Antologia di scritti per le giornate di Fonte Avellana a cura di Girolamo Valenza DIO, L’UOMO E IL CREATO 1 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ INDICE pag Sinodo dei vescovi “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” Proposizioni finali. La proposizione 54 3 Dichiarazione comune di impegno per l’ambiente, firmata dal Papa e dal Patriarca Ecumenico, a conclusione del IV Congresso Ecologico Internazionale. 4 Risultati della seconda consultazione degli incaricati per l’ambiente presso le Conferenze Episcopali Europee Bad Honnef / Germania, 4 - 7 maggio 2000 “La spiritualità della creazione e le politiche ambientali“ 6 Capitolo Generale OFM 09: Ai Ministri dell’economia del G8 8 Arte e spiritualità la teologia della bellezza e il crocifisso di alberto “sozio” di Paola Restani. 10 Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese “Verso una spiritualità ecumenica e profetica di padre Emmanuel Clapsis 15 L’armonia della creazione nella Scrittura di Gianfranco Ravasi Mons. GIANFRANCO RAVASI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura , 19 La "bellezza"Il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.” di Gianfranco Ravasi M 21 L’ambiente nel compendio della Dottrina Sociale Cattolica a cura di Simone Morandini 23 Il creato in prospettiva cristiana Simone Morandini 30 Jürgen Moltmann – una teologia amante della vita di Rosino Gibellini 39 Salvaguardare il creato, vocazione dell'uomo di Bartolomeo Sorge 44 Essere cristiani nella globalizzazione: cattolici e ortodossi a confronto Adalberto Piovano Priore Abbazia di Vertemate 45 Il vangelo della trasfigurazione: esegesi biblico-spirituale Enzo Bianchi, priore di Bose (2007) 50 Dire Dio con la bellezza di mons. Ignazio Sanna 56. Lo specchio Felice L’uomo giardiniere del creato 1. La domanda di futuro di Ignazio Sanna 59o Le virtù ecologiche di Karl Golser 66 2 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ SINODO DEI VESCOVI “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” Roma, 5 - 26 ottobre 2008 PROPOSIZIONI FINALI La proposizione 54 Dimensioni cosmiche della Parola di Dio e custodia del creato La Parola di Dio comunica a noi la bellezza di Dio tramite la bellezza della creazione e anche mediante le immagini sacre come le icone del Verbo incarnato. Sono modalità con le quali il mistero invisibile di Dio si rende in qualche modo visibile e percepibile dai nostri sensi. I Padri della Chiesa, del resto, hanno sempre affermato le dimensioni cosmiche della Parola di Dio che si fa carne; ogni creatura, infatti, porta in un certo senso un segno della Parola di Dio. In Gesù Cristo,morto e risorto, tutte le cose create trovano la loro definitiva ricapitolazione (cf. Ef 1, 10). Tutte le cose e le persone, perciò, sono chiamate ad essere buone e belle in Cristo. Purtroppo l’uomo del nostro tempo si è disabituato a contemplare la Parola di Dio nel mondo che abita e che è stato donato da Dio. Per questo la riscoperta della Parola di Dio, in tutte le sue dimensioni, ci spinge a denunciare tutte le azioni dell’uomo contemporaneo che non rispettano la natura come creazione. Accogliere la Parola di Dio attestata nella sacra Scrittura e nella Tradizione viva della Chiesa genera un nuovo modo di vedere le cose, promuovendo una ecologia autentica, che ha la sua radice più profonda nella obbedienza della fede che accoglie la Parola di Dio. Pertanto desideriamo che nella azione pastorale della Chiesa si intensifichi l’impegno per la salvaguardia del creato, sviluppando una rinnovata sensibilità teologica sulla bontà di tutte le cose, create in Cristo, Parola di Dio incarnata. 3 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Il creato nella prospettiva cristiana Il brano seguente è tratto dalla Dichiarazione comune di impegno per l’ambiente, firmata contemporaneamente dal Papa e dal Patriarca Ecumenico, a conclusione del IV Congresso Ecologico Internazionale, svoltosi dal 5 al 12 giugno su iniziativa del Patriarcato Ecumenico e della Commissione Europea. Vi si trovano i presupposti fondamentali per l’elaborazione di un’etica cristiana sull’ambiente, un tema che trova importanti convergenze sul piano dell’ecumenismo ed offre rilevanti prospettive anche nel dialogo interreligioso. Dio Onnipotente ha concepito un mondo di bellezza e d’armonia ed egli lo ha creato, facendo di ogni suo aspetto un’espressione della sua libertà, della sua saggezza e del suo amore (cf. Gen 1,1-25). Al centro del creato, egli ha posto noi, gli esseri umani, con la nostra inalienabile dignità. Sebbene siano molte le caratteristiche che condividiamo con gli altri esseri viventi, Dio onnipotente con noi è andato oltre. Egli ci ha dato un’anima immortale, fonte di autocoscienza e di libertà, doti intellettuali che ci rendono a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-31; 2,7). Contraddistinti da tale somiglianza, siamo stati posti da Dio nel mondo affinché collaborassimo con lui nel realizzare sempre più pienamente il fine divino della creazione. All’inizio della storia, l’uomo e la donna hanno peccato disobbedendo a Dio, rigettando il suo disegno sulla creazione. Una delle conseguenze di questo primo peccato è stata la distruzione dell’originaria armonia della creazione. Se esaminiamo attentamente la crisi sociale e ambientale affrontata attualmente dalla comunità mondiale, dobbiamo concludere che continuiamo a tradire il mandato affidatoci da Dio: essere servitori, chiamati a collaborare con lui, e che vegliano in santità e con saggezza sulla creazione. Dio non ha abbandonato il mondo. Egli vuole che il suo disegno e la nostra speranza in esso si realizzino per mezzo della nostra collaborazione nel ristabilire la sua originaria armonia. Nel nostro tempo assistiamo alla crescita di una consapevolezza ecologica, che deve essere incoraggiata affinché essa si attui in programmi e iniziative pratiche. Da una consapevolezza della relazione tra Dio e il genere umano deriva un senso più profondo dell’importanza della relazione tra il genere umano e l’ambiente naturale, cioè la creazione di Dio, che Dio ha affidato al genere umano affinché esso possa custodirla con saggezza e amore (cf. Gen 1,28). Il rispetto della creazione deriva dal rispetto per la vita e la dignità umana. Soltanto se riconosciamo che il mondo è creato da Dio possiamo discernere un ordine morale oggettivo entro il quale articolare un codice di condotta ambientale. In questa prospettiva, i cristiani e tutti gli altri credenti hanno una funzione specifica nel proclamare i valori morali e nell’educare le persone a una consapevolezza ecologica, la quale non è altro che la responsabilità assunta nei confronti di se stessi, nei confronti degli altri e nei confronti della creazione. 4 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Occorre un atto di pentimento da parte nostra, e il rinnovato tentativo di considerare noi stessi, di considerarci l’un l’altro, e di considerare il mondo che ci circonda, nella prospettiva del disegno divino sulla creazione. Il problema non è meramente economico e tecnologico; esso è di ordine morale e spirituale. Si può trovare una soluzione, al livello economico e tecnologico, soltanto se nell’intimo del nostro cuore si verificherà un cambiamento quanto più possibile radicale, che potrà indurci a cambiare il nostro stile di vita, e i nostri insostenibili modelli di consumo e produzione. Una genuina conversione in Cristo ci permetterà di cambiare i nostri modi di pensare e di agire. [Giovanni Paolo II e Bartolomeo I - 2002] Dichiarazione congiunta del Santo Padre Giovanni Paolo II e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Roma - Venezia, 10 giugno 2002. Il Regno – Documenti, n. 13, 2002, p. 404. 5 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Risultati della seconda consultazione degli incaricati per l’ambiente presso le Conferenze Episcopali Europee Bad Honnef / Germania, 4 - 7 maggio 2000 „La spiritualità della creazione e le politiche ambientali“ 1) La bellezza e l’espressività della liturgia cristiana che si sviluppa lungo l’anno liturgico ha come fonte essenziale la simbologia della natura, trasfigurata dal mistero di Cristo. Per portare questo a una maggiore consapevolezza dei cristiani, i delegati delle Conferenze episcopali per l’ambiente propongono, in attuazione alle raccomandazioni operative della Seconda Assemblea Ecumenica Europea di Graz, di introdurre una „giornata della creazione” da celebrarsi nel periodo fra il primo settembre e la giornata del ringraziamento per il raccolto. Questa iniziativa a favore dell’ambiente, proposta dal Patriarcato di Costantinopoli, potrebbe costituire una campo di proficua collaborazione ecumenica. In alcuni Paesi sono già state vissute esperienze positive, con iniziative spirituali, sociali e politiche. 2) L’impegno concreto delle Chiese per uno sviluppo sostenibile e giusto si realizza in primo luogo nella formazione delle coscienze attraverso l’annuncio della parola e l’educazione. Un importante aiuto per questo sarebbe l’inserimento della tematica della creazione nei libri di scuola e nei catechismi, in particolare anche nell’annunciato Catechismo Sociale della Chiesa. La trasmissione della responsabilità nell’insegnamento religioso esige dei nuovi approcci didattici. 3) Dei progetti modello costituiscono una condizione di credibilità della Chiesa e un incoraggiamento importante da imitare nell’ambito, ad esempio, dell’energia rinnovabile, di una costruzione ecologica o di un’agricoltura rispettosa della natura. La sostenibilità nella responsabilità cristiana verso la creazione tocca ogni campo d’azione della Chiesa, dall’amministrazione alla pastorale. Anche i movimenti ecclesiali laicali possono manifestare un impegno modello in questo ambito. 4) L’impegno socio-politico della Chiesa nasce dal centro della fede cristiana e trae la sua fonte in una spiritualità e in uno stile di vita nel segno della speranza e della giustizia, orientate al rispetto della dignità di ogni persona umana e all’amore per tutte le creature. Per questa testimonianza della fede si presenta ora l’occasione non trascurabile di una collaborazione a diversi livelli con i processi dell’Agenda 21 per uno sviluppo sostenibile al livello locale, regionale e nazionale. IV. Speranza per l’Europa del futuro 5) Proprio nel periodo presente, segnato dalla trasformazione e dalla crisi del processo di unificazione dell’Europa, le Chiese possono apportare una visione per la convivenza pacifica fra i popoli, degli elementi fondamentali per un’identità culturale europea e delle esperienze concrete di una comminuta che unisce i popoli. Ciò rappresenta un contributo importante per la comprensione tra i popoli, la pace e la presa di coscienza della responsabilità ecologica. 6) In alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale si trovano, oltre ad ingenti danni recati alla natura, anche zone in cui la natura è ancora intatta e dotata di una ricca biodiversità. Questo 6 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ prezioso patrimonio è attualmente minacciato da programmi di sviluppo le cui sovvenzioni non sono orientate secondo criteri di sostenibilità. Le Chiese vogliono impegnarsi per un mutuo processo di apprendimento, prendendo in particolare considerazione le esperienze del centro e dell’Est europeo, per un buon equilibrio tra gli aspetti di sviluppo ecologico, sociale ed economico. 7) Tutti i cittadini d’Europa sono chiamati a sviluppare nuovi stili di vita sostenibili, che si staccano dai bisogni di consumo sempre crescenti delle società occidentali. Una spiritualità ecologica, nello spirito delle Beatitudini, della solidarietà con i poveri e dell’amore per il creato, potrà essere una liberazione per i Paesi ricchi. L’anno giubilare, inteso originariamente come ritorno al Dio che ci dona la terra e ci offre sempre una possibilità di conversione e di liberazione, potrà in questo senso essere un aiuto per vivere questa spiritualità. 7 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ CapGen09: Ai Ministri dell’economia del G8 Ai Ministri dell’economia del G8 Noi Francescani, Frati Minori (Governo dell’Ordine, Ministri e Custodi), riuniti in Assisi per il 187° Capitolo generale in questo anno 2009, VIII centenario della fondazione del nostro Ordine, e provenienti da 110 Paesi del mondo in rappresentanza di 15.000 frati che condividono direttamente e concretamente le sorti dei nostri popoli, desideriamo inviare a Voi, Ministri dell’economia del G8, il saluto francescano di “pace e bene!” e un nostro fraterno, accorato messaggio. Testimoniamo, nella nostra società, il non sufficiente riconoscimento di alcuni inalienabili diritti della persona umana a livello economico, sociale, culturale, civile e politico, tra i quali il diritto alla vita in ogni suo momento, alla libertà nelle sue molteplici manifestazioni, al lavoro e allo studio, i diritti della donna e dei bambini, senza trascurare il problema cruciale della disoccupazione e della mancanza di sostegno alle famiglie in difficoltà. Constatiamo con crescente inquietudine come la globalizzazione, retta dalle pure leggi di mercato, porti come conseguenze: l’attribuzione di un valore assoluto all’economia, la disoccupazione, la diminuzione e il deterioramento dei servizi pubblici, la distruzione dell’ambiente e della natura, la produzione e la vendita indiscriminata delle armi, l’aumento delle differenze tra ricchi e poveri, la concorrenza ingiusta che pone le nazioni povere in una situazione di inferiorità sempre più evidente, costringendo milioni di persone ad una disperata emigrazione dai propri territori. Per superare la crisi economica, noi crediamo nell’impegno per trasformare l’attuale stile di vita attraverso una sobrietà più responsabile, la condivisione come alternativa alla competizione, il rispetto dell’ambiente e la nonviolenza attiva. Alla luce di quanto sopra proponiamo che i governi: * programmino una economia che rappresenti un cambio di paradigma, il passaggio, cioè, da un modello di economia di libero mercato a un modello di economia della sostenibilità, che dia il primato alla dimensione sociale e ambientale su quella prettamente economica e che garantisca i bisogni fondamentali a tutti con il contributo di tutti; * favoriscano politiche produttive che evitino produzioni inquinanti; * attuino politiche energetiche basate su energie rinnovabili rispettando gli ecosistemi; * mantengano gli impegni già solennemente presi relativamente allo stanziamento dello 0,7% del PIL per il raggiungimento degli otto obiettivi di sviluppo del millennio. 8 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Seguendo l’insegnamento di Francesco d’Assisi, patrono dell’ecologia, conosciuto in tutto il mondo quale testimone di pace e di fraternità, sollecitiamo di porre al centro la persona umana in tutte le sue dimensioni, chiedendo che venga promosso ulteriormente: * il rispetto della dignità e della uguaglianza della persona umana, con l’impegno conseguente della costruzione del bene comune e della destinazione universale dei beni; * un rinnovato sforzo verso uno sviluppo sostenibile che garantisca la realizzazione dei bisogni delle attuali generazioni senza compromettere possibilità e soddisfazioni alle future; * una crescita economica coniugata con la salvaguardia ambientale e la distribuzione dei benefici tra tutti i paesi. Per questo chiediamo che con sollecitudine Vi possiate adoperare per soddisfare nel miglior modo possibile le attese e i bisogni dell’uomo d’oggi. Come Frati Minori Vi assicuriamo tutto il nostro appoggio per questo cammino e Vi salutiamo con le parole di Francesco d’Assisi, fondatore del nostro Ordine: “Il Signore Vi doni la sua pace!” 9 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ LA TEOLOGIA DELLA BELLEZZA E IL CROCIFISSO DI ALBERTO "SOZIO" La teologia della bellezza è un tema che affascina, coinvolge ed intriga, in quanto essa non si risolve in un insieme di conoscenze razionali, ma nell’esperienza dell’interazione tra unità, verità e bontà, nel rimanere appagati dal Mistero di Dio. ARTE E SPIRITUALITÀ LA TEOLOGIA DELLA BELLEZZA E IL CROCIFISSO DI ALBERTO “SOZIO” di PAOLA RESTANI “Quale bellezza salverà il mondo?” Dostoyevski, L’idiota La teologia della bellezza è un tema che affascina, coinvolge ed intriga, in quanto essa non si risolve in un insieme di conoscenze razionali, ma nell’esperienza dell’interazione tra unità, verità e bontà, nel rimanere appagati dal Mistero di Dio Aristotele affermava che, se non è possibile vivere senza felicità, non è neppure possibile vivere senza bellezza. Quest’ultima cattura e rallegra gli animi, è un mistero capace di generare pace e suscitare gioia, in quanto è splendore di verità. “Ogni bellezza creata è un riflesso e una partecipazione dello splendore della Bellezza in sé, che è stata manifestata in Cristo, Bellezza incarnata: con l’occhio della fede, che è amore, il credente gode già ora, sia pure in forma riflessa come attraverso uno specchio, di qualcosa di quella Bellezza in sé che sarà una gioia per sempre nella visione beatifica”(1). Il potere della bellezza consiste nell’attrarre: “La bellezza è quel potere che consente a ciò che è veramente buono di farci uscire da noi stessi per raggiungere l’eccellenza”(2). Ecco perché non possiamo vivere senza bellezza poiché essa suscita, accentra e mantiene la tensione necessaria all’uomo per realizzare la sua eccellenza umana: diviene la motivazione centrale di ogni decisione e azione dell’uomo. Nella storia della cultura cristiana la via della bellezza è stata percorsa con sincera partecipazione religiosa e profondo impulso culturale da Sant’Agostino a Fénelon, da San Tommaso a Maritain, da San Francesco a von Balthasar. Tanti santi e tanti artisti hanno colto di Dio soprattutto la Bellezza, Francesco di Assisi nelle sue lodi per ben due volte si rivolge a Dio in questo modo: “Tu sei Bellezza”. Agli occhi della fede la bellezza appare come verità della creazione che contrasta l’avvilimento umano e la sua nichilistica deriva. Essa non allude semplicemente al suo originario legame con la bontà dell’opera creatrice di Dio, di cui Egli si compiace, come racconta la Genesi (1,31), ma evoca il sentimento di corrispondenza, cioè prefigura la restituzione da parte dell’uomo del senso originario della creazione: l’amore. Dio, creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, ha voluto dare loro dignità di persone ed una esistenza propria custodita dal libero arbitrio. L’umanità viene chiamata a restituire il dono della bellezza che l’accompagna dalla creazione. Dio creò l’uomo come il frutto più nobile del Suo progetto, a lui sottomise il mondo come campo in cui esprimere la sua capacità inventiva e la sua capacità di amare. L’uomo è dunque 10 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ invitato ad essere artefice della propria vita plasmando la sua umanità e poi l’universo che lo circonda in nome della Bellezza/Amore. Così facendo, nell’uomo artefice si rispecchia l’immagine di Dio Creatore. Non sempre questo si realizza, la verità della bellezza non abita pacificamente l’umana edificazione del mondo. Spesso la passione della bellezza diventa apparenza o illusione del bene, oppure ebbrezza di una esistenza fine a se stessa che rende lecita anche la dissipazione di ogni dono dello Spirito Santo, o peggio diviene ossessione spirituale con il rischio di una anestesia nei confronti del dolore del mondo e indifferenza all’avvilimento dell’uomo. In questi casi la bellezza si separa dalla sua vera essenza e, quindi, dalla speranza dell’umanità. Le parole di Sant’Agostino: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato” (Le Confessioni X, 27) sollecitano gli uomini a riappropriarsi di una sensibilità capace di far sentire interiormente la forza divina dello Spirito Creatore. Le opere umane della bellezza non appagano completamente, bensì esse invitano a proiettarsi più audacemente verso la bellezza del Mistero di Dio che indica all’uomo la vera destinazione spirituale della sua attrattiva. “Ne consegue per tutti i credenti un forte impulso a riscoprire e a far scoprire il lato bello di Dio. La testimonianza è possibile soltanto al prezzo di una profonda assimilazione di nuovi sensi spirituali, capaci di formare l’uomo e la donna credenti al discernimento dell’immagine del Figlio e dei doni dello Spirito nell’odierna condizione umana”(3). In un mondo in cui esiste tanta bruttezza, tanta cattiveria, tanta meschinità e falsità, dove la bellezza della figura umana è distrutta da guerre e violenze o manipolata e degradata a mero piacere estetico e fisico, è necessario ed urgente ritrovare questo senso profondo della bellezza. Risolvere l’interrogativo suggerito da Dostoyevski non appare, in particolare al giorno d’oggi, cosa facile, ma ispirandoci alle parole della Lettera Pastorale per l’anno 2000 del Cardinal Martini, potremo rispondere che la bellezza che salverà il mondo è l’amore che condivide il dolore, è la figura del Bel Pastore che dona la sua vita per le sue pecore. Cristo incarna in modo supremo l’ideale greco del καλóV e dell’ὰgaqóV, raggiunge la condizione totale di santità e integrità sia nella disposizione interiore che nell’aspetto esteriore. Realizza l’idea del pastore autenticamente buono la cui beltà è tale da attrarre a sé tutti gli uomini. La bellezza della sua bontà salva il mondo offrendo la vita per le sue pecore. La figura di Gesù, trascendendo ogni divieto idolatrico, è la sacra rappresentazione dell’umanità del Padre, è la legittima ed unica immagine visibile di Dio invisibile. L’arte invoca la bellezza per elaborare il dolore e non può evitare il legame originario tra il bello ed il bene che si richiama alla causa stessa della creazione. Nella rappresentazione di Gesù crocifisso, ad esempio, non si è trasportati alla deriva a causa del dolore e della morte, ma spinti verso il Mistero della bellezza. In Cristo è custodito quel potere della bellezza capace di ispirare, motivare, trasformare e modellare la vita umana. La vera bellezza implica qualsiasi cosa possa spingerci alla nostra realizzazione, comporta il vero amore che è fedeltà, responsabilità e gioia. Altra è la bellezza che seduce, la quale provoca la nostra autodistruzione e un amore che è disordine e infelicità. Gesù crocifisso e glorificato rappresenta la Bellezza in sé che cattura e rapisce l’umanità. Nella 11 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ contemplazione del crocifisso c’è la visione dell’Amore, della Bellezza e del suo Potere Salvifico. Le opere d’arte, sia figurative che letterarie costituiscono non solo delle raffigurazioni esteriori di una ispirazione profondamente intima, ma dei veri e propri “luoghi teologici”(4). A tal proposito il Crocifisso di “Sozio” evoca, con straordinaria forza e profondità, nello stesso tempo due momenti fondamentali: la crocifissione e l’ascesa al cielo di Cristo risorto. La croce e la resurrezione rappresentano la forza di un amore talmente grande da non poter essere vinto neppure dalla morte. L’unica opera sicura e datata di Alberto “Sozio”(5) è appunto un crocifisso dipinto che segna l’inizio di tutta una serie di crocifissi umbri(6). L’opera è conservata attualmente nella prima cappella della navata di sinistra del Duomo di Spoleto, ma sembra certo che in origine fosse destinata alla chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Il crocifisso è dipinto su una pergamena applicata su di un supporto ligneo alto cm 278 e largo cm 200. All’estremità inferiore della croce si trova una iscrizione, conservata solo parzialmente, in cui si legge l’anno 1187 ed il pittore, il cui nome è stato quasi sempre integrato arbitrariamente dai critici in Alberto “Sozio”(7). Per quanto riguarda lo stile del Crocifisso, gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere una forte influenza dell’arte bizantina: molto probabilmente “Sozio” assorbì attraverso Roma non solo il gusto linearistico, ma anche i modi plastici della predetta cultura(8) che qualche studioso suppone anche di provenienza dell’Italia meridionale (9). Elemento dominante del Crocifisso è la rappresentazione del Cristo vivo, desunta dall’arte dei primi secoli della Cristianità ed assurta a valore di simbolo. È rappresentato con gli occhi aperti, il corpo eretto ed i piedi disgiunti trafitti da due chiodi, ha i fianchi coperti da un perizoma trasparente decorato da sottili bande rosse ed azzurre. Ai lati della figura principale partecipano all’evento, a sinistra la Vergine che indossa una veste azzurro cupo, a destra San Giovanni con veste azzurra fasciata da un manto rosso chiaro. Al di sotto del soppedaneo si vede il teschio di Adamo, quasi nascosto in una roccia, su di esso scorre del sangue partendo dalle ferite di Cristo. Sulla parte culminante della croce è rappresentata l’Ascensione: il Redentore, che con la sinistra regge la croce, ascende al cielo in una mandorla recata da quattro angeli .Cristo è glorificato come il più bello tra gli uomini (Salmo 44,3) e, dopo la Passione, come volto sfigurato dal dolore (Is. 53,2). La bellezza a cui si allude non è semplicemente bellezza esteriore quanto piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio che è Amore, dono fino alla fine. Ed infatti Dio si è manifestato nelle sembianze di Cristo crocifisso e sofferente come Amore “sino alla fine” (Gv 13,1). La bellezza della verità, quindi, comporta sofferenza, dolore, sacrificio perfino per il Figlio di Dio. L’immagine della crocifissione evoca in modo immediato il legame tra bellezza e dolore. Attraverso la visione esteriore, la percezione interiore deve liberarsi ed innalzarsi verso una profondità più vera della realtà sensibile: lo splendore di Dio. Ammirare i capolavori dell’arte cristiana porta attraverso il superamento di sé ad una purificazione dello sguardo che apre il cuore alla bellezza. Nella Passione di Cristo, Colui che è Bellezza stessa, si lascia sfigurare in modo impressionante, ma proprio il volto insanguinato e sofferente per il dolore rivela la bellezza più autentica, la forza dell’Amore fino all’estremo sacrificio. L’icona di Cristo crocifisso sconfigge qualsiasi accusa riguardante il messaggio della 12 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ bellezza, messo in dubbio ipotizzando la non esistenza di Dio poiché Egli non interviene di fronte alle varie forme di manifestazione del male. Conditio sine qua non è che noi uomini crediamo nell’Amore che può ferire e far soffrire, ma promette la Resurrezione e l’Amore eterno. Gesù ha dato la sua vita sulla croce affinché l’umanità si salvasse dal peccato e l’unità d’amore tra Dio e ogni creatura non si spezzasse, quindi tra crocifisso e vita c’è un rapporto inscindibile. Gesù non evita né la morte né la sofferenza, ma anzi questa ultima diventa fonte di crescita per sé e per l’intera umanità. Nella crocifissione vi è implicito un invito incessante ed appassionato a donarsi in nome dell’amore. Con la vita abbiamo ricevuto l’opportunità di amare e di realizzarci per mezzo dell’amore e del dono sincero di sé sull’esempio di Cristo. Lo splendore e la gioia della bellezza divina vengono percepiti da coloro che, puri di cuore, vedono Dio in tutte le cose create. Essi guardano gli orrori, la rovina, il peccato per trovare Dio, invece i cinici guardano tutto ciò che è bello, buono e semplice per trovare aspetti cupi. Il Cristo crocifisso e risorto rivela e comunica l’amore di Dio che dona se stesso a tutta l’umanità. Gesù si fa servo di Dio adempiendo alla Sua volontà e attraverso il dono del suo Spirito si conforma alla sapienza del Padre. Cristo è l’immagine vivente di Dio, con la sua divino-umanità rende possibile all’uomo di credere in Dio, di vederLo e di amarLo: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). L’umanità è animata da una ricerca continua di qualcosa, una insoddisfazione o una inquietudine spesso spingono ad inseguire qualcosa che sfugge. Spesso lo scopo che anima la ricerca non viene soddisfatto in modo radicale, il bisogno di un appagamento totale può essere trovato solo nell’amore infinito di Dio che si dona a noi .Il dono d’amore di Cristo attrae verso la bellezza suprema di Dio. La nostra capacità di godere delle cose create e di partecipare quindi alla gioia della creazione è sottintesa a due essenziali virtù: la carità, che è amore e l’umiltà, che ci permette di sconfiggere la superbia e di porci di fronte ad ogni cosa con stupore e gratitudine, ci consente di non dare nulla per scontato riconoscendo in tutto il dono del Signore. Questo presuppone la nostra disponibilità nel credere che ogni cosa, compresa la nostra creazione, sia un dono gratuito di Dio. L’amore e la gioia dell’uomo sono una specie di ripetizione e di risposta all’amore del Creatore. Con la sua morte Cristo restituisce al mondo la bellezza umana deformata dal peccato, permette all’umanità di avere un’altra chance per lasciarsi trasformare dalla bellezza divina ritrovata. La vita di ogni cristiano nel mondo rappresenta uno sforzo per reintrodurre la bellezza nell’umanità attraverso la trasformazione non solo dei cuori, ma anche delle strutture della società. Questo significa lasciar entrare sempre più bellezza nella vita spirituale, nei cuori, nella vita comunitaria ed essere attenti all’autenticità delle relazioni perché esse rappresentano un riflesso della Bellezza originaria. NOTE 1 J. NAVONE, Verso una teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Milano 1998, p. 11. 2 J. NAVONE, Verso una teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Milano 1998, p. 39. Conferenza di Padre Marko Ivan Rupnik dal titolo “La bellezza salverà il mondo”, organizzata dal Centro Leone XIII tenutasi nella Sala dei Notari a Perugia il 10/12/2004. 3 P.A. SEQUERI, La “via pulchritudinis”: limiti e stimoli di una spiritualità estetica, in Credere Oggi, n. 117 maggio/giugno 2000, p. 2. 4 D. ROUSSEAU, L’icona splendore del tuo volto, Edizioni San Paolo, Milano 1990, p. 123. 5 U. GNOLI, Pittori e miniatori nell’Umbria, Spoleto 1923, p.15; P. TOESCA, Storia dell’arte italiana, vol.1/2, 13 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Torino1927, p.930 ss. e p.1025, nota 11; F. BOLOGNA, La pittura italiana delle origini, Roma 1962, p.54. 6 In generale sul crocifisso vedi: E. SANDBERG VAVALA’, La croce dipinta italiana e l’iconografia della Passione, Verona 1929, p. 613-619. 7 G. BENAZZI, La croce di Alberto nel Duomo di Spoleto, in Quando Spoleto era romanica, catalogo della mostra, Spoleto 1984, pp. 61-73; G. SAPORI, “Alberto Sotio”, “Berto di Mattia”, “Girolamo di Giovanni”, in Spoletium, 12, 1970, p. 46. 8 U. LIEBL, Nuovi contributi sugli affreschi più antichi della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Spoleto, in “Spoletium” 36-37, 1992, pp. 54-61. 9 E. SANDBERG VAVALA’, La croce dipinta italiana e l’iconografia della Passione, Verona 1929, p. 613-619. Anno III n.3, maggio/giugno 2005 14 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese Verso una spiritualità ecumenica e profetica di padre Emmanuel Clapsis Il testo che segue riporta ampi stralci della relazione tenuta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa tenutosi al monastero di Bose nel settembre 2006. L’edizione integrale degli Atti uscirà nel mese di giugno per le edizioni Qiqajon. Si pubblica per gentile concessione dell’editore. Padre Emmanuel Clapsis insegna teologia sistematica alla Holy Cross Greek Orthodox School of Theology di Boston; è stato membro di numerose commissioni teologiche di dialogo ecumenico e del Consiglio ecumenico delle Chiese. Alla nona Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese tenutasi nel 2006 a Porto Alegre, in Brasile, le Chiese cristiane hanno riconosciuto la necessità di «concentrare l’attenzione sulla natura della spiritualità cristiana e sull’opera dello Spirito Santo nella Chiesa e nel mondo». Un 15 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ aspetto di essenziale importanza per l’integrità del lavoro ecumenico in vista dell’unità visibile e per la missione delle Chiese. Il bisogno di fondare il movimento ecumenico e la missione delle Chiese cristiane nell’opera dello Spirito Santo è un principio condiviso, fondante l’ecumenismo. Una spiritualità ecumenica per i nostri tempi deve essere una spiritualità dell’incarnazione, qui e ora, capace di dare vita, radicata nelle Scritture e nutrita dalla preghiera, con una dimensione comunitaria e celebrante, centrata sull’Eucaristia; deve trovare espressione nel servizio e nella testimonianza, ispirare fiducia e speranza. Inevitabilmente condurrà a sopportare sofferenze; è aperta all’ecumene, gioiosa e ricca di speranza. Sua fonte e guida è l’azione dello Spirito. È vissuta e ricercata in comunità per gli altri. È un processo continuo di formazione e discepolato. Coloro che vivono nello Spirito Santo sanno aprire i loro cuori per abbracciare l’interezza della creazione di Dio. Si prendono cura della vita umana e dell’esperienza di ogni giorno, così come delle questioni di fondo della vita e della sopravvivenza dell’uomo, della giustizia, della pace, della custodia del creato, ma anche delle religioni umane e delle acquisizioni della cultura. Come ha sostenuto il cardinale Walter Kasper, «la spiritualità sopravvive solo mettendosi in ascolto dei suggerimenti, attese, gioie e fallimenti della vita, e nel riconoscere i segni dei tempi che si rinvengono ogniqualvolta una nuova vita emerge e si sviluppa… Ogniqualvolta la vera vita appare, lo Spirito di Dio è al lavoro». Il suo appello per una spiritualità del quotidiano che abbracci la totalità della vita è stato appoggiato senza riserve dal vescovo ortodosso Kallistos Ware, che ha auspicato «una spiritualità che sappia coinvolgere la vita, in cui non ci sia dicotomia tra il sacro e il profano; una spiritualità non autosufficiente, non specializzata nei suoi propri ambiti, involuta in se stessa, ma al contrario che consideri il mondo come sacramento, che veda ogni essere umano e ogni cosa quali mezzi di comunione con il Dio vivente». Sembra emergere una convergenza ecumenica sul tipo di spiritualità che le Chiese cristiane intendono incarnare nel mondo presente. Si tratta di una spiritualità che riflette l’opera dello Spirito Santo in ogni aspetto dell’esistenza umana. Include la pienezza della vita - profana e sacra, personale e collettiva -, e non semplicemente la relazione dell’io interiore con Dio. Ora, nel mondo post-moderno si verifica una migrazione culturale verso una vita soggettiva. Le soggettività di ciascun individuo (stati di coscienza, memoria, emozioni, passioni, esperienze fisiche, sogni, sentimenti) diventano una, se non l’unica, fonte di significato, senso e autorità. La «vita-come-se» è identificata con la religione e la «vita soggettiva» con la spiritualità. La ricerca per comprendere i fattori sociali che caratterizzano la mutazione culturale verso il soggetto e la preminenza che la spiritualità assume nei confronti della religione deve tener conto anche degli effetti che la cultura consumistica e la mentalità di mercato hanno su ogni aspetto della nostra vita sociale e personale. Per esempio, nelle società moderne è emersa una spiritualità individualista-consumistica che comprende capitalismo, consumismo e individualismo, con un orientamento «post-moderno» che privilegia l’eclettismo, la sperimentazione individualistica, un approccio alle tradizioni religiose del tipo «prendine un po’ e mescola insieme». Questo riduzionismo è favorito dalla stessa nebulosità del termine «spiritualità». Il più delle volte, la spiritualità comporta un ampio ventaglio di emozioni e connotazioni, che nella maggior parte dei casi possono essere identificate solo da una certa comprensione della storia del termine, e anche dall’indagine del suo specifico contesto d’uso. I teologi ortodossi nei loro scritti sulla spiritualità e la vita spirituale si sono concentrati soprattutto sulla presentazione della tradizione esicasta, com’è stata praticata nel monachesimo orientale, e hanno recentemente introdotto un importante correttivo a questa tradizione, recuperando ciò che è chiamato spiritualità eucaristica o sacramentale, che assicura l’aspetto comunionale della vita ortodossa. Tuttavia non impegnano sufficientemente la riflessione sui fattori culturali che influenzano oggi la pratica e la comprensione delle vita spirituale ortodossa. Per padre Alexander Schmemann, la corruzione culturale della spiritualità cristiana è un problema acuto anche per gli ortodossi: «Il nostro è il tempo dell’impostura, della frode 16 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ spirituale… e il pericolo maggiore, la più grande carenza di tutto questo fenomeno è che troppe persone oggi - compresi quelli che appaiono come i più tradizionali “dispensatori” di spiritualità - sembrano considerare la spiritualità una sorta di entità a se stante, pressoché totalmente disconnessa dall’insieme della concezione cristiana e dell’esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo, dalla totalità della fede cristiana. Ho visto la filocalia (l’amore per la bellezza - ndr) letta e praticata in gruppi e circoli i cui insegnamenti esoterici non solo non hanno nulla in comune, ma sono diametralmente opposti alla concezione cristiana del mondo. Così, quando è staccata dalla totalità della fede, persino quella “spiritualità” che ha l’apparenza più tradizionale, più ortodossa, corre sempre il rischio di diventare unilaterale, riduzionista e in questo senso eretica... diventando in altri termini una pseudo-spiritualità». Secondo la definizione del Dizionario ecumenico, la spiritualità è la formazione e lo sviluppo dell’esistenza cristiana nel mondo sotto la guida dello Spirito Santo. I molteplici contesti culturali, i fattori sociali, le idiosincrasie personali e le storie diverse influenzeranno inevitabilmente aspetti diversi di questa viva esperienza della vita cristiana. Ciò colloca la spiritualità in una tensione tra l’unico Spirito Santo che è all’opera ovunque e in tutti, e la molteplicità delle concrete situazioni culturali e sociali e delle forme di vita. Mentre la spiritualità cristiana deve essere fondata nella tradizione biblica e modellata dalle pratiche sacramentali della Chiesa, è necessario accettare lo sviluppo di spiritualità multiple, poiché è possibile vivere l’unica vocazione cristiana in una varietà di forme. La più alta espressione della vita nello Spirito di Dio è l’amore (1Cor 13,13), e così una persona vive in comunione d’amore con Dio e con il mondo. La spiritualità battesimale ed eucaristica, con i suoi forti aspetti ecclesiologici, non è l’unica spiritualità emersa nella Chiesa primitiva o persino quella più eminente che i teologi ortodossi hanno considerato quale unico contributo della tradizione orientale, alla ricerca di una spiritualità ecumenica. John Zizioulas discerne nella Chiesa primitiva due correnti di spiritualità che continuano a coesistere e che non sempre sono compatibili tra loro. Una è identificata con il tipo di spiritualità basato sulla comunità eucaristica, che implica la comunità e il suo orientamento escatologico come fattori decisivi; l’altra corrente è quella tipologia di spiritualità basata sull’esperienza dell’individuo che combatte contro le passioni ed è teso al raggiungimento della perfezione morale: una spiritualità accompagnata dall’unione mistica dell’anima o della mente con il Logos di Dio. La tradizione contemplativa monastica tende a identificare la spiritualità con un’attitudine interiore, personale, influenzata dall’azione dello Spirito Santo e orientata alla sequela di Cristo. Una della principali caratteristiche che differenzia la loro concezione è che nella spiritualità eucaristica l’altro, la creazione e la comunità dei fedeli sono intrinsecamente coinvolti, mentre nella spiritualità contemplativa ciò che ha la priorità è la personale «visione» di Dio. Solo dopo la realizzazione di questa unità, la visione di Dio, una persona illuminata può volgersi con amore verso gli altri. Nella luce della svolta soggettivistica e degli effetti involontari di una cultura consumistica, la spiritualità contemplativa ricevuta e praticata al di fuori dell’assemblea eucaristica corre il rischio di ridurre la vita spirituale cristiana al rafforzamento religioso dell’individualismo, disgiungendo esistenzialmente le «persone spirituali» dalla comunità dei fedeli e dal mondo. Questa critica non deve intendersi come un ripudio della spiritualità contemplativa, ma come la necessità di riconoscerla come un aspetto essenziale della spiritualità cristiana che non può essere disgiunto dall’ethos eucaristico ed evangelico. Proprio questi ultimi completano e danno il giusto contesto agli sforzi ascetici. L’aspetto «interiore» e contemplativo della spiritualità è solo un aspetto della vita spirituale che non può essere distaccato o praticato indipendentemente dalla Chiesa. Lo Spirito rinnova la pienezza del mondo, così come l’aspetto interiore ed esteriore della vita umana. La spiritualità eucaristica, con la sua enfasi escatologica, può in qualche esempio separarsi dalla storia e divenire indifferente alla necessità di manifestare la novità in Cristo attraverso parole e azioni che riflettono lo spirito di ciò che la Chiesa e il cristiano battezzato sono divenuti in 17 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Cristo. La celebrazione escatologica dell’attiva presenza di Dio nel mondo - com’è sperimentata e vissuta nell’Eucaristia -, invece di diventare la base della partecipazione della Chiesa e dell’impegno nella continua opera di Dio per la trasfigurazione del mondo, in qualche caso diventa una giustificazione ideologica per fuggire dalla storia. John Zizioulas ripudia questa corrente e riconosce la necessità per l’ortodossia di trarre implicazioni etiche dall’Eucaristia. L’ortodosso non può accontentarsi di «una bellissima liturgia senza prendersi cura di trarne le conseguenze sociali ed etiche». Un’attitudine simile compromette la missione e l’impegno della Chiesa. Una vita spirituale che riflette l’ethos evangelico, liturgico e patristico della Chiesa dovrebbe riflettere l’inseparabile unità tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo. La vita spirituale è una vita di comunione che riflette l’amore di Dio. Come afferma Olivier Clement, «entrare in Dio significa lasciarsi prendere dall’immenso movimento dell’amore della Trinità che ci rivela l’altra persona come “prossimo” o, meglio, che fa diventare ciascuno di noi il “prossimo” degli altri. E diventare prossimo vuol dire stare dalla parte di Cristo, poiché egli si identifica con ogni essere umano che soffre o viene rifiutato, che è in carcere o ignorato… (Mt 25,35-40)». Karl Rahner afferma che se qualcuno sostenesse che l’amore di Dio è qualcosa che ha avuto luogo isolatamente dagli altri o che è possibile amare Dio pur ignorando il proprio prossimo, non si tratterebbe certamente del messaggio cristiano. Amare gli altri con le loro irriducibili differenze e condividere con loro le risorse e il potere che regolano la vita personale e comunitaria è sempre un «amore difficile». La paura della diversità può portare a violente esplosioni contro gli «altri» e all’esclusione dal nostro spazio vitale. L’antidoto a questa paura è, per san Gregorio di Nissa, la forza dell’amore che lo Spirito Santo riversa su tutti noi. «Quando l’amore perfetto ha vinto la paura, o la paura è stata trasformata in amore, allora tutto ciò che è stato risparmiato sarà una unità che cresce insieme attraverso l’una e unica pienezza, e ognuno sarà, nell’altro, una unità nella perfetta Colomba, lo Spirito Santo». Una persona che vive nella forza dello Spirito Santo è l’incarnazione vivente di tutto ciò che Dio ha creato. Scrive Evagrio Pontico: «Beato è colui che si considera “rifiuto di tutti”. Beato è colui che guarda alla salvezza e al progresso di tutti come se fossero suoi propri, con ogni gioia. Beato è colui che considera tutti gli uomini come Dio, dopo Dio… che da tutti è separato e con tutti è armonicamente unito». Questa apertura e questa filadelfìa (amore per il fratello - ndr) costituiscono l’unico modo per vincere l’individualismo estremo che minaccia oggi l’esistenza umana. La formazione di una spiritualità ecumenica che consideri il mondo come sacramento e veda ogni persona umana e cosa materiale quali mezzi di comunione con il Dio vivente richiede una teologia dello Spirito Santo che riconosca la presenza attiva, di sostegno e trasformazione dello Spirito Santo in ogni essere umano, nella Chiesa e nel mondo. Una vita spirituale improvvisata coltiva il desiderio di essere con Dio senza alcun desiderio di partecipare attivamente all’amore di Dio per il mondo. Una relazione intima con Dio richiede una connessione coerentemente articolata tra misticismo e profezia. * professore di teologia sistematica (da Mondo e Missione, gennaio 2007) 18 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ L’armonia della creazione nella Scrittura S.E. Mons. GIANFRANCO RAVASI GIANFRANCO RAVASI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura . Nell’assemblea del tempio di Gerusalemme si fece silenzio; un solista si alzò e intonò il “Grande Hallel”, la lode a Dio per eccellenza, il Salmo 136: «Lodate il Signore: egli è buono! / I cieli ha fatto con sapienza, / la terra ha stabilito sulle acque, / ha fatto le grandi luci: / il sole a reggere i giorni, / la luna e le stelle a regger la notte!». E il popolo a ogni verso acclamava: Ki le’olam hasdò «perché eterno è il suo amore!». In quella strofa, che avrebbe guidato un rosario di altre strofe dedicate alla storia sacra così da comporre il Credo d’Israele, balenava la prima, indimenticabile pagina della Bibbia, quel celebre capitolo 1 della Genesi, aperto da un lapidario Bereshit bara’ Elohìm, «In principio Dio creò ...». Era, quella della Genesi, una pagina curiosa nella sua ieratica ripetitività. Essa sembra oggi elaborata al computer secondo un complesso schema numerico: 7 giorni nei quali affiorano 8 opere divine scandite in 2 gruppi di 4; 7 formule fisse alla base dell’intera trama del racconto; 7 ritorni del verbo bara’, “creare”; per 35 volte (7x5) risuona il nome di Dio; per 21 volte (7x3) entrano in scena «terra e cielo»; il primo versetto si compone di 7 parole e il secondo di 14 (7x2)... Questa specie di cabala, ritmata sul 7 della settimana liturgica, numero di pienezza, di perfezione e di armonia, era destinata a celebrare lo squarcio che nel silenzio del nulla e nella tenebra del caos compie la parola divina creatrice. Tutta la creazione, infatti, è riassunta in un possente imperativo: «Sia la luce! E la luce fu». Forse il miglior commento a questa riga biblica è nell’oratorio La creazione di Haydn con la sua prodigiosa generazione di un solare Do maggiore che sboccia dal caos di una modulazione infinita di suoni. Per la Bibbia Dio non crea il mondo attraverso una lotta primordiale intradivina, come insegnavano le cosmologie babilonesi per le quali il dio vincitore Marduk faceva a pezzi la divinità negativa Tiamat, componendo con essa l’universo. In tal modo il creato recava in sé necessariamente e definitivamente la stimmata del male e del limite. Per la Bibbia, invece, come dirà l’evangelista Giovanni in quel capolavoro innico che è il prologo al suo vangelo, «in principio c’era la Parola (il Logos)», il Verbo efficace divino. Nella Parola creatrice si concentrano tutti i sensi che Goethe nel Faust cercherà di scovare e distinguere, commentando proprio il versetto giovanneo. Quel Logos è, sì, “Wort-parola”, ma è anche “Kraft-potenza”, “Sinn-significato” e «Tat-atto». L’orizzonte creato è, quindi, contemplato dalla fede ebraico cristiana come un capolavoro delle mani di Dio (il Salmo 8 ricorrerà all’idea di un ricamo o di un cesello usando l’espressione «opera delle dita di Dio»), o meglio, delle sue labbra. È per questo che terra e cielo sono considerati – per usare un’immagine della liturgia sinagogale – come una pergamena distesa sulla quale è iscritto un messaggio rivelato all’uomo. O in forma più suggestiva, potremmo pensare col poeta del Salmo 19 che nel mondo corre una musica silenziosa, una voce afona, un canale d’ascolto che sovrasta la soglia uditiva, eppure esso è aperto e riconoscibile a tutti: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia le opere delle sue mani; il giorno al giorno affida il messaggio, la notte alla notte trasmette notizia, senza discorsi, senza parole, senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra, sino ai confini del mondo la loro parola!». Notte e giorno sono quasi come sentinelle che di postazione in postazione trasmettono un messaggio divino. Nello stesso Salmo 19 è il sole che, come un atleta o un eroe gagliardo, corre la sua orbita quotidiana divenendo quasi un araldo del suo Creatore. Nel libretto del profeta 19 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Baruk si dice che «le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono. Dio le chiama per nome ed esse rispondono: Eccoci! E brillano di gioia per colui che le ha create» (3,34-35). Nell’idillio primaverile dipinto nel Salmo 65, la terra diventa come un manto fiorito e chiazzato di greggi perché in essa è passato col suo cocchio il Signore delle acque e della fecondità e «tutti gridano e cantano di gioia». In modo più freddo e “teorico” il libro della Sapienza, uno scritto biblico sorto forse ad Alessandria d’Egitto alle soglie del cristianesimo, osserverà che «dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (13,5). E in questa stessa linea si muoverà Paolo nel suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani: «Dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute» (1,20). Il creato è, dunque, latore di una rivelazione “cosmica” e “naturale” che non sostituisce ma neppure si oppone a quella “soprannaturale”. Per ricorrere a un gioco di parole, possibile solo in greco,si potrebbe dire col filosofo ebreo alessandrino Filone (I sec. d. C.) che Dio ha composto dei poiemata, cioè delle “opere” che sono anche “poemi”, atti che sono messaggi, realtà che sono parole. Dopo tutto in ebraico un unico vocabolo, dabar, significa contemporaneamente “parola” e “fatto”. L’orizzonte creato per il credente ebreo o cristiano è, sì, un panorama mirabile che può essere contemplato con animo romantico (nella Bibbia ci sono al riguardo pagine emozionanti) ma è soprattutto un “testo”, un bagliore del Creatore, una presenza nascosta ma reale. Come si diceva in una canzone degli ebrei mitteleuropei Chassidim, sorti nel Settecento: «Dovunque io vada, Tu; dovunque io sosti, Tu; solo Tu, ancora Tu, sempre Tu. Cielo; Tu; terra tu. Dovunque mi giro, dovunque ammiro, Tu, solo Tu, ancora Tu, sempre Tu». Questa presenza, però, non significa identità panteistica tra creato e Creatore. Il grande poeta tedesco Hölderlin pensava che la creazione avvenisse come l’emergere dei continenti dal ritrarsi degli oceani: Dio crea, quasi ritirandosi per lasciare spazio alla creatura e, nel caso dell’uomo, per lasciare un varco alla libertà che può diventare anche una sfida a Dio. La concezione ebraico-cristiana della natura comprende, allora, in modo vigoroso il senso del limite e della finitudine. La rappresentazione di questo aspetto negativo è affidata a un simbolo curioso per noi occidentali, quello del mare caotico, metafora del nulla che attenta allo splendore del creato svelandone il limite. L’equilibrio instabile tra essere e nulla è raffigurato, perciò,agli occhi dell’autore sacro dalla battigia del litorale ove corre la frontiera tra il mare, segno del nulla e del male, e la terra. A controllare questa frontiera è, però, Dio stesso che impedisce alla sua creazione – pur limitata e fragile – di dissolversi. È ciò che dichiara con un interrogativo retorico Dio stesso a Giobbe: «Chi serrò tra due battenti il Mare, quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando spezzavo il suo slancio imponendogli confini, spranghe e battenti e gli dicevo: Fin qui tu verrai e non oltre,qui s’abbasserà l’arroganza delle tue onde?» (38,8-11). A questa forza negativa si assocerà anche la potenza oscura della libertà umana che irrompe sul creato (come insegna il capitolo 3 della Genesi), sfasciandone l’armonia col suo peccato di orgoglio e di egoismo e riducendolo a un deserto di “spine e cardi”. Ma la grande attesa non è dominata dall’incubo di una dissoluzione.Paolo, infatti, immagina la creazione come una donna che geme nelle doglie di un parto e l’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, dipinge il mondo futuro come un creato privo del mare-male e del dolore-morte: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più... Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,1.4). 20 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ LA "BELLEZZA"Il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. (Luca 9,29) di Gianfranco Ravasi , Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura GIANFRANCO RAVASI Per 741 volte nell'Antico Testamento risuona un vocabolo simile a un soffio, tòb: il suo significato oscilla tra "buono" e "bello" e questo ci fa comprendere come per la Bibbia bellezza e bontà, estetica ed etica s'intreccino tra loro. Due esempi sono al riguardo emblematici. Da un lato, ecco la creazione: giunto al termine di ognuno dei sei giorni dell'opera creatrice, l'autore sacro osserva che "Dio vide che era tòb", cioè una realtà bella e anche buona (Genesi 1,4). Quando entra in scena l'uomo, si usa il superlativo perché quella creatura è "molto bella/buona" (1,31), vero vertice del creato.D'altro lato, ecco davanti a noi la figura di Cristo: il Vangelo di Giovanni la definisce con un'immagine biblica, quella del pastore. Si è soliti tradurre quella frase così: "Io sono il buon pastore" (Giovanni 10,11.14). In realtà, nell'originale greco si ha: "Io sono il bel (kalòs) pastore", proprio sulla scia del valore dell'aggettivo biblico tob che unisce in sé la bontà e l'amore del pastore Cristo con lo splendore della sua rivelazione che lo circonda quasi di luce, come era accaduto nell'evento della Trasfigurazione (Luca 9,29). Nella Bibbia la bellezza è, quindi, una qualità divina che si riflette nel creato in tutta la sua varietà e ricchezza. Non per nulla l'autore del libro della Sapienza dichiara che "dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per analogia si conosce il loro Autore" (13,5). A essere uno specchio supremo della bellezza di Dio è l'uomo, creato "a sua immagine" (Genesi 1,27).Il Cantico dei cantici, con le sue delicate e appassionate descrizioni dei corpi della donna e dell'uomo in tutto il loro fascino, ne è la testimonianza più esplicita, tenendo però conto del fatto che il corpo nel mondo semitico non è la mera fisicità organica, ma è l'espressione dell'intera realtà della persona, anche nella sua interiorità. Questa unione fra spirito e corporeità fa comprendere come la bellezza si debba incrociare con la limpidità della coscienza, conla luce dell'anima. In caso contrario si ha solamente una dimensione esteriore, perché "falsa è la grazia e vana è la bellezza, è la donna sapiente da lodare" (Proverbi 31,30). Si comprendono, allora, certi giudizi pesanti della tradizione popolare come questo, registrato sempre dal libro dei Proverbi: "Anello d'oro al muso di un maiale, così è una donna bella ma senza cervello" (11,22).La bellezza, poi, ha una sua manifestazione particolare nel testo stesso delle Scritture. Esse, infatti, costituiscono un vero e proprio monumento letterario. Si hanno, così, pagine poetiche di straordinaria fragranza e intensità, come nel caso di Giobbe o del Cantico o di alcuni Salmi; si offre un arsenale di immagini e di simboli che hanno conquistato l'arte dei secoli successivi; la pagina biblica si impreziosisce di racconti di forte impatto e di parabole incantevoli come le 35 narrate da Gesù (72, se si allarga il discorso pure ai paragoni più sviluppati e alle similitudini più ampie). Perciò l'invito che viene rivolto anche a noi è quello di "cantare Dio con arte" (Salmo 47,8) perché la via pulchritudinis, la "via della bellezza" autentica, è una strada privilegiata per raggiungere il Dio della bellezza. LE PAROLE PER CAPIRE TRASFIGURAZIONE - Nel greco dei Vangeli l'esperienza vissuta da Gesù e dai tre apostoli testimoni sul 'monte alto" della Galilea e comunemente detta "Trasfigurazione" èespressa col 21 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ verbo metamorfoun, donde il vocabolo "metamorfosi" (Matteo 17,2; Marco 9,2). È letteralmente un "cambiare forma" che rende Gesù già simile al Risorto, glorificato e immerso nella luce, segno del divino e del mistero. TENDA - Era la tradizionale "casa" del nomade, costituita da un telo o da pelli cucite (sovente si usavano tessuti con peli di capra). La vita che si svolgeva attorno e nella tenda è spesso descritta nella Bibbia (ad esempio, Genesi 18) e questo manufatto diventa anche un simbolo del corpo e della vita umana (2 Corinzi5,1-4). La "tenda del convegno" è, invece, il santuario mobile degli Ebrei nel cammino esodico nel deserto e la sua descrizione accurata è presente in Esodo 25-30 e 35-40. 22 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ L’AMBIENTE NEL COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE CATTOLICA a cura di Simone Morandini Il tema ambientale è entrato ormai tra le grandi questioni che segnano in profondità la condizione umana nel tempo della globalizzazione. Le nostre esistenze sono toccate direttamente dagli effetti dell ’inquinamento urbano locale, come dal mutamento climatico planetario – che almeno in parte è senz’altro di origine antropica – mentre il problema della gestione rifiuti è venuto ad occupare uno spazio centrale nell’agenda politica di molte amministrazioni. Non stupisce, allora, che di fronte alla proposta di grandi opere dal forte impatto ambientale (TAV, MOSE …), sempre più spesso vi siano reazioni di forte perplessità e di protesta. Aldilà delle valutazioni che se ne dovranno dare nei singoli casi – anche differenziate non c’è dubbio che esse rivelino la preoccupazione nostro legame alla terra, della necessità di tutelarne le dinamiche di fronte ad un ’azione umana sempre più pervasiva nelle sue capacità di trasformare il mondo naturale. Le Chiese nell’Antropocene Particolarmente appropriata appare, in questo senso, l’espressione del premio Nobel per la Chimica Crutzen, che parla del nostro tempo come dell’”Antropocene” – l’era nella quale gli esseri umani sono divenuti i principali fattori delle dinamiche biofisiche planetarie. E, d ’altra parte, questioni come la fame, la disponibilità d’acqua, le migrazioni – così determinanti per le esistenze di uomini e donne si trovano sempre più spesso a dipendere dalle dinamiche dell’ambiente globale. L’ampiezza della questione e la varietà delle sue dimensioni aiuta a comprendere la crescente attenzione accordatale dalle diverse comunità ecclesiali, espressione di una preoccupazione per una terra che è lo spazio donato da Dio all ’uomo,perché lo abiti e se ne prenda cura. È un dato già evidente in un piccolo testo, che risale ad una dozzina di anni fa ’: in parallelo al Summit per la Terra svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992 il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) aveva promosso a Baixada Fluminense (Brasile) un incontro ecumenico di preghiera e di riflessione anch ’esso dedicato ai temi ecologici. Al termine i partecipanti hanno stilato una “Lettera alle chiese ”, che ancora oggi, a più di dieci anni di distanza, conserva tutta la sua attualità; essa inizia così: Cari sorelle e fratelli, vi scriviamo con un senso di urgenza. La terra è in pericolo . La nostra sola casa è minacciata. Siamo sul precipizio della distruzione. Per la prima volta nella storia della creazione, l’azione umana sta distruggendo alcuni sistemi di supporto alla vita del pianeta [1]. Questo semplice incipit ci presenta efficacemente una dimensione che ormai caratterizza quasi tutti i numerosi documenti ecclesiali sull ’ambiente usciti in questi ultimi anni. È la percezione di una condizione critica, che nella quindicina d’anni trascorsi dal Summit di Rio non è certo migliorata, ma appare, anzi, trasformata in una dinamica globale che rischia di erodere le stesse basi biologiche della vita. Così anche la Convocazione Ecumenica promossa dallo stesso CEC a Seul nel 1990 richiamava tale esigenza tramite l’immagine del diluvio incombente, figura di una minaccia alla vita portata da un sistema in cui si intrecciano ingiustizia economica, conflittualità diffusa e distruzione dell ’ambiente naturale. La preoccupazione per l ’ecosistema planetario si intreccia qui con quella per le esistenze dei meno favoriti, che dal degrado ambientale sono i primi ad essere colpiti: il grido della Terra viene colto nel suo intreccio con quello dei poveri, secondo la bella espressione di Leonardo Boff[2]. L’esigenza di un ’attenzione ecologica non può essere, dunque, disgiunta da quella per la giustizia: l ’integrità del creato è caratterizzata da una dimensione ecologica, ma anche da una sociale. Anche in ambito cattolico sono ormai davvero numerosi gli interventi che hanno espresso preoccupazione in questo senso, sia da parte di diverse Conferenze Episcopali (tra le altre quelle statunitense, tedesca, francese, australiana, brasiliana), che nel Magistero di Giovanni Paolo II (si pensi, in particolare, al 23 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace del 1990, “Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato”). La percezione della negatività presente si accompagna sempre in tali interventi all’accentuazione di un cambiamento possibile, che la stessa fede cristiana rende drammaticamente necessario. È la stessa realtà che veniva così delineata dai partecipanti all’incontro di Baixada Fluminense: Gli esseri umani sono creati in vista della comunione con Dio e con tutte le realtà viventi e non viventi. Nell’esempio di Gesù noi vediamo uno stile di vita caratterizzato da semplicità, umiltà ed apertura alla natura. [3] La presa di distanza dall’ideologia del dominio che caratterizza la modernità si accompagna qui all’indicazione di una prospettiva positiva, comunionale, cui credo la tradizione cristiana possa offrire alcuni riferimenti significativi. Il Compendio La stessa preoccupazione emerge con chiarezza nel Compendio della Dottrina Sociale Cattolica[4] (CDSC), riferimento autorevole per la riflessione etico sociale elaborata nell ’ambito della comunità cattolica. Chi lo confrontasse con altri testi che hanno presentato esposizioni sintetiche della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica[5] (DSC), rileverebbe, tra gli elementi più fortemente innovativi, proprio la corposa attenzione dedicata ai temi ambientali. La novità del tema appare particolarmente evidente se si analizzano i riferimenti magisteriali indicati in nota: a parte alcune citazioni di testi conciliari e un paio di Paolo VI, per il resto vengono richiamati soprattutto testi legati al pontificato di Giovanni Paolo II [6]. È un elemento che differenzia sensibilmente la relativa sezione da altre, che vedono i riferimenti spaziare sull’intero corpus della DSC, ma anche su momenti anteriori della tradizione e della teologia. La novità del tema, però, non implica in alcun modo una sua sottovalutazione all ’interno del testo. Al contrario, esso spende parole forti per sottolineare la rilevanza della “crisi nel rapporto tra uomo e ambiente ”, in relazione alla quale chiama ad “una comune responsabilità ”[7]. Se il decimo capitolo “Salvaguardare l’ambiente ” si articola su quasi venti pagine[8], una sua corretta lettura non può prescindere dall ’ampia rete di riferimenti ai temi ambientali che attraversa l ’intero testo. Recependo un dibattito che attraversa ormai l’etica teologica e la teologia fondamentale[9], il CDSC disegna, così, un quadro ampio, che va dalla nozione di creazione a quelle di bene comune e di globalizzazione, fino all ’azione delle imprese ed al rinnovamento degli stili di vita [10]. Cercheremo in queste pagine di evidenziarne le coordinate fondamentali Homo responsabilis Ad una lettura veloce si potrebbe restare delusi dalla mancanza di riferimenti ai temi ambientali all’interno di quel capitolo quarto in cui vengono presentati “I principi della Dottrina Sociale della Chiesa ”. Tale assenza, però, non riduce affatto il tema a mera questione applicativa, priva di spessore etico e teologico. In realtà, anzi, la pratica di salvaguardia ambientale ha nel CDSC una forte fondazione antropologica e teologica, che proprio per questo va ricercata ancor più a monte nella struttura del testo. Ricostruire tale quadro di riferimento esige, infatti, di risalire fino al primo capitolo – dedicato a “Il disegno di amore di Dio per l’umanità”, laddove esso evidenzia come “l’uomo e la donna, creati a Sua immagine, sono perciò stesso chiamati ad essere il segno visibile e lo strumento efficace della gratuità divina nel giardino in cui Dio li ha posti come coltivatori e custodi dei beni del creato ” (26). Il disegno divino prevede, cioè, una “relazione armoniosa tra gli uomini e le altre creature”, la cui rottura viene esplicitamente indicata tra le conseguenze del peccato (27). Ulteriori indicazioni vengono dal terzo capitolo, dedicato “La persona umana e i suoi diritti ”, dove troviamo il fondamentale n.113, dedicato ai rapporti tra la persona umana e le altre creature. Ivi si afferma che la signoria umana sul mondo “richiede l’esercizio della responsabilità, non è una libertà di sfruttamento arbitrario ed egoistico ”. Infatti, poiché tutta la creazione “ha il valore di ‘cosa buona ’ davanti allo sguardo di Dio”, “l’uomo deve scoprirne e rispettarne il valore ”, contemplandone la verità per giungere a stabilire con le cose “un rapporto di responsabilità ”. 24 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Tale orizzonte caratterizzato dal rapporto e dalla relazionalità verrà ulteriormente esplicitata nella riflessione sull ’unità della famiglia umana: “l’essere umano non è stato creato isolato, ma all ’interno di un contesto ” umano ed ambientale, che garantisce le condizioni per la sua esistenza, e tali condizioni sono esse stesse oggetto della benedizione divina (428). Non stupisce, allora, che la stessa nozione di bene comune veda inclusa tra le sue componenti la salvaguardia dell’ambiente (166), né che si giunga ad affermare che “il bene comune della società non è un fine a sé stante ”, ma deve sempre essere posto in relazione con la persona e con “il bene comune universale dell ’intera creazione ” (170). La posizione privilegiata dell ’essere umano nella creazione – tradizionale per la DSC –viene letta, insomma, qui in modo articolato, nel segno di una relazionalità responsabile ad ampio raggio. Quella che si disegna è, insomma, una vera e propria antropologia teologica della responsabilità per il creato, che verrà articolata in forme anche più ampie nel capitolo decimo, esplicitamente dedicato al tema. Là, infatti, si sottolineerà come la fede di Israele sperimenti il mondo “non come un ambiente ostile o un male da cui liberarsi, ma piuttosto come il dono stesso di Dio, il luogo e il progetto che Egli affida alla responsabile guida e all ’operosità dell ’uomo” (451), come il “giardino” donato da Dio “affinchè sia coltivato e custodito ” (452). Lo stesso Gesù viene presentato come colui che valorizza gli elementi naturali, come “sapiente interprete della natura ” (453); nella sua Pasqua “la natura stessa partecipa al dramma del Figlio di Dio rifiutato e alla vittoria della Risurrezione” (454). In Lui, dunque, “è avvenuta la riconciliazione dell’uomo e del mondo ”: lo stesso Verbo, per mezzo del quale la natura era stata creata, ne opera anche la riconciliazione con Dio (454). Lo specifico legame col Creatore dell ’uomo e della donna, fatti a sua immagine, viene così a declinarsi per essi come “responsabilità di tutto il creato ”, come “compito di tutelarne l’armonia e lo sviluppo ” (451). L’azione umana nel cosmo Su questa base il CDSC può presentare – appoggiandosi ampiamente alla Gaudium et Spes – una positiva valutazione dell ’operare umano nel cosmo, come della scienza e della tecnica tramite il quale esso si realizza, permettendo significativi miglioramenti della qualità della vita (457). Proprio tale crescita del potere umano sul cosmo, però, accresce anche la responsabilità (457); non a caso lo stesso capitolo VI, dedicato al “lavoro umano”, si apre con una sezione dedicata al compito di “coltivare e custodire la terra ” (255259), mentre poco più avanti si sottolinea come l ’uomo non sia “il padrone ” dell’universo, ma “il fiduciario, chiamato a riflettere nel proprio operare l ’impronta di Colui del quale egli è immagine” (275). In questo senso il CDSC valorizza pure l ’affermazione della Centesimus Annus che ogni operare umano si svolge sempre sulla base della “prima originaria donazione delle cose da parte di Dio ” (460). È ad essa che si rifanno le affermazioni più specifiche: ogni azione umana deve esprimere un “rispetto dell’uomo,che deve accompagnarsi ad un doveroso atteggiamento di rispetto nei confronti delle altre creature viventi ” (459). Quando l’uomo “interviene sulla natura senza abusarne e senza danneggiarla ”, realizza la sua vocazione regale di collaboratore all ’opera divina, ma se dispone arbitrariamente della terra, rischia di sostituirsi a Dio, provocando la ribellione della terra (460). Lo stesso chiaro apprezzamento espresso per le applicazioni della scienza e della tecnica all’ambiente naturale ed all ’agricoltura si accompagna al richiamo alla prudenza e ad un attento discernimento della varie forme di tecnologia applicata (458), sapendo che talvolta gli interventi in talune aree dell’ecosistema possono avere impatti rilevanti in altre aree e sulle future generazioni (459). Proprio la prudenza – che non a caso la tradizione cristiana conosce come virtù cardinale – è l’atteggiamento dominante anche in quelle pagine che la IV sezione del capitolo dedica specificamente alle problematiche etiche legate alle biotecnologie (472 480), cui peraltro, fanno pure riferimento più o meno diretto altri numeri. A fronte di una valutazione di principio positiva circa gli interventi dell’uomo sulla natura (inclusi quelli biotecnologici), si sottolinea qui la possibilità di “notevoli ripercussioni a lungo termine ”, che non consente di agire in quest ’ambito “con leggerezza e irresponsabilità ” (473). Tra l ’altro, l’inquietudine viene accresciuta dall ’inadeguatezza delle conoscenze in materia, che spesso non consente di misurare fino in fondo “i turbamenti indotti in natura da una indiscriminata manipolazione genetica”[11] (459). In questo campo, insomma, politici, legislatori e pubblici amministratori sono chiamati a prendere le decisioni “più convenienti per il bene comune ”, che 25 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ non potranno essere dettate da “pressioni provenienti da interessi di parte ” (479). C’è, dunque, l’esigenza di prendere decisioni difficili in condizioni di incertezza scientifica e in presenza di rischi; proprio questo è il contesto nel quale – solo poche pagine prima il CDSC aveva richiamato il “principio di precauzione ” (469). Esso non viene presentato “come una regola da applicare ”, ma come “un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza ”: ogni decisione deve essere presa in modo per quanto possibile trasparente e deve essere “provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte ” (469). Si tratta, cioè, di un istanza cautelativa, che si affianca peraltro anche all ’esigenza di “promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze più approfondite ” (469). Nella crisi, oltre la crisi Tali indicazioni di quadro costituiscono il contesto nel quale il CDSC parla – ed in modo molto chiaro di una crisi ecologica, che è globale e come tale va affrontata globalmente (466). Tra le sue dimensioni esso richiama la minaccia che tocca la biodiversità (466) in particolare quella che si realizza in aree critiche come la foresta amazzonica ma anche la desertificazione (466, 482), l ’erosione del suolo (482), i cambiamenti climatici, le complesse problematiche relative alla risorse energetiche (470) ed all ’acqua (484). In generale, riprendendo Giovanni Paolo II, si rileva una tendenza alla “conquista ” ed allo “sfruttamento ” delle risorse, che “è diventato predominante e invasivo ed è giunto minacciare la stessa capacità ospitale dell ’ambiente ” (461). Certo, la minaccia che pesa sulla casa della vita non mette in discussione la speranza credente: la fede sa bene di potersi “volgere con fiducia al futuro, grazie alla promessa e all ’alleanza che Dio rinnova continuamente ” (451), ma ciò non la esime da una riflessione attenta, né da una pratica rinnovata. La crisi ambientale, infatti, nasce dalla pretesa di “esercitare un dominio incondizionato sulle cose ” (461), da parte di un uomo incurante di considerazioni di ordine morale – un’espressione di quel peccato che viene descritto come il tentativo umano di “forzare il suo limite di creatura ” (115). È una realtà che si manifesta nel tempo della modernità, caratterizzato da una tendenza alla libera manipolazione della natura, come se essa offrisse quantità infinite di materie prime e risorse, sempre rigenerabili. Essa non va vista, comunque, come una diretta conseguenza della scienza e della tecnica, ma piuttosto come espressione di “un’ideologia scientista e tecnocratica ” (462). Al contrario, laddove “prevalga l ’etica del rispetto per la vita e la dignità dell ’uomo, per i diritti delle generazioni umane presenti e di quelle che verranno ”, allora il rapporto tra scienza ed ambiente può declinarsi in senso positivo: “la tecnologia che inquina può anche disinquinare, la produzione che accumula può anche distribuire equamente ” (465). Per guardare oltre la crisi ambientale, allora, è essenziale ritrovare una concezione equilibrata della natura, lontana da divinizzazioni che dimenticherebbero la “differenza assiologica e ontologica tra l ’uomo e gli altri esseri viventi ” (463), ma anche da una sua completa secolarizzazione. La fede cristiana – memore dell’esperienza francescana e benedettina riconosce, invece, “nelle creature che circondano l ’uomo altrettanti doni di Dio da coltivare e custodire con senso di gratitudine verso il Creatore ”, testimoniando di “una sorta di parentela dell ’uomo con l’ambiente creaturale ” (464). È una prospettiva che sembra tornare attuale nell’attenzione per la relazione vitale di armonia che “i popoli indigeni hanno con la loro terra e le sue risorse ”, nella quale si esprime “una dimensione fondamentale della loro identità ” (471). La loro esperienza è insostituibile per tutta l ’umanità ed anche per questo i loro diritti “devono essere opportunamente tutelati” (471). In questo quadro appare pure in tutta la sua rilevanza il principio di solidarietà fra le generazioni, che interpella quelle presenti da parte di quelle future (467). Si tratta di un ’indicazione di ampia rilevanza, analizzata anche in relazione ad altre questioni, ma che va applicato soprattutto “nel campo delle risorse della terra e della salvaguardia del creato, reso particolarmente delicato dalla globalizzazione, la quale riguarda tutto il pianeta, inteso come un unico ecosistema ” (367) [12]. Articolare la responsabilità L’ambiente è, dunque un bene globale, collettivo, la cui tutela costituisce una sfida per l’umanità intera – per la Comunità internazionale, come per i singoli Stati (468) – che si articola su diverse dimensioni. 26 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Un primo elemento è l ’esigenza che esso trovi “una traduzione adeguata a livello giuridico”: c’è un fondamentale “diritto ad un ambiente sano e sicuro”, in cui i cittadini non siano esposti ad agenti tossici ed inquinanti. (468). Tale diritto si tradurrà, dunque, in azioni volte a disciplinare l’uso delle risorse ambientali ed a fissare “sanzioni per coloro che inquinano ”, anche se il suo contenuto potrà, in effetti, emergere solo tramite una “graduale elaborazione ” (468). Accanto alla dimensione giuridica, per la salvaguardia dell ’ambiente fondamentale è quella economica e numerosi sono qui i rimandi al capitolo VI, dedicato al lavoro umano. “Le risorse naturali sono limitate e alcune non sono rinnovabili ” (470) e ’, quindi, le esigenze dello sviluppo devono tener conto anche dei costi ambientali (470), per realizzare una “complementarietà ( …) tra la crescita economica e la compatibilità ambientale dello sviluppo ” (319). Tale prospettiva, però, non potrebbe “essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici ”: “l’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere adeguatamente ” (470). Né l ’impresa può limitarsi al perseguimento del profitto: la sua vocazione include anche il dovere di “tendere ad un’’ecologia sociale’ del lavoro e contribuire al bene comune anche mediante la salvaguardia dell ’ambiente ” (340). Un particolare impegno della ricerca scientifica viene poi auspicato in relazione alle risorse energetiche: occorrerà continuare a cercare di “identificare nuove fonti energetiche ” ed a “sviluppare quelle alternative ”; per quanto riguarda l ’energia nucleare, invece, si sottolinea soprattutto l ’esigenza di “elevare i livelli di sicurezza ” (470) Per nuovi stili di vita: ambiente e solidarietà Ma accanto a responsabilità che competono a soggetti specifici per la loro attività professionale o per ruoli pubblici che essi eventualmente rivestano, ve ne sono altre che interesano tutti, semplicemente in quanto consumatori. Gli ultimi due numeri del capitolo decimo invitano, infatti, ad “un effettivo cambiamento di mentalità, che induca ad adottare nuovi stili di vita ”, in cui una solidarietà a dimensione mondiale ed una forte responsabilità ecologica giungano a determinare “le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti” (486). “Sobrietà”, “temperanza “ ed “autodisciplina ”, sul piano personale e sociale appariranno così come l’espressione di una “ricerca del vero, del bello e del buono ” (486). Tali pratiche potranno a loro volta essere sostenute nei credenti da un fondamentale atteggiamento gratitudine di riconoscenza nei confronti di Dio, cui lo stesso mondo creato rinvia, offrendosi “allo sguardo dell ’uomo come traccia di Dio, luogo nel quale si disvela la sua potenza creatrice, provvidente e redentrice” (487). In nuovi stili di vita, espressivi di una “rinnovata consapevolezza che lega tra loro tutti gli abitanti della terra ” (486), può pure trovare concretezza per l’esistenza di ognuno quel nesso tra salvaguardia del creato e solidarietà [13] che costituisce uno degli assi portanti del capitolo; su di esso è opportuno soffermarsi al termine di questa esposizione. Il principio dell’universale destinazione dei beni della terra (ampiamente esplorato nei nn.171184) viene, infatti, qui sviluppato nella sua rilevanza per i beni ambientali, che vanno essi stessi “condivisi secondo giustizia e carità” (481). C’è un nesso stretto e bidirezionale tra “crisi ambientale e povertà ”: da un lato, il degrado ambientale colpisce in primo luogo i poveri, sia perché più esposti ad esso, sia perché meno dotati di risorse sufficienti a farvi fronte (482). D’altra parte, per molti paesi penalizzati da scarsità di capitali e dall ’onere del debito estero, “la fame e la povertà rendono quasi inevitabile uno sfruttamento eccessivo ed intensivo dell ’ambiente (482). Un’attenzione specifica in quest ’ambito viene rivolta all ’acqua, simbolo di vita, risorsa necessaria alla vita stessa e pertanto “diritto di tutti ” (484). Il diritto all’acqua va considerato “universale ed inalienabile ”, basato “sulla stessa dignità umana ” ed irriducibile a valutazioni quantitative di tipo puramente economico (485). Per questo, anche quando la sua gestione venga affidata a privati, l ’acqua deve restare bene pubblico, da utilizzare in forme assieme razionali e solidali (485): è l’esigenza della giustizia che trova applicazione anche per le risorse ambientali. La forte percezione del nesso tra sviluppo, ambiente e povertà che caratterizza il CDSC non potrà, comunque essere utilizzata “come pretesto per scelte politiche ed economiche poco conformi alla dignità della persona umana (483) ”. Il testo sottolinea, infatti, che “una politica demografica” può essere soltanto “parte di una strategia di sviluppo globale ”, che potrà effettivamente realizzarsi solo se sarà “rivolto al bene autentico di ogni persona e dell ’intera persona ” (483). 27 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Conclusione Abbiamo cercato in queste pagine di mettere in evidenza l ’ampiezza e l ’articolazione etica e teologica che caratterizza la proposta del CDSC in materia di ambiente, testimonianza dell ’attenzione riservata ad un tema di cui si riconosce la rilevanza e lo spessore. Si evidenzia anche in questo la capacità della DSC di affrontare temi nuovi, la fecondità di un pensiero che sa attingere alla Scrittura ed alla Tradizione per leggere, interpretare e pensare i segni dei tempi nel loro delinearsi [14]. Ovviamente le soluzioni proposte per le specifiche questioni ambientali – come la loro stessa descrizione sul piano linguistico risultano spesso convergenti con quanto emerge dalle diverse etiche ambientali di diversa matrice: non sembra che il CDSC voglia disegnare un’”ecologia cristiana” distinta e contrapposta alle pratiche proposte in altre sedi. Ciò che è qui specifico è, piuttosto, il loro inserimento in un contesto concettuale che valorizza la dimensione del mondo come creazione buona, come terra donata a da Dio all’uomo perché possa abitarvi. Eccettuate alcune questioni, in generale sembra di dover affermare che, più che diverse indicazioni etiche, insomma, emergono piuttosto diversi orizzonti di senso in cui esse si collocano. Emerge una spiritualità della creazione, che arricchisce il nostro rapporto con la terra, trasformandone la nostra percezione ed il nostro vissuto. L’invito, che ci viene dallo stesso Giovanni Paolo II, è, insomma, ad una radicale “conversione ecologica”, ad una trasformazione del cuore e della mente, capace di discernere ciò che è buono e gradito a Dio anche nel rapporto con la sua creazione. Nel CDSC ci troviamo così chiamati ad operare come custodi e coltivatori del creato; ad essere segni e testimoni della gratuità divina al suo interno, promuovendo una relazione armoniosa con la terra. Ci troviamo convocati come responsabili del bene comune della creazione, in una solidarietà che interessa tutti i popoli della terra, come le generazioni future. Alla varietà delle dimensioni della questione ambientale ed alla sua complessità corrisponde, tra l ’altro, una puntuale articolazione della responsabilità. Si intrecciano qui principi come quello di solidarietà (evocativo della dimensione globale del tema), sussidiarietà (una responsabilità che coinvolge i diversi livelli di gestione dell’autorità), giustizia (i beni ambientali, come i danni ed i rischi derivanti dalla mala gestione dell’ambiente vanno ripartiti equamente). Ci troviamo, infine, invitati a “riscoprire la natura nella sua dimensione di creatura”, stabilendo con essa “un rapporto comunicativo” e cogliendone “il significato evocativo e simbolico”, fino a penetrare nel suo mistero, volgendo lo sguardo verso Dio (487). La creazione è il primo grande dono attraverso il quale Dio comunica se stesso alle sue creature; è il luogo dell ’incarnazione del Figlio, che egli viene a rinnovare nell’attesa della piena liberazione della sofferenza che oggi la permea; è lo spazio in cui soffia lo Spirito divino, colui che è “Signore e da la vita”. In una pratica davvero attenta alla cura per il creato diamo espressione ad una dimensione importante della nostra fede, corrispondendo con la nostra esistenza a tale dono, che ci permette di esistere. Note [1] Letter to the Churches. Baixada Fluminense, Brasile, Pentecoste 1992, in W.GranbergMichaelson, Redeeming the Creation. The Rio Earth Summit: Challenges to the Churches, WCC, Ginevra 1992, pp.7073, qui p. 70. [2] L.Boff, Grido della terra, grido dei poveri. Per un ’ecologia cosmica , Cittadella, Assisi 1996; Id., Il creato in una carezza. Verso un’etica universale: prendersi cura della Terra , Cittadella, Assisi 2000; Id., La voce dell’arcobaleno. Per un’etica planetaria ed una spiritualità ecologica , Cittadella, Assisi 2000. [3] Rapporto del gruppo di lavoro teologico tenutosi durante l ’incontro ecumenico parallelo al Summit ONU di Rio del 1992: Theology, in W.GranbergMichaelson, Redeeming the Creation. The Rio Earth Summit:Challenges to the Churches , WCC, Ginevra 1992, pp.7476, qui p.75. [4] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa , Libreria Editrice Vaticana 2004. I riferimenti utilizzano la numerazione interna dei paragrafi. [5] Pensiamo, in particolare, al testo della Congregazione per l ’Educazione Cattolica su Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale nella formazione sacerdotale del 30 dicembre 1988. [6] Per una presentazione del Magistero di Giovanni Paolo II in materia di ambiente si veda A.Giordano, S.Morandini, P.Tarchi, La creazione in dono. Giovanni Paolo II e l’ambiente, EMI, Bologna 2005. [7] Sono i titoli delle sezioni III (461465) e IV (466487) del capitolo decimo dedicato alla salvaguardia ambientale. [8] Si pensi che uno spazio equivalente è dedicato a “La promozione della pace” (cap. XI), mentre di poco più ampi sono capitoli dedicati ad altri due temi classici della DSC come “La vita economica” (cap. VII) o “La comunità politica” (cap. VII), che non raggiungono le trenta pagine. 28 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ [9] Ho cercato di offrirne una presentazione d ’assieme in S. Morandini, Teologia ed ecologia, Morcelliana, Brescia 2005. [10] Significativi rimandi sono presenti, tra l ’altro – oltreché nella voce “Ambiente” dell’indice analitico – anche in quelle dedicate a “Attività umana”, “Bene comune”, “Benessere”, Biotecnologie”, Collettività”, 29 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Caritas Italiana Responsabilità per l’ambiente. Gesti di amore per il cielo e per la terra - Campobasso, 23-25 aprile 2004 Il creato in prospettiva cristiana Simone Morandini Progetto Etico e Politiche Ambientali – Fondazione Lanza Nella modernità Alle origini del progetto moderno la natura compare soprattutto come oggetto della ricerca scientifica e della pratica tecnica; per Bacone si tratta di conseguire quella conoscenza che essa sembra rifiutarci e che occorre strapparle costringendola – quasi torturandola – con la pratica sperimentale. Grazie ad essa, infatti, l’umanità potrebbe recuperare quella sapienza e quel potere che Dio aveva donato ad Adamo e che egli aveva perso a ausa del peccato. Anche in Cartesio troviamo una tendenza analoga, che coglie la natura nella forma della res extensa - ben distinta da quella res cogitans che è tipica dell’essere umano – sostanzialmente interpretabile nella forma della macchina (cui, non casualmente verrà associato più tardi un “Dio orologiaio”). Per il filosofo francese persino gli animali andranno colti secondo questa prospettiva – anche se naturalmente occorrerà tener conto che si tratta di macchine create da Dio e, quindi, ben più perfette di quelle costruite dagli esseri umani. Comunque sia, si tratta di oggetti, ai quali, nonostante le apparenze, sarebbe sbagliato ric onoscere sentimenti e persino la capacità di provare dolore; nessuna empatia, nessuna compassione nei loro confronti. Anche nel tempo che abitiamo - in una modernità ben più tarda, caratterizzata da un’attenzione assai più forte per la natura - non è certo il linguaggio dell’amore che viene utilizzato nei suoi confronti. La natura compare in primo luogo come oggetto di responsabilità –pensiamo a H.Jonas1i - nei confronti del quale occorre sì agire per preservarne l’esistenza, ma soprattutto in vista della perpetuazione del nostro esistere di essere umani. La stessa nozione di sostenibilità, cui fanno abitualmente riferimento i documenti dei grandi organismi internazionali lega l’esigenza di una compatibilità ambientale dello sviluppo soprattutto all’istanza di soddisfazione di bisogni umani. Certo, il riferimento alle generazioni future strappa tale prospettiva a quell’utilitarismo cui uno sguardo superficiale potrebbe collegarla, ma indubbiamente essa resta ben al di sotto di ciò che nel linguaggio credente chiamiamo amore. Per la modernità, nelle sue diverse declinazioni, insomma, l’amore è soprattutto un sentimento interumano, che sembra difficile indirizzare ad altre realtà. La tradizione kantiana, con la sua distinzione del regno dei fini rispetto al mondo naturale, costituisce forse la formulazione più rigorosa di tale prospettiva, che rischia, però, di scavare un abisso tra gli esseri umani e le altre creature. Una teologia senza creazione? Del resto, occorre riconoscere che nel secolo appena concluso anche la teologia occidentale si è lasciata influenzare – sia pur in forma assai meno estremizzata – da tale orizzonteii. Pensiamo alla teologia dialettica di Barth e Bultmann, alla svolta antropologica della teologia cattolica post-conciliare, al pensiero della secolarizzazione, alla stessa teologia della liberazione – almeno nella sue prime versioni. Prospettive assai diverse, ma accomunate dalla sottolineatura teologica delle relazioni tra i soggetti personali, ben distinti da quelle che intratteniamo con gli oggetti, con le cose. In quest’ottica, dunque, solo gli uomini e Dio sono rilevanti per la storia della salvezza (con l’eventuale aggiunta delle donne); la creazione è come una sorta di orizzonte, uno sfondo che non merita di essere pensato teologicamente. Anche un biblista di grande valore come Von Rad poteva vedere in tale elemento della fede un dato secondario del credo israelitico, un inserimento tardivo e debolmente legato al nocciolo del messaggio biblicoiii. 30 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ È chiaro che in quest’orizzonte l’etica, anche nelle sue versioni più stimolanti, potrà caratterizzarsi per l’attenzione alla giustizia ed alla pace - alle relazioni interumane – ma difficilmente potrà esprimere un’efficace attenzione per il creato. Ce ne dà testimonianza, ad esempio, un testo elaborato nell’ambito della Conferenza mondiale su “Chiesa e Società” promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese nel 19664iv. Analizzando l’impatto rivoluzionario della tecnica sulla natura, esso si chiede se Dio dia all’uomo la vocazione di «controllare e sottomettere il mondo», se cioè lo ponga a sua piena disposizione. La risposta è chiara: «Sì.Anzi, Dio non pone limiti al dominio o controllo da parte dell’uomo sulla natura, se non che esso deve essere realizzato sotto la signoria di Dio (…). L’uomo è responsabile della sua gestione della natura per rendere possibile una vita umana più piena per tutti; in tal modo egli recupera quel destino originale datogli da Dio per cui Cristo è morto e risorto»5v. Il riferimento quasi-formale alla signoria di Dio ed alla vocazione in Cristo non limita sostanzialmente il dominio tecnico della terra, ma richiama solo l’esigenza di una sua finalizzazione alla giustizia interumana ed alla solidarietà. Certo, si tratta di un elemento importante, ma occorre chiedersi se esso sia davvero sufficiente a promuovere un sistema di relazioni giuste sulla terra. Non stupisce davvero che in quegli anni abbia avuto un’accoglienza così ampia il saggio dello storico americano L.White, che individuava proprio nel cristianesimo l’autentica radice della crisi ecologica – una tesi , peraltro, che oggi apparirebbe ben più difficile sostenerevi. Diversi percorsi Va, comunque sottolineato che anche il primo ‘900 teologico aveva conosciuto figure ben diverse; pensiamo ad un testimone come A.Schweitzer, con la sua profonda reverenza per la vita in tutte le sue forme, ma anche col suo sconcerto davanti alla violenza che attraversa la creazione. Pensiamo a Teilhard de Chardin con la sua percezione di una densità pulsante della materia, tutta protesa verso il suo compimento nell’Omega cristologico. Occorre, però, anche riconoscere che si è trattato di figure che per molti decenni sono rimaste isolate e che solo in parte hanno potuto influenzare la riflessione e la pratica delle chiese cristiane. In realtà, se vogliamo davvero trovare un’associazione ricca di senso tra il mondo creato ed amore dobbiamo volgerci a tradizioni di pensiero diverse, meno immediatamente legate alla modernità. È un percorso verso un passato, ma un passato profondamente attuale; potremmo ripercorrerlo all’indietro, per ascoltare alcune voci significative che nella tradizione cristiana ci orientino ad un rapporto differente con la creazione. Certamente una percezione ben più forte della relazione tra gli uomini e la creazione è presente nella tradizione orientale, quale è stata interpretata anche da autori relativamente recenti. Pensiamo ad esempio all’appassionato appello dello Starecs Zosima ne “I fratelli Karamazov” di Dostojevskij:«Amate tutta la creazione divina, così in blocco, come in ogni granello di sabbia. Per ogni minima foglia, per ogni raggio del sole di Dio, abbiate amore. Amate gli animali, amate le piante, amate le cose tutte. Se amerai tutte le cose, penetrerai nelle cose il mistero di Dio.Una volta penetrato questo, senza più interruzione verrai conoscendolo sempre più a fondo e sempre meglio, di giorno in giorno. E alla fine amerai tutto il mondo, di un integrale, universale amore »7vii. Risuona qui quella stesso orizzonte di universale misericordia che esprimeva secoli prima Isacco di Ninive, in un testo recentemente ripreso anche dalla II Assemblea Ecumenica di Graz: «Che cos’è, dunque, un cuore compassionevole? È il cuore che si commuove per l’intera creazione, per l’umanità, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni e per ogni creatura…La sua grande pietà rende il suo cuore umile ed egli non può tollerare di ascoltare o vedere una qualsivoglia offesa o la più piccola sofferenza della creazione»viii. Qui davvero incontriamo un senso universale della carità, un orizzonte di compassione che non conosce limiti. Del resto, non si tratta di un dato che susciti stupore; una tradizione così decisa nell’affermare il profondo rapporto tra Spirito e creazione, nel sottolineare il coinvolgimento del cosmo tutto nel processo di divinizzazione, non poteva che accentuare con forza la dimensione di attenzione per tutte le creature. Non è certo casuale che proprio da parte ortodossa – dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli – sia venuta la proposta di una giornata per il creato,che oggi (nella forma di un tempo per il creato) sta conoscendo una crescente diffusione in ambito ecumenicoix. 31 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Anche nella Chiesa d’Occidente, però, troviamo testimonianze importanti e numerose di un rapporto col creato forte ed intenso. Il pensiero va, in primo luogo a Francesco d’Assisi, che nel suo Cantico di frate Sole vede tutte le creature coinvolte nella lode rivolta al Creatore, in una sinfonia in cui ogni elemento ha la sua importanza. Così egli invitava a lodare e benedire Colui che ha fatto frate Sole «bello e radiante con grande splendore» e sora Luna e le stelle «clarite e preziose e belle», e ancora sora Aqua, umile ed utile, e frate Foco, «bello e iocondo e robustoso e forte». La splendida varietà delle creature è colta qui nella loro interconnessione, nel servizio che esse si rendono l’un l’altra, consentendo la vita. Francesco guarda la creazione con occhi innervati da un «ineffabile amore per le creature di Dio», che con dolcezza sapevano contemplare in esse «la sapienza, la potenza e la bontà del Creatore», secondo quanto ci narra Tommaso da Celano10x. Anzi, nella “Vita Seconda” lo stesso biografo sentirà la necessità di esplicitare che «nelle cose belle egli contemplava la bellezza Somma »xi. Di qui nasce l’affetto con cui egli si soffermava dinanzi alle distese di fiori, come dinanzi ai campi biondeggianti. Da qui viene l’attenzione per i pesci, per la cicala o la cura rivolta alle api, cui egli vuole addirittura «che si somministri miele e ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell’inverno»12xii. Di qui un’attenzione quasi paradossale anche per le cose non viventi, una cura che si indirizzava anche alle più umili: «Ha riguardo per le lucerne, lampade e candele e non vuole spegnerne di sua mano lo splendore, simbolo della Luce eterna (Sap.7,26). Cammina con riverenza sulle pietre , per riguardo a Colui che è detto Pietra (1Cor. 10, 4)».xiii La teologia francescana si incaricherà di approfondire l’intuizione del fondatore, esplorando il mistero di colui che Dante, nell’ultimo verso della Commedia, dirà “L’amor che muove il sole e l’altre stelle”. Proprio l’espressione del grande poeta fiorentino ci introduce efficacemente in una dimensione realmente profonda per comprendere che significa parlare di gesti d’amore per il creato. Non è in gioco soltanto un insieme di risorse, da usare in modo sostenibile; non si tratta soltanto di volgerci con benevolenza ad altre realtà, rispettandone l’essere. Stiamo parlando di un creato che è essa stesso espressione di un mistero d’amore, che vive esso stesso di un gioco di carità. La sfida che ci sta dinanzi è prima di tutto quello di imparare a percepire tale dimensione, che il nostro tempo sembra aver dimenticato. Nella Scrittura È questo, del resto, un dato che sta al cuore del messaggio della Scrittura: se il Signore «ha creato i cieli con sapienza»; se Egli «ha stabilito la terra sulle acque»; se «da il cibo ad ogni vivente», ciò rivela soprattutto che «eterna è la sua misericordia» (Sal 136, 5-6. 25). I Salmi contemplano con gioia lo splendore di una creazione che appare tutta come un atto dell’amore di Dio, che Egli rinnova ogni giorno. È lui che ha steso il cielo come una tenda; che fa scaturire le sorgenti dalle valli, perché ne possano bere tutte le bestie selvatiche; che segna le stagioni col moto armonioso del sole e della luna (Sal. 104, 2. 10. 19). La stessa regolarità dei cicli cosmici viene letta come l’espressione di un’alleanza di cui l’arcobaleno è il grande segno memoriale. È l’alleanza fatta con Noè, con la sua discendenza, ma anche con tutti i viventi usciti dall’arca (Gen. 9, 1217): per quanto piena di violenza possa essere la creazione, il Signore la lascia esistere dinanzi a sé, come spazio di vita, in attesa della conversione – la teshuvah – degli umani. L’essere stesso della creazione, insomma, è una presenza di grazia, è il grande sacramento di quel Dio che è lui stesso grazia e misericordia. È in questo mondo, sperimentato come creazione, che abita anche Gesù di Nazareth, osservatore attento del mondo naturale. Le parabole ci ricordano che anche le realtà più umili (il grano, un gregge di pecore, il piccolo granello di senapa) possono diventare linguaggio per parlare di Dio. Di più la contemplazione del creato (i gigli del campo, gli uccelli del cielo) si fa invito a cogliere l’amore del Padre, che dona forza, fede,serenità (Lc. 12, 22-31). Se, poi,continuiamo a leggere il Nuovo Testamento, cogliendo tutta la radicalità del suo messaggio,scopriamo una densità ed una profondità ancora maggiori. Un testo come il Prologo del Vangelo di Giovanni, infatti, vede nella stessa venuta di Gesù il farsi presente al cuore della creazione di quella Sapienza divina che era con Dio fin dal principio (Gv. 1). Quello che i credenti vedono, toccano, contemplano è il Verbo della vita (1Gv. 1, 1-2): il suo farsi carne ha una dimensione cosmica, che 32 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ coinvolge tutta la storia degli uomini, ma anche l’intero creato. È quella storia prima di ogni storia, che aveva narrato così efficacemente il libro dei Proverbi: «Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso; quando condensava le nubi in alto; quando fissava le sorgenti dell’abisso; quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non oltrepassassero la spiaggia; quando disponeva le fondamenta della terra, allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre; ponendo le mie deliz ie tra i figli dell’uomo» (Pv.8, 24-31) Il venire di Gesù avviene, dunque, in un orizzonte cosmico - quello di una Parola creatrice, che gioca nelle armonie di un universo in evoluzione, quello di una luce, che splende nei bagliori dei soli e delle galassie, ma che illumina soprattutto il volto di ogni nuovo nato – il piccolo del leone, ma in modo tutto particolare il cucciolo d’uomo (Gv.1, 9). Una Parola ed una luce che restano talvolta nascoste – quasi giocando a nascondino nell’opacità della natura e della storia - ma che in Gesù si donano in tutta la loro sonorità, luminosità, trasparenza. La vocazione umana Mi pare sia questo l’orizzonte che dobbiamo tenere presente se vogliamo leggere in modo corretto anche la vocazione umana nel cosmo. La modernità, infatti, ci ha troppo abituati a concentrarci sul primo racconto genesiaco, a sottolineare la specificità umana dell’essere «immagine di Dio» (Gen. 1, 27) e soprattutto la benedizione del versetto successivo: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra » (Gen. 1, 28). Dominare e soggiogare: già abbiamo accennato quanto spesso la relazione degli esseri umani– e segnatamente degli esseri umani d’Occidente – si sia declinata secondo questo paradigma di riferimento, assunto in modo un po’ acritico dalla prima pagina della Scrittura. La riflessione teologica più recente ci ha, però, orientati ad una prospettiva ben diversa: proprio il testo di Genesi afferma che il creato è la realtà sette volte buona, che non riceve certo il proprio senso solo dalla presenza degli esseri umani. J.Moltmann14 xivsottolinea, anzi, che il compimento della creazione non viene con l’emergere della coppia umana, ma col sabato – quel riposo di Dio, cui l’intero creato è destinato. Di più, accanto al primo racconto, occorre tenere presente anche il secondo, che disegna un ruolo ben diverso per Adamo. Egli è colui che è tratto dalla terra – la adamah: una creatura terrena, corporea, dipendente dalle relazioni con essa, con i suoi simili e con gli altri viventi, e chiamata a viverle nel segno del limite15xv. Adamo è posto nel giardino, per coltivarlo (abad) e custodirlo (shamar) (Gen.2, 17): il primo verbo è quello che si usa per il servizio ed il culto,mentre il secondo per l’azione della sentinella che vigila per impedire la violazione di un luogo riservato, ma anche per l’osservanza fedele del comandamento16xvi. L’interpretazione ebraica,anzi, rileva che quest’ultimo verbo viene pure utilizzato in Dt.5,12 per il sacro giorno di shabbat - quasi a disegnare ancora un collegamento tra il dono del riposo nel giorno sacro a JHWH e la preservazione della terra. Il giardino, insomma, appare come lo spazio dato all’uomo perché lo abiti, traendone il necessario per una vita buona, ma anche perché lo conservi, prendendosene cura quasi religiosamente, come si fa per un dono di Dio. Se, allora, torniamo al primo racconto ed a Gen. 1,28 anche qui scopriamo orizzonti ben diversi, se appena proviamo ad analizzare meglio il testo. Kabash – il «soggiogare» riferito alla terra – indica soprattutto la presa di possesso di un territorio: all’umanità la terra è concessa come spazio abitabile, come dono, che i diversi popoli dovranno suddividersi. Più complessa è la considerazione del verbo 33 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ radah – il «dominare», detto sugli animali: si tratta certo di un temine dalle connotazioni regali, che rimanda, però, ad una concezione antica della sovranità,carica di responsabilità. Come nota Westermann, infatti, qui il re non è soltanto «responsabile del suo regno, ma è anche il depositario e il mediatore della benedizione» per coloro che gli sono affidati17xvii. D’altra parte, evidenzia, Gerhard Lohfink, «il campo semantico del verbo comprende le accezioni di “accompagnare”, “pascolare”, “condurre”, “guidare”, “reggere”, “comandare’»: l’uomo è come il pastore della creazionexviii. Abitatori della terra Ben fondato appare, in questo senso, il riferimento di Giovanni Paolo II a tali testi per sottolineare la dimensione ecologica quale componente costitutiva dell’umana vocazione, la conversione ecologica quale dimensione essenziale dell’essere uomini e donne oggi19xix. Né stupisce, d’altra parte, che la riflessione etico-teologica in tema di ambiente abbia utilizzato l’immagine dell’amministratore (steward), per descrivere il ruolo dell’uomo in mezzo agli altri viventi. Occorre, però, essere attenti: il senso non è quello moderno, che assegna a chi amministra un potere quasi illimitato su un insieme di risorse, di cui dovrà rendere conto solo al termine di un periodo definito. No: lo steward va visto nell’accezione originale del termine -il primo tra i servi della casa, chiamato a provvedere ogni giorno affinché ognuno abbia di che vivere. Il potere affidato all’uomo ha un fine ben preciso: l’accoglienza, la diffusione e la condivisione della benedizione con tutti i viventi, su una terra che resta pur sempre la proprietà di Dio solo (Sal. 24,1). In questo senso andranno letti anche i testi dell’alleanza sinaitica che si riferiscono al sabato ed all’anno sabbatico, come pure a quello giubilare: come un’esigenza di sospensione dal lavoro e di riposo per tutti. Come il Creatore si è riposato al settimo giorno, così tutti -uomini e donne, schiavi e liberi, ed anche gli animali domestici - meritano di riposare (Es. 20,8-11). Ogni sette anni, poi, la stessa terra avrà diritto al suo «sabato consacrato al Signore» (Lev. 25, 1-7): proprio perché essa è dono di Dio, proprio perché i suoi frutti sono abbondanti, un tempo del riposo è possibile – e, quindi, necessario – come doverosa è la giusta condivisione dei frutti stessi. Di più, dopo sette settimane di anni il giubileo, anno di liberazione, segnerà il ritorno di ogni campo a chi lo possedeva, a relativizzare la dimensione mercantile del rapporto con la terra (Lev. 25, 8-17). Il rapporto dell’uomo col creato, insomma, non si esaurisce certo nell’amministrazione –più o meno oculata - di un insieme di beni ambientali. L’uomo e la creazione sono uniti soprattutto, come aveva ben colto Isacco il Siro, da legami di compassione. Dobbiamo, forse, imparare a prendere il termine nel suo senso etimologico: tutta la creazione geme e soffre, come nelle doglie del parto, attendendo la liberazione dalla corruzione (Rom. 8, 18-23) e tale attesa, tale grido è profondamente in sintonia con quello dello Spirito che, nel cuore dei credenti, invoca la redenzione, l’adozione a figli. Gli esseri umani appaiono, allora, come coloro che sono chiamati a dar voce alla creazione – alla lode che essa innalza al creatore, al grido che essa gli indirizza, affinché la liberi dalla negatività presente. Dobbiamo comprendere che la benedizione e l’invocazione che ognuno di noi – personalmente o nelle liturgie delle nostre comunità – rivolge al Padre di Gesù Cristo porta con sé anche quelle parole senza suono che ogni creatura brama di indirizzargli. Come osservava ancora lo starec Zosima ne «I fratelli Karamazov», «il Verbo è per tutti e l’intero universo e ciascuna creatura, fino alla minima fogliolina,si protende al Verbo, a Dio canta lode, a Cristo alza il suo pianto»xx. Pratiche della carità: direzioni La prima lettera di Giovanni invita i credenti ad un amore «nei fatti e nella verità» (1Gv. 3, 18); che significa questo per chi scopre che la carità ha le dimensioni della creazione tutta?Quali gesti siamo chiamati a porre in essere? In che direzioni? Proviamo a partire da quest’ultima domanda, indicando tre 34 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ direzioni in cui deve esprimersi l’amore per il creato: l’ecogiustizia, la cura della terra, il rispetto per la vita. A) Per la vita umana (ecogiustizia) Viviamo nel tempo dell’ecologia: la crisi ambientale non è semplicemente un problema settoriale, da affrontare accanto ad altri; la sensibilità ecologica non è un optional, richiesto da una cultura un po’ verde e un po’ new age. Secondo la felice espressione di Eldredge, ad essere in bilico è la vita: lo stesso ecosistema planetario si trova minacciato dall’effetto serra, -di cui già iniziamo ad avvertire gli effetti come pure dalle diverse forme di inquinamento. D’altra parte, la stessa asimmetria strutturale, che caratterizza il sistema economico, si esprime anche in un’iniqua ripartizione delle risorse ambientali - ormai trasformate in “beni oligarchici” - ma anche dei rischi determinati da un ambiente fragile. A livello planetario, infatti, il 20% più ricco della popolazione mondiale è responsabile dell’80% dei consumi e delle emissioni inquinanti, mentre è ai più poveri che tocca di sopportare per primi gli effetti delle perturbazioni ambientali. La responsabilità cristiana si trova, dunque, di fronte a sfide nuove, a nuovi interrogativi, che la chiamano a valorizzare in questo senso anche le virtù tradizionali. L’ecogiustizia è certamente uno dei nuovi nomi che la carità deve imparare ad assumere, nell’attenzione congiunta per il grido della terra e quello dei poveri. Come sottolinea Leonardo Boff21xxi, infatti, il povero è certamente l’essere più minacciato della creazione; proprio i poveri, infatti, sono spesso i primi a pagare le conseguenze del degrado ambientale – dell’inquinamento, che spesso viene ad interessare soprattutto le aree meno dotate di risorse, del mutamento climatico, cui i paesi con un’economia meno dotata di risorse potrebbero ben difficilmente far fronte. Giustizia e salvaguardia del creato, insomma, sono strettamente collegate, come lo sono con la pace: solo una comunità internazionale stretta da legami di solidarietà e reciproca fiducia potrebbe affrontare in modo davvero efficace la grave sfida postaci dalla questione ambientale. Non a caso, uno degli effetti collaterali del pesante clima di tensione che ha fatto seguito all’11 settembre 2001 è certo il calo di attenzione per questioni ecologiche anche di grande urgenza, come il mutamento climatico: chi ricorda più il protocollo di Kyoto per il controllo delle emissioni di gas serra? B) Per la vita della terra Ecco, dunque, che la prima voce si intreccia facilmente con la seconda: per la vita della terra. Possiamo compendiare tale tema riferendoci a quella categoria di sostenibilità che è entrata nel lessico politico corrente a partire dal Rapporto Bruntland del 1987 e che è stata fatta propria dal vertice di Rio del 1992. Merita, comunque, pure ricordare che il suo primo uso da parte di organismi internazionali risale al 1974, alla Conferenza promossa dalla sezione Chiesa e Società del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Bucarest. Un termine che affonda le sue origini in un contesto ecclesiale, dunque, ma capace di trovare sviluppo in prospettive ricche di significato anche per l’etica politica internazionale. La nozione di sostenibilità legge la questione ambientale in primo luogo in termini di giustizia intergenerazionale, come “capacità di soddisfare i bisogni della generazione presente senza pregiudicare quelli delle generazioni future”. Accanto all’opzione preferenziale per i poveri, ce n’è una per i posteri – i nostri bambini, come rappresentanti di tutte le generazioni che dopo di noi si troveranno a vivere su questo pianeta. Dal punto di vista etico, dunque, la formula rimanda ad un approccio di tipo antropocentrico (ci si riferisce ai bisogni delle future generazioni umane), che si traduce, però, in vincoli molto impegnativi per il nostro rapporto con l’ambiente. Uno sviluppo economico in grado di sostenersi stabilmente, infatti, dovrebbe calibrare il consumo di risorse rinnovabili sulle capacità degli ecosistemi di rigenerarle - calibrare la quantità di rifiuti immessi nell’ambiente sulle capacità degli stessi ecosistemi di smaltirli - calibrare il consumo di risorse non rinnovabili sul tasso di sostituzione tecnologica con altre risorse – possibilmente rinnovabili. 35 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Per chi ama il linguaggio scientifico, vale anche la pena segnalare che la sostenibilità è stata interpretata come contenimento dell’entropia associata ai processi economici nei limiti determinati dai flussi di energia che dal Sole giungono al pianeta Terra (economia ecologica). Certo, al di là delle sue interpretazioni, è chiaro che si tratta di un obiettivo da cui siamo ben lontani: l’ “impronta ecologica” dell’umanità è attualmente pari a due: per essere sostenibile il nostro livello globale di consumo di ambiente richiederebbe la disponibilità di due pianeti come il nostro. Di più, tale consumo riproduce ed enfatizza le gravi disparità economiche che caratterizzano il sistema globale; a fronte di un Sud che si colloca attorno – o al di sotto - di un livello di sopravvivenza, il mondo industrializzato “brucia” ambiente con un tasso circa cinque volte superiore al livello di sostenibilità. Le risorse ambientali appaiono così, spesso come “beni oligarchici”; anche per esse si pone un drammatico problema di giustizia. Non a caso le ONG, in vista di Johannesburg, peroravano un riequlibrio della nozione stessa di sviluppo sostenibile che accentuasse la sostenibilità (ambientale, sociale, umana), più che uno sviluppo inteso come mero incremento della produzione ed espansione del mercato. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese preferisce addirittura utilizzare l’espressione “comunità sostenibili”, per indicare l’obiettivo cui tendere con le nostre politiche economico-ambientali. C) Per la vita dei viventi (rispetto per la vita) La compassione per ogni creatura significa pure attenzione per le vite dei viventi – ed in particolare degli animali, quasi compagni della creazione, aiuti postici accanto perché possiamo esistere nella pace anche con essi. Certo, non è praticabile un’assoluta “reverenza per la vita”, à la Schweitzer, né tantomeno sembra opportuno venire incontro alle istanze espresse dal movimento per i diritti degli animali, che rischiano di equiparare il bambino mentalmente disabile al primate adulto sano, con la pretesa di un eguale trattamento per i due. Tuttavia va pure riconosciuto che un’etica cristiana non può neppure assumere come riferimento il paradigma cartesiano dell’animale macchina, cui nessun sentimento deve essere indirizzato. Gli animali sono i compagni della creazione, le co-creature che Dio ci ha posto accanto; l’esigenza di uno sguardo rispettoso ed empatico nei loro confronti dovrebbe diventare parte integrante di un’etica cristiana, anche se questo potrà significare talvolta mettere in discussione alcune pratiche cui ci ha abituati la società industrializzata. Come hanno evidenziato le Assemblee Ecumeniche di Basilea (1989), Seul (1990) e Graz (1997), l’integrità del creato ha una varietà di dimensioni, che possono essere affrontate solo tenendone presente assieme l’unità e la distinzione. D’altra parte, spesso – aldilà di casi conflittuali sui quali, se interessano, possiamo riflettere in sede di dibattito – le forme d’azione necessarie hanno profonde analogie e possiamo tentare. Pratiche della carità: forme d’azione Accanto alle direzioni dei nostri gesti d’amore per il creato, merita forse dedicare qualche parola alle forme che essi potranno e dovranno assumere. Mi pare, infatti, che vadano segnalati almeno quattro livelli in cui deve esprimersi il nostro amore per la terra, tutti essenziali per tutelare l’ecogiustizia, la vita della terra, la vita di tutti i viventi: la mobilitazione su questioni specifiche, la politica – nei suoi diversi livelli (locale, nazionale, sopranazionale), il rinnovamento degli stili di vita, l’educazione e la testimonianza da dare come comunità ecclesiale. 1 Questioni specifiche Sono molti coloro per i quali la crescita di una sensibilità verso i temi ambientali avviene a partire dal coinvolgimento in singoli eventi, spesso a carattere tipicamente locale. Può trattarsi di qualche evento eccezionale, che viene a turbare la normale convivenza ed al quale occorre far fronte, o più semplicemente della percezione della bassa qualità ambientale nella propria città o della scoperta della bellezza di un luogo o di una specie animale minacciata. Per parecchi degli abitanti di Venezia, ad 36 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ esempio, una particolare sensibilità per i temi ambientali è legata alle questioni di salvaguardia della laguna, ma anche ai gravi fatti di Porto Marghera, con un’industria chimica che è stata causa di malattia e talvolta morte per i lavoratori coinvolti, ma anche per la popolazione delle aree circostanti. Porre gesti d’amore per il Creato significa certamente farsi carico di tali realtà, lasciandoci coinvolgere da quelle situazioni che più direttamente ci interpellano. “Pensare globalmente, agire localmente” è un riferimento importante per le nostre pratiche di tutela del creato: per la maggior parte di noi la sintonia con l’amor che muove il sole e le altre stelle non si verifica tanto in una mistica unione interiore, ma in pratiche concrete, specifiche, locali. La società civile, nelle sue diverse articolazioni, è generalmente il primo livello chiamato ad esprimersi, delineando importanti forme di corresponsabilità vissuta, nella protesta o nell’azione positiva. 2 La politica È pure vero, però, che l’agire responsabile dei singoli soggetti o delle loro organizzazioni risulta difficilmente efficace se non è capace di interpellare positivamente quel secondo livello che è la politica, anche nella sua dimensione istituzionale. È solo quando entra come componente qualificante nella gestione della cosa pubblica - anche nella sua dimensione di politica economica - che l’attenzione ambientale può diventare efficace. Nell’era del potere tecnologico l’intervento sul mondo naturale e la sua scala non è questione che possa essere lasciata semplicemente al libero gioco del mercato o ad una sperimentazione che sembra ritenere lecito ogni fattibile. Il dibattito, la ricerca comune, la discussione democratica sui temi ambientali devono al contrario diventare momento essenziale di un pensiero della politica che voglia essere all’altezza di questo tempo. Ciò è vero per le questioni di scala locale, che in parecchi casi sono comunque abbastanza complesse da richiedere l’intervento delle istituzioni locali. Il ruolo dei comuni, delle province e delle regioni è fondamentale, ad esempio nella promozione di forme di mobilità sostenibile o di una gestione ambientalmente attenta del territorio. Ancor più lo diventa, però, nel momento in cui veniamo a riferirci ai grandi temi globali: il danneggiamento della fascia di ozono ha potuto essere affrontato efficacemente solo grazie ad accordi intergovernativi, analoghi a quelli che esige oggi da noi il mutamento climatico. Trovo, anzi, francamente sconcertante la scarsa attenzione per queste tematiche che sembra accomunare il dibattito politico nazionale all’interno delle diverse forze politiche in questa fase della vita italiana – anche se certo non mancano differenze di rilievo nelle politiche ambientali dei governi recenti. Dobbiamo affermare che l’amore per il creato deve trovare forme di espressione anche nell’agire politico. La tradizionale attenzione per la giustizia e per la solidarietà della tradizione cristiana deve imparare ad intrecciarsi con una cultura politica dello sostenibilità ambientale declinata su più livelli – nel segno della sussidiarietà. 3 Stili di vita Di fatto, però, va pure sottolineato che nessuna scelta di politica ambientale risulta efficace se non si traduce in mutamenti nei nostri stili di vita – ed in particolare dei nostri stili di consumo 22. xxiiÈ innegabile, infatti, che oggi il primo fondamentale fattore della crisi ambientale è costituito dagli stili di consumo delle civiltà occidentali, che significano sempre anche consumo di risorse e produzione di rifiuti. Certo, il consumo risponde in parte ad esigenze reali ed una certa disponibilità di beni e di servizi accresce indubbiamente la qualità della vita –come vediamo soprattutto quando ci viene impedito di praticarlo. Dobbiamo, però, riconoscere che la società pubblicitaria che abitiamo induce in noi il desiderio incessante, autofinalizzato, che cerca soddisfazione nell’acquisto di merci sempre rinnovate, quasi esse potessero rispondere alla carenza di identità che le rende attraenti. La nostra vita è attraversata così da un flusso di merci, da un flusso di cose sempre rinnovate, in un ciclo continuo di attrazione –acquisto – disillusione obsolescenza precoce - nuovo acquisto. L’impatto sull’ambiente di tale dinamica è insostenibile: se l’american way of life degli USA venisse estesa all’intera popolazione mondiale richiederebbe le risorse di cinque pianeti come il nostro per poter essere mantenuta 37 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Due sono le direzioni nelle quali dobbiamo lavorare, per ridurre la nostra impronta ecologica: l’ecosufficienza e l’ecoefficienza. Da un lato, infatti, dobbiamo sottoporre ad attenta verifica l’effettiva necessità di ciò che consumiamo, interrogandoci sulla reale consistenza di determinati bisogni – in una singolare ripresa attualizzante della virtù della sobrietà, così cara alla tradizione cristiana. Dall’altro, però, dobbiamo valorizzare appieno quella possibilità che ci viene offerta dalle tecnologie più avanzate, in modo da soddisfare quei bisogni che riconosciamo effettivamente tali in forme che gravino il meno possibile sull’ambiente, con consumi minimi di energia e di materia. La sobrietà non significherà, allora, riduzione della qualità della vita – il facile stereotipo del ritorno alla candela in nome dell’ambiente – ma al contrario un’intelligente capacità di valorizzare appieno tutte le potenzialità delle risorse ambientali, riducendo al minimo gli sprechi. Illuminazione, progettazione delle abitazioni e loro riscaldamento, mobilità, alimentazione: sono molti gli ambiti in cui le due dimensioni possono intrecciarsi con effetti positivi da un punto di vista ambientale ed economico. Tra l’altro, non dimentichiamo che ogni nostro atto di consumo non pesa solo nella sua individualità, ma anche in quanto segnale lanciato al mercato, che è molto pronto a registrare le opzioni dei gruppi, quando raggiungono livelli significativi: è come un secondo volto, tramite il quale incidiamo in qualche misura sulla realtà dell’economia. 4 Educazione e testimonianza Possiamo esprimere gesti d’amore nei confronti del creato in quanto membri della società civile, in quanto attori politici, in quanto consumatori. Anche in tali pratiche, spesso completamente laiche nella loro apparenza, sono talvolta in gioco realtà di rilievo per la nostra fede nel mondo come creazione. C’è, però, un quarto livello in cui esse possono emergere nella loro forma più esplicita ed è quello, assolutamente fondamentale, dell’educazione e della formazione. L’attenzione per specifiche questioni ecologiche, l’impegno per la realizzazione di efficaci politiche ambientali, la generosa disponibilità a rinnovare gli stili di vita: tutti elementi che possono sorgere a partire da una soggettività rinnovata, capace di guardare al mondo naturale come realtà degna di valore, di cui tenere conto nell’orientare la nostra azione. L’etica è anche un’ottica, è anche capacità di vedere determinate realtà come eticamente rilevanti; d’altra parte, è uno sguardo che si impara, a partire da quegli stimoli che si ricevono nelle diverse fasi dell’esistenza. Tra le agenzie formative la scuola sta indubbiamente iniziando ad inserire l’educazione all’ambiente tra le aree di rilievo e sono numerosi i testi dedicati all’educazione alla sostenibilità. Anche per la comunità ecclesiale si pone oggi la sfida di inserire l’attenzione per il creato come componente organica e qualificante dei propri percorsi educativi: la catechesi, la formazione dei giovani e degli adulti, la predicazione, ma anche le forme della preghiera e della celebrazione. I sacramenti offrono tra l’altro spunti di estremo rilievo per cogliere tutta la rilevanza delle realtà naturali anche in ordine alla storia della salvezza; nel battesimo, ad esempio, è l’acqua, elemento prezioso e necessario per la vita biologica, che diviene segno e strumento di quella pienezza di vita che ci è donata in Gesù Cristo. L’anno internazionale che si è appena concluso è stata un’occasione preziosa per comprendere che un’etica dell’acqua si elabora anche a partire da una cultura ed una spiritualità dell’acqua, cui la comunità ecclesiale può offrire un contributo prezioso. Comprendere e formare al valore teologico delle realtà create, insomma, è un valore aggiunto che le chiese possono offrire al dibattito sui temi ecologici, cui tante voci diverse partecipano. Da esse non ci si attende certo che offrano soluzioni scientificamente innovative ai problemi dell’ambiente, ma che facciano crescere in noi quell’amore per il creato che è necessario per la diffusione di un’effcace attenzione all’ambiente. Per finire Il circolo si chiude, insomma: partiti dall’esame di questioni squisitamente teologiche, che magari qualcuno avrà considerato un po’ troppo alte, proprio ad esse ci troviamo ricondotti, dopo esser passati attraverso lo spessore pratico della dimensione etica e pastorale. Parlare di amore per il creato, insomma, 38 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ non è un di più che ci distoglierebbe dalla concretezza delle pratiche nei suoi confronti, ma un nucleo denso che conferisce spessore e profondità all’impegno ambientale. La fede nel creatore allarga la nostra percezione del mondo, rivelandoci una fraternità misteriosa che ci lega a tutte le creature – quella di un’origine comune. Il creato appare, allora, come il grande sacramento del Suo amore, come un radicale dono di vita, come lo spazio di una prima alleanza fondante, di cui tutte le altre sono come esplicitazione. Ad essa siamo chiamati a rispondere, nella solidarietà con i fratelli e le sorelle, nell’attenzione premurosa per tutte le realtà create, nella cura per il fragile pianeta azzurro che ci è dato di abitare. La figura di Francesco, uomo della solidarietà radicale con gli ultimi, ma anche dell’amore cantato e vissuto per il creato, ci sia di ispirazione in questo cammino: «Laudato sii mi Signore, cum tutte le tue creature…». Campobasso, 23 aprile 2004 Note 1 H.Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990 Ho analizzato l’evoluzione del pensiero teologico in materia di ecologia in S.Morandini, Teologia ed ecologia 1 G.Von Rad, Il problema teologico della fede veterotestamentaria nella creazione (1938), in Id., Scritti sul Vecchio Testamento, Jaca Book 1984, pp.9-26, qui p.23; si veda più ampiamente Id., Teologia dell’Antico Testamento. ITeologia delle tradizioni storiche di Israele, Paideia, Brescia 1972. Una presentazione critica della posizione di Von Rad in G.L.Prato, Il tema della creazione e la sua connessione con l’alleanza e la sapienza nell’Antico Testamento:interferenze e integrazioni, in PGiannoni (a cura), La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, pp.143-186. 1 M.M.Thomas, P.Abrecht (a cura), Christians in the Technical and Social Revolutions of Our Time. Wold Conference on Church and Sociery. Geneva July 12-26, 1966, Ginevra, WCC 1967. 1 Theological Issues in Social Ethics, ivi, pp.195-198, qui p.198. 1 L.White, Le radici storiche della nostra crisi, in «Il Mulino» 22 (1973), pp.251-263 (ed.or.ingl 1967). Ricostruzioni del dibattito suscitato da White, da prospettive diverse, in A.Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1984;A.Simula, In pace con il creato. Chiesa Cattolica ed ecologia, Messaggero, Padova 2001, pp. 30-37. Tra gli interventi che contestano la sua interpretazione tutta negativa del cristianesimo ocidentale, si segnalano per la qualità della documentazione: J.Barr, Uomo e natura. La controversia ecologia e l’Antico Testamento, in M.C.Tallacchini (a cura), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp.61-84; R.Attfield, The Ethics of Environmental Concern, Basil Blackwell,Oxford 1983; U.Krolzik, Die Wirkungsgeschichte von Genesis 1,28, in G.Altner (a cura), Okologische Teologie. Perspektive zur Orientierung, Kreuz Verlag, Stoccarda 1989, pp.149-163. 1 7 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1981, vol. I, p. 422. 1 Isacco il Siro, Omelia 71, citata al numero A23 del Documento finale della II Assemblea Ecumenica Europea di Graz («Regno Doc» 42 (1997), pp.475-493, qui pp.480-481). 1 L.Vischer, Un tempo della creazione, in «Studi Ecumenici»18 (2000), pp.11-22 1 Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi, cap.80, (in Fonti Francescane, Messaggero, Padova 1982, pp.401-532 1 Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, cap. 165 (in Fonti Francescane, pp.537-732). 1 Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. 165. 1 Tommaso da Celano, Vita seconda, cap.165. 1 14 J.Moltmann, Dio nella creazione. Una teologia ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986. 1 15 La sottolineatura in E.Van Wolde, La creazione come grazia, in «Concilium » 6 (2000), pp. 585-597. 1 A.Bonora, L’uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen.1-11, in «CredereOggi» 1992, n.93, pp.18-9, qui p. 25-26. 1 A.Bonora, L’uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen.1-11, in «CredereOggi» 1992, n.93, pp.18-29, qui p. 25-26. 1 G.Lohfink, Crescita. Il codice sacerdotale e il mito della crescita, in Id., Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986, pp.177-192, qui p.190. 1 Penso, in particolare al Messaggio per la Pace del 1990:”Pace con Dio Creatore, Pace con tutto il creato” ed agli splendidi interventi su “La gloria della Trinità nella creazione” (26 gennaio 2000) e “L'impegno per scongiurare la catastrofe ecologica” (18 gennaio 2001). Tali testi, come gran parte dei documenti che citeremo nel corso di questa riflessione sono disponibili su database tematico di documenti ecclesiali accessibile dal sito del Servizio per il Progetto Culturale (www.progettoculturale.it). 1 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1982, vol. I, p.392. 1 L.Boff, Ecologia, mondialità, mistica. L’emergere di un nuovo paradigma, Cittadella, Assisi 1993; Id., Grido della terra, grido dei poveri. Per un’ecologia cosmica, Cittadella, Assisi 1996. 1 Per una trattazione più ampia rimando al mio S.Morandini, Il tempo sarà bello. Fondamenti etici e teologici per nuovi stili di vita, EMI, Bologna 2003; Id. (a cura), Etica e stili di vita, Lanza / Gregoriana, Padova 2003. 1 39 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Giornale di Teologia 137 (12/06/2009) JÜRGEN MOLTMANN – UNA TEOLOGIA AMANTE DELLA VITA di Rosino Gibellini Firmata il giorno di Pasqua del 2006, in occasione del suo 80° compleanno, è uscita in questi mesi con il titolo Vasto spazio. Storia di una vita (Queriniana 2009), nella traduzione di Daria Dibitonto, l’autobiografia del teologo Jürgen Moltmann, noto in tutto il mondo come il teologo della speranza. Nato in aperta campagna in un casolare rustico presso Amburgo, la grande città anseatica della Germania, nel 1926, ha fatto in tempo ad essere arruolato nella Wehrmacht a 17 anni, e a trascorrere dopo la guerra sul fronte olandese tre anni di internamento, 1945-1948, in campi di prigionia, come prigioniero di guerra (POW = Prisoner of War) degli inglesi, prima in Belgio, poi in Scozia, e successivamente nell’Inghilterra centrale, nel Norton Camp presso Mansfield nel Nottinghamshire. Proveniente da una famiglia protestante laica, proprio dietro il filo spinato del campo di prigionia ha scoperto la fede in Cristo, leggendo i Salmi di lamentazione dell’Antico Testamento, in particolare il Salmo 39, e poi il vangelo di Marco, in particolare il racconto della passione (un cappellano del campo aveva distribuito ai prigionieri di guerra la Bibbia). Scrive nell’Autobiografia, in riferimento a questa esperienza di prigionia: «Ho ripreso il coraggio di vivere, e lentamente ma con sicurezza mi ha preso una grande esperienza di risurrezione nel “vasto spazio” di Dio» (40). Ritornato dalla prigionia nel 1948 – «avevo passato più di cinque anni in caserme, campi, trincee e bunker, ma avevo vissuto qualcosa che avrebbe deciso della mia vita» (45) – opta per la teologia (invece che per matematica e fisica), che studia a Gottinga. Suoi docenti sono, tra gli altri, von Rad per l’Antico Testamento; Bornkamm per i Vangeli; Jeremias per il problema del Gesù storico; per le esercitazioni di omiletica Gogarten, che il giovane Moltmann trova «cinico» (53). Ma il suo maestro, che l’ha introdotto alla Dogmatica di Barth è stato Otto Weber, che del resto ha introdotto molti altri studenti alla grande opera barthiana con la sua Guida alla Dogmatica di Karl Barth, che lo stesso Barth definiva «mappa di orientamento e rimorchiatore di transatlantici» (come ricordo nel capitolo dedicato a Barth in La teologia del XX secolo, Queriniana 1992, 20076). Scrive Moltmann: «Dopo la venerazione di Barth, che avevo ricevuto a Göttingen [...] pensavo che dopo Barth non potesse più esistere altra teologia, perché lui aveva detto tutto e l’aveva fatto al meglio, esattamente come nel XIX secolo si diceva che dopo Hegel non poteva più esserci filosofia. Da questo errore mi ha liberato il teologo olandese Arnold van Ruler nel 1956» (59-60). E sarà proprio Moltmann, con Pannenberg, ad operare una svolta epocale nell’ambito della teologia evangelica, introducendo con grande respiro teoretico la categoria di “regno di Dio”. Gli studi a Gottinga si concludono con la laurea nel 1952. A Gottinga Jürgen incontra Elisabeth: «Lentamente la mia prigionia interiore, che avevo nascosto dietro al motto di Kierkegaard “disperato, e tuttavia fiducioso”, si dissolse e la mia anima tornò di nuovo a essere vasta e gioiosa. A fine febbraio 1950 ci siamo dati il nostro primo bacio, godendo l’uno dell’altra» (60). Dopo la laurea in teologia a Gottinga (1953), seguono gli anni del pastorato, l’abilitazione all’insegnamento universitario (1956) con Jeremias, che era decano della facoltà di Gottinga, e la prima docenza alla Scuola superiore ecclesiastica di Wuppertal (1958-1964), cui seguiranno 40 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ le università di Bonn e Tubinga. Decisivo è stato l’incontro con van Ruler: «Tornai alla teologia contemporanea nel 1956 [dopo l’abilitazione sulla storia della teologia riformata], grazie all’incontro con il teologo olandese Arnold van Ruler di Utrecht. Lo incontrai a una conferenza di teologi riformati nella Frisia orientale. Portava avanti una “teologia dell’apostolato”, una teologia dell’esodo e del regno di Dio. Iniziò la sua conferenza con la frase: “Sento il profumo di una rosa e sento il profumo del regno di Dio”. Non avevo mai sentito qualcosa del genere, nemmeno a Karl Barth avrebbe potuto venire in mente. Van Ruler mi convinse che Karl Barth non aveva detto tutto quel che la teologia aveva da dire a quel tempo, e nemmeno aveva detto così bene. Mi portò sulle tracce della speranza, rivolta in avanti, nell’escatologia del regno di Dio e della sua giustizia su questa terra» (80-81). Inizia il suo insegnamento a Wuppertal, dove ha come collega il giovane Pannenberg, con un corso sul tema del “regno di Dio”: «Mi lanciai sul “regno di Dio”, senza sapere che questo tema del futuro mi avrebbe tenuto con il fiato sospeso per una vita intera» (83). Un altro incontro decisivo è con il filosofo Ernst Bloch, di cui legge con avidità nell’aprile 1960 la sua vasta opera Il principio speranza (1959), e con il quale resterà poi in lunga consuetudine di discussione e di dialogo: «Bloch è, dopo secoli, l’unico filosofo tedesco che cita la Bibbia in dettaglio e con perizia, e che si dimostra essere, a modo suo, un buon teologo della “religione dell’esodo e del regno”, come egli la chiama» (98). Il punto di divergenza tra il filosofo della speranza e il teologo della speranza è così puntualmente formulato: «Solo quando “la morte è inghiottita dalla vittoria” il “principio speranza” raggiunge il suo obiettivo» (100). Dopo le prime tre sezioni (gioventù, tirocinio, inizi), la sezione quarta dell’autobiografia entra nel vivo della sua opera teologica: si sviluppa per circa 100 pagine (121-227) ed è dedicata alla pubblicazione e alle reazioni a quella che resta l’opera maggiore di Moltmann, Teologia della speranza. Sono pagine che appartengono non solo alla «storia di una vita», ma anche alla storia della teologia del XX secolo. Il libro esce nell’ottobre 1964 e ricordo di averlo intercettato alla sua uscita alla Buchmesse di Francoforte di quell’anno, pubblicato dal Christian Kaiser Verlag di Monaco di Baviera, l’editore di Bonhoeffer, e mi fu presentato dal direttore della Casa editrice Fritz Bissinger, che qui viene citato. L’opera sarà pubblicata in traduzione italiana, condotta sulla terza edizione tedesca (1965), aumentata di una importante Appendice, e inserita nella «Biblioteca di teologia contemporanea», nel 1970, in una puntuale traduzione del teologo valdese Aldo Comba. Ricorda Moltmann: «Il libro “esplose”, come si usa dire» (124) in Germania e negli Stati Uniti; «Era un gran periodo» (174); «Con la Teologia della speranza era mia intenzione restituire alla cristianità la sua speranza autentica per il mondo. Così ho accolto criticamente le speranze in un “mondo senza Dio” raccolte da Ernst Bloch, per metterle in relazione con il “Dio della speranza” (Rm 15,13) della tradizione ebraica e cristiana» (127-128). La sezione quinta (181-227) ricostruisce e narra «gli irrequieti anni dal 1968 al 1972 a Tubinga sotto l’insegna della teologia politica» (183). Qui Moltmann fa una interessante puntualizzazione sul collega cattolico Joseph Ratzinger. Aveva scritto Ratzinger in La mia vita (1998): «Quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu chiamato Jürgen Moltmann, che nel suo affascinante libro Teologia della speranza ripensava completamente la teologia a partire da Bloch», e notava il passaggio culturale nelle università da una atmosfera esistenzialistica (Heidegger / Bultmann) ad un clima turbolento di stampo rivoluzionario-marxista, anche per la presenza di Bloch. Puntualizza Moltmann: «Ratzinger non capì che allora con Bloch e me non era l’idea marxista, ma la speranza messianica a diventare l’alternativa anti-esistenzialistica» (200-201). Sono gli anni, in cui si affermano in campo internazionale i «teologi della speranza»: Moltmann, Pannenberg e Metz, chiamati anche gli Hope-boys (208). A Teologia della speranza (1964) segue nel 1972 Il Dio crocifisso (arrivato prontamente in edizione italiana nel 1973 nella traduzione del teologo friulano don Dino Pezzetta, che ha tradotto per l’Editrice Queriniana quasi tutta l’opera di Moltmann). Il libro svolge una teologia 41 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ della croce, cui è dedicata la parte sesta. Nella testimonianza del teologo anglicano Richard Bauckmann, citato (231): «È un libro appassionato, scritto per così dire “con il cuore e il sangue”, come Moltmann ha detto in seguito». È una teologia della croce, che svolge il tema della sofferenza di Dio, che ha suscitato una grande disputa. Confessa Moltmann: «Più importanti per me sono le dimensioni di conforto offerte da questa teologia della croce. “Solo il Dio sofferente può aiutare”, scriveva Dietrich Bonhoeffer nella sua cella di prigione, e con ciò intendeva il Cristo crocifisso. La sua croce sta tra le croci delle vittime dell’ingiustizia e della violenza come segno del fatto che Dio stesso partecipa al nostro dolore, lo rende parte del propri e condivide la nostra preoccupazione» (240). La tesi è stata discussa e criticata da Rahner, Metz, Küng, in modo violento da Dorothee Sölle, ma ha trovato anche consensi: «Ricevetti molto presto un vigoroso appoggio da parte della teologia anglicana. [...] Trovai consenso tra le file della teologia della liberazione in Jon Sobrino e Leonardo Boff e tra quelle della teologia minjung di Ahn Byung-Mu, ma con mia sorpresa anche in Romania da parte del saggio professore di teologia ortodossa e spiritualità Dumitru Stăniloae, che riteneva il dolore di Dio incluso nel concetto di Dio misericordioso. Con Hans Urs von Balthasar legai così a fondo che la sua teologia della croce fu definita “un pendant cattolico della riflessione di Moltmann” (U. Ruh)» (246). La fase della teologia della speranza (1964-1975) si conclude con la terza opera La Chiesa nella forza dello Spirito del 1975, che non ha l’organicità delle due grandi opere precedenti: «Il libro sulla chiesa affronta una serie di temi e non solo un tema centrale come fanno Teologia della speranza o Il Dio crocifisso» (251). Non mancano nel libro riflessioni e proposte innovative, come quella, già avanzata (203), che destina la celebrazione della Santa Cena a tutti e alla quale sono invitati gli umili e gli oppressi, mentre il battesimo dovrebbe essere riservato ai credenti. La proposta ha suscitato una dura critica da parte cattolica (Kasper; ricostruisco la disputa in La teologia di Jürgen Moltmann, Queriniana 1975). Ora Moltmann confessa: «Forse però questa proposta non era particolarmente saggia» (251). Nella parte settima (345-425) Moltmann continua il suo racconto, concentrandosi in particolare sugli ultimi 15 anni della sua docenza a Tubinga, dal 1980 al 1994, in cui realizza una serie di Contributi sistematici di teologia in sei volumi, che non si presentano come una “teologia sistematica”, ma come una teologia dialogica e processuale, ma che non rinuncia a «proposte proprie» (348) come «teologia in cammino per le strade del mondo e nel tempo» (348-349). Questo modo di far teologia «in termini di reti e di relazioni» (356) va sotto il nome, coniato da Pannenberg (356) di «nuovo pensiero trinitario». In questo itinerario spiccano due opere, Dio nella creazione, che deriva dalle Gifford Lectures a Edimburgo nel 1985, e dove svolge una teologia ecologica della creazione; e Lo Spirito della vita del 1991, dove svolge una pneumatologia integrale, «dal quale sono scaturiti un nuovo amore per la vita, una cultura della vita e, non da ultimo, una nuova spiritualità dei sensi, del corpo e della terra» (358). E così, il percorso della teologia di Jürgen Moltmann, parte da una teologia della speranza per dilatarsi in una teologia della vita, che trova espressione anche nella preghiera, con cui si conchiude l’Autobiografia, che nel titolo del libro si ispira al Salmo 31,9: «Hai guidato i miei passi nel vasto spazio». Si domanda il teologo: «Che cosa amo quando amo Dio? Una sera lessi nelle Confessioni di Agostino, libro X, 6, 8: «Ma cosa amo quando amo te? Non la bellezza di un corpo, né le attrazioni della vita, né lo splendore della luce, amica di questi miei occhi, non le dolci melodie di un’infinita varietà di canti, né l’odore soave di fiori, unguenti e aromi; non la manna e il miele, né le membra gradevoli agli amplessi della carne: non è questo che amo quando amo il mio Dio. Esiste però una certa luce e una certa voce, un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso che amo quando amo il mio Dio: la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove la mia anima è inondata dalla luce che lo spazio non contiene, dove c’è una 42 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ musica che il tempo non afferra, dove c’è un profumo che il vento non disperde, dove c’è un sapore che la voracità non estingue, dove c’è un’unione che la sazietà non allenta. Questo io amo quando amo il mio Dio». E quella notte gli risposi: Quando amo Dio amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, lo splendore degli occhi, gli abbracci, i sentimenti, i profumi, i toni di questa colorata creazione. Tutto vorrei abbracciare, quando amo te, mio Dio, perché ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del tuo amore. Tu mi attendi in tutte le cose che io incontro. A lungo ti ho cercato dentro di me, mi sono nascosto nel guscio della mia anima e mi sono difeso con la corazza dell’inavvicinabilità; ma tu eri fuori di me e mi hai attratto dalla ristrettezza del mio cuore nel vasto spazio dell’amore per la vita. Così sono uscito da me stesso, ho trovato la mia anima nei miei sensi e ho scoperto quel che più mi appartiene negli altri. L’esperienza di Dio approfondisce le esperienze della vita e non le riduce, perché risveglia la forza di dire incondizionatamente sì alla vita. Più amo Dio, più sono felice di esistere; più esisto pienamente e direttamente, più percepisco il Dio vivente, la fonte inesauribile della vita e la vitalità eterna» (422-423). © 2009 by Teologi@Internet Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini Editrice Queriniana, Brescia (UE) i 43 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Salvaguardare il creato, vocazione dell'uomo di Bartolomeo Sorge A ritmo preoccupante si vanno susseguendo vere e proprie «catastrofi ecologiche», dovute in gran parte all'incoscienza e all'incuria dell'uomo. La natura stessa si ribella, come dimostra lo sconvolgimento del clima, con le sue conseguenze drammatiche: ghiacciai che si sciolgono, frane, alluvioni, siccità e mille altre calamità che fanno vivere l'umanità in stato di continua emergenza. a. Che altro ci vuole perché ci rendiamo conto che la distruzione dell'ambiente naturale è un pericolo mortale per l'umanità, non meno del terrorismo, della fame, delle armi di distruzione di massa? La «cultura ecologica» Il guaio è che manca una cultura ecologica. Siamo talmente abituati a disporre di beni sintetici d'ogni specie, a ottenere risultati strabilianti in ogni campo grazie alle applicazioni delle nuove tecnologie, che tendiamo tutti a sottovalutare la natura e ad attribuire alla scienza e alla tecnica poteri taumaturgici. Ma le cose non stanno così. La sopravvivenza dell'umanità è essenzialmente legata all'efficienza delle risorse naturali, al loro impiego razionale e responsabile. La scienza e la tecnica non creano le risorse necessarie alla vita, ma solo le trasformano e le utilizzano. Il terreno e i giacimenti minerali, le piante e gli animali, l'acqua e l'aria rimarranno sempre i serbatoi e le fonti naturali insostituibili per il sostentamento dell'uomo, pure nella società dei robot e dei cervelli elettronici. Senza una cultura ecologica adeguata, continueremo pericolosamente a convivere con la minaccia crescente della morte biologica, verso cui siamo già incamminati. Se questa non avverrà per reazione violenta da parte della natura, sopraggiungerà inevitabilmente per lenta e progressiva asfissia, per inedia e per avvelenamento strisciante. La «vocazione ecologica» Come cristiani, poi, siamo chiamati a un impegno maggiore. Sappiamo infatti che l'universo con le sue immense risorse è stato creato a servizio dell'uomo e a lode di Dio. È necessario, dunque, riscoprire il senso della creazione e della missione dell'uomo nel cosmo e nella storia. Capire che, quando si calpesta, si sciupa o si distrugge l'ambiente naturale, si colpisce e si compromette non solo la vita stessa dell'uomo, ma anche il disegno di Dio. L'uomo non è solo l'amministratore dei beni naturali. In certa misura, ne è pure il concreatore. Dio - ha ricordato il Papa in occasione del vertice mondiale di Johannesburg - ha affidato agli uomini il compito di portare a termine la creazione: «Di qui discende quella che potremmo chiamare la loro "vocazione ecologica", divenuta più che mai urgente nel nostro tempo»). Dunque, una «cultura ecologica» è necessaria per comprendere l'importanza della salvaguardia del creato; ma non basta: occorre poi comportarsi responsabilmente nei confronti della natura con la coscienza di adempiere una vocazione. 44 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Essere cristiani nella globalizzazione: cattolici e ortodossi a confronto Adalberto Piovano Priore Abbazia di Vertemate, Italia a Una istintiva reazione di fronte al titolo proposto per questo forum è stato quella di un interiore disorientamento, provocato da un senso di inadeguatezza davanti ad un tema tanto complesso e in continua evoluzione come quello della globalizzazione. Cosa può dire un monaco, che per scelta vive una certa xeniteia (estraneità, non disinteresse) rispetto al mondo, di fronte ad un fenomeno così ambivalente che investe livelli differenti dell’esperienza umana e assume dimensioni così vaste tanto da tradursi nella pretesa di un linguaggio comune per l’umanità intera? Può un monaco attingere dalla sua esperienza se non una risposta, almeno una particolare angolatura da cui, come cristiano, può collocarsi per discernere qualche aspetto di questo fenomeno? Al di là delle ambiguità delle proposte e dei contenuti, il termine ‘globalizzazione’ richiama in qualche modo una sorta di casa comune, una capacità di comprensione attraverso un linguaggio comune, il tentativo di una via di unità per l’uomo. E in un certo senso è qualcosa che affascina. E come monaco (monachos, colui che cerca l’unità) sento una profonda sintonia con tutto ciò che si propone di dare unità alla esperienza umana, superando divisioni e conflitti. E a dispetto della sua marginalità, il monaco (anzitutto come tipo di uomo) sente di poter offrire qualcosa della sua esperienza come piccola luce per collocarsi in verità di fronte ad un fenomeno così complesso. Anzi, si potrebbe dire che il monachesimo vive già una certa ‘globalizzazione’: come fenomeno antropologico, esso è presente in tutte la grandi religioni (anche se in alcune di esse in forma più sfumata e nascosta), tanto da offrire un linguaggio umano e spirituale comune, nella consapevolezza di una somiglianza tra quelli che lo vivono pur in contesti religiosi differenti. Come tale, il monachesimo tende ad uno sguardo unificato, ad uno sguardo che sappia trasformare le differenze in una armonica visione sapienziale dell’uomo in rapporto a se stesso, all’altro, al creato, a Dio. Un esempio di questo ‘sguardo unitivo’ si può trovare in una esperienza mistica di Benedetto, narrataci da Gregorio Magno nel suo II libro dei Dialoghi (ed è significativo che Gregorio Palamas, nella sua difesa dell’esperienza dell ‘esicasmo, riporti proprio questo episodio di san Benedetto). Al termine del suo racconto sulla vita di Benedetto, prima di narrare la morte del santo, Gregorio Magno colloca una visione singolare: di notte , il monaco “volgendo al cielo lo sguardo”, vide un intenso raggio luminoso e “come raccolto in quest’unico raggio di sole”, “il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi”. La capacità unificante dello sguardo di Benedetto, spiega Gregorio, deriva da un cuore dioratico, un cuore che vede tutto in Dio e che è ormai dilatato (il dilatato corde del Prologo alla Regola) alla misura stessa di Dio, se così si può dire: “è la stessa luce della contemplazione a dilatare la sua interiore capacità di penetrazione e, nella misura in cui si espande in Dio, essa è sollevata e resa superiore al mondo…Nessuna meraviglia dunque, se vide tutto il mondo raccolto davanti a sé, colui che, sollevato nella luce dello spirito, era già oltre il mondo”. Uno sguardo trasfigurato è reso capace, si potrebbe dire, di vedere il chiaroscuro della diversità (che altrimenti appare limite che minaccia e crea paura) nella prospettiva della luce di Dio, l’unica che permette di raccogliere e ricomporre tutto nella comunione. Come monaco vorrei collocarmi proprio in questa prospettiva chiaramente sapienziale e 45 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ spirituale per tentare di offrire alcuni percorsi, alcune piccole luci che permettono di affrontare questa sfida del terzo millennio nella logica dell’evangelo. Certamente parlerò da monaco occidentale, ma cercherò di farlo a partire da quei valori comuni che rendono il monachesimo cristiano indiviso, ‘uno’ sia in Oriente che in Occidente, al di là delle forme e delle strutture differenti o delle rotture ecclesiali. Una prima reazione da credente in ascolto della parola di Dio si esprime in un confronto tra due modalità bibliche di costruire uno spazio abitabile, uno spazio di comunicazione, una città per l’uomo. La città, come simbolo, riflette un ideale di umanità, un modo di rapportarsi tra uomo e uomo, tra uomo e cosmo, tra uomo e Dio. E la Scrittura ci presente due tipi di città, Babele e Gerusalemme, che ci offrono cammini differenti per realizzare uno spazio di comunione. Babele assolutizza una unità idolatrica che di fatto porta alla divisione nell’uomo e tra gli uomini, in quanto è una unità dal basso, voluta e progettata dall’uomo nella sua solitaria autonomia senza spazio per la diversità. ‘E una città costruita di mattoni giustapposti, opera delle mani dell’uomo, segno di una perfezione artificiale. E l’euforia di una città che ‘tocca il cielo’ si trasforma in una città auto-referenziale: gli uomini celebrano la loro comunione, dominando la terra mediante il loro progresso. Ma ciò porta alla progressiva estraneità degli uomini tra di loro e rende ciascun uomo anonimo, solo, appiattito in una uniformità che chiude al dialogo. Chiudendosi alla relazione con Dio, l’uomo costruisce una città dis-umana. Accade ciò che narra il midrash della torre: “(la torre) divenne così alta che per salire fino alla cima occorreva un anno intero. Agli occhi dei costruttori un mattone divenne allora più prezioso di un essere umano: se un uomo precipitava e moriva, nessuno vi badava, ma se cadeva un mattone tutti piangevano perché per sostituirlo sarebbe occorso un anno”. L’ideologia che tende ad unire le forze attorno ad uno scopo grande ed accomunante rischia sempre di dimenticare le persone e di sacrificarle alla ideologia, per quanto attraente possa sembrare. E mi pare anche significativo che questa costruzione umana, nel racconto biblico, inizi con un movimento: “emigrando dall’oriente”, gli uomini raggiungono un luogo in cui decidono di costruire la loro città. “L’oriente…è la direzione verso cui si avanza, è il luogo dove sorge il sole, è il futuro e la speranza; questi uomini voltano le spalle a tutto ciò, sono in preda al disorientamento, e la loro impresa lo dimostrerà”(De Benedetti). Dio rifiuta una sola lingua, una sola cultura, un solo potere; rifiuta tale progetto che si caratterizza da una ambigua unicità e moltiplicando le lingue, crea le diversità culturali, la varietà dei popoli e dei fini. Nella città che Dio stesso offre come luogo di incontro e di dialogo, Gerusalemme, l’infinito pluralismo di identità si apre alla comunione. Dio risponde al progetto di Babele scegliendo un uomo, Abramo; è la scelta della singolarità, della irripetibilità della persona come garanzia di ogni autentica relazione. Abramo, in cui tutti i popoli ricevono la benedizione di Dio, diventa il seme di quello spazio di comunione che è la città donata da Dio, Gerusalemme. Essa è la città simbolo della relazione, dell’incontro come dono: si edifica a partire dalla capacità che ognuno ha di incontrarsi in colui che è la relazione per eccellenza, Dio. Gerusalemme è la città costruita con pietre scelte ed uniche, ognuna delle quali mantiene quella alterità che la caratterizza e la rende preziosa, quella imperfezione che la rivela come dono. Nella Pentecoste, nel cuore di Gerusalemme, per noi cristiani si compie il destino della città donata da Dio: ciò che unisce gli uomini non è il ‘nome’ che si danno, ma lo Spirito (il volto della relazione intradivina) che viene donato. E l’unità non è nella riduzione ad una sola lingua, ma nella comprensione della parola dello Spirito nella diversità e nella unicità di ciascuna lingua. E penso che il cristiano debba cercare nello Spirito e secondo lo Spirito una risposta a ciò che appare il progetto comunitario del terzo millennio, la globalizzazione, in quanto la comunione attraverso lo Spirito sa mantenere intatta la ricchezza di ogni alterità, liberandola da una conflittualità distruttiva. E in questo senso la risposta del cristiano può 46 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ giocarsi essenzialmente su di una qualità ‘spirituale’ o meglio, su di una spiritualità che sappia rispondere a quel bisogno di comunione e di unità che l’uomo cerca. In questa prospettiva, vorrei fare un breve accenno a tre percorsi spirituali che, come monaco occidentale in ascolto della tradizione dell’Oriente cristiano, sento urgenti per i credenti oggi. Anzitutto credo sia importante riacquistare un linguaggio spirituale comune, un linguaggio che, di fatto, è già presente nella varie tradizioni ecclesiali, anche se espresso in forme differenti. Si potrebbe chiamare questo linguaggio dello Spirito un linguaggio ‘ecumenico’, intendendo questo aggettivo non nella sua accezione storica (si rischierebbe, in questo caso, di aggiungere una ulteriore scuola spirituale alle tante già presenti), ma nella sua valenza simbolica: un linguaggio capace di creare comunione e di ricondurre all’unità la ricchezza dei linguaggi delle singole tradizioni. In fondo si tratta di superare o rileggere un fenomeno tipicamente occidentale e cioè, quello della frantumazione della spiritualità in tante forme, certamente arricchenti, ma spesso in contrapposizione. A differenza dell’Oriente, l’occidente ha declinato la spiritualità al plurale, rischiando di compromettere l’unità della vita cristiana e la visione unitaria della sequela evangelica. Si può ricordare a questo riguardo il giudizio di H.U. von Balthasar: “La differenziazione della spiritualità, oggi divenuta pacifica – si parla di spiritualità dei diversi ordini, di spiritualità dei sacerdoti diocesani, dei laici, dei differenti gruppi e movimenti – è quasi totalmente un aborto, spesso ben intenzionato, ma sovente avvelenato, e non solo inconsciamente, dal risentimento. Come se un santo potesse essere interessato alla ‘sua propria’ spiritualità! Come se una simile spiritualità a scomparti non fosse indegna dello Spirito Santo, il quale vuole ispirare nei cuori sempre e soltanto la pienezza di Cristo”. In questa prospettiva, il monachesimo, nei suoi valori essenziali, può diventare un laboratorio per ricuperare un linguaggio spirituale comune. Non tanto perché il monachesimo può offrire ricette oppure perché ha una ‘sua propria’ spiritualità da proporre, ma perché conserva, al di là delle strutture e delle divisioni ecclesiali, quella koinonia di vita che è stata plasmata da un cammino comune nel solco della Chiesa indivisa. Esso conserva, a volte inconsapevolmente, quella che si potrebbe chiamare la ‘memoria storica delle origini’ in cui è custodito quel linguaggio dello Spirito plasmato dall’ascolto della Parola, dalla ricerca incessante di un Dio presente e nascosto dalla preghiera, da quella unità tra teologia e spiritualità che ha alimentato i grandi Padri. “La divisione della cristianità – scrive P.Evdokimov - non è un ostacolo formale, ma una mancanza di vera libertà, di quella che trova la sua origine nella verità totale. Più di tutti gli altri, i monaci faranno l’unità organicamente, per il fatto che la faranno liturgicamente…Attraverso la loro adorazione e i loro canti di lode, non escludono nessuno, invitano solamente tutti ed ognuno a diventare adulti in Cristo…Secondo la bella espressione di san Simeone il Nuovo Teologo, lo Spirito Santo non teme nessuno e non disprezza alcuno. Icona dello Spirito Santo, il monachesimo è una viva epiclesi ecumenica. L’unità non può trovarsi che in questa dimensione del monachesimo universale se egli sa rendersi alla fine così libero come i soffi del grande Liberatore” Oggi assistiamo, in tante forme, ad una violenza della immagine e del linguaggio che abbruttisce l’agire e il pensare dell’uomo. Un tentativo di reazione a tale situazione può essere la ricerca di una perfezione e di una bellezza che, però, hanno spesso il sapore di un fuga dalla realtà dell’uomo. Si percepisce che tale bellezza è di fatto artificiale e, alla fine, spersonalizzante. Come credenti siamo chiamati a scendere in profondità, a cercare altrove quella bellezza che può strappare l’umanità da ogni sorta di abbrutimento. Dobbiamo continuamente farci la domanda del protagonista de’ L’Idiota di Dostoevskij: “Quale bellezza salverà il mondo?”. Credo che la bellezza, come dimensione e linguaggio dello Spirito, può diventare luogo di salvezza solo se riesce ad accogliere e a trasfigurare 47 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ ogni esperienza di sofferenza, di lotta, di contraddizione, di imperfezione: è la bellezza del Risorto che porta impressi i segni della sofferenza e della passione. ‘E il cammino di una spiritualità ‘filocalica’ che sa comunicare una bellezza come frutto di un processo spirituale e ascetico, a volte drammatico e sofferto, che conduce alla unità del cuore: “la bellezza – scrive ancora Dostoevskij ne’ I fratelli Karamazov – è i mistero in cui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo”. In questo senso, la tradizione spirituale orientale ci aiuta a ricuperare la via della santità come via di bellezza, capace di comunicare una Bellezza ‘altra’: il santo, mediante la testimonianza della sua vita, è nella Chiesa e nel mondo icona della bellezza di Dio, una icona ‘scritta’ dallo Spirito a partire dalla finitezza della creatura, dalla sua carne fragile, in questo mondo e in questa storia. E in questa prospettiva il santo, come icona di una bellezza che supera l’esperienza umana, può diventare profezia e parola di salvezza per l’uomo di ogni tempo. Anche del nostro tempo. Se noi pensiamo alla volgarità dell’immagine e della parola che deturpano l’equilibrio dei rapporti tra l’uomo e la sua realtà interiore, tra l’uomo e i suoi simili, tra l’uomo ed il creato, ci accorgiamo come oggi venga a mancare non solo una profondità spirituale, ma anche una armonia di umanità; c’è una incapacità a mettere nei rapporti, nella comunicazione, nel modo di vivere un gusto per la bellezza. Lo squilibrio interiore che si nasconde dietro la violenza della parola e dell’immagine, non può che generare inquietudine, disorientamento, aggressività. Il santo come icona ed espressione simbolica di una bellezza ‘altra’ e pacificante, può ridonare realmente trasparenza al nostro sguardo: uno sguardo trasfigurato che sa cogliere al bellezza di Dio in ogni realtà umana e sa comunicarla in una armonia che investe tutta la persona ( parola, gesti, silenzio ecc…). ‘E evidente, però, che tutto questo passa attraverso un lungo processo di maturazione - è l’ascesi del santo - in cui sono chiamate in causa virtù spesso dimenticate oggi e senza le quali non è possibile una armonia e una solidità interiori: la pazienza, la perseveranza e l’umiltà nel cammino, il digiuno degli occhi, il silenzio dalle parole vane, e soprattutto la consapevolezza dell’attesa di un compimento che ci è dato solo di gustare nella bellezza della vita secondo lo Spirito. Il santo come icona di questa bellezza che è la santità, ci insegna ad attendere una pienezza che è ‘al di là’: ci apre uno spiraglio sulla bellezza di Dio in Cristo e orienta la nostra vita, mediante lo Spirito, verso di essa. Proprio questa attesa di un incontro che dà pienezza è il terzo tratto che credo sia urgente comunicare oggi come percorso spirituale. Ho già fatto accenno alla tendenza, a vari livelli del vivere umano, di creare un mondo perfetto e unitario in cui sono eliminati tutti gli scarti e le contraddizioni che la storia continuamente presenta. Se è certamente un impegno di ogni uomo combattere ed eliminare tutto ciò che minaccia la esistenza e la dignità delle persone e cercare sempre migliori condizioni di vita, resta tuttavia sottile la tentazione di costruire una città dell’uomo perfetta, un progetto simile alla torre biblica, cioè la pretesa di una completezza che unisce. A volte anche le comunità ecclesiali sono tentate da questa logica. Spesso l’impressione che suscita una certa modalità ecclesiale di presenza nella storia, è quella di una eccessiva preoccupazione di colmare, attraverso strutture, impegni, opere, ecc..., quegli spazi del tempo e della storia che si percepiscono come vuoti. Sembra che si abbia paura delle attese di cui è disseminata la storia; il non poter intervenire è considerato fuga ed irresponsabilità. Si dimentica che l’attesa non è spazio vuoto, ma relazione con il Veniente; essa diventa, per il credente, capacità di andare oltre a quello che si fa, liberandosi dalla preoccupazione di riempire gli spazi che la storia offre con le opere e impegnandosi a calare in essa il senso di una incompiutezza, di un cammino verso quella pienezza donata nell’incontro con il Veniente. Penso che sia urgente recuperare oggi una qualità escatologica della spiritualità: è lo Spirito, e non il nostro agire, che sa colmare, attraverso il desiderio e la vigilanza, il tempo dell’uomo e che sa aprire ogni vuoto della storia, ogni imperfezione e impotenza in spazio di attesa di 48 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Colui che ritornerà a dare pienezza a ogni nostra realtà. Una spiritualità escatologica ci educa a guardare gli scarti e le contraddizioni della nostra storia come altrettante aperture ad un dono che viene dall’alto. E può aiutarci a vivere, nello stesso tempo, con responsabilità di fronte al mondo, ma senza quella angoscia di dover risolvere e rispondere a tutti i problemi dell’umanità. Uno dei misteri maggiormente sacri alla tradizione monastica è la Trasfigurazione del Signore. Questo sublime momento in cui il Signore Gesù manifesta la sua gloria è un momento di sintesi – la presenza di Mosè ed Elia – e di apertura verso il nuovo esodo. Un esodo che è nuovo per la sua assoluta e definitiva provvisorietà, ben significata dal rifiuto di Gesù di acconsentire alla proposta di Pietro di erigere tre tende (la tentazione dell’agire dell’uomo!). Penso che la vita monastica in quanto sequela di Cristo ed esperienza emblematica di spiritualità come pienezza di umanità nell’icona del volto trasfigurato di Cristo, non è altro che memoria continua di una cammino sempre povero e nella cui provvisorietà – non immune da momenti di scoraggiamento e di lotta interiore – il Risorto si può fare compagno di strada per ‘aprire la mente’ alla intelligenza del ‘cuore’ (Lc 24). Il cuore purificato dalle passioni è, in fondo, l’unico luogo vero di incontro e di promettente comunione. 49 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Il vangelo della trasfigurazione: esegesi biblico-spirituale ENZO BIANCHI, priore di Bose (2007) Introduzione. Il racconto della trasfigurazione nei sinottici Il racconto della trasfigurazione di Gesù è situato in ciascuno dei tre vangeli sinottici in una posizione centrale (cf. Mc 9,2-10; Mt 17,1-9; Lc 9,28-36), in un punto in cui si registra un tornante decisivo tra il ministero di Gesù in Galilea e la sua salita a Gerusalemme. Per essere ancora più precisi, tale racconto è collocato in una sequenza assolutamente identica nei sinottici: confessione di Pietro (cf. Mc 8,27-30 e par.), primo annuncio della passione e delle condizioni per seguire Gesù (cf. Mc 8,31-38 e par.), trasfigurazione, secondo annuncio della passione (cf. Mc 9,30-32 e par.). Nel quarto vangelo l’evento della trasfigurazione è assente, ma tutto il vangelo è rivelazione della gloria di Gesù, dalla manifestazione della gloria avvenuta a Cana (cf. Gv 2,1-12) alla glorificazione sulla croce (cf. Gv 12,23-28; 17,1; ecc.), sicché l’evangelista può attestare fin dal prologo: «E noi abbiamo visto la sua gloria» (Gv 1,14). Non va neppure dimenticato che questo evento è ricordato in modo dettagliato anche dagli scritti apostolici (cosa che avviene, oltre al nostro caso, solo per l’ultima cena), precisamente nella Seconda lettera di Pietro, che invita a discernere nella trasfigurazione un’anticipazione della parusia, della venuta nella gloria del Signore Gesù Cristo (cf. 2Pt 1,16-19). Nell’intenzione dei sinottici e di Pietro l’evento della trasfigurazione deve essere letto e contemplato come un evento storico, cioè accaduto nella storia, nella vita di Gesù, davanti a testimoni per i quali ha avuto un significato determinante e attraverso i quali è stato raccontato: non si tratta dunque di un mito e neppure di un midrash cristiano! Certamente gli esegeti trovano difficoltà a determinarne il genere letterario: visione apocalittica? teofania divina? intronizzazione messianica? rilettura della trasfigurazione di Mosè (cf. Es 34,29-35)? Il racconto in verità non si lascia restringere entro i confini di un genere letterario, ma resta un’interpretazione di un evento realmente accaduto nella vita di Gesù, compreso ed espresso dai singoli evangelisti in modo diverso. E la loro intenzione è quella di dare una testimonianza su Gesù, che aiuti il lettore nel suo itinerario di fede pasquale: per loro la trasfigurazione è rivelazione, è un alzare il velo su Gesù in modo che il discepolo conosca l’identità più autentica del Signore. Io vorrei ora semplicemente contemplare questo racconto evangelico, questo roveto ardente in cui Dio rivela il suo volto; vorrei cercare, secondo l’insegnamento di Origene, di contemplare e leggere le vesti di Cristo che sono le parole del vangelo, invocando lo Spirito santo perché faccia risplendere queste vesti, le faccia diventare bianche come la luce (cf. Commento a Matteo XII,38 [su Mt 17,2]). 1. La trasfigurazione, rivelazione del Regno L’evento della trasfigurazione è un evento profetizzato da Gesù, il quale dopo il primo annuncio della sua passione-morte-resurrezione dice ai discepoli: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non gusteranno la morte prima di vedere il Regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1; cf. Mt 16,28; Lc 9,27). Dunque alcuni dei discepoli saranno destinatari di una visione prima di morire, nella loro stessa vita, e vedranno il Regno di Dio veniente (Mc e Lc), vedranno il Figlio dell’uomo veniente (Mt). Come il vecchio Simeone aveva ricevuto dallo Spirito santo la 50 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ promessa «di non vedere la morte senza prima avere visto il Cristo del Signore» (Lc 2,26), così alcuni ricevono una promessa da Gesù stesso: sarà loro manifestato il Regno di Dio, che Matteo identifica con il Figlio dell’uomo, dunque con Gesù stesso. Gesù è il Regno di Dio in persona, è l’autobasileía, come ha ben compreso Origene (cf. Commento a Matteo XIV,7,10.17 [su Mt 18,23]). Gesù, che ha annunciato la venuta del Regno di Dio, ora lo rivela; o meglio, Gesù è rivelato dal Padre come Regno di Dio veniente con potenza, e dunque l’evento della trasfigurazione appare come un’anticipazione. Sei giorni (Mc e Mt) o otto giorni (Lc) dopo queste parole, «Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta su un alta montagna, in un luogo in disparte, loro soli» (Mc 9,2). Egli opera una scelta, compie un’elezione, e dei dodici prende con sé solo tre, tra i primi chiamati alla sequela (cf. Mc 1,16-20). Sono i tre discepoli più vicini a Gesù, già scelti come testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Mc 5,37-43), quelli che saranno poi anche i testimoni della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani, alla vigilia della passione (cf. Mc 14,32-42). Sono scelti non per particolari virtù o meriti ma, nell’imperscrutabile volontà di Dio, perché possano rendere testimonianza, diventare testimoni di Gesù, anzi i testimoni per eccellenza: Pietro sarà «testimone (mártys) delle sofferenze di Cristo e partecipe (koinonós) della gloria che sarà manifestata» (1Pt 5,1); Giacomo e Giovanni berranno la coppa e subiranno l’immersione, secondo la promessa di Gesù (cf. Mc 10,38-39). Saranno testimoni e dunque martiri! Sono questi che, «presi con sé» da Gesù, salgono con lui l’alta montagna, la montagna della rivelazione di Dio che a partire dal II secolo (cf. Vangelo degli Ebrei, citato da Origene in Omelie su Geremia XV,4,21) è identificata col monte Tabor, peraltro già menzionato in Sal 89,13. Sì, c’è in questa salita sul monte l’eco di tutti i racconti di teofania, di rivelazione di Dio dell’Antico Testamento: la montagna del Sinai e dell’Oreb, che sono un’unica montagna (cf. Es 3,1) salita e discesa da Mosè (cf. Es 19-34) e da Elia (cf. 1Re 19,1-18); «la montagna della dimora del Signore elevata al di sopra dei monti» (Is 2,2; Mi 4,1)… Dunque questa salita, che Marco e Matteo sottolineano essere diretta verso «un luogo in disparte» (cf. Mc 9,2; Mt 17,1) e Luca specifica avere come fine la preghiera (cf. Lc 9,28), appare in vista di un evento importante, in cui i discepoli beneficeranno di una rivelazione fatta da Dio, rivelazione che riguarda il loro maestro, confessato poco prima da Pietro come MessiaCristo (cf. Mc 8,29 e par.). Ed ecco che, mentre Gesù era in preghiera, «fu trasfigurato» (passivo divino metemorphóthe: Mc 9,2; Mt 17,2), subì un mutamento di forma nei vestiti e nel corpo. Luca, temendo che i lettori del vangelo comprendano questo evento come un mito, una metamorfosi alla stregua dei riti pagani greci, preferisce usare un’espressione più neutra: «l’aspetto del suo volto divenne altro» (héteros: Lc 9,29). Qui riscontriamo come l’evento sia in realtà inesprimibile e come il linguaggio degli evangelisti sia inadeguato: Matteo parla di «vestiti bianchi come la luce», Marco li descrive «splendenti, bianchissimi, quali non li potrebbe rendere nessun lavandaio sulla terra», Luca li definisce «sfolgoranti». I tre racconti tentano dunque di descrivere la luce di questi vestiti, certamente non dimenticando che la luce è il mantello di cui si riveste Dio (cf. Sal 104,2); in profondità, però, la sorgente di questa luce è Gesù stesso: ecco perché il corpo di Gesù fu trasfigurato (Mc e Mt), il suo volto brillò come il sole (Mt) e l’aspetto del suo volto divenne altro (Lc). Invece del corpo e del volto umano, quotidiano di Gesù come lo conoscevano i discepoli, il mutamento fornisce la visione di un volto altro, luminoso, un volto trasfigurato da un’azione che poteva solo essere divina. Se Paolo nell’inno della Lettera ai Filippesi confessava: Colui che era nella forma di Dio (en morphê theoû) non ritenne un possesso geloso la sua uguaglianza con Dio. 51 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Ma egli svuotò se stesso, prendendo forma di schiavo (morphè doúlou), diventando simile agli uomini, riconosciuto nella forma come uomo (Fil 2,6-7), ora nella trasfigurazione colui che aveva la forma di schiavo riprende la sua forma di Dio e risplende di luce divina. Già Origene aveva osservato come la trasfigurazione richiami il testo appena citato. Egli scrive: Tu tenti di sapere se i discepoli, quando Gesù si trasfigurò davanti a quelli che aveva fatto salire sull’alta montagna, videro Gesù sotto la forma di Dio, quella che era la sua prima, avendo egli preso quaggiù la forma di schiavo? Ebbene, ascolta queste parole, se tu sei capace, in un senso spirituale, e nota che non è detto solo «fu trasfigurato», bensì «fu trasfigurato davanti a loro», come dicono Matteo e Marco. Tu dunque concluderai che è possibile che Gesù davanti ad alcuni sia trasfigurato e davanti ad altri non lo sia (Commento a Matteo XII,37,1-21 [su Mt 17,2]). Qualcosa della gloria, della luce di Dio risplende in Gesù, per quanto era possibile vedere ai discepoli: Gesù appare nella forma di uno dei «giusti splendenti come il sole nel Regno del Padre loro» (cf. Mt 13,43), come lui stesso aveva rivelato, appare come uno dei santi sapienti «splendenti nel firmamento come stelle per sempre» della visione di Daniele (Dn 12,3). Ciò che accade è dunque una vera Cristofania, anzi una teofania come quelle raccontate nell’Antico Testamento, di cui beneficiarono Mosè (cf. Es 3,1-15; 34,5-28), Elia (cf. 1Re 19,1-18) e gli altri profeti, soprattutto Isaia (cf. Is 6) ed Ezechiele (Ez 1). 2. Mosè ed Elia, la Legge e i profeti Quando si è operata la trasfigurazione di Gesù, in qualche modo «si sono aperti cieli» (cf. Mc 1,10 e par.) e sono apparsi Mosè ed Elia che si intrattenevano con Gesù (cf. Mc 9,4 e par.). Mosè il legislatore, dunque la Legge, è nominato più volte nei vangeli sinottici proprio in relazione alla Legge (cf. Mc 1,44; 7,10; ecc.), ma solo qui appare direttamente. Sull’alta montagna del Sinai-Oreb Mosè aveva ricevuto in dono diverse teofanie, e proprio per la sua intimità con Dio aveva ricevuto in dono anche la luminosità del volto, che i figli di Israele non potevano sostenere (cf. Es 34,29-35). Egli era pure il profeta atteso alla fine dei giorni, quando – secondo il Poema delle quattro notti nel Targum a Es 12,42 – sarebbe salito dal deserto, mentre il Re Messia sarebbe sceso dall’alto. Mosè era dunque atteso per i tempi messianici, quando sarebbe sorto il profeta simile a lui, cui doveva andare l’ascolto del popolo santo di Israele: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: ascoltatelo!» (Dt 18,15). Ma Mosè era anche colui che aveva pregato Dio: «Fammi vedere la tua gloria!» (Es 33,18), sentendosi da lui rispondere: «Non è possibile vedere la mia gloria e restare in vita … Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,20.23). Nell’evento della trasfigurazione Mosè è presente, vivente nel mondo di Dio, e vede finalmente la gloria di Dio, Gesù Cristo, che in quell’ora appare come «la gloria del Dio invisibile» (cf. Eb 1,3), «il Signore della gloria» (1Cor 2,8), colui sul volto del quale «brilla lo splendore della gloria di Dio» (cf. 2Cor 4,6). Accanto a Mosè appare Elia, il prototipo dei profeti, anche lui salito sulla montagna di Dio per una rivelazione nella «voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12), anche lui atteso alla fine dei tempi «prima che venga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23) e che «si levi per quelli che temono il Nome di Dio il “Sole di giustizia” nei cui raggi sta la salvezza» (cf. Ml 3,20; cf. anche Sir 48,10-11). Elia rappresenta e sintetizza in sé tutta la profezia dell’Antico 52 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Testamento, quella che si era chiusa con Giovanni il Battista, anch’egli visto e identificato come «nuovo Elia» (cf. Mt 11,14; 17,10), precursore di Gesù nella vita, nella predicazione del Regno veniente, nella testimonianza e nella morte violenta. Mosè ed Elia, la Legge e i profeti che sintetizzano tutte le Scritture di Israele, il Primo Testamento, sono accanto a Gesù come testimoni e interpreti. Anzi, in quel loro «intrattenersi», in quel loro «parlare insieme» (sunlaleîn: cf. Mc 9,4 e par.) a Gesù mostrano un’autentica interpretazione spirituale in atto: Gesù è l’ermeneuta della Legge e dei profeti che sempre, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega in tutte le Scritture ciò che si riferisce a lui» (cf. Lc 24,27); e Mosè ed Elia, definiti da Luca «due uomini», sono coloro che, presenti accanto alla tomba vuota, interpreteranno le parole dette da Gesù nella sua vita e lo proclameranno Crocifisso-Risorto (cf. Lc 24,4-7). Proprio in quest’ottica, nel racconto della trasfigurazione Luca specifica che Mosè ed Elia «parlavano con Gesù del suo esodo (élegon tèn éxodon autoû), che stava per compiere a Gerusalemme» (Lc 9,31). Dunque la Legge e i profeti testificano la necessitas passionis di Gesù, lo indicano come il Servo del Signore che deve passare attraverso la kénosis e l’innalzamento, e così mostrano la continuità della fede tra Antica e Nuova Alleanza. Le attese messianiche di Israele sono veramente compiute, e Gesù il Messia appare come l’esegesi vivente e il compimento autentico delle Scritture. Con questa convinzione Origene può commentare: Se si comprende e si contempla il Figlio di Dio trasfigurato al punto che il suo viso sia sole e i suoi vestiti bianchi come la luce, si vedranno, contemplando Gesù in questa forma, Mosè la Legge ed Elia, che non è un profeta solo ma li rappresenta tutti, mentre conversano con Gesù … E se qualcuno ha visto la gloria di Mosè, poiché ha compreso che la Legge spirituale è tutt’una con la parola di Gesù, e ha compreso che nei profeti «la sapienza è nascosta nel mistero» (1Cor 2,7), allora egli ha visto Mosè ed Elia nella gloria, proprio vedendoli con Gesù (Commento a Matteo XII,38,29-37.43-49 [su Mt 17,2-3]). Come dimenticare il mosaico di S. Apollinare in Classe a Ravenna, dove da una parte e dall’altra della croce gloriosa stanno Mosè ed Elia, mentre sotto la croce stanno tre pecore, che raffigurano i tre testimoni della trasfigurazione? In questo mosaico Gesù è rappresentato dalla croce, il soggetto della conversazione tra Mosè ed Elia: si tratta davvero di un’interpretazione figurativa straordinaria e altamente teologica! E proprio perché questa visione diventi pienamente realtà, «Pietro, prendendo la parola, dice a Gesù: “Maestro, è buona cosa per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”» (Mc 9,5 e par.). Egli crede forse che sia giunta la fine dei tempi? Pensa alle tende della festa di Sukkot, festa carica di senso escatologico? Pensa di erigere per Gesù, Mosè ed Elia la tenda dell’incontro fatta da Mosè per incontrare Dio (cf. Es 33,7-11)? In ogni caso Pietro, Giacomo e Giovanni «non sanno rispondere» a quell’evento, come nell’ora del Getsemani – si noti che ricorre la stessa espressione in Mc 8,6 (ou édei tí apokrithê) e 14,40 (ouk édeisan tí apokrithôsin)! –, e sono presi da spavento per la rivelazione di cui sono destinatari, lo stesso spavento provato dalle donne nell’alba di Pasqua (cf. Mc 16,5.8). 3. La nube dello Spirito e la voce del Padre Mentre Pietro sta parlando, ecco arrivare «una nube che coprì tutti nella sua ombra, e dalla nube venne una voce: «Questi è il mio Figlio, l’amato, ascoltatelo!» (Mc 9,7). Sullo sfondo del racconto vi è sempre il racconto della teofania rivolta sul Sinai a Mosè: sull’alta montagna c’era una nube che la copriva (cf. Es 19,16; 20,21; 24,15; ecc.), una nube simbolo della Presenza di Dio, segno del Dio che è sceso, si è avvicinato agli uomini, e tuttavia resta nascosto, Santo, separato dal mondo. Questa nube che sul monte indicava la Dimora di Dio (cf. il verbo shakan, 53 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ da cui Shekinah) passò sul tabernacolo costruito da Mosè nel deserto (cf. Es 40,34-35) e, nell’ora della dedicazione del Tempio, riempì il Santo (cf. 1Re 8,10-12). Questa nube è dunque la Presenza di Dio, letta dalla tradizione rabbinica come Presenza attraverso lo Spirito santo, è la gloria stessa di Dio. L’introito della messa latina giustamente dice: «Lo Spirito santo apparve nella nube luminosa e la voce del Padre risuonò»… Nell’evento della trasfigurazione la Shekinah viene a testimoniare che Dio è presente e adombra, proietta la sua ombra sui personaggi di quell’evento. Siamo di fronte a un ossimoro: è «una nube luminosa», specifica Matteo, eppure fa ombra (cf. Mt 17,5); la precisazione di Matteo sarà cara alla tradizione cristiana proprio in quanto definizione della conoscenza e della visione di Dio… Questa è dunque la risposta alle parole di Pietro: non tre tende fatte da mano d’uomo, ma una nube, la Shekinah di Dio. Ecco la realtà ultima e definitiva: non più una tenda, non più un Tempio, non più un Santo dei santi, ma la Shekinah, la Dimora-Presenza di Dio è in Gesù Cristo, lui che è Dimora, Tempio e Presenza! Dirà Gesù secondo il quarto vangelo alla samaritana: «Donna, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito (cioè nello Spirito santo) e nella Verità (che è Gesù Cristo)» (Gv 4,23)… E dalla nube della Presenza di Dio ecco venire la voce del Padre, la parola di Dio stesso. Gesù aveva già ascoltato questa parola dal Padre nel battesimo, nell’immersione ricevuta da Giovanni il Battista; allora i cieli si erano aperti e la voce aveva dichiarato a Gesù solo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato (“l’eletto”, secondo Lc 3,22), in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11; Mt 3,17). Di fatto la voce del Padre allora aveva ripetuto le parole dette sul Servo del Signore: «Ecco il mio Servo che io sostengo, in cui si compiace la mia anima» (Is 42,1), attestando che il Figlio di Dio è il Servo del Signore. Ora questo viene annunciato ai tre discepoli, tra i quali vi è Pietro che poco prima si era rivolto a Gesù chiamandolo «Rabbi, Maestro» (Mc 9,5). Colui che i discepoli avevano seguito, coinvolti nella sua vita, colui che avevano ascoltato e visto agire come Maestro, Profeta, Messia, è rivelato dal Padre come «Figlio amato» e «Servo del Signore». Sì, attraverso la rivelazione del Padre Gesù appare insieme come il Messia intronizzato del Salmo 2 («Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato»: Sal 2,7) e come il Servo che Dio stesso presenta a Israele tramite il profeta Isaia (cf. Is 42,1-9). Vi è qui l’incrociarsi delle diverse attese messianiche di Israele: quella di un Messia regale, quella di un Messia profetico, quella di un Messia escatologico. Per questo ormai può risuonare l’invito: «Ascoltatelo!», che è l’eco della parola di Dio riguardo al profeta escatologico (cf. Dt 18,15) ed è anche l’eco dello Shema‘: «Ascolta, Israele…» (Dt 6,4). Ormai l’ascolto di Dio stesso è ascolto di Gesù, del Figlio, della Parola vivente di Dio! Mosè ed Elia, la Legge e i profeti, cedono il posto a Gesù dopo avergli reso testimonianza, perché ormai è lui l’esegesi del Padre (exeghésato: Gv 1,18); è lui, Gesù, che può dire in verità chi è Dio ed evangelizzarlo, renderlo cioè buona notizia per tutti gli uomini; il comando di Dio Padre: «Ascoltatelo!» significa che Gesù è il Lógos, la Parola definitiva… Ma la visione svanisce, e Gesù è di nuovo contemplato «solo» nella quotidianità umile della natura umana (cf. Mc 9,8 e par.). Poi, «mentre scendono dall’alta montagna, Gesù ordina ai tre discepoli di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti» (Mc 9,9). La rivelazione è stata straordinaria, ma deve restare sotto silenzio, perché non sia svelato il segreto messianico prima dell’ora della resurrezione. Ma i discepoli, sempre preda del loro intontimento, della loro mancanza di fede, si chiedono cosa possa significare rialzarsi dai morti» (cf. Mc 9,10)… Conclusione. La portata cristologica dell’evento della trasfigurazione Dopo questa lettura puntuale dei racconti sinottici della trasfigurazione, vorrei concludere evidenziandone semplicemente il messaggio. Innanzitutto contemplare la trasfigurazione 54 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ significa comprendere con una maggior profondità l’evento del battesimo di Gesù. La parola di Dio rivela l’identità di Gesù: egli è il Figlio di Dio che deve fare esodo, cioè patire-morirerisorgere. Nello stesso tempo l’evento della trasfigurazione annuncia ciò che accadrà a Gerusalemme, quando nell’ora della croce il centurione confesserà: «Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio!» (Mc 15,39; Mt 27,54). Sì, l’evento della trasfigurazione è memoriale del battesimo e oracolo della croce, e la posizione centrale assegnatogli dagli evangelisti vuole proprio indicare questa sua qualità di memoriale e di profezia, di compimento di ciò che è stato detto nel battesimo e di anticipazione di ciò che avverrà nella resurrezione e nella parusia. Ma la trasfigurazione è anche mistero di luce, che illumina tutto il corpo (Israele e la Chiesa; Mosè, Elia e i discepoli) insieme al Capo. Infatti il Primo Patto testimonia e Gesù interpreta il Primo Patto; i discepoli, a loro volta, accolgono Gesù, accolgono la testimonianza delle Scritture e accolgono il comando del Padre in vista dell’ascolto del Figlio. Non c’è immagine biblica più efficace per narrare l’unità della fede nei due Testamenti, la centralità di Gesù il Messia, la pienezza della rivelazione in lui, l’essere un solo corpo da parte dei credenti che nell’Antico Testamento attendevano il Messia e nel Nuovo lo confessano e lo annunciano. E infine la trasfigurazione è mistero di trasformazione: il nostro corpo e questa creazione sono chiamati alla trasfigurazione, a diventare «altro»; il nostro corpo di miseria diventerà un corpo di gloria (cf. Fil 3,21), e «la creazione che geme e soffre nelle doglie del parto» (cf. Rm 8,22) conoscerà il mutamento in «cielo nuovo e terra nuova» (Ap 21,1). Ciò che è avvenuto sul monte Tabor in Gesù Cristo avverrà per tutti i credenti e per il cosmo intero alla fine della storia… Nell’attesa di quel giorno a noi non resta che contemplare, per quanto ne siamo capaci, «il volto di Cristo su cui risplende la gloria di Dio» (cf. 2Cor 4,6): così, «riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, attraverso l’azione dello Spirito santo» (cf. 2Cor 3,18). Così nella tua luce vediamo la luce, Signore (cf. Sal 36,10)! Enzo Bianchi 55 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Dire Dio con la bellezza di mons. Ignazio Sanna "E Dio vide che era molto buono". Questo versetto della Genesi, ripetuto più volte, è la firma di Dio sul creato. Una firma che è anche una garanzia sulla qualità dell'opera compiuta. L'opera di Dio è molto buona. Ma, secondo il comune sentire, ciò che è buono è anche bello: il vero, il bello, il buono si tengono uniti e si richiamano reciprocamente. La bellezza non è altro se non l'espressione visibile del bene. La creazione, dunque, in quanto opera buona di Dio, è anche opera bella. Allora, "dire Dio con la bellezza" significa dire Dio con l'opera stessa della creazione. Anzi, vuol dire lasciare che sia la creazione a dire Dio. La creazione, se è autentica, se è se stessa, è bella e dice sempre Dio. Questo lo attestano non solo i poeti, gli artisti, i letterati, che, in qualche modo, danno voce e immagine alla bellezza della creazione nel proporre le diverse viae pulchritudinis, ma anche le persone semplici, quelle che sanno godere dei beni del creato, che dispongono del senso innato del bello, che sono capaci ancora di stupirsi e di meravigliarsi. Oggi, si producono tanti falsi, che ci rubano lo stupore, tante imitazioni, che ci tolgono la meraviglia, tanti replicanti, che rendono artificiale la bellezza della nascita e banale la sacralità della morte. La conversione del cuore, il cambiamento di una vita, sono i miracoli nascosti che manifestano la magnanimità di Dio e la bellezza del suo perdono. Quando un peccatore si converte, nel dinamismo nascosto della sua conversione si riproduce la potenza e la bellezza della creazione. Il vertice della creazione è l'uomo. Tra tutte le creature uscite dal cuore di Dio, infatti, l'uomo è l'unica creatura che Dio ha voluto per se stessa. L'uomo è, allo stesso tempo, una potenza d'infinito e una potenza di comunione. Entrambe queste due potenze caratterizzanti la persona umana trovano la loro massima realizzazione in Dio, essere supremo e amore infinito, per cui si può dire che l'uomo è persona solo e nella misura in cui è immagine dell'essere supremo e dell'amore infinito di Dio. Ogni uomo e tutti gli uomini sono qualcosa di unico e irripetibile; ogni uomo è un valore a sé e per sé. Il fatto che Dio abbia creato l'uomo per se stesso, come fine e non come mezzo, fa di costui un valore assoluto, che non può essere posto in funzione di nessuna realtà, sia essa la produzione, la classe, lo stato, la religione, la società. L'uomo, come persona, è un valore assoluto, perché Dio lo considera in modo assoluto. Cristo, uomo fra gli uomini, con la sua vita e la sua opera di redenzione, ha confermato il valore assoluto della persona umana, perché è morto per ogni uomo, per ogni fratello (I Cor 8,11; I Tm 2, 5-6). La liturgia battesimale della Chiesa, adottando il rito dell'unzione dei re e ungendo il battezzando con il crisma, esprime la convinzione che davanti a Dio ogni uomo vale quanto un re. Il fatto che la somiglianza con Dio, poi, sia riconosciuta indipendentemente dalla sua posizione sociale o religiosa e che non venga collegata con alcun altra condizione è una forte testimonianza del valore di ogni singola vita umana. Un passo del Talmud attribuisce all'uomo il valore di tutto il mondo, quasi a dire che la vita umana, contrariamente al parere lapidario di Caifa (Gv 18,14: "E' meglio che un uomo solo muoia per il popolo"), non è in linea di principio quantificabile e non è soggetta ad alcun calcolo utilitaristico intramondano: "Adamo fu creato come un individuo incomparabile per insegnarci che chiunque annienta una persona deve essere trattato come se avesse annientato tutto un mondo, e per insegnarci che chiunque mantiene in 56 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ vita una persona va trattato come se avesse mantenuto in vita tutto il mondo". Secondo una tradizione rabbinica, Dio avrebbe proibito di fare delle sue immagini, perché la sua immagine egli se l'è fatta da sé ed è appunto l'uomo! L'uomo, quindi, in quanto creatura di Dio, è capace di dire Dio con la sua vita. Egli soprattutto è la gloria di Dio. Rispettare l'uomo vuol dire rispettare Dio, e rispettare Dio vuol dire rispettare l'uomo. Così, come rispettare la bellezza della natura vuol dire rispettare la bellezza di Dio. Il grado massimo della bellezza del creato è chiaramente l'uomo, perché Dio stesso è diventato uomo. Per cui, la legge dell'incarnazione è anche la legge della bellezza, la legge del rispetto dell'umanità di Dio. Se la preghiera dei salmi ci ricorda che la vita dell'uomo è una lode a Dio, la riflessione teologica ci insegna che vivere è lodare Dio. "Leben ist loben", ha scritto Carlo Barth. La vita e la morte, si oppongono tra loro come lodare e non lodare. D'altra parte, l'esistenza del cristiano, come l'esistenza del popolo liberato, è la celebrazione di una festa. Il popolo di Israele è liberato dalla schiavitù egiziana, per poter celebrare una festa nel deserto. All'inizio del lungo peregrinare verso la terra promessa c'è una celebrazione di gioia e di gratitudine. La vita liberata del cristiano non può non essere la celebrazione d'una festa di gioia e di gratitudine. Sarà proprio vero, come è stato scritto e viene sempre ripetuto, che la bellezza salverà il mondo? Di sicuro, la bellezza divina ha salvato una delle più belle intelligenze della storia cristiana: S.Agostino. Il santo del capolavoro delle Confessioni, dopo una lunga e inquieta ricerca della verità, ha trovato la pace della mente e del cuore in Dio, "bellezza così nuova e così antica". L'esperienza agostiniana, ora, ci assicura che la bellezza di Dio non conosce stagioni e non fa preferenza di persone. Essa può salvare chi ama dall'infanzia e chi ama dalla maturità, chi si perde per amare e chi si rovina per odiare. La bellezza di Dio è anche pazienza, ed è soprattutto misericordia: pazienza nell'attesa del ritorno di chi si perde, misericordia nel perdono di chi si pente. Una mamma mi ha raccontato che un giorno il suo bimbo di poco più due anni, ancora stropicciandosi gli occhi perché si era appena svegliato, guarda il fratello maggiore, muto, strabico, iposviluppato a causa di una anossia da parto, e lo saluta chiamandolo: "bellezza!". L'aveva sentito chiamare in quel modo dalla nonna, e lo ha ripetuto con tutta la carica della sua innocenza. E' proprio vero che ex ore infantium et lactentium, dalla bocca dei bambini e dei lattanti, escono la lode più pura per Dio, e le parole più vere e consolanti per l'uomo. Anche dietro l'aspetto di una esistenza compromessa, l'occhio del cuore può sempre scorgere la firma di Dio. Mi auguro che questa splendida serata musicale ci aiuti a riscoprire la bellezza di Dio in noi stessi, nel nostro prossimo, nella natura, in ogni frammento di umanità, capace di amare, anche senza parole, e capace di sperare, anche senza futuro. Mi auguro che possiamo scoprire la bellezza del silenzio e della parola, della solitudine e della compagnia, del ricordo e della speranza. Gesù ha detto ai suoi discepoli nel discorso della montagna: "la vostra luce risplenda davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5, 16). Penso che ognuno di noi debba sentire come rivolte a sé quelle parole di Gesù che invitano a far risplendere la testimonianza della fede e della carità. La bellezza della nostra fede è la santità della vita. Può darsi che a tante persone che,come nella vita di Mosé, ci chiedono di vedere il volto di Dio, noi rispondiamo mostrando le sue spalle, perché non presentiamo la bellezza del suo amore e della sua misericordia, ma il peso delle nostre prescrizioni e il formalismo dei nostri riti. Dire Dio non è lo stesso che parlare di Dio. Vuol dire narrareun incontro con Lui, raccontare un'esperienza. "Abbiamo visto il Signore", raccontavano gioiosi idiscepoli, e dovremmo ripetere noi. Ha scritto Origene: "che mi giova se il Verbo è nato 57 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ nel mondo, manon dentro di me?". Non si può dire Dio, dunque, se prima non lo si è ascoltato, incontrato, anzi, non si può dirlo se non lo si è fatto nascere nel più profondo della coscienza. Il XX secolo ha aggiunto ai tanti modi di parlare di Dio quello di "dire Dio al femminile", che ha portato a leggere l'essere di Dio come amore, ed ha aggiunto anche quello di "dire Dio dopo Auschwitz", che ha costituito una profonda fonte di forza per la guarigione dalla sofferenza. Se anche una sola persona fosse illuminata dallo splendore della nostra testimonianza e della nostra santità, non solo avremmo detto Dio con la bellezza ma avremmo anche reso bella la nostra vita e quella degli altri. E soprattutto avremmo dimostrato che è più bello dare speranza che ricevere conforto. 58 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Lo specchio Felice L’uomo giardiniere del creato 1. La domanda di futuro di +IGNAZIO SANNA Come è noto, un ritornello accompagna le prime pagine della Bibbia: "E Dio vide che era cosa buona"; "E Dio vide che era cosa molto buona". Questo ritornello biblico può essere paragonato alla firma di Dio sulle creature, descritte come opera delle sue mani e della sua parola. Negli ultimi anni quel ritornello della Bibbia è stato sostituito da un altro, ripetuto molto frequentemente a diversi livelli: "Il mondo è in pericolo"; "Il futuro è una minaccia". L'ottimismo divino, quindi, è stato sostituito dal pessimismo umano. Tutti possiamo constatare che molte certezze sono finite, che l'angoscia per il futuro è cresciuta, che molte visioni del mondo sono crollate, che la paura per qualcosa di nuovo, di incontrollabile, di terribile e di definitivo si è ingrandita. In una parola, costatiamo che non c'è più sicurezza per il futuro. La storia umana non è più o non è prevalentemente una storia di progresso e di sviluppo, ma è soprattutto una storia di sofferenza. L'angelo della storia vede un cumulo di rovine là dove l'immaginazione utopica vedeva sviluppo e progresso. Nel corso del XX secolo, avvenimenti d'una crudeltà inaudita hanno messo in crisi la convinzione che sia possibile un vero progresso morale. La tecnoscienza ha senz'altro compiuto enormi progressi nella battaglia contro le malattie e nella predisposizione di condizioni di vita più umana, ma la minaccia di guerre o di incidenti nucleari o chimici mortifica la speranza di trovare la salvezza nella potenza della tecnologia. Non per nulla il filosofo M. Heidegger sosteneva che la tecnoscienza nasconda più che riveli il Vero e l'Essere, e, che, allo stato attuale, ci possa salvare solo un Dio. Nel passato si riteneva che un ambiente fisico fondamentalmente sano potesse assorbire e neutralizzare gli eventuali danni arrecatigli. Oggi, l'ambiente non riesce più a far fronte alla marea montante dei disastri, provocati dalla crescita demografica e dallo sviluppo industriale selvaggio. Il territorio è antropizzato e non viene più usato con sapienza ambientale, ma sfruttato selvaggiamente. La massiccia urbanizzazione dei paesi altamente industrializati ha artificializzato l'ambiente ed irregimentato le forze della natura. Per la prima volta si parla di sicurezza e non solo di sviluppo, perché l'uomo può alterare l'equilibrio dell'universo, che ha permesso la comparsa della vita sulla terra. Viene introdotto il nuovo concetto di: sicurezza ambientale. Il fatto che si consumi in media il 20% delle risorse in più rispetto alla capacità di rigenerazione della terra ha fatto sì che negli ultimi trent'anni siano diminuite di più del 40% le specie terrestri, di acqua dolce e marina, proprio a causa della domanda di cibo, acqua ed energia della popolazione mondiale. I paesi ricchi stanno saccheggiando la terra, perché consumano più risorse di quelle che il pianeta può produrre e moltiplicano sempre di più il loro "debito ecologico". 1.1. Tra i numerosi fattori che mettono a rischio il futuro dell'uomo uno è certamente il problema della sopravvivenza della specie. E' vero che oggi è diminuita moltissimo la mortalità infantile, per cui se ieri erano necessari dieci bambini vivi, per garantire un tasso sufficiente di riproduttori e continuatori della specie, oggi, per lo stesso scopo, basta la metà, perché tutti i bambini nati sono in grado di arrivare all'età della capacità riproduttiva. Ma è anche vero che la fecondità delle coppie tende a diminuire vertiginosamente. La sopravvivenza della specie umana è praticamente minacciata anche dalla sterilità. La concentrazione degli spermatozoi nello sperma dei giovani adulti dei paesi occidentali continua a diminuire. Essa era di 89 milioni per millimetro nel 1973, ed è scesa oggi a 61 milioni, con un calo, quindi, del 2,1 per cento l'anno. Di questo passo, tra quarant'anni, non si dovrebbe più trovare un gamete maschile in grado di fecondare un ovocita. Proprio sulla scomparsa degli spermatozoi, l'ecologista Theo Colburn ha scritto un best-seller, dal titolo Our stolen Future, Il nostro futuro rubato. Secondo questo studioso, la chimica, con la messa in giro di una enorme quantità di ormoni femminizzanti, mette a rischio la stessa esistenza futura dell'umanità. 59 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ 1.2. Un secondo pericolo per il futuro dell'uomo è costituito dall'artificializzazione dell'agricoltura. Il cibo di cui noi ci nutriamo è sempre più artificiale e sempre meno naturale e genuino. I pomodori non marciscono, le fragole ce le abbiamo tutto l'anno, le bistecche sono agli ormoni, gli animali sono potenziati per fare più carne e più latte. Si fa un'agricoltura contro natura. Di per sè, il morbo di Creutzfeld-Jacob, quello cha fa impazzire le mucche, e, a quanto pare, non solo loro, è sempre esistito, ma ora l'introduzione di un modo assolutamente innaturale di allevare il bestiame facilita la trasmissione della malattia dagli animali all'uomo. L'uomo si è introdotto anche nel clima. E l'incidenza delle malattie trasmesse da mosche e zanzare, come la malaria o le encefaliti virali, dipende molto dal cambiamento climatico. Un rialzo di temperatura come quello previsto dai climatologi, 2 gradi centigradi nel corso del secolo XXI, farà dell'Europa una regione malsana. Altrove il grande caldo provocherà carestia, e sappiamo che la malnutrizione può trasformare virus inoffensivi in dei killer. 1.3. Un terzo elemento di rischio, che non viene preso in molta considerazione ma che è estremamente pericoloso, è l'offensiva dei microbi. Si pensava che gli antibiotici, i vaccini, l'igiene ci avessero liberato da virus, batteri, funghi e infezioni varie. Eppure, oggi si assiste ad un'offensiva dei microbi. Prima l'Aids, poi il virus Ebola, ora i prioni della "mucca pazza" preoccupano moltissimo i funzionari dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e costringono la gente a cambiare costumi di vita ed abitudini alimentari. Tornano la malaria e la tubercolosi, che invece sembravano debellate e sotto controllo. Riprendono le malattie infettive come il colera, la difterite, la febbre gialla. Eliminando certe malattie, si è creato lo spazio ad altre. Se il virus dell'Aids fosse comparso nel secolo scorso in una città come Padova o la stessa Roma, avrebbe provocato qualche decina, forse un centinaio di morti tra i tubercolotici, allora numerosi, ma poi si sarebbe spenta. Negli anni novanta, invece, in città come S. Francisco, l'Hiv ha trovato tutt'altro terreno. L'insieme dei fattori d'una forte concentrazione di omosessuali, di molta promiscuità, di molta mobilità hanno subito trasformato il contagio in epidemia. Se poi si pensa che nel 1980 c'erano soltanto 10 megalopoli con popolazione superiore a dieci milioni di abitanti, e che nel 2000, invece, le città con più di dieci milioni di abitanti erano 24, e tutte situate per lo più nei paesi del terzo mondo, si può facilmente capire quale terreno ideale di coltura si prepari per ogni sorta di malattie. 2. Le accuse al cristianesimo Dagli anni sessanta in poi, da quando, cioè, si è cominciato a percepire la gravità della crisi ecologica, la responsabilità di tale crisi e la conseguente messa in pericolo del futuro dell'umanità è stata attribuita al cristianesimo. Il primo a chiamare in causa la fede cristiana nella creazione è stato lo storico americano Lynn White negli anni settanta. Secondo costui, il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo il rifiuto del tempo ciclico e la sua sostituzione con una concezione lineare della storia, e, di conseguenza, la fiducia in un progresso crescente ed illimitato. La concezione biblica, poi, dell'uomo come immagine di Dio e signore della creazione, avrebbe reso l'uomo libero di usare ed abusare del mondo, proprio in nome di Dio. Nessuna religione è così antropocentrica come la religione cristiana, specialmente nella sua versione occidentale, e questo fatto avrebbe portato a giustificare l'abuso della natura e la sua riduzione ad oggetto di sfruttamento ad esclusivo vantaggio dell'uomo. In questo contesto sarebbe nata la scienza moderna, che altro non è che una estrapolazione della teologia cristiana della natura, e che rende effettiva la sua incondizionata resa della terra alla volontà dell'uomo. L'arroganza cristiana scatenerebbe, in ultima istanza, la tragedia ecologica, favorendo un dualismo radicale fra un essere che non si considera più parte integrante della natura e la natura stessa, la cui oscura vendetta non ha tardato a verificarsi. La scienza e la tecnica contemporanee sono così pienamente impregnate di quella arroganza cristiana, che non si può contare su di esse per mitigare la crisi. Dovrà essere la stessa fede cristiana, convertita al modello del cristianesimo orientale, assai più quietista e rispettoso verso la natura di quanto non sia quello occidentale, ad iniziare la riconversione della mentalità. La tesi dello White non è rimasta isolata. Ben presto, altri autori negli Usa e in Germania hanno riproposto la stessa imputazione. E' strano il fatto, però, che nessuno degli autori che hanno posto in 60 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ discussione, nell'ottica dell'ecologia, la Bibbia e il cristianesimo, abbia pensato anche alla responsabilità di altre istanze ideologiche e filosofiche, come per esempio il marxismo e l'esistenzialismo. Nella Weltanschauung marxista, per esempio, è dato per buono l'ottimismo progressista della tecnica contemporanea. Rispetto alla natura, osserva il teologo evangelico J. Moltmann, anche il marxismo, che pure critica "lo sfruttamento capitalistico dell'uomo da parte dell'uomo", ha mantenuto il linguaggio dello sfruttamento. Le distruzioni ambientali negli stati industrializzati del socialismo non sono inferiori a quelle che si riscontrano negli stati industrializzati a regime capitalistico. Chiaramente, la crisi ecologica è indifferente ai sistemi ideologici. Poco importa che la natura venga distrutta da un'espansione di tipo capitalistico o da un aumento della produzione secondo criteri socialisti. Per la natura, la civiltà tecnico-scientifica rappresenta indubbiamente il mostro più orribile che sia apparso sulla terra. 3. La responsabilità per il futuro Le accuse al cristianesimo sono chiaramente infondate, anche se sono diventate un luogo comune.L'interpretazione dei testi biblici sulla quale esse sono state formulate non regge più. Infatti, quello che di solito è reso con "soggiogare", osserva A. Bonora, è il verbo ebraico k_b_š, con cui si indica la presa di possesso di un territorio. Con la benedizione divina, l'umanità riceve la capacità di generare e di moltiplicarsi fino a riempire la terra: i singoli popoli, dunque, prenderanno possesso ciascuno del proprio territorio. Il secondo verbo riguarda il rapporto dell'uomo con il mondo animale. In ebraico r_dâ, reso di solito con "dominare", significa piuttosto "pascolare, condurre, reggere". Dietro il verbo sta l'immagine dell'uomo come "pastore" di tutti gli animali, non solo di quelli domestici. All'uomo, dunque, sono affidati il territorio e gli animali. Ma tale affidamento avviene mediante una benedizione divina ed è fatto all'uomo in quanto è immagine di Dio. Ciò vuol dire che il rapporto dell'uomo con il territorio e gli animali dovrà attingere a Dio i criteri del suo dispiegarsi concreto Più che fermarmi sulla confutazione delle accuse rivolte al cristianesimo, comunque, ritengo molto opportuno indicare quali dovrebbero essere, a mio parere, le condizioni perché venga garantito il futuro di speranza e di salvezza per l'uomo e per il mondo. La prima e più immediata indicazione è che bisogna cambiare il modo di concepire il rapporto di Dio con il mondo. In modo particolare, bisogna recuperare il concetto della paternità di Dio, per esprimere la fede in Dio creatore dell'universo. Dio è creatore del mondo, ma Dio è soprattutto padre del mondo. Agli inizi della tradizione cristiana, infatti, le prime redazioni del simbolo apostolico hanno presentato l'idea di Dio creatore, come padre prima ancora che come onnipotente: "Credo in Dio, padre onnipotente". Di fatto, solo una onnipotenza paterna e solidale con il mondo e con l'uomo, può garantire un futuro di salvezza. La seconda indicazione riguarda la concezione del rapporto dell'uomo con il mondo. La soluzione del problema ecologico, infatti, dipende in modo particolare da come l'uomo si colloca di fronte alla natura. Se l'uomo ha un atteggiamento utilitaristico e invece di associarsi alla natura, si dissocia da essa, questa viene ridotta a un oggetto posto nelle sue mani, e non sarà mai innalzata ad un livello umano. Se la natura è un possesso dell'uomo, la scienza e la tecnica utilizzano la superiorità dell'intelletto umano per scoprire vie e strumenti attraverso i quali l'uomo possa trarre il maggior profitto possibile dall'uso di essa. Per Cartesio, padre del dualismo, divenuto poi centrale nella modernità, tra l'uomo soggetto e la natura oggetto, inteso l'uno come res cogitans e l'altra come res extensa, l'uomo, in virtù della sua superiorità di ente dotato di ragione, è il "padrone e possessore della natura". Questa è ridotta a un pezzo di cera usabile e manipolabile, a pura estensione materiale, a "deposito di cose" e di risorse da sfruttare mediante "l'invenzione d'una infinità d'artifici", per "godere senza alcuna fatica dei frutti della terra e di tutte le comodità che si possono trovare". La natura deve ritornare ad essere madre, così come affermato dallo stesso detto popolare: la madre natura. Se la natura non è più madre, diventa un semplice materiale, aperto a tutte le manipolazioni degli uomini, soprattutto di quelli che detengono il potere. L'enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, afferma che "escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato e la stessa natura, non più mater, sia ridotta a materiale aperto a tutte le contraddizioni." 61 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Se invece l'uomo ha un atteggiamento personale e responsabile verso la natura, può trovare la sua identità non in contrapposizione ad essa, ma in associazione con essa. Se, dunque, l'uomo di oggi e di sempre riconoscerà che la terra è di Dio (Sal 24,1-2), non la violenterà o la distruggerà, perché "ogni nuova violenza sulla natura fa morire un pezzo di Dio". Egli la trasformerà, sull'esempio di Abramo, in primizia di quei nuovi cieli e di quella nuova terra, nei quali non ci sarà più tempo, perché non esisteranno né sole né luna per misurarlo (Ap 22,5; cf Gn 1,1617), e non ci sarà più tempio, perché Dio stesso sarà con gli uomini (Ap 21,3), in una coabitazione eterna, che esalta l'uomo senza mortificare il cosmo. Scrive Karl Rahner che "la materia cosmica riserva una frazione infinitesima di se stessa per realizzare il fenomeno umano. Ma proprio questa infinitesima frazione si comporta in maniera così peculiare da riconoscere leggi cui tutta la materia cosmica ubbidisce, ne ricostruisce la storia evolutiva e il proprio essere come un prodotto di questa evoluzione, riconosce anche la peculiarità del suo stesso essere così diverso dal resto del cosmo pur condividendone la uguale natura materiale e aspira all'instaurazione del regno della conoscenza, oltre a quello dell'amore, dell'arte, della morale, della filosofia, della religione". Se poi egli pensa che il Logos eterno di Dio, che muove questo miliardo di galassie, è diventato uomo proprio su questo minuscolo pianeta, che esiste disperso come un granello di polvere nell'universo, non può non essere preso da un senso di vertigine cosmica, ed interrogarsi con stupore su che cosa egli veramente sia, perché Dio si curi di lui(Sal 8, 4-5: "Se guardo il cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai l'uomo, perché ti ricordi di lui? Chi è mai che tu te ne curi?"). Se l'uomo riconosce e accetta questo suo "abbandono cosmico", si pone al di sopra di esso e lo condivide, lo trasforma in una espressione di esperienza della contingenza creaturale. Il cosmo stesso diventa per lui un "luogo teologico", che l'orienta ad accogliere la sua contingenza e creaturalità. Il senso di vertigine cosmica può essere interpretato, allora, come un momento dello sviluppo della coscienza teologica dell'uomo. 4. L'attività umana secondo il disegno di Dio La coscienza teologica dell'uomo, per quanto riguarda il suo rapporto con il mondo che lo circonda e che costituisce il suo ambiente vitale, ha conosciuto molteplici cambiamenti lungo il corso della storia del cristianesimo. Il cambiamento più decisivo dell'epoca contemporanea, di per sé, è stato favorito dagli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Esso, tuttavia, affonda le sue radici molto indietro nella storia della tradizione cristiana. In base alla cosiddetta "riscoperta della natura", infatti, avvenuta nel secolo XII, quest'ultima non venne allora più considerata come l'epifania del divino ma come attiva cooperatrice di Dio. Tale riscoperta della natura inaugurò un nuovo atteggiamento di fronte all'universo, favorì il progresso degli studi scientifici, soprattutto dell'astronomia e della medicina, nonché lo sviluppo della tecnica, e diede all'uomo il senso di maggiore dominio sulle cose mondane, le quali, in qualche modo, cessano di essere un prodotto divino e divengono una realtà che ha un suo specifico valore terreno. E' noto, ora, come nella coscienza cristiana, il lavoro umano, per tanto tempo, abbia avuto una dimensione di pena e di castigo del peccato originale, un valore piuttosto penitenziale ed espiatorio. Nella stessa Scrittura, per certi aspetti, si esprime una qualche diffidenza nei confronti del lavoro e dell'attività umana nel mondo. Secondo Gn 4, 17-22 sono Caino e i suoi figli che costruiscono la città, inventano gli strumenti e lavorano il ferro. Spesso le nuove forme di civiltà coincidono con il dilagare del peccato (Gn 11, 1-9), e lo sviluppo materiale, politico e culturale del regno salomonico prepara la decadenza del popolo (1Re 11). D'altra parte, nella prospettiva neotestamentaria, la vita cristiana implica una tensione escatologica: i cristiani, risuscitati insieme con Cristo, cercano le cose del cielo, pensano alle cose del cielo e non a quelle di questo mondo (Col 3, 1-2). Essi non hanno bisogno di cambiare la propria condizione sociale (1Cor 7, 24), ma si contentano di quello che hanno, perché non hanno portato nulla in questo mondo e non potranno portare via nulla (1Tm 6, 67). Anzi, i cristiani timorati di Dio, per non rendersi complici dei peccati commessi dagli altri, devono uscire dalla città terrestre, che conquista grandezza, sicurezza, benessere con una condotta perversa (Ap 18, 4-5). La valutazione "espiatoria" del lavoro è rimasta nella coscienza cristiana per tanti secoli. Lo stesso San Tommaso, negli scritti dedicati all'attività dell'uomo, considerava il lavoro non come un bene in se 62 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ stesso, ma come una necessità per procurarsi i mezzi per vivere. L'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che ha preso in esame la problematica del lavoro, è ancora debitrice di una simile mentalità. Si può affermare che il magistero pontificio, per certi aspetti, ha recepito il cambiamento di mentalità con la Laborem exercens di Giovanni Paolo II, del 1981, che ha recepito e sviluppato la dottrina del vaticano secondo. Il Concilio Vaticano II, invece, ha fatto una svolta significativa e ha annesso una grande importanza all'attività umana, ricollegandola allo stesso disegno di Dio. "Per i credenti una cosa è certa: l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde la disegno di Dio" (GS 34). L'attività umana, perciò, non riceve il suo valore dalla retta intenzione soggettiva o dal suo impiego per fini religiosi, ma è buona in se stessa. Nella discussione del paragrafo relativo al senso da dare al lavoro umano, alcuni padri conciliari avevano suggerito di valutarlo con l'aggiunta di una motivazione religiosa, la cosiddetta retta intenzione. Ma la maggioranza dei padri insistette perché venisse adottato il testo che poi è stato fatto proprio dall'assemblea generale. Se dovessimo descrivere in modo sistematico, ora, l'attività umana corrispondente al disegno di Dio, potremmo articolarla utilizzando i verbi che ricorrono nel racconto genesiaco della creazione dell'uomo: abitare, coltivare, custodire la terra. 4.1. Abitare la terra. Il dove del cristiano è il dove del mondo. Comincio dal primo comandamento divino di abitare la terra. In base a tale comandamento divino, il dove del cristiano diventa il dove del mondo. E' questo praticamente il principio dell'incarnazione, adottato già all'alba del cristianesimo secondo la metodologia descritta dall'autore della Lettera aDiogneto, e variamente riproposto, in seguito, nei diversi periodi della storia del cristianesimo. Abitare la terra, dunque, per il cristiano di oggi, vuol dire abitare la città, abitare la politica, abitare l'economia, abitare la cultura. L'abitare una determinata struttura, o una determinata istituzione comporta il viverla e l'utilizzarla o servirla come esse esistono, cioè nella loro concretezza storica; comporta, in altri termini, che non si debbano creare o contrapporre altre realtà in concorrenza o in opposizione a quelle che già esistono. La comunità cristiana non è dirimpettaia della comunità civile, ma vive le sue attese e i suoi problemi dall'interno. Il compito del cristiano, semmai, è quello di dare un supplemento di anima, di spiritualità, di motivazione trascendente all'attività umana che viene svolta nei vari ambiti della vita umana. 4.2. Coltivare la terra. Il dove del mondo è il dove di Dio. Per quanto riguarda il secondo verbo con cui è descritta l'attività umana dalla Scrittura, il custodire la terra, va subito notato che il concilio precisa che il disegno di Dio non solo vuole e promuove l'attività umana, ma la ordina, perché essa possa tornare sempre a beneficio dell'umanità e permetta "all'uomo singolo o posto entro la società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" (GS35). L'uomo potrà diventare un'immagine sempre più perfetta di Dio, solo se rispetta questo "ordine" divino, solo cioè se risponde in fedeltà e coerenza alla chiamata o "vocazione" che Dio gli rivolge dal momento stesso in cui lo crea. Nella misura in cui egli rispetta la sua dignità di persona umana, rimane protagonista della sua attività, conserva la sua propria autonomia senza diventare un puro mezzo di un fine a lui estrinseco, diventa uomo in un senso sempre più perfetto e acquista valore "più per quello che è che per quello che ha" (GS 35). Il rispetto da parte dell'uomo, nell'esercitare la sua attività nel mondo, dell'"ordine" divino delle cose può destare il timore che "venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze" (GS 36). Per fugare questo timore e per ribadire che il valore di un'attività umana non dipende dal suo orientamento religioso, il concilio afferma il principio di grande importanza e di forte valenza innovativa: le realtà terrene sono autonome. Ciò significa che "tutte le realtà che costituiscono l'ordine temporale, cioè i beni della vita e della famiglia, la cultura, l'economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e altre simili, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi in relazione al fine ultimo dell'uomo, ma hanno anche un valore proprio, riposto in esse da Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come parti di tutto l'ordine temporale" (AA 7). 63 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ Queste realtà terrestri autonome hanno leggi proprie e propri statuti epistemologici, che devono essere rispettati da tutti coloro che sono impegnati in una professione civile. La ricerca scientifica e l'attività umana in genere, se svolta secondo le proprie leggi e nel rispetto delle norme morali, non si oppone mai alla fede, perché "le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio" (GS 36). Ovviamente, il concilio precisa che affermare che le realtà terrestri sono autonome non significa che esse debbano essere adoperate senza riferirle al Creatore. Affermare, infatti, le realtà terrestri senza il loro riferimento a Dio significa falsificare la loro vera natura, dato che "la creatura, senza il Creatore svanisce" (GS 36). Si può senz'altro lavorare, ricercare, produrre, senza alcun riferimento a Dio, come nel caso degli atei. Ma, ricorda il concilio, "l'oblìo di Dio rende opaca la creatura stessa", e rende più arduo lavorare per il progresso umano vero. Questa posizione del concilio che ho brevemente richiamato rievoca in qualche modo il ritornello dei salmi, che continuamente ripetono che "la terra è di Dio" e richiama anche una famosa lettera scritta nel 1974 dall'allora abate di San Paolo fuori le mura Giovanni Franzoni, in coincidenza con il coraggioso ma alquanto criticato convegno della diocesi sui mali di Roma. Ricordare e ribadire che "la terra è di Dio" comporta, soprattutto, il prendere coscienza che il coltivare non è il seminare. Il seminatore è uno, ed è il Signore, così come anche la vigna è una ed è del signore. Gli operai, invece, sono molti, lavorano a orari diversi, sono retribuiti non in base al lavoro che fanno ma in base al giudizio del Signore. Il campo di lavoro è uno. La creazione è una. Ma le stagioni del lavoro, come quelle della vita e dell'umanità sono tante ed ognuna ha la sua bellezza e suggestione. Anzi, una stagione richiede l'altra. Anche l'autore della vita è uno solo, sia di quella umana, che di quella animale e vegetale. Questo fatto sta ad indicare che il "coltivare" la terra esige il rispetto e la difesa della vita in tutte le sue forme e i suoi gradi. La tecnica umana, nell'esercizio della sua potenza e nell'applicazione delle sue innovazioni, dovrebbe sempre essere a servizio della vita e non della morte, perché Dio è amante della vita. Egli su ogni opera creata da lui ha messo la sua firma: "e vide che era buono"! Eva, in quello che possiamo considerare il primo parto dell'umanità, accoglie Caino suo figlio come un uomo "che ha acquistato dal Signore". Il figlio è un dono non un diritto. Caino, invece, impone il nome di suo figlio Enoch alla città che costruisce. E così, il nome del figlio dall'indicazione di un dono di Dio passa all'indicazione di un'opera fatta dall'uomo. Ci sono delle testimonianze commoventi che richiamano e testimoniano questa verità cristiana della vita come un dono. La signora trentina Monica Borriello, dopo un trapianto di un rene e del pancreas, ha potuto portare a compimento una gravidanza a rischio e ha dichiarato: "Sono cattolica e in ogni caso non avrei voluto interrompere la gravidanza. Io che ho ricevuto la vita da un'altra persona ho avuto la possibilità di donarla a mio figlio: sono felice, non mi sento coraggiosa, non voglio essere descritta come una pioniera, spero solo che la mia vicenda possa servire ad altre donne nella mia situazione e ad aumentare la sensibilità degli italiani verso la donazione degli organi (La Repubblica, 1 settembre 2004, 24). 4.3. Custodire la terra. Il dove di Dio è l'uomo. Relativamente, infine, al terzo verbo biblico che descrive il compito dell'uomo del custodire la terra, il concilio ricorda opportunamente che l'uomo è chiamato a realizzare questo disegno di Dio, non come servo o come uno strumento meramente passivo, ma come immagine di Dio, cioè come collaboratore del Creatore, nel pieno esercizio della sua libertà. Dio, anche se è il Creatore unico, non crea da solo e soprattutto non costruisce da solo. Alla sua opera di creazione associa l'uomo, ogni uomo e ogni donna, che, nello svolgere "gli ordinari lavori quotidiani, prolungano l'opera del Creatore e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia" (GS 34). Proprio questa collaborazione qualificata dell'uomo all'opera creatrice di Dio fa sì che il cristiano sia più cristiano non quando "fugge dal mondo", ma quando si impegna con un "obbligo ancora più stringente" a edificare il mondo e a cercare il bene dei propri simili. Passando dall'ordine essenziale dell'attività umana nel mondo, che ne precisa il senso e il valore, a quello esistenziale o storico salvifico della medesima, determinato dal peccato e dalla redenzione in Gesù Cristo, il concilio considera l'attività umana corrotta dal peccato (GS 37), elevata a perfezione nel mistero pasquale (GS 38), portata al suo fine ultimo nei cieli nuovi e nella terra nuova (GS 39). Quando nella realtà creata, prodotta buona da Dio, si inserisce il peccato, si sconvolge l'ordine dei valori, si mescola il male con il bene, si rimane vittime di egoismi personali e collettivi e "il mondo cessa di 64 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ essere il campo di una genuina fraternità" (GS 37). La storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre, cominciata dall'origine del mondo, con il peccato originale, e destinata a durare fino all'ultimo giorno. Ora, la situazione dell'uomo è "miserevole", a causa dello spirito di vanità e di malizia che ha stravolto l'operosità umana, ma non disperata. Il lavoro umano, il progresso della tecnica, lo sviluppo delle scienze possono portare l'uomo alla felicità e alla piena realizzazione di se stesso, qualora vengano purificati e resi perfetti "per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo" (GS 37). L'aspirazione al progresso, perciò, non deve essere demonizzata o colpevolizzata, bensì incoraggiata e promossa. Il concilio precisa che la sequela di Gesù non suscita solamente il desiderio del mondo futuro, ma anche ispira, purifica e fortifica quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra. Il desiderio del mondo futuro e l'impulso alla costituzione di questo mondo non sono contrapposti ma congiunti. Tra l'aspirazione escatologica e l'impegno terrestre c'è un nesso causale: il cristiano aspira al mondo futuro, e, proprio perciò, s'impegna a edificare il mondo con un'attività purificata e fortificata. Gli stessi impegni delle differenti vocazioni laicale e religiosa, entrambe suscitate dallo Spirito, sono in sé congiunti, nel senso che ogni attività temporale ha un valore religioso e ogni attività religiosa ha una dimensione temporale. Il concilio chiama addirittura l'attività umana un ministero, cioè un servizio religioso ed ecclesiale a beneficio della comunità. Nella luce del mistero pasquale, quindi, tutte le forme dell'attività umana nell'universo possono essere considerate come un'unione con Gesù Cristo, morto e risorto, che si realizza soprattutto nell'eucaristia. Nella celebrazione dell'eucaristia, il pane e il vino, frutto del lavoro dell'uomo, diventano corpo e sangue di nostro Signore, concretizzando nella simbologia sacramentale l'aspirazione e il destino di unione e di comunione con Cristo di tutto il creato. Possiamo concludere l'esposizione delle indicazioni conciliari sull'attività umana, paragonando la posizione dell'uomo nel creato ad una statua, e precisamente alla statua di Dio. Come gli antichi sovrani orientali, dopo aver conquistato un territorio con la guerra, lo annettevano al loro dominio mediante l'erezione di un busto o di una loro statua, per indicare giuridicamente la propria sovranità sul nuovo territorio, così l'uomo è la statua eretta da Dio stesso. Dio lo colloca sulla terra come un suo luogotenente, perché continui la sua opera creatrice. Non per nulla, la generazione della vita umana è chiamata pro-creazione. La struttura interiore dell'uomo è responsoriale, perché Dio crea chiamando per nome. La vita e l'opera dell'uomo, concretamente, è una risposta a Dio e alla sua chiamata. L'uomo amministra le cose del mondo, non le possiede. Se la terra è di Dio, la sua responsabilità nei suoi confronti è in qualche modo sacra. 65 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ LE VIRTÙ ECOLOGICHE Tutte le virtù - scrive Karl Golser possono essere ecologica. riviste in chiave La giustizia diventa sforzo di considerare il grande ordine nel quale siamo inseriti e di coltivare un rapporto riverente con ogni essere creato e anche con le generazioni future. La prudenza è impegno costante di ottenere il sapere ecologico adeguato alla nostra responsabilità e di attuarlo anche nelle nostre scelte quotidiane. La fortezza diventa coraggio civile per un impegno corrispondente alle nostre convinzioni. La temperanza è parsimonia nell' uso delle risorse e moderazione nei nostri ecosistemi così sensibili. 66 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/ . 67 This page was created using NitroPDF trial software. To purchase, go to http://www.nitropdf.com/