Antologia di scritti per le giornate di Fonte Avellana
a cura di Girolamo Valenza
DIO, L’UOMO E IL CREATO
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INDICE
pag
Sinodo dei vescovi “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”
Proposizioni finali. La proposizione 54
3
Dichiarazione comune di impegno per l’ambiente, firmata dal Papa e dal Patriarca
Ecumenico, a conclusione del IV Congresso Ecologico Internazionale.
4
Risultati della seconda consultazione degli incaricati per l’ambiente presso le
Conferenze Episcopali Europee Bad Honnef / Germania, 4 - 7 maggio 2000
“La spiritualità della creazione e le politiche ambientali“
6
Capitolo Generale OFM 09: Ai Ministri dell’economia del G8
8
Arte e spiritualità la teologia della bellezza e il crocifisso di alberto “sozio”
di Paola Restani.
10
Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese
“Verso una spiritualità ecumenica e profetica di padre Emmanuel Clapsis
15
L’armonia della creazione nella Scrittura di Gianfranco Ravasi Mons. GIANFRANCO RAVASI
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ,
19
La "bellezza"Il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste
divenne candida e sfolgorante.” di Gianfranco Ravasi M
21
L’ambiente nel compendio della Dottrina Sociale Cattolica
a cura di Simone Morandini
23
Il creato in prospettiva cristiana Simone Morandini
30
Jürgen Moltmann – una teologia amante della vita
di Rosino Gibellini
39
Salvaguardare il creato, vocazione dell'uomo di Bartolomeo Sorge
44
Essere cristiani nella globalizzazione: cattolici e ortodossi a confronto
Adalberto Piovano Priore Abbazia di Vertemate
45
Il vangelo della trasfigurazione: esegesi biblico-spirituale
Enzo Bianchi, priore di Bose (2007)
50
Dire Dio con la bellezza di mons. Ignazio Sanna
56.
Lo specchio Felice L’uomo giardiniere del creato 1. La domanda di futuro
di Ignazio Sanna
59o
Le virtù ecologiche di Karl Golser
66
2
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SINODO DEI VESCOVI
“La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”
Roma, 5 - 26 ottobre 2008
PROPOSIZIONI FINALI
La proposizione 54
Dimensioni cosmiche della Parola di Dio e custodia del creato
La Parola di Dio comunica a noi la bellezza di Dio tramite la bellezza della
creazione e anche mediante le immagini sacre come le icone del Verbo incarnato.
Sono modalità con le quali il mistero invisibile di Dio si rende in qualche modo
visibile e percepibile dai nostri sensi. I Padri della Chiesa, del resto, hanno
sempre affermato le dimensioni cosmiche della Parola di Dio che si fa carne;
ogni creatura, infatti, porta in un certo senso un segno della Parola di Dio. In
Gesù Cristo,morto e risorto, tutte le cose create trovano la loro definitiva
ricapitolazione (cf. Ef 1, 10). Tutte le cose e le persone, perciò, sono chiamate ad
essere buone e belle in Cristo.
Purtroppo l’uomo del nostro tempo si è disabituato a contemplare la Parola di
Dio nel mondo che abita e che è stato donato da Dio. Per questo la riscoperta
della Parola di Dio, in tutte le sue dimensioni, ci spinge a denunciare tutte le
azioni dell’uomo contemporaneo che non rispettano la natura come creazione.
Accogliere la Parola di Dio attestata nella sacra Scrittura e nella Tradizione viva
della Chiesa genera un nuovo modo di vedere le cose, promuovendo una ecologia
autentica, che ha la sua radice più profonda nella obbedienza della fede che
accoglie la Parola di Dio. Pertanto desideriamo che nella azione pastorale della
Chiesa si intensifichi l’impegno per la salvaguardia del creato, sviluppando una
rinnovata sensibilità teologica sulla bontà di tutte le cose, create in Cristo, Parola
di Dio incarnata.
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Il creato nella prospettiva cristiana
Il brano seguente è tratto dalla Dichiarazione comune di impegno per
l’ambiente, firmata contemporaneamente dal Papa e dal Patriarca
Ecumenico, a conclusione del IV Congresso Ecologico Internazionale,
svoltosi dal 5 al 12 giugno su iniziativa del Patriarcato Ecumenico e della
Commissione Europea. Vi si trovano i presupposti fondamentali per
l’elaborazione di un’etica cristiana sull’ambiente, un tema che trova
importanti convergenze sul piano dell’ecumenismo ed offre rilevanti
prospettive anche nel dialogo interreligioso.
Dio Onnipotente ha concepito un mondo di bellezza e d’armonia ed egli lo ha creato, facendo di ogni
suo aspetto un’espressione della sua libertà, della sua saggezza e del suo amore (cf. Gen 1,1-25).
Al centro del creato, egli ha posto noi, gli esseri umani, con la nostra inalienabile dignità. Sebbene
siano molte le caratteristiche che condividiamo con gli altri esseri viventi, Dio onnipotente con noi è
andato oltre. Egli ci ha dato un’anima immortale, fonte di autocoscienza e di libertà, doti intellettuali
che ci rendono a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-31; 2,7). Contraddistinti da tale
somiglianza, siamo stati posti da Dio nel mondo affinché collaborassimo con lui nel realizzare sempre
più pienamente il fine divino della creazione.
All’inizio della storia, l’uomo e la donna hanno peccato disobbedendo a Dio, rigettando il suo disegno
sulla creazione. Una delle conseguenze di questo primo peccato è stata la distruzione dell’originaria
armonia della creazione. Se esaminiamo attentamente la crisi sociale e ambientale affrontata
attualmente dalla comunità mondiale, dobbiamo concludere che continuiamo a tradire il mandato
affidatoci da Dio: essere servitori, chiamati a collaborare con lui, e che vegliano in santità e con
saggezza sulla creazione.
Dio non ha abbandonato il mondo. Egli vuole che il suo disegno e la nostra speranza in esso si
realizzino per mezzo della nostra collaborazione nel ristabilire la sua originaria armonia. Nel nostro
tempo assistiamo alla crescita di una consapevolezza ecologica, che deve essere incoraggiata affinché
essa si attui in programmi e iniziative pratiche. Da una consapevolezza della relazione tra Dio e il
genere umano deriva un senso più profondo dell’importanza della relazione tra il genere umano e
l’ambiente naturale, cioè la creazione di Dio, che Dio ha affidato al genere umano affinché esso possa
custodirla con saggezza e amore (cf. Gen 1,28).
Il rispetto della creazione deriva dal rispetto per la vita e la dignità umana. Soltanto se riconosciamo
che il mondo è creato da Dio possiamo discernere un ordine morale oggettivo entro il quale articolare
un codice di condotta ambientale. In questa prospettiva, i cristiani e tutti gli altri credenti hanno una
funzione specifica nel proclamare i valori morali e nell’educare le persone a una consapevolezza
ecologica, la quale non è altro che la responsabilità assunta nei confronti di se stessi, nei confronti degli
altri e nei confronti della creazione.
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Occorre un atto di pentimento da parte nostra, e il rinnovato tentativo di considerare noi stessi, di
considerarci l’un l’altro, e di considerare il mondo che ci circonda, nella prospettiva del disegno divino
sulla creazione. Il problema non è meramente economico e tecnologico; esso è di ordine morale e
spirituale. Si può trovare una soluzione, al livello economico e tecnologico, soltanto se nell’intimo del
nostro cuore si verificherà un cambiamento quanto più possibile radicale, che potrà indurci a cambiare
il nostro stile di vita, e i nostri insostenibili modelli di consumo e produzione. Una genuina conversione
in Cristo ci permetterà di cambiare i nostri modi di pensare e di agire.
[Giovanni Paolo II e Bartolomeo I - 2002]
Dichiarazione congiunta del Santo Padre Giovanni Paolo II e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I,
Roma - Venezia, 10 giugno 2002. Il Regno – Documenti, n. 13, 2002, p. 404.
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Risultati della seconda consultazione degli incaricati per l’ambiente presso le
Conferenze Episcopali Europee Bad Honnef / Germania, 4 - 7 maggio 2000
„La spiritualità della creazione e le politiche ambientali“
1) La bellezza e l’espressività della liturgia cristiana che si sviluppa lungo l’anno liturgico ha
come fonte essenziale la simbologia della natura, trasfigurata dal mistero di Cristo. Per
portare questo a una maggiore consapevolezza dei cristiani, i delegati delle Conferenze
episcopali per l’ambiente propongono, in attuazione alle raccomandazioni operative della
Seconda Assemblea Ecumenica Europea di Graz, di introdurre una „giornata della
creazione” da celebrarsi nel periodo fra il primo settembre e la giornata del ringraziamento
per il raccolto. Questa iniziativa a favore dell’ambiente, proposta dal Patriarcato di
Costantinopoli, potrebbe costituire una campo di proficua collaborazione ecumenica. In
alcuni Paesi sono già state vissute esperienze positive, con iniziative spirituali, sociali e
politiche.
2) L’impegno concreto delle Chiese per uno sviluppo sostenibile e giusto si realizza in primo
luogo nella formazione delle coscienze attraverso l’annuncio della parola e l’educazione.
Un importante aiuto per questo sarebbe l’inserimento della tematica della creazione nei libri
di scuola e nei catechismi, in particolare anche nell’annunciato Catechismo Sociale della
Chiesa. La trasmissione della responsabilità nell’insegnamento religioso esige dei nuovi
approcci didattici.
3) Dei progetti modello costituiscono una condizione di credibilità della Chiesa e un
incoraggiamento importante da imitare nell’ambito, ad esempio, dell’energia rinnovabile, di
una costruzione ecologica o di un’agricoltura rispettosa della natura. La sostenibilità nella
responsabilità cristiana verso la creazione tocca ogni campo d’azione della Chiesa,
dall’amministrazione alla pastorale. Anche i movimenti ecclesiali laicali possono
manifestare un impegno modello in questo ambito.
4) L’impegno socio-politico della Chiesa nasce dal centro della fede cristiana e trae la sua
fonte in una spiritualità e in uno stile di vita nel segno della speranza e della giustizia,
orientate al rispetto della dignità di ogni persona umana e all’amore per tutte le creature. Per
questa testimonianza della fede si presenta ora l’occasione non trascurabile di una
collaborazione a diversi livelli con i processi dell’Agenda 21 per uno sviluppo sostenibile
al livello locale, regionale e nazionale.
IV. Speranza per l’Europa del futuro
5) Proprio nel periodo presente, segnato dalla trasformazione e dalla crisi del processo di
unificazione dell’Europa, le Chiese possono apportare una visione per la convivenza
pacifica fra i popoli, degli elementi fondamentali per un’identità culturale europea e delle
esperienze concrete di una comminuta che unisce i popoli. Ciò rappresenta un contributo
importante per la comprensione tra i popoli, la pace e la presa di coscienza della
responsabilità ecologica.
6) In alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale si trovano, oltre ad ingenti danni recati alla
natura, anche zone in cui la natura è ancora intatta e dotata di una ricca biodiversità. Questo
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prezioso patrimonio è attualmente minacciato da programmi di sviluppo le cui sovvenzioni
non sono orientate secondo criteri di sostenibilità. Le Chiese vogliono impegnarsi per un
mutuo processo di apprendimento, prendendo in particolare considerazione le esperienze del
centro e dell’Est europeo, per un buon equilibrio tra gli aspetti di sviluppo ecologico, sociale
ed economico.
7) Tutti i cittadini d’Europa sono chiamati a sviluppare nuovi stili di vita sostenibili, che si
staccano dai bisogni di consumo sempre crescenti delle società occidentali. Una spiritualità
ecologica, nello spirito delle Beatitudini, della solidarietà con i poveri e dell’amore per il
creato, potrà essere una liberazione per i Paesi ricchi. L’anno giubilare, inteso
originariamente come ritorno al Dio che ci dona la terra e ci offre sempre una possibilità di
conversione e di liberazione, potrà in questo senso essere un aiuto per vivere questa
spiritualità.
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CapGen09: Ai Ministri dell’economia del G8
Ai Ministri dell’economia del G8
Noi Francescani, Frati Minori (Governo dell’Ordine, Ministri e Custodi), riuniti in Assisi per il 187°
Capitolo generale in questo anno 2009, VIII centenario della fondazione del nostro Ordine, e provenienti
da 110 Paesi del mondo in rappresentanza di 15.000 frati che condividono direttamente e concretamente le
sorti dei nostri popoli, desideriamo inviare a Voi, Ministri dell’economia del G8, il saluto francescano di
“pace e bene!” e un nostro fraterno, accorato messaggio.
Testimoniamo, nella nostra società, il non sufficiente riconoscimento di alcuni inalienabili diritti della
persona umana a livello economico, sociale, culturale, civile e politico, tra i quali il diritto alla vita in ogni
suo momento, alla libertà nelle sue molteplici manifestazioni, al lavoro e allo studio, i diritti della donna e
dei bambini, senza trascurare il problema cruciale della disoccupazione e della mancanza di sostegno alle
famiglie in difficoltà.
Constatiamo con crescente inquietudine come la globalizzazione, retta dalle pure leggi di mercato, porti
come conseguenze: l’attribuzione di un valore assoluto all’economia, la disoccupazione, la diminuzione e
il deterioramento dei servizi pubblici, la distruzione dell’ambiente e della natura, la produzione e la
vendita indiscriminata delle armi, l’aumento delle differenze tra ricchi e poveri, la concorrenza ingiusta
che pone le nazioni povere in una situazione di inferiorità sempre più evidente, costringendo milioni di
persone ad una disperata emigrazione dai propri territori.
Per superare la crisi economica, noi crediamo nell’impegno per trasformare l’attuale stile di vita attraverso
una sobrietà più responsabile, la condivisione come alternativa alla competizione, il rispetto dell’ambiente
e la nonviolenza attiva.
Alla luce di quanto sopra proponiamo che i governi:
* programmino una economia che rappresenti un cambio di paradigma, il passaggio, cioè,
da un modello di economia di libero mercato a un modello di economia della sostenibilità,
che dia il primato alla dimensione sociale e ambientale su quella prettamente economica e
che garantisca i bisogni fondamentali a tutti con il contributo di tutti;
* favoriscano politiche produttive che evitino produzioni inquinanti;
* attuino politiche energetiche basate su energie rinnovabili rispettando gli ecosistemi;
* mantengano gli impegni già solennemente presi relativamente allo stanziamento dello
0,7% del PIL per il raggiungimento degli otto obiettivi di sviluppo del millennio.
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Seguendo l’insegnamento di Francesco d’Assisi, patrono dell’ecologia, conosciuto in tutto il mondo quale
testimone di pace e di fraternità, sollecitiamo di porre al centro la persona umana in tutte le sue
dimensioni, chiedendo che venga promosso ulteriormente:
* il rispetto della dignità e della uguaglianza della persona umana, con l’impegno
conseguente della costruzione del bene comune e della destinazione universale dei beni;
* un rinnovato sforzo verso uno sviluppo sostenibile che garantisca la realizzazione dei
bisogni delle attuali generazioni senza compromettere possibilità e soddisfazioni alle future;
* una crescita economica coniugata con la salvaguardia ambientale e la distribuzione dei
benefici tra tutti i paesi.
Per questo chiediamo che con sollecitudine Vi possiate adoperare per soddisfare nel miglior modo
possibile le attese e i bisogni dell’uomo d’oggi.
Come Frati Minori Vi assicuriamo tutto il nostro appoggio per questo cammino e Vi salutiamo con le
parole di Francesco d’Assisi, fondatore del nostro Ordine: “Il Signore Vi doni la sua pace!”
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LA TEOLOGIA DELLA BELLEZZA E IL CROCIFISSO DI ALBERTO "SOZIO"
La teologia della bellezza è un tema che affascina, coinvolge ed intriga, in quanto essa non si
risolve in un insieme di conoscenze razionali, ma nell’esperienza dell’interazione tra unità,
verità e bontà, nel rimanere appagati dal Mistero di Dio.
ARTE E SPIRITUALITÀ
LA TEOLOGIA DELLA BELLEZZA
E IL CROCIFISSO DI ALBERTO “SOZIO”
di PAOLA RESTANI
“Quale bellezza salverà il mondo?”
Dostoyevski, L’idiota
La teologia della bellezza è un tema che affascina, coinvolge ed intriga, in quanto
essa non si risolve in un insieme di conoscenze razionali, ma nell’esperienza
dell’interazione tra unità, verità e bontà, nel rimanere appagati dal Mistero di Dio
Aristotele affermava che, se non è possibile vivere senza felicità, non è neppure
possibile vivere senza bellezza. Quest’ultima cattura e rallegra gli animi, è un
mistero capace di generare pace e suscitare gioia, in quanto è splendore di verità.
“Ogni bellezza creata è un riflesso e una partecipazione dello splendore della
Bellezza in sé, che è stata manifestata in Cristo, Bellezza incarnata: con l’occhio
della fede, che è amore, il credente gode già ora, sia pure in forma riflessa come
attraverso uno specchio, di qualcosa di quella Bellezza in sé che sarà una gioia
per sempre nella visione beatifica”(1). Il potere della bellezza consiste
nell’attrarre: “La bellezza è quel potere che consente a ciò che è veramente buono
di farci uscire da noi stessi per raggiungere l’eccellenza”(2). Ecco perché non
possiamo vivere senza bellezza poiché essa suscita, accentra e mantiene la
tensione necessaria all’uomo per realizzare la sua eccellenza umana: diviene la
motivazione centrale di ogni decisione e azione dell’uomo.
Nella storia della cultura cristiana la via della bellezza è stata percorsa con
sincera partecipazione religiosa e profondo impulso culturale da Sant’Agostino a
Fénelon, da San Tommaso a Maritain, da San Francesco a von Balthasar. Tanti
santi e tanti artisti hanno colto di Dio soprattutto la Bellezza, Francesco di Assisi
nelle sue lodi per ben due volte si rivolge a Dio in questo modo: “Tu sei
Bellezza”. Agli occhi della fede la bellezza appare come verità della creazione
che contrasta l’avvilimento umano e la sua nichilistica deriva. Essa non allude
semplicemente al suo originario legame con la bontà dell’opera creatrice di Dio,
di cui Egli si compiace, come racconta la Genesi (1,31), ma evoca il sentimento
di corrispondenza, cioè prefigura la restituzione da parte dell’uomo del senso
originario della creazione: l’amore. Dio, creando l’uomo e la donna a propria
immagine e somiglianza, ha voluto dare loro dignità di persone ed una esistenza
propria custodita dal libero arbitrio. L’umanità viene chiamata a restituire il dono
della bellezza che l’accompagna dalla creazione. Dio creò l’uomo come il frutto
più nobile del Suo progetto, a lui sottomise il mondo come campo in cui
esprimere la sua capacità inventiva e la sua capacità di amare. L’uomo è dunque
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invitato ad essere artefice della propria vita plasmando la sua umanità e poi
l’universo che lo circonda in nome della Bellezza/Amore. Così facendo,
nell’uomo artefice si rispecchia l’immagine di Dio Creatore. Non sempre questo
si realizza, la verità della bellezza non abita pacificamente l’umana edificazione
del mondo. Spesso la passione della bellezza diventa apparenza o illusione del
bene, oppure ebbrezza di una esistenza fine a se stessa che rende lecita anche la
dissipazione di ogni dono dello Spirito Santo, o peggio diviene ossessione
spirituale con il rischio di una anestesia nei confronti del dolore del mondo e
indifferenza all’avvilimento dell’uomo. In questi casi la bellezza si separa dalla
sua vera essenza e, quindi, dalla speranza dell’umanità. Le parole di
Sant’Agostino: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho
amato” (Le Confessioni X, 27) sollecitano gli uomini a riappropriarsi di una
sensibilità capace di far sentire interiormente la forza divina dello Spirito
Creatore.
Le opere umane della bellezza non appagano completamente, bensì esse invitano
a proiettarsi più audacemente verso la bellezza del Mistero di Dio che indica
all’uomo la vera destinazione spirituale della sua attrattiva. “Ne consegue per
tutti i credenti un forte impulso a riscoprire e a far scoprire il lato bello di Dio. La
testimonianza è possibile soltanto al prezzo di una profonda assimilazione di
nuovi sensi spirituali, capaci di formare l’uomo e la donna credenti al
discernimento dell’immagine del Figlio e dei doni dello Spirito nell’odierna
condizione umana”(3).
In un mondo in cui esiste tanta bruttezza, tanta cattiveria, tanta meschinità e
falsità, dove la bellezza della figura umana è distrutta da guerre e violenze o
manipolata e degradata a mero piacere estetico e fisico, è necessario ed urgente
ritrovare questo senso profondo della bellezza.
Risolvere l’interrogativo suggerito da Dostoyevski non appare, in particolare al
giorno d’oggi, cosa facile, ma ispirandoci alle parole della Lettera Pastorale per
l’anno 2000 del Cardinal Martini, potremo rispondere che la bellezza che salverà
il mondo è l’amore che condivide il dolore, è la figura del Bel Pastore che dona la
sua vita per le sue pecore.
Cristo incarna in modo supremo l’ideale greco del καλóV e dell’ὰgaqóV,
raggiunge la condizione totale di santità e integrità sia nella disposizione interiore
che nell’aspetto esteriore. Realizza l’idea del pastore autenticamente buono la cui
beltà è tale da attrarre a sé tutti gli uomini. La bellezza della sua bontà salva il
mondo offrendo la vita per le sue pecore.
La figura di Gesù, trascendendo ogni divieto idolatrico, è la sacra
rappresentazione dell’umanità del Padre, è la legittima ed unica immagine
visibile di Dio invisibile. L’arte invoca la bellezza per elaborare il dolore e non
può evitare il legame originario tra il bello ed il bene che si richiama alla causa
stessa della creazione. Nella rappresentazione di Gesù crocifisso, ad esempio,
non si è trasportati alla deriva a causa del dolore e della morte, ma spinti verso il
Mistero della bellezza.
In Cristo è custodito quel potere della bellezza capace di ispirare, motivare,
trasformare e modellare la vita umana. La vera bellezza implica qualsiasi cosa
possa spingerci alla nostra realizzazione, comporta il vero amore che è fedeltà,
responsabilità e gioia. Altra è la bellezza che seduce, la quale provoca la nostra
autodistruzione e un amore che è disordine e infelicità. Gesù crocifisso e
glorificato rappresenta la Bellezza in sé che cattura e rapisce l’umanità. Nella
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contemplazione del crocifisso c’è la visione dell’Amore, della Bellezza e del suo
Potere Salvifico.
Le opere d’arte, sia figurative che letterarie costituiscono non solo delle
raffigurazioni esteriori di una ispirazione profondamente intima, ma dei veri e
propri “luoghi teologici”(4). A tal proposito il Crocifisso di “Sozio” evoca, con
straordinaria forza e profondità, nello stesso tempo due momenti fondamentali: la
crocifissione e l’ascesa al cielo di Cristo risorto. La croce e la resurrezione
rappresentano la forza di un amore talmente grande da non poter essere vinto
neppure dalla morte.
L’unica opera sicura e datata di Alberto “Sozio”(5) è appunto un crocifisso dipinto
che segna l’inizio di tutta una serie di crocifissi umbri(6). L’opera è conservata
attualmente nella prima cappella della navata di sinistra del Duomo di Spoleto,
ma sembra certo che in origine fosse destinata alla chiesa dei SS. Giovanni e
Paolo. Il crocifisso è dipinto su una pergamena applicata su di un supporto ligneo
alto cm 278 e largo cm 200. All’estremità inferiore della croce si trova una
iscrizione, conservata solo parzialmente, in cui si legge l’anno 1187 ed il pittore,
il cui nome è stato quasi sempre integrato arbitrariamente dai critici in Alberto
“Sozio”(7). Per quanto riguarda lo stile del Crocifisso, gli studiosi sono d’accordo
nel riconoscere una forte influenza dell’arte bizantina: molto probabilmente
“Sozio” assorbì attraverso Roma non solo il gusto linearistico, ma anche i modi
plastici della predetta cultura(8) che qualche studioso suppone anche di
provenienza dell’Italia meridionale (9).
Elemento dominante del Crocifisso è la rappresentazione del Cristo vivo, desunta
dall’arte dei primi secoli della Cristianità ed assurta a valore di simbolo. È
rappresentato con gli occhi aperti, il corpo eretto ed i piedi disgiunti trafitti da
due chiodi, ha i fianchi coperti da un perizoma trasparente decorato da sottili
bande rosse ed azzurre. Ai lati della figura principale partecipano all’evento, a
sinistra la Vergine che indossa una veste azzurro cupo, a destra San Giovanni con
veste azzurra fasciata da un manto rosso chiaro. Al di sotto del soppedaneo si
vede il teschio di Adamo, quasi nascosto in una roccia, su di esso scorre del
sangue partendo dalle ferite di Cristo. Sulla parte culminante della croce è
rappresentata l’Ascensione: il Redentore, che con la sinistra regge la croce,
ascende al cielo in una mandorla recata da quattro angeli
.Cristo è glorificato come il più bello tra gli uomini (Salmo 44,3) e, dopo la
Passione, come volto sfigurato dal dolore (Is. 53,2). La bellezza a cui si allude
non è semplicemente bellezza esteriore quanto piuttosto la bellezza della Verità,
la bellezza di Dio che è Amore, dono fino alla fine. Ed infatti Dio si è
manifestato nelle sembianze di Cristo crocifisso e sofferente come Amore “sino
alla fine” (Gv 13,1). La bellezza della verità, quindi, comporta sofferenza, dolore,
sacrificio perfino per il Figlio di Dio. L’immagine della crocifissione evoca in
modo immediato il legame tra bellezza e dolore. Attraverso la visione esteriore,
la percezione interiore deve liberarsi ed innalzarsi verso una profondità più vera
della realtà sensibile: lo splendore di Dio. Ammirare i capolavori dell’arte
cristiana porta attraverso il superamento di sé ad una purificazione dello sguardo
che apre il cuore alla bellezza.
Nella Passione di Cristo, Colui che è Bellezza stessa, si lascia sfigurare in modo
impressionante, ma proprio il volto insanguinato e sofferente per il dolore rivela
la bellezza più autentica, la forza dell’Amore fino all’estremo sacrificio. L’icona
di Cristo crocifisso sconfigge qualsiasi accusa riguardante il messaggio della
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bellezza, messo in dubbio ipotizzando la non esistenza di Dio poiché Egli non
interviene di fronte alle varie forme di manifestazione del male. Conditio sine
qua non è che noi uomini crediamo nell’Amore che può ferire e far soffrire, ma
promette la Resurrezione e l’Amore eterno.
Gesù ha dato la sua vita sulla croce affinché l’umanità si salvasse dal peccato e
l’unità d’amore tra Dio e ogni creatura non si spezzasse, quindi tra crocifisso e
vita c’è un rapporto inscindibile. Gesù non evita né la morte né la sofferenza, ma
anzi questa ultima diventa fonte di crescita per sé e per l’intera umanità. Nella
crocifissione vi è implicito un invito incessante ed appassionato a donarsi in
nome dell’amore. Con la vita abbiamo ricevuto l’opportunità di amare e di
realizzarci per mezzo dell’amore e del dono sincero di sé sull’esempio di Cristo.
Lo splendore e la gioia della bellezza divina vengono percepiti da coloro che,
puri di cuore, vedono Dio in tutte le cose create. Essi guardano gli orrori, la
rovina, il peccato per trovare Dio, invece i cinici guardano tutto ciò che è bello,
buono e semplice per trovare aspetti cupi. Il Cristo crocifisso e risorto rivela e
comunica l’amore di Dio che dona se stesso a tutta l’umanità. Gesù si fa servo di
Dio adempiendo alla Sua volontà e attraverso il dono del suo Spirito si conforma
alla sapienza del Padre.
Cristo è l’immagine vivente di Dio, con la sua divino-umanità rende possibile
all’uomo di credere in Dio, di vederLo e di amarLo: “Chi ha visto me ha visto il
Padre” (Gv 14,9). L’umanità è animata da una ricerca continua di qualcosa, una
insoddisfazione o una inquietudine spesso spingono ad inseguire qualcosa che
sfugge. Spesso lo scopo che anima la ricerca non viene soddisfatto in modo
radicale, il bisogno di un appagamento totale può essere trovato solo nell’amore
infinito di Dio che si dona a noi
.Il dono d’amore di Cristo attrae verso la bellezza suprema di Dio. La nostra
capacità di godere delle cose create e di partecipare quindi alla gioia della
creazione è sottintesa a due essenziali virtù: la carità, che è amore e l’umiltà, che
ci permette di sconfiggere la superbia e di porci di fronte ad ogni cosa con
stupore e gratitudine, ci consente di non dare nulla per scontato riconoscendo in
tutto il dono del Signore. Questo presuppone la nostra disponibilità nel credere
che ogni cosa, compresa la nostra creazione, sia un dono gratuito di Dio. L’amore
e la gioia dell’uomo sono una specie di ripetizione e di risposta all’amore del
Creatore.
Con la sua morte Cristo restituisce al mondo la bellezza umana deformata dal
peccato, permette all’umanità di avere un’altra chance per lasciarsi trasformare
dalla bellezza divina ritrovata. La vita di ogni cristiano nel mondo rappresenta
uno sforzo per reintrodurre la bellezza nell’umanità attraverso la trasformazione
non solo dei cuori, ma anche delle strutture della società. Questo significa lasciar
entrare sempre più bellezza nella vita spirituale, nei cuori, nella vita comunitaria
ed essere attenti all’autenticità delle relazioni perché esse rappresentano un
riflesso della Bellezza originaria.
NOTE
1 J. NAVONE, Verso una teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Milano 1998, p. 11.
2 J. NAVONE, Verso una teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Milano 1998, p. 39.
Conferenza di Padre Marko Ivan Rupnik dal titolo “La bellezza salverà il mondo”, organizzata dal Centro Leone
XIII tenutasi nella Sala dei Notari a Perugia il 10/12/2004.
3 P.A. SEQUERI, La “via pulchritudinis”: limiti e stimoli di una spiritualità estetica, in Credere Oggi, n. 117
maggio/giugno 2000, p. 2.
4 D. ROUSSEAU, L’icona splendore del tuo volto, Edizioni San Paolo, Milano 1990, p. 123.
5 U. GNOLI, Pittori e miniatori nell’Umbria, Spoleto 1923, p.15; P. TOESCA, Storia dell’arte italiana, vol.1/2,
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Torino1927, p.930 ss. e p.1025, nota 11; F. BOLOGNA, La pittura italiana delle origini, Roma 1962, p.54.
6 In generale sul crocifisso vedi: E. SANDBERG VAVALA’, La croce dipinta italiana e l’iconografia della
Passione, Verona 1929, p. 613-619.
7 G. BENAZZI, La croce di Alberto nel Duomo di Spoleto, in Quando Spoleto era romanica, catalogo della
mostra, Spoleto 1984, pp. 61-73; G. SAPORI, “Alberto Sotio”, “Berto di Mattia”, “Girolamo di Giovanni”, in
Spoletium, 12, 1970, p. 46.
8 U. LIEBL, Nuovi contributi sugli affreschi più antichi della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Spoleto, in
“Spoletium” 36-37, 1992, pp. 54-61.
9 E. SANDBERG VAVALA’, La croce dipinta italiana e l’iconografia della Passione, Verona 1929, p. 613-619.
Anno III n.3, maggio/giugno 2005
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Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese
Verso una spiritualità ecumenica e profetica
di padre Emmanuel Clapsis
Il testo che segue riporta ampi stralci della relazione tenuta al XIV Convegno
ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa tenutosi al monastero di Bose nel
settembre 2006. L’edizione integrale degli Atti uscirà nel mese di giugno per le edizioni
Qiqajon. Si pubblica per gentile concessione dell’editore.
Padre Emmanuel Clapsis insegna teologia sistematica alla Holy Cross Greek Orthodox
School of Theology di Boston; è stato membro di numerose commissioni teologiche di
dialogo ecumenico e del Consiglio ecumenico delle Chiese.
Alla nona Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese tenutasi nel 2006 a Porto Alegre, in
Brasile, le Chiese cristiane hanno riconosciuto la necessità di «concentrare l’attenzione sulla
natura della spiritualità cristiana e sull’opera dello Spirito Santo nella Chiesa e nel mondo». Un
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aspetto di essenziale importanza per l’integrità del lavoro ecumenico in vista dell’unità visibile
e per la missione delle Chiese. Il bisogno di fondare il movimento ecumenico e la missione
delle Chiese cristiane nell’opera dello Spirito Santo è un principio condiviso, fondante
l’ecumenismo.
Una spiritualità ecumenica per i nostri tempi deve essere una spiritualità dell’incarnazione, qui e
ora, capace di dare vita, radicata nelle Scritture e nutrita dalla preghiera, con una dimensione
comunitaria e celebrante, centrata sull’Eucaristia; deve trovare espressione nel servizio e nella
testimonianza, ispirare fiducia e speranza. Inevitabilmente condurrà a sopportare sofferenze; è
aperta all’ecumene, gioiosa e ricca di speranza. Sua fonte e guida è l’azione dello Spirito. È
vissuta e ricercata in comunità per gli altri. È un processo continuo di formazione e discepolato.
Coloro che vivono nello Spirito Santo sanno aprire i loro cuori per abbracciare l’interezza della
creazione di Dio. Si prendono cura della vita umana e dell’esperienza di ogni giorno, così come
delle questioni di fondo della vita e della sopravvivenza dell’uomo, della giustizia, della pace,
della custodia del creato, ma anche delle religioni umane e delle acquisizioni della cultura.
Come ha sostenuto il cardinale Walter Kasper, «la spiritualità sopravvive solo mettendosi in
ascolto dei suggerimenti, attese, gioie e fallimenti della vita, e nel riconoscere i segni dei tempi
che si rinvengono ogniqualvolta una nuova vita emerge e si sviluppa… Ogniqualvolta la vera
vita appare, lo Spirito di Dio è al lavoro». Il suo appello per una spiritualità del quotidiano che
abbracci la totalità della vita è stato appoggiato senza riserve dal vescovo ortodosso Kallistos
Ware, che ha auspicato «una spiritualità che sappia coinvolgere la vita, in cui non ci sia
dicotomia tra il sacro e il profano; una spiritualità non autosufficiente, non specializzata nei suoi
propri ambiti, involuta in se stessa, ma al contrario che consideri il mondo come sacramento,
che veda ogni essere umano e ogni cosa quali mezzi di comunione con il Dio vivente».
Sembra emergere una convergenza ecumenica sul tipo di spiritualità che le Chiese cristiane
intendono incarnare nel mondo presente. Si tratta di una spiritualità che riflette l’opera dello
Spirito Santo in ogni aspetto dell’esistenza umana. Include la pienezza della vita - profana e
sacra, personale e collettiva -, e non semplicemente la relazione dell’io interiore con Dio. Ora,
nel mondo post-moderno si verifica una migrazione culturale verso una vita soggettiva. Le
soggettività di ciascun individuo (stati di coscienza, memoria, emozioni, passioni, esperienze
fisiche, sogni, sentimenti) diventano una, se non l’unica, fonte di significato, senso e autorità.
La «vita-come-se» è identificata con la religione e la «vita soggettiva» con la spiritualità.
La ricerca per comprendere i fattori sociali che caratterizzano la mutazione culturale verso il
soggetto e la preminenza che la spiritualità assume nei confronti della religione deve tener conto
anche degli effetti che la cultura consumistica e la mentalità di mercato hanno su ogni aspetto
della nostra vita sociale e personale. Per esempio, nelle società moderne è emersa una
spiritualità individualista-consumistica che comprende capitalismo, consumismo e
individualismo, con un orientamento «post-moderno» che privilegia l’eclettismo, la
sperimentazione individualistica, un approccio alle tradizioni religiose del tipo «prendine un po’
e mescola insieme». Questo riduzionismo è favorito dalla stessa nebulosità del termine
«spiritualità». Il più delle volte, la spiritualità comporta un ampio ventaglio di emozioni e
connotazioni, che nella maggior parte dei casi possono essere identificate solo da una certa
comprensione della storia del termine, e anche dall’indagine del suo specifico contesto d’uso. I
teologi ortodossi nei loro scritti sulla spiritualità e la vita spirituale si sono concentrati
soprattutto sulla presentazione della tradizione esicasta, com’è stata praticata nel monachesimo
orientale, e hanno recentemente introdotto un importante correttivo a questa tradizione,
recuperando ciò che è chiamato spiritualità eucaristica o sacramentale, che assicura l’aspetto
comunionale della vita ortodossa. Tuttavia non impegnano sufficientemente la riflessione sui
fattori culturali che influenzano oggi la pratica e la comprensione delle vita spirituale ortodossa.
Per padre Alexander Schmemann, la corruzione culturale della spiritualità cristiana è un
problema acuto anche per gli ortodossi: «Il nostro è il tempo dell’impostura, della frode
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spirituale… e il pericolo maggiore, la più grande carenza di tutto questo fenomeno è che troppe
persone oggi - compresi quelli che appaiono come i più tradizionali “dispensatori” di spiritualità
- sembrano considerare la spiritualità una sorta di entità a se stante, pressoché totalmente
disconnessa dall’insieme della concezione cristiana e dell’esperienza di Dio, del mondo e
dell’uomo, dalla totalità della fede cristiana. Ho visto la filocalia (l’amore per la bellezza - ndr)
letta e praticata in gruppi e circoli i cui insegnamenti esoterici non solo non hanno nulla in
comune, ma sono diametralmente opposti alla concezione cristiana del mondo. Così, quando è
staccata dalla totalità della fede, persino quella “spiritualità” che ha l’apparenza più
tradizionale, più ortodossa, corre sempre il rischio di diventare unilaterale, riduzionista e in
questo senso eretica... diventando in altri termini una pseudo-spiritualità».
Secondo la definizione del Dizionario ecumenico, la spiritualità è la formazione e lo sviluppo
dell’esistenza cristiana nel mondo sotto la guida dello Spirito Santo. I molteplici contesti
culturali, i fattori sociali, le idiosincrasie personali e le storie diverse influenzeranno
inevitabilmente aspetti diversi di questa viva esperienza della vita cristiana. Ciò colloca la
spiritualità in una tensione tra l’unico Spirito Santo che è all’opera ovunque e in tutti, e la
molteplicità delle concrete situazioni culturali e sociali e delle forme di vita. Mentre la
spiritualità cristiana deve essere fondata nella tradizione biblica e modellata dalle pratiche
sacramentali della Chiesa, è necessario accettare lo sviluppo di spiritualità multiple, poiché è
possibile vivere l’unica vocazione cristiana in una varietà di forme.
La più alta espressione della vita nello Spirito di Dio è l’amore (1Cor 13,13), e così una persona
vive in comunione d’amore con Dio e con il mondo. La spiritualità battesimale ed eucaristica,
con i suoi forti aspetti ecclesiologici, non è l’unica spiritualità emersa nella Chiesa primitiva o
persino quella più eminente che i teologi ortodossi hanno considerato quale unico contributo
della tradizione orientale, alla ricerca di una spiritualità ecumenica. John Zizioulas discerne
nella Chiesa primitiva due correnti di spiritualità che continuano a coesistere e che non sempre
sono compatibili tra loro. Una è identificata con il tipo di spiritualità basato sulla comunità
eucaristica, che implica la comunità e il suo orientamento escatologico come fattori decisivi;
l’altra corrente è quella tipologia di spiritualità basata sull’esperienza dell’individuo che
combatte contro le passioni ed è teso al raggiungimento della perfezione morale: una spiritualità
accompagnata dall’unione mistica dell’anima o della mente con il Logos di Dio.
La tradizione contemplativa monastica tende a identificare la spiritualità con un’attitudine
interiore, personale, influenzata dall’azione dello Spirito Santo e orientata alla sequela di Cristo.
Una della principali caratteristiche che differenzia la loro concezione è che nella spiritualità
eucaristica l’altro, la creazione e la comunità dei fedeli sono intrinsecamente coinvolti, mentre
nella spiritualità contemplativa ciò che ha la priorità è la personale «visione» di Dio. Solo dopo
la realizzazione di questa unità, la visione di Dio, una persona illuminata può volgersi con
amore verso gli altri. Nella luce della svolta soggettivistica e degli effetti involontari di una
cultura consumistica, la spiritualità contemplativa ricevuta e praticata al di fuori dell’assemblea
eucaristica corre il rischio di ridurre la vita spirituale cristiana al rafforzamento religioso
dell’individualismo, disgiungendo esistenzialmente le «persone spirituali» dalla comunità dei
fedeli e dal mondo. Questa critica non deve intendersi come un ripudio della spiritualità
contemplativa, ma come la necessità di riconoscerla come un aspetto essenziale della spiritualità
cristiana che non può essere disgiunto dall’ethos eucaristico ed evangelico. Proprio questi ultimi
completano e danno il giusto contesto agli sforzi ascetici. L’aspetto «interiore» e contemplativo
della spiritualità è solo un aspetto della vita spirituale che non può essere distaccato o praticato
indipendentemente dalla Chiesa. Lo Spirito rinnova la pienezza del mondo, così come l’aspetto
interiore ed esteriore della vita umana.
La spiritualità eucaristica, con la sua enfasi escatologica, può in qualche esempio separarsi dalla
storia e divenire indifferente alla necessità di manifestare la novità in Cristo attraverso parole e
azioni che riflettono lo spirito di ciò che la Chiesa e il cristiano battezzato sono divenuti in
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Cristo. La celebrazione escatologica dell’attiva presenza di Dio nel mondo - com’è sperimentata
e vissuta nell’Eucaristia -, invece di diventare la base della partecipazione della Chiesa e
dell’impegno nella continua opera di Dio per la trasfigurazione del mondo, in qualche caso
diventa una giustificazione ideologica per fuggire dalla storia. John Zizioulas ripudia questa
corrente e riconosce la necessità per l’ortodossia di trarre implicazioni etiche dall’Eucaristia.
L’ortodosso non può accontentarsi di «una bellissima liturgia senza prendersi cura di trarne le
conseguenze sociali ed etiche». Un’attitudine simile compromette la missione e l’impegno della
Chiesa.
Una vita spirituale che riflette l’ethos evangelico, liturgico e patristico della Chiesa dovrebbe
riflettere l’inseparabile unità tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo. La vita spirituale è una
vita di comunione che riflette l’amore di Dio. Come afferma Olivier Clement, «entrare in Dio
significa lasciarsi prendere dall’immenso movimento dell’amore della Trinità che ci rivela
l’altra persona come “prossimo” o, meglio, che fa diventare ciascuno di noi il “prossimo” degli
altri. E diventare prossimo vuol dire stare dalla parte di Cristo, poiché egli si identifica con ogni
essere umano che soffre o viene rifiutato, che è in carcere o ignorato… (Mt 25,35-40)». Karl
Rahner afferma che se qualcuno sostenesse che l’amore di Dio è qualcosa che ha avuto luogo
isolatamente dagli altri o che è possibile amare Dio pur ignorando il proprio prossimo, non si
tratterebbe certamente del messaggio cristiano. Amare gli altri con le loro irriducibili differenze
e condividere con loro le risorse e il potere che regolano la vita personale e comunitaria è
sempre un «amore difficile». La paura della diversità può portare a violente esplosioni contro
gli «altri» e all’esclusione dal nostro spazio vitale. L’antidoto a questa paura è, per san Gregorio
di Nissa, la forza dell’amore che lo Spirito Santo riversa su tutti noi. «Quando l’amore perfetto
ha vinto la paura, o la paura è stata trasformata in amore, allora tutto ciò che è stato risparmiato
sarà una unità che cresce insieme attraverso l’una e unica pienezza, e ognuno sarà, nell’altro,
una unità nella perfetta Colomba, lo Spirito Santo». Una persona che vive nella forza dello
Spirito Santo è l’incarnazione vivente di tutto ciò che Dio ha creato. Scrive Evagrio Pontico:
«Beato è colui che si considera “rifiuto di tutti”. Beato è colui che guarda alla salvezza e al
progresso di tutti come se fossero suoi propri, con ogni gioia. Beato è colui che considera tutti
gli uomini come Dio, dopo Dio… che da tutti è separato e con tutti è armonicamente unito».
Questa apertura e questa filadelfìa (amore per il fratello - ndr) costituiscono l’unico modo per
vincere l’individualismo estremo che minaccia oggi l’esistenza umana. La formazione di una
spiritualità ecumenica che consideri il mondo come sacramento e veda ogni persona umana e
cosa materiale quali mezzi di comunione con il Dio vivente richiede una teologia dello Spirito
Santo che riconosca la presenza attiva, di sostegno e trasformazione dello Spirito Santo in ogni
essere umano, nella Chiesa e nel mondo. Una vita spirituale improvvisata coltiva il desiderio di
essere con Dio senza alcun desiderio di partecipare attivamente all’amore di Dio per il mondo.
Una relazione intima con Dio richiede una connessione coerentemente articolata tra misticismo
e profezia.
* professore di teologia sistematica
(da Mondo e Missione, gennaio 2007)
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L’armonia della creazione nella Scrittura
S.E. Mons. GIANFRANCO RAVASI
GIANFRANCO RAVASI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura .
Nell’assemblea del tempio di Gerusalemme si fece silenzio; un solista si alzò e intonò il
“Grande Hallel”, la lode a Dio per eccellenza, il Salmo 136: «Lodate il Signore: egli è buono! /
I cieli ha fatto con sapienza, / la terra ha stabilito sulle acque, / ha fatto le grandi luci: / il sole
a reggere i giorni, / la luna e le stelle a regger la notte!». E il popolo a ogni verso acclamava:
Ki le’olam hasdò «perché eterno è il suo amore!». In quella strofa, che avrebbe guidato un
rosario di altre strofe dedicate alla storia sacra così da comporre il Credo d’Israele, balenava la
prima, indimenticabile pagina della Bibbia, quel celebre capitolo 1 della Genesi, aperto da un
lapidario Bereshit bara’ Elohìm, «In principio Dio creò ...».
Era, quella della Genesi, una pagina curiosa nella sua ieratica ripetitività. Essa sembra oggi
elaborata al computer secondo un complesso schema numerico: 7 giorni nei quali affiorano 8
opere divine scandite in 2 gruppi di 4; 7 formule fisse alla base dell’intera trama del racconto; 7
ritorni del verbo bara’, “creare”; per 35 volte (7x5) risuona il nome di Dio; per 21 volte (7x3)
entrano in scena «terra e cielo»; il primo versetto si compone di 7 parole e il secondo di 14
(7x2)... Questa specie di cabala, ritmata sul 7 della settimana liturgica, numero di pienezza, di
perfezione e di armonia, era destinata a celebrare lo squarcio che nel silenzio del nulla e nella
tenebra del caos compie la parola divina creatrice. Tutta la creazione, infatti, è riassunta in un
possente imperativo: «Sia la luce! E la luce fu».
Forse il miglior commento a questa riga biblica è nell’oratorio La creazione di Haydn con la sua
prodigiosa generazione di un solare Do maggiore che sboccia dal caos di una modulazione
infinita di suoni. Per la Bibbia Dio non crea il mondo attraverso una lotta primordiale
intradivina, come insegnavano le cosmologie babilonesi per le quali il dio vincitore Marduk
faceva a pezzi la divinità negativa Tiamat, componendo con essa l’universo. In tal modo il
creato recava in sé necessariamente e definitivamente la stimmata del male e del limite. Per la
Bibbia, invece, come dirà l’evangelista Giovanni in quel capolavoro innico che è il prologo al
suo vangelo, «in principio c’era la Parola (il Logos)», il Verbo efficace divino. Nella Parola
creatrice si concentrano tutti i sensi che Goethe nel Faust cercherà di scovare e distinguere,
commentando proprio il versetto giovanneo. Quel Logos è, sì, “Wort-parola”, ma è anche
“Kraft-potenza”, “Sinn-significato” e «Tat-atto».
L’orizzonte creato è, quindi, contemplato dalla fede ebraico cristiana come un capolavoro delle
mani di Dio (il Salmo 8 ricorrerà all’idea di un ricamo o di un cesello usando l’espressione
«opera delle dita di Dio»), o meglio, delle sue labbra. È per questo che terra e cielo sono
considerati – per usare un’immagine della liturgia sinagogale – come una pergamena distesa
sulla quale è iscritto un messaggio rivelato all’uomo. O in forma più suggestiva, potremmo
pensare col poeta del Salmo 19 che nel mondo corre una musica silenziosa, una voce afona, un
canale d’ascolto che sovrasta la soglia uditiva, eppure esso è aperto e riconoscibile a tutti: «I
cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia le opere delle sue mani; il giorno al giorno
affida il messaggio, la notte alla notte trasmette notizia, senza discorsi, senza parole, senza che
si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra, sino ai confini del mondo la
loro parola!».
Notte e giorno sono quasi come sentinelle che di postazione in postazione trasmettono un
messaggio divino. Nello stesso Salmo 19 è il sole che, come un atleta o un eroe gagliardo, corre
la sua orbita quotidiana divenendo quasi un araldo del suo Creatore. Nel libretto del profeta
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Baruk si dice che «le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono. Dio le chiama per nome ed
esse rispondono: Eccoci!
E brillano di gioia per colui che le ha create» (3,34-35). Nell’idillio primaverile dipinto nel
Salmo 65, la terra diventa come un manto fiorito e chiazzato di greggi perché in essa è passato
col suo cocchio il Signore delle acque e della fecondità e «tutti gridano e cantano di gioia». In
modo più freddo e “teorico” il libro della Sapienza, uno scritto biblico sorto forse ad
Alessandria d’Egitto alle soglie del cristianesimo, osserverà che «dalla grandezza e dalla
bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (13,5). E in questa stessa linea si
muoverà Paolo nel suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani: «Dalla creazione del mondo
in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da
lui compiute» (1,20).
Il creato è, dunque, latore di una rivelazione “cosmica” e “naturale” che non sostituisce ma
neppure si oppone a quella “soprannaturale”. Per ricorrere a un gioco di parole, possibile solo in
greco,si potrebbe dire col filosofo ebreo alessandrino Filone (I sec. d. C.) che Dio ha composto
dei poiemata, cioè delle “opere” che sono anche “poemi”, atti che sono messaggi, realtà che
sono parole. Dopo tutto in ebraico un unico vocabolo, dabar, significa contemporaneamente
“parola” e “fatto”. L’orizzonte creato per il credente ebreo o cristiano è, sì, un panorama
mirabile che può essere contemplato con animo romantico (nella Bibbia ci sono al riguardo
pagine emozionanti) ma è soprattutto un “testo”, un bagliore del Creatore, una presenza
nascosta ma reale. Come si diceva in una canzone degli ebrei mitteleuropei Chassidim, sorti nel
Settecento: «Dovunque io vada, Tu; dovunque io sosti, Tu; solo Tu, ancora Tu, sempre Tu.
Cielo; Tu; terra tu. Dovunque mi giro, dovunque ammiro, Tu, solo Tu, ancora Tu, sempre Tu».
Questa presenza, però, non significa identità panteistica tra creato e Creatore. Il grande poeta
tedesco Hölderlin pensava che la creazione avvenisse come l’emergere dei continenti dal ritrarsi
degli oceani: Dio crea, quasi ritirandosi per lasciare spazio alla creatura e, nel caso dell’uomo,
per lasciare un varco alla libertà che può diventare anche una sfida a Dio. La concezione
ebraico-cristiana della natura comprende, allora, in modo vigoroso il senso del limite e della
finitudine.
La rappresentazione di questo aspetto negativo è affidata a un simbolo curioso per noi
occidentali, quello del mare caotico, metafora del nulla che attenta allo splendore del creato
svelandone il limite. L’equilibrio instabile tra essere e nulla è raffigurato, perciò,agli occhi
dell’autore sacro dalla battigia del litorale ove corre la frontiera tra il mare, segno del nulla e del
male, e la terra.
A controllare questa frontiera è, però, Dio stesso che impedisce alla sua creazione – pur limitata
e fragile – di dissolversi. È ciò che dichiara con un interrogativo retorico Dio stesso a Giobbe:
«Chi serrò tra due battenti il Mare, quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando
spezzavo il suo slancio imponendogli confini, spranghe e battenti e gli dicevo: Fin qui tu verrai
e non oltre,qui s’abbasserà l’arroganza delle tue onde?» (38,8-11). A questa forza negativa si
assocerà anche la potenza oscura della libertà umana che irrompe sul creato (come insegna il
capitolo 3 della Genesi), sfasciandone l’armonia col suo peccato di orgoglio e di egoismo e
riducendolo a un deserto di “spine e cardi”.
Ma la grande attesa non è dominata dall’incubo di una dissoluzione.Paolo, infatti, immagina la
creazione come una donna che geme nelle doglie di un parto e l’Apocalisse, l’ultimo libro della
Bibbia, dipinge il mondo futuro come un creato privo del mare-male e del dolore-morte: «Vidi
poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il
mare non c’era più... Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto,
né lamento, né affanno» (21,1.4).
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LA "BELLEZZA"Il suo volto cambiò d'aspetto e
la sua veste divenne candida e sfolgorante. (Luca
9,29)
di Gianfranco Ravasi , Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
GIANFRANCO RAVASI
Per 741 volte nell'Antico Testamento risuona un vocabolo simile a un soffio, tòb: il suo
significato oscilla tra "buono" e "bello" e questo ci fa comprendere come per la Bibbia bellezza
e bontà, estetica ed etica s'intreccino tra loro. Due esempi sono al riguardo emblematici. Da un
lato, ecco la creazione: giunto al termine di ognuno dei sei giorni dell'opera creatrice, l'autore
sacro osserva che "Dio vide che era tòb", cioè una realtà bella e anche buona (Genesi 1,4).
Quando entra in scena l'uomo, si usa il superlativo perché quella creatura è "molto bella/buona"
(1,31), vero vertice del creato.D'altro lato, ecco davanti a noi la figura di Cristo: il Vangelo di
Giovanni la definisce con un'immagine biblica, quella del pastore. Si è soliti tradurre quella
frase così: "Io sono il buon pastore" (Giovanni 10,11.14). In realtà, nell'originale greco si ha:
"Io sono il bel (kalòs) pastore", proprio sulla scia del valore dell'aggettivo biblico tob che unisce
in sé la bontà e l'amore del pastore Cristo con lo splendore della sua rivelazione che lo circonda
quasi di luce, come era accaduto nell'evento della Trasfigurazione (Luca 9,29). Nella Bibbia la
bellezza è, quindi, una qualità divina che si riflette nel creato in tutta la sua varietà e ricchezza.
Non per nulla l'autore del libro della Sapienza dichiara che "dalla grandezza e dalla bellezza
delle creature per analogia si conosce il loro Autore" (13,5). A essere uno specchio supremo
della bellezza di Dio è l'uomo, creato "a sua immagine" (Genesi 1,27).Il Cantico dei cantici, con
le sue delicate e appassionate descrizioni dei corpi della donna e dell'uomo in tutto il loro
fascino, ne è la testimonianza più esplicita, tenendo però conto del fatto che il corpo nel mondo
semitico non è la mera fisicità organica, ma è l'espressione dell'intera realtà della persona, anche
nella sua interiorità. Questa unione fra spirito e corporeità fa comprendere come la bellezza si
debba incrociare con la limpidità della coscienza, conla luce dell'anima. In caso contrario si ha
solamente una dimensione esteriore, perché "falsa è la grazia e vana è la bellezza, è la donna
sapiente da lodare" (Proverbi 31,30). Si comprendono, allora, certi giudizi pesanti della
tradizione popolare come questo, registrato sempre dal libro dei Proverbi: "Anello d'oro al muso
di un maiale, così è una donna bella ma senza cervello" (11,22).La bellezza, poi, ha una sua
manifestazione particolare nel testo stesso delle Scritture. Esse, infatti, costituiscono un vero e
proprio monumento letterario. Si hanno, così, pagine poetiche di straordinaria fragranza e
intensità, come nel caso di Giobbe o del Cantico o di alcuni Salmi; si offre un arsenale di
immagini e di simboli che hanno conquistato l'arte dei secoli successivi; la pagina biblica si
impreziosisce di racconti di forte impatto e di parabole incantevoli come le 35 narrate da Gesù
(72, se si allarga il discorso pure ai paragoni più sviluppati e alle similitudini più ampie). Perciò
l'invito che viene rivolto anche a noi è quello di "cantare Dio con arte" (Salmo 47,8) perché la
via pulchritudinis, la "via della bellezza" autentica, è una strada privilegiata per raggiungere il
Dio della bellezza.
LE PAROLE PER CAPIRE
TRASFIGURAZIONE - Nel greco dei Vangeli l'esperienza vissuta da Gesù e dai tre apostoli
testimoni sul 'monte alto" della Galilea e comunemente detta "Trasfigurazione" èespressa col
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verbo metamorfoun, donde il vocabolo "metamorfosi" (Matteo 17,2; Marco 9,2). È
letteralmente un "cambiare forma" che rende Gesù già simile al Risorto, glorificato e immerso
nella luce, segno del divino e del mistero.
TENDA - Era la tradizionale "casa" del nomade, costituita da un telo o da pelli cucite (sovente
si usavano tessuti con peli di capra). La vita che si svolgeva attorno e nella tenda è spesso
descritta nella Bibbia (ad esempio, Genesi 18) e questo manufatto diventa anche un simbolo del
corpo e della vita umana (2 Corinzi5,1-4). La "tenda del convegno" è, invece, il santuario
mobile degli Ebrei nel cammino esodico nel deserto e la sua descrizione accurata è presente in
Esodo 25-30 e 35-40.
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L’AMBIENTE NEL COMPENDIO DELLA DOTTRINA
SOCIALE CATTOLICA
a cura di Simone Morandini
Il tema ambientale è entrato ormai tra le grandi questioni che segnano in profondità la condizione umana
nel tempo della globalizzazione. Le nostre esistenze sono toccate direttamente dagli effetti dell
’inquinamento urbano locale, come dal mutamento climatico planetario – che almeno in parte è
senz’altro di origine antropica – mentre il problema della gestione rifiuti è venuto ad occupare uno
spazio centrale nell’agenda politica di molte amministrazioni. Non stupisce, allora, che di fronte alla
proposta di grandi opere dal forte impatto ambientale (TAV, MOSE …), sempre più spesso vi siano
reazioni di forte perplessità e di protesta. Aldilà delle valutazioni che se ne dovranno dare nei singoli
casi – anche differenziate non c’è dubbio che esse
rivelino la preoccupazione nostro legame alla terra, della necessità di tutelarne le dinamiche di fronte ad
un ’azione umana sempre più pervasiva nelle sue capacità di trasformare il mondo naturale.
Le Chiese nell’Antropocene
Particolarmente appropriata appare, in questo senso, l’espressione del premio Nobel per la Chimica
Crutzen, che parla del nostro tempo come dell’”Antropocene” – l’era nella quale gli esseri umani sono
divenuti i principali fattori delle dinamiche biofisiche planetarie. E, d ’altra parte, questioni come la
fame, la disponibilità d’acqua, le migrazioni – così determinanti per le esistenze di uomini e donne si
trovano sempre più spesso a dipendere dalle dinamiche dell’ambiente globale.
L’ampiezza della questione e la varietà delle sue dimensioni aiuta a comprendere la crescente attenzione
accordatale dalle diverse comunità ecclesiali, espressione di una preoccupazione per una terra che è lo
spazio donato da Dio all ’uomo,perché lo abiti e se ne prenda cura. È un dato già evidente in un piccolo
testo, che risale ad una dozzina di anni fa ’: in parallelo al Summit per la Terra svoltosi a Rio de Janeiro
nel 1992 il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) aveva promosso a Baixada Fluminense (Brasile) un
incontro ecumenico di preghiera e di riflessione anch ’esso dedicato ai temi ecologici. Al termine i
partecipanti hanno
stilato una “Lettera alle chiese ”, che ancora oggi, a più di dieci anni di distanza, conserva tutta la sua
attualità; essa inizia così:
Cari sorelle e fratelli, vi scriviamo con un senso di urgenza. La terra è in pericolo
. La nostra sola casa è minacciata. Siamo sul precipizio della distruzione. Per la
prima volta nella storia della creazione, l’azione umana sta distruggendo alcuni
sistemi di supporto alla vita del pianeta [1].
Questo semplice incipit ci presenta efficacemente una dimensione che ormai caratterizza quasi tutti i
numerosi documenti ecclesiali sull ’ambiente usciti in questi ultimi anni. È la percezione di una
condizione critica, che nella quindicina d’anni trascorsi dal Summit di Rio non è certo migliorata, ma
appare, anzi, trasformata in una dinamica globale che rischia di erodere le stesse basi biologiche della
vita. Così anche la Convocazione Ecumenica promossa dallo stesso CEC a Seul nel 1990 richiamava tale
esigenza tramite l’immagine del diluvio incombente, figura di una minaccia alla vita portata da un
sistema in cui si intrecciano ingiustizia economica, conflittualità diffusa e distruzione dell ’ambiente
naturale. La preoccupazione per l ’ecosistema planetario si intreccia qui con quella per le esistenze dei
meno favoriti, che dal degrado ambientale sono i primi ad essere colpiti: il grido della Terra viene colto
nel suo intreccio con quello dei poveri, secondo la bella espressione di Leonardo Boff[2].
L’esigenza di un ’attenzione ecologica non può essere, dunque, disgiunta da quella per la giustizia: l
’integrità del creato è caratterizzata da una dimensione ecologica, ma anche da una sociale. Anche in
ambito cattolico sono ormai davvero numerosi gli interventi che hanno espresso preoccupazione in
questo senso, sia da parte di diverse Conferenze Episcopali (tra le altre quelle statunitense, tedesca,
francese, australiana, brasiliana), che nel Magistero di Giovanni Paolo II (si pensi, in particolare, al
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Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace del 1990, “Pace con Dio creatore, pace con tutto il
creato”). La percezione della negatività presente si accompagna sempre in tali interventi
all’accentuazione di un cambiamento possibile, che la stessa fede cristiana rende drammaticamente
necessario. È la stessa realtà che veniva così delineata dai partecipanti all’incontro di Baixada
Fluminense:
Gli esseri umani sono creati in vista della comunione con Dio e con tutte le realtà
viventi e non viventi. Nell’esempio di Gesù noi vediamo uno stile di vita
caratterizzato da semplicità, umiltà ed apertura alla natura. [3]
La presa di distanza dall’ideologia del dominio che caratterizza la modernità si accompagna qui
all’indicazione di una prospettiva positiva, comunionale, cui credo la tradizione cristiana possa offrire
alcuni riferimenti significativi.
Il Compendio
La stessa preoccupazione emerge con chiarezza nel Compendio della Dottrina Sociale Cattolica[4]
(CDSC), riferimento autorevole per la riflessione etico sociale elaborata nell ’ambito della comunità
cattolica. Chi lo confrontasse con altri testi che hanno presentato esposizioni sintetiche della Dottrina
Sociale della Chiesa Cattolica[5] (DSC), rileverebbe, tra gli elementi più fortemente innovativi, proprio
la corposa attenzione dedicata ai temi ambientali. La novità del tema appare particolarmente evidente se
si analizzano i riferimenti magisteriali indicati in nota: a parte alcune citazioni di testi conciliari e un
paio di Paolo VI, per il resto vengono richiamati soprattutto testi legati al pontificato di Giovanni Paolo
II [6]. È un elemento che differenzia sensibilmente la relativa sezione da altre, che vedono i riferimenti
spaziare sull’intero corpus della DSC, ma anche su momenti anteriori della tradizione e della teologia.
La novità del tema, però, non implica in alcun modo una sua sottovalutazione all ’interno del testo. Al
contrario, esso spende parole forti per sottolineare la rilevanza della “crisi nel rapporto tra uomo e
ambiente ”, in relazione alla quale chiama ad “una comune responsabilità ”[7]. Se il decimo capitolo
“Salvaguardare l’ambiente ” si articola su quasi venti pagine[8], una sua corretta lettura non può
prescindere dall ’ampia rete di riferimenti ai temi ambientali che attraversa l ’intero
testo. Recependo un dibattito che attraversa ormai l’etica teologica e la teologia fondamentale[9], il
CDSC disegna, così, un quadro ampio, che va dalla nozione di creazione a quelle di bene comune e di
globalizzazione, fino all ’azione delle imprese ed al rinnovamento degli stili di vita [10]. Cercheremo in
queste pagine di evidenziarne le coordinate fondamentali Homo responsabilis
Ad una lettura veloce si potrebbe restare delusi dalla mancanza di riferimenti ai temi ambientali
all’interno di quel capitolo quarto in cui vengono presentati “I principi della Dottrina Sociale della
Chiesa ”. Tale assenza, però, non riduce affatto il tema a mera questione applicativa, priva di spessore
etico e teologico. In realtà, anzi, la pratica di salvaguardia ambientale ha nel CDSC una forte fondazione
antropologica e teologica, che proprio per questo va ricercata ancor più a monte nella struttura del testo.
Ricostruire tale quadro di riferimento esige, infatti, di risalire fino al primo capitolo – dedicato a “Il
disegno di amore di Dio per l’umanità”, laddove esso evidenzia come “l’uomo e la donna, creati a Sua
immagine, sono perciò stesso chiamati ad essere il segno visibile e lo strumento efficace della gratuità
divina nel giardino in cui Dio li ha posti come coltivatori e custodi dei beni del creato ” (26). Il disegno
divino prevede, cioè, una “relazione armoniosa tra gli uomini e le altre creature”, la cui rottura viene
esplicitamente indicata tra le conseguenze del peccato (27).
Ulteriori indicazioni vengono dal terzo capitolo, dedicato “La persona umana e i suoi diritti ”, dove
troviamo il fondamentale n.113, dedicato ai rapporti tra la persona umana e le altre creature. Ivi si
afferma che la signoria umana sul mondo “richiede l’esercizio della responsabilità, non è una libertà di
sfruttamento arbitrario ed egoistico ”. Infatti, poiché tutta la creazione “ha il valore di ‘cosa buona ’
davanti allo sguardo di Dio”, “l’uomo deve scoprirne e rispettarne il valore ”, contemplandone la verità
per giungere a stabilire con le cose “un rapporto di responsabilità ”.
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Tale orizzonte caratterizzato dal rapporto e dalla relazionalità verrà ulteriormente esplicitata nella
riflessione sull ’unità della famiglia umana: “l’essere umano non è stato creato isolato, ma all ’interno di
un contesto ” umano ed ambientale, che garantisce le condizioni per la sua esistenza, e tali condizioni
sono esse stesse oggetto della benedizione divina (428). Non stupisce, allora, che la stessa nozione di
bene comune veda inclusa tra le sue componenti la salvaguardia dell’ambiente (166), né che si giunga ad
affermare che “il bene comune della società non è un fine a sé stante ”, ma deve sempre essere posto in
relazione con la persona e con “il bene comune universale dell ’intera creazione ” (170). La posizione
privilegiata dell ’essere umano nella creazione – tradizionale per la DSC –viene letta, insomma, qui in
modo articolato, nel segno di una relazionalità responsabile ad ampio raggio.
Quella che si disegna è, insomma, una vera e propria antropologia teologica della responsabilità per il
creato, che verrà articolata in forme anche più ampie nel capitolo decimo, esplicitamente dedicato al
tema. Là, infatti, si sottolineerà come la fede di Israele sperimenti il mondo “non come un ambiente
ostile o un male da cui liberarsi, ma piuttosto come il dono stesso di Dio, il luogo e il progetto che Egli
affida alla responsabile guida e all ’operosità dell ’uomo” (451), come il “giardino” donato da Dio
“affinchè sia coltivato e custodito ” (452). Lo stesso Gesù viene presentato come colui che valorizza gli
elementi naturali, come “sapiente interprete della natura ” (453); nella sua Pasqua “la natura stessa
partecipa al dramma del Figlio di Dio rifiutato e alla vittoria della Risurrezione” (454). In Lui, dunque,
“è avvenuta la riconciliazione dell’uomo e del mondo ”: lo stesso Verbo, per mezzo del quale la natura
era stata creata, ne opera anche la riconciliazione con Dio (454). Lo specifico legame col Creatore dell
’uomo e della donna, fatti a sua immagine, viene così a declinarsi per essi come “responsabilità di tutto
il creato ”, come “compito di tutelarne l’armonia e lo sviluppo ” (451).
L’azione umana nel cosmo
Su questa base il CDSC può presentare – appoggiandosi ampiamente alla Gaudium et Spes – una
positiva valutazione dell ’operare umano nel cosmo, come della scienza e della tecnica tramite il quale
esso si realizza, permettendo significativi miglioramenti della qualità della vita (457). Proprio tale
crescita del potere umano sul cosmo, però, accresce anche la responsabilità (457); non a caso lo stesso
capitolo VI, dedicato al “lavoro umano”, si apre con una sezione dedicata al compito di “coltivare e
custodire la terra ” (255259), mentre poco più avanti si sottolinea come l ’uomo non sia “il padrone ”
dell’universo, ma “il fiduciario, chiamato a riflettere nel proprio operare l ’impronta di Colui del quale
egli è immagine” (275).
In questo senso il CDSC valorizza pure l ’affermazione della Centesimus Annus che ogni operare umano
si svolge sempre sulla base della “prima originaria donazione delle cose da parte di Dio ” (460). È ad
essa che si rifanno le affermazioni più specifiche: ogni azione umana deve esprimere un “rispetto
dell’uomo,che deve accompagnarsi ad un doveroso atteggiamento di rispetto nei confronti delle altre
creature viventi ” (459). Quando l’uomo “interviene sulla natura senza abusarne e senza danneggiarla ”,
realizza la sua vocazione regale di collaboratore all ’opera divina, ma se dispone arbitrariamente della
terra, rischia di sostituirsi
a Dio, provocando la ribellione della terra (460). Lo stesso chiaro apprezzamento espresso per le
applicazioni della scienza e della tecnica all’ambiente naturale ed all ’agricoltura si accompagna al
richiamo alla prudenza e ad un attento discernimento della varie forme di tecnologia applicata (458),
sapendo che talvolta gli interventi in talune aree dell’ecosistema possono avere impatti rilevanti in altre
aree e sulle future generazioni (459).
Proprio la prudenza – che non a caso la tradizione cristiana conosce come virtù cardinale – è
l’atteggiamento dominante anche in quelle pagine che la IV sezione del capitolo dedica specificamente
alle problematiche etiche legate alle biotecnologie (472 480), cui peraltro, fanno pure riferimento più o
meno diretto altri numeri. A fronte di una valutazione di principio positiva circa gli interventi dell’uomo
sulla natura (inclusi quelli biotecnologici), si sottolinea qui la possibilità di “notevoli ripercussioni a
lungo termine ”, che non consente di agire in quest ’ambito “con leggerezza e irresponsabilità ” (473).
Tra l ’altro, l’inquietudine viene accresciuta dall ’inadeguatezza delle conoscenze in materia, che spesso
non consente di misurare fino in fondo “i turbamenti indotti in natura da una
indiscriminata manipolazione genetica”[11] (459). In questo campo, insomma, politici, legislatori e
pubblici amministratori sono chiamati a prendere le decisioni “più convenienti per il bene comune ”, che
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non potranno essere dettate da “pressioni provenienti da interessi di parte ” (479). C’è, dunque,
l’esigenza di prendere decisioni difficili in condizioni di incertezza scientifica e in presenza di rischi;
proprio questo è il contesto nel quale – solo poche pagine prima il CDSC aveva richiamato il “principio
di precauzione ” (469). Esso non viene presentato “come una regola da applicare ”, ma come “un
orientamento volto a gestire situazioni di incertezza ”: ogni decisione deve essere presa in modo per
quanto possibile trasparente e deve essere “provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze
che vengano eventualmente raggiunte ” (469). Si tratta, cioè, di un istanza cautelativa, che si affianca
peraltro anche all ’esigenza di “promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze più approfondite ”
(469).
Nella crisi, oltre la crisi
Tali indicazioni di quadro costituiscono il contesto nel quale il CDSC parla – ed in modo molto chiaro di
una crisi ecologica, che è globale e come tale va affrontata globalmente (466). Tra le sue dimensioni
esso richiama la minaccia che tocca la biodiversità (466) in particolare quella che si realizza in aree
critiche
come la foresta amazzonica ma anche la desertificazione (466, 482), l ’erosione del suolo (482), i
cambiamenti climatici, le complesse problematiche relative alla risorse energetiche (470) ed all ’acqua
(484). In generale, riprendendo Giovanni Paolo II, si rileva una tendenza alla “conquista ” ed allo
“sfruttamento ” delle risorse, che “è diventato predominante e invasivo ed è giunto minacciare la stessa
capacità ospitale dell ’ambiente ” (461). Certo, la minaccia che pesa sulla casa della vita non mette in
discussione la speranza credente: la fede sa bene di potersi “volgere con fiducia al futuro, grazie alla
promessa e all ’alleanza che Dio rinnova continuamente ” (451), ma ciò non la esime da una riflessione
attenta, né da una pratica rinnovata.
La crisi ambientale, infatti, nasce dalla pretesa di “esercitare un dominio incondizionato sulle cose ”
(461), da parte di un uomo incurante di considerazioni di ordine morale – un’espressione di quel peccato
che viene descritto come il tentativo umano di “forzare il suo limite di creatura ” (115). È una realtà che
si manifesta nel tempo della modernità, caratterizzato da una tendenza alla libera manipolazione della
natura, come se essa offrisse quantità infinite di materie prime e risorse, sempre rigenerabili. Essa non va
vista, comunque, come una diretta conseguenza della scienza e della tecnica, ma piuttosto come
espressione di “un’ideologia scientista e tecnocratica ” (462). Al contrario, laddove “prevalga l ’etica del
rispetto per la vita e la dignità dell ’uomo, per i diritti delle generazioni umane presenti e di quelle che
verranno ”, allora il rapporto tra scienza ed ambiente può declinarsi in senso positivo: “la tecnologia che
inquina può anche disinquinare, la produzione che accumula può anche distribuire equamente ” (465).
Per guardare oltre la crisi ambientale, allora, è essenziale ritrovare una concezione equilibrata della
natura, lontana da divinizzazioni che dimenticherebbero la “differenza assiologica e ontologica tra l
’uomo e gli altri esseri viventi ” (463), ma anche da una sua completa secolarizzazione. La fede cristiana
– memore dell’esperienza francescana e benedettina riconosce, invece, “nelle creature che circondano l
’uomo altrettanti doni di Dio da coltivare e custodire con senso di gratitudine verso il Creatore ”,
testimoniando di “una sorta di parentela dell ’uomo con l’ambiente creaturale ” (464). È una prospettiva
che sembra tornare attuale nell’attenzione per la relazione vitale di armonia che “i popoli indigeni hanno
con la loro terra e le sue risorse ”, nella quale si esprime “una dimensione fondamentale della loro
identità ” (471). La loro esperienza è insostituibile per tutta l ’umanità ed anche per questo i loro diritti
“devono essere opportunamente tutelati” (471).
In questo quadro appare pure in tutta la sua rilevanza il principio di solidarietà fra le generazioni, che
interpella quelle presenti da parte di quelle future (467). Si tratta di un ’indicazione di ampia rilevanza,
analizzata anche in relazione ad altre questioni, ma che va applicato soprattutto “nel campo delle risorse
della terra e della salvaguardia del creato, reso particolarmente delicato dalla globalizzazione, la quale
riguarda tutto il pianeta, inteso come un unico ecosistema ” (367) [12].
Articolare la responsabilità
L’ambiente è, dunque un bene globale, collettivo, la cui tutela costituisce una sfida per l’umanità intera –
per la Comunità internazionale, come per i singoli Stati (468) – che si articola su diverse dimensioni.
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Un primo elemento è l ’esigenza che esso trovi “una traduzione adeguata a livello giuridico”: c’è un
fondamentale “diritto ad un ambiente sano e sicuro”, in cui i cittadini non siano esposti ad agenti tossici
ed inquinanti. (468). Tale diritto si tradurrà, dunque, in azioni volte a disciplinare l’uso delle risorse
ambientali ed a fissare “sanzioni per coloro che inquinano ”, anche se il suo contenuto potrà, in effetti,
emergere solo tramite una “graduale elaborazione ” (468).
Accanto alla dimensione giuridica, per la salvaguardia dell ’ambiente fondamentale è quella economica
e numerosi sono qui i rimandi al capitolo VI, dedicato al lavoro umano. “Le risorse naturali sono limitate
e alcune non sono rinnovabili ” (470) e ’, quindi, le esigenze dello sviluppo devono tener conto anche
dei costi ambientali (470), per realizzare una “complementarietà ( …) tra la crescita economica e la
compatibilità ambientale dello sviluppo ” (319). Tale prospettiva, però, non potrebbe “essere assicurata
solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici ”: “l’ambiente è uno di quei beni che i
meccanismi del mercato non sono in grado di difendere adeguatamente ” (470). Né l ’impresa può
limitarsi al perseguimento del profitto: la sua vocazione include anche il dovere di “tendere ad
un’’ecologia sociale’ del lavoro e contribuire al bene comune anche mediante la salvaguardia dell
’ambiente ” (340).
Un particolare impegno della ricerca scientifica viene poi auspicato in relazione alle risorse energetiche:
occorrerà continuare a cercare di “identificare nuove fonti energetiche ” ed a “sviluppare quelle
alternative ”; per quanto riguarda l ’energia nucleare, invece, si sottolinea soprattutto l ’esigenza di
“elevare i livelli di sicurezza ” (470) Per nuovi stili di vita: ambiente e solidarietà
Ma accanto a responsabilità che competono a soggetti specifici per la loro attività professionale o per
ruoli pubblici che essi eventualmente rivestano, ve ne sono altre che interesano tutti, semplicemente in
quanto consumatori. Gli ultimi due numeri del capitolo decimo invitano, infatti, ad “un effettivo
cambiamento di mentalità, che induca ad adottare nuovi stili di vita ”, in cui una solidarietà a dimensione
mondiale ed una forte responsabilità ecologica giungano a determinare “le scelte dei consumi, dei
risparmi e degli investimenti” (486). “Sobrietà”, “temperanza “ ed “autodisciplina ”, sul piano personale
e sociale appariranno così come l’espressione di una “ricerca del vero, del bello e del buono ” (486). Tali
pratiche potranno a loro volta essere sostenute nei credenti da un fondamentale atteggiamento gratitudine
di riconoscenza nei confronti di Dio, cui lo stesso mondo creato rinvia, offrendosi “allo sguardo dell
’uomo come traccia di Dio, luogo nel quale si disvela la sua potenza creatrice, provvidente e redentrice”
(487).
In nuovi stili di vita, espressivi di una “rinnovata consapevolezza che lega tra loro tutti gli abitanti della
terra ” (486), può pure trovare concretezza per l’esistenza di ognuno quel nesso tra salvaguardia del
creato e solidarietà [13] che costituisce uno degli assi portanti del capitolo; su di esso è opportuno
soffermarsi al termine di questa esposizione. Il principio dell’universale destinazione dei beni della terra
(ampiamente esplorato nei nn.171184) viene, infatti, qui sviluppato nella sua rilevanza per i beni
ambientali, che vanno essi stessi “condivisi secondo giustizia e carità” (481). C’è un nesso stretto e
bidirezionale tra “crisi ambientale e povertà ”: da un lato, il degrado ambientale colpisce in primo luogo
i poveri, sia perché più esposti ad esso, sia perché meno dotati di risorse sufficienti a farvi fronte (482).
D’altra parte, per molti paesi penalizzati da scarsità di capitali e dall ’onere del debito estero, “la fame e
la povertà rendono quasi inevitabile uno sfruttamento eccessivo ed intensivo dell ’ambiente (482).
Un’attenzione specifica in quest ’ambito viene rivolta all ’acqua, simbolo di vita, risorsa necessaria alla
vita stessa e pertanto “diritto di tutti ” (484). Il diritto all’acqua va considerato “universale ed
inalienabile ”, basato “sulla stessa dignità umana ” ed irriducibile a valutazioni quantitative di tipo
puramente economico (485). Per questo, anche quando la sua gestione venga affidata a privati, l ’acqua
deve restare bene pubblico, da utilizzare in forme assieme razionali e solidali (485): è l’esigenza della
giustizia che trova applicazione anche per le risorse ambientali.
La forte percezione del nesso tra sviluppo, ambiente e povertà che caratterizza il CDSC non potrà,
comunque essere utilizzata “come pretesto per scelte politiche ed economiche poco conformi alla dignità
della persona umana (483) ”. Il testo sottolinea, infatti, che “una politica demografica” può essere
soltanto “parte di una strategia di sviluppo globale ”, che potrà effettivamente realizzarsi solo se sarà
“rivolto al bene autentico di ogni persona e dell ’intera persona ” (483).
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Conclusione
Abbiamo cercato in queste pagine di mettere in evidenza l ’ampiezza e l ’articolazione etica e teologica
che caratterizza la proposta del CDSC in materia di ambiente, testimonianza dell ’attenzione riservata ad
un tema di cui si riconosce la rilevanza e lo spessore. Si evidenzia anche in questo la capacità della DSC
di affrontare temi nuovi, la fecondità di un pensiero che sa attingere alla Scrittura ed alla Tradizione per
leggere, interpretare e pensare i segni dei tempi nel loro delinearsi [14].
Ovviamente le soluzioni proposte per le specifiche questioni ambientali – come la loro stessa descrizione
sul piano linguistico risultano spesso convergenti con quanto emerge dalle diverse etiche ambientali di
diversa matrice: non sembra che il CDSC voglia disegnare un’”ecologia cristiana” distinta e
contrapposta alle pratiche proposte in altre sedi. Ciò che è qui specifico è, piuttosto, il loro inserimento
in un contesto concettuale che valorizza la dimensione del mondo come creazione buona, come terra
donata a da Dio all’uomo perché possa abitarvi. Eccettuate alcune questioni, in generale sembra di dover
affermare che, più che diverse indicazioni etiche, insomma, emergono piuttosto diversi orizzonti di
senso in cui esse si collocano. Emerge una spiritualità della creazione, che arricchisce il nostro rapporto
con la terra, trasformandone la nostra percezione ed il nostro vissuto.
L’invito, che ci viene dallo stesso Giovanni Paolo II, è, insomma, ad una radicale “conversione
ecologica”, ad una trasformazione del cuore e della mente, capace di discernere ciò che è buono e
gradito a Dio anche nel rapporto con la sua creazione. Nel CDSC ci troviamo così chiamati ad operare
come custodi e coltivatori del creato; ad essere segni e testimoni della gratuità divina al suo interno,
promuovendo una relazione armoniosa con la terra. Ci troviamo convocati come responsabili del bene
comune della creazione, in una solidarietà che interessa tutti i popoli della terra, come le generazioni
future. Alla varietà delle dimensioni della questione ambientale ed alla sua complessità corrisponde, tra l
’altro, una puntuale articolazione della responsabilità. Si intrecciano qui principi come quello di
solidarietà (evocativo della dimensione globale del tema), sussidiarietà (una responsabilità che coinvolge
i diversi livelli di gestione dell’autorità), giustizia (i beni ambientali, come i danni ed i rischi derivanti
dalla mala gestione dell’ambiente vanno ripartiti equamente).
Ci troviamo, infine, invitati a “riscoprire la natura nella sua dimensione di creatura”, stabilendo con essa
“un rapporto comunicativo” e cogliendone “il significato evocativo e simbolico”, fino a penetrare nel
suo mistero, volgendo lo sguardo verso Dio (487). La creazione è il primo grande dono attraverso il
quale Dio comunica se stesso alle sue creature; è il luogo dell ’incarnazione del Figlio, che egli viene a
rinnovare nell’attesa della piena liberazione della sofferenza che oggi la permea; è lo spazio in cui soffia
lo Spirito divino, colui che è “Signore e da la vita”. In una pratica davvero attenta alla cura per il
creato diamo espressione ad una dimensione importante della nostra fede, corrispondendo con la nostra
esistenza a tale dono, che ci permette di esistere.
Note
[1] Letter to the Churches. Baixada Fluminense, Brasile, Pentecoste 1992, in W.GranbergMichaelson,
Redeeming the Creation. The Rio Earth Summit: Challenges to the Churches, WCC, Ginevra 1992, pp.7073, qui p.
70.
[2] L.Boff, Grido della terra, grido dei poveri. Per un ’ecologia cosmica , Cittadella, Assisi 1996; Id., Il creato in
una carezza. Verso un’etica universale: prendersi cura della Terra , Cittadella, Assisi 2000; Id., La voce
dell’arcobaleno. Per un’etica planetaria ed una spiritualità ecologica , Cittadella, Assisi 2000.
[3] Rapporto del gruppo di lavoro teologico tenutosi durante l ’incontro ecumenico parallelo al Summit ONU di
Rio del 1992: Theology, in W.GranbergMichaelson, Redeeming the Creation. The Rio Earth Summit:Challenges to
the Churches , WCC, Ginevra 1992, pp.7476, qui p.75.
[4] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa , Libreria
Editrice Vaticana 2004. I riferimenti utilizzano la numerazione interna dei paragrafi.
[5] Pensiamo, in particolare, al testo della Congregazione per l ’Educazione Cattolica su Orientamenti per lo studio
e l’insegnamento della dottrina sociale nella formazione sacerdotale del 30 dicembre 1988.
[6] Per una presentazione del Magistero di Giovanni Paolo II in materia di ambiente si veda A.Giordano,
S.Morandini, P.Tarchi, La creazione in dono. Giovanni Paolo II e l’ambiente, EMI, Bologna 2005.
[7] Sono i titoli delle sezioni III (461465) e IV (466487) del capitolo decimo dedicato alla salvaguardia ambientale.
[8] Si pensi che uno spazio equivalente è dedicato a “La promozione della pace” (cap. XI), mentre di poco più
ampi sono capitoli dedicati ad altri due temi classici della DSC come “La vita economica” (cap. VII) o “La
comunità politica” (cap. VII), che non raggiungono le trenta pagine.
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[9] Ho cercato di offrirne una presentazione d ’assieme in S. Morandini, Teologia ed ecologia, Morcelliana,
Brescia 2005.
[10] Significativi rimandi sono presenti, tra l ’altro – oltreché nella voce “Ambiente” dell’indice analitico – anche
in quelle dedicate a “Attività umana”, “Bene comune”, “Benessere”, Biotecnologie”, Collettività”,
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Caritas Italiana
Responsabilità per l’ambiente. Gesti di amore per il cielo e per la terra - Campobasso, 23-25 aprile
2004
Il creato in prospettiva cristiana
Simone Morandini
Progetto Etico e Politiche Ambientali – Fondazione Lanza
Nella modernità
Alle origini del progetto moderno la natura compare soprattutto come oggetto della ricerca scientifica e
della pratica tecnica; per Bacone si tratta di conseguire quella conoscenza che essa sembra rifiutarci e
che occorre strapparle costringendola – quasi torturandola – con la pratica sperimentale. Grazie ad essa,
infatti, l’umanità potrebbe recuperare quella sapienza e quel potere che Dio aveva donato ad Adamo e
che egli aveva perso a ausa del peccato. Anche in Cartesio troviamo una tendenza analoga, che coglie la
natura nella forma della res extensa - ben distinta da quella res cogitans che è tipica dell’essere umano –
sostanzialmente interpretabile nella forma della macchina (cui, non casualmente verrà associato più tardi
un “Dio orologiaio”). Per il filosofo francese persino gli animali andranno colti secondo questa
prospettiva – anche se naturalmente occorrerà tener conto che si tratta di macchine create da Dio e,
quindi, ben più perfette di quelle costruite dagli esseri umani. Comunque sia, si tratta di oggetti, ai quali,
nonostante le apparenze, sarebbe sbagliato ric onoscere sentimenti e persino la capacità di provare
dolore; nessuna empatia, nessuna compassione nei loro confronti.
Anche nel tempo che abitiamo - in una modernità ben più tarda, caratterizzata da un’attenzione assai più
forte per la natura - non è certo il linguaggio dell’amore che viene utilizzato nei suoi confronti. La natura
compare in primo luogo come oggetto di responsabilità –pensiamo a H.Jonas1i - nei confronti del quale
occorre sì agire per preservarne l’esistenza, ma soprattutto in vista della perpetuazione del nostro esistere
di essere umani. La stessa nozione di sostenibilità, cui fanno abitualmente riferimento i documenti dei
grandi organismi internazionali lega l’esigenza di una compatibilità ambientale dello sviluppo
soprattutto all’istanza di soddisfazione di bisogni umani. Certo, il riferimento alle generazioni future
strappa tale prospettiva a quell’utilitarismo cui uno sguardo superficiale potrebbe collegarla, ma
indubbiamente essa resta ben al di sotto di ciò che nel linguaggio credente chiamiamo amore.
Per la modernità, nelle sue diverse declinazioni, insomma, l’amore è soprattutto un sentimento
interumano, che sembra difficile indirizzare ad altre realtà. La tradizione kantiana, con la sua distinzione
del regno dei fini rispetto al mondo naturale, costituisce forse la formulazione più rigorosa di tale
prospettiva, che rischia, però, di scavare un abisso tra gli esseri umani e le altre creature.
Una teologia senza creazione?
Del resto, occorre riconoscere che nel secolo appena concluso anche la teologia occidentale si è lasciata
influenzare – sia pur in forma assai meno estremizzata – da tale orizzonteii. Pensiamo alla teologia
dialettica di Barth e Bultmann, alla svolta antropologica della teologia cattolica post-conciliare, al
pensiero della secolarizzazione, alla stessa teologia della liberazione – almeno nella sue prime versioni.
Prospettive assai diverse, ma accomunate dalla sottolineatura teologica delle relazioni tra i soggetti
personali, ben distinti da quelle che intratteniamo con gli oggetti, con le cose. In quest’ottica, dunque,
solo gli uomini e Dio sono
rilevanti per la storia della salvezza (con l’eventuale aggiunta delle donne); la creazione è come una
sorta di orizzonte, uno sfondo che non merita di essere pensato teologicamente.
Anche un biblista di grande valore come Von Rad poteva vedere in tale elemento della fede un dato
secondario del credo israelitico, un inserimento tardivo e debolmente legato al nocciolo del messaggio
biblicoiii.
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È chiaro che in quest’orizzonte l’etica, anche nelle sue versioni più stimolanti, potrà caratterizzarsi per
l’attenzione alla giustizia ed alla pace - alle relazioni interumane – ma difficilmente potrà esprimere
un’efficace attenzione per il creato. Ce ne dà testimonianza, ad esempio, un testo elaborato nell’ambito
della Conferenza mondiale su “Chiesa e Società” promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese nel
19664iv. Analizzando l’impatto rivoluzionario della tecnica sulla natura, esso si chiede se Dio dia
all’uomo la vocazione di «controllare e sottomettere il mondo», se cioè lo ponga a sua piena
disposizione. La risposta è chiara: «Sì.Anzi, Dio non pone limiti al dominio o controllo da parte
dell’uomo sulla natura, se non che
esso deve essere realizzato sotto la signoria di Dio (…). L’uomo è responsabile della sua gestione della
natura per rendere possibile una vita umana più piena per tutti; in tal modo egli recupera quel destino
originale datogli da Dio per cui Cristo è morto e risorto»5v. Il riferimento quasi-formale alla signoria di
Dio ed alla vocazione in Cristo non limita sostanzialmente il dominio tecnico della terra, ma richiama
solo l’esigenza di una sua finalizzazione alla giustizia interumana ed alla solidarietà. Certo, si tratta di un
elemento importante, ma occorre chiedersi se esso sia davvero sufficiente a promuovere un sistema di
relazioni giuste sulla terra. Non stupisce davvero che in quegli anni abbia avuto un’accoglienza così
ampia il saggio dello storico americano L.White, che individuava proprio nel cristianesimo l’autentica
radice della crisi ecologica – una tesi , peraltro, che oggi apparirebbe ben più difficile sostenerevi.
Diversi percorsi
Va, comunque sottolineato che anche il primo ‘900 teologico aveva conosciuto figure ben diverse;
pensiamo ad un testimone come A.Schweitzer, con la sua profonda reverenza per la vita in tutte le sue
forme, ma anche col suo sconcerto davanti alla violenza che attraversa la creazione. Pensiamo a Teilhard
de Chardin con la sua percezione di una densità pulsante della materia, tutta protesa verso il suo
compimento nell’Omega cristologico. Occorre, però, anche riconoscere che si è trattato di figure che per
molti decenni sono rimaste isolate e che solo in parte hanno potuto influenzare la riflessione e la pratica
delle chiese cristiane.
In realtà, se vogliamo davvero trovare un’associazione ricca di senso tra il mondo creato ed amore
dobbiamo volgerci a tradizioni di pensiero diverse, meno immediatamente legate alla modernità. È un
percorso verso un passato, ma un passato profondamente attuale; potremmo ripercorrerlo all’indietro,
per ascoltare alcune voci significative che nella tradizione cristiana ci orientino ad un rapporto differente
con la creazione.
Certamente una percezione ben più forte della relazione tra gli uomini e la creazione è presente nella
tradizione orientale, quale è stata interpretata anche da autori relativamente recenti. Pensiamo ad
esempio all’appassionato appello dello Starecs Zosima ne “I fratelli Karamazov” di
Dostojevskij:«Amate tutta la creazione divina, così in blocco, come in ogni granello di sabbia. Per ogni
minima foglia, per ogni raggio del sole di Dio, abbiate amore. Amate gli animali, amate le piante, amate
le cose tutte. Se amerai tutte le cose, penetrerai nelle cose il mistero di Dio.Una volta penetrato questo,
senza più interruzione verrai conoscendolo sempre più a fondo e sempre meglio, di giorno in giorno. E
alla fine amerai tutto il mondo, di un integrale, universale amore »7vii.
Risuona qui quella stesso orizzonte di universale misericordia che esprimeva secoli prima Isacco di
Ninive, in un testo recentemente ripreso anche dalla II Assemblea Ecumenica di Graz:
«Che cos’è, dunque, un cuore compassionevole? È il cuore che si commuove per l’intera creazione, per
l’umanità, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni e per ogni creatura…La sua grande pietà rende il
suo cuore umile ed egli non può tollerare di ascoltare o vedere una qualsivoglia offesa o la più piccola
sofferenza della creazione»viii.
Qui davvero incontriamo un senso universale della carità, un orizzonte di compassione che non conosce
limiti. Del resto, non si tratta di un dato che susciti stupore; una tradizione così decisa nell’affermare il
profondo rapporto tra Spirito e creazione, nel sottolineare il coinvolgimento del cosmo tutto nel processo
di divinizzazione, non poteva che accentuare con forza la dimensione di attenzione per tutte le creature.
Non è certo casuale che proprio da parte ortodossa – dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli – sia
venuta la proposta di una giornata per il creato,che oggi (nella forma di un tempo per il creato) sta
conoscendo una crescente diffusione in ambito ecumenicoix.
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Anche nella Chiesa d’Occidente, però, troviamo testimonianze importanti e numerose di un rapporto col
creato forte ed intenso. Il pensiero va, in primo luogo a Francesco d’Assisi, che nel suo Cantico di frate
Sole vede tutte le creature coinvolte nella lode rivolta al Creatore, in una sinfonia in cui ogni elemento
ha la sua importanza. Così egli invitava a lodare e benedire Colui che ha fatto frate Sole «bello e
radiante con grande splendore» e sora Luna e le stelle «clarite e preziose e belle», e ancora sora Aqua,
umile ed utile, e frate Foco, «bello e iocondo e robustoso e forte». La splendida varietà delle creature è
colta qui nella loro interconnessione, nel servizio che esse si rendono l’un l’altra, consentendo la vita.
Francesco guarda la creazione con occhi innervati da un «ineffabile amore per le creature di Dio», che
con dolcezza sapevano
contemplare in esse «la sapienza, la potenza e la bontà del Creatore», secondo quanto ci narra Tommaso
da Celano10x. Anzi, nella “Vita Seconda” lo stesso biografo sentirà la necessità di esplicitare che «nelle
cose belle egli contemplava la bellezza Somma »xi. Di qui nasce l’affetto con cui egli si soffermava
dinanzi alle distese di fiori, come dinanzi ai campi biondeggianti. Da qui viene l’attenzione per i pesci,
per la cicala o la cura rivolta alle api, cui egli vuole addirittura «che si somministri miele e ottimo vino,
affinché non muoiano di inedia nel rigore dell’inverno»12xii. Di qui un’attenzione quasi paradossale
anche per le cose non viventi, una cura che si indirizzava anche alle più umili:
«Ha riguardo per le lucerne, lampade e candele e non vuole spegnerne di sua mano lo splendore, simbolo
della Luce eterna (Sap.7,26). Cammina con riverenza sulle pietre , per riguardo a Colui che è detto Pietra
(1Cor. 10, 4)».xiii
La teologia francescana si incaricherà di approfondire l’intuizione del fondatore, esplorando il mistero di
colui che Dante, nell’ultimo verso della Commedia, dirà “L’amor che muove il sole e l’altre stelle”.
Proprio l’espressione del grande poeta fiorentino ci introduce efficacemente in una dimensione
realmente profonda per comprendere che significa parlare di gesti d’amore per il creato. Non è in gioco
soltanto un insieme di risorse, da usare in modo sostenibile; non si tratta soltanto di volgerci con
benevolenza ad altre realtà, rispettandone l’essere. Stiamo parlando di un creato che è essa stesso
espressione di un mistero d’amore, che vive esso
stesso di un gioco di carità. La sfida che ci sta dinanzi è prima di tutto quello di imparare a percepire tale
dimensione, che il nostro tempo sembra aver dimenticato.
Nella Scrittura
È questo, del resto, un dato che sta al cuore del messaggio della Scrittura: se il Signore «ha creato i cieli
con sapienza»; se Egli «ha stabilito la terra sulle acque»; se «da il cibo ad ogni vivente», ciò rivela
soprattutto che «eterna è la sua misericordia» (Sal 136, 5-6. 25). I Salmi contemplano con gioia lo
splendore di una creazione che appare tutta come un atto dell’amore di Dio, che Egli rinnova ogni
giorno. È lui che ha steso il cielo come una tenda; che fa scaturire le sorgenti dalle valli, perché ne
possano bere tutte le bestie selvatiche; che segna
le stagioni col moto armonioso del sole e della luna (Sal. 104, 2. 10. 19). La stessa regolarità dei cicli
cosmici viene letta come l’espressione di un’alleanza di cui l’arcobaleno è il grande segno memoriale. È
l’alleanza fatta con Noè, con la sua discendenza, ma anche con tutti i viventi usciti dall’arca (Gen. 9, 1217): per quanto piena di violenza possa essere la creazione, il Signore la lascia esistere dinanzi a sé,
come spazio di vita, in attesa della conversione – la teshuvah – degli umani. L’essere stesso della
creazione, insomma, è una presenza di grazia, è il grande sacramento di quel Dio che è lui stesso grazia e
misericordia.
È in questo mondo, sperimentato come creazione, che abita anche Gesù di Nazareth, osservatore attento
del mondo naturale. Le parabole ci ricordano che anche le realtà più umili (il grano, un gregge di pecore,
il piccolo granello di senapa) possono diventare linguaggio per parlare di Dio. Di più la contemplazione
del creato (i gigli del campo, gli uccelli del cielo) si fa invito a cogliere l’amore del Padre, che dona
forza, fede,serenità (Lc. 12, 22-31). Se, poi,continuiamo a leggere il Nuovo Testamento, cogliendo tutta
la radicalità del suo messaggio,scopriamo una densità ed una profondità ancora maggiori. Un testo come
il Prologo del
Vangelo di Giovanni, infatti, vede nella stessa venuta di Gesù il farsi presente al cuore della creazione di
quella Sapienza divina che era con Dio fin dal principio (Gv. 1). Quello che i credenti vedono, toccano,
contemplano è il Verbo della vita (1Gv. 1, 1-2): il suo farsi carne ha una dimensione cosmica, che
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coinvolge tutta la storia degli uomini, ma anche l’intero creato. È quella storia prima di ogni storia, che
aveva narrato così efficacemente il libro dei Proverbi:
«Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo;
quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull’abisso;
quando condensava le nubi in alto;
quando fissava le sorgenti dell’abisso;
quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non oltrepassassero la spiaggia;
quando disponeva le fondamenta della terra,
allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno
dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
dilettandomi sul globo terrestre;
ponendo le mie deliz ie tra i figli dell’uomo» (Pv.8, 24-31)
Il venire di Gesù avviene, dunque, in un orizzonte cosmico - quello di una Parola creatrice, che gioca
nelle armonie di un universo in evoluzione, quello di una luce, che splende nei bagliori dei soli e delle
galassie, ma che illumina soprattutto il volto di ogni nuovo nato – il piccolo del leone, ma in modo tutto
particolare il cucciolo d’uomo (Gv.1, 9). Una Parola ed una luce che restano talvolta nascoste – quasi
giocando a nascondino nell’opacità della natura e della storia - ma che in Gesù si donano in tutta la loro
sonorità, luminosità, trasparenza.
La vocazione umana
Mi pare sia questo l’orizzonte che dobbiamo tenere presente se vogliamo leggere in modo corretto anche
la vocazione umana nel cosmo. La modernità, infatti, ci ha troppo abituati a concentrarci sul primo
racconto genesiaco, a sottolineare la specificità umana dell’essere «immagine di Dio» (Gen. 1, 27) e
soprattutto la benedizione del versetto successivo:
«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra » (Gen. 1, 28).
Dominare e soggiogare: già abbiamo accennato quanto spesso la relazione degli esseri umani– e
segnatamente degli esseri umani d’Occidente – si sia declinata secondo questo paradigma di riferimento,
assunto in modo un po’ acritico dalla prima pagina della Scrittura. La riflessione teologica più recente ci
ha, però, orientati ad una prospettiva ben diversa: proprio il testo di Genesi afferma che il creato è la
realtà sette volte buona, che non riceve certo il proprio senso solo dalla presenza degli esseri umani.
J.Moltmann14 xivsottolinea, anzi, che il compimento della creazione non viene con l’emergere della
coppia umana, ma col sabato – quel riposo di Dio, cui l’intero creato è destinato.
Di più, accanto al primo racconto, occorre tenere presente anche il secondo, che disegna un ruolo ben
diverso per Adamo. Egli è colui che è tratto dalla terra – la adamah: una creatura terrena, corporea,
dipendente dalle relazioni con essa, con i suoi simili e con gli altri viventi, e chiamata a viverle nel segno
del limite15xv. Adamo è posto nel giardino, per coltivarlo (abad) e custodirlo (shamar) (Gen.2, 17): il
primo verbo è quello che si usa per il servizio ed il culto,mentre il secondo per l’azione della sentinella
che vigila per impedire la violazione di un luogo riservato, ma anche per l’osservanza fedele del
comandamento16xvi. L’interpretazione ebraica,anzi, rileva che quest’ultimo verbo viene pure utilizzato
in Dt.5,12 per il sacro giorno di shabbat - quasi a disegnare ancora un collegamento tra il dono del
riposo nel giorno sacro a JHWH e la preservazione della terra. Il giardino, insomma, appare come lo
spazio dato all’uomo perché lo abiti, traendone il necessario per una vita buona, ma anche perché lo
conservi, prendendosene cura quasi religiosamente, come si fa per un dono di Dio.
Se, allora, torniamo al primo racconto ed a Gen. 1,28 anche qui scopriamo orizzonti ben diversi, se
appena proviamo ad analizzare meglio il testo. Kabash – il «soggiogare» riferito alla terra – indica
soprattutto la presa di possesso di un territorio: all’umanità la terra è concessa come spazio abitabile,
come dono, che i diversi popoli dovranno suddividersi. Più complessa è la considerazione del verbo
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radah – il «dominare», detto sugli animali: si tratta certo di un temine dalle connotazioni regali, che
rimanda, però, ad una concezione antica della sovranità,carica di responsabilità. Come nota Westermann,
infatti, qui il re non è soltanto «responsabile
del suo regno, ma è anche il depositario e il mediatore della benedizione» per coloro che gli sono
affidati17xvii. D’altra parte, evidenzia, Gerhard Lohfink, «il campo semantico del verbo comprende le
accezioni di “accompagnare”, “pascolare”, “condurre”, “guidare”, “reggere”, “comandare’»:
l’uomo è come il pastore della creazionexviii.
Abitatori della terra
Ben fondato appare, in questo senso, il riferimento di Giovanni Paolo II a tali testi per sottolineare la
dimensione ecologica quale componente costitutiva dell’umana vocazione, la conversione ecologica
quale dimensione essenziale dell’essere uomini e donne oggi19xix. Né stupisce, d’altra parte, che la
riflessione etico-teologica in tema di ambiente abbia utilizzato l’immagine dell’amministratore
(steward), per descrivere il ruolo dell’uomo in mezzo agli altri viventi. Occorre, però, essere attenti: il
senso non è quello moderno, che assegna a chi amministra un potere quasi illimitato su un insieme di
risorse, di cui dovrà rendere conto solo
al termine di un periodo definito. No: lo steward va visto nell’accezione originale del termine -il primo
tra i servi della casa, chiamato a provvedere ogni giorno affinché ognuno abbia di che vivere. Il potere
affidato all’uomo ha un fine ben preciso: l’accoglienza, la diffusione e la condivisione della benedizione
con tutti i viventi, su una terra che resta pur sempre la proprietà di Dio solo (Sal. 24,1).
In questo senso andranno letti anche i testi dell’alleanza sinaitica che si riferiscono al sabato ed all’anno
sabbatico, come pure a quello giubilare: come un’esigenza di sospensione dal lavoro e di riposo per tutti.
Come il Creatore si è riposato al settimo giorno, così tutti -uomini e donne, schiavi e liberi, ed anche gli
animali domestici - meritano di riposare (Es. 20,8-11). Ogni sette anni, poi, la stessa terra avrà diritto al
suo «sabato consacrato al Signore» (Lev. 25, 1-7): proprio perché essa è dono di Dio, proprio perché i
suoi frutti sono abbondanti, un tempo del riposo è possibile – e, quindi, necessario – come doverosa è la
giusta condivisione dei frutti stessi. Di più, dopo sette settimane di anni il giubileo, anno di liberazione,
segnerà il ritorno di ogni campo a chi lo possedeva, a relativizzare la dimensione mercantile del rapporto
con la terra (Lev. 25, 8-17).
Il rapporto dell’uomo col creato, insomma, non si esaurisce certo nell’amministrazione –più o meno
oculata - di un insieme di beni ambientali. L’uomo e la creazione sono uniti soprattutto, come aveva ben
colto Isacco il Siro, da legami di compassione. Dobbiamo, forse, imparare a prendere il termine nel suo
senso etimologico: tutta la creazione geme e soffre, come nelle doglie del parto, attendendo la
liberazione dalla corruzione (Rom. 8, 18-23) e tale attesa, tale grido è profondamente in sintonia con
quello dello Spirito che, nel cuore dei
credenti, invoca la redenzione, l’adozione a figli. Gli esseri umani appaiono, allora, come coloro che
sono chiamati a dar voce alla creazione – alla lode che essa innalza al creatore, al grido che essa gli
indirizza, affinché la liberi dalla negatività presente. Dobbiamo comprendere che la benedizione e
l’invocazione che ognuno di noi – personalmente o nelle liturgie delle nostre comunità – rivolge al Padre
di Gesù Cristo porta con sé anche quelle parole senza suono che ogni creatura brama di indirizzargli.
Come osservava ancora lo starec Zosima ne «I fratelli Karamazov», «il Verbo è per tutti e l’intero
universo e ciascuna creatura, fino alla minima fogliolina,si protende al Verbo, a Dio canta lode, a Cristo
alza il suo pianto»xx.
Pratiche della carità: direzioni
La prima lettera di Giovanni invita i credenti ad un amore «nei fatti e nella verità» (1Gv. 3, 18); che
significa questo per chi scopre che la carità ha le dimensioni della creazione tutta?Quali gesti siamo
chiamati a porre in essere? In che direzioni? Proviamo a partire da quest’ultima domanda, indicando tre
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direzioni in cui deve esprimersi l’amore per il creato: l’ecogiustizia, la cura della terra, il rispetto per la
vita.
A) Per la vita umana (ecogiustizia)
Viviamo nel tempo dell’ecologia: la crisi ambientale non è semplicemente un problema settoriale, da
affrontare accanto ad altri; la sensibilità ecologica non è un optional, richiesto da una cultura un po’
verde e un po’ new age. Secondo la felice espressione di Eldredge, ad essere in bilico è la vita: lo stesso
ecosistema planetario si trova minacciato dall’effetto serra, -di cui già iniziamo ad avvertire gli effetti come pure dalle diverse forme di inquinamento.
D’altra parte, la stessa asimmetria strutturale, che caratterizza il sistema economico, si esprime anche in
un’iniqua ripartizione delle risorse ambientali - ormai trasformate in “beni oligarchici” - ma anche dei
rischi determinati da un ambiente fragile. A livello planetario, infatti, il 20% più ricco della popolazione
mondiale è responsabile dell’80% dei consumi e delle emissioni inquinanti, mentre è ai più poveri che
tocca di sopportare per primi gli effetti delle perturbazioni ambientali. La responsabilità cristiana si
trova, dunque, di fronte a sfide nuove, a nuovi interrogativi, che la chiamano a valorizzare in questo
senso anche le virtù tradizionali.
L’ecogiustizia è certamente uno dei nuovi nomi che la carità deve imparare ad assumere, nell’attenzione
congiunta per il grido della terra e quello dei poveri.
Come sottolinea Leonardo Boff21xxi, infatti, il povero è certamente l’essere più minacciato della
creazione; proprio i poveri, infatti, sono spesso i primi a pagare le conseguenze del degrado ambientale –
dell’inquinamento, che spesso viene ad interessare soprattutto le aree meno dotate di risorse, del
mutamento climatico, cui i paesi con un’economia meno dotata di risorse potrebbero ben difficilmente
far fronte. Giustizia e salvaguardia del creato, insomma, sono strettamente collegate, come lo sono con la
pace: solo una comunità internazionale stretta da legami di solidarietà e reciproca fiducia potrebbe
affrontare in modo davvero efficace la grave sfida postaci dalla questione ambientale. Non a caso, uno
degli effetti collaterali del
pesante clima di tensione che ha fatto seguito all’11 settembre 2001 è certo il calo di attenzione per
questioni ecologiche anche di grande urgenza, come il mutamento climatico: chi ricorda più il protocollo
di Kyoto per il controllo delle emissioni di gas serra?
B) Per la vita della terra
Ecco, dunque, che la prima voce si intreccia facilmente con la seconda: per la vita della terra. Possiamo
compendiare tale tema riferendoci a quella categoria di sostenibilità che è entrata nel lessico politico
corrente a partire dal Rapporto Bruntland del 1987 e che è stata fatta propria dal vertice di Rio del 1992.
Merita, comunque, pure ricordare che il suo primo uso da parte di organismi internazionali risale al
1974, alla Conferenza promossa dalla sezione Chiesa e Società del Consiglio Ecumenico delle Chiese a
Bucarest. Un termine che affonda le sue origini in un contesto ecclesiale, dunque, ma capace di trovare
sviluppo in prospettive ricche di significato anche per l’etica politica internazionale. La nozione di
sostenibilità legge la
questione ambientale in primo luogo in termini di giustizia intergenerazionale, come “capacità di
soddisfare i bisogni della generazione presente senza pregiudicare quelli delle generazioni future”.
Accanto all’opzione preferenziale per i poveri, ce n’è una per i posteri – i nostri bambini, come
rappresentanti di tutte le generazioni che dopo di noi si troveranno a vivere su questo pianeta. Dal punto
di vista etico, dunque, la formula rimanda ad un approccio di tipo antropocentrico (ci si riferisce ai
bisogni delle future generazioni umane), che si traduce, però, in vincoli molto impegnativi per il nostro
rapporto con l’ambiente. Uno sviluppo economico in grado di sostenersi stabilmente, infatti, dovrebbe calibrare il consumo di risorse rinnovabili sulle capacità degli ecosistemi di rigenerarle - calibrare la
quantità di rifiuti immessi nell’ambiente sulle capacità degli stessi ecosistemi di smaltirli - calibrare il
consumo di risorse non rinnovabili sul tasso di sostituzione tecnologica con altre risorse – possibilmente
rinnovabili.
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Per chi ama il linguaggio scientifico, vale anche la pena segnalare che la sostenibilità è stata interpretata
come contenimento dell’entropia associata ai processi economici nei limiti determinati dai flussi di
energia che dal Sole giungono al pianeta Terra (economia ecologica).
Certo, al di là delle sue interpretazioni, è chiaro che si tratta di un obiettivo da cui siamo ben lontani: l’
“impronta ecologica” dell’umanità è attualmente pari a due: per essere sostenibile il nostro livello
globale di consumo di ambiente richiederebbe la disponibilità di due pianeti come il nostro. Di più, tale
consumo riproduce ed enfatizza le gravi disparità economiche che caratterizzano il sistema globale; a
fronte di un Sud che si colloca attorno – o al di sotto - di un livello di sopravvivenza, il mondo
industrializzato “brucia” ambiente con un tasso circa cinque volte superiore al livello di sostenibilità. Le
risorse ambientali appaiono così, spesso come “beni oligarchici”; anche per esse si pone un drammatico
problema di giustizia.
Non a caso le ONG, in vista di Johannesburg, peroravano un riequlibrio della nozione stessa di sviluppo
sostenibile che accentuasse la sostenibilità (ambientale, sociale, umana), più che uno sviluppo inteso
come mero incremento della produzione ed espansione del mercato. Il Consiglio Ecumenico delle
Chiese preferisce addirittura utilizzare l’espressione “comunità sostenibili”, per indicare l’obiettivo cui
tendere con le nostre politiche economico-ambientali.
C) Per la vita dei viventi (rispetto per la vita)
La compassione per ogni creatura significa pure attenzione per le vite dei viventi – ed in particolare degli
animali, quasi compagni della creazione, aiuti postici accanto perché possiamo esistere nella pace anche
con essi. Certo, non è praticabile un’assoluta “reverenza per la vita”, à la Schweitzer, né tantomeno
sembra opportuno venire incontro alle istanze espresse dal movimento per i diritti degli animali, che
rischiano di equiparare il bambino mentalmente disabile al primate adulto sano, con la pretesa di un
eguale trattamento per i due. Tuttavia va pure riconosciuto che un’etica cristiana non può neppure
assumere come riferimento il
paradigma cartesiano dell’animale macchina, cui nessun sentimento deve essere indirizzato.
Gli animali sono i compagni della creazione, le co-creature che Dio ci ha posto accanto; l’esigenza di
uno sguardo rispettoso ed empatico nei loro confronti dovrebbe diventare parte integrante di un’etica
cristiana, anche se questo potrà significare talvolta mettere in discussione alcune pratiche cui ci ha
abituati la società industrializzata.
Come hanno evidenziato le Assemblee Ecumeniche di Basilea (1989), Seul (1990) e Graz (1997),
l’integrità del creato ha una varietà di dimensioni, che possono essere affrontate solo tenendone presente
assieme l’unità e la distinzione. D’altra parte, spesso – aldilà di casi conflittuali sui quali, se interessano,
possiamo riflettere in sede di dibattito – le forme d’azione necessarie hanno profonde analogie e
possiamo tentare.
Pratiche della carità: forme d’azione
Accanto alle direzioni dei nostri gesti d’amore per il creato, merita forse dedicare qualche parola alle
forme che essi potranno e dovranno assumere. Mi pare, infatti, che vadano segnalati almeno quattro
livelli in cui deve esprimersi il nostro amore per la terra, tutti essenziali per tutelare l’ecogiustizia, la vita
della terra, la vita di tutti i viventi: la mobilitazione su questioni specifiche, la politica – nei suoi diversi
livelli (locale, nazionale, sopranazionale), il rinnovamento degli stili di vita, l’educazione e la
testimonianza da dare come comunità
ecclesiale.
1 Questioni specifiche
Sono molti coloro per i quali la crescita di una sensibilità verso i temi ambientali avviene a partire dal
coinvolgimento in singoli eventi, spesso a carattere tipicamente locale. Può trattarsi di qualche evento
eccezionale, che viene a turbare la normale convivenza ed al quale occorre far fronte, o più
semplicemente della percezione della bassa qualità ambientale nella propria città o della scoperta della
bellezza di un luogo o di una specie animale minacciata. Per parecchi degli abitanti di Venezia, ad
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esempio, una particolare sensibilità per i temi ambientali è legata alle questioni di salvaguardia della
laguna, ma anche ai gravi fatti di Porto Marghera, con un’industria chimica che è stata causa di malattia
e talvolta morte per i lavoratori coinvolti, ma anche per la popolazione delle aree circostanti.
Porre gesti d’amore per il Creato significa certamente farsi carico di tali realtà, lasciandoci coinvolgere
da quelle situazioni che più direttamente ci interpellano. “Pensare globalmente, agire localmente” è un
riferimento importante per le nostre pratiche di tutela del creato: per la maggior parte di noi la sintonia
con l’amor che muove il sole e le altre stelle non si verifica tanto in una mistica unione interiore, ma in
pratiche concrete, specifiche, locali. La società civile, nelle sue diverse articolazioni, è generalmente il
primo livello chiamato ad esprimersi, delineando importanti forme di corresponsabilità vissuta, nella
protesta o nell’azione positiva.
2 La politica
È pure vero, però, che l’agire responsabile dei singoli soggetti o delle loro organizzazioni risulta
difficilmente efficace se non è capace di interpellare positivamente quel secondo livello che è la politica,
anche nella sua dimensione istituzionale. È solo quando entra come componente qualificante nella
gestione della cosa pubblica - anche nella sua dimensione di politica economica - che l’attenzione
ambientale può diventare efficace. Nell’era del potere tecnologico l’intervento sul mondo naturale e la
sua scala non è questione che possa essere lasciata semplicemente al libero gioco del mercato o ad una
sperimentazione che sembra
ritenere lecito ogni fattibile. Il dibattito, la ricerca comune, la discussione democratica sui temi
ambientali devono al contrario diventare momento essenziale di un pensiero della politica che voglia
essere all’altezza di questo tempo.
Ciò è vero per le questioni di scala locale, che in parecchi casi sono comunque abbastanza complesse da
richiedere l’intervento delle istituzioni locali. Il ruolo dei comuni, delle province e delle regioni è
fondamentale, ad esempio nella promozione di forme di mobilità sostenibile o di una gestione
ambientalmente attenta del territorio. Ancor più lo diventa, però, nel momento in cui veniamo a riferirci
ai grandi temi globali: il danneggiamento della fascia di ozono ha potuto essere affrontato efficacemente
solo grazie ad accordi intergovernativi, analoghi a quelli che esige oggi da noi il mutamento climatico.
Trovo, anzi, francamente sconcertante la scarsa attenzione per queste tematiche che sembra accomunare
il dibattito politico nazionale
all’interno delle diverse forze politiche in questa fase della vita italiana – anche se certo non mancano
differenze di rilievo nelle politiche ambientali dei governi recenti.
Dobbiamo affermare che l’amore per il creato deve trovare forme di espressione anche nell’agire
politico. La tradizionale attenzione per la giustizia e per la solidarietà della tradizione cristiana deve
imparare ad intrecciarsi con una cultura politica dello sostenibilità ambientale declinata su più livelli –
nel segno della sussidiarietà.
3 Stili di vita
Di fatto, però, va pure sottolineato che nessuna scelta di politica ambientale risulta efficace se non si
traduce in mutamenti nei nostri stili di vita – ed in particolare dei nostri stili di consumo 22. xxiiÈ
innegabile, infatti, che oggi il primo fondamentale fattore della crisi ambientale è costituito dagli stili di
consumo delle civiltà occidentali, che significano sempre anche consumo di risorse e produzione di
rifiuti. Certo, il consumo risponde in parte ad esigenze reali ed una certa disponibilità di beni e di servizi
accresce indubbiamente la qualità della vita –come vediamo soprattutto quando ci viene impedito di
praticarlo. Dobbiamo, però, riconoscere che la società pubblicitaria che abitiamo induce in noi il
desiderio incessante, autofinalizzato,
che cerca soddisfazione nell’acquisto di merci sempre rinnovate, quasi esse potessero rispondere alla
carenza di identità che le rende attraenti. La nostra vita è attraversata così da un flusso di merci, da un
flusso di cose sempre rinnovate, in un ciclo continuo di attrazione –acquisto – disillusione obsolescenza precoce - nuovo acquisto. L’impatto sull’ambiente di tale dinamica è insostenibile: se
l’american way of life degli USA venisse estesa all’intera popolazione mondiale richiederebbe le risorse
di cinque pianeti come il nostro per poter essere mantenuta
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Due sono le direzioni nelle quali dobbiamo lavorare, per ridurre la nostra impronta ecologica:
l’ecosufficienza e l’ecoefficienza. Da un lato, infatti, dobbiamo sottoporre ad attenta verifica l’effettiva
necessità di ciò che consumiamo, interrogandoci sulla reale consistenza di determinati bisogni – in una
singolare ripresa attualizzante della virtù della sobrietà, così cara alla tradizione cristiana. Dall’altro,
però, dobbiamo valorizzare appieno quella possibilità che ci viene offerta dalle tecnologie più avanzate,
in modo da soddisfare quei bisogni che riconosciamo effettivamente tali in forme che gravino il meno
possibile sull’ambiente, con
consumi minimi di energia e di materia. La sobrietà non significherà, allora, riduzione della qualità della
vita – il facile stereotipo del ritorno alla candela in nome dell’ambiente – ma al contrario un’intelligente
capacità di valorizzare appieno tutte le potenzialità delle risorse ambientali, riducendo al minimo gli
sprechi. Illuminazione, progettazione delle abitazioni e loro riscaldamento, mobilità, alimentazione: sono
molti gli ambiti in cui le due dimensioni possono intrecciarsi con effetti positivi da un punto di vista
ambientale ed economico. Tra l’altro, non dimentichiamo che ogni nostro atto di consumo non pesa solo
nella sua individualità, ma anche in quanto segnale lanciato al mercato, che è molto pronto a registrare le
opzioni dei gruppi, quando raggiungono livelli significativi: è come un secondo volto, tramite il quale
incidiamo in
qualche misura sulla realtà dell’economia.
4 Educazione e testimonianza
Possiamo esprimere gesti d’amore nei confronti del creato in quanto membri della società civile, in
quanto attori politici, in quanto consumatori. Anche in tali pratiche, spesso completamente laiche nella
loro apparenza, sono talvolta in gioco realtà di rilievo per la nostra fede nel mondo come creazione. C’è,
però, un quarto livello in cui esse possono emergere nella loro forma più esplicita ed è quello,
assolutamente fondamentale, dell’educazione e della formazione.
L’attenzione per specifiche questioni ecologiche, l’impegno per la realizzazione di efficaci politiche
ambientali, la generosa disponibilità a rinnovare gli stili di vita: tutti elementi che possono sorgere a
partire da una soggettività rinnovata, capace di guardare al mondo naturale come realtà degna di valore,
di cui tenere conto nell’orientare la nostra azione. L’etica è anche un’ottica, è anche capacità di vedere
determinate realtà come eticamente rilevanti; d’altra parte, è uno sguardo che si impara, a partire da
quegli stimoli che si ricevono nelle diverse fasi dell’esistenza. Tra le agenzie formative la scuola sta
indubbiamente iniziando ad inserire l’educazione all’ambiente tra le aree di rilievo e sono numerosi i
testi dedicati all’educazione
alla sostenibilità.
Anche per la comunità ecclesiale si pone oggi la sfida di inserire l’attenzione per il creato come
componente organica e qualificante dei propri percorsi educativi: la catechesi, la formazione dei giovani
e degli adulti, la predicazione, ma anche le forme della preghiera e della celebrazione. I sacramenti
offrono tra l’altro spunti di estremo rilievo per cogliere tutta la rilevanza delle realtà naturali anche in
ordine alla storia della salvezza; nel battesimo, ad esempio, è l’acqua, elemento prezioso e necessario per
la vita biologica, che diviene segno e
strumento di quella pienezza di vita che ci è donata in Gesù Cristo. L’anno internazionale che si è
appena concluso è stata un’occasione preziosa per comprendere che un’etica dell’acqua si elabora anche
a partire da una cultura ed una spiritualità dell’acqua, cui la comunità ecclesiale può offrire un contributo
prezioso. Comprendere e formare al valore teologico delle realtà create, insomma, è un valore aggiunto
che le chiese possono offrire al dibattito sui temi ecologici, cui tante voci diverse partecipano. Da esse
non ci si attende certo che offrano soluzioni scientificamente innovative ai problemi dell’ambiente, ma
che facciano crescere in noi quell’amore per il creato che è necessario per la diffusione di un’effcace
attenzione all’ambiente.
Per finire
Il circolo si chiude, insomma: partiti dall’esame di questioni squisitamente teologiche, che magari
qualcuno avrà considerato un po’ troppo alte, proprio ad esse ci troviamo ricondotti, dopo esser passati
attraverso lo spessore pratico della dimensione etica e pastorale. Parlare di amore per il creato, insomma,
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non è un di più che ci distoglierebbe dalla concretezza delle pratiche nei suoi confronti, ma un nucleo
denso che conferisce spessore e profondità all’impegno ambientale.
La fede nel creatore allarga la nostra percezione del mondo, rivelandoci una fraternità misteriosa che ci
lega a tutte le creature – quella di un’origine comune. Il creato appare, allora, come il grande sacramento
del Suo amore, come un radicale dono di vita, come lo spazio di una prima alleanza fondante, di cui tutte
le altre sono come esplicitazione. Ad essa siamo chiamati a rispondere, nella solidarietà con i fratelli e le
sorelle, nell’attenzione premurosa per tutte le realtà create, nella cura per il fragile pianeta azzurro che ci
è dato di abitare. La figura di Francesco, uomo della solidarietà radicale con gli ultimi, ma anche
dell’amore cantato e
vissuto per il creato, ci sia di ispirazione in questo cammino: «Laudato sii mi Signore, cum tutte le tue
creature…».
Campobasso, 23 aprile 2004
Note
1
H.Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990
Ho analizzato l’evoluzione del pensiero teologico in materia di ecologia in S.Morandini, Teologia ed ecologia
1
G.Von Rad, Il problema teologico della fede veterotestamentaria nella creazione (1938), in Id., Scritti sul Vecchio
Testamento, Jaca Book 1984, pp.9-26, qui p.23; si veda più ampiamente Id., Teologia dell’Antico Testamento. ITeologia delle
tradizioni storiche di Israele, Paideia, Brescia 1972. Una presentazione critica della posizione di Von Rad in G.L.Prato, Il tema
della creazione e la sua connessione con l’alleanza e la sapienza nell’Antico Testamento:interferenze e integrazioni, in PGiannoni (a cura), La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, pp.143-186.
1
M.M.Thomas, P.Abrecht (a cura), Christians in the Technical and Social Revolutions of Our Time. Wold Conference on
Church and Sociery. Geneva July 12-26, 1966, Ginevra, WCC 1967.
1
Theological Issues in Social Ethics, ivi, pp.195-198, qui p.198.
1
L.White, Le radici storiche della nostra crisi, in «Il Mulino» 22 (1973), pp.251-263 (ed.or.ingl 1967). Ricostruzioni del
dibattito suscitato da White, da prospettive diverse, in A.Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1984;A.Simula, In pace
con il creato. Chiesa Cattolica ed ecologia, Messaggero, Padova 2001, pp. 30-37. Tra gli interventi che contestano la sua
interpretazione tutta negativa del cristianesimo ocidentale, si segnalano per la qualità della documentazione: J.Barr, Uomo e
natura. La controversia ecologia e l’Antico Testamento, in M.C.Tallacchini (a cura), Etiche della terra. Antologia di filosofia
dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp.61-84; R.Attfield, The Ethics of Environmental Concern, Basil
Blackwell,Oxford 1983; U.Krolzik, Die Wirkungsgeschichte von Genesis 1,28, in G.Altner (a cura), Okologische Teologie.
Perspektive zur Orientierung, Kreuz Verlag, Stoccarda 1989, pp.149-163.
1
7 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1981, vol. I, p. 422.
1
Isacco il Siro, Omelia 71, citata al numero A23 del Documento finale della II Assemblea Ecumenica Europea di Graz («Regno
Doc» 42 (1997), pp.475-493, qui pp.480-481).
1
L.Vischer, Un tempo della creazione, in «Studi Ecumenici»18 (2000), pp.11-22
1
Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi, cap.80, (in Fonti Francescane, Messaggero, Padova 1982,
pp.401-532
1
Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, cap. 165 (in Fonti Francescane, pp.537-732).
1
Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. 165.
1
Tommaso da Celano, Vita seconda, cap.165.
1
14 J.Moltmann, Dio nella creazione. Una teologia ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986.
1
15 La sottolineatura in E.Van Wolde, La creazione come grazia, in «Concilium » 6 (2000), pp. 585-597.
1
A.Bonora, L’uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen.1-11, in «CredereOggi» 1992, n.93, pp.18-9, qui p. 25-26.
1
A.Bonora, L’uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen.1-11, in «CredereOggi» 1992, n.93, pp.18-29, qui p. 25-26.
1
G.Lohfink, Crescita. Il codice sacerdotale e il mito della crescita, in Id., Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986,
pp.177-192, qui p.190.
1
Penso, in particolare al Messaggio per la Pace del 1990:”Pace con Dio Creatore, Pace con tutto il creato” ed agli splendidi
interventi su “La gloria della Trinità nella creazione” (26 gennaio 2000) e “L'impegno per scongiurare la catastrofe ecologica”
(18 gennaio 2001). Tali testi, come gran parte dei documenti che citeremo nel corso di questa riflessione sono disponibili su
database tematico di documenti ecclesiali accessibile dal sito del Servizio per il Progetto Culturale (www.progettoculturale.it).
1
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1982, vol. I, p.392.
1
L.Boff, Ecologia, mondialità, mistica. L’emergere di un nuovo paradigma, Cittadella, Assisi 1993; Id., Grido della terra,
grido dei poveri. Per un’ecologia cosmica, Cittadella, Assisi 1996.
1
Per una trattazione più ampia rimando al mio S.Morandini, Il tempo sarà bello. Fondamenti etici e teologici per nuovi stili di
vita, EMI, Bologna 2003; Id. (a cura), Etica e stili di vita, Lanza / Gregoriana, Padova 2003.
1
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Giornale di Teologia 137 (12/06/2009)
JÜRGEN MOLTMANN – UNA TEOLOGIA AMANTE DELLA VITA
di
Rosino Gibellini
Firmata il giorno di Pasqua del 2006, in occasione del suo 80° compleanno, è uscita in questi
mesi con il titolo Vasto spazio. Storia di una vita (Queriniana 2009), nella traduzione di Daria
Dibitonto, l’autobiografia del teologo Jürgen Moltmann, noto in tutto il mondo come il teologo
della speranza.
Nato in aperta campagna in un casolare rustico presso Amburgo, la grande città anseatica della
Germania, nel 1926, ha fatto in tempo ad essere arruolato nella Wehrmacht a 17 anni, e a
trascorrere dopo la guerra sul fronte olandese tre anni di internamento, 1945-1948, in campi di
prigionia, come prigioniero di guerra (POW = Prisoner of War) degli inglesi, prima in Belgio,
poi in Scozia, e successivamente nell’Inghilterra centrale, nel Norton Camp presso Mansfield
nel Nottinghamshire.
Proveniente da una famiglia protestante laica, proprio dietro il filo spinato del campo di
prigionia ha scoperto la fede in Cristo, leggendo i Salmi di lamentazione dell’Antico
Testamento, in particolare il Salmo 39, e poi il vangelo di Marco, in particolare il racconto della
passione (un cappellano del campo aveva distribuito ai prigionieri di guerra la Bibbia). Scrive
nell’Autobiografia, in riferimento a questa esperienza di prigionia: «Ho ripreso il coraggio di
vivere, e lentamente ma con sicurezza mi ha preso una grande esperienza di risurrezione nel
“vasto spazio” di Dio» (40).
Ritornato dalla prigionia nel 1948 – «avevo passato più di cinque anni in caserme, campi,
trincee e bunker, ma avevo vissuto qualcosa che avrebbe deciso della mia vita» (45) – opta per
la teologia (invece che per matematica e fisica), che studia a Gottinga. Suoi docenti sono, tra gli
altri, von Rad per l’Antico Testamento; Bornkamm per i Vangeli; Jeremias per il problema del
Gesù storico; per le esercitazioni di omiletica Gogarten, che il giovane Moltmann trova
«cinico» (53). Ma il suo maestro, che l’ha introdotto alla Dogmatica di Barth è stato Otto
Weber, che del resto ha introdotto molti altri studenti alla grande opera barthiana con la sua
Guida alla Dogmatica di Karl Barth, che lo stesso Barth definiva «mappa di orientamento e
rimorchiatore di transatlantici» (come ricordo nel capitolo dedicato a Barth in La teologia del
XX secolo, Queriniana 1992, 20076). Scrive Moltmann: «Dopo la venerazione di Barth, che
avevo ricevuto a Göttingen [...] pensavo che dopo Barth non potesse più esistere altra teologia,
perché lui aveva detto tutto e l’aveva fatto al meglio, esattamente come nel XIX secolo si diceva
che dopo Hegel non poteva più esserci filosofia. Da questo errore mi ha liberato il teologo
olandese Arnold van Ruler nel 1956» (59-60). E sarà proprio Moltmann, con Pannenberg, ad
operare una svolta epocale nell’ambito della teologia evangelica, introducendo con grande
respiro teoretico la categoria di “regno di Dio”. Gli studi a Gottinga si concludono con la laurea
nel 1952. A Gottinga Jürgen incontra Elisabeth: «Lentamente la mia prigionia interiore, che
avevo nascosto dietro al motto di Kierkegaard “disperato, e tuttavia fiducioso”, si dissolse e la
mia anima tornò di nuovo a essere vasta e gioiosa. A fine febbraio 1950 ci siamo dati il nostro
primo bacio, godendo l’uno dell’altra» (60).
Dopo la laurea in teologia a Gottinga (1953), seguono gli anni del pastorato, l’abilitazione
all’insegnamento universitario (1956) con Jeremias, che era decano della facoltà di Gottinga, e
la prima docenza alla Scuola superiore ecclesiastica di Wuppertal (1958-1964), cui seguiranno
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le università di Bonn e Tubinga. Decisivo è stato l’incontro con van Ruler: «Tornai alla teologia
contemporanea nel 1956 [dopo l’abilitazione sulla storia della teologia riformata], grazie
all’incontro con il teologo olandese Arnold van Ruler di Utrecht. Lo incontrai a una conferenza
di teologi riformati nella Frisia orientale. Portava avanti una “teologia dell’apostolato”, una
teologia dell’esodo e del regno di Dio. Iniziò la sua conferenza con la frase: “Sento il profumo
di una rosa e sento il profumo del regno di Dio”. Non avevo mai sentito qualcosa del genere,
nemmeno a Karl Barth avrebbe potuto venire in mente. Van Ruler mi convinse che Karl Barth
non aveva detto tutto quel che la teologia aveva da dire a quel tempo, e nemmeno aveva detto
così bene. Mi portò sulle tracce della speranza, rivolta in avanti, nell’escatologia del regno di
Dio e della sua giustizia su questa terra» (80-81). Inizia il suo insegnamento a Wuppertal, dove
ha come collega il giovane Pannenberg, con un corso sul tema del “regno di Dio”: «Mi lanciai
sul “regno di Dio”, senza sapere che questo tema del futuro mi avrebbe tenuto con il fiato
sospeso per una vita intera» (83).
Un altro incontro decisivo è con il filosofo Ernst Bloch, di cui legge con avidità nell’aprile 1960
la sua vasta opera Il principio speranza (1959), e con il quale resterà poi in lunga consuetudine
di discussione e di dialogo: «Bloch è, dopo secoli, l’unico filosofo tedesco che cita la Bibbia in
dettaglio e con perizia, e che si dimostra essere, a modo suo, un buon teologo della “religione
dell’esodo e del regno”, come egli la chiama» (98). Il punto di divergenza tra il filosofo della
speranza e il teologo della speranza è così puntualmente formulato: «Solo quando “la morte è
inghiottita dalla vittoria” il “principio speranza” raggiunge il suo obiettivo» (100).
Dopo le prime tre sezioni (gioventù, tirocinio, inizi), la sezione quarta dell’autobiografia entra
nel vivo della sua opera teologica: si sviluppa per circa 100 pagine (121-227) ed è dedicata alla
pubblicazione e alle reazioni a quella che resta l’opera maggiore di Moltmann, Teologia della
speranza. Sono pagine che appartengono non solo alla «storia di una vita», ma anche alla storia
della teologia del XX secolo. Il libro esce nell’ottobre 1964 e ricordo di averlo intercettato alla
sua uscita alla Buchmesse di Francoforte di quell’anno, pubblicato dal Christian Kaiser Verlag
di Monaco di Baviera, l’editore di Bonhoeffer, e mi fu presentato dal direttore della Casa
editrice Fritz Bissinger, che qui viene citato. L’opera sarà pubblicata in traduzione italiana,
condotta sulla terza edizione tedesca (1965), aumentata di una importante Appendice, e inserita
nella «Biblioteca di teologia contemporanea», nel 1970, in una puntuale traduzione del teologo
valdese Aldo Comba. Ricorda Moltmann: «Il libro “esplose”, come si usa dire» (124) in
Germania e negli Stati Uniti; «Era un gran periodo» (174); «Con la Teologia della speranza era
mia intenzione restituire alla cristianità la sua speranza autentica per il mondo. Così ho accolto
criticamente le speranze in un “mondo senza Dio” raccolte da Ernst Bloch, per metterle in
relazione con il “Dio della speranza” (Rm 15,13) della tradizione ebraica e cristiana» (127-128).
La sezione quinta (181-227) ricostruisce e narra «gli irrequieti anni dal 1968 al 1972 a Tubinga
sotto l’insegna della teologia politica» (183). Qui Moltmann fa una interessante
puntualizzazione sul collega cattolico Joseph Ratzinger. Aveva scritto Ratzinger in La mia vita
(1998): «Quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu
chiamato Jürgen Moltmann, che nel suo affascinante libro Teologia della speranza ripensava
completamente la teologia a partire da Bloch», e notava il passaggio culturale nelle università
da una atmosfera esistenzialistica (Heidegger / Bultmann) ad un clima turbolento di stampo
rivoluzionario-marxista, anche per la presenza di Bloch. Puntualizza Moltmann: «Ratzinger non
capì che allora con Bloch e me non era l’idea marxista, ma la speranza messianica a diventare
l’alternativa anti-esistenzialistica» (200-201). Sono gli anni, in cui si affermano in campo
internazionale i «teologi della speranza»: Moltmann, Pannenberg e Metz, chiamati anche gli
Hope-boys (208).
A Teologia della speranza (1964) segue nel 1972 Il Dio crocifisso (arrivato prontamente in
edizione italiana nel 1973 nella traduzione del teologo friulano don Dino Pezzetta, che ha
tradotto per l’Editrice Queriniana quasi tutta l’opera di Moltmann). Il libro svolge una teologia
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della croce, cui è dedicata la parte sesta. Nella testimonianza del teologo anglicano Richard
Bauckmann, citato (231): «È un libro appassionato, scritto per così dire “con il cuore e il
sangue”, come Moltmann ha detto in seguito». È una teologia della croce, che svolge il tema
della sofferenza di Dio, che ha suscitato una grande disputa. Confessa Moltmann: «Più
importanti per me sono le dimensioni di conforto offerte da questa teologia della croce. “Solo il
Dio sofferente può aiutare”, scriveva Dietrich Bonhoeffer nella sua cella di prigione, e con ciò
intendeva il Cristo crocifisso. La sua croce sta tra le croci delle vittime dell’ingiustizia e della
violenza come segno del fatto che Dio stesso partecipa al nostro dolore, lo rende parte del propri
e condivide la nostra preoccupazione» (240). La tesi è stata discussa e criticata da Rahner,
Metz, Küng, in modo violento da Dorothee Sölle, ma ha trovato anche consensi: «Ricevetti
molto presto un vigoroso appoggio da parte della teologia anglicana. [...] Trovai consenso tra le
file della teologia della liberazione in Jon Sobrino e Leonardo Boff e tra quelle della teologia
minjung di Ahn Byung-Mu, ma con mia sorpresa anche in Romania da parte del saggio
professore di teologia ortodossa e spiritualità Dumitru Stăniloae, che riteneva il dolore di Dio
incluso nel concetto di Dio misericordioso. Con Hans Urs von Balthasar legai così a fondo che
la sua teologia della croce fu definita “un pendant cattolico della riflessione di Moltmann” (U.
Ruh)» (246).
La fase della teologia della speranza (1964-1975) si conclude con la terza opera La Chiesa nella
forza dello Spirito del 1975, che non ha l’organicità delle due grandi opere precedenti: «Il libro
sulla chiesa affronta una serie di temi e non solo un tema centrale come fanno Teologia della
speranza o Il Dio crocifisso» (251). Non mancano nel libro riflessioni e proposte innovative,
come quella, già avanzata (203), che destina la celebrazione della Santa Cena a tutti e alla quale
sono invitati gli umili e gli oppressi, mentre il battesimo dovrebbe essere riservato ai credenti.
La proposta ha suscitato una dura critica da parte cattolica (Kasper; ricostruisco la disputa in La
teologia di Jürgen Moltmann, Queriniana 1975). Ora Moltmann confessa: «Forse però questa
proposta non era particolarmente saggia» (251).
Nella parte settima (345-425) Moltmann continua il suo racconto, concentrandosi in particolare
sugli ultimi 15 anni della sua docenza a Tubinga, dal 1980 al 1994, in cui realizza una serie di
Contributi sistematici di teologia in sei volumi, che non si presentano come una “teologia
sistematica”, ma come una teologia dialogica e processuale, ma che non rinuncia a «proposte
proprie» (348) come «teologia in cammino per le strade del mondo e nel tempo» (348-349).
Questo modo di far teologia «in termini di reti e di relazioni» (356) va sotto il nome, coniato da
Pannenberg (356) di «nuovo pensiero trinitario». In questo itinerario spiccano due opere, Dio
nella creazione, che deriva dalle Gifford Lectures a Edimburgo nel 1985, e dove svolge una
teologia ecologica della creazione; e Lo Spirito della vita del 1991, dove svolge una
pneumatologia integrale, «dal quale sono scaturiti un nuovo amore per la vita, una cultura della
vita e, non da ultimo, una nuova spiritualità dei sensi, del corpo e della terra» (358).
E così, il percorso della teologia di Jürgen Moltmann, parte da una teologia della speranza per
dilatarsi in una teologia della vita, che trova espressione anche nella preghiera, con cui si
conchiude l’Autobiografia, che nel titolo del libro si ispira al Salmo 31,9: «Hai guidato i miei
passi nel vasto spazio».
Si domanda il teologo: «Che cosa amo quando amo Dio? Una sera lessi nelle Confessioni di
Agostino, libro X, 6, 8:
«Ma cosa amo quando amo te? Non la bellezza di un corpo, né le attrazioni della vita, né lo
splendore della luce, amica di questi miei occhi, non le dolci melodie di un’infinita varietà di
canti, né l’odore soave di fiori, unguenti e aromi; non la manna e il miele, né le membra
gradevoli agli amplessi della carne: non è questo che amo quando amo il mio Dio. Esiste però
una certa luce e una certa voce, un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso che amo
quando amo il mio Dio: la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che
è in me, dove la mia anima è inondata dalla luce che lo spazio non contiene, dove c’è una
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musica che il tempo non afferra, dove c’è un profumo che il vento non disperde, dove c’è un
sapore che la voracità non estingue, dove c’è un’unione che la sazietà non allenta. Questo io
amo quando amo il mio Dio».
E quella notte gli risposi:
Quando amo Dio amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, lo splendore degli occhi, gli
abbracci, i sentimenti, i profumi, i toni di questa colorata creazione. Tutto vorrei abbracciare,
quando amo te, mio Dio, perché ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del tuo amore. Tu mi
attendi in tutte le cose che io incontro.
A lungo ti ho cercato dentro di me, mi sono nascosto nel guscio della mia anima e mi sono
difeso con la corazza dell’inavvicinabilità; ma tu eri fuori di me e mi hai attratto dalla
ristrettezza del mio cuore nel vasto spazio dell’amore per la vita. Così sono uscito da me stesso,
ho trovato la mia anima nei miei sensi e ho scoperto quel che più mi appartiene negli altri.
L’esperienza di Dio approfondisce le esperienze della vita e non le riduce, perché risveglia la
forza di dire incondizionatamente sì alla vita. Più amo Dio, più sono felice di esistere; più esisto
pienamente e direttamente, più percepisco il Dio vivente, la fonte inesauribile della vita e la
vitalità
eterna»
(422-423).
© 2009 by Teologi@Internet Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini Editrice
Queriniana, Brescia (UE) i
43
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Salvaguardare il creato, vocazione dell'uomo
di Bartolomeo Sorge
A ritmo preoccupante si vanno susseguendo vere e proprie «catastrofi ecologiche», dovute in
gran parte all'incoscienza e all'incuria dell'uomo. La natura stessa si ribella, come dimostra lo
sconvolgimento del clima, con le sue conseguenze drammatiche: ghiacciai che si sciolgono,
frane, alluvioni, siccità e mille altre calamità che fanno vivere l'umanità in stato di continua
emergenza.
a. Che altro ci vuole perché ci rendiamo conto che la distruzione dell'ambiente naturale è un
pericolo mortale per l'umanità, non meno del terrorismo, della fame, delle armi di distruzione di
massa?
La «cultura ecologica»
Il guaio è che manca una cultura ecologica. Siamo talmente abituati a disporre di beni sintetici
d'ogni specie, a ottenere risultati strabilianti in ogni campo grazie alle applicazioni delle nuove
tecnologie, che tendiamo tutti a sottovalutare la natura e ad attribuire alla scienza e alla tecnica
poteri taumaturgici. Ma le cose non stanno così. La sopravvivenza dell'umanità è
essenzialmente legata all'efficienza delle risorse naturali, al loro impiego razionale e
responsabile. La scienza e la tecnica non creano le risorse necessarie alla vita, ma solo le
trasformano e le utilizzano. Il terreno e i giacimenti minerali, le piante e gli animali, l'acqua e
l'aria rimarranno sempre i serbatoi e le fonti naturali insostituibili per il sostentamento
dell'uomo, pure nella società dei robot e dei cervelli elettronici.
Senza una cultura ecologica adeguata, continueremo pericolosamente a convivere con la
minaccia crescente della morte biologica, verso cui siamo già incamminati. Se questa non
avverrà per reazione violenta da parte della natura, sopraggiungerà inevitabilmente per lenta e
progressiva asfissia, per inedia e per avvelenamento strisciante.
La «vocazione ecologica»
Come cristiani, poi, siamo chiamati a un impegno maggiore. Sappiamo infatti che l'universo con
le sue immense risorse è stato creato a servizio dell'uomo e a lode di Dio. È necessario, dunque,
riscoprire il senso della creazione e della missione dell'uomo nel cosmo e nella storia. Capire
che, quando si calpesta, si sciupa o si distrugge l'ambiente naturale, si colpisce e si compromette
non solo la vita stessa dell'uomo, ma anche il disegno di Dio.
L'uomo non è solo l'amministratore dei beni naturali. In certa misura, ne è pure il concreatore.
Dio - ha ricordato il Papa in occasione del vertice mondiale di Johannesburg - ha affidato agli
uomini il compito di portare a termine la creazione: «Di qui discende quella che potremmo
chiamare la loro "vocazione ecologica", divenuta più che mai urgente nel nostro tempo»).
Dunque, una «cultura ecologica» è necessaria per comprendere l'importanza della salvaguardia
del creato; ma non basta: occorre poi comportarsi responsabilmente nei confronti della natura
con la coscienza di adempiere una vocazione.
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Essere cristiani nella globalizzazione: cattolici e
ortodossi a confronto
Adalberto Piovano
Priore Abbazia di Vertemate, Italia
a
Una istintiva reazione di fronte al titolo proposto per questo forum è stato quella di un
interiore disorientamento, provocato da un senso di inadeguatezza davanti ad un tema
tanto complesso e in continua evoluzione come quello della globalizzazione. Cosa può
dire un monaco, che per scelta vive una certa xeniteia (estraneità, non disinteresse)
rispetto al mondo, di fronte ad un fenomeno così ambivalente che investe livelli differenti
dell’esperienza umana e assume dimensioni così vaste tanto da tradursi nella pretesa di un
linguaggio comune per l’umanità intera? Può un monaco attingere dalla sua esperienza se
non una risposta, almeno una particolare angolatura da cui, come cristiano, può collocarsi
per discernere qualche aspetto di questo fenomeno? Al di là delle ambiguità delle
proposte e dei contenuti, il termine ‘globalizzazione’ richiama in qualche modo una sorta
di casa comune, una capacità di comprensione attraverso un linguaggio comune, il
tentativo di una via di unità per l’uomo. E in un certo senso è qualcosa che affascina. E
come monaco (monachos, colui che cerca l’unità) sento una profonda sintonia con tutto
ciò che si propone di dare unità alla esperienza umana, superando divisioni e conflitti. E a
dispetto della sua marginalità, il monaco (anzitutto come tipo di uomo) sente di poter
offrire qualcosa della sua esperienza come piccola luce per collocarsi in verità di fronte ad
un fenomeno così complesso. Anzi, si potrebbe dire che il monachesimo vive già una
certa ‘globalizzazione’: come fenomeno antropologico, esso è presente in tutte la grandi
religioni (anche se in alcune di esse in forma più sfumata e nascosta), tanto da offrire un
linguaggio umano e spirituale comune, nella consapevolezza di una somiglianza tra quelli
che lo vivono pur in contesti religiosi differenti. Come tale, il monachesimo tende ad uno
sguardo unificato, ad uno sguardo che sappia trasformare le differenze in una armonica
visione sapienziale dell’uomo in rapporto a se stesso, all’altro, al creato, a Dio. Un
esempio di questo ‘sguardo unitivo’ si può trovare in una esperienza mistica di Benedetto,
narrataci da Gregorio Magno nel suo II libro dei Dialoghi (ed è significativo che Gregorio
Palamas, nella sua difesa dell’esperienza dell ‘esicasmo, riporti proprio questo episodio di
san Benedetto). Al termine del suo racconto sulla vita di Benedetto, prima di narrare la
morte del santo, Gregorio Magno colloca una visione singolare: di notte , il monaco
“volgendo al cielo lo sguardo”, vide un intenso raggio luminoso e “come raccolto in
quest’unico raggio di sole”, “il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi”. La capacità
unificante dello sguardo di Benedetto, spiega Gregorio, deriva da un cuore dioratico, un
cuore che vede tutto in Dio e che è ormai dilatato (il dilatato corde del Prologo alla
Regola) alla misura stessa di Dio, se così si può dire: “è la stessa luce della
contemplazione a dilatare la sua interiore capacità di penetrazione e, nella misura in cui si
espande in Dio, essa è sollevata e resa superiore al mondo…Nessuna meraviglia dunque,
se vide tutto il mondo raccolto davanti a sé, colui che, sollevato nella luce dello spirito,
era già oltre il mondo”. Uno sguardo trasfigurato è reso capace, si potrebbe dire, di vedere
il chiaroscuro della diversità (che altrimenti appare limite che minaccia e crea paura) nella
prospettiva della luce di Dio, l’unica che permette di raccogliere e ricomporre tutto nella
comunione.
Come monaco vorrei collocarmi proprio in questa prospettiva chiaramente sapienziale e
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spirituale per tentare di offrire alcuni percorsi, alcune piccole luci che permettono di
affrontare questa sfida del terzo millennio nella logica dell’evangelo. Certamente parlerò
da monaco occidentale, ma cercherò di farlo a partire da quei valori comuni che rendono
il monachesimo cristiano indiviso, ‘uno’ sia in Oriente che in Occidente, al di là delle
forme e delle strutture differenti o delle rotture ecclesiali.
Una prima reazione da credente in ascolto della parola di Dio si esprime in un confronto
tra due modalità bibliche di costruire uno spazio abitabile, uno spazio di comunicazione,
una città per l’uomo. La città, come simbolo, riflette un ideale di umanità, un modo di
rapportarsi tra uomo e uomo, tra uomo e cosmo, tra uomo e Dio. E la Scrittura ci presente
due tipi di città, Babele e Gerusalemme, che ci offrono cammini differenti per realizzare
uno spazio di comunione. Babele assolutizza una unità idolatrica che di fatto porta alla
divisione nell’uomo e tra gli uomini, in quanto è una unità dal basso, voluta e progettata
dall’uomo nella sua solitaria autonomia senza spazio per la diversità. ‘E una città costruita
di mattoni giustapposti, opera delle mani dell’uomo, segno di una perfezione artificiale. E
l’euforia di una città che ‘tocca il cielo’ si trasforma in una città auto-referenziale: gli
uomini celebrano la loro comunione, dominando la terra mediante il loro progresso. Ma
ciò porta alla progressiva estraneità degli uomini tra di loro e rende ciascun uomo
anonimo, solo, appiattito in una uniformità che chiude al dialogo. Chiudendosi alla
relazione con Dio, l’uomo costruisce una città dis-umana. Accade ciò che narra il midrash
della torre: “(la torre) divenne così alta che per salire fino alla cima occorreva un anno
intero. Agli occhi dei costruttori un mattone divenne allora più prezioso di un essere
umano: se un uomo precipitava e moriva, nessuno vi badava, ma se cadeva un mattone
tutti piangevano perché per sostituirlo sarebbe occorso un anno”. L’ideologia che tende ad
unire le forze attorno ad uno scopo grande ed accomunante rischia sempre di dimenticare
le persone e di sacrificarle alla ideologia, per quanto attraente possa sembrare. E mi pare
anche significativo che questa costruzione umana, nel racconto biblico, inizi con un
movimento: “emigrando dall’oriente”, gli uomini raggiungono un luogo in cui decidono
di costruire la loro città. “L’oriente…è la direzione verso cui si avanza, è il luogo dove
sorge il sole, è il futuro e la speranza; questi uomini voltano le spalle a tutto ciò, sono in
preda al disorientamento, e la loro impresa lo dimostrerà”(De Benedetti).
Dio rifiuta una sola lingua, una sola cultura, un solo potere; rifiuta tale progetto che si
caratterizza da una ambigua unicità e moltiplicando le lingue, crea le diversità culturali, la
varietà dei popoli e dei fini. Nella città che Dio stesso offre come luogo di incontro e di
dialogo, Gerusalemme, l’infinito pluralismo di identità si apre alla comunione. Dio
risponde al progetto di Babele scegliendo un uomo, Abramo; è la scelta della singolarità,
della irripetibilità della persona come garanzia di ogni autentica relazione. Abramo, in cui
tutti i popoli ricevono la benedizione di Dio, diventa il seme di quello spazio di
comunione che è la città donata da Dio, Gerusalemme. Essa è la città simbolo della
relazione, dell’incontro come dono: si edifica a partire dalla capacità che ognuno ha di
incontrarsi in colui che è la relazione per eccellenza, Dio. Gerusalemme è la città costruita
con pietre scelte ed uniche, ognuna delle quali mantiene quella alterità che la caratterizza
e la rende preziosa, quella imperfezione che la rivela come dono. Nella Pentecoste, nel
cuore di Gerusalemme, per noi cristiani si compie il destino della città donata da Dio: ciò
che unisce gli uomini non è il ‘nome’ che si danno, ma lo Spirito (il volto della relazione
intradivina) che viene donato. E l’unità non è nella riduzione ad una sola lingua, ma nella
comprensione della parola dello Spirito nella diversità e nella unicità di ciascuna lingua.
E penso che il cristiano debba cercare nello Spirito e secondo lo Spirito una risposta a ciò
che appare il progetto comunitario del terzo millennio, la globalizzazione, in quanto la
comunione attraverso lo Spirito sa mantenere intatta la ricchezza di ogni alterità,
liberandola da una conflittualità distruttiva. E in questo senso la risposta del cristiano può
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giocarsi essenzialmente su di una qualità ‘spirituale’ o meglio, su di una spiritualità che
sappia rispondere a quel bisogno di comunione e di unità che l’uomo cerca. In questa
prospettiva, vorrei fare un breve accenno a tre percorsi spirituali che, come monaco
occidentale in ascolto della tradizione dell’Oriente cristiano, sento urgenti per i credenti
oggi.
Anzitutto credo sia importante riacquistare un linguaggio spirituale comune, un
linguaggio che, di fatto, è già presente nella varie tradizioni ecclesiali, anche se espresso
in forme differenti. Si potrebbe chiamare questo linguaggio dello Spirito un linguaggio
‘ecumenico’, intendendo questo aggettivo non nella sua accezione storica (si rischierebbe,
in questo caso, di aggiungere una ulteriore scuola spirituale alle tante già presenti), ma
nella sua valenza simbolica: un linguaggio capace di creare comunione e di ricondurre
all’unità la ricchezza dei linguaggi delle singole tradizioni. In fondo si tratta di superare o
rileggere un fenomeno tipicamente occidentale e cioè, quello della frantumazione della
spiritualità in tante forme, certamente arricchenti, ma spesso in contrapposizione. A
differenza dell’Oriente, l’occidente ha declinato la spiritualità al plurale, rischiando di
compromettere l’unità della vita cristiana e la visione unitaria della sequela evangelica. Si
può ricordare a questo riguardo il giudizio di H.U. von Balthasar: “La differenziazione
della spiritualità, oggi divenuta pacifica – si parla di spiritualità dei diversi ordini, di
spiritualità dei sacerdoti diocesani, dei laici, dei differenti gruppi e movimenti – è quasi
totalmente un aborto, spesso ben intenzionato, ma sovente avvelenato, e non solo
inconsciamente, dal risentimento. Come se un santo potesse essere interessato alla ‘sua
propria’ spiritualità! Come se una simile spiritualità a scomparti non fosse indegna dello
Spirito Santo, il quale vuole ispirare nei cuori sempre e soltanto la pienezza di Cristo”. In
questa prospettiva, il monachesimo, nei suoi valori essenziali, può diventare un
laboratorio per ricuperare un linguaggio spirituale comune. Non tanto perché il
monachesimo può offrire ricette oppure perché ha una ‘sua propria’ spiritualità da
proporre, ma perché conserva, al di là delle strutture e delle divisioni ecclesiali, quella
koinonia di vita che è stata plasmata da un cammino comune nel solco della Chiesa
indivisa. Esso conserva, a volte inconsapevolmente, quella che si potrebbe chiamare la
‘memoria storica delle origini’ in cui è custodito quel linguaggio dello Spirito plasmato
dall’ascolto della Parola, dalla ricerca incessante di un Dio presente e nascosto dalla
preghiera, da quella unità tra teologia e spiritualità che ha alimentato i grandi Padri. “La
divisione della cristianità – scrive P.Evdokimov - non è un ostacolo formale, ma una
mancanza di vera libertà, di quella che trova la sua origine nella verità totale. Più di tutti
gli altri, i monaci faranno l’unità organicamente, per il fatto che la faranno
liturgicamente…Attraverso la loro adorazione e i loro canti di lode, non escludono
nessuno, invitano solamente tutti ed ognuno a diventare adulti in Cristo…Secondo la bella
espressione di san Simeone il Nuovo Teologo, lo Spirito Santo non teme nessuno e non
disprezza alcuno. Icona dello Spirito Santo, il monachesimo è una viva epiclesi
ecumenica. L’unità non può trovarsi che in questa dimensione del monachesimo
universale se egli sa rendersi alla fine così libero come i soffi del grande Liberatore”
Oggi assistiamo, in tante forme, ad una violenza della immagine e del linguaggio che
abbruttisce l’agire e il pensare dell’uomo. Un tentativo di reazione a tale situazione può
essere la ricerca di una perfezione e di una bellezza che, però, hanno spesso il sapore di
un fuga dalla realtà dell’uomo. Si percepisce che tale bellezza è di fatto artificiale e, alla
fine, spersonalizzante. Come credenti siamo chiamati a scendere in profondità, a cercare
altrove quella bellezza che può strappare l’umanità da ogni sorta di abbrutimento.
Dobbiamo continuamente farci la domanda del protagonista de’ L’Idiota di Dostoevskij:
“Quale bellezza salverà il mondo?”. Credo che la bellezza, come dimensione e linguaggio
dello Spirito, può diventare luogo di salvezza solo se riesce ad accogliere e a trasfigurare
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ogni esperienza di sofferenza, di lotta, di contraddizione, di imperfezione: è la bellezza
del Risorto che porta impressi i segni della sofferenza e della passione. ‘E il cammino di
una spiritualità ‘filocalica’ che sa comunicare una bellezza come frutto di un processo
spirituale e ascetico, a volte drammatico e sofferto, che conduce alla unità del cuore: “la
bellezza – scrive ancora Dostoevskij ne’ I fratelli Karamazov – è i mistero in cui il
diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo”. In questo senso, la
tradizione spirituale orientale ci aiuta a ricuperare la via della santità come via di bellezza,
capace di comunicare una Bellezza ‘altra’: il santo, mediante la testimonianza della sua
vita, è nella Chiesa e nel mondo icona della bellezza di Dio, una icona ‘scritta’ dallo
Spirito a partire dalla finitezza della creatura, dalla sua carne fragile, in questo mondo e in
questa storia. E in questa prospettiva il santo, come icona di una bellezza che supera
l’esperienza umana, può diventare profezia e parola di salvezza per l’uomo di ogni tempo.
Anche del nostro tempo. Se noi pensiamo alla volgarità dell’immagine e della parola che
deturpano l’equilibrio dei rapporti tra l’uomo e la sua realtà interiore, tra l’uomo e i suoi
simili, tra l’uomo ed il creato, ci accorgiamo come oggi venga a mancare non solo una
profondità spirituale, ma anche una armonia di umanità; c’è una incapacità a mettere nei
rapporti, nella comunicazione, nel modo di vivere un gusto per la bellezza. Lo squilibrio
interiore che si nasconde dietro la violenza della parola e dell’immagine, non può che
generare inquietudine, disorientamento, aggressività. Il santo come icona ed espressione
simbolica di una bellezza ‘altra’ e pacificante, può ridonare realmente trasparenza al
nostro sguardo: uno sguardo trasfigurato che sa cogliere al bellezza di Dio in ogni realtà
umana e sa comunicarla in una armonia che investe tutta la persona ( parola, gesti,
silenzio ecc…). ‘E evidente, però, che tutto questo passa attraverso un lungo processo di
maturazione - è l’ascesi del santo - in cui sono chiamate in causa virtù spesso dimenticate
oggi e senza le quali non è possibile una armonia e una solidità interiori: la pazienza, la
perseveranza e l’umiltà nel cammino, il digiuno degli occhi, il silenzio dalle parole vane,
e soprattutto la consapevolezza dell’attesa di un compimento che ci è dato solo di gustare
nella bellezza della vita secondo lo Spirito. Il santo come icona di questa bellezza che è la
santità, ci insegna ad attendere una pienezza che è ‘al di là’: ci apre uno spiraglio sulla
bellezza di Dio in Cristo e orienta la nostra vita, mediante lo Spirito, verso di essa.
Proprio questa attesa di un incontro che dà pienezza è il terzo tratto che credo sia urgente
comunicare oggi come percorso spirituale. Ho già fatto accenno alla tendenza, a vari
livelli del vivere umano, di creare un mondo perfetto e unitario in cui sono eliminati tutti
gli scarti e le contraddizioni che la storia continuamente presenta. Se è certamente un
impegno di ogni uomo combattere ed eliminare tutto ciò che minaccia la esistenza e la
dignità delle persone e cercare sempre migliori condizioni di vita, resta tuttavia sottile la
tentazione di costruire una città dell’uomo perfetta, un progetto simile alla torre biblica,
cioè la pretesa di una completezza che unisce. A volte anche le comunità ecclesiali sono
tentate da questa logica. Spesso l’impressione che suscita una certa modalità ecclesiale di
presenza nella storia, è quella di una eccessiva preoccupazione di colmare, attraverso
strutture, impegni, opere, ecc..., quegli spazi del tempo e della storia che si percepiscono
come vuoti. Sembra che si abbia paura delle attese di cui è disseminata la storia; il non
poter intervenire è considerato fuga ed irresponsabilità. Si dimentica che l’attesa non è
spazio vuoto, ma relazione con il Veniente; essa diventa, per il credente, capacità di
andare oltre a quello che si fa, liberandosi dalla preoccupazione di riempire gli spazi che
la storia offre con le opere e impegnandosi a calare in essa il senso di una incompiutezza,
di un cammino verso quella pienezza donata nell’incontro con il Veniente. Penso che sia
urgente recuperare oggi una qualità escatologica della spiritualità: è lo Spirito, e non il
nostro agire, che sa colmare, attraverso il desiderio e la vigilanza, il tempo dell’uomo e
che sa aprire ogni vuoto della storia, ogni imperfezione e impotenza in spazio di attesa di
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Colui che ritornerà a dare pienezza a ogni nostra realtà. Una spiritualità escatologica ci
educa a guardare gli scarti e le contraddizioni della nostra storia come altrettante aperture
ad un dono che viene dall’alto. E può aiutarci a vivere, nello stesso tempo, con
responsabilità di fronte al mondo, ma senza quella angoscia di dover risolvere e
rispondere a tutti i problemi dell’umanità.
Uno dei misteri maggiormente sacri alla tradizione monastica è la Trasfigurazione del
Signore. Questo sublime momento in cui il Signore Gesù manifesta la sua gloria è un
momento di sintesi – la presenza di Mosè ed Elia – e di apertura verso il nuovo esodo. Un
esodo che è nuovo per la sua assoluta e definitiva provvisorietà, ben significata dal rifiuto
di Gesù di acconsentire alla proposta di Pietro di erigere tre tende (la tentazione dell’agire
dell’uomo!). Penso che la vita monastica in quanto sequela di Cristo ed esperienza
emblematica di spiritualità come pienezza di umanità nell’icona del volto trasfigurato di
Cristo, non è altro che memoria continua di una cammino sempre povero e nella cui
provvisorietà – non immune da momenti di scoraggiamento e di lotta interiore – il Risorto
si può fare compagno di strada per ‘aprire la mente’ alla intelligenza del ‘cuore’ (Lc 24).
Il cuore purificato dalle passioni è, in fondo, l’unico luogo vero di incontro e di
promettente comunione.
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Il vangelo della trasfigurazione: esegesi biblico-spirituale
ENZO BIANCHI, priore di Bose (2007)
Introduzione.
Il racconto della trasfigurazione nei sinottici
Il racconto della trasfigurazione di Gesù è situato in ciascuno dei tre vangeli sinottici in una
posizione centrale (cf. Mc 9,2-10; Mt 17,1-9; Lc 9,28-36), in un punto in cui si registra un
tornante decisivo tra il ministero di Gesù in Galilea e la sua salita a Gerusalemme. Per essere
ancora più precisi, tale racconto è collocato in una sequenza assolutamente identica nei sinottici:
confessione di Pietro (cf. Mc 8,27-30 e par.), primo annuncio della passione e delle condizioni
per seguire Gesù (cf. Mc 8,31-38 e par.), trasfigurazione, secondo annuncio della passione (cf.
Mc 9,30-32 e par.).
Nel quarto vangelo l’evento della trasfigurazione è assente, ma tutto il vangelo è rivelazione
della gloria di Gesù, dalla manifestazione della gloria avvenuta a Cana (cf. Gv 2,1-12) alla
glorificazione sulla croce (cf. Gv 12,23-28; 17,1; ecc.), sicché l’evangelista può attestare fin dal
prologo: «E noi abbiamo visto la sua gloria» (Gv 1,14). Non va neppure dimenticato che questo
evento è ricordato in modo dettagliato anche dagli scritti apostolici (cosa che avviene, oltre al
nostro caso, solo per l’ultima cena), precisamente nella Seconda lettera di Pietro, che invita a
discernere nella trasfigurazione un’anticipazione della parusia, della venuta nella gloria del
Signore Gesù Cristo (cf. 2Pt 1,16-19).
Nell’intenzione dei sinottici e di Pietro l’evento della trasfigurazione deve essere letto e
contemplato come un evento storico, cioè accaduto nella storia, nella vita di Gesù, davanti a
testimoni per i quali ha avuto un significato determinante e attraverso i quali è stato raccontato:
non si tratta dunque di un mito e neppure di un midrash cristiano! Certamente gli esegeti
trovano difficoltà a determinarne il genere letterario: visione apocalittica? teofania divina?
intronizzazione messianica? rilettura della trasfigurazione di Mosè (cf. Es 34,29-35)? Il
racconto in verità non si lascia restringere entro i confini di un genere letterario, ma resta
un’interpretazione di un evento realmente accaduto nella vita di Gesù, compreso ed espresso dai
singoli evangelisti in modo diverso. E la loro intenzione è quella di dare una testimonianza su
Gesù, che aiuti il lettore nel suo itinerario di fede pasquale: per loro la trasfigurazione è
rivelazione, è un alzare il velo su Gesù in modo che il discepolo conosca l’identità più autentica
del Signore.
Io vorrei ora semplicemente contemplare questo racconto evangelico, questo roveto ardente in
cui Dio rivela il suo volto; vorrei cercare, secondo l’insegnamento di Origene, di contemplare e
leggere le vesti di Cristo che sono le parole del vangelo, invocando lo Spirito santo perché
faccia risplendere queste vesti, le faccia diventare bianche come la luce (cf. Commento a Matteo
XII,38 [su Mt 17,2]).
1. La trasfigurazione, rivelazione del Regno
L’evento della trasfigurazione è un evento profetizzato da Gesù, il quale dopo il primo annuncio
della sua passione-morte-resurrezione dice ai discepoli: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui
presenti, che non gusteranno la morte prima di vedere il Regno di Dio venire con potenza» (Mc
9,1; cf. Mt 16,28; Lc 9,27). Dunque alcuni dei discepoli saranno destinatari di una visione prima
di morire, nella loro stessa vita, e vedranno il Regno di Dio veniente (Mc e Lc), vedranno il
Figlio dell’uomo veniente (Mt). Come il vecchio Simeone aveva ricevuto dallo Spirito santo la
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promessa «di non vedere la morte senza prima avere visto il Cristo del Signore» (Lc 2,26), così
alcuni ricevono una promessa da Gesù stesso: sarà loro manifestato il Regno di Dio, che Matteo
identifica con il Figlio dell’uomo, dunque con Gesù stesso. Gesù è il Regno di Dio in persona, è
l’autobasileía, come ha ben compreso Origene (cf. Commento a Matteo XIV,7,10.17 [su Mt
18,23]). Gesù, che ha annunciato la venuta del Regno di Dio, ora lo rivela; o meglio, Gesù è
rivelato dal Padre come Regno di Dio veniente con potenza, e dunque l’evento della
trasfigurazione appare come un’anticipazione.
Sei giorni (Mc e Mt) o otto giorni (Lc) dopo queste parole, «Gesù prende con sé Pietro,
Giacomo e Giovanni, e li porta su un alta montagna, in un luogo in disparte, loro soli» (Mc 9,2).
Egli opera una scelta, compie un’elezione, e dei dodici prende con sé solo tre, tra i primi
chiamati alla sequela (cf. Mc 1,16-20). Sono i tre discepoli più vicini a Gesù, già scelti come
testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Mc 5,37-43), quelli che saranno poi anche
i testimoni della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani, alla vigilia della passione (cf. Mc
14,32-42). Sono scelti non per particolari virtù o meriti ma, nell’imperscrutabile volontà di Dio,
perché possano rendere testimonianza, diventare testimoni di Gesù, anzi i testimoni per
eccellenza: Pietro sarà «testimone (mártys) delle sofferenze di Cristo e partecipe (koinonós)
della gloria che sarà manifestata» (1Pt 5,1); Giacomo e Giovanni berranno la coppa e subiranno
l’immersione, secondo la promessa di Gesù (cf. Mc 10,38-39). Saranno testimoni e dunque
martiri!
Sono questi che, «presi con sé» da Gesù, salgono con lui l’alta montagna, la montagna della
rivelazione di Dio che a partire dal II secolo (cf. Vangelo degli Ebrei, citato da Origene in
Omelie su Geremia XV,4,21) è identificata col monte Tabor, peraltro già menzionato in Sal
89,13. Sì, c’è in questa salita sul monte l’eco di tutti i racconti di teofania, di rivelazione di Dio
dell’Antico Testamento: la montagna del Sinai e dell’Oreb, che sono un’unica montagna (cf. Es
3,1) salita e discesa da Mosè (cf. Es 19-34) e da Elia (cf. 1Re 19,1-18); «la montagna della
dimora del Signore elevata al di sopra dei monti» (Is 2,2; Mi 4,1)…
Dunque questa salita, che Marco e Matteo sottolineano essere diretta verso «un luogo in
disparte» (cf. Mc 9,2; Mt 17,1) e Luca specifica avere come fine la preghiera (cf. Lc 9,28),
appare in vista di un evento importante, in cui i discepoli beneficeranno di una rivelazione fatta
da Dio, rivelazione che riguarda il loro maestro, confessato poco prima da Pietro come MessiaCristo (cf. Mc 8,29 e par.). Ed ecco che, mentre Gesù era in preghiera, «fu trasfigurato»
(passivo divino metemorphóthe: Mc 9,2; Mt 17,2), subì un mutamento di forma nei vestiti e nel
corpo. Luca, temendo che i lettori del vangelo comprendano questo evento come un mito, una
metamorfosi alla stregua dei riti pagani greci, preferisce usare un’espressione più neutra:
«l’aspetto del suo volto divenne altro» (héteros: Lc 9,29). Qui riscontriamo come l’evento sia in
realtà inesprimibile e come il linguaggio degli evangelisti sia inadeguato: Matteo parla di
«vestiti bianchi come la luce», Marco li descrive «splendenti, bianchissimi, quali non li
potrebbe rendere nessun lavandaio sulla terra», Luca li definisce «sfolgoranti». I tre racconti
tentano dunque di descrivere la luce di questi vestiti, certamente non dimenticando che la luce è
il mantello di cui si riveste Dio (cf. Sal 104,2); in profondità, però, la sorgente di questa luce è
Gesù stesso: ecco perché il corpo di Gesù fu trasfigurato (Mc e Mt), il suo volto brillò come il
sole (Mt) e l’aspetto del suo volto divenne altro (Lc).
Invece del corpo e del volto umano, quotidiano di Gesù come lo conoscevano i discepoli, il
mutamento fornisce la visione di un volto altro, luminoso, un volto trasfigurato da un’azione
che poteva solo essere divina. Se Paolo nell’inno della Lettera ai Filippesi confessava:
Colui che era nella forma di Dio (en morphê theoû)
non ritenne un possesso geloso
la sua uguaglianza con Dio.
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Ma egli svuotò se stesso,
prendendo forma di schiavo (morphè doúlou),
diventando simile agli uomini,
riconosciuto nella forma come uomo (Fil 2,6-7),
ora nella trasfigurazione colui che aveva la forma di schiavo riprende la sua forma di Dio e
risplende di luce divina. Già Origene aveva osservato come la trasfigurazione richiami il testo
appena citato. Egli scrive:
Tu tenti di sapere se i discepoli, quando Gesù si trasfigurò davanti a quelli che aveva fatto salire
sull’alta montagna, videro Gesù sotto la forma di Dio, quella che era la sua prima, avendo egli
preso quaggiù la forma di schiavo? Ebbene, ascolta queste parole, se tu sei capace, in un senso
spirituale, e nota che non è detto solo «fu trasfigurato», bensì «fu trasfigurato davanti a loro»,
come dicono Matteo e Marco. Tu dunque concluderai che è possibile che Gesù davanti ad
alcuni sia trasfigurato e davanti ad altri non lo sia (Commento a Matteo XII,37,1-21 [su Mt
17,2]).
Qualcosa della gloria, della luce di Dio risplende in Gesù, per quanto era possibile vedere ai
discepoli: Gesù appare nella forma di uno dei «giusti splendenti come il sole nel Regno del
Padre loro» (cf. Mt 13,43), come lui stesso aveva rivelato, appare come uno dei santi sapienti
«splendenti nel firmamento come stelle per sempre» della visione di Daniele (Dn 12,3). Ciò che
accade è dunque una vera Cristofania, anzi una teofania come quelle raccontate nell’Antico
Testamento, di cui beneficiarono Mosè (cf. Es 3,1-15; 34,5-28), Elia (cf. 1Re 19,1-18) e gli altri
profeti, soprattutto Isaia (cf. Is 6) ed Ezechiele (Ez 1).
2. Mosè ed Elia, la Legge e i profeti
Quando si è operata la trasfigurazione di Gesù, in qualche modo «si sono aperti cieli» (cf. Mc
1,10 e par.) e sono apparsi Mosè ed Elia che si intrattenevano con Gesù (cf. Mc 9,4 e par.).
Mosè il legislatore, dunque la Legge, è nominato più volte nei vangeli sinottici proprio in
relazione alla Legge (cf. Mc 1,44; 7,10; ecc.), ma solo qui appare direttamente. Sull’alta
montagna del Sinai-Oreb Mosè aveva ricevuto in dono diverse teofanie, e proprio per la sua
intimità con Dio aveva ricevuto in dono anche la luminosità del volto, che i figli di Israele non
potevano sostenere (cf. Es 34,29-35). Egli era pure il profeta atteso alla fine dei giorni, quando
– secondo il Poema delle quattro notti nel Targum a Es 12,42 – sarebbe salito dal deserto,
mentre il Re Messia sarebbe sceso dall’alto. Mosè era dunque atteso per i tempi messianici,
quando sarebbe sorto il profeta simile a lui, cui doveva andare l’ascolto del popolo santo di
Israele: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a
me: ascoltatelo!» (Dt 18,15). Ma Mosè era anche colui che aveva pregato Dio: «Fammi vedere
la tua gloria!» (Es 33,18), sentendosi da lui rispondere: «Non è possibile vedere la mia gloria e
restare in vita … Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,20.23).
Nell’evento della trasfigurazione Mosè è presente, vivente nel mondo di Dio, e vede finalmente
la gloria di Dio, Gesù Cristo, che in quell’ora appare come «la gloria del Dio invisibile» (cf. Eb
1,3), «il Signore della gloria» (1Cor 2,8), colui sul volto del quale «brilla lo splendore della
gloria di Dio» (cf. 2Cor 4,6).
Accanto a Mosè appare Elia, il prototipo dei profeti, anche lui salito sulla montagna di Dio per
una rivelazione nella «voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12), anche lui atteso alla fine dei
tempi «prima che venga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23) e che «si levi per
quelli che temono il Nome di Dio il “Sole di giustizia” nei cui raggi sta la salvezza» (cf. Ml
3,20; cf. anche Sir 48,10-11). Elia rappresenta e sintetizza in sé tutta la profezia dell’Antico
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Testamento, quella che si era chiusa con Giovanni il Battista, anch’egli visto e identificato come
«nuovo Elia» (cf. Mt 11,14; 17,10), precursore di Gesù nella vita, nella predicazione del Regno
veniente, nella testimonianza e nella morte violenta.
Mosè ed Elia, la Legge e i profeti che sintetizzano tutte le Scritture di Israele, il Primo
Testamento, sono accanto a Gesù come testimoni e interpreti. Anzi, in quel loro «intrattenersi»,
in quel loro «parlare insieme» (sunlaleîn: cf. Mc 9,4 e par.) a Gesù mostrano un’autentica
interpretazione spirituale in atto: Gesù è l’ermeneuta della Legge e dei profeti che sempre,
«cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega in tutte le Scritture ciò che si riferisce a lui»
(cf. Lc 24,27); e Mosè ed Elia, definiti da Luca «due uomini», sono coloro che, presenti accanto
alla tomba vuota, interpreteranno le parole dette da Gesù nella sua vita e lo proclameranno
Crocifisso-Risorto (cf. Lc 24,4-7). Proprio in quest’ottica, nel racconto della trasfigurazione
Luca specifica che Mosè ed Elia «parlavano con Gesù del suo esodo (élegon tèn éxodon autoû),
che stava per compiere a Gerusalemme» (Lc 9,31). Dunque la Legge e i profeti testificano la
necessitas passionis di Gesù, lo indicano come il Servo del Signore che deve passare attraverso
la kénosis e l’innalzamento, e così mostrano la continuità della fede tra Antica e Nuova
Alleanza.
Le attese messianiche di Israele sono veramente compiute, e Gesù il Messia appare come
l’esegesi vivente e il compimento autentico delle Scritture. Con questa convinzione Origene può
commentare:
Se si comprende e si contempla il Figlio di Dio trasfigurato al punto che il suo viso sia sole e i
suoi vestiti bianchi come la luce, si vedranno, contemplando Gesù in questa forma, Mosè la
Legge ed Elia, che non è un profeta solo ma li rappresenta tutti, mentre conversano con Gesù …
E se qualcuno ha visto la gloria di Mosè, poiché ha compreso che la Legge spirituale è tutt’una
con la parola di Gesù, e ha compreso che nei profeti «la sapienza è nascosta nel mistero» (1Cor
2,7), allora egli ha visto Mosè ed Elia nella gloria, proprio vedendoli con Gesù (Commento a
Matteo XII,38,29-37.43-49 [su Mt 17,2-3]).
Come dimenticare il mosaico di S. Apollinare in Classe a Ravenna, dove da una parte e
dall’altra della croce gloriosa stanno Mosè ed Elia, mentre sotto la croce stanno tre pecore, che
raffigurano i tre testimoni della trasfigurazione? In questo mosaico Gesù è rappresentato dalla
croce, il soggetto della conversazione tra Mosè ed Elia: si tratta davvero di un’interpretazione
figurativa straordinaria e altamente teologica!
E proprio perché questa visione diventi pienamente realtà, «Pietro, prendendo la parola, dice a
Gesù: “Maestro, è buona cosa per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e
una per Elia”» (Mc 9,5 e par.). Egli crede forse che sia giunta la fine dei tempi? Pensa alle tende
della festa di Sukkot, festa carica di senso escatologico? Pensa di erigere per Gesù, Mosè ed Elia
la tenda dell’incontro fatta da Mosè per incontrare Dio (cf. Es 33,7-11)? In ogni caso Pietro,
Giacomo e Giovanni «non sanno rispondere» a quell’evento, come nell’ora del Getsemani – si
noti che ricorre la stessa espressione in Mc 8,6 (ou édei tí apokrithê) e 14,40 (ouk édeisan tí
apokrithôsin)! –, e sono presi da spavento per la rivelazione di cui sono destinatari, lo stesso
spavento provato dalle donne nell’alba di Pasqua (cf. Mc 16,5.8).
3. La nube dello Spirito e la voce del Padre
Mentre Pietro sta parlando, ecco arrivare «una nube che coprì tutti nella sua ombra, e dalla nube
venne una voce: «Questi è il mio Figlio, l’amato, ascoltatelo!» (Mc 9,7). Sullo sfondo del
racconto vi è sempre il racconto della teofania rivolta sul Sinai a Mosè: sull’alta montagna c’era
una nube che la copriva (cf. Es 19,16; 20,21; 24,15; ecc.), una nube simbolo della Presenza di
Dio, segno del Dio che è sceso, si è avvicinato agli uomini, e tuttavia resta nascosto, Santo,
separato dal mondo. Questa nube che sul monte indicava la Dimora di Dio (cf. il verbo shakan,
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da cui Shekinah) passò sul tabernacolo costruito da Mosè nel deserto (cf. Es 40,34-35) e,
nell’ora della dedicazione del Tempio, riempì il Santo (cf. 1Re 8,10-12). Questa nube è dunque
la Presenza di Dio, letta dalla tradizione rabbinica come Presenza attraverso lo Spirito santo, è
la gloria stessa di Dio. L’introito della messa latina giustamente dice: «Lo Spirito santo apparve
nella nube luminosa e la voce del Padre risuonò»…
Nell’evento della trasfigurazione la Shekinah viene a testimoniare che Dio è presente e
adombra, proietta la sua ombra sui personaggi di quell’evento. Siamo di fronte a un ossimoro: è
«una nube luminosa», specifica Matteo, eppure fa ombra (cf. Mt 17,5); la precisazione di
Matteo sarà cara alla tradizione cristiana proprio in quanto definizione della conoscenza e della
visione di Dio… Questa è dunque la risposta alle parole di Pietro: non tre tende fatte da mano
d’uomo, ma una nube, la Shekinah di Dio. Ecco la realtà ultima e definitiva: non più una tenda,
non più un Tempio, non più un Santo dei santi, ma la Shekinah, la Dimora-Presenza di Dio è in
Gesù Cristo, lui che è Dimora, Tempio e Presenza! Dirà Gesù secondo il quarto vangelo alla
samaritana: «Donna, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
Spirito (cioè nello Spirito santo) e nella Verità (che è Gesù Cristo)» (Gv 4,23)…
E dalla nube della Presenza di Dio ecco venire la voce del Padre, la parola di Dio stesso. Gesù
aveva già ascoltato questa parola dal Padre nel battesimo, nell’immersione ricevuta da Giovanni
il Battista; allora i cieli si erano aperti e la voce aveva dichiarato a Gesù solo: «Tu sei il Figlio
mio, l’amato (“l’eletto”, secondo Lc 3,22), in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11; Mt 3,17). Di
fatto la voce del Padre allora aveva ripetuto le parole dette sul Servo del Signore: «Ecco il mio
Servo che io sostengo, in cui si compiace la mia anima» (Is 42,1), attestando che il Figlio di Dio
è il Servo del Signore. Ora questo viene annunciato ai tre discepoli, tra i quali vi è Pietro che
poco prima si era rivolto a Gesù chiamandolo «Rabbi, Maestro» (Mc 9,5). Colui che i discepoli
avevano seguito, coinvolti nella sua vita, colui che avevano ascoltato e visto agire come
Maestro, Profeta, Messia, è rivelato dal Padre come «Figlio amato» e «Servo del Signore». Sì,
attraverso la rivelazione del Padre Gesù appare insieme come il Messia intronizzato del Salmo 2
(«Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato»: Sal 2,7) e come il Servo che Dio stesso presenta a
Israele tramite il profeta Isaia (cf. Is 42,1-9).
Vi è qui l’incrociarsi delle diverse attese messianiche di Israele: quella di un Messia regale,
quella di un Messia profetico, quella di un Messia escatologico. Per questo ormai può risuonare
l’invito: «Ascoltatelo!», che è l’eco della parola di Dio riguardo al profeta escatologico (cf. Dt
18,15) ed è anche l’eco dello Shema‘: «Ascolta, Israele…» (Dt 6,4). Ormai l’ascolto di Dio
stesso è ascolto di Gesù, del Figlio, della Parola vivente di Dio! Mosè ed Elia, la Legge e i
profeti, cedono il posto a Gesù dopo avergli reso testimonianza, perché ormai è lui l’esegesi del
Padre (exeghésato: Gv 1,18); è lui, Gesù, che può dire in verità chi è Dio ed evangelizzarlo,
renderlo cioè buona notizia per tutti gli uomini; il comando di Dio Padre: «Ascoltatelo!»
significa che Gesù è il Lógos, la Parola definitiva…
Ma la visione svanisce, e Gesù è di nuovo contemplato «solo» nella quotidianità umile della
natura umana (cf. Mc 9,8 e par.). Poi, «mentre scendono dall’alta montagna, Gesù ordina ai tre
discepoli di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio
dell’uomo fosse risuscitato dai morti» (Mc 9,9). La rivelazione è stata straordinaria, ma deve
restare sotto silenzio, perché non sia svelato il segreto messianico prima dell’ora della
resurrezione. Ma i discepoli, sempre preda del loro intontimento, della loro mancanza di fede, si
chiedono cosa possa significare rialzarsi dai morti» (cf. Mc 9,10)…
Conclusione. La portata cristologica dell’evento della trasfigurazione
Dopo questa lettura puntuale dei racconti sinottici della trasfigurazione, vorrei concludere
evidenziandone semplicemente il messaggio. Innanzitutto contemplare la trasfigurazione
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significa comprendere con una maggior profondità l’evento del battesimo di Gesù. La parola di
Dio rivela l’identità di Gesù: egli è il Figlio di Dio che deve fare esodo, cioè patire-morirerisorgere. Nello stesso tempo l’evento della trasfigurazione annuncia ciò che accadrà a
Gerusalemme, quando nell’ora della croce il centurione confesserà: «Veramente quest’uomo è
il Figlio di Dio!» (Mc 15,39; Mt 27,54). Sì, l’evento della trasfigurazione è memoriale del
battesimo e oracolo della croce, e la posizione centrale assegnatogli dagli evangelisti vuole
proprio indicare questa sua qualità di memoriale e di profezia, di compimento di ciò che è stato
detto nel battesimo e di anticipazione di ciò che avverrà nella resurrezione e nella parusia.
Ma la trasfigurazione è anche mistero di luce, che illumina tutto il corpo (Israele e la Chiesa;
Mosè, Elia e i discepoli) insieme al Capo. Infatti il Primo Patto testimonia e Gesù interpreta il
Primo Patto; i discepoli, a loro volta, accolgono Gesù, accolgono la testimonianza delle
Scritture e accolgono il comando del Padre in vista dell’ascolto del Figlio. Non c’è immagine
biblica più efficace per narrare l’unità della fede nei due Testamenti, la centralità di Gesù il
Messia, la pienezza della rivelazione in lui, l’essere un solo corpo da parte dei credenti che
nell’Antico Testamento attendevano il Messia e nel Nuovo lo confessano e lo annunciano.
E infine la trasfigurazione è mistero di trasformazione: il nostro corpo e questa creazione sono
chiamati alla trasfigurazione, a diventare «altro»; il nostro corpo di miseria diventerà un corpo
di gloria (cf. Fil 3,21), e «la creazione che geme e soffre nelle doglie del parto» (cf. Rm 8,22)
conoscerà il mutamento in «cielo nuovo e terra nuova» (Ap 21,1). Ciò che è avvenuto sul monte
Tabor in Gesù Cristo avverrà per tutti i credenti e per il cosmo intero alla fine della storia…
Nell’attesa di quel giorno a noi non resta che contemplare, per quanto ne siamo capaci, «il volto
di Cristo su cui risplende la gloria di Dio» (cf. 2Cor 4,6): così, «riflettendo come in uno
specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in
gloria, attraverso l’azione dello Spirito santo» (cf. 2Cor 3,18). Così nella tua luce vediamo la
luce, Signore (cf. Sal 36,10)!
Enzo Bianchi
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Dire Dio con la bellezza
di mons. Ignazio Sanna
"E Dio vide che era molto buono". Questo versetto della Genesi, ripetuto più volte, è la firma di
Dio sul creato. Una firma che è anche una garanzia sulla qualità dell'opera compiuta. L'opera di
Dio è molto buona. Ma, secondo il comune sentire, ciò che è buono è anche bello: il vero, il
bello, il buono si tengono uniti e si richiamano reciprocamente. La bellezza non è altro se non
l'espressione visibile del bene. La creazione, dunque, in quanto opera buona di Dio, è anche
opera bella. Allora, "dire Dio con la bellezza" significa dire Dio con l'opera stessa della
creazione. Anzi, vuol dire lasciare che sia la
creazione a dire Dio. La creazione, se è autentica, se è se stessa, è bella e dice sempre Dio.
Questo lo
attestano non solo i poeti, gli artisti, i letterati, che, in qualche modo, danno voce e immagine
alla
bellezza della creazione nel proporre le diverse viae pulchritudinis, ma anche le persone
semplici,
quelle che sanno godere dei beni del creato, che dispongono del senso innato del bello, che sono
capaci ancora di stupirsi e di meravigliarsi. Oggi, si producono tanti falsi, che ci rubano lo
stupore, tante imitazioni, che ci tolgono la meraviglia, tanti replicanti, che rendono artificiale la
bellezza della nascita e banale la sacralità della morte. La conversione del cuore, il
cambiamento di una vita, sono i miracoli nascosti che manifestano la magnanimità di Dio e la
bellezza del suo perdono. Quando un peccatore si converte, nel dinamismo nascosto della sua
conversione si riproduce la potenza e la bellezza della creazione.
Il vertice della creazione è l'uomo. Tra tutte le creature uscite dal cuore di Dio, infatti, l'uomo è
l'unica creatura che Dio ha voluto per se stessa. L'uomo è, allo stesso tempo, una potenza
d'infinito e una potenza di comunione. Entrambe queste due potenze caratterizzanti la persona
umana trovano la loro massima realizzazione in Dio, essere supremo e amore infinito, per cui si
può dire che l'uomo è persona solo e nella misura in cui è immagine dell'essere supremo e
dell'amore infinito di Dio.
Ogni uomo e tutti gli uomini sono qualcosa di unico e irripetibile; ogni uomo è un valore a sé e
per sé. Il fatto che Dio abbia creato l'uomo per se stesso, come fine e non come mezzo, fa di
costui un valore assoluto, che non può essere posto in funzione di nessuna realtà, sia essa la
produzione, la classe, lo stato, la religione, la società. L'uomo, come persona, è un valore
assoluto, perché Dio lo considera in modo assoluto.
Cristo, uomo fra gli uomini, con la sua vita e la sua opera di redenzione, ha confermato il valore
assoluto della persona umana, perché è morto per ogni uomo, per ogni fratello (I Cor 8,11; I Tm
2, 5-6). La liturgia battesimale della Chiesa, adottando il rito dell'unzione dei re e ungendo il
battezzando con il crisma, esprime la convinzione che davanti a Dio ogni uomo vale quanto un
re. Il fatto che la somiglianza con Dio, poi, sia riconosciuta indipendentemente dalla sua
posizione sociale o religiosa e che non venga collegata con alcun altra condizione è una forte
testimonianza del valore di ogni singola vita umana. Un passo del Talmud attribuisce all'uomo il
valore di tutto il mondo, quasi a dire che la vita umana, contrariamente al parere lapidario di
Caifa (Gv 18,14: "E' meglio che un uomo solo muoia per il popolo"), non è in linea di principio
quantificabile e non è soggetta ad alcun calcolo utilitaristico intramondano: "Adamo fu creato
come un individuo incomparabile per insegnarci che chiunque annienta una persona deve essere
trattato come se avesse annientato tutto un mondo, e per insegnarci che chiunque mantiene in
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vita una persona va trattato come se avesse mantenuto in vita tutto il mondo". Secondo una
tradizione rabbinica, Dio avrebbe proibito di fare delle sue immagini, perché la sua immagine
egli se l'è fatta da sé ed è appunto l'uomo!
L'uomo, quindi, in quanto creatura di Dio, è capace di dire Dio con la sua vita. Egli soprattutto è
la
gloria di Dio. Rispettare l'uomo vuol dire rispettare Dio, e rispettare Dio vuol dire rispettare
l'uomo.
Così, come rispettare la bellezza della natura vuol dire rispettare la bellezza di Dio. Il grado
massimo
della bellezza del creato è chiaramente l'uomo, perché Dio stesso è diventato uomo. Per cui, la
legge dell'incarnazione è anche la legge della bellezza, la legge del rispetto dell'umanità di Dio.
Se la preghiera dei salmi ci ricorda che la vita dell'uomo è una lode a Dio, la riflessione
teologica ci insegna che vivere è lodare Dio. "Leben ist loben", ha scritto Carlo Barth. La vita e
la morte, si oppongono tra loro come lodare e non lodare. D'altra parte, l'esistenza del cristiano,
come l'esistenza del popolo liberato, è la celebrazione di una festa. Il popolo di Israele è liberato
dalla schiavitù egiziana, per poter celebrare una festa nel deserto. All'inizio del lungo
peregrinare verso la terra promessa c'è una celebrazione di gioia e di gratitudine. La vita liberata
del cristiano non può non essere la celebrazione d'una festa di gioia e di gratitudine.
Sarà proprio vero, come è stato scritto e viene sempre ripetuto, che la bellezza salverà il
mondo? Di
sicuro, la bellezza divina ha salvato una delle più belle intelligenze della storia cristiana:
S.Agostino. Il santo del capolavoro delle Confessioni, dopo una lunga e inquieta ricerca della
verità, ha trovato la pace della mente e del cuore in Dio, "bellezza così nuova e così antica".
L'esperienza agostiniana, ora, ci assicura che la bellezza di Dio non conosce stagioni e non fa
preferenza di persone. Essa può salvare chi ama dall'infanzia e chi ama dalla maturità, chi si
perde per amare e chi si rovina per odiare. La bellezza di Dio è anche pazienza, ed è soprattutto
misericordia: pazienza nell'attesa del ritorno di chi si perde, misericordia nel perdono di chi si
pente.
Una mamma mi ha raccontato che un giorno il suo bimbo di poco più due anni, ancora
stropicciandosi gli occhi perché si era appena svegliato, guarda il fratello maggiore, muto,
strabico, iposviluppato a causa di una anossia da parto, e lo saluta chiamandolo: "bellezza!".
L'aveva sentito chiamare in quel modo dalla nonna, e lo ha ripetuto con tutta la carica della sua
innocenza. E' proprio vero che ex ore infantium et lactentium, dalla bocca dei bambini e dei
lattanti, escono la lode più pura per Dio, e le parole più vere e consolanti per l'uomo. Anche
dietro l'aspetto di una esistenza compromessa, l'occhio del cuore può sempre scorgere la firma
di Dio.
Mi auguro che questa splendida serata musicale ci aiuti a riscoprire la bellezza di Dio in noi
stessi, nel nostro prossimo, nella natura, in ogni frammento di umanità, capace di amare, anche
senza parole, e capace di sperare, anche senza futuro. Mi auguro che possiamo scoprire la
bellezza del silenzio e della parola, della solitudine e della compagnia, del ricordo e della
speranza. Gesù ha detto ai suoi discepoli nel discorso della montagna: "la vostra luce risplenda
davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è
nei cieli" (Mt 5, 16). Penso che ognuno di noi debba sentire come rivolte a sé quelle parole di
Gesù che invitano a far risplendere la testimonianza della fede e della carità. La bellezza della
nostra fede è la santità della vita. Può darsi che a tante persone che,come nella vita di Mosé, ci
chiedono di vedere il volto di Dio, noi rispondiamo mostrando le sue spalle, perché non
presentiamo la bellezza del suo amore e della sua misericordia, ma il peso delle nostre
prescrizioni e il formalismo dei nostri riti. Dire Dio non è lo stesso che parlare di Dio. Vuol dire
narrareun incontro con Lui, raccontare un'esperienza. "Abbiamo visto il Signore", raccontavano
gioiosi idiscepoli, e dovremmo ripetere noi. Ha scritto Origene: "che mi giova se il Verbo è nato
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nel mondo, manon dentro di me?". Non si può dire Dio, dunque, se prima non lo si è ascoltato,
incontrato, anzi, non si può dirlo se non lo si è fatto nascere nel più profondo della coscienza. Il
XX secolo ha aggiunto ai tanti modi di parlare di Dio quello di "dire Dio al femminile", che ha
portato a leggere l'essere di Dio come amore, ed ha aggiunto anche quello di "dire Dio dopo
Auschwitz", che ha costituito una profonda fonte di forza per la guarigione dalla sofferenza.
Se anche una sola persona fosse illuminata dallo splendore della nostra testimonianza e della
nostra
santità, non solo avremmo detto Dio con la bellezza ma avremmo anche reso bella la nostra vita
e
quella degli altri. E soprattutto avremmo dimostrato che è più bello dare speranza che ricevere
conforto.
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Lo specchio Felice
L’uomo giardiniere del creato 1. La domanda di futuro
di +IGNAZIO SANNA
Come è noto, un ritornello accompagna le prime pagine della Bibbia: "E Dio vide che era cosa buona";
"E Dio vide che era cosa molto buona". Questo ritornello biblico può essere paragonato alla firma di Dio
sulle creature, descritte come opera delle sue mani e della sua parola. Negli ultimi anni quel ritornello
della Bibbia è stato sostituito da un altro, ripetuto molto frequentemente a diversi livelli: "Il mondo è in
pericolo"; "Il futuro è una minaccia". L'ottimismo divino, quindi, è stato sostituito dal pessimismo
umano. Tutti possiamo constatare che molte certezze sono finite, che l'angoscia per il futuro è cresciuta,
che molte visioni del mondo sono crollate, che la paura per qualcosa di nuovo, di incontrollabile, di
terribile e di definitivo si è ingrandita. In una parola, costatiamo che non c'è più sicurezza per il futuro.
La storia umana non è più o non è prevalentemente una storia di progresso e di sviluppo, ma è
soprattutto una storia di sofferenza.
L'angelo della storia vede un cumulo di rovine là dove l'immaginazione utopica vedeva sviluppo e
progresso. Nel corso del XX secolo, avvenimenti d'una crudeltà inaudita hanno messo in crisi la
convinzione che sia possibile un vero progresso morale. La tecnoscienza ha senz'altro compiuto enormi
progressi nella battaglia contro le malattie e nella predisposizione di condizioni di vita più umana, ma la
minaccia di guerre o di incidenti nucleari o chimici mortifica la speranza di trovare la salvezza nella
potenza della tecnologia. Non per nulla il filosofo M. Heidegger sosteneva che la tecnoscienza nasconda
più che riveli il Vero e l'Essere, e, che, allo stato attuale, ci possa salvare solo un Dio.
Nel passato si riteneva che un ambiente fisico fondamentalmente sano potesse assorbire e neutralizzare
gli eventuali danni arrecatigli. Oggi, l'ambiente non riesce più a far fronte alla marea
montante dei disastri, provocati dalla crescita demografica e dallo sviluppo industriale selvaggio. Il
territorio è antropizzato e non viene più usato con sapienza ambientale, ma sfruttato selvaggiamente. La
massiccia urbanizzazione dei paesi altamente industrializati ha artificializzato l'ambiente ed
irregimentato le forze della natura. Per la prima volta si parla di sicurezza e non solo di sviluppo, perché
l'uomo può alterare l'equilibrio dell'universo, che ha permesso la comparsa della vita sulla terra. Viene
introdotto il nuovo concetto di: sicurezza ambientale. Il fatto che si consumi in media il 20% delle
risorse in più rispetto alla capacità di rigenerazione della terra ha fatto sì che negli ultimi trent'anni siano
diminuite di più del 40% le specie terrestri, di acqua dolce e marina, proprio a causa della domanda di
cibo, acqua ed energia della popolazione mondiale. I paesi ricchi stanno saccheggiando la terra, perché
consumano più risorse di quelle che il pianeta può produrre e moltiplicano sempre di più il loro "debito
ecologico".
1.1. Tra i numerosi fattori che mettono a rischio il futuro dell'uomo uno è certamente il problema della
sopravvivenza della specie. E' vero che oggi è diminuita moltissimo la mortalità infantile, per cui se ieri
erano necessari dieci bambini vivi, per garantire un tasso sufficiente di riproduttori e continuatori della
specie, oggi, per lo stesso scopo, basta la metà, perché tutti i bambini nati sono in grado di arrivare all'età
della capacità riproduttiva. Ma è anche vero che la fecondità delle coppie tende a diminuire
vertiginosamente. La sopravvivenza della specie umana è praticamente minacciata anche dalla sterilità.
La concentrazione degli spermatozoi nello sperma dei giovani adulti dei paesi occidentali continua a
diminuire. Essa era di 89 milioni per millimetro nel 1973, ed è scesa oggi a 61 milioni, con un calo,
quindi, del 2,1 per cento l'anno. Di questo passo, tra quarant'anni, non si dovrebbe più trovare un gamete
maschile in grado di fecondare un ovocita.
Proprio sulla scomparsa degli spermatozoi, l'ecologista Theo Colburn ha scritto un best-seller, dal titolo
Our stolen Future, Il nostro futuro rubato. Secondo questo studioso, la chimica, con la messa in giro di
una enorme quantità di ormoni femminizzanti, mette a rischio la stessa esistenza futura dell'umanità.
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1.2. Un secondo pericolo per il futuro dell'uomo è costituito dall'artificializzazione dell'agricoltura. Il
cibo di cui noi ci nutriamo è sempre più artificiale e sempre meno naturale e genuino. I pomodori non
marciscono, le fragole ce le abbiamo tutto l'anno, le bistecche sono agli ormoni, gli animali sono
potenziati per fare più carne e più latte. Si fa un'agricoltura contro natura. Di per sè, il morbo di
Creutzfeld-Jacob, quello cha fa impazzire le mucche, e, a quanto pare, non solo loro, è sempre esistito,
ma ora l'introduzione di un modo assolutamente innaturale di allevare il bestiame facilita la trasmissione
della malattia dagli animali all'uomo.
L'uomo si è introdotto anche nel clima. E l'incidenza delle malattie trasmesse da mosche e zanzare, come
la malaria o le encefaliti virali, dipende molto dal cambiamento climatico. Un rialzo di temperatura come
quello previsto dai climatologi, 2 gradi centigradi nel corso del secolo XXI, farà dell'Europa una regione
malsana. Altrove il grande caldo provocherà carestia, e sappiamo che la malnutrizione può trasformare
virus inoffensivi in dei killer.
1.3. Un terzo elemento di rischio, che non viene preso in molta considerazione ma che è estremamente
pericoloso, è l'offensiva dei microbi. Si pensava che gli antibiotici, i vaccini, l'igiene ci avessero liberato
da virus, batteri, funghi e infezioni varie. Eppure, oggi si assiste ad un'offensiva dei microbi. Prima
l'Aids, poi il virus Ebola, ora i prioni della "mucca pazza" preoccupano moltissimo i funzionari
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e costringono la gente a cambiare costumi di vita ed abitudini
alimentari. Tornano la malaria e la tubercolosi, che invece sembravano debellate e sotto controllo.
Riprendono le malattie infettive come il colera, la difterite, la febbre gialla.
Eliminando certe malattie, si è creato lo spazio ad altre. Se il virus dell'Aids fosse comparso nel secolo
scorso in una città come Padova o la stessa Roma, avrebbe provocato qualche decina, forse un centinaio
di morti tra i tubercolotici, allora numerosi, ma poi si sarebbe spenta. Negli anni novanta, invece, in città
come S. Francisco, l'Hiv ha trovato tutt'altro terreno. L'insieme dei fattori d'una forte concentrazione di
omosessuali, di molta promiscuità, di molta mobilità hanno subito trasformato il contagio in epidemia.
Se poi si pensa che nel 1980 c'erano soltanto 10 megalopoli con popolazione superiore a dieci milioni di
abitanti, e che nel 2000, invece, le città con più di dieci milioni di abitanti erano 24, e tutte situate per lo
più nei paesi del terzo mondo, si può facilmente capire quale terreno ideale di coltura si prepari per ogni
sorta di malattie.
2. Le accuse al cristianesimo
Dagli anni sessanta in poi, da quando, cioè, si è cominciato a percepire la gravità della crisi ecologica, la
responsabilità di tale crisi e la conseguente messa in pericolo del futuro dell'umanità è stata attribuita al
cristianesimo. Il primo a chiamare in causa la fede cristiana nella creazione è stato lo storico americano
Lynn White negli anni settanta. Secondo costui, il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo il rifiuto del
tempo ciclico e la sua sostituzione con una concezione lineare della storia, e, di conseguenza, la fiducia
in un progresso crescente ed illimitato. La concezione biblica, poi, dell'uomo come immagine di Dio e
signore della creazione, avrebbe reso l'uomo libero di usare ed abusare del mondo, proprio in nome di
Dio. Nessuna religione è così antropocentrica come la religione cristiana, specialmente nella sua
versione occidentale, e questo fatto avrebbe portato a giustificare l'abuso della natura e la sua riduzione
ad oggetto di sfruttamento ad esclusivo vantaggio dell'uomo. In questo contesto sarebbe nata la scienza
moderna, che altro non è che una
estrapolazione della teologia cristiana della natura, e che rende effettiva la sua incondizionata resa della
terra alla volontà dell'uomo.
L'arroganza cristiana scatenerebbe, in ultima istanza, la tragedia ecologica, favorendo un dualismo
radicale fra un essere che non si considera più parte integrante della natura e la natura stessa, la cui
oscura vendetta non ha tardato a verificarsi. La scienza e la tecnica contemporanee sono così pienamente
impregnate di quella arroganza cristiana, che non si può contare su di esse per mitigare la crisi. Dovrà
essere la stessa fede cristiana, convertita al modello del cristianesimo orientale, assai più quietista e
rispettoso verso la natura di quanto non sia quello occidentale, ad iniziare la riconversione della
mentalità.
La tesi dello White non è rimasta isolata. Ben presto, altri autori negli Usa e in Germania hanno
riproposto la stessa imputazione. E' strano il fatto, però, che nessuno degli autori che hanno posto in
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discussione, nell'ottica dell'ecologia, la Bibbia e il cristianesimo, abbia pensato anche alla responsabilità
di altre istanze ideologiche e filosofiche, come per esempio il marxismo e l'esistenzialismo. Nella
Weltanschauung marxista, per esempio, è dato per buono l'ottimismo progressista della tecnica
contemporanea. Rispetto alla natura, osserva il teologo evangelico J. Moltmann, anche il marxismo, che
pure critica "lo sfruttamento capitalistico dell'uomo da parte dell'uomo", ha mantenuto il linguaggio
dello sfruttamento. Le distruzioni ambientali negli stati industrializzati del socialismo non sono inferiori
a quelle che si riscontrano negli stati industrializzati a regime capitalistico. Chiaramente, la crisi
ecologica è indifferente ai sistemi ideologici. Poco importa che la natura venga distrutta da
un'espansione di tipo capitalistico o da un aumento della produzione secondo criteri socialisti. Per la
natura, la civiltà tecnico-scientifica rappresenta indubbiamente il mostro più orribile che sia apparso
sulla terra.
3. La responsabilità per il futuro
Le accuse al cristianesimo sono chiaramente infondate, anche se sono diventate un luogo
comune.L'interpretazione dei testi biblici sulla quale esse sono state formulate non regge più. Infatti,
quello
che di solito è reso con "soggiogare", osserva A. Bonora, è il verbo ebraico k_b_š, con cui si indica la
presa di possesso di un territorio. Con la benedizione divina, l'umanità riceve la capacità di generare e di
moltiplicarsi fino a riempire la terra: i singoli popoli, dunque, prenderanno possesso ciascuno del proprio
territorio. Il secondo verbo riguarda il rapporto dell'uomo con il mondo animale. In ebraico r_dâ, reso di
solito con "dominare", significa piuttosto "pascolare, condurre, reggere". Dietro il verbo sta l'immagine
dell'uomo come "pastore" di tutti gli animali, non solo di quelli domestici. All'uomo, dunque, sono
affidati il territorio e gli animali. Ma tale affidamento avviene mediante una benedizione divina ed è
fatto all'uomo in quanto è immagine di Dio. Ciò vuol dire che il rapporto dell'uomo con il territorio e gli
animali dovrà attingere a Dio i criteri del suo dispiegarsi concreto Più che fermarmi sulla confutazione
delle accuse rivolte al cristianesimo, comunque, ritengo molto opportuno indicare quali dovrebbero
essere, a mio parere, le condizioni perché venga garantito il futuro di speranza e di salvezza per l'uomo e
per il mondo. La prima e più immediata indicazione è che bisogna cambiare il modo di concepire il
rapporto di Dio con il mondo. In modo particolare,
bisogna recuperare il concetto della paternità di Dio, per esprimere la fede in Dio creatore dell'universo.
Dio è creatore del mondo, ma Dio è soprattutto padre del mondo. Agli inizi della tradizione cristiana,
infatti, le prime redazioni del simbolo apostolico hanno presentato l'idea di Dio creatore, come padre
prima ancora che come onnipotente: "Credo in Dio, padre onnipotente". Di fatto, solo una onnipotenza
paterna e solidale con il mondo e con l'uomo, può garantire un futuro di salvezza.
La seconda indicazione riguarda la concezione del rapporto dell'uomo con il mondo. La soluzione del
problema ecologico, infatti, dipende in modo particolare da come l'uomo si colloca di fronte alla natura.
Se l'uomo ha un atteggiamento utilitaristico e invece di associarsi alla natura, si dissocia da essa, questa
viene ridotta a un oggetto posto nelle sue mani, e non sarà mai innalzata ad un livello umano. Se la
natura è un possesso dell'uomo, la scienza e la tecnica utilizzano la superiorità dell'intelletto umano per
scoprire vie e strumenti attraverso i quali l'uomo possa trarre il maggior profitto possibile dall'uso di
essa. Per Cartesio, padre del dualismo, divenuto poi centrale nella modernità, tra l'uomo soggetto e la
natura oggetto, inteso l'uno come res cogitans e l'altra come res extensa, l'uomo, in virtù della sua
superiorità di ente dotato di ragione, è il "padrone e possessore della natura". Questa è ridotta a un pezzo
di cera usabile e manipolabile, a pura estensione materiale, a "deposito di cose" e di risorse da sfruttare
mediante "l'invenzione d'una infinità
d'artifici", per "godere senza alcuna fatica dei frutti della terra e di tutte le comodità che si possono
trovare".
La natura deve ritornare ad essere madre, così come affermato dallo stesso detto popolare: la madre
natura. Se la natura non è più madre, diventa un semplice materiale, aperto a tutte le manipolazioni degli
uomini, soprattutto di quelli che detengono il potere. L'enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II,
afferma che "escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca
profondamente deformato e la stessa natura, non più mater, sia ridotta a materiale aperto a tutte le
contraddizioni."
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Se invece l'uomo ha un atteggiamento personale e responsabile verso la natura, può trovare la sua
identità non in contrapposizione ad essa, ma in associazione con essa. Se, dunque, l'uomo di oggi e di
sempre riconoscerà che la terra è di Dio (Sal 24,1-2), non la violenterà o la distruggerà, perché "ogni
nuova violenza sulla natura fa morire un pezzo di Dio".
Egli la trasformerà, sull'esempio di Abramo, in primizia di quei nuovi cieli e di quella nuova terra, nei
quali non ci sarà più tempo, perché non esisteranno né sole né luna per misurarlo (Ap 22,5; cf Gn 1,1617), e non ci sarà più tempio, perché Dio stesso sarà con gli uomini (Ap 21,3), in una coabitazione
eterna, che esalta l'uomo senza mortificare il cosmo. Scrive Karl Rahner che "la materia cosmica riserva
una frazione infinitesima di se stessa per
realizzare il fenomeno umano. Ma proprio questa infinitesima frazione si comporta in maniera così
peculiare da riconoscere leggi cui tutta la materia cosmica ubbidisce, ne ricostruisce la storia evolutiva e
il proprio essere come un prodotto di questa evoluzione, riconosce anche la peculiarità del suo stesso
essere così diverso dal resto del cosmo pur condividendone la uguale natura materiale e aspira
all'instaurazione del regno della conoscenza, oltre a quello dell'amore, dell'arte, della morale, della
filosofia, della religione". Se poi egli pensa che il Logos eterno di Dio, che muove questo miliardo di
galassie, è diventato uomo proprio su questo minuscolo pianeta, che esiste disperso come un granello di
polvere nell'universo, non può non essere preso da un senso di vertigine cosmica, ed interrogarsi con
stupore su che cosa egli veramente sia, perché Dio si curi di
lui(Sal 8, 4-5: "Se guardo il cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai
l'uomo, perché ti ricordi di lui? Chi è mai che tu te ne curi?"). Se l'uomo riconosce e accetta questo suo
"abbandono cosmico", si pone al di sopra di esso e lo condivide, lo trasforma in una espressione di
esperienza della contingenza creaturale. Il cosmo stesso diventa per lui un "luogo teologico", che
l'orienta ad accogliere la sua contingenza e creaturalità. Il senso di vertigine cosmica può essere
interpretato, allora, come un momento dello sviluppo della coscienza teologica dell'uomo.
4. L'attività umana secondo il disegno di Dio
La coscienza teologica dell'uomo, per quanto riguarda il suo rapporto con il mondo che lo circonda e che
costituisce il suo ambiente vitale, ha conosciuto molteplici cambiamenti lungo il corso della storia del
cristianesimo. Il cambiamento più decisivo dell'epoca contemporanea, di per sé, è stato favorito dagli
insegnamenti del Concilio Vaticano II. Esso, tuttavia, affonda le sue radici molto indietro nella storia
della tradizione cristiana. In base alla cosiddetta "riscoperta della natura", infatti, avvenuta nel secolo
XII, quest'ultima non venne allora più considerata come l'epifania del divino ma come attiva
cooperatrice di Dio. Tale riscoperta della natura inaugurò un nuovo atteggiamento di fronte all'universo,
favorì il progresso degli studi scientifici, soprattutto dell'astronomia e della medicina, nonché lo sviluppo
della tecnica, e diede all'uomo il senso di maggiore dominio sulle cose mondane, le quali, in qualche
modo, cessano di essere un prodotto divino e divengono una realtà che ha un suo specifico valore
terreno.
E' noto, ora, come nella coscienza cristiana, il lavoro umano, per tanto tempo, abbia avuto una
dimensione di pena e di castigo del peccato originale, un valore piuttosto penitenziale ed espiatorio.
Nella stessa Scrittura, per certi aspetti, si esprime una qualche diffidenza nei confronti del lavoro e
dell'attività umana nel mondo. Secondo Gn 4, 17-22 sono Caino e i suoi figli che costruiscono la città,
inventano gli strumenti e lavorano il ferro. Spesso le nuove forme di civiltà coincidono con il dilagare
del peccato (Gn 11, 1-9), e lo sviluppo materiale, politico e culturale del regno salomonico prepara la
decadenza del popolo (1Re 11). D'altra parte, nella prospettiva neotestamentaria, la vita cristiana implica
una tensione escatologica: i cristiani, risuscitati insieme con Cristo, cercano le cose del cielo, pensano
alle cose del cielo e non a quelle di questo mondo (Col 3, 1-2). Essi non hanno bisogno di cambiare la
propria condizione sociale (1Cor 7, 24), ma si contentano di quello che hanno, perché non hanno portato
nulla in questo mondo e non potranno portare via nulla (1Tm 6, 67). Anzi, i cristiani timorati di Dio, per non rendersi complici dei peccati commessi dagli altri, devono
uscire dalla città terrestre, che conquista grandezza, sicurezza, benessere con una condotta perversa (Ap
18, 4-5).
La valutazione "espiatoria" del lavoro è rimasta nella coscienza cristiana per tanti secoli. Lo stesso San
Tommaso, negli scritti dedicati all'attività dell'uomo, considerava il lavoro non come un bene in se
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stesso, ma come una necessità per procurarsi i mezzi per vivere. L'enciclica Rerum Novarum di Leone
XIII, che ha preso in esame la problematica del lavoro, è ancora debitrice di una simile mentalità. Si può
affermare che il magistero pontificio, per certi aspetti, ha recepito il cambiamento di mentalità con la
Laborem exercens di Giovanni Paolo II, del 1981, che ha recepito e sviluppato la dottrina del vaticano
secondo.
Il Concilio Vaticano II, invece, ha fatto una svolta significativa e ha annesso una grande importanza
all'attività umana, ricollegandola allo stesso disegno di Dio. "Per i credenti una cosa è certa: l'attività
umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli
cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde la disegno di
Dio" (GS 34). L'attività umana, perciò, non riceve il suo valore dalla retta intenzione soggettiva o dal suo
impiego per fini religiosi, ma è buona in se stessa. Nella discussione del paragrafo relativo al senso da
dare al lavoro umano, alcuni padri conciliari avevano suggerito di valutarlo con l'aggiunta di una
motivazione religiosa, la cosiddetta retta intenzione. Ma la maggioranza dei padri insistette perché
venisse adottato il testo che poi è stato fatto proprio dall'assemblea generale.
Se dovessimo descrivere in modo sistematico, ora, l'attività umana corrispondente al disegno di Dio,
potremmo articolarla utilizzando i verbi che ricorrono nel racconto genesiaco della creazione dell'uomo:
abitare, coltivare, custodire la terra.
4.1. Abitare la terra. Il dove del cristiano è il dove del mondo.
Comincio dal primo comandamento divino di abitare la terra. In base a tale comandamento divino, il
dove del cristiano diventa il dove del mondo. E' questo praticamente il principio dell'incarnazione,
adottato già all'alba del cristianesimo secondo la metodologia descritta dall'autore della Lettera
aDiogneto, e variamente riproposto, in seguito, nei diversi periodi della storia del cristianesimo.
Abitare la terra, dunque, per il cristiano di oggi, vuol dire abitare la città, abitare la politica, abitare
l'economia, abitare la cultura. L'abitare una determinata struttura, o una determinata istituzione comporta
il viverla e l'utilizzarla o servirla come esse esistono, cioè nella loro concretezza storica; comporta, in
altri termini, che non si debbano creare o contrapporre altre realtà in concorrenza o in opposizione a
quelle che già esistono. La comunità cristiana non è dirimpettaia della comunità civile, ma vive le sue
attese e i suoi problemi dall'interno. Il compito del cristiano, semmai, è quello di dare un supplemento di
anima, di spiritualità, di motivazione trascendente all'attività umana che viene svolta nei vari ambiti della
vita umana.
4.2. Coltivare la terra. Il dove del mondo è il dove di Dio.
Per quanto riguarda il secondo verbo con cui è descritta l'attività umana dalla Scrittura, il custodire la
terra, va subito notato che il concilio precisa che il disegno di Dio non solo vuole e promuove l'attività
umana, ma la ordina, perché essa possa tornare sempre a beneficio dell'umanità e permetta "all'uomo
singolo o posto entro la società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" (GS35). L'uomo potrà
diventare un'immagine sempre più perfetta di Dio, solo se rispetta questo "ordine" divino, solo cioè se
risponde in fedeltà e coerenza alla chiamata o "vocazione" che Dio gli rivolge dal momento stesso in cui
lo crea. Nella misura in cui egli rispetta la sua dignità di persona umana, rimane protagonista della sua
attività, conserva la sua propria autonomia senza diventare un puro mezzo di un fine a lui estrinseco,
diventa uomo in un senso sempre più perfetto e acquista valore "più per quello che è che per quello che
ha" (GS 35).
Il rispetto da parte dell'uomo, nell'esercitare la sua attività nel mondo, dell'"ordine" divino delle cose può
destare il timore che "venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze" (GS 36). Per
fugare questo timore e per ribadire che il valore di un'attività umana non dipende dal suo orientamento
religioso, il concilio afferma il principio di grande importanza e di forte valenza innovativa: le realtà
terrene sono autonome. Ciò significa che "tutte le realtà che costituiscono l'ordine temporale, cioè i beni
della vita e della famiglia, la cultura, l'economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità
politica, le relazioni internazionali e altre simili, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto
sono mezzi in relazione al fine ultimo dell'uomo, ma hanno anche un valore proprio, riposto in esse da
Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come parti di tutto l'ordine temporale" (AA 7).
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Queste realtà terrestri autonome hanno leggi proprie e propri statuti epistemologici, che devono essere
rispettati da tutti coloro che sono impegnati in una professione civile. La ricerca scientifica e l'attività
umana in genere, se svolta secondo le proprie leggi e nel rispetto delle norme morali, non si oppone mai
alla fede, perché "le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio" (GS 36).
Ovviamente, il concilio precisa che affermare che le realtà terrestri sono autonome non significa che esse
debbano essere adoperate senza riferirle al Creatore. Affermare, infatti, le realtà terrestri senza il loro
riferimento a Dio significa falsificare la loro vera natura, dato che "la creatura, senza il Creatore
svanisce" (GS 36). Si può senz'altro lavorare, ricercare, produrre, senza alcun riferimento a Dio, come
nel caso degli atei. Ma, ricorda il concilio, "l'oblìo di Dio rende opaca la creatura stessa", e rende più
arduo lavorare per il progresso umano vero.
Questa posizione del concilio che ho brevemente richiamato rievoca in qualche modo il ritornello dei
salmi, che continuamente ripetono che "la terra è di Dio" e richiama anche una famosa lettera scritta nel
1974 dall'allora abate di San Paolo fuori le mura Giovanni Franzoni, in coincidenza con il coraggioso ma
alquanto criticato convegno della diocesi sui mali di Roma. Ricordare e ribadire che "la terra è di Dio"
comporta, soprattutto, il prendere coscienza che il coltivare non è il seminare. Il seminatore è uno, ed è il
Signore, così come anche la vigna è una ed è del signore. Gli operai, invece, sono molti, lavorano a orari
diversi, sono retribuiti non in base al lavoro che fanno ma in base al giudizio del Signore. Il campo di
lavoro è uno. La creazione è una. Ma le stagioni del lavoro, come quelle della vita e dell'umanità sono
tante ed ognuna ha la sua bellezza e suggestione.
Anzi, una stagione richiede l'altra. Anche l'autore della vita è uno solo, sia di quella umana, che di quella
animale e vegetale. Questo fatto sta ad indicare che il "coltivare" la terra esige il rispetto e la difesa della
vita in tutte le sue forme e i suoi gradi. La tecnica umana, nell'esercizio della sua potenza e
nell'applicazione delle sue innovazioni, dovrebbe sempre essere a servizio della vita e non della morte,
perché Dio è amante della vita. Egli su ogni opera creata da lui ha messo la sua firma: "e vide che era
buono"! Eva, in quello che possiamo considerare il primo parto dell'umanità, accoglie Caino suo figlio
come un uomo "che ha acquistato dal Signore". Il figlio è un dono non un diritto. Caino, invece, impone
il nome di suo figlio Enoch alla città che costruisce. E così, il nome del figlio dall'indicazione di un dono
di Dio passa all'indicazione di un'opera fatta dall'uomo. Ci sono delle testimonianze commoventi che
richiamano e testimoniano questa verità cristiana della vita come un dono. La signora trentina Monica
Borriello, dopo un trapianto di un rene e del pancreas, ha potuto portare a compimento una gravidanza a
rischio e ha dichiarato: "Sono cattolica e in ogni caso non avrei voluto interrompere la gravidanza. Io che
ho ricevuto la vita da un'altra persona ho avuto la possibilità di donarla a mio figlio: sono felice, non mi
sento coraggiosa, non voglio essere descritta come una pioniera, spero solo che la mia vicenda possa
servire ad altre donne nella mia situazione e ad aumentare la sensibilità degli italiani verso la donazione
degli organi (La Repubblica, 1 settembre 2004, 24).
4.3. Custodire la terra. Il dove di Dio è l'uomo.
Relativamente, infine, al terzo verbo biblico che descrive il compito dell'uomo del custodire la terra, il
concilio ricorda opportunamente che l'uomo è chiamato a realizzare questo disegno di Dio, non come
servo o come uno strumento meramente passivo, ma come immagine di Dio, cioè come collaboratore del
Creatore, nel pieno esercizio della sua libertà. Dio, anche se è il Creatore unico, non crea da solo e
soprattutto non costruisce da solo. Alla sua opera di creazione associa l'uomo, ogni uomo e ogni donna,
che, nello svolgere "gli ordinari lavori quotidiani, prolungano l'opera del Creatore e donano un
contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia" (GS 34). Proprio
questa collaborazione qualificata dell'uomo all'opera creatrice di Dio fa sì che il cristiano sia più
cristiano non quando "fugge dal mondo", ma quando si impegna con un "obbligo ancora più stringente"
a edificare il mondo e a cercare il bene dei propri simili.
Passando dall'ordine essenziale dell'attività umana nel mondo, che ne precisa il senso e il valore, a quello
esistenziale o storico salvifico della medesima, determinato dal peccato e dalla redenzione in Gesù
Cristo, il concilio considera l'attività umana corrotta dal peccato (GS 37), elevata a perfezione nel
mistero pasquale (GS 38), portata al suo fine ultimo nei cieli nuovi e nella terra nuova (GS 39).
Quando nella realtà creata, prodotta buona da Dio, si inserisce il peccato, si sconvolge l'ordine dei valori,
si mescola il male con il bene, si rimane vittime di egoismi personali e collettivi e "il mondo cessa di
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essere il campo di una genuina fraternità" (GS 37). La storia umana è pervasa da una lotta tremenda
contro le potenze delle tenebre, cominciata dall'origine del mondo, con il peccato originale, e destinata a
durare fino all'ultimo giorno. Ora, la situazione dell'uomo è "miserevole", a causa dello spirito di vanità e
di malizia che ha stravolto l'operosità umana, ma non disperata. Il lavoro umano, il progresso della
tecnica, lo sviluppo delle scienze possono portare l'uomo alla felicità e alla piena realizzazione di se
stesso, qualora vengano purificati e resi perfetti "per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo"
(GS 37). L'aspirazione al progresso, perciò, non deve essere demonizzata o colpevolizzata, bensì
incoraggiata e promossa.
Il concilio precisa che la sequela di Gesù non suscita solamente il desiderio del mondo futuro, ma anche
ispira, purifica e fortifica quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere
più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra. Il desiderio del mondo futuro e
l'impulso alla costituzione di questo mondo non sono contrapposti ma congiunti.
Tra l'aspirazione escatologica e l'impegno terrestre c'è un nesso causale: il cristiano aspira al mondo
futuro, e, proprio perciò, s'impegna a edificare il mondo con un'attività purificata e fortificata. Gli stessi
impegni delle differenti vocazioni laicale e religiosa, entrambe suscitate dallo Spirito, sono in sé
congiunti, nel senso che ogni attività temporale ha un valore religioso e ogni attività religiosa ha una
dimensione temporale. Il concilio chiama addirittura l'attività umana un ministero, cioè un servizio
religioso ed ecclesiale a beneficio della comunità.
Nella luce del mistero pasquale, quindi, tutte le forme dell'attività umana nell'universo possono essere
considerate come un'unione con Gesù Cristo, morto e risorto, che si realizza soprattutto nell'eucaristia.
Nella celebrazione dell'eucaristia, il pane e il vino, frutto del lavoro dell'uomo, diventano corpo e sangue
di nostro Signore, concretizzando nella simbologia sacramentale l'aspirazione e il destino di unione e di
comunione con Cristo di tutto il creato.
Possiamo concludere l'esposizione delle indicazioni conciliari sull'attività umana, paragonando la
posizione dell'uomo nel creato ad una statua, e precisamente alla statua di Dio. Come gli antichi sovrani
orientali, dopo aver conquistato un territorio con la guerra, lo annettevano al loro dominio mediante
l'erezione di un busto o di una loro statua, per indicare giuridicamente la propria sovranità sul nuovo
territorio, così l'uomo è la statua eretta da Dio stesso. Dio lo colloca sulla terra come un suo
luogotenente, perché continui la sua opera creatrice. Non per nulla, la generazione della vita umana è
chiamata pro-creazione. La struttura interiore dell'uomo è responsoriale, perché Dio crea chiamando per
nome. La vita e l'opera dell'uomo, concretamente, è una risposta a Dio e alla sua chiamata. L'uomo
amministra le cose del mondo, non le possiede. Se la terra è di Dio, la sua responsabilità nei suoi
confronti è in qualche modo sacra.
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LE VIRTÙ ECOLOGICHE
Tutte le virtù - scrive Karl Golser possono
essere
ecologica.
riviste
in
chiave
La giustizia diventa sforzo di
considerare il grande ordine nel quale
siamo inseriti e di coltivare un rapporto
riverente con ogni essere creato e anche
con le generazioni future.
La prudenza è impegno costante di
ottenere il sapere ecologico adeguato
alla nostra responsabilità e di attuarlo
anche nelle nostre scelte quotidiane.
La fortezza diventa coraggio civile per
un impegno corrispondente alle nostre
convinzioni.
La temperanza è parsimonia nell' uso
delle risorse e moderazione nei nostri
ecosistemi così sensibili.
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Antologia di scritti per le giornate di Fonte Avellana a cura di