefisso,
dove rimane tutt’ora esposto alla venerazione del pubblico”.
Salvi da pirati, peste,
terremoto e Francesi
“Coll’andar poi dei secoli – apprendiamo – fu grande la divozione
alla miracolosa effigie. E ben a ragione. Quasi di continuo i Fiumani
risentirono i favori di questa Santa
Croce; più volte – ci rassicura l’autore del testo – furono allontanati i
pericoli, fugate le malattie e superate calamità private e pubbliche.
Alla metà circa del secolo XV p.e.
i pirati Veneti, infestissimi alle vicine isole, armarono moltissime navi,
coll’intenzione di devastare Fiume.
I cittadini ricorsero alla S. Croce,
ed i pirati si ritirarono, non avendo
arrecato danni di conto. Nell’anno
1599 essendo afflitte queste regioni
da gravissima pestilenza, infierendo
sempre più il morbo, apparve nell’aria tra il monte Calvario e il monte di Tersatto il segno della croce di
color bianco, la quale spiccatasi dal
monte di Tersatto, con soave moto
si avviò verso la città di Fiume, ove
si fermò circa mezz’ora, da tutta la
gente molto ben veduta ed osservata e che svanendo dagli occhi loro, li
lasciò attoniti e stupefatti quasi fuor
di sé stessi per il miracolo veduto,
implorando misericordia a Dio ed
alla Vergine. I Fiumani allora istituirono feste nella Chiesa del Crocifisso e si obbligarono per voto alla B.
Vergine di Tersatto; ciò fatto in quell’istesso giorno cessò la pestilenza”.
Ma, secondo le credenze, il miracoloso Crocefisso della Cattedrale di San Vito non salvò Fiume e
i fiumani soltanto dalle epidemie.
“Più volte scosso il suolo, essendo
per crollare gli edifizi, ricorrendo i
Fiumani alla s. Croce, ebbero propizio Iddio. Né si deve passare sotto
silenzio ciò che accadde al cominciar del presente secolo. Scoppiata
nell’anno 1813 la rivoluzione contro i Francesi, che volevano impossessarsi delle nostre coste, il prefetto
dell’Illirio Marmont spedì a Fiume
un forte presidio e comandò venisse devastata la città coll’incendio e
decimati i cittadini. Spaventati questi, ricorrono alla sicurissima loro
difesa. Ed ecco che i Francesi, notte tempo, improvvisamente si ritirarono”.
L’indulgenza di Pio VI
Un’altra parte del libriccino,
uscito come dicevamo, in occasione del sesto centenario del miracolo, riferisce con dovizia di dettagli
dei festeggiamenti che ebbero luogo a Fiume cent’anni prima, quando papa Pio VI concesse l’indulgenza a tutti coloro che fecero visita alla Cattedrale di Fiume in occasione degli otto giorni di durata
dei festeggiamenti liturgici. Si tratta di un estratto degli atti del Magistrato Civico. E anche qui, com’era
usanza all’epoca, c’è gran spreco di
maiuscole.
“Avvicinandosi il tempo, in cui
coll’approvazione di Sua Sacratissima Maestà e consenso del Monsignor Vescovo nella chiesa di St. Vito
della città di Fiume, con solenne
pompa e Cerimonie Ecclesiastiche
celebrerassi nel prossimo Marzo di
Quinto Secolo dall’accaduto stupen-
do prodigio, quando da un empio
Giuocatore con una pietra scagliata
nel lato sinistro, fu percosso l’anno
1296 il Crocifisso di legno e versò
miracolosamente copioso sangue.
Così – prosegue la nota – vengono
cortesemente invitati tutti gli Ordini
di Persone: acciocché si compiacessero di comparre alla suddetta Solennità per prevalersi dei Tesori delle Indulgenze, che a questo oggetto
Sua Santità di Pio VI si è degnata
di conferire per otto giorni intieri in
forma di Giubbileo a tutti quelli, che
Confessati e Comunicati, visiteranno la suddetta Chiesa, e pregheranno
per la concordia dè principi Cristiani, per l’estirpazione delle Eresie e
per l’Esaltamento della Santa Madre
Chiesa. La Funzione sacra comincierà alli 12 di Marzo e compirassi
colla sera dei 19 di detto Mese”.
Segue un’altrettanto interessante e pittoresca cronaca delle solennità che ebbero luogo nella Cattedrale dal 12 al 19 marzo del 1796.
“A tenore della brama degli abitanti
di Fiume condiscese l’Augusto nostro Monarca col Monsignor Diocesano, che la memoria del Prodigioso Miracolo seguito in questa Città
nell’anno 1296, in cui il Simulacro
del Crocifisso di Legno sparse copioso sangue per un colpo di sasso
scagliato da un empio giuocatore
al Lato sinistro, dopo 500 anni di
quell’Epoca si celebrasse
per 8 continui giorni
nella Chiesa di S.
Vito Confalone
di questa città.
Fu indi questa stabilita
col principio delli
12 Marzo
corrente
anno fino
li 19, in
cui si diede
principio con
una solenne
Processione ed
intervento
dello
stesso Prelato, il quale sotto Baldacchino portato da Patrizi, ed attorniato da altri
con Torcie in Abiti di Lutto, Milizie
Urbane nell’Uniformi accompagnato da questo Venerabile Capitolo ed
Ordini Religiosi, Magistrato, e Cittadinanza spiccosi da questa insigne Collegiata alla Sacra Reliquia
del prodigioso Sangue, che riservasi
nella medema, la mattina del giorno
suddetto incaminarsi con solenne
Pompa, e numeroso Popolo accorso
(sebbene il tempo non sia stato troppo acconcio) alla Chiesa di St. Vito,
ove si venera il Miracoloso Crocefisso, e giunto fu collocata la detta
Santa Reliquia all’Altare Maggiore di detta Chiesa sopra la Tribuna
ornata di Veluto Cremise ricamato
d’Oro, nonché l’interno del tempio
videsi fornito a bella posta con pitture di Marmi Festoni con fiori a tutte
le Arcate, Lampadari con Lumi alle
Colonne, ed Ornamento d’addobbo
ricco dell’altare con raggi e cornici
dorati di lavoro straordinario entro
nel Nicchio (Lavoro eccelente da
Maestro fatto venire da Lubiana)
ove è collocato il prodigioso Simulacro a quell’opera corrispose nella
maggior parte la beneficenza di Sua
Eccelenza Monsignore Kertiza Vescovo di Diakovar nel sirmio e nativo di questa Città”.
Si elencano quindi “vari Emblemi e cronografie allusive al Prodi-
gio” che vennero collocati in quell’occasione “sopra le porte del Tempio, ed alli Lati della stessa, entro
cui per tutti gli 8 giorni fu esposta
la Sacra Reliquia alla pubblica Venerazione”. Apprendiamo quindi
che sopra l’arco della porta principale della chiesa sta scritto “Vexilla Regis nostri Jesu Christi in sinistro Latere Factu Lapidis cruentati
Perpetui hujus Urbis Patroni in Fine
quinti Saeculi piis. Reispue solenniter prodeunt”. Sopra la porta, sotto la
figura del Crocifisso fu scritto invece
“Unde tibi Plaga ista in sinistro Latere? Lusor sacrilegus Petrus Lonzarich jactu saxi hanc fecit”. Ai lati destro e sinistro dell’entrata si scrisse
invece: “Ut tanti Prodigìi celebritas
cvoluto quinto Saeculopie peragatur Christi Vicarius Universis vere
Poenitentibus Indulgentias Jubilaei
largitur. Jesu. Propitiare cuncto Pio
Coetui In Lanedìbus tuae prodigiosae Crucis hic congregato” e “Sitientes venite bibite haurietis Aquas de
Fontibus ex sinistro Latere Salvatoris Jesu christi Crucifixi Lapidis Ictu
Percusso Fluentibus. Jesu. Propitiare
Fluminensi Urbi tua prodigiosa Cruce quingentis Anni servatae”.
In quanto all’indulgenza di Pio
VI, si rileva: “Ed affine maggior Divozione si praticasse, e maggiore
vi sia la concorrenza delli vicini Popoli per celebrare questa
solennità fu similmente
ottenuto dal Santo
Padre in forma
di Jubìleo il
Tesoro delle
Sante Indulgenze
concesso a tutti
i fedeli,
che entro
un giorno delli
8 prescritti a piacimento
da
scegliersi confessati e comunicati visiteranno
la detta Chiesa, e supplicheranno il Signore secondo le formule usitate”.
Il quinto centenario
Ma anche la cronaca del quinto
centenario è ricchissima di interessanti dati. Diremmo quasi giornalistica. “Il concorso fu sì numeroso
dalle circonvicine parti di tutto il Litorale Ungarico, Austriaco, Vinodol,
Colonie Camerali, Istria e Provincia
del Cragno, che contansi ascendere a
più di 60 milla, dimodo che appena
furono sufficienti tanto li Sacerdoti,
Ecclesiastici che Religiosi per suplire al numero dei Penitenti accorsi a tali funzioni, nei quali eziandio
il Monsignor Prelato esaudì parecchi, pontificò per due giorni consecutivi, e la mattina in questo intervallo sotto la cantata solenne Messa ogni giorno da valenti Predicatori
vi fu Discorso Italiano a riserva del
Mercoledì, che fu in Allemano, ed
il dopopranzo sempre Illirico, ma
tutto bensì allusivi al Prodigio per
animare vi è più alla Venerazione e
Divozione tutti li Fedeli accorsi per
conseguire li tesori che la Santa Madre Chiesa, quale provida mediante
il Santo Padre in questa emergenza
generalmente concedeva a tutti, che
la visitarono”.
“Dal Numero delle Sacre Particole distribuite a coloro che inter-
vennero in questa Epoca nella sola
Chiesa di Santo Vito, rilevasi, ne
ammontino a più di 50 mila, a queste aggiungasi quelle che similmente si compartirono nella Collegiata
Chiesa, di St. Rocco, di San Gerolamo, e Tersatto nonché nella Parrocchia delli P.P. Cappuccini, e si deduca il loro Numero totale. Quindi è,
che se la predetta Funzione si avesse potuta continuare per un altro ottavario, certamente non si avrebbe
avuto modo di soddisfarli. Tanta era
la Folla del Popolo da tutte le Parti,
che li Cancelli di Marmo delli Santuari delle Chiese di S. Vito e Collegiata furono affatto rotti, e rovesciati, oltre li Banchi, e Confessionali,
dalli quali gli ultimi venivano trascinati colli Sacerdoti dagli urti ed
affollamento dei penitenti: perciò a
buona sorte fu la chiusa delle contumacie in tale incontro; poiché il Numero almeno di 50
mila Persone fu scemato
di comparire dalle vicine Isole, se quelle fossero state di
libera pratica;
ciò non ostante non riesce
di poca meraviglia che
verun accidente sinistro per la
calca accadè per tutto il tempo
dell’ottavario nella detta
Chiesa e quindi alla fine dello
stesso il giorno 19,
che fu l’ultimo il dopopranzo cantato il Salmo
Ambrosiano con solenne processione assistita da questo Rev.mo Signor
Arcidiacono, Venerabile Capitolo
e Religiosi nonché accompagnato
dal Governo, Magistrato e Cittadinanza con candele, Patrizi sotto il
Baldacchino, ed altri con torcie accese e guardie Urbane in uniforme
alli lati, fu fra numeroso Popolo riportata per fuori della città nuovamente tra continui sbari di mortaretti la Sacra Reliquia nella surriferita
Collegiata, ove entrata fu riposta
all’Altare, e data la Santa Benedizione col Venerabile, e così terminò la Funzione di tale Solennità
con magnificenza, giubilo e decoro
universale di tutti che la componevano. Ricolmi di rispettosa umiliazione in verso il Miracoloso Simulacro, in seguito di che per eternare
la memoria di questa solennità celebrata in Fiume presso li Posteri, furono fatte distribuire delle Medaglie
coniate in Rame parte durate coll’esposizione di una parte del Crocefisso, e dall’altra l’iscrizione del
V. Secolo, che fu celebrato come già
si disse in questa fedelissima Città
sotto il Regno dell’Augusto Monarca Francesce II cui piaccia all’Altissimo di conservarlo per lunga serie
d’anni alla felicità dei suoi Popoli”.
Seguono le preghiere e le orazioni
(per l’acquisto di numerose indulgenze, da recitarsi in ginocchio
in particolar modo il venerdì,
al suono della campana o
tre ore innanzi l’Angelus) e le litanie in italiano e in croato.
Dai contenuti di questo volumetto ogni
lettore capisce quanto
ai fiumani
stessero a
cuore già a
quei tempi
la fede e le
tradizioni.
Tanto quanto ci tengono
ancora oggi
coloro che non
vivono più nella
loro amata città. Per
capirlo basta leggere le
poche frasi che Alfredo Fucci ha allegato alla copia del breviario che ci ha fatto arrivare per posta.
Le ha scritte in dialetto fiumano: “La
mia mama non ghe xe più e, come
succede nell’esodo, raminghi come
semo, svodando el suo quartierin de
affitto, se ingruma tute le robe che
l’affetto ne consiglia de conservar. E
se le mete in un scatolon che finisse
in sufita. Poi, ogni tanto, te prende la
nostalgia: e alora se va a sbisigar fra
ste robe”.
4
storia e ricerca
Sabato, 3 ottobre 2009
Sabato, 3 ottobre 2009
5
MOSTRE Nel bicentenario della loro istituzione, un’esposizione al Museo civico di Lubiana (visitabile fino al 31 ottobre) ripercorre le vicende delle Province illiriche (1809 — 1813)
Napoleone disse: «Illiria sollevati». Contro Vienna
L’imperatore francese «donò» agli Sloveni l’uso della propria lingua nell’insegnamento, l’organizzazione dei licei-ginnasi e, parzialmente, l’università
di Kristjan Knez
F
ino al 31 ottobre prossimo, presso il Mestni muzej (Museo
civico) di Lubiana, è possibile visitare la mostra “Napoleon rezhe Iliria vstan” (Napoleone dice Illiria sollevati),
allestita in occasione del bicentenario dell’istituzione delle Province illiriche. L’esposizione s’intitola prendendo in prestito un
verso della “Ilirija oživljena” – “Iliria oshivlena” nella grafia originale – cioè l’“Illiria rediviva”, del poeta ed erudito Valentin Vodnik, redatta per esprimere le speranze che nutriva nei confronti dei notevoli cambiamenti apportati dai Francesi nel breve periodo della loro amministrazione. Mutamenti che determinarono
l’affermarsi di una prima forma di coscienza nazionale presso gli
Sloveni della Carniola che furono accompagnati altresì dall’introduzione ufficiale della lingua slovena – anche se ancora solo
parzialmente – negli uffici e soprattutto a livello scolastico. L’ode
in questione era un omaggio a Bonaparte o meglio trasmetteva
un sincero entusiasmo per il nuovo potere che stava offrendo a
quel popolo le condizioni per uno sviluppo culturale e linguistico. La lirica però è soprattutto un inno alla storia slovena e alla
patria, e il fulcro è dedicato in primo luogo al risveglio dell’Illiria, vale a dire a quella realtà statuale che a suo parere sarebbe
esistita nel passato e successivamente scomparsa, quindi ridestata a nuova vita proprio dall’Imperatore. L’esposizione si svolge
in una cornice ideale, in primo luogo perché Lubiana era la capitale della realtà territoriale voluta dai Francesi nonché per il fatto
che proprio in tale città si trova un monumento – l’unico in Europa – dedicato a Bonaparte e alla sua azione politica nell’ambito delle Province illiriche medesime. Su siffatta testimonianza
torneremo più in là. Attraverso un’accurata scelta dei materiali
archivistici, delle opere d’arte e degli oggetti coevi, la mostra si
sofferma in particolare sulla Carniola, evidenziando i caratteri
del mutamento nonché il ruolo svolto dagli Sloveni che in quel
frangente storico divennero protagonisti a tutti gli effetti.
Un accorpamento di territori
affatto diversi diventa una realtà
di rilevanza geo-strategica
Nel 1809 la “Grande armée” stava penetrando nei territori settentrionali dell’odierna Slovenia, sconfisse le forze militari austriache a Razdrto aprendosi così la via per Lubiana che si
arrese il 23 maggio di quell’anno. Le unità francesi si riunirono poi a Wagram, non lungi da Vienna, e colà inflissero un duro
colpo alle armi asburgiche. La corte viennese dovette intavolare
le trattative di pace e dopo alcuni mesi si arrivò finalmente alla
pace di Schönbrunn (14 ottobre 1809). In base a quelle clausole
l’Austria dovette cedere la Carniola, la Carinzia occidentale e la
Croazia a meridione della Sava. Assieme alle terre ex veneziaIl 13 ottobre del 1929, a Lubiana fu inaugurata una cone
dell’Adriatico orientale già in suo possesso, Napoleone dette
lonna di 13 metri d’altezza, in marmo di Lesina, realizzavita
ad una realtà statuale particolare, nella quale fu incluso anta dall’architetto Jože Plečnik. Ai lati della stessa furono
che
il
territorio dell’ex Repubblica di Ragusa, abbattuta proprio
collocate le teste in bronzo dorato di Napoleone e dell’Ildai
Francesi.
La capitale fu fissata a Lubiana. Successivamente il
liria quest’ultima rappresentata mediante il volto di una
maresciallo
Marmont,
primo governatore, avrebbe annotato che
ragazza, entrambe opera dello scultore Lojze Dolinar
anziché quella città, sita vicino alla frontiera asburgica, avrebbe
preferito Trieste in quanto annoverava una maggiore popolazione, ricchezza ed importanza.
Le Province illiriche erano una sorta di accorpamento di territori e di regioni tra loro diversi e storicamente mai uniti il cui
scopo era la costituzione di un baluardo contro l’Austria, doveCon la pace di Schönbrunn del 14 ottobre 1809
va rappresentare una sorta di marca a difesa del Regno d’Italia,
Napoleone ottenne dall’Austria sconfitta una serie di
e al contempo annoverava un’importanza strategica vuoi per le
territori compresi tra le Alpi e le Bocche di Cattaro
vie commerciali in direzione delle province balcaniche dell’Imche di lì a breve avrebbero formato una sorta di marpero ottomano vuoi perché avrebbe permesso il passaggio degli
ca di frontiera tra il Regno d’Italia ed i possedimeneserciti francesi in previsione di ipotetiche campagne militari ad
ti degli Asburgo, che permetteva ai Francesi di conOriente. La rilevanza geo-strategica non era affatto di poco controllare l’intero Adriatico ed i suoi commerci. Con il
to, Napoleone, infatti, avrebbe esclamato che con il possesso di
trattato in questione Vienna dovette cedere all’impequei territori “aveva un piede a Roma e l’altro a Costantinopoli”.
ratore corso le importanti quanto strategiche regioni
Quella creazione pertanto non era stata assolutamente il tentatiadriatiche. Oltre all’Istria, ossia alla Contea di Pisino,
vo napoleonico di dare una patria agli Slavi del Sud situati tra la
gli Asburgo dovettero lasciare le città di Trieste e di
catena alpina e l’Albania, come, invece, molti avevano creduto.
Fiume, il Monfalconese, l’intera Carniola, parte della
Difatti è sufficiente segnalare che le Province illiriche non seguivano affatto una sorta di “confine etnico” e lo stesso territorio
Carinzia (Villaco, Lienz e Sillian), una notevole pardell’odierna Slovenia non fu incluso nella sua interezza, poiché
te della Croazia civile sino alla Sava e la cosiddetta
Croazia militare che raggiungeva i confini della Boil confine con i possessi ereditari della Casa d’Austria era fissato
sul fiume Sava. La convinzione della volontà francese di creare
snia turca. Successivamente, invece, con l’inclusiouna nazione che abbracciasse le varie anime degli Slavi meridione di due cantoni tirolesi, l’ex Repubblica di Ragusa
nali fu propagata in particolare agli albori del Novecento in con(fatta crollare da Bonaparte), dell’Istria e della Dalcomitanza con il presentarsi dell’idea jugoslava, o del trialismo,
mazia – quest’ultime due già possedute dalla Francia
che mirava alla trasformazione della duplice monarchia, creando
–, furono istituite le Provincie illiriche note anche con
un regno slavo la cui capitale doveva essere fissata a Trieste. Per
il nome di Illiria.
Come scrive lo storico zaratino Giuseppe Praga,
sostenere siffatto progetto politico non di rado si rammentava
l’esperienza francese intesa come un tentativo precorritore volto
nella relativa voce per l’“Enciclopedia italiana di
scienze, lettere ed arti”, la loro costituzione era finaad unire gli Slavi meridionali per l’appunto.
Le Province annoveravano una popolazione di circa due
lizzata ad “erigere un antemurale per la difesa del Remilioni d’abitanti “(…) e si componeva d’Alemanni, d’Illirici,
gno italico, arginare verso sud l’influenza e l’espand’Italiani e d’Albanesi, infine di tutti i paesi riuniti a Trieste. I
sione dell’Austria e costituirsi un punto d’appoggio
costumi vi erano varii al pari delle provincie, ed i prodotti quanper lo sviluppo della politica orientale”.
to le località, e specialmente i loro costumi non hanno fra loro
rapporto”, scrive il maresciallo Marmont, duca di Ragusa, nelle
sue “Memorie”. Per quanto concerne la denominazione, va evidenziato che fu riportato in vita un epiteto arcaico, come era accaduto in diverse parti d’Italia, il cui intento era rimuovere l’attaccamento delle popolazioni ai precedenti regimi.
Cimeli di un’epoca forse effimera
ma che lasciò un segno indelebile
Tra limiti e autonomie:
uno status singolare
Lo status delle Province medesime era alquanto singolare
poiché furono sì annesse all’Impero francese ma al contempo
non costituivano una sua parte. Inoltre, se da un lato esse erano soggette alla compagine imperiale, e pertanto utilizzavano lo
stemma imperiale e la bandiera francese, dall’altro godevano di
una certa autonomia e così, per esempio, i funzionari di quel territorio potevano rilasciare dei regolari passaporti. Un altro aspetto
interessante è il fatto che i giornali, come la “Gazzette National”
o “Le moniteur universel” riportavano le notizie provenienti da
quella realtà nientemeno che nelle rubriche di politica estera.
Per l’intellighenzia slovena l’effimera stagione francese rappresentò una sorta di “età dell’oro”, poiché, grazie alla loro politica, la lingua e la cultura slovene ebbero finalmente dignità
ed un ruolo all’interno della società. Lubiana, oltre ad essere il
capoluogo e a rivestire quindi un’importanza politico-amministrativa, divenne un centro di notevole importanza culturale che
poggiava sulle esperienze maturate nel corso dell’età dei Lumi,
che facevano presagire l’inizio di una nuova epoca e che la storiografia definisce con il termine di rinascita. Il “dono” francese si concretizzò con l’introduzione dello sloveno nell’insegnamento, nell’organizzazione dei licei-ginnasi e parzialmente
dell’università. In pratica si assistette all’applicazione dei diritti
linguistici elementari che gli Sloveni, nonostante la riforma scolastica di Maria Teresa, non avevano conosciuto. Gli anni dell’amministrazione francese furono però transitori e pertanto anche i risultati concreti furono modesti ossia appena abbozzati.
Malgrado tutto ciò l’operato degli oltremontani fu idealizzato e,
soprattutto dall’ultimo quarto del XIX secolo in poi, fu utilizzato nell’ambito degli scontri politico-nazionali, per sottolineare le
ventate di novità, di democrazia e di uguaglianza introdotte dai
Francesi. Siffatta rappresentazione era confacente alle battaglie
condotte dai politici sloveni che si confrontavano con le autori-
Antemurale per la difesa
del Regno italico
La cartina delle Province illiriche
di conseguenza mancava una certa dimestichezza e, soprattutto,
non esisteva una terminologia e un vocabolario adatti a cogliere
la modernità introdotta in Carniola, come quella del Codice civile, ad esempio. Inoltre, i funzionari della burocrazia rimasero
nella stragrande maggioranza dei casi gli stessi che prestavano
servizio sotto la corona asburgica, pertanto la lingua d’uso rimase il tedesco. Un altro problema si riscontrò a scuola: infatti, non
esistevano i volumi di testo e per ovviare a tale mancanza ci pensò Vodnik, che in breve tempo redasse diverse opere scolastiche
che furono date alle stampe nel 1811.
Nella seconda metà del XIX secolo s’iniziò a presentare gli
anni delle Province illiriche come il momento della “liberazione nazionale” e di conseguenza si enfatizzava l’operato dell’entourage napoleonico. Nonostante tutti i limiti e l’effimera durata
delle Province medesime, quell’esperienza lasciò un segno indelebile e una reminiscenza positiva. Tuttora la storiografia slovena sottolinea l’importanza che rivestì l’introduzione e l’uso dello
sloveno, poiché avrebbe contribuito in maniera decisiva al successivo impegno teso a dare dignità a quell’idioma nell’ambito
della cornice austro-ungarica. In base alle convinzioni di partenza i Francesi ritenevano che tutti gli Slavi meridionali parlassero
una sola lingua e di conseguenza ritennero di estendere a tutta la popolazione slava l’insegnamento del serbo croato
o, usando il termine dell’epoca, la “lingua illirica”.
Una cattedra di “illirico” doveva essere istituita proprio a Lubiana; se essa non vide mai la
luce lo si deve agli eruditi e filologi sloveni
– in primo luogo Valentin Vodnik e Jernej
Kopitar – i quali, grazie ai loro studi intrapresi già alcuni decenni prima, dimostrarono la specificità della loro lingua,
evidenziando le sostanziali differenze con
il serbo-croato.
denaro suonante si aveva quasi la sensazione d’essere a Vienna o a Milano.
Il centenario dell’istituzione delle Province illiriche fu salutato positivamente soprattutto a Lubiana, però non si poté andare
troppo in là con i festeggiamenti a causa dei limiti imposti dalle
autorità asburgiche. Nonostante questo i giornali sloveni dedicarono ampio spazio all’avvenimento, presentando l’importanza
della parentesi francese in primo luogo per l’introduzione di uno
spirito nuovo ma anche per il fatto si dovesse considerarla come
foriera di futuri e alquanto felici cambiamenti. La carta stampata
evidenziò il clima di libertà che il popolo Sloveno aveva conosciuto con il venir meno del giogo austriaco, per poi nuovamente perderla. Quel periodo storico era perciò utilizzato per esprimere l’auspicio nel vedere un cambiamento significativo in un
momento in cui erano in corso le rivendicazioni nazionali, le cui
istanze non sempre venivano prese in considerazione dal governo di Vienna. Il poeta Anton Aškerc, ad esempio, sulle colonne
del giornale “Slovan” scrisse: “la storia slovena non deve mai
dimenticare quanto di utile fece l’amministrazione di Napoleone
in Illiria, e in particolare a Lubiana, nel promuovere il progresso,
e non deve dimenticare nemmeno ciò che essa volle compiere. Il
fatto è che i Francesi introdussero la nostra lingua madre più di
quanto non avessero fatto i loro predecessori”.
L’inizio della metamorfosi
della «capitale»
tà di Vienna per l’ottenimento di maggiori diritti nazionali. Di
conseguenza il primo centenario dell’istituzione delle Province
(1909) fu salutato con una serie di iniziative, mentre fu ostacolata l’erezione di un monumento che rimembrasse quella stagione.
L’iniziativa si sarebbe concretizzata un ventennio più tardi. Se i
pochi intellettuali colsero il nuovo corso introdotto dalle autorità
giunte d’oltralpe come una novità di notevole importanza, diverso fu l’atteggiamento delle masse contadine, le quali, invece, videro nelle medesime solo un’accozzaglia assetata di denaro, che
da subito impose una serie di gravami. Le reazioni furono decisamente violente e le insurrezioni non tardarono a scoppiare nelle campagne, per lo più della Slovenia meridionale, che si conclusero solo con il duro intervento militare francese.
Lo spirito nuovo si scontra con i problemi
Nella nuova realtà si riscontrarono anche non pochi problemi,
in primo luogo nell’uso dello sloveno, che fino a quel periodo era
esclusivamente la lingua del popolo, e usata per lo più in chiesa;
Per la città di Lubiana quello fu l’inizio di
una metamorfosi. Le trasformazioni erano iniziate già sul finire del XVIII secolo con l’abbattimento delle mura e l’assestamento delle strade.
Agli albori dell’Ottocento si registrarono anche non pochi interventi che abbellirono
il centro urbano, nel 1810, ad esempio, fu inaugurato il primo orto botanico, mentre l’ingegnere francese
Blanchard progettò una passeggiata che fu realizzata solo successivamente dagli Austriaci. Contemporaneamente il giornale “Corriere Illirico” scriveva che chi aveva visitato la città solo due anni
prima difficilmente l’avrebbe riconosciuta e aggiungeva che nel
Il busto di Napoleone
vedere tante persone, diligenze e
Furono anticipatrici
della Jugoslavia?
Ma fu il 1929 l’anno delle importanti celebrazioni in occasione del 120.mo anniversario delle Province illiriche. In quella circostanza (13 ottobre), infatti, a Lubiana fu inaugurata
una colonna di 13 metri d’altezza, in marmo di
Lesina, realizzata dall’architetto Jože Plečnik.
Ai lati della stessa furono collocate le teste in
bronzo dorato di Napoleone e dell’Illiria quest’ultima rappresentata mediante il volto di una ragazza, entrambe opera dello scultore Lojze Dolinar. Sulla
stele furono inoltre incisi i versi di Valentin Vodnik e
di Oton Župančič in lode a Bonaparte. I giornali coevi parlarono dell’Illiria come di un’anticipatrice della
futura Jugoslavia. Lo “Slovence”, invece, colse l’occasione per evidenziare la necessità di dare una
maggiore autonomia agli Sloveni nell’ambito della corona dei Karađorđević. L’avvenimento, che i quotidiani definirono
niente meno che una delle maggiori manifestazioni del popolo sloveno, in occasione di un’importante ricorrenza, aveva
pure un notevole significato politico, in
quanto fu utilizzata per sottolineare gli
stretti legami con la Francia, nazione
– ricordiamolo – con la quale, nel novembre del 1927, il Regno di Jugoslavia aveva firmato un patto d’amicizia e
di cooperazione.
La mostra, di dimensioni non eccessivamente ampie,
documenta con particolare attenzione, e con un copioso
numero di cimeli e oggetti di varia natura, giunti da un
importante numero di sedi museali, biblioteche e collezionisti, la vita politica, economica, sociale culturale, religiosa e militare nella capitale delle Province illiriche.
Nell’impossibilità di illustrare l’intero insieme delle anticaglie, della documentazione e delle opere d’arte esposte, segnaleremo esclusivamente una serie di oggetti che
a nostro giudizio risultano tra i più interessanti e significativi. Al Museo civico di Lubiana sono state riunite
testimonianze storiche di particolare importanza per cogliere le trasformazioni avvenute in Carniola e le ventate
di novità che interessarono l’intera società.
Un busto raffigurante l’imperatore Bonaparte (155
x 91 x 76 cm), realizzato da Lorenzo Bartolini e proveniente direttamente dal Louvre di Parigi è indubbiamente uno dei pezzi più considerevoli che si possono
ammirare. Non meno interessanti risultano le carte geografiche delle Province illiriche, tra le quali segnaliamo
la “Carte montrant les fonds de la baie de Piran”. Tra le
opere d’arte esposte rammentiamo la tela di Robert Lefèvre raffigurante Napoleone in uniforme o il “Napoleone con figlio” di Joseph Lancedelli della prima metà del
XIX secolo.
Tra i documenti d’archivio molto interessante è la minuta originale del decreto della costituzione delle Province nonché le carte del trattato di Schönbrunn. Non mancano nemmeno gli avvisi, le pagelle scolastiche, i giornali che uscivano nel corso degli anni dell’amministrazione francese, come il “Télégraphe officiel” di Lubiana
o il “Corriere Illirico” di Trieste. Tra i volumi ricordiamo
un’edizione tascabile del Codice napoleonico o il catechismo in lingua slovena redatto da Valentin Vodnik. Vi
sono poi le monete francesi in circolazione, i sigilli e le
medaglie. Particolarmente ricco è altresì l’insieme degli
arredamenti coevi, che hanno permesso ai curatori la ricostruzione di alcuni ambienti tipici dei primi anni del
XIX secolo. Si evidenzia la presenza di uno specchio in
legno dorato, la scrivania del barone Zois, tavolini e credenze, vari candelabri, tappeti e servizi da tavola oltreché oliere, zuccheriere, teiere, ecc, in argento. Non meno
interessanti sono indubbiamente gli alveari a forma di
soldato francese o le assicelle di arnia raffiguranti scene
diverse: scontri militari tra Francesi e Austriaci, i contadini che cullano i soldati napoleonici oppure quella con
il diavolo che rapisce Napoleone. Una sezione è invece
dedicata all’inaugurazione del monumento dedicato alle
Province illiriche, avvenuta nel 1929, con foto, cartoline,
manifesti e giornali che riportano l’avvenimento.
La realizzazione della mostra è stata possibile grazie
al coinvolgimento di molte istituzioni, tra le quali non
poche francesi, nonché di privati, che hanno prestato i cimeli al fine di rendere quanto più completa l’esposizione. All’iniziativa hanno collaborato: il Musée du Louvre
di Parigi; l’Archives nationales de France, Site de Paris,
di Parigi; il Musée Carnavalet di Parigi; l’Archives du
Ministère des Affaires extérieures de France di Parigi;
il Musée du Pays Châtillonnais di Chatillon sur Seine;
il Musée National des châteaux de Malmaison & BoisPréau di Rueil-Malmaison; il Muzej in galerije mesta
Ljubljane-Mestni muzej Ljubljana, la Narodna galerija di
Lubiana, il Nadškofijski arhiv di Lubiana; la Narodna in
univerzitetna knjižnica di Lubiana, il Sadnikarjev muzej
di Kamnik; lo Zgodovinski arhiv Ljubljana; la Slovanska
knjižnica di Lubiana; il Vojni muzej Logatec; lo Zgodovinski arhiv Celje; il Museo del mare “Sergej Mašera”
di Pirano; il Pokrajinski muzej Celje; lo Slovenski šolski
muzej di Lubiana, il Muzej krščanstva na Slovenskem di
Stična; il Mestni muzej Idrija, Muzej za Idrijsko in Cerkljansko di Idrija; il Dolenjski muzej Novo mesto, i Muzeji radovljiške občine, Čebelarski muzej di Radovljica;
il Loški muzej Šfofja Loka; il Medobčinski muzej Kamnik; il Koroški pokrajinski muzej di Slovenj Gradec;
il Pokrajinski muzej Murska Sobota; la Univerzitetna
knjižnica v Ljubljani; l’Arhiv Republike Slovenije, Slovenski filmski arhiv di Lubiana, il Narodni muzej Slovenije di Lubiana; il Posavski muzej Brežice; il Goriški
muzej di Nova Gorica e lo Zavod za varstvo kulturne
dediščine Slovenije, Območna enota Nova Gorica.
Tra i privati ricordiamo: Jernej Sekolec, Zmago
Jelinčič Plemeniti, Jana Valenčič, Saša Vuga, Franc Kersnik, Stanislav Južnič più altre due persone che desiderarono mantenere l’anonimato.
6 storia e ricerca
Sabato, 3 ottobre 2009
La lapide rinnovata
La lapide prima
del rinnovo
PILLOLE L’attività e la figura di due gemelli castuani nel quadro della multietnica
I fratelli Bastian: una vita dedic
di Daniela Jugo-Superina
D
al nostro punto di vista, il
XIX secolo è stato un periodo che potremmo definire anomalo. C’è una parola, però,
nell’espressione letteraria e artistica, che meglio di ogni altra potrebbe descrivere questo periodo: entusiasmo, o magari esaltazione. Esaltazione nella letteratura, esaltazione
nella pittura, esaltazione nell’architettura, quasi a evocare tempi che
furono. Va detto, però, che il XIX
secolo è stato caratterizzato anzitutto da un’esaltazione nazionale.
Scandagliando la storia medievale
e dell’età moderna, scopriamo che
la cosa più importante era l’appartenenza a un determinato ceto sociale. Nel XIX secolo, però, è l’appartenenza nazionale ad assumere il
primato in questo senso. Nascono,
così, nelle nazioni moderne, che
aspirano a creare un proprio stato
nazionale. Per animare delle masse popolari prevalentemente incolte – contadini, agricoltori e operai
– ci voleva l’esaltazione. Le “vecchie nazioni” – gli inglesi e i francesi – avevano già da tempo il proprio
stato. Le “nuove nazioni” – italiani
e tedeschi – raggiungevano lo stesso obiettivo nella seconda metà del
XIX secolo, dopo un lungo e sanguinoso processo di unificazione
nazionale. Le “piccole nazioni” nascono prevalentemente all’interno
dei grandi stati. Il più grande coacervo di popoli lo possiamo individuare nella Monarchia asburgica
(dal 1867 Monarchia austro-ungarica). I movimenti nazionali scoppiati nel corso del XIX secolo danno
vita alle “piccole nazioni”, grazie
all’azione dei loro fautori, che in
un primo momento sono di carattere culturale e poi anche politico.
I confronti con i detentori del potere – che spesso si identificano con
la maggioranza della nazione alla
quale appartengono – erano a quel
punto inevitabili. Nella Monarchia
asburgica erano i tedeschi e gli ungheresi, nel Litorale gli italiani. In
questo contesto storico possiamo
inquadrare l’attività di due castuani,
i fratelli gemelli Ivan e Mate (Matko) Bastian (Baštijan).
Testimoni degli
eventi del 1848
Nacquero il 3 settembre 1828
nel paesetto di Gornji Jugi, che
successivamente venne denominato Baštijani. Il battesimo lo ottenere due giorni più tardi a Castua. La
famiglia Bastian, in base ai criteri di
allora, era ricca e distinta, cosa che
ancor oggi può venir testimoniata
dall’ingresso monumentale e dall’alto muro di cinta attorno al loro
possedimento e alla casa natale. All’epoca non c’era ancora la scuola nella vicina Sveti Matej (oggi
Viškovo), per cui le prime nozioni
venivano date ai bambini dal prete
Premuda. Non è dato a sapere se
avessero frequentato la scuola elementare a Castua. Dal 1841 al 1846
frequentarono il ginnasio di Fiume
ed entrambi vennero giudicati col
voto “eminentes”. Ultimarono ancora due classi ginnasiali a Zagabria (1846-1848), e furono testimoni così di grandi eventi rivoluzionari. Le nuove idee nazionali li entusiasmarono. Dopo aver avuto una
formazione teologica presso i noti
seminari di Gorizia (1848-1851) e
Trieste (1851-1852), presero i voti.
Lavorano come catechisti e parroci
in giro per l’Istria, e dal 1856 hanno dimora fissa a Trieste. Entrambi
i fratelli prestano servizio come catechisti presso diverse scuole triestine, mentre Mate si trattiene a lungo
all’istituito nautico e al ginnasio civico.
La cerimonia d’inaugurazione della lapide ai fratelli Bastian nel 1930
ordine nell’attività risorgimentale
dei croati istriani e del litorale.
Mate Bastian era in primo luogo
un poeta, anche se gli esperti concordano che durante il primo de-
Mate, cuore e anima
del giornale
«Naša sloga»
La circoscrizione Istria, con
centro a Pisino e poi a Parenzo, faceva parte all’epoca di
un insieme amministrativo
più grande – il Litorale austriaco – il cui capoluogo
era Trieste. Dal Compromesso del 1867, entra a
far parte della metà austriaca della monarchia,
la cosiddetta Cisleithania. Trieste era, come
del resto anche oggi, un
centro multinazionale e
multiculturale. Oltre agli
italiani, a Trieste vivevano
e creavano sloveni, serbi,
cechi, croati e altri ancora. A
Trieste, i fratelli Bastian partecipano alla creazione del primo
circolo riformista croato. Il risultato principale di questa azione era la
fondazione del giornale “Naša sloga” nel 1870, con l’aiuto e il sostegno del vescovo Juraj Dobrila. All’inizio, il giornale usciva due volte
al mese, poi settimanalmente e dalla fine del XIX secolo con scadenza bisettimanale. L’ultimo numero
è uscito dalle stampe nel 1915. Il
giornale ha avuto un ruolo di primo
i dialoghi “Jurina e Franina”, e via
di seguito. Non avendo mai voluto
mettere in risalto il suo ruolo di redattore, allo stesso modo non ha mai
voluto firmare i suoi articoli. Le lettere di Bastian, dalle quali si evince chiaramente che era stato proprio
lui a concepire la politica redazionale di “Naša sloga”, sono state
conservate. Da una lettera scritta al sacerdote Ernest Jelušić
nel 1869, si apprende che
Mate Bastian voleva dare
al giornale il nome di
“Istarska straža” (“La
vedetta istriana”) e
pubblicarlo a Fiume,
aggiungendovi
col
tempo anche una parte in italiano.
La lotta
per la lingua
croata
nelle scuole
Ivan Bastian
cennio di uscita del giornale “Naša
sloga” ne fosse stato il cuore e l’anima, scrivendo la maggior parte degli articoli, come “Pogled po svietu” (“Uno sguardo al mondo”), articoli politici, articoli sulle scuole,
Le posizioni politiche di Mate Bastian erano
vicine a quelle del vescovo
Strossmayer, ossia al partito popolare croato, che si era fatto promotore dell’idea jugoslava. L’obiettivo principale di “Naša sloga” e di
Mate Bastian era la lotta per la parità
di trattamento della lingua croata in
Istria e nel Litorale, con particolare
riferimento alla necessità di una sua
introduzione nelle scuole. Gli anni
Sessanta e Settanta del XIX secolo
erano gli anni di un intenso movi-
Il dipinto di S
mento risorgimentale italiano all’interno della monarchia, manifestantesi anche mediante un’insistente
pressione volta all’uso esclusivo
della lingua italiana nel Litorale austriaco. Il giornale si proponeva di
istruire i contadini, motivo per cui
scriveva in maniera semplice, ma
allo stesso tempo pittoresca e spiri-
storia e ricerca 7
Sabato, 3 ottobre 2009
La casa natale
dei fratelli Bastian
Alcune personalità dell’epoca all’inaugurazione della lapide nel 1930
Monarchia asburgica, tra entusiasmi, aneliti e movimenti nazionali di fine Ottocento
ata al popolo, all’arte e alla fede
“Naša sloga” comincia a pubblicare anche contributi letterari, poesie
e novelle. Oltre all’espressione letteraria, nel giornale è molto presente il
dialetto ciacavo, in particolar modo
attraverso i dialoghi, scherzosi ma
istruttivi, tra i contadini istriani Jurina e Franina. Bastian scrive questi
dialoghi proprio nel vernacolo della
sua terra, in ciacavo castuano.
Il rimprovero
ai contadini
an Matteo nella chiesa di Viškovo
tosa, degli avvenimenti principali nel
mondo, in Europa e nella Monarchia
austro-ungarica. Venivano pubblicati regolarmente articoli che proponevano l’introduzione di nuovi metodi
di lavorazione della terra, dell’allevamento del bestiame, dando una
serie di consigli utili per l’economia
domestica in campagna. Ben presto
L’opera poetica e letteraria di
Mate Bastian, da lui considerata
come missione di vita, è scarsamente conosciuta e piuttosto trascurata,
e molte sue opere sono andate perse o risultano essere incompiute. Ha
cominciato a scrivere poesie, in latino, ancora al seminario. Ben presto
è passato alla sua lingua, il croato.
Nella sua opera poetica è possibile
notare l’influsso dell’epoca antica,
di Gundulić, di Njegoš e Torquato
Tasso. La sua prima poesia (“Liburnjanin, s vrha Učke na povratku
u domovinu” – Un liburnico, dalla
vetta del Monte Maggiore, al suo
ritorno in patria) è stata pubblicata
a Zagabria nel “Neven”. La maggior parte della altre sue poesie è
stata pubblicata nel giornale “Naša
sloga”, ma anche nell’“Obzor” di
Zagabria e in altre riviste. Lui ha
consapevolmente soffocato il suo
L’ingresso e il muro di cinta attorno
al possedimento della famiglia Bastian
talento per una poesia profonda e
contemplativa, sacrificandolo al bisogno di scrivere poesie patriottiche. Dovevano essere leggere, facilmente memorizzabili, quasi cantabili. Dovevano richiamare alla lotta
per la propria lingua, per l’istruzione, per la legge e la giustizia. Nella poesia “Seljakom” (“Con il contadino”), pubblicata nel 1884, rimproverava ai contadini vittime degli
usurai il loro silenzio e la mancata
ribellione. Nella poesia “Istarskim
hrvatskim roditeljima” (“Ai genitori
istriani croati”) dello stesso anno, afferma che da ogni paese almeno un
ragazzo dovrebbe partire per ottenere un’istruzione più elevata,
di modo che l’intellighenzia
italiana potrebbe venir affiancata anche da quella
croata, ed entrambi potrebbero allora combattere per il progresso.
Le poesie patriottiche
di Bastian infierivano
spesso sugli oppositori
del risorgimento, esponendoli al pubblico ludibrio. In alcune sue
elegie, però, possiamo
notare un sentimento di
tristezza e solitudine. È
proprio da queste poesie
che traspare il suo immenso
talento. Delle altre sue opere
(il dramma incompiuto “Zadnji
kastavski kapetanì” – L’ultimo capitano castuano, poema comico sulla muratura della loggia di Laurana,
il poema religioso-filosofico “Trsat”
– Tersatto), sono conosciuti soltanto
dei frammenti.
Il talento
pittorico di Ivan
Anche Ivan Bastian era attivo nei
circoli risorgimentali triestini, come
deducibile dalla sua corrispondenza
epistolare. Era un pittore di grande
talento, anche se non risulta avesse
frequentato qualche scuola d’arte. A
Gorizia, ma particolarmente a Trieste, che all’epoca era un centro d’arte, ha avuto modo di vendere molte
opere famose, per cui possiamo supporre che fosse autodidatta, assorbendo le proprie nozioni dall’osservazione. Quanto fosse stimato come
conoscitore dell’arte pittorica, lo si
intuisce dal fatto che procurava e stimava i quadri per il vescovo Strossmayer. In una lettera scritta da Ivan
a Franjo Rački, gli ricorda che il vescovo gli aveva promesso una borsa
di studio a Roma per perfezionare la
pittura. Sembra che il suo desiderio
sia rimasto irrealizzato.
Non ha lasciato molte opere. Si
tratta, prevalentemente, di quadri
che oggi ornano gli altari di diverse
chiese in Istria e nel Litorale. Va sottolineato in questo contesto il quadro
di San Matteo, nell’omonima chiesa
locale nella natia Viškovo, e poi San
Nicolò a Kukuljanovo, Sant’Anna a
Volosca, Sant’Antonio a Colmo, San
Luca a Ricavazzo e San Sebastiano
a Castua. Ha dipinto ancora San Girolamo e San Marco, però non è dato
a sapere per quali chiese né dove si
Matko Bastian
potrebbero trovare oggi questi quadri. La sua arte pittorica potrebbe venir definita classicista-romantica. La
tranquillità classicista e l’elevatezza
dei personaggi trovano sistemazione
in un ambiente pittoresco e colorito
di stampo romantico.
La bandiera
per la Madonna
Ivan Bastian ha dipinto anche
la bandiera, andata persa, che i castuani portavano per anni durante i
loro pellegrinaggi a Tersatto. Sulla
bandiera erano dipinti da una parte Sant’Elena con la Croce, dall’altra la Madonna di Tersatto. Viene
menzionato anche il ritratto del vescovo Strossmayer, ma non sappiamo dove si trovi e se fosse veramente esistito. Sono suoi anche
i personaggi Jurina e Franina, disegnati per il fratello Mate e il giornale “Naša sloga”.
Entrambi i fratelli sono morti a Trieste nell’arco di poco più di
tre mesi, prima di compiere i ses-
sant’anni. Per entrambi si è trattato
di morte improvvisa. Mate è morto il 25 novembre 1885, Ivan l’11
marzo 1886. Nella triste circostanza della morte di Ivan, “Naša sloga”
scriveva che Ivan e Mate erano venuti al mondo insieme, che avevano trascorso l’intera vita insieme, e
che ora sono uniti anche nella morte
e giacciono uno accanto all’altro nel
cimitero triestino di Sant’Anna.
Manca l’entusiasmo
del XIX secolo
Pur essendo stati sempre pronti al sacrificio, dediti al lavoro con
grande spirito di abnegazione,
col passare degli anni sono
finiti praticamente nel dimenticatoio. Nonostante
tutto, nel centenario della
nascita era stata avviata
l’iniziativa per affiggere
una lapide-ricordo sulla
loro casa natale. La lapide era stata scolpita
dal noto insegnante castuano Milan Brozović.
Vi troviamo tre simboli: il calice e l’ostia, un
libro, nonché il pennello e la tavolozza. Scrive,
inoltre, che la lapide viene
posta “dal popolo con gratitudine”. La grande cerimonia si è tenuta a Baštijani il 18
maggio 1930. Nel settembre di
quest’anno, il 2009, grazie all’impegno della Matica croata – sezione di Viškovo, la lapide è stata restaurata e nel corso di una modesta
cerimonia, i presenti hanno voluto
ricordare l’opera e il significato dei
fratelli Bastian.
Molti fatti relativi ai fratelli Mate
e Ivan Bastian non ci sono noti. Alcune loro opere sono andate smarrite. Quelle esistenti non sono state
sufficientemente studiate, trattate
e men che meno valorizzate. Mate
viene considerato da alcuni studiosi
il primo poeta moderno dell’Istria,
però non esiste nemmeno una raccolta di sue poesie. Ben poco si sa,
invece, dei quadri di Ivan. A richiamarli alla memoria c’è soltanto il
nome di qualche via.
Oggi, quando ciascuno di noi
avrebbe bisogno di un rinnovamento anzitutto morale, persone come i
fratelli Bastian, che hanno dedicato
la loro vita agli altri, sarebbero le
benvenute. Sarebbe benvenuto anche l’entusiasmo del XIX secolo,
con il suo desiderio di sapere e progresso spirituale, aspirando alla ricchezza dello spirito. Patetico? Forse.
Realizzabile? Sì.
8 storia e ricerca
Sabato, 3 ottobre 2009
«HISTRIA DOCUMENTUM» Preziosa pubblicazione bilingue, sloveno e italiano, curata da Dean Krmac
La Capodistria secentesca nella pianta di Giacomo Fino
Dalla prima pagina
L’interesse è sì di natura
scientifica ma al contempo è
pure un omaggio al territorio di
provenienza, non sempre al centro delle attenzioni da parte di
coloro che a livello istituzionale
dovrebbero tutelare e divulgare
le ricchezze del patrimonio storico-artistico-architettonico delle cittadine costiere.
La pianta di Giacomo Fino,
consegnata al capitano e podestà di Capodistria Bernardo
Malipiero, è una delle più conosciute rappresentazioni del
capoluogo dell’Istria veneta
della prima metà del XVII secolo, ed i motivi – come annota Krmac – sono indubbiamente
la precisione con la quale è stata
eseguita e poi perché è una delle più antiche riproduzioni in
pianta della città giunte sino a
noi. La raffigurazione permette
di cogliere lo sviluppo urbanistico – che dall’epoca romana
all’età moderna aveva conosciuto una continuità nell’antropizzazione dello spazio insulare
– e una particolare attenzione è
rivolta al tessuto urbano e allo
sviluppo della cinta muraria. La
mappa fu eseguita a seguito della guerra di Gradisca, conflitto
che aveva devastato buona parte
del territorio istriano, in primo
luogo le zone di confine tra la
Repubblica di Venezia e la Casa
d’Austria, mentre le cittadine
marittime furono oggetto degli
assalti uscocchi. Quindi aveva
una finalità pratica. “Il disegno
a penna, di elevata fattura, non
si limita pertanto al solo elenco
dei contenuti topografico-urbani più rilevanti, quali le strade, i
piazzali, i principali edifici pubblici e religiosi nonché le porte
e le torri, ma si estende anche
ad una dettagliata descrizione
dell’apparato di difesa per l’appunto. Mentre fuori le mura, oltre alle paludi, esso tiene soprattutto conto dei diversi luoghi di
approdo di quello che è stato all’epoca il capoluogo e maggiore centro culturale della penisola”, leggiamo nella presentazione del curatore. Krmac rileva ancora che la riproduzione in
questione viene proposta “(…)
in un periodo in cui i caratteri
architettonici del centro storico
stanno cambiando in modo piuttosto repentino mentre quelli to-
ponomastici sono oramai passati in quasi completo disuso”.
Il contributo
di Salvator Žitko
Il volumetto è accompagnato dallo studio di Salvator Žitko,
“Capodistria nella pianta di Giacomo Fino del 1619”, ossia una
versione abbreviata e riveduta di
un contributo che l’autore aveva
pubblicato nel 1989 sulla rivista “Kronika”. Come è messo in
evidenza, ad alcuni anni dal termine della guerra degli Uscocchi le cittadine istriane presentavano gli evidenti segni della decadenza, pertanto sia i porti sia i
tratti murari necessitavano di urgenti lavori di consolidamento.
Per far fronte a siffatta situazione la Repubblica inviò in Istria,
già all’inizio del 1618, il provveditore Antonio Barbaro e l’ingegnere Camillo Cattaneo con il
compito di esaminare gli approdi siti lungo la costa occidentale
della penisola. Nel caso specifico di Capodistria, il 25 maggio
1619 il podestà Bernardo Malipiero gli arrivò l’ordinanza di
provvedere al rifacimento delle
mura del perimetro urbano. Al
contempo molto probabilmente dovette ricevere pure la proposta di realizzare un disegno
concernente la piantina della
località. Il podestà medesimo
si rivolse all’ingegner Giacomo
Fino e gli commissionò l’ordine; la mappa fu presentata il primo agosto di quello stesso anno.
Grazie alla medesima, alla fine
di settembre, dalla città lagunare giunse un decreto con il quale
si riteneva necessario dare una
nuova forma alla cinta muraria,
che in parte era addirittura crollata. Poiché nel capoluogo dell’Istria veneziana non si registrò
alcun intervento, l’8 gennaio
1620 il Senato sollecitò l’avvio
dei lavori. Lo studioso passa
quindi ad analizzare gli edifici
rappresentati da Giacomo Fino,
che in taluni casi appaiono nelle forme di un tempo, come, ad
esempio, il Duomo dell’Assunta
raffigurato nella sua pianta romanica con le tre absidi che danno sul Brolo. Le ristrutturazioni
avvenute nel XVIII secolo, infatti, contribuirono a cancellare
la forma originaria, con un pro-
lungamento della chiesa in direzione est, mentre la parte frontale
era stata allargata sino al campanile già nel corso del XV secolo
contribuendo così a ridurre notevolmente l’area della piazza. Tra
gli altri edifici di particolare importanza e segnalati da Fino rammentiamo l’ospizio di San Nazario sito nei pressi della porta della Muda, laddove tuttora si trova
la chiesa di San Basso del XVI
secolo. Žitko annota ancora che
“buona parte dello spazio cittadino era occupata oltre che dalle
piazze e dalle vie anche dai complessi monasteriali e dagli edifici sacrali. Fino ha segnato queste costruzioni in modo alquanto
schematico anche se in maniera piuttosto coerente. Sulla sua
pianta vengono rappresentati 24
chiese nonché 7 monasteri a testimonianza che Capodistria, oltre
che sede vescovile, rappresentava un importante centro ecclesia-
stico e monastico dell’Istria” (p.
28). Grazie alla pianta in questione otteniamo delle informazioni utili sul sistema difensivo del
centro giustinopolitano. La parte
delle mura tra la Porta Isolana e la
Porta di Bossadraga, ad esempio,
annoverava una torre quadrangolare, le difese proseguivano poi in
una forma ad arco teso che lambiva il mare e volgeva verso sudest, mentre la parte urbana compresa tra Porta Bossadraga e Porta San Pietro era difesa addirittura da quattro torri. A meridione di
quest’ultima era ubicata la “Torre
della munition”, alla quale seguivano fino a “Porta Ogni Santi”
altre due strutture. “Accanto alle
due porte si aprivano altrettanti
porticcioli di pescatori, funzionali per la parte meridionale della città. Da qui la cinta scorreva
in linea retta fino alla Porta della
Muda, dove, fuori dalle mura, un
ampio spiazzo era stato adibito
all’addestramento militare. Qui i
tiratori cittadini (bombardieri) si
esercitavano nell’uso di diverse
armi, per cui questo spazio veniva chiamato Bressaglio” (p. 33).
Attraverso il suo disegno, Giacomo Fino evidenzia che nei primi
decenni del XVII secolo l’intero
specchio di mare prospiciente la
parte meridionale dell’isola era
già impaludato. Il fango ammassato in gran copia dai fiumi Risano e Fiumisel (Cornalunga) impediva ormai addirittura la navigazione e di conseguenza con il passare del tempo Capodistria iniziò
a perdere l’importanza di città insulare fortificata.
Tra gli altri contributi presenti
nella pubblicazione ricordiamo la
trascrizione della legenda e l’elenco dei nomi nonché la scheda della fonte, curati rispettivamente da
Matej Župančič e Deborah Rogoznica.
Kristjan Knez
Intramontabile fascino delle vicende descritte da Omero
Scoperti i resti di una coppia dell’età della guerra di Troia
Alcuni archeologi hanno trovato nell’antica città di
Troia, in Turchia, i resti di un
uomo e una donna che si crede
siano morti nel 1.200 a.C., nell’era della leggendaria guerra
narrata da Omero. Lo ha reso
noto un importante professore tedesco di archeometria
dell’Università di Tubingen.
Ernst Pernicka, che dirige gli
scavi nella Turchia nordoccidentale, ha spiegato che i corpi
sono stati rinvenuti vicino ad
una linea di difesa all’interno
della città costruita nella tarda età del Bronzo. La scoperta
potrebbe fornire nuove prove
a conferma che la zona bassa
di Troia a quell’epoca era più
grande di quanto si pensasse precedentemente, cosa che
modificherebbe la percezione
degli studiosi della città dell’”Iliade”. “Se sarà confermato che i resti sono del 1.200
a.C., significa che risalgono al
periodo della guerra di Troia.
Stiamo conducendo un test di
datazione del radiocarbonio,
ma la scoperta è elettrizzante”, ha detto Pernicka.
L’antica Troia, situata nella
parte nordoccidentale dell’attuale Turchia, alla bocca dello stretto dei Dardanelli, non
lontano da Istanbul, è stata
riportata alla luce intorno al
1870 da Heinrich Schliemann,
imprenditore e archeologo tedesco che ha riscoperto la città ventosa descritta da Omero. Pernicka ha è stato accertato che gli oggetti di ceramica
trovati vicino ai corpi – a cui
mancava la parte inferiore –
risalgono al 1.200 a.C., ma ha
aggiunto che la coppia potrebbe essere stata sepolta 400 anni
più tardi in sito di quella che
gli archeologi chiamano Troia
VI o Troia VII, rovine diverse
da Troia. Decine di migliaia di
persone visitano ogni anno le
rovine di Troia, dove, tra gli
scavi, si erge un’enorme replica del famoso cavallo di legno.
Anno V / n. 43 del 3 ottobre 2009
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Daniela Jugo-Superina, Kristjan Knez e Roberto Palisca
Foto: Daniela Jugo-Superina, Kristjan Knez, archivio e internet
La pubblicazione del presente supplemento, sostenuta dall’Unione Italiana di Fiume / Capodistria e dall’Università Popolare di Trieste,
viene supportata dal Governo italiano all’interno del progetto EDITPIÙ in esecuzione della Convenzione MAE-UPT N° 1868
del 22 dicembre 2008, Contratto 248a del 18/10/2006 con Novazione oggettiva del 7 luglio 2009
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3.10.2009 - EDIT Edizioni italiane