La dimensione estetica della formazione • Per Marco Dallari assistiamo a una grande rivalutazione dell’universo emozionale dell’ioautore. Non si dà pratica educativa senza aethesis, perché emozioni e stupore fanno indissolubilmente parte di ogni scoperta (La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, 2005). • Questo non comporta un non considerare la realtà, in quanto l’altro da me non è mai un fantasma, ma è terribilmente reale. Pertanto la dimensione estetica è un incontro fra persone viventi; non è un’elucubrazione intellettuale, ma nasce sempre da un’esperienza e da un incontro… • Per Frabboni e Pinto Minerva ogni autentico processo formativo è multidimensionale, perché non deve mortificare nessuna delle potenzialità che abitano l’animo umano. Pertanto, deve contemplare tanto l’eros quanto il logos, il pensiero paradigmatico (delle scienze) e il pensiero narrativo (dell’arte). → la formazione estetica è un aspetto fondamentale del processo formativo, capace di metterne il luce la sua valenza creativa, trasfigurativa, che potenzia la prospettiva soggettiva. • Luigi Pareyson definisce la struttura del processo artistico come «formatività» intendendo con questo termine il fatto che tanto il momento formante (il processo del creare) e il momento formato (l’opera conclusa) sono un’unica cosa. Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch'esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. Posso soltanto dire che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch'io li facessi entrare nel mondo dell'arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella. Nati vivi, volevano vivere. (Pirandello, Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore) Ora bisogna sapere che a me non è mai bastato rappresentare una figura d'uomo o di donna, per quanto speciale e caratteristica, per il solo gusto di rappresentarla; narrare una particolar vicenda, gaja o triste, per il solo gusto di narrarla; descrivere un paesaggio per il solo gusto di descriverlo. Ci sono certi scrittori (e non pochi) che hanno questo gusto e, paghi, non cercano altro. Sono scrittori di natura più propriamente storica. Ma ve ne sono altri che, oltre questo gusto, sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non s'imbevano, per così dire, d'un particolar senso della vita, e non acquistino con esso un valore universale. Sono scrittori di natura più propriamente filosofica. Io ho la disgrazia d'appartenere a questi ultimi. Odio l'arte simbolica, in cui la rappresentazione perde ogni movimento spontaneo per diventar macchina, allegoria; sforzo vano e malinteso, perché il solo fatto di dar senso allegorico a una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa in conto di favola che non ha per se stessa alcuna verità né fantastica né effettiva, e che è fatta per la dimostrazione di una qualunque verità morale. Quel bisogno spirituale di cui io parlo non si può appagare, se non qualche volta e per un fine di superiore ironia (com'è per esempio nell'Ariosto) di un tal simbolismo allegorico. Questo parte da un concetto, è anzi un concetto che si fa, o cerca di farsi, immagine; quello cerca invece nell'immagine, che deve restar viva e libera di sé in tutta la sua espressione, un senso che gli dia valore. Ora, per quanto cercassi, io non riuscivo a scoprir questo senso in quei sei personaggi. E stimavo perciò che non mettesse conto farli vivere. Pensavo fra me e me: «Ho già afflitto tanto i miei lettori con centinaja e centinaja di novelle: perché dovrei affliggerli ancora con la narrazione dei tristi casi di questi sei disgraziati?». E, così pensando, li allontanavo da me. O piuttosto, facevo di tutto per allontanarli. Ma non si dà vita invano a un personaggio. Creature del mio spirito, quei sei già vivevano d'una vita che era la loro propria e non più mia, d'una vita che non era più in mio potere negar loro. Tanto è vero che, persistendo io nella mia volontà di scacciarli dal mio spirito, essi, quasi già del tutto distaccati da ogni sostegno narrativo, personaggi d'un romanzo usciti per prodigio dalle pagine del libro che li conteneva, seguitavano a vivere per conto loro; coglievano certi momenti della mia giornata per riaffacciarsi a me nella solitudine del mio studio, e or l'uno or l'altro, ora due insieme, venivano a tentarmi, a propormi questa o quella scena da rappresentare o da descrivere, gli effetti che se ne sarebbero potuti cavare, il nuovo interesse che avrebbe potuto destare una certa insolita situazione, e via dicendo. Per un momento io mi lasciavo vincere; e bastava ogni volta questo mio condiscendere, questo lasciarmi prendere per un po', perché essi ne traessero un nuovo profitto di vita, un accrescimento d'evidenza, e anche, perciò, d'efficacia persuasiva su me. E così a mano a mano diveniva per me tanto più difficile il tornare a liberarmi da loro, quanto a loro più facile il tornare a tentarmi. Ne ebbi, a un certo punto, una vera e propria ossessione. Finché, tutt'a un tratto, non mi balenò il modo d'uscirne. O perché mi dissi non rappresento questo novissimo caso d'un autore che si rifiuta di far vivere alcuni suoi personaggi, nati vivi nella sua fantasia, e il caso di questi personaggi che, avendo ormai infusa in loro la vita, non si rassegnano a restare esclusi dal mondo dell'arte? Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato voce e movimento; sono dunque già divenuti di per se stessi, in questa lotta che han dovuto sostenere con me per la loro vita, personaggi drammatici, personaggi che possono da soli muoversi e parlare; vedono già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora difendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d'andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà. Questa teoria è quella della distinzione-unità di forma formante e di forma formata, per cui l’opera stessa, prima ancora di esistere come formata, agisce come formante a guidare il processo della sua formazione, senza tuttavia che si possa dire che la forma formante sia qualcosa di diverso dalla forma formata, perché anzi sono assolutamente la stessa cosa. Tutto ciò si può esprimere col dire che la simultaneità di invenzione e di esecuzione non si può affermare se non come coessenzialità di tentativo e organizzazione. È difficile trovare una dichiarazione più feconda di quella che a Paul Valéry accadde un giorno di fare: “Nell’opera d’arte si combinano l’idea di composizione e l’idea di sviluppo”. Luigi Pareyson (Conversazioni di estetica, 1966, p. 111). • Inoltre, il parallelo fra processo formativo e processo di creazione artistica può essere ulteriormente sviluppato se si tiene conto che, in entrambi, non sappiamo a priori quali saranno gli esiti del percorso ma che, a posteriori, se c’è stato autentica formazione, ci riconosciamo nel risultato finale del processo (artistico/formativo) → possiamo dire che un percorso è stato autenticamente formativo se, una volta concluso, ci riconosciamo in esso e possiamo affermare: «sì, questa è la mia vita, la riconosco come tale!» • Analogamente, per Pareyson, l’artista, nel fare l’opera, inventa il modo di farla; ma non è un modo arbitrario; infatti, a opera finita, riconosce che non poteva che operare in quel modo, pur essendo stato il percorso creativo frutto di decisioni. – A opera compiuta, volgendo lo sguardo indietro, l’artista capisce che, nell’incertezza dei suoi tentativi, uno solo è stato il cammino effettivamente percorso. – La creazione dell’opera, così come il processo formativo, appartiene alla categoria del «possibile» …ogni operazione riuscita gli appare, una volta fatta, come l’unica che si doveva fare, ma per saperlo bisognava che la facesse, e solo facendola egli giunge a saperlo […] L’operazione artistica ha così l’incomparabile prerogativa di fare dell’uomo l’autore di formazioni naturali, di presentare come compito da assolvere e come problema da risolvere quello che in realtà è un germe da svolgere, e di far sì che siano risultato di calcolo e composizione quelli che in realtà sono i frutti della crescita e della spontaneità. Altra mirabile prerogativa della creazione artistica è di moltiplicare le possibilità là dove sembra regnare la necessità e dove solo il reale è valido: le molteplici possibilità con cui l’artista si trova alle prese sono inerenti al fare, ma escluse dall’opera: il fare le costituisce, ma l’opera le annulla; al punto che in fondo c’è un solo possibile vero, ma nel corso della produzione esso non si distingue dai falsi possibili, e, a opera fatta, quando finalmente è riconosciuto, esso non è più possibile, ma irrevocabilmente reale. Luigi Pareyson (Conversazioni di estetica, 1966, pp. 23-24). …essere alle prese con l’opera d’arte significa procedere tentando, in modo che l’esecuzione e l’invenzione vanno di pari passo: non si può dire né che l’artista muova dal nulla, sì che la formazione dell’opera non sia che brancolamento, né che l’artista muova da un’immagine interiore già tutta formata, sì che la produzione dell’opera non sia che mera esecuzione. […] Così la scoperta avviene soltanto attraverso il tentativo, e l’opera compiuta è una maturazione che presuppone un processo di germinazione e incubazione, attraverso il quale, mediante un’alterna vicenda di pentimenti, correzioni, rifacimenti, scelte, cancellature, ripudi e sostituzioni, l’opera si definisce mentre la si fa (Pareyson, 1966, p. 79) • Un altro elemento in comune fra percorso formativo e creazione artistica è che entrambi riescono a incarnare le potenzialità del soggetto/dell’opera che altrimenti non avrebbero riconoscimento → così come il vero artista non realizza una propria intenzione, ma l’ «intenzione dell’opera», così la formazione ha una dimensione «vocazionale»: educando ed educatore si mettono in ascolto del poter essere del soggetto • Pirandello aveva un vero e proprio «cruccio» per le potenzialità che sono in noi e che non vengono realizzate. – Nella novella Colloqui coi personaggi, da cui è stata tratta la commedia Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello si immagina alla scrivania continuamente disturbato da quei personaggi che avrebbero potuto essere ma ai quali altri autori non hanno dato udienza L’artista, come il formatore, non deve realizzare l’opera che «ha in testa», ma l’opera com’essa stessa si vuole, il processo formativo com’esso stesso si vuole realizzare… …l’opera qual è con l’opera quale essa stessa voleva essere. Dico “quale essa stessa voleva essere” e non “quale l’artista voleva farla”, perché non si tratta qui delle intenzioni dell’autore, che non interessano per nulla il lettore, ma dell’intenzione profonda dell’opera, cioè della teleologia immanente della forma (Pareyson, 1966, pp. 7273). John Dewey L’arte come esperienza 1934 • Arte come esperienza (1934) Arte come frutto della continua «transattività» fra l’individuo, concepito innanzitutto come visceralmente e emotivamente coinvolto nel rapporto con il mondo, e la realtà; tale «transazione» fra essere vivente e realtà è scandita dall’avvicendarsi di armonia e disarmonia, di equilibrio e rottura, riuscita e sconfitta, speranza e delusione… accentuazione degli aspetti dinamici, tensionali, ritmici dell’opera La peculiarità della musica sta nel suo conservare la primitiva capacità del suono di denotare lo scontro di forze che attaccano e resistono e tutte le fasi concomitanti del movimento emotivo (Dewey, Arte come esperienza, cap. 10) • Il ragionare, il riflettere, la «cognitività», ma anche i valori, gli ideali sono parte integrante dell’essere dell’uomo «dentro» l’esperienza e costituiscono tentativi di chiarirla e comprenderla, di correggere le delusioni a cui la vita, inevitabilmente ci espone, e di ritrovare l’ «armonia» fra individuo e ambiente. → per Dewey l’arte è caratterizzata dal risperimentare momenti di armonia fra uomo e realtà. → arte come esperienza di una riconciliazione fra uomo e cosmo. • Dewey ritiene che l’arte non discenda dal «ragionamento» o dal «pensiero puro» ma che essa si sviluppi a partire dall’ «intenzionalità» di base dell’uomo e si arricchisca di elementi mentali e anche spirituali sulla base del continuo confronto con la realtà. → non un’arte «dall’alto», ma un’arte «dal basso» Scrive Tullio Regge, scienziato relativista: La realtà esiste quando le sensazioni provocano in noi una reazione istintiva senza ricorso a una sequenza di deduzioni logiche. Per sopravvivere l’uomo primitivo doveva accertare d’istinto l’esistenza di potenziali nemici e delle prede, e questa pulsione ancestrale, che chiamerò Urtrieb, è rimasta in noi: scomparsa la tigre dai denti a sciabola ci spinge a recepire e poi analizzare la realtà. L’abitudine alla realtà richiede ambedue queste componenti. Condizioni essenziali per l’abitudine sono l’Urtrieb, ma anche la continuità e la consistenza dei dati empirici. Una sequenza di immagini scelte a caso che scorrono in rapida successione provoca una sensazione che si trasforma ben presto in noi in disinteresse e non dà luogo ad apprendimento. […] La continuità è la prima manifestazione visibile della razionalità dell’universo e delle leggi che lo regolano e i tentativi di un lattante di afferrare gli oggetti intorno a sé sono l’esordio del metodo sperimentale: chi nega la validità scientifica di questo metodo rinnega le proprie origini… …Non vedo differenza, se non quantitativa tra quanto apprende un bambino e quanto apprende uno scienziato durante il corso della sua ricerca. Tutti e due procedono spinti dall’Urtrieb e analizzano il mondo con gli strumenti a disposizione. La ricerca ha per noi anche un aspetto ludico ma non a caso è ben noto che il gioco è cosa seria per il bambino e lo prepara alla vita adulta. […] Comprensibilità e incomprensibilità del reale sono aspetti particolari e conseguenza di leggi naturali il cui dominio di applicazione si è enormemente ampliato negli ultimi tre secoli; le loro origini rimangono insondabili ma continuano ad affascinare chi come me e i miei colleghi è ancora in preda dell’Urtrieb e considera la scienza un gioco meraviglioso. Lo stesso Einstein ha detto che “la cosa più incomprensibile dell’universo è che è comprensibile”. (T. Regge, 2000, pp. 24-27) W. Blake Newton Per molti anni ho pensato e insegnato che l’esperienza è un’interazione fra l’io (self) e qualche aspetto del suo ambiente. L’azione intenzionale (purposeful) ed intelligente è il mezzo grazie al quale questa interazione è resa significante. Nel corso di tale azione, gli oggetti acquistano significato e l’io diventa consapevole delle sue capacità, perché, mediante il controllo intelligente dell’ambiente, dirige e consolida i suoi personali poteri. Un’azione intenzionale è così la meta di tutto ciò che è realmente educativo ed è il mezzo con il quale la meta è raggiunta ed il suo contenuto è rielaborato. Un’attività siffatta è necessariamente una crescita ed un processo di crescita. Essa comincia quando un bambino compie i suoi primi adattamenti intenzionali all’ambiente; via via che li compie, egli acquista atteggiamenti e abitudini che lo rendono capace di allargare i suoi scopi, di scoprire ed usare i mezzi ed i metodi per raggiungere scopi più ampi. In questo processo del vivere intelligente non c’è alcun limite intrinseco. Esso dovrebbe continuare dall’infanzia alla morte. l’arresto della crescita continua è una forma di decadenza e di morte premature. Dewey Nel vivere intelligente, l’interazione dell’io e del suo mondo non lasciata al caso, l’azione (nel senso ristretto della parola), l’emozione e l’intelletto sono tutti coinvolti. L’adattamento intelligente dell’io agli oggetti ed agli avvenimenti circostanti equilibra queste funzioni. Il pensiero allora diventa conoscenza e comprensione profonda (insight); l’emozione diventa interesse e le risposte motorie diventano padronanza degli oggetti e delle qualità che ci stanno intorno, e delle capacità umane ad essi relative. L’arresto del processo di crescita è di fatto l’arresto del vivere intelligente, dell’educazione. La crescita, il vivere intelligente e l’educazione hanno molti nemici. Questi nemici sono potenti. Essi sono, purtroppo, rafforzati dalle pratiche che dominano i veicoli che fanno professione di educazione, le scuole e le istituzioni chiamate educative. Dewey (Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di A.C. Barnes e V. De Mazia, in Dewey, J. [1954], Educazione e arte, Tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 3-4) Le emozioni, per Dewey, sono connesse con il significato di oggetti e con un’azione intenzionale e sono interessi che uniscono l’io al mondo in cambiamento. Quando, però, esse vengono lasciate fluttuare liberamente al di fuori del legame che unisce il soggetto al mondo, “invece di dare un’ancora di salvezza sicura, esse si dissolvono in fantasticherie che si interpongono tra l’io e il mondo”. Nel campo artistico dell’esperienza più che in qualunque altro, l’abitudine a separare la mente (attiva nell’osservazione e nella riflessione) e l’emozione è profondamente radicata. In questo campo, i danni di questa abitudine sono particolarmente notevoli. L’educazione, che è essenzialmente addestramento alla percezione, è messa da parte. Tra l’io ed il mondo percepibile intervengono un’emozione privata ed un giudizio altrettanto privato, perché essi non sono basati su una percezione consapevole degli oggetti e delle loro relazioni reciproche. (Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di A.C. Barnes e V. De Mazia, cit.) …l’impulso o il bisogno di un individuo a partecipare ad un’impresa è un presupposto necessario perché la tradizione possa essere un fattore della sua crescita personale in capacità e libertà; e dobbiamo riconoscere anche che egli deve osservare per suo conto e sotto il suo personale punto di vista le relazioni tra mezzi e metodi impiegati e risultati conseguiti. Nessun altro può vedere per lui ed egli non può osservare soltanto in base a quanto viene ordinato, sebbene il retto modo di comandare possa guidare la sua osservazione e possa così aiutarlo a vedere ciò che ha bisogno di vedere. E se egli non ha un desiderio personale che lo stimoli a diventare carpentiere, se il suo interesse ad essere tale è superficiale, se è un interesse a non essere affatto carpentiere, ma è solo interesse ad ottenere un compenso in danaro tramite un lavoro, allora naturalmente la tradizione non penetrerà mai realmente nelle sue capacità e non le completerà. Rimarrà allora un insieme di regole meccaniche e più o meno insignificanti che egli è costretto a seguire, se deve avere un lavoro e ricavarne la paga. (Dewey J. [1926], Individualità ed esperienza, Tr. it. in Dewey 1954, cit., pp. 22-23) Le tradizionali teorie filosofiche e psicologiche ci hanno abituato a nette separazioni tra i processi fisiologici ed organici da un lato e le manifestazioni più alte della cultura nella scienza e nell’arte dall’altro. Queste separazioni sono riassunte nella comune divisione che si fa tra mente e corpo. Queste teorie ci hanno anche abituato a tracciare rigide separazioni tra le operazioni logiche, strettamente intellettuali, che culminano nella scienza, i processi emotivi e immaginativi, che dominano la poesia, la musica e in misura minore le arti plastiche, e le azioni pratiche che regolano la nostra vita quotidiana e che si risolvono in attività industriali, economiche e politiche. Da queste separazioni è derivata la creazione di un gran numero di problemi […] Tra la cura della scienza, l’arte per l’arte, gli affari come qualcosa di abitudinario o come attività per far soldi, l’esilio della religione alla domenica ed ai giorni festivi, il passaggio della politica in mano ai politicanti di professione, la trasformazione degli sports in mestieri e così via, sono rimaste poche occasioni per vivere, per l’amore per vivere, per una vita piena, ricca e libera. Dewey (Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella logica e nella pittura, Tr. it. in Dewey 1954) Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare. Dewey, Arte come esperienza Recenti progressi in alcuni principi generali fondamentali a proposito delle funzioni biologiche in generale e di quelle del sistema nervoso in particolare hanno reso un preciso concetto di un continuo sviluppo dalle funzioni più basse a quelle più alte. […] C’è stato per lungo tempo un discorso vago sull’unità dell’esperienza e della vita mentale, nel senso che conoscenza, sentimento e volizione sono tutte manifestazioni delle medesime energie, ecc. (Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella logica e nella pittura, cit. p. 30) Dewey: Arte come esperienza (1934) 1 – la creatura vivente • A chi comincia a scrivere sulla filosofia delle belle arti si impone un compito primario: ripristinare la continuità tra quelle forme raffinate e intense d’esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e patimenti di ogni giorno. – Per comprendere l’arte occorre partire da ciò che suscita l’interesse dell’uomo: l’auto dei pompieri che passa, la soddisfazione di un lavoro manuale… • Svincolandosi dall’idea dell’arte per l’arte, occorre ripristinare la continuità dell’esperienza estetica con i normali processi del vivere si vedrà allora che l’arte permette di intensificare il senso della esperienza immediata Vi è una normale evoluzione delle comuni attività umane in elementi di valore estetico • Ma se in ogni esperienza normale è implicita una qualità artistica ed estetica, in che modo potremo spiegare come e perché essa di solito non riesce a diventare esplicita? Per capire ciò, occorre capire cosa si intende per “esperienza normale”. • La vita si sviluppa in un ambiente: non solo in esso, ma a causa sua, interagendo con esso. Nessuna creatura vive soltanto dentro la propria pelle. […] In ogni momento l’essere vivente è esposto ai pericoli del mondo circostante, e in ogni momento deve prelevare qualcosa dal mondo circostante per soddisfare i suoi bisogni. La vita e il destino di un essere vivente sono connessi ai suoi scambi con l’ambiente, non esteriormente, ma nella maniera più intima. Il ringhiare del cane che tiene stretto l’osso, il suo latrato nei momenti di sconforto e di solitudine, il suo scodinzolio al ritorno dell’amico uomo, sono tutte espressioni di quel legame che è tra l’essere vivente e il mezzo naturale nel quale è incluso l’uomo e l’animale che egli ha addomesticato. Ogni bisogno, di aria fresca o di cibo che sia, è una mancanza che tradisce per lo meno la temporanea assenza di un adeguato adattamento al mondo circostante. Ma esso è anche un’esigenza, un protendersi verso l’ambiente per colmare il vuoto e determinare un nuovo adattamento creando per lo meno un temporaneo equilibrio. La vita consiste in fasi in cui l’organismo perde il passo rispetto alla marcia delle cose circostanti e poi lo recupera, o con uno sforzo o per qualche felice circostanza. E in una vita che si sviluppa, il ricupero non è mai un mero ritorno allo stato precedente, in quanto esso si è arricchito dello stato di squilibrio e di resistenza attraverso il quale è passato con successo. Se il vuoto tra l’organismo e l’ambiente è troppo largo, l’essere vivente muore. Se la sua attività non viene intensificata da un momentaneo dislivello, esso non fa che vegetare. La vita si sviluppa allorché un momentaneo sbandamento permette il passaggio a un equilibrio più vasto tra le energie dell’organismo e quelle delle condizioni in cui esso vive. Questi luoghi comuni biologici sono qualcosa di più di luoghi comuni biologici; essi toccano le radici dell’estetico nell’esperienza. …se la vita continua e se, continuando, si espande, vi è un sopravvento su fattori di opposizione e contrasto; vi è una trasformazione di essi in aspetti differenziati in una vita più potente e significante. Ha effettivamente luogo il miracolo dell’adattamento vitale, organico, attraverso l’espansione (anziché mediante la contrazione e l’accomodamento passivo). Vi sono qui il germe dell’equilibrio e armonia, raggiunti attraverso il ritmo. L’equilibrio vien fuori non inerte e meccanico, ma da una tensione e per una tensione. Nella natura, anche sotto al livello della vita, vi è qualcosa di più di un semplice mutare e fluire. La forma è raggiunta ogni qual volta è raggiunto un equilibrio stabile… […] L’ordine non è imposto dal di fuori, ma è costituito dai rapporti di reazione armonica che le energie producono l’una sull’altra. Poiché è attivo (e non statico come sarebbe se fosse estraneo a ciò che si svolge), l’ordine si sviluppa da sé. […] L’ordine non può essere che oggetto di ammirazione in un mondo costantemente minacciato dal disordine. […] In un mondo come il nostro ogni essere vivente che raggiunga sufficiente sensibilità ogni qual volta trovi attorno a sé un ordine confacente accoglie l’ordine corrispondendogli con un sentimento di armonia. Il recupero di un’ordinata partecipazione all’ambiente dopo una rottura ha i germi di una perfezione simile all’estetico. Mancanza e recupero dell’armonia avvengono nell’uomo coscientemente. L’emozione è il segno consapevole di una rottura, attuale o imminente. La discordanza è l’occasione che induce alla riflessione. Il desiderio di ripristinare l’unità converte la mera emozione in interesse per gli oggetti come condizioni per realizzare l’armonia. Con la realizzazione, viene incorporato negli oggetti, assieme al loro significato, un materiale di riflessione. Poiché l’artista si cura in modo particolare della fase dell’esperienza in cui l’unità viene raggiunta, egli non rifugge i movimenti di resistenza e di tensione. Piuttosto li coltiva, non fine a se stessi, ma in quanto il loro potenziale reca alla coscienza vivente un’esperienza che è unificata e totale. La strana opinione che un artista non pensi e un ricercatore non faccia altro che pensare è il risultato della conversione di una differenza di tempo e di accento in un differenza di qualità. La natura […] è amabile e odiosa, dolce e bisbetica, irritante e confortante. Persino parole come lungo e corto, pieno e vuoto, comportano ancora per tutti, eccetto che per coloro che sono intellettuali di professione, un significato morale ed emotivo. Il vocabolario informerà chiunque lo consulti che l’uso primitivo di parole come dolce e amaro non doveva indicare qualità di sensazioni come tali, ma discriminare cose in quanto favorevoli e ostili. Il contrasto del vuoto e del pieno, della lotta e del successo, dell’adattamento che segue il superamento di una irregolarità, costituiscono il dramma in cui azione, sentimento e intenzione sono tutt’uno. Il risultato è un equilibrio e uno squilibrio. Questi non sono né statici né meccanici. Essi esprimono una potenza che è intensa in quanto è misurata dal superamento di una resistenza. […] In un mero scorrere delle cose il mutamento non sarebbe cumulativo; non muoverebbe verso una conclusione. La stabilità e il riposo non ci sarebbero. Allo stesso modo è vero, tuttavia, che un mondo finito, completo, non avrebbe tratti di sospensione e di crisi e non offrirebbe nessuna possibilità di soluzione. Laddove ogni cosa è già completa non esiste compimento. Ci prospettiamo con piacere il Nirvana e una felicità celestiale e uniforme soltanto perché essi si proiettano sullo sfondo di questo nostro mondo di violenza e di lotta. • Vi possono essere piaceri occasionali e superficiali. Essi non vanno disprezzati. Ma felicità e gioia sono un’altra cosa. Esse nascono da un soddisfacimento che è un adattamento di tutto il nostro essere alle condizioni dell’esistenza. Nella vita veramente ogni cosa si unifica e si confonde. Ma troppo spesso noi ci troviamo in apprensione per ciò che il futuro può portare, e siamo divisi dentro noi stessi. Persino quando la nostra ansia non è eccessiva, non godiamo il presente in quanto lo subordiniamo a ciò che è assente. […] Soltanto quando il passato cessa di travagliare e le anticipazioni del futuro non turbano, l’essere è completamente unito con il suo ambiente e perciò completamente vivo. L’arte celebra con particolare intensità i momenti in cui il passato rafforza il presente, e il futuro è una accelerazione di ciò che ora è. Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare. 2 – L’essere vivente e le “cose eteree” • La cultura è frutto dell’interazione con l’ambiente e non qualcosa che nasce nel vuoto o magari dalla riflessione degli uomini su loro stessi. La profondità degli echi suscitati dalle opere d’arte dimostra la loro continuità con gli atti di questa lunga esperienza. Le opere e gli echi che esse producono formano una continuità con i reali processi della vita in quanto questi sono condotti a una conclusione inaspettatamente felice. Quando sono lontano dalla vista dell’erba che vive e cresce o dal canto degli uccelli e da tutti i suoni della campagna, sento di non essere veramente vivo […] quando sento qualcuno che dice di non aver trovato il mondo e la vita gradevoli e interessanti al punto di amarli, o che pensa con animo indifferente alla loro fine, posso credere che egli non è mai stato veramente vivo e che non ha mai avuto un’immagine chiara del mondo di cui pensa così male oppure non ne ha visto nulla, neppure un filo d’erba (W.H. Hudson). • Dewey parla dell’affinità fra il misticismo dell’abbandono estetico e quello che i religiosi indicano con comunione estatica. Hudson lo ricorda a proposito della sua fanciullezza e dell’effetto che faceva su di lui la vista dell’ondeggiante fogliame piumato [di un’acacia] nella notte lunare […] che faceva apparire quest’albero più intensamente vivo degli altri, più consapevole di me e della mia presenza… simile al sentimento che qualcuno avrebbe potuto provare se fosse stato visitato da un essere soprannaturale qualora egli fosse convinto che esso era là presente per quanto silenzioso e invisibile, intento a guardarlo e a divinare ogni pensiero della sua mente. • Dewey cita anche Emerson, che normalmente viene ritenuto un pensatore austero: Attraversando una landa deserta, nella neve fangosa, al crepuscolo, sotto un cielo nuvoloso, senza avere nella mente il pensiero di nessun evento specialmente felice, mi sono messo a ridere perfettamente di gusto. Provo contentezza sull’orlo della paura. • Dewey commenta: Non vedo alcun modo di rendersi conto della molteplicità delle esperienze di questo tipo (qualcosa di simile si trova in ogni reazione estetica spontanea e inespressa) fuorché nel fatto che in esse vengono messe in azione risonanze di tendenze acquisite nei rapporti originari dell’essere vivente con il mondo circostante, e irrimediabilmente perdute a una consapevolezza distinta o intellettiva. Esperienze del tipo ricordato ci portano a una nuova considerazione che attesta questa continuità naturale. Un’esperienza sensibile immediata ha una capacità senza limite di assorbire in sé significati e valori che in sé e per sé (cioè in astratto), si direbbero “ideali” e “spirituali”. Lo sforzo animistico dell’esperienza di Hudson, è esemplare di un certo livello di esperienza. E il poetico, con qualsiasi mezzo, è sempre strettamente apparentato all’animistico. E se ci rivolgiamo a un’arte che per molte vie è all’altro polo, all’architettura, apprendiamo come taluni concetti, forse elaborati dapprima con un pensiero altamente tecnico come quello matematico, hanno la capacità di incorporarsi direttamente in forme sensibili. • A proposito del senso dei riti primitivi, Dewey dice che non li si può confinare all’intento magico di assicurarsi la pioggia, i figli, il raccolto, il successo in battaglia. Naturalmente essi avevano anche questo intento magico, ma furono eseguiti a lungo, possiamo esserne sicuri, nonostante ogni fallimento pratico, in quanto erano una immediata intensificazione dell’esperienza della vita. I miti erano qualcosa di diverso da intellettualistici tentativi scientifici dell’uomo primitivo. L’ostacolo costituito da ogni fatto che non fosse familiare ebbe senza dubbio la sua parte. Ma il piacere del raccolto, dello svilupparsi e del risolversi di una buona trama, rappresentò una parte dominante allora come la rappresenta oggi nello sviluppo delle mitologie popolari. […] L’introduzione sopranaturale nelle proprie credenze e il facile e fin troppo umano rifugiarsi in esso è molto più questione della psicologia che produce un’opera d’arte che non di uno sforzo di spiegazione scientifica e filosofica. Esso intensifica il brivido emotivo della consueta routine. Se il potere del sovrannaturale sul pensiero umano fosse esclusivamente o anche principalmente un fatto intellettuale, sarebbe relativamente insignificante. Teologie e cosmogonie si sono impossessate della fantasia perché sono state accompagnate da solenni processioni che suscitano meraviglia e inducono a una ammirazione ipnotica. Cioè esse sono arrivate all’uomo attraverso un appello diretto al senso e all’immaginazione sensuosa. La maggior parte delle religioni hanno identificato i loro concetti sacri con i più alti capolavori artistici […] I voli dei fisici e degli astronomi odierni rispondono al bisogno estetico di soddisfare l’immaginazione piuttosto che a una rigorosa esigenza di prove spassionate di una interpretazione razionale. La maggior parte degli uomini procede con la stessa istintività, con la stessa mira incrollabile del falco. Il falco ha bisogno di una compagna, l’uomo fa lo stesso: guardateli, tutti e due vanno in giro e se la procurano nella stessa maniera. Tutti e due hanno bisogno di un nido e tutti e due si accingono a farselo alla stessa maniera, e alla stessa maniera si procurano il cibo. Il nobile animale Uomo per divertirsi fuma la pipa – il falco si libra sopra le nuvole – questa è l’unica differenza del loro riposo. Questo è ciò che costituisce lo spasso della Vita per uno spirito speculativo. Esco tra i campi – scorgo per un istante un ermellino o un topo di campagna che corrono: perché? La creatura ha un intento e i suoi occhi se ne illuminano. Cammino tra gli edifici di una città e vedo un Uomo che si affretta: Perché? La Creatura ha un suo intento e gli occhi se ne illuminano. Anche in questo caso, benché io segua lo stesso corso istintivo del più autentico animale umano al quale io possa pensare, tuttavia, benché giovane, io scrivo a caso sforzandomi di trovare barlumi di luce in mezzo a una grande oscurità, senza conoscere la portata di nessuna affermazione o opinione. Tuttavia posso in questo non essere libero da peccato? Non vi possono essere esseri superiori divertiti da tutti gli atteggiamenti nei quali può cadere la mia mente allo stesso modo come io sono divertito dalla prestezza dell’ermellino o dall’ansietà del cervo? Benché si debba aborrire una rissa per la strada, le energie che in essa si dispiegano sono belle; l’Uomo più comune ha una grazia nella rissa. Visti da un essere soprannaturale i nostri ragionamenti possono assumere lo stesso aspetto: benché sbagliati possono essere belli. In questo consiste veramente la poesia. Si può trattare benissimo di ragionamenti, ma quando essi assumono una forma istintiva, come quelle delle forme e dei movimenti animali, essi sono poesia, sono belli; hanno grazia (Keats). • In un’altra lettera, Keats parla di Shakespeare come di un uomo di enorme “Capacità Negativa”; come di un uomo capace di rimanere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza nessuna eccitata tensione di arrivare al fatto o alla ragione. In tal senso lo contrappone al contemporaneo Coleridge, che quando non poteva giustificare intellettualmente l’oscurità si abbandonava all’intuizione poetica. Non era capace di accontentarsi, come diceva Keats, di una “mezza conoscenza”. Keats confessa a Bailey di …non essere mai stato ancora capace di capire come si possa conoscere qualcosa per vera mediante un ragionamento conseguente […] come possa darsi che persino il più grande Filosofo sia mai arrivato al suo scopo senza accantonare numerose obiezioni. • Domandandosi, in realtà, se anche il ragionatore non debba fidarsi delle sue “intuizioni”, di ciò che è arrivato a lui attraverso la sua immediata esperienza sensibile ed emotiva, di ciò che è arrivato a lui attraverso la sua immediata esperienza sensibile ed emotiva, anche contro le obiezioni che la riflessione presenta. Continua Keats: Infatti il semplice spirito fantastico può averla vinta reiterando il proprio lavorìo silenzioso che interviene continuamente nello Spirito con una mirabile prontezza. • Così commenta Dewey la frase di Keats: È un’osservazione che contiene più psicologia del pensiero produttivo di molti trattati. Nonostante il carattere ellittico delle affermazioni di Keats emergono due punti. Uno di essi è la convinzione che i “ragionamenti” hanno un’origine simile a quella dei movimenti di una creatura selvaggia che si dirige verso uno scopo, e che possono divenire spontanei, “istintivi”, e quando sono istintivi sono sensuali e immediati, poetici. L’altro aspetto di questa convinzione è di credere che nessun “ragionamento”, come tale, cioè escludendo fantasia e senso, possa raggiungere la verità. Anche il più grande filosofo esercita una preferenza di tipo animale guidando il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e mete da parte il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e mette da parte nel modo in cui spingono i suoi sentimenti immaginativi. La “ragione” al suo apice non può raggiungere una presa completa e una sicurezza propria. Essa deve ricadere sull’immaginazione, sull’incarnazione delle idee in sensazioni cariche di emotività. • Dewey ricorda i famosi versi di Keats: Bellezza è verità, verità è bellezza – questo è tutto Ciò che sapete sulla terra, e che avete bisogno di sapere • Per “vero”, spiega Dewey, Keats non intendeva qualcosa di intellettuale, ma la saggezza, soprattutto la saggezza connessa al problema del male e la giustificazione del bene e della fede nonostante l’abbondare del male e della distruzione. Keats, al pari di Shakespeare, non accettò sostituti e si accontentò di quel che la fantasia può offrire all’uomo: “Questo è tutto ciò che sapete sulla terra e che avete bisogno di sapere”. Cap. 3 – fare un’esperienza • Un’esperienza è un intero: si fluisce da qualcosa verso qualcosa; nell’esperienza del pensiero, la conclusione è il perfezionamento di un movimento la conclusione di un’esperienza non è una stasi, ma è il termine di una maturazione che si raggiunge quando le energie attive al suo interno hanno svolto la propria opera • Un’esperienza ha un punto focale, una qualità che la pervade: quel pasto, quella rottura dell’amicizia. • Una esperienza ha una qualità emotiva appagante quando raggiunge al suo interno integrazione e compimento la dimensione emotiva lega tra loro le parti in un unico intero • Quando non c’è interesse unificante, l’esperienza o è in balia di circostanze che la determinano dall’esterno o si disperde dall’interno → i nemici dell’estetico non sono né il pratico né l’intellettuale, ma la monotonia, l’inerzia dovuta a fini vaghi, la sottomissione alla convenzione e alla prassi • Dove cercare il resoconto di un’esperienza, quale quella di due persone che si incontrano per un colloquio per un posto di lavoro? Non nelle colonne di un libro contabile, né in un trattato di economia o sociologia del personale, ma in una rappresentazione teatrale o in una narrazione. La sua natura e il suo significato si possono esprimere solo con l’arte, poiché c’è un’unità esperienziale che si può esprimere solo con l’esperienza • Un’esperienza è un mettersi in relazione di azioni e passioni: mettere la mano sul fuoco e ritrarla non è operazione dell’intelligenza, ma quando queste due azioni sono connesse dall’intelligenza allora si produce significato • Fare e subire devono nell’opera essere in relazione, formando l’intero della percezione. Se invece il creare è solo esibizione di virtuosismo tecnico e il subire è l’effusione di un sentimento non si ha compimento artistico. Se nel corso del suo fare l’artista non dà compimento a una nuova visione, egli agisce meccanicamente e ripete qualche modello prefissato • Estrinseco vs. intrinseco • Quando v’è frenesia la possibilità di portare a compimento l’esperienza è ridotta • Per quel che riguarda la qualità fondamentale dei quadri, la differenza dipende più dalla qualità dell’intelligenza che viene messa nella percezione di relazioni che da ogni altra cosa – sebbene certamente l’intelligenza non possa essere separata dalla sensibilità diretta e sia connessa, anche se in maniera più estrinseca, con l’abilità → l’artista è una persona dotata di particolare sensibilità per le qualità delle cose • L’abilità dell’artefice, per essere indubitabilmente artistica, dev’essere “amorosa”; deve prendersi cura a fondo del contenuto su cui si esercita la sua tecnica • La ricettività non è passività: il riconoscimento non è un semplice apporre il “cartellino giusto”, l’etichetta; ma neanche comporta un’emozione interna che si accompagna alla percezione: non vi è percezione + emozione, ma sin dall’inizio la percezione è pervasa emotivamente → la dimensione estetica comporta sì un abbandonarsi, un ricevere, ma tale ricettività comporta un fuoriuscire dell’energia allo scopo di ricevere! L’idea che la percezione estetica sia una questione a cui dedicarsi solo a tempo perso è uno dei motivi dell’arretratezza delle arti tra di noi. • Per percepire, chi osserva deve creare la sua propria esperienza. E la sua creazione deve includere relazioni comparabili a quelle che provò il produttore originario. Senza un atto di nuova creazione l’oggetto non viene percepito come un’opera d’arte. L’artista ha selezionato, semplificato, capito, condensato secondo il proprio interesse. Chi osserva deve passare attraverso queste operazioni secondo il proprio punto di vista e il proprio interesse. C’ un lavoro che viene svolto sul versante di chi percepisce così come ce n’è uno sul versante dell’artista