contiene CD-Rom Manuale della Professione Medica Deontologia Etica Normativa e 23,50 Manuale della Professione Medica Deontologia Etica Normativa Manuale della Professione Medica Deontologia Etica Normativa EDITOR IN CHIEF Aldo Pagni Past President FNOMCeO Sergio Fucci Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano Presentazione a cura di Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri FNOMCeO Amedeo Bianco C.G. EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE s.r.l. Via Candido Viberti, 7 - 10141 TORINO Tel. 011.33.85.07 r.a. - Fax 011.38.52.750 Sito Web: www.cgems.it - E-mail: [email protected] Manuale della Professione Medica. Deontologia Etica Normativa Volume unico © 2011 C.G. Edizioni Medico Scientifiche s.r.l. Tutti i diritti riservati. Questo libro è protetto da Copyright. Nessuna parte di esso può essere riprodotta, contenuta in un sistema di recupero o trasmessa in ogni forma con ogni mezzo meccanico, di fotocopia, incisione o altrimenti, senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-7110-270-2 Realizzato in Italia Duplicazione Datatex - Torino Hanno collaborato EDITOR IN CHIEF Aldo Pagni Past President FNOMCeO Sergio Fucci Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano HANNO COLLABORATO Alesssandro Alimonti Dipartimento Ambiente e prevenzione primaria, Istituto Superiore di Sanità Giancarlo Aulizio Presidente OMCeO Forlì-Cesena Mauro Barni Professore Emerito di Medicina Legale, Università di Siena Paolo Benciolini Ordinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Padova Cristina Boni FIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia Sergio Bovenga Presidente OMCeO, Grosseto Fabio Cembrani Simona del Vecchio Direttore S.C. Medicina Legale, ASL 1 Imperiese Vittorio Fineschi Ordinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Foggia Sergio Fucci Giurista e bioeticista già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano Walter Gatti Direttore portale web FNOMCeO Bartolomeo Griffa Presidente CAO, Torino Mario Greco Pubblicista, già Direttore FNOM Dirigente sup. ar. Min. Lavoro e P.S., Roma Alessandro Innocenti Presidente OMCeO, Sondrio Bruno Magliona Ricercatore presso la Sezione di Medicina Legale del Dipartimento di Anatomia Umana, Farmacologia e scienze medico-forensi, Università degli Studi di Parma Carlo Manfredi Presidente OMCeO, Massa Carrara Direttore Unità Operativa di Medicina Legale, Azienda provinciale per i Servizi Sanitari di Trento Massimo Martelloni Fabio Centini Patrizia Masciovecchio Associato di tossicologia forense, Università degli studi di Siena Luigi Conte Presidente OMCeO, Udine Direttore UO Medicina Legale AUSL 2, Lucca Direttore medico-legale, ASL L’Aquila Daniela Mattei Dipartimento Ambiente e prevenzione primaria, Istituto Superiore di Sanità VI Manuale della Professione Medica Giuseppe Miserotti Aldo Pagni Giovanni Morrocchesi Antonio Panti Gian-Aristide Norelli Chiara Riviello Presidente OMCeO, Piacenza Dirigente OMCeO, Firenze Ordinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Firenze Past President FNOMCeO Presidente OMCeO, Firenze Presidente OMCeO, Taranto Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dipartimento di Anatomia Istologia e Medicina Legale, Università di Firenze Alberto Oliveti Giovanbattista Sisca Cosimo Nume Vice Presidente ENPAM e Medico di famiglia, Senigallia (AN) Aristide Paci Presidente ONAOSI Presidente OMCeO, Terni Federico Pagano FIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia Specialista in Medicina dello Sport Elena Terrosi-Vagnoli Dottore di Ricerca in Deontologia ed Etica Medica, Università di Siena Emanuela Turillazzi Professore 0HGLFLQDAssociato Legale, Università di Foggia Indice Riflessioni per una nuova deontologia Etica e deontologia Il contributo della bioetica L’attività medica tra doverosità e legittimità Dovere di relazione e certezza di consenso Il dovere d’informare Segretezza e informativa Il Codice di Deontologia Il dovere dell’appropriatezza Percorsi dell’appropriatezza Conclusioni Appendice: doveri legali di informativa 1 4 8 10 11 17 21 24 29 29 31 Capitolo 1 - L’Ordine professionale e il Codice deontologico Art.1 Definizione L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia professionale Il valore del Codice nell’ordinamento generale L’uso delle norme deontologiche nella motivazione delle sentenze Art. 2 Potestà e sanzioni disciplinari Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio Il procedimento disciplinare Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie in materia disciplinare Art. 64 Doveri di collaborazione 45 45 46 49 50 52 53 54 Capitolo 2 - La responsabilità professionale Introduzione al tema della responsabilità professionale per malpratica La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Definizione 57 58 61 61 64 VIII Manuale della Professione Medica La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Casistica La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità. Definizione e casistica Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause. La responsabilità penale nel lavoro in équipe La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario” La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso di causalità Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno erariale” Introduzione Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale La responsabilità a carico del medico di medicina generale per “iperprescrizione” 70 Capitolo 3 - Doveri del medico e diritti del cittadino Art. 3 Doveri del medico Art. 4 Libertà e indipendenza della professione Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione Art. 7 Limiti dell’attività professonale Art. 20 Rispetto dei diritti del cittadino Art. 28 Fiducia del cittadino Art. 21 Competenza professionale Art. 6 Qualità professionale e gestionale Qualità gestionale Qualità professionale 103 103 105 Art. 70 Qualità delle prestazioni L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni (fare solo ciò che è utile a chi ne ha veramente bisogno) L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa (utilizzare al meglio le risorse disponibili) La tempestività e la continuità delle cure (la risposta giusta al momento giusto: il paziente al centro della organizzazione) L’accessibilità e l’equità (garantire agli utenti un accesso equo al servizio di cui hanno bisogno) 123 74 80 84 89 92 94 96 98 98 99 100 106 108 108 110 112 116 117 122 124 124 126 126 IX Indice La soddisfazione degli utenti (ascolto dell’utente) Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità (valutazione, monitoraggio e MCQ… chi si ferma è perduto!) Art. 14 Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico Art. 33 Informazione al cittadino Art. 34 Informazione a terzi Art. 35 Acquisizione del consenso Art. 37 Consenso del legale rappresentante Art. 32 Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili Art. 27 Libera scelta del medico e del luogo di cura 127 127 128 130 131 134 139 143 146 Capitolo 4 - Gli obblighi del medico Art. 19 Aggiornamento e formazione professionale permanente L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM Art. 10 Segreto professionale Art. 11 Riservatezza dei dati personali Il dovere della riservatezza Esercizio della medicina e tutela della riservatezza Art. 12 Trattamento dei dati sensibili La protezione dei dati sensibili Normativa Trattamento dei dati personali in ambito sanitario L’informazione della persona assistita Deroghe ammesse Reclami alle ASL e qualità del SSN Il trattamento dei dati genetici Art. 51 Obblighi del medico Art. 52 Tortura e trattamenti disumani Art. 53 Rifiuto consapevole di nutrirsi Art. 40 Donazione di organi, tessuti e cellule Art. 41 Prelievo di organi e tessuti 149 149 149 155 156 156 156 167 167 167 168 169 171 172 175 176 177 178 179 179 X Manuale della Professione Medica Capitolo 5 - Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 183 Art. 5 Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente 183 Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute 183 Art. 8 Obbligo d’intervento 190 Art. 9 Calamità 191 Art. 36 Assistenza d’urgenza 191 Art. 74 Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie 192 La tutela della salute mentale 192 Fonti normative 192 Il Dipartimento di Salute Mentale 195 La profilassi delle malattie infettive 196 La notifica di malattia infettiva 197 Provvedimenti sulle fonti di infezione 202 Vaccinazioni 220 Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie 229 Art. 75 Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso 234 Le tossicodipendenze 234 Aspetti generali 234 Definizione di “stupefacente” 243 Definizione di tossicodipendenza 245 L’aspetto penalistico 249 Il trattamento medico dei tossicodipendenti 252 Tossicodipendenze e deontologia medica 254 Le comunità terapeutiche 255 Appunti su “tabagismo” e “alcolismo” 257 Il tabagismo 257 L’alcolismo 259 Capitolo 6 - Pubblicità e informazione sanitaria Art. 55 Informazione sanitaria Art. 56 Pubblicità dell’informazione sanitaria Art. 57 Divieto di patrocinio 263 263 263 267 Allegato: Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica 270 XI Indice Capitolo 7 - Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici Art. 13 Prescrizione e trattamento terapeutico Art. 23 Continuità delle cure La prescrizione dei farmaci La scelta terapeutica Le attese del paziente L’alleanza terapeutica I condizionamenti del medico La prescrizione delle cure primarie La conoscenza scientifica come base della terapia Efficienza farmacologica, efficacia clinica Terapia ed EBM La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione Il processo terapeutico L’appropriatezza prescrittiva Il medico come prescrittore pubblico La terapia: una trama di arcaico e di nuovo La prescrizione di farmaci on-label e off-label Farmacovigilanza Art. 22 Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica Art. 15 Pratiche non convenzionali Art. 29 Fornitura di farmaci Art. 30 Conflitto di interesse Allegato: Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione dell’art. 30 Art. 31 Comparaggio L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine” tra comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico Capitolo 8 - La sperimentazione Art. 47 Sperimentazione scientifica Art. 48 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo Art. 49 Sperimentazione clinica Conflitto d’interesse Art. 50 Sperimentazione sull’animale 277 277 277 278 278 278 279 279 280 281 283 284 289 289 295 296 297 299 300 301 304 306 306 311 314 316 319 319 320 322 324 325 XII Manuale della Professione Medica Capitolo 9 - La documentazione dell’attività medica Art. 24 Certificazione Art. 25 Documentazione clinica Art. 26 Cartella clinica La cartella clinica Definizione e normativa Cartella clinica: verso una nuova definizione Il DLgs 318/1999, art. 9 punto 4 Inquadramento giuridico Cartella clinica e segreto professionale Requisiti formali Cartella clinica: compilazione Cartella clinica: conservazione Gli archivi La circolazione della cartella clinica Gestione della documentazione sanitaria Cartella clinica orientata per problemi (CMOP) Controllo di qualità e cartella clinica Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente La scheda di dimissione ospedaliera (SDO) Il registro operatorio La scheda sanitaria 329 329 329 334 334 334 335 337 338 341 342 342 349 349 350 352 356 358 360 365 368 370 Capitolo 10 - Assistenza al malato inguaribile Art. 39 Assistenza al malato a prognosi infausta Art. 16 Accanimento diagnostico-terapeutico Art. 17 Eutanasia Art. 18 Trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica Art. 38 Autonomia del cittadino e direttive anticipate L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento Il rifiuto del trattamento Le direttive anticipate Definizioni 373 373 373 373 373 374 376 378 380 382 384 Capitolo 11 - Sessualità e riproduzione Art. 42 Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione 387 387 Indice XIII La contraccezione e la sterilizzazione La contraccezione La sterilizzazione Il transessualismo e il mutamento di sesso Le procedure Art. 43 Interruzione volontaria di gravidanza L’interruzione volontaria di gravidanza Le procedure della legge 194/1978 L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo La storia dell’aborto e dell’intercezione medica RU486: meccanismo di azione Evoluzione politica italiana, dall’indagine conoscitiva del Senato alla compatibilità della RU486 con la legge n. 194/1978 Art. 44 Fecondazione assistita La procreazione medicalmente assistita Art. 45 Interventi sul genoma umano Art. 46 Test predittivi 387 387 389 391 392 394 394 394 400 400 402 402 408 408 412 414 Capitolo 12 - Rapporti con i colleghi Art. 58 Rispetto reciproco Art. 59 Rapporti con il medico curante Art. 60 Consulenza e consulto Art. 61 Supplenza Art. 62 Attività medico-legale Art. 63 Medicina fiscale 417 417 418 419 421 421 422 Capitolo 13 - Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati Art. 54 Onorari professionali Art. 65 Società tra professionisti Art. 66 Rapporto con altre professioni sanitarie Art. 67 Esercizio abusivo della professione e prestanomismo Premessa L’interdizione della professione come sanzione disciplinare L’esercizio abusivo della professione come reato Art. 68 Medico dipendente o convenzionato Art. 69 Direzione sanitaria 431 431 434 436 438 439 440 441 442 444 XIV Manuale della Professione Medica Capitolo 14 - Medicina dello sport Art. 71 Accertamento della idoneità fisica Art. 72 Idoneità - Valutazione medica Art. 73 Doping La legislazione Capitolo 15 - La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI Il sistema previdenziale della Fondazione ENPAM Solidarietà, sostenibilità ed equità generazionale: la convenienza per i futuri contribuenti La contribuzione e le prestazioni dei Fondi Il Fondo di Previdenza Generale La composizione del Fondo La contribuzione al Fondo “Quota A” La contribuzione proporzionale al “Quota B” o Fondo della Libera Professione: requisiti Le prestazioni del Fondo Generale Pensione di invalidità assoluta e permanente Pensione indiretta ai superstiti Pensione di reversibilità ai superstiti Restituzione dei contributi Indennità di maternità, adozione e affidamento preadottivo Indennità di aborto Prestazioni assistenziali all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo Generale “Quota A” Prestazioni assistenziali aggiuntive all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo Generale “Quota B” Integrazione al trattamento minimo INPS Maggiorazione della pensione per gli ex combattenti e loro superstiti I riscatti nel Fondo Il Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale La composizione del Fondo La contribuzione al Fondo Le prestazioni del Fondo I riscatti nel Fondo Il Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali La composizione del Fondo 449 449 449 451 452 di 453 453 454 456 462 462 464 466 468 470 470 471 471 472 472 473 474 476 476 477 481 481 482 483 488 493 493 XV Indice La contribuzione al Fondo Le prestazioni del Fondo I riscatti nel Fondo Il Fondo Speciale degli Specialisti e degli Accreditati Esterni La composizione del Fondo La contribuzione al Fondo Le prestazioni del Fondo I riscatti nel Fondo Aliquota Modulare su base volontaria La ricongiunzione La totalizzazione La previdenza complementare “Fondo Sanità” Riscatto di laurea, riscatto di allineamente o Fondo Pensione La previdenza integrativa ONAOSI La legge istitutiva dell’obbligo di contribuzione Il DPR 616/1977 e la legge 167/1991 La privatizzazione degli enti di previdenza dei professionisti Giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’obbligatorietà di contribuzione all’ONAOSI Legge 298/2002: l’estensione dell’obbligo di contribuzione a tutti i sanitari Finanziaria 2007: restrizione di obbligo di contribuzione Le prestazioni e i servizi ONAOSI Misura della contribuzione ONAOSI Contribuenti volontari Il nuovo Statuto ONAOSI Cosa fare per iscriversi volontariamente all’ONAOSI Le nuove sfide della previdenza ed assistenza delle professioni sanitarie Perché iscriversi all’ONAOSI 494 494 499 501 501 502 504 509 510 511 513 515 516 517 525 525 526 526 527 529 529 530 532 532 533 535 535 538 Capitolo 16 - La libera circolazione nell’Unione Europea Il diritto di stabilimento e la prestazione di servizi Le “direttive medici” e le norme di attuazione Le “direttive odontoiatri” e le norme di attuazione 539 539 540 541 Capitolo 17 - L’esercizio dell’odontoiatria Presupposti formativi Normativa Requisiti giuridici per l’esercizio Campo di attività dell’odontoiatra 543 543 546 548 548 XVI Manuale della Professione Medica Lo studio odontoiatrico L’autorizzazione all’esercizio dell’attività L’impianto elettrico Le apparecchiature radiologiche I dispositivi medici Lavori odontotecnici nello studio odontoiatrico La prevenzione del contagio professionale da HIV Norme per gli operatori odontoiatrici (art. 4) Obblighi degli operatori (art. 9) Lo smaltimento dei rifiuti sanitari Appendice - Web e medici: elementi per un uso corretto del web 549 549 551 554 559 562 563 565 565 565 571 Sommario per articolo Codice Deontologico Titolo I – Oggetto e campo di applicazione Art. 1 – Definizione Art. 2 – Potestà e sanzioni disciplinari Titolo II – Doveri generali del medico Capo I – Libertà, indipendenza e dignità della professione Art. 3 – Doveri del medico Art. 4 – Libertà e indipendenza della professione Art. 5 – Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente Art. 6 – Qualità professionale e gestionale Art. 7 – Limiti dell’attività professionale Capo II – Prestazioni d’urgenza Art. 8 – Obbligo d’intervento Art. 9 – Calamità Capo III – Obblighi peculiari del medico Art. 10 – Segreto professionale Art. 11 – Riservatezza dei dati personali Art. 12 – Trattamento dei dati sensibili Capo IV – Accertamenti diagnostici e trattamenti terapeutici Art. 13 – Prescrizione e trattamento terapeutico Art. 14 – Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico Art. 15 – Pratiche non convenzionali Art. 16 – Accanimento diagnostico-terapeutico Art. 17 – Eutanasia Art. 18 – Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica Art. 19 – Aggiornamento e formazione professionale permanente 45 52 103 105 183 116 108 190 191 155 156 167 277 128 304 373 373 373 149 XVIII Manuale della Professione Medica Titolo III – Rapporti con il cittadino Capo I – Regole generali di comportamento Art. 20 – Rispetto dei diritti del cittadino Art. 21 – Competenza professionale Art. 22 – Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica Art. 23 – Continuità delle cure Art. 24 – Certificazione Art. 25 – Documentazione clinica Art. 26 – Cartella clinica 108 112 301 277 329 329 334 Capo II – Doveri del medico e diritti del cittadino Art. 27 – Libera scelta del medico e del luogo di cura Art. 28 – Fiducia del cittadino Art. 29 – Fornitura di farmaci Art. 30 – Conflitto di interesse Art. 31 – Comparaggio 146 110 306 306 314 Capo III – Doveri di assistenza Art. 32 – Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili 143 Capo IV – Informazione e consenso Art. 33 – Informazione al cittadino Art. 34 – Informazione a terzi Art. 35 – Acquisizione del consenso Art. 36 – Assistenza d’urgenza Art. 37 – Consenso del legale rappresentante Art. 38 – Autonomia del cittadino e direttive anticipate 130 131 134 191 139 374 Capo V – Assistenza ai malati inguaribili Art. 39 – Assistenza al malato a prognosi infausta 373 Capo VI – Trapianti di organi, tessuti e cellule Art. 40 – Donazione di organi, tessuti e cellule Art. 41 – Prelievo di organi e tessuti 179 179 Capo VII – Sessualità e riproduzione Art. 42 – Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione 387 XIX Sommario per articolo Art. 43 – Interruzione volontaria di gravidanza Art. 44 – Fecondazione assistita Art. 45 – Interventi sul genoma umano Art. 46 – Test predittivi 394 408 412 414 Capo VIII – Sperimentazione Art. 47 – Sperimentazione scientifica Art. 48 – Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo Art. 49 – Sperimentazione clinica Art. 50 – Sperimentazione sull’animale 319 320 322 325 Capo IX – Trattamento medico e libertà personale Art. 51 – Obblighi del medico Art. 52 – Tortura e trattamenti disumani Art. 53 – Rifiuto consapevole di nutrirsi 176 177 178 Capo X – Onorari professionali nell’esercizio libero professionale Art. 54 – Onorari professionali 431 Capo XI – Pubblicità e informazione sanitaria Art. 55 – Informazione sanitaria Art. 56 – Pubblicità dell’informazione sanitaria Art. 57 – Divieto di patrocinio 263 263 267 Titolo IV – Rapporti con i colleghi Capo I – Rapporti di collaborazione Art. 58 – Rispetto reciproco Art. 59 – Rapporti col medico curante 41 418 Capo II – Consulenza e consulto Art. 60 – Consulenza e consulto 419 Capo III – Altri rapporti tra medici Art. 61 – Supplenza 421 Capo IV – Attività medico-legale Art. 62 – Attività medico legale Art. 63 – Medicina fiscale 421 422 XX Manuale della Professione Medica Capo V – Rapporti con l’Ordine professionale Art. 64 – Doveri di collaborazione 58 Titolo V – Rapporti con i terzi Capo I – Modalità e forme di espletamento dell’attività professionale Art. 65 – Società tra professionisti Art. 66 – Rapporto con altre professioni sanitarie Art. 67 – Esercizio abusivo della professione e prestanomismo 434 436 438 Titolo VI – Rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale e con enti pubblici e privati Capo I – Obblighi deontologici del medico a rapporto di impiego o convenzionato Art. 68 – Medico dipendente o convenzionato Art. 69 – Direzione sanitaria Art. 70 – Qualità delle prestazioni 442 444 123 Capo II – Medicina dello Sport Art. 71 – Accertamento della idoneità fisica Art. 72 – Idoneità – Valutazione medica Art. 73 – Doping 449 449 451 Capo III – Tutela della salute collettiva Art. 74 – Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie Art. 75 – Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso 192 234 Indice XXI Il Giuramento Professionale Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: • di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; • di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; • di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario; • di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona; • di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico; • di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica; • di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; • di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina; • di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali; • di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione; XXII Manuale della Professione Medica • di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; • di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico; • di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente; • di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato; • di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione. Presentazione Amedeo Bianco Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri Il nuovo Manuale della Professione Medica, edito dalla C.G. Edizioni Medico Scientifiche, si presenta come opera pregevole e di notevole valore editoriale realizzata con il contributo di autorevoli rappresentanti istituzionali e della professione, nonché di studiosi che da sempre si dedicano, con competenza e attenzione, alle problematiche della moderna professione medica e odontoiatrica. Si tratta di un’opera prestigiosa nei suoi contenuti e nella sua struttura, la cui lettura ci sentiamo di consigliare vivamente a tutti i medici, anche a quei colleghi giovani che stanno per entrare nel mondo della professione. Essa infatti offre spunti ed elementi di profonda riflessione per quanto attiene alla attività del medico. Ci troviamo di fronte ad un volume che spazia nei più svariati campi del mondo medico: dall’etica alla responsabilità, dalla materia tecnico-scientifica ad elementi di diritto sanitario che sempre devono supportare il medico nello svolgimento della propria attività. Rappresenta pertanto un valido strumento di apprendimento e di conoscenza sia per chi debba acquisire maggiore destrezza nella pratica professionale che per chi voglia essere pronto al confronto con le nuove problematiche della professione sempre emergenti. Non mancano riferimenti alle nostre istituzioni ordinistiche, alla legislazione sanitaria e soprattutto al Codice Deontologico i cui principi sottendono a tanti aspetti fondamentali e a tante problematiche nuove rispetto al passato, cui il professionista della salute è quotidianamente posto di fronte. Esprimo pertanto il mio compiacimento più sincero, certo di riportare il parere positivo del Comitato Centrale della FNOMCeO, sia alla Casa Editrice del resto già ampiamente nota per la proficua attività da lungo tempo svolta in campo sanitario, sia agli Autori che con il loro pregevole contributo hanno dato maggiore lustro all’iniziativa. XXIV Manuale della Professione Medica Per un nuovo professionalismo medico fondato sull’alleanza terapeutica* La malattia, al centro del tradizionale paradigma biomedico e al quale, a partire dalla metà dell’800, si è saldamente ancorata la travolgente ascesa del professionalismo medico del ventesimo secolo, oggi configura in realtà una sorta di oggetto fluttuante all’interno dello spazio definito da tre diverse ed a volte conflittuali rappresentazioni: quella del malato, quella del medico, quella della società. In questo spazio si muovono con discrete fortune culture della salute e della cura “non ortodosse”, alcune relativamente vecchie (medicine e pratiche non convenzionali), altre del tutto nuove: il self-care, il well-being. La malattia, territorio indiscusso dei dottori, rappresenta in questi tempi, o meglio in questo nuovo secolo, un fenomeno multidimensionale in costante mutamento non solo per gli aspetti tecnico scientifici, ma anche come prodotto dell’interazione delle esperienze soggettive delle persone malate e dei numerosi condizionamenti che la società nel suo complesso, per scelte economiche, politiche ed etiche, impone alle pratiche professionali ed alle stesse possibilità di scelta dei cittadini. La moltiplicazione e la segmentazione dei saperi e delle competenze in medicina ed in sanità è paradossalmente diventato un tallone d’Achille della tradizionale dominanza tecnica del medico, laddove ha prima determinato e poi incentivato lo sviluppo di nuovi professionalismi sanitari che oggi lambiscono e talora invadono gli storici territori di attività esclusiva del medico e dell’odontoiatra. Questi processi destabilizzano in modo pervasivo le basi cognitive e relazionali dell’esercizio professionale, producendo evidenti disagi nella misura in cui impongono risposte efficaci e coerenti ai cambiamenti che coinvolgono medici, medicina e sanità, salvo scontare una sostanziale marginalità tecnica, civile e sociale della professione. Anche questo ci insegna la storia che abbiamo inteso raccontare in questo volume dedicato a cento anni di professione, naturalmente vissuta in contesti sociali, civili e tecnico scientifici diversi ma straordinariamente accomunata da ragioni e passioni professionali che intatte dobbiamo consegnare al secolo che verrà. *Introduzione al volume Centenario della istituzione degli Ordini dei Medici, pubblicato da FNOMCeO (2010). Per gentile concessione FNOMCeO. Indice XXV Abbiamo infatti bisogno della forza di quelle passioni e di quelle ragioni per comprendere il fenomeno, all’apparenza paradossale, secondo il quale, nel vissuto e nel percepito dei medici, siano avvertite profonde incertezze sui fini e sugli scopi della medicina, della sanità e dello stesso esercizio professionale in una fase in cui è invece in crescita esponenziale il grande patrimonio civile e sociale che ha costruito l’ascesa e l’affermazione della dominanza del professionalismo medico e cioè i saperi e i poteri della medicina sulla salute e sulla vita. Queste incertezze vanno affrontate individuando i determinanti dei grandi processi di cambiamento, valutando il loro impatto tecnico professionale, etico e sociale sul complesso sistema delle cure e dell’assistenza, sulle pratiche professionali, per contrastarne le derive minacciose, per accettarne invece le sfide capaci di produrre miglioramenti e prospettare in tal modo un riposizionamento, autonomo e responsabile, della professione medica nel core di quei processi decisionali che oggettivamente le competono e dai quali sempre più spesso risulta emarginata. Oggi, forse più di ieri, non è facile rivendicare ruoli autonomi ed avocare responsabilità in un contesto che, sempre più spesso, mette in evidenza preoccupanti inadeguatezze del decisore politico ad assumere le scelte che gli competono sugli aspetti direttamente connessi con il corpo umano e con i suoi valori etici e civili e più in generale con le questioni di carattere sanitario concernenti le garanzie dell’equità e dell’efficacia della tutela della salute. Le scelte in sanità coinvolgono diritti dei cittadini e libertà delle persone e, anche per questo, hanno bisogno di una politica buona, capace cioè di scegliere gli indirizzi con autorevolezza, trasparenza e responsabilità, così come di una gestione dei servizi di cura ed assistenza competente ed efficiente nell’uso delle risorse. Questo cerchio virtuoso fatica a chiudersi, se i professionisti sono tenuti nell’angolo, ridotti ad una anonima prima linea, esposta su un fronte sconfinato di mediazioni difficili tra presunte infallibilità e i limiti oggettivi della medicina e dei medici, tra domande infinite e risorse definite, tra speranze ed evidenze, tra accessibilità e equità, tra chi decide e che cosa si decide. In questi nuovi contesti, assume una straordinaria rilevanza il compito di esercitare un ruolo efficace di indirizzo e governo della qualità dell’esercizio professionale non solo inteso come buona pratica tecnica ma anche come consapevole e responsabile assunzione di responsabilità civili e sociali nella garanzia del diritto alla tutela della salute nel secolo che verrà. La storia che proponiamo ci consegna la speranza di una missione possi- XXVI Manuale della Professione Medica bile, quella cioè di poter responsabilmente e legittimamente saldare interessi professionali ad interessi generali della comunità. È ancora possibile che la professione medica possa cessare di subire e cominciare a stupire se abbandonerà logiche e culture del passato, troppo spesso ridotte a mera difesa di interessi immediati e parcellizzati, nell’illusione miope che salvando le rispettive parti si possa salvare il tutto. Queste logiche e queste culture hanno chiuso i medici nelle varie ridotte professionali, i Sindacati di categoria, gli Ordini, le Società Medico-scientifiche, ognuno legittimamente ed orgogliosamen el nuovo paziente-impaziente ed esigente, ma il frutto più prezioso di intelligenze, di culture, di esperienze e sofferenze che hanno profondamente caratterizzato e talora condizionato i profili etici, civili e sociali di grandi questioni attinenti a diritti costituzionalmente protetti. Il Codice Deontologico, approvato nel dicembre 2006, si colloca all’interno di questa tradizione e, rispetto al precedente del 1998 che aveva recepito i principi bioetici della Convenzione di Oviedo, appare ancora più positivo e propositivo, ancora meno paternalista e più lontano dalle suggestioni dei vecchi poteri e dei tradizionali autoritarismi della medicina e dei medici, per rafforzare invece una relazione medico paziente, equilibrata, di pari dignità, fondata sull’informazione e sul consenso che, nel momento di ogni scelta, diventa un’alleanza. Un passaggio culturale e professionale non facile e non scontato che per alcuni suona ancora come una rinuncia o quantomeno come una intollerabile limitazione all’esercizio di una delega storicamente dominio indiscusso dei medici, in altre parole una sorta di capitolazione dell’autonomia del medico al prorompente emergere di un forte protagonismo del cittadino nelle scelte, a questo titolo variamente ridefinito come impaziente, consumatore, prepotente, esigente. Può così accadere, ed alcune esperienze lo confermano, che i conflitti oggi effettivamente comprimenti l’autonomia dei medici ed oscuranti ruoli e poteri, quali ad esempio i limiti oggettivi della medicina e dei medici a fronte di attese illimitate, la sostenibilità economica dei servizi sanitari scioccamente giocata su vincoli burocratici imposti, l’esasperato contenzioso medico legale, predatore di fiducia e di risorse ed alla base di devastanti pratiche difensive, i laceranti conflitti etici sulle scelte di inizio e fine vita, vengano talora identificati come il prodotto di una ipertrofia del principio di autodeterminazione del paziente. Il tramonto della storica “dominanza medica” rischia così di scaricare tutto il suo potenziale di frustrazioni professionali nella relazione di cura, sollecitan- Indice XXVII do una sorta di restaurazione di un neo paternalismo illuminato, un ritorno al passato improponibile ed per giunta incapace a curare quel disagio. La centralità dell’alleanza terapeutica è dunque rafforzata in uno scenario di esercizio professionale nel quale i due soggetti della relazione di cura sono attraversati da profondi e travolgenti cambiamenti. Il paziente è più consapevole dei suoi diritti, più informato e quindi più attento a rivendicare ed esercitare il proprio protagonismo nelle scelte; il medico è sempre più schiacciato tra i crescenti obblighi verso questo paziente e i vincoli del contenimento dei costi, spesso malamente imposti e quindi percepiti come invadenti ed invasori delle sfere di autonomia e responsabilità proprie dell’esercizio professionale. Ma è soprattutto cambiato il contenuto della relazione di cura: • sul piano tecnico professionale, l’esplosione delle biotecnologie, della post genomica, delle nanotecnologie, mentre esalta le potenzialità del tradizionale paradigma biomedico della diagnosi e cura della malattia accendendo attese e speranze quasi miracolistiche di nuovi straordinari poteri della medicina e dei medici sulla vita biologica dal suo inizio alla sua fine, fatica invece a far comprendere i propri limiti e a motivare gli insuccessi senza perdere fiducia e ruoli; • sul piano etico alcune di queste straordinarie conquiste si accompagnano a conflitti bioetici che toccano (e lacerano) valori profondi della persona e della collettività, altre pongono seri ed inquietanti dilemmi di giustizia in ragione delle risorse limitate; • sul piano civile e sociale l’accesso equo a servizi di tutela efficaci, appropriati e sicuri sostanzia un diritto di cittadinanza, contribuendo a determinare senso di appartenenza ad una comunità ed ai suoi valori di solidarietà, di libertà, di tutela dei più fragili. Ai medici di questo nuovo secolo spetta pertanto il difficile compito di trovare il filo del loro agire posto a garanzia della dignità e della libertà del paziente, delle sue scelte, della sua salute fisica e psichica, del sollievo della sofferenza e della sua vita in una relazione di cura costantemente tesa a realizzare un rapporto paritario ed equo, capace cioè di ascoltare ed offrire risposte diverse a domande diverse. L’autonomia decisionale del cittadino, che si esprime nel consenso/dissenso informato, è l’elemento fondante di questa alleanza terapeutica al pari dell’autonomia e della responsabilità del medico nell’esercizio delle sue funzioni di garanzia. In questo equilibrio, alla tutela ed al rispetto della libertà di XXVIII Manuale della Professione Medica scelta della persona assistita deve corrispondere la tutela ed il rispetto della autonomia e responsabilità del medico, in ragione della sua scienza e coscienza. Lo straordinario incontro, ogni volta unico e irripetibile, di libertà e responsabilità non ha dunque per il nostro Codice Deontologico natura meramente contrattualistica, ma esprime l’autentico e moderno ruolo del medico nell’esercizio delle sue funzioni di garanzia. In questo nucleo forte di relazioni etiche, civili e tecnico-professionali il soggetto di cura e il curante, ciascuno “auto-re” di scelte, esprimono entrambi l’autonomia e la responsabilità che caratterizza ogni alleanza terapeutica e che in tal senso compiutamente rappresenta il luogo, il tempo e lo strumento per dare forza, autorevolezza e legittimazione a chi decide e a quanto si decide. Più in generale, in un progetto che si propone di superare il disagio professionale di questi tempi, ci deve animare il comune disegno di una Professione vicina alle Istituzioni sanitarie, a supporto dei loro compiti di tutela della salute pubblica, ed ai cittadini soprattutto dove e quando sono oltraggiati da disinformazione, silenzi, incapacità amministrative e colpiti nei loro diritti alla tutela della salute da una devastazione dei territori e degli ambienti di vita e di lavoro. Una vicinanza ai cittadini, ai loro bisogni, alle loro inquietudini è oggi più che mai indispensabile per dare risposte forti ed equilibrate ai dubbi e alle incertezze tecniche, civili, etiche, che il travolgente sviluppo della medicina inevitabilmente propone, non dimenticando mai che anche in un mondo dominato dalle tecnologie, le parole, gli sguardi e le emozioni sono straordinari strumenti di cura. Dobbiamo tutelare i nostri giovani, garantendone l’ottimale formazione di base e specialistica, favorendo il loro ingresso esperto nella professione, promuovendo lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze derivanti da fonti autorevoli e libere da conflitti di interesse. È nostro compito contribuire a rendere il sistema sanitario affidabile per i cittadini, a vincere la sfida della sostenibilità economica assumendoci la responsabilità morale e tecnico-professionale dell’uso appropriato delle risorse. Credo che questo sia l’appuntamento a cui ci chiama l’avvio del secolo nuovo che si spalanca dinnanzi a noi. Non lo possiamo mancare per ritornare ad essere autori orgogliosi del nostro futuro e cittadini responsabili del nostro paese. Prefazione Aldo Pagni La deontologia, intesa come il complesso delle norme di comportamento del professionista, ha carattere essenzialmente etico, ma il rapporto del medico con la società, e la potenza della tecnologia sanitaria, hanno reso certamente complessi e ineliminabili, anche se discussi, i collegamenti tra la morale e le leggi. Anche perché la deontologia (deon + logos), il discorso su ciò che si deve fare, o la scienza del dovere, resta un ampio ed elastico spazio etico-teorico, nel quale l’aggiunta professionale richiama ai doveri etico-sociali inerenti l’esercizio di una professione. Tuttavia, la deontologia e il Codice deontologico non sono la stessa cosa, anche se strettamente collegati. Il Codice contiene norme deontologiche giuridiche (che aspirano a divenire leggi), che disciplinano la pratica relativa a questioni concrete e specifiche frequentemente rivisitate, in relazione ai cambiamenti sociali e tecnici emergenti. La deontologia rimane il fondamento della riflessione filosofica intorno a quei principi di etica medica, che prendendo le mosse dal Giuramento di Ippocrate sono giunti fino al giuramento attuale. Etica In generale è la scienza della condotta, e si riferisce «all’insieme di scritti e discorsi nei quali si presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimensioni della loro vita pratica» (E. Lecaldano) Nella storia del pensiero umano, dall’antichità ai nostri giorni, si sono intrecciate variamente due concezioni fondamentali, che devono essere tenute sempre presenti quando si discute di etica. 1. Una la considera come la scienza del fine cui la condotta degli uomini deve essere indirizzata e dei mezzi per raggiungerlo. Sia il fine che i mezzi sono dedotti dalla natura dell’uomo. Essa parla il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per conseguenza dalla “natura” o “essenza” o “sostanza” dell’uomo. XXX Manuale della Professione Medica In questa concezione la nozione del bene corrisponde a una realtà perfetta (Aristotele e S. Tommaso: «il bene è la felicità» deducibile dalla natura razionale dell’uomo). 2. L’altra la concepisce come la scienza del movente della condotta umana e cerca di determinare tale movente per dirigere o disciplinare la condotta stessa. Essa, quindi, si occupa dei “motivi” o delle “cause” della condotta umana o delle forze che la determinano, e pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. In questa concezione la nozione di bene è un oggetto di desiderio, normalmente istintivo, di qualcosa che sentiamo come mancante e il cui possesso da soddisfazione («il bene è il piacere», come movente abituale e costante della condotta umana). Considerazioni generali 1. L’Etica non è immutabile ed è oggetto di continue riflessioni e polemiche. Sartre aveva osservato che i periodi nei quali si avverte il bisogno di etica sono quelli di conflitto, di incertezza e di ricerca di nuovi orizzonti, non quelli in cui certi ideali sembrano realizzarsi, bensì quelli di trasformazione, di ricerca di disorientamento. 2. Poiché la nozione di bene mostrava una certa ambiguità, corrispondente alle due concezioni prima citate (Bene significa ciò che è (per il fatto che è), o ciò che è oggetto di aspirazione e di desiderio ?), nel XIX secolo la nozione di valore soppiantò quella di bene nelle discussioni morali, anche per l’ampliamento dato al significato economico del termine. E tuttavia, nello stesso periodo, si ebbe nella teoria dei valori una distinzione analoga a quella che aveva caratterizzato la teoria del bene: 1. Un valore metafisico o assolutistico, indipendente dai suoi rapporti con l’uomo. 2. Un valore empiristico o soggettivistico, in stretto rapporto con l’uomo, o con le attività e il mondo umano. 3. La filosofia morale suscita oggi i maggiori interessi e i maggiori dibattiti, ma secondo B. Williams, J. Mackie, T. Nagel e altri, non riuscirebbe a fornire motivazioni plausibili alle sue pretese legiferanti per molteplici motivi: a. La crisi delle credenze morali comuni. b. Il declino delle visioni totalizzanti della realtà e della storia. c. Gli sviluppi della scienza e della tecnica in grado di intervenire e modificare la costituzione biologica e psichica dell’uomo. Prefazione XXXI d. La complessità del vivere moderno e l’individuazione di nuovi codici di comportamento. e. La necessità di garantire la coesistenza tra razze, culture e forme di vita diverse. La combinazione di questi motivi spiega perché, a partire dagli anni ’70, la riflessione di alcuni pensatori sui problemi concreti degli esseri umani sia divenuta una denuncia e una contestazione dell’utilità di una ricerca esclusivamente meta-etica e astratta, irrilevante per i problemi pratici e reali degli uomini. La svolta è stata definita l’irruzione dell’etica applicata, il proliferare di una serie di ricerche etiche interessate alla soluzione di questioni morali specifiche: la bioetica, l’etica degli affari, l’etica dell’ambiente e quella degli animali, l’etica dei differenti trattamenti di persone di sesso diverso, l’etica delle generazioni future, l’etica dell’intelligenza artificiale ecc. Insieme alla ricchezza di queste riflessioni, e del dibattito che ne consegue, non possiamo neanche escludere che, in assenza di teorie generali e di un nucleo etico comune, questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell’etica applicata non possa provocare una pericolosa frammentazione. L’etica medica non corre, tuttavia, questo pericolo perché, dagli anni ’90, sulla base dei principi che risalgono agli albori della civiltà, i medici hanno sempre affrontato responsabilmente i nuovi problemi etici generati dagli sviluppi della medicina in tema di nascita, morte e cura degli esseri umani, che richiedevano soluzioni urgenti, e non potevano essere soddisfatte né dalle leggi né dalla meta-etica. In questa prospettiva, scrisse S.E. Toulmin nel 1986, la medicina ha salvato l’etica dall’astrattezza. Etica medica Da sempre filosofia e medicina sono state intrecciate, e tale intreccio è continuato almeno fino al XVI secolo quando gli studi medici e quelli filosofici facevano parte del curriculum degli studi di coloro che volevano esercitare la professione di medico. La separazione avvenne nel XIX secolo con l’introduzione del metodo sperimentale in medicina di C. Bernard, quando la disciplina si trasformò in una scienza. Dalla metà del secolo scorso i progressi compiuti dalle conoscenze mediche hanno sollevato molti problemi filosofici, sia sotto il profilo dell’epistemologia XXXII Manuale della Professione Medica del sapere medico, che dell’analisi dell’agire medico, e il cammino della medicina e quello della filosofia hanno ricominciato nuovamente ad incontrarsi. Quei progressi hanno richiamato anche l’attenzione dei sociologi sui rapporti tra società e medicina, l’interesse per le valutazioni economiche nelle decisioni dei medici, e nel ’70 la nascita della bioetica, definita come «lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali». Le riflessioni e le ricerche della bioetica hanno preso in esame una grande quantità di problemi: dall’eutanasia all’aborto, dallo statuto dell’embrione alla fecondazione assistita, dall’accanimento terapeutico alla fine della vita, dalla natura della persona al suo rispetto, dalla genetica alla sperimentazione animale e a quella clinica, e sicuramente hanno influenzato positivamente la deontologia medica. In questi ultimi tempi, tuttavia, la bioetica, trasformatasi da riflessione di filosofia morale in un’etica normativa ispiratrice di provvedimenti legislativi ad hoc, ha rischiato di far sparire i confini tra bioetica, etica medica e deontologia, ignorando che l’etica medica, ispiratrice della deontologia, è per tradizione millenaria equidistante da etiche laiche e religiose contrapposte. La medicina in quanto tale non si configura come una ricerca scientifica della verità, bensì come un’applicazione pratica delle conoscenze scientifiche in rapporto alle esigenze imposte dal contesto umano, unico e irripetibile, nel quale si svolge l’incontro clinico La medicina, infatti, è una prassi particolare, un’attività scientifica volta al bene del paziente. Le decisioni prese dal medico sono intese soprattutto a individuare il procedimento terapeutico “buono e giusto” per il singolo paziente che ha in cura. È questa specifica constatazione a legare la medicina all’etica, perché una decisione clinica non è mai un atto puramente cognitivo, ma ha sempre un fine che è di natura etica e si identifica con il bene del paziente. E.D. Pellegrino, insieme al suo collaboratore D.C. Thomasma, ha sostenuto che ciò che chiamiamo il bene del paziente è composto da quattro elementi diversi: 1. Il bene biomedico. 2. Il bene percepito dal paziente. 3. Il bene del paziente in quanto persona. 4. Il bene supremo, secondo cui il paziente regola le sue scelte. «Per esercitare la professione medica in modo virtuoso, hanno scritto, sono necessarie alcune disposizioni: senza dubbio l’attenzione scrupolosa alla Prefazione XXXIII conoscenza e anche all’abilità tecnica, ma anche la compassione (…), la beneficità e la benevolenza (…), l’onestà e la fedeltà alle promesse; forse talvolta anche il coraggio. Si tratta dell’intero elenco delle virtù definite da Aristotele: giustizia, coraggio, temperanza, magnanimità, generosità, mitezza, prudenza, saggeza». Deontologia La deontologia medica si alimenta, come scrive Barni, «ancora dell’inesausta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni tutore della salute, che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia pure in parte, delle arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancora peraltro dominanti sull’altra medicina». La deontologia essendo la traduzione dei principi etici della medicina, non deve mai contrastare con questi e deve rispettare l’equilibrata coesistenza tra diritti del cittadino e doveri del medico. “La notevole mole di documenti diffusi nel corso degli ultimi anni (rispetto alla storia millenaria della medicina), aveva scritto F. Introna nel 1996, dimostra che l’Etica professionale medica (e quindi la somma dei doveri da osservare per rispettare quell’Etica), non tanto è cambiata (né poteva cambiare) quanto si è complicata per due motivi principali: 1. Ai doveri del medico (che sono sostanzialmente quelli di sempre), si affiancano i diritti dei cittadini onde più chiaro diventa il principio secondo cui il primo dovere del medico sta nel rispettare “i diritti dell’uomo”, sano, malato, fanciullo o anziano, libero o prigioniero, povero o ricco, modesto oppure illustre. 2. Il progresso tecnologico della medicina, nella diagnosi e nella terapia, suscita dubbi, timori e interrogativi nel medico impegnato in uno specifico caso, e poiché egli non sempre ha un’autentica sensibilità e una preparazione culturale nel campo dell’etica, il Codice deontologico gli fornisce una Guida (ovverosia un reticolo di norme etiche dettagliate) per decidere come comportarsi. Riflessioni per una nuova deontologia Nel centenario degli Ordini dei Medici Indice 1 Etica e deontologia Le radici storico-culturali della bioetica e del biodiritto, categorie convenzionali atte a ispirare e definire un’armoniosa biopolitica, forse inattingibile ma necessariamente perseguibile a livello globale e nazionale, si alimentano ancora dalla inesausta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni tutore della salute, che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia pure in parte, delle arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancor peraltro dominanti sull’altra medicina (nota 1). Le alterne vocazioni relazionali tra garanti, operatori e fruitori del progresso tecnico-scientifico hanno in effetti serbato, pur nella tensione massima del nostro tempo, la continuità del filo rosso dell’umanesimo. E il medico, oggi meno che mai solista nella concertazione e nell’esecuzione di un’adeguata tutela della salute, raccoglie ed esprime, nell’essenzialità simbolica e nella responsabilità delle scelte, la chiave di lettura del camaleontico scibile conoscitivo essenziale e variabile in ogni vicenda diagnostica e curativa della malattia dell’uomo, intesa sempre di più in un’accezione di benessere, ieri sconosciuta, oggi controversa. L’etica medica ha dunque percorso e innervato la storia della medicina, anzi ne ha supplito la scientificità in proporzione inversa dall’aurora ippocratica del nostro tempo sanitario, costituendosi, d’altronde, come garanzia per una incompiuta liberazione dalle ormai remote presunzioni magiche e paternalistiche e dall’agghiacciante dottrina moderna della onnipotenza scientifica e per una rispettosa valorizzazione di un patrimonio sociale, la salute, la vita, sempre meglio inteso nella sua duplice pertinenza individuale e collettiva e scandito nei termini non necessariamente coincidenti di sacralità e di qualità. Il rivoluzionario incontro tra buona medicina e buona filosofia, soprattutto politica, non rifiuta in effetti il retaggio di un mito, di un giuramento (nota 2) che il tempo ha peraltro sfumato e sfrondato serbandone non tanto le ridondanze retoriche, quanto il magistero civile per una sintonia vecchia e nuova tra scienza e coscienza, tra autonomia e responsabilità: termini che definiscono il senso della vera alleanza terapeutica da perseguire non tanto tra persone quanto tra doverosità intimamente sentite e/o coerentemente disciplinate, seguendo un percorso tortuoso ma essenziale al fine di offrire giusti indirizzi alla missione medica, verso una acquietante ed equa dimensione giuridica. Si staglia così e si alimenta proficuamente una categoria nomologica, incisa nella coscienza prima che nelle tavole, la deontologia medica, magmatico ma imprescindibile complesso di precetti, variamente intesi, talvolta solo teoricamente sentiti e spesso non compresi dai personali egoismi e dal pubblico potere: ma pur sempre 2 Manuale della Professione Medica posti a salvaguardia reciproca dei protagonisti della vicenda sanitaria (nota 3), così come esige la nostra Costituzione repubblicana. Nel nostro paese il ruolo formativo della dottrina deontologica anche nei suoi riflessi giuridici è stato da almeno tre secoli assunto da una disciplina, la medicina legale, sviluppatasi nella sua autonomia in ossequio alla necessità tutta moderna e civile di stabilire regole e metodi e di fornire specialisti per un impegno pubblico e privato, alimentato da un modus operandi tecnico-culturale e da una forma mentis professionale, sempre più arricchiti e potenziati dal progresso scientifico, essenzialmente versati sulla condizione umana, attenti allo sviluppo della persona sino alla fine della vita e oltre, passando attraverso le categorie della maturazione somatica e mentale, della sessualità, della riproduzione, della malattia, della lesività, delle inabilità; una disciplina che non poteva non assumere connotazioni e responsabilità socio-politiche ed etiche oltre che meramente criminalistiche, quest’ultime, di peculiare e specifico interesse forense (nota 4). Così la deontologia italiana si è qualificata sempre di più e sempre meglio (nota 5), a sua volta diversificando la nostra medicina legale dalle consorelle anglosassoni e nordeuropee (inflessibilmente rimaste a presidiare la fucina delle funzioni criminalistico-forensi, d’altronde connaturate al sistema di common law) (nota 6), rendendola sensibile stazione ricevente di stimolazioni sociali, opificio operoso di soluzioni e di valutazioni in ambito assicurativo, assistenziale, pensionistico, sempre presente là dove la società organizzata recluta paradigmi scientifici e capacità d’apprezzamenti tecnici equi e controllabili, assolutamente necessari allorché previsioni normative e pulsioni etiche esigano giudizi relativi al substrato biologico, fisico e mentale della persona. Così si è consolidata una vocazione al biodiritto specialmente in ambito di medicina pubblica, allorché si è resa necessaria la doverosa e talvolta ineludibile collaborazione della medicina e del medico e dei professionisti sanitari ai fini dell’affermazione e del soddisfacimento di esigenze umane, non soltanto protettive della salute e della vita di ciascuna persona (anch’esse peraltro esperibili solo nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo: alla riservatezza, alla libertà, alla dignità) ma anche (e in armonia con le prime) strumentali per una difesa sociale sempre più attenta e matura contro il delitto, le inabilità e le disuguaglianze, contribuendo così all’edificazione di un sistema sociosanitario ispirato all’efficienza, alla qualità, alla sicurezza, all’eticità. Ed è qui che la deontologia acquisisce anche una necessaria dimensione giuridica per opera di norme non solo autoctone, ma anche strettamente correlate alla giurisdizione che peraltro non possono né debbono forzare (queste ultime) né la libertà professionale, né l’autonomia Riflessioni per una nuova deontologia 3 scientifica, né la coscienza dell’operatore e tanto meno la libertà e la dignità dei cittadini, come è in altri momenti sciaguratamente occorso (nota 7). Le regole giuridiche, e in primo luogo quelle penali e quelle afferenti al diritto sanitario, dalla tutela del segreto medico (art. 622 cp), all’obbligo di referto (art. 365 cp), di denuncia delle malattie infettive e diffusive e di certificazioni (fino alle questioni inerenti la sperimentazione nell’uomo e la tutela della privacy) e l’etica medica, genuinamente laica seppure attenta e non indifferente a una cultura assistenziale permeata di messaggi d’ispirazione pastorale (nota 8), hanno slatentizzato la prevalente essenza pubblicistica della deontologia italiana. Essa ha saputo rendersi sensibile più di ogni altra disciplina medica, nella seconda metà del Novecento, alle raccomandazioni sopranazionali d’indole bioetica relative alle intemperanze della ricerca (fin dalla sentenza di Norimberga di condanna dei medici nazisti), alle grandi vulnerabilità globali quali colpiscono segnatamente il bambino, la donna, gli handicappati, i diversi, alle degradazioni dell’ecosistema, all’esasperarsi delle disuguaglianze, trovandosi così nelle condizioni ideali per raccogliere il messaggio esaltante (e ormai tradito) di una bioetica sorta non tanto dal magma delle speculazioni di filosofia politica e morale, quanto da soprassalti di responsabilità nei confronti delle energie slatentizzate dal progresso e intesa come presidio atto a denunciare e, se del caso, a contrastare la pervasività della speculazione scientifica (spinta talora dall’avventurismo) fin nelle più intime matrici biologiche della vita, e quindi appassionata ai temi di frontiera che indagano e prospettano l’essere e il divenire dell’uomo, ma anche felicemente interessata ai problemi del quotidiano, inerenti la tutela della salute, della riservatezza, della sicurezza, della dignità personale. Si è così affermata – ed è questo un dato fortemente positivo – la nuova deontologia (doverosità) del medico e degli altri esercenti le professioni sanitarie, che tende a ricercare nel professionista sanitario spazi di attenzione e di sensibilità per gli aspetti umanistici e morali, essenziali quanto quelli tecnici, per l’esercizio dell’arte sanitaria e che permea di saldezza giuridica e di significatività etica i nuovi codici comportamentali ispirati anche e sempre di più da direttive sopranazionali generali (come la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la bioetica, siglata il 4 aprile 1997 e da tempo ratificata dal Parlamento italiano) (nota 9) e da codificazioni particolari e nuovissime (sulle tossicodipendenze, sulla sperimentazione dei farmaci, sulla tutela della privacy, sulla terapia del dolore, sull’accertamento della morte, sui trapianti d’organo ecc.) (nota 10). La deontologia ha fatto tesoro dei principi bioetici fondamentali condensandoli e consolidandoli nel Codice di Deontologia medica, trasferendoli quali doveri ineludibili nella propria trattatistica e affidandoli alla coscienza del medico 4 Manuale della Professione Medica (nota 11). E sebbene nella profusione di regole deontologiche si senta vivissima l’ispirazione proficua di una bioetica sostenitrice (nota 12), l’obiettivo epistemologico anela comunque all’armonia possibile tra scienza, diritto (qui espresso in primo luogo dalla Carta costituzionale) e morale cui è essenziale l’accettazione consapevole e preparata ad accogliere da parte di ciascuno responsabilità eticamente e giuridicamente irrifiutabili. Il contributo della bioetica La deontologia medica fino agli ultimi decenni del secolo scorso è stata limitata, nell’insegnamento universitario e nell’aggiornamento spinto sino all’Educazione Medica Continua, all’enunciazione dottrinaria e all’applicazione pratica degli articoli dei codici penale e di procedura penale, e delle leggi speciali di rilievo penale e sanitario, nonché del Testo Unico delle leggi sanitarie a stento sopravvissuto al furore delle autonomie, dedicati alla refertazione, alla certificazione, alle denunce sanitarie, all’accertamento della morte, ai trapianti di organi ecc. Venne dunque il tempo, intorno agli anni ’90 dello scorso secolo, della permeazione bioetica, di chiara matrice nordamericana, spesso fideisticamente invocata quasi che il medico italiano fosse stato fino ad allora insensibile al richiamo dell’umanesimo solidaristico, carattere sempre, in realtà, presente e in lui vivido per l’antico influsso ippocratico e per i richiami culturali recepiti anche dalla Costituzione. Se ne fecero promotori e partecipi filosofi e moralisti nel sogno e nel segno di una medicina finalmente sensibile alla realtà sociale, intesa non tanto alla stregua di oggetto di pietas e obiettivo di “beneficità” oltre che di scienza, quanto come matrice di diritti civili non necessariamente blindati dalle norme del diritto positivo. Eppure molto era già stato scolpito con vigorosa precisione ma, peraltro troppo lentamente inteso, nella Costituzione della Repubblica entrata in vigore fin dal 1° gennaio 1948. La medicina legale se ne fa ancora una volta protagonista e con prontezza ne rivendica il magistero nel Documento di Erice sui rapporti della bioetica e della deontologia medica, entrato più tardi in un oblio senza orizzonti (nota 13). Il ruolo decisivo del documento di Erice, e il riflesso pragmatico nell’applicazione del messaggio della bioetica, era già stato sussunto dalla Società italiana di Medicina legale stessa nella felice armonia del suo patrimonio (nota 14) scientifico e didattico (Congresso della SIMLA di Bari del 1989). La Federazione Nazionale dei Medici (FNOMCeO), interpretando il malessere di una professione lusingata dal novum bioetico e, per contro, raggelata nell’interpretazione in chiave difensivistica dei doveri della medicina e del medico quali delineati dalla Magistratura e in particolare dalla Cassazione penale ed espressivi di un rigore Riflessioni per una nuova deontologia 5 inusitato nei confronti del medico poco avvezzo al rispetto dell’autonomia del paziente (negata d’altronde dai più accaniti esegeti del paternalismo e della beneficità), riscopriva contemporaneamente il senso più ampio della deontologia, offrendole un respiro nuovo, straordinario, ancor più profondo nei subentranti Codici di Deontologia medica e soprattutto nelle edizioni del 7 ottobre 1998 e del 12 dicembre 2006, ove sono riversati principi e direttive di ispirazione sopranazionale e sono ripercorse le stesse ragioni istituzionali e giudiziarie non pedissequamente considerate e subite, ma scolpite con la forza della ragione insita nell’etica della responsabilità. Del che sarà più ampiamente trattato. Certamente due fattori esterni vi hanno contribuito, l’uno di segno negativo, l’altro di valenza assolutamente positiva: da una parte l’implosione della bioetica, “otre dei venti” improvvisamente apertosi fino a scatenare una devastante tempesta ideologica, dottrinaria e legislativa intorno ai valori della persona e, quindi, agli scopi stessi della medicina, dall’altra parte l’interpretazione autentica della Costituzione della Repubblica, da parte della Corte Costituzionale, ribelle a ogni pretesa del legislatore, regionale o nazionale che sia, di legiferare in tema di scelte anche tecniche del medico: tendenza da respingere in quanto espressiva di un preoccupante e progressivo disconoscimento della libertà professionale e scientifica che troverà in Italia, nella legge 40 del 19 febbraio 2004 sulla procreazione assistita e nei puntigliosi orientamenti legislativi sulle direttive anticipate, le più evidenti espressioni. Ne riemerge (anche grazie al continuo messaggio della Consulta), tutto da difendere e sostenere, una deontologia professionale, fondata su scienza e coscienza, su autonomia e responsabilità, su informazione e consenso. Ed essa soccorre e salvaguarda il medico sensibile all’ascolto della voce del cittadino, ferma restando la sua posizione di garanzia nei confronti della tutela della pubblica salute e della pubblica incolumità quando entrino in gioco interessi della collettività e del mondo del lavoro democraticamente riconosciuti. D’altronde, le bioetiche vieppiù si dividono, e in modo sconvolgente sul ruolo da attribuire all’autonomia del paziente, alimentando spesso il pallido ricorso all’astensionistica medicina della prudenza (melius deficere quam abundare). Ed è così che si è affermato con forza il significato normativo e disciplinare degli Ordini professionali e in particolare dei medici, ma anche degli infermieri e degli altri professionisti sanitari (nota 15), attraverso Codici non più corporativi o autoreferenziali, ma esplicitamente capaci di recuperare, a motivo della preminente funzione formativa e disciplinare degli Ordini, l’ordito e il retaggio codicistico, prevalentemente orientandoli al rispetto di dettami etici e pratici che (pur nel quadro e sotto l’imperio delle regole generali dell’ordinamento ovvia- 6 Manuale della Professione Medica mente valide erga omnes, medici compresi) esprimono il senso proprio di direttive operanti nel particolare contesto di delicatissimi impegni, relativi, ad esempio, ai trattamenti di fine vita, alla contemporanea reiezione dell’eutanasia attiva e dell’accanimento terapeutico, alla legittimazione della leniterapia e delle terapie del dolore, al rispetto della vita che si forma e dell’autonomia della persona (che non può essere mortificata al solo ruolo di paziente). Ne emergono una fisionomia del medico e un afflato professionale, sensibili al contemporaneo apporto della scientia e della humanitas. L’ultimo atto che i giuristi auspicano (nota 16) è il riconoscimento della deontologia, non solo come dottrina e come guida comportamentale, ma anche come autentica espressione di disciplina giuridica, ancorché molta strada debba percorrersi – ma il tempo è ormai venuto – per stabilire ex lege un più chiaro compito e onere degli Ordini dei Medici chirurghi e degli odontoiatri che trasformi, oltre il centenario, un discusso aggregato rappresentativo in un’autorità garante per la professione e per la società (nota 17). Ma qualcosa è già presente nel Giuramento del medico, premesso al più recente Codice deontologico, l’impegno cioè, «di prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza e osservando le norme deontologiche della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con la mia professione». Si afferma così che la dignità della professione non è orpello corporativo ma espressione di autonomia scientifica e morale, bisognosa di contorni severi (quale tra l’altro l’ascolto della voce di chi soffre) eppur capace di incidere ancora in difesa delle proprie libertà e delle proprie dignità con l’inderogabilità dell’obbligo di rendere conto immediato e documentario delle proprie scelte), ma non turbativi della sacralità anche etimologica dell’essere professionista (da profiteor). E tutto ciò va inteso nel suo ordito civile e non solo “morale”, in quanto contiene e documenta precetti squisitamente medico-legali, fondati sul convinto e contagioso principio per cui la deontologia è e resta momento formativo di un aperto e duttile biodiritto, anche perché già regolata da uno statuto o da uno strumento giurisprudenziale e disciplinare fatto di prescrizioni la cui inosservanza è (dovrebbe essere) produttiva di sanzioni disciplinari, ben più efficaci, a mio avviso, del calvario giudiziario. La massima beneficità della bioetica si è per l’appunto espressa in ambito culturale-normativo, tanto nello sviluppo di idee e di impegni (basti pensare ad alcuni fondamentali prodotti del Comitato nazionale per la Bioetica), quanto nella permeazione etico-deontologica dei codici professionali e in primis di quelli dei medici (2006) e degli infermieri (2009): e non è davvero un piccolissimo merito, se è ormai certo come vetuste norme di mera prassi operativa e corporativa si siano tradotte in regole di vita professionale concepita nell’effettivo rapporto del sanitario con la persona assistita in ordine ai valori Riflessioni per una nuova deontologia 7 della vita, della libertà, del benessere individuale e collettivo. Meno fertile si è rivelato invece il rapporto bioetica-diritto soprattutto nell’elaborazione legislativa quando ha manifestamente posto in crisi il principio di laicità, su cui tutti concordano ma solo a parole (nota 18). Bisogna tuttavia convenire che se è vero che alle parole e alle norme dovrebbero infine seguire i fatti, le scelte, è altrettanto innegabile la vischiosità del come, dove, quando. La difficoltà maggiore sta forse e ancora nell’equivoco etimo della parola bioetica – purtroppo – sempre più nebuloso (nota 19). D’altronde, il bisogno di riflessione è sentito anche a livello internazionale da parte di chi ritiene che la bioetica sia «diventata una costellazione di giudizi intuitivi o addirittura di principi assoluti in nome dei quali si pretende di sciogliere le questioni più delicate nel campo della ricerca scientifica e della pratica medica […] con il risultato che spesso viene privilegiata una linea di condotta apodittica, in quanto priva di qualsiasi condivisione». Evidentemente è qui riproponibile il problema di una riconsiderazione della materia non solo sotto il profilo filosofico e/o epistemologico ma soprattutto nel cimento della pratica, che in definitiva investe e responsabilizza la temperie deontologica e – per logica derivazione – la medicina legale. Il problema di base se l’è posto uno psicologo lucidissimo, Jonathan Baron, nel suo studio Against Bioethics (2006, edito in Italia nel 2008), ove viene esaltata la teoria delle decisioni responsabili. Come scrive Massarenti nella prefazione all’edizione italiana, «tale teoria assomma i pregi della prospettiva morale utilitaristica con l’analiticità della teoria delle decisioni razionali» sicché «la bioetica, affrontando questioni come la sperimentazione sull’uomo, la possibilità di migliorare la natura attraverso la genetica e i farmaci, la riproduzione assistita, le questioni di fine vita (che racchiudono le direttive anticipate, l’eutanasia e la donazione d’organi), il paternalismo medico e il consenso informato, il conflitto d’interesse e la ricerca farmaceutica, dovrebbe far tesoro – almeno – di uno dei progressi di ricerca scientifica del ’900: la teoria delle decisioni razionali, appunto». Forse, come per ogni sapere, serviva alla bioetica applicata un metodo di lavoro (almeno quello) condiviso: «nella formulazione dei pareri, della diffusione degli insegnamenti, nella trattazione delle emergenze (proprie della pratica professionale), nella funzione, infine, degli operatori» (nota 20), un metodo che a essa è sfuggito di mano. In definitiva, la summa dei doveri del medico cui questa trattazione è dedicata merita ormai una nuova interpretazione dei doveri che superi le vecchie elencazioni e classificazioni, traducendo lo scibile operativo scandito da una complessa serie di impegni e di garanzie assolutamente diversificata, molti dei 8 Manuale della Professione Medica quali offrono plurime modalità e compiti aggiuntivi al nucleo centrale e unitario dell’attività medica, che non è solo diagnosi e terapia, che non è più esclusivamente prevenzione, assistenza, riabilitazione (nota 21) ma sussume nella sua inscindibile unicità il rapporto, la relazione (che è ben più di una alleanza) tra medico e cittadino, tra medicina e società: un rapporto che non è orpello formale sia pur doveroso, ma condizione di perfezione di un’attività articolata ormai su chiare fasi, talune delle quali oserei definire precliniche. Sicché la relazione, antecedente e successiva al consenso informato, rappresenta, più che un dovere, una componente preliminare dell’atto medico, senza la quale o in difetto della quale l’atto è di per sé imperfetto quando non illecito. Ed è un concetto, questo, che tratto com’è dal principio fondante della bioetica (l’autonomia) ma anche e soprattutto, per quanto ci riguarda, dalla Costituzione della Repubblica (art. 32), trasforma un dovere medico in un diritto e al contempo in un carattere essenziale della professione medica al duplice livello culturale e operativo. Ne deriva l’obbligo di una riconsiderazione complessiva dei doveri del medico, che vanno ormai distinti in doveri propri del professionista esercente di un servizio di pubblica necessità, impegnato a soddisfare esigenze generali di tutela della salute e doveri etico-giuridici del professionista verso la persona, verso il singolo cittadino, verso il paziente (se ancora si voglia utilizzare un termine assai discutibile), intrinseci tutti all’atto medico, al rapporto di cura, all’essenziale momento della specifica tutela contemporaneamente tecnico-scientifica e relazionale. Il dovere fondamentale del medico resta quello di ben operare e di armonicamente gestire le varie e variamente scandite fasi del rapporto che vanno dall’instaurarsi relazionale all’esecuzione dell’attività diagnostica, unicum di doveri di buona condotta, non solo tecnica ma anche e responsabilmente relazionale: e non abbisogna di polverose salvaguardie penalistiche (come lo stato di necessità) per essere legittimo in sé medesimo se reso tale dalla partecipazione decisionale della persona. L’attività medica tra doverosità e legittimità La riflessione più attenta sulla pregressa giurisprudenza e sulla più autorevole dottrina convince pienamente sulla bontà della tesi della autolegittimazione dell’attività medica, la quale trae fondamento non tanto dalla scriminante tipizzata del consenso informato dell’avente diritto (quale definito dall’art. 50 del vigente Codice penale), quanto dalla stessa intrinseca finalità di tutela della salute, bene costituzionalmente garantito. Il riferimento alla scriminante di cui all’art. 50 cp (consenso dell’avente diritto) sembra addirittura eccentrico, se inteso quale espressione di semplice non antigiuridicità dell’atto medico, anche senza invocare la lettura, a suo tempo scandita da parte della Consulta, dei limiti tracciati dal fantomatico art. 5 del Codi- Riflessioni per una nuova deontologia 9 ce civile, norma precostituzionale, la cui ratio doveva ritenersi esaurita nel divieto di fare illimitato mercimonio del proprio corpo (nota 22). Se di scriminanti (in mancanza di crimine) si volesse in ogni caso ricercare la ricorrenza, il riferimento dovrebbe essere unicamente e soltanto limitato alle eccezioni autorizzative dei trattamenti sanitari obbligatori previste dall’art. 32 Cost. (nota 23) dal quale nasce la certezza che i doveri del medico non sono, per quanto riguarda informazione e consenso e quindi rapporto con l’autonomia della persona, soltanto momenti preliminari (indubbiamente importanti) all’impegno di cura e di assistenza, ma costituiscono parte integrante dell’attività medica e cioè della tutela della salute. A parte le sottili argomentazioni profuse in una recente sentenza della Cassazione penale in Sezioni unite (nota 24), sembra di estremo interesse già rilevare come in questo fermissimo senso si sviluppi la teoria che integralmente e inscindibilmente considera l’atto medico di per sé giusto (anche etimologicamente), non solo nella sua estrinsecazione tecnica ma anche e “necessariamente” nella sua preliminare dinamica relazionale che per l’appunto si realizza – ordinariamente – nei momenti essenziali dell’informazione e della raccolta (documentazione) del consenso. È da questa fase che prende vita l’atto medico ordinario unitariamente inteso nella sua perfezione sostanziale e nella sua indivisibilità sequenziale, specialmente ma non esclusivamente in ambito chirurgico, ove la sospensione della coscienza (anestesia) è attuabile ma solo nel quadro di una complessiva programmazione illustrata al paziente e da questi consentita. E l’atto operativo in se stesso rappresenta così non tanto un dovere (ovvio), quanto una porzione della condotta terapeutica (meglio, direi, del rapporto medico-paziente) che trae il suo primo fondamento dalla informazione e dalla esplicitazione del consenso. Se consentito ed eseguito lege artis, l’atto, ad esempio del chirurgo, ha una sua compiuta fisionomia e una sua complessiva legittimità, sempre che non sia stata la monologante autorevolezza del medico a orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che il paziente abbia potuto intendere o mal compreso al riguardo. L’atto medico è per contro privo della necessaria dimensione etica e della specifica copertura costituzionale allorché vi faccia difetto la componente relazionale che ordinariamente si esprime, per l’appunto, attraverso il consenso debitamente informato, produttivo di un reciproco impegno enfaticamente definito come alleanza terapeutica, categoria relazionale suggestiva, ma subdola quando, in dispregio dei diritti della persona interessata, chiama in causa soggetti diversi dai protagonisti del rapporto duale, promuovendoli al rango di coro greco dei persuasori più o meno occulti e interessati (nota 25). In definitiva, solo in presenza di consenso informato l’atto medico è “perfetto” se compiuto e se eseguito secondo le leges artis (nota 26). 10 Manuale della Professione Medica Dovere di relazione e certezza di consenso La giurisprudenza rafforzata anche recentemente dalla Corte Costituzionale (nota 27) è dunque sempre più omogenea, nel ridisegnare l’insopprimibile garanzia del consenso informato (per usare ancora un’espressione semanticamente poco limpida ma che comunque semplifica il linguaggio medico-legale) sempre più integrandolo nella fisionomia generale dell’attività medica e, dottrinariamente, nella definizione stessa di atto (attività) del medico che, per esplicita e predominante dottrina giuridica, trae, come si è detto, la sua legittimazione dalla matrice costituzionale piuttosto che da contorte cause di giustificazione (discriminanti penalistiche). In altri termini, grazie anche al positivo e convergente messaggio di una bioetica ancora non asservita ai dettami ideologici e di una deontologia “europea”, onorata dal Codice di Deontologia medica del 2006, la volontà del paziente (espressione usata, anche questa, molto disinvoltamente) ha un significato essenziale, ben disegnato dalle norme costituzionali, che non può essere inteso alla stregua di perentoria esaltazione dell’autodeterminazione del paziente, ma deve pur sempre confrontarsi (e viceversa) con l’autonomia del medico in funzione di una possibile convergenza resa limpida dalla massima informazione, ferma restando l’insuperabilità di un esplicito, convincente e consapevole dissenso. Dopo un travaglio quasi ventennale, la Cassazione penale va inoltre precisando come il non espresso dissenso o il difetto di consenso, in particolari circostanze quali si sviluppano nell’attività medica, non possano essere considerati produttivi di illiceità penale di un intervento anche diverso e ultroneo rispetto a quello convenuto, specialmente quando non ne derivi un danno e, ancora meno, quando ne derivi invece un beneficio per il paziente. Il maggior problema verte invece sulle situazioni nelle quali l’informazione e la raccolta e/o la verifica del consenso informato non siano possibile; e semplicistica appare in proposito l’idea, anche di recente riaffiorata, di fondare il giudizio sulle conseguenze, fauste o infauste introducendo alla stregua di discriminante l’esito favorevole di una operatività ispirata al best interest, concetto ostico, soprattutto al medico legale. In sostanza, la c.d. autolegittimazione dell’atto medico si distingue per la sua virtù di restituire dignità alla professione medica e anche maggior responsabilità deontologica per l’atto medico legittimato dalla conforme volontà del paziente. Ma quando venga meno questo decisivo connotato etico-giuridico che a esso conferisce assoluta e originale compiutezza e inscindibiltà, l’atto medico (non consentito) non può non venire necessariamente considerato entro parametri, limiti e censure sperimentati che devono trovare e troveranno soluzioni magari e preferibilmente deontologiche, piuttosto che giuspenalistiche. Essi si fondano prevalentemente sull’autonomia professionale Riflessioni per una nuova deontologia 11 che, piaccia o no, è anch’essa garanzia prima di una buona tutela della salute costituzionalmente garantita e non necessariamente, anzi eccezionalmente, traducibile in termini di antigiuridicità. Si tratta, in ogni caso, di operare con quella ragionevolezza consapevole che non intacchi i principi fondamentali e che deve essere propria di chi lavora sulle modalità di espressione del consenso stesso, come di recente è occorso in sede giurisprudenziale per sfumare, ad esempio, l’attendibilità del dissenso del testimone di Geova: evenienza ancora una volta paradigmatica per una ragionevole riconsiderazione e verifica di un rifiuto (alla emotrasfusione), quando affidato alla semplice e sola appartenenza alla particolare confessione religiosa (nota 28). In altri termini, occorre confidare ai principi dell’ordinamento professionale e ai canoni delle discipline deontologiche l’individuazione dei percorsi lungo i quali indirizzare la responsabilità delle scelte, quando queste non siano suffragate dalla convergente volontà del paziente, espressa in un unico contesto temporale e relazionale. E qui si ripresentano con forza le casistiche, sempre nuove e mutevoli e quindi ribelli alle semplificazioni nomologiche, tra le quali spicca la condizione di sopraggiunta perdita della capacità intellettiva e valutativa del paziente e quindi della possibilità di comunicare le proprie volontà, la questione del testamento biologico (dichiarazione anticipata di trattamento?!) che ancora non ha trovato – e tanto meno nel laboratorio legislativo – quella acquietante ed esaustiva soluzione “umanistica” che pure molti giuristi, eticisti e medici legali auspicano (nota 29). Il dovere d’informare Il primo dovere del medico è, in definitiva, quello di garantire l’autonomia del paziente ed è questo, a mio avviso, il significato primo da attribuire alla posizione di garanzia del medico, di fronte alla società e al singolo, in difesa della salute e della vita della persona, sì, ma in coerente armonia con la tutela della sua libertà e della sua dignità. E così l’autonomia del paziente, valore di essenziale pregnanza etica e giuridica, deve essere garantita dal medico, attraverso puntuali e ininterrotte informazioni propedeutiche al consenso (o al dissenso) stesso. L’informazione è in realtà un momento critico della bimillenaria vicenda sanitaria, di cui l’esposizione al paziente di certezze e di ipotesi diagnostiche e prognostiche, di programmi o di indirizzi terapeutici, e talvolta di ansie e di speranze, è ormai espressione di crescita del dialogo tra medico e persona assistita, quale segno di una rivoluzione culturale, connotata e sostenuta dall’intervenuta dimensione etica, pubblica e politica della medicina. Da decenni, l’interesse politico-sanitario rivolto alla tutela della salute ha cessato di essere esclusiva- 12 Manuale della Professione Medica mente assegnato alle private sollecitudini o al solidarismo assistenziale, assumendo gradualmente il senso di una titolarità collettiva e sociale in un contesto che programmi e legittimi una stretta cooperazione tra scienza e società ai fini della salvaguardia di beni, la salute e la vita, contemporaneamente individuali e collettivi. L’informazione si fa, così, tramite e viatico per assicurare un’attività tanto più efficace quanto più pervasiva dell’intimità personale e per offrirla al più elevato livello di efficacia, nel quadro di una generale strategia difensiva elaborata secondo i moduli della prevenzione e della politica sanitaria, ed espressiva quindi di una medicina pubblica, votata alla trasparenza e quindi dotata di vocazione informativa. E mentre l’igiene si occupa dell’informazione nel quadro della documentazione epidemiologica e della difesa preventiva, la medicina legale si preoccupa anche di offrire contorni di certezza al diritto singolare, alla privacy e al parallelo e classico impegno del medico al segreto professionale, stemperata ma solo fino a un certo punto, dall’esigenza sociale di conoscere il rischio per meglio difendere la comunità dalle insidie per la sicurezza e la salute umana. Si realizza così il grande compromesso deontologico, grazie al quale sopravvivono la riservatezza del dialogo e il rispetto umbratile dei dati sensibili, l’uno e l’altro non insensibili a iniziative, a esigenze per quanto possibile chiare, dirette a soddisfare interessi pubblici, non solo sanitari. L’esercizio della medicina acquisisce, in altre parole, una complessa valenza informativa, cui afferiscono valori etico-politici quasi costantemente contemperabili, salvo che per talune contingenze potenzialmente conflittuali in rapporto ai diritti fondamentali della persona. Il dovere di informare diviene siffattamente un connotato complesso della medicina attuale, insufficientemente analizzato anche in sede filosofica e giuridica; ma è solo accantonando per un attimo l’abusato slogan del “consenso-informato” che si può meglio comprendere il ruolo singolare e preliminare dell’informazione, spesso clinicamente ed eticamente più rilevante (vedi il caso dei minori) del consenso stesso che comunque non può prescinderne. È relativamente facile, anche sul piano giuridico, documentare l’evidenza, la prova del consenso, ma è molto arduo assicurare e comprovare una perfetta e corretta informazione. Tornando al rapporto col paziente, lo stesso concetto semanticamente inteso di informazione entra in crisi quando si considera la palese disparità di linguaggi e di conoscenze tra chi offre e chi riceve il relativo flusso di notizie. L’autonomia del paziente, se letteralmente intesa, è poco più di una figura retorica, proprio per difetto degli elementi di giudizio derivabili dalle informazioni: e in carenza di informazione, anche l’alleanza terapeutica, di cui tanto si parla, diviene illusoria, fittizia, declamatoria. Di qui l’opportunità che a garanzia della buona informazione sia rivendi- Riflessioni per una nuova deontologia 13 cato il ruolo della comunicazione, che ha in sé ben precisi connotati non d’indottrinamento o di predica, ma di dialogo, di comunione, di simpatia tra dispari e talvolta tra stranieri morali. Esiste, è vero, un’amplissima e dotta letteratura di classificazioni, di algoritmi, di propositi e di intenti, prodotta da clinici, psicologi, bioeticisti, e – oggettivamente – corredata da indicatori delle valenze terapeutiche ed esistenziali: ma forse è scaduto il tempo delle astrazioni dottrinarie! Le inquietanti vicende giudiziarie del nostro tempo impongono un approccio che dia atto della fallacia di una schematizzazione del problema considerato sotto il mero profilo dei presunti rischi e dei reali pericoli di un’informazione apodittica o evasiva e carente (caratteristica quest’ultima della nostra attitudine culturale), e in pari tempo rintracci meglio le coordinate deontologiche del tema. Il difetto informativo è in campo giudiziario un momento di illiceità, che si afferma anche nella giurisprudenza italiana. Le coordinate soggettive, oggettive e materiali dell’informazione si possono così brevemente descrivere: a) Il medico, prima e più d’ogni altro sanitario, è regista insostituibile di un impegno, che si esercita attraverso un diretto interessamento, non occasionale né incidentale, trasmissibile ai collaboratori con tutte le garanzie proprie del segreto professionale, e ciò vale soprattutto per il curante abituale, coordinatore a lungo termine delle iniziative diagnostiche e terapeutiche (nota 30). b) L’informazione va data al paziente, mentre il diritto a sapere dei parenti va ridimensionato con risolutezza (come vuole anche il Codice italiano di Deontologia medica), pur restando comprensibilmente tenace (nota 31). c) A parte ogni considerazione sulle modalità dell’approccio e del rapporto informativo considerato in termini relazionali e psicologici, sembra assolutamente prioritaria l’enunciazione di criteri generali sull’equità quali-quantitativa dell’informazione stessa, perché essa divenga giuridicamente rilevante e corretta, fermo restando il suo carattere d’invito, di premessa e di promessa di partecipazione al programma terapeutico, anche nei casi gravi e addirittura disperati. L’informazione deve concernere in effetti ogni elemento del rapporto: la diagnosi, la prognosi, il programma diagnostico-terapeutico e le notizie relative alle patologie in atto che impongono una buona qualità del messaggio, connotato di intonazioni etico-deontologiche, fondato soprattutto sul rispetto della verità, sulla proprietà e compatibilità del linguaggio, sulla chiarezza dei termini: il che non significa né indebita edulcorazione né terroristica crudezza. In tale quadro possono, sul piano medico-legale, aver negativo rilievo la falsità per volontaria omissione o per comunicazione pietisticamente menzognera 14 Manuale della Professione Medica o manifestamente erronea di una diagnosi o di una prognosi sì da realizzare conseguenze d’ordine penalistico o civilistico. Più complessa è l’informazione relativa al programma diagnostico-terapeutico, ch’è parte integrante dell’atto medico e ne costituisce parte essenziale. La relativa vicenda informativa si compone di successivi momenti: l’enunciazione del programma tanto più esaustiva quanto più invasivo è l’adempimento previsto e proposto; l’indicazione dei benefici e soprattutto dei rischi, considerati in un duplice versante alternativo, l’accettazione o la non accettazione da parte del paziente del programma proposto. Mentre il primo compito non implica che una ragionevole esposizione dei percorsi operativi (con l’importante variante della possibile emergenza intrachirurgica di indicazioni ultronee rispetto al primitivo programma per il rilievo di patologie non previste, il che implica quanto meno un assenso preventivo dell’eventuale maggior attività chirurgica talvolta demolitiva), il secondo compito non può non realizzare un confronto sulla “quantità” dell’informazione e sulla “densità” dei rischi. I sostenitori della costante prevalenza dell’autonomia del medico individuano nel quantum informativo sui rischi del trattamento (e del non trattamento) il punctum dolens della vicenda comunicativa: idea, peraltro, da respingere, dovendosi privilegiare invece la via della diligenza informativa, fondata sul buon senso e sulla frequenza dei rischi, con ragionevole trascuranza di evenienze rare o del tutto irregolari che, necessariamente, sfumano nell’imponderabile e nella generale aleatorietà connaturata alla stessa condizione umana, talvolta imprevedibilmente fragile e labile di fronte a qualsiasi stimolo esterno persino minimale o anche indipendente da esso. La documentazione dell’avvenuta comunicazione è anch’essa un falso problema come ha più volte specificato la Corte di Cassazione, stigmatizzando specifiche direttive, in specie se espresse attraverso la pratica del “modulo” da sottoscrivere (spesso frettolosamente), anche se l’impiego di moduli è in qualche caso necessario e persino stabilito ex lege per speciali cogenze (emotrasfusione e sperimentazione, ad esempio). Ma non si può non esprimere dubbi sull’eccessivo dettaglio della parte informativa di qualche modulo (specie di derivazione anglosassone), la cui comprensione e il cui valore a fini decisionali impongono un elevato livello culturale, non tanto generale quanto specifico, tanto più se le possibili conseguenze avverse di un determinato trattamento sono cavillosamente elaborate e riservate agli specialisti e non agli ignari pazienti che tali restano anche dopo la più attenta lettura. Va detto in proposito, e con estrema chiarezza, che la caccia alla reazione individuale, all’anomalia iatrogena, anche a quelle più improbabili, rivela l’aspetto meno gradevole e Riflessioni per una nuova deontologia 15 accettabile del processo informativo, che è quello – assai pilatesco – di lavarsi le mani prima di operare (e non è qui in questione la sola prassi chirurgica). La ratio dell’informazione è in definitiva connaturata all’essenza stessa del rapporto tra medico e paziente: che va dismettendo più per le esterne pressioni che per virtù sanitaria, le prerogative della non maleficità e della beneficità intese come attributo di una potestà decisionale insuscettibile di confronto, e assumendo invece le connotazioni di un complesso dialogo in cui la reciproca autonomia tende a un’intesa decisionale resa perfetta, piuttosto che dall’informazione, dalla leale comunicazione. Ne deriva un significato sempre più ricco di valenze etiche e giuridiche del processo informativo. Naturalmente l’essenzialità e l’intensità informative, come non possono essere racchiudibili in protocolli polivalenti e omnicomprensivi, non sono del pari uniformi e valide per ogni patologia o condizione. La banalità terapeutica (futilità) da un lato, e dall’altro l’impenetrabilità comunicativa legata alla mancata coscienza o all’incompetenza assoluta del paziente, sostanzialmente esonerano dalla realizzazione di un’attività informativa puntigliosa, salvo che a essa non richiami una precisa richiesta del soggetto nel primo caso, dei parenti nell’altro. Vanno inoltre considerate la rinuncia a conoscere, la delega ad altri del diritto all’informazione, situazioni tutte possibili, che il medico dovrà affrontare prevedendo garanzie che, in casi di forte impegno decisionale, non possono non tradursi in una documentazione liberatoria (che anch’essa non scusa né l’imprudenza, né l’imperizia). L’evenienza della prognosi infausta resta infine l’area grigia che si frappone alla limpidezza informativa, e che va in ogni caso affrontata con la forza di due certezze comportamentali: il rifiuto della menzogna e l’impegno alla solidale, dignitosa, rispettosa comunicazione sulla negativa evoluzione della malattia, che non apra all’illusione ma non chiuda alla speranza, che non sia disperante ma propedeutica a una gestione serena delle fasi terminali, anche sotto il profilo delle terapie palliative e della qualità della vita. L’esperienza ha d’altronde dimostrato che la conoscenza costituisce per il malato, nella maggior parte dei casi, il migliore ausilio per affrontare la sofferenza e per prepararsi alla fine. Da queste considerazioni emerge un imperativo non facile e solo apparentemente ovvio, ch’è quello del dovere di informare con razionalità e coscienza, con lo stesso spirito con il quale si cura e si assiste: e non tanto per evitare guai giudiziari o fastidiose recriminazioni, ma per compiere bene il proprio lavoro di medico. E l’informazione fa parte, ancora prima della conferma giurisprudenziale, della buona condotta medica così come volle il Codice di Deontologia medica, sostenendola alla stregua di componente insindacabile d’ogni atto medico, promuovendola al valore di fondamentale premessa a una convinta adesione del paziente, modulandola 16 Manuale della Professione Medica ovviamente al gradiente comprensivo e reattivo della persona, pur raccomandandosi nei casi molto gravi la circospezione non elusiva né preclusiva di elementi di speranza, ridimensionando (art. 34) e definitivamente delineando il diritto dei parenti all’informazione. Sul piano più strettamente giuridico e sulla scorta dei diritti costituzionalmente tutelati all’uguaglianza e alla dignità, la valorizzazione dell’informazione e del consenso come presupposti dell’atto medico, come garanzie di giuridicità, assolutamente imprescindibili in quanto probative del corretto modo di sentire e di professare la medicina, allinea la nostra disciplina a quella sopranazionale. Riprendendo infatti la Convenzione di Oviedo (4 aprile 1997), il Codice italiano (2006) tenacemente ripropone il riferimento al diritto del paziente di rifiutare l’informazione sulle proprie condizioni e sulle opzioni mediche tanto diagnostiche quanto terapeutiche (nota 32). Procedendo con ordine non si possono a tal proposito che prospettare alcune situazioni esemplificative: a) Il diritto di non sapere fa parte della sfera dei diritti minori e secondari, da rispettare solo se la “non conoscenza”, quasi sempre motivata da problemi di emotività, di ansietà ecc., impedisca ogni opzione e ogni controllo su possibili conseguenze (non necessariamente negative) di una decisione solo medica sulle prospettive esistenziali (verrebbe da dire sulle scelte di vita del paziente) e fa meraviglia che il pieno “rispetto” del rifiuto di sapere sia propugnato da eccessi di solidarismo di una bioetica che magari nega, ad esempio, al paziente e al medico scelte (naturalmente non eutanasiche) di fine vita. b) Il diritto di non sapere deve pertanto essere “discusso” col paziente da parte del medico nella fase (non sempre onorata) della “informazione” propedeutica al consenso verso il trattamento proposto, deve essere documentato con le ordinarie procedure (scheda ambulatoriale, cartella clinica, lettera del paziente), deve tuttavia essere respinto dal medico ove siano in pericolo interessi vitali per la persona o per altri soggetti, per la società e per il medico stesso che non può tranquillamente incorrere in un’accusa di trattamento arbitrario, con tutto ciò che può seguirne in termini di responsabilità professionale (anche suscettibile di sequele disciplinari e/o giurisdizionali). c) L’obbligo informativo è in ogni caso operante anche in caso di rifiuto (malattie infettive in genere e immunodeficienza acquisita, possibile verificarsi di danni a carico di funzioni relazionali quali l’estetica, la sessualità, la capacità riproduttiva, la vita lavorativa e sociale, sempre che si tratti comunque di serie compromissioni o modificazioni, i trapianti d’organo ecc.). d ) Il rifiuto di sapere deve comunque essere seguito dall’indicazione da parte 17 del paziente dell’eventuale destinatario dell’informazione, un familiare in genere, ma non necessariamente. Se il soggetto insiste, e sempre in circostanze ovviamente rilevanti, il medico può sospendere la cura informando i parenti del rifiuto (e solo del rifiuto informativo); può eventualmente proporre la nomina di un amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare che, in casi di “fragilità” del paziente, può favorire la comunicazione e il dialogo; può (deve) informare del caso l’autorità sanitaria se trattasi di malattia infettiva e diffusiva, nei termini stabiliti dalla legge (e qui si delinea il ruolo dell’obbligatorietà d’informativa di cui sarà più oltre detto). e) La prognosi non può essere del tutto nascosta al paziente che non voglia conoscere il proprio destino che si sta compiendo, ma va quanto meno enunciata in forma possibilistica lasciando elementi di speranza, anche per rispetto del diritto del paziente a un bilancio della propria vita, nel compiersi di un definitivo cammino (nota 33). L’informazione e il consenso realizzano dunque l’auspicata sintonia tra potestà medica e autonomia del paziente e delineano il primo dovere del medico nel contesto della legittima attività medica (nota 34). Il difetto di comunicazione si pone sullo stesso piano del difetto tecnico professionale, integrando una condizione di colpevole negligenza che delinea non solo trascuranza di un dovere ma soprattutto un autonomo profilo di illiceità. Segretezza e informativa L’informazione non è peraltro solo propedeutica a ogni fase dell’atto medico, né monodirezionale, in ossequio al principio, vecchio come la medicina, dell’inviolabilità della riservatezza della persona assistita che fa parte della tutela della salute garantita dalla Costituzione, fatte salve le condizioni di interesse “pubblico” che, peraltro, sono stabilite dalla legge (nota 35). Per quanto riguarda il nostro paese, l’armonia dei valori e degli impegni, ben modulata sul vecchio art. 622 cp, rafforza notevolmente, blinda (come si direbbe giornalisticamente) la tutela del segreto, prevedendo peraltro generiche (e solo in poche circostanze esplicite) deroghe, ora facoltative, ora obbligatorie. Da una parte il segreto non è violabile (e tanto meno impiegabile a profitto del medico stesso o di altri) neppure di fronte alle esigenze del processo penale (art. 200 cpp.), dall’altro si stabilisce la possibile ricorrenza di giuste cause di rivelazione, ma en passant, senza cioè dire né quando, né come, né perché (almeno nella nuda formula del precetto): il tutto delegato alla sensibilità del privato verso 18 Manuale della Professione Medica l’offesa, come si evince dall’esigenza di querela di parte, in costanza, peraltro, di un nocumento e in palese contrasto con le procedure d’ufficio previste da una serie di norme, a cominciare dall’obbligo di denuncia e di referto definiti dagli artt. 361, 362, 365 cp e in relazione alla posizione del medico (pubblico ufficiale, incaricato di un pubblico servizio o esercente un servizio di pubblica utilità). Sull’ambiguo e solo ingannevolmente limpido concetto di giusta causa si è molto discusso in dottrina, ma troppo poco in giurisprudenza: cause previste e prefigurate da norme generali (stati di necessità, ad esempio) e speciali (obbligo di referto, denunce sanitarie, adempimenti previdenziali) talune ondivaghe nel tempo e oscillanti tra garanzia e solidarietà (come quelle relative alle tossicodipendenze, all’AIDS, ecc.); ovvero cause anche non previste dal diritto ma indubbiamente emergenti dalla sensibilità medica verso esigenze-bisogni-valori individuali e/o collettivi contrastanti con il diritto del paziente alla riservatezza. Ed è su questo terreno che ha profuso teorizzazioni e linee-guida la sola deontologia medico-legale, peraltro lungamente rimasta isolata a “presidiare” le poche (e ormai insufficienti condizioni previste dall’art. 622 cp): una deontologia, quindi, limitata alle previsioni del diritto penale e civile, anche dopo che la Costituzione aveva aperto nuovi spazi di impegno e di sintesi per la tutela dei diritti personali da un lato, e per la realtà pubblica dall’altro, a cominciare dalle indicazioni relative alla “libertà” della persona. L’emanazione (nota 36) del Codice (Testo Unico) in materia di protezione dei dati personali ha rappresentato il punto di arrivo, di limpida matrice dottrinaria e di moderna tecnica legislativa, di un lungo processo di affermazione di un diritto costituzionalmente garantito (artt. 76-87), iniziato in Italia con la legge del 31 dicembre 1996, n. 675, e seguito da una impressionante serie di decreti e pareri del Garante della privacy. Il pregio fondante del “TU” (come per brevità di seguito si indica) è l’elevatezza concettuale e l’ispirazione democratica, che profondamente permeano uno degli aspetti emblematici (la riservatezza) dell’esercizio della medicina connotato dall’armonia di valori, di diritti, di doveri, di interessi che vi ineriscono. Ed è questo aspetto del TU che investe come un ciclone di modernità gli archetipi stessi della deontologia medica e della medicina giuridica, tanto da imporre un riordinamento delle idee e dei “luoghi comuni” propri dell’antica (ma perenne) concezione del segreto professionale inerente l’esercizio delle professioni sanitarie, che già peraltro, dall’avvento in poi della medicina pubblica, aveva subito (e in maniera per lo più assolutamente legittima) le erosioni prodotte dall’affermazione di “attività di rilevante interesse pubblico” (cui fa preciso ed esplicito riferimento il TU). La tutela della privacy garantisce dunque la protezione dei dati personali, con Riflessioni per una nuova deontologia particolare riguardo ai dati sensibili, così definiti dall’art. 4 del TU, quando inerenti la salute e la vita sessuale della persona (nota 37). E sono proprio questi ultimi quelli che particolarmente interessano il cittadino, il medico (nonché ogni altro esercente di professioni sanitarie), il sistema sanitario pubblico e privato, soggetti tutti impegnati nel legittimo trattamento dei dati inerenti salute e sessualità. Mentre nel rapporto sin qui scandito da principi etici, deontologici, giuridici ha sempre goduto di enfatico rilievo la riservatezza del medico che venga a conoscenza di un segreto, la tutela della privacy si pone invece a precipua garanzia del trattamento dei dati sensibili. Da un illuministico divieto di base si è passati così a una regolamentazione dell’inevitabile gestione dei dati, che nascono e si formano nella e per la persona sana e malata, ma che incessantemente si precisano e si moltiplicano nel rapporto della persona con i presidi sanitari e non solo con essi. Si può dunque affermare che l’uno o l’altro ordine di tutela (segreto, privacy), in buona misura coincidenti e, comunque, non alternativi, si muovono su diversi percorsi: la rivelazione del primo solo per giusta causa, e la corretta gestione (trattamento) dei dati nel rispetto del diritto alla riservatezza. Per meglio intendere la garanzia di tutela della privacy, occorre ricordare alcune definizioni a cominciare da quella di trattamento (art. 4 del TU), identificato in qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuate anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distribuzione dei dati, anche se non registrati in una banca dati, definita quest’ultima come qualsiasi complesso organizzato di dati personali ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti. L’atto medico, anche il più elementare, comporta un primo trattamento di dati sensibili già nella raccolta stessa dell’anamnesi (da cui scaturiscono dati identificativi e dati sensibili inerenti soprattutto la salute e la vita sessuale), nell’esecuzione e descrizione dell’esame obiettivo, nella formulazione diagnostica e prognostica a fini diagnostici e curativi posto che già le prime due forme e fasi del trattamento dei dati (anamnesi, esame obiettivo) connotano ab initio ogni rapporto medico-paziente e presuppongono pertanto un consenso informato. Ma si tratta di un consenso preliminare e assolutamente diverso da quello classico e fin qui esaminato riguardante la gestione tecnica (diagnostica e terapeutica) del caso clinico. In altri termini, il medico deve informare il paziente anche dell’uso che si intende fare dei dati personali sensibili e ottenere il consenso, senza burocrazia, evocando le leggi non scritte della fiducia reciproca. Il paziente (e potenzialmente il cittadino) è pertanto l’interessato, cui deve 20 Manuale della Professione Medica essere assicurato un trattamento dei dati personali, connotato da «un elevato livello di tutela dei diritti e della libertà fondamentali, nonché della dignità personale, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali» (art. 2, TU) (nota 38). In sintesi, la rivelazione dello stato di salute attraverso i dati che vi si inseriscono può avvenire con il consenso dell’interessato e anche senza autorizzazione del Garante della privacy se il trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per perseguire le finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica dell’interessato; ovvero anche senza il consenso dell’interessato e previa autorizzazione dell’autorità garante se la finalità di tutela della salute riguarda un terzo o la collettività (art. 76, TU). La rivelazione per giusta causa condiziona, come si è visto, l’assolutezza del segreto medico e analogamente operano le deroghe alla riservatezza previste dal TU, in presenza di un consenso che il carattere della norma ritiene solo in parte liberatorio (dati gli interessi che si alimentano della conoscenza dei dati sensibili) e anche di un mancato consenso/dissenso dell’interessato. Le previsioni di specifiche deroghe in tutto l’arco del trattamento nei casi in cui s’impongono cogenti esigenze di tutela di salute della collettività hanno trovato un’attenta formulazione di carattere generale laddove (art. 24 del TU) sono state riunite, in ragione della sostanziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il trattamento dei dati personali anche in assenza del consenso dell’interessato, unificando, in sostanza, le plurime condizioni a suo tempo previste dalla legge 675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute, in alcuni casi, per la comunicazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati a fini giudiziari. La disciplina risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune duplicazioni contenute nella previgente normativa. Il presupposto di liceità del trattamento relativo alla sussistenza di un obbligo legale è riferito correttamente alla necessità di adempiere comunque a un obbligo previsto dalla legge e non più al solo caso di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore ha inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche fuori dai già previsti casi in cui veniva specificato che l’interessato non potesse, per incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso in cui la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la disciplina risulta conforme a quella vigente (art. 78) in relazione al trattamento di dati idonei a rilevare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che in base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del trattamento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli Riflessioni per una nuova deontologia 21 sanitari. La disciplina prevede ora che anche in queste ultime evenienze, se manca il consenso della persona incapace o altrimenti impossibilitata a prestarlo, è necessario ricorrere al consenso dei prossimi congiunti o familiari, al fine di procedere al trattamento dei dati personali dell’interessato ma solo se sia impossibile acquisire anche il consenso di tali soggetti o vi sia rischio grave e imminente per la salute della persona, il consenso potrà essere acquisito anche successivamente (art. 82, comma 2), ma non alla stregua di usuale sanatoria. Si può in questo quadro stabilire l’esistenza di un corollario di “doveri minori” ma tutti discendenti dall’atto medico come particolarità dell’informazione, necessario preludio dell’atto medico. Il Codice di Deontologia La codificazione deontologica è il prodotto della nuova cultura dei doveri medici tradotti in norme, la cui recente plasticità, da taluni mal tollerata, non è né vuol essere intesa quale condizione di corriva duttilità nei confronti di pulsioni eterogenee ed eterodosse bensì come garanzia attiva e attivatrice di vitalità, di creatività e infine di responsabilità solidali e consapevoli nel professionista, cognito del suo essere tecnicamente e moralmente impegnato, nella sua attitudine all’ascolto delle “voci” tanto della scienza e della società quanto dell’interlocutore debole, nella sua sensibilità – infine – nei confronti dell’autonomia della persona. E tutto ciò senza compromessi e defezioni dalla propria scienza, dalla propria cultura, dalla propria visione del mondo, dalla propria autonomia a un tratto irrinunciabile e coraggiosamente ispiratrice di scelte in una solitudine da non rifiutare, cui tuttavia sovviene il Codice di Deontologia medica (analogo, in buona misura, ai codici degli altri professionisti sanitari, gli infermieri in primo luogo). E il Codice ha compiuto nel tempo un autentico e virtuoso viraggio da strumento di garanzia reciproca (galateo?) tra i partecipi della corporazione, da autorevole, magistrale monito del grande clinico (Frugoni) esornato dal carisma di scienza e d’umanesimo, da registro della ricaduta professionale delle crescenti e ingravescenti esigenze di medicina pubblica cogenti anche per il “libero professionista”, a guida severa eppure incisiva per il medico, capace di accompagnarlo (volente o nolente), lungo i frastagliati, impervi e scivolosi sentieri della prassi quotidiana resi vieppiù incerti da prescrizioni-indicazioni equivoche, da segnaletiche non aggiornate ovvero viziate da lusinghe ora ideologiche ora sottese da interessi economici, da inviti delle sirene abili e fascinose suggeritrici di conflitti di interesse, dalle fobie ed enfatizzazioni dell’errore e della malasanità, del contenzioso e dalle sequele giudiziarie e giurisprudenziali, nonché tormentati dal fervore burocratico regionale, dalle tentazioni, infine, 22 Manuale della Professione Medica di fermarsi in un atteggiamento di resistenza opportunistica e di desistenza difensivistica. Il Codice deontologico si è così felicemente tradotto in presidio di garanzia non solo dell’atto professionale o, non soltanto, del medico deontologicamente corretto ma anche del diritto dei cittadini e delle istituzioni (un codice ormai accessibile alle esigenze della utenza e della pubblica tutela) al rispetto dei reciproci diritti di partecipazione e di sostegno per la condizione professionale nel quadro di una gestione della sanità che tenga conto dell’equità, dell’adeguatezza, della qualità (art. 6) anche con gli strumenti di clinical governance. In questa auspicata armonia si iscrive il dovere medico di informazione, di formazione continua, di indipendenza deontologica anche nelle condizioni di “dipendenza” lavorativa e operativa. E anche le accezioni pubblicistiche della nuova deontologia che impegna il medico non solo nelle calamità (art. 9) ma anche nella tutela dell’ambiente (art. 5), nell’attenzione non occhiuta o “paternalisitica” ma solidaristica nei confronti degli stili di vita negativi per la salute nonché nella discutibile ma legittima e doverosa rilevazione dell’errore (non già confessione e tanto meno delazione), esprimono l’irresistibile crescita di una presenza e di un ruolo costanti nella prevenzione e nella garanzia di vita e di qualità della vita delle future generazioni. La fertilità normativa del Codice trae, in definitiva, origine da fonti essenziali: la deontologia medica ha assunto, come si è visto, sempre più consapevolmente la caratteristica di matrice del Codice (fino a identificarsi in esso), esprimendo la propria evoluta fisionomia di deontologia medico-legale, nell’essenza-valenza di moniti e divieti tradotti in summa di norme articolate, finalizzate non solo a responsabilizzare in senso anche pubblicistico la figura del medico, ma anche e soprattutto necessarie per individuare e oggettivare le trasgressioni al fine di produrre una giustizia ordinistica o quanto meno a rendere efficace ed esemplare nel duplice senso ammonitore e repressivo il processo disciplinare proprio della giurisdizione categoriale; l’etica medica ha visto disperdersi il suo essenziale ancorché vago significato umanistico, praticamente solo complementare alla deontologia; la bioetica ha poi fortemente influito sull’evoluzione del Codice deontologico, ovviamente nelle sue ultime edizioni e particolarmente in quelle del 1998 e del 2006 nelle quali ha trasfuso i suoi principi fondamentali che non si fermano alla non maleficità (neminem laedere!) ma si estendono al rispetto dell’autonomia della persona (nota 39). Anche le poche leggi dello Stato, emanate tra il 1998 e il 2006, hanno trovato una eco ben precisa nel più recente Codice: come la legge dell’8 aprile 1998, n. 94, nota come legge “Di Bella” sulla libertà prescrittiva anche off label, la legge del 9 gennaio 2006, n. 7, che vieta le mutilazioni genitali femminili, la legge (TU, Riflessioni per una nuova deontologia 23 2003) sulla privacy che ha avuto grande ascolto nella deontologia ufficiale (artt. 11-12) per quanto riguarda la tutela e il trattamento dei dati sensibili, la disciplina dei dati e documenti clinici e specialistici, la cartella clinica (che meritava più estese previsioni), e infine la valorizzazione dell’interessato come unico depositario del diritto al trattamento dei dati esperibile di regola con il consenso informato e del medico curante cui fanno capo la titolarità del dato oggetto di tutela e la responsabilità per ogni legittimo impiego dei dati stessi: problemi complessi e delicati, sui quali non sono ancora sufficientemente esperiti la sensibilizzazione e la partecipazione dei sanitari e il loro rapporto con l’autorità garante. Ultima ma non secondaria ispirazione al progresso delle nuove norme è venuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza il cui costante interesse verso la tutela della salute e la condotta dei medici merita una sempre più attenta riflessione e una migliore attitudine all’ascolto e all’aggiornamento permanente ormai fondamentale momento di riflessione, assunto al ruolo di dovere preciso e non eludibile. Va infine ricordato l’intervento delle società scientifiche e, in particolare, della Società italiana di Medicina legale (SIMLA) per quanto attiene la consulenza medica per l’autorità giudiziaria (art. 62) (nota 40). Se in una sola frase si dovesse esprimere lo spirito animatore della nuova deontologia, si potrebbe parlare di presa di coscienza dell’autonomia professionale, nel rispetto dei diritti delle persone e della società, rivendicata insieme con la consapevole coerente assunzione da parte del medico di piena responsabilità professionale. Questo è, d’altronde, l’obiettivo che perseguono la dottrina giuridica e la giurisprudenza più autorevoli, le quali pretendono tanto l’autonomia operativa del medico quanto l’autonomia disciplinare e sanzionatoria degli Ordini professionali (art. 4). Ed è qui che il legislatore dovrebbe con urgenza esprimere un atto di fiducia negli Ordini professionali e procedere al loro adeguamento istituzionale alle nuove esigenze anche disciplinari. In altri termini, le rinnovate regole deontologiche non possono trovare piena e giusta attuazione se non nel quadro di una nuova realtà ordinistica, cui anela una professione, eccessivamente turbata da ingerenze geopolitiche, tecnocratiche, sociologiche e, malauguratamente, bioetiche che ne sconvolgono o scoraggiano la peculiare missione. Mi piace davvero concludere questo capitolo, ricordando un autorevole e appassionato studio, che documenta la valenza del Codice di Deontologia e auspica erga omnes una più incisiva giurisdizione deontologica (nota 41). Tale giurisdizione dovrà sempre più penetrare nell’intimo anche caratteristico delle scelte, della loro compatibilità con linee-guida aggiornate e accreditate, della sostenibilità delle opzioni anche erroneamente comminate con l’equa distribuzio- 24 Manuale della Professione Medica ne delle risorse. Anche su questi punti dovrà esprimersi una nuova deontologia che postula un nuovo riconoscimento giuridico degli Ordini (dopo cento anni) sul piano generale e un’effettiva rilevanza della governance clinica sulle varie situazioni e contestualizzazioni culturali. Un capitolo tutto da rivedere è quello dell’appropriatezza delle scelte che mi permetto di accennare come una nuova frontiera della deontologia medicolegale, capace di legare l’autonomia alla professione. Il dovere dell’appropriatezza La categoria dell’appropriatezza sembra, tradotta com’è in slogan, estranea alla classica cultura medica italiana troppo spesso eteroispirata, ancorché in realtà implicita alla vicenda sanitaria (nota 42) se intesa alla stregua di ovvia garanzia di sicurezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in effetti, il risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo e conflitto d’interesse); e “logos” vuol dire discorso problematico (non verbum che sottende etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che si articoli su proposizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, si articoli su un metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia espressione di una cultura in costante divenire per quanto, avvalendosi di punti fermi (le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su tutte e su ciascuna delle contingenze cliniche. E ciò attraverso il ragionamento clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni razionali che il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni patologici o come il complesso dei processi della logica che il medico impegna per spiegare e comprendere la condizione del paziente. Come saggiamente afferma Pagni (nota 43), l’appropriatezza sta a significare la scelta «giusta, da parte dell’operatore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica clinica non può quindi che operare tanto la medicina dell’esperienza, ambiguo frutto della certezza naturalistica e dell’osservazione casistica e sperimentale, quanto la medicina della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto infine la medicina dell’induzione capace di dare pericoloso rilievo alle suggestioni statistiche. S’impone così un’appropriatezza capace di umanizzarsi, di individualizzarsi, di confluire nell’alveo della medicina della persona, di una medicina cioè che si ponga al rispettoso servizio dell’ammalato che è la medicina dell’amore, del dolore, della felicità, dell’autonomia e della dignità di ciascuno, in un amalgama sereno e flessibile, anelante all’alleanza, non precipitato dalle ideologie e dalle scorciatoie culturali (preconcette). Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta, opzione, Riflessioni per una nuova deontologia 25 indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o desistiva; ed è qui che si ripropone il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal messaggio costituzionale, il quale pone in armonia valoriale gli scopi primari della medicina e cioè la tutela della salute da perseguire nel rispetto della libertà e della dignità personali. E così la logica clinica resta ancora il fondamentale ma non il solo fattore delle scelte appropriate. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza di impegni diversi: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente preponderante se e quando definito dalla legge, dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del singolo medico da contenere peraltro entro i limiti dell’autonomia giunta solo ex lege sino all’obiezione di coscienza. Il resto può essere oggetto solo di scansione deontologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della correttezza “sociale” della decisione medica, fatta di scienza e di umanità, concretizzata ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico. Ecco perché è andato vieppiù scemando, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone, il significato dell’intervento a livello casistico della consulenza etica e del comitato etico e sta vieppiù svanendo, non solo in Italia, l’idea del bioeticista ospedaliero strutturato, ed ecco perché in altri presidi appare deprecabile l’apporto di figure diverse (come i volontari della “fede” o della “non fede” specialmente nei consultori familiari). La decisione è un atto di coscienza e di volontà del medico e del paziente. Dall’esterno può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza e di responsabilità nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la formazione e l’informazione, la crescita scientifica e morale. Le fasi diverse e le competenze diverse non possono né debbono in effetti scomporre l’unicità di un percorso, ma semmai porre in luce, a monte della contingenza, la gamma delle opzioni possibili su cui scienza e morale si confrontino e da cui derivi a valle un’armonia tra le varie istanze e prospettive anche quando la scelta non dovrebbe tecnicamente che essere una. Non può, in effetti, frapporsi tra il medico decisore e l’atto della decisione una trama di suggerimenti, che non sono comunque, né metodologicamente, né scientificamente, né eticamente vincolanti anche ai fini della scelta (ed è in questo senso giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e tanto meno scriminanti in senso deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del medico è destinata a cedere all’inerzia e alla predominanza dei dogmi (scientifici o etici) sui giudizi, alla deresponsabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, frantumando così ogni unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi né dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto assistito che sottende, come si è visto, un dialogo pregnante, semplice o complesso che sia: non più monologo del medico, come in passato, ma impresa plurisog- 26 Manuale della Professione Medica gettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta, in una trepida e lucida atmosfera di ascolto dei motivi espressi o inespressi da una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffattamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella coscienza individuale, ma non fino all’inderogabilità o all’obiezione apodittica. Fin qui, il substrato, il senso della decisione. Nell’ambito della bioetica si è fatto strada il parallelo concetto di deliberazione: un modus molto complesso e ricco di significati e di percorsi metodologici che non può, a mio avviso, né deve uscire dall’analisi speculativa propria del pensiero filosofico in quanto può solo pervenire a varie opzioni, ciascuna delle quali resta ispirata da un principio morale e pertanto tende a problematicizzare fino alla nebulosità sofistica e a spingere verso il manicheismo il percorso decisionale, diluendolo nel tempo, in un tempo che esonda dai canali della tempestività operativa e della libertà individuale, per non citare neppure il problema della riservatezza, anch’essa garantita dalla legge. Con queste premesse in ordine alla razionalità decisionale, occorre prospettare alcune integrazioni di valenza soprattutto medico-legale. La decisione medica si articola, come vuole anche la Giurisprudenza, su tre momenti fondamentali: della diagnosi; della terapia (trattamento); e della riabilitazione, essendone peraltro presupposto l’informazione e il consenso e corollari la prevenzione, la prognosi, l’eventuale determinazione anche medico-legale delle provvidenze socio-economiche. Traducendo in termini deontologici le problematiche della decisione stessa, per quanto attiene la diagnosi hanno dunque particolare significato la repertazione e l’analisi delle evidenze (anamnestiche, sintomatologiche, oggettive), emergenti da interventi metodologicamente corretti e ripetibili, di natura clinica, laboratoristica, eidologica ecc. In questo essenziale approccio al trattamento, la decisione si avvale oltre che della capacità individuale, della fondamentale appropriatezza metodologica, che deve garantire la rispondenza delle indagini a una logica ermeneutica sequenziale, ispirata a indirizzi generali, riferiti peraltro dal clinico al singolo caso se non per altro motivo, per quello di offrire le garanzie provenienti da una corretta informazione e da un consenso espresso con la massima possibile consapevolezza. Avvalendosi della suggestione probabilistica che non contraddice, anzi valorizza, il confronto con le linee-guida accreditate, il processo deliberativo diagnostico deve essere chiaro, trasparente, motivato e non velleitario e pertanto scientificamente logico. Non è censurabile, del resto, l’errore diagnostico se non quando incompatibile con paradigmi patogenetico-clinici elementari. Lo sbaglio Riflessioni per una nuova deontologia 27 inescusabile si realizza invece per la trascuranza (da imperizia o da negligenza) di fondamentali indirizzi pratici non pleonastici ma corrispondenti a direttive o paradigmi operativi promossi e accolti dalla comunità scientifica, ovvero di elementari regole di condotta. Ma questi sono concetti troppo risaputi per essere ripercorsi. Importante è, comunque, dal punto di vista medico-legale, la segnalazione e la registrazione dettagliata dell’iter diagnostico seguito, che dovrebbe essere preceduta dalla descrizione (in cartella clinica) dell’ipotesi primaria e delle varianti ipotetiche successive su cui si muove il processo investigativo. Basterebbe in proposito che il medico acquisisse il senso dell’opportunità di una enunciazione diligente e descrittiva dei passaggi e dei ripensamenti, tale da documentare onestamente la serietà dell’impegno. La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nella maniera migliore possibile l’approccio diagnostico, risiede nel trattamento o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o desistenza terapeutica), fasi essenziali dell’atto medico che presuppongono una decisione non sempre revocabile e a un certo punto inflessibile. La decisione definitiva deve evocare e rispettare sempre il fine della medicina, che è quello di garantire il recupero della salute e di salvaguardare la vita, ma entro i termini della logica (ragionevolezza) clinica e mai al di fuori della duplice potestà individuale di far valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto della propria dignità. E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato e va commisurato, non piegato, ai parametri dell’equità e della sostenibilità. Giova in proposito ricordare che l’opera del medico e della medicina non può non tener presente la nozione di salute a suo tempo fatta propria dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, testualmente ripresa in ogni assise socio-politica (almeno fino a pochi anni fa) e introdotta (1978) nella legge fondativa del nostro Servizio Sanitario Nazionale. La categoria “salute” è per sua stessa natura antinomica non solo di malattia ma anche di tutto ciò che mina il benessere psico-fisico, la qualità cioè della vita percepita e accettata. Si è proposta recentemente (con ricadute bioetiche inquietanti) l’indisponibilità del substrato corporeo, oltre che della vita stessa, e si è revocata, mettendola in dubbio, la legittimità del rifiuto di curarsi ma anche di prodursi o di sollecitare una modificazione “morfofunzionale” non direttamente correlata a condizioni patologiche, riconducendo così la malattia e la salute nelle strettoie del mero organicismo. E così d’un colpo si è rischiato, ad esempio, di delegittimare ogni separazione medicalmente prodotta o assistita tra sessualità e procreazione e ogni discrezionalità correttiva non motivata da malattie organiche. E così, per fare un altro esempio, buona parte della medicina estetica e di ogni altra espressione della “esecrabile” medicina 28 Manuale della Professione Medica dei desideri, sta andando incontro a una preconcetta condanna. Questa escalation di divieti moralistici non è tuttavia accettabile, posto che nella temperie civile e democratica la scelta deve solo derivare da un’effettiva armonia tra libertà di curarsi e libertà di essere curati: ed è questo un principio basilare della professione medica, un principio del resto prevalente della stessa bioetica, quale è stata e si è nel tempo affermata. Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali, non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, legittime se indirizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi: che non possono tuttavia tradursi in obblighi sul se e sul come, tanto per il medico (di cui tuttavia sono ammessi e l’obiezione di coscienza e il rifiuto deontologicamente corretto) quanto per il paziente. La Corte Costituzionale, come si è già riferito, ha d’altronde negato a più riprese (nota 44) allo stesso legislatore la discrezionalità di intervenire nella materia decisionale delle scelte curative (se e quando, ad esempio, siano ammissibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alternative, le remore extrabiologiche alla procreazione medicalmente assistita), ammonendo sulla esperibilità di prescrizioni normative regolatrici della responsabilità operativa. E anche il legislatore ordinario (non a caso) ha ammesso la prescrivibilità dei farmaci offlabel (nota 45), e persino dei placebo, dando giusto ed equilibrato rilievo ai diritti individuali nonché alla scienza e alla responsabilità dei medici (nota 46). Un discorso a parte meritano (si fa per dire) le medicine alternative: capitolo che non può peraltro essere affrontato se non partendo dai medesimi principi. La decisione curativa deve emergere in definitiva da presupposti di relazionalità, di razionalità, di equità, di sperimentalità, di responsabilità, essenziali momenti cui si ispira una letteratura immensa e intensa che non occorre ripercorrere se non in alcuni passaggi esemplificativi del tutto attuali in quanto persistente oggetto di animata discussione. In primo luogo, la relazionalità va comunque tenuta presente come condizione di base. Essa risiede nel rispetto della volontà del paziente, liberata dall’enfasi della resistibile ascesa del consenso informato, ieri formalisticamente ritenuto unico lasciapassare della medicina e preteso in forma scritta su moduli ufficiali e onnivori, concepiti, quasi alla stregua di atti notarili, oggi assunto alla stregua di naturale componente dell’atto medico. Poche parole occorrono infine sulla razionalità che sottende e legittima la decisione. Linee-guida, protocolli, genialità deduttive: antiche e nuove chiavi di lettura della realtà patologica, sono tutte condizioni necessarie ma insufficienti ad autorizzare certezze. Resta l’ineludibile titolarità (e vulnerabilità) della scelta che deve tendere all’equilibrio tra scienza ed etica: un’etica – soprattutto – di rapporto, come suggestivamente insegna la terapia del dolore! Sullo sfondo 29 emerge pur sempre anche il tema dell’equità distributiva e del conflitto di interesse, che tuttavia si pongono in forme e con forza crescente non certo esorcizzabile. E così la decisione medica ritorna, compiendo un circolo indubbiamente virtuoso, al punto di partenza, insito nella potestà del medico, del singolo medico, in modo molto più sottile, penetrante e coinvolgente rispetto a quanto possano suggerire le classiche e nuove giustificazioni etiche come quelle della beneficità o del best interest, ovvero del rapporto ponderale tra ricerca e clinica (il più pericoloso agli effetti decisionali in quanto alla base del più subdolo dei conflitti di interesse). Su questo e altri dubbi della bioetica e della deontologia non sono peraltro da attendere dal diritto risposte sicure e definitive, capaci di sollevare il medico da ogni incertezza e rischio. D’altronde è sul principio della responsabilità che si fonda l’autonomia del medico ed essa resta tale se garantita da un corretto, sereno e coraggioso potere decisionale. Così il principio di appropriatezza trae forza e coerenza dal binomio scienza e coscienza; non già da un’aprioristica e generale indicazione, cui altro significato non compete se non quello di guida ai percorsi operativi; deve invece concretizzarsi in un’analisi fortemente personalizzata, così come esige ogni serio intervento medico, cui sia estranea da un lato la soggettività immotivata, dall’altro la futilità, e sia implicita l’aspirazione a un principio di giustizia e di equità distributiva delle risorse. L’inanità terapeutica autorizza infine un definitivo giudizio medico, di desistenza, in quanto ciò che è inutile ormai, esula dalla potestà di curare e sfuma in un autoritario velleitarismo spesso condizionato da presunzioni, ideologismi, conflitti d’interesse che finiscono per indurre un’inappropriatezza fatalmente prossima all’illecito. Resterebbe da considerare l’impegno del medico al contenimento della spesa sanitaria: un difficile, complesso impegno che peraltro il principio dell’appropriatezza, può rendere meno estraneo alla sensibilità del medico. Percorsi dell’appropriatezza Nella visione generale del tema deontologico ben si attiene dunque la categoria dell’appropriatezza applicabile anche all’informazione, al consenso, alla tutela del rapporto (nota 47). E così si compie il ciclo virtuoso della nuova deontologia in costante divenire, da arricchire con riflessioni ben più approfondite e diffuse rispetto a quelle che sin qui ho modestamente espresso. Conclusioni Il più recente orientamento giurisprudenziale, sistematicamente proposto nel 2009 dalle Sezioni Unite della Cassazione penale, definisce finalmen- 30 Manuale della Professione Medica te l’attività medica come un complesso di competenze e di impegni che non sono solo quelli meramente teorici, di cui si impone l’appropriatezza oltre che la coerenza con le inderogabili pulsioni della scienza e della coscienza, ma si armonizzano con il rispetto profondo dei diritti di libertà e di dignità, con l’autonomia della persona assistita. Ne deriva l’esigenza di una più matura deontologia, che vada oltre le suggestioni pur provvide della bioetica e si esprima nei termini di una biopolitica espressiva di un rapporto, di un’ideologia, di una sensibilità capaci di esaltare il dovere nel senso dell’ascolto, del dialogo, del rispetto delle persone e delle istituzioni, nell’auspicio di un biodiritto armonizzato con la diversità e le libertà compatibili. A livello formativo, il capitolo medico-legale della deontologia va quindi ridisegnato su basi più ampiamente realistiche, a livello operativo fondato sulle regole in primo luogo ordinistiche, e il Codice merita un ulteriore approfondimento di alcuni momenti di diversità più recentemente in altre sedi richiamati, senza alterarne i principi che ne hanno prodotto nel tempo una straordinaria elevazione etica e una grande maturazione sociale. La recentissima, illuminata e illuminante storia dei “cento anni degli Ordini dei Medici” idealmente si conclude con la parola-auspicio: continua…! Ed è questo auspicio che sarà bello coltivare… (nota 48). APPROPRIATEZZA EFFICIENZA allocativa, tecnica, organizzativa EFFICACIA CLINICA COMPLIANCE (adesione) Riflessioni per una nuova deontologia 31 Appendice: doveri legali di informativa Si riassumono qui i fondamentali atti medici stabiliti dalle norme (nota 49). UO di Igiene e Sanità Pubblica dell’AUSL Notifica delle malattie infettive e diffusive (DM 15 dicembre 1990); Denuncia delle malattie veneree (DM 15 dicembre 1990); Denuncia dei casi d’intossicazione da antiparassitari (legge 2 dicembre 1975, n. 638); Segnalazione delle vaccinazioni (desueta); Segnalazione di neonati immaturi (DM 16 luglio 2001, n. 349); Segnalazione di interruzione di gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194). Sindaco Denuncia delle cause di morte (DPR 10 settembre 1990, n. 285). Sindaco e UO di Igiene e Sanità Pubblica dell’AUSL Denuncia della nascita di infanti deformi (DM 16 luglio 2001); Denuncia dei casi di lesioni invalidanti (desueta). INAIL Denuncia di infortunio del lavoro del titolare di impresa artigiana (DLgs 23 febbraio 2000, n. 38). INAIL e Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza Luoghi di Lavoro dell’AUSL Denuncia delle malattie professionali (DPR 30 giugno 1965, n. 1124); Denuncia delle malattie e delle lesioni causate da raggi X e da sostanze radioattive (DLgs 23 febbraio 2000, n. 38). Assessorato Regionale alla Sanità e COA presso Istituto Superiore di Sanità Notifica AIDS conclamato (DM 15 dicembre 1990). Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza Luoghi di Lavoro dell’AUSL Denuncia della detenzione di apparecchi radiologici e di sostanze radioattive (DLgs 26 maggio 2000, n. 241, in attuazione di Direttive 96/29 EURATOM). Servizio di Farmacovigilanza dell’AUSL Denuncia delle reazioni avverse ai medicamenti (DLgs 8 aprile 2002, n. 85). 32 Manuale della Professione Medica Tribunale dei Minorenni Denuncia di situazioni d’abbandono di minore (legge 4 maggio 1983, n. 184). Autorità giudiziaria Referto (art. 365 cp), nel rispetto delle norme di salvaguardia della persona ivi previste. Note 1. Questa trattazione è ispirata dall’idea di una nuova impostazione (anche didattica) della Deontologia medica e si propone come sviluppo coerente del prezioso contributo di Pagni A e Benato M. 1910-2010 – I cento anni degli Ordini, dei Sindacati medici e della professione, tra composizione e concertazione dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri in Professione e Clinical Governance, n. 3, 2010. 2. La versione attualizzata del c.d. giuramento di Ippocrate è ufficializzata come premessa al Codice di Deontologia Medica (FNOMCeO, 2006) ma non ha che il significato di un solenne ammonimento. 3. Fu Federico Stella sul primo numero della Rivista italiana di Medicina legale (1979) a promuovere il superamento delle incomprensioni tra scienza giuridica e scienza medico-legale: un pericolo da scongiurarsi. Dieci anni dopo (Barni M. Medicina e Diritto, in Rivista italiana di Medicina legale, 1989) concludevo il mio editoriale con un omaggio alla «deontologia del biologo e del medico, presupposti entrambi del progresso scientifico ed esistenziale, armonizzabili solo in termini giuridici, validi se scanditi in una temperie democratica, se capaci di essere compresi e se realmente corrispondenti ai veri problemi: per cui la medicina legale si propone come garante di una alleanza perenne tra medicina e diritto». 4. Fu Paolo Zacchia, archiatra pontificio del Seicento a indurvi un assetto dottrinario “definito”, indicando per le questioni medico-legali termini e potestà originali nell’accertamento e nell’interpretazione dell’oggettività a fini forensi e nell’epicrisi specialistica. Nel De rebus medicis sub specie juris sono dettate le norme esecutive, le alchimie deduttive di un presidio di coraggiosa validità, concepito in un torbido clima postconciliare, oggi evoluto e garante di giustizia, in quanto capace di trarre prove, evidenze, traducendole in certezze causali, dalla materia biologica, per sua natura assolutamente ribelle a uniformità semantiche, a esasperazioni schematiche e a interpretazioni dogmatiche e pertanto stimolatrice di incessanti e progressivi “metodi” tecnici (sempre più affinati dalla progressione conoscitiva) e di una parallela capacità di giudizio Riflessioni per una nuova deontologia 33 tutta permeata dalla conoscenza delle categorie e delle aspettative del diritto (necessariamente da intendere, ante litteram, come biodiritto). 5. Cfr. Zatti P. Verso un diritto per la bioetica: ricorso e limiti dell’istituto giuridico. Riv dir civ 1995; 1: 43 ss. 6. E non è questo né un apprezzamento critico e tanto meno una presunzione di superiorità, se si tiene conto del più chiaro approfondimento sperimentale e, quindi, scientifico delle scienze forensi nel mondo anglosassone che ha promosso la trionfale acquisizione della teoria delle evidenze e della loro imprescindibilità professionale senza deleghe (come da noi) a principi tecnologici non ispirati dal principio della verità. 7. Per un preciso inventario delle regole giuridiche tradotte in doveri del medico, si rinvia, in primis, ai trattati e manuali di Medicina legale (cfr., da ultimo: Buccelli C, Norelli G, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni. Piccin, Padova, 2009). L’analisi delle doverosità è presente, tra l’altro, nel mio Diritti, doveri, responsabilità del medico. Giuffrè, Milano, 1999, capitolo XVIII: I doveri di informativa, pp. 299-318 (vedi Appendice). 8. Non si dimentichi in proposito la lezione di Vincenzo M. Palmieri che non sacrificò la serietà scientifica al tormento dogmatico. 9. Legge di ratifica 28 marzo 2002, n. 145, che peraltro non è stata mai depositata presso il Consiglio d’Europa né corredata dai decreti attuativi, peraltro non necessari. 10. In ordine cronologico si riportano le principali fonti di doverosità: legge 29 dicembre 1998, n. 578 (GU 8 gennaio 1994): Norme per l’accertamento precoce della morte, regolamento con DM 22 agosto 1994, n. 582 (GU 19 ottobre 1994); legge 1° aprile 1999, n. 91 (GU 15 aprile 1999, n. 87): Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti; DPR 9 ottobre 1990, n. 309 (GU suppl. ord. 31 ottobre 1999): Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza; DM Sanità 15 dicembre 1990: Malattie infettive e diffusive. DLgs 30 giugno 2003, n. 196 (GU suppl. ord. 29 luglio 2003, n. 174) (Codice (TU) in materia di dati personali). 11. Senza alcuna pretesa di gerarchizzazione vi si considerano l’indipendenza e la dignità della professione sanitaria (autonomia); l’imperativo della prestazione di assistenza (dovere di curare); l’obbligo, di antico retaggio ippocratico, del segreto professionale e il più oggettivo rispetto della riservatezza; il conseguente trattamento (raccolta, rivelazione, trasmissione, elaborazione, assicurazione, utilizzazione a fini leciti) dei dati personali identificativi e sensibili, inerenti cioè la salute e la vita sessuale (tutela della privacy); la cor- 34 Manuale della Professione Medica retta e legittima ispirazione, scientifica e coscienziosa, del trattamento medico, cui siano estranei l’abusivismo, il ricorso a cure prive di fondamento e, per contro, l’accanimento terapeutico; la doverosa sfida dell’aggiornamento; il rispetto dei diritti, costituzionalmente garantiti, alla dignità, libertà, salute (leit motiv di un costante ammonimento della Corte Costituzionale); lo scrupolo metodologico e ideologico (veridicità) nella certificazione e nell’informazione richiesta dalle leggi; la particolare amorevole attenzione verso i minori, gli anziani, i disabili; il dovere di informare la persona assistita e di acquisirne il consenso avendo assoluto rispetto dell’autonomia del paziente e delle sue scelte diagnostico-terapeutiche, soprattutto in caso di dissenso; l’astensione da ogni forma di attività di aiuto al suicidio, ma anche di accanimento terapeutico; la cura particolare dei malati terminali e gravemente sofferenti ispirata alla massima apertura nei confronti della leniterapia e della terapia del dolore; l’attenzione collaborativa al prelievo di organi a fini di trapianto; l’ottemperanza alle leggi in ambito di sessualità e riproduzione cui è peraltro opponibile l’obiezione di coscienza quando essa sia prevista ex lege (che si stempera anche in una libertà di coscienza essenziale all’autonomia del singolo medico); l’osservanza delle regole di buona condotta clinica e di rispetto dell’integrità personale e della vita nella sperimentazione nell’uomo e nell’animale; la condanna della tortura e dei trattamenti inumani e dispregiativi della persona (e, in particolare della donna, dei minori, dei soggetti privati della libertà), ivi compresa l’alimentazione forzata di chi la rifiuta; la coscienza dei doveri verso l’organizzazione e l’amministrazione civica come le denunce di nascita e le certificazioni di morte; verso l’igiene pubblica come le denunce delle malattie infettive e diffusive e della malattia mentale pericolosa; verso l’amministrazione della giustizia come il rapporto e il referto; verso le finalità di natura sociale come le denunce degli infortuni, delle malattie professionali ecc.). 12. Berlinguer G. Bioetica quotidiana. Giunti, Firenze, 2000. 13. Il documento di Erice è riportato in Riv it med leg, 1990. 14. Gianformaggio L. Valori etici, costituzionali e giuridico-sociali ed attività sanitaria. Atti del XXX Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina legale e delle assicurazioni, Bari, 23-30 settembre 1989. 15. Il ruolo dei professionisti sanitari nella vicenda curativa ha subito una fortissima accelerazione quantitativa fondata sulla qualifica “universitaria” conseguita, sulla soppressione dei mansionari, sulla formazione dei percorsi formativi e dei codici deontologici, sull’esigenza di una razionalizzazione 35 delle attività di équipe che peraltro non può prescindere dal primato medico, in termini di scelte e di responsabilità. 16. Cfr. Bellelli A. Il codice di deontologia medica e il suo valore giuridico, in Barni M (a cura di), Bioetica, Deontologia e Diritto per il nuovo codice professionale del medico. Giuffrè, Milano, 1999; Busnelli F. Bioetica e Diritto privato: frammenti di un dizionario. Giappichelli, Torino, 2001; Comporti GD. La deontologia medica nella prospettiva degli orientamenti giuridici. Riv it med leg 2002, 24: 855; Iadecola G. Il nuovo codice di Deontologia medica, CEDAM, Padova, 1996; Quadri E. Il codice deontologico medico e il rapporto tra etica e diritto. Resp civ e prev 2002, pp. 925948; Rodotà S. Modelli culturali e orizzonti di bioetica (2002, estratto ottenibile dall’Autore). 17. Si veda in proposito la monografia di Raimondi L. Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie. Giuffrè, Milano, 2007. 18. Cfr. Baron J. Contro la Bioetica. Raffaele Cortina ed., Milano, 2008. 19. Come scriveva Engelhardt HT Jr: «Una nuova parola spesso richiama elementi di realtà da controllare nel nostro scibile culturale, e anche se si esprime con precisione sulle ragioni del suo potere e della sua utilità, è spesso imprecisa nei suoi limiti al punto di poter sottintendere molte aree di interesse, posto che una giusta parola può assemblare un ricco set di immagini e di significati e aiutare a scorgere le relazioni tra elementi della realtà fin qui separati nel nostro orizzonte visuale […] Lasciata a se stessa […] such a word has a fertile or strategic ambiguity. This has been the case with Bioethics» (art. n. 14). 20. Per Varnus et al. su Science (2003, 302: 398-399), la Bioetica, se vuole mantenere la sua autonomia almeno formale, non può non delimitare – a questo punto – il suo campo d’azione occupandosi almeno dei temi epistemologici che riguardano i diritti e le ragioni dell’essere (o del non essere), e interessandosi maggiormente a problematiche che hanno assai più a che fare con la salute e il benessere di un gran numero di mortali; e – aggiungo – dovrà raccomandare una segnaletica indubbiamente laica, ma fortemente umanistica e umanitaria, a una pratica comportamentale liberata dal moralismo e dal laicismo, tendente anzi all’armonizzazione dei nostri desideri, delle nostre ambizioni, dei nostri personali (e legittimi) ideali nel quadro delle regole democratiche. 21. È bello ricordare come nell’istituzione (1978) del Servizio Sanitario Nazionale le funzioni erano identificate nella prevenzione, nella cura, nella riabilitazione ma anche nella medicina legale: ed è stato un ruolo non tenuto nel debito conto. 22. Corte Cost. n. 471/1990. 36 Manuale della Professione Medica 23. La tesi dell’autolegittimazione del trattamento sanitario affermata in dottrina dalla Cassazione civile e, ora, penale, risale, come ricorda Iadecola, a Giuliano Vassalli (Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico. Arch pen 1973; 81) il quale afferma che sussistono principi positivi aventi valore normativo ricavabili (solo) per analogia del sistema delle cause di giustificazione, in forza dei quali il trattamento medico-chirurgico si impone di per se stesso, quando sia condotto in vista delle supreme esigenze della salute del paziente e secondo la lex artis, come fonte di incriminazione dell’atto (Cfr. Iadecola G e Bona M. La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Milano, Giuffrè, 2009). 24. Cass. pen. Sez. un. 21 gennaio 2009, n. 2347 in Barni M. La legittimazione dell’attività medica e la cura del paziente. Resp. Civ. prev. 2009; 2170 ss. 25. Significativo è in proposito il richiamo al valore dei documenti deontologici e, in particolare alla Convenzione di Oviedo (1997) e al nostro Codice di Deontologia medica (2006), e segnatamente all’art. 35, secondo il quale «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente» aggiungendo, quale ulteriore conferma del principio di rilevanza del dissenso come limite ultimo e invalicabile all’esercizio dell’attività medica, un precetto secondo il quale «in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente». 26. Alcuni stereotipi, in buona misura abbandonati dalla dottrina giuridica ma ancora pervicacemente “cari” ai custodi di una cittadella di residuale concettualità medico-legale, sono stati in buona misura “superati”. Essi riguardano anzitutto alcune presunte e abusate cause di giustificazione (idoli infranti o lesionati) quali: - Le scriminanti del consenso dell’avente diritto (art. 50 cp), categoria penalistica definita come inapplicabile, non necessaria e addirittura eccentrica in quanto estranea a una attività che trae la sua precisa legittimazione in se stessa e nel dettato costituzionale (sez. VI penale del 14 febbraio 2006 n. 11640, Caneschi. - Quella dell’esercizio di un diritto (art. 51 cp) non essendo attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico stesso potrebbe ad libitum intervenire con il solo limite della propria coscienza forte di una «posizione di garanzia» vissuta alla stregua di precipuo dovere. Riflessioni per una nuova deontologia - Quella dello stato di necessità (art. 54 cp) che per prevalente opinione dottrinaria e giurisprudenziale non è evocabile in quanto l’atto medico, specie se urgente, è legittimo e non abbisognevole di scriminanti, ed è ininfluente allorché l’intervento medico si ponga in contrasto con la volontà del paziente e, in particolare, con un suo motivato, consapevole dissenso, attuale o chiaramente documentato che sia. In effetti, si afferma che (Cocco G. Un punto sul diritto di libertà di rifiutare terapie mediche anche urgenti. Resp civ prev 2009; 74: 485) «l’art. 54 cp opera in campo medico-chirurgico quando la situazione di urgenza non consenta di attendere che il paziente riprenda conoscenza o comunque non consenta (per le condizioni cliniche in atto) di accertare l’effettiva sussistenza del consenso del paziente. Se invece il paziente manifesta espressamente il suo dissenso al trattamento medico, decidendo anche per il momento in cui diverrà incosciente e coprendo così l’intero percorso dell’intervento sanitario fino ai suoi effetti ultimi, egli non può certo essere obbligato a sottoporvisi perché la libertà personale non può essere compressa in forza di una pretesa eterotutela della vita in palese contrasto con la volontà dell’individuo (…)». - Sul reato di violenza privata (art. 610 cp) non è da avanzare, a mio avviso, alcuna ulteriore riflessione medico-legale, essendo peraltro da notare come non sia da condividere la tesi secondo la quale la violenza non sarebbe da porre subito in rapporto con una sopraffazione dell’altrui libera espressione del volere, ma si realizzerebbe necessariamente con un comportamento concreto di azione di tolleranza o di omissione non voluta dal soggetto passivo (anche se ormai incapace di dissentire o consentire, come, appunto, il soggetto anestetizzato). In altri termini, e a mo’ di esempio, «il chirurgo nell’eseguire un intervento diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente, tenendo una condotta violenta, una vis absoluta sul paziente che, per le condizioni in cui si trova, non può opporre alcuna resistenza». La Cassazione a Sezioni penali unite (2009) ha invece considerato che per la configurazione dell’art. 610 cp, il requisito della violenza, sia essa fisica (propria) o psicologica (impropria) s’identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di autodeterminarsi, sia che l’elemento soggettivo del reato implichi una violenza (appunto) o una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare o ammettere una determinata cosa: “il che sembra rendere del tutto impraticabile l’ipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nell’ipotesi” dell’attività medico-chirurgica in quanto «la violenza […] è un connotato […] di una condotta che […] deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a ottenere qualcosa di diverso dal fatto in cui 38 Manuale della Professione Medica essa si esprime»: questi i termini enunciati dalle Sezioni unite, in maniera davvero assai convincente. - E infine la indisponibilità dell’integrità corporea (art. 5 cc) è ritenuta superata dal dettato costituzionale e va interpretata nel senso che il “negato” potere di disporre non esclude la libertà di disporre del proprio corpo e quindi di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che coinvolgono e interessino il proprio corpo: e questo concetto ben affermato in dottrina è espressamente richiamato dalle Sezioni unite, in modo del tutto conforme ai principi costituzionali. 27. Sentenza “stranamente negletta” è la Corte Cost. del 15 dicembre 2008, n. 438, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge regionale del Piemonte n. 21/2007, in materia di uso di sostanze psicotrope su bambini e adolescenti, intervenendo nelle modalità stesse del consenso che, inteso come espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura invece quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi dall’art. 2 della Costituzione che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è invalicabile e che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario se non per disposizione di legge, che a sua volta non può violare la dignità della persona. 28. Cass. sez. II civ., 15 settembre 2008, n. 2376, con commento di: Barni M. Sul rifiuto di sangue: un compromesso onorevole, e di Silingardi E e Santunione AL. Il rifiuto del trattamento trasfusionale: la Cassazione ancora in bilico tra un passato che non passa e un futuro ipotetico, in Riv it med leg 2009; 31: 211 ss. 29. Si rende necessaria la previsione di istituti nuovi (per me non necessariamente affidati al legislatore) quali appunto il testamento biologico, funzionalmente rivolti all’autoregolazione per il tempo della sopravvenuta incapacità, quali l’autodeterminazione rispetto alle nuove tecnologie biomediche e la difesa del trattamento sanitario ritenuti indesiderati in quanto valutati lesivi della propria identità e dignità personali e non rispondenti al proprio progetto di vita: istituti che rendano cruciale la dichiarazione di volontà, posto che essa è il veicolo stesso attraverso il quale non soltanto il disponente pianifica le proprie cure ma rende noto qual è l’insieme dei suoi valori, delle sue convinzioni etiche e morali, delle sue idee filosofiche, del suo credo religioso (in una parola della sua personale concezione dell’identità e della dignità umana) rispetto alla vita, in malattia e in incoscienza. Ed è da questa lettura rispettosa e umile, che il fiduciario e il medico debbono trarre ispirazione per le loro scelte. Cfr. Pizzetti F. Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione della persona. Giuffrè, Milano, 2009. Riflessioni per una nuova deontologia 39 30. È naturale che in proposito si sollevino quesiti e dubbi sul ruolo dei consulenti, degli specialisti, dei laboratoristi, degli infermieri, degli anestesisti, dei radiologi ecc.; ma è difficile dire come il compito possa essere delegato e condiviso. Se ne può solo individuare la titolarità, densa di un’irrinunciabile responsabilità, che grava sul decision maker, sempre e a ogni effetto medicolegale (consenso, segreto ecc.). 31. Il duplice diritto alla riservatezza e alla contemporanea conoscenza del proprio stato implica una prerogativa assoluta ed esclusiva della persona interessata, trattandosi di un diritto costituzionalmente tutelato, rifiutabile e delegabile solo mediante un preciso atto di volontà dell’interessato e mai in forza di un’iniziativa o di una presunzione da parte del medico. Solo in caso di minori o psichicamente infermi, l’onus conoscitivo può essere trasferito su chi esercita la tutela. Sono da tener presenti, in proposito: l’opportunità della comunicazione relativa allo stato di salute anche al minore o al malato di mente, che, ove ragionevolmente possibile, deve saper partecipare alle decisioni terapeutiche, ancorché non in modo dominante; il ruolo informativo del consultorio, del comitato etico o della équipe informativa non esclusivamente medica (counselling) per particolari patologie, indagini, scelte ecc. Si tratta di un ruolo che potrebbe scardinare il legame fondamentale medico-malato e che comunque è subordinato a un atto di volontà da parte dell’utente; la delicatezza informativa da riservare alle persone a rischio per condizioni di pericolosità o di trasmissibilità proprie di patologie tenute nascoste dal paziente: problema legato da sempre, nel primo caso, a talune malattie mentali, nel secondo a malattie infettive e diffusive, e oggi alle malattie geneticamente trasmissibili. L’informazione alla persona direttamente o indirettamente interessata è anche qui prioritaria, ma dev’essere fortemente estesa a ogni possibile conseguenza anche penale dell’eventuale rifiuto di illuminare la persona a rischio. La sindrome da immunodeficienza acquisita ha attualizzato il problema, che è oggetto anche di protocolli comportamentali e operativi sui quali si basa ad esempio il contact tracing, e sul quale si articola il sistema delle notifiche e delle denunce all’autorità sanitaria. Il medico deve illustrare al paziente anche il rischio giudiziario e avere il coraggio di agire al di fuori delle regole del segreto, così come suggerisce l’art. 9 del Codice di Deontologia medica (2006), previa «valutazione sull’opportunità della deroga allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di terzi». Una riflessione a parte merita l’informazione nei casi d’intervento medico d’elezione, non corrispondenti, cioè, a condizioni patologiche intese nel comune significato nosologico. È il caso della chirurgia estetica e di taluni 40 Manuale della Professione Medica interventi nella sfera della sessualità e della riproduzione. Già la giurisprudenza ha duramente sanzionato il difetto informativo in contingenze come la fallita plastica mammaria, la fallita interruzione volontaria di gravidanza, la fallita correzione dei caratteri sessuali secondari nel transessuale. Informazione e obbligazione di risultato si attualizzano così e si embricano in diacronica sequenza. Il ruolo dell’informazione assume connotati quasi biblici, propri della responsabile premonizione e del vaticinio esistenziale, quando si tratta della possibile deriva dei test genetici (medicina predittiva) e delle responsabilità anche giuridiche connesse alla fecondazione artificiale. L’informazione, in questo caso, deve investire una pluralità di soggetti: il donatore dei gameti (anonimato assoluto o relativo!), la coppia o la donna sola (sempre che ne sia consentito l’accesso alla fecondazione artificiale), la candidata madre portatrice, con l’inquietante e ammonitrice incombenza di colui del quale si progetta l’esistenza. 32. Per l’art. 33, ultimo capoverso: «la documentata volontà del paziente di non essere informato o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata». Molto vaga e ininfluente sul piano medico-legale è la letteratura sul tema, cui mi piace dedicare un primo commento: il dovere di informare il paziente si arresta di fronte al rifiuto e alla manifestazione di totale fiducia e di leale affidamento, ma non in ogni caso può essere considerato come assoluto, per la sussistenza o la possibile emergenza di responsabilità mediche rilevanti. Il medico deve pertanto evitare di assumersi autonome iniziative d’importante incidenza sulla salute, sulla futura validità e sulla vita stessa del soggetto, salvi naturalmente i casi di urgenza e di indifferibilità dell’intervento, sentendo in tutta la sua gravità la problematica etico-giuridica della scelta, tanto maggiore quanto maggiore è appunto il rischio clinico, inteso come rischio per la vita, la salute, ma anche per le opzioni e le chances della persona nella sua sfera esistenziale e in rapporto con la famiglia, la società, il lavoro, la vita affettiva, sessuale ecc. 33. Occorre dire in definitiva che le possibili conseguenze d’indole deontologico-giudiziaria pesano molto e vanno considerate con grande serietà. Basti citare l’esigenza che il paziente, ad es., sappia e comunichi al partner la sua possibile contagiosità; che il paziente sappia che nella struttura in cui si trova non esistono sufficienti opportunità di diagnosi e di cura; basta ricordare al medico che il difetto d’informazione elide la regolarità “contrattuale” del rapporto di cura. Si ricordi intanto che il medico curante è il titolare dei dati sensibili relativi alla salute e alla sessualità del paziente e che anche la comunicazione al paziente ne costituisce trattamento ai sensi del codice della “privacy”, per cui è sempre fondamentale il consenso o il rifiuto (documentato) del paziente. Riflessioni per una nuova deontologia 34. Ogni aspetto ne è ampiamente trattato nel capitolo successivo, che ne stabilisce i confini e i limiti, e le modalità espressive, sino al testamento biologico, soffermandosi sulle condizioni che delimitano e sorreggono la capacità di consentire. 35. Si potrebbe dire “in principio era Ippocrate”; ma l’imperativo di riservatezza contenuto nel giuramento è di per se stesso ben più estensivo e denso di impegni e di impulsi morali di quanto non lo sia, ad esempio, la previsione penalistica vigente (art. 622 cp): costituisce infatti la struttura portante di un rapporto di fiducia, tanto più essenziale in era pre-scientifica allorché l’affidamento al medico era più completo, la soggezione, filiale quasi, mentre, per converso, il senso del dovere e la soggettività (non controllabile) del potere paludato da contenuti di serietà (di riservatezza, anche) connotavano il rapporto paziente-medico, venendo a occupare il sanitario una posizione di garanzia ante litteram, quella propria della salvaguardia della salute. 36. DLgs 30 giugno 2003, n. 196, in GU, suppl. ord., del 29 luglio 2003, n. 174. 37.Dati personali: qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche direttamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. Dati sensibili: i dati personali atti a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, le adesioni a partiti, sindacati, associazioni e organismi a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. 38. Le altre figure coinvolte nel processo del trattamento sono anch’esse definite (art. 4 TU) e oltre all’interessato, che è il cittadino, la persona, il paziente, sono il: - Titolare: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione e organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento dei dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza. - Responsabile del trattamento: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione e organismo preposti dal titolare al trattamento dei dati personali. - Garante: l’autorità istituita dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, all’articolo 153. Non ci sembra necessario illustrare ulteriormente i soggetti interessati, bastandoci ricordare che nel rapporto medico-paziente, il primo è il titolare, il secondo l’interessato. 42 Manuale della Professione Medica 39. In questa ottica si colloca una bioetica posta a tutela delle frontiere della vita e il Codice si distingue per averne tratto esemplari indicazioni riguardanti la tutela della volontà del paziente consapevole della qualità stessa della vita e di chi non lo è più, in una delicata e sfumata interpretazione della posizione di garanzia del medico e del potere di scelta del paziente tentando una possibile conciliazione (meglio, mediazione) tra tutela della salute e diritto alla qualità del vivere e del morire (terapia del dolore, rifiuto dell’ostinazione terapeutica, leniterapia e amorevole rispetto e capacità di accompagnamento anche nella fase del declino estremo della vita, trattamento rianimatorio dei prematuri, attenzione particolare ai soggetti minori, fragili, “non competenti”, adeguata considerazione verso eventuali direttive anticipate, disponibilità nei confronti dei legali rappresentanti e in particolare verso gli amministratori di sostegno che non si traduca in deresponsabilizzazione). La cultura dell’autonomia è sufficientemente valorizzata e assimilata senza tuttavia consentire l’adesione e la soggezione a ideologie confessionali o laiciste che hanno finito per vanificare l’ansiosa ricerca di un’etica condivisa e, ancora, sul piano pratico per marginalizzare i comitati etici, di cui, un tempo in sede ordinistica si paventò persino – e non a torto – un’autorevolezza vicaria in tema di deontologia medica. A questa fonte d’ispirazione vanno così ascritte non solo le più recenti e aggiornate indicazioni della Dichiarazione di Helsinki dell’AMM (in tema, ad esempio, d’uso del placebo), emanata nella sua primitiva stesura (1964) sull’onda della sentenza di Norimberga, ma soprattutto della traduzione in decreti legislativi delle direttive europee in ordine a: sperimentazione dei nuovi farmaci sull’uomo, sperimentazione animale, impiego dei dispositivi medici, direttive che non interessano solo le Aziende sanitarie, e in particolare ospedaliere, e i centri di ricovero e cura a carattere scientifico, che non sono rivolte soltanto ai relativi comitati etici ma che riguardano direttamente il medico, anche di MMG, abilitato (DM 10 maggio 2001), in base a percorsi operativi regionali, alla sperimentazione dei farmaci soprattutto in fase IV. Una considerazione a parte merita la sinossi culturale ed etica proposta dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti della persona e la biomedicina particolarmente incidente, dopo la sua ratifica parlamentare (legge 145 del 28 marzo 2001) ancorché in qualche misura disattesa dall’inerzia governativa nella preparazione ed emanazione dei decreti attuativi ma per prevalente e autorevole dottrina e giurisprudenza (pressoché costante) è da considerare operativa e vincolante. È comunque fondamentale il fatto che il Codice di Deontologia medica del 2006 ne abbia accolto i risultati essenziali come, per ricordare i più forti: Riflessioni per una nuova deontologia 43 a) la stringente dinamica dell’informazione e del consenso informato diretto e attuale del paziente (se consapevole) indicati come essenziali requisiti di liceità del trattamento medico, con la conseguente incoercibilità del dissenso, pur se produttivo di desistenza terapeutica anche in condizioni di rischio per la vita; b) la particolare attenzione nei confronti dei minori e dei soggetti che versino in condizioni di défaillance mentale, il cui contributo alle scelte curative anche in direzione della qualità della vita, va comunque sollecitato e, ove possibile, seguito ricercando una convinta armonia con le opzioni di chi esercita la tutela; c) il tema delle direttive anticipate (art. 38) viste come non obbligatorie, né notarili, né cogenti, ma meritevoli di effettiva considerazione da parte del medico cui è richiesta una leale motivazione in caso di eventuale rifiuto medico di ottemperanza per ragioni ideologiche o di serietà professionale; d) la rinuncia all’accanimento terapeutico, ben definito nel Codice, e la prevista attenzione alla salvaguardia della qualità della vita, alla terapia del dolore e alla leniterapia, nella decisa condanna di ogni forma di eutanasia attiva, definita come messa in atto di comportamenti intenzionalmente diretti a produrre il decesso. 40. Gli influssi positivi della norma deontologica si sono scontrati col più complesso, inquietante e drammatico riflesso delle leggi in atto o in fieri (testamento biologico) che in sconvolgente misura invadono l’ambito dell’autonomia del medico, non tanto nelle scelte morali quanto in quelle tecniche, e ciò nonostante la diffida della Corte Costituzionale. Per fare un esempio, basterà ricordare la presenza nel Codice deontologico del tema della fecondazione assistita (art. 44) con il riferimento alle procedure già deontologicamente vietate nel 1988 prima dell’approvazione della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (e cioè la maternità surrogata, post-menopausale e post-mortem del partner), riaffermandosi invece l’esigenza della stabilità di coppia mentre non si ripetono nel testo ordinistico del 2006 altri divieti contenuti nella legge 40: diagnosi preimpianto, produzione e impianto di più di tre embrioni, fecondazione eterologa. E non si tratta di un’imperdonabile svista e nemmeno di un invito alla violazione della legge 40; ma solo di un fermo, dignitoso richiamo alla non illiceità deontologica di procedure e di metodi che non contrastino con le finalità scientifiche ed etiche della medicina, cioè, di prevenzione e di tutela della salute intesa nelle accezioni più ampie del termine, come condizione, cioè, di benessere fisico e psichico della persona (art. 3). Non è questo, d’altronde, il solo esempio di rivendicazione della volontà autodisciplinare dei medici italiani, palesemente documentate anche dalla novità degli allegati al Codice stesso (certamente non 44 Manuale della Professione Medica più che indirizzi o linee-guida) sulla pubblicità, sull’informazione sanitaria, sulla ricerca sperimentale, sui conflitti di interesse, sull’aggiornamento e la formazione, sulla prescrizione dei farmaci. 41. Raimondi F e Raimondi L. Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie. Giuffrè, Milano, 2007. 42. Federspil G. Logica clinica: i principi del metodo in medicina. McGraw-Hill, Milano, 2006. 43.Pagni A. Medici e management sanitario: il difficile dialogo tra due culture. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2009. 44. Pagni A. Medici e management sanitario: il difficile dialogo tra due culture. vedi cap. 3.2. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2009. 45. Cfr. Del Tacca M. Impiego clinico dei farmaci off-label. Professione 2005; 5. Iadecola G. Prescrizione dei farmaci “off-label” e responsabilità penale del medico, ibidem, 2006. 46. Legge 8 aprile 1998, n. 94. 47. Da Pagni A. Medici e management sanitario. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2003. 48. Pagni A e Benato M. 1910-2010 – I cento anni degli Ordini, dei Sindacati medici e della professione, tra composizione e concertazione dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. Professione 2010; 3 (fascicolo monografico). 49. Da Norelli GA, Buccelli C, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni. Cedam, Padova, 2009. 1 L’Ordine professionale e il Codice deontologico S. Fucci, G. Morrocchesi, A. Panti Art. 1- Definizione Il Codice di Deontologia medica contiene principi e regole che il medicochirurgo e l’odontoiatra, iscritti agli albi professionali dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, di seguito indicati con il termine di medico, devono osservare nell’esercizio della professione. Il comportamento del medico, anche al di fuori dell’esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano. Il medico è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice e degli orientamenti espressi nelle allegate linee-guida, l’ignoranza dei quali, non lo esime dalla responsabilità disciplinare. Il medico deve prestare giuramento professionale. Quest’articolo, nel primo comma, contiene la definizione di ciò che rappresenta il Codice, indica chi sono i destinatari delle relative norme e ne sancisce l’obbligatorietà per tutti gli iscritti all’Ordine, indipendentemente dalle modalità di esercizio della professione. Impone ai medici e agli odontoiatri, nel secondo comma, di tenere un comportamento consono ai principi etici che devono improntare l’esercizio professionale anche nelle attività estranee alla professione onde evitare che possano essere lesi il decoro e la dignità della stessa. Quest’ultima disposizione trova il suo fondamento etico nella circostanza che anche comportamenti extra professionali possono essere lesivi del decoro e 46 Manuale della Professione Medica della dignità di questa comunità di professionisti che ne potrebbe essere, quindi, danneggiata quantomeno sul piano dell’immagine rispetto all’opinione pubblica. Sancisce, inoltre, il dovere degli iscritti all’Ordine di conoscere il contenuto normativo del Codice e le linee-guida interpretative emanate dalla Federazione e stabilisce l’irrilevanza dell’ignoranza delle regole e dei principi della deontologia medica eventualmente eccepita dal sanitario incolpato di averli trasgrediti. Questa disposizione richiama alla mente l’art. 5 del Codice penale che stabilisce che «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale» che è stata oggetto di un attento esame da parte della Corte Costituzione che, nella sentenza n. 364/88, ne ha sancito la parziale incostituzionalità solo nella parte in cui «non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». Appare opportuno evidenziare, peraltro, che la Corte ha sottolineato che esiste a carico di ciascuno un dovere di essere diligente nella conoscenza dei precetti dell’ordinamento e che deve ritenersi rimproverabile l’ignoranza della legge penale da parte di chi «professionalmente inserito in un determinato campo d’attività, non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo». Queste autorevoli affermazioni, sia pure riferite alla normativa penale, possono essere utilizzate per avvalorare la correttezza sostanziale della disposizione deontologica in commento, laddove impone agli iscritti all’Ordine di attivarsi diligentemente per conoscere le relative regole, non ammettendo alcuna ignoranza al riguardo. D’altra parte la notizia dell’approvazione del nuovo Codice deontologico è stata data dai mass media e gli Ordini provinciali a loro volta ne hanno diffuso il testo e illustrato in convegni il contenuto, accessibile sempre anche via internet. Questo articolo stabilisce, infine, l’obbligatorietà del giuramento professionale che costituisce un atto formale diretto a ribadire l’importanza per ciascun medico delle regole e dei principi della deontologia. L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia professionale Il Codice deontologico dei medici rappresenta il complesso delle norme che definiscono i doveri degli appartenenti ad una determinata comunità professionale e viene emanato dalla Federazione nazionale attraverso una complessa procedura che vede coinvolti tutti gli Ordini professionali provinciali e, quindi, potenzialmente tutti gli iscritti. 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 47 Il primo Codice è stato approvato nel 1954 e successivamente ne sono state elaborate nel tempo altre edizioni, fino all’attuale del dicembre 2006. Nel corso del tempo il Codice ha assunto una maggiore completezza, tale da farne certamente un corpus iuris sempre più aggiornato rispetto all’evoluzione normativa dei testi di legge che riguardano le nuove attività di competenza dei medici, basti citare la procreazione medicalmente assistita (PMA) e gli interventi sul genoma umano. L’evoluzione del testo delle norme appare evidente anche laddove si è riconosciuto nel tempo l’importanza del coinvolgimento del cittadino nelle decisioni che riguardano la tutela della sua salute e, quindi, degli aspetti relazionali del rapporto di cura che non può essere ricondotto solo alla semplice applicazione di principi tecnici. Tenendo conto dell’importanza nella nostra società dell’istituzione costituita dalla famiglia non deve essere sottovalutato anche il segnale che il Codice ha voluto dare laddove nel tempo ha cancellato il riferimento ai congiunti come soggetti destinatari di una informazione privilegiata sulle condizioni cliniche dell’ammalato, in conformità all’orientamento assunto sul punto sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Anche la normativa deontologica sul segreto professionale, che costituisce uno dei principi fondamentali dell’esercizio dell’attività medica, ha subito nel tempo delle modifiche per adeguare le regole professionali ai principi giuridici contenuti nella legislazione sul trattamento dei dati personali dell’assistito. Occorre, quindi, che i sanitari tutti siano sempre più attenti all’evoluzione della normativa deontologica per evitare di rimanere ancorati a principi che nel tempo sono stati rielaborati proprio per adeguarli a quelli contenuti nella legislazione di carattere generale. Quest’opera di adeguamento dei principi deontologici al contenuto delle leggi appare importante perché dimostra che i medici e gli odontoiatri sono consapevoli del ruolo che svolgono all’interno della comunità nazionale e della loro appartenenza a questa comunità. Un’eventuale difformità sostanziale della normativa deontologica rispetto al contenuto della legislazione nazionale non è comunque auspicabile perché porrebbe gli iscritti nella difficile situazione di dovere scegliere tra l’ottemperanza alla deontologia professionale ovvero alla normativa emanata dal Parlamento. 48 Manuale della Professione Medica Nello stesso tempo il legislatore nella sua opera di normazione primaria dovrebbe evitare di emanare leggi che si pongano senza alcuna valida giustificazione in contrasto i principi deontologici comuni a tutti i sanitari e, soprattutto, rispettare l’autonomia professionale degli operatori, senza la quale difficilmente i medici e gli odontoiatri potrebbero contribuire all’attuazione del principio costituzionale che sancisce il diritto alla salute e, quindi, riconosce implicitamente il valore sociale delle attività professionali dirette alla tutela della salute. Purtroppo è accaduto, invece, che il legislatore nazionale abbia inteso emanare norme dirette a disciplinare anche le modalità tecniche dell’esercizio professionale, com’è avvenuto con la legge n. 40 del 2006 sulla PMA che, laddove all’art. 14, imponeva agli operatori di non creare più di tre embrioni e di procedere ad un unico e contestuale impianto degli embrioni prodotti, stabiliva una modalità tecnica che non teneva conto della necessità di adeguare il trattamento alle condizioni di età e di salute della donna, come poi statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 151 del 2009. In questa sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità di questa disposizione perché «non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto». Questa decisione, richiamando le precedenti sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002, ha ribadito l’importanza del rispetto, anche da parte del legislatore, del principio che garantisce l’autonomia del medico nell’esercizio della sua attività di cura, ricordando che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». È importante, inoltre, che sulle questioni di rilevanza bioetica il legislatore eviti di emanare disposizioni forti intese a regolare la materia in modo rigido, senza tenere conto dei diversi orientamenti presenti nella popolazione e anche nelle comunità dei sanitari. In questa materia, qualora giudicato veramente necessario, l’intervento normativo dovrebbe avere una connotazione non ideologica, che lasci aperta 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 49 a tutti la possibilità di effettuare le scelte che, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, ciascuno sarà chiamato ad operare per suo conto e sotto la propria autonoma responsabilità. Non si muove, evidentemente, in questa direzione il disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (cosiddetto DDL Calabrò) laddove intende impedire ai medici di sospendere la nutrizione artificiale anche quando questo trattamento non apporta alcun beneficio alla persona interessata. Il valore del Codice nell’ordinamento generale Per molto tempo si è ritenuto, in passato, che la normativa deontologica contenesse principi e regole extragiuridiche, pur non mancando nella giurisprudenza qualche isolata sentenza che ne sanciva la loro rilevanza ai fini della colpa penale perché riconducibili al concetto di disciplina, la cui inosservanza è idonea a qualificare come colposo un determinato comportamento ai sensi dell’art. 43 del Codice penale (vedi, al riguardo, Corte di Cassazione, quarta sezione penale, sent. n. 1516/92). Anche la Suprema Corte ne ha affermato per lungo tempo un valore limitato nell’ordinamento generale affermando che «le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli Ordini professionali, se non recepite da una norma di legge (ad esempio in materia di segreto professionale, tutelato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria), non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione dei poteri di autorganizzazione degli Ordini (o Collegi) sì da ripetere la loro autorità – come evidenziato in dottrina – oltre che da consuetudini professionali anche da norme che i suddetti Ordini (o Collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la loro funzione disciplinare» (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili Corte di Cassazione, sent. n. 10842/03). In base a questo principio non era possibile al medico condannato in sede disciplinare ricorrere in Cassazione avverso la sentenza emanata dalla Commissione Centrale per denunziare un vizio interpretativo delle norme disciplinari qualificandolo come violazione delle norme che disciplinano l’interpretazione della legge. Questo tradizionale orientamento è stato ribaltato recentemente dalla Suprema Corte che in sostanza ha affermato che nell’ambito della violazione 50 Manuale della Professione Medica di legge, va ricompresa anche la violazione delle norme dei Codici deontologici degli Ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili, Corte di Cassazione, sent. n. 26810/07). Questo innovativo principio in relazione al valore da attribuire alle norme deontologiche consente, quindi, al medico incolpato l’esercizio di un più ampio diritto di difesa davanti alla Suprema Corte a tutela dei suoi diritti perché la Cassazione può procedere direttamente all’interpretazione della norma deontologica contestata per verificare la correttezza dell’interpretazione fornita al riguardo dai giudici nel grado di giudizio precedente. D’altra parte nel momento in cui la normativa vigente affida agli Ordini professionali l’esercizio del potere disciplinare sugli iscritti, le regole deontologiche applicate non possono essere ritenute extragiuridiche perché costituiscono la fonte dell’eventuale contestazione di illecito disciplinare mossa al medico o all’odontoiatra che, all’esito del giudizio, può finire con l’incidere sui diritti soggettivi del sanitario, come quando, ad esempio, ne determina la radiazione dall’albo. Questo orientamento appare condiviso anche dalla terza sezione della Cassazione penale che, nella sentenza n. 16145/08, dopo avere ritenuto che le disposizioni disciplinari « hanno valenza normativa ed integrativa delle clausole generali, le quali vanno interpretate anche facendo ricorso a fonti normative diverse, sia pure di rango infralegislativo, come le norme di etica professionale», ha riaffermato che il Codice deontologico «rappresenta una fonte normativa qualificabile come “norma di diritto”, la cui interpretazione costituisce una “quaestio iuris” prospettabile in sede di legittimità». L’uso delle norme deontologiche nella motivazione delle sentenze Gli avvocati e i giudici non sono indifferenti rispetto alla normativa deontologica che, sempre più negli ultimi tempi, viene richiamata negli atti giudiziari per avvalorare le tesi sostenute e nelle sentenze civili, penali e amministrative a sostegno della decisione presa. Questo comportamento dei giudici appare degno di nota perché dimostra che anche i giuristi pratici, quali sono certamente gli avvocati e i giudici, consi- 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 51 derano comunque rilevante per l’ordinamento generale il contenuto dei Codici deontologici. È interessante notare che le norme deontologiche richiamate più frequentemente sono quelle che disciplinano la relazione con i pazienti, sia sotto l’aspetto del necessario rispetto della loro autonomia decisionale sia per quanto concerne i doveri di diligenza e perizia che il Codice impone ai medici e agli odontoiatri. In una situazione nella quale manca nei Codici – sia penale che civile - una specifica disciplina dell’attività medica, il richiamo alle norme del Codice deontologico probabilmente appare utile nella misura in cui tende a rendere più evidenti e specifici i doveri di rispetto della dignità delle persone, di correttezza e di trasparenza nell’attività professionale che già possono desumersi dai principi generali posti dal legislatore, costituzionale e ordinario. Le norme deontologiche finiscono, quindi, per svolgere una funzione integrativa rispetto, ad esempio, al principio di autodeterminazione in relazione alla cura della propria salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, in quanto tendono a specificare il comportamento che i sanitari devono tenere nel rapporto con il paziente quando lo informano del suo stato di salute, delle opzioni terapeutiche esistenti, dei potenziali benefici e dei rischi connessi alla loro esecuzione, prima di comunicare le loro proposte di cura. Questa è probabilmente la ragione del richiamo degli articoli del Codice operato dai giuristi quando, rispetto ad un episodio specifico, viene sottolineata l’importanza del principio deontologico del consenso informato ovvero di quello del dissenso informato che, peraltro, trovano la loro generale fonte di legittimazione nella Costituzione, nella normativa generale ed anche nelle convenzioni internazionali. Il richiamo alle norme deontologiche, inoltre, appare utile laddove specifica il contenuto della procedura informativa nei confronti del paziente sottolineandone l’importanza ai fini della reale possibilità di effettuare le proprie scelte con la necessaria consapevolezza. La stessa definizione di processo informativo contenuta nell’art. 35 del Codice deontologico, ad esempio, è stata utile ad evidenziare che il dovere d’informazione non può esaurirsi in un unico atto, ma permea il rapporto di cura nel corso del suo svolgimento e, quindi, è parte integrante della complessiva relazione che si instaura tra il medico e il paziente. 52 Manuale della Professione Medica Ecco perché, anche leggendo le sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione troviamo citata la normativa contenuta nel Codice deontologico sul diritto del paziente di scegliere se sottoporsi o meno ad un trattamento e sul contenuto del dovere di informazione (vedi, ad esempio, Cass. Civ. sent. n. 23676/08 e n. 2354/10). Anche nella valutazione del comportamento del curante ai fini della verifica della eventuale gravità della colpa, rilevante nel procedimento relativo al cosiddetto danno erariale, non mancano i richiami alle regole deontologiche che impongono al medico di seguire le metodiche diagnostiche e terapeutiche accreditate dalla scienza medica e, quindi, di agire in modo scrupoloso e attento, seguendo le relative regole cautelari e quelle suggerite dalla comune esperienza (vedi, al riguardo, Corte dei Conti Sicilia, sezione giurisdizionale, sent. n. 1146/06 e C. Conti Puglia, sezione giurisdizionale, sent. n. 11/99). Il Codice deontologico, d’altra parte, è uno strumento la cui conoscenza diventa utile anche nella pratica professionale quotidiana proprio perché individua e specifica principi etici fondamentali che appaiono condivisibili nelle loro linee generali anche dalla popolazione destinataria dell’essenziale attività di cura svolta dai medici e dagli odontoiatri. Art. 2 - Potestà e sanzioni disciplinari L’inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti fissati dal presente Codice di Deontologia medica ed ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili dalle Commissioni disciplinari con le sanzioni previste dalla legge. Le sanzioni, nell’ambito della giurisdizione disciplinare, devono essere adeguate alla gravità degli atti. Il medico deve denunciare all’Ordine ogni iniziativa tendente ad imporgli comportamenti non conformi alla deontologia professionale, da qualunque parte essa provenga. La Corte Costituzionale ha affermato che «per il fatto dell’appartenenza all’Ordine si crea un vincolo tra iscritto e gruppo professionale che impone comportamenti conformi ai fini che quest’ultimo deve perseguire» (sentenza n. 110 del 12 luglio 1967). Con l’iscrizione all’albo il professionista assume, quindi, 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 53 uno status specialis subiectionis nei confronti dell’Ordine, cui compete di esercitare il potere disciplinare nei confronti dell’iscritto che si renda responsabile di comportamenti che violino i doveri deontologici propri della professione. Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio Secondo la previsione dell’art. 38 del DPR 221/1950, «il procedimento disciplinare è promosso d’ufficio o su richiesta del Prefetto o del Procuratore della Repubblica». Lo stesso articolo precisa che l’Ordine competente è quello nel cui albo il professionista risulta iscritto, anche se il fatto addebitabile sia avvenuto in provincia diversa. I soggetti investiti del potere di iniziativa sono, dunque, l’Ordine, il Prefetto o il Procuratore della Repubblica. È da chiarire, però, che i poteri del Prefetto non sono più quelli di autorità sanitaria provinciale, come si configurava nel DPR 221/1950. Tali poteri, dopo la istituzione del Ministero della Sanità (legge 13 marzo 1958 n. 296) sono stati trasferiti al Medico Provinciale e al Veterinario Provinciale e, dopo la legge di riforma sanitaria n. 833/1978, sono stati trasferiti alle Regioni. Ma si tratta del trasferimento della funzione amministrativa in materia di sanità, dalla quale rimane esclusa la funzione amministrativa in materia di Ordini professionali, che è rimasta invece attribuita alla competenza del Ministero della Sanità. Il potere di iniziativa attribuito dall’art. 38 al Prefetto, deve oggi considerarsi attribuito al Ministro della Salute, organo che deve intendersi sostituito al Prefetto in tutte le norme che regolano sia il procedimento disciplinare sia le altre materie di competenza dell’Ordine. È opportuno sottolineare che quando l’azione disciplinare viene promossa d’ufficio dall’Ordine, essa scaturisce dal potere discrezionale che ha il Presidente nel valutare se il fatto, di cui riceve notizia, abbia o meno rilevanza sul piano disciplinare, mentre la richiesta del Ministro della Salute o del Procuratore della Repubblica determina, nei confronti dell’Ordine, l’obbligo a dare inizio al procedimento disciplinare, anche se poi l’esito di tale procedimento può essere di pieno proscioglimento. L’Ordine, comunque, non può sottrarsi a tale obbligo e, nel caso ometta di iniziare il procedimento, l’art. 48 prevede l’esercizio di un potere sostitutivo da parte del Ministro della Salute. Per stabilire quando il procedimento disciplinare può essere promosso, occorre aver chiaro il quadro normativo di riferimento. Le norme che hanno rilievo, a questo fine, sono gli artt. 38, 39 e 44 del DPR 221/1950. Cominciamo ad esa- 54 Manuale della Professione Medica minare l’art. 44, il quale prescrive che «il sanitario a carico del quale abbia avuto luogo procedimento penale è sottoposto a giudizio disciplinare per il medesimo fatto imputatogli purché egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del fatto o per non averlo commesso». Sembra chiaro, quindi, che, secondo quanto previsto dall’art. 38, l’Ordine, ogni qualvolta abbia notizia di fatti rilevanti sul piano disciplinare, può iniziare il relativo procedimento a sua discrezione, ma nel caso in cui il professionista sia sottoposto a procedimento penale occorre attendere che questo abbia avuto luogo e cioè sia stato definito con sentenza irrevocabile. Questa interpretazione ben si raccorda con l’art. 653 cpp, il quale prevede che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare. È pur vero che nel nuovo Codice di procedura penale non è stata riprodotta la norma dell’art. 3 del vecchio Codice che obbligava a sospendere il procedimento disciplinare fino alla definizione di quello penale, ma rimane pur sempre vincolante per l’Ordine il combinato disposto degli artt. 44 DPR 221/1950 e 653 cpp. È da ritenere temerario sottoporre a giudizio disciplinare il professionista verso il quale pende, per lo stesso fatto, un procedimento penale, se si pensa che il giudice penale, con l’uso del suo ampio potere di indagine e di acquisizione delle prove, può pervenire all’assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Sussiste, dunque, per l’Ordine, l’obbligo di promuovere un procedimento disciplinare nei confronti del professionista, il quale sia già stato sottoposto a procedimento penale, dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Il procedimento disciplinare In forza di quanto previsto dall’art. 39, il Presidente nei casi in cui acquisisca, quale che ne sia la fonte, notizia di fatti che possano configurarsi come illeciti disciplinari, svolge gli accertamenti necessari a suffragare gli estremi di un comportamento sanzionabile. Egli svolge, quindi, un’istruttoria, raccogliendo le prove testimoniali e documentali che ritiene utili, convoca e sente il professionista interessato. Con l’entrata in vigore della legge 24 luglio 1985 n. 409 istitutiva, in seno ai Consigli direttivi e al Comitato centrale, di due distinte Commissioni, rispettivamente per gli iscritti all’albo dei Medici Chirurghi e all’albo degli Odontoiatri, con l’attribuzione, tra le altre, della competenza in 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 55 materia disciplinare, e con l’entrata in vigore del DL 27 agosto 1993 n. 324, convertito nella legge 423/1993, che prevede la figura del Presidente delle Commissioni odontoiatriche, la dizione “il Presidente”, di cui all’art. 39, deve oggi intendersi riferita, non più al Presidente dell’Ordine, bensì al Presidente della rispettiva Commissione. L’audizione del professionista, ai sensi dell’art. 39, costituisce, peraltro, atto necessario, nella fase istruttoria preliminare all’apertura del procedimento, e costituisce requisito richiesto ad substantiam per la validità del giudizio disciplinare. Esaurita l’istruttoria, il Presidente della competente Commissione, qualora ritenga che sussistano elementi tali da suffragare un illecito disciplinare, riferisce alla Commissione, che decide, con deliberazione, se promuovere procedimento disciplinare, individuando gli addebiti da contestare, o se archiviare il caso. Qualora il Presidente non rilevi, invece, fatti disdicevoli al decoro professionale, può, a sua discrezione, procedere direttamente all’archiviazione del caso. Dopo che la competente Commissione ha deliberato di promuovere il procedimento disciplinare, spetta al relativo Presidente di Commissione svolgere tutti quegli atti formali previsti dall’art. 39 e che sono da ritenere essenziali per la validità del procedimento. Egli, quindi, deve provvedere, mediante raccomandata con a.r. a notificare all’interessato: gli addebiti circostanziati, il termine, non inferiore a venti giorni, entro il quale egli può prendere visione degli atti relativi al suo deferimento a giudizio e produrre le proprie controdeduzioni scritte; l’indicazione del luogo, giorno e ora in cui sarà celebrato il giudizio disciplinare; l’espresso avvertimento che, qualora non si presenti alla seduta della Commissione, si procederà al giudizio in sua assenza. Malgrado le innovazioni introdotte dalla legge 409/1985, è rimasto a carico del Presidente dell’Ordine il dovere, previsto dall’art. 49 del DPR 221/1950, di dare immediata comunicazione dell’inizio del procedimento al Ministro della Salute e al Procuratore della Repubblica territorialmente competente ed eventualmente al Procuratore o all’Ordine di altra circoscrizione che abbia promosso il giudizio. Per tale ragione, il Presidente della Commissione per gli Odontoiatri, una volta assunta la deliberazione, che deve essere sottoscritta dal Segretario verbalizzante e dal Presidente, deve trasmetterla al Presidente dell’Ordine affinché possa darne comunicazione alle autorità previste ai sensi dell’art. 49 già citato. Il Presidente della Commissione nomina, quindi, il relatore tra i componenti della Commissione stessa. La nomina del relatore ha lo scopo di semplificare lo svolgimento del procedimento disciplinare, affi- 56 Manuale della Professione Medica dando a uno dei componenti del Collegio lo studio degli atti e il compito di relazionare in seduta. Nel caso, però, che non si sia provveduto alla nomina del relatore o nel caso di impedimento di questo a partecipare alla seduta, il procedimento è ugualmente valido se tutti gli atti siano stati letti in seduta, in quanto in tal modo sono ugualmente raggiunte le finalità di legge. Per la validità dell’adunanza della Commissione è sufficiente l’intervento della maggioranza dei componenti, in quanto essa, anche se in funzione disciplinare, si configura pur sempre come un organo collegiale amministrativo. Esaurita l’esposizione dei fatti da parte del relatore, viene sentito, se presente, l’incolpato; l’art. 45 DPR 221/1950 esclude la possibilità, per quest’ultimo, di farsi assistere da un avvocato o da un consulente tecnico. Tale norma, però, è stata dichiarata illegittima dalla Corte di Cassazione, in quanto nel procedimento disciplinare a carico di esercente professione sanitaria, il diritto di difesa dell’incolpato, da assicurarsi anche nella fase amministrativa davanti alla competente Commissione ordinistica (fase preordinata e funzionalmente connessa a quella successiva di natura giurisdizionale) implica la facoltà di comparire ed essere ascoltato personalmente, ma anche quella di farsi assistere da un difensore o esperto di fiducia, sempre che venga avanzata istanza al riguardo. Chiusa la fase della trattazione orale, ed allontanato l’incolpato, la Commissione passa alla fase della decisione. Nel caso in cui si renda necessario svolgere il procedimento disciplinare in più sedute, non è consentita un’alternanza dei componenti; la decisione è considerata valida solo se viene assunta dall’organo collegiale di cui facciano parte gli stessi componenti presenti nelle varie fasi del procedimento. A conclusione del giudizio, viene assunta una deliberazione, la quale deve recare la data, l’indicazione degli addebiti, la motivazione ed il dispositivo. Particolare rilievo assume, ai fini della validità della decisione, la motivazione, nella quale devono porsi in raffronto le risultanze degli atti istruttori con le dichiarazioni rese dall’incolpato, in modo tale che il dispositivo risulti coerente con argomentazioni logico-giuridiche atte a suffragare il convincimento di colpevolezza dell’inquisito. Oltre alla deliberazione conclusiva del giudizio, deve essere redatto il verbale nel quale va riportato tutto quanto si è svolto nel corso del giudizio disciplinare. Riguardo alla deliberazione conclusiva del giudizio disciplinare, l’art. 47 del DPR 221/1950 prescrive che essa deve essere sottoscritta da tutti i componenti della Commissione che hanno preso parte alla seduta. Si deve in proposito prendere atto che tale norma regolamentare 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 57 è da ritenersi disapplicata a seguito del mutamento intervenuto nel quadro normativo-ordinamentale in cui opera il principio secondo cui le sentenze rese da un giudice collegiale – costituenti il paradigma al quale si è ispirato il citato art. 47 – devono essere sottoscritte soltanto dal Presidente e dall’estensore. La decisione è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici della segreteria a cura del Segretario, che provvede a notificarne copia all’interessato. Tali adempimenti sono di competenza del Segretario dell’Ordine, anche quando si tratti di decisione adottata dalla Commissione per gli iscritti all’albo degli Odontoiatri, e sarà il Presidente dell’Ordine a darne comunicazione alle autorità competenti. Peraltro, la pubblicazione della decisione comporta la possibilità, per gli iscritti, di prendere visione della medesima, in quanto essa assume anche carattere di orientamento deontologico esemplificativo. Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie in materia disciplinare La legge istitutiva dell’Ordine è ispirata alla concezione tradizionale del libero esercizio professionale e si riferisce essenzialmente all’attività medica che si esplica e si esaurisce nel rapporto diretto con il paziente-cliente; essa trascura, quindi, l’attività professionale esercitata, sia con rapporto giuridico di lavoro dipendente sia convenzionato, nell’ambito di un sistema di sicurezza sociale pubblico. Tuttavia il legislatore ha voluto coinvolgere l’Ordine, relativamente alle implicazioni di carattere deontologico-disciplinare, nella responsabilità della corretta applicazione degli accordi con i medici convenzionati col SSN, avuto riguardo ai comportamenti degli iscritti nell’ambito del rapporto convenzionale. Ne è un esempio l’art. 48 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, ove si prevede che gli Ordini e i Collegi professionali sono tenuti a valutare sotto il profilo deontologico i comportamenti degli iscritti agli albi professionali che si siano resi inadempienti agli obblighi convenzionali. Inoltre il terzo comma dell’art. 8 del DLgs 30 dicembre 1992 n. 502 ribadisce il medesimo principio con particolare riferimento ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta, precisando altresì che i ricorsi avverso le sanzioni comminate dagli Ordini e dai Collegi sono decisi dalla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie. Le disposizioni ora ricordate non sono state invece introdotte nell’art. 47 della legge n. 833/1978, a proposito della 58 Manuale della Professione Medica disciplina dei rapporti di pubblico impiego con le stesse strutture pubbliche. In questo caso, le sanzioni irrogate dall’Ordine hanno efficacia sull’attività liberoprofessionale, senza incidere sul rapporto di lavoro dipendente. Soltanto la radiazione, che consiste nell’espulsione dall’albo, comporta effetti sul rapporto di pubblico impiego, in quanto fa venir meno uno del requisiti prescritti per l’instaurazione e il mantenimento in vita del rapporto stesso. Art. 64 - Doveri di collaborazione Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine i titoli conseguiti utili al fine della compilazione e tenuta degli albi. Il medico che cambia di residenza, trasferisce in altra provincia la sua attività o modifica la sua condizione di esercizio o cessa di esercitare la professione, è tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio provinciale dell’Ordine. Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine eventuali infrazioni alle regole, al reciproco rispetto e alla corretta collaborazione tra colleghi e alla salvaguardia delle specifiche competenze che devono informare i rapporti della professione medica con le altre professioni sanitarie. Nell’ambito del procedimento disciplinare le mancate collaborazione e disponibilità del medico convocato dal Presidente della rispettiva Commissione di albo costituiscono esse stesse ulteriore elemento di valutazione a fini disciplinari. Il Presidente della rispettiva Commissione di albo, nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza deontologica, può convocare i colleghi esercenti la professione nella provincia stessa, sia in ambito pubblico che privato, anche se iscritti ad altro Ordine, informandone l’Ordine di appartenenza per le eventuali conseguenti valutazioni. Il medico eletto negli organi istituzionali dell’Ordine deve adempiere all’incarico con diligenza e imparzialità nell’interesse della collettività e osservare prudenza e riservatezza nell’espletamento dei propri compiti. Questo articolo detta norme riguardo ai rapporti tra Ordine e singolo iscritto. Di fatto, per dare maggior peso alla norma, inserisce regole pratiche sulla tempestiva comunicazione delle variazioni di status professionale degli iscritti. Il richiamo forte alla deontologia si ha nell’obbligo, contenuto nel terzo 1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 59 comma, alla segnalazione da parte del medico di possibili infrazioni disciplinari e, più che altro, nell’indicazione etica del dovere di collaborazione tra colleghi e alla salvaguardia delle rispettive competenze sia tra medici sia tra tutti i professionisti della sanità. Il medico che non collabora durante lo svolgimento di un procedimento disciplinare crea per sé un’aggravante o, comunque, un ulteriore elemento di valutazione disciplinare. Il Presidente può convocare anche iscritti ad altri Ordini che esercitino nella propria provincia, dandone notizia al Presidente dell’Ordine di iscrizione. Questa norma tenta di rimediare a una situazione spesso incresciosa: dal momento che la normativa comunitaria consente l’iscrizione nella provincia di residenza o in quella di esercizio professionale, capita di dover giudicare colleghi che operano in lontanissime province e che hanno mantenuto l’iscrizione nel comune di residenza. Questo pone il Consiglio nella condizione di non avere sufficiente conoscenza del contesto ai fini del giudizio disciplinare. La norma infine obbliga il medico eletto in Consiglio alla diligenza e all’imparzialità. Un’obbligazione ovvia, ma non per questo meno opportuna. 2 La responsabilità professionale S. Fucci Introduzione al tema della responsabilità professionale per malpratica Ciascuno è “responsabile” e si assume la “responsabilità” del lavoro che svolge nei diversi campi dell’agire umano. Volendo focalizzare il significato dei termini sopra indicati con riferimento all’attività medica potremmo affermare che un sanitario si comporta in modo responsabile quando si aggiorna continuamente al fine di acquisire le conoscenze tecniche e pratiche necessarie per effettuare il proprio lavoro professionale in modo corretto. In questo modo, infatti, consegue gli strumenti tecnici utili a salvaguardare gli interessi relativi al bene “salute” degli assistiti affidati alle proprie cure. Durante l’esercizio della professione può capitare abbastanza frequentemente di avere la sensazione del dejà-vu, cioè di potere incasellare subito una situazione di malessere denunziata da un paziente in uno schema mentale già predisposto. Questo comportamento rischia di far perdere al medico il senso critico rispetto alla specifica situazione in esame che, quindi, non viene valutata nella sua particolarità e nelle sue varie sfaccettature. Si può, quindi, affermare che un medico si comporta in modo “responsabile” se si interroga continuamente sul senso e sul significato del proprio lavoro, con la necessaria attenzione e con la prudenza utile ad evitare ogni automatismo decisorio in campo clinico, sottoponendo sempre a revisione critica le conclusioni raggiunte, soprattutto quando la diagnosi alternativa – esclusa in base ai primi rilievi – riguarda una ipotesi di malattia altamente rischiosa per l’ammalato. Per un medico essere responsabile, peraltro, significa anche essere consapevole della rilevanza – anche sul piano sociale – del lavoro che si svolge che ha 62 Manuale della Professione Medica riflessi non solo sulla salute del singolo, ma anche sul piano contabile, amministrativo e giuridico per l’intera collettività. Occorre, quindi, essere in grado di evitare di trovarsi in situazioni che possono configurare un conflitto di interessi e di rifiutare condizionamenti impropri di terzi diretti a sviare l’agire professionale dalle regole giuridiche generali e da quelle proprie della deontologia medica allo scopo di raggiungere profitti indebiti a scapito degli interessi degli assistiti e della comunità. Essere responsabili, infine, significa essere consapevoli di potere essere chiamati a rispondere del proprio operato sul piano etico e giuridico in senso lato e, quindi, dovere essere in grado non solo di dimostrare le ragioni del comportamento tenuto e la correttezza dello stesso rispetto alle regole dell’arte, ma anche, eventualmente, di risarcire i danni cagionati al paziente attraverso la propria attività di cura. Il tema della responsabilità per malpratica merita di essere approfondito in questa sede visto il notevole incremento di importanza che ha avuto la questione della responsabilità professionale anche sul piano strettamente giuridico, ma non solo. Basta leggere un qualsiasi quotidiano ovvero ascoltare un notiziario radiofonico o televisivo per sentire parlare, non sempre appropriatamente, di questioni attinenti la responsabilità professionale dei medici e degli altri professionisti della sanità. Le ragioni di tutto ciò sono numerose e non sempre sufficientemente indagate con adeguato spirito critico. In questa sede ci si può limitare ad osservare che i sanitari agiscono sul corpo degli individui che, nel tempo, sono sempre più attenti a verificare l’esito di questi interventi al fine di addebitare l’eventuale insuccesso al medico e/o alla struttura ove opera. La salute è, infatti, un bene che tutti vorrebbero preservare o migliorare e, quindi, ogni eventuale esito negativo delle cure, pur correttamente proposte e adeguatamente eseguite, viene sempre più spesso attribuito a comportamenti integranti malpratica. D’altra parte questo campo dell’agire dell’uomo muove anche enormi interessi economici che finiscono con l’influenzare l’attività di cura, ma anche le reazioni degli interessati. Si creano così aspettative sempre più forti di miglioramento della salute attraverso una medicina fondata sulla miracolosa e innovativa tecnologia, i cui supposti effetti positivi vengono poi amplificati dai mass media e dalla pubblicità. 2. La responsabilità professionale 63 Si tende, quindi, a spingere i pazienti a sottoporsi a cure non sempre appropriate e a sottovalutare l’incertezza propria dell’intervento medico sul corpo umano, le cui reazioni non sempre sono prevedibili. Le lamentele dei pazienti, supportate da consulenze medico-legali di parte non sempre adeguatamente critiche rispetto alle narrazioni dei malati, finiscono poi sulla scrivania dei sempre più numerosi avvocati (non esiste numero chiuso per questa professione protetta) che spesso le patrocinano nella convinzione di potere poi addebitare l’eventuale esito negativo del giudizio agli errori professionali dei giudici che, pertanto, nella fantasia dei malati, finiscono con il sommarsi a quelli dei sanitari. Fermo restando l’esigenza sempre più avvertita dalla migliore dottrina di non criminalizzare in modo eccessivo l’attività medico-chirurgica, rimane forte il richiamo ad un maggiore rispetto, da parte di tutti i soggetti coinvolti nel contenzioso, della propria deontologia professionale che individua nella salvaguardia dell’interesse dell’assistito ovvero del cliente lo scopo ultimo del lavoro svolto. Non sembra, infatti, che il problema dell’eccessivo contenzioso in campo sanitario, che spaventa anche le compagnie che assicurano questi rischi professionali, possa risolversi attraverso una depenalizzazione degli illeciti medici, come qualcuno spera e sostiene. L’opinione pubblica, invero, non accetterebbe una depenalizzazione non accompagnata da altri seri strumenti che assicurino comunque adeguata tutela ai pazienti effettivamente danneggiati dalle attività di cura svolte in modo improprio ovvero inadeguato. Né appare realmente disincentivante la nuova legge (DLgs n. 28 del 4/3/2010) che prevede come obbligatorio per le nuove cause civili un tentativo preventivo di conciliazione attraverso l’intervento di un organo terzo con funzioni di mediazione. Questo passaggio procedurale rischia, infatti, di rimanere solo rituale, se non accompagnato da adeguate strutture di supporto in grado di offrire agli interessati una tempestiva e professionale proposta di mediazione che costituisca una risposta seria e indipendente alla loro domanda di giustizia. D’altra parte non sembra che tutte le organizzazioni dei legali siano soddisfatte del testo emanato dal Parlamento, come si evince dalle numerose critiche al riguardo e richieste di rinvio dell’applicazione di questo tentativo obbligatorio di conciliazione. Occorre, pertanto, un recupero dell’etica professionale, non meno di quella 64 Manuale della Professione Medica pubblica, ma occorre innanzitutto una migliore organizzazione delle strutture sanitarie che devono sempre di più agire per prevenire i cosiddetti errori di sistema attraverso i loro reparti di risk managment. Occorre, inoltre, utilizzare gli errori realmente accertati e quelli che solo per un caso non hanno prodotto effetti negativi (near miss) quale strumento di conoscenza e di formazione per tutti i soggetti interessati, incentivando le segnalazioni anonime ad un organo terzo e indipendente anche dall’Autorità Giudiziaria. La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Definizione In questa sede viene esaminata la problematica inerente la responsabilità professionale penale del medico che, per colpa, cagiona all’assistito lesioni personali ovvero ne provoca la morte. Questi due reati sono previsti e puniti rispettivamente dall’art. 590 del Codice penale che, al primo comma, stabilisce che «chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino ad euro 309,00», con aumenti di pena sanciti dai successivi commi in relazione alla gravità delle lesioni, e dall’art. 589 cp che statuisce che «chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni». Come si evince anche dal testo sopra riportato si tratta di disposizioni che riguardano qualunque soggetto e, quindi, anche i medici nell’esercizio della loro attività professionale, mancando nel Codice penale una disciplina specifica al riguardo relativa ai sanitari. Mentre le lesioni colpose cagionate dal medico vengono valutate sul piano penale solo in presenza di una istanza di punizione (querela) proveniente dalla parte danneggiata, il delitto di omicidio colposo è sempre procedibile d’ufficio e, quindi, il relativo processo verrà iniziato a prescindere dalla volontà degli eredi del paziente deceduto. Per realizzare in concreto uno degli illeciti, penali, sopra menzionati occorrono tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una lesione personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esistenza di nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che quel determinato evento sia stato causato da quella condotta. L’area della responsabilità penale del medico può, quindi, essere più o meno 2. La responsabilità professionale 65 ampia a seconda della maggiore o minore rigidità nella definizione del concetto di colpa rilevante in questa sede ovvero nell’accertamento del nesso di causalità. È evidente, infatti, che se si ritenesse, come avvenuto in un passato ormai lontano, che in sede penale rilevano solo colpe assolutamente inescusabili per la loro gravità, l’area della responsabilità del medico verrebbe ristretta solo a questi casi e, quindi, sarebbe esclusa per tutti quei comportamenti integranti una colpa di lieve entità. In base al disposto dell’art. 43 del codice penale: «il delitto [...] è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia [colpa generica], ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline» [colpa specifica]. L’art. 43 del Codice penale detta, quindi, un ampia definizione di colpa senza alcun riferimento alla sua eventuale gravità ovvero al suo grado. In sede penale il grado della colpa rileva, pertanto, essenzialmente ai fini della determinazione della pena ex art. 133 Codice penale; il giudice, infatti, nell’irrogazione in concreto della pena deve tenere conto anche di quanto l’autore del reato si è discostato dalla misura della diligenza prescritta in base allo stato dell’arte e della normativa esistente. Secondo alcuni Autori nella valutazione della colpa medica occorre evitare un eccessiva penalizzazione dell’attività di cura che potrebbe avere la conseguenza di indurre i sanitari ad affrontare solo i casi meno complicati ovvero quelli nei quali è più difficile sbagliare. In realtà il rifiuto indebito degli interventi di maggiore difficoltà potrebbe a sua volta rilevare sul piano penale, quantomeno per i medici delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e i medici che operano in convenzione che assumono la qualifica di pubblici ufficiali per i quali è ipotizzabile il delitto di cui all’art. 328 cp (il delitto [...] è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voIl pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto che, per ragioni [...] di igiene o sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni»). Inoltre l’omissione ingiustificata di un intervento rischioso, ma indicato dallo stato dell’arte perché, ad esempio, risolutivo della patologia che affligge il paziente, potrebbe comunque rilevare sul piano penale qualora fosse possibile collegare in modo certo sul piano causale questo comportamento omissivo con l’evento negativo per la salute o la vita patito dall’interessato. 66 Manuale della Professione Medica Sul piano penale, invero, l’omissione della condotta doverosa perché imposta dall’ordinamento o da un obbligo assistenziale è parificata al comportamento attivo non corretto ex art. 40 cp («Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione. Non impedire un reato, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo»). È noto che in medicina conta molto l’appropriata valutazione ex ante del rapporto rischio (dell’intervento) - beneficio (atteso per il paziente in conseguenza dell’intervento stesso) e, quindi, dovrebbero comunque ritenersi dovuti quei trattamenti dai quali – se correttamente eseguiti – ci si può ragionevolmente aspettare un reale beneficio per l’assistito. Nella sentenza penale n. 20595/10 relativa ad una ipotesi di lesioni personali volontarie commesse, durante un incontro sportivo, da un calciatore in danno di un altro della squadra avversaria, la Cassazione, in motivazione, ha affrontato in linea generale il tema del rischio consentito in quelle attività, tra cui va inserita anche quella medica, che per la loro utilità sociale sono consentite dall’ordinamento, pur potendo essere giudicate pericolose intrinsecamente ovvero per le modalità di esercizio o per i mezzi adoperati. In quest’occasione la Corte ha precisato che queste attività devono essere svolte nel rispetto delle regole cautelari proprie dell’attività svolta – regole che di norma sono idonee a ridurre il margine di rischio, ma non ad eliminarlo – e che «la regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l’eventuale superamento del rischio consentito, superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore». Ha aggiunto, peraltro, la Corte che «rischio consentito non significa però esonero dall’obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente “consentito” per quella parte del rischio che non può essere eliminato». In definitiva, di norma, nelle “attività pericolose consentite”, rispetto alle attività comuni, «maggiore deve essere il livello di diligenza, prudenza e perizia nel precostituire le condizioni idonee a ridurre nei limiti del possibile il rischio ineliminabile». Sembra potersi concludere, in sostanza, che se un chirurgo esegua d’urgenza un intervento rischioso – ma indicato in quanto potenzialmente risolutore di una grave patologia – rispettando scrupolosamente le regole cautelari proprie della sua disciplina non potrà essere ritenuto in colpa anche se, in ipotesi, si realizzi quella parte del rischio che pur prevedibile non era prevenibile. 2. La responsabilità professionale 67 Questa conclusione appare ragionevole e conforme al pensiero espresso dalla Cassazione in questa sentenza che, tra le attività pericolose obbligatorie o necessitate cita l’attività medico chirurgica d’urgenza osservando, in linea generale, che in questi casi «avviene talvolta che la necessità improrogabile dell’intervento possa ridurre l’esigibilità dell’osservanza delle regole nei limiti di una valutazione comparativa (spesso da operare nell’immediatezza e, quindi, con un più ampio margine d’errore) tra costi e benefici». Questo passaggio, sia pure non specificamente riferito all’attività del medico, appare interessante perché sembra farsi carico del problema – tipico della medicina d’urgenza – di una decisione clinica da prendere nell’immediatezza e della conseguente maggiore possibilità di sbagliare quando si deve intervenire senza possibilità di dilazionare l’intervento, stante l’evidente gravità delle condizioni di salute del paziente. La giurisprudenza della Suprema Corte, quindi, pur escludendo l’applicabilità diretta in campo penale dell’art. 2236 del Codice civile (che, in via eccezionale, stabilisce che il professionista risponde solo per dolo o colpa grave qualora la sua prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà) si è fatta carico – in un certo senso – di questo problema laddove tende a rapportare il giudizio sulla colpa alla situazione reale in cui il medico si è trovato ad operare per verificare se era o meno esigibile un diversa e più appropriata condotta, soprattutto in quelle situazioni nelle quali occorre intervenire d’urgenza e, quindi, decidere cosa fare in un lasso di tempo molto ristretto perché le (gravi) condizioni del paziente non consentono ulteriori accertamenti. La reale difficoltà di una diagnosi ovvero di esecuzione di un intervento chirurgico, d’altra parte, andrebbe tenuta comunque in considerazione in sede penale per valutare se è possibile giudicare colposo in queste situazioni il comportamento tenuto dal medico. Il giudizio sulla correttezza professionale sul piano della diligenza tecnica del comportamento del sanitario non può, inoltre, non tenere conto del grado di specializzazione del medico in quanto diversa è l’abilità tecnica che si deve pretendere da un professionista eventualmente munito di specializzazione nel campo rispetto a quella che si può esigere da un medico non specializzato che si trovi ad operare d’urgenza in mancanza di un collega più esperto. Sul punto appare opportuno richiamare la sentenza n. 13942/08 della Cassazione penale relativa ad un caso nel quale una ostetrica si era trovata – in sostanza – nella necessità di assistere una partoriente durante un parto non 68 Manuale della Professione Medica eutocico in quanto i ginecologi, pur sollecitati, non avevano potuto intervenire perché già impegnati nell’assistenza ad altre donne partorienti. L’ostetrica era stata denunziata per lesioni colpose perché nel corso dell’assistenza aveva cagionato al neonato una paresi al braccio sinistro, di carattere irreversibile, dovuta ad un errata manovra di estrazione del feto e, ritenuta colpevole dal Tribunale, condannata in primo grado alla pena di tre mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede. L’esito del giudizio veniva ribaltato dalla Corte d’Appello che assolveva l’imputata con ampia formula dal reato ascritto ritenendo che la professionista – che non è abilitata dalla legge a prendere parti non fisiologici – avesse operato in una situazione di emergenza e nell’interesse della partorente e del nascituro, altrimenti a rischio di ipossia. La Suprema Corte, nel confermare l’assoluzione dell’ostetrica, ha affrontato il diverso e più interessante problema relativo alla condotta esigibile dalla predetta in presenza di una dilatazione ormai completa e del mancato intervento dei medici, pur richiesto, e alla sua eventuale rilevanza o meno sul piano della colpa per assunzione avendo agito in contrasto con le leges artis e compiuto un’attività che non poteva svolgere. Rileva la Cassazione che il problema dell’individuazione della condotta esigibile riguarda, nella “normalità” dei casi, le competenze specifiche di ciascun sanitario a qualunque livello operi e l’agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha previsto (e prevenuto) le evitabili conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione. Non può, invece, ravvisarsi alcuna colpa (nemmeno per assunzione) dell’agente (nella fattispecie in oggetto l’ostetrica) nel caso di attività specializzata svolta da chi non ha la necessaria specializzazione (nel caso di specie: ostetrica che compie manovre di competenza del ginecologo), se questi si trovi in condizioni di urgenza indifferibile e, quindi, deve agire pur senza avere la necessaria professionalità. Il richiamo in questa sentenza, da parte della Cassazione – alle competenze specifiche che ogni professionista specializzato in una determinata branca della medicina deve possedere sottolinea l’importanza, anche in campo penale, delle cosiddette regole dell’arte che dovrebbero costituire un patrimonio comune a ciascun operatore in un determinato settore. Queste regole sembrano porsi come regole cautelari laddove indicano criteri 2. La responsabilità professionale 69 tecnici e percorsi diagnostico-terapeutici diretti ad evitare danni al paziente e a raggiungere lo scopo di tutelare positivamente la salute dell’interessato attraverso una corretta assistenza. Di norma queste regole sono contenute in protocolli operativi ovvero in lineeguida che, con diversa forza cogente, costituiscono un importante ausilio per l’esercizio professionale in quanto siano state correttamente elaborate, accettate nella pratica e continuamente aggiornate per renderle sempre più idonee a fotografare quello che viene definito lo stato dell’arte. Va, peraltro, sottolineato che difficilmente una regola scientifica o statistica assume carattere incondizionato e integralmente applicabile al singolo caso senza passare attraverso il vaglio critico del medico che, quindi, si assume comunque la responsabilità della diagnosi formulata e della terapia proposta. La peculiarità di ogni singolo caso impone, infatti, all’operatore sanitario la costante verifica dell’esistenza, in concreto, delle condizioni per applicare o meno una determinata regola che è riferita ad un paziente astratto, non alla persona, eventualmente portatrice di una pluralità di patologie, che il curante si trova a dovere assistere. Il richiamo alla diretta responsabilità professionale e etica del medico nella prescrizione degli accertamenti diagnostici e delle conseguenti terapie è contenuto anche nell’art. 13 del vigente Codice deontologico del 2006 che, peraltro, impone ai sanitari di utilizzare nel loro lavoro acquisizioni scientifiche aggiornate e sperimentate e di adeguare le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle evidenze metodologicamente fondate. In quest’ottica il codice vieta l’utilizzo e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici «non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione», quasi a porre un argine anche alle situazioni incresciose vissute non molto tempo fa quando il mondo della sanità e, in particolare, quello dell’oncologia medica fu attraversato dal ciclone della multiterapia Di Bella così chiamata dal nome del medico che l’aveva creata. Sulla responsabilità personale del medico in merito alle scelte terapeutiche da lui operate, in presenza di altre opzioni curative astrattamente applicabili perché anch’esse indicate nelle linee-guida, è intervenuta di recente la Cassazione penale con la sentenza n. 10454/10 relativa ad un anestesista imputato di omicidio colposo. La Corte ha affermato che questo specialista era in colpa perché, a fronte di 70 Manuale della Professione Medica un imprevisto ed imprevedibile shock anafilattico conseguente ad una reazione allergica provocata dai farmaci utilizzati per procedere all’anestesia di una paziente da sottoporre ad un intervento chirurgico di colecistectomia, aveva proceduto inutilmente a tre tentativi di intubazione seguiti da altre procedure incongrue, invece di attivarsi tempestivamente per l’effettuazione dell’intervento risolutore costituito nella fattispecie dalla tracheotomia. Nella motivazione di questa decisione la Suprema Corte, nel rigettare la tesi difensiva dell’anestesista che aveva sostenuto di essersi comportato in conformità alle linee-guida applicabili alla fattispecie, ha osservato che la situazione di emergenza conseguente allo shock anafilattico imponeva di eseguire la tracheotomia, l’unica scelta che in concreto si rendeva chiaramente risolutiva per contrastare l’ipossia, precisando che le astratte e alternative indicazioni delle lineeguida devono, infatti, essere correttamente valutate rispetto alla situazione da fronteggiare, non potendo essere messe tutte sullo stesso piano quando una sola è idonea nel caso concreto a risolvere una pericolosa patologia. La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Casistica Nella casistica giudiziaria tra i profili di colpa più frequentemente rilevati e accertati emerge la sottovalutazione di elementi che avrebbero dovuto indurre il curante a svolgere accertamenti diagnostici più approfonditi, idonei ad effettuare una diagnosi corretta. Dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione penale sembra emergere – sia pure non sempre in modo esplicito – l’invito ai sanitari a coltivare una cultura del dubbio tale da evitare di dare per acquisite certezze in situazioni che, invece, meritano ancora di essere indagate in presenza di elementi di sospetto. Al riguardo è intervenuta, di recente, la quarta sezione penale della Cassazione, che, nella sentenza n. 10452/10, ha ritenuto “colposo” il comportamento di un medico di famiglia che sottovalutando la sintomatologia dolorosa presentata da una paziente (persistenti dolori addominali, gonfiore al fegato e scariche di feci), il rischio connesso all’età (68 anni) e quello derivante dall’anamnesi familiare, ha omesso per lungo tempo di svolgere accertamenti diagnostici più approfonditi, idonei a accertare tempestivamente l’esistente patologia tumorale (neoplasia al colon) così ritardando la conseguente terapia chirurgica. 2. La responsabilità professionale 71 Anche nella sentenza penale n. 2474/10 la Cassazione afferma che è in colpa il medico ospedaliero che, omettendo di effettuare dovuti esami clinici, dimetta con la diagnosi errata di gastrite un paziente affetto da patologia tumorale. In questo caso il sanitario è stato ritenuto responsabile del delitto di lesioni personali colpose in quanto, in seguito all’errata diagnosi, ha prolungato per un tempo significativo le alterazioni funzionali riscontrate (nella specie, vomito, acuti dolori gastrici ed intestinali) e lo stato di complessiva sofferenza, di natura fisica e morale, in cui versava il paziente, così favorendo un processo patologico che, se tempestivamente curato, sarebbe stato evitato o almeno contenuto. Nella sentenza penale n. 13070/10 la Cassazione ritorna sul tema della colpa medica per negligenza e imperizia ritenendo colposo il comportamento di un chirurgo che non compiendo una accurata e approfondita anamnesi familiare di un malato – che avrebbe evidenziato importanti elementi di familiarità con la neoplasia da cui poi il paziente era risultato affetto e determinato l’esecuzione di utili accertamenti clinici (rettocolonscopia) – e omettendo l’esecuzione di una colonscopia, pur insistentemente richiesta dallo stesso paziente, cagionava al predetto lesioni colpose per il ritardo nella diagnosi e nella cura della malattia. In questa sentenza la Cassazione ha evidenziato che la mancata annotazione nella cartella clinica dei dati dei familiari affetti dal carcinoma al colon ovvero da poliposi avvalorava la circostanza addebitata al chirurgo circa l’esecuzione in modo superficiale dell’anamnesi familiare. Emerge, quindi, anche da questa decisione l’importanza non solo dell’esecuzione di determinate attività mediche ma anche della loro regolare annotazione nella documentazione clinica onde provare l’effettività della loro esecuzione. In linea generale si può osservare che se le condizioni del paziente sono puntualmente riportate nella relativa documentazione sanitaria e se le ragioni delle scelte di cura sono adeguatamente motivate sul piano tecnico, sarà più facile per il medico dimostrare la situazione clinica in cui versava il paziente e fornire elementi idonei a ricostruire a distanza di tempo il proprio comportamento di cura. Ecco perché, da più parti, si sottolinea come la puntuale tenuta della documentazione sanitaria può costituire un utile strumento di difesa del medico chiamato a rispondere in sede giudiziaria del suo operato, talvolta a notevole distanza di tempo da quando ha agito. 72 Manuale della Professione Medica Ciò vale anche in sede penale perché, se è vero che nel giudizio penale è l’accusa a dovere dimostrare la fondatezza della propria tesi circa la colpevolezza dell’imputato, i periti nominati dal Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari ovvero dal giudice nel corso del giudizio saranno chiamati a dare il loro giudizio tecnico sull’esistenza di un eventuale profilo di colpa anche sulla base degli elementi risultanti dalla cartella clinica e dall’altra documentazione sanitaria esistente che viene, di norma, acquisita alla procedura. L’accurata tenuta della cartella clinica non costituisce, quindi, solo un dovere deontologico alla luce del disposto dell’art. 26 del Codice di Deontologia del 2006, ma anche un indice della correttezza dell’assistenza prestata, qualora venga redatta con chiarezza, puntualità e diligenza e contenga le necessarie informazioni. Nella casistica giudiziaria emergono anche profili di colpa per omessa diagnosi di patologia emergente dagli esami clinici effettuati ovvero per la sottovalutazione delle possibili complicanze di una condotta terapeutica. Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto colposo il comportamento di un sanitario in servizio presso la divisione di medicina di un nosocomio che – pur in possesso dei referti ecografici che attestavano una situazione di anomalia della colecisti (stante l’ispessimento della parete della colecisti e la sua anomala morfologia) e in presenza di un dolore persistente, di leucocitosi, di vomito e della sostanziale inefficacia della terapia antibiotica attivata in precedenza – aveva omesso di diagnosticare tempestivamente la patologia colecistica che affliggeva la paziente. Nella sentenza penale n. 35307/08 la Cassazione ha, invece, ritenuto colposo il comportamento di un ortopedico che aveva ridotto la frattura scomposta del quarto distale radio destro riportata da una minorenne in conseguenza di una caduta a mano tesa e aveva poi applicato alla piccola paziente un apparecchio gessato braccio-manuale in presenza di edema e tumefazione nella regione del braccio interessata alla frattura, sottovalutando le probabili complicanze vascolari derivanti dalla sua condotta diagnostica e terapeutica e omettendo di rimuovere tempestivamente l’apparecchio gessato, così cagionando alla paziente un indebolimento dell’organo della prensione e una deformazione dell’arto superiore destro. Nella sentenza penale n. 30804/08 la Cassazione ha ravvisato profili di colpa a carico del medico di un reparto di ginecologia che aveva omesso di 2. La responsabilità professionale 73 prescrivere la necessaria terapia a base di eparina calcica – utile a prevenire l’insorgenza di trombosi – ad una paziente sottoposta ad un intervento di isterectomia che aveva manifestato già dal giorno successivo all’operazione fastidi all’arto inferiore sinistro. Dalla casistica giudiziaria emergono a carico dei sanitari ulteriori profili di colpa per avere omesso l’emanazione di specifiche direttive agli infermieri di reparto in modo da prevenire adeguatamente situazioni di rischio per i pazienti ivi ricoverati. In questo senso è la decisione n. 48292/08 della Cassazione penale che ha ritenuto colposo il comportamento dei medici psichiatri operanti in un nosocomio che avevano omesso di informare il personale infermieristico del forte rischio di gesti autolesivi e di emanare disposizioni sul divieto di uscita dal reparto, senza accompagnamento, in relazione a un paziente – affetto da un disturbo depressivo maggiore – ricoverato nel reparto psichiatrico ove aveva già tentato di suicidarsi, ragione per la quale era stata aumentata la dose della terapia farmacologica in atto, non ancora, peraltro, in grado di produrre un risultato efficace. La Suprema Corte ha, inoltre, avuto modo di occuparsi del rapporto tra colpa del medico che interviene per primo e il cosiddetto principio di affidamento nel corretto svolgimento dell’attività specialistica di competenza di altri sanitari cui i paziente viene poi indirizzato. Nella sentenza penale n. 43958/09 la Cassazione ha osservato che il principio di affidamento nel corretto espletamento dell’attività medica specialistica di competenza di altri professionisti non è invocabile dal sanitario che a sua volta non osservi le regole precauzionali, specifiche o comuni, inerenti l’assistenza da lui prestata. Il caso giudicato dalla Suprema Corte riguarda un medico del Pronto Soccorso di un nosocomio che, pur nell’impossibilità di accertare in modo definitivo la situazione clinica di un paziente caduto da una pianta – stante l’impossibilità di effettuare tutti gli accertamenti radiologici in distretti rilevanti della colonna dorsale e cervicale – lo ha dimesso senza adottare le necessarie precauzioni atte ad evitare che potessero avere inizio fenomeni di scivolamento dei metameri, con conseguente compromissione midollare. Questo comportamento è stato giudicato colposo proprio per l’omissione delle indicate precauzioni e la Cassazione ha ritenuto non applicabile nella fattispecie il principio di affidamento invocato dal medico del Pronto Soccorso perché chi agisce non correttamente non può poi fare affidamento sul fatto che 74 Manuale della Professione Medica altri (in questo caso l’ortopedico cui era stato indirizzato il paziente) mettano in atto tutti i presidi necessari per salvaguardare la salute del paziente visitato. La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità. Definizione e casistica Nei paragrafi precedenti è stato sottolineato che il medico può essere ritenuto colpevole del reato di lesioni personali colpose previsto dall’art. 590 del codice penale ovvero del delitto di omicidio colposo di cui all’art. 589 cp in presenza di tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una lesione personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esistenza di nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che quel determinato evento sia stato causato da quella condotta. In questa sede verrà approfondito il tema del nesso di causalità che, nei processi, è oggetto di accese discussioni tra i medici legali consulenti dell’accusa e della difesa perché il mancato accertamento dell’esistenza di questo elemento deve comportare, da parte dei giudici, l’assoluzione del sanitario incolpato. I consulenti della difesa tenderanno, di norma, ad escludere che l’evento lesivo rilevante in sede penale (lesioni o morte in danno dell’assistito) si è verificato a causa del comportamento del medico incolpato, sostenendo in linea generale l’erroneità delle conclusioni sul punto del perito nominato dal Pubblico Ministero e, in particolare, l’irrilevanza causale del comportamento incriminato essendo intervenute cause, non prevedibili ovvero non prevenibili, idonee a realizzare l’evento predetto in via autonoma. La modalità più o meno rigorosa dell’accertamento del nesso di causalità incide evidentemente sulla possibilità o meno di sanzionare in sede penale un comportamento colposo tenuto dal medico, produttivo, in ipotesi, di una lesione penalmente rilevante. Nel corso degli anni vi è stato un andamento oscillante della giurisprudenza sul punto perché in alcune sentenze si è ritenuto sussistente il nesso di causalità tra il comportamento del medico e l’evento negativo per il paziente sulla base di elementi non sempre puntuali e tali da fornire certezze, quantomeno processuali. Ciò è avvenuto quando si è ritenuto sussistente il nesso di causalità, ad esempio, sulla base di semplici dati statistici sull’astratta idoneità del corretto 2. La responsabilità professionale 75 comportamento terapeutico omesso di evitare le lesioni o la morte del paziente. Si è obiettato, rispetto a questa tendenza poco garantista, che il valore del bene in gioco in sede penale (la libertà personale dell’imputato) richiede un accertamento della responsabilità sulla base di elementi idonei a fornire una certezza assoluta al riguardo, restando altrimenti aperta per il paziente danneggiato la strada del risarcimento del danno in sede civile. È evidente che la prima tendenza giurisprudenziale, motivata probabilmente anche da fattori extragiuridici (valore della vita umana), ha finito con l’allargare l’area della responsabilità medica, mentre il secondo filone interpretativo lo ha ristretto eccessivamente laddove ha richiesto una certezza assoluta del nesso di causalità di non agevole accertamento nel campo della medicina dove non tutti gli effetti sono sempre riconducibili con certezza sul piano biologico ad una determinata condotta, attiva o omissiva e dove non sempre tutte le cause sono individuabili in modo preciso. Sul punto, visto il perdurante contrasto in seno alle stesse sezioni della Suprema Corte, sono intervenute le Sezioni Unite Penali della Cassazione con la famosa sentenza Franzese, n. 30328/02, che ha cercato di ricondurre il tema dell’accertamento del nesso di causalità alle evidenze emerse nel corso del processo, con l’invito ai giudici di merito di indagarle con particolare attenzione per verificarne la rilevanza sul piano probatorio di questo elemento fondamentale e, quindi, per valutarne la loro idoneità a fornire la prova processuale dell’esistenza o meno del nesso in oggetto. In sostanza per le Sezioni Unite non si tratta di verificare la certezza assoluta del nesso, ma, in presenza di una condotta idonea (anche come causa concorrente) a cagionare le lesioni patite dal paziente o la sua morte, di verificare, alla luce degli elementi forniti dalla difesa, se vi sono fondate spiegazioni alternative idonee ad escludere la responsabilità dell’imputato in quanto, in ipotesi, l’evento incriminato è stato prodotto da altra diversa causa non contrastabile, idonea da sola a realizzarlo. Il nesso di causalità deve essere escluso, altresì, quando la morte dell’assistito non sarebbe stata evitata (o significativamente ritardata) anche se si fosse tempestivamente realizzata la condotta terapeutica contestata come ingiustamente omessa o ritardata, stante l’estrema gravità delle condizioni cliniche dell’ammalato. Questa importante decisione – che indubbiamente ha un contenuto più garantista per il medico rispetto a precedenti decisioni della stessa Corte –ha 76 Manuale della Professione Medica stabilito, in particolare, che il nesso di causalità non può essere accertato esclusivamente in base ad un astratto criterio probabilistico fondato su leggi scientifiche o su massime di esperienza, ma occorre un serio esame di tutti gli elementi della fattispecie per giungere ad un giudizio di certezza processuale fondato su una motivazione razionalmente credibile, che escluda diverse attendibili spiegazioni alternative. Sulla congruità e sulla razionalità della motivazione dell’esistenza o dell’inesistenza del nesso come accertato dai giudici di merito opererà poi il controllo di legittimità della Suprema Corte. In mancanza di questa certezza processuale perché, ad esempio, sussistono ragionevoli dubbi sulla reale efficacia condizionante della condotta sanitaria incriminata rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, il giudice deve procedere all’assoluzione del professionista imputato. Applicando questo principio la Corte di Cassazione, con sentenza penale n. 19334/07, in riforma della decisione della competente Corte d’Appello di Brescia, ha assolto i medici imputati di omicidio colposo in danno di un paziente, deceduto per «acuta insufficienza cardiocircolatoria in soggetto in stato di shock emorragico» ritenendo che la condotta colposa loro contestata – mancata esecuzione dei controlli clinici (seconda ecografia) necessari per diagnosticare la progressiva lenta emorragia in atto – pur avendo ritardato il necessario intervento chirurgico d’urgenza non aveva con certezza prodotto l’exitus dell’ammalato, essendo comunque limitate le possibilità di successo anche di una più tempestiva terapia chirurgica. In sostanza, quindi, è irrilevante l’errore medico se manca la certezza processuale sull’idoneità della condotta terapeutica omessa di evitare o ritardare sensibilmente, con elevato grado di credibilità razionale, il decesso del paziente. L’impatto della sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite Penali sulla giurisprudenza di merito è stato notevole, anche se capita ancora di leggere delle sentenze di merito che richiamano i principi espressi autorevolmente dalla Cassazione applicandoli poi in modo non sempre puntuale. Come sempre avviene l’interpretazione del contenuto dei principi generali espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte non è stata omogenea anche all’interno della stessa quarta sezione della Cassazione, cioè di quella sezione che si occupa prevalentemente di responsabilità professionale medica. Una attenta esegesi della sentenza “Franzese” è contenuta nella più recente sentenza penale n. 17523/08 della quarta sezione della Cassazione che ha 2. La responsabilità professionale 77 cercato di fare il punto in relazione al valore e al contenuto dei principi espressi dalle Sezioni Unite. Quest’ultima decisione ritiene che la portata della decisione delle Sezioni Unite n. 30328-02 «oggetto di differenti letture da parte della dottrina ed all’interno della quarta sezione», secondo la dottrina più convincente «non è da rinvenire nell’affermazione della perdurante validità della teoria condizionalistica e della necessità di procedere al giudizio controfattuale, non poste mai in dubbio, ma nel fatto che il nesso di causalità non può essere accertato con criteri di valutazione diversi da quelli utilizzati per gli altri elementi costitutivi del reato, sostenendo un’argomentazione ovvia, ma, non pacifica in tema di colpa professionale, in cui si faceva riferimento a criteri metagiuridici quali ad esempio il valore della vita umana». Quindi il nesso di causalità deve essere accertato in modo corretto e puntuale così come tutti gli elementi necessari della fattispecie delittuosa in esame. Aggiunge questa ultima decisione che le Sezioni Unite hanno richiamato anche «un principio lampante, secondo cui per pronunciare una condanna sono necessarie le prove, che possono essere anche indiziarie e logiche, ed introducendo il criterio della probabilità logica rispetto a quella statistica in modo da ridimensionare “in modo equilibrato” quella teoria seguita da autorevole voce dottrinale della certezza e della probabilità prossima ad uno e l’altra della probabilità statistica e delle serie ed apprezzabili probabilità di successo». Sono parole forti perché richiamano l’ovvia necessità di non condannare l’incolpato in mancanza di valide prove che, peraltro, possono essere anche indiziarie e logiche come in tutti i processi e perché sottolineano la soluzione equilibrata offerta dalle Sezioni Unite laddove introducendo il criterio della probabilità logica (perché in grado di resistere alle argomentazioni contrarie) prendono le distanze sia dall’uso indiscriminato della cosiddetta probabilità statistica sia da quella teoria eccessivamente garantista che richiede la certezza assoluta nella verifica del nesso di causalità. Precisa, ancora, questa decisione, usando un tono didascalico, che: «Il giudice deve quindi abbandonare l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esistenza del rapporto di causalità da una legge scientifica (anche se a carattere universale) che riproduca in laboratorio la sua ipotesi di ricostruzione dell’evento e dovrà fare ricorso, sempre, alla ricerca induttiva, verificando l’applicabilità delle leggi scientifiche eventualmente esistenti alle caratteristiche del caso concreto portato al suo esame; tenendo in considerazione tutti gli specifici fattori presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razionale, secondo i criteri di valutazione della prova previsti per tutti gli elementi costitutivi del reato». 78 Manuale della Professione Medica Non sono ammesse, quindi, scorciatoie nell’accertamento del nesso attraverso l’uso delle cosiddette leggi scientifiche la cui idoneità a spiegare le cause dell’evento deve essere verificata nel caso concreto alla luce delle sue specifiche caratteristiche e anche degli altri fattori presenti. Aggiunge, infine, la Corte che «non deve chiedersi al giudice di spiegare l’intero meccanismo dell’evento; il nesso di condizionamento deve ritenersi infatti provato non solo (caso assai improbabile) quando venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all’evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative: e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici». In questo passaggio la Suprema Corte sembra riaffermare che, in base al testo degli artt. 40 e 41 del Codice penale (quest’ultima norma, tra l’altro, stabilisce che «Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento») è sufficiente, per l’accertamento del nesso, che la condotta colposa del medico abbia contribuito al verificarsi dell’evento, sempre che non sia provata in modo attendibile l’esistenza di un diverso (e talvolta autonomo) meccanismo causale, non contrastabile, da solo idoneo a realizzare l’evento. Questo passaggio della motivazione diventa più comprensibile se si ricorda che nella fattispecie esaminata a suo tempo dalle Sezioni Unite si trattava di omessi e ritardati accertamenti clinici, la cui tempestiva adozione avrebbe fatto verificare l’evento negativo per il paziente in tempi significativamente più lontani ovvero avrebbe rallentato o escluso i tempi di latenza di una malattia, anche se provocata da altre cause, neppure accertate e, comunque, non ricollegabili sul piano dell’eziologia alla condotta omessa. Il nesso di causalità rileva, quindi, sul piano giuridico non solo quando la condotta terapeutica colposamente omessa era idonea a sconfiggere la malattia, ma anche quando poteva ritardarne significativamente la negativa evoluzione. Il contributo della dottrina medico-legale nell’accertamento del nesso di causalità e l’importanza del lavoro svolto dai periti d’ufficio e di parte emerge da numerose sentenze della Suprema Corte. Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto che 2. La responsabilità professionale 79 la decisione d’appello impugnata aveva giustamente accertato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e attendista tenuta da un medico «nel formulare una diagnosi corretta e nel richiedere una consulenza chirurgica ed eventualmente una laparoscopia esplorativa» e la morte della paziente, dato che, secondo i consulenti dell’accusa, l’ammalata si sarebbe potuta salvare «con alto grado di probabilità logica» se si fosse intervenuti tempestivamente sull’esistente patologia della colecisti. Ecco perché per il medico incolpato è utile farsi assistere sin dalle prime fasi delle indagini non solo da un avvocato, ma anche da un perito di parte specialista in medicina legale che, coadiuvato dallo specialista nella branca interessata, sia in grado di evidenziare le eventuali lacune ovvero le contraddizioni contenute nella relazione del perito d’ufficio. Trattandosi, invero, di una materia nella quale spesso sorgono problemi di interpretazione sul piano tecnico della condotta tenuta dal medico imputato, l’opportunità di un ausilio tecnico di parte è evidente perché è utile a corroborare le tesi che la difesa legale poi supporterà sul piano giuridico. Quid iuris nel caso, invero frequente, di presenza agli atti del giudizio di perizie contrastanti su temi rilevanti quali la colpa medica e il nesso di causalità? Sul punto è intervenuta di recente la quarta sezione della Suprema Corte che, nella sentenza penale n. 23942/10, ha escluso che il Giudice d’appello possa respingere l’esistenza dei profili di colpa e del nesso di causalità accertati dal giudice di primo grado attraverso il semplice richiamo al «lacerante e palese contrasto di valutazioni tecniche» tra le conclusioni sul punto dei consulenti delle parti e dei consulenti d’ufficio. Ha precisato, inoltre, la Cassazione che, fermo restando l’obbligo di puntuale motivazione sulle ragioni per le quali in appello non si ritengono condivisibili le conclusioni del primo giudice, in ogni caso il giudicante «quando presceglie una tesi scientifica deve motivare le ragioni per le quali la preferisce ad altre, pur poste alla sua attenzione». Ha aggiunto, ancora, la Corte che il giudice ha piena libertà di apprezzamento anche delle risultanze della perizia d’ufficio, libertà che è, però, temperata dall’obbligo di puntuale motivazione del proprio dissenso in modo da dimostrare di essersi soffermato sulla tesi scientifica che ha poi ritenuto di non accogliere. In questo caso non è necessario nominare un nuovo perito d’ufficio perché il giudice per disattendere l’elaborato del perito da lui nominato può avvalersi degli esiti della consulenza di parte, qualora la ritenga condivisibile. 80 Manuale della Professione Medica Sul tema della causa sopravvenuta eccezionale e imprevedibile ovvero dei fattori causali alternativi idonei da soli a produrre l’evento lesivo – con conseguente eliminazione del rapporto causale ipotizzato dall’accusa con la condotta colposa del medico – appare opportuno richiamare la sentenza penale n. 840/08 della Suprema Corte, avente ad oggetto il ricorso di un neurologo condannato per omicidio colposo per avere sottovalutato gli effetti del sovradosaggio dei principi attivi dei farmaci utilizzati per la cura di una paziente affetta da una sindrome depressiva. Il neurologo si era difeso sostenendo che l’intossicazione poteva essere stata provocata da un’ingestione per via orale – volontaria o casuale – da parte della paziente di un farmaco contenente il principio attivo clormipramina che, invece, doveva essere somministrato per via parenterale. La Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano correttamente escluso l’esistenza di questa causa alternativa e autonoma – idonea, qualora sussistente ad escludere il contestato nesso di causalità – sulla scorta delle conclusioni dei periti d’ufficio che avevano correttamente evidenziato, tra l’altro, un progressivo aggravamento della situazione patologica della paziente nell’arco di un paio di settimane in seguito all’accumulo nel corso del tempo dei pericolosi principi attivi contenuti nei farmaci utilizzati nella terapia, idonei a produrre l’evento letale. Secondo i giudici della Cassazione, a fronte dell’esistenza di un’ipotesi alternativa e plausibile nella ricostruzione del nesso di causalità è sempre consentito al giudice di merito di escludere tale ipotesi non solo in base ad una dichiarata e motivata maggiore affidabilità dell’ipotesi accusatoria formulata, ma anche tenendo conto delle evidenze probatorie esistenti nel processo che consentano di negare, in termini di elevata credibilità razionale, l’ipotesi alternativa allegata dall’imputato. Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause. La responsabilità penale nel lavoro in équipe Nell’odierna attività di cura il paziente viene assistito di norma da più professionisti che possono prestare la loro opera in un unico contesto di luogo e di tempo (ad esempio, sala operatoria) oppure in tempi successivi (e talvolta luoghi diversi), collaborando tra di loro (ad esempio, assistenza in corsia orga- 2. La responsabilità professionale 81 nizzata per turni svolti da diversi medici che, poi, nel dimettere l’assistito lo indirizzano per il prosieguo dell’assistenza al loro medico di fiducia). Queste forme di collaborazione – sincronica o diacronica – si fondano sul principio etico e giuridico della responsabilità personale – ciascuno nel proprio lavoro deve rispettare le regole dell’arte e risponde della loro violazione – e su quello dell’affidamento – ciascuno, in linea di principio, confida sul fatto che gli altri rispettino le regole cautelari proprie della loro disciplina. Il principio di affidamento, peraltro, non può essere correttamente invocato in presenza di evidenti circostanze che costituiscono concreti e rilevabili indizi di un comportamento altrui non rispettoso delle generali regole cautelari proprie della medicina, tale da creare un serio rischio per la salute del paziente. In queste situazioni, chi è presente nel momento in cui viene tenuta la condotta incongrua, cui è possibile porre rimedio stante il suo carattere di manifesta violazione delle regole dell’arte, deve intervenire per rimediare all’errore del collega, altrimenti ne risponde a titolo di concorso. Lo stesso comportamento deve essere tenuto da chi interviene successivamente nell’assistenza al malato e rileva (o è in grado di rilevare) l’errore, con le caratteristiche sopra evidenziate, commesso in precedenza. Il principio di affidamento, ancora, non può essere correttamente invocato qualora vi sia un soggetto (il dirigente di un reparto ovvero il c.d. capo-équipe) che, per la sua posizione gerarchica e/o funzionale, abbia l’obbligo giuridico di coordinare e controllare l’operato dei suoi collaboratori, verificandone la rispondenza alle generali regole cautelari dell’arte medica (in caso di cooperazione nell’intervento da parte di più specialisti di branche diverse, ciascuno, di norma, risponderà solo del mancato rispetto delle regole del settore di appartenenza, per rispettare il principio del carattere “ersonale della responsabilità penale sancito dall’art. 27 della Costituzione). La giurisprudenza della Suprema Corte ha affrontato più volte il tema della responsabilità nel lavoro svolto in équipe da più sanitari nell’ambito della sala operatoria ovvero nella collaborazione professionale realizzatasi in tempi diversi. Partendo dal principio secondo il quale la posizione di garanzia assunta da ciascun sanitario impone a colui che assiste un paziente, affidato anche alle cure specialistiche di altri medici, di salvaguardare comunque la salute dell’interessato operando in conformità alle regole dell’arte che dettano principi idonei ad evitare l’aggravamento dei sintomi inizialmente riscontrati, la Suprema Corte ha finito, di norma, con l’affermare la responsabilità concorsuale di ciascuno 82 Manuale della Professione Medica degli operatori, coinvolti nell’assistenza, che hanno tenuto un comportamento colposo idoneo a cagionare l’evento negativo, proprio perché non è stato ritenuto legittimo invocare il “principio dell’affidamento” da parte di coloro cui era addebitabile una colpa di carattere personale. D’altra parte, in applicazione del principio di equivalenza delle cause, la responsabilità in questi casi è concorsuale, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità ed imprevedibilità, tali da elidere ogni precedente contributo causale, come statuito dall’art. 41 del Codice penale. Nella sentenza penale n. 21594/07, ad esempio, la Cassazione ha confermato la responsabilità concorsuale per lesioni colpose gravissime del chirurgo capo-équipe – allontanatosi dalla sala operatoria dopo avere autorizzato l’anestesista a procedere all’anestesia di tipo spinale sul malato – nel grave errore commesso dagli specializzandi che, nel portare a termine da soli l’intervento di ernia inguinale, avevano reciso l’arteria epigastrica omettendo poi di suturarla, con conseguente compressione del testicolo per l’imponente fenomeno emorragico e danno atrofico della gonade. In questo caso il profilo di colpa a carico del capo-équipe è stato individuato nel mancato controllo del lavoro svolto dagli specializzandi che possono operare solo in presenza del loro tutor che deve potere sorvegliare l’esecuzione dell’intervento e correggere gli eventuali errori commessi dai sanitari in formazione. La Suprema Corte ha precisato che nell’ipotesi in cui il chirurgo capo-équipe sia costretto ad allontanarsi dalla sala operatoria per assistere altri pazienti o per altri giustificati motivi occorre differire l’atto operatorio, oppure sollecitare la sua sostituzione o, infine, adottare altre misure idonee ad evitare che il paziente rimanga affidato esclusivamente alle cure degli specializzandi che possono operare solo sotto la guida del loro tutor proprio perché non hanno ancora completamente acquisito le cognizioni tecniche e l’esperienza necessaria per lavorare in autonomia. Il loro errore non può, quindi, essere considerato imprevedibile da chi ha la funzione di tutor. Nella sentenza penale n. 19755-09, invece, la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello che aveva dichiarato prescritto il delitto di omicidio colposo contestato a sei medici di un reparto di neurochirurgia di un ospedale per non avere diagnosticato tempestivamente la sindrome di Lyell ad una paziente 2. La responsabilità professionale 83 ivi ricoverata per un meningioma, rilevando l’assoluta carenza di motivazione in relazione all’individuazione delle singole condotte criminose, con particolare riferimento al ruolo che ciascun sanitario aveva avuto nell’assistenza alla paziente e nella produzione dell’evento mortale. La Suprema Corte ha sottolineato che, anche quando si lavora in équipe, occorre sempre esaminare e individuare il ruolo specifico svolto da ciascuno degli imputati nell’assistenza e nelle cure prestate alla paziente, soprattutto quando l’omessa diagnosi riguarda una patologia specialistica non correlata a quella (meningioma) per la quale la paziente era stata ricoverata. La puntuale verifica da parte del giudice dei comportamenti tenuti dai singoli soggetti, infatti, deve essere particolarmente attenta nelle ipotesi di lavoro in équipe e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica anche se svolta non contestualmente, cioè in tutti i casi in cui alla cura del paziente concorrono sanitari diversi. È necessario, invero, contemperare il principio di affidamento, in forza del quale il medico titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente può andare esente da responsabilità quando la verificazione dell’evento dannoso può essere ricondotta al comportamento esclusivo di un altro sanitario, contitolare della predetta posizione, sulla cui correttezza nella prestazione professionale il primo abbia fatto legittimo affidamento, con l’obbligo di garanzia verso il paziente che è a carico di tutti gli operatori che contestualmente ovvero successivamente intervengono nella cura del malato. Proprio il principio di affidamento, infatti, secondo la Cassazione, consente di confinare l’obbligo di diligenza che è a carico di ciascun sanitario entro limiti compatibili con l’esigenza del carattere necessariamente personale della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 della Costituzione, che esclude la possibilità di configurare una responsabilità di gruppo, indipendentemente dall’esame della rilevanza causale di ciascuna condotta nella determinazione dell’evento dannoso per il paziente. Nella sentenza penale n. 1866/09, infine, la Cassazione, dopo avere ribadito che l’instaurazione della relazione terapeutica comporta l’assunzione – da parte del medico che assume la veste di curante – dell’obbligo di agire a tutela della salute e della vita dell’assistito, ha giustamente affermato che questo obbligo non può avere una dimensione irrealistica e una estensione illimitata, tale da comportare anche il dovere di porre in essere prestazioni professionali non dovute, non possibili ovvero radicalmente estranee all’ambito dell’obbligazione di cura assunta. 84 Manuale della Professione Medica La posizione di garanzia, infatti, come ogni posizione giuridica soggettiva, riveste in ciascuna fattispecie concreta una specifica dimensione che deve essere preliminarmente definita dal giudice al fine di individuare le condotte esigibili da ciascun operatore, sia in relazione alla propria sfera di competenza specialistica e professionale, sia per il ruolo esercitato in concreto all’interno dell’organizzazione della struttura sanitaria. La Suprema Corte, pertanto, ha stabilito che non è corretto desumere l’esistenza di una responsabilità penale per omicidio colposo di un medico di guardia all’interno di una casa circondariale solo dall’omesso controllo da parte sua dell’effettiva esecuzione di un’indagine clinica prescritta in favore di una detenuta per accertare se fosse affetta da tubercolosi, senza verificare la natura della funzione assistenziale svolta in concreto dall’interessato e senza analizzare il contenuto della relazione gerarchica esistente con il dirigente della struttura sanitaria del carcere. La Cassazione, confermata la condanna per omicidio colposo del medico responsabile della struttura del carcere che non aveva rilevato la stretta correlazione tra l’endometrite e l’affezione tubercolare sofferta dalla detenuta, ha invitato i giudici di merito a riesaminare la posizione dei due medici di guardia, condannati nel precedente grado di giudizio ex art. 589 cp, chiamati in tesi ad eseguire solo interventi di cura episodici, per verificare anche se potesse loro attribuirsi un potere di sindacare attivamente le scelte operate dal dirigente. La posizione di garanzia assunta dal singolo medico che è intervenuto nel processo di cura di una paziente, secondo questa interessante sentenza, non ha sempre l’identico contenuto, potendo essere limitata al controllo ed eliminazione solo di alcuni specifici rischi in corrispondenza alle effettive mansioni delegategli dal dirigente all’interno dell’organizzazione sanitaria della struttura. La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario” Nella relazione di cura è in gioco anche la libertà del paziente che non può essere messa in discussione da parte dei sanitari solo in base ad un giudizio di appropriatezza clinica del trattamento proposto. Il rispetto della libertà dell’individuo, infatti, è strettamente collegato al rispetto della sua dignità di uomo e ai valori che sono espressione di questa dignità anche nell’ipotesi di malattie gravemente invalidanti. 2. La responsabilità professionale 85 La gestione del proprio corpo secondo i propri principi morali rientra nelle libertà della persona in quanto strumento finalizzato alla sua realizzazione come soggetto che intende costruire una propria identità nella libertà, senza ledere quella altrui. Nel concetto di libertà può rientrare, quindi, anche il diritto del soggetto, maggiorenne e capace, di rifiutare consapevolmente i trattamenti sanitari non desiderati. In presenza di un dissenso consapevolmente manifestato dal paziente capace di autodeterminarsi la posizione di garanzia che l’ordinamento attribuisce ai sanitari a tutela della salute degli assistiti si riduce di contenuto in quanto ai medici è inibito di porre in essere quei trattamenti oggetto del rifiuto del paziente. La posizione di garanzia, peraltro, non viene meno anche in queste situazioni estreme perché rimane l’obbligo di assistere il malato conformemente ai suoi legittimi desideri, salvo la possibilità di sollevare l’obiezione di coscienza in presenza di richieste che contrastino in modo irrisolvibile con la propria coscienza, fermo restando il dovere di non abbandonare il malato prima che un altro sanitario non se ne possa fare carico. Codice deontologico del 2006, invero, all’art. 22 afferma che «il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di pregiudizievole nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire ogni utile informazione e chiarimento». L’obiezione di coscienza non è, peraltro, disciplinata in via generale nell’ordinamento pubblico che la prevede solo per singole specifiche situazioni, come, ad esempio, quella prevista dall’art. 9 della legge n. 194/78 in tema di interruzione della gravidanza, e, quindi, occorre molta prudenza nell’utilizzare questo strumento, soprattutto per i sanitari che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali, per i quali si potrebbe ipotizzare un indebito rifiuto della loro attività (art. 328 cp). Le considerazioni sopra esposte sul dovere per i sanitari di rispettare la libertà del paziente trovano riscontro nella giurisprudenza che ha esaminato in modo approfondito il tema della relazione medico-paziente. Ad esempio, la Cassazione, nella sentenza penale n. 11640/06, dopo avere ribadito che l’attività medica, di norma, «richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art. 50 cp, ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento», ha affermato che: «Il consenso 86 Manuale della Professione Medica afferisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporale», che sono «profili tutti attinenti alla libertà personale, proclamata inviolabile dall’art. 13 della Costituzione». Ha aggiunto la Suprema Corte nella sentenza penale n. 11335/08 che «non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato, che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza» e che «Il consenso informato ha, come contenuto concreto, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale» (così Cass. civ. sent. n. 21748/08 richiamata dalla Cass. pen. nella sent. 11335/08). In definitiva, secondo la Cassazione «il criterio di disciplina della relazione medicomalato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario» (così Cass. pen. sent. n. 11335/08). È molto importante in questa sentenza il passaggio della motivazione laddove i giudici della Suprema Corte mettono i paletti alla potestà di curare del medico affermando che questa potestà non ha carattere generale e assoluto in quanto trova un limite proprio nella volontà negativa espressa dal paziente che, eventualmente, rifiuti la terapia proposta. Questo passaggio trova un preciso riscontro anche nel Codice di Deontologia medica del 2006 laddove, all’art. 35, quarto comma, si afferma che «In ogni caso, in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici-curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà dell’interessato». Rimane fermo il dovere del medico di verificare che quel rifiuto sia realmente informato, sia espresso liberamente, sia autentico e, qualora espresso in via anticipata, riguardi la situazione di cura nel quale il trattamento proposto dovrebbe trovare applicazione. Come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza civile n. 21748/07, quindi, per il medico «di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato c’è spazio per una strategia della persuasione e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico e attuale; ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi». Emerge, peraltro, essenzialmente in sede penale, una diversa rilevanza del 2. La responsabilità professionale 87 consapevole rifiuto espresso dal paziente capace rispetto alla semplice mancanza di un consenso in determinate situazioni. Sul punto è intervenuta la recente sentenza n. 2437/09 delle Sezioni Unite penali della Cassazione che riguarda un chirurgo che aveva sottoposto una paziente a un intervento di laparoscopia regolarmente acconsentito e, senza soluzione di continuità, anche a salpingectomia con asportazione della tuba sinistra, trattamento quest’ultimo non oggetto del consenso informato dell’interessata o di un rifiuto espresso. La paziente si era lamentata del fatto che questo intervento invasivo fosse stato eseguito senza la previa raccolta del suo assenso e ne era nato un contenzioso in sede penale in quanto erano state ipotizzate la configurabilità del reato di violenza privata di cui all’art. 610 cp ovvero del delitto di lesioni personali dolose di cui all’art. 582 cp. La Cassazione, essendo stato accertato che anche il secondo intervento era stato eseguito nel rispetto delle leggi dell’arte medica ed aveva avuto esito fausto (positivo per la salute dell’interessata), ha escluso sia l’esistenza del reato di lesioni personali, per il complessivo miglioramento delle condizioni di salute della paziente, che quello di violenza privata, per la mancanza del requisito autonomo della violenza, non praticabile, peraltro, su paziente anestetizzato. In motivazione la Cassazione, peraltro, ha ribadito in questa sentenza la sicura illiceità penale della condotta del medico che operi contro la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, a prescindere dall’esito fausto o infausto dell’intervento praticato, trattandosi di attività che assume i caratteri dell’arbitrarietà. La natura del reato ipotizzabile dipende, evidentemente, dalle modalità della condotta criminosa e dalle sue conseguenze; in linea di massima si può fare riferimento ai reati (582 cp e 610 cp) sopra menzionati. La Cassazione, inoltre, ha aggiunto che, anche se l’esito sia stato fausto, «l’eventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale», così lasciando impregiudicata un’eventuale azione in sede civile o disciplinare, salvi gli effetti degli artt. 652 e segg. cpp. Appare opportuno soffermarsi sui passaggi sopra riassunti di questa importante decisione che tiene conto delle preoccupazioni espresse anche dalla dottrina sui rischi di un eccesso di penalizzazione dell’attività chirurgica offrendo, peraltro, il lato ad alcuni rilievi critici, soprattutto laddove sembra non tenere conto del diverso valore che per ciascuno ha il bene salute. 88 Manuale della Professione Medica Per escludere l’illiceità penale ex art. 582 cp del mutamento, in assenza del consenso della paziente, del tipo di intervento operatorio effettuato, la sentenza, infatti, richiama il concetto di esito fausto dell’intervento, affermando che il concetto di malattia e di tutela della salute devono ricevere una lettura obiettiva che è quella che deriva dai dettami della scienza medica, che prescinde dall’apprezzamento dell’interessato. Questa affermazione, peraltro, viene in parte contraddetta quando poi viene argomentato che «per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente, ragguagliato non soltanto alle regole proprie della scienza medica, ma anche alle alternative possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di volontà positivamente o indirettamente espresse dal paziente». La Cassazione sembra non avere tenuto in debito conto la circostanza che il bene salute non è un dato oggettivo, ma si riempie della concezione che l’individuo ne ha; le sue scelte, pertanto, non solo non possono essere pretermesse nel distinguere tra esito fausto e infausto, ma deve essere comunque consentito all’interessata di esprimerle qualora sia prevedibile ex ante l’ipotesi dell’esecuzione di intervento chirurgico così invasivo come la salpingectomia con asportazione della tuba sinistra, che, invece, non risulta essere stato prospettato in precedenza nel caso di specie. Occorre, quindi, evitare non giustificabili riserve mentali da parte dei chirurghi che – in un rapporto di lealtà e trasparenza – dovrebbero correttamente informare i pazienti della possibilità, qualora prevedibile, di procedere ad ulteriori trattamenti oltre quelli già programmati, consentendo così ai soggetti interessati di accettarli o rifiutarli, soprattutto quando, come nel caso di specie si tratta di interventi estremamente invasivi del corpo della donna. Altrimenti sarà solo la monologante scelta del chirurgo ad orientare gli obiettivi terapeutici da perseguire, in contrasto con i principi costituzionali che impongono la consapevole partecipazione del paziente alle decisioni che riguardano la sua salute come, peraltro, ribadito anche nella motivazione della sentenza in commento. Sulla questione che ci occupa in linea generale e cioè sul valore del dissenso del paziente rispetto alla proposta terapeutica del medico è intervenuta, da ultimo, la quarta sezione penale della Cassazione che, con sentenza n. 2179910, ha ribadito che «si deve ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino la sua morte». 2. La responsabilità professionale 89 La Suprema Corte, con questo passaggio della motivazione, sembra volere tutelare la libertà del paziente maggiorenne e capace di rifiutare consapevolmente – previa adeguata informazione sui rischi che la sua decisione può comportare per la sua salute o per la sua stessa vita – l’esecuzione di un trattamento pur giustamente proposto dal sanitario. Non sembra condivisibile, per superare il dissenso espresso dal paziente, il richiamo allo stato di necessità di cui all’art. 54 cp perché è molto discutibile l’applicazione di questa norma estremamente generica alla pratica medica e perché, comunque, una norma ordinaria non può consentire un comportamento in contrasto con il disposto degli artt. 13 e 32 della Costituzione in tema di libertà delle cure. Appare utile richiamare, sul punto, la recente sentenza penale n. 26159/10 della quinta sezione della Cassazione che, in un caso concernente un rapimento di una persona al fine di disintossicarla, in risposta alla tesi dell’imputato (non medico) che sosteneva di avere agito in stato di necessità afferma, in motivazione, che «In primo luogo, la Carta Costituzionale all’art. 32 stabilisce due principi fondamentali: non è mai possibile, nemmeno al legislatore, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana ed è sempre vietato il trattamento sanitario obbligatorio, se non in forza di legge. Inoltre, all’art. 13, proscrive in ogni modo la violenza fisica (e morale) sulle persone “comunque” sottoposte a restrizioni di libertà. Non è, quindi, possibile assegnare alla lettura dell’art. 54 cp un significato che urti direttamente contro questi radicali divieti posti dalla Costituzione». Il medico, pertanto, in presenza di un rifiuto espresso dal paziente, non può legittimamente invocare lo stato di necessità per intervenire contro la sua volontà. Diversa è evidentemente la situazione in cui vi è una urgenza sanitaria indifferibile cui fare fronte, urgenza che non consente alcuna dilazione dell’intervento medico, e il paziente interessato non si oppone al trattamento, né ha in precedenza manifestata una volontà contraria. La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto Il medico e l’odontoiatra possono essere chiamati a rispondere solo in sede civile qualora il soggetto danneggiato dalla loro colposa condotta professionale abbia deciso di agire esclusivamente per avere il ristoro dei danni (patrimoniali e non patrimoniali) subiti. 90 Manuale della Professione Medica La responsabilità civile comporta, infatti, a carico del soggetto che con il suo comportamento li ha causati, l’obbligo giuridico del risarcimento dei danni che riguardano sia la perdita economica patita dal paziente (lucro cessante per la perdita o riduzione della capacità di guadagno e danno emergente per le spese sostenute) sia il cosiddetto danno non patrimoniale che ricomprende il risarcimento non solo della lesione dell’integrità fisica o psichica (cd. danno biologico quantificato, di norma, in base a tabelle elaborate tenuto conto dell’età del soggetto e della natura e entità del pregiudizio al bene salute subito ), ma anche delle sofferenze sul piano morale patite (sempre che vi sia stato un fatto costituente anche un illecito penale) nonché della lesione di altri diritti della persona costituzionalmente garantiti (se, ad esempio, l’illecito ha inciso negativamente su un altro soggetto legato al paziente danneggiato da un preesistente legame familiare), come autorevolmente stabilito dalle Sezioni Unite civili nella sentenza n. 26972/08. Un esempio delle diverse voci di danno risarcibile può essere desunto da una recente sentenza civile della Suprema Corte (n. 13/2010) relativo all’omessa diagnosi di malformazioni del concepito con conseguente lesione del diritto della donna di interrompere la gravidanza alle condizioni stabilite dalla legge n. 194/78. Questa sentenza è utile anche per evidenziare che titolare del diritto al risarcimento dei danni nei confronti di un sanitario (ovvero della struttura in cui opera) può essere anche un soggetto diverso da quello danneggiato nel corso dell’assistenza prestata. Nel caso di specie, infatti, il soggetto malformato non è stato ritenuto titolare di un diritto al risarcimento perché la sua malattia era congenita e, quindi, non riconducibile ad una condotta colposa dei curanti. L’ASL ove prestava la sua attività professionale l’ecografista responsabile dell’omissione diagnostica, invece, è stata ritenuta responsabile (oltre che per una propria disfunzione organizzativa che aveva ritardato l’esecuzione della seconda ecografia) anche per l’omessa tempestiva diagnosi da parte del suo dipendente delle esistenti malformazioni del feto, con conseguente lesione del diritto della donna alla procreazione responsabile. I giudici, ritenuto provato attraverso presunzioni che la donna, qualora tempestivamente informata delle malformazioni, avrebbe deciso di interrompere la gravidanza, hanno riconosciuto in favore della stessa (e del padre) del neonato una congrua somma a titolo di risarcimento delle spese da sostenere per il mantenimento del bimbo sino al raggiungimento della sua autonomia eco- 2. La responsabilità professionale 91 nomica e un’altra a titolo di lucro cessante. Oltre a questo danno di natura patrimoniale sono stati liquidate anche altre voci di danno a ristoro del danno non patrimoniale, in particolare quella relativa alla lesione del diritto di ciascuna persona a non dovere essere costretta a cambiare ingiustamente la propria agenda esistenziale e a condurre una vita diversa e peggiore di quella che avrebbe vissuto in assenza della non desiderata nascita di un bimbo gravemente malformato perché affetto da agenesia dell’arto inferiore destro e focomelia di quello sinistro e quella relativa alle sofferenze morali dovute alla scoperta solo all’atto della nascita della malformazione. Nel concetto di danno risarcibile rientra, quindi, non solo il danno alla salute in senso stretto e la lesione di altri diritti della persona costituzionalmente garantiti, ma anche il danno economico conseguente, in termini di causalità adeguata, all’inadempimento del sanitario (ovvero della struttura). I sanitari possono, peraltro, essere chiamati a rispondere del loro comportamento sul piano della responsabilità civile anche in conseguenza dell’accertamento in sede penale di un reato (di norma lesioni colpose ovvero omicidio colposo) da loro commesso. La parte lesa può, infatti, costituirsi parte civile nel processo penale e, quindi, esercitare in quella sede l’azione civile diretta al risarcimento dei danni patiti. La sentenza penale irrevocabile di condanna per un reato, inoltre, in base al disposto dell’art. 651 cpp, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile diretto ad ottenere il ristoro dei conseguenti danni per quanto riguarda l’accertamento della sussistenza del fatto contestato, la sua illiceità penale e l’affermazione di responsabilità dell’imputato. Queste circostanze, quindi, non possono più essere messe in discussione nel giudizio civile. È opportuno, peraltro, ricordare in questa sede che l’accertamento in sede penale dell’insussistenza del fatto addebitato al sanitario ovvero della sua non colpevolezza ha efficacia di giudicato, alle condizioni e nei limiti stabiliti dall’art. 652 cpp, anche nel giudizio civile di risarcimento dei danni eventualmente promosso dal danneggiato. Le disposizioni sopra richiamate dimostrano la forte correlazione che può sussistere tra il giudizio concernente l’illecito penale e quello relativo all’illecito civile eventualmente commessi da un medico o da un odontoiatra e la necessità, comunque, di difendersi adeguatamente in entrambe le sedi onde evitare le negative ripercussioni del giudizio penale di condanna su quello civile risarcitorio. 92 Manuale della Professione Medica La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso di causalità Per ottenere il ristoro dei danni subiti occorre, in linea generale, che sussista agli atti la prova dell’esistenza di un fatto illecito produttivo di un danno (patrimoniale o non patrimoniale) per il paziente (ovvero per la parte lesa) e del nesso di causalità tra il comportamento del sanitario e l’evento negativo indicato come integrante l’illecito. Il comportamento del medico o dell’odontoiatra rileva, sul piano civilistico, sempre che sia addebitabile al sanitario un difetto di perizia, un’imprudenza o una negligenza nella sua condotta professionale tale da consentire di accertare un suo inadempimento all’obbligazione di cura di natura contrattuale da lui assunta ovvero, comunque, una lesione colposa del bene salute tutelato erga omnes, ex art. 2043 cc, indipendentemente dalla presenza di un contratto (cd. illecito extracontrattuale). Il paziente danneggiato che agisce in giudizio, di norma, chiede il risarcimento sia in base alle norme che regolano l’inadempimento contrattuale (applicabili pacificamente anche ai sanitari che lo hanno avuto in cura indipendentemente dall’effettiva presenza di un contratto da loro direttamente stipulato, come ribadito più volte dalla Cassazione anche nelle sentenze n. 589/99, 8826/07 e S.U. civ. sent. n. 577/08) sia in base alle disposizioni che implicano una responsabilità extracontrattuale. Il cumulo di queste due azioni consente al paziente di avvalersi del maggior termine di prescrizione dell’illecito previsto per quello contrattuale (dieci anni, decorrenti, ex sent. n. 581/08 delle S.U. civili della Cassazione, dal momento in cui il paziente, usando l’ordinaria diligenza, percepisce o sarebbe stato in grado di comprendere che la malattia o il peggioramento delle condizioni di salute costituiscono un danno ingiusto conseguente al fatto colposo del medico curante) e anche del disposto dell’art. 1218 del Codice civile che, in sostanza, pone a carico del medico l’onere di provare che il danno non è stato prodotto dalla sua condotta colposa perché inevitabile nonostante l’uso della prescritta diligenza professionale (vedi, al riguardo, Cass. sent. n. 8826/07 e S.U. civ n. 13533/01). La posizione del sanitario diventa, quindi, più difficile in sede civile perché la giurisprudenza, qualificandolo come un qualsiasi debitore di una determinata prestazione, gli impone – in base al disposto dell’art. 1218 cc – di provare che l’ina- 2. La responsabilità professionale 93 dempimento contestatogli (ad esempio, diagnosi errata) ovvero l’inesatto adempimento (ad esempio, diagnosi tardivamente posta pur in presenza di una evidenza clinica) «è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile» al fine di evitare di essere condannato a risarcire i conseguenti danni. In questo modo la Suprema Corte ha messo anche in crisi la tradizionale, tralatizia distinzione tra le obbligazioni di mezzi – proprie dei professionisti secondo il vecchio orientamento – e le obbligazioni di risultato, rilevando che «anche nelle cd. obbligazioni di mezzi lo sforzo diligente del debitore è in ogni caso rivolto al perseguimento del risultato dovuto» (così Cass. sent. n. 8826/07). Il sanitario, quindi, deve tenere un comportamento diligente, diretto a perseguire il risultato che intende raggiungere il paziente che si è a lui rivolto per la cura di una malattia, informando preventivamente e nel corso della relazione l’assistito delle difficoltà che il suo caso presenta nel raggiungerlo. Tant’è che, proprio i doveri di informazione e di avviso, definiti accessori, ma integrativi rispetto all’obbligo primario di cura e di tutela dell’interesse del paziente, hanno contribuito, secondo la sentenza n. 16394/10 della Cassazione, «ad operare quasi una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato». È evidente, peraltro, che non un qualsiasi inadempimento alle proprie obbligazioni rileva ai fini della responsabilità civile del medico, ma solo quello qualificato, cioè astrattamente idoneo a causare il danno lamentato. L’accertamento del nesso di causalità in sede civile, peraltro, deve essere effettuato, secondo la giurisprudenza, seguendo principi di diritto diversi da quelli che è tenuto a seguire il giudice nel processo penale dove non è in gioco solo il patrimonio dell’imputato, ma anche la sua libertà. Mentre nel processo penale vige la regola della prova del nesso “oltre il ragionevole dubbio”, in sede civile, invece, deve trovare applicazione la regola probatoria della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non (vedi, sul punto, Cass. S.U. civ. sent. n 576/08) che indubbiamente consente di accertare il nesso di causalità con meno difficoltà che in penale. Ne consegue che una volta che in sede processuale civile venga accertato che il sanitario ha omesso di espletare la sua attività professionale seguendo i prescritti canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice potrà ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale comportamento omissivo sia stato la causa dell’evento lesivo che il medico avrebbe potuto evitare agendo secondo le regole professionali, cautelari e tecniche (vedi, al riguardo, Cass. civ. sent. n. 16123/10). 94 Manuale della Professione Medica Un maggiore onere probatorio a carico del paziente sussiste solo laddove l’interessato lamenti di avere subito un danno alla salute per un difetto di adeguata informazione. In questo caso, infatti, la giurisprudenza più recente pone a carico del paziente l’onere di dimostrare che se avesse ricevuto l’informazione omessa (ad esempio, in relazione ad uno dei rischi collaterali iatrogeni di un intervento chirurgico) non si sarebbe sottoposto alla terapia in questione (vedi, al riguardo, Cass. sent. n. 2487/10). Si tratta, invero, di dimostrare, da parte del paziente, che, qualora adeguatamente informato, avrebbe effettuato, in base a criteri soggettivi personali, una scelta diversa da quella effettivamente compiuta di accettazione dell’intervento proposto dal sanitario. Se il paziente non è in grado di fornire questa prova viene a mancare il nesso di causalità tra la condotta incriminata e l’evento verificatosi perché l’interessato anche se avesse ricevuto l’informazione ingiustamente omessa si sarebbe comunque sottoposto all’intervento. Le considerazioni che precedono in relazione all’accertamento della responsabilità civile dei sanitari dimostrano l’importanza al riguardo della regolare e puntuale tenuta della cartella clinica ovvero dell’altra documentazione sanitaria, inclusa la scheda personale del paziente utilizzata dal medico di medicina generale. Solo così il medico sarà in grado di potere dimostrare, spesso a notevole distanza di tempo, le ragioni e la correttezza tecnica del suo operato e, quindi, che l’insuccesso diagnostico o terapeutico si è verificato nonostante abbia agito con la prescritta diligenza professionale. È opportuno sottolineare che la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che «la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla» (così S.U. civ. Cass. sent. n. 577/08 e di recente Cass. civ. sent. n. 10060/10). Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria La struttura sanitaria (ASL, ospedale pubblico, casa di cura convenzionata, casa di cura privata) in cui il medico o l’odontoiatra eventualmente lavora 2. La responsabilità professionale 95 assume a sua volta una responsabilità circa la corretta esecuzione della prestazione di cura eseguita dal sanitario dipendente ovvero collaboratore. Ai fini della responsabilità civile è, quindi, irrilevante, come precisato dalla giurisprudenza (S.U. civili Cassazione sent. n. 577/08), «che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi», perché non è possibile ritenere sussistenti limitazioni di responsabilità ovvero differenze nei doveri di cura a seconda della natura, pubblica o privata, della struttura essendo pur sempre in gioco il bene salute dell’interessato. Tale responsabilità, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte è di natura contrattuale perché, di norma, il contratto di cura è direttamente stipulato dal paziente con la struttura che mette a disposizione la sua organizzazione per l’espletamento delle prestazioni richieste dall’ammalato su indicazione dei sanitari (vedi, tra le altre, Cass. civ., sent. n. 1698/06). La responsabilità della struttura, peraltro, non coincide sempre con quella del medico che eventualmente ha commesso un errore produttivo di danno nell’esecuzione della prestazione sanitaria di sua competenza, perché le obbligazioni assunte dall’ospedale o dalla casa di cura verso il paziente con la stipula del contratto di assistenza sanitaria ovvero di spedalità sono più ampie di quelle proprie del professionista, suo collaboratore. Esistono, infatti, prestazioni di stretta competenza della struttura (ad esempio, quelle alberghiere in senso lato e quelle relative alla fornitura di medicinali ovvero alla messa a disposizione delle attrezzature necessarie per l’esecuzione delle prestazioni da parte dei professionisti) che possono comportare, qualora non adempiute correttamente, la responsabilità diretta ed esclusiva dell’ospedale o casa di cura nei confronti del paziente. La giurisprudenza, nell’ambito delle prestazioni proprie della struttura, ha evidenziato quelle relative ad una corretta organizzazione in modo da essere in grado di far fronte puntualmente e senza colpevoli ritardi alle obbligazioni di cura assunte con il paziente. La responsabilità per difetto di organizzazione è stata, ad esempio, riscontrata dalla giurisprudenza nella mancata puntuale esecuzione, nei termini previsti dalle linee-guida, dell’ecografia prescritta ad una donna gravida (vedi, sul punto, Cass. sent. n. 13/10 già citata). La struttura risponde, inoltre, anche per il fatto del proprio medico o infermiere dipendente ovvero collaboratore (anche se chiamato ad operare nella casa 96 Manuale della Professione Medica di cura perché di fiducia del paziente), in base al disposto dell’art. 1228 del Codice civile che stabilisce, in linea generale e salvo patto contrario, che se il debitore della prestazione convenuta nel contratto, nel nostro caso di assistenza sanitaria, si avvale dell’opera di terzi soggetti, «risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro». Nel caso in cui venga ipotizzato un errore medico produttivo di danno per il paziente, quest’ultimo potrà convenire in giudizio sia la struttura che il professionista che lo ha curato al fine di ottenere il ristoro dei danni patiti. Il giudice, riscontrata la fondatezza della domanda di risarcimento danni avanzata dal paziente o dai suoi eredi, emanerà una condanna al pagamento delle somme liquidate a tale titolo a carico, in via solidale, sia della struttura che del medico. L’art. 2055, primo comma, del Codice civile dispone, infatti, che «se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno», salvo il diritto di regresso come disciplinato in linea generale dal secondo comma della norma in oggetto. Se, invece, il sanitario ha svolto la sua attività come libero professionista al di fuori della struttura ovvero in via autonoma, come accade per i medici di medicina generale o i pediatri di libera scelta, non è ipotizzabile una responsabilità concorsuale dell’ospedale ovvero dell’ASL (vedi, sul punto, Cass. penale sent. n. 36502/08 e n. 34460/03 che hanno escluso la possibilità per il paziente di esercitare l’azione civile nel processo penale nei confronti dell’ASL con la quale il medico di base imputato era convenzionato, sul presupposto che il relativo rapporto non è di impiego pubblico, ma di collaborazione coordinata e continuativa, e che l’ASL non può interferire con l’attività autonoma professionale del medico di medicina generale o del pediatra convenzionato). Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario La problematica della responsabilità civile dei sanitari e l’obbligo di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio professionale impongono un cenno alle questioni inerenti l’opportunità o meno – per i medici e gli odontoiatri – di procedere in via autonoma alla stipula di adeguate forme di assicurazione contro la propria responsabilità civile in modo da tutelare il proprio patrimonio da eventuali aggressioni da parte di terzi insoddisfatti delle prestazioni di cura ricevute. L’opportunità sussiste certamente per coloro che esercitano in proprio un’at- 2. La responsabilità professionale 97 tività libero professionale (come, ad esempio, gli odontoiatri e medici di medicina generale) che non godono di alcuna certa copertura assicurativa stipulata da soggetti terzi come, invece, di norma avviene per i medici dipendenti delle strutture sanitarie afferenti al Servizio Sanitario Nazionale. Per questi ultimi, infatti, è previsto, di norma, dai rispettivi contratti che l’ASL ovvero la struttura convenzionata stipulino una polizza che copra anche i danni dei loro collaboratori e dipendenti, senza, peraltro, coprire la responsabilità per dolo o colpa grave. Appare opportuno, quindi, che anche i dipendenti e collaboratori delle strutture appartenenti al Servizio Sanitario Nazionale stipulino quantomeno una polizza integrativa di quella eventualmente contratta dall’ospedale o dalla casa di cura per assicurare i rischi non ricompresi nella polizza aziendale e per evitare di essere poi soggetti ad una azione di regresso – della struttura ovvero della compagnia di assicurazione – diretta ad ottenere il rimborso di quanto eventualmente pagato per un rischio non coperto o non totalmente coperto. Va, infatti, ricordato che le polizze più recenti prevedono, di norma, delle franchige (che escludono la copertura per eventi che implicano un risarcimento al di sotto di un determinato importo minimo ovvero per la quota parte, inferiore alla franchigia, di eventi di entità maggiore) oltre che dei massimali (che escludono la copertura per somme che eccedono l’importo indicato come massimale). Tutti i medici che sono interessati a stipulare una polizza – in particolare quelli che esercitano la libera professione – devono poi porre attenzione all’oggetto dell’attività assicurata che deve corrispondere a quella effettivamente svolta onde evitare che la compagnia eccepisca validamente che l’evento accaduto non rientri tra quelli coperti dal contratto e al massimale assicurato onde evitare che non sia congruo rispetto ai rischi inerenti al lavoro svolto (un chirurgo svolge, di norma, un’attività più rischiosa di quella di un internista ovvero un medico di medicina generale). Le nuove polizze – a differenza di quelle meno recenti – di norma contengono, infine, la clausola claims made che indica che la polizza copre solo i rischi denunziati dall’assicurato durante il periodo di vigenza del contratto, con conseguente opportunità di stipulare polizze che non lascino i sanitari scoperti quantomeno per un congruo tempo anche successivo alla cessazione della loro attività professionale. Le denunzie per malpratica dei pazienti, infatti, possono pervenire anche a distanza di tempo dalla cessazione, per pensionamento o 98 Manuale della Professione Medica altro, dell’attività dei sanitari e non sempre è facile sostenere validamente che è maturata la prescrizione (decennale per l’azione civile contrattuale) del loro diritto ad essere risarciti. La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno erariale” Introduzione La responsabilità per danno erariale riguarda, per quel che interessa in questa sede, i sanitari che sono legati alle ASL e agli ospedali da un rapporto di impiego ovvero di servizio che, con dolo o colpa grave, abbiano cagionato a questi enti un danno con il loro comportamento (vedi, al riguardo, art. 52 RD 1214/34, art. 1 legge n. 20/1994 e art. 3 DL n. 543/96, convertito in legge n. 639/96). L’azione per l’accertamento dell’esistenza del danno erariale e per la sua quantificazione viene esercitata dalla Procura della Corte dei Conti innanzi alla sezione giurisdizionale regionale della Corte predetta competente per territorio, su segnalazione – obbligatoria per legge – ex art. 53 RD 1214/34, dei responsabili dell’ASL o dell’ospedale. L’azione in oggetto si prescrive in cinque anni dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso; tale momento, per le azioni di rivalsa per danni conseguenti a condotte gravemente colpose che abbiano comportato la condanna dell’ASL al pagamento di somme di denaro in favore del paziente, si identifica con il momento in cui l’ente ha effettuato il relativo esborso. La casistica giurisprudenziale relativa alle ipotesi di danno erariale si arricchisce sempre di più di nuove fattispecie, stante l’attento controllo esercitato sulla finanza pubblica e sulle modalità con le quali viene amministrata la spesa inerente ad attività di pubblico interesse, come quelle svolte dalle Asl e dagli ospedali. La materia del contendere – oltre alla sopra citata rivalsa per condotte gravemente imperite, negligenti o imprudenti dei medici che hanno comportato esborsi, in favore dei pazienti danneggiati, a carico delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale in seguito, di norma, all’accertamento della loro responsabilità in sede civile o penale – ha riguardato anche emolumenti o indennità ingiustamente percepite dai sanitari in difetto dei presupposti di legge (ad esempio, indennità di esclusività del rapporto per i medici ospedalieri o indennità di informatica per i medici di medicina generale) ovvero il fenomeno della cosiddetta iperprescrizione di medicinali con il ricettario regionale da parte dei sanitari convenzionati. 2. La responsabilità professionale 99 Oltre queste fattispecie si deve sottolineare che sempre più spesso l’azione della Procura della Corte dei Conti è diretta anche ad ottenere la condanna del medico convenuto al risarcimento del danno all’immagine del Servizio Sanitario Nazionale (o dell’Università) provocato dal comportamento del sanitario tenuto in contrasto con le disposizioni di legge e con quelle che regolano il servizio cui è adibito (vedi, sul punto, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sent. n. 322/09, e sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 298/09, e, da ultimo, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 564/10 relativa ad un concorso pubblico di ammissione ad una scuola di specializzazione nel quale era stato favorito un candidato). Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale Occorre meglio definire il concetto di dolo o colpa grave, stante la sua rilevanza ai fini dell’accertamento della responsabilità del medico per avere procurato un danno erariale all’ente dal quale dipende o con il quale ha un rapporto di servizio. La giurisprudenza, in una ipotesi relativa alla percezione indebita dell’indennità di esclusività da parte di un medico dirigente di una struttura dipartimentale che aveva lavorato anche in strutture private, ne ha delineato il concetto affermando che «l’elemento psicologico della colpa raggiunge la rilevanza della gravità in presenza di comportamenti omissivi connotati dalla consapevolezza, equiparabile alla colpevole ignoranza, della necessità di agire per eliminare o far cessare la situazione generatrice del danno» (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 520/10). In un’altra fattispecie, relativa alla presunta responsabilità per danno erariale di un medico militare per un trattamento incongruo di natura ortopedica in favore di un assistito affetto da sospetta frattura dello scafoide tarsale, l’organo giudicante, all’esito della CTU espletata, ha escluso l’esistenza della colpa grave perché il comportamento diagnostico e terapeutico del sanitario non appariva connotato «da sicura ed estrema negligenza, trascuratezza e imprudenza professionale, né in chiara violazione degli ordinari protocolli medici» (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, sent. n. 1597/10). In un’altra fattispecie, infine, relativa, tra l’altro, a un trattamento a base di “fluconazolo” in pillole per la cura di un’assistita affetta da “Tinea Versicolor”, con prescrizione di dosi “pari a 5 volte quelle che la paziente avrebbe dovuto ingerire secondo la letteratura medica”, l’organo giudicante ha ritenuto che la terapia fosse 100 Manuale della Professione Medica frutto di una “gravemente colposa scelta di irragionevolezza prescrittiva” operata dal medico curante (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 9/10). La responsabilità a carico del medico di medicina generale per “iperprescrizione” Negli ultimi anni si è accentuato il controllo sulle prescrizioni effettuate dai medici di medicina generale per verificarne la correttezza sul piano procedurale e l’appropriatezza clinica. Le indagini, di norma, sono partite dall’uso di elementi statistici che segnalavano, per il medico interessato, il superamento di medie ponderate di spesa farmaceutica “pro capite” nel medesimo bacino di utenza (cosiddetta iperprescrizione in senso lato). L’uso di questo criterio, senza ulteriori elementi di prova, non è stato ritenuto, di norma, dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, sufficiente ad accertare la sussistenza di un danno erariale da iperprescrizione. Questo criterio, invece, è stato ritenuto, di norma, una buona base per la verifica, caso per caso, della correttezza prescrittiva del medico indagato, la cui discrezionalità tecnica non può divenire impunemente arbitrarietà ovvero irragionevolezza. Si è ritenuto sussistente il danno erariale da iperprescrizione in senso stretto solo qualora l’indagine abbia portato, anche alla luce di eventuali CTU, ad accertare che il medico di medicina generale, nella sua attività prescrittiva con il ricettario regionale, abbia esorbitato in casi specifici dai limiti derivanti dalla logica, dalla ragionevolezza e dai basilari approdi della letteratura scientifica (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 9/10). Le conclusioni cui è giunta questa sentenza appaiono condivisibili perché l’attività del medico di medicina generale è connotata da fisiologici margini di apprezzamento valutativo nella diagnosi e cura delle malattie e, quindi, in quest’ambito, non possono essere contestate, a titolo di danno erariale, scelte terapeutiche effettuate, in maniera non irragionevole e senza grave colpa, per tenere conto della particolare situazione in cui versava l’assistito e, anche, delle sue preferenze al riguardo. In ogni caso, nella valutazione del comportamento prescrittivo del medico, non si può prescindere «dalla considerazione del contesto generale e particolare (persino locale) all’interno del quale ha assunto le sue decisioni», come giustamente osservato dalla Corte dei Conti nella citata sentenza n. 9 del 2010. 2. La responsabilità professionale 101 Nessuna attenuante può, invece, essere riconosciuta per il medico di medicina generale che effettui prescrizioni illecite perché relative a farmaci che i pazienti beneficiari delle prescrizioni stesse hanno credibilmente dichiarato di non avere mai richiesto, né assunto. Si tratta, in questa ipotesi, di un’attività solo apparentemente di natura professionale in quanto diretta, attraverso un disegno criminoso, a trarre indebito profitto da queste prescrizioni prive di qualsiasi valenza terapeutica, con conseguente danno erariale per il Servizio Sanitario Nazionale che le ha rimborsate al farmacista, di norma, compiacente (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 199/08). 3 Doveri del medico e diritti del cittadino S. Bovenga, S. Del Vecchio, S. Fucci, A. Pagni Art. 3 - Doveri del medico Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona. Questo articolo del Codice deontologico pone in evidenza che il dovere principale del medico non è solo quello di tutelare la vita e la salute, intesa quest’ultima come benessere fisico e psichico, della persona assistita, ma anche il sollievo dalla sofferenza, sempre nel rispetto della sua libertà e dignità. Anche la nostra Carta Costituzionale, al primo comma dell’art. 32, sottolinea l’importanza del bene salute nella nostra società, affermando che la Repubblica lo tutela «come fondamentale diritto dell’individuo», nonché come «interesse della collettività», così legittimando l’attività di cura del medico, stante la sua rilevanza sociale. Ecco perché, in qualche sentenza, si legge che la prima fonte di legittimazione dell’attività di cura si rinviene nell’art. 32 della Costituzione che, peraltro, nel secondo comma, ribadisce che quest’attività, di norma, può essere legittimamente esercitata solo con il consenso della persona assistita, essendo del tutto eccezionale l’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio per legge. A sua volta la Corte Costituzionale ha più volte affermato che una legge impositiva di un trattamento sanitario obbligatorio è conforme alla Costituzione solo se ha lo scopo di tutelare contemporaneamente la salute del singolo 104 Manuale della Professione Medica e l’interesse alla salute della collettività, messo a rischio, ad esempio, dal pericolo di diffusione di una malattia infettiva. La rilevanza sociale dell’attività di cura, quindi, non legittima di per sé una sua imposizione coattiva da parte del medico che, come si evince dall’art. 3 del Codice deontologico del 2006, deve agire nel rispetto della libertà e della dignità della persona. Il richiamo alla libertà della persona sottolinea appunto che, nella quotidiana attività di cura, occorre coinvolgere l’assistito per effettuare, in un contesto di auspicabile condivisione della proposta diagnostico-terapeutica del medico, i trattamenti utili a salvaguardarne la salute e la vita. Il richiamo alla dignità implica che il cittadino, anche se affetto da una grave malattia, non perde la sua identità di persona che deve essere rispettata dal curante anche se non ne condivide le scelte di vita. La consonanza di questo articolo del Codice deontologico con la Costituzione vigente emerge anche nella sottolineatura del fatto che l’assistenza medica deve sempre realizzarsi senza distinzioni – ad esempio, di età e di sesso ovvero di etnia e di religione – e, quindi, senza operare ingiuste discriminazioni tra persone che hanno tutte pari dignità e, pertanto, meritano tutte ugualmente rispetto. Invero la nostra Carta Costituzionale, all’art. 3, primo comma, nell’affermare che «tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» afferma il fondamentale principio di eguaglianza che vieta ogni discriminazione. L’importanza dell’attività medica diretta al sollievo della sofferenza – che è posta sullo steso livello di quella diretta alla tutela della salute e della vita – ribadisce il carattere umanitario dell’attività di cura che non si ferma anche nel caso in cui la malattia è inguaribile e sta conducendo la persona alla fine della sua esperienza di vita. Anche il legislatore ordinario, con la recente legge n. 38 del 2010, ha evidenziato l’importanza della terapia diretta al trattamento del dolore proprio perché finalizzata alla tutela della dignità, dell’autonomia e della qualità di vita della persona affetta da una patologia dolorosa. Occorre ricordare, infine, che i doveri del medico elencati in questo articolo del Codice deontologico devono essere adempiuti, non solo in tempo di pace, ma anche in tempo di guerra, e, comunque, indipendentemente dalle condizioni istituzionali e sociali in cui si trovi ad assistere e curare le persone. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 105 Art. 4 - Libertà e indipendenza della professione L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritti inalienabili del medico. Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura. Il medico deve operare al fine di salvaguardare l’autonomia professionale e segnalare all’Ordine ogni iniziativa tendente a imporgli comportamenti non confacenti alla deontologia professionale. Questo articolo del Codice deontologico, al primo comma, afferma con forza il valore della libertà e dell’indipendenza nell’esercizio della professione del medico, tant’è che il medico deve considerare questi valori etici come diritti inalienabili sui quali si deve fondare la sua complessiva attività, dovunque e comunque svolta. Nel secondo comma di questa norma deontologica si riafferma l’importanza dei valori etici della professione cui deve essere ispirata l’attività svolta dai medici, valori che impongono il rispetto della vita e della salute, nonché della libertà e della dignità della persona assistita, ma anche la dovuta attenzione all’evoluzione delle conoscenze scientifiche, onde evitare un eccesso ingiustificato di soggettivismo nell’esercizio della professione. La medicina, infatti, non è una scienza esatta – essendo connotata da elementi probabilistici che, talvolta, ne accentuano l’incertezza – ma ha elaborato una metodologia scientifica per un approccio logico, critico e cautelare alle diverse situazioni che non può essere completamente messa da parte da chi, in nome della propria indipendenza, pretenda di usare come metro di giudizio solo la propria, talvolta obsoleta, conoscenza ed esperienza, scollegata da qualsiasi riferimento scientifico e logico. Il rispetto da parte del medico della vita e della salute della persona sono strettamente collegati, anche in questa norma, al rispetto della libertà e della dignità dell’individuo perché nella singola relazione di diagnosi e di cura, accanto alla definizione sul piano scientifico del contenuto del bene salute, occorre dare spazio anche al significato che ciascuno attribuisce a questo bene in un determinato contesto. 106 Manuale della Professione Medica Solo in questo modo – ascoltando, quindi, le motivazioni che spingono la persona malata a chiedere di essere assistita – sarà possibile creare una relazione che porti ad una decisione condivisa perché rispettosa dell’autonomia professionale del medico, ma anche delle considerazioni personali del paziente sul percorso di cura proposto dal sanitario, valutato positivamente perché ha tenuto anche conto delle scelte esistenziali effettuate dall’interessato. Il medico, quindi, nella sua attività non deve fare scelte che, per compiacere l’assistito, contrastino con l’etica professionale, ma, nell’effettuare le sue corrette proposte di diagnosi e cura, deve tenere anche conto del vissuto soggettivo della malattia, come emerge dalla narrazione della persona malata, e degli scopi leciti che il cliente vuole ottenere con l’ausilio delle competenze, tecniche e umane, del sanitario. Indipendenza ed autonomia di giudizio, che caratterizzano le professioni intellettuali come quella medica, comportano, peraltro, anche dei profili di responsabilità per le scelte di cura, incongrue ovvero errate, effettuate. L’esercizio indipendente e autonomo della professione non può, quindi, essere disgiunto dall’utilizzo della necessaria prudenza, attenzione e perizia e anche dal rifiuto di condizionamenti esterni, impropri perché si riflettono negativamente sulla capacità di giudizio del curante, sviandola dal suo scopo primario e cioè dalla tutela del benessere della persona assistita. Ecco perché, nella parte finale del secondo comma di questa norma, si afferma che il medico «non deve soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura». Aggiunge questo articolo, nel suo terzo e ultimo comma, che il medico, qualora si trovi ad affrontare situazioni e iniziative di qualsiasi genere dirette ad imporre comportamenti in contrasto con le regole deontologiche – perché, ad esempio, lo sollecitano ad effettuare in tempi troppo ravvicinati le visite programmate, non consentendogli in tal modo di svolgere con il dovuto scrupolo la sua attività di diagnosi e cura – deve in prima persona cercare di salvaguardare la sua autonomia professionale e, nel contempo, segnalare al competente Ordine provinciale i fatti che possono incidere negativamente sulla stessa. Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione Non solo nella libera professione, ma anche all’interno degli ospedali e delle altre strutture sanitarie complesse, così come nella collaborazione in con- 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 107 venzione al Servizio Sanitario, deve essere assicurato l’esercizio indipendente dell’attività professionale. In questi casi, evidentemente, vanno rispettati i vincoli che nascono dal rapporto di impiego o dal contratto di collaborazione intercorso con la struttura ovvero dalla convenzione stipulata con il Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, ma deve rimanere integra la capacità di svolgere l’attività professionale nel rispetto dei principi e delle regole deontologiche che non possono essere trascurate perché dirette anche a salvaguardare l’esercizio autonomo e indipendente della medicina. Il medico, infatti, anche quando sottoposto a vincoli che ne regolano i turni e l’orario di lavoro, rimane pur sempre un prestatore d’opera di natura professionale che, quindi, deve potere svolgere la sua attività in modo non impiegatizio. Deve, pertanto, essere comunque rispettata la sua autonomia e indipendenza di giudizio nella relazione di cura che deve restare connotata dagli aspetti culturali, scientifici e umani che la contraddistinguono. Anche per questo la giurisprudenza ritiene che il medico, che lavora in una posizione subordinata rispetto a quella del dirigente della struttura o del reparto, deve rispondere in via concorrente delle scelte di cura incongrue effettuate dal sanitario in posizione apicale se, qualora in disaccordo, non se ne sia dissociato manifestando il suo dissenso nel corso dell’assistenza prestata ad una persona ivi ricoverata e affidata anche alle sue cure. La posizione del medico in posizione subordinata non è, infatti, quella del mero esecutore di ordini provenienti dal dirigente apicale, ma un suo collaboratore professionale e, quindi, deve rimanere integra la sua capacità di dare giudizi diagnostici e terapeutici indipendenti e autonomi anche da quelli del sanitario che riveste una posizione funzionale superiore. La particolare natura dell’attività medica, diretta alla salvaguardia della salute del paziente, consente, infine, secondo la giurisprudenza, anche l’espressione di un giudizio critico sull’operato di un collega, sempre che sia manifestato in termini corretti, misurati e connotati da obiettività rispetto al fatto giudicato. Anche un giudizio critico, soprattutto se espresso nel corso di un consulto o di una richiesta di un secondo parere, può rappresentare, infatti, una manifestazione di libertà e di indipendenza nell’esercizio della professione medica. L’importante, per evitare spiacevoli conseguenze sul piano disciplinare, civile o penale, rispettare il principio di verità, in base al quale il comportamento 108 Manuale della Professione Medica di cura oggetto di critica deve essere realmente accaduto, e il principio di continenza, che presuppone l’uso di espressioni attinenti al fatto e misurate nel loro contenuto. Art. 7 - Limiti dell’attività professionale In nessun caso il medico deve abusare del suo status professionale. Il medico che riveste cariche pubbliche non può avvalersene a scopo di vantaggio professionale. L’articolo richiama e rafforza il precedente art. 4 sui limiti dell’indipendenza e della libertà professionale e ricorda al medico che in nessun caso l’esercizio della professione deve degenerare in arbitrio e abuso e che la tutela dei diritti del professionista viene meno ove questi trascuri i suoi doveri violando i diritti delle persone di cui si prende cura. Ancora più grave mancanza deontologica, oltre a configurarsi come un’eventuale ipotesi di reato, si ha nel caso in cui il medico tragga un indebito vantaggio dalla posizione che occupa nelle istituzioni pubbliche e/o abusi del potere derivante dalla sua carica. Art. 20 - Rispetto dei diritti del cittadino Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questo articolo apre la sezione del Codice deontologico dedicata alle regole generali di comportamento nei rapporti con il cittadino. La parola cittadino che già nella precedente versione del 1998 del Codice deontologico aveva sostituito quella di paziente identifica un soggetto che, seppure non ha le competenze tecniche del medico, si pone su un piano paritario nella relazione con il sanitario in quanto titolare di una posizione giuridica che deve essere rispettata dal curante. Il medico, in base a quanto disposto in questa norma deontologica, deve agire nel corso della sua attività professionale nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 109 Quali siano questi diritti fondamentali non viene specificato e, quindi, compete all’interprete cercare di delinearne in linea generale il contenuto, tenendo presente che alcuni di questi diritti, come ad esempio quelli inerenti l’informazione e il consenso, trovano una loro specificazione già nei successivi articoli del titolo terzo del codici mentre altri, ad esempio quelli inerenti la tutela del segreto professionale e della riservatezza dei dati personali, sono stati indicati nel titolo secondo. In linea generale si può affermare che rientrano certamente nei diritti fondamentali tutti quei diritti di libertà inerenti la persona indicati nella nostra Costituzione che, tra l’altro, nell’art. 32, indica specificamente la salute come «fondamentale diritto dell’individuo». Tra questi diritti deve essere ricordato, visto il carattere di società multiculturale con diverse identità religiose che sta assumendo la nostra società, anche quello sancito dall’art. 19 che stabilisce il diritto di ciascuno di «professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma». Tra i diritti fondamentali di ogni persona devono altresì ritenersi compresi quelli indicati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ratificata dall’Italia nel 1955, tra cui vanno ricordati i diritti alla vita, alla libertà e alla sicurezza, al rispetto della propria vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione che devono essere garantiti senza alcuna distinzione e, quindi, senza discriminazioni di alcun genere. Alla Convenzione ha aderito l’Unione Europea con il recente trattato di Lisbona e l’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo degli artt. 8 e 14 di questa Convenzione, in tema di rispetto della vita privata e familiare e sul divieto di discriminazione, è stata posta dal Tribunale di Firenze alla base dell’eccezione di incostituzionalità della nostra legge sulla procreazione medicalmente assistita (n. 40/04) laddove contiene il divieto della fecondazione eterologa, sollevata con ordinanza depositata il 6/9/10. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 contiene degli utili riferimenti per l’individuazione dei diritti fondamentali, tra cui vengono indicati, tra l’altro, il diritto alla «propria integrità fisica e psichica» e, nell’ambito della medicina, il diritto dell’assistito correlato al dovere dei curanti di rispettare «il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge». La Carta in questione si apre con l’affermazione, all’art. 1, dell’inviolabilità della dignità umana, dignità che deve essere sempre rispettata e tutelata e che costituisce indubbiamente il presupposto di ogni diritto fondamentale della persona. 110 Manuale della Professione Medica Un cenno, infine, merita per la sua specificità la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1996, ratificata dall’Italia nel 2001, che, tra l’altro, afferma, all’art. 2, che «l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della società e della scienza», all’art. 5 che, in linea generale, «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e consapevole», e che sottolinea, all’art. 9, l’importanza delle volontà espresse in via anticipata dal paziente rispetto alle cure future e, all’art. 10, il diritto di ogni persona «di essere a conoscenza di ogni dato raccolto sulla propria salute». Art. 28 - Fiducia del cittadino Qualora abbia avuto prova di sfiducia da parte della persona assistita o dei suoi legali rappresentanti, se minore o incapace, il medico può rinunciare all’ulteriore trattamento, purché ne dia tempestivo avviso; deve, comunque, prestare la sua opera sino alla sostituzione con altro collega, cui competono le informazioni e la documentazione utili alla prosecuzione delle cure, previo consenso scritto dell’interessato. La fiducia è un elemento essenziale nella relazione medico-paziente che deve essere presente non solo all’atto iniziale del rapporto, ma anche nel corso del suo svolgimento. È importante che via sia fiducia perché altrimenti il paziente rischia di non trarre dall’assistenza i possibili benefici, essendo sorti in lui dubbi sulla capacità professionale del medico e, quindi, anche sull’utilità delle cure prestate. Ma la fiducia deve essere reciproca, perché anche il medico deve potere contare sulla leale collaborazione del paziente nel perseguimento degli scopi delle cure proposte o in corso di esecuzione. In sostanza, nella relazione di cura si incontrano due persone (medico e assistito) che devono avere reciproca fiducia per potere raggiungere l’obiettivo comune costituito dalla salvaguardia della salute del cittadino. In un rapporto basato su trasparenza e lealtà, il paziente dovrebbe potere liberamente manifestare al medico i propri dubbi e le proprie incertezze e discuterne con il curante al fine di ristabilire il rapporto fiduciario incrinato ovvero di risolverlo. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 111 Se questo non avviene, l’iniziativa può essere presa dal medico che si senta sfiduciato da atteggiamenti del cittadino incompatibili con il proseguimento di una proficua collaborazione di cura nel reciproco rispetto. La norma deontologica in commento è diretta a disciplinare la questione fornendo al medico le necessarie indicazioni comportamentali da utilizzare qualora decida di interrompere il rapporto, perché ha avuto prova di sfiducia da parte dell’assistito ovvero del legale rappresentante della persona, minore o incapace, che ha in cura. Il medico che si trovi in una di queste situazioni deve dare tempestivo avviso, cioè comunicare all’interessato o al suo rappresentante la sua decisione di non continuare oltre nell’assistenza. La funzione di questa comunicazione è quella consentire all’interessato di procedere alla scelta di un altro medico, cui poi il sanitario rinunciante fornirà tutte le notizie utili alla prosecuzione delle cure, inclusa la relativa documentazione in suo possesso, previo consenso scritto del paziente per evitare di incorrere in violazioni della normativa sul trattamento dei dati personali. Il medico deve comunque continuare a prestare la propria opera sino alla sua sostituzione con altro collega per evitare rischi per la salute dell’interessato. La convenzione che disciplina lo svolgimento dell’attività del medico di medicina generale, che viene liberamente scelto dal paziente nell’ambito di quelli disponibili in un determinato contesto territoriale, contiene una norma specifica per l’esercizio di quella che viene chiamata revoca e ricusazione della scelta. Il cittadino può revocare la scelta liberamente fatta in precedenza, dandone comunicazione all’Azienda e effettuando una nuova scelta del sanitario di fiducia. Il medico, a sua volta, ove intenda non proseguire nella sua opera di assistenza, deve ricusare il paziente, dandone comunicazione all’Azienda e motivando quest’atto sulla base di eccezionali ed accertati motivi di incompatibilità, tra i quali assume particolare importanza la turbativa del rapporto di fiducia; la ricusazione avrà effetto dal sedicesimo giorno successivo alla comunicazione. La normativa inserita nella convenzione contiene anche una disciplina specifica per evitare che il cittadino rimanga privo di assistenza qualora a ricusarlo sia l’unico medico operante in quell’ambito territoriale. Negli ospedali e nelle strutture sanitarie complesse il cittadino, di norma, non è messo in grado di scegliere colui che l’assisterà per le sue necessità di cura. 112 Manuale della Professione Medica Deve ritenersi che anche in queste situazioni occorra cercare, per quanto possibile, di salvaguardare il principio etico e deontologico della reciproca fiducia tra curante e assistito, consentendo ad entrambi di verificarne la persistenza nella relazione e agendo di conseguenza qualora venga a mancare. L’importante, qualora sia il medico a ritenere che non vi siano le condizioni per proseguire nell’assistenza, stante la sfiducia manifestata dal paziente, che il paziente non venga mai abbandonato, ma venga altrimenti assistito onde evitare rischi per la sua salute. Il medico, infatti, una volta assunta la posizione di garante della salute del cittadino assistito, deve continuare ad assisterlo fin quando un collega non se ne faccia carico ovvero fin quando il paziente non decida di abbandonare il nosocomio assumendosi la responsabilità della scelta liberamente effettuata. Il rifiuto indebito delle cure che non possono essere dilazionate in quanto vanno compiute senza ritardo, manifestato da parte di un medico del Servizio Sanitario Nazionale o Regionale, è un comportamento, infatti, che integra quantomeno il delitto di cui all’art. 328 del Codice penale, a prescindere dalle negative conseguenze eventualmente verificatesi sulla salute del paziente. Art. 21 - Competenza professionale Il medico deve garantire impegno e competenza professionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare. Egli deve affrontare nell’ambito delle specifiche responsabilità e competenze ogni problematica con il massimo scrupolo e disponibilità, dedicandovi il tempo necessario per una accurata valutazione dei dati oggettivi, in particolare dei dati anamnestici, avvalendosi delle procedure e degli strumenti ritenuti essenziali e coerenti allo scopo e assicurando attenzione alla disponibilità dei presidi e delle risorse. Già nella Roma antica, con l’organizzazione del Servizio Sanitario pubblico istituito dall’imperatore Nerone, era prevista la figura dei protomedici (archiatri) che, riuniti in collegio, deliberavano sulla competenza professionale dei “medici secondari”, una sorta di “medici della mutua”, eletti dalla popolazione e stipendiati dalla pubblica amministrazione. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 113 Il protomèdico era il pubblico funzionario preposto a coadiuvare l’attività sanitaria dello Stato. I principali compiti del protomedico erano di valutare le effettive capacità di coloro che chiedevano di intraprendere la professione di medico o farmacista e di vigilare sull’attività di questi. In Italia, la figura del protomedico sopravvive fino alla metà del XIX secolo, quando viene cancellata dal primo governo D’Azeglio nel 1851. Sulla base di quella legge, le funzioni formative professionali vennero assegnate alle autorità preposte alla Pubblica Istruzione, mentre le funzioni organizzative e di controllo furono demandate al Consiglio superiore di sanità, precedentemente istituito nel 1847. Cito queste curiosità di storia della medicina unicamente per rendere evidente da subito come il tema della competenza professionale, come del resto anche della qualità e della sicurezza, sono da sempre connaturate ai delicati compiti attribuiti ai medici ed agli odontoiatri. L’articolo 21 del Codice di Deontologia medica è espressamente dedicato alla ‘Competenza Professionale e così recita. La competenza professionale si esplicita e si esercita in molteplici aspetti che, in estrema sintesi, possiamo ridurre a due: 1. La competenza riferita alle attività cliniche. 2. La competenza riferita alle attività organizzativo-gestionali. La competenza professionale riferita ai professionisti clinici comporta: – La necessità (e obbligo deontologico) di prolungare il percorso formativo ben oltre il conseguimento dell’abilitazione alla professione ovvero di prolungarlo per tutta la vita professionale (articolo 19 del Codice deontologico: «Aggiornamento e formazione professionale permanente»). Si noti che il citato articolo fa esplicitamente riferimento “all’obbligo di mantenersi aggiornato in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestionale-organizzativa”. – L’esigenza di essere sempre al corrente dei più recenti sviluppi della medicina (art 19 CD «sviluppo continuo delle conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei progressi della scienza»); oggi l’ignoranza non è più scusabile! – La disponibilità a sottoporsi a forme di verifica e monitoraggio delle proprie prestazioni secondo principi di valutazione professionalmente condi- 114 Manuale della Professione Medica visi (art 19 CD «confrontare la sua pratica professionale con i mutamenti dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini». Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rappresentati da: – Educazione Continua in Medicina (ECM) intesa nel suo senso sostanziale e non certo come un mero adempimento “burocratico”. – Monitoraggio continuo e sistematico della propria pratica professionale attraverso gli Audit Clinici e le Mortality & Morbility (che potremmo tradurre liberamente come “rassegne per la sicurezza”). – Benchmarking con altri Professionisti e con altre Strutture (il cd benchmarking è un processo continuo di misurazione di prodotti, servizi e prassi mediante il confronto con i concorrenti più forti). La competenza professionale riferita ai professionisti gestionali (medici delle direzioni di presidio, delle direzioni sanitarie e generali), oltre a quanto già detto per i professionisti clinici comporta: – La pianificazione delle competenze tecnico-professionali necessarie a garantire il corretto svolgimento dei percorsi clinico-assistenziali. – La valutazione del livello di competenze possedute dal personale. – La pianificazione della formazione e l’addestramento per l’adeguamento e la “manutenzione” delle competenze. – La valutazione dell’efficacia delle azioni intraprese. Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rappresentati da: – Piano della formazione/addestramento finalizzato a sviluppare ed aggiornare le competenze in rapporto ai reali bisogni formativi ed alla domanda di salute. – La “garanzia” della formazione e dell’addestramento permanente del personale sanitario. – La verifica, attraverso indicatori predefiniti, del raggiungimento degli obiettivi formativi. Ci sono perlomeno altri tre temi strategici sui quali lavorare e che sono legati in qualche modo alla competenza professionale in tutti i suoi aspetti (clinici e gestionali): 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 115 – Gli aspetti etici dell’ECM e del conflitto di interesse. – La relazione fra ricerca e qualità (la ricerca sanitaria finalizzata per essere efficace e produttiva, ossia in grado di tradurre rapidamente i risultati in azioni migliorative per le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e assistenza, deve essere caratterizzata dalla pervasività, dalla capacità cioè, di operare trasversalmente nei servizi sanitari attraverso il coinvolgimento del maggior numero di professionisti, nella logica di migliorare le competenze a beneficio della popolazione curata). – Etica dell’errore: “Errando discitur” – imparare dagli errori: l’attitudine critica in medicina e il fabbisogno di una nuova etica. Imparare soltanto dai propri errori sarebbe un processo lento e doloroso ed inutilmente costoso per i propri pazienti. Le esperienze devono essere condivise in modo da poter imparare dagli errori altrui. Questo richiede umiltà nell’ammettere di aver sbagliato e nel discutere i fattori che hanno influenzato l’errore. Richiede un atteggiamento critico nei confronti del proprio lavoro e di quello degli altri… L’esperienza generi apprendimento… Alla luce di quanto detto, gli articoli 19 e 21 del CD vanno letti ed interpretati come espressione del massimo rispetto dei diritti del cittadino da parte del medico. Infatti nell’articolo 21 viene chiaramente enunciato l’obbligo del medico di garantire il massimo impegno e il massimo scrupolo in tutti i suoi rapporti professionali con il cittadino. Nel primo comma dell’articolo è stato anche inserito il principio che il medico non deve assumersi obblighi che non sia in condizione di soddisfare. Evidentemente questa affermazione si riferisce alle obbligazioni di risultato essendo pacifico che il medico utilizzerà (deve utilizzare) tutti i mezzi a sua disposizione per garantire la qualità della prestazione. Viene anche enunciata chiaramente la necessità di un rapporto stretto con il cittadino attraverso l’approfondito colloquio e la necessità dell’utilizzazione di tutto il tempo necessario per garantire i risultati attesi (e di questo aspetto i medici con profilo “gestionale” non possono non tenere conto nella pianificazione delle attività dei Colleghi clinici). Gli articoli 21 e 19 del CD (come del resto molti altri articoli del Codice di Deontologia medica) si possono anche considerare come un interessante esempio di trasposizione in termini deontologici di obblighi giuridici. Il primo comma dell’articolo 21 (ed in un certo senso anche dell’articolo 19), laddove sancisce il dovere del medico di 116 Manuale della Professione Medica «garantire al paziente impegno e competenza professionale», opera infatti in termini sintetici ed efficaci una individuazione del modello comportamentale in grado di evitare al medico ciò che in campo giuridico è la responsabilità per colpa professionale che, come è noto, può derivare da negligenza, imperizia o imprudenza. La cultura tecnica evidentemente ha prodotto molte specializzazioni e così facendo ha favorito l’incremento degli standard di benessere dell’uomo malato, ma ne ha sovente frantumato l’identità e quindi i legami e le alleanze affettive e cognitive tra chi cura e chi è curato. Da un paio di decenni la sanità è sollecitata da un grande processo di cambiamento, determinato dall’impatto delle nuove tecnologie mediche e dall’introduzione di nuovi criteri di gestione, responsabilità ed economicità. È ora necessaria una nuova formulazione culturale del ruolo del medico, che consideri le sue competenze tecnico-specialistiche non il fine dell’azione professionale, ma il mezzo per il benessere biologico e psicologico della persona. Le strutture ed i servizi sanitari non devono essere organizzati solo per rispondere alle esigenze professionali di chi lavora, ma per soddisfare le aspettative delle persone per le quali lavorano. L’umanizzazione della sanità non consiste pertanto in una riduttiva idea di marketing relazionale, favorita per esempio dalle attività di customer satisfaction, ma da un profondo riesame del rapporto tra etica, competenza, partecipazione e responsabilità del risultato finale. Art. 6 - Qualità professionale e gestionale Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure. «La Qualità non è facilmente definibile ma è immediatamente percepibile», questo perché come è difficile definirla così è facile percepirla nel clima, nei comportamenti, nelle voci, nei volti, negli occhi, nell’ordine, nella risposta, nella disponibilità di chi lavora. La qualità non è infatti casuale ma è il risul- 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 117 tato di una precisa volontà organizzativa e di una gestione attenta. La qualità gestionale non garantisce soltanto la qualità dei servizi erogati agli utenti, ma si occupa di tutto il funzionamento del sistema erogatore. Una gestione che offre solamente dei buoni servizi, ma tralascia l’economicità dell’azienda, l’efficienza e la sostenibilità a lungo termine non è una gestione di qualità. Il Codice di Deontologia medica tratta l’argomento nell’articolo 6, in modo tanto conciso quanto efficace. Qualità gestionale È rivolta al perseguimento, a tutti i livelli e con il coinvolgimento di tutti, del miglioramento continuo della qualità tecnica e professionale dei servizi erogati, per raggiungere il migliore soddisfacimento delle aspettative dell’utenza. In tal senso le priorità gestionali individuate sono legate alle tre dimensioni della qualità condivise dalla comunità scientifica ed istituzionale in ambito sanitario: 1. qualità come percepita dall’utente, intesa come “qualità del servizio”, collegata al modo in cui i singoli utenti la percepiscono in relazione alle loro aspettative; si misura con indicatori legati all’affidabilità, alla capacità di rassicurazione, alla tempestività ed accessibilità del servizio ed ai tempi di attesa; 2. qualità tecnico-professionale, correlata alla correttezza tecnica e all’appropriatezza delle prestazioni; si misura con indicatori di sistema, processo ed esito legati all’autovalutazione; 3. qualità organizzativa, riferita al razionale utilizzo delle risorse interne sia nei processi sanitari primari, sia nei processi di supporto; si misura con indicatori di processo e indicatori legati al raggiungimento degli obiettivi di budget. Metodologie e strumenti. Il carattere multidimensionale della qualità rende conto della pluralità di metodologie sino ad oggi proposte per la sua gestione (Accreditamento istituzionale, Certificazione ISO 9001, Accreditamento professionale, EFQM, ecc.); il Sistema Qualità può essere sviluppato utilizzandole indifferentemente in relazione agli obiettivi che si vogliono privilegiare. Questo vuol dire che un arroccamento in difesa di questo o quel modello, di questo o quello strumento potrebbe lasciare il tempo che trova se lascia spazio alla finalità rispetto al metodo. Come dire… qualunque percorso e/o metodo può essere valido se l’obiettivo che si prefigge è quello di un miglioramento misurabile. 118 Manuale della Professione Medica Infatti tutti i sistemi di qualità “maturi” si assomigliano e richiedono: 1. Approccio sistemico (sistema di gestione della qualità). 2. Decisioni basate su dati di fatto (un sistema informativo efficiente ed efficace). 3. Miglioramento continuo come obiettivo permanente dell’organizzazione (radicato e sistematico, non occasionale)… e quindi dei professionisti… 4. Utilizzare al meglio le risorse disponibili. Approccio sistemico (sistema di gestione della qualità) Cosa vuol dire approccio sistemico? «Un sistema è un insieme di elementi che interagiscono per un unico fine». Un SISTEMA non è una semplice collezione di elementi. Facciamo un esempio: quando motore, carburante, ali, fusoliera, carrello e così via vengono messi insieme nel modo giusto, il complesso diventa un aeroplano capace di volare; ma nessuna delle sue parti, da sola, è in grado di farlo. L’aereo che vola è un sistema. A pensarci solo un attimo nella moderna sanità accade la stessa cosa. Sistema qualità: insieme di tutti gli elementi che in una organizzazione interagiscono per garantire la qualità (in una ASL: formazione, ingegneria clinica, controllo di gestione, ecc., UU.OO. cliniche, UU.OO. diagnostiche, ecc.). Ma anche la medicina di famiglia o la pediatria o la specialistica ambulatoriale ecc. interagiscono con le altre parti del sistema sanitario. Un sistema di gestione della qualità deve essere in grado di governare e monitorare, attraverso attività coordinate e in maniera stabile, l’insieme di tutti questi elementi reciprocamente correlati, orientandoli verso il miglioramento continuo della qualità. Un altro esempio di sistema, il corpo umano: l’organismo si sviluppa e rimane in vita grazie alla interazione fra i vari organi ed apparati. Per comprendere il funzionamento del corpo, la medicina non si limita a studiare come sono fatti i singoli organi (anatomia), ma si interessa di come essi interagiscono fra loro (fisiologia). Pertanto, come una malattia di un organo compromette la salute dell’individuo, così un settore aziendale inefficiente (anche se apparentemente “lontano”) procura danni all’intera impresa. La buona salute dei cittadini e dell’azienda è dunque una questione che riguarda tutti i settori e tutti i professionisti. Il corretto funzionamento di un sistema dipende da tutte le sue parti. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 119 L’implementazione di un sistema di gestione della qualità richiede l’integrazione di tutti gli attori del sistema e pertanto è necessario che tutti abbiano chiari, indipendentemente dalla specifica posizione ricoperta nel sistema, quali siano la mission, gli obiettivi, le funzioni e le responsabilità e siano in grado di renderne conto agli altri. Noi medici dobbiamo ricordare di non essere “soli” e pertanto dobbiamo rendere conto (accountability delle culture anglosassoni) non solo ai “nostri” pazienti ma anche a tutti gli altri attori che intervengono nel percorso assistenziale. L’idea, invero un po’ ingenua, che compiere bene il proprio pezzo di attività sia sufficiente per giungere ad un buon risultato deve essere, laddove ancora presente, rapidamente abbandonata. Il sistema nel suo complesso può essere paragonato, con una metafora, ad una catena, la cui forza (in termini di efficacia, efficienza, outcome ecc.) corrisponde a quella dell’anello più debole. Se ad esempio la radiologia o il laboratorio non rispondono nei tempi o per la qualità dei referti alle richieste dei clinici, ciò potrebbe pregiudicare la qualità finale dell’assistenza. Ma è anche vero che se le richieste di prestazioni diagnostiche dei clinici non sono appropriate (ad esempio per ragioni di cosiddetta “medicina difensiva”) si crea una domanda eccessiva che induce inefficienze nella erogazione delle prestazioni (senza contare tutte le altre criticità per la tenuta del sistema ed omettendo, per ovvietà, le ripercussioni in alcuni casi anche sulla salute dei pazienti). Allo stesso modo se l’obiettivo è praticare la trombolisi a tutti i pazienti con ictus ischemico entro sei ore, tutti i professionisti devono integrarsi per permettere il raggiungimento di tale obiettivo (dal medico di medicina generale al medico dell’emergenza territoriale, al medico del Dipartimento di Emergenza, al radiologo, neurologo ecc.). Chiunque non svolge adeguatamente la sua parte nel processo comprometterà la qualità finale della prestazione e di conseguenza la salute del paziente. Quindi relativamente ad ogni attività e/o percorso di diagnosi e cura devono essere esplicitati obiettivi, tipologia e volume dell’attività, responsabilità attribuite, risorse destinate, tempi di realizzazione, indicatori di verifica, ecc. Il perché dell’approccio sistemico «Essendo tutte le cose causanti e causate, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte essendo legate da un vincolo naturale e insensibile che uni- 120 Manuale della Professione Medica sce le più lontane e le più disparate, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti» (Pascal). Decisioni basate su dati di fatto (un sistema informativo efficiente ed efficace) Dati e informazioni certe portano a decisioni ed interventi efficaci. Sei bravo? dimostralo…!! «Quando la valutazione dei risultati non è basata su metodi scientifici [...] non c’è modo per distinguere un chirurgo da un geniale ciarlatano». «Ogni ospedale dovrebbe seguire ciascun paziente abbastanza a lungo per verificare il successo del trattamento e, in caso contrario, ricercarne le cause per evitare fallimenti simili nel futuro (Ernest Amory Codman)». Qualsiasi organizzazione deve avere un set di indicatori che gli permetta di monitorare la qualità delle proprie prestazioni, individuare eventuali criticità e prendere le decisioni giuste. Quindi: Responsabilizzazione: in particolare il perseguimento di una buona qualità dell’assistenza non è un generico compito professionale del singolo operatore, ma un impegno dei team di operatori nel loro insieme, diretta conseguenza del quale vi è la necessità di, e la disponibilità a, sottoporsi a forme di controllo e monitoraggio delle proprie prestazioni secondo principi di valutazione professionalmente condivisi. Miglioramento continuo come obiettivo permanente dell’organizzazione (radicato e sistematico, non occasionale)... e quindi dei professionisti... MCQ (Monitoraggio Continuo della Qualità): «un insieme di attività dirette a tenere sotto controllo e a migliorare i processi e gli esiti. Fanno parte di un sistema di MCQ il monitoraggio di processi ed esiti importanti mediante un sistema di indicatori, l’effettuazione di progetti di MCQ, lo sviluppo o l’adattamento e l’aggiornamento di procedure organizzative e di linee-guida professionali e la verifica della loro applicazione (Morosini e Perraro, 2001)». I medici DEVONO monitorare il grado di implementazione delle procedure e delle linee-guida EBM attraverso la programmazione e l’effettuazione di audit clinici e verifiche interne. Da questo monitoraggio continuo vengono evidenziate e 121 3. Doveri del medico e diritti del cittadino trattate tutte le criticità rilevate nell’ottica del miglioramento continuo della qualità e sicurezza. È indispensabile ormai assumere il metodo PDCA (Plan – Do – Check – Act) in ogni settore espressione della professione. I processi di autovalutazione e di autoregolamentazione professionale rappresentano peraltro i concetti chiave della clinical governance. Utilizzare al meglio le risorse disponibili Nei servizi sanitari, come in generale nei servizi alla persona, le risorse più importanti sono rappresentate dalle risorse umane, quindi utilizzare le risorse umane per le loro qualità umane: tutti i professionisti possono e devono essere coinvolti non dando niente per scontato: – – – – informazione e comunicazione continua e aperta; formazione ed addestramento adeguati; politica dei riconoscimenti (sistema incentivante); valutazione clima interno. «…il segreto del successo sta nella responsabilizzazione di tutto il personale chiamato a mettere al servizio dell’azienda non solo la “mano d’opera” ma anche il proprio “cervello” e il proprio “cuore”… » Tratto da Verso la Qualità di Andrea Gardini Nelle strutture sanitarie (ma anche nei professionisti che non operano in strutture sanitarie) la motivazione che sostiene la maggior parte degli operatori è legata al senso del dovere, alla consapevolezza di aiutare il prossimo, di operare con e su delle persone che sono esseri umani condizionati dalla sofferenza e dalla paura. Questi valori devono essere sostenuti e mai messi in discussione, perché nessun modello gestionale per la qualità potrà in alcun modo sostituirli. Cultura e valori da perseguire, incentivare e sostenere: Trasparenza, Dedizione, Lealtà, Competenza, Capacità di lavorare insieme, Altruismo altrimenti definite non technical skills. 122 Manuale della Professione Medica Qualità professionale Se la qualità gestionale va distinta dalla qualità percepita, cosa diversa è per la qualità professionale che – in quanto essenza stessa della professione – deve interessare tutti i medici e ciascun medico allo stesso tempo. Mentre accade spesso di verificare opinioni differenti su chi debba essere preposto alla gestione dei servizi sanitari ed in che modo, con particolare riferimento alla figura del medico-manager, non pare esservi dubbio alcuno sulla necessità che tutte le caratteristiche che trasformano una buona prestazione in una performance “di qualità” possano e debbano essere patrimonio di tutti i professionisti. Nel recente passato si è fatto riferimento alla necessità di creare un ambiente organizzativo adeguato a favorire la fornitura di servizi sanitari di alta qualità definita con il termine di clinical governance. Nel Regno Unito, laddove il concetto è nato, la clinical governance viene definita come «il contesto in cui i servizi sanitari si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dell’assistenza e mantengono elevati livelli di prestazioni creando un ambiente che favorisce l’espressione dell’eccellenza clinica» (liberamente tradotto da A first class service, Department of Health, 1998). La clinical governance si è diffusa nel Regno Unito, a cominciare dall’avvento del governo laburista nella seconda metà degli anni ’90, come cambiamento radicale del NHS (National Health Service). Questa emergente forma di governo della sanità desiderava ricondurre al centro del sistema la qualità professionale dei servizi sanitari, rimasta in ombra dopo un decennio di prevalente attenzione al controllo della spesa. La clinical governance si basa su due dimensioni fondanti: la concezione di sistema e l’integrazione delle istituzioni, delle strutture organizzative e degli strumenti clinici e gestionali. Nasce dalla constatazione che gli approcci alla qualità di natura prettamente manageriale non hanno avuto un grande impatto sui professionisti, mentre quelli di natura clinica (basati sull’aderenza alle regole professionali) tendono a respingere l’innovazione organizzativa. Il fatto che la visione manageriale e quella clinica tenderebbero ad essere intrinsecamente differenti, ha impedito uno sviluppo armonico del concetto di qualità. La clinical governance viene intesa come un processo di sviluppo della mentalità delle persone e dell’organizzazione, in cui management e professionalità giungono a concordare regole e misure adeguate sulla base dell’esperienza e dei risultati dei profes- 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 123 sionisti, punto di partenza per il miglioramento. Si vedono quindi necessari sia la gestione della qualità delle prestazioni professionali che la qualità gestionale. Una qualità prevalentemente gestionale riguardante solo l’organizzazione si traduce in una gestione attenta ma eccessivamente burocratica e priva di attenzione per la qualità delle prestazioni. D’altro canto una forte ed esclusiva attenzione alla qualità delle prestazioni non supportate da una valida qualità gestionale determina strutture attente ai comportamenti ed alle spontaneità a tutti i costi, ma incapaci di attuare un’adeguata organizzazione. Si tratta di un processo costante attraverso il quale i diversi interessi che tenderebbero a confliggere trovano accomodamenti (o mediazioni) e nel quale si possono avviare virtuosi processi cooperativi. La qualità professionale impone l’esigenza che efficacia e appropriatezza clinica diventino parte predominante dei criteri che sono alla base delle scelte operative e che il successivo monitoraggio, indirizzo e regolazione dei processi assistenziali sia effettuato sulla base degli esiti a breve e lungo termine. Art. 70 - Qualità delle prestazioni Il medico dipendente o convenzionato deve esigere da parte della struttura in cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno non incidano negativamente sulla qualità e l’equità delle prestazioni nonché sul rispetto delle norme deontologiche. Il medico deve altresì esigere che gli ambienti di lavoro siano decorosi e adeguatamente attrezzati nel rispetto dei requisiti previsti dalla normativa compresi quelli di sicurezza ambientale. Il medico non deve assumere impegni professionali che comportino eccessi di prestazioni tali da pregiudicare la qualità della sua opera professionale e la sicurezza del malato. Tutti i medici pertanto hanno come mission quella di rispondere ai bisogni di salute della popolazione fornendo cure sicure e di qualità. A tal fine devono “routinariamente” garantire: 1. L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni. 2. L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa. 3. La tempestività e la continuità delle cure. 124 Manuale della Professione Medica 4. L’accessibilità e l’equità. 5. La soddisfazione degli utenti. 6. Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità. L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni (fare solo ciò che è utile a chi ne ha veramente bisogno) Indirizzi generali e strumenti: – possedere uno spirito critico sia nei confronti della propria pratica professionale, sia delle evidenze scientifiche; – essere capaci di ricercare, valutare e applicare le migliori evidenze scientifiche (EBP core-curriculum); – valutare sempre il profilo beneficio-rischio degli interventi sanitari; – essere disponibili ad implementare linee-guida Evidence Based Practice (EBP) e a tradurle in percorsi diagnostico-terapeutici condivisi (condivisione multidisciplinare ed inter-professionale, ecc.); – capacità di monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria pratica professionale (ad esempio attraverso gli audit clinici e le M&M). Appare del tutto evidente (anche se purtroppo non sempre scontato) che quando ci sono azioni di efficacia dimostrata (prove incontrovertibili e universalmente condivise) queste devono essere adottate (ad esempio igiene delle mani, profilassi tromboembolica, profilassi antibiotica, check list, processo di identificazione del paziente, del sito chirurgico, del lato, ecc.). Ancora una volta è facile dimostrare come la contravvenzione di corrette pratiche professionali ha una ricaduta (oltre che deontologica) molto concreta in termini di responsabilità professionale (civile, penale e amministrativa). L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa (utilizzare al meglio le risorse disponibili) Indirizzi generali e strumenti: – utilizzare al meglio le “poche” risorse disponibili, un dovere etico in un contesto di risorse limitate (ma anche un preciso dovere deontologico come è scritto all’art. 6 «tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse»); – “condivisione e responsabilizzazione”: tutti i professionisti della sanità devono rendere conto di come vengono investite ed utilizzate le risorse in 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 125 sanità. Efficienza operativa ed economica (efficienza interna): far in modo che siano eseguiti gli interventi voluti con risparmio di risorse (tempo, denaro). Efficienza allocativa (efficienza esterna): far in modo che siano finanziati gli interventi più convenienti, con un rapporto efficacia/costi più elevato; – Health care tecnology assessement: per decidere “cosa fare” (necessità di valutare l’appropriatezza delle procedure diagnostico-terapeutiche, delle tecnologie da utilizzare nell’assistenza e dei modelli organizzativi, con l’obiettivo di individuare l’allocazione ottimale delle risorse disponibili); – assicurare il percorso di cura attraverso un approccio centrato sul paziente e sull’insieme del suo percorso assistenziale attraverso la condivisione multidisciplinare, la responsabilizzazione e la partecipazione. Raramente, infatti, un problema di salute in una organizzazione sanitaria è trattato da un solo professionista o da professionisti di una sola disciplina. Per lo più vi contribuiscono più professionisti della stessa disciplina, più discipline, più categorie professionali, più unità organizzative e talvolta anche più organizzazioni. Più aumentano la varietà e la specializzazione dei contributi, più sono le “interfacce”, più diventa utile l’approccio per processi per ridurre la complessità e ottimizzare l’uso delle risorse; – monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria pratica professionale attraverso audit organizzativi (o verifiche interne o audit di sistema). Un tema strettamente correlato è rappresentato dalla economia sanitaria e farmaco-economia («la salute non ha prezzo ma ha dei costi»). «L’economia è la scienza che studia come le comunità usano le risorse scarse per produrre beni utili e distribuirli tra i membri della comunità» (Samuelson). Economia sanitaria: rappresenta l’applicazione della scienza economica al settore sanitario. Perché «le risorse limitate devono essere allocate in modo tale da massimizzare i benefici e allo stesso tempo assicurare che i servizi sanitari siano ripartiti in modo giusto (priorità ed equità)» (Mooney, 1996). La farmaco-economia, branca dell’economia sanitaria, è una nuova disciplina che si occupa di valutare diversi interventi sanitari, almeno uno dei quali di carattere farmacologico, sotto il profilo economico. Le conseguenze cliniche (efficacia) e quelle economiche (costi) di ogni intervento sono alla base di ogni studio di farmaco economia: 126 Manuale della Professione Medica – – – – Analisi costo-efficacia (ACE). Analisi costo-utilità (ACU). Analisi costo-beneficio (ACB). Analisi di minimizzazione dei costi (AMC). Il fine della farmaco-economia non è (e non deve essere) quello di ridurre la spesa sanitaria bensì di individuare la priorità dell’allocazione di risorse scarse fra utilizzi alternativi (razionalizzare e non razionare). La tempestività e la continuità delle cure (la risposta giusta al momento giusto: il paziente al centro della organizzazione) Indirizzi generali e strumenti: – definire percorsi di cura integrati, con chiara identificazione di chi fa che cosa, come, quando; – garantire il raccordo tra ospedale e territorio, l’integrazione tra le varie professionalità e la continuità dei percorsi sanitari; – prediligere l’approccio per processi; – conoscere e rispettare le competenze, le responsabilità, gli incarichi dei colleghi; – conoscere ed osservare norme, regole, linee-guida, codici di condotta pertinenti con la propria professione. L’accessibilità e l’equità (garantire agli utenti un accesso equo al servizio di cui hanno bisogno) Questo tema è particolarmente specifico per i medici (ma non soltanto loro) che si occupano di macro organizzazione e/o per quelli impegnati nella proposta, programmazione e attuazione delle politiche sanitarie. Indirizzi generali e strumenti: – assicurare parità di trattamento, a parità di condizione del servizio prestato, a prescindere dall’area geografica di residenza e/o dalla fascia sociale di appartenenza del cittadino. Maggiore accesso andrebbe garantito a chi ha più bisogno sulla base di criteri espliciti (in presenza di limitate risorse, l’accesso deve essere maggiore per chi ha più necessità); – programmazione sanitaria: distribuire in modo razionale sul territorio le strutture di assistenza sanitaria al fine di garantire uguale accesso ai servizi disponibili a fronte di uguali bisogni; – equità nell’accesso alle informazioni. L’equità è un principio fondante del Servizio Sanitario pubblico. Vi sono evidenze che dimostrano che spesso chi è più svantaggiato socialmente – paradossalmente – ha minore accesso ai servizi 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 127 sanitari efficaci e maggiore accesso ai servizi non efficaci e che alla base di questo fenomeno vi è spesso una differenza nella conoscenza ed informazione; – sanità d’iniziativa: le comunità più a rischio sono anche quelle che usufruiscono di meno della gamma completa di servizi preventivi secondo la cosiddetta “legge inversa di prevenzione”; – garantire imparzialità, che si concretizza in un comportamento di neutralità rispetto alle diverse tipologie di cittadini utenti, e nell’impegno ad erogare prestazioni sanitarie evitando ingiustificate ‘discriminazioni’ nell’osservanza della pari dignità tra gli utenti. La soddisfazione degli utenti (ascolto dell’utente) Indirizzi generali e strumenti: – fornire informazioni, ove disponibili, basate su prove di efficacia, in grado di aiutare gli utenti a comprendere il percorso assistenziale e metterli in grado di partecipare attivamente ai percorsi di diagnosi e cura (EMPOWERMENT); – metodo story-telling: raccogliere “LE STORIE” del paziente per avere opportunità vere di capire la percezione dell’utente; – medicina narrativa (NBM, Narrative Based Medicine): prendersi cura della gente tenendo conto del personale vissuto esperienziale della propria condizione umana; – saper integrare EBM e NBM: «L’EBM riduce (non annulla) l’incertezza delle conoscenze … la NBM facilita la relazione e la partecipazione delle Persone»; – tener conto dell’esperienza degli utenti per costruire percorsi davvero condivisi. World Health Organization Declaration of ALMA-ATA International Conference on Primary Health Care 6-12 September 1978 ART. 4 Le persone hanno il diritto e il dovere di partecipare individualmente e collettivamente alla progettazione e alla realizzazione dell’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità (valutazione, monitoraggio e MCQ… chi si ferma è perduto!) Indirizzi generali e strumenti: – definire standard professionali di elevato valore tecnico (proceduralizzare in protocolli, linee-guida, ecc., la conoscenza scientifica EBM; identificare ed utilizzare standard riconosciuti e condivisi di best practice); 128 Manuale della Professione Medica – documentare la qualità delle prestazioni e dei servizi erogati attraverso criteri di valutazione, indicatori e standard di riferimento appropriati. Confronto sistematico tra ciò che viene fatto (indicatore) e quanto si dovrebbe fare (standard) attraverso audit clinici, M&M e verifiche interne; – attuare la metodica del PDCA (Plan (pianifico), Do (faccio), Check (misuro), Act (miglioro)…) su tutti i processi per garantire il MCQ (Miglioramento Continuo della Qualità): stabilire un sistema di misurazione continua della qualità a livello di processo, struttura, esito, soddisfazione dell’utenza, costi, ecc. al fine di perseguire il circolo virtuoso del MCQ. Una sintesi perfetta del concetto di qualità in sanità: «Nessuna occasione, responsabilità o dovere più importante può capitare a un essere umano che quello di diventare medico. Nella cura di chi soffre egli necessita di competenza tecnica, conoscenza scientifica e umana comprensione. Chi è capace di usare queste doti con coraggio, umiltà e buonsenso assicurerà un servizio senza uguali al suo occasionale compagno … Dal medico ci si aspetta tatto, attenzione e comprensione in quanto il paziente non è una semplice collezione di sintomi, segni, funzioni alterate, organi lesi o sensazioni disturbate. Egli è invece un essere umano con paure e speranze che cerca sollievo, aiuto e assicurazione … Per il medico … nulla dell’uomo è strano o ripugnante … il vero medico ha un interesse profondo per il saggio e per il pazzo, per l’orgoglioso e per l’umile, per l’eroe stoico e per il vagabondo lamentoso: egli si prende cura della gente …». [dalla Prefazione alla 1° edizione dell’Harrison] Art. 14 - Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria, alla prevenzione e gestione del rischio clinico anche attraverso la rilevazione, segnalazione e valutazione degli errori al fine del miglioramento della qualità delle cure. Il medico a tal fine deve utilizzare tutti gli strumenti disponibili per comprendere le cause di un evento avverso e mettere in atto i comportamenti necessari per evitarne la ripetizione; tali strumenti costituiscono esclusiva riflessione tecnico-professionale, riservata, volta alla identificazione dei rischi, alla correzione delle procedure e alla modifica dei comportamenti. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 129 Basta la semplice lettura di questo articolo, introdotto per la prima volta nell’ultima revisione del Codice di Deontologia medica del dicembre 2006, per cogliere in tutta la sua evidenza l’importanza che, unanimemente, il Consiglio nazionale della FNOMCeO ha inteso attribuire al tema della sicurezza delle cure traducendo in chiave moderna quel primum non nocere di ippocratica memoria. Fino a non molti anni or sono sembrava quasi strano parlare di sicurezza in sanità e la cultura dell’errore era indissolubilmente legata a quella della colpa accompagnandosi sempre a riprovazione da parte della stessa comunità professionale oltre che, ovviamente, a riprovazione sociale. Negli ultimi anni vi è stato ed è tuttora in corso un profondo mutamento culturale rispetto al tema dell’errore sempre più visto con occhio proattivo (ovvero cosa fare per evitare che accada) ma anche con sguardo esperenziale positivo (ovvero quali insegnamenti è possibile trarre da quanto è accaduto). Senza la pretesa di trattare in questa sede un argomento che per sua natura mal si concilia con una sintesi estrema, è tuttavia possibile richiamare per spot gli indirizzi generali e strumenti: – promuovere la cultura della sicurezza in tutti gli operatori, a cominciare dalla formazione; – adeguare le strutture a tutti gli standard strutturali, tecnologici ed organizzativi previsti dalle normative nazionali e regionali (Autorizzazione, Accreditamento istituzionale e di eccellenza); – attuare e, se possibile, attestare le Buone Pratiche per la sicurezza del paziente; – garantire la sicurezza dei percorsi sanitari e prevenire i rischi derivanti da comportamenti non conformi a standard condivisi, soprattutto di tipo professionale e/o organizzativo; – valutare accuratamente le criticità e le situazioni a rischio e conseguentemente, individuare ed adottare tutti gli accorgimenti, atti a minimizzare gli eventuali rischi individuati; – implementare le metodologie e gli strumenti della Gestione del Rischio Clinico; – identificare le aree a rischio (Incident reporting, Eventi Sentinella, Analisi dei reclami, Analisi del Contenzioso e della sinistrosità, Dati amministrativi attraverso le SDO, Studio delle cartelle cliniche, ecc.); – analizzare i rischi (Audit Clinici, M&M, RCA e FMEA); 130 Manuale della Professione Medica – attuare interventi per la sicurezza (oltre le già citate Buone Pratiche per la sicurezza del paziente anche con l’adozione di check list, scheda unica di terapia, procedure di corretta identificazione del paziente, del lato e del sito chirurgico ecc.); – monitorare continuamente (verifiche interne) sia i near miss che gli eventi ed eventi avversi; monitorare anche la propensione del sistema (compliance) a segnalare e valorizzare queste esperienze. La qualità delle prestazioni (che presuppone competenza, qualità professionale e gestionale, sicurezza ecc.) ha rappresentato da sempre una necessità del genere umano e non una opzione fra le tante. La spinta verso la qualità deriva da una insoddisfazione di base unita alla necessità di usare sempre meglio le risorse che con grande fatica si riesce a recuperare o ad avere a disposizione. Questo è stato il meccanismo che in tutti i campi del genere umano ha portato al progresso: non accontentarsi dei risultati raggiunti anche se questi appaiono soddisfacenti o addirittura buoni. Questa è la sfida continua che in medicina, come nella vita, dobbiamo accettare e, se possibile, vincere. Art. 33 - Informazione al cittadino Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione al cittadino in tema di prevenzione. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata. 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 131 Art. 34 - Informazione a terzi L’informazione a terzi presuppone il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all’art. 10 e all’art.12, allorché sia in grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri. In caso di paziente ricoverato, il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili. Sin dall’antichità Ippocrate aveva esattamente individuato la finalità dell’atto medico e la sua legittimità; basti ricordare, infatti, ciò che quest’ultimo affermava: «Medico neminem laedere est propositum». Con l’evolversi delle conoscenze in campo medico e attraverso gli orientamenti giurisprudenziali in merito si è andato consolidando il concetto di rapporto medico/paziente alla pari ove il paziente non è più colui che si affida incondizionatamente alle cure del medico, ma al contrario chiede e pretende da questi di ottenere le informazioni necessarie affinché possa decidere, con gli elementi a disposizione ed in piena autonomia, se e a quale trattamento aderire. È assodato quindi il concetto che la liceità dell’atto medico sia subordinata al consenso dell’avente diritto cioè il paziente stesso o in alcuni casi di soggetto minore, interdetto o inabilitato, da chi detiene il potere di legale rappresentante (genitore, tutore, giudice tutelare); salvo casi in cui ricorra lo “stato di necessità” per cui il medico è chiamato ad agire tempestivamente per salvare la vita del paziente anche senza il consenso del paziente o dei suoi legali rappresentanti. La legislazione italiana manca di una normativa sul consenso all’atto medico ed è quindi necessario far riferimento ad alcuni articoli di legge per capire dove risieda l’obbligatorietà da parte del medico di richiedere il consenso ai trattamenti stessi. La liceità dell’atto medico trova oggi legittimazione anzitutto nel dettato costituzionale dell’ art. 32 secondo il quale «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Parimenti, l’art. 13 della Costituzione afferma che «la libertà personale è inviolabile», rafforzando quindi il dato di indipendenza dell’individuo nelle scelte che lo riguardano personalmente. 132 Manuale della Professione Medica Ciononostante l’art. 5 cc stabilisce che «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica», di conseguenza molti trattamenti medici potrebbero essere considerati illeciti in quanto procurano una lesione dell’integrità fisica del soggetto configurando l’evento “lesione di un diritto”. Di contro l’art. 50 cp ammette che «non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con consenso della persona che può validamente disporne», ne deriva che l’autorizzazione del paziente ad una diminuzione della propria integrità fisica data validamente rende l’atto medico legittimo. Il consenso ex art. 50 cp riguarda solo diritti di cui la persona può validamente disporre e, evidentemente, rinunciare alla propria integrità fisica al fine di raggiungere un bene superiore cioè il miglioramento dello stato di salute proprio o di quello altrui, si pensi agli espianti da vivente, è un diritto disponibile: il primo perché procura un beneficio al paziente, il secondo in quanto è previsto dalla legge. I sanitari adempiono a questo dettato attraverso le attività di prevenzione, di diagnosi, di terapia e di riabilitazione mirate al controllo, alla preservazione e al recupero della salute individuale e collettiva. Il consenso del paziente entra quindi in gioco ogni qual volta un paziente debba essere sottoposto ad un trattamento sia esso diagnostico, chirurgico o farmacologico e prevede l’accettazione volontaria al trattamento stesso. Il consenso del paziente costituisce inoltre un elemento essenziale del contratto d’opera professionale che regola i rapporti tra il paziente e il medico. In questo senso l’obbligo di informazione assume importanza nella fase precontrattuale, fase in cui si forma il consenso al trattamento sanitario e in cui si rileva il dovere per i contraenti di comportarsi secondo buona fede (art. 1337 cc). Il consenso, pertanto, deve sempre essere richiesto in quanto è l’unica espressione che autorizza un qualsiasi atto medico. Altra figura sanitaria che non può essere mai delegata a sostituire il medico in questo compito, ma partecipa all’informazione per quanto di sua competenza, è l’infermiere al quale è richiesta una fondamentale opera di assistenza al malato. L’obbligo dell’informazione è a carico del medico che formula la proposta terapeutica e che dà esecuzione alla stessa. Negli ospedali, poiché i sanitari si avvicendano nel rapporto con il paziente, la responsabilità diventa corresponsabilità. Un consenso privo di informazione completa si può configurare alla stregua 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 133 di un reato di truffa: infatti solo attraverso una completa informazione relativa a tutte le fattispecie dell’intervento medico (diagnosi, prognosi, scopi dell’intervento, rischi generici e specifici di ogni fase dello stesso, alternative terapeutiche) il consenso può dirsi espressione piena della volontà del paziente e non semplice e inconsapevole adesione alle direttive del sanitario già intraprese. La regola generale deve dunque essere quella di fornire tutte le informazioni che si ritengono necessarie e utili affinché il paziente possa scegliere consapevolmente. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha orientato verso lo standard soggettivo laddove sostiene che «[…] l’informazione non è finalizzata a colmare la inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e quindi di formarsi una volontà che sia effettivamente tale, in altri termini in condizioni di scegliere». La radice linguistica della parola consenso si ritrova nelle parole “con” (base semitica, in latino “cano”: comporre, porre insieme, predire) e “sentes” (dall’accadico “sintu”: destino) da cui la lettura del significato di consentes e consens cioè “Porre insieme, comporre, predire un destino”. È compito quindi del medico il quale è custode di conoscenza comporre un legame con il paziente e con il senso della sua sofferenza, della sua malattia o stato morboso, della sua esistenza, della sua personalità. Consenso deve significare partecipazione, consapevolezza, informazione, libertà di scelta e di decisione delle persone ammalate; deve essere inteso come un momento di quella alleanza terapeutica fondamentale per affrontare la malattia. L’equilibrato comportamento che il medico assume di caso in caso dipende in modo precipuo dal tipo di rapporto che egli e suoi collaboratori hanno saputo e voluto instaurare con il paziente al fine di conoscere pienamente la sua reale condizione psichica e morale per ottenere un valido consenso. Una volta concesso il consenso da parte del paziente può essere revocato in qualsiasi momento. L’assenza del consenso corrisponde a violazione di un diritto del paziente e può configurare, a seconda dei casi, i reati di violenza privata, lesione personale e omicidio preterintenzionale. L’articolo 50 del Codice penale stabilisce la non punibilità di chi lede un diritto, o lo mette in pericolo, con il consenso di chi può validamente disporne. Disattendere a questa norma può comportare il reato di lesioni personali (art. 582) o lesioni personali colpose (art. 590). 134 Manuale della Professione Medica Dei casi di mancato consenso l’esperienza giurisprudenziale ha avuto modo di occuparsi: torna in mente la nota vicenda relativa all’opposizione dei genitori, appartenenti ai Testimoni di Geova, rispetto alla indispensabile trasfusione di sangue nei confronti della loro figlia. In tale situazione deve ritenersi doveroso da parte del medico, rivolgersi all’autorità giudiziaria, evidenziando la situazione sanitaria del paziente ed il rifiuto del suo rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non sussistano ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire alcun ritardo. È evidente, in tale ultima ipotesi, che il sanitario debba attivarsi immediatamente. In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i problemi sono ancor più accentuati, anche come conseguenza del totale vuoto normativo, ciò che lascia il medico completamente solo di fronte a scelte di così evidente rilevanza. Ad ogni modo il medico dovrà spiegare al suo assistito: quale trattamento (diagnostico, chirurgico o farmacologico) sta proponendo; quali benefici il paziente può attendersi dal trattamento stesso; quali complicanze potrebbero verificarsi in caso di accettazione; a quali rischi per la salute si espone il paziente con un eventuale rifiuto; quali trattamenti alternativi, se ve ne sono, sono disponibili. Nelle situazioni a prognosi infausta, comunicare con eccessiva crudezza la gravità di una situazione patologica può causare sentimenti di ansia, angoscia e depressione nel malato. Ove non necessario, perciò, il medico non deve compromettere l’equilibrio psicologico del paziente che, oltre a essere un suo diritto tutelato dalla legge, è un fattore capace di incidere sul decorso della malattia. Il paziente, tuttavia, ha diritto di chiedere e ricevere informazioni più dettagliate, oppure può scegliere di non essere informato o delegare una terza persona a ricevere le informazioni ed esprimere il consenso. Art. 35 - Acquisizione del consenso Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 135 una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33. Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità della persona devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente. Il consenso deve essere quindi espresso liberamente e la forma scritta è obbligatoria nei seguenti casi: terapia con emoderivati e plasmaderivati (DM 15/1/1991, art. 19; DM 1/9/1995, art. 4); espianto di organi (legge 458/1967, art. 2, donazione rene da vivente; legge 91/1999: dissenso all’ espianto da cadavere); sperimentazione clinica; procedimenti diagnostici e terapeutici con grave rischio per la incolumità. Può definirsi “raccomandata” la forma scritta anche in caso di: atti chirurgici, procedure invasive terapeutiche o diagnostiche o con mezzi di contrasto, trattamenti oncologici, trattamenti con radiazioni ionizzanti, trattamenti psichiatrici di maggior impegno, terapie con elevata incidenza di reazioni avverse, prescrizioni di medicinali al di fuori delle indicazioni ministeriali. L’articolo 1325 del Codice civile sancisce l’obbligo dell’accordo tra le parti per il perfezionamento del contratto, accordo la cui carenza dà luogo a nullità del contratto stesso (art. 1418). Nella Convenzione del Consiglio d’Europa, invece, la materia è molto più dettagliata. In particolare il testo afferma: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione» (art. 9); inoltre: «Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata» (art. 10). Riassumendo, in Italia le norme più esplicite e complete sull’argomento si 136 Manuale della Professione Medica ritrovano nel Codice deontologico del medico, che contiene la disciplina cui ogni professionista si deve attenere nell’esercizio della professione. Più precisamente in maniera molto dettagliata l’attuale Codice deontologico del 16 dicembre 2006, sancisce al Capo IV (Informazione e consenso), l’obbligo di informazione al cittadino (art. 33) o ai terzi (art. 34), nonché l’obbligo di acquisizione del consenso informato del paziente (art. 35) o del legale rappresentante nell’ipotesi di minore (art. 37). Lo stesso Codice deontologico stabilisce poi l’obbligo di rispettare l’autonomia del cittadino anche per quanto riguarda le direttive anticipate (art. 38) nonché i comportamenti da tenere nell’ipotesi di assistenza d’urgenza (art. 36). Si può pertanto sostenere che sussiste un obbligo diretto, di natura deontologica, all’informazione al paziente, nonché all’acquisizione del consenso informato. Obbligo che, ove non ottemperato, potrebbe dar luogo di per sé, indipendentemente da eventuali danni in capo al paziente, all’apertura di procedimento disciplinare a carico del sanitario, davanti all’Ordine professionale competente. Il consenso, per essere valido, deve essere rilasciato esclusivamente dal diretto interessato, salvo alcune eccezioni. Nel caso in cui il paziente sia minorenne ovvero incapace di intendere e di volere, il valido consenso dovrà esser prestato da chi ne esercita la potestà: i genitori o il tutore legalmente designato, ovvero il rappresentante legale (tutore o curatore) dell’incapace. Il minorenne, però, ha diritto a essere informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione. Lo stesso vale per la persona interdetta, che ha diritto a essere informata e di veder presa in considerazione la sua volontà. Nel caso in cui il diniego del consenso provenga da un tutore legale il medico ha il dovere di sottoporre la questione all’autorità giudiziaria. Accade spesso, nel caso di paziente temporaneamente impossibilitato a fornire il proprio consenso (ad esempio perché in coma), che il medico si rivolga ai prossimi congiunti, chiedendo loro il preventivo consenso ad un intervento di particolare difficoltà. Sotto il profilo strettamente giuridico, e specificamente penale, occorre sottolineare che il consenso dei prossimi congiunti non ha alcun valore. Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso, pertanto, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità, e, qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile. Sia il Codice penale (art. 54), infatti, sia il Codice deontologico (artt. 8 e 36) prevedono che, in situazioni 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 137 d’emergenza, il medico è tenuto a prestare la sua opera per salvaguardare la salute del paziente. Il destinatario dell’informazione può non essere esclusivamente il malato nella sua qualità di avente diritto; nel suo stesso interesse, tutto ciò che riguarda il trattamento chirurgico deve essere disponibile per altri medici che, a diverso titolo, possano o debbano proseguire il percorso terapeutico, ovvero valutarne i risultati. Una successiva strategia terapeutica può infatti essere resa necessaria da complicazioni o da concause sopravvenute, ed il chirurgo intervenuto in seconda istanza ha l’assoluta necessità di conoscere perfettamente quanto può essersi verificato nella prima fase di cura. Un altro importante aspetto è che la persona che deve dare il consenso, deve essere informata inoltre sulle capacità della struttura sanitaria di intervenire in caso di manifestazione del rischio temuto; il consenso scritto deve essere controfirmato dal paziente e dal medico. Comunque, in caso di ricovero, il consenso deve far parte della cartella clinica. La rinnovata cultura sociale sul modo di intendere il rapporto medico/ paziente ha influenzato anche la giurisprudenza, che ha prima recepito e poi ritenuto fondamentale il principio della obbligatorietà del cosiddetto “consenso informato”. I principi della Carta Costituzionale e la stessa legge 833/78 hanno fatto da cornice alle diverse stesure dei Codici deontologici ed oggi a precise norme di legge che hanno costruito una giurisprudenza che sempre più ha “allargato” il proprio fronte a favore dei cittadini eliminando la “sacralità” dello stesso ruolo del medico. Quindi, oggi alcune sentenze di Cassazione, hanno individuato che la responsabilità e i doveri del medico non riguardano più solo l’attività propria e dell’eventuale “équipe” che a lui risponde, ma si estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui egli presta la propria attività, traducendosi in un dovere di informazione diretto al paziente, nel rispetto dell’obbligatorietà del “consenso informato”. La Cassazione ha stabilito con sentenza (Cass. civ. sez. III 15/1/1997, n. 364) che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente, aggiungendo che «se le singole fasi assumono un’autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi». Inoltre, la Cassazione con una altra sentenza più recente (Cass. civ. sez. III 16/5/2000, n. 6318) ha stabilito meglio il principio “dell’estensione ogget- 138 Manuale della Professione Medica tiva”: «il principio del consenso informato in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivo, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell’arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra». L’omessa informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l’ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico-disciplinare (Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638). In ogni caso il principio che nasce da quanto affermato è che il paziente deve essere messo in condizione non soltanto di decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura, ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra. Per tali presupposti il modulo di consenso dovrà essere adattato all’attività concretamente svolta dal medico ed alle caratteristiche del singolo paziente. Il modulo di consenso informato entra a far parte della documentazione clinica del paziente; pertanto, in caso di contestazioni relative al corretto svolgimento della prestazione compiuta, costituisce un elemento di valutazione della sussistenza o meno della responsabilità professionale del medico. Come affermato in precedenza, i requisiti di validità del consenso escludono la possibilità di avere un modulo “unico” adeguato a tutti i casi ed a tutti i tipi di intervento. Nell’acquisizione di un consenso che possa considerarsi lecito e consapevole nonché valido, sarà opportuno esplicitare tutte le alternative terapeutiche in relazione alla patologia o a i sintomi accusati: per ognuna di queste vanno chiariti i rischi e gli effetti sfavorevoli (in sostanza va spiegato il motivo per cui si è deciso di non scegliere tali tipi di trattamenti); le terapie da effettuare prima del trattamento chirurgico: vanno descritte le cure, anche farmacologiche a cui il paziente dovrà sottoporsi prima dell’intervento, indicandone i benefici e gli effetti indesiderati. Vanno specificati inoltre gli eventuali accorgimenti da adottare in attesa dell’intervento e gli eventuali interventi di altro tipo che potrebbero rendersi necessari od opportuni nel corso dell’intervento presta- 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 139 bilito. Da non sottovalutare affatto le complicanze: vanno indicate tutte quelle che si possono manifestare durante l’intervento, specificando se possibili o probabili in relazione al la patologia ed al singolo paziente. Si dovranno inoltre descrivere gli interventi che sarà necessario eseguire in caso di complicazioni, elencandone i rischi, ma anche gli effetti indesiderati che possono manifestarsi dopo il trattamento chirurgico: complicanze postoperatorie, sintomatologia dolorosa successiva ed effetti visibili sul segmento corporeo operato. Il paziente dovrà essere meso a conoscenza anche dei trattamenti da effettuare dopo l’intervento chirurgico: il tipo di riabilitazione e il trattamento farmacologico e tutti gli accorgimenti che si dovranno adottare. Infine, il paziente dovrà dichiarare: a. Di essere pienamente cosciente. b. Di avere letto attentamente il documento. c. Di avere ricevuto dal medico proponente (identificato nel modulo) le spiegazioni richieste per la piena comprensione. d. Di averne pertanto compreso interamente il contenuto. e. Di autorizzare l’équipe sanitaria ad effettuare il trattamento sopradescritto. f. Di autorizzare fin da subito gli eventuali interventi alternativi previsti. Dovrà essere presente ovviamente sul documento sia la firma del medico che quella del paziente, oltre la data comprensiva di giorno, mese, anno. Art. 37 - Consenso del legale rappresentante Allorché si tratti di minore o di interdetto il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale. Il medico, nel caso in cui sia stato nominato dal giudice tutelare un amministratore di sostegno deve debitamente informarlo e tenere nel massimo conto le sue istanze. In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili. 140 Manuale della Professione Medica In caso di impossibilità o difficoltà di lettura il documento dovrà essere letto al paziente in presenza di un testimone e sottoscritto da entrambi. Nel caso di pazienti minori d’età o in stato di incapacità legale (interdetto o inabilitato), salvo la ricorrenza dello stato di necessità, il consenso dovrà essere prestato dal genitore esercente la patria potestà o al giudice tutelare. In alcuni casi specifici però, ad esempio nel caso dei TSO (trattamento sanitario obbligatorio) cioè quando si realizzano le condizioni per effettuare accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in tutte quelle situazioni in cui l’interesse della collettività alla salute risulta prevalere sui diritti dell’individuo, la sottoposizione a un trattamento sanitario di un paziente può non essere spontanea o addirittura può avvenire contro la sua volontà. È solo il concreto rischio di danni a terzi a costituire il limite oltre il quale il consenso libero e informato può essere prevaricato e solo in questi casi la potestà di curare può essere considerata alla stregua di un obbligo, tanto per il medico che per il paziente. Lo Stato può legittimamente imporre determinati trattamenti sanitari ai cittadini, sia non coattivi (quei trattamenti nei quali l’obbligo è sanzionato solo indirettamente) che coattivi. Il sanitario, pur vincolato al rispetto della libertà, della dignità e della riservatezza del paziente, non può sottrarsi al rispetto di queste norme, ma ciò non lo autorizza a porre direttamente in essere i procedimenti di coazione, potendo infatti avanzare la proposta alle autorità preposte e seguire la procedure specificamente dettata dalla legge. Prendiamo ad esempio lo sciopero della fame: non esiste una legge che consideri l’alimentazione forzata un TSO vero e proprio che possa essere imposto ai detenuti o ai soggetti liberi. Infatti, se una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se una persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla. Un tale conflitto, sicuramente grave e che si realizza anche ogni qual volta una persona rifiuta un trattamento necessario alla sua sopravvivenza per ragioni fondate, consapevolmente e liberamente accolte, non può dunque in nessuna maniera essere risolto in termini coattivi della volontà dell’assistito. Se poi la situazione in cui il medico si può trovare è quella in cui il paziente 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 141 sia privo di coscienza, non siano note le sue volontà e tuttavia versi in uno stato di urgente pericolo di vita o corra il rischio di gravi danni il problema non si pone, poiché il sanitario compirà tutti gli atti possibili, non procrastinabili e necessari in modo specifico per superare quel pericolo o quel rischio. Questa situazione trova la sua giustificazione giuridica nello stato di necessità in base all’art. 54 del codice penale: «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona …». È necessario chiarire quali sono confini entro i quali tale potestà del medico può essere esercitata: a) la potestà medica vale solo nel caso in cui il paziente non abbia manifestato in precedenza una volontà in proposito, non costituisce in nessun modo un obbligo all’intervento in ogni caso, ed entra in gioco in queste circostanze poiché è assente la volontà esplicita del paziente; b) ai familiari, che non hanno rappresentanza legale del paziente, non è riconosciuto potere decisionale; dovranno essere informati e coinvolti, se del caso,ma le decisioni spettano autonomamente al medico, unico legale responsabile. In alcuni casi il medico dovrà confrontarsi per quanto concerne l’informazione e il consenso con persone differenti da quella del paziente che ha in cura e che ne rappresentano gli interessi. La legge, infatti, prevede alcune figure di rappresentanza dei soggetti incapaci di cui diamo qui breve elenco. – La potestà dei genitori, che è quel complesso di poteri e doveri attribuiti dalla legge ai genitori legittimi, naturali e adottivi nei confronti dei figli minori non emancipati (articoli 315 ss. cc). La finalità di tale funzione è il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (sono questi diritti dei minori art. 30 della Costituzione) e nei rapporti verso l’esterno, e quindi anche verso i medici curanti, i genitori hanno il dovere, quali rappresentanti, di sostituire il minore incapace (funzione sostitutiva). – La tutela, che è una forma di protezione prevista per gli interdetti giudiziali e legali e per minorenni i cui genitori siano morti entrambi o per altra causa impediti; il tutore è nominato dal giudice tutelare e ha cura della persona del tutelato, ricomprendendo in tale termine anche l’obbligo di provvedere alla soddisfazione di ogni esigenza dell’incapace, tra cui la cura delle malattie e dunque l’organizzazione dei trattamenti sanitari necessari. 142 Manuale della Professione Medica – L’amministratore di sostegno, figura prevista dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, modificando il nostro Codice civile, ha creato una nuova figura, con la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. La nomina del’amministratore di sostegno, di facile attivazione e che può avvenire anche su richiesta dello stesso interessato che eventualmente indica la persona da cui desidera essere sostenuto, avviene con un atto nel quale il giudice prevede, tra l’altro, l’oggetto dell’incarico conferito e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto dell’interessato. Tra gli atti che possono essere compiuti in nome dell’interessato vi sono ovviamente anche quelli di cura della persona e dunque anche il potere di fornire valido consenso alle prestazioni mediche. – Per i minorenni il medico dovrà interagire con i genitori o con il tutore: essi saranno informati e daranno il consenso in quanto rappresentanti del minore, ma se uno dei genitori non può esercitare la potestà a causa di lontananza, di incapacità o di altro impedimento, la potestà è esercitata in modo esclusivo dall’altro genitore (art. 317 cc); nel caso in cui i genitori sono separati o divorziati l’esercizio della potestà spetta al genitore al quale il figlio è stato affidato, fatta eccezione per le questioni di più forte interesse, come possono essere gravi problemi di salute, per i quali è necessario l’accordo anche dell’altro genitore. Il medico che deve sottoporre un minore a un intervento chirurgico o ad accertamenti diagnostici in relazione a malattia di una certa gravità, farà bene a richiedere il consenso di entrambi i genitori a dimostrazione del fatto che vi sia l’accordo o comunque che gli siano mostrate le particolari condizioni eventualmente stabilite dal Tribunale o dal giudice tutelare. Se tra i genitori c’è disaccordo essi possono ricorrere informalmente al Tribunale per i minorenni, chiedendo che siano presi i provvedimenti più idonei; ovviamente se è stato nominato un tutore il medico farà riferimento a esso quale rappresentante del minore. Può accadere che si versi in una situazione di emergenza e nessuno dei rappresentanti legali del minore sia presente o raggiungibile rapidamente, il medico dovrà intervenire comunque a tutela del diritto alla salute del minorenne. I casi complessi sono quelli in cui i genitori rifiutano i trattamenti per i minori. In tutti quei casi in cui il medico si trovi in una situazione di 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 143 tal natura o, comunque, di forte contrasto con i genitori relativamente alle terapie ritenute necessarie, e non ricorrano le circostanze che abbiamo visto costituire in sé una scriminante, il medico può e deve informare il Tribunale per i minorenni. Nelle località nelle quali non vi è un Tribunale per i minorenni, può rivolgersi al giudice tutelare presso il Tribunale più vicino. Ma se il rifiuto di un trattamento, anche se per motivi religiosi o di convincimento morale, fosse accompagnato dalla richiesta o dalla disponibilità ad altro trattamento pure possibile e che non presenti rischi particolarmente più alti, allora la richiesta dei genitori dovrà essere soddisfatta e la loro decisione non potrà essere considerata una violazione dei doveri della potestà. Tra i minori sono compresi anche gli adolescenti i quali, se non completamente autonomi, sono spesso perfettamente in grado di rendersi conto di ciò che gli accade, di maturare opinioni autonome e di esprimere in proposito la loro volontà. Il medico deve comunque richiedere il consenso al paziente adolescente (che in molti sistemi legali viene considerato valido di per sé), in quanto questi è in grado di apprezzare le ragioni e il significato dell’intervento che gli viene proposto; al fine della valutazione generale deve essere anche tenuta in conto la natura e l’entità dell’intervento. Art. 32 - Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili Il medico deve impegnarsi a tutelare il minore, l’anziano e il disabile, in particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero sia sede di maltrattamenti fisici o psichici, violenze o abusi sessuali, fatti salvi gli obblighi di segnalazione previsti dalla legge. Il medico deve adoperarsi, in qualsiasi circostanza, perché il minore possa fruire di quanto necessario a un armonico sviluppo psico-fisico e affinché allo stesso, all’anziano e al disabile siano garantite qualità e dignità di vita, ponendo particolare attenzione alla tutela dei diritti degli assistiti non autosufficienti sul piano psico-fisico o sociale, qualora vi sia incapacità manifesta di intendere e di volere, ancorché non legalmente dichiarata. Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria. 144 Manuale della Professione Medica Il medico, analogamente a tutti gli altri professionisti della salute, è tenuto a collaborare al normale funzionamento dell’amministrazione della giustizia in forza di esplicite e puntuali indicazioni di natura sia deontologica che normativa; in tal senso le previsioni della deontologia medica, nel confermare, tra le giuste cause di rivelazione del segreto professionale, la necessità di ottemperare ad inderogabili doveri che derivano da specifiche norme legislative, sono molto esplicite. Innanzitutto esortano il medico a porre particolare attenzione nei riguardi delle persone più fragili (anziani, minori e persone diversamente abili), anche attraverso l’obbligo di referto o di denuncia all’autorità giudiziaria in tutti i casi previsti dalla legge e nel ricordare al medico il dovere di informativa all’autorità giudiziaria nel caso in cui il rappresentante legale si opponga a trattamenti necessari ed indifferibili a favore della persona minore e/o incapace. Quindi il sanitario che ha prestato la sua opera e/o assistenza in un caso che prefiguri l’ipotesi di un delitto perseguibile d’ufficio, potrà, in qualità di pubblico ufficiale e/o incaricato di pubblico servizio, appellarsi alla natura della prestazione professionale ricorrendo alla deroga prevista dal secondo comma dell’ art. 365 del Codice penale. La tutela dei soggetti fragili risulta come un obiettivo fondamentale della politica sanitaria del paese e inserirle l’obiettivo al centro degli interventi di tutela della salute è un impegno etico soprattutto se si pensa che il nostro è un sistema sanitario basato sui principi della solidarietà e della universalità, e quindi, in un tale sistema, operare una discriminazione nell’accesso alle cure sarebbe ingiustificabile. Ricordiamo come la legge 328 del 2000 all’art. 22 comma 2 precisa che: «Ferme restando le competenze del Servizio Sanitario Nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, nonché le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale: a) misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora; 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 145 b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana; c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; d ) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare; e) misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio decretolegge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni, integrazioni e norme attuative; f) interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’articolo 14; realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio di cui all’articolo 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie; g) interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio; h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale; i) informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto». L’aumento della durata di vita ad esempio è un ottimo traguardo, ma non ha eliminato una caratteristica sempre presente nell’invecchiamento: anche se aumenta l’aspettativa di vita, al termine di questa, vi è un periodo di malattie croniche, spesso di non autosufficienza. Per non parlare del sostegno e dell’affiancamento alle famiglie in cui sono presenti disabili totalmente non autosufficienti, anche giovani o adulti, e la necessità da parte degli organi sanitari di migliorare le condizioni di salute anche dei minori e degli adolescenti, migliorando così la qualità di vita di tutti, 146 Manuale della Professione Medica dovendo e potendo per far questo, potenziare certamente i servizi, ma anche avere la possibilità di ricorrere, ove doveroso, all’autorità giudiziaria. Art. 27 - Libera scelta del medico e del luogo di cura La libera scelta del medico e del luogo di cura da parte del cittadino costituisce il fondamento del rapporto tra medico e paziente. Nell’esercizio dell’attività libero professionale svolta presso le strutture pubbliche e private, la scelta del medico costituisce diritto fondamentale del cittadino. È vietato qualsiasi accordo tra medici tendente a influire sul diritto del cittadino alla libera scelta. Il medico può consigliare, a richiesta e nell’esclusivo interesse del paziente e senza dar luogo a indebiti condizionamenti, che il cittadino si rivolga a determinati presidi, istituti o luoghi di cura da lui ritenuti idonei per le cure necessarie. Ogni cittadino ha la necessità di essere rispettato nella libertà di scelta del medico, del luogo di cura. Viene affermata, in buona sostanza, che la cura e la correlativa esigenza di garanzia di scelta finale sui presidi, istituti o luoghi di cura da privilegiare per garantire la cura stessa deve essere del cittadino. Il rapporto medico-cittadino rimane sempre e comunque di carattere fiduciario e deve sussistere, a garanzia della migliore riuscita delle cure, perché in sua mancanza difficilmente il rapporto potrebbe garantire risultati positivi. Per quanto attiene alla libera scelta del medico, questa è ribadita anche nella normativa del Servizio Sanitario Nazionale e trova applicazione nei provvedimenti regolamentari: rappresenta un principio fondamentale ed inalienabile che deve improntare il rapporto medico-paziente, proprio per la natura fiduciaria che caratterizza tale rapporto. La libertà di scelta e la natura fiduciaria del rapporto professionista-cliente, trovano riscontro effettivo nell’art. 2232 cc che al 1° comma sancisce l’obbligo di «eseguire personalmente l’incarico assunto» evidenziando, così, indirettamente, l’aspetto fondamentale della fiducia che connota il rapporto in esame con conseguenze notevoli anche per il diritto. Il Codice deontologico ribadisce come dovere comportamentale del medico il rispetto del diritto del paziente alla libera scelta del curante, prendendo anche in considerazione la sostanziale disparità che spesso connota il 3. Doveri del medico e diritti del cittadino 147 rapporto medico-paziente e che può consentire al primo di influenzare l’altro su scelte di tipo sanitario. In effetti uno dei primi diritti in sanità della persona assistita è quello di scegliere liberamente il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta. La libertà di opzione riconosciuta ai cittadini può essere esercitata entro un limite massimo di assistiti per medico, ha validità annuale ed è tacitamente rinnovata. L’assistenza include numerose prestazioni quali visite in ambulatorio, assistenza domiciliare, prescrizione di farmaci e/o accertamenti diagnostici, certificazioni ecc. Si ricorda che è anche tutelata la libertà di scelta del luogo di cura, alle condizioni previste negli articoli 8-ter e seguenti del DLgs 502/92 e successive modifiche: «Al fine di favorire l’esercizio del diritto di libera scelta del medico e del presidio di cura, il Ministero della sanità cura la pubblicazione dell’elenco di tutte le istituzioni pubbliche e private che erogano prestazioni di alta specialità, con l’indicazione delle apparecchiature di alta tecnologia in dotazione nonché delle tariffe praticate per le prestazioni più rilevanti». 4 Gli obblighi del medico L. Conte, S. Del Vecchio, B. Magliona Art. 19 - Aggiornamento e formazione professionale permanente Il medico ha l’obbligo di mantenersi aggiornato in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestionale organizzativa, onde garantire lo sviluppo continuo delle sue conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei progressi della scienza, e di confrontare la sua pratica professionale con i mutamenti dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini. Il medico deve altresì essere disponibile a trasmettere agli studenti e ai colleghi le proprie conoscenze e il patrimonio culturale ed etico della professione e dell’arte medica. L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM In occasione della celebrazione del centenario della creazione dell’Ordine dei Medici, nel nostro paese, ci troviamo a vivere un momento di grande crisi economico-finanziaria, ma anche politica (nel senso della buona politica), morale e civile. Ed anche la nostra professione vive una crisi più profonda che in altri periodi perché culturalmente non sufficientemente e generalmente attrezzata a dare risposte adeguate ad una società in rapidissima evoluzione ed una politica pervasiva talvolta irrispettosa dei valori fondanti dell’arte medica. È necessario ricomporre l’unitarietà della nostra professione che negli ultimi anni si è frammentata e dispersa in molte gloriose identità e diversità perdendo di vista l’obiettivo finale e soprattutto perdendo autorevolezza ed “appeal sociale”. Questo non deve significare la rinuncia alle proprie peculiarità ma semplicemente un’armonizzazione di posizioni e linguaggi per proporre un nuovo patto, una nuova alleanza, tecnica, civile e sociale fondata sul riconosci- 150 Manuale della Professione Medica mento di una compiuta autonomia professionale, quale condizione favorente l’assunzione piena di nuove responsabilità, per restituire dignità all’impegno professionale, per ridare slancio alla solidarietà ed equità per quei diversi e quei diseguali che lo sviluppo economico e sociale immancabilmente produce e dimentica, per irrobustire la fiducia dei professionisti e dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nei valori costituzionali che esse custodiscono. Il paradosso di un medico sempre più piccolo in quanto confinato al rango di anonimo ed eterodiretto prestatore d’opera in una medicina ed una sanità sempre più grandi e complesse, è superabile solo attraverso una più attuale ed incisiva rinegoziazione con i cittadini e con le istituzioni di nuovi ruoli e compiti. E da questo punto di vista gli Ordini hanno condiviso il progetto di Educazione Continua in Medicina come strumento utile allo scopo di attrezzare culturalmente i propri medici ad assumere il giusto autorevole ruolo nella società moderna. Quindi è obbligo del medico, per tutta la durata della sua attività professionale, mantenere uno standard ottimale di conoscenze e di abilità in relazione ai progressi del sapere scientifico ed all’impetuoso sviluppo delle nuove tecnologie sanitarie. Questo è il presupposto fondamentale per garantire al cittadino un corretto e proficuo rapporto di fiducia con il medico, che trova puntuale riscontro anche nelle norme legislative che regolano l’esercizio della professione. Ma come è cambiato lo scenario legislativo per quanto attiene l’aggiornamento e la formazione del medico nel nostro paese? Fin dal 1978 è stato uno degli obiettivi primari del SSN ed era sottolineato come una esigenza indiscutibile e lo stesso nostro Codice deontologico del 1998 l’aveva richiamato soltanto come un dovere morale del medico. Successivamente con il DLgs n. 502/92, integrato con gli artt. 16 bis, 16 ter e 16 quater del DLgs n. 229/99, l’obbligo dell’Educazione Continua in Medicina (ECM) per i medici è divenuto istituzionale nel nostro paese come in quasi tutti i paesi del mondo. Quindi i medici in passato si sono sempre aggiornati liberamente secondo i propri bisogni e le loro preferenze. Oggi la legge prevede un controllo sistematico e “misurato” del livello di conoscenze mantenute ed aggiornate, sulla base del numero di crediti acquisiti annualmente dal professionista con la frequenza di “formazione accreditata”, 4. Gli obblighi del medico 151 residenziale, a distanza o sul campo. E soprattutto, pur prevedendo una parte formativa lasciata alla libera scelta del professionista, il SSN ed i SSSSRR stabiliscono gli obiettivi formativi in linea con le proprie esigenze di sviluppo. È per questo scopo che, in tutti i paesi del mondo, sono nati i programmi di Educazione Continua in Medicina (ECM); essa comprende l’insieme organizzato e controllato di tutte quelle attività formative, sia teoriche che pratiche, promosse da chiunque lo desideri (si tratti di una Società scientifica o di una Società professionale, di una Azienda ospedaliera, o di una Struttura specificamente dedicata alla formazione in campo sanitario, ecc.), con lo scopo di mantenere elevata ed al passo con i tempi la professionalità degli operatori della sanità. Partecipare ai programmi di ECM è un dovere degli operatori della sanità, richiamato anche dal Codice deontologico, ma è anche – naturalmente – un diritto dei cittadini, che giustamente richiedono operatori attenti, aggiornati e sensibili. Ciò è oggi particolarmente importante ove si pensi che il cittadino è sempre più informato sulle possibilità della medicina di rispondere, oltre che a domande di cura, a domande più complessive di salute. Per quanto attiene le sanzioni, mancando dei riferimenti di legge per chi non si aggiorna, il riferimento diventa il Codice di Deontologia medica con la possibilità di sanzioni disciplinari, non prima però di aver espletato una opportuna azione di “recupero”. Né va dimenticato che il venir meno di conoscenze ed abilità aggiornate può configurare “responsabilità professionale” del medico laddove si dimostri che l’esito infausto di un trattamento od il ritardo di una diagnosi siano addebitabili alla sua imperizia, alla mancanza di una adeguata conoscenza tecnica e scientifica. Ma quale significato deve essere attribuito ai termini Aggiornamento e Formazione? L’ECM non è o non è solo “aggiornamento professionale” che, di fatto, si limita ad interventi informativi per l’implementazione di nuove conoscenze teoriche, al recupero di nozioni dimenticate o alla sostituzione di teorie obsolete. Nel concetto di Formazione è insito un apprendimento che si avvale dell’esperienza, in quanto finalizzato all’applicazione delle conoscenze. Apprendere dall’esperienza è una modalità tipica dell’adulto: comprende la capacità di fare sintesi tra le informazioni teoriche ricevute ed il loro conte- 152 Manuale della Professione Medica sto applicativo, tenendo conto in modo critico e riflessivo della variabilità dei diversi contesti, recepita nell’esperienza del singolo professionista. La continua sfida della formazione permanente è sintetizzabile nell’impegno a far coincidere i bisogni di salute del cittadino con il bisogno del singolo professionista di sentirsi sempre adeguato ad affrontarli. La professionalità di un operatore della sanità può venire definita da tre caratteristiche fondamentali: – il possesso di conoscenze teoriche aggiornate (il sapere); – il possesso di abilità tecniche o manuali (il fare); – il possesso di capacità comunicative e relazionali (l’essere). Il rapido e continuo sviluppo della medicina e, in generale, delle conoscenze biomediche, l’accrescersi continuo delle innovazioni sia tecnologiche che organizzative, rendono sempre più difficile per il singolo operatore della sanità mantenere queste tre caratteristiche al massimo livello: in altre parole mantenersi “aggiornato e competente”. L’ECM deve: – mantenere la capacità dei professionisti della salute di recepire criticamente sempre nuove conoscenze; – affinare le capacità metodologiche nell’applicarle; – rendere feconde nell’esercizio professionale quotidiano le nozioni acquisite; – far crescere i valori personali professionali ed umani. Su questa strada c’è la totale coincidenza di interesse con l’etica ed il mandato istituzionale e giuridico degli Ordini: garantire la qualità della professione a tutela della salute dei cittadini. Facendo riferimento all’esperienza quinquennale “sperimentale” ECM conclusa che ha avuto il merito di creare attenzione al problema possiamo dire che tale sperimentazione ha avuto il merito di implementare una nuova e più forte attenzione verso la necessità che tutti gli operatori sanitari devono mantenersi costantemente aggiornati e competenti per garantire una costante qualità dell’assistenza. Sono state molte le critiche rivolte al sistema che non è riuscito a garantire uno sviluppo equilibrato per l’emergere di interessi talvolta non chiari e non conciliabili. 4. Gli obblighi del medico 153 Purtroppo i crediti che dovevano essere uno strumento di mero supporto alla gestione organizzativa del sistema ECM sono diventati il fine prevalente della maggioranza dei provider e dei professionisti-discenti. Il burocratismo distributivo dei crediti attuato a livello nazionale e di qualche regione: – non è stato per niente modulato dall’intervento spesso inefficiente dei “referee”; – ha distrutto ogni parvenza di equità; – ha distrutto la valutazione effettiva della qualità educativa degli eventi formativi; – ha indotto i professionisti della salute a palesare senza reticenza l’unica aspirazione ad accumulare il numero obbligato di crediti; – ha creato talvolta il paradosso che alcuni professionisti affidano per lo più la propria formazione efficace ad occasioni non accreditate; – c’è stato un quasi esclusivo ricorso ad eventi residenziali; – qualsiasi convegno pur di garantirsi audience chiede l’accreditamento per garantire un certo numero di crediti (facendo leva molto spesso sulla professione infermieristica). Tutto ciò ha gettato discredito su tutto il progetto ECM a cui la nuova Commissione Nazionale in collaborazione con il Comitato Tecnico delle Regioni, facendosi carico delle criticità emerse nella sperimentazione, ha cercato di dare risposte adeguate per contrastare un malcostume contagioso e diffuso nell’esercizio della formazione continua. L’Autorità Centrale Nazionale ha dimostrato di essere pronta a porre rimedio a questa situazione e ripartire con la nuova esperienza: accreditamento dei provider e non più degli eventi, valorizzazione di Formazione a Distanza e Formazione sul Campo, Dossier Formativo Individuale e di Gruppo, ecc. D’altra parte una riflessione critica dell’esperienza maturata nel primo quinquennio sperimentale ECM non può non tener conto anche di un dato già validato da una vasta letteratura internazionale, secondo il quale, in ambito sanitario un sistema di formazione permanente fondato prevalentemente sulla sistematica implementazione ed aggiornamento delle conoscenze degli operatori manifesta una bassa efficacia quando rapportato ad indicatori di qualità di processo e di esito. Va invece riconosciuto al sistema ECM il grande merito di aver prima sollecitato e poi mantenuta alta l’attenzione del management e dei professionisti sul 154 Manuale della Professione Medica valore della formazione permanente che sempre più si deve connotare con le caratteristiche, gli strumenti e le finalità dello Sviluppo Continuo Professionale. Questo viraggio deve consolidarsi sempre più attraverso la promozione di metodologie formative che meglio di altre appaiono in grado di cambiare le performances professionali, migliorare gli skills e quindi incidere sulla qualità degli outcomes. Nonostante le non poche difficoltà organizzative e gestionali manifestatesi a livello centrale e periferico, determinate dal sovrapporsi spesso incoerente di scelte politiche sui ruoli e compiti degli attori in campo e soprattutto dalla povertà di risorse pubbliche dedicate, il sistema ha comunque ricevuto una spinta formidabile “dal basso” mobilitando, in questi anni, intorno ad una straordinaria mole di eventi prodotti da migliaia di fornitori, circa 12 milioni di partecipazioni di professionisti. L’Ordine quindi si propone a garanzia della qualità professionale ed a tutela della salute dei cittadini: – – – – – di essere il punto di “garanzia terza” tra i diversi attori dell’ECM; di essere il controllore dell’equità e dell’efficacia dell’ECM; di essere il garante della trasparenza del sistema; di monitorare l’efficienza del sistema e proporre le modifiche necessarie in itinere; di contribuire direttamente allo sviluppo culturale dei propri iscritti. Ma nel ribadire che ECM non può semplicemente limitarsi ad una “manutenzione tecnico-professionale” del singolo professionista, occorre rilevare che nella identificazione dei nuovi obiettivi formativi si è tenuto ampiamente conto della necessità di garantire anche una sufficiente formazione umana nel senso di humanities. Ed appare condivisibile la riflessione di Salvino Leone: «È ormai indifferibile un recupero della formazione umana del medico da affiancare e integrare a quella sempre più tecnologica che rischia di inaridirlo facendone solo un freddo tecnocrate, bravissimo a decodificare indagini, leggere numeri e gestire apparecchiature elettroniche ma poco attento ai “bisogni” empatico-relazionali del malato che, non solo non sono diminuiti nel tempo ma, semmai, sono diventati più impellenti data la scarsa attenzione del medico a tali componenti umane». La Società, la Salute, la Sanità, la Medicina evolvono in scenari e contesti sempre più complessi ed adattativi; questa evoluzione necessita di uno sviluppo sincrono e correlato: il moderno modello di erogazione delle cure 4. Gli obblighi del medico 155 si presenta sempre più complesso e ad alta integrazione multispecialistica e multiprofessionale. Per garantire qualità professionale e risposte adeguate ed efficienti ai bisogni dei cittadini il sistema ECM si deve far carico di queste esigenze formative e predisporsi a transitare progressivamente verso un più maturo sistema di Sviluppo Professionale Continuo. Nel ricordo del prof. Mario Austoni, clinico emerito dell’Università di Padova, riportiamo la considerazione che la rilevanza delle conoscenze rimane indeterminata finché queste non si dimostrano capaci a risolvere problemi pratici: «Sono infatti le soluzioni dei problemi che hanno il potere di dare, ad un’informazione irrilevante, un senso che la trasformi in rilevante e prescrittiva o che ne promuova la critica ed il rigetto». E, quindi, in conclusione, l’ECM deve insegnare a tutti i professionisti della salute a risolvere i problemi di salute di ogni cittadino che gli si rivolge ovvero informarlo ed indirizzarlo adeguatamente negli ambiti specifici e deve anche favorire una progressiva implementazione della cultura oltre che multidisciplinare anche interprofessionale quale fondamento indispensabile per conseguire obiettivi di salute e non semplici prestazioni sanitarie. Art. 10 - Segreto professionale Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui venga a conoscenza nell’esercizio della professione. La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto. Il medico deve informare i suoi collaboratori dell’obbligo del segreto professionale. L’inosservanza del segreto medico costituisce mancanza grave quando possa derivarne profitto proprio o altrui ovvero nocumento della persona assistita o di altri. La rivelazione è ammessa ove motivata da una giusta causa, rappresentata dall’adempimento di un obbligo previsto dalla legge (denuncia e referto all’Autorità Giudiziaria, denunce sanitarie, notifiche di malattie infettive, certificazioni obbligatorie) ovvero da quanto previsto dai successivi artt. 11 e 12. Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto professionale. La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo. 156 Manuale della Professione Medica Art. 11 - Riservatezza dei dati personali Il medico è tenuto al rispetto della riservatezza nel trattamento dei dati personali del paziente e particolarmente dei dati sensibili inerenti la salute e la vita sessuale. Il medico acquisisce la titolarità del trattamento dei dati sensibili nei casi previsti dalla legge, previo consenso del paziente o di chi ne esercita la tutela. Nelle pubblicazioni scientifiche di dati clinici o di osservazioni relative a singole persone, il medico deve assicurare la non identificabilità delle stesse. Il consenso specifico del paziente vale per ogni ulteriore trattamento dei dati medesimi, ma solo nei limiti, nelle forme e con le deroghe stabilite dalla legge. Il medico non può collaborare alla costituzione di banche di dati sanitari, ove non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della vita privata della persona. Il dovere della riservatezza Esercizio della medicina e tutela della riservatezza I. Il radicale mutamento – organizzativo, strutturale e, in un certo senso, anche e soprattutto culturale – cui la realtà sanitaria è andata incontro negli ultimi anni ha coinvolto anche il tema del segreto professionale, che ha progressivamente perso quel significato di principio assoluto che, in un importante contributo di oltre quaranta anni fa, aveva consentito di parlarne nei termini di «pietra angolare dell’esercizio professionale» e di prerogativa della professione «che più ha sollecitato il senso di responsabilità etica e morale del medico». Le esigenze pubbliche che caratterizzano l’odierno esercizio della medicina, infatti, hanno corroso le basi del rispetto della riservatezza nell’ambito del rapporto medico-paziente, rendendo problematico il bilanciamento tra diritti del singolo ed esigenze della collettività. Le ragioni di tale mutamento sono molteplici. In primo luogo si è assistito alla progressiva scomparsa della connotazione privatistica del rapporto medico-paziente, che si è dapprima disperso in una serie di rapporti interpersonali e si è quindi quasi completamente spersonalizzato, venendo sostituito da un rapporto tra struttura sanitaria e utente della 4. Gli obblighi del medico 157 medesima, alla cui configurazione non sono estranee istanze organizzative, burocratiche e soprattutto economiche molto distanti dalla tradizione deontologica di matrice ippocratica. Si è fatta strada, in secondo luogo, una diversa percezione sociale della malattia, che ha perso, almeno in parte, la connotazione negativa e quasi di disvalore che sembrava accompagnarla, per cui la persona malata tende a configurarsi più come portatore di diritti che come soggetto bisognoso di cure, con la conseguenza che il ruolo del medico corre il rischio di essere relegato a quello di esecutore tecnico dell’altrui volontà. In terzo e ultimo luogo, l’interpretazione improntata al rigorismo dogmatico proprio della tradizione ippocratica, in cui i principi dell’etica medica godevano di una sorta di autoreferenzialità, ha lasciato il campo a un’impostazione più duttile, volta a conciliare, in un contesto pluralistico, istanze divergenti, attraverso l’adozione di regole minime e di per se stesse prive di valore assoluto, che disegnano uno scenario in cui l’agire secondo scienza e coscienza è sempre meno regola aurea nella definizione del corretto comportamento del medico e sempre più soltanto uno dei tanti valori in gioco nel delicato intreccio di rapporti tra professionisti sanitari, cittadini e società. In questo contesto, la regola del silenzio, che connotava l’esercizio della medicina, non costituisce più un principio assoluto, ma piuttosto un principio la cui validità potrebbe definirsi, mutuando il termine dalla riflessione bioetica, prima facie, nel senso che la sua cogenza è assoluta solo in quelle situazioni in cui esso non entra in conflitto con altri principi. In altre parole, quando il medico si trova, come ormai accade sempre più spesso, a dover fronteggiare situazioni in cui il principio di segretezza si pone in contrasto con gli interessi, parimenti rilevanti, di altri soggetti o della collettività, l’impegno alla riservatezza sembra configurarsi più come opzione che come obbligo. La già richiamata necessità di «conciliare le esigenze del segreto con le esigenze della vita moderna che sono portatrici di interessi prevalentemente di natura pubblica» ha portato, inoltre, anche a una delimitazione del contenuto del segreto professionale, il cui orizzonte, una volta così ampio da poter essere definito nei termini di visa audita atque intellecta, sembra ora restringersi e ridisegnarsi alla luce di molteplici fattori. Segreto deve allora essere ritenuto «ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e 158 Manuale della Professione Medica del suo modo di essere non ovviamente palesi, non destinati comunque all’altrui comune conoscenza», di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua attività professionale, in analogia con la nozione di dati sensibili di cui alla normativa in tema di privacy. L’articolato corpo di norme delineato dal DLgs 196/2003, lungi dal mortificare la libertà e la coscienza del professionista, attribuisce infatti un valore decisionale di grande rilievo alla responsabilità del singolo, restituendo alla riservatezza il ruolo di carattere distintivo della vita professionale del medico. La normativa deontologica del 2006 in tema di segreto professionale e riservatezza dei dati personali, pur non menzionando espressamente il testo unico sulla privacy di cui al DLgs n. 196 del 2003, ne riprende nella sostanza il contenuto per quanto concerne i doveri dei sanitari in questa materia, doveri che sono esplicitati anche nei vari provvedimenti emanati dall’autorità garante che dettano disposizioni specifiche in materia L’analisi deontologica, talvolta, si è soffermata, non senza enfasi retorica, su vere e proprie situazioni limite, che sembrano appartenere più al campo delle ipotesi di scuola che a quello del quotidiano operare del medico, tralasciando di richiamare l’attenzione su tutta una serie di comportamenti corrivi e lesivi – ora subdolamente ora palesemente – del diritto alla riservatezza della persona assistita, così largamente divenuti consuetudine da non essere più occasione né di scandalo né di indignazione, e nemmeno di stupore, quasi che si diano per pacificamente scontati il fatto che la norma – sia deontologica che giuridica – abbia ormai perso il suo carattere imperativo e una sorta di benevola tolleranza (di cui si ravvisa eloquente traccia nel ritardo rispetto ad altri paesi europei con il quale il nostro paese si è dotato di un’articolata normativa in tema di trattamento dei dati personali) nei confronti dello scarso rispetto dell’altrui riservatezza, anche da parte di chi di tale scarso rispetto rappresenta il soggetto passivo (come dimostra l’esiguità della casistica giurisprudenziale in materia). La questione riguarda l’intera realtà sanitaria ed è spia di quel divario tra principi deontologici e prassi professionale che non investe il solo tema della riservatezza, ma coinvolge l’esercizio professionale nella sua interezza e fa amaramente dubitare dell’effettivo ruolo e della concreta efficacia della normativa deontologica, la cui conoscenza spesso non va oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Alcuni esempi valgono a esplicitare quanto affermato: nessun medico «si 4. Gli obblighi del medico 159 permetterebbe mai di rivelare nomi, fatti, ad altri, senza una giusta causa o senza un preciso obbligo giuridico», eppure quello stesso medico «può interrompere tranquillamente un colloquio per ricevere una telefonata durante la quale cita apertamente persone, eventi, luoghi, non curandosi della presenza di un interlocutore esterno»; allo stesso modo, in nessuna struttura «si rilascerebbero mai fascicoli o indirizzi, senza una preventiva autorizzazione o una precisa procedura», eppure in quella stessa struttura talvolta «si riceve il pubblico in locali arredati con scrivanie traboccanti di fascicoli, documenti, nei quali sono facilmente leggibili nomi, indirizzi, recapiti telefonici»; e ancora: «nessun dipendente di un servizio riferirebbe, a chiunque lo domandi, il contenuto degli interventi effettuati nei confronti di un paziente, eppure lo stesso dipendente fornisce informazioni relative agli utenti al telefono, senza controllare preventivamente l’identità dell’interlocutore che li richiede». A questo proposito opportunamente – stante la molteplicità e l’eterogeneità delle incombenze amministrativo-burocratiche che affaticano quotidianamente il sanitario – la normativa deontologica (art. 11) fa obbligo al medico di rispettare la riservatezza nel trattamento dei dati personali del paziente e, in particolare, di quelli sensibili perché «inerenti la salute e la vita sessuale» dell’interessato, nonché «di non collaborare alla costituzione di banche di dati sanitari, ove non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della vita privata della persona». Occorre sempre rispettare un principio di cautela anche nella trasmissione dei dati personali ad enti che svolgono attività in campo sanitario in modo da fornire solo le notizie che è strettamente necessario ovvero obbligatorio segnalare, escludendo comunque quelle che non hanno interesse per la cura del paziente del pari, nel caso di denunce obbligatorie aventi per destinatari enti o autorità, alla doverosità della denuncia si affianca per il medico l’obbligo di attenersi alle sole notizie richieste dalla legge e di vigilare affinché la trasmissione del segreto avvenga nella garanzia della tutela della riservatezza della persona assistita e, ove la legge lo prevede, del diritto all’anonimato. Particolare cautela deve inoltre adoperarsi relativamente alla pubblicazione scientifica – come recita ancora la normativa deontologica – «di dati clinici o di osservazioni relative a singole persone», avendo cura, quando la correttezza della comunicazione scientifica impone di rivelare dettagli che potrebbero consentire l’identificazione del paziente, di ottenere il consenso informato del 160 Manuale della Professione Medica medesimo, del quale si dovrà dare atto nella pubblicazione a stampa, così come prescritto dalle raccomandazioni sovranazionali in materia (si tratta in particolare degli Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals: Writing and Editing for Biomedical Publication: il documento è consultabile al sito internet www.icmje.org). Infine, il riferimento alla obbligatorietà del consenso ritorna – e si tratta di una significativa innovazione rispetto alla versione previgente, frutto della mutata sensibilità sociale e della più ampia tutela giuridica in tema di trattamento dei dati personali – anche in quella parte dell’art. 11 del Codice deontologico che detta le indicazioni comportamentali cui il medico deve attenersi. Particolare attenzione occorre nella redazione di bollettini medici, la cui diffusione deve essere preceduta dall’acquisizione del consenso dell’interessato o dei suoi legali rappresentanti. In siffatte evenienze, anche in presenza di un valido consenso, il comportamento del sanitario deve essere improntato a prudenza e discrezione e le notizie sulle condizioni cliniche del paziente, ancorché si tratti di persone eminenti o di larga notorietà, devono limitarsi alle informazioni strettamente necessarie; la diffusione ai mezzi di informazione di particolari relativi alla sfera più intima della persona o l’esasperato dettaglio nell’illustrazione dei presidi diagnostico-terapeutici messi in atto, così come, per converso, l’alterazione dei dati clinici, integrano infatti un agire deontologicamente censurabile, in cui la necessaria deroga al dovere generale di riservatezza che origina dal ruolo pubblico della persona assistita diventa occasione di strumentalizzazioni politiche o di un illecito sfruttamento pubblicitario delle proprie abilità professionali. Anche in un contesto, quale l’attuale, molto diverso rispetto a quello in cui il principio del segreto professionale è nato e si è sviluppato, l’impegno alla riservatezza deve dunque continuare a connotare il quotidiano operare del medico, in una tensione che la considerazione dell’esistenza e talora della predominanza di altri interessi non deve svilire, ma anzi esaltare, e nella consapevolezza che la garanzia della conciliazione tra interessi confliggenti va ricercata in un’adeguata formazione medico-legale del sanitario, che sola «può preservare dalla pericolosa frattura derivante dai conflitti fra interesse privato e interesse pubblico, tra impegni deontologici e diritti della società». II. La stessa antinomia che caratterizza la norma deontologica connota anche quella penalistica. 4. Gli obblighi del medico 161 L’art. 622 cp, come noto, punisce la rivelazione senza giusta causa di segreto professionale ovvero il suo impiego a proprio o altrui profitto, sempre che dal fatto possa derivare un nocumento, inteso come «qualunque detrimento giuridicamente apprezzabile, patrimoniale o non patrimoniale, fisico o morale, pubblico o privato». Secondo un’interpretazione aderente alla chiara lettera della norma, l’articolo in questione configura dunque «due obblighi negativi, consistenti l’uno nel divieto di rivelare il segreto e l’altro nel divieto di utilizzarlo. Basta la violazione di uno solo di tali divieti per integrare il reato. Ma mentre il primo di essi viene meno se sussiste una giusta causa – e venendo meno l’obbligo viene meno la possibilità della sua violazione e quindi la configurabilità del reato – l’altro sussiste sempre incondizionatamente non essendo prevista alcuna causa che ne limiti la portata». Ora, mentre l’impiego a proprio o altrui profitto configura una fattispecie che non pone particolari problemi interpretativi e appare di rara evenienza, anche se gli interessi economici che in misura crescente gravitano intorno alla realtà sanitaria possono rappresentare un rischio concreto in questo senso, la rivelazione senza giusta causa (che rappresenta una fattispecie il cui elemento intenzionale si identifica nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di rivelare un segreto, indipendentemente dalla finalità) ha dato luogo, nonostante l’esiguità della casistica giurisprudenziale, a una querelle dottrinaria ormai annosa e tuttora irrisolta, di cui è agevole ritrovare traccia nella manualistica medico-legale, alla quale in questa sede si rimanda per un approfondimento della questione. Se infatti non v’è dubbio che nella nozione di giusta causa rientrino sia le cause imperative (nel senso che esse obbligano alla rivelazione del segreto), la cui ricorrenza si ha allorché la rivelazione si configura, ex art. 51 cp, come adempimento di un dovere da parte del medico (rientrano in questo ambito le denunce sanitarie obbligatorie, i certificati obbligatori, il referto, la denuncia di reato, la perizia e la consulenza tecnica, l’ispezione corporale ordinata dal giudice, l’arbitrato, le visite medico-legali richieste ed espletate per conto della struttura sanitaria pubblica), sia le cause permissive (nel senso che esse consentono la rivelazione del segreto), nell’ambito delle quali rientrano le ipotesi scriminanti espressamente previste dal codice penale agli artt. 45 (caso fortuito o forza maggiore), 46 (costringimento fisico), 47 (errore di fatto), 48 (errore determinato dall’altrui inganno), 50 (consenso dell’avente diritto), 51 (esercizio di un diritto), 52 (difesa legittima) e 54 (stato di necessità); molto invece si è 162 Manuale della Professione Medica discusso e si discute sulla cosiddetta giusta causa sociale, il cui apprezzamento trascende la norma penale. Le ipotesi di scuola hanno classicamente riguardato il caso del conducente di veicoli portatore di una patologia che ne mette a rischio la capacità di guida o, più recentemente, quello del rapporto tra psicoterapeuta e paziente pericoloso, che ha avuto larga eco soprattutto negli Stati Uniti, dove, dopo la vicenda Tarasoff, si è giunti, anche sulla spinta di una non esigua casistica giurisprudenziale, alla elaborazione di un vero e proprio duty to warn. Nel nostro paese, dove scarsa attenzione è stata dedicata al problema della tutela della riservatezza nell’ambito del setting psicoterapeutico, nuova linfa al dibattito è stata portata, come già accennato in precedenza, dall’emergere del fenomeno AIDS, che ha reso particolarmente delicata la scelta per il medico tra tacere o rivelare relativamente al problema della liceità della comunicazione dello stato di infezione del proprio paziente al partner sessuale di questi, liceità che può ammettersi o attraverso un’interpretazione estensiva – che sembra prescindere cioè dal requisito dell’attualità del pericolo – dello stato di necessità di cui all’art. 54 cp ovvero invocando, per l’appunto, la legittimità di «giuste cause di rivelazione per così dire sociali o comunque non previste dalla norma», che assumerebbero conseguentemente dignità giuridica. Mentre per parte della dottrina nell’interpretazione della nozione di giusta causa occorre attenersi al suo significato giuridico letterale, per cui è giusta solo quella causa che tale è ritenuta e prevista dalla legge, non assumendo pertanto la causa socialmente rilevante alcun rilievo nella fattispecie in commento, per altra parte della dottrina la rivelazione dettata dall’esigenza di tutelare la salute altrui non è meritevole di riprovazione penale, essendo riscattata dalla finalità sociale perseguita e dall’interesse collettivo attuato, in quanto, poiché il precetto morale di non violare il segreto precede e informa l’analogo precetto penale, quest’ultimo risente delle stesse deroghe che impediscono al primo di «ergersi come la consacrazione di un principio assolutamente inalterabile e intangibile». L’estrema genericità della norma sembra invero autorizzare entrambe le interpretazioni. Il riferimento all’art. 5, 4° comma, della legge n. 135/1990 consente tuttavia di fugare alcune incertezze relativamente alla questione in commento. Nello stabilire che «la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici 4. Gli obblighi del medico 163 diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti», tale previsione di legge non sembra lasciare alcuno spazio a interpretazioni diverse, salvo, come già accennato, il ricorso alla scriminante dello stato di necessità ovvero – ma la legittimità di tale soluzione è in realtà alquanto discussa – a quanto stabilito dall’art. 132 del RD 3 febbraio 1901, n. 45 e successive modificazioni, in base al quale «in tutti i casi di malattia infettiva e diffusa il medico curante dovrà dare alle persone, che assistono e avvicinano l’infermo, le istruzioni necessarie per impedire la propagazione del contagio». In questo senso si pone del resto anche la recente legislazione in tema di privacy. Se è vero, infatti, che l’insieme dei provvedimenti in materia ha in un certo senso valorizzato il concetto di giusta causa sociale attraverso la previsione della possibilità di trattare i dati inerenti allo stato di salute, anche in mancanza del consenso dell’interessato, quando vi sia il perseguimento di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività, subordinando tale possibilità all’autorizzazione del Garante, è del pari vero che nel caso dell’infezione da HIV esiste una specifica disciplina normativa che esplicitamente vieta ogni possibilità di partner notification. Su questo punto ha ritenuto di dover intervenire – proprio per fugare ogni dubbio in merito all’armonizzazione tra le due discipline – lo stesso Garante per la protezione dei dati personali con la pronuncia del 19 dicembre 1997, nella quale è stato precisato che la previsione di cui all’art. 5, comma 4, legge n. 135/1990 («la comunicazione dei risultati degli accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono stati riferiti») deve considerarsi vigente a tutti gli effetti. Anche in tema di riservatezza, dunque, così come del resto si è verificato anche nel caso di altri recenti interventi legislativi aventi per oggetto – direttamente o indirettamente – l’infezione in questione (il riferimento è alle disposizioni in tema di incompatibilità tra condizioni di salute e detenzione di cui alla legge 12 luglio 1999, n. 231), sopravvive (retaggio di un tempo, peraltro non lontano, in cui forte era lo stigma sociale nei confronti dei soggetti affetti da HIV/AIDS?) la previsione di un regime particolare, parzialmente derogatorio rispetto a quello comune, per i soggetti affetti da HIV/AIDS, che sembra quasi postulare una dicotomia – più o meno netta a seconda dei casi – tra infezione da HIV e altre patologie. 164 Manuale della Professione Medica La necessità o per lo meno l’opportunità di una protezione speciale trae origine dalla potenzialità discriminatoria di un determinato dato inerente alla salute; non stupisce, dunque, che nel caso dell’infezione da HIV tale esigenza sia stata particolarmente avvertita e si sia tradotta in specifiche disposizioni normative, volte a rafforzare il sistema di garanzie posto a tutela dei diritti fondamentali della persona. Tuttavia, ora che lo stigma sociale si è indubbiamente stemperato, anche grazie – il che solo apparentemente può essere considerato un paradosso – alla strenua difesa dei diritti umani e all’orientamento garantista che hanno caratterizzato gli interventi adottati all’insorgere del fenomeno AIDS (si veda in particolare “UNAIDS/WHO Policy Statement on HIV Testing”, giugno 2004), viene da chiedersi se non sia auspicabile una maggiore duttilità da parte del legislatore, in modo da riequilibrare – nel rispetto di ben precise condizioni – il rapporto tra diritti del singolo e interesse della collettività. In questo senso si pongono le International guidelines on HIV/AIDS and Human rights proposte nel febbraio del 1998 dalla “United Nations High Commission for Human Rights” e dal “Joint United Nations Programme on AIDS”, che ammettono (punto 28 g della Guideline 3) la possibilità da parte delle legislazioni nazionali di autorizzare gli operatori sanitari, in singoli casi, a informare i partner sessuali dei propri pazienti dello stato di sieropositività per l’infezione dei pazienti medesimi, in accordo con i seguenti criteri (il documento è consultabile al sito internet www.unaids.org): – che la persona sieropositiva per l’infezione da HIV sia stata inserita in un adeguato programma di counselling; – che il counselling non sia riuscito a determinare opportune modificazioni comportamentali; – che la persona sieropositiva abbia rifiutato di comunicare, direttamente o indirettamente, il rischio di esposizione all’infezione al suo (o ai suoi) partner; – che esista un rischio reale di trasmissione al (o ai) partner; – che l’identità della persona sieropositiva sia taciuta al (o ai) partner, sempre che ciò sia possibile in pratica; – che sia garantito un adeguato sostegno alle persone coinvolte. La stessa esigenza di pervenire a un punto di equilibrio nel bilanciamento tra diritti individuali e interessi della collettività è del resto attualmente particolarmente 4. Gli obblighi del medico 165 pressante anche nel caso dei dati genetici, per il cui trattamento lo stesso Garante per la protezione dei dati personali ha posto condizioni estremamente selettive, ma non ha posto un divieto assoluto, subordinando il trattamento non consensuale di tali dati, in presenza di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività, a un’apposita autorizzazione del Garante, in piena armonia – a testimonianza della legittimità dell’ipotizzato parallelismo con il caso dell’infezione da HIV – con quanto stabilito in tema di disclosure e confidentiality dalle raccomandazioni sovranazionali: il riferimento è in particolare alle Proposed international guidelines on ethical issues in medical genetics and genetic services emanate nel dicembre del 1997 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (il documento è consultabile al sito internet www.who.int/en/), che ammettono, in determinati casi e nel rispetto di precise condizioni, la rivelazione del dato genetico. Tornando all’inquadramento penalistico della questione, deve essere ricordato che, oltre all’art. 622 cp, può trovare applicazione, allorché il medico rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, anche l’art. 326 cp, relativo alla rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio. Se rispetto all’art. 622 cp eguale è il principio etico di riferimento, diverso è invece l’interesse tutelato, in quanto nell’ipotesi sanzionata dall’art. 326 cp tale interesse riguarda la Pubblica Amministrazione, donde la perseguibilità d’ufficio e la maggior pena comminata dal codice penale; diverso è inoltre anche l’oggetto della rivelazione, che nel caso in commento concerne le «notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete», mentre nella fattispecie precedentemente analizzata si fa riferimento al più ampio concetto di segreto professionale. Le ipotesi sanzionate riguardano la rivelazione di segreti d’ufficio, l’agevolazione della loro conoscenza (punita anche a titolo di colpa) e l’utilizzazione illegittima del segreto d’ufficio, il cui fine (indebito profitto patrimoniale per sé o altri nella forma più grave; ingiusto profitto non patrimoniale per sé o altri o danno ingiusto ad altri nella forma più lieve) rende ragione della diversa previsione edittale. Non è necessario, perché si perfezioni il reato, che l’informazione d’ufficio destinata a rimanere segreta sia resa pubblica o divulgata, ma è sufficiente «che essa sia utilizzata fuori dell’ambito istituzionale in cui deve restare confinata», né è necessario che il profitto prospettato si realizzi. Occorre infine precisare che il reato è punibile a titolo di dolo specifico, nel senso che «la volontà deve riguardare sia la condotta di chi si avvale» del segreto sia «l’obiettivo del profitto indebito o del danno ingiusto arrecato ad altri». 166 Manuale della Professione Medica Si tratta di evenienze di raro riscontro in campo sanitario, anche se il verificarsi di tale fattispecie di reato è ipotizzabile in riferimento al rapporto con industrie farmaceutiche o, più in generale, con terzi estranei al rapporto tra persona assistita e pubblica amministrazione. La questione centrale dal punto di vista dell’analisi medico-legale è invero un’altra, e riguarda «l’esigenza di stabilire, relativamente al carattere di riservatezza proprio dei vari documenti sanitari e delle varie situazioni concretizzabili, quale delle due norme [tra art. 326 e art. 622 cp] sia applicabile in caso di violazione dell’obbligo di segreto». L’orientamento della dottrina giuridica su questo punto – almeno relativamente alle ipotesi di rivelazione del contenuto della cartella clinica – si è mostrato discorde, ora affermando la sussistenza della violazione della norma di cui all’art. 622 cp ora vedendovi la violazione dell’art. 326 cp ora infine sostenendo un’ipotesi di concorso formale di reati. Al di là delle divergenze interpretative della dottrina, ciò che preme qui rilevare è – proprio in riferimento alla cartella clinica e, più in generale, a tutte quelle forme di registrazione dell’attività sanitaria a essa assimilabili – che nella conservazione di tale documento, di cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito la natura di atto pubblico, troppo spesso il medico indulge a comportamenti corrivi e talvolta in palese violazione non soltanto della norma penale, ma anche di quella deontologica. È vero che la normativa in materia è scarsa e ormai inadeguata rispetto alle esigenze dell’attuale realtà sanitaria, ma è altrettanto vero che si tratta del principale e più diffuso mezzo al quale è tuttora affidata la registrazione dell’insieme dei dati anamnestici, clinici e diagnostico-terapeutici della persona assistita (o, se si preferisce utilizzare l’espressione fatta propria dalla legislazione in tema di privacy, dei dati sensibili), per cui è più che mai doveroso per il medico conformarsi a un modello comportamentale improntato a prudenza e diligenza. Un ultimo cenno merita la previsione di cui all’art. 200 cpp, che esonera il medico dall’obbligo di deporre nel processo penale su quanto ha conosciuto per ragione della propria professione, salvi i casi i cui vige l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria. La previsione in questione, che sancisce una facoltà e non un dovere e che può essere superata dal giudice qualora vi sia il dubbio che la dichiarazione resa per esimersi dal deporre sia infondata, ha un corrispettivo nella norma deontologica (art. 10), che stabilisce un dovere assoluto, vietando al medico di 4. Gli obblighi del medico 167 «rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione». Ancora una volta, dunque, si ripropone l’antinomia tra diritto del singolo e interesse della collettività che percorre l’intero capitolo della riservatezza e che costituisce, per così dire, un leitmotiv ora sotterraneo ora drammaticamente manifesto dell’intera riflessione deontologica. Ai conflitti a essa sottesi il medico non può sottrarsi; deve, invece, ricercare – si potrebbe dire caso per caso – la composizione tra istanze divergenti, nella consapevolezza che ai molteplici interrogativi che l’argomento in questione pone all’agire quotidiano del sanitario non è data una risposta universalmente valida. Art. 12 - Trattamento dei dati sensibili Al medico, è consentito il trattamento dei dati personali idonei a rivelare lo stato di salute del paziente previa richiesta o autorizzazione da parte di quest’ultimo, subordinatamente ad una preventiva informazione sulle conseguenze e sull’opportunità della rivelazione stessa. Al medico peraltro è consentito il trattamento dei dati personali del paziente in assenza del consenso dell’interessato solo ed esclusivamente quando sussistano le specifiche ipotesi previste dalla legge ovvero quando vi sia la necessità di salvaguardare la vita o la salute del paziente o di terzi nell’ipotesi in cui il paziente medesimo non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire e/o di intendere e di volere; in quest’ultima situazione, peraltro, sarà necessaria l’autorizzazione dell’eventuale legale rappresentante laddove precedentemente nominato. Tale facoltà sussiste nei modi e con le garanzie dell’art. 11 anche in caso di diniego dell’interessato ove vi sia l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi. La protezione dei dati sensibili Normativa Il settore sanitario rappresenta ratione materiae uno dei più sensibili alle novità introdotte e per questo la protezione dei cosiddetti dati sensibili, ossia di quei dati che, riferendosi alla sfera più intima dell’individuo (la salute e la vita sessuale, oltre agli estremi anagrafici), possono essere usati in modo distorto e 168 Manuale della Professione Medica illegittimo per finalità estranee alla loro raccolta, rappresenta attualmente una delle problematiche giuridiche ed etico-deontologiche maggiormente discusse e soggette a interventi di carattere interpretativo e normativo. D’altra parte, l’informatizzazione e l’ampia disponibilità dei dati sanitari implica la registrazione e il trasferimento degli stessi fra più utenti e continua a sollevare vari quesiti proprio in materia di riservatezza e di sicurezza delle reti, con il correlativo problema degli obblighi e delle responsabilità degli operatori coinvolti e con l’osservanza dei precetti deontologici specifici delle professioni sanitarie. Il diritto alla riservatezza, ossia a non rendere noti e utilizzabili i propri dati personali (anagrafici, di residenza ecc.), le proprie generalità, abitudini, preferenze ecc. ha oggi trovato piena e organica disciplina nel nostro ordinamento con il recente DLgs 30 giugno 2003 n. 196, consolidato con la legge 26 febbraio 2004 n. 45 di conversione con modifiche dell’art. 3 del DL 24 dicembre 2003 n. 354. Il decreto recepisce secondo la delega contenuta nella legge 127/2001 i contenuti della Direttiva 2002/58 CE, norma di diritto comunitario di attuazione degli artt. 7 e 8 della menzionata Carta di Nizza. I primi articoli (1-10) sono dedicati alla disciplina delle “regole generali” in materia di diritto alla riservatezza e trattamento dei dati sensibili. Gli artt. 11-22 dettano le regole generali per il trattamento dei dati personali (informative, trattamento illecito e risarcimento danni, trattamento effettuato da soggetti che effettuano il trattamento dei dati e il trasferimento dei dati all’estero). La seconda parte della norma è dedicata alle diverse fattispecie di trattamento dei dati personali con risvolti pubblicistici (ambito giudiziario, di polizia, sanitario, con scopi di ricerca ecc.) al settore bancario e al settore del lavoro e della previdenza sociale. Infine la terza parte della norma racchiude negli artt. 141-186 le regole dedicate alla tutela giurisdizionale avanti il giudice ordinario e il reclamo avanti il Garante con le relative sanzioni. Trattamento dei dati personali in ambito sanitario Il titolo V del DLgs 196/2003 disciplina il trattamento di dati personali in ambito sanitario. L’art. 77 in deroga alla normativa generale del Codice in materia di protezione dei dati personali indica le modalità semplificate che dovranno seguire gli esercenti le professioni sanitarie per l’informativa e l’acquisizione del consenso. 4. Gli obblighi del medico 169 I medici e gli odontoiatri ai sensi dell’art. 76 trattano i dati idonei a rivelare lo stato di salute: a) con il consenso dell’interessato senza l’autorizzazione del Garante, se il trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per perseguire la finalità della tutela della incolumità fisica dell’interessato; b) anche senza il consenso dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante se la tutela della salute e dell’incolumità fisica riguarda un terzo o la collettività. Nel caso di cui al comma a il consenso è prestato con le modalità semplificate. Sempre nelle fattispecie di cui al primo comma lett. a), e abolita la successiva lettera a l’autorizzazione del Garante è rilasciata sentito il Consiglio Superiore di Sanità a meno che si tratti di particolare urgenza. L’art. 81 del DLgs in questione disciplina la prestazione del consenso che può essere manifestato anche con una dichiarazione orale. In tal caso il consenso è documentato anziché con atto scritto dell’assistito con annotazione dell’esercente la professione sanitaria riferita al trattamento di dati effettuati da uno o più soggetti e alla informativa all’interessato, nei modi indicati negli artt. 78-79-80. Detta documentazione, anche al fine di renderla riconoscibile ad altro professionista, può essere resa conoscibile dal medico di famiglia o dal pediatra di libera scelta con apposita annotazione o apposizione di un bollino su carta elettronica o tessera sanitaria. In tutti i casi l’annotazione deve contenere il richiamo all’art. 78, comma 4. La previsione dell’annotazione o dell’apposizione di un bollino sulla carta elettronica o sulla tessera sanitaria favorisce la circolazione del consenso dei dati che fa carico, nella fattispecie, esclusivamente al medico di famiglia. Peraltro il medico di famiglia, il pediatra di libera scelta e il libero professionista medico e odontoiatra possono acquisire il consenso in forma scritta attraverso la sottoscrizione di un modello predefinito. Il modello dovrà essere custodito dal medico o dall’odontoiatra e potrà essere esibito in caso di contestazione dell’avvenuto consenso. L’informazione della persona assistita Circa le modalità dell’informazione al paziente, il codice della privacy punta ad uno snellimento della disciplina attraverso l’adozione di modalità semplificate in base alle quali: – l’interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali deve 170 – – – – – Manuale della Professione Medica essere previamente informato per iscritto o oralmente circa le finalità/ modalità del trattamento cui i dati sono destinati; la natura obbligatoria/facoltativa del conferimento dei dati; le conseguenze di un eventuale rifiuto a rispondere; i soggetti/le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in quanto responsabili/ incaricati, o nell’ambito della diffusione dei dati stessi; i diritti dell’interessato; gli estremi identificativi del titolare o di un suo rappresentante. In ambito sanitario l’articolo 78 individua le modalità di semplificazione per l’informativa all’interessato da parte del medico “di famiglia” (o del pediatra), sotto tre profili: – per quanto riguarda l’ambito “oggettivo” di applicazione, l’informativa può essere fornita, con un unico atto, per il complessivo trattamento di dati relativo al paziente (diagnosi, cura, riabilitazione ecc.) e può riguardare anche dati raccolti presso terzi; – sotto il profilo “soggettivo”, essa può riguardare anche il trattamento di dati “correlato” a quello del medico “di famiglia”, effettuato da altro professionista che con quello venga, in vario modo, in contatto professionale nell’interesse del paziente; – infine, circa le modalità, l’informativa è resa preferibilmente per iscritto, ma anche con modalità alternativa come le più recenti carte tascabili o altri simili strumenti, integrandola oralmente se necessario. Appare allora evidente, che anche se semplificata, l’informazione al paziente dovrà comunque essere adeguata alla sua cultura, alle sue possibilità cognitive, alle sue condizioni psichiche e di emotività; deve garantire, inoltre, una comprensione corretta e completa dei dati che possono essere trattati, delle operazioni eseguibili e delle rilevanti finalità dell’interesse pubblico perseguito. Se questo è vero, non si può, tuttavia, fare ancora una volta a meno di rilevare la peculiarità del sistema normativo predisposto dal legislatore atteso che il medico di medicina generale si trova a dover fornire al paziente una serie piuttosto vasta e articolata di informazioni, in modo semplificato, ma omnicomprensivo e a dover affrontare tematiche delicatissime (AIDS, HIV positività, tossicodipendenza, interruzione volontaria della gravidanza) 4. Gli obblighi del medico 171 nei confronti delle quali è tuttora presente una certa forma di diffidenza e di pudore. Proprio per questo, al fine di non pregiudicare il rapporto fiduciario che necessariamente deve essere alla base del rapporto medico-paziente, appare difficile inquadrare le modalità dell’informazione in regole standardizzate e rigide, dovendosi semmai rivalutare il ruolo delle norme deontologiche che sembrano, ancora una volta, da sole in grado di indicare quali siano i presupposti che il medico deve rispettare affinché la comunicazione possa dirsi corretta. Deroghe ammesse La previsione di specifiche deroghe, nei casi in cui si impongono cogenti esigenze di tutela della salute e della collettività, ha trovato un’attenta normazione nel codice della privacy laddove nell’art. 24 sono state riunite, in ragione della sostanziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il trattamento di dati personali anche in assenza del consenso, unificando, in sostanza, i previgenti articoli 12 e 20 della legge n. 675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute, in alcuni casi, per la comunicazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati (lett. c, f, e g). La disciplina risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune duplicazioni e apportate talune opportune precisazioni; in relazione alle lettere a) e b), è stato meglio specificato, in conformità a quanto previsto dalla direttiva europea (art. 7, par. 1, lett. c), Dir. 95/46/CE), il presupposto di liceità del trattamento relativo alla sussistenza di un obbligo legale, riferita ora correttamente alla necessità di adempiere comunque ad un obbligo previsto dalla legge, e non più solo al caso di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore ha inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche fuori dei precedenti casi in cui veniva specificato che l’interessato non può, per incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso in cui la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la disciplina risulta conforme a quella vigente in ambito sanitario in relazione al trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che in base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del trattamento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli sanitari. La disciplina prevede, ora, che anche in questi ultimi casi, se manca il consenso della persona incapace o altrimenti impossibilitata a prestarlo è necessario acquisire il 172 Manuale della Professione Medica consenso dei prossimi congiunti o familiari, e si può procedere al trattamento dei dati personali dell’interessato solo se sia impossibile acquisire anche il consenso di tali soggetti o vi è rischio grave e imminente per la salute della persona, purché il consenso sia acquisito successivamente (art. 82, comma 2). Questa novità legislativa è stata sostanzialmente recepita nel nuovo Codice di Deontologia del 2006 che, nell’ultimo periodo dell’art. 12, contiene anche il riconoscimento, in favore del medico, della facoltà di procedere al trattamento dei dati personali di un assistito, anche in presenza del diniego dell’interessato, ove vi sia «l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi», senza la necessità di richiedere un’autorizzazione al Garante, come invece era previsto nell’art. 9 del Codice deontologico del 1998. Riguardo al DPR 10 novembre 1999 (Tutela salute mentale 1998-2000) che prevede che presso la direzione del Dipartimento di salute mentale (DSM) sia collocato il sistema informativo dipartimentale che raccoglie, elabora e archivia i dati di struttura, processo di esito, il Garante precisa che ciò non impone alle strutture di ricovero private di fornire al DSM competente l’elenco nominativo dei soggetti che abbiano fatto ricorso a esse. È da verificare, codice alla mano, se debbano essere inviati al sistema informativo del DSM solo dati anonimi e aggregati e non anche i loro dati identificativi. Reclami alle ASL e qualità del SSN Riguardo al trattamento di dati raccolti dalle ASL, telefonicamente o tramite altri strumenti di indagine, relativamente alla gestione dei reclami, o per il rilevamento della qualità sanitaria, si precisa che – nonostante venga considerato di rilevante interesse pubblico dal codice – tali indagini possono essere effettuate solo dopo aver individuato i tipi di dati trattabili e le operazioni su di essi eseguibili secondo il Codice. In materia di consegna dei referti medici, l’Autorità – ricordando numerosi casi di ASL che li trasmettevano tramite fax di altri soggetti (tabaccheria, uffici privati ecc.) – ricorda come il Codice preveda che i dati personali inerenti lo stato di salute possano essere resi noti al paziente solo per il tramite del medico designato dallo stesso. Il Codice stabilisce, inoltre, che il personale di assistenza sanitaria, non tenuto per legge al segreto professionale, possa venire a conoscenza delle informazioni sullo stato di salute dei pazienti, solo per quanto riguarda quelle strettamente necessarie per il migliore svolgimento delle sue 4. Gli obblighi del medico 173 funzioni, e di trattarle comunque in conformità alla normativa in materia di protezione dei dati personali. Con l’introduzione di un modello di ricetta medica a lettura ottica e la costituzione di una banca-dati centralizzata (contenente il codice fiscale degli assistiti) in cui confluiscono i dati riguardanti le prescrizioni di farmaci e di prestazioni specialistiche, al fine di monitorare meglio e tenere sotto controllo la spesa sanitaria, si incorre però anche nel problema (e nel rischio) di permettere abusivamente la ricostruzione analitica della storia sanitaria di ciascun soggetto. Riguardo alla ricorrente sollecitazione di pronunciarsi in merito alla possibilità di comunicare ai familiari lo stato di sieropositività di un paziente con prognosi grave, il Codice non contiene deroghe alle disposizioni di legge vigenti, soprattutto la legge 5 giugno 1990, n. 135 che stabilisce l’obbligo di comunicare i risultati di accertamenti diagnostici, diretti o indiretti, per l’infezione dell’HIV, alla sola persona cui tali esami si riferiscono. Pertanto la comunicazione ai familiari non può prescindere dal consenso dell’interessato. Particolarmente controverso è invece – anche in termini di responsabilità penale – la valutazione dell’opportunità che il medico provveda a sensibilizzare la persona sieropositiva e cerchi di persuaderla a comunicare al coniuge la propria sieropositività oppure a manifestare il proprio consenso alla rivelazione da parte del medico stesso. Sono da valutare, infatti, le possibili responsabilità penali del soggetto che, consapevole del proprio stato patologico, ometta di informare il coniuge, nonché le riflessioni in ambito giuridico e scientifico sui presupposti per l’eventuale applicazione del cosiddetto “stato di necessità” nel caso in cui la sieropositività sia resa nota dal medico, senza un consenso, ad un familiare del paziente. Il difficile bilanciamento dei diversi interessi – sostiene il Garante – non può essere risolto applicando tout court le recenti disposizioni che prevedono, in caso di impossibilità fisica, di agire o di intendere, o di volere dell’interessato, che il consenso possa essere validamente prestato anche da persone diverse da quest’ultimo, dovendosi considerare anche la norma che la riguarda, in termini omogenei rispetto a tutto il quadro normativo. Senza una forte tutela delle loro informazioni, le persone rischiano sempre di più d’essere discriminate per le loro opinioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come un elemento fondamentale della società dell’eguaglianza. Senza una forte tutela dei dati riguardanti i loro rapporti con le istituzioni o l’appartenenza a partiti, 174 Manuale della Professione Medica sindacati, associazioni, movimenti, i cittadini rischiano d’essere esclusi dai processi democratici: così la privacy diventa una condizione essenziale per essere inclusi nella società della partecipazione. Senza una forte tutela del “corpo elettronico”, dell’insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa libertà personale è in pericolo e si rafforzano le spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale. In materia di dati personali in ambito sanitario, il Garante ha adottato un provvedimento ove sono individuati i trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute esonerati dall’obbligo di notificazione di cui all’art. 37 del Codice (Deliberazione n. 1, del 31 marzo 2004). Sono esonerati da tale obbligo esclusivamente i trattamenti effettuati dai singoli professionisti e dagli altri medici che, in forma associata, condividono il trattamento con altri professionisti, specie all’interno di uno stesso studio medico. L’esenzione riguarda solo tali soggetti e si riferisce unicamente al trattamento di dati genetici e biometrici, di dati relativi alla procreazione assistita, ai trapianti, alle indagini epidemiologiche, alla rilevazione delle malattie mentali, infettive, diffusive e alla sieropositività che siano effettuati nell’ambito degli ordinari rapporti con il paziente. L’esonero non opera, invece, se il trattamento è sistematico e assume il carattere di costante e prevalente attività del medico come, ad esempio, quello dei dati genetici effettuato da un genetista. Non è previsto esonero neppure per i trattamenti di dati genetici e biometrici effettuati da strutture sanitarie pubbliche o private (ospedali, case di cura e di riposo, Aziende sanitarie, laboratori di analisi, associazioni sportive). Il Garante precisa che devono essere notificati solo i trattamenti relativi ad una banca-dati on-line. Non vanno quindi notificati i trattamenti di dati sanitari nell’ambito della tele-assistenza (consultazione di specialisti per via telefonica) e quelli organizzati in archivi cartacei, o informatizzati ma non collegati ad una rete telematica. Non devono notificare dati, infine, i medici che usano il computer, unicamente nel proprio ufficio, utilizzando posta elettronica per dialogare con i pazienti e per effettuare prenotazioni per gli assistiti. L’Autorità interviene in collaborazione con il Ministero della Salute in ordine alle modalità di attuazione dell’art. 17 della legge n. 40/2004 nella parte in cui prevede che le strutture e i centri in cui si praticano tecniche di procreazione medicalmente assistita trasmettano al Ministero «un elenco contenente l’indicazione numerica degli embrioni prodotti […] nonché», nel rispetto delle vigenti disposizioni sulla tutela della riservatezza dei dati personali, l’indica- 4. Gli obblighi del medico 175 zione nominativa di coloro che hanno fatto ricorso alle tecniche medesime a «seguito delle quali sono stati formati gli embrioni». Il Ministero ha poi specificato che non si sarebbe più sollecitata una comunicazione nominativa di tutti gli interessati che avevano fatto ricorso alla procreazione assistita presso i centri e che, al contrario, si sarebbe proceduto alla sola richiesta di inviare al Ministero una serie di codici numerici riferiti al centro, alla Regione di riferimento e a un numero sequenziale per ogni embrione congelato, in collegamento con i dati identificativi (che rimarranno in possesso esclusivamente dei centri). Il trattamento dei dati genetici Il Garante per la protezione dei dati personali ha emanato in data 22/2/2007, un’autorizzazione generale al trattamento dei dati genetici, pubblicata sulla GU n. 65 del 2007 e reperibile sul sito www.garante privacy.it. Questo provvedimento ha la precisa finalità di assicurare un’adeguata protezione ai dati genetici, categoria nella quale la Raccomandazione n. R(97) inserisce «tutti i dati, di qualunque tipo, che riguardano i caratteri ereditari di un individuo o che sono in rapporto con i caratteri che formano il patrimonio di un gruppo di individui affini» e che, pur rientrando nella più ampia categoria dei dati sanitari, per la loro particolarità possono essere trattati solo a determinate condizioni. Il provvedimento in esame, dopo avere definito il dato genetico come «il dato che, indipendentemente dalla tipologia, riguarda la costituzione genotipica di un individuo, ovvero i caratteri genetici trasmissibili nell’ambito di un gruppo di individui legati da vincoli di parentela», individua e precisa l’ambito di applicazione dell’autorizzazione generale, le finalità consentite del trattamento e le modalità di trattamento, nonché le modalità con le quali deve essere fornita all’interessato l’informativa e deve essere raccolto il consenso e individua la durata massima della conservazione dei campioni biologici prelevati e dati genetici trattati. In relazione all’informativa che deve essere fornita all’assistito, appare utile evidenziare che per il medico di medicina generale e il pediatra di libera scelta rimangono ferme le prescrizioni al riguardo contenute nell’art. 78 del DLgs n. 196 del 2003 in quanto nell’autorizzazione generale del 22/2/2007 è stabilito che per i trattamenti «non sistematici di dati genetici – [effettuati da queste categorie di sanitari] nell’ambito degli ordinari rapporti con l’interessato per la tutela della salute e dell’incolumità fisica di quest’ultimo» – non si applicano gli ulteriori obblighi informativi previsti nel provvedimento in esame. 176 Manuale della Professione Medica L’autorizzazione in oggetto aveva, in origine, efficacia dal 1 aprile 2007 al 31 dicembre 2008; questa durata è stata poi prorogata con successivi provvedimenti del Garante, tra cui va menzionata la delibera del 27 aprile 2010, pubblicata sulla GU n. 108 dell’11/5/2010, nella quale si evidenzia che, tenuto anche conto delle proposte di modifica e integrazione sottoposte all’attenzione del Garante da parte della Società di genetica umana, è stato elaborato un nuovo schema di autorizzazione che è stato trasmesso al Ministero della Salute al fine di acquisire il parere dell’Istituto Superiore di Sanità, prescritto dall’art. 90, primo comma, del codice in materia di protezione dei dati personali di cui al DLgs n. 196 del 2003. La materia, anche per la sua peculiarità, non ha ancora trovato, quindi, una sua stabile regolamentazione normativa. Art. 51 - Obblighi del medico Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni. In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve richiedere o porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge. Il Capo IX del Codice di Deontologia medica è dedicato a “trattamento medico e libertà personale”. Con il termine “trattamento medico” si viene a confermare l’ampliamento dell’ambito di pertinenza che precedentemente faceva riferimento in modo esclusivo ai pazienti reclusi. L’art. 51 del Codice sottolinea pertanto che il medico è comunque sempre tenuto a rispettare i diritti della persona assistita, anche se questa versa in condizioni restrittive e/o limitative della libertà personale per motivi giudiziari, mentre il secondo comma precisa che il sanitario non deve porre in essere misure coattive se il soggetto passivo rifiuta il trattamento sanitario obbligatorio, salvo i casi di effettiva necessità, e sempre nel pieno rispetto della dignità umana. Si è pertanto ribadito come il medico, se non in casi eccezionali e previsti dalle normative vigenti, non possa e non debba mai essere fonte di violenza e di costrizione nei confronti di un paziente che non voglia essere sottoposto 4. Gli obblighi del medico 177 a determinati trattamenti e terapie, come suggerisce il dettato costituzionale. Lo stato di reclusione del paziente in istituti di pena non comporta per il medico alcuna modifica dei doveri di rispetto dei diritti e della dignità dell’assistito. Il dovere del medico, individuato nell’art. 3 nella «tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana», non deve subire condizionamenti nel caso la persona assistita si trovi in condizioni limitative della libertà personale. Viene quindi in tal modo recepito il principio costituzionale per il quale tutti i cittadini hanno pari dignità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Il medico anche in considerazione degli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni, al rispetto delle quali il contenuto dell’art. 51 si richiama, non potrà contravvenire a quei doveri deontologici che caratterizzano la sua attività professionale. Art. 52 - Tortura e trattamenti disumani Il medico non deve in alcun modo o caso collaborare, partecipare o semplicemente presenziare a esecuzioni capitali o ad atti di tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Il medico non deve praticare, per finalità diversa da quelle diagnostiche e terapeutiche, alcuna forma di mutilazione o menomazione, né trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Tra i divieti previsti all’art. 52, per il medico si rileva anche la sola collaborazione, la partecipazione (diretta o indiretta) ad atti di tortura o a trattamenti crudeli, disumani e degradanti contro i suoi simili, e financo la presenza alle esecuzioni capitali, anche se nel nostro paese la pena di morte non è prevista dall’ordinamento giuridico; inoltre in tal senso è stato modificato anche l’ordinamento militare che la stabiliva solo in caso di guerra. Il fatto che nella nostra nazione il problema delle esecuzioni capitali non esista avvalora il rilievo che il Codice dà al divieto sopraindicato, intendendolo come volontà esplicativa anche internazionale in merito alla tematica della pena di morte. In certi paesi, per esempio alcuni stati degli USA, questa pena ancora esiste ed è prevista nell’ordinamento giudiziario, nonostante il dibattito pubblico contro la stessa ferva continuamente a livello sanitario, sociale e politico. 178 Manuale della Professione Medica In situazioni di questo tipo la presenza del medico è richiesta, e pertanto chi vi partecipa non è poi sanzionato sotto nessun profilo. L’ultimo comma dell’art. 52 pone divieto al medico di praticare qualsiasi forma di mutilazione sessuale femminile, per finalità che non siano diagnostiche e/o terapeutiche, e certamente risente della nuova struttura multirazziale della società, venendosi a configurare come forma di rifiuto di qualunque tipo di attività, sia pure sostenuta da motivazioni ideologiche, filosofico-spirituali e religiose, che è però da ritenere illecita sotto il profilo squisitamente eticodeontologico, configurandosi per esempio l’infibulazione una forma di mutilazione che non può venire accettata nella società moderna e progredita. Il dettato dell’art. 52 del Codice di Deontologia medica sancisce anche l’assoluta incompatibilità dell’esercizio della medicina con pratiche lesive della libertà, della dignità e dell’integrità dell’essere umano, e dovunque tali pratiche vengano effettuate il medico non può neanche solamente presenziare. Anche nei codici di altri paesi europei, per esempio Francia, Spagna, Portogallo e Lussemburgo, al medico è vietato partecipare direttamente o indirettamente a torture e trattamenti degradanti per la natura umana, sia in tempo di pace sia in occasioni belliche, e in alcuni casi è specificato che egli può sporgere denuncia all’autorità giudiziaria qualora visitando un detenuto constati che questi abbia subito maltrattamenti o trattamenti inumani o crudeli (anche se nel codice del Lussemburgo è necessario il consenso dell’interessato a meno che non versi in condizioni tali da non poterlo esprimere). Per quanto rileva comunque l’obbligo del medico di denunciare all’autorità giudiziaria situazioni delittuose di maltrattamenti o lesioni a reclusi dallo stesso constatate, ricordiamo come l’obbligo sia giuridicamente stabilito dal Codice penale agli artt. 361, 362 e 365, riguardanti, rispettivamente, l’omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e l’omissione di referto. Art. 53 - Rifiuto consapevole di nutrirsi Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizionni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla. 4. Gli obblighi del medico 179 L’argomento trattato nell’articolo ha una valenza generale, in quanto prevede che una qualunque persona sana di mente possa rifiutare volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, rilevando l’importanza e l’attualità di fenomeni ormai piuttosto abituali nella nostra società moderna, soprattutto a livello adolescenziale, che sempre più di frequente il medico si trova a dover affrontare. Questo articolo fornisce al sanitario delle direttive e linee-guida che, da un lato, ribadiscono il dovere di informare il soggetto sulle conseguenze della sua azione e, dall’altro, sottolineano la libertà dello stesso, con l’assunzione da parte sua della responsabilità delle conseguenze della propria decisione. Il medico, inoltre, non è tenuto ad assumere iniziative di tipo costrittivo, in piena coerenza con le preposizioni già esplicitate nel Codice in tema di consenso informato. Viene evidenziato sempre il dovere primario del medico, cioè quello di fornire assistenza al soggetto qualora ne necessitasse, in ogni caso. Art. 40 - Donazione di organi, tessuti e cellule È obbligo del medico la promozione della cultura della donazione di organi, tessuti e cellule anche collaborando alla idonea informazione ai cittadini. Art. 41 - Prelievo di organi e tessuti Il prelievo di organi e tessuti da donatore cadavere a scopo di trapianto terapeutico può essere effettuato solo nelle condizioni e nei modi previsti dalla legge. Il prelievo non può essere effettuato per fini di lucro e presuppone l’assoluto rispetto della normativa relativa all’accertamento della morte e alla manifestazione di volontà del cittadino. Il trapianto di organi da vivente è una risorsa aggiuntiva e non sostitutiva del trapianto da cadavere, non può essere effettuato per fini di lucro e può essere eseguito solo in condizioni di garanzia per quanto attiene alla comprensione dei rischi e alla libera scelta del donatore e del ricevente. I trapianti di organi e tessuti costituiscono certamente uno dei più rilevanti progressi della medicina nella cura di un grande numero di malattie per le quali non esiste nessuna soluzione alternativa e i progressi delle tecniche chirurgiche 180 Manuale della Professione Medica associati alla scoperta di nuovi farmaci hanno migliorato moltissimo la tolleranza dell’organo trapiantato nel ricevente, facendo sì che migliaia di persone che ne avevano assoluto bisogno beneficiassero con successo della trapiantologia. Con la legge del 1° aprile 1999, n. 91, l’Italia ha sviluppato ormai un modello efficace per la donazione e il trapianto di organi che ha permesso al paese di raggiungere una buona posizione a livello europeo: tuttavia il grande problema rimane sempre quello della domanda, che inevitabilmente supera l’offerta. Per questo è necessario che il medico innanzitutto sensibilizzi le persone sul fatto che la collaborazione di ciascuno di noi in questo campo è fondamentale per poter diminuire il divario tra la disponibilità la necessità di organi. Le principali istanze etico-deontologiche rispetto ai trapianti sono rappresentate dalle seguenti fattispecie, nel caso di donazione da donatore vivente: 1) la donazione stessa non deve essere considerata un obbligo morale, ma un grande atto positivo; 2) i valori morali di una libera donazione di rene non possono essere oggetto di scelta da parte dei centri di trapianto, ma debbono essere lasciati alla libera e consapevole decisione dei singoli; 3) la vendita degli organi è immorale in quanto esclude il meno abbiente, mortifica la dignità del donatore, viola il principio della capacità di accesso alle prestazioni; 4) il donatore dovrebbe essere un consanguineo che dia un libero consenso o può essere un non consanguineo, se legato affettivamente; 5) un minorenne non dovrebbe essere donatore vivente; 6) i rischi generici per il donatore sono da mettere in bilancio con il vantaggio per il malato. Nel caso di donazione da donatore cadavere, invece, dovrebbe verificarsi quanto segue: 1) il consenso dei familiari, in assenza di altre disposizioni del de cuius, dovrebbe essere ottenuto, o quanto meno il non rifiuto all’espianto; 2) il prelievo degli organi va eseguito dopo la definizione della morte cerebrale con i parametri dettati dalle norme per accertarla, con accertamento di morte eseguito da équipe indipendenti da quelle che espiantano e da quelle che trapiantano; 3) l’esecuzione di tutte le indagini diagnostiche a oggi conosciute per escludere il rischio di trasmissione di malattia attraverso il trapianto; 4) la scelta del trapianto come terapia per un dato paziente deve sempre essere considerata in alternativa ad altre, mediante la valutazione costi-benefici e dei rischibenefici e la considerazione innanzitutto del bene del paziente, caso per caso e situazione per situazione, della cultura che le persone esprimono nei confronti del trapianto e anche della morte; 5) la scelta dei riceventi dalle liste di attesa 4. Gli obblighi del medico 181 deve avvenire sulla base di criteri predeterminati e condivisi, che tengono conto della compatibilità degli organi, delle condizioni di gravità dei pazienti e del tempo di attesa; 6) gli organi prelevati in una regione devono essere attribuiti ai centri trapianto della stessa regione, con eccezioni regolamentate per le urgenze, le emergenze, i prestiti e le restituzioni a livello interregionale, nazionale e internazionale; 7) i prelievi e i trapianti di organi (non di cornea) devono essere eseguiti solo in strutture pubbliche, con autorizzazione del Ministero della Sanità; 8) rendicontazione pubblica dell’attività, della provenienza degli organi, dei trapianti eseguiti e dei loro risultati immediati e a distanza. Il trapianto a scopo di lucro non è deontologicamente ammesso, perché prevede il pagamento di un compenso a un donatore vivente, che in cambio offre un proprio organo: in questo caso il trapianto può interessare solo organi e tessuti non vitali (per esempio il rene) o capaci di rigenerarsi (fegato, midollo osseo). Il crescente sviluppo che riguarda tale pratica è da imputarsi alla maggiore richiesta di trapianti, alla minor disponibilità di trapianto da cadavere e a un allungamento delle liste di attesa, oltre che a una crescente offerta sul mercato internazionale. Il trapianto a scopo di lucro non sempre è un atto volontario di un singolo donatore, ma è spesso associato al traffico di organi umani. Desta infatti preoccupazione la scomparsa ogni anno di migliaia di bambini, mai più ritrovati, in Italia e altri paesi europei, e il fatto che le adozioni internazionali registrate nei paesi UE sono molte meno del numero di bambini partiti per l’Europa secondo le anagrafiche dei paesi di origine; a questi si sommano i feti di aborti clandestini (cellule staminali) dei quali non si conosce la fine e l’ipotesi di un mercato degli aborti nelle fasce povere della popolazione, dovuti non a una libera scelta della puerpera, ma alla possibilità di prelievo e vendita degli organi da cadavere. 5 Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente A. Alimonti, F. Centini, S. Del Vecchio, D. Mattei, A. Pagni Art. 5 - Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente Il medico è tenuto a considerare l’ambiente nel quale l’uomo vive e lavora quale fondamentale determinante della salute dei cittadini. A tal fine il medico è tenuto a promuovere una cultura civile tesa all’utilizzo appropriato delle risorse naturali, anche allo scopo di garantire alle future generazioni la fruizione di un ambiente vivibile. Il medico favorisce e partecipa alle iniziative di prevenzione, di tutela della salute nei luoghi di lavoro e di promozione della salute individuale e collettiva. Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute La ricerca applicata, l’evoluzione delle tecnologie, il progresso delle conoscenze in tutte le discipline scientifiche in particolar modo nel campo medico, l’incremento delle risorse destinate alla prevenzione delle malattie sono tra i principali fattori che hanno contribuito e contribuiscono al prolungamento delle aspettative di vita e al miglioramento dello stato di salute della popolazione. D’altra parte, invece, il vertiginoso sviluppo delle attività industriali e produttive, non più confinate in determinate aree, mostra evidenti ripercussioni in zone del pianeta sempre più estese e lontane, minacciando il diritto alla salute di intere popolazioni. Molti fenomeni, infatti, tra i quali basti citare il surriscaldamento globale, dimostrano come l’equilibrio uomo/ambiente sia di gran lunga influenzato dalle esigenze indotte da rapporti economici e sottovaluti l’impatto di tali cambiamenti sulla salute umana. Un esempio eclatante è rappresentato dalla progressiva riduzione di una risorsa essenziale per la vita dell’uomo come l’acqua potabile. Attualmente, 184 Manuale della Professione Medica anche per effetto della significativa riduzione delle risorse idriche superficiali e profonde, compromesse dalla contaminazione antropica, un miliardo e 500 milioni di persone non hanno accesso all’acqua ed oltre 2,5 miliardi non ne hanno abbastanza per soddisfare le proprie esigenze igieniche. Si tratta di carenze che non rappresentano solo un disagio, ma negano il diritto alla vita a milioni di persone. Più in generale, gli effetti delle attività antropiche sull’ambiente comportano il trasferimento di fattori di rischio di natura chimica, fisica e/o biologica dall’ambiente all’uomo attraverso un’esposizione diretta o indiretta, ad esempio mediante il consumo di alimenti contaminati (Tabella 5.1). Tabella 5.1. Esempi dell’influenza dell’ambiente sulla salute (modificata da: http://www.sepa.org.uk/publications/state_of/2006/main/d_human_health.html) Implicazioni sanitarie Aria Una scarsa qualità dell’aria può contribuire al peggioramento dei sintomi in caso di disturbi respiratori quali bronchite ed asma e può determinare l’aumento dell’incidenza di malattie cardiovascolari. Suolo La contaminazione dei suoli aumenta il rischio di esposizione ad agenti chimici attraverso la rete alimentare, il contatto diretto o la contaminazione delle risorse idriche. Tale esposizione può dar luogo a patologie (acute) anche gravi come ad esempio quelle causate da agenti microbiologici (Escherichia coli type 0157) o può determinare effetti a lungo termine (ad es., aumento dell’incidenza di casi di tumore). Acqua L’inquinamento può interessare le risorse di acqua potabile, le acque di balneazione e ricreazionali e infine, tutte quelle aree dove ad es. viene praticato l’allevamento e la raccolta di molluschi. Un particolare aspetto riguarda anche le patologie gastrointeistinali idrodiffuse dovute a contaminazione microbica. Clima I cambiamenti climatici possono determinare l’aumento di infezioni associate ad una variazione selettiva del profilo microbiologico. Agenti chimici L’accumulo nell’ambiente di metalli e di composti organici persistenti può rappresentare un rischio per la salute (aumento dei casi di cancro). Radiazioni L’esposizione diretta a radiazioni e l’accumulo di radioattività nella rete alimentare può contribuire ad aumentare il rischio di cancro. L’esposizione al radon da fonti naturali in casa è correlata all’aumento di incidenza di cancro ai polmoni. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 185 Azoto e fosforo di diversa origine (ad es. allevamenti) possono determinare effetti negativi sulla qualità dell’acqua, come ad es. l’insorgere di fioriture Eutrofizzazione algali potenzialmente dannose per l’uomo (irritazioni cutanee, disturbi gastrointestinali, danni epatici). Rifiuti Rifiuti urbani possono produrre germi nocivi. Durante il ciclo di smaltimento si possono produrre sostanze tossiche e cancerogene in grado di innalzare i tassi di mortalità per cancro e il numero di malformazioni nelle popolazioni residenti vicino alle discariche. Che l’ambiente giochi un ruolo essenziale nel determinare le condizioni di salute e la qualità di vita dell’individuo e di una popolazione è, del resto, drammaticamente evidenziato dalle molteplici “emergenze ambientali” verificatesi negli ultimi anni e contraddistinte da eccezionali intensità ed estensione, tanto da dover essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari. È del resto ben noto che il 75% delle patologie e delle cause di morte è legato all’ambiente più o meno degradato, ad esposizione occupazionale a sostanze potenzialmente dannose, nonché a stili di vita inappropriati. In questo scenario appare evidente che è necessario focalizzare l’attenzione ed investire risorse nell’ambito della prevenzione, intesa come un insieme di «atti finalizzati a eradicare o a eliminare le malattie e le disabilità o a minimizzare il loro impatto». Il concetto di prevenzione è usualmente articolato in livelli, che definiscono una prevenzione convenzionalmente chiamata primaria, una secondaria e una terziaria (Figura 5.1). La prevenzione terziaria, attraverso ad esempio i classici studi di follow-up, interviene nel caso di patologie conclamate ed ha il compito di ridurre l’impatto negativo di una patologia già avviata, ripristinando le funzioni, riducendo le complicanze e le probabilità di recidive, puntando, in ultima analisi, ad una riduzione del suo incremento stimato. Con le tecniche di prevenzione secondaria, invece, attuate su individui singoli o gruppi di popolazione attraverso programmi di screening (ad esempio programmi di biomonitoraggio) si tende ad effettuare una diagnosi precoce e quindi rallentare e/o contenere la progressione della malattia grazie ad un tempestivo intervento di carattere normativo o terapeutico, normalmente da parte delle autorità sanitarie. Un programma di screening sarà tanto più efficace quanto maggiormente sarà mirato ed in grado di diminuire l’incidenza di una patologia della popolazione biomonitorata. 186 Manuale della Professione Medica La prevenzione primaria consiste, infine, nell’analisi e nella rimozione delle sorgenti di esposizione, così eliminando o riducendo l’esposizione dell’organismo e riducendo, quindi, la possibilità dell’organismo di sviluppare patologie collegate allo specifico rischio ambientale. In questo caso si opera sull’individuo sano e/o sull’ambiente, attraverso due tipi di interventi: – l’allontanamento delle cause di insorgenza o sviluppo di patologie o stati di disagio, come nel caso di attività di risanamento di siti inquinati; – il potenziamento di fattori utili alla salute come ad esempio l’intensificazione dell’attività fisica o l’implementazione di misure di profilassi immunitaria. Figura 5.1. Strumenti e obiettivi della prevenzione Su tali basi l’evoluzione del ruolo professionale e civile del medico e di ogni operatore della salute implica una migliore consapevolezza ed un crescente orientamento verso la promozione della salute umana anche attraverso scelte di tutela ambientale, prevenzione degli inquinamenti ed indicazione di corretti stili di vita. Nell’accezione corrente con il termine inquinamento si intende una serie di fenomeni alterativi dei cicli biogeochimici e/o dei flussi energetici degli ecosistemi, per effetto di eventi naturali – quali terremoti, incendi o fenomeni 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 187 erosivi – o per cause antropiche – centrali energetiche, impianti industriali, inceneritori, discariche, uso di prodotti chimici in agricoltura, traffico veicolare. L’estensione, la portata e gli effetti dei fenomeni di inquinamento sono evidentemente correlati alla natura ed entità degli agenti inquinanti e alla loro proprietà di diffondersi attraverso differenti matrici, con conseguente trasferimento della contaminazione da un comparto ambientale all’altro (aria, suolo, acque superficiali e sotterranee). Sotto il profilo dell’esposizione ad agenti inquinanti appare evidente come le aree urbane rappresentino un punto critico dal punto di vista della salute pubblica dato che circa il 48% della popolazione mondiale vive oggi in agglomerati urbani dove è significativamente maggiore il rischio di esposizione a miscele di agenti fisici e chimici potenzialmente dannosi. Per orientare le scelte strategiche volte a ridurre l’impatto dell’inquinamento ambientale sulla salute risulta di fondamentale importanza valutare l’esposizione umana ai diversi fattori di rischio, inclusi potenziali effetti sinergici, attraverso la definizione delle forme chimiche delle differenti sostanze e gli effetti di trasformazione di queste nelle matrici ambientali, la misura della biodisponibilità degli inquinanti assimilabili, la stima dell’effettiva capacità di produrre effetti biologici dannosi. Tale valutazione rappresenta uno dei punti critici del risk assessment (analisi del rischio) e degli studi epidemiologici. Il risk assessment si articola in una serie di azioni pianificate consistenti nell’identificazione delle sorgenti di rischio e dei conseguenti potenziali rischi di esposizione nonché nella stima dell’entità di tali rischi di esposizione. È attualmente l’approccio di elezione a supporto di decisioni per la gestione di molteplici situazioni in cui si configuri un inquinamento ambientale con possibili ricadute sulla salute umana, come ad esempio nel caso della gestione di siti inquinati. L’analisi di rischio consente, infatti, di definire e progettare interventi su un territorio dove insistano fenomeni di contaminazione sulla base dei rischi sanitari ed ambientali oggettivamente definiti e valutati, consentendo così di decidere sulla necessità di intervento, e dimensionare ed ottimizzare le risorse necessarie. Parallelamente, gli studi epidemiologici costituiscono un eccellente strumento d’indagine per evidenziare eventuali effetti a lungo termine di uno o più fattori di rischio (ad esempio all’esposizione a campi elettromagnetici). In confronto agli studi di laboratorio in vivo o in vitro, tali studi consentono di osservare direttamente le risposte degli individui in condizioni reali, riducendo il 188 Manuale della Professione Medica tasso di incertezza correlato, tra l’altro, a fenomeni di variabilità inter- ed intraspecifica. Negli studi epidemiologici la stima delle diverse esposizioni ambientali e delle loro interazioni costituisce un elemento conoscitivo fondamentale anche se è incline a numerose sorgenti di incertezza. Incertezze che derivano sia da alcune caratteristiche intrinseche dell’inquinamento ambientale sia dalla molteplicità ed eterogeneità dei possibili scenari di esposizione influenzati da stili di vita, condizioni socio-economiche, suscettibilità individuale, dieta, ecc. A ciò si aggiunga la problematicità delle esposizioni a miscele di composti e la difficoltà nella definizione degli effetti di tali esposizioni. A fronte della complessità delle valutazioni in precedenza accennate, in particolare per gli aspetti correlati alla definizione dell’esposizione della popolazione, è comunque indispensabile che i processi decisionali in sanità pubblica si avvalgano di modelli epidemiologici validi e di strumenti appropriati derivanti da un approccio integrato multidisciplinare. Tra gli strumenti più validi in tal senso sono da annoverare i sistemi di sorveglianza sanitaria basati su indicatori specifici di relazione tra ambiente e salute, alcuni approcci valutativi innovativi (ad esempio, la Valutazione di Impatto sulla Salute - VIS) e il monitoraggio biologico o biomonitoraggio. In particolare per sorveglianza sanitaria – secondo la definizione dei Centers for Disease Control and Prevention americani – si intende un processo consolidato, consistente nella raccolta sistematica in continuo, nell’analisi e nell’interpretazione di dati sanitari essenziali per pianificare, implementare e valutare la salute della popolazione, da integrare strettamente all’attività di diffusione di tali dati nei confronti di tutti coloro che sono interessati. L’anello finale della catena è costituito dall’applicazione di questi dati nella prevenzione e controllo. La maggior parte dei sistemi di sorveglianza precedentemente elencati mostra alcuni limiti intrinseci che li porta a fornire misure di rischio con elevati margini di incertezza. D’altra parte, invece, è necessario sottolineare come l’approccio basato sul biomonitoraggio presenti la peculiarità di essere relativamente indipendente da effetti sinergici/antagonisti dei diversi inquinanti e di poter tenere conto dell’azione combinata di tutte le possibili fonti di esposizione (aria, acqua, suolo, polveri, alimenti). Il biomonitoraggio, sebbene sia una procedura complessa e di non facile realizzazione, consiste in un insieme di azioni attuate che permette di avere informazioni sull’effettivo grado di esposizione dell’individuo o di un gruppo di popolazione. Con esso, infatti, si 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 189 è in grado di dosare direttamente il contaminante o i suoi metaboliti nell’organismo bersaglio (dose interna) tenendo in considerazione anche la diversa suscettibilità individuale allo xenobiotico dovuta ad età e a particolari condizioni fisiologiche, patologiche e/o genetiche. Il biomonitoraggio, in effetti, sta ricevendo crescente attenzione dalla comunità scientifica europea se si pensa che il programma di azione comunitario all’interno dell’Environment and Health Action Plan (2004-2010) “Action 3” ribadisce esplicitamente la necessità di sviluppare piani di biomonitoraggio delle popolazioni in Europa, in stretta collaborazione tra gli stati membri. Per quanto riguarda il contesto nazionale, campagne di sorveglianza della popolazione generale sono state condotte finora solo da alcuni gruppi di lavoro per lo più in ambito di medicina occupazionale o di controllo dell’inquinamento ambientale. I risultati di tali attività hanno fornito un panorama dell’esposizione della popolazione italiana frammentario e lacunoso sia per rappresentatività che per gli xenobiotici studiati, spesso senza definizione delle priorità di intervento, senza garanzie qualitative delle procedure adottate (nella selezione, analisi e valutazione dei dati). Ciò non ha agevolato l’attuazione di accurate e permanenti campagne di sorveglianza dell’esposizione della popolazione. Per superare le evidenti limitazioni nel contesto precedentemente illustrato è stato avviato in Italia il progetto PROBE (programma di biomonitoraggio dell’esposizione della popolazione generale, 2008-2010), che pone il nostro paese tra i pochi stati europei che sono riusciti ad attivarsi nella direzione indicata dall’Action 3. Tale programma di sorveglianza, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e finanziato dal CCM (Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie, del Sottosegretariato alla Salute), si propone di fornire alle istituzioni normative una base di dati affidabile e sufficientemente completa del grado di esposizione della popolazione generale a contaminanti, in particolar modo ai metalli, attraverso campagne di monitoraggio a cadenza biennale di gruppi omogenei e rappresentativi della situazione italiana. Attualmente, quindi, gli strumenti cognitivi e programmatici sono disponibili ed utilizzabili per intraprendere politiche di promozione della salute attraverso l’adozione di strategie finalizzate alla riduzione dell’impatto dei fenomeni inquinanti sulla salute e al miglioramento della salubrità degli ambienti di vita. Nel contempo, tuttavia, è importante sollecitare la partecipazione della comunità alle scelte e alle decisioni che riguardano la propria salute, sviluppare le capacità personali a 190 Manuale della Professione Medica partire da una educazione basata su responsabilità e partecipazione, indirizzare i servizi sanitari, a partire dalla formazione del personale, per arrivare ad un modello di assistenza che privilegi un approccio più globale di promozione della salute. Quest’ultimo obiettivo è distintamente individuato nelle linee-guida dell’OMS che prevedono il raggiungimento di una serie di traguardi entro il 2015 riguardanti tra l’altro la riduzione significativa degli effetti dannosi derivanti da stili di vita inadeguati e che portano, per esempio, al consumo di sostanze che causano dipendenza quali tabacco, alcool e droghe. In modo del tutto analogo, anche il programma europeo Guadagnare Salute prevede la programmazione di una serie di interventi di tutela della salute pubblica, distribuiti tra istituzioni e governi, capaci di ridurre i principali fattori di rischio. Sul piano nazionale è da segnalare che il Programma Nazionale della Prevenzione 2007-2009 prevede quali ambiti di intervento la sorveglianza e la prevenzione dell’obesità, delle malattie cardiovascolari, degli incidenti stradali, degli infortuni nei luoghi di lavoro e degli incidenti domestici. In conclusione appare evidente come, in questo contesto, la figura professionale del medico e degli altri operatori sanitari rappresenti un’eccellente interfaccia tra il mondo della ricerca scientifica e la sanità pubblica per una corretta diffusione ed applicazione delle conoscenze relative ai problemi della salute legati all’ambiente, passando attraverso i media, la scuola, il mondo politico e quello economico. In quest’ottica, il medico dovrebbe in maniera sempre più concreta rappresentare una figura di riferimento per il sostegno delle altre categorie professionali e per le amministrazioni pubbliche affinché vengano promosse politiche di prevenzione della salute e, quindi, di sviluppo sostenibile e salvaguardia ambientale. Art. 8 - Obbligo d’intervento Il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare assistenza. Il medico ha il dovere vincolante d’essere disponibile a prestare assistenza e di soccorrere il malato in situazioni d’emergenza, «indipendentemente dalla sua abituale attività». 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 191 Questo obbligo morale, che discende dal più ampio principio di solidarietà a difesa della vita e dell’incolumità personale, previsto anche dal Codice penale per tutti i cittadini, è ancora più cogente per il medico titolare del monopolio della tutela della salute in quanto esercente un “servizio di pubblica necessità”. Art. 9 - Calamità Il medico in caso di catastrofe, di calamità o di epidemia, deve mettersi a disposizione dell’Autorità competente. Questo articolo, dopo il precedente che impegna il medico a prestare la propria opera di fronte a un’emergenza che riguarda un singolo caso, esplicita il dovere deontologico (ma anche giuridico) del medico di «mettersi a [completa] disposizione dell’Autorità competente» (anche in assenza di precise disposizioni e indipendentemente dall’instaurazione di un qualsiasi rapporto a carattere continuativo), per prestare la propria opera di fronte a un imprevedibile disastro che colpisca la collettività. Art. 36 - Assistenza d’urgenza Allorché sussistano condizioni d’urgenza, tenendo conto delle volontà della persona se espressa, il medico deve attivarsi per assicurare l’assistenza indispensabile. Il trattamento medico-chirurgico in urgenza presenta aspetti particolari perché individua quelle situazioni in cui un determinato intervento è certamente opportuno, anche se non assolutamente necessario e indifferibile come nei casi di emergenza. Solo nel caso in cui il malato non possa esprimere al momento una volontà contraria, il medico deve prestare la sua assistenza, ovviamente nei limiti delle cure indispensabili, perché chiaro risulta che il paziente può consapevolmente scegliere di non curarsi o rifiutare particolari trattamenti (si veda il caso delle emotrasfusioni). Pertanto, nei casi di specie, solo la persona assistita è in grado di valutare se il trattamento medico o chirurgico che gli viene proposto gli può consentire una qualità di vita residua compatibile con la sua dignità personale e con le sue aspettative al riguardo, rilevandosi come la norma deontologica 192 Manuale della Professione Medica in questi casi privilegi in modo esclusivo la volontà consapevole dell’interessato. Anche in caso di urgenza il consenso informato a una determinata cura può essere espresso da un’altra persona solo se questa è stata delegata chiaramente dal malato stesso. Se la persona malata è minorenne, il consenso è automaticamente delegato ai genitori. Il minorenne, però, ha diritto a essere informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione. Se il malato è maggiorenne ma è incapace di decidere, è il tutore legale a dover esprimere il consenso alla cura, ma la persona interdetta ha diritto a essere informato e di veder presa in considerazione la sua volontà. Art. 74 - Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie Il medico deve svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività la informativa alle autorità sanitarie e ad altre autorità nei modi, nei tempi e con le procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista, la tutela dell’anonimato. La tutela della salute mentale Fonti normative La tutela del diritto alla salute è sancita dalla Costituzione ed è comprensiva ovviamente del diritto della persona alla salute mentale. Questo comporta una prima riflessione sulla definizione stessa di equo trattamento e accesso alle cure nel concetto dell’osservanza dei principi della dignità dell’uomo, in quanto definire i criteri per un giusto trattamento nei confronti dei pazienti psichiatrici richiede un approccio complesso, che contempera la necessità del rispetto dei diritti del paziente con quello della sicurezza della società. Ogni idoneo criterio deve essere posto in essere e considerato, pertanto, al fine di trovare giuste corrispondenze tra piano etico e normativo, proprio alla luce della difesa dei diritti umani fondamentali. Di certo, quello che va assicurato alle persone affette da malattia mentale sono i diritti di tutti gli altri membri della comunità, indipendentemente poi dalla concreta possibilità che i primi abbiano di esercitarli direttamente. Riguardo all’assistenza psichiatrica nel nostro paese, opportuna è una considerazione sulla legge n. 180 del 13 maggio 1978 poi trasferita negli artt. 33, 34 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 193 e 35 del Servizio Sanitario Nazionale. La legge succitata rappresenta certamente una conquista scientifica, culturale e civile, in quanto, ponendo fine all’istituzione manicomiale e aprendo nuove strade all’organizzazione di un sistema di assistenza sanitaria senza meno ha costruito le condizioni per restituire piena cittadinanza alle persone con malattie psichiatriche, anche se a distanza di quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore forse solo oggi si cominciano a cogliere i frutti della sua applicazione. Certamente, dall’epoca dell’emanazione della legge a oggi l’assistenza psichiatrica in Italia ha subito un profondo cambiamento e ha visto passare il malato psichiatrico dalla struttura manicomiale, dove venivano eseguiti interventi per il controllo sociale, al Dipartimento di Salute Mentale (DSM), dove gli interventi mirano invece alla prevenzione, cura e riabilitazione. Un primo cambiamento era già stato introdotto nel 1968 dalla cosiddetta legge Mariotti (legge 431/1968) che, oltre a istituire i Centri di Igiene mentale a scopo di prevenzione e cura, introdusse la possibilità del ricovero volontario e l’abolizione dell’iscrizione del ricovero manicomiale nel casellario giudiziario. Il malato cominciava a essere percepito in funzione del suo diritto alla salute e pertanto poteva essere curato anche se non pericoloso sia al domicilio, sia fuori che dentro il manicomio, sulla base di una sua semplice richiesta, ma non subiva più l’interdizione d’ufficio, restando potenzialmente libero di decidere sulla propria vita e sulla propria salute, salvo si ravvisasse una necessità tutelare: il concetto custodialistico cominciava a farsi da parte per far posto a quello assistenzialistico. Numerosi Autori hanno sottolineato la difficoltà di fronteggiare le necessità esistenziali dei malati di mente emerse con la legge 180/1978 attraverso gli archetipi normativi del Codice civile del 1942, ispirati però a un’ottica custodialistica, che lasciava ben poco spazio alla capacità di autodeterminazione del sofferente psichico. La persistenza di norme obsolete ha finito per continuare a frapporre alla realizzazione esistenziale dell’infermo un folto reticolo di impedimenti, conferendo «al tramonto del manicomio il significato di un puro e semplice passaggio di consegne tra un apparato di costrizioni ospedaliere e una camicia di forza giuridica» (Cendon). Inoltre, la legge ha previsto, con l’abolizione degli ospedali psichiatrici, l’inserimento della psichiatria nell’ambito sanitario, affermando la centralità dell’intervento a livello dei Servizi psichiatrici territoriali o Centri di salute mentale, e ha collocato le strutture psichiatriche di ricovero negli ospedali generali istituendo i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) ed ha carat- 194 Manuale della Professione Medica terizzato gli interventi obbligatori (TSO) come provvedimenti eccezionali e di breve durata, autorizzandoli per esigenze terapeutiche urgenti non arginabili in altro modo. Più tardi, con il Progetto Obiettivo “Tutela della salute mentale” 1994-1996 erano state individuate delle importanti questioni da affrontare per dare basi più solide al settore dell’assistenza psichiatrica e migliorarne la qualità complessiva, come la costruzione di una rete di servizi in grado di fornire un intervento integrato, con particolare riguardo alla riabilitazione e alla gestione degli stati di crisi; veniva inoltre favorito sia lo sviluppo dell’organizzazione dipartimentale del lavoro, dotando la rete dei servizi di una precisazione tecnica e gestionale in grado di garantire il funzionamento integrato e continuativo dei servizi stessi, che l’aumento delle competenze professionali degli operatori per far fronte a tutte le patologie psichiatriche con particolare riguardo a quelle più gravi, attraverso interventi diversificati. Inoltre, si affrontava il problema del definitivo superamento dell’ospedale psichiatrico mediante l’attuazione di programmi mirati. Con il DPR del 10 novembre 1999, pubblicato sulla GU n. 274 del 22 novembre 1999, è stato approvato il nuovo Progetto Obiettivo Nazionale per la Tutela della salute mentale, che ha costituito adempimento prioritario previsto dal Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, e che ha individuato la salute mentale fra le tematiche a elevata complessità e per le quali era necessaria l’elaborazione di specifici atti di indirizzo. Appare opportuno evidenziare che il Ministero della Salute, nel Piano sanitario nazionale 2006-2008, ha affermato che «le precedenti azioni programmatiche in tema di salute mentale hanno portato al consolidamento di un modello organizzativo dipartimentale e alla individuazione di una prassi operativa mirata ad intervenire attivamente e direttamente sul territorio (domicilio, scuola, luoghi di lavoro, ecc.) in collaborazione con le associazioni dei familiari e di volontariato, con i medici di medicina generale e gli atri servizi sanitari e sociali» e che «la distribuzione quantitativa di tutti i servizi dei DSM soddisfa gli standard tendenziali nazionali, con valori superiori per i Centri di salute mentale, i Centri Diurni e le Strutture residenziali», pur evidenziando la presenza di alcune criticità ancora da affrontare. Nel documento preliminare informativo sui contenuti del nuovo Piano sanitario nazionale 2010-2012, infine, tra le patologie rilevanti di cui si occuperà il Piano sanitario nazionale, viene inserita anche la dizione «salute mentale e disturbi del comportamento alimentare», come comunicato dal Ministero alla Conferenza StatoRegioni. Il Progetto prevede infatti l’istituzione di una rete di servizi sul territorio, fruibili dai cittadini 24 ore su 24, e potenzia le attività di assistenza e cura soprat- 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 195 tutto di soggetti in età evolutiva. La strategia di intervento proposta nel Progetto Obiettivo ha fornito un quadro di riferimento determinante e ha dato avvio alla riorganizzazione sistematica dei servizi deputati all’assistenza psichiatrica. Prioritaria è diventata l’esigenza di istituire un DSM in tutte le ASL e il Progetto ha proposto obiettivi più specifici di salute da perseguire incentrando l’attenzione sulla definizione di interventi più decisi sul piano della programmazione evidenziando quelli primari, con lo scopo di assicurare la presa in carico del paziente e la risposta ai bisogni delle persone affette dai disturbi più gravi che ne compromettono l’autonomia e l’esercizio dei diritti. Il Dipartimento di Salute Mentale Le strutture costitutive del DSM sono il Centro di salute mentale, il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, il Day hospital, il Centro diurno, le Strutture residenziali. Il Centro di salute mentale è la sede di elaborazione del progetto terapeutico, dove lavora una équipe multiprofessionale che svolge nel centro molteplici attività di prevenzione, cura e riabilitazione, quali la valutazione delle richieste che giungono non solo dagli utenti ma anche dai loro familiari, dai servizi sociali e dai medici di medicina generale; inoltre, effettua attività di filtro e prevenzione dei ricoveri psichiatrici, visite ambulatoriali e domiciliari, colloqui di supporto psicologico; ma vengono eseguite anche psicoterapie individuali e di gruppo, terapia psicofarmacologica, attività di sostegno infermieristico, attività riabilitative e risocializzanti, interventi socio-asssistenziali per gli utenti presi in carico, proposte di ricovero nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e nelle strutture convenzionate all’uopo, e infine attività di filtro e di invio ad altri servizi specialistici, a strutture semiresidenziali riabilitative o residenziali del DSM o convenzionate. C’è la possibilità che il Centro di salute mentale disponga di alcuni posti letto per situazioni di crisi o attività extraospedaliere. Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) invece, è collocato in un ospedale e accoglie i pazienti per i quali si renda necessario il ricovero in tale ambiente, sia in forma volontaria che in regime di TSO, essendo la prima modalità comunque quella prevalente. Durante il ricovero possono venire impostate terapie farmacologiche, effettuati accertamenti medici internistici e valutata, con la collaborazione del personale del Centro di salute mentale, la situazione personale e relazionale del paziente. A questo punto potranno successivamente essere messi in atto interventi sia psicoterapeutici, sia sulle famiglie che interventi di tipo socio-assistenziale. 196 Manuale della Professione Medica Il Day hospital è uno spazio di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve termine, collocato in strutture ospedaliere o esterne ma collegato con il Centro di salute mentale, e permette la riduzione del periodo di ricovero e/o comunque garantisce l’effettuazione coordinata di accertamenti diagnostici nonché l’avvio e il monitoraggio di interventi farmacologici e psicoterapeutici riabilitativi. Il Centro diurno è una struttura semiresidenziale con funzione terapeuticoriabilitativa, aperta almeno otto ore al giorno per sei giorni alla settimana, che dispone di locali idonei e attrezzati e si avvale di un proprio gruppo di lavoro ed eventualmente di operatori sociali o di organizzazioni di volontariato. Il centro ha compiti volti a consentire lo sviluppo, nell’ambito di progetti terapeuticoriabilitativi, di abilità personali nella cura di sé e nelle attività quotidiane che si fondano sulle relazioni interpersonali. Le strutture residenziali rappresentano uno tra gli strumenti essenziali del DSM e lo standard previsto era di un posto letto ogni 10.000 abitanti, oggi però decisamente aumentato proporzionalmente al bisogno. Le Strutture residenziali sono suddivise secondo le tre tipologie previste, in base all’intensità assistenziale sanitaria: nelle 24 ore, nelle 12 ore, a fascia oraria. La mission del DSM dovrebbe essere quella di coinvolgere anche le famiglie nella formulazione e nell’attuazione del piano terapeutico-riabilitativo, con coinvolgimento volontario e responsabilità a carico del servizio e non della famiglia; quella di recuperare gli utenti gravi che non si presentano agli appuntamenti o abbandonano il percorso terapeutico e la frequentazione del servizio, in modo da ridurre anche la frequenza dei suicidi. Ma la mission comprende anche il sostegno alla nascita di gruppi di auto-aiuto di familiari e di pazienti da parte di cooperative sociali, specie di quelle per l’inserimento lavorativo dei disabili, nonché iniziative di formazione rivolte alla popolazione sui disturbi mentali con la finalità di diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di maggiore solidarietà. La profilassi delle malattie infettive Le malattie infettive, lungi dall’essere completamente sotto controllo come erroneamente previsto negli anni ’60 e ’70, costituiscono ancora un rischio rilevante per la salute degli individui e un carico assistenziale per il sistema sanitario. Alcune di esse sono stigmate di povertà (malaria, tubercolosi, AIDS) 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 197 e in particolare una, la tubercolosi, è stata dichiarata dall’OMS, per la prima e unica volta nella sua storia, un’emergenza globale. Dal 1970 a oggi sono stati scoperti oltre quaranta nuovi agenti infettivi (da Legionella spp ai virus delle febbri emorragiche, passando attraverso i virus epatitici non-A/non-B e all’HIV), buon ultimo un coronavirus agente di una pandemia fortunatamente già esaurita, la SARS. Inoltre sempre più si teme la possibilità di un uso intenzionale terroristico di agenti infettivi, manipolati in modo tale da non essere controllati con i comuni presidi preventivi e terapeutici. L’ultimo rapporto mondiale dell’OMS sulla salute conferma il primato delle malattie infettive in termini di mortalità, morbosità e sofferenza, nonostante la disponibilità per molte di efficaci interventi preventivi e terapeutici. Attualmente, in questo ambito esiste una discrasia tra i successi ottenuti per alcune patologie infettive e, di contro, l’allarme per alcune infezioni emergenti e riemergenti, che riconoscono, tra i principali determinanti: – selezione di ceppi con maggiore virulenza, resistenza alle terapie, capacità di adattamento a condizioni ecologiche diverse; – mutate condizioni socioeconomiche ed epidemiologiche; – comparsa e/ o identificazione di nuove specie di patogeni; – mutamenti significativi del contatto uomo/animale (nel campo zootecnico per la produzione intensiva di carni e uova; in ambito familiare per la presenza di animali da compagnia o da caccia); – intenso e rapido scambio di merci e persone anche da paesi e continenti lontani nell’ambito di una logica di globalizzazione. La notifica di malattia infettiva Per poter contrastare le malattie infettive ai fini della programmazione sanitaria e del controllo dell’efficacia degli interventi attuati è necessario conoscere il numero esatto di casi che si verificano nel territorio e le loro modalità di trasmissione. A tal fine è indispensabile la notifica di malattia infettiva accertata o sospetta da parte dei sanitari. La rilevazione statistica delle malattie infettive ebbe inizio in Italia nel 1888, anno di promulgazione delle prime leggi organiche sulla sanità pubblica. La notifica, obbligatoria in Italia dal 1934 con l’entrata in vigore del TULLS, RD 27 luglio 1934, n. 1265, che agli art. 254-255 dispone quanto segue: «Il sanitario che nell’esercizio della sua professione sia venuto a conoscenza di un caso 198 Manuale della Professione Medica di malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve immediatamente farne denuncia al podestà e all’ufficiale sanitario comunale e coadiuvarli, se occorra, nella esecuzione delle disposizioni emanate per impedire la diffusione delle malattie stesse e nelle cautele igieniche necessarie [...]. Le denunce di malattie infettive e diffusive o sospette di esserlo, pericolose per la salute pubblica, debbono essere immediatamente comunicate dal podestà al prefetto, dall’ufficiale sanitario al medico provinciale, dal prefetto al Ministro della sanità. Quando la gravità del caso lo esiga, il prefetto, sentito il medico provinciale, può costituire commissioni locali, delegare persone tecniche per esaminare i caratteri della malattia, inviare medici, spedire medicinali e disporre gli altri provvedimenti necessari per assicurare la cura dei malati ed evitare la diffusione della malattia, informandone sollecitamente il Ministro della sanità». Con la legge n. 572 del 17 maggio 1952 l’ISTAT divenne l’organo preposto alla raccolta ed elaborazione statistica dei dati. Dopo l’istituzione del Ministero della Sanità (legge n. 296/1958) e il conseguente passaggio di competenze dal Ministero dell’Interno, solo nel 1990 il termine “denuncia”, legato a significati di polizia sanitaria, è stato modificato in “notifica”, ovvero una segnalazione il cui principale fine inerisce alla sorveglianza e alla prevenzione. Con l’entrata in vigore della legge n. 833/1978, istitutiva del SSN, lo Stato ha deciso di mantenere (art. 6) le competenze connesse alla sanità transfrontaliera, intendendo con ciò l’attività di profilassi delle malattie infettive, delegando poi alle Regioni molte funzioni in campo sanitario: «[...] la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie», fino ad allora competenze dello Stato. Tale volontà, confermata dalle ultime disposizioni sull’argomento, assegna definitivamente allo Stato, tramite gli Uffici di Sanità marittima, aerea e di frontiera, tutte le funzioni relative agli interventi di sanità transfrontaliera su persone, merci e vettori (navi e aerei essenzialmente) in arrivo da altri paesi, volti a limitare il rischio di “importazione” di alcune tra le malattie infettive trasmissibili. Riconosciuta la necessità di aggiornare e modificare, alla luce delle attuali esigenze di controllo epidemiologico e di integrazione del sistema informativo sanitario nazionale, l’elenco delle malattie infettive e diffusive che danno origine a particolari misure di sanità pubblica, il Ministero della Sanità, con DM 15 dicembre 1990 199 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente (“Sistema informativo delle malattie infettive e diffusive”), ha modificato il precedente DM del 5 luglio 1975, aggiornando il sistema di acquisizione delle informazioni, finalizzato alla realizzazione di tempestive misure di profilassi (Tabella 5.2). Tabella 5.2. Notifiche di malattia infettiva (DM 15 dicembre 1990) Classe I Malattie per le quali si chiede segnalazione immediata o perché soggette al regolamento sanitario internazionale o perché rivestono particolare interesse: colera, febbre gialla, febbre ricorrente epidemica, febbri emorragiche virali (Lassa, Marburg, Ebola), peste, poliomielite, tifo esantematico, botulismo, difterite, influenza con isolamento virale, rabbia, tetano, trichinosi. Segnalazione da parte del medico alla ASL entro 12 ore dal sospetto di un caso di malattia; segnalazione immediata dalla ASL alla Regione e da questa al Ministero e all’Istituto Superiore di Sanità; segnalazione immediata del Ministero all’OMS dell’accertamento del caso, ove previsto. Classe II Malattie rilevanti perché a elevata frequenza e/o passibili di interventi di controllo: blenorragia, brucellosi, diarree infettive non da salmonelle, epatite virale A, B, NANB, epatite virale non specificata, febbre tifoide, legionellosi, leishmaniosi cutanea e viscerale, leptospirosi, listeriosi, meningite ed encefalite acuta virale, meningite meningococcica, morbillo, parotite, pertosse, rickettsiosi diversa da tifo esantematico, rosolia, salmonellosi non tifoidee, scarlattina, sifilide, tularemia, varicella. Segnalazione alla ASL da parte del medico entro due giorni dall’osservazione del caso, invio degli appositi modelli dalla ASL alla Regione e da questa all’ISTAT e al Ministero per le vie ordinarie. Classe III Malattie per le quali sono richieste particolari do- Ove non sia disposto diversamente da provvedicumentazioni: aids, lebbra, malaria, micobatteriosi menti particolari, una parte della scheda di notifica non tubercolare, tubercolosi. che verrà inviata all’ISTAT (sezione A), analoga per tutte le malattie notificabili, con i dati anagrafici del soggetto e l’indicazione della malattia. La sezione B dei moduli sarà invece differenziata per raccogliere informazioni epidemiologiche pertinenti. Sono previsti flussi informativi particolari e differenziati: per l’AIDS si fa riferimento alle circolari del Ministero della Sanità 13 febbraio1987 n. 5 e 13 febbraio1988 n.14; per la malaria e la lebbra si fa riferimento rispettivamente alla circolare n. 32 del 28 novembre1989 e alla circolare n. 507/ G4/3136 del 13 maggio1983. Classe IV Malattie per le quali alla segnalazione del singolo caso deve seguire quella della ASL solo quando si verificano focolai epidemici: infezioni infestazioni e tossinfezioni di origine alimentare, pediculosi, scabbia, dermatofitosi. Segnalazione da parte del medico alla ASL entro 24 ore; segnalazione dalla ASL alla Regione e da questa al Ministero, all’ISS, all’ISTAT tramite gli appositi modelli. Classe V Malattie infettive e diffusive notificate all’ASL e non comprese nelle classi precedenti, zoonosi indicate dal regolamento di polizia veterinaria di cui al DPR 8 febbraio 1954, n. 320. Le ASL devono comunicare annualmente il riepilogo di tali malattie alla Regione e da questa al Ministero per le vie ordinarie. Ove tali malattie assumano le caratteristiche del focolaio epidemico, verranno segnalate con le modalità previste per la classe IV. 200 Manuale della Professione Medica Nel DM 15 dicembre 1990 si è proceduto, inoltre, alla classificazione delle malattie infettive e diffusive in cinque classi aggregate sulla base della rilevanza per gravità in termini di letalità, costo sociale, elevata frequenza, estrema rarità, possibilità di intervento con azioni di profilassi e/o terapia e/o educazione sanitaria, interesse sul piano nazionale e internazionale. Il DM 29 luglio 1998 del Ministero della Sanità ha modificato la scheda di notifica dei casi di tubercolosi e di micobatteriosi non tubercolare; il DM 14 ottobre 2004 del Ministero della Salute ha aggiunto nella terza classe la sindrome/ infezione da rosolia congenita e l’infezione da virus della rosolia in gravidanza. Il DM 15 dicembre 1990 prevede che: «Il medico che nell’esercizio della sua professione venga a conoscenza di un caso di qualunque malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve comunque notificarlo all’autorità sanitaria competente», indicando la malattia sospetta o accertata, gli elementi identificativi del paziente, gli accertamenti diagnostici eventualmente effettuati e la data di comparsa della malattia. I Servizi di Igiene Pubblica competenti delle ASL devono, a loro volta, attuare un sistema di raccolta delle informazioni finalizzato alla realizzazione di tempestive misure di profilassi, convogliando il flusso informativo a livello regionale e centrale secondo tempi, vie di trasmissione e modalità diverse in rapporto al tipo e livello di provvedimenti sanitari da attuare. La Commissione dell’Unione Europea, con Decisione del 19 marzo 2002 (2002/253/CE) ha stabilito la definizione di caso ai fini della dichiarazione delle malattie trasmissibili alla rete di sorveglianza comunitaria istituita ai sensi della Decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Salvo disposizioni contrarie, devono essere dichiarati soltanto i casi sintomatici; tuttavia le infezioni asintomatiche devono essere considerate casi qualora l’infezione abbia conseguenze terapeutiche o sulla salute pubblica. Il sistema adottato dall’Unione Europea si articola su tre livelli: – caso confermato: verificato da analisi di laboratorio; – caso probabile: quadro clinico chiaro, ovvero collegato epidemiologicamente a un caso confermato, cioè un caso che è stato esposto a un caso confermato oppure che ha avuto un’esposizione identica a quella di un caso confermato (ad esempio, ha assunto lo stesso cibo, ha soggiornato nello stesso albergo ecc.); – caso possibile: quadro clinico indicativo, ma non caso confermato o probabile. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 201 Le classificazioni a tali livelli differenti possono variare in base all’epidemiologia delle singole malattie. Figura 5.2. Flusso ordinario di notifica del SIMI (Fonte ISS) Il Sistema Informativo Malattie Infettive (SIMI) Il sistema informativo, denominato SIMI, attualmente copre l’82,5% della popolazione italiana, e presenta molteplici vantaggi: – migliora la qualità e la tempestività dei dati; – rende possibili interventi rapidi sul territorio ai fini della prevenzione e del controllo; – facilita il ritorno delle informazioni; – uniforma l’organizzazione e i contenuti del flusso informativo; – rende ottenibile un dato unico e ufficiale per gli organi centrali e le regioni. L’Osservatorio epidemiologico regionale (OER), che dovrebbe essere stato attivato in ciascuna Regione, ha assorbito laddove attivato le funzioni di Centro regionale di coordinamento del Progetto SIMI. A livello locale, presso il Servizio di Igiene Pubblica di ciascuna ASL, operano i referenti del SIMI, che coordinano il flusso dei dati dalla periferia, svolgono le inchieste epidemiologiche e trasmettono mensilmente le notifiche all’OER (Figura 5.2). 202 Manuale della Professione Medica Nel 2002 in Italia sono stati notificati 183.527 casi complessivi (ISTAT, 2005), pari a un tasso di circa 321/100.000 abitanti. Rispetto al 2001 notifiche e tasso registrano un lieve aumento (rispettivamente, +1,01% e +1,02/100.000). Analizzando le differenze di genere, gli uomini continuano a essere più colpiti delle donne: nel 2002 il tasso di notifica ammonta a 355 casi per 100.000 maschi contro 288 per 100.000 femmine. Lo svantaggio del sesso maschile risulta evidente per tutte le malattie, con l’eccezione del tetano e della pertosse. Escludendo le malattie dell’infanzia, soggette a variazioni molto ampie, si registra un trend in calo per brucellosi, epatiti virali, salmonellosi non tifoidee. Al contrario, si registra una sostanziale stabilità dei casi notificati di AIDS (che, dopo la sensibile diminuzione della seconda metà degli anni ’90, si assestano su un tasso pari a circa 3,3 casi/100.000 residenti) e un notevole aumento delle notifiche di legionellosi. Provvedimenti sulle fonti di infezione Il riconoscimento di un caso di malattia infettiva e la sua notifica al Dipartimento di prevenzione della ASL, consentono di realizzare due obiettivi: – informativo, in quanto attraverso l’insieme di questi atti è possibile valutare la frequenza, l’avanzamento e la distribuzione nella popolazione e nel territorio delle malattie infettive e avere un aggiornato quadro epidemiologico a livello locale, regionale e nazionale; – operativo, in quanto la denuncia apre la strada a tutte quelle misure di profilassi che si rendano necessarie caso per caso. È evidente che i provvedimenti sono differenziati a seconda del tipo di malattia, della sua frequenza in un determinato territorio, della sua diffusibilità e trasmissibilità. Così, se la presenza di un caso di influenza generalmente implica da parte delle Autorità sanitarie locali una semplice opera di registrazione, il manifestarsi di casi di altre malattie, come una tossinfezione alimentare, impone il dispiego di misure tempestive ed efficaci. La conferma diagnostica dei casi, la ricerca di eventuali portatori, le indagini rivolte all’ambiente familiare o alla collettività e al territorio, costituiscono le condizioni preliminari indispensabili alla messa in atto dei dispositivi (inchiesta epidemiologica) atti a tutelare gli individui e la collettività. L’inchiesta epidemiologica mira dunque a identificare la sorgente del contagio e le modalità di trasmissione dell’infezione, 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 203 la presenza di altre sorgenti di infezione (portatori) o di soggetti a rischio. L’accuratezza di questa operazione è una condizione essenziale per un efficace intervento di prevenzione sia nei confronti delle persone che dell’ambiente. La contumacia per esigenze profilattiche L’acquisizione di nuove conoscenze epidemiologiche e scientifiche, unitamente all’impatto prodotto sulla salute pubblica da malattie infettive emergenti e riemergenti, hanno suggerito l’opportunità di sottoporre a revisione la Circolare n. 65 del 18 agosto 1983 “Disposizioni in materia di periodi contumaciali per esigenze profilattiche” e la Circolare n. 14 del 31 marzo 1992 “Modifica della Circolare 65/1983 sulle misure contumaciali Epatiti virali”. Tale processo ha condotto all’emanazione della Circolare n. 4 del 13 marzo 1998 “Misure di profilassi per esigenze di Sanità pubblica: Provvedimenti da adottare nei confronti di soggetti affetti da alcune malattie infettive e nei confronti di loro conviventi o contatti” in cui sono riportate le malattie, raggruppate sulla base delle classi di notifica di cui al DM 15 dicembre 1990, per le quali sono applicabili misure di profilassi individuale e collettiva. I provvedimenti relativi ai malati mirano all’interruzione della catena di trasmissione della malattia mentre fra le misure relative a conviventi e contatti un’attenzione particolare viene riservata alla possibilità di effettuare interventi di prevenzione primaria. In tale prospettiva, la vaccinazione, quando possibile, rappresenta il mezzo più appropriato per la prevenzione e il controllo; tale provvedimento può, in alcuni casi, ottenere obiettivi superiori quali l’eliminazione della malattia e l’eradicazione dell’agente causale. Per alcune patologie, quali l’epatite B e il morbillo, è stata dimostrata l’efficacia protettiva della vaccinazione anche a esposizione già avvenuta. Le misure di profilassi per esigenze di sanità pubblica previste dalla Circolare n. 4 del 13 marzo 1998 del Ministero della Sanità sono le seguenti: Botulismo alimentare: ICD-9 005.1 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: da 12 a 48 ore; in casi eccezionali può arrivare a 8 giorni. – Periodo di contagiosità: è esclusa la trasmissione interumana di questa, come di altre forme di botulismo. – Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti. 204 Manuale della Professione Medica – Altre misure preventive: ricerca attiva della fonte di intossicazione, con prelievo di appropriati campioni degli alimenti consumati dal paziente nelle 48-12 ore precedenti l’insorgenza della sintomatologia. Indagine epidemiologica sui commensali. Colera: ICD-9 001-001.9 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: da poche ore a 5 giorni, abitualmente 2-3 giorni. – Periodo di contagiosità: per tutto il periodo di incubazione e fintantoché V. cholerae è presente nelle feci, abitualmente per alcuni giorni dopo la guarigione clinica; occasionalmente può instaurarsi lo stato di portatore cronico, con escrezione del patogeno per alcuni mesi. – Provvedimenti nei confronti del malato: ospedalizzazione con precauzioni enteriche fino alla negatività di 3 coprocolture eseguite a giorni alterni dopo la guarigione clinica, di cui la prima eseguita almeno 3 giorni dopo la sospensione della terapia antimicrobica. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per 5 giorni dalla ultima esposizione dei conviventi e delle persone che hanno condiviso alimenti e bevande con il paziente. Ricerca di eventuali portatori tra conviventi mediante coprocoltura. Allontanamento delle persone sottoposte a sorveglianza sanitaria dalle attività che comportino direttamente o indirettamente la manipolazione di alimenti per almeno 5 giorni dall’ultimo contatto con il caso. In caso di elevata probabilità di trasmissione secondaria in ambito domestico, chemioprofilassi dei conviventi con tetraciclina o doxiciclina ai seguenti dosaggi: adulti: 500 mg di tetraciclina per 4 volte al giorno per tre giorni, oppure 300 mg di doxiciclina in dose singola per tre giorni; bambini: 6 mg/kg di doxiciclina in dose singola per tre giorni, oppure 50 mg/kg/die di tetraciclina divisi in 4 somministrazioni giornaliere per tre giorni. In caso di ceppi di V. cholerae resistenti alla tetraciclina, i trattamenti alternativi sono rappresentati da: adulti: 100 mg di furazolidone 4 volte al dì per un giorno, oppure 2 g 2 volte al dì di cotrimossazolo per un giorno; bambini: 1,25 mg di furazolidone 4 volte al dì per un giorno, oppure 50 mg/kg di cotrimossazolo in due assunzioni giornaliere per un giorno. La vaccinazione anticolerica non è indicata. Difterite: ICD-9 032-032.9 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: abitualmente 2-6 giorni; occasionalmente può essere più lungo. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 205 – Periodo di contagiosità: variabile da due settimane a poco più di quattro settimane, comunque fino a che i bacilli virulenti sono presenti nelle lesioni; i casi di portatore cronico sono rarissimi. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto nei casi di difterite laringea; isolamento da contatto nei casi di difterite cutanea; l’isolamento può essere interrotto dopo 14 giorni di terapia antibiotica o dopo due risultati colturali negativi su campioni appropriati, prelevati a distanza di almeno 24 ore e non meno di 24 ore dopo la cessazione della terapia antibiotica. – Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, con effettuazione di indagini di laboratorio per evidenziare eventuali portatori asintomatici. Valutazione dello stato vaccinale con: – somministrazione di una dose di richiamo in caso di ciclo vaccinale incompleto, o nel caso siano trascorsi più di 12 mesi dall’ultima dose di un ciclo completo; – ciclo vaccinale completo in caso di stato vaccinale non determinabile. Antibioticoprofilassi, a prescindere dallo stato vaccinale e senza attendere i risultati degli esami colturali, con i seguenti farmaci e ai seguenti dosaggi: adulti: 1.200.000 unità di benzilpenicillina in dose singola per via im, oppure 1 g/die di eritromicina per os per 7-10 giorni; bambini: 600.000 unità di benzilpenicillina in dose singola per via im fino a 6 anni, oppure 40 mg/kg/die di eritromicina per os per 7-10 giorni. Febbri emorragiche virali: ICD-9 078.8, 078.89 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: febbre di Ebola: da 3 a 9 giorni; febbre di Marburg da 2 a 21 giorni; febbre di Lassa da 6 a 21 giorni. – Periodo di contagiosità: nella fase conclamata della malattia e fintantoché particelle virali sono presenti nel sangue e nei fluidi biologici. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento strettissimo in unità di alto isolamento o in reparti specializzati per malattie infettive, in stanze dotate di sistema di ventilazione con cappe a flusso laminare, con rigide procedure per lo smaltimento degli escreti e dei fluidi biologici. Disinfezione continua di escreti e fluidi biologici e di tutti i materiali che siano stati a contatto con il paziente, inclusi strumenti e materiale di laboratorio, con soluzioni di ipo- 206 Manuale della Professione Medica clorito di Na allo 0,5%, oppure di fenolo allo 0,5%, oppure mediante trattamento in autoclave, oppure mediante termodistruzione. Scrupoloso rispetto delle precauzioni standard e utilizzazione, in tutte le fasi dell’assistenza al malato, compresa l’esecuzione degli esami di laboratorio, di indumenti e mezzi di protezione individuale (mascherine, guanti, occhiali), possibilmente monouso. Esecuzione degli esami di laboratorio per la ricerca e identificazione degli agenti virali responsabili di febbri emorragiche in strutture dotate di sistemi di alto isolamento con livello di sicurezza biologica 4 (BSL 4); gli esami ematochimici di routine possono essere eseguiti in strutture con livello di sicurezza biologica 3 (BSL 3). Per quanto riguarda i casi di malattia da virus Ebola-Marburg, astensione dai rapporti sessuali fino a dimostrazione di assenza dei virus dallo sperma (circa 3 mesi). – Altre misure preventive: ricerca attiva delle persone che hanno avuto contatti con il paziente durante le tre settimane seguenti all’inizio della malattia e sorveglianza sanitaria delle stesse per tre settimane dall’ultimo contatto, con misurazione della temperatura corporea due volte al dì e ospedalizzazione, con isolamento, al riscontro di temperature superiori a 38,3°C. – Per ulteriori dettagli si rimanda alle Circolari del Ministero della Sanità n. 400.2/113.3.74/2808 dell’11 maggio 1995 e 100/67301/4266 del 26 maggio 1995. Poliomielite: ICD-9 045-045.9 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: da 3 a 35 giorni, con una media di 7-14 giorni per i casi di polio paralitica. – Periodo di contagiosità: non definibile con precisione; la contagiosità sussiste fintantoché i poliovirus vengono escreti. I poliovirus sono dimostrabili nelle secrezioni oro-faringee e nelle feci rispettivamente dopo 36 e 72 ore dall’esposizione, con persistenza fino a una settimana nel faringe e per 3-6 settimane e oltre nelle feci. Indagini di campo hanno dimostrato che per ogni caso di poliomielite paralitica si verificano da 100 a 1000 infezioni subcliniche. – Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche nel caso di ricovero in ospedale (pur essendo altamente auspicabili, sono di scarso significato in ambiente domestico perché al momento della comparsa dei sintomi tutti i contatti domestici sono già stati infettati). 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 207 – Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti per individuazione di altri casi di paralisi flaccida acuta o di meningite asettica. Immediata somministrazione di una dose di OPV a tutti i conviventi, ai contatti stretti e a tutti i bambini di età compresa tra 0 e 5 anni residenti nella zona (quartiere, comune, provincia), a prescindere dal loro stato vaccinale antipolio. Attuazione di campagne straordinarie di vaccinazione antipolio con OPV in situazione epidemica (nella attuale situazione italiana, in cui non si registrano casi autoctoni di poliomielite da virus selvaggio dal 1983, un caso costituirebbe di per sé un’epidemia). Astensione dalla pratica di iniezioni intramuscolari non strettamente necessarie e differimento degli interventi chirurgici otorinolaringoiatrici fino a definizione e controllo della situazione. Rabbia: ICD-9 071 (Classe di notifica: I). – Periodo di incubazione: da un minimo di 4 giorni ad alcuni anni, abitualmente 3-8 settimane. La durata del periodo di incubazione è condizionata da: ceppo virale e quantità inoculata, sede e caratteristiche della lesione. – Periodo di contagiosità: da qualche giorno prima dell’inizio della sintomatologia all’exitus. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto per tutta la durata della malattia e adozione di precauzioni standard; disinfezione continua di tutti gli oggetti contaminati con saliva, liquor e, in caso di esecuzione di esame autoptico, di tessuto cerebrale del paziente. – Altre misure preventive: trattamento post-esposizione di tutti coloro che abbiano subito esposizione di ferite aperte o membrane mucose a saliva, liquor o, in caso di esecuzione di esame autoptico, a tessuto cerebrale del paziente. Per il trattamento pre- e post-esposizione vedere la Circolare n. 36 del 10 settembre 1993. Ricerca attiva dell’animale rabido e di altre persone o animali morsicati. Epatite virale A: ICD-9 070.0-070.1 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 15 a 50 giorni, mediamente 28-30 giorni. – Periodo di contagiosità: l’infettività è massima nell’ultima parte del periodo di incubazione e si protrae per alcuni giorni (circa una settimana) dopo la comparsa dell’ittero o dopo l’innalzamento dei livelli ematici degli enzimi epatocellulari, nei casi anitterici. 208 Manuale della Professione Medica – Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per 15 giorni dalla diagnosi di epatite A, ma per non più di una settimana dopo la comparsa dell’ittero. In caso di insorgenza di epatite A in reparti di neonatologia, le precauzioni enteriche devono essere adottate per un periodo di tempo più lungo. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di casi secondari, o di altri casi sfuggiti alla diagnosi, tanto in ambito familiare quanto in un ambito più allargato, qualora si sospetti una epidemia da fonte di esposizione comune (viaggio in zona endemica, consumo di frutti di mare crudi). Indicata la somministrazione di immunoglobuline specifiche, purché questa avvenga entro due settimane dall’esposizione. Nel caso di coinvolgimento di scuole materne, le immunoglobuline dovrebbero essere somministrate a tutti i compagni di classe del paziente e, nel caso di asili nido in cui sono ammessi bambini che utilizzano il pannolino, a tutti i bambini potenzialmente esposti e al personale, previa acquisizione del consenso informato da parte dei genitori o dei tutori dei minori. In caso di epidemia interessante in modo ampio la collettività (epidemie a dimensione comunale o regionale), è indicata la vaccinazione del personale impegnato in attività di assistenza sanitaria e alla prima infanzia, oltre che dei contatti. N.B.: Le stesse misure, con l’esclusione della somministrazione di immunoglobuline specifiche e del vaccino, si applicano anche ad altre epatiti a trasmissione fecale-orale. La vaccinazione è altresì consigliata per: a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per epatite A; b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami; c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni; d ) emofiliaci; e) politrasfusi; f ) tossicodipendenti; g) omosessuali maschi; h) ospiti di residenze assistenziali per soggetti con turbe mentali; i) operatori sanitari esposti ad HAV. Epatite virale B: ICD-9 072.2-072.3 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 45 a 180 giorni, mediamente 60-90 giorni. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 209 – Periodo di contagiosità: l’infettività inizia alcune settimane prima del manifestarsi della sintomatologia e permane per tutta la durata della malattia. Tutti i soggetti HBsAg positivi sono da considerare potenzialmente infettanti. – Provvedimenti nei confronti del malato: adozione delle precauzioni standard per prevenire l’esposizione e il contatto con sangue e altri fluidi biologici. – Altre misure preventive: vaccinazione di conviventi e partner sessuali di soggetti portatori cronici di HBsAg, secondo le indicazioni del DM 4 ottobre 1991 (GU n. 251 del 27 ottobre 1991). Immunoprofilassi post-esposizione per tutti i soggetti vittime di lesioni con aghi o oggetti taglienti potenzialmente infetti e di partner sessuali di pazienti cui sia stata diagnosticata l’epatite virale B. Le immunoglobuline specifiche vanno somministrate al più presto dopo il contatto potenzialmente infettante, insieme con il vaccino, secondo gli schemi riportati nel DM 3 ottobre 1991 (GU n. 251 del 27 ottobre 1991) e successive modifiche e integrazioni. La profilassi postesposizione non è necessaria per le persone immunizzate in precedenza che abbiano un titolo anticorpale maggiore o uguale a 10 mUI/ml. In caso contrario, è indicata una dose booster di vaccino, ovvero di immunoglobuline, per la somministrazione delle quali è necessario acquisire il consenso informato. Febbre tifoide: ICD-9 002.0 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: abitualmente da 1 a 3 settimane, ma può variare da 3 giorni a 3 mesi a seconda della dose infettante. – Periodo di contagiosità: fintantoché S. typhi è presente nelle feci, dalla prima settimana di malattia per tutta la durata della convalescenza, nei soggetti sottoposti a terapia antibiotica efficace; nel 10% dei casi non trattati l’eliminazione può continuare anche per mesi dall’esordio. Il 2-5% dei pazienti diviene portatore cronico. – Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche fino a risultato negativo di 3 coprocolture consecutive, eseguite su campioni fecali prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e a non meno di 48 ore dalla sospensione di qualsiasi antibiotico. In caso di positività anche di una sola coprocoltura, ripetizione dell’intera procedura dopo un mese. 210 Manuale della Professione Medica Allontanamento, fino a negativizzazione, dalle attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella all’infanzia. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di altri casi di infezione e della fonte di esposizione, con particolare riguardo a storie di viaggi in aree endemiche e alle abitudini alimentari. Allontanamento di conviventi e contatti stretti dalle attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella all’infanzia, fino a risultato negativo di 2 coprocolture e di 2 urinocolture eseguite su campioni prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e dopo sospensione per 48 ore di qualsiasi trattamento antimicrobico. La vaccinazione antitifica è di valore limitato in caso di esposizione a casi conclamati, mentre può essere utile in caso di convivenza con portatori cronici. La vaccinazione è consigliata per: a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per febbre tifoide; b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami; c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni; d) personale di laboratorio con possibilità di frequenti contatti con S. typhi. Legionellosi: ICD-9 482.8 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: per la malattia dei legionari, abitualmente da 2 a 10 giorni, più frequentemente 5-6 giorni. Per la febbre di Pontiac da 5 a 66 ore, più frequentemente 24-48 ore. – Periodo di contagiosità: non è stato documentato il contagio interumano. – Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti. – Altre misure preventive: ricerca attiva della sorgente di infezione e dei soggetti eventualmente esposti. Sorveglianza sanitaria per la ricerca attiva di segni di infezione nei soggetti esposti alla comune sorgente ambientale. Controllo degli impianti di condizionamento dell’aria e di distribuzione dell’acqua potabile. Bonifica e disinfezione degli stessi mediante clorazione e/o riscaldamento dell’acqua circolante a temperature superiori a 60°C. Pulizia periodica degli impianti di condizionamento e delle torri di raffreddamento con le modalità sopra indicate. Uso di sostanze ad azione biocida per limitare la crescita di microrganismi quali amebe, cianobatteriacee e alghe microscopiche, che favoriscono la sopravvivenza e la moltiplicazione delle legionelle. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 211 Listeriosi: ICD-9 027.0 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: abitualmente tre settimane, ma può variare da 3 a 70 giorni dopo esposizione o consumo di un prodotto contaminato. – Periodo di contagiosità: la Listeria può essere presente per mesi nelle feci di individui infetti. Nelle madri di neonati affetti da listeriosi connatale può essere riscontrata nelle secrezioni vaginali e nelle urine per 7-10 giorni dopo il parto. – Provvedimenti nei confronti del malato: non sono necessarie misure di isolamento; sufficiente il rispetto delle comuni norme igieniche e di precauzioni enteriche. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per identificare possibili focolai epidemici con ricerca della fonte comune di infezione/esposizione. Raccomandazioni circa l’astensione dal consumo di carni crude e poco cotte e di latte non pastorizzato e prodotti derivati, per le donne in stato di gravidanza e per le persone con alterazioni dell’immunocompetenza. Meningite meningococcica: ICD-9 036.0 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 2 a 10 giorni, in media 3-4 giorni. – Periodo di contagiosità: fintantoché N. meningitidis è presente nelle secrezioni nasali e faringee. Il trattamento antimicrobico, con farmaci nei confronti dei quali è conservata la sensibilità di N. meningitidis e che raggiungano adeguate concentrazioni nelle secrezioni faringee, determina la scomparsa dell’agente patogeno dal naso-faringe entro 24 ore. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24 ore dall’inizio della chemioantibioticoterapia. Disinfezione continua degli escreti naso-faringei e degli oggetti da essi contaminati. Non è richiesta la disinfezione terminale ma soltanto una accurata pulizia della stanza di degenza e degli altri ambienti in cui il paziente ha soggiornato. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti per 10 giorni, con inizio immediato di appropriata terapia al primo segno sospetto di malattia, in particolare modo iperpiressia. Nei conviventi e nei contatti stretti di casi di meningite meningococcica chemio-antibioticoprofilassi eseguita mediante impiego dei seguenti farmaci ai seguenti dosaggi: adulti: 600 mg di rifampicina due volte al dì per due giorni, oppure 250 mg di ceftriaxone in dose singola per via im, oppure 500 mg di cipro- 212 Manuale della Professione Medica floxacina in dose singola per os; bambini: 10 mg/kg/die di rifampicina per i bambini di età superiore a 1 mese, 5 mg/kg/die per quelli di età inferiore a trenta giorni, oppure 125 mg di ceftriaxone in dose singola per via im. Farmaci alternativi debbono essere utilizzati solo in caso di provata sensibilità del ceppo e in situazioni che ostacolino l’uso dei farmaci di prima scelta. La decisione di instaurare un regime di chemioantibioticoprofilassi non deve dipendere dalla ricerca sistematica di portatori di N. meningitidis, che non riveste alcuna utilità pratica ai fini della profilassi. Morbillo: ICD-9 055-055 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 7 a 18 giorni, mediamente 10-14 giorni. – Periodo di contagiosità: da poco prima dell’inizio del periodo prodromico fino a 4 giorni dopo la comparsa dell’esantema. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 5 giorni dalla comparsa dell’esantema. In caso di ricovero ospedaliero, isolamento respiratorio per analogo periodo. – Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di soggetti suscettibili, cui va offerta la vaccinazione antimorbillosa (o antimorbilloparotite-rosolia). La vaccinazione, effettuata entro 72 ore dall’esposizione, ha efficacia protettiva. Possibile anche la somministrazione di immunoglobuline specifiche che va effettuata, previa acquisizione di consenso informato, tassativamente entro 6 giorni dall’esposizione: la somministrazione di immunoglobuline oltre il terzo giorno del periodo di incubazione non è in grado di prevenire la malattia. Anche se non sono previste restrizioni o particolari condizioni per la frequenza scolastica e dell’attività lavorativa di conviventi e contatti suscettibili di un caso di morbillo, se ne raccomanda la vaccinazione per controllare e prevenire epidemie nell’ambito di collettività. Parotite: ICD-9 072-072.9 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 12 a 15 giorni, mediamente 18 giorni. – Periodo di contagiosità: da 6 a 7 giorni prima e fino a 9 giorni dopo la comparsa della tumefazione delle ghiandole salivari. L’infettività è massima nelle 48 ore precedenti la comparsa dei segni clinici della malattia. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e in caso di ricovero ospedaliero. Isolamento respiratorio per 9 giorni dalla comparsa della tumefazione delle ghiandole salivari. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 213 – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di soggetti suscettibili in ambito familiare e della collettività scolastica, con restrizione della frequenza di collettività dal 12° al 25° giorno successivo all’esposizione. Pertosse: ICD-9 033-033.9 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 6 a 20 giorni. Dall’inizio del periodo catarrale fino a tre settimane dall’inizio della fase parossistica. – Periodo di contagiosità: in pazienti trattati con eritromicina la contagiosità si estingue in circa 5 giorni dall’inizio della terapia. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e, in caso di ricovero ospedaliero, isolamento respiratorio per i casi accertati laboratoristicamente. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: per i casi sospetti, restrizione dei contatti con soggetti suscettibili, particolarmente se si tratta di bambini di età inferiore a 1 anno, per almeno 5 giorni dall’inizio di adeguata terapia antibiotica (eritromicina per 14 giorni). Sorveglianza sanitaria per l’identificazione di soggetti suscettibili. Somministrazione, a prescindere dallo stato vaccinale, di eritromicina a tutti i conviventi e contatti di età inferiore a 7 anni per ridurre il periodo di contagiosità. Restrizione della frequenza scolastica e di altre collettività infantili di contatti non adeguatamente vaccinati per 14 giorni dall’ultima esposizione o per 5 giorni dall’inizio di un ciclo di antibioticoprofilassi, con eritromicina. Nei bambini di età inferiore a 7 anni è indicata una dose di richiamo di DTP o di DTaP se sono trascorsi più di tre anni dall’ultima somministrazione. Rosolia: ICD-9 056-056.9 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 14 a 21 giorni, mediamente 16-18 giorni. – Periodo di contagiosità: da una settimana prima a non meno di 4 giorni dopo la comparsa dell’esantema. I neonati affetti da sindrome da rosolia congenita possono eliminare rubivirus per molti mesi. – Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento dalla frequenza scolastica o dall’attività lavorativa per 7 giorni dalla comparsa dell’esantema. In ambiente ospedaliero o in altre istituzioni, isolamento da contatto e utilizzazione di stanza separata per 7 giorni dalla comparsa dell’esantema. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per l’individuazione di contatti suscettibili, in particolar modo donne 214 Manuale della Professione Medica in gravidanza, che dovranno astenersi da qualsiasi contatto con il paziente e sottoporsi a esami sierologici per la determinazione del loro stato immunitario nei confronti della rosolia. La vaccinazione dei contatti non immuni, anche se non controindicata, con l’eccezione dello stato di gravidanza, non previene in tutti i casi l’infezione o la malattia. Un’epidemia di rosolia in ambito scolastico o in altra collettività, d’altra parte, giustifica l’effettuazione di una campagna straordinaria di vaccinazione. Salmonellosi non tifoidee: ICD-9 003-003.9 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 6 a 72 ore, abitualmente 12-36 ore. – Periodo di contagiosità: da alcuni giorni prima a diverse settimane dopo la comparsa della sintomatologia clinica. L’instaurarsi di uno stato di portatore cronico è particolarmente frequente nei bambini e può essere favorito dalla somministrazione di antibiotici. – Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per i pazienti ospedalizzati. Allontanamento dei soggetti infetti sintomatici da tutte le attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria a pazienti ospedalizzati o istituzionalizzati, l’assistenza alla infanzia. Riammissione alle suddette attività dopo risultato negativo di 2 coprocolture consecutive, eseguite su campioni di feci prelevati a non meno di 24 ore di distanza e a non meno di 48 ore dalla sospensione di qualsiasi trattamento antimicrobico. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca attiva di altri casi di malattia e della fonte di esposizione. Ricerca di casi asintomatici di infezione mediante esame delle feci nei soggetti impegnati in attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria o a soggetti istituzionalizzati, l’assistenza all’infanzia, con allontanamento dei soggetti positivi fino a risultato negativo di due coprocolture consecutive eseguite secondo la procedura precedentemente descritta. Scarlattina: ICD-9 034.1 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 1 a 3 giorni. – Periodo di contagiosità: da 10 a 21 giorni dalla comparsa dell’esantema, nei casi non trattati e non complicati. La terapia antibiotica (con penicillina o altri antibiotici appropriati) determina cessazione della contagiosità entro 24-48 ore. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 215 – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 48 ore dall’inizio di adeguata terapia antibiotica. Precauzioni per secrezioni e liquidi biologici infetti per 24 ore dall’inizio del trattamento antibiotico. In caso di ricovero ospedaliero disinfezione continua di secrezioni purulente e degli oggetti da queste contaminati. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti (inclusi compagni di classe e insegnanti) per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, ed esecuzione di indagini colturali (tamponi faringei) nei soggetti sintomatici. L’esecuzione sistematica di tamponi faringei è indicata nelle situazioni epidemiche e in quelle ad alto rischio (più casi di febbre reumatica nello stesso gruppo familiare o collettività ristretta, casi di febbre reumatica o di nefrite acuta in ambito scolastico, focolai di infezioni di ferite chirurgiche, infezioni invasive da streptococco emolitico di gruppo A). Varicella: ICD-9 052 (Classe di notifica: II). – Periodo di incubazione: da 2 a 3 settimane, abitualmente 13-17 giorni. Il periodo di incubazione può essere prolungato in caso di soggetti con alterazione dell’immunocompetenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva. – Periodo di contagiosità: da 5 giorni prima a non più di 5 giorni dopo la comparsa della prima gittata di vescicole. Il periodo di contagiosità può essere prolungato in caso di soggetti con alterazione dell’immunocompetenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per almeno 5 giorni dalla comparsa della prima gittata di vescicole, con restrizione dei contatti con altri soggetti suscettibili, in particolar modo donne in stato di gravidanza e neonati. In caso di ricovero ospedaliero, isolamento stretto, in considerazione della possibilità di trasmissione dell’infezione a soggetti suscettibili immunodepressi. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: nessuna restrizione per la frequenza scolastica o di altre collettività. In caso di ricovero ospedaliero dei contatti, per altre cause, è indicata la separazione per un periodo di 10-21 giorni, prolungato a 28 giorni in caso di somministrazione di immunoglobuline specifiche, dall’ultimo contatto con un caso di varicella. Vaccinazione dei soggetti ad alto rischio di complicanze da infezione con virus VZ. 216 Manuale della Professione Medica Lebbra: ICD-9 030-030.9 (Classe di notifica: III). – Periodo di incubazione: da alcuni mesi a decine di anni. – Periodo di contagiosità: l’infettività viene persa, nella maggior parte dei casi, entro 3 mesi dall’inizio di un trattamento continuo e regolare con dapsone o clofazimina o entro 3 giorni dall’inizio del trattamento con rifampicina. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento da contatto per i pazienti affetti da lebbra lepromatosa; non sono necessarie misure di isolamento per le altre forme di lebbra. Restrizione dall’attività lavorativa o scolastica fino a permanenza dello stato di infettività. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica mediante esame immediato e successivi esami periodici di conviventi e altri contatti stretti, a intervalli non superiori a dodici mesi, per almeno 5 anni dall’ultimo contatto con un caso infettivo. Tubercolosi: ICD-9 010-/018 (Classe di notifica: III). – Periodo di incubazione: circa 4-12 settimane dall’infezione alla comparsa di una lesione primaria dimostrabile o della positività del test alla tubercolina. L’infezione può persistere allo stato latente per tutta la vita; il rischio di evoluzione verso la tubercolosi polmonare e/o extrapolmonare è massimo nei primi due anni dopo la prima infezione. – Periodo di contagiosità: fintantoché bacilli tubercolari sono presenti nell’escreato e in altri fluidi biologici. La terapia antimicrobica con farmaci efficaci determina la cessazione della contagiosità entro 4-8 settimane. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio in stanze separate e dotate di sistemi di ventilazione a pressione negativa per i soggetti affetti da tubercolosi polmonare, fino a negativizzazione dell’escreato; precauzioni per secrezioni/drenaggi nelle forme extrapolmonari; sorveglianza sanitaria per almeno 6 mesi. In caso di scarsa compliance alla terapia, di sospetta farmacoresistenza, o di condizioni di vita che possono determinare l’infezione di altre persone, in caso di recidiva è indicato il controllo diretto dell’assunzione della terapia anti-tubercolare. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti per la ricerca di altri casi di infezione o malattia. Esecuzione di test alla tubercolina con successiva radiografia del torace dei casi positivi e, in caso di negatività, ripetizione del test a distanza 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 217 di 2-3 mesi dal momento della cessazione dell’esposizione. Chemioprofilassi nei contatti stretti cutipositivi; questa è, altresì, indicata per i contatti cutinegativi ad alto rischio di sviluppare la malattia. Dermatofitosi: ICD-9 110-110.9 (Classe di notifica: IV). – Periodo di incubazione: da 4 a 10 giorni per Tinea cruris e Tinea corporis; da 10 a 14 giorni per Tinea capitis e Tinea barbae; non definito per le altre forme. – Periodo di contagiosità: fintantoché sono presenti le lesioni e che miceti vitali persistono sui materiali contaminati. – Provvedimenti nei confronti del malato: in caso di Tinea capitis nessuna restrizione, purché venga seguito un trattamento appropriato. Se il paziente è ospedalizzato precauzioni per drenaggi/secrezioni. Esclusione dalla frequenza di palestre e piscine in caso di Tinea corporis, cruris e pedis per tutta la durata del trattamento; se il paziente è ospedalizzato precauzioni per drenaggi/secrezioni. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di altri casi di infezione nei conviventi e nei contatti scolastici e ricerca della fonte di infezione, oltre che nei contatti umani, negli animali domestici, spesso portatori inapparenti. Educazione sanitaria dei conviventi e contatti allo scopo di impedire la condivisione di oggetti contaminati. Pediculosi - Ftiriasi: ICD-9 132-132.9 (Classe di notifica: IV). – Periodo di incubazione: in condizioni ottimali per il ciclo vitale dei pidocchi, da 6 a 10 giorni in caso di infestazione con uova. – Periodo di contagiosità: fintantoché uova, forme larvali o adulte sono presenti e vitali sulle persone infestate o su indumenti e altri fomiti. – Provvedimenti nei confronti del malato: a) in caso di infestazione da Pediculus humanus corporis isolamento da contatto per non meno di 24 ore dall’inizio di un adeguato trattamento disinfestante. Il trattamento disinfestante consiste nell’applicazione di polvere di talco contenente DDT al 10% oppure malathion all’1% oppure permetrina allo 0,5% o altri insetticidi. Gli indumenti vanno trattati con gli stessi composti applicati sulle superfici interne oppure lavati con acqua bollente; b) in caso di infestazioni da P. humanus capitis, restrizione della frequenza di collettività fino all’avvio di idoneo trattamento disinfestante, certificato dal medico curante. Il trattamento disinfestante, consistente in appli- 218 Manuale della Professione Medica cazione di shampoo medicati contenenti permetrina all’1% o piretrine associate a piperonil-butossido, o benzilbenzoato o altri insetticidi, deve essere periodicamente ripetuto ogni 7-10 giorni per almeno un mese. Pettini e spazzole vanno immersi in acqua calda per 10 minuti e/o lavati con shampoo antiparassitario; c) in caso di infestazioni da Phthirus pubis le zone interessate vanno rasate; i trattamenti disinfestanti sono simili a quelli da adottare per il P. humanus capitis e, se non sufficienti, vanno ripetuti dopo 4-7 giorni di intervallo. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per l’identificazione di altri casi di parassitosi, e conseguente trattamento disinfestante. I compagni di letto e i partner sessuali di soggetti infestati da P. pubis devono essere trattati in via profilattica con gli stessi prodotti impiegati per i casi di infestazione conclamata. Scabbia: ICD-9 133 (Classe di notifica: IV). – Periodo di incubazione: da 2 a 6 settimane in caso di persone non esposte in precedenza, da 1 a 4 giorni in caso di reinfestazione. – Periodo di contagiosità: fino a che gli acari e le uova non siano stati distrutti da adeguato trattamento. Possono essere necessari 2 o più cicli di trattamento, eseguiti a intervalli di una settimana. – Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento da scuola o dal lavoro fino al giorno successivo a quello di inizio del trattamento. Per soggetti ospedalizzati o istituzionalizzati, isolamento da contatto per 24 ore dall’inizio del trattamento. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica per la ricerca di altri casi di infestazione; per i familiari e per i soggetti che abbiano avuto contatti cutanei prolungati con il paziente è indicato il trattamento profilattico simultaneo. In caso di epidemie è indicato il trattamento profilattico dei contatti. Lenzuola, coperte e vestiti vanno lavati a macchina con acqua a temperatura maggiore di 60°C; i vestiti non lavabili con acqua calda vanno tenuti da parte per una settimana, per evitare reinfestazioni. Dissenteria bacillare (Shigellosi): ICD-9 004 (Classe di notifica: V). – Periodo di incubazione: da 12 ore a 7 giorni, abitualmente 1-3 giorni. – Periodo di contagiosità: durante l’infezione acuta e fino a che l’agente patogeno è presente nelle feci (abitualmente 4 settimane). 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 219 – Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche, nei casi che richiedono l’ospedalizzazione, fino a risultato negativo di due coprocolture eseguite su campioni fecali raccolti a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e a non meno di 48 ore dalla cessazione del trattamento antimicrobico. In caso di positività persistente il soggetto, una volta dimesso, andrà sottoposto a sorveglianza sanitaria fino a negativizzazione, con allontanamento dalle attività che comportino direttamente o indirettamente la manipolazione di alimenti e dalle attività di assistenza sanitaria e all’infanzia. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per almeno 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente ed effettuazione di coprocoltura di controllo per i conviventi di contatti sintomatici; trattamento dei positivi. Coprocoltura di controllo nei conviventi e contatti, anche asintomatici, impegnati in attività che comportino manipolazione di alimenti o assistenza sanitaria e all’infanzia e loro esclusione da tali attività in caso di risultato positivo. Coprocoltura di controllo nelle situazioni in cui sia verosimile un alto rischio di trasmissione. Istruzione dei conviventi e dei contatti sulla necessità dell’accurato lavaggio delle mani e dello spazzolamento delle unghie dopo l’uso dei servizi igienici e prima della manipolazione di alimenti o della cura di malati e bambini. Meningite da Haemophilus influenzae B: ICD-9 320.0 (Classe di notifica: V). – Periodo di incubazione: non definito, probabilmente 2-4 giorni. – Periodo di contagiosità: fintantoché il microrganismo è presente nelle secre-zioni oro-faringee; l’infettività cessa entro 48 ore dall’inizio di un adeguato trattamento antimicrobico. – Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24 ore dall’inizio di appropriata terapia. – Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti; chemioantibioticoprofilassi con rifampicina per tutti i contatti domestici in ambienti familiari in cui siano presenti bambini, oltre al caso indice, di età inferiore a 6 anni; chemioantibioticoprofilassi per i bambini fino a 6 anni e per il personale di scuole materne o asili nido. Il dosaggio consigliato è 20 mg/kg/die, fino a un massimo di 600 mg, in un’unica dose giornaliera per 4 giorni. Vaccinazione dei bambini di età compresa tra 0 e 6 anni. La pregressa vaccinazione non esclude il trattamento 220 Manuale della Professione Medica profilattico. I contatti di età inferiore a 6 anni sono esclusi dalla frequenza di comunità e possono essere riammessi al termine del periodo di profilassi, a meno che non siano già stati vaccinati con schedula appropriata per l’età. Vaccinazioni Le vaccinazioni costituiscono uno degli interventi più efficaci della sanità pubblica, in quanto attraverso i vaccini è possibile prevenire in modo efficace e sicuro molte malattie infettive ed evitare di conseguenza anche possibili complicanze e sequele invalidanti o fatali. Le vaccinazioni costituiscono il possibile mezzo per eradicare quelle malattie che riconoscono nell’uomo l’unico ospite (vaiolo, poliomielite, morbillo ecc.) e per controllare le altre. La relazione dimostrata fra alcune infezioni e alcune patologie croniche degenerative fa sperare nella possibilità di prevenire queste ultime mediante l’uso di vaccini (ad es. prevenzione dell’epatocarcinoma primitivo mediante vaccinazione anti epatite virale B; prevenzione del carcinoma del collo dell’utero mediante vaccinazione anti papillomavirus). Alcune vaccinazioni di particolare interesse per il medico di medicina generale Influenza L’influenza costituisce un serio problema epidemiologico per la sua ubiquità, contagiosità, l’esistenza di serbatoi animali e inoltre per la variabilità antigenica dei virus influenzali. Poiché i suoi sintomi sono simili a quelli di altre malattie respiratorie acute di minore importanza, spesso si minimizza l’importanza di questa infezione, responsabile invece di elevata morbosità e indirettamente di elevata mortalità soprattutto in soggetti con età superiore ai 65 anni o con patologie croniche. In Italia la sovramortalità dovuta a influenza varia da 3-4 mila a 8-9 mila decessi ogni anno, a seconda della diffusione della epidemia. La malattia è causata da virus a RNA, della famiglia degli Orthomyxovirus, che sulla base della ribonucleoproteina, vengono suddivisi in tre tipi antigenici maggiori: A (responsabile della maggior parte delle epidemie), B e C; all’interno del tipo A si distinguono, a loro volta, ulteriori sottotipi, caratterizzati da antigeni di superificie (emoagglutinina e neuroaminidasi) immunologicamente diversi, di impatto epidemiologico fondamentale nella diffusione delle epidemie maggiori/pandemie. Quando si verifica un cambiamento di rilievo a carico di uno di questi antigeni – il cosiddetto shift (spostamento) antigenico, evento fortunatamente raro e proprio solo del tipo A – compare un virus dalle carat- 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 221 teristiche totalmente nuove e verso cui la popolazione è immunologicamente suscettibile: ciò determina la comparsa di una pandemia. Gli shift antigenici sono dovuti a ricombinazioni genetiche con virus animali (aviari o suini), per eventi di coinfezione cellulare generalmente a carico di specie che presentano affinità con il sistema immunologico umano. Più frequente, spesso su base stagionale, è il cosiddetto drift (deriva) antigenico, che interessa sia il tipo A che, in misura minore, il tipo B, responsabile delle epidemie stagionali che si verificano nella stagione invernale, dovuto a cambiamenti puntiformi nei due antigeni di superficie. Anche negli animali si possono avere infezioni dovute a virus influenzali con diversi sottotipi antigenici. Gli uccelli acquatici costituiscono un serbatoio naturale ed è stato dimostrato il passaggio di alcuni virus influenzali anche tra specie diverse (anatre, tacchini, polli, suini). Nel 1997 a Hong Kong, in seguito a una epidemia tra i polli dovuta a un sottotipo A(H5N1), si sono verificati alcuni casi di infezione nell’uomo, dovuti a passaggio diretto del virus dall’animale all’uomo; la letalità è stata di oltre il 30%. Tale epidemia che sembrava sotto controllo è riesplosa nei primi anni di questo secolo con una letalità per l’uomo pari al doppio rispetto al 1997. Fino a ora il contagio è avvenuto tra animale e uomo ma si teme che nel prossimo futuro il virus aviario, ricombinandosi con un virus “umano”, possa acquisire la capacità di passaggio da uomo a uomo con grave rischio per la popolazione mondiale. D’altra parte bisogna ricordare che l’epidemia di spagnola del 19181919 era dovuta a un virus suino passato nell’uomo e quindi diffuso da uomo a uomo. L’esperienza ha insegnato che le pandemie si possono verificare a intervalli irregolari e possono rappresentare vere e proprie emergenze sanitarie. Tuttavia per poter parlare di potenziale epidemico o pandemico, i ceppi formatisi in seguito a ricombinazione genica dovrebbero avere la capacità di trasmettersi da persona a persona, evento che si realizza raramente. L’influenza si diffonde da persona a persona mediante contatto diretto, gocce di saliva od oggetti da poco contaminati da secrezioni nasofaringee. L’influenza è altamente contagiosa, specialmente tra soggetti istituzionalizzati, anche se i più colpiti sono i bambini in età scolare in quanto con minore esperienza di passate infezioni influenzali. I soggetti sono già contagiosi nelle 24 ore prima dell’inizio dei sintomi. La presenza del virus nelle secrezioni nasali cessa generalmente entro 7 giorni dall’inizio della malattia, ma può persistere più a lungo nei bambini più piccoli e nei pazienti immunocompromessi. 222 Manuale della Professione Medica Nel periodo interpandemico è invece possibile intervenire su variabili note, quali valutare l’assetto immunitario della popolazione, onde comprendere anche, in caso di rischio pandemico, quali debbano essere le strategie di intervento e organizzazione da mettere in atto. Il vaccino e, in minor misura, i farmaci antivirali e antibatterici sono le armi che, se impiegate in modo esteso e associate a un piano preciso di utilizzo delle risorse strutturali disponibili (ospedali e, in particolare, reparti di terapia intensiva), permetteranno di affrontare in modo congruo future emergenze pandemiche. Per verificare quali virus circolino nella popolazione è stata istituita dall’OMS una rete di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza. In Italia la rete (Influnet) è coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità ed è costituita da medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, con funzione di medici sentinella, e da centri virologici regionali. Vaccinazione antinfluenzale I vaccini antinfluenzali disponibili, prodotti in uova embrionate di pollo, sono immunogeni, sicuri e associati a minimi effetti collaterali. Pur se sono allo studio diversi vaccini vivi e attenuati da somministrare per via nasale o buccale, al momento quelli utilizzati in Italia sono tutti inattivati e appartengono a tre categorie: – virus interi, fluidi o adsorbiti a vari adiuvanti; – split (virus frammentati), particelle da cui viene separata la componente lipidica responsabile della gran parte degli eventi avversi riscontrati con i vaccini a virus interi; – ad antigeni purificati o subunità, costituiti dai soli antigeni emoagglutinina (H) e neuroaminidasi (N). I vaccini split e a subunità, pur lievemente meno immunogeni, sono da preferire nelle persone con particolare sensibilità agli effetti collaterali (bambini, soggetti affetti da patologie croniche); i vaccini adiuvati sono indicati per la vaccinazione degli ultrasessantacinquenni. La composizione dei vaccini, che in genere contengono tre ceppi virali (di solito due di tipo A e uno di tipo B), varia ogni anno secondo le indicazioni che l’OMS annualmente fornisce separatamente per i due emisferi, quello australe e quello boreale. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 223 Secondo la Circolare 5 agosto 2005 del Ministero della Salute devono essere vaccinati i soggetti appartenenti alle seguenti categorie: In ambito italiano ed europeo i principali destinatari dell’offerta del vaccino antinfluenzale sono gli ultrasessantacinquenni e quelli con patologie che aumentano il rischio di complicazioni a seguito di influenza: – soggetti con età pari o superiore a 65 anni; – bambini di età superiore a 6 mesi e adulti affetti da malattie croniche dell’apparato respiratorio (comprese l’asma persistente, la displasia broncopolmonare, la fibrosi cistica), malattie croniche dell’apparato cardiocircolatorio (comprese le cardiopatie congenite e quelle acquisite), diabete mellito e malattie metaboliche, insufficienza renale, malattie degli organi emopoietici ed emoglobinopatie, malattie congenite o acquisite che comportino carente produzione di anticorpi, immunosoppressione indotta da farmaci o da HIV, sindromi da malassorbimento intestinale, patologie per le quali sono programmati importanti interventi chirurgici; – bambini e adolescenti in trattamento con acido acetilsalicilico a lungo termine a rischio di sindrome di Reye in caso di infezione influenzale; – bambini pretermine (nati prima della 37a settimana di gestazione) e di basso peso alla nascita (inferiore a 2500 g), dopo il compimento del sesto mese; – donne che saranno al secondo/terzo trimestre di gravidanza durante la stagione epidemica; – individui di qualunque età ricoverati in strutture per lungodegenti; – medici e personale sanitario di assistenza; – contatti familiari di soggetti ad alto rischio; – soggetti addetti a servizi pubblici di primario interesse collettivo (personale degli asili nido, insegnanti scuole dell’infanzia e dell’obbligo; addetti poste e telecomunicazioni; dipendenti Pubblica Amministrazione e Difesa; Forze di Polizia inclusa polizia municipale; volontari servizi sanitari di emergenza; personale di assistenza in case di riposo); – personale che per motivi occupazionali, è a contatto con animali che potrebbero costituire fonte di infezione da virus influenzali non umani (detentori di allevamenti; addetti all’attività di allevamento; addetti al trasporto di animali vivi; macellatori e vaccinatori; veterinari pubblici e libero-professionisti). Dall’età di 6 mesi a 36 mesi si somministra mezza dose (0,25 ml) ripetuta a distanza di 4 settimane per i bambini vaccinati per la prima volta. Nei bambini 224 Manuale della Professione Medica da 3 a 9 anni, non precedentemente esposti all’infezione influenzale o mai vaccinati, sono necessarie due dosi di vaccino, somministrate a un mese di distanza, per evocare una soddisfacente risposta anticorpale. Al di sopra dei 9 anni è sufficiente una sola dose. La durata della protezione è limitata dal cambiamento degli antigeni di superficie che circoleranno nell’epidemia successiva. Il vaccino antiinfluenzale deve essere somministrato prima dell’inizio della stagione influenzale. Deve essere conservato a temperature comprese tra +2°C e +8°C e somministrato per via intramuscolare. Per tutti i soggetti con età maggiore di 9 anni è raccomandata l’iniezione in sede deltoidea; al di sotto di questa età la faccia anterolaterale della coscia. La protezione indotta nei soggetti adulti sani è generalmente del 70-90%; nelle persone anziane e in quelle con malattie croniche, che possono ridurre l’efficienza della risposta immunitaria, i vaccini antinfluenzali sono comunque efficaci nel prevenire le complicanze e nel ridurre la sovramortalità da influenza del 70-80%. L’uso del vaccino è controindicato nei soggetti con anamnesi positiva per shock anafilattico da proteine dell’uovo e nei bambini sotto i sei mesi di vita. In circa il 20% dei vaccinati la somministrazione del vaccino può dar luogo a reazioni locali nel punto di inoculo e a reazioni generali come cefalea, malessere, mialgie, febbre, orticaria. Infezioni invasive da pneumococco Lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco), germe ubiquitario, è un diplococco gram positivo lanceolato. Ne sono stati identificati 90 sierotipi differenti in base alla composizione della capsula polisaccaridica, ma 23 tipi capsulari sono da soli responsabili dell’86-98% di tutte le infezioni invasive pneumococciche nei paesi occidentali. Lo pneumococco è responsabile di gravi infezioni invasive quali batteriemie e meningiti, caratterizzate da elevata letalità. Tra gli aspetti che rendono le infezioni invasive particolarmente temibili è la crescente diffusione in tutto il mondo della multiantibiotico-resistenza che rende difficile la terapia di queste malattie invasive. In Italia l’infezione da Streptococcus pneumoniae è una delle principali cause di meningite (36% di tutti i casi di meningite segnalati) con un’incidenza particolarmente rilevante negli adulti e negli anziani (80,3%) e di sepsi batterica; è inoltre una delle principali cause di polmonite e otite media nei paesi industria- 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 225 lizzati. L’incidenza, oltre che nei primi anni di vita, è più elevata nella popolazione anziana, attestandosi a valori compresi tra 27 e 62 casi/100.000. In Italia nell’anno 2003 sono stati notificati 309 casi di meningite da pneumococco e di questi 121 (39%) in soggetti tra 25 e 64 anni, e 108 (28%) in soggetti ultrasessantaquattrenni. Gruppi a rischio sono i soggetti cardiopatici, broncopneumopatici, persone con età minore di 2 anni e maggiore di 65 anni, persone con immunodeficienze congenite o acquisite (HIV), con asplenia anatomica o funzionale, alcolismo cronico, sindrome nefrosica, insufficienza renale cronica, trapianti d’organi, diabete mellito. I pazienti con perdite liquorali, fratture craniche complicate o procedure neurochirurgiche possono soffrire di meningiti ricorrenti. Oltre il 91% degli adulti con infezione invasiva da pneumococco presenta almeno uno dei sopracitati fattori di rischio. La trasmissione, data l’alta percentuale di soggetti colonizzati a livello delle alte vie respiratorie, avviene da persona a persona, presumibilmente tramite le goccioline di Flügge. Il periodo di contagiosità non è noto, ma dura meno di 24 ore dall’inizio di un’efficace terapia antibiotica. Il periodo di incubazione varia a seconda del tipo di infezione e può anche durare solo 1-3 giorni. Le infezioni virali delle alte vie respiratorie, come l’influenza, predispongono all’infezione da pneumococco. Le infezioni pneumococciche sono prevalenti in inverno. Vaccinazione antipneumococcica Sono in commercio due tipi di vaccini antipneumococcici: vaccini polisaccaridici e vaccini coniugati. Il vaccino comunemente usato negli adulti è un vaccino polisaccaridico, contenente 23 antigeni capsulari purificati di Streptococcus pneumoniae, corrispondenti ai sierotipi più frequentemente implicati nelle infezioni invasive nei paesi occidentali. La vaccinazione antipneumococcica provoca una risposta specifica in almeno l’80% dei soggetti sani adulti, l’immunogenicità è di poco inferiore nei soggetti anziani ed è pure soddisfacente nei soggetti affetti da patologie croniche non marcatamente immunodepressive, mentre è decisamente inferiore nei soggetti immunodepressi. La risposta immunitaria si sviluppa, nei confronti di tutti i 23 componenti, circa 2-3 settimane dalla vaccinazione. Il vaccino è considerato tollerabile e sicuro, le lievi reazioni locali in sede di 226 Manuale della Professione Medica inoculo (dolore, arrossamento, tumefazione) che si hanno in circa metà dei vaccinati recedono entro 24-48 ore, le reazioni sistemiche (febbre, mialgie) sono rare e l’anafilassi eccezionale. Il vaccino a 23 componenti è dotato di efficacia compresa tra il 57-75% nel prevenire le batteriemie pneumococciche nei soggetti di età pari a 65 anni e/o affetti da patologie non immunodepressive. La rivaccinazione di norma non è raccomandata nei soggetti immunocompetenti già vaccinati con vaccino 23 valente. Una sola rivaccinazione è prevista nei soggetti con età ≥ 65 anni se la vaccinazione è avvenuta prima dei 64 anni da almeno 5 anni e nei soggetti con asplenia funzionale o anatomica o immunocompromessi se vaccinati da oltre 5 anni (3 anni in soggetti ≤10 anni), comunque prima dei 65 anni di età (Figura 5.3). Il vaccino polisaccaridico non induce memoria immunitaria e non è efficace nei bambini di età inferiore ai 2 anni. Tabella 5.3. Profilassi immunitaria antitetanica in caso di ferita Stato vaccinale Ferite superficiali pulite Tutte le altre ferite Assenza di vaccinazione, stato Inizio della vaccinazione con Inizio della vaccinazione e vaccinale incerto Td o DT somministrazione in sito differente e con diversa siringa di immunoglobuline antitetaniche Ultima somministrazione del Una dose di richiamo di vac- Una dose di richiamo e somministrazione in sito differente ciclo di base o dose di richia- cino Td o DT e con diversa siringa di immumo da più di 10 anni noglobuline antitetaniche Ultima somministrazione del Una dose di richiamo di vac- Una dose di richiamo; la somministrazione di immunoglobuciclo di base o dose di richia- cino Td o DT line antitetaniche non è necesmo tra 5 e 10 anni saria Ultima somministrazione del Nessun trattamento ciclo di base o dose di richiamo da meno di 5 anni Una dose di richiamo di vaccino solo in presenza di rischio di infezione particolarmente alto; la somministrazione di immunoglobuline antitetaniche non è necessaria 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 227 Figura 5.3. Flow-chart della rivaccinazione nei soggetti ≥ 65 anni Nell’anno 2001 è stato registrato un vaccino antipneumococcico eptavalente coniugato. Il vaccino è in grado di indurre una buona risposta anticorpale a partire dal 3° mese di vita e stabilire una buona memoria immunologica nei soggetti. Ciò consente di proteggere dalle infezioni pneumococciche invasive i soggetti più giovani, quelli che non sono tutelabili dal vaccino 23 valente. Il Ministero della Salute con Circolare n. 1 del 19 novembre 2001 ha raccomandato l’offerta gratuita di vaccino ai bambini sotto i 5 anni di età ad alto rischio di contrarre patologia invasiva da Streptococcus pneumonite (anemia falciforme, talassemia, asplenia funzionale, broncopneumopatie croniche, immunodepressione, diabete mellito, insufficienza renale e sindrome nefrosica, infezione da HIV, immunodeficienze congenite, malattie cardiovascolari croniche, perdita di liquor cefalo-rachidiano, portatori di impianto cocleare). Il vaccino coniugato eptavalente ha un’efficacia complessiva dell’89% verso le forme invasive e può ridurre l’incidenza di otiti del 10%. Il vaccino va somministrato per via sottocutanea o intramuscolare. I richiami sono raccomandati, ogni 5 anni, solo nei soggetti ad altissimo rischio. È possibile somministrare nella stessa seduta, in sedi diverse di iniezione, anche il vaccino antinfluenzale e antidiftotetano, senza variazioni negli effetti collaterali o nella risposta anticorpale. 228 Manuale della Professione Medica Tetano Il tetano è causato da una esotossina prodotta dal Clostridium tetani, bacillo gram positivo, sporigeno, anaerobio obbligato, tipicamente non invasivo. L’infezione sostenuta da questo germe rimane quindi localizzata nel punto di penetrazione e germinazione delle spore. Le ferite sporche o con tessuto necrotico, le lesioni da schiacciamento e le ustioni sono particolarmente a rischio di tetano se contaminate da Cl. tetani. La forma vegetativa produce una potente esotossina (tetanospasmina), che si lega ai gangliosidi della giunzione neuromuscolare o sulle membrane neuronali nel midollo bloccando l’impulso inibitorio ai nervi motori; si hanno di conseguenza contrazioni muscolari dolorose, inizialmente dei muscoli della mandibola e del collo e successivamente dei muscoli del tronco. La tossina tetanica agisce in quantità minime: la dose letale per l’uomo è valutata in meno 2,5 ng/kg. La letalità si aggira intorno al 30%. In Italia vengono notificati circa 100 casi/anno. La fascia di età maggiormente colpita è quella adulto-anziana in quanto generalmente non vaccinata. Il tetano non è trasmissibile da persona a persona. Il periodo di incubazione può variare da 3 a 21 giorni e oltre. Vaccinazione antitetanica La vaccinazione costituisce il più efficace mezzo di prevenzione del tetano. L’immunizzazione attiva con anatossina tetanica è indicata per tutti i soggetti non immunizzati di qualunque età. Il ciclo vaccinale comprende tre dosi, da eseguirsi le prime due a distanza di 4-8 settimane e la terza a 6-12 mesi. Successivamente per mantenere l’immunità sono raccomandati richiami ogni 10 anni. Dopo la vaccinazione primaria un titolo protettivo persiste per almeno 10 anni. Il vaccino è altamente efficace nel prevenire il tetano quando il ciclo di base è stato completato. Oltre la metà dei vaccinati non presenta effetti collaterali. Tra i più frequenti si hanno reazioni locali come eritema, edema e dolore nel sito di iniezione, e reazioni generali come febbre ≥ 38°C, sonnolenza, irritabilità. Sono state descritte sindrome di Guillain-Barré (SGB) e neurite brachiale associate alla vaccinazione antitetanica ma sono estremamente rare. In caso di ferita chi ha ricevuto il ciclo di base o un richiamo da meno di cinque anni non necessita di profilassi immunitaria. L’impiego delle immunoglobuline antitetaniche (TIG) o del vaccino nel trattamento delle ferite dipende dalla natura della ferita e dallo stato immunitario del ferito. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 229 È pertanto particolarmente importante raggiungere, mediante campagne di informazione e di offerta attiva della vaccinazione, con il coinvolgimento dei medici di medicina generale, quella parte della popolazione priva di protezione immunitaria nei confronti del tetano (anziani, donne non occupate in attività lavorative per le quali è richiesta la vaccinazione antitetanica obbligatoria). Non è necessario ricominciare il ciclo primario qualora non siano trascorsi più di 12 mesi tra la prima e la seconda dose, e più di cinque anni tra la seconda e la terza. Si consiglia l’avvio di un nuovo ciclo di base solo in caso di superamento degli intervalli sopra indicati. Per quanto riguarda le vaccinazioni di richiamo, anche se sono passati oltre dieci anni dall’ultima dose, si somministra una sola dose, non essendovi la necessità di cominciare un nuovo ciclo (Tabella 5.3). L’immunoprofilassi antitetanica è indicata per tutti i soggetti che abbiano riportato ferite puntorie, ferite lacero-contuse o morsicature di animali, contaminate con terriccio o sporcizia. La profilassi immunitaria antitetanica è indicata anche in caso di ustioni e per qualsiasi lesione accompagnata da segni di necrosi dei tessuti (ulcere trofiche, ulcere varicose ecc.). Febbre ≤38°C e affezioni minori, quali raffreddori e altre infezioni delle vie aeree superiori, non costituiscono controindicazioni, anche temporanee, alla vaccinazione; ugualmente non è necessario rimandare la vaccinazione in caso di trattamenti con cortisonici per uso locale o per uso sistemico a basso dosaggio, e in caso di affezioni cutanee quali dermatosi, eczemi, infezioni cutanee localizzate (Circolare n. 9 del 26 marzo 1991). La condizione di sieropositività per HIV non costituisce di per sé una controindicazione alla vaccinazione antitetanica. Lo stato di gravidanza non controindica la somministrazione di vaccini a base di anatossina; in alcuni paesi, anzi, il vaccino antitetanico è espressamente raccomandato per le donne in gravidanza, ai fini della prevenzione. Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie Una delle più importanti funzioni giuridiche cui la professione medica è chiamata a ottemperare, è sicuramente l’attività di informativa per cui, oltre al referto e alla denuncia di reato all’autorità giudiziaria (artt. 361, 362 e 365 cp), le denunce sanitarie, che di tale attività sono il fondamento, rappresentano un vero e proprio obbligo legale per tutti gli esercenti la professione di medico chirurgo. 230 Manuale della Professione Medica L’obbligo di denuncia, infatti, anche con riguardo a quella sanitaria, è da inquadrare nella più vasta categoria degli atti tramite cui, operando in collaborazione con la pubblica autorità, il medico è tenuto a segnalare circostanze di fatto o di diritto rilevanti ai fini dell’esercizio dei poteri di ufficio dell’Amministrazione, i quali si traducono nell’emanazione di successivi atti amministrativi. Rientrano nella sfera “dell’interesse a conoscere” dell’autorità sanitaria quei fatti di natura tecnica che il medico constata, conosce e accerta nell’esercizio della professione, indipendentemente dalla pur tipica e primaria finalità diagnostico-terapeutica. Nelle denunce si individuano caratteri comuni: la circostanza di fatto o di diritto, cioè l’oggetto dell’informativa che presuppone particolare competenza tecnica per l’identificazione e l’apprezzamento; la finalità, cioè la rilevanza dell’oggetto di denuncia e lo scopo per cui la stessa si pone come obbligo; la natura contravvenzionale dell’eventuale omissione. Indipendentemente dalla qualifica rivestita dal sanitario (pubblico ufficiale: art. 357 cp; incaricato di pubblico servizio: art. 358 cp; esercente un servizio di pubblica necessità: art. 359 cp), il medico, sia esso libero professionista che dipendente da istituzioni sanitarie pubbliche o private, è tenuto all’obbligo della denuncia sanitaria, sempre che i fatti siano stati rilevati o conosciuti a motivo delle attività prestate o comunque nell’espletare atti riconducibili alla sfera professionale; tant’è che, giustamente, l’informativa è stata descritta come «testimonianza scritta di fatti di natura tecnica constatati nell’esercizio professionale». Poiché le finalità che si perseguono con l’inoltro della denuncia sanitaria sono quelle di poter operare una migliore e più efficace tutela della salute tramite il possibile allestimento di adeguate misure di ordine preventivo e di igiene pubblica, individuale e collettiva, oltreché di poter effettuare indagini di tipo statistico-epidemiologico, il medico, specifico interprete degli interessi sociali e responsabile di una corretta gestione della salute, deve conoscere le circostanze in cui è previsto di redigere l’atto, i termini e le modalità di presentazione previsti dalla legge e i canoni di compilazione, ricordando altresì che è tenuto a inviarlo di propria iniziativa all’autorità competente, secondo le statuizioni di legge. Trattasi, quindi, di momento fondamentale dell’esercizio della professione da cui deve scaturire la consapevolezza di svolgere un’attività importante per il benessere non solo del proprio “assistito”, ma dell’intera collettività, poiché l’informativa che deve essere fornita è essenziale per valutare 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 231 la necessità di specifici provvedimenti sanitari, ma non solo, tesi a migliorare e a contenere il fatto morboso, a istruire provvidenze o, comunque, garantire all’istituzione la possibilità di operare utilmente per il benessere individuale e collettivo. È pertanto indispensabile che il medico, nell’adempiere all’obbligo previsto dalla legge, precisi con la massima diligenza le circostanze della denuncia, ricordando sempre il «limite distintivo fra la vana burocrazia e la consapevolezza di un irrinunciabile ruolo professionale». L’importanza della denuncia sanitaria è sottolineata e richiamata anche nell’articolo 23 del Codice di Deontologia medica del 1995 ove si sancisce che «[…] nella redazione delle denunce obbligatorie […] il medico è tenuto alla massima diligenza, alla più attenta e scientificamente corretta registrazione dei dati e formulazione dei giudizi, nonché alla chiara esplicitazione dei propri dati identificativi». L’obbligo giuridico e deontologicamente sancito, proprio delle denunce all’autorità sanitaria, è previsto da norme di legge (Testo Unico delle Leggi Sanitarie – TULLSS; Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – TULPS; Regi Decreti e Decreti Ministero della Sanità, Circolari ecc.), la cui ignoranza, in nessun caso, può essere invocata dal sanitario intervenuto nel caso, e, per l’omissione o il ritardo nella compilazione di ciascuna di essa, è prevista apposita sanzione. L’esigenza e l’obbligo della denuncia sanitaria del resto, e segnatamente della denuncia di malattie infettive e diffusive, che rappresenta per il medico e la sanità in genere quella di più frequente riscontro e di maggior interesse pratico, erano già stati avvertiti nel secolo XIX, tanto che la legge Crispi-Pagliani del 1888 (legge 22 dicembre 1888, n. 549 “legge per la tutela dell’igiene e della sanità pubblica” in GU 24 dicembre 1888, n. 301 e RD 9 ottobre 1889, n. 6442 “Regolamento esecutivo della Legge Crispi-Pagliani”, in GU 28 ottobre 1889, n. 256) stabiliva come il medico dovesse fare immediata denuncia di ogni caso di malattia infettiva e diffusiva pericolosa o sospetta di esserlo, prevedendo inoltre per i contravventori della disposizione sanzioni rappresentate da pene pecuniarie e, nei casi di danno alla persona causalmente riconducibile all’omessa denuncia, da gravi pene, tra cui addirittura, la detenzione. L’ottenimento di dati statistici il più vicino possibile alla realtà, quali si ottengono tramite il corretto inoltro della denuncia, d’altronde è condizione prioritaria per una corretta e adeguata prevenzione ma, oltre a rappresentare fondamento 232 Manuale della Professione Medica per la tutela della salute, ha rilievo e importanza anche per altri aspetti che incidono sul vivere civile dell’individuo e della collettività in maniera non meno significativa. Basti citare a titolo di esempio l’ambito economico-politico, e al modo in cui il recente problema della SARS e anche “l’influenza dei polli” hanno scosso gli scambi e l’economia di intere nazioni. Si deve ricordare, inoltre, come il sistema sanitario italiano si trovi di fronte a una realtà sociale ben diversa rispetto a quella di soli pochi anni addietro, con un mutamento demografico indotto da cospicui flussi migratori, provenienti da paesi caratterizzati da una realtà patogena anche assai diversa dalla nostra, richiamandosi ipotesi assistenziali prima di non frequente riscontro nella medicina nazionale o non più avvisata come ipotesi endemica/epidemica. Il livello d’interesse sul tema è stato, di recente, ulteriormente sottoscritto dalla legge 189/2002 (del 30 luglio 2002 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, in GU 26 agosto 2002, n. 199), in cui si prevede l’impegno sempre più attivo del medico nell’assistenza sanitaria ai cittadini extra-comunitari, con il necessario presupposto di una attenzione professionale e di un aggiornamento continuo e permanente per il medico, trattandosi tra l’altro di un preciso obbligo sancito dall’art. 19 del Codice di Deontologia medica del 2006, per provvedere in modo adeguato alla diagnosi tempestiva di malattie, magari meno usuali nelle attese del medico occidentale, e al relativo trattamento; dovendosi in ciò anche considerare una importante sottolineatura all’obbligo di denuncia, nel momento in cui solo la conoscenza adeguata e tempestiva dei fenomeni (non solo di carattere infettivo) può consentire di prevedere interscambi istituzionali essenziali al benessere individuale e della collettività intera. Quanto agli aspetti deontologici, specificamente previsti nel Codice deontologico, l’omissione della denuncia sanitaria può comportare sanzioni disciplinari, ai sensi di molteplici previsioni, laddove l’art. 3 riconosce come dovere del medico «la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo» e quindi, più latamente, anche della collettività. L’art. 74 sancisce come il medico debba «svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività l’informativa alle Autorità sanitarie». Per gli esercenti un servizio di pubblica necessità (liberi professionisti), le sanzioni sono erogate dagli organi disciplinari del Consiglio dell’Ordine, mentre per il medico dipendente (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) si incorre anche nelle sanzioni previste dalle norme 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 233 contrattuali, quali la censura, la riduzione dello stipendio, la sospensione della qualifica, fino alla destituzione dall’incarico, oltre, ovviamente, per entrambe le categorie, alla previsione specifica per l’inadempienza come tale. Per le conseguenze d’indole giudiziaria, potendosi configurare in caso di omessa denuncia gli estremi della colpa specifica, per violazione di precise norme, a fronte di omessa notifica di malattia infettiva da parte di medico dipendente o convenzionato può concretizzarsi l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 328 cp, secondo cui «l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni»; trattasi di ipotesi sanzionatoria penale, la cui rigorosa applicazione avrebbe senza dubbio funzione di richiamo e monito per tutti i sanitari che sono tenuti alle denunce e che ben attiene anche alla qualifica rivestita da coloro che maggiormente sono coinvolti in questo tipo di attività, il pediatra o il medico di base, i quali, appunto, sono da considerare a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio. Il «superiore interesse a conoscere», che solo tramite il corretto atto medico rappresentato dalla denuncia risulta pienamente soddisfatto, trova, quale principale destinatario, le Unità operative funzionali di igiene e sanità pubblica delle ASL (così denominate dalla legge regionale della Toscana), ovvero le altre strutture corrispondenti all’uopo previste nel contesto organizzativo del SSN. Le molteplici norme di legge non fanno univoco riferimento al termine “denuncia”, in quanto per i plurimi atti di informativa in ambito sanitario sono state, nel tempo, adottate dizioni diverse che richiamano, peraltro, un significato univoco e conseguente di informativa quale desumibile anche dal vocabolario della lingua italiana (Devoto G., Oli G.C.): – notifica (comunicazione scritta nei modi prescritti da una norma burocratica, amministrativa, giudiziaria); – denuncia (atto formale, informativo, facoltativo o obbligatorio, con il quale si dà notizia alla competente autorità); – segnalazione (comunicazione o trasmissione breve di determinate notizie); – relazione (mettere al corrente: esposizione informativa). Trattasi di terminologia solo apparentemente difforme, la quale trova spiegazione nei diversi richiami normativi, ma in specie nel differente rilievo sociale dell’informativa sanitaria che, comunque, è sempre obbligatoria; nell’il- 234 Manuale della Professione Medica lustrazione delle singole tipologie, proprio in rapporto al differente peso e alla diversa importanza dell’atto, si farà riferimento ai suddetti termini, come indicato nella normativa in vigore, fermo restando il contenuto di sostanza che al termine stesso deve essere riservato. Art. 75 - Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso L’impegno professionale del medico nella prevenzione, nella cura e nel recupero clinico e reinserimento sociale del dipendente da sostanze da abuso deve, nel rispetto dei diritti della persona e senza pregiudizi, concretizzarsi nell’aiuto tecnico e umano, sempre finalizzato al superamento della situazione di dipendenza, in collaborazione con le famiglie e le altre organizzazioni sanitarie e sociali pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio. Le tossicodipendenze Aspetti generali Il fenomeno della tossicodipendenza, diffusosi nel nostro paese in modo sporadico all’inizio del secolo scorso, ha subito, col trascorrere dei decenni, una costante ed allarmante evoluzione quantitativa incidente in ambito sociale, giuridico e sanitario tanto da imporre ripetuti interventi del legislatore. Le cause e i fattori che hanno contribuito a un così drammatico fenomeno non hanno tuttavia trovato una giusta definizione e reazione nei vari assetti normativi, sia per l’intrinseca complessità e la globalità della soggezione alle droghe d’abuso, sia per la carenza di una opportuna collaborazione pluridisciplinare capace di analizzarne i vari aspetti in termini complessivi e non parziali. I risultati di una siffatta emergenza non si manifestano neanche sul versante politico, limitato com’è dai continui cambiamenti di pensiero e dalle distanze ideologiche nella considerazione degli stati di dipendenza. Ne sono un esempio le alternanze delle strategie di trattamento della tossicodipendenza, talora relegate al mero ambito penalistico repressivo oppure spostate nel terreno sanitario in quanto devianze sociali abbisognevoli di misure amministrative e di recupero. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 235 Nell’evoluzione legislativa italiana, tra il 1975 ed il 1993, si è così assistito ad un susseguirsi di variazioni normative, oscillando tra momenti di parziale permissività e di totale repressione, che, a parte l’abrogazione della dose media giornaliera e della punibilità dell’uso personale sanciti dal referendum del 1993, tra il 1990 ed il 27 febbraio 2006 (data di pubblicazione della legge di conversione del DL 272/2005), non hanno mai prodotto modifiche efficaci sul complessivo impianto del provvedimento (TU 309/1990). Diversamente, la legge del 15 marzo 2006, che recepisce, come dichiarato dal Ministro Giovanardi «le osservazioni e i suggerimenti degli operatori presenti alla Conferenza di Palermo sulle tossicodipendenze nonché le istanze della Consulta delle Tossicodipendenze [...]», pare introdurre importanti elementi sostanziali con rinnovata inversione della corrente di pensiero politico. La modifica del TU sugli stupefacenti ci riporta infatti, per certi aspetti, alla legge del 1990 reinserendo, nei casi di detenzione per uso personale, la distinzione tra reato penale e amministrativo con la conseguente inammissibilità delle così dette “scorte” illimitate legittimate dall’abrogazione della dose media giornaliera. Nella sua suddivisione in 12 titoli, ripartiti in 136 articoli, i problemi della tossicodipendenza sono affrontati in maniera organica e pluridisciplinare delegando, per competenza, compiti operativi alle varie rappresentanze istituzionali: 1) al Consiglio dei Ministri sono riservate funzioni di coordinamento; 2) al Ministero della Salute: prevenzione, autorizzazioni alla produzione e al commercio, dipendenze; 3) al Ministero degli Interni: controllo e repressione; 4) al Ministero degli Esteri e della Giustizia: promozione delle collaborazioni internazionali. Ma vediamo nel dettaglio quali sono i capisaldi che rendono il provvedimento innovativo. La nuova normativa La crisi normativa del 1993, che culminò nelle abrogazioni referendarie convertite in legge il 6 giugno 1993, produsse sostanziali innovazioni nel pensiero politico e nell’indirizzo normativo in tema di stupefacenti e di tossicodipendenze. Le novità introdotte dalla legge n. 49 del 2006 al TU 309/1990 sembrano 236 Manuale della Professione Medica però ancor più incisive e profonde per le efficaci variazioni sull’intero assetto normativo modificato: nei principi, nei contenuti, nelle competenze, nelle attività di controllo e di repressione, nelle sanzioni e nelle loro modalità applicative e negli aspetti socio-sanitari di carattere organizzativo e gestionale. Va subito osservato che per ciò che riguarda le attribuzioni, al Ministro della Salute è stata salvaguardata la gestione di elementi salienti quali: a) le attività di prevenzione del consumo e delle dipendenze da sostanze stupefacenti o psicotrope e da alcol; b) la partecipazione ai programmi internazionali di aggiornamento dei dati relativi alle quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope effettivamente importate, esportate, fabbricate, impiegate, nonché alle quantità disponibili presso gli enti o le imprese autorizzate; c) la determinazione degli indirizzi per il rilevamento epidemiologico da parte delle Regioni, delle sostanze stupefacenti o psicotrope; d) le autorizzazioni per la coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’impiego, il commercio, l’esportazione, l’importazione, il transito, l’acquisto, la vendita e detenzione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché quelle per la produzione, il commercio, l’esportazione, l’importazione e il transito delle sostanze suscettibili di impiego per la produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope; e) la tenuta dell’elenco annuale delle imprese autorizzate alla fabbricazione, all’impiego e al commercio all’ingrosso di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui alle tabelle dell’articolo 13, sentito l’Istituto Superiore di Sanità, curandone il tempestivo aggiornamento; delle indicazioni relative alla confezione dei farmaci contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope; f ) la verifica annuale e poliennale dell’entrata in commercio di nuovi farmaci, la loro capacità di indurre dipendenza nei consumatori; g) gli studi e le ricerche relativi agli aspetti farmacologici, tossicologici, medici, psicologici, riabilitativi, sociali, educativi, preventivi e giuridici in tema di droghe, alcol e tabacco; h) le iniziative volte a eliminare il fenomeno dello scambio di siringhe tra tossicodipendenti, favorendo anche l’immissione nel mercato di siringhe monouso autobloccanti (art. 2. TU 309/1990). Reintrodotta inoltre la discriminante “quantitativa”, tra attività amministrativamente e penalmente illecita, sono assegnate al Ministro della Sanità, 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 237 previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico di cui all’art. 1-ter, i compiti di completare e aggiornare le tabelle delle sostanze stupefacenti e/o psicotrope (art. 13) e la individuazione (art. 78) delle procedure diagnostiche, medico-legali e tossicologico-forensi, nell’accertamento del tipo, del grado e dell’intensità dell’abuso delle sostanze stupefacenti o psicotrope ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 75 e 75-bis. È invece venuto meno ogni compito del Ministero in ordine alle modalità d’impiego dei farmaci sostitutivi per i quali sono invece disposte misure restrittive con l’inserimento in apposite sezioni della tabella II secondo i criteri e le modalità dell’art. 14. Relativamente alla formulazione delle tabelle, vale osservare che l’equiparazione tra le così dette “droghe leggere” e le “droghe pesanti”, ha determinato, oltre all’immediata parificazione del trattamento sanzionatorio finora differenziato dalla vecchia normativa, la tempestiva revisione della precedente distribuzione in sei gruppi ridotti a due così rappresentati: a) nella I tabella sono comprese, tout court, tutte le sostanze stupefacenti vietate; b) nella II tabella, divisa in cinque sezioni, distinte dalla lettera A alla lettera E, sono invece allocate le specialità farmaceutiche, regolarmente registrate in Italia, contenenti principi attivi considerati pericolosi e pertanto perseguibili se detenuti al di fuori delle prescrizioni ed esigenze mediche. Ma in aggiunta alle sostanze vietate o soggette a controllo, la nuova formulazione tabellare riporta anche i valori soglia o massimi di detenibilità cui riferirsi, nell’uso personale, per la distinzione delle trasgressioni amministrativamente o penalmente perseguibili o, nello spaccio, per la valutazione della gravità del reato (lieve o non) su cui modulare la pena. Vale inoltre osservare che più la quantità di principio attivo detenuta eccede il valore di riferimento indicato, più rigorosi dovranno essere gli elementi giustificativi prodotti per il superamento della presunzione di reato così come più elevate risulteranno le pene nei casi di detenzione, al di fuori dell’uso personale, previste dal revisionato art. 73. Nella sua nuova formulazione, anche l’art. 78 si propone però di fornire, attraverso la riproposizione del criterio oggettivo di valutazione, maggiori elementi di certezza nella individuazione dell’illecito penale. Infatti, l’adeguamento periodico delle tabelle e l’individuazione di idonee procedure diagnostiche dovrebbe, nella 238 Manuale della Professione Medica distinzione tra condotte detentive per uso personale da quelle per fini di spaccio, agevolare l’opera investigativa delle Forze dell’ordine attualmente basata su esclusivi atti testimoniali e indiziari o sulla flagranza di reato. Ma analizziamo per gradi ciò che il nuovo art. 73 prevede per i detentori di sostanze vietate in quantità superiori ai valori massimi stabiliti. Art. 73 Relativamente ai reati di cui al comma 1: «chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 [...]», e del comma 2 chi: «[...] essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14 [...]», si rileva minor rigore e severità nell’attribuzione delle pene minime che risultano ridotte da otto a sei anni di reclusione e che, con il nuovo art. 1-bis, sono applicate, nella stessa misura, a «[...] chi, senza autorizzazione, importa, esporta, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene: a) stupefacenti e/o psicotropi che per quantità, in particolare se superiori ai limiti massimi indicati nelle tabelle o per modalità di confezionamento o per peso lordo o per altre circostanze, appaiano destinate al non esclusivo uso personale; b) medicinali compresi nella tab. II sez. A eccedenti le quantità prescritte (in questi casi è prevista la riduzione della pena da un terzo alla metà)». Ma l’indirizzo repressivo, nei confronti della produzione e commercializzazione illecita di stupefacenti, si coglie al comma 2-bis dove si prevedono pene, da 6 a 22 anni di reclusione, per chi produce o commercializza sostanze chimiche di base o precursori di sintesi utilizzabili nella produzione degli stupefacenti. Il comma 5, riguardante i reati, così detti di “lieve entità”, perseguiti con pene da uno a sei anni di reclusione e con multe pecuniarie da 3000 a 26.000 euro evidenzia, con l’inserimento del comma 5-bis, l’orientamento del legislatore di preservare il tossicodipendente o l’assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope dall’esperienza carceraria disponendo che «[...] il giudice, con la sen- 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 239 tenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 cpp, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste [...]». Ma la volontà di salvaguardia dal carcere è ancor più manifesta quando si offre: «[...] In deroga a quanto disposto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse [...]»; a garanzia quindi che la pena sia scontata è anche previsto che: «[...] In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del Pubblico Ministero o d’ufficio, il Giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 cpp, tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita [...]», la possibilità di eludere, per ben due volte, la pena carceraria con lavori di pubblica utilità eseguibili anche all’interno di strutture private. Artt. 75 e 75-bis Agli artt. 75 e 75 bis, è stata modificata la perseguibilità amministrativa di: «[...] chiunque, al fine di farne uso personale, illecitamente importi, acquisti o comunque detenga sostanze stupefacenti o psicotrope [...]», stante che, con la novità introdotta dalla tab. II sui medicinali, questa investe anche chi: «[...] al di fuori delle condizioni di cui all’art. 72 comma 2 [...] (art. 72) riguarda i [...], farmaci debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche [...]».In questi casi, le sanzioni previste, singole o combinate di durata non inferiore a un mese e non superiore a un anno, sono ridotte da un terzo alla metà qualora si tratti di medicinali compresi nelle sez. A e B e riguardano una o più delle seguenti applicazioni: a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla; b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla; 240 Manuale della Professione Medica c) sospensione del passaporto o di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli; d ) sospensione di permesso di soggiorno o divieto di conseguirlo se il cittadino è extracomunitario. Inoltre, quando ne ricorrano i presupposti (comma 2), l’interessato è invitato: «a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122 o ad altro programma educativo e informativo, personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio analogamente a quanto disposto al comma 13 (competenza prefettizia) o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116». Sanzioni che divengono più severe nelle circostanze previste dal comma 3 dello stesso articolo, dove, nei confronti dei detentori che «[...] abbiano diretta e immediata disponibilità di veicoli a motore [...]», la sanzione è sensibilmente aggravata prevedendosi il ritiro immediato della patente o del certificato di idoneità tecnica per i ciclomotori ai quali viene applicato anche il fermo amministrativo per un periodo di 30 giorni. Eventi per i quali, agli organi di polizia, è fatto obbligo di contestazione immediata della violazione con trasmissione tempestiva (senza ritardi e comunque non oltre 10 giorni) degli atti, completi degli esiti analitici, al Prefetto. Per ciò che attiene gli accertamenti tecnico-analitici, questi dovranno essere, ai sensi del comma 10, espletati presso: le strutture di medicina legale, i laboratori di tossicologia forense, le strutture delle Forze di polizia o le strutture pubbliche individuate da apposito decreto del Ministero della Salute. L’erogazione delle sanzioni è decisa, per gravità, durata ed entro un termine di 40 giorni dalla segnalazione, con apposita ordinanza del Prefetto che si avvarrà dell’assistenza di un nucleo operativo da costituirsi presso ciascuna Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo. I ricorsi, avversi all’ordinanza prefettizia, potranno essere presentati al Giudice di pace entro i 10 giorni successivi alla notifica. Nel caso degli stranieri maggiorenni gli organi di polizia riferiscono invece al Questore per le opportune azioni di competenza in sede di rinnovo del permesso di soggiorno. Nel caso di minori, il Prefetto, qualora ciò non contrasti con le esigenze educative, convoca i genitori o chi ne esercita la potestà per informarli sui fatti e sulle strutture di cui al comma 2. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 241 Al comma 6 è specificato invece che l’uso degli accertamenti e degli atti di cui ai commi da 1 a 5 deve riguardare esclusivamente l’applicazione delle misure e delle sanzioni previste dall’art. 75-bis. La revoca delle sanzioni, nei casi di esiti positivi del programma di cui al comma 2, è disposta dal Prefetto che ne dà comunicazione anche al Questore e al Giudice di pace. Il comma 14 relativamente ai casi di particolare tenuità della violazione e limitatamente alla prima volta, prevede che il prefetto, quando ne ravvisi i motivi, possa definire il procedimento con il formale invito a non fare più uso delle sostanze stesse. Con l’introduzione ex novo dell’art. 75-bis, le stesse violazioni di cui al comma 1 dell’art. 75 sono, laddove sussistano condizioni di pericolo per la tutela della sicurezza pubblica, sanzionate, ai sensi del comma 1 dell’art.75-bis, con provvedimenti che, per i soggetti già condannati «[...] anche non definitivamente, per reati contro la persona, contro il patrimonio o per quelli previsti dal presente testo unico o dalle norme della circolazione stradale [...]», si sostanziano in una o più delle seguenti misure: a) obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana presso il locale ufficio della Polizia di Stato o presso dell’Arma dei Carabinieri territorialmente competente; b) obbligo di entrare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata; c) divieto di frequentare determinati locali pubblici; d) divieto di allontanarsi dal comune di residenza; e) obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente indicato, negli orari di entrata e uscita dagli istituti scolastici; f ) divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore. Pene che, per la loro erogazione, sono trasmesse dal Questore, con provvedimento motivato, al Giudice di pace competente per territorio e che rappresenta l’unico referente con poteri di modifica o di revoca. In tal senso va segnalato che i ricorsi, per cassazione, non godono degli effetti sospensivi. I decreti di revoca, ammessi per i soggetti sottoposti con esito positivo ai programmi riabilitativi, sono invece trasmessi al Questore e al Giudice di pace per la loro applicazione. 242 Manuale della Professione Medica Con l’art. 78, le disposizioni sulle procedure diagnostiche per l’accertamento medico-legale e tossicologico-forense del tipo, del grado e dell’intensità, dell’abuso delle sostanze stupefacenti e psicotrope sono demandate, previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico, ad apposito decreto del Ministero della Salute da sottoporre a periodici aggiornamenti. L’art. 89 è chiaramente proteso a favorire, nei casi di reato commesso da tossicodipendente o alcoldipendente, l’arresto domiciliare e a garantire la prosecuzione di programmi terapeutici di recupero in corso. Programmi che possono essere seguiti anche da chi sia già in custodia cautelare in carcere e che decida, con istanza personale, di sottoporvisi. Risultano esclusi dai benefici dei commi 1 e 2 i rei di delitti (di mafia) di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 a eccezione di quelli degli artt. 628, comma 3 e 629, comma 2 cpp. Le violazioni al programma sono trasmesse dal responsabile della struttura all’autorità giudiziaria e, laddove «[...] integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità giudiziaria ne dà comunicazione alle autorità competenti per la sospensione o revoca dell’autorizzazione di cui all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117, ferma restando l’adozione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura[...]». Per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza di cui all’art. 90, i benefici della sospensione si applicano ora alle pene non superiori ai sei anni o ai quattro anni per le trasgressioni di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 così come, in casi particolari, l’art. 94 detta le norme per l’affidamento in prova ai servizi sociali. La parificazione tra i servizi pubblici e privati e le rinnovate opportunità conferite nella libera scelta della struttura dove sottoporsi ai programmi di prevenzione, cura e riabilitazione (equiparazione tra assistenza pubblica o privata), costituisce un valido incentivo nell’attivazione di nuovi centri di recupero e ha reso necessaria la revisione degli artt. 113 e 114 sulle competenze attribuite alle Regioni e alle Province nella disciplina delle attività di prevenzione, cura e recupero delle tossicodipendenze. Equipollenza per la quale si sono rivisti anche gli art. 116 e 117 finalizzati alla definizione dei requisiti necessari per l’accreditamento e per l’autorizzazione allo svolgimento delle attività socio-sanitarie cui conseguono l’iscrizione agli Albi regionali e agli elenchi ministeriali. Con gli artt. 128, 129 e 130 sono invece disciplinati i finanziamenti e le concessioni in uso delle strutture statali e degli enti locali. È stato inserito l’art. 122-bis che, in materia di verifiche e controlli, dispone, per l’annuale relazione al Parlamento, la trasmissione, dalle Regioni (comma 4, art. 117) al Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro da lui delegato in 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 243 materia di politiche antidroga, dei risultati raggiunti dai SERT e dalle comunità nei programmi di recupero definiti ed effettivamente eseguiti. Definizione di “stupefacente” L’approccio definitorio al termine “stupefacente”, che sotto il profilo semantico potrebbe apparire di facile soluzione, non ha invece trovato, nei vari ambiti disciplinari, una esauriente traduzione capace di esprimere il reale significato del termine o invero di raccogliere, sotto un unico comma, l’intera categoria di sostanze, in grado dì agire sulla sfera fisico-comportamentale. L’intento di assegnare alla droga d’abuso una adeguata definizione che nei dizionari della lingua italiana, si traduce in: «Sostanza naturale o di sintesi capace di determinare artificiosi stati di benessere, ma che usata di continuo porta a decadimento etico, psichico e somatico; tali l’oppio e suoi alcaloidi, l’eroina e la cocaina», è, sul fronte scientifico, sistematicamente naufragato tanto che più opportuna è apparsa, secondo alcuni Autori, la soluzione di considerare stupefacenti solo le sostanze d’abuso specificatamente elencate nelle tabelle ufficiali; una soluzione indubbiamente adeguata a soddisfare la continua evoluzione del settore farmacologico nel campo degli psicofarmaci, ma rispondente più a esigenze giuridiche che non farmacologiche, mediche o sociali. In questa logica, stupefacenti sono tutti quei composti indicati come tali per legge, noti agli operatori del settore, ma spesso sconosciuti alla collettività, deviata spesso dalla adozione di termini sostitutivi, talvolta mutuati dalla dizione anglosassone e impiegati impropriamente per esprimere il reale concetto di “stupefacente”. Ne sono esempio i termini drugs (che nella sua etimologia originale indica preparati medicamentosi o sostanze di uso gastronomico) o narcotics (sinonimo di “sostanze stupefacenti”) che, nella traduzione letteraria, assume il significato di “narcotico” (farmaco cioè ad azione simile a quella degli oppiacei e quindi inutilizzabile per categorie farmacologiche ad azione diversa), spesso usati, nel linguaggio comune, per indicare le sostanze d’abuso, ma anche per incrementare la confusione nozionistica, resa già difficile dalla competizione aperta, sulla definizione di “stupefacente”, dalle singole discipline fondate su criteri di classificazione propri di ciascuna entità proponente. Il caos definitorio, che ne è derivato, è stato tale da sortire l’effetto di confondere e di fondere spesso il termine “stupefacente”, con quello più generico di “droga” intesa, nell’uso comune, come sostanza capace di produrre piacere, 244 Manuale della Professione Medica ma da perseguire perché distrugge l’individuo, lo rende dipendente e deteriora la società per le attività criminali a essa correlate. Si tratta di un risultato certamente non voluto, ma conseguito, grazie anche all’uso del termine “droghe” negli approcci delle discipline giuridiche, mediche e farmacotossicologiche, alla definizione di “stupefacenti” o di “sostanze d’abuso”. In questo contesto: – l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal punto di vista medico, assimila il termine “droga” a «ogni sostanza che introdotta in un organismo vivente può modificarne una o più funzioni» finendo, in tal modo, per avvicinarle più ai tossici, nella loro generalità, che non alle reali sostanze d’abuso; – la farmacotossicologia, conferisce invece alle “droghe” il valore sinonimico di “psicodroghe” o di “sostanze psico-attive” ovvero le riferisce a quei: «composti chimici, naturali o artificiali, in grado di modificare la psicologia o l’attività mentale dell’individuo...»; – giuridicamente, il termine “droga” si trasferisce in quello di “stupefacente” espressivo di illiceità ovvero di illegalità (“droghe illegali” configurantisi tra i composti tabellati o regolamentati per legge ivi compresi numerosi farmaci soggetti a controllo da perseguire se assunti fuori del nominale impiego terapeutico). Tra queste definizioni, indubbiamente caratterizzate da ben distinte influenze ed esigenze disciplinari, la più accreditata sembra essere, secondo il parere delle Commissioni statunitense e canadese, quella farmacotossicologica, capace di adattarsi al binomio: droga-psicotropismo, introdotto dal Delay, nel 1966, per distinguere, con il termine “droghe”, particolari «sostanze naturali o sintetiche capaci di modificare l’attività psichica» ossia di produrre uno stato artificiale di condizione mentale attraverso la temporanea modificazione di determinati sistemi neurobiochimici. L’orientamento quindi di paragonare le “droghe” ai farmaci capaci di produrre modificazioni sulla psiche, sul comportamento, sulle funzioni motorie e/o sulle capacità di giudizio ossia alle “sostanze psicotrope”, tradottesi, nell’esigenza farmacologica, in “farmaci psicotropi”, ha nuovamente confuso il pensiero comune, più propenso ad assimilare il concetto di psicotropismo con quello di terapeuticità nei confronti delle malattie psichiatriche, che non al 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 245 reperimento della nozione di sostanza dotata di attività psichico-mimetica, e quindi di possibile impiego anche voluttuario. È un rischio da non correre e che impone, per la pericolosità intrinseca a tali preparati, di considerare positivamente l’ibridazione definitoria tra versione giuridica e farmacologica, considerando “stupefacenti”, tutte le sostanze, naturali o artificiali, pericolose sul piano individuale e sociale in quanto capaci di produrre alterazioni psico-comportamentali, meritevoli di essere assoggettare al controllo legislativo attraverso la loro catalogazione in apposite tabelle soggette a periodici aggiornamenti, nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 13 e 14 del vigente TU. Definizione di tossicodipendenza Raccogliere sotto un’unica definizione un concetto così ampio come quello della tossicodipendenza e renderlo esauriente per le singole esigenze disciplinari, non è compito facile e forse i risultati raggiunti, non sono ancora pienamente soddisfacenti. Per avere infatti un quadro, seppur teorico, della complessa realtà della tossicodipendenza e individuarne una giusta definizione, non si possono non considerare alcune variabili fondamentali che intervengono, con differente peso, nell’intero fenomeno e che sono rappresentate: dal soggetto, dall’habitat e dalle caratteristiche farmacodinamiche della sostanza d’abuso. Si tratta di fattori tra loro completamente diversi che potrebbero erroneamente orientare verso una analisi separata dei singoli parametri, ognuno dei quali è capace di esprimere decine di variabili patogene a prevalenza psicopatologica, senza fornire però, da soli, il giusto contributo al globale inquadramento del problema. Non rimane quindi che la via di ricercare giuste correlazioni tali da raffigurare, come risultato finale, le linee generali del fenomeno della tossicodipendenza: una ricerca complessa che, se riferita alla più grave e classica tossicomania, quella da eroina, deve imporsi di annoverare i dati analitici soggettivi, contraddistinti da condizioni deficitarie motivazionali (disagio sociale, labilità psichica, labilità sessuale, diminuzione delle capacità fisiche, immaturità, stati di angoscia, carenze familiari) e quelli relativi all’habitat circostante, ai fini di un primo collegamento di sintesi che partendo dal dato dell’uso dello stupefacente, può tuttavia, se privilegia i fattori soggettivi, giustificare, nella sua 246 Manuale della Professione Medica prima connotazione, atteggiamenti di opposto conformismo, nel senso della tolleranza in clima di permissività legislativa e della repressione in regime di contenzioso giudiziario. Lo stato psichico, che ne deriva, appare quindi prevalentemente diverso in rapporto al contesto socio-normativo nel quale l’evento si compie; e ciò indipendentemente dal beneficio psico-fisico immediato che ne discende, che non muta se non per l’idea che la gratificazione possa essere indotta dalla sola e specifica azione farmacologica della sostanza oppure dallo stato emozionale derivante dalla soggettività della predisposizione all’uso. Si tratta di steps di un circuito vizioso dove i mezzi estrinseci, mediatori, sono del tutto irrilevanti rispetto all’effetto primario rappresentato dal primo contatto con lo stupefacente. Sicché il momento causale fondamentale e primario che successivamente si traduce in agente patogeno, come tale in definitiva percepito, rimane la sostanza che da sola è in grado di indurre tossicodipendenza per le conseguenze subentranti delle implicazioni d’uso (resistenza-astinenza), le quali impongono regimi di vita e frequenza di gruppi adeguati e specifici (per cultura e ruolo ben definiti) del mondo tossicomanico. Si realizza cioè un comportamento sempre più autonomo rispetto a ogni schiera nosologica, contrassegnato da spunti compulsivi e dalla ricerca ciclica dell’effetto farmacologico garantito dalla sostanza. Siffatti percorsi sono sicuramente diversi da quelli che portano all’uso delle sostanze “indifferenti” sotto il profilo della dipendenza fisica, seppure esistano, quanto meno nella prima fase, caratteri di similitudini tipiche del binomio persona-ambiente. Le motivazioni personali (certamente diverse) e quelle ambientali, costituiscono infatti il primo gradino che conduce alla porta di accesso allo stupefacente e alla conseguente alterazione psichica, prodotta dall’uso intensivo, che può divenire talmente compulsiva da indurre a riprovarne gli effetti o addirittura a spingere il soggetto verso altri stupefacenti Nell’intento quindi di fornire un primo inquadramento definitorio, della tossicodipendenza, Tatum e Seeverse la definirono come «una condizione prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica, in modo che essa diventa necessaria perché l’interruzione dell’uso provoca disturbi mentali e fisici»: formula indubbiamente consona alle esigenze dell’inquadramento farmacotossicologico del fenomeno, ma insufficiente a fronteggiare la dimensione del problema nelle sue plurime connotazioni della reazione giuridica, della realtà sanitaria e della devianza sociale. Se ben orientata e pienamente sufficiente a 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 247 definire lo stato indotto dall’uso ripetuto di sostanze d’abuso ovvero a delineare la condizione soggettiva sotto l’aspetto dei meri effetti psicofarmacologici, la riportata definizione è tutta inadeguata a evidenziare i rapporti dell’individuo con la società, a motivo dei quali la tossicodipendenza potrebbe apparire come un fenomeno facilmente solubile con il semplice intervento farmacologico ovvero attraverso la somministrazione di composti sostitutivi o delle stesse sostanze d’abuso, semmai idonea a risolvere il personale disturbo fisico e/o psichico, ma incapace di limitare o eliminare i pericoli, per l’individuo e la collettività, determinati dall’alterazione dello status soggettivo. Stabilire quindi quale sia la nozione più adeguata per esprimere le circostanze, le condizioni individuali e i rapporti tossicodipendente-società, non è impresa agevole, anche se, nello sforzo definitorio, compiuto dalle singole entità scientifiche, la definizione data dall’OMS: «la tossicodipendenza è una condizione di intossicazione cronica o periodica dannosa all’individuo e alla società prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica naturale o di sintesi. Sono sue caratteristiche: 1) il desiderio incontrollabile ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo; 2) la tendenza ad aumentarne la dose (tolleranza); 3) la dipendenza psichica e talvolta fisica dagli effetti della sostanza», sembra abbastanza soddisfacente sebbene non affronti la questione intrinseca delle cause motivazionali su cui fonda la scelta tipologica del tossicodipendente. Sotto questo aspetto è infatti anche arduo spiegare il sottile parallelismo tra farmacodipendenza (abuso di composti “legali” ossia farmaci) e tossicodipendenza (abuso indifferente di sostanze illegali o legali) ben vedendo che la definizione dell’OMS si rivolge indistintamente a condizioni soggettive conseguenti «all’uso ripetuto di sostanze chimiche naturali o di sintesi» non meglio definite. Ed è questa una carenza che nemmeno la definizione biologica di Paton pare colmare: «la tossicodipendenza ha origine quando, in conseguenza della somministrazione di una sostanza, si attivano forze (fisiologiche, biochimiche, sociali o ambientali) che predispongono all’uso continuato di quella sostanza» ignorando essa completamente gli aspetti di pericolosità individuale e sociale conseguenti all’instaurarsi della dipendenza. Dalle tante definizioni fornite dai numerosi studiosi, comitati e commissioni nazionali e internazionali, emerge tuttavia il pensiero comune di consi- 248 Manuale della Professione Medica derare la tossicodipendenza sotto il duplice aspetto del rapporto: individuofarmaco e/o sostanza d’abuso e individuo-società. Rispetto al primo caso, il nesso nosologico tra le due entità sarà inequivocabilmente rappresentato dalla natura del farmaco e dai suoi effetti traenti verso una continua assunzione e un progressivo aumento delle dosi per ritrovare le sensazioni tipiche della prima volta. Nel secondo invece, gli elementi, intrinseci all’individuo, sono rappresentati dalle sanzioni dettate dalla modificazione psichica che agisce sia sul fronte relazionale di gruppo, sia sul suo comportamento nella società, protesa, a sua volta, a inquadrare il soggetto in un ruolo ben definito e ben differenziato in ragione del tipo di dipendenza da cui è affetto. È infatti notevolmente diversa la condizione (etero percepita) dell’eroinomane da quella del fumatore di tabacco o di cannabis oppure dell’etilista o del farmacofiliaco. Rispetto alla prima figura, la valutazione è infatti fortemente negativa e la reazione tipica è quella della condanna e dell’emarginazione, mentre per il fumatore di tabacco, l’etilista ed il farmacofiliaco esiste una sorta di tacita indifferenza e di paziente accettazione seppure tamponate da un sommesso dissenso. Diversamente accade per la cannabis, per l’ecstasy e altri composti, talora erroneamente considerati “droghe sicure” o “leggere” sicché la tossicodipendenza di prevalente matrice giovanile o adolescenziale, ottiene, dalla società, una avversione mitigata da recondita comprensione a sua volta giustificata dalla diversità anagrafica. Aspetto di uniformità del pensiero scientifico, nel definire la tossicodipendenza, è la concorde opinione secondo la quale l’uso prolungato instaura uno stato di dipendenza che può essere di ordine psichico, fisico o anche psicofisico: stati soggettivi indotti dalle proprietà delle singole sostanze d’abuso e pertanto differenziati, che Tatum e Seeverse, nel 1931 indicarono come: drug addiction e drug habituation; siffatti termini caratterizzano, il primo, uno stato di dipendenza fisica (ivi compresa quindi la crisi da astinenza derivante dalla sospensione o riduzione dell’uso) e il secondo di dipendenza psichica. Su questa base culturale, nel 1950, l’OMS definiva la drug addiction come «lo stato di periodica o cronica intossicazione, negativa per l’individuo e per la società, prodotto dalla ripetuta assunzione dì sostanze farmacologicamente attive, le cui caratteristiche includono: 1) un desiderio incoercibile ad assumere la sostanza e a procurarsela; 2) ad aumentare la dose; 3) una dipendenza psichica (psicologica) e alcune volte fisica degli effetti della sostanza»; mentre la drug 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 249 habituation, sottende «il desiderio di assumere ripetutamente la sostanza senza che si vengano a creare le caratteristiche negative mostrate dalla addiction, né gli effetti deterioranti per l’individuo e la società». Si tratta di definizioni che, nella realtà italiana, sono divenute sinonimi di “tossicomania” e di “abitudine o di dipendenza comportamentale”, ma che appaiono già in origine insufficienti a definire lo “stato di dipendenza” meglio esplicitato, negli anni ’60, dalla definizione di drug dependence esplicativa di «uno stato psichico e talora fisico, derivante dalla interazione tra farmaco e organismo, caratterizzato da un particolare comportamento e da altri fattori che spesso includono un desiderio di assumere la sostanza sporadicamente o continuativamente al fine di ottenere effetti attivi sulla psiche e a provocare sconforto per la sua assenza; la tolleranza può essere più o meno presente; un soggetto può essere dipendente o meno dalla sostanza». Si intende infine per “tolleranza”: «la necessità di aumentare le dosi per ottenere gli stessi effetti di quelle iniziali» e per “dipendenza”: – psichica: l’impulso all’uso per ottenere piacere (la non assunzione provoca sconforto); – fisica: l’esigenza di assumere la sostanza (anche in modo continuativo) per non cadere nella crisi da astinenza. L’aspetto penalistico Di grande rilievo medico e medico-legale è la previsione penalistica degli stati di tossicodipendenza evocati dal Codice penale (1930) come condizioni che fortemente incidono sulla imputabilità di chi commetta reati in preda all’azione immediata o cronica di sostanze stupefacenti. Il problema investe l’area degli artt. 88 e 89 cp (vizio totale o parziale di mente) per i quali la capacità di intendere e di volere sia perduta o fortemente scemata tanto da escludere o limitare la imputabilità assimilando così l’azione di sostanze stupefacenti all’abuso di bevande alcoliche. In questo senso si esprimono gli artt. 91 (ubriachezza da caso fortuito o da forza maggiore); 92 (ubriachezza volontaria o colposa o preordinata); 93 (fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti; con rinvio agli artt. 91 e 92); 94 (ubriachezza abituale di chi «è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza»; idem per colui che è «dedito all’uso di sostanze stupefacenti»); 250 Manuale della Professione Medica 95 (cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti; con eventuale rinvio agli artt. 88 e 89). A parte il fatto che l’effetto acuto dell’uso di droga, se non dovuto a caso fortuito o a forza maggiore, non modifica ex lege, al pari della acuta ubriachezza, la imputabilità, di particolare interesse medico è il trattamento penale riservato all’assuntore abituale non ancora mentalmente compromesso nella sfera intellettiva o volitiva, la cui imputabilità resta piena e la cui speciale colpevolezza è anzi sanzionata dall’aumento di pena ove il reato sia stato commesso in stato di ebbrezza, rispetto all’alcolista o al tossicomane cronico affetto cioè da infermità di mente tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, la cui imputabilità viene invece a essere esclusa o solo parzialmente riconosciuta. Su tale questione la giurisprudenza è stata ondivaga anche a motivo della difficoltà di una attendibile diagnosi differenziale, ancorché la Corte Costituzionale (n. 114 del 16 aprile 1998) abbia chiaramente sentenziato che la imputabilità con l’aggravamento della pena riguarda solo gli assuntori abituali di droga ai sensi del II e III cpv dell’art. 94 (ubriachezza abituale), per cui «è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato di frequente ubriachezza», assimilato a «chi è dedito all’uso di sostanze stupefacenti». È inoltre chiaramente stabilito che l’aggravamento della pena non ricade su colui che commette un reato per il solo fatto di essere un assuntore abituale, ma per averlo commesso in preda a una ennesima condizione di intossicazione acuta. Ed è questo un passaggio che vale la pena riguardare con sempre maggiore attenzione, posto che allude alla sola condizione di ubriachezza o di intossicazione acuta che non esclude né diminuisce la imputabilità mentre è la circostanza della abitualità che produce l’aumento della pena. E ciò in ordine a due distinte e non necessariamente associate contingenze (delle quali la prima è fondamentale, la seconda eventuale) che sottendono una previsione penalistica non obbligatoriamente coincidente con la realtà o con la plausibilità patologica o semplicemente psicologica e comportamentale. L’equilibrio tra esigenze penalistiche e realtà biologica è comunque e logicamente recuperato nel trattamento dell’intossicato cronico. In tal senso, straordinariamente efficace e particolarmente congrua con le previsioni penalistiche è la distinzione tra abuso e dipendenza tracciata dal 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 251 DSM IV - TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Testo revisionato, ed. italiana. Masson, 1998) per cui: – l’abuso si riferisce alla modalità d’uso (patologica), che conduce a inadeguatezza sociale, senza ancor aver prodotto vere e proprie compromissioni intellettive; – la dipendenza (tolleranza, astinenza) implica invece un grado più o meno elevato di deterioramento e di compromissione delle attività sociali o professionali. Mentre l’abuso si limita a produrre un insufficiente senso di responsabilità, comportamenti incoerenti e impulsivi, espressioni inappropriate di sentimenti di aggressività, per cui il soggetto può incorrere in reati colposi o dolosi «a causa dello stato di intossicazione» (incidenti d’auto, risse, furti ecc.), la dipendenza provoca invece una condizione mentale realmente patologica. Pur rifuggendo da ogni approfondimento sulle questioni cliniche e sulla maturazione del non sopito dibattito specialistico, sembra dunque di poter affermare che è quanto meno proponibile e non manifestamente infondato un approccio diagnostico differenziale tra abitualità d’uso e intossicazione cronica, tale da poterne derivare anche una applicazione peritale ai fini della determinazione della imputabilità. Il DSM IV propone per l’appunto percorsi, vere e proprie linee-guide di diagnosi differenziale per l’abuso di alcol, di barbiturici, di oppiacei, di cocaina, di amfetamine, di allucinogeni, di cannabinoidi, a documentare come la distinzione che qui si ricorda non sia ormai soltanto un frutto più o meno perverso e arbitrario di una discutibile politica criminale, ma corrisponda invece a condizioni biologiche, almeno in parte oggettivabili. E a conforto delle possibilità diagnostiche può dirsi che la abitualità è tributaria di una diagnosi fondata per lo più su elementi circostanziali mentre per la intossicazione cronica si impone una diagnosi clinica. Definizione di status cui far seguire adeguati programmi di recupero sociale da svolgersi presso strutture accreditate e per il comma 10) dell’art. 75, dovrà ora avvalersi, come saggiamente ha sempre sostenuto S.D. Ferrara, di un’autentica consulenza plurispecialistica, meglio se di struttura. Come scriveva Barni, l’uso abituale era infatti dimostrabile attraverso un plurimo e convergente esame documentario, anamnestico, clinico, chimico-tossicologico che può compiersi in tempi reali solo in strutture specializzate. 252 Manuale della Professione Medica Il trattamento medico dei tossicodipendenti Fondamentale è la comunicazione costante che il medico deve mantenere con il soggetto tossicodipendente o semplicemente intossicato anche in ordine a una concordata definizione del programma terapeutico e socioriabilitativo. L’impostazione corretta del rapporto, basata sulla illustrazione più completa dei reciproci impegni evita infatti l’instaurarsi di situazioni ambigue o di compromesso che potrebbero nuocere in rapporto ai suoi eventuali benefici, fermo restando che la responsabilità della conduzione del programma terapeutico e socio-riabilitativo non può non essere in genere demandata agli operatori che agiscono nel servizio o nella struttura, pubblica o privata, che trattano specialisticamente il drogato. Sono i medici curanti coloro che aiutano ad affrontate le sofferenze psicologiche constatandone i mutamenti, gli sbocchi. Solo l’operatore infatti può valutare il giusto rilievo da attribuire a singoli comportamenti nel contesto del complessivo impegno verso il recupero al punto di cogliere una trasgressione giudicabile da parte dell’osservatore esterno come grave e incompatibile con il buon andamento del processo riabilitativo, quale invece comprensibile e di scarso valore, e viceversa. Ancora una volta l’esperienza e la competenza forniscono autorità e serenità di giudizio all’operatore esperto il quale in tutta scienza e coscienza deciderà se riferire o meno sulla violazione della regola, valutando se complessivamente il programma è seguito positivamente o meno. Il suo giudizio, ispirato ai principi fondamentali e alla dignità della professione medica, non potrà subire censure di ordine deontologico, amministrativo o giudiziario. Il medico personale ha il dovere del trattamento clinico dei tossicodipendenti, in ragione della fenomenologia tossica passibile di trattamento sintomatico, dell’intervento urgente e spesso drammatico (somministrazione di naloxone nell’overdose da eroina), delle concomitanti patologie infettive (virus epatiti, AIDS), delle sindromi da astinenza ecc. Rinviando alle trattazioni cliniche e alle linee-guida specializzate per ogni aspetto farmacologico clinico del trattamento e aderendo alla tesi ormai indiscussa che il problema di fondo della tossicodipendenza, la disassuefazione, non può risolversi con la cosiddetta medicalizzazione del fenomeno, occorre 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 253 far qui cenno al tema dei cosiddetti farmaci sostitutivi, il cui impiego (metadone, in primis per quanto attiene le tossicodipendenze da oppiodi) per ben note ragioni farmacologiche di affinità, attenua col tempo la dipendenza, evitando i devastanti effetti della astinenza. In effetti, il quesito che più di ogni altro investe gli operatori sanitari in relazione al trattamento medico dei tossicodipendenti riguarda le incertezze che ancora sussistono sulla liceità non tanto clinica quanto giuridica delle terapie di mantenimento senza limiti di tempo con farmaci sostitutivi, in particolare per l’operante col metadone. La risposta al quesito dipende, come è ovvio, non tanto dal riconoscimento oggettivo della terapeuticità o meno del mantenimento senza limiti di tempo, quanto dalla utilità sanitaria ed etica e quindi della liceità del trattamento stesso che pure, come ammesso dalla giurisprudenza penale, è avallata dal consenso quasi unanime della dottrina penalistica. Questa contrapposizione è particolarmente inquietante posto che pone in discussione non tanto la possibilità di impiego terapeutico di sostanze stupefacenti, come il metadone, ma la legittimità del suo uso continuativo. Come rettamente afferma il Porcella, la nozione clinica di terapeuticità nel trattamento dei tossicodipendenti non ha nulla di peculiare che la differenzi dalla nozione comunemente applicata negli altri ambiti della medicina e in questo senso la terapeuticità del mantenimento con metadone è affermata nei termini più espliciti dal Newman, uno dei massimi esperti in campo mondiale, con parole molto semplici: non può essere fatta dipendere da elementi estranei a valutazioni cliniche; ne è scientificamente comprovato l’effetto senza limiti temporali di contenimento, e di prevenzione di più gravi induzioni tossiche o di devastanti casi da sospensione; è deontologicamente assurdo ed estraneo alla scienza il principio, pur autorevolmente sostenuto in Giurisprudenza, per il quale «compito del medico è quello di guarire l’ammalato tossicodipendente e non di protrarre la durata della malattia», in quanto «l’uso di sostanze stupefacenti nella cura dei tossicodipendenti non tende comunque e difficilmente perviene alla disassuefazione e alla guarigione». In definitiva, il medico deve riguardare con prudenza, ma senza assurdi atteggiamenti di medicina difensiva alle terapie sostitutive che peraltro meglio possono essere garantite da e in centri specialistici pubblici o privati ormai per legge parificati anche nella competenza certificatoria. 254 Manuale della Professione Medica Tossicodipendenze e deontologia medica Il Codice di Deontologia medica (cdm) considera all’art. 79 il particolare rapporto che la società richiede al medico nell’opera di prevenzione del fenomeno della tossicodipendenza e nel trattamento, non solo “tecnico”, diagnostico e curativo, dei soggetti in preda agli effetti acuti o cronici delle droghe d’abuso. In particolare, il nuovo atteggiamento formativo supera, in armonia col maggioritario stato d’animo degli italiani, ogni indicazione sugli adempimenti certificativi e in qualche modo particolari (ricette mediche) per richiamare a un atteggiamento di responsabilità e di solidarietà che tenga conto non solo del diritto-dovere di tutela della salute della persona ma anche della sua dignità e della sua libertà e più in generale dell’impegno pubblico nei confronti di un male e di un disagio sociale. Non a caso il riferimento codicistico è diretto a tutte le sostanze d’abuso e non solo ai vecchi e nuovi stupefacenti, quasi a ricordare al medico la complessiva esigenza di difesa individuale nei confronti anche dell’alcolismo e del tabagismo. Così sembra di cogliere dal Codice deontologico una chiara denuncia della ipocrita se non discriminativa messa a fuoco normativa e (sia pure a monte) repressiva delle sole droghe tabellate, in armonia con il dato epidemiologico estremamente eloquente sui danni dell’abuso di alcol e di tabacco, sui quali ultimi si tornerà in appendice al presente capitolo. L’art. 75 cdm sollecita dunque il medico, al di là dei suoi specifici obblighi di cura, a porre in essere «senza pregiudizi» e «un aiuto tecnico e umano», sempre finalizzata al superamento della situazione di dipendanza collaborando a compiti di: a) prevenzione, partecipando a iniziative pubbliche e private, nella scuola, per esempio, nei luoghi di lavoro, nel quotidiano rapporto con le famiglie, con i giovani; b) cura, ben comprendendo la esigenza di cure tradizionali per le condizioni patologiche che possono aver indotto la tossicodipendenza (disordini mentali, sindromi dolorose ecc.) o che ne possono esser state la conseguenza e non trascurando la possibilità di equilibrare programmazioni cliniche di trattamento con farmaci sostitutivi; c) informazione e indirizzo dei soggetti (il tossicodipendente e la famiglia sia pur con assoluto rispetto delle regole sulla privacy) sui programmi socioriabilitativi; 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 255 d ) collaborazione senza discriminazioni ideologiche di sorta con le organizzazioni pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio sociale. Ciò premesso, al medico compete pur sempre il dovere di certificare nelle situazioni seguenti: 1) certificato a richiesta del soggetto per il datore di lavoro al fine di ottenere l’aspettativa prevista dalla legge (art. 124 DPR 309/1990); 2) certificato e sempre a richiesta dell’interessato, dei motivi di astensione dal lavoro dovuto allo stato di tossicodipendenza, previsti per le categorie di lavoratori destinati a mansioni che comportino rischi per la sicurezza (mai individuate da apposito decreto), l’incolumità e la salute di terzi (Forze di polizia ecc.) secondo quanto dispongono specifiche norme (art. 125 DPR 309/1990). Le comunità terapeutiche Le comunità sono, nel loro concetto attuale, l’espressione di una organizzazione comunitaria impostata sull’esigenza di raccogliere, all’interno di gruppi, abitudini sociali, ideologie e interessi omogenei capaci di attribuire, all’agire sociale, finalità determinate per contrastarne le negatività nell’affermazione di principi idealistici di uguaglianza e di fratellanza. È questo un concetto che richiama alle antiche identità di comunità religiose e idealistiche, ma che ha talora assunto, nella identità dei numerosi movimenti giovanili, in particolare degli anni ’70, connotazioni utopistiche di “provocazione” tese a trasformare l’impostazione sociale attraverso l’azione anticonformista, antitetica alle abitudini della consumistica e benestante società “adulta”. Il fenomeno, è espressivo di determinati movimenti culturali, che sminuisce tuttavia il significato storico ancestrale delle vecchie comunità socialmente organizzate e basate su principi egualitari. Attualmente, il concetto di comunità, è invece, in modo prevalente, correlato al triste problema della droga e assume, nella accezione comune, il restrittivo valore di risorsa sociale per il “recupero” del tossicodipendente. La sua aggettivazione “terapeutica”, nata nei primi anni ’50, e applicata alla cura delle malattie psichiatriche, è indicativa della limitazione concettuale operata sul termine, confinato a esprimere più un luogo di cura e di recupero di “malattie psichiche” o di “devianze sociali”, che non a significare concetti più profondi di socializzazione e di solidarietà. 256 Manuale della Professione Medica Le comunità terapeutiche, nate, negli USA, come centri di “riabilitazione” di soggetti tossicomani con l’intento di favorirne il recupero attraverso la modifica dei parametri ambientalistici e psico-comportamentali, hanno assunto, nei contesti culturali dei vari paesi, modelli strutturali e operativi spesso marcatamente diversi tra loro e non necessariamente ispirati a quelli della proposta di Syanon o di Daytop. In questo settore l’iniziativa è ora assegnata anche a identità private, accreditate a livello regionale, libere di strutturarsi, di scegliere e di eseguire programmi terapeutici in maniera autonoma purché in uniformità di condizioni con i servizi pubblici. La corrispondenza richiesta ai requisiti di accreditamento previsti per legge dovrebbe produrre quindi effetti qualificanti nella gestione dei nuovi centri di recupero improntati sempre più sull’esperienza pluridiscinare e sulla riqualificazione dei servizi di prevenzione e di intervento. Contesti che dovrebbero contribuire al superamento della lacuna definitoria di “Comunità terapeutica” ovviando ai disagi assistenziali derivanti dalle eterogeneità strutturali e gestionali. L’attuale affidamento di compiti di recupero a “gruppi di volontariato” di impronta laica o cattolica nell’ambito di differenze gestionali ispirate a prototipi di rigidità o strutturate in modo più o meno terapeutico in conformità della modalità riabilitativa autonomamente scelta, difficilmente concordano con i modelli propri della scienza psichiatrica (autoassistenza, responsabilizzazione individuale, abolizione gerarchica, influssi comunitari positivi ecc.), ma tutti rivolti a favorire l’interiorizzazione, nel tossicomane, di un nuovo comportamento sociale non deviante. Processo dove fondamentale diviene il valore attribuito al “gruppo” che può essere condizionato dalle modalità con cui le singole componenti si rapportano tra loro, nell’ambito della realizzazione programmatica e dei caratteri connotativi della Comunità terapeutica. Diversi sono infatti i rapporti individuo-comunità nei centri che privilegiano aspetti psicologici rispetto a quelli di impronta repressiva o assistenzialistica. Per distinguere le diverse iniziative, alcuni Autori hanno proposto diverse definizioni idonee a differenziare le varie tipologie: – comunità aperta; – comunità chiusa; – comunità gerarchica; – comunità democratica; – comunità autoritaria; e ciò in funzione soltanto delle metodologie dell’intervento di recupero adottate. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 257 Appunti su “tabagismo” e “alcolismo” Il tabagismo Il vasto panorama delle tossicodipendenze, merita di essere integrato da uno sguardo ad alcune dipendenze, profondamente e storicamente radicate nelle presenti abitudini sociali, derivanti dall’assunzione di sostanze d’abuso “legalizzate”, ma non per questo immeritevoli di considerazione sotto il profilo medico e sanitario. L’“arte” del fumare, discendente da antiche tradizioni popolari proprie di numerose civiltà dell’America Latina, ebbe infatti, alle sue origini, un significato magico-religioso ben diverso dalla comune ritualità di costume consumistico assunta nella attuale cultura occidentale. L’uso di sigarette, ancor oggi in alcuni paesi propagandato e favorito dalle compagnie produttrici attraverso la martellante opera dei mass-media pubblicitari, ha costituito un momento storico nella diffusione del fumo di tabacco ancora meritevole di riflessione generale nell’intero versante della salute pubblica. Se pensiamo inoltre che, negli ambienti chiusi, l’inalazione di fumo passivo, rappresentato per il 15% dalle esalazioni del fumatore: “fumo primario” (mainstream smoke) e per l’85% dalla combustione del tabacco nella parte accesa della sigaretta: “fumo secondario” (sidestream smoke), può, dopo circa 78 minuti di permanenza, condurre un non fumatore a elevare le sue concentrazioni urinarie nicotiniche da 10 mg/l a 80 mg/l, e che sono circa tre milioni i morti, che ogni anno si legano all’uso del tabacco, ben si giustifica l’interrogativo sul perché si sia dovuto attendere, quasi un secolo, affinché le autorità sanitarie intervenissero nell’opera legislativa di prevenzione, di controllo e di repressione a tutela dei non fumatori. L’attuale consapevolezza che il “tabagismo” è collocato tra le tre maggiori calamità planetarie, assieme alla “fame” e alle “guerre”, ha contribuito al varo della legge n° 3 del 16 gennaio 2003, art. 51, meglio nota come “legge anti fumo”. E sull’onda dell’azione repressiva, esercitata dal disposto dell’art 51, la Corte di Appello di Roma ha, per la prima volta, in Italia, emesso una storica sentenza (1015/05 del 22 marzo 2005) riconoscendo il danno da fumo e condannando l’Ente Tabacchi al risarcimento di 200.000 euro agli eredi di un deceduto per cause fumo-correlate. Nella specie, la Corte di Appello ha infatti sottolineato l’obbligo, da parte dell’ETI (Ente Tabacchi Italiani), d’informare i consumatori sui rischi per la 258 Manuale della Professione Medica salute riaffermando, al contempo, che la vendita di tabacchi costituisce attività pericolosa fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2050 cc. È infatti noto che i tabacchi, essendo destinati al consumo mediante il fumo, contengono, per la loro natura e composizione biochimica, «una potenziale carica di nocività, dalla quale ne può discendere un grave danno per la salute considerata bene primario dell’uomo e tutelata dall’art. 32 della Carta Costituzionale come diritto fondamentale del cittadino». Tutela per la quale «l’ente era obbligato a usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramutasse in un danno concreto», contrariamente a quanto invece accaduto. Ma, al di là degli interventi repressivi, il tabagismo può essere combattuto con il potenziamento dell’opera di prevenzione esercitata attraverso lo sviluppo dei movimenti salutisti e l’incentivazione e l’evoluzione delle terapie di gruppo impostate sul modello del FDP (Five-Day Plane). Su questa linea il GFT (Gruppi di Fumatori in Trattamento) si sta, infatti, prodigando per migliorare i modelli transteorici, di Di Clemente e Prochanzka, con terapie di gruppo volte a modificare lo status soggettivo, sia sul piano comporta mentale-cognitivo che su quello motivazionale, mediante una tripartizione fasica del programma riabilitativo che risulta così articolato in una prima fase preparatoria, in una seconda di immersione totale e in una terza di reciproco aiuto. I risultati confortanti, addirittura superiori alle medie dei successi conseguiti negli USA e pubblicati sullo Smoking Cessation Methods, vedono il follow-up del primo quinquiennio attestato attorno al valore medio del 50%. Si tratta di successi incoraggianti che potrebbero essere maggiormente agevolati da un più stretto coordinamento con l’intervento pubblico di promozione delle attività educative e formative in ambito scolastico. L’art. 104 del TU 309/1990 attribuisce infatti al Ministero della Pubblica Istruzione precisi compiti in materia di educazione sanitaria e di informazione sui: «danni derivanti dall’alcolismo, dal tabagismo, dall’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate»: volontà preventiva pienamente illustrata anche dagli artt. 105 e 106 che prevedono l’attivazione, a livello provinciale, di corsi di studio, per gli insegnanti, sul tema di cui all’art. 104 nonché l’istituzione di centri scolastici, di consulenza e di informazione sanitaria, rivolti all’utenza studentesca e cogestiti dai provveditorati e dai SERT. L’opera del medico è e resta essenziale, sulla base di una diversa conoscenza del rischio da tradurre in prescrizioni terapeutiche, in comunicazioni costanti 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 259 relative alla “condotta’’ di vita. E non possono essere liquidate come assurde o “infantili” le pattuizioni tra medico e paziente nella durata della astinenza, nel più complesso programma di liberazione dalla dipendenza che è essenziale per i soggetti a rischio (cardiopatici, broncoasmatici, facilmente predisposti alle neoplasie). L’alcolismo Seppur classificato tra le sostanze d’abuso “legali”, l’alcol etilico si colloca tra i maggiori responsabili di stati di tossicodipendenza che impongono una specifica attenzione legislativa in rapporto agli aspetti sociali connessi all’etilismo cronico. La condizione etica e le alterazioni comportamentali dei soggetti sotto l’influenza dell’alcol sono state e sono oggetto, infatti, del rigore normativo ben espresso nelle riportate norme penali ed esteso al nuovo Codice della strada, a garanzia della sicurezza stradale. Le tristi testimonianze, rese dagli organi di informazione ogni fine settimana sui decessi per incidenti stradali, hanno infatti imposto, a tutela degli utenti, la stretta legislativa e operativa sui controlli diretti ad accertare sia l’idoneità dei conducenti alla guida sia le condizioni psico-fisiche soggettive nelle fasi di rilascio e di conferma della patente automobilistica. L’art. 186 del nuovo Codice della strada (modificato di recente con la legge n. 120 del 29/7/2010), intitolato “Guida sotto l’influenza dell’alcol”, recita infatti al comma 1: «È vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche» ed è espressivo dell’impegno repressivo da adottare nei confronti di chiunque costituisca pericolo, per se stesso e per l’integrità altrui, guidando sotto gli effetti dell’alcol. Tale orientamento meglio si coglie nel n. 2 dello stesso articolo dove, in caso di accertata positività, ove il fatto non costituisca più grave reato, sono previste, a fianco delle sanzioni amministrative di ordine pecuniario, sanzioni penali e sanzioni accessorie. Inoltre: «Al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sottoposizione agli accertamenti di cui al comma 4, gli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal Ministero dell’Interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili». 260 Manuale della Professione Medica Nei casi di positività agli accertamenti qualitativi di cui al comma 3 l’art. 186 così recita: «in ogni caso d’incidente ovvero quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcol, gli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, anche accompagnandolo presso il più vicino ufficio o comando, hanno la facoltà di effettuare l’accertamento con strumenti e procedure determinati dal regolamento. Per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico viene effettuato, su richiesta degli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, da parte delle strutture sanitarie di base o di quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate. Le strutture sanitarie rilasciano agli organi di polizia stradale la relativa certificazione, estesa alla prognosi delle lesioni accertate, assicurando il rispetto della riservatezza dei dati in base alle vigenti disposizioni di legge [...]». Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro (g/l), l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2. In caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5 il conducente è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con le sanzioni di cui al comma 2. Con l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione della patente ai sensi del comma 2, il Prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica ai sensi dell’articolo 119, comma 4, che deve avvenire nel termine di sessanta giorni. Qualora il conducente non vi si sottoponga entro il termine fissato, il Prefetto può disporre, in via cautelare, la sospensione della patente di guida fino all’esito della visita medica. Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), ferma restando l’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2, il Prefetto, in via cautelare, dispone la sospensione della patente fino all’esito della visita medica di cui al comma 8. Considerato quindi che il dato diagnostico ha validità probatoria nella contestazione della contravvenzione e che, in caso di responsabilità penale, potrà essere utilizzato quale prova processuale, il personale medico o abilitato ai prelievi dovrà tener massimo conto delle metodologie di prelievo e di conservazione dei reperti in modo da renderli ineccepibili in caso di contraddittorio. 5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 261 E ciò anche per il fatto che gli accertamenti di rito possono essere utilizzati anche dal conducente come prova a discolpa. Raccomandazione che il disposto normativo non rende obbligatoria e che non è sufficientemente garantita dall’individuazione di una adeguata catena di custodia e da protocolli operativi sulle modalità di prelievo e sulla scelta dei test diagnostici dotati di validità forense. Per il personale medico, esiste inoltre la complessa e annosa problematica del prelievo ematico e del consenso che, negli accertamenti di idoneità psico-fisica alla guida o nei casi di traumatismi conseguenti a incidente stradale, inducono riflessione sul valore del consenso fornito sotto l’effetto di elevate concentrazioni alcoliche o sui prelievi eseguiti (sul traumatizzato incosciente senza consenso) per fini curativi e invece utilizzati per scopi giudiziari. E a complicare ulteriormente l’operatività medica e laboratoristica vi è anche l’aspetto, non secondario, della mancata individuazione delle strutture abilitate e dei metodi diagnostici accreditati a livello centrale e periferico. Come si può pertanto vedere si tratta di brevi richiami, che meritano però di essere integrati nel segno e nel senso della responsabilità del medico, chiamato non solo a curare il singolo, ma anche a cooperare fattivamente alla tutela della pubblica salute. 6 Pubblicità e informazione sanitaria G. Morrocchesi, A. Pagni Art. 55 - Informazione sanitaria Nella comunicazione in materia sanitaria è sempre necessaria la massima cautela al fine di fornire un’efficace e trasparente informazione al cittadino. Il medico deve attenersi in materia di comunicazione ai criteri contenuti nel presente Codice in tema di pubblicità e informazione al cittadino. Il medico collabora con le istituzioni pubbliche al fine di una corretta informazione sanitaria ed una corretta educazione alla salute. Art. 56 - Pubblicità dell’informazione sanitaria La pubblicità dell’informazione in materia sanitaria, fornita da singoli e da strutture sanitarie pubbliche o private, non può prescindere, nelle forme e nei contenuti, da principi di correttezza informativa, responsabilità e decoro professionale. La pubblicità promozionale e comparativa è vietata. Per consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole tra strutture, servizi e professionisti è indispensabile che l’informazione, con qualsiasi mezzo diffusa, non sia arbitraria e discrezionale, ma obbiettiva, veritiera, corredata da dati oggettivi e controllabili e verificata dall’Ordine competente per territorio. Il medico che partecipa, collabora od offre patrocinio o testimonianza alla informazione sanitaria non deve mai venir meno a principi di rigore scientifico, di onestà intellettuale e di prudenza, escludendo qualsiasi forma anche indiretta di pubblicità commerciale personale o a favore di altri. Il medico non deve divulgare notizie su avanzamenti della ricerca biomedica e su innovazioni in campo sanitario, non ancora validate e accreditate dal punto di vista scientifico, in particolare se tali da alimentare infondate attese e speranze illusorie. 264 Manuale della Professione Medica La Conferenza internazionale degli Ordini dei Medici di Parigi, nel 1994, a proposito della pubblicità dei medici, precisò con grande chiarezza, e in termini tuttora utili per il legislatore e per i colleghi, che «l’esercizio della professione non è un’attività artigianale né commerciale. Il medico, sia dipendente sia libero professionista, può rendere noti al pubblico la propria formazione di base e specialistica e gli altri elementi necessari all’informazione dei pazienti nel rispetto dei principi stabiliti dall’Ordine nazionale (o similari) e dalla legge. Tale informazione va chiaramente distinta dall’annuncio pubblicitario di carattere promozionale che rischia di trarre in inganno i pazienti e che è considerato non conforme all’etica dei medici in tutti i Paesi europei. Il medico, inoltre, non deve consentire ad altri di fargli pubblicità o tollerare che la effettuino nei suoi confronti». Gli artt. 55 e 56 e l’allegato Regolamento esplicativo si propongono di mantenere fede ai principi immutabili dell’etica della professione, chiarendo le differenze tra informazione e pubblicità in ambito sanitario, per garantire che la comunicazione tra i medici e i cittadini sia corretta e veritiera. L’uso ambiguo del termine “pubblicità informativa” può, infatti, ingenerare confusione dopo che anche il “mercato” sanitario è stato pervaso dalle suggestioni della (pseudo)competizione e del marketing, e la professione del medico, dal punto di vista giuridico, è divenuta un’“impresa”, sia pure sui generis. Il termine “pubblicità”, infatti, ha in genere una connotazione, invasiva, promozionale e reclamistica, propria di messaggi intesi a convincere e persuadere i cittadini ad acquistare le “merci” prodotte dalle aziende. L’“informazione sanitaria” corrisponde, invece, all’offerta di notizie utili e funzionali per il “bene” salute delle persone, consentendo loro di scegliere consapevolmente quali competenze professionali corrispondono ai loro bisogni, di essere aggiornati sui progressi di conoscenze scientifiche praticamente utilizzabili e sulle possibili alternative di cura offerte dalla moderna tecnologia sanitaria. La dizione «pubblicità dell’informazione sanitaria» usata nel Codice è, infatti, un complemento di specificazione che privilegia il valore e la qualità del secondo termine, i dati e le informazioni, ai quali subordinare il primo, gli strumenti e i modi impiegati per la loro trasmissione. La tecnologia della comunicazione, infatti, anche se non è neutrale, non è di per se stessa buona o cattiva, ma sono i contenuti, gli scopi e i modi dei messaggi scelti dagli utilizzatori a determinarne o meno il valore e il significato. 6. Pubblicità e informazione sanitaria 265 L’Ordine dei Medici non ha mai ignorato, nel corso della sua lunga storia, l’importanza deontologica di un’informazione etica dei sanitari, e ha vigilato, nei limiti del possibile, affinché il medico non ricorresse a messaggi scorretti, ambigui o ingannevoli, causa di gravi ripercussioni sulla salute dei cittadini, di disdoro per l’immagine della professione e di illecita concorrenza da parte degli abusivi o tra colleghi. Già nel lontano 1954 l’art. 12 del CDM recitava: «Il medico non deve diffondere nel pubblico notizie di nuovi procedimenti diagnostici o terapeutici non ancora sufficientemente comprovati o altre notizie di indole sanitaria che possono suscitare illusorie speranze o timori ingiustificati. Se vi è scopo di lucro la colpa è ancora più grave». E nei successivi artt. 69 e 70 dichiarava che «l’uso della pubblicità deve essere contenuto entro i limiti della serietà scientifica e professionale», elencando i titoli professionali che era lecito iscrivere su «fogli di ricettari, annuari, guide cittadine, elenchi telefonici, placche murali o targhe». Nel 1984 il Comitato Centrale (CC) della FNOMCeO emanò un regolamento, che oggi può apparire anacronistico, con il quale si vietava al medico il ricorso a pubblicità cinematografiche e radiotelevisive, e si obbligava a riservare i messaggi pubblicitari esclusivamente ai giornali e periodici destinati alla categoria. Nonostante queste ferme prese di posizione assunte dagli Ordini dei Medici, peraltro dotati di poteri istruttori molto limitati, la pubblicità ambigua, i messaggi degli abusivi e la diffusione di false informazioni non sono diminuiti nell’epoca postindustriale o della comunicazione di massa. Anche il DLgs 25 gennaio 1992, n. 74, consapevole dei pericoli della pubblicità ingannevole, ha affidato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato compiti di repressione e sanzionatori nei suoi confronti, ma non ha previsto il risarcimento del danno patito da chi si è fidato del messaggio pubblicitario, lasciandolo alla competenza della giurisdizione ordinaria. Il problema dell’informazione sanitaria in questi ultimi anni è divenuto particolarmente acuto e complesso. Si è moltiplicata, infatti, in maniera esponenziale la disponibilità in tempo reale degli strumenti tecnici di comunicazione, nazionali e internazionali, parallelamente alla sensibilità, all’interesse e al diritto dei cittadini alle informazioni sui temi della salute, tanto da renderne sempre più difficile il controllo qualitativo. 266 Manuale della Professione Medica Alle “mutazioni” relativamente recenti della stampa d’informazione e dei canali radiotelevisivi nazionali e locali in termini di contenuti degli articoli e dei programmi destinati alle malattie e alla salute, si sono, infatti, aggiunti nel corso di pochi anni i messaggi telefonici, la posta elettronica, i social network, Internet e milioni di siti Web e blog, la cui “simultaneità” è in grado di trasformare il mondo in un “villaggio globale” e di modificare i comportamenti umani. La legge n. 175/92, scaturita dalla necessità improrogabile di un intervento legislativo che regolasse con norme più severe la pubblicità sanitaria, reprimendo l’esercizio abusivo della professione, e di potenziare l’azione di sorveglianza degli ordini dei medici, si è rivelata rapidamente superata. Superata in parte perché ormai “datata” e, poi, perché fino dalla sua promulgazione era stata più attenta alla regolazione “formale” degli strumenti pubblicitari dei soli medici che alla frequente divulgazione prematura di risultati scientifici parzialmente verificati o francamente ingannevoli e alle iniziative commerciali, destinate al “benessere” delle persone, che spesso interferiscono negativamente nella relazione terapeutica tra medico e paziente. È un dovere degli Ordini preoccuparsi che le informazioni degli iscritti agli albi siano scientificamente corrette e veritiere, anche perché sono i principali fornitori delle notizie che i mass media diffondono, ma è anche vero che il cambiamento del paradigma dalla malattia alla salute ha favorito l’ingresso di altri attori, esterni alla professione, nel campo della pubblicità sanitaria commerciale. Infatti, i cospicui investimenti delle industrie parasanitarie nell’organizzazione di messaggi promozionali pubblici (non propriamente falsi, ma spesso privi di riscontri scientifici), destinati al cosiddetto “salutismo” dei cittadini (che si vogliono capaci di discernere l’affidabilità o meno dei messaggi che ricevono, in una contrattazione che, tuttavia, rimane inevitabilmente asimmetrica), non mancano di creare nei destinatari attese difficilmente controllabili, pseudobisogni, sconcerto, suggestioni e credenze, sfiducia nei confronti della comunità scientifica e, qualche volta, anche danni alla salute. Un breve accenno merita anche il divieto espresso nel Codice nei confronti della pubblicità comparativa, basata sul confronto espresso tra beni e servizi concorrenti. Il divieto dell’Ordine dei Medici della pubblicità comparativa non è frutto né del «timore del potere della pubblicità» né per difendere con il silenzio le “magagne” dei concorrenti e l’immagine della categoria, ma soltanto per consentire 6. Pubblicità e informazione sanitaria 267 ai cittadini scelte libere ed autonome sulla base della cultura e dell’esperienza personale, e per tutelarli da informazioni comparative incontrollate, difficilmente controllabili e potenzialmente dannose nell’indurre scelte ingannevoli. Quello sanitario nel SSN è, infatti, un mercato “non mercato”, che privilegia l’offerta pubblica e “amministra” e calmiera la domanda di salute sulla base delle risorse disponibili; per questi motivi deve essere considerato un settore specifico e delicato. Nel nostro paese non sono mai stati definiti per legge i requisiti di qualità delle prestazioni erogate dalle strutture pubbliche e private, che consentirebbero una rigorosa e obiettiva valutazione “comparativa” dell’offerta disponibile, e soltanto giornali e riviste si sono arrogati, in passato, la pretesa di scegliere per i loro lettori, con arbitraria discrezionalità, i “migliori” medici e i “migliori” ospedali italiani. Le norme del Codice sull’informazione sanitaria saranno, dunque, tanto più forti quanto più saranno rispettate e condivise consapevolmente da tutti i medici iscritti all’albo nell’interesse dell’intera categoria, e quanto più celeri ed efficaci saranno i provvedimenti disciplinari degli Ordini nei confronti di chi, eventualmente, avrà violato le norme pattuite. Art. 57 - Divieto di patrocinio Il medico singolo o componente di associazioni scientifiche o professionali non deve concedere avallo o patrocinio a iniziative o forme di pubblicità o comunque promozionali a favore di aziende o istituzioni relativamente a prodotti sanitari o commerciali. Le norme contenute nei tre articoli in commento del Capo XI rappresentano l’adeguamento della disciplina deontologica in materia di pubblicità e informazione sanitaria alle nuove disposizioni dettate dalla legge n. 248/06 al fine di introdurre misure di liberalizzazione del settore dei servizi professionali. La legge citata, nell’abrogare, tra le altre, «le disposizioni legislative e regolamentari» – di cui alla legge n. 175/92 e al DM n. 657/94 – che limitavano fortemente la possibilità di effettuare pubblicità sanitaria, ha stabilito che qualunque messaggio pubblicitario deve rispondere a «criteri di trasparenza e veridicità […] il cui rispetto è verificato dall’Ordine». 268 Manuale della Professione Medica Con questo inciso, il legislatore ha mantenuto integro e ribadito il potere di vigilanza e controllo proprio dell’Ordine professionale, unitamente al connesso potere sanzionatorio ogni qual volta accerti, in questo specifico ambito, un comportamento lesivo della dignità e del decoro della professione. La stessa legge n. 248/06 ha disposto che le precedenti disposizioni deontologiche fossero adeguate alle nuove norme entro il 1° gennaio 2007, «anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali», salvo, in caso di mancato adeguamento, la definitiva nullità delle norme in contrasto. Le nuove norme del Codice deontologico del 2006 ribadiscono, tra l’altro, che agli iscritti negli albi è fatto espresso divieto di patrocinare iniziative pubblicitarie o promozionali relative a prodotti sanitari o commerciali. Per l’applicazione di queste norme, è stata contestualmente adottata un’apposita linea-guida, allegata al Codice, contenente la disciplina specifica della pubblicità sanitaria. Il documento è espressamente riferito «a qualsivoglia forma di pubblicità dell’informazione, comunque diffusa, compreso l’uso di carta intestata e di ricettari», utilizzata dai prestatori di servizi, tra i quali sono espressamente compresi tanto il medico o l’odontoiatra che esercitano la professione in forma individuale o associata quanto le strutture pubbliche o private che erogano un servizio sanitario. Nel caso di queste ultime – le quali, quand’anche solo private, sfuggirebbero al potere di vigilanza dell’Ordine, trattandosi di soggetti muniti di personalità giuridica autonoma e distinta da quella dei sanitari in esse coinvolti – la responsabilità verso l’Ordine dell’osservanza della disciplina deontologica in materia è attribuita direttamente al direttore sanitario. Con questa impostazione unitaria vengono superate le distinzioni della legge n. 175/92, tra pubblicità del professionista singolo o associato e pubblicità della struttura sanitaria, per quanto concerne sia le forme e gli strumenti sia i contenuti della medesima. È confermata la facoltà di utilizzare il sito Internet per divulgare la propria attività professionale e altre informazioni, con l’obbligo, anche in questo caso, di fornire ogni elemento atto a garantire il controllo di quanto asserito nel messaggio da parte di chiunque vi abbia interesse, oltre che da parte dell’Ordine. A questo va data comunicazione dell’apertura del sito Internet, nella quale il sanitario dichiara, sotto la sua responsabilità, che il medesimo risponde alle prescrizioni della linea-guida. Per quanto riguarda gli elementi facoltativi, va posta particolare attenzione agli adempimenti richiesti per il loro inserimento; se riportati nel messaggio, 6. Pubblicità e informazione sanitaria 269 infatti, devono essere sempre verificabili e certificati, quindi devono essere obbligatoriamente accompagnati da tutte le notizie che ne consentano il riscontro oggettivo e la conferma in sede competente. Nel punto 4, tra l’altro, a proposito dell’uso della qualifica di specialista, è confermata, nei confronti del medico privo del titolo, la possibilità, con l’osservanza delle condizioni già previste dalla legge n. 175/92, di fare menzione della particolare disciplina specialistica che esercita. La linea-guida definisce quindi, al punto 5, gli obblighi deontologici che i liberi professionisti e i direttori sanitari delle strutture sono tenuti a osservare nella loro pubblicità dell’informazione sanitaria. Altri contenuti della linea-guida riguardano: – l’utilizzo della posta elettronica per motivi clinici (punto 7) nei rapporti con i pazienti e con i colleghi a fini di consulto, che è consentito purché vengano rispettate le condizioni e i criteri di riservatezza dei dati dei pazienti; – l’utilizzo delle emittenti radiotelevisive nazionali e locali, di organi di stampa e altri strumenti di comunicazione e diffusione delle notizie (punto 8), che comporta il divieto di «concretizzare la promozione o lo sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi» e, comunque, il rispetto degli obblighi deontologici previsti dalla linea-guida. Segue, infine, la disciplina della verifica e valutazione deontologica dei messaggi pubblicitari. Il punto 9 fa obbligo agli iscritti all’albo di «comunicare all’Ordine competente per territorio il messaggio pubblicitario che si intende proporre onde consentire la verifica sulla veridicità e trasparenza del medesimo, di cui all’art. 56 del Codice». Inoltre, nell’intento di ridurre l’onerosità delle operazioni di verifica da parte degli Ordini, è ammessa una specifica autodichiarazione dell’iscritto che attesti la conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi utilizzati alle norme deontologiche e alla linea-guida. L’iscritto potrà inoltre chiedere all’Ordine una valutazione preventiva della pubblicità che intende effettuare. In questo caso, l’Ordine rilascia un «formale e motivato parere di eventuale non rispondenza deontologica». La linea-guida si conclude con l’avvertenza che «l’inosservanza di quanto previsto dal Codice secondo gli orientamenti della presente linea-guida è punibile con le sanzioni comminate dagli organismi disciplinari previsti dalla legge». 270 Manuale della Professione Medica La disposizione conferma che, venute meno, per effetto della legge n. 248/06, le fattispecie illecite di pubblicità, minuziosamente contemplate per legge nei mezzi, nelle forme e nelle caratteristiche estetiche, l’esercizio dell’azione disciplinare viene interamente ricondotto in ambito deontologico secondo la disciplina degli artt. 38 e segg. del DPR n. 221/50. Giova ricordare che una successiva deliberazione del Comitato centrale della FNOMCeO (n. 53/2007) ha stabilito che «ai fini della tutela della dignità e del decoro, i mezzi, le forme e gli strumenti indicati nella legge 175/92 e nel DM 657/94 per la diffusione dei messaggi pubblicitari conservano piena rispondenza alle disposizioni del vigente Codice di Deontologia anche a seguito delle innovazioni legislative introdotte in materia». S’intende che questo richiamo a divieti, vincoli e limiti giuridici espressamente abrogati può costituire soltanto un’indicazione orientativa di massima ai fini della verifica di competenza degli Ordini provinciali, considerato che una rigida applicazione delle norme abrogate, ma ritenute “rispondenti” alla deontologia medica, significherebbe vanificare del tutto la ratio e le finalità che la legge n. 248/06 ha inteso perseguire nel settore dei servizi professionali. La complessità della normativa deontologica in questa materia sta comunque a indicare l’importanza attribuita alla pubblicità sanitaria dagli Organi rappresentativi delle due professioni, che hanno anche costituito un Osservatorio nazionale sulla pubblicità dell’informazione sanitaria, con compiti di monitoraggio, studio e consulenza su tutti gli aspetti della materia. Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica 1) Premessa La presente linea-guida in attuazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica è riferita a qualsivoglia forma di pubblicità dell’informazione, comunque e con qualsiasi mezzo diffusa, compreso l’uso di carta intestata e di ricettari, utilizzata nell’esercizio della professione in forma individuale o societaria o comunque nello svolgimento delle funzioni di direttore sanitario di strutture autorizzate. 6. Pubblicità e informazione sanitaria 271 2) Definizioni Ai fini della presente linea-guida, si intendono: – Prestatore di servizi: la persona fisica (medico o odontoiatra) o giuridica (struttura sanitaria pubblica o privata) che eroga un servizio sanitario. Nella presente linea-guida si usa la parola “medico” al posto di “prestatore di servizi”, pur riferendosi ugualmente a persone fisiche o giuridiche. – Pubblicità: qualsiasi forma di messaggio, in qualsiasi modo diffuso, con lo scopo di promuovere le prestazioni professionali in forma singola o societaria. La pubblicità deve essere, comunque, riconoscibile, veritiera e corretta. – Pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento. – Pubblicità comparativa: qualsiasi pubblicità che pone a confronto in modo esplicito o implicito uno o più concorrenti di servizi rispetto a quelli offerti da chi effettua la pubblicità. – Informazione sanitaria: qualsiasi notizia utile e funzionale al cittadino per la scelta libera e consapevole di strutture, servizi e professionisti. Le notizie devono essere tali da garantire sempre la tutela della salute individuale e della collettività. 3) Elementi costitutivi dell’informazione sanitaria Il medico su ogni comunicazione informativa dovrà inserire: – nome e cognome; – il titolo di medico chirurgo e/o odontoiatra; – il domicilio professionale. L’informazione tramite siti Internet deve essere rispondente al DLgs n. 70 del 9 aprile 2003 e dovrà contenere: – il nome, la denominazione o la ragione sociale; – il domicilio o la sede legale; 272 Manuale della Professione Medica – gli estremi che permettono di contattarlo rapidamente e di comunicare direttamente ed efficacemente, compreso l’indirizzo di posta elettronica; – l’Ordine professionale presso cui è iscritto e il numero di iscrizione; – gli estremi della laurea e dell’abilitazione e l’Università che li ha rilasciati; – la dichiarazione, sotto la propria responsabilità, che il messaggio informativo è diramato nel rispetto della presente linea-guida; – il numero della partita IVA qualora eserciti un’attività soggetta ad imposta. Inoltre dovrà contenere gli estremi della comunicazione inviata all’Ordine provinciale relativa all’autodichiarazione del sito Internet rispondente ai contenuti della presente linea-guida. I siti devono essere registrati su domini nazionali italiani e/o dell’Unione Europea, a garanzia dell’individuazione dell’operatore e del committente pubblicitario. 4) Ulteriori elementi dell’informazioni – I titoli di specializzazione, di libera docenza, i master universitari, dottorati di ricerca, i titoli di carriera, titoli accademici ed eventuali altri titoli. I titoli riportati devono essere verificabili; a tal fine è fatto obbligo indicare le autorità che li hanno rilasciati e/o i soggetti presso i quali ottenerne conferma; – il curriculum degli studi universitari e delle attività professionali svolte e certificate anche relativamente alla durata, presso strutture pubbliche o private, le metodiche diagnostiche e/o terapeutiche effettivamente utilizzate e ogni altra informazione rivolta alla salvaguardia e alla sicurezza del paziente, certificato negli aspetti quali-quantitativi dal direttore o responsabile sanitario; – il medico non specialista può fare menzione della particolare disciplina specialistica che esercita, con espressioni che ripetano la denominazione ufficiale della specialità e che non inducano in errore o equivoco sul possesso del titolo di specializzazione, quando abbia svolto attività professionale nella disciplina medesima per un periodo almeno pari alla durata legale del relativo corso universitario di specializzazione presso strutture sanitarie o istituzioni private a cui si applicano le norme, in tema di autorizzazione e vigilanza, di cui all’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833. L’attività svolta e la sua durata devono essere compro- 6. Pubblicità e informazione sanitaria – – – – – – – 273 vate mediante attestato rilasciato dal direttore o dal responsabile sanitario della struttura o istituzione; nell’indicazione delle attività svolte e dei servizi prestati può farsi riferimento al Tariffario Nazionale o ai Nomenclatori Regionali. L’Ordine valuterà l’indicazione di attività non contemplate negli elenchi di cui sopra, in modo particolare le cosiddette Medicine e Pratiche non convenzionali già individuate quale atto medico dalla FNOMCeO e, comunque, per tali finalità già oggetto di specifiche deliberazioni del Comitato Centrale. In ogni caso dovranno restare escluse le attività manifestamente di fantasia o di natura meramente reclamistica, che possono attrarre i pazienti sulla base di indicazioni non concrete o veritiere; ogni attività oggetto di informazione deve fare riferimento a prestazioni sanitarie effettuate direttamente dal professionista e, ove indicato, con presidi o attrezzature esistenti nel suo studio. In ogni caso l’effettiva disponibilità di quanto necessario per l’effettuazione della prestazione nel proprio studio costituirà elemento determinante di valutazione della veridicità e trasparenza del messaggio pubblicitario; pagine dedicate all’educazione sanitaria in relazione alle specifiche competenze del professionista; l’indirizzo di svolgimento dell’attività, gli orari di apertura, le modalità di prenotazione delle visite e degli accessi ambulatoriali e/o domiciliari, l’eventuale presenza di collaboratori e di personale con l’indicazione dei relativi profili professionali e, per le strutture sanitarie, le branche specialistiche con i nominativi dei sanitari afferenti e del sanitario responsabile. Può essere pubblicata una mappa stradale di accesso allo studio o alla struttura; le associazioni di mutualità volontaria con le quali ha stipulato convenzione; laddove si renda necessario ai fini della chiarezza informativa e nell’interesse del paziente, il medico utilizza, ove non già previsto, il cartellino o analogo mezzo identificativo fornito dall’Ordine; nel caso in cui il professionista desideri informare l’utenza circa le indagini statistiche relative alle prestazioni sanitarie, deve fare esclusivo riferimento ai dati resi pubblici e/o e comunque elaborati dalle autorità sanitarie competenti. 274 Manuale della Professione Medica In caso di utilizzo dello strumento Internet è raccomandata la conformità dell’informazione fornita ai principi dell’HONCode, ossia ai criteri di qualità dell’informazione sanitaria in rete. Inoltre in tali forme di informazione possono essere presenti: – collegamenti ipertestuali purché rivolti soltanto verso autorità, organismi e istituzioni indipendenti (ad esempio: Ordini professionali, Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Servizio Sanitario Regionale, Università, Società Scientifiche); – spazi pubblicitari tecnici al solo scopo di fornire all’utente utili strumenti per la navigazione (ad esempio: collegamenti per prelevare software per la visualizzazione dei documenti, per la compressione dei dati, per il download dei files). 5) Regole deontologiche Quale che sia il mezzo o lo strumento comunicativo usato dal medico: – non è ammessa la pubblicità ingannevole, compresa la pubblicazione di notizie che ingenerino aspettative illusorie, che siano false o non verificabili, o che possano procurare timori infondati, spinte consumistiche o comportamenti inappropriati; – non è ammessa la pubblicazione di notizie che rivestano i caratteri di pubblicità personale surrettizia, artificiosamente mascherata da informazione sanitaria; – non è ammessa la pubblicazione di notizie che siano lesive della dignità e del decoro della categoria o comunque eticamente disdicevoli; – non è ammesso ospitare spazi pubblicitari, a titolo commerciale con particolare riferimento ad aziende farmaceutiche o produttrici di dispositivi o tecnologie operanti in campo sanitario, né, nel caso di Internet, ospitare collegamenti ipertestuali ai siti di tali aziende o comunque a siti commerciali; – per quanto concerne la rete Internet, il sito web non deve ospitare spazi pubblicitari o link riferibili ad attività pubblicitaria di aziende farmaceutiche o tecnologiche operanti in campo sanitario; – non è ammessa la pubblicizzazione e la vendita, né in forma diretta, né, nel caso di Internet, tramite collegamenti ipertestuali, di prodotti, dispositivi, strumenti e di ogni altro bene o servizio; 6. Pubblicità e informazione sanitaria 275 – è consentito diffondere messaggi informativi contenenti le tariffe delle prestazioni erogate, fermo restando che le caratteristiche economiche di una prestazione non devono costituire aspetto esclusivo del messaggio informativo. 6) Pubblicità dell’informazione tramite Internet Per le forme di pubblicità dell’informazione tramite Internet, il professionista dovrà comunicare all’Ordine provinciale di iscrizione (in caso di strutture sanitarie tale onere compete al direttore sanitario) di aver messo in rete il sito, dichiarando la conformità deontologica alla presente linea-guida. 7) Utilizzo della posto elettronica L’utilizzo della posta elettronica (e-mail) nei rapporti con i pazienti è consentito purché vengano rispettati tutti i criteri di riservatezza dei dati e dei pazienti cui si riferiscono ed in particolare alle seguenti condizioni: – ogni messaggio deve contenere l’avvertimento che la visita medica rappresenta il solo strumento diagnostico per un efficace trattamento terapeutico e che i consigli forniti via e-mail vanno intesi come meri suggerimenti di comportamento; va altresì riportato che trattasi di corrispondenza aperta; – è rigorosamente vietato inviare messaggi contenenti dati sanitari di un paziente ad altro paziente o a terzi; – è rigorosamente vietato comunicare a terzi o diffondere l’indirizzo di posta elettronica dei pazienti, in particolare per usi pubblicitari o per piani di marketing clinici; – qualora il medico predisponga un elenco di pazienti suddivisi per patologia, può inviare messaggi agli appartenenti alla lista, evitando che ciascuno destinatario possa visualizzare dati relativi agli altri appartenenti alla stessa lista; – l’utilizzo della posta elettronica nei rapporti fra colleghi ai fini di consulto è consentito purché non venga fornito il nominativo del paziente interessato, né il suo indirizzo, né altra informazione che lo renda riconoscibile, se non per quanto strettamente necessario per le finalità diagnostiche e terapeutiche; – la disponibilità di sistemi di posta elettronica sicurizzati equiparati alla corrispondenza chiusa, può consentire la trasmissione di dati sensibili per quanto previsto dalla normativa sulla tutela dei dati personali. 276 8) Utilizzo Manuale della Professione Medica delle emittenti radiotelevisive nazionali e locali, di organi di stampa e altri strumenti di comunicazione e diffusione delle notizie Nel caso di informazione sanitaria, il medico che vi prende parte a qualsiasi titolo non deve, attraverso lo strumento radiotelevisivo, gli organi di stampa e altri strumenti di comunicazione, concretizzare la promozione o lo sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi. Il medico è comunque tenuto al rispetto delle regole deontologiche previste al punto 5) della presente linea-guida. Nel caso di pubblicità dell’informazione sanitaria il medico è tenuto al rispetto di quanto previsto ai punti 3) 4) e 5) della presente linea-guida. 9) Verifica e valutazione deontologica I medici chirurghi e gli odontoiatri iscritti agli albi professionali sono tenuti al rispetto della presente linea-guida comunicando all’Ordine competente per territorio il messaggio pubblicitario che si intende proporre onde consentire la verifica di cui all’art. 56 del Codice stesso. La verifica sulla veridicità e trasparenza dei messaggi pubblicitari potrà essere assicurata tramite una specifica autodichiarazione, rilasciata dagli iscritti, di conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi utilizzati alle norme del Codice di Deontologia medica e a quanto previsto nella presente linea-guida sulla pubblicità dell’informazione sanitaria. Gli iscritti potranno altresì avvalersi di una richiesta di valutazione preventiva e precauzionale da presentare ai rispettivi Ordini di appartenenza sulla rispondenza della propria comunicazione pubblicitaria alle norme del Codice di Deontologia medica. L’Ordine provinciale, ricevuta la suddetta richiesta, provvederà al rilascio di formale e motivato parere di eventuale non rispondenza deontologica. L’inosservanza di quanto previsto dal Codice secondo gli orientamenti della presente linea-guida è punibile con le sanzioni comminate dagli organismi disciplinari previsti dalla legge. La FNOMCeO predisporrà laddove opportuno ulteriori atti di indirizzo e coordinamento. 7 Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici F. Cembrani, S. Del Vecchio, S. Fucci edi, agni Art. 13 - Prescrizione e trattamento terapeutico La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impegna la diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non può che far seguito ad una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondato sospetto diagnostico. Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso. Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità. Il medico è tenuto a un’adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate. Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete. Art. 23 - Continuità delle cure Il medico deve garantire al cittadino la continuità delle cure. In caso di indisponibilità, di impedimento o del venir meno del rapporto di fiducia deve assicurare la propria sostituzione, informandone il cittadino. 278 Manuale della Professione Medica Il medico che si trovi di fronte a situazioni cliniche alle quali non sia in grado di provvedere efficacemente, deve indicare al paziente le specifiche competenze necessarie al caso in esame. Il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica. La prescrizione dei farmaci Il medico, nella sua attività clinica, entra in relazione con singole persone ognuna delle quali si caratterizza per una complessa identità che ricapitola in sé non solo la variabilità biologica ma anche altri peculiari elementi della sua realtà fisica, soggettiva, esistenziale, culturale e sociale. L’idea della vita, i valori e la spiritualità sono diversi nei vari individui così come il concetto di salute o di benessere e quello di malessere o di malattia, di guarigione e di trapasso. Il paziente, nel raccontare al medico la propria “storia di malattia”, descrive il significato soggettivo che i segni e i sintomi hanno per lui, esprime i suoi stati d’animo, le sue esperienze interiori, spesso distorte dalla sofferenza, e comunica le sue aspettative per il futuro. Questi elementi di divaricazione fra la malattia come viene vissuta dalla persona e quella che il medico si impegna a indagare e a trattare rendono non univoco il trasferimento della conoscenza medica nella pratica e obbligano ad una continua rielaborazione dei suoi contenuti attraverso un confronto con il sentire e con la cultura del paziente. La variabilità dei bisogni e delle aspettative della persona implica la necessità continua di scomposizione e ricomposizione della techne del medico in un processo di adattamento della conoscenza scientifica alla soggettività delle persone e alla molteplicità di presentazione delle malattie mantenendo inalterata la capacità relazionale in un rapporto di condivisione esistenziale e di comunicazione autentica. La scelta terapeutica Le attese del paziente Il paziente percepisce la malattia come una ferita psicofisica irrimediabile e talora insopportabile della propria integrità che lo rende insicuro e timoroso perché avverte che su di lui incombono disabilità, sofferenza e morte. Per 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 279 questo, si rivolge fiducioso al medico consapevole delle sue abilità e del fatto che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica mettono a disposizione sempre nuove opportunità per migliorare gli esiti di molte malattie. Al tempo stesso chiede al medico di essere considerato come una persona sofferente intensamente bisognosa di compassione, di altruismo e di empatia e non come un oggetto passivo sul quale riversare il suo sapere scientifico. Infine, auspica e pretende che il medico pratichi la sua professione senza condizionamenti e conflitti che compromettano la sua autonomia decisionale. L’alleanza terapeutica Gli orientamenti prescrittivi del medico sono influenzati dalla sua preparazione, dall’esperienza clinica, dalle suggestioni scientifiche, dalla mole d’informazioni disponibili, dai nuovi farmaci e dal desiderio di provarli. L’alleanza terapeutica si stabilisce all’atto della prescrizione di un trattamento, adatto alle specifiche esigenze del soggetto, allo scopo di migliorare o di ripristinare lo stato di benessere o di salute. La scelta è resa spesso più complessa dalla concomitanza di più patologie croniche, dai problemi psicologici e relazionali lavorativi e famigliari e dai fattori emotivi e culturali variamente intrecciati e combinati fra loro. Il processo relazionale bidirezionale che instaura con il paziente vincola il medico a prescrivergli ciò che è più confacente secondo scienza ed etica alle sue necessità e alla condizione biologica ed esistenziale nella quale si trova. Per questo tutto quanto appare utile per il bene del paziente diventa per il medico un mezzo che, rinforzando l’alleanza terapeutica, alimenta il processo di cura e di autocura. I condizionamenti del medico Stabilire un rapporto di feconda comunicazione bidirezionale nella fase di definizione e di successiva gestione della scelta è indispensabile perché l’esito della prescrizione non dipende solo dai contenuti scientifici ma anche dall’interazione fra il sistema di valori, verità, sensibilità, convinzioni e credenze del medico con quelle del paziente. La cura, sebbene sia scientificamente definita è, al tempo stesso, culturalmente aperta perché il farmaco deve essere “pensato” considerando tutti gli aspetti della vita di una persona che vanno oltre la realtà biologica del corpo vivente e della malattia. Il medico, attraverso la sua persona fisica, la sua cultura, la sua capacità relazionale ed 280 Manuale della Professione Medica empatica, diventa prescrizione di se stesso ed elemento decisivo dell’esito del trattamento. L’attenzione alla personalità del malato, alle condizioni del suo vivere, alla sua volontà di guarigione e al suo progetto di vita permette di dispiegare pienamente l’azione del farmaco che diventa mezzo ed espressione del “prendersi cura” da parte del medico. Il farmaco è un investimento affettivo, una promessa variamente modulata nella cultura delle diverse persone, una parola “magica”, un incantesimo biologico o un “miracoloso tocco salvifico”. Questo aspetto, difficilmente accessibile alla quantificazione e all’oggettivazione, presenta dei correlati neurobiologici corrispondenti agli effetti del placebo che, mentre devono essere neutralizzati nell’ambito della ricerca sulla efficacia dei farmaci nelle popolazioni, diventano un utile elemento che si genera nel contesto della relazione di cura dei singoli casi. Abdicare alla forza della comunicazione favorisce invece l’accesso al farmaco come dispendioso surrogato e scorciatoia puramente chimica della relazione con il paziente e della cura. La responsabilità condivisa della scelta permette di estendere il processo terapeutico, attraverso il conseguimento del benessere del singolo, al bene della società. L’atto prescrittivo coinvolge il medico nella responsabilità della gestione di risorse economiche attribuendo preziose valenze civili ed etiche al suo operato che, per essere orientato al bene comune, deve considerare l’uso appropriato delle risorse. La prescrizione nelle cure primarie Nell’assistenza primaria prevalgono patologie sfumate spesso autolimitantesi e di breve durata. Il quadro clinico appare spesso caratterizzato da una costellazione di segni e sintomi indifferenziati e disorganizzati e di disturbi nei quali elementi fisici, funzionali, psichici, sociali e comportamentali sono variamente intrecciati ed embricati fra loro. Spesso la malattia è osservata nella sua fase iniziale prima che il quadro clinico possa mostrarsi in tutta la sua completezza. Le situazioni più sfumate di malessere o di disagio soggettivo prevalgono sulle malattie nosograficamente definite. Il paziente ha un suo “modello profano di malattia” che condiziona il potere di negoziazione che esercita nel corso della consultazione con il medico. Il medico di famiglia deve spesso semplicemente comunicare ai pazienti che si aspettano un rimedio per ogni sintomo, che molti disturbi si autolimitano e non richiedono alcun intervento farmacologico. Le prescrizioni finalizzate a soddisfare il bisogno psicologico e di 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 281 rassicurazione di chi la richiede e di chi la prescrive, sono spesso insoddisfacenti, potenzialmente a rischio di reazioni avverse e fonte di sterile dilatazione della spesa. Anche quando la diagnosi è accurata e il trattamento univoco e universalmente accettato, non devono essere trascurati gli aspetti soggettivi del paziente e la relazione medico-paziente per evitare che una scarsa accettabilità e adesione al trattamento possano depotenziarne o vanificarne l’efficacia. La conoscenza scientifica come base della terapia La terapia fonda preferibilmente le previsioni sugli esiti che i trattamenti potranno avere nei singoli pazienti sulle conoscenze derivate dalla sperimentazioni clinica. Il RCT (Randomized Controlled Clinical Trial) ben disegnato e condotto rappresenta lo strumento metodologicamente più valido per ottenere la prova, entro i limiti di probabilità assegnati, che un trattamento è in grado di modificare favorevolmente il decorso naturale di una malattia in termini di riduzione della mortalità per tutte le cause e della morbilità causa specifica. La terapia è, al tempo stesso una disciplina storica o idiografica giacché trasferisce le conoscenze di carattere generale, ricavate su popolazioni selezionate, al singolo individuo che è un universo a sé stante, diverso da tutti gli altri, portatore di una storia localizzata nel tempo e nello spazio. La terapia è pertanto una scienza tecnologica e storica che realizza una sintesi fra i contenuti della conoscenza scientifica e le peculiarità della storia e della realtà clinica dell’individuo per decidere qual è la strada migliore da seguire per lui. Il RCT si colloca all’apice della gerarchia delle prove di efficacia (Tabella 7.1) perché, rispetto ad altri disegni di studio, si caratterizza per un rigore metodologico nelle fasi di pianificazione, conduzione e analisi dei risultati che rendono minimo l’effetto dei bias. Il bias o distorsione, è un errore sistematico che, introdotto consapevolmente o inconsciamente in qualsiasi stadio dell’inferenza, modifica una o più condizioni dell’esperimento in modo tale da condurre a conclusioni diverse da quelle verso le quali si dirigerebbe se l’unica differenza fra i gruppi fosse rappresentata dai trattamenti a confronto. Gli strumenti metodologici adottati nella progettazione degli studi per tenere sotto controllo e ridurre al minimo gli errori sistematici comprendono la randomizzazione, la cecità, i criteri d’inclusione e di esclusione, la completezza del follow-up e l’analisi dei risultati con l’approccio intention-to-treat. La randomiz- 282 Manuale della Professione Medica zazione è una procedura che garantisce a tutti i pazienti la stessa probabilità di essere assegnati a uno qualunque dei gruppi di trattamento a confronto. L’assegnazione casuale, se la numerosità del campione è adeguata, permette che i fattori che influiscono sulla prognosi (ad esempio sesso, età, gravità della malattia, fattori di rischio, patologie concomitanti) e tutti gli altri fattori, la cui natura e identità non sono conosciute, si distribuiscano omogeneamente fra i gruppi di trattamento. Rappresenta inoltre la conditio sine qua non per l’applicazione delle inferenze statistiche che permettono di stabilire il rapporto causaeffetto fra il trattamento in studio e i risultati ottenuti. Gli studi ben disegnati e realizzati da ricercatori qualificati in condizioni organizzativo-assistenziali ottimali che confrontano il trattamento attivo con il placebo o contro il trattamento di riferimento su popolazioni molto selezionate e omogenee (ad es. limitando l’arruolamento a ristretti ambiti di gravità della malattia, eliminando i pazienti più “complessi” per comorbilità e/o polifarmacoterapia, oppure i soggetti in condizioni generali scadute, gli anziani, le donne in gravidanza o che allattano e i bambini), si caratterizzano per un’elevata validità interna che dimostra l’efficacia del trattamento in condizioni sperimentali ideali (efficacy). Le conclusioni degli studi di efficacy sono generalizzabili esclusivamente a pazienti simili a quelli ammessi allo studio che sono però scarsamente rappresentativi dell’universo dei pazienti affetti dalla malattia. Pertanto la loro validità esterna , ossia la trasferibilità delle loro conclusioni a popolazioni differenti e in contesti assistenziali diversi, è molto limitata. Gli studi di effectiveness (Tabella 7.2) valutano invece l’efficacia dei trattamenti in popolazioni molto più simili a quelle che s’incontrano nelle condizioni assistenziali correnti. I pragmatic trial si prefiggono di dimostrare se un trattamento dotato di efficacy è anche efficace in condizioni assistenziali simili al setting dell’assistenza primaria (effectiveness). Questi studi hanno criteri di inclusione meno selettivi che rendono i pazienti arruolati molto simili a quelli della pratica corrente, confrontano regimi terapeutici più flessibili e gli sperimentatori che li eseguono operano in modo comparabile a quello che vige nella realtà assistenziale abituale. Le conclusioni dei pragmatic trial sono però più facilmente generalizzabili ai pazienti esterni agli studi. È spesso difficile tracciare una linea netta di demarcazione fra studi di efficacy e di effectiveness. In effetti, quasi sempre coesistono nello stesso studio caratteristiche di entrambe le metodiche che risultano di volta in volta più o meno accentuate. Per questo motivo, per valutare la generalizzabilità o validità 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 283 esterna di un trial, è necessario verificare quanto l’eccesso di validità interna ne restringa l’applicabilità ai pazienti del “mondo reale”. Nella modalità di analisi dei risultati di uno studio con l’approccio statistico intention-to-treat viene considerato il numero di eventi osservati in ciascun braccio rispetto a tutti i pazienti randomizzati, senza tener conto dell’adesione al protocollo. In questo modo viene fornita una valutazione più realistica dell’efficacia del trattamento perché più attinente alla pratica clinica corrente nell’ambito della quale è frequente l’inosservanza del programma terapeutico. Efficienza farmacologica, efficacia clinica Gli end point degli studi clinici più rilevanti per la pratica terapeutica sono rappresentati dalla riduzione della mortalità per tutte le cause, dal prolungamento della sopravvivenza, dalla riduzione degli eventi clinici legati alle complicanze indotte dalla malattia di base (ad es. infarto, reinfarto, ictus, fratture ecc.), dalla capacità del paziente di mantenere uno stile di vita attivo (assenza di limitazione dell’autonomia e di disabilità), dalla qualità della vita e da un minore ricorso al ricovero ospedaliero o alla chirurgia. I trials che studiano gli end point clinici sono definiti terapeutici o di efficacia clinica. Gli studi che adottano parametri di efficienza farmacologica, surrogati rispetto a quelli primari o clinici, ad es. l’aumento della massa ossea e non l’incidenza di fratture, la riduzione della pressione arteriosa o del colesterolo piuttosto che una minore incidenza degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali, sono detti conoscitivi o di efficienza farmacologica e portano a conclusioni più fragili. Infatti, nonostante le loro conclusioni appaiano spesso ragionevolmente affidabili alla luce delle conoscenze dei meccanismi fisiopatologici della malattia e delle osservazioni epidemiologiche, non sempre esiste un rapporto lineare fra l’end point surrogato e quello primario e quindi non sono necessariamente predittivi della capacità di ridurre l’incidenza degli eventi clinici che s’intende prevenire o rimandare. Quindi una valutazione della rilevanza di un RCT può essere fatta considerando alcuni criteri essenziali che sono riassunti nella Tabella 7.3. Per dimostrare l’efficacia “nel mondo reale”, sono spesso disegnati studi di tipo osservazionale che, rispetto ai trials, occupano un livello inferiore nella gerarchia delle evidenze (Tabella 7.4). I risultati degli studi osservazionali devono essere valutati con la dovuta circospezione perché tendono a sovrastimare quasi sempre l’efficacia dei trattamenti e spesso non sono confermati da studi sperimentali. 284 Manuale della Professione Medica Terapia ed EBM La medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence Based Medicine, EBM) propone che le decisioni cliniche, nell’assistenza al singolo paziente, devono risultare dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori prove di efficacia scientifiche disponibili, nel rispetto dell’autonomia del medico e delle preferenze del paziente. L’EBM vincola il medico a fondare le sue scelte su criteri scientifici, oggettivi e riproducibili per evitare che utilizzi pratiche e cure superate, inutili o più dannose di quelle che un’accurata analisi della letteratura potrebbe consentire. I risultati dei RCT possono essere esaminati nella loro globalità in revisioni sistematiche spesso combinate in una metanalisi che fornisce una stima complessiva e quantitativa dell’efficacia di un trattamento. Questa modalità di analisi non può tuttavia correggere la qualità e l’eterogeneità dei dati che esamina e che include, e, quindi non tutte le conclusioni delle metanalisi garantiscono il massimo livello di evidenza (Tabella 7.4). La qualità dei risultati di una metanalisi è condizionata dal rigore metodologico e dai procedimenti statistici adottati. La letteratura scientifica è pletorica e in larga misura irrilevante per la pratica clinica. Il medico riceve informazioni spesso discordanti che potrebbe valutare autonomamente e in modo critico solo se dotato di una preparazione tale da consentirgli di identificare gli articoli scientifici o le metanalisi di buona qualità e di comprendere la loro rilevanza per la pratica clinica. Non essendo realistico pensare di insegnare a tutti i medici come ricercare e interpretare RCT e metanalisi, assume grande importanza pratica la letteratura secondaria rappresentata da sintesi strutturate e commentate di facile e rapida consultazione dei principali RCT e delle metanalisi più attuali redatte da parte di esperti indipendenti. Da notare che articoli scientifici, consensus conferences, editoriali, consigli di colleghi, informatori farmaceutici, linee-guida possono contenere in misura maggiore o minore errori sistematici o essere gravate da pesanti conflitti d’interesse. L’analisi dei comportamenti prescrittivi indica spesso l’esistenza di una “sintonia” fra il comportamento prescrittivo e gli obiettivi di mercato delle industrie. Esiste un’inconsapevolezza diffusa nei medici del fatto che i messaggi promozionali e le ricompense di vario tipo inducono pregiudizi e perdita dell’autonomia di giudizio. Non tutti conoscono e apprezzano la metafora del porcospino. Una novella inglese narra la vita di questi animali durante il freddo inverno. I porcospini, nelle loro tane, si avvicinano l’un l’altro per scaldarsi. 285 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici Sono però consapevoli del fatto che, se l’abbraccio diventa troppo stretto, si pungono. Anche medici e industria hanno bisogno l’uno dell’altro, ma, se si avvicinano troppo, rischiano di compromettere la reciproca integrità e libertà. In molte aree della medicina non esistono ricerche di buona qualità e numerose e ampie sono le zone grigie nelle quali non è possibile assumere decisioni corroborate da solide dimostrazioni scientifiche. Nella pratica corrente i trattamenti prescritti sono solo in parte basati su prove di efficacia convincenti e spesso fanno riferimento a evidenze più fragili o incerte. Trattamenti, basati su conoscenze di fisiopatologia e di farmacologia, possono essere considerati efficaci nella pratica clinica se sono stati confermati da un’esperienza diretta vasta e condivisa. Si tratta di una circostanza (Tabella 7.4) che risponde al criterio all or none che fa riferimento alle condizioni cliniche nelle quali tutti i pazienti non trattati muoiono e una parte di quelli trattati sopravvive, oppure, una parte dei pazienti non trattati muore e tutti quelli trattati sopravvivono (livello di evidenza 1c). Infine, nelle condizioni in cui non sono disponibili trattamenti in grado di modificare la storia naturale della malattia, tutti gli interventi devono mirare a limitare la sofferenza. Tabella 7.1. Gerarchia dei disegni degli studi Disegno dello studio Più forti Descrizione Assegnazione casuale Esperimento randomizzato, ai gruppi di trattamento a confronto, follow-up controllato prospettico per misurare gli esiti clinici Studi clinici controllati ma non randomizzati Assegnazione non casuale dei pazienti ai gruppi di intervento e di controllo, follow-up prospettico per misurare gli esiti clinici Vantaggi Svantaggi Distribuisce le caratteristiche dei partecipanti oggetto di misurazione e quelle non soggette a misurazione in modo omogeneo fra i gruppi a confronto • Necessita di molto tempo • Consuma molte risorse • Difficoltà a ottenere il consenso alla partecipazione allo studio La misurazione prospettica degli outcome rappresenta un punto di forza • L’assegnazione non at random può rappresentare un bias • I paziente con maggiori probabilità di risposta potrebbero essere assegnati preferibilmente nel gruppo intervento 286 Disegno dello studio Più deboli Manuale della Professione Medica Descrizione Vantaggi Studi di coorte Gruppi di pazienti prospettici che ricevono il trattamento di interesse o quello di controllo indipendentemente dall’intervento attivo dello sperimentatore, seguiti prospetticamente per studiare gli esiti clinici La valutazione prospettica degli outcome rappresenta un punto di forza Studi di coorte Studia gruppi di retrospettivi pazienti che hanno ricevuto il trattamento di interesse o il controllo indipendentemente dall’intervento attivo dello sperimentatore e determina retrospettivamente se hanno presentato gli esiti clinici di interesse Può essere concluso rapidamente perchè gli outcome si sono già verificati. Svantaggi • Bias: le caratteristiche cliniche dei pazienti influenzano il trattamento che ricevono • Spesso presenti fattori di confondimento Studi caso-controllo Studia 2 gruppi di pazienti dei quali uno ha avuto l’outcome di interesse (casi) e l’altro che non lo ha presentato (controlli) valutando la proporzione in ciascun gruppo di coloro che hanno ricevuto il trattamento oggetto di studio Serie di casi Descrizione degli esiti in • singoli pazienti o in serie di pazienti che hanno • ricevuto un trattamento particolare • Bias: le caratteristiche cliniche dei pazienti influenzano il trattamento che ricevono • Sono spesso presenti fattori di confondimento • La valutazione retrospettiva degli outcome è spesso difficile • Possibile bias di • Possono essere memoria riguardo ultimati rapidamente l’esposizione perché non si devono attendere gli esiti • Utili quando l’outcome di interesse è raro • Assenza del gruppo di controllo e numeri piccolo che impediscono di testare ipotesi Utili per individuare le reazioni avverse Generano ipotesi di ricerca 287 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici Tabella 7.2. Differenze tra studi clinici di efficacy e di effectiveness Studio di efficacy Studio di effectiveness Disegno dello studio RCT RCT, studi osservazionali caso-controllo e di coorte Assegnazione dei pazienti Randomizzata Randomizzata (RCT), decisa dal curante (studi osservazionali) Setting Standard organizzativo-assistenziali ideali (Università, ospedali, istituti di ricerca) Contesto assistenziale “reale”, cure primarie Professionisti ricercatori Specialisti con addestramento ed esperienza elevati Medici delle cure primarie Popolazione Più omogenea Più eterogenea Pazienti Altamente selezionati e motivati Esclusione dei pazienti complessi Praticamente tutti Criteri di esclusione limitati Trattamento di controllo Placebo o terapia standard Qualsiasi, anche assenza di trattamento o trattamento non farmacologico Modalità di trattamento Definite da un protocollo rigoroso (più standardizzate) Più variabili e flessibili secondo i criteri della pratica corrente Misure di esito Surrogate (modifiche di parametri strumentali e di laboratorio) o clinicamente rilevanti (morbilità e mortalità) Cliniche (morbilità e mortalità) Soggettive del paziente Costi diretti e indiretti, individuali e sociali Attendibilità Elevata per outcomes clinici Elevata per outcomes soggettivi Conclusioni Causalità Causalità (RCT), associazioni, correlazioni e stime (studi osservazionali) Validità interna Elevata Inferiore Validità esterna Inferiore Elevata e rilevante per il paziente Fornisce indicazioni per l’allocazione delle risorse Generalizzabilità Limitata ad una popolazione specifica e selezionata Ampia per molti pazienti Costi di esecuzione Generalmente alti Variabili, ma relativamente bassi 288 Manuale della Professione Medica Tabella 7.3. Domande per stabilire la rilevanza terapeutica delle conclusioni di uno studio. 1. Qual è l’obiettivo dello studio (end point clinico o surrogato)? 2. Qual è il disegno dello studio (sperimentale o osservazionale)? 3. Quale intervento o terapia è stata studiato? 4. I ricercatori hanno tenuto sotto controllo i fattori di confondimento? 5. In che modo è stato selezionato il campione studiato? 6. Chi sono i soggetti studiati e sono stati seguiti tutti fino al termine dello studio? 7. I risultati sono stati analizzati per l’intention to treat? 8. I risultati dello studio sono clinicamente significativi? Tabella 7.4. Livelli di efficacia delle evidenze scientifiche Livello di evidenza 1a 1b 1c 2a 2b 2c 3a 3b 4 5 Tipo di studi dai quali è stata ottenuta la validità delle prove di efficacia Metanalisi di RCT senza eterogeneità* Singolo RCT con intervallo di confidenza ristretto Criterio all or none (tutti o nessuno): prima della disponibilità del trattamento tutti i pazienti morivano o peggioravano mentre con il nuovo trattamento una parte sopravvive o migliora; oppure: una parte dei pazienti non trattati muoiono o peggiorano mentre nessuno fra quelli che seguono la nuova terapia muore o peggiora Una metanalisi con omogeneità* di studi di coorte Almeno uno studio di coorte di qualità elevata o un RCT di bassa qualità (ad es. quelli con follow-up in meno dell’80%) Studi post-marketing di outcome Una metanalisi con omogeneità* di studi caso-controllo Singolo studio caso-controllo di qualità elevata Almeno una serie di casi di qualità elevata (o studi di coorte e caso-controllo di scarsa qualità) Opinione di esperti, senza riferimento a una delle evidenze dei livelli precedenti, basata sulla fisiopatologia o su ricerche di base o su principi generali *omogeneità: si riferisce a studi numerosi che forniscono stime ampiamente concordanti per l’effetto del trattamento. Le raccomandazioni basate su quest’approccio si applicano al paziente “normale” e possono essere modificate alla luce delle caratteristiche individuali e alle preferenze del paziente. 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 289 La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione Le linee-guida (LG), elaborate attraverso un processo di analisi sistematica delle migliori prove di efficacia disponibili in letteratura, sono uno strumento di sintesi delle conoscenze scientifiche che definisce raccomandazioni di comportamento clinico per assistere il medico nella gestione più appropriata della prevenzione, della diagnosi e della terapia nel singolo paziente. Le LG di buona qualità si caratterizzano per la flessibilità e per la buona adattabilità al contesto clinico e alle peculiarità dei diversi pazienti. Il medico non deve interpretare rigidamente le LG né applicarle senza tener conto delle caratteristiche e delle esigenze personali dei singoli pazienti. Dato che le raccomandazioni sono di tipo probabilistico, raramente possono riguardare tutti i pazienti e le varie situazioni cliniche. Le LG vanno viste come un aiuto alle decisioni cliniche e non come un fattore vincolante e limitante la libertà clinica, può essere lecito e doveroso discostarsi in maniera motivata da quanto suggerito da una LG. La qualità e l’affidabilità delle raccomandazioni di una LG può essere condizionata dai limiti metodologici o dall’eterogeneità dei risultati degli studi sui quali si basa. In questi casi deve essere valutato il rischio che sia lasciato troppo spazio alle interpretazioni fisiopatologiche o alle opinioni e all’esperienza personale dei componenti del gruppo di stesura. Infine, le LG possono essere condizionate da conflitti d’interesse che possono riguardare in varia misura il medico, gli amministratori pubblici o le Società Scientifiche. Le LG esistenti sono di qualità molto diversa, talora sono troppo complicate da seguire e devono essere sempre adattate al contesto assistenziale nel quale si opera. Il processo terapeutico La terapia consiste nell’assegnazione degli interventi – farmacologici, chirurgici, psicoterapeutici o di altra natura (stili di vita, abitudini voluttuarie, dieta) – convenientemente adattati alle specifiche esigenze e alle caratteristiche individuali, allo scopo di conservare la salute, di ripristinare uno stato di benessere, di alleviare le sofferenze o di correggere le disabilità. La prescrizione di farmaci è condizionata dal fatto che essi non sono efficaci in tutti i casi nei quali sono indicati e non sono sempre adattabili alle caratteristiche del singolo soggetto. 290 Manuale della Professione Medica La terapia può essere: 1) etiologica o risolutiva: fa ottenere la guarigione eliminando l’agente causale; 2) fisiopatologica e/o patogenetica: modifica la situazione indotta dalla malattia prevenendo complicazioni e ritardando progressione e ricadute senza eliminare la causa; 3) sintomatica: risolve o attenua le manifestazioni della malattia senza interferire con le sue cause; 4) profilattica o preventiva: previene l’insorgere o il progredire di una malattia; 5) riabilitativa: corregge le disabilità; 6) palliativa: allevia le manifestazioni della malattia senza influenzarne il decorso. Il processo decisionale da seguire nella scelta terapeutica prevede una serie di valutazioni successive e ordinate in una sequenza razionale: 1) Formulare, se possibile, la diagnosi: l’obiettivo è di prescrivere nella misura maggiore possibile per diagnosi e non per sintomi il cui trattamento è peraltro più appropriato se avviene dopo averne individuate le cause. Se una terapia espone a gravi reazioni avverse è necessario avere un livello di certezza della diagnosi elevato. La soglia di probabilità diagnostica può essere più bassa nel caso di terapie meno impegnative. In condizioni di gravità clinica può essere necessario iniziare un trattamento senza attendere gli esiti di ulteriori indagini se il suo prevedibile effetto favorevole supera ampiamente i rischi o i danni che deriverebbero dalla sua mancata adozione. Lo stesso atteggiamento è giustificato se un test di conferma diagnostica richiede una procedura invasiva, di non facile realizzazione o se la disponibilità del risultato richiede un’attesa troppo lunga. Viceversa una diagnosi precisa è indispensabile quando sia disponibile un trattamento altamente specifico ma inefficace in altre patologie. La definizione della diagnosi consente di sapere quali sono le probabilità di risoluzione spontanea del quadro clinico, di valutare i rischi che il paziente corre in assenza di terapia e di ponderare i benefici e i rischi degli interventi terapeutici possibili. Se anamnesi e dati clinici sono insufficienti a formulare una diagnosi precisa e l’approfondimento diagnostico è di difficile programmazione o d’incerta definizione, si può ricorrere a un trattamento “ragionato”. L’adozione del criterio dei remedia ex adjuvantibus indica la decisione di intraprendere una terapia non suffragata da prove 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 291 cliniche. La prescrizione di una terapia ex adjuvantibus è lanciata come una sonda diagnostica per confermare o escludere l’ipotesi formulata. Il medico aggira l’ostacolo avvalendosi della complicità del paziente al quale espone i vantaggi possibili e i limiti oggettivi del tentativo proposto che potrebbe rivelarsi inidoneo a formulare la diagnosi e/o a risolvere il problema. Tuttavia, in caso di successo, l’esito favorevole potrebbe essere attribuito all’efficacia del trattamento a conferma del sospetto diagnostico, ma potrebbe anche trattarsi di una guarigione spontanea indipendente dalla cura somministrata. Una risposta favorevole solo sui sintomi potrebbe però procrastinare inutilmente e pericolosamente la diagnosi vera con possibili ripercussioni negative sulla prognosi. Questo rischio va attentamente valutato prima di procedere con il criterio ex adjuvantibus. 2) Definire gli obiettivi del trattamento: significa identificare gli outcomes clinicamente significativi che permettono di selezionare adeguatamente i trattamenti capaci di far raggiungere gli esiti attesi. Il requisito chiave dell’efficacia fa riferimento alla capacità di un trattamento di modificare in senso favorevole la storia naturale della malattia prolungando la sopravvivenza e/o migliorando la qualità della vita. 3) Definire l’approccio terapeutico: significa decidere qual è il modo migliore per raggiungere gli obiettivi che si sono stabiliti. In prima istanza deve essere esaminata la possibilità di adottare un trattamento farmacologico o non farmacologico. L’approccio terapeutico deve sempre ricomprendere l’educazione all’autogestione della malattia, l’allontanamento dei fattori scatenanti, le modificazioni dello stile di vita (esercizio fisico, uso di sostanze psicotrope, fumo di sigaretta) e della dieta. Tutti questi interventi possono anche essere in grado di risolvere da soli il problema senza ricorrere ai farmaci. Anche la sospensione di farmaci che il paziente sta assumendo può essere utile. Le probabilità di successo di un trattamento farmacologico sono sempre utilmente integrate dai trattamenti non farmacologici e dalle modificazioni degli stili di vita. Inoltre gli obiettivi terapeutici sono spesso più efficacemente perseguiti associando al trattamento principale altri farmaci che concorrono a ridurre il peso degli altri fattori di rischio sugli esiti della malattia. 4) Selezionare la classe di farmaci: per ogni obiettivo terapeutico possono essere disponibili classi farmacologiche diverse. I b-bloccanti, ad esempio, hanno dimostrato di possedere l’effetto farmacologico di 292 Manuale della Professione Medica ridurre la pressione arteriosa, ma altri farmaci antipertensivi hanno dimostrato di essere più efficaci nel ridurre l’incidenza di ictus, infarto miocardico e mortalità per eventi cardiovascolari, soprattutto negli anziani. Pertanto i b-bloccanti non possono essere considerati farmaci di prima linea nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Tuttavia, nei soggetti di età superiore a 60 anni che già assumono altri due o tre farmaci per la pressione arteriosa elevata e non riescono ad avere un buon controllo, un b-bloccante può essere aggiunto come terza o quarta molecola se necessario. Per contro se oltre alla pressione elevata ci si trova di fronte a pazienti portatori di malattia coronarica o di scompenso cardiaco i b-bloccanti possono essere farmaci di prima scelta. In un paziente che presenti ipertensione arteriosa e angina stabile, i b-bloccanti hanno dimostrato di essere superiori ai calcioantagonisti. 5) Scegliere il farmaco più adatto all’interno della classe di appartenenza: sebbene i farmaci siano suddivisi in classi terapeutiche è inesatto e ingiustificato asserire l’esistenza di un effetto di classe secondo il quale tutti i componenti di una classe sono equivalenti e quindi intercambiabili. Ogni classe comprende più farmaci con caratteristiche simili dei quali devono essere conosciute l’efficacia e la tollerabilità per valutare i benefici attesi e i rischi da correre per ottenerli. Anche nella scelta di un farmaco all’interno di una classe, deve essere preferito il criterio dell’efficacia e della tollerabilità della singola molecola documentato da studi su end points clinici di morbilità e mortalità, spesso disponibili solo per alcuni di essi e solo raramente derivati da studi di confronto. Inoltre, pur essendo molecole simili, differenze salienti riguardanti gli aspetti farmacocinetici e farmacodinamici potrebbero influire sugli effetti terapeutici. 6) Definire la dose e il regime terapeutico: sebbene in molti casi si faccia riferimento alle dosi standard come ad esempio nel caso degli inibitori di pompa protonica o negli antiaggreganti piastrinici, non è bene usare il farmaco alla stessa dose e col medesimo regime terapeutico in tutti i casi ma alla posologia che garantisca il raggiungimento della concentrazione adeguata nel sito di azione e per il tempo necessario in modo da garantire la produzione dell’effetto terapeutico. Per questi motivi la posologia, data la variabilità interindividuale, deve essere adattata al singolo paziente e modificata nel corso del trattamento, se necessario, per ottenere le risposte desiderate. 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 293 7) Personalizzare il trattamento: la gravità della malattia, la farmacocinetica, la farmacodinamica e le condizioni individuali (età, gravidanza, allattamento o epoche feconde della vita, rischio lavorativo, stile e ambiente di vita, comorbilità) impongono scelte più personalizzate specialmente in presenza di alterazioni funzionali dei recettori o degli organi deputati all’escrezione dei farmaci. Devono, inoltre, essere evitate le interazioni farmacologiche sfavorevoli e ponderato il rischio di reazioni avverse in relazione alla probabilità che hanno di verificarsi e alla loro potenziale gravità. I benefici probabili e il profilo di tollerabilità del trattamento devono essere infine confrontati con l’accettabilità e la fruibilità da parte del paziente. A parità di efficacia, preferire farmaci con un profilo di sicurezza più favorevole, più semplici da essere assunti e meno costosi. 8) Modulare la polifarmacoterapia: la presenza di più patologie, disturbi e/o fattori di rischio può indurre all’impiego concomitante di più trattamenti e dalla prescrizione di più farmaci di quelli clinicamente indicati. Un’accurata revisione della polifarmacoterapia si basa su cinque elementi: associare il farmaco con la diagnosi corrispondente, individuare i duplicati terapeutici, interrogare il paziente sui farmaci realmente assunti compresi i prodotti da banco, gli “integratori” e i prodotti di erboristeria, rivedere i parametri di laboratorio e l’anamnesi del paziente in relazione all’efficacia e alla tossicità del regime terapeutico adottato, sforzarsi di escludere i farmaci non necessari. 9) Scegliere gli indici di monitoraggio di efficienza farmacologica, di efficacia terapeutica e di tollerabilità: il monitoraggio della terapia permette di adeguare la posologia, di rivalutare il piano terapeutico o di evitare di prolungare i trattamenti quando sono diventati inutili e di contribuire alla riduzione dell’incidenza delle reazioni avverse. In alcune situazioni il monitoraggio è facilmente ripetibile e di basso costo come ad esempio il controllo della pressione arteriosa o della glicemia e dell’emoglobina glicosilata. Gli indici per il monitoraggio degli effetti collaterali vanno invece definiti caso per caso e possono essere spesso diversi da quelli riguardanti la risposta terapeutica. Il monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche dei farmaci con ristretto margine terapeutico è indispensabile per evitare di incorrere nei due estremi sfavorevoli e opposti: il mancato raggiungimento della dose minima efficace e il superamento della soglia di tossicità. Il monitoraggio plasmatico è essenziale per i farmaci soggetti ad ampia variabilità farmacocinetica inte- 294 Manuale della Professione Medica rindividuale o in situazioni come gravidanza, infanzia e vecchiaia o di patologie degli organi deputati alla metabolizzazione ed eliminazione dei farmaci. 10)Fornire informazioni chiare e dettagliate, istruzioni e avvertenze al paziente sulla pianificazione del monitoraggio clinico e di laboratorio e/o strumentale. 11)Valutare lo stato funzionale del paziente e la soddisfazione globale: le modificazioni funzionali derivate dal trattamento possono indurre una scarsa adesione o addirittura una sospensione della terapia. Il medico deve discutere di queste variazioni con il paziente, correggere, se possibile, quelle più difficilmente sopportabili, e collocare nella prospettiva dei veri obbiettivi della terapia vantaggi e svantaggi del trattamento per sviluppare e consolidare l’alleanza terapeutica. 12)Valutare l’adesione alla terapia, rivalutare periodicamente la situazione clinica e i fattori prognostici, attuare gli aggiustamenti necessari, ottimizzare l’adesione alle terapie e consolidare l’alleanza terapeutica: L’adesione al trattamento, che è parte integrante della relazione medico paziente, può essere definita come la misura del comportamento messo in atto dal paziente rispetto al programma terapeutico stabilito e condiviso con il medico. Si stima che l’adesione, anche per trattamenti la cui prescrizione è solidamente fondata su solide prove di efficacia, sia variabile fra il 40 e il 50%. Questi livelli poco soddisfacenti compromettono il conseguimento degli obiettivi terapeutici del singolo paziente e di outcome clinici rilevanti nelle popolazioni. La scarsa adesione non può essere imputata totalmente al paziente, anche il medico deve opportunamente interrogarsi sulla sua parte di responsabilità. Dato che l’adesione al trattamento non è prevedibile, assumono un’importanza critica tutti gli interventi orientati ad abbattere le barriere e gli ostacoli che la rendono di difficile realizzazione. 13)Programmare la durata della terapia e le modalità di sospensione: è importante preventivare il momento più appropriato per interrompere un trattamento. L’interruzione deve essere programmata, a seconda del tipo di farmaco, con una graduale riduzione della posologia per evitare la sindrome da astinenza nel caso degli oppiacei maggiori e la sindrome da sospensione dell’antidepressivo paroxetina caratterizzata da capogiri, disturbi del sonno e turbe comportamentali e i fenomeni di rimbalzo dovuti alla brusca interruzione dei cortisonici o dei b-bloccanti. 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 295 L’appropriatezza prescrittiva L’irrompere sulla scena della dimensione economica ha messo il sistema sanitario di fronte alla necessità di coniugare l’ambizione etica di fornire prestazioni di qualità elevata con l’attenzione ai costi imposta dalla scarsità delle risorse disponibili. L’appropriatezza valuta i benefici attesi o probabili degli atti medici in relazione ai costi certi che la loro scelta comporta e rispetto alle risorse disponibili. Comporta anche un confronto con quanto altri interventi avrebbero permesso di conseguire grazie ad una diversa combinazione nell’impiego dello stesso ammontare di risorse. Persegue quindi l’obiettivo di raggiungere risultati di salute predefiniti e compatibili con le risorse disponibili e non il mero contenimento dei costi. L’appropriatezza clinica definisce il comportamento giusto e congruo del medico rispetto alle necessità di un individuo allo scopo di attribuirgli e prescrivergli ciò che gli è più confacente nell’ambito di scelte qualitativamente conformi ai processi relazionali intersoggettivi instaurati. Devono essere sempre soppesati i benefici ragionevolmente conseguibili di ogni trattamento e i rischi proporzionalmente giustificabili rispetto alla capacità di influenzare favorevolmente il decorso della malattia e la qualità della vita della persona. La prescrizione di un trattamento è il trasferimento dei risultati della ricerca a pazienti esterni agli studi con caratteristiche cliniche paragonabili nei quali è ragionevole aspettarsi un risultato favorevole, sebbene nessuno sia in grado di prevedere se il singolo paziente rientrerà fra chi ne trarrà reale beneficio. La terapia è una scienza tecnologica e storica che non garantisce che una legge universale si ripeta sempre nel particolare e nessuno può essere sicuro che il ripetibile si riprodurrà nel caso che ci apprestiamo a trattare. Il medico, sebbene ricavi preziose informazioni dalla molteplicità, guarda all’unicità del caso e considera tutto ciò che gli appare utile secondo scienza ed etica per il bene del paziente come economicamente giustificato e giustificabile. L’appropriatezza sanitaria prende in esame, invece, il percorso diagnostico e terapeutico adottato dal medico, i suoi esiti e i suoi costi. Il medico, come soggetto, è sostituito dal “procedimento” che ha messo in atto e il malato dai “dati” sui benefici conseguiti. Medico e malato sono a loro volta valutati con riferimento ai costi sostenuti per cui il criterio guida dell’appropriatezza sanitaria diventa la rispondenza economica. Per verificare se i risultati ottenuti sono appropriati rispetto alle risorse impie- 296 Manuale della Professione Medica gate, sono analizzati indicatori, statistiche e ricerche sugli esiti degli interventi. L’appropriatezza nella sua dimensione sanitaria rappresenta una delle nuove “ragioni tecniche” che incombono sulla libertà di scelta del medico quando decide ciò che è appropriato per il suo paziente. Nell’appropriatezza sanitaria l’obiettivo è la tutela della salute nella popolazione conformemente alle disponibilità economiche e la sua gestione è delegata a un insieme di competenze multidisciplinari in grado di rispondere alle complesse e molteplici esigenze del sistema sanitario (amministratori, ricercatori, epidemiologi, economisti, medici con funzioni di controllo). L’appropriatezza decisa all’interno di procedure standard, di percorsi pre-definiti o di LG spesso differisce da quella del clinico perché diverse sono le inferenze e gli elementi in base ai quali viene formulato il giudizio sul singolo. Gli enunciati significanti dell’appropriatezza in ambito clinico sono rappresentati dal risultato congetturale d’inferenze cliniche ed etiche, mentre in ambito sanitario rappresentano una sintesi fra le inferenze statistico-epidemiologiche e le esigenze economiche della collettività. Il problema nasce nel momento in cui le due inferenze, applicate al singolo caso, divergono e collidono perché basate su concezioni differenti di ciò che è rilevante. Di fronte alle esigenze dell’appropriatezza sanitaria e alle necessità cliniche del malato è pertanto necessario chiarire qual è il prezzo (in termini di equità) che la società è disposta a pagare per ottenere una maggiore appropriatezza e il costo etico e professionale sopportabile da parte dei medici di medicina generale per garantire un sistema sanitario economicamente più efficiente. Il medico come prescrittore pubblico Il Sistema Sanitario rimborsa i trattamenti sulla base della dimostrata efficacia in studi clinici e di criteri economici. In altre parole sceglie i farmaci che dimostrano un vantaggio su popolazioni selezionate a costi accettabili. Il medico è pertanto chiamato a valutare a norma e a decidere se la soluzione più appropriata per la sanità pubblica è applicabile alla realtà clinica del singolo malato. Se il paziente soddisfa queste caratteristiche, il trattamento è prescrivibile e rimborsabile, è cioè ritenuto giusto e corretto. Sebbene la medicina generale condivida la razionalità scientifica sulla quale si fonda l’EBM e apprezzi il fatto che sia stata adottata come metodologia per la selezione dei farmaci e delle loro indicazioni terapeutiche, è tuttavia ben consapevole che essa costituisce solo uno degli strumenti utili per 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 297 esercitare la sua disciplina. Aspira pertanto a sottrarsi da un’applicazione meccanicistica dei suoi contenuti probanti sia che ciò avvenga per scelta autonoma sia che derivi dal condizionamento autoritativo della sanità pubblica per evitare di ledere e deformare il contenuto della sua techne. La variabilità biologica, infatti, si esprime molto spesso in quadri clinici diversi da quelli dei pazienti arruolati negli studi clinici che hanno concorso a definire la rimborsabilità di un farmaco e, spesso, il medico di medicina generale impatta in condizioni e situazioni nelle quali le prove di efficacia sono troppo fragili o mancano del tutto. I trattamenti di documentata efficacia sono prescritti per periodi molto più prolungati rispetto alla durata degli studi clinici in assenza di documentazioni adeguate. L’elevata incidenza di comorbilità spesso porta a utilizzare più farmaci senza che sia dimostrato se l’associazione è benefica e in che misura o se i vantaggi dimostrati dai farmaci impiegati singolarmente si sommano quando siano utilizzati insieme. Ciò che va bene per una malattia non è detto che sia sempre la migliore soluzione per il malato e nessuno è in grado di prevedere se il singolo paziente rientrerà fra chi trarrà un vantaggio reale. Il paziente ha una sua idea su ciò che potrebbe essergli benefico e ciò che potrebbe recargli danno che deriva dalla sua personalità e dalla sua cultura. Può pertanto respingere un trattamento nonostante sia proposto come appropriato dal medico di medicina generale e dal sistema sanitario. Il medico di medicina generale deve pertanto riservarsi un margine di scelta clinica qualora i trattamenti rimborsabili non siano applicabili, non siano accettati o siano inefficaci. L’appropriatezza decisa all’interno di procedure standard, di percorsi pre-definiti o di protocolli e note limitative spesso differisce da quella del clinico, ma l’eventualità che le conclusioni dell’appropriatezza sanitaria siano in contrasto con quella clinica non è adeguatamente e nemmeno formalmente riconosciuta. La terapia: una trama di arcaico e di nuovo Nella relazione medico-paziente che si suggella con la prescrizione della terapia, la persona non ha solo bisogno di essere sollevata dai suoi disagi, ma aspira anche a una incondizionata, piena, solidale e altruistica disponibilità del terapeuta. Infatti, il paziente, afflitto e disperato, tende a tornare all’antico rapporto con il guaritore nel quale il terapeuta, entrando in contatto con lui in maniera intensa e intima, “resuscita” con il malato facendolo rinascere a nuova vita o, nel caso dramma- 298 Manuale della Professione Medica tico del terminale, “muore” con lui e lo accompagna, con premura e tenerezza, verso il suo destino. Paziente e terapeuta si contrappongono all’entità ostile che è penetrata nell’organismo attivando un processo reattivo di difesa alimentato da un’interazione di trame simboliche, parole e suoni che favoriscono un processo di “autoterapia”. Anche il medico, come il guaritore arcaico, deve favorire l’attivazione delle difese già possedute dall’organismo nella consapevolezza che l’effetto dei farmaci non dipende solo dalla farmacodinamica del principio attivo e dalla significatività statistica, ma anche dall’atteggiamento e dalle attese del paziente e del medico, dall’interazione medico-paziente, dall’effetto placebo e dalla naturale tendenza alla guarigione della malattia. Con il linguaggio del farmaco il guaritore moderno mette ancora in scena l’antichissima arte della guarigione in modo molto più convincente ma che, per essere pienamente efficace, si giova anche delle parole arcaiche. È necessario riappropriarsi pienamente di quell’elemento essenziale della guarigione rappresentato dall’intesa e dalla solidarietà con la persona realizzando una proficua sintesi fra elementi antichi e nuovi che sono tutti indispensabili a garantire il bene del paziente. La cura e il suo successo dipendono anche dal suo altruismo e dall’attenzione all’uomo, inteso come persona con la sua storia, la sua cultura, la sua affettività e le sue credenze. La medicina clinica si fonda su un insieme di conoscenze teorico-pratiche che forniscono strumenti adeguati per difendere la salute dei cittadini nel rispetto del valore intrinseco della persona umana. L’esercizio delle capacità, abilità e competenze del medico implicano tuttavia, direttamente o indirettamente, una responsabilità nella gestione di risorse che, essendo di tutti, devono essere indirizzate al bene comune. La società richiede pertanto al medico di tenere in considerazione anche i risvolti civili e politici della sua professione. Il medico deve scegliere il farmaco più appropriato dopo aver analizzato criticamente i risultati degli studi clinici per valutare se le loro conclusioni sono applicabili alla realtà clinica del singolo paziente. Il trattamento con farmaci è importante in molte patologie ad andamento cronico per prevenire o ritardare le complicanze e garantire una migliore prognosi. Il contenimento dei costi, la somministrazione della migliore assistenza uguale per tutti e la libertà di scelta del paziente e del medico sono fini che possono entrare in conflitto fra loro. Infatti, ciò che appare appropriato da un punto di vista strettamente medico potrebbe risultare del tutto inappropriato dal punto di vista del 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 299 costo e della convenienza sociale. Poiché nella realtà le decisioni in campo sanitario sono prese da soggetti che hanno funzioni sociali profondamente diverse – politici, amministratori, economisti, medici – è indispensabile che ciascuno di questi attori interpreti coerentemente il ruolo e la funzione che è chiamato a svolgere. Mentre i politici e gli amministratori si devono preoccupare di modulare la spesa sanitaria in relazione alle esigenze globali della società, il medico deve prendersi cura prima di tutto delle persone e, pur tenendo nella giusta considerazione le esigenze sociali e la necessità di non favorire gli sprechi, deve adoperarsi affinché chi si affida a lui riceva la migliore terapia di cui necessita. La prescrizione di farmaci on-label e off-label I medicinali disponibili in Italia, prima di poter essere prescritti dal medico. devono essere autorizzati all’immissione in commercio (AIC) dall’Agenzia italiana del Farmaco (AIFA), del Ministero della Salute, o in alternativa dall’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (EMEA). La procedura per l’autorizzazione al commercio di un farmaco può essere condotta e conclusa in ambito nazionale oppure, per il principio di reciprocità, può scaturire da un provvedimento di approvazione attuato in un altro paese della Comunità europea. L’autorizzazione al commercio è accompagnata da una Scheda Tecnica Ministeriale (STM), nella quale è riportata la confezione farmaceutica, le indicazioni terapeutiche, le controindicazioni, la posologia (intervallo/dosaggio), le proprietà farmacologiche, la via e le modalità di somministrazione e le avvertenze all’uso, per assicurare un impiego del farmaco appropriato (corretta indicazione e comprovata efficacia). Le Note dell’Aifa, introdotte nel 1994 e continuamente aggiornate e rinnovate nei contenuti, nella forma e nelle finalità, dal Comitato Tecnico Scientifico (CTS), hanno rappresentato uno strumento regolatorio indispensabile per ridefinire i farmaci ritenuti sicuramente efficaci, e quindi rimborsabili dal SSN, da altri autorizzati al commercio ma con minore “evidenza” di vantaggio terapeutico. L’impiego di un farmaco, in possesso di AIC, si può definire: 1. on-label (label, letteralmente etichetta), quando è prescritto per un’indicazione terapeutica, con una diversa posologia (intervallo/dosaggio), ma nel rispetto di quanto è contenuto nella STM. 300 Manuale della Professione Medica 2. off-label, quando è prescritto per un’indicazione terapeutica e/o secondo una modalità di somministrazione e/o posologia e/o altro diverse da quanto è espressamente previste dalla STMe, e autorizzate al momento dell’immissione in commercio. La scelta di prescrivere un farmaco, al di fuori delle indicazioni ministeriali (off-label), è largamente diffusa in vari ambiti della medicina, anche perché spesso riguarda farmaci conosciuti e utilizzati da tempo, per i quali le evidenze scientifiche suggeriscono un razionale d’uso anche in situazioni cliniche non approvate da un punto di vista regolatorio. Questa situazione, complessa e delicata, è stata, tuttavia, più volte oggetto di regolamentazione legislativa nazionale: L. 648/12/1996, L. 94/04/1998, DLgs 219/4/2006, L. 296/2006 (Finanziaria 2007), L. 244/12/2007 (Finanziaria 2008). In breve sintesi le leggi, prima del 2007, concedevano al medico curante, sotto la sua diretta responsabilità, sulla base di documentazione scientifica pubblicata su riviste qualificate e in mancanza di alternative terapeutiche, di poter decidere se trattare il proprio assistito con un medicinale autorizzato per un’indicazione terapeutica, e modalità di somministrazione diverse, dopo averlo informato e averne ottenuto il consenso. Dopo la Finanziaria del 2007 l’alternativa di prescrizioni off-label era concessa solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, sulla base di evidenze scientifiche documentate nella letteratura internazionale, e individuava nei direttori sanitari di Azienda i responsabili dei procedimenti applicativi. La legge finanziaria del 2008 ha, invece, indicato come condizione indispensabile per l’impiego off-label dei medicinali, almeno l’esistenza di studi favorevoli di sperimentazione clinica di 2a fase già conclusi. Farmacovigilanza La farmacovigilanza ha lo scopo di valutare il rischio connesso all’assunzione dei farmaci e di monitorare l’incidenza degli effetti indesiderati (Reazioni Avverse, ADR), eventualmente associati a un trattamento farmacologico, ma anche quello di migliorare e ampliare le informazioni su ADR sospette o già conosciute. Inoltre consente di valutare la maggiore efficacia di un farmaco rispetto ad altri o ad altri tipi di terapie, rendendo più appropriate le cure. Tale 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 301 monitoraggio inizia durante la sperimentazione clinica pre-marketing sull’uomo, e prosegue per tutto il periodo nel quale il farmaco rimane in commercio. Il medico ha il dovere etico di segnalare ogni sospetto di Reazione Avversa, grave o non prevista nel foglietto illustrativo del farmaco prescritto ai suoi pazienti, e rischia pene severe in caso di inadempienza. La scheda, in passato, era fornita dal Ministero della salute, attraverso il Bollettino di Informazione sui Farmaci (BIF) dell’AIFA inviato a tutti i medici, che oggi pare avere sospeso la pubblicazione. Essa, tuttavia, può essere richiesta ai responsabili di farmacovigilanza delle ASL e delle Aziende ospedaliere, o anche agli Informatori Scientifici del Farmaco. Una volta compilata, la scheda deve essere inviata nel più breve tempo possibile al Servizio Farmaceutico dell’ASL o dell’Azienda Ospedaliera di competenza che provvederanno a trasmetterla per via telematica al Servizio Farmaceutico del Ministero della Salute. Art. 22 - Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica Il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di pregiudizievole nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento. L’obiezione di coscienza (dal latino tardo obiecto-onis, derivato del verbo obicere, gettare contro), ha assunto nella nostra lingua diversi veicoli di senso, accumunati da un’idea di rifiuto sostenuta da personali convinzioni che possono riguardare situazioni diverse e/o dall’idea di un intervento nella dialettica del discorso motivato da un’opinione contraria rispetto a quella originariamente proposta da una persona terza. L’obiezione di coscienza ha una tradizione millenaria ma è una conquista della civiltà giuridica moderna se si considera che i suoi fondamenti costitutivi sono presenti nella Carta Costituzionale: nell’art. 2 che garantisce i diritti inviolabili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e negli artt. 19 e 21 che sanciscono la libertà religiosa e quella di manifestazione del pensiero. 302 Manuale della Professione Medica Coerentemente a tali diritti costituzionali sono state emanate specifiche norme che riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza in ambiti comuni a tutti i cittadini (servizio militare e in campo fiscale), e in quelli peculiari delle professioni sanitarie. Limitandoci a queste ultime, le norme vigenti riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza riguardo alla sperimentazione e alla vivisezione sugli animali (DLgs 27/01/1992 n. 116 e legge 12/10/1993, n. 442), e in due ambiti distinti connessi con la riproduttività: l’interruzione volontaria di gravidanza e gli interventi di procreazione medicalmente assistita. Sono gli artt. 9 e 16 della legge 22 maggio 1978, n. 194 a regolamentare e disciplinare puntualmente l’istituto dell’obiezione di coscienza rispetto agli interventi interruttivi, sia nell’oggetto «attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza», che nelle formalità che debbono essere seguite «la dichiarazione dell’obbiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dall’ospedale o dalla Casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della legge o dal conseguimento all’abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette all’interruzione di gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni». E ancora «L’obiezione di coscienza esonera il sanitario ed esercente le attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione di gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento» e «Può sempre essere revocata o venire proposta al di fuori dei termini […] ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale». Quanto al personale sanitario ed esercente le attività sanitarie, titolari del diritto, l’obiezione di coscienza «Non può essere invocata quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo di vita». Analogamente, l’art. 16 della legge n. 40/2004 disciplina in maniera chiara e puntuale l’obiezione di coscienza nell’ambito degli interventi di procreazione medicalmente assistita. Il 28 maggio del 2004 il Comitato nazionale per la bioetica, cui l’Ordine dei Medici di Venezia aveva posto il quesito se il medico potesse appellarsi all’obiezione di coscienza per rifiutare la prescrizione o la somministrazione di Levonorgestrel per la contraccezione di emergenza post-coitale in riferimento ai suoi possibili effetti post-fertilizzazione, espresse il parere che si riconosceva 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 303 al medico la possibilità di rifiutare la prescrizione appellandosi alla cosiddetta clausola di coscienza (dal latino clausola, e dal verbo claudere, chiudere). Alquanto discutibile apparve la scelta di sovrapporre le modalità di esercizio del diritto alla clausola di coscienza con quelle previste dalla legge 194/1978 per l’obiezione di coscienza (che, intanto, produce il suo effetto se comunicata allaAutorità sanitaria un mese prima), anche perché è sembrata avere “ingessato” pericolosamente e voluto “giuridificare” l’esercizio della clausola di coscienza che è un diritto molto più ampio e flessibile dell’obiezione. Probabilmente il motivo per cui il Comitato nazionale per la bioetica ha affiancato e sovrapposto questo lemma alla libertà di coscienza, nel lessico professionale, questo lemma è da ricercarsi nella difficoltà di rispondere positivamente al quesito dell’Ordine di Venezia sulla “pillola del giorno dopo”. Non poteva, infatti, condizionare quella prescrizione con il ricorso all’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dal momento che il mondo scientifico è diviso tra chi attribuisce al meccanismo di azione di questo tipo di farmaci un effetto “intercettivo”, e non abortivo e chi lo ritiene decisamente “abortivo”, in base alle differenti convinzioni etiche sul momento dell’inizio della vita, privo di certezze scientifiche dimostrate. Tuttavia il ricorso a questa locuzione, che nella lingua italiana ha vari significati, a proposito della contraccezione post-coitale, «non introduce nessuna ulteriore sovrastruttura rispetto alla libertà di coscienza garantita dalla Carta Costituzionale e rafforzata dal Codice deontologico, che prevede che il medico possa rifiutare la propria opera nel caso in cui gli siano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza e/o con il suo convincimento clinico (art. 22), nonché il diritto all’obiezione di coscienza in due distinti ambiti connessi con la riproduttività (artt. 43 e 44)». Tuttavia, è di tutto interesse osservare come la deontologia professionale, pur non esplicitandola semanticamente, non definisca la libertà di coscienza come una mera opzione della prassi professionale ma come perno che garantisce l’autonomia diagnostico-terapeutica del medico rafforzata dall’esplicito livello di responsabilizzazione richiestogli nel fornire comunque alla persona «… ogni utile informazione e chiarimento». «Un’autonomia diagnostica-terapeutica necessariamente responsabile che, evidentemente, pone il medico nel diritto/dovere di agire rispettando la propria coscienza (e i propri valori morali) oltre al suo convincimento clinico, con 304 Manuale della Professione Medica il solo limite che non provochi un grave e immediato nocumento alla salute della persona assistita». Non si deve dimenticare che l’efficacia del metodo è tanto più elevata quanto prima si inizia il trattamento dopo un rapporto non protetto e che, pertanto, il farmaco deve essere assunta preferibilmente entro 12 ore dopo il rapporto sessuale e non oltre le 72 ore. Le numerose denunce, comparse sulla stampa d’informazione e pervenute alla FNOMCeO, da parte di cittadine che, specialmente nei giorni prefestivi e festivi, avevano incontrato difficoltà ad esercitare il diritto di ottenere il farmaco per il rifiuto di prescriverlo opposto da alcuni medici nei Pronto Soccorso ospedalieri, o dagli operatori della Continuità Assistenziale, ha indotto il Presidente della FNOMCeO, nel dicembre del 2006 a invitare questi colleghi, «più esposti a eventuali denunce per omissione di atti d’ufficio conseguenti alla mancata prescrizione, a trovare il giusto equilibrio tra il diritto del medico all’obiezione di coscienza e il diritto delle persone a una prestazione che, peraltro, l’ordinamento giuridico riconosce come dovuto ai Consultori familiari (art. 1 della legge 405/1975)». Cembrani F. La clausola di coscienza e l’obiezione: solo una questione di lessico? Professione, 2008, 2: 14-22. Art. 15 - Pratiche non convenzionali Il ricorso a pratiche non convenzionali non può prescindere dal rispetto del decoro e della dignità della professione e si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale del medico. Il ricorso a pratiche non convenzionali non deve comunque sottrarre il cittadino a trattamenti specifici e scientificamente consolidati e richiede sempre circostanziata informazione e acquisizione del consenso. È vietato al medico di collaborare a qualsiasi titolo o di favorire l’esercizio di terzi non medici nel settore delle cosiddette pratiche non convenzionali. Nel maggio del 2002, in un convegno organizzato dalla FNOMCeO a Terni, fu votato un documento nel quale si affermava che l’esercizio delle medicine non convenzionali era da ritenersi a tutti gli effetti un atto medico, esercitato e gestito esclusivamente dal medico-chirurgo e odontoiatra, con l’acquisizione dell’esplicito consenso consapevole del paziente, e purché tali 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 305 cure non sottraessero il malato alla disponibilità di terapie scientificamente accreditate. Il medico che offre questi trattamenti all’assistito ne risponde, dunque, in prima persona, dopo averne raccolto personalmente il consenso e avere illustrato vantaggi e svantaggi di una proposta curativa che, comunque non lo sottragga a terapie efficaci consolidate. L’agopuntura, l’omeopatia, la medicina tradizionale cinese, le manipolazioni osteo-articolari, la medicina ayurvedica e altre numerose “pratiche” sono di volta in volta connotate come: complementari, non convenzionali, integrative, tradizionali, eretiche, non ortodosse, olistiche, naturali o dolci. Esse sono discretamente diffuse in Italia e nel resto del mondo, anche se non possiedono alcuna evidenza scientifica a supporto della loro efficacia e, contrariamente all’opinione diffusa che la loro “naturalità” sia sinonimo di innocuità, non sono esenti da rischi. I cittadini, che hanno il diritto di curarsi come meglio credono, spesso vi ricorrono autonomamente, senza consultare né informare il medico curante, con conseguenze che possono essere anche gravi, dei quali la cronaca porta numerosi esempi. I più frequenti sono il ritardo di una diagnosi e l’abbandono o la sostituzione di terapie farmacologiche efficaci con preparati “naturali” non adeguati. Le preparazioni derivanti da piante medicinali, dotate di proprietà farmacologiche vere e proprie, possono “spiazzare” o neutralizzare l’efficacia dei farmaci convenzionali assunti contemporaneamente, o produrre reazioni avverse anche gravi. I rischi derivanti dall’uso delle medicine non convenzionali sono monitorati dal Centro Nazionale di Epidemiologia. Sorveglianza e Promozione della Salute (Cnesps) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), attivato nell’aprile del 2002. Le segnalazioni di farmacovigilanza sui farmaci derivanti da piante medicinali, giunte a un Comitato scientifico multidisciplinare sono state oltre 400 da quando il Centro è stato attivato, e quasi sempre hanno riguardato eventi gravi. Particolare attenzione deve essere anche rivolta alla sorveglianza di quei prodotti “salutistici”, “notificati” e “non registrati” al Ministero della Salute sotto il nome di “integratori alimentari” salutistici, privi cioè di proprietà terapeutiche dimostrate scientificamente, ma vantati come agenti terapeutici. 306 Manuale della Professione Medica L’ISS ha lanciato recentemente una campagna informativa sul corretto uso delle medicine non convenzionali, per consentire ai cittadini scelte consapevoli, e alla quale ha dedicato un sito (Per saperne di più. www.iss.it), e diffuso un poster e un decalogo, condiviso e sottoscritto da numerose società di medicina non convenzionale. Art. 29 - Fornitura di farmaci Il medico non può fornire i farmaci necessari alla cura a titolo oneroso. Art. 30 - Conflitto di interesse Il medico deve evitare ogni condizione nella quale il giudizio professionale riguardante l’interesse primario, qual è la salute dei cittadini, possa essere indebitamente influenzato da un interesse secondario. Il conflitto di interesse riguarda aspetti economici e non, e si può manifestare nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti individuali e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la pubblica amministrazione. Il medico deve: – essere consapevole del possibile verificarsi di un conflitto di interesse e valutarne l’importanza e gli eventuali rischi; – prevenire ogni situazione che possa essere evitata; – dichiarare in maniera esplicita il tipo di rapporto che potrebbe influenzare le sue scelte consentendo al destinatario di queste una valutazione critica consapevole. Il medico non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi economici o di altra natura, per trarne profitto per sé e per altri. Il Codice deontologico vieta al medico, all’art. 29, di poter fornire al proprio assistito farmaci a titolo oneroso; anzi, il sanitario, se può e possiede confezioni di farmaco idoneo all’uopo nel suo ambulatorio, deve fornirli all’assistito gratuita- 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 307 mente e in assenza prescriverli nella forma più idonea, possibilmente meno onerosa, e comunque dopo aver fornito al paziente spiegazioni sul fatto che molecole uguali hanno costi diversi nel settore farmaceutico, a seconda della casa farmaceutica produttrice e, quindi, evidentemente, lasciare al paziente, secondo le proprie possibilità, di acquisire poi il medesimo farmaco sotto denominazione diverse. Lo chiede anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al Governo e al Parlamento, in una segnalazione approvata nella riunione del 9 novembre 2006. Per l’Autorità questa misura potrebbe ridurre gli effetti del conflitto di interesse in medicina legato al finanziamento, da parte delle imprese farmaceutiche, delle spese di viaggio e di ospitalità ai medici in occasione di corsi, convegni, congressi e visite ai laboratori e ai centri di ricerca aziendali. Contestualmente verrebbe favorita la concorrenza fra farmaci, incentivando l’utilizzo dei farmaci generici o, in ogni caso, di quelli a più basso costo, facilitando la riduzione della spesa farmaceutica a carico delle famiglie e del Servizio Sanitario Nazionale. Secondo l’Autorità dovrebbe in ogni caso essere fatta salva la possibilità, per il medico, di specificare, per motivi clinici, la non sostituibilità del farmaco. La segnalazione sottolinea che l’ospitalità dei medici a carico del settore farmaceutico rappresenta un aspetto rilevante, anche se non esaustivo, del conflitto di interesse in medicina: è un fenomeno da mettere sotto osservazione e disciplinare, anche per evitare distorsioni della libera concorrenza. L’art. 30 del CDM, invece, disciplina proprio il conflitto di interesse, intendendosi con esso quell’insieme di condizioni in cui un giudizio professionale che riguarda un interesse primario tende a essere influenzato in maniera eccessiva da un interesse secondario. L’interesse primario di un medico è certamente la salute del suo paziente, così come l’interesse primario di un ricercatore è la conoscenza scientifica. L’interesse secondario, invece, può essere di natura finanziaria, ma può anche riguardare il prestigio personale, la carriera professionale, l’ambizione personale. Il conflitto di interesse è una condizione, non un comportamento e di questi tempi se ne fa un gran parlare, riferendosi al fatto che oggi la ricerca, l’informazione e, entro certi limiti, la formazione dei medici, sono finanziate dalle aziende produttrici di farmaci e di dispositivi sanitari che i medici stessi prescrivono. Non c’è bisogno che l’opera del medico quale agente del paziente 308 Manuale della Professione Medica (dettata da scienza e coscienza) sia influenzata in maniera evidente anche da altri interessi estranei e diventi anche attività di intermediazione tra produttori di beni e fruitori limitati nella loro autonoma capacità di giudizio, quali i pazienti nel momento del bisogno assistenziale, ma è sufficiente che esista un legame che possa compromettere l’indipendenza del giudizio del professionista sanitario. Pertanto, come afferma Panti, «non ci si riferisce al conflitto di interesse sotto il profilo giuridico bensì sotto quello etico, come giudizio valoriale». Più in generale il conflitto di interesse in medicina è collegato a una più vasta tela di relazioni tra ricerca scientifica, farmacologia, prevenzione e cura, industria farmaceutica, e la soluzione del problema va cercata prima di tutto sul terreno etico e nell’aumento delle risorse pubbliche da destinare alla ricerca scientifica. Sul piano concorrenziale, il conflitto di interesse può comportare possibili distorsioni a favore delle industrie che spendono di più in finanziamenti di iniziative convegnistiche. Misure volte a favorire la concorrenza tra imprese e il confronto tra farmaci equivalenti sono dunque senz’altro preferibili a interventi che inducano le imprese a riduzioni concertate del finanziamento delle spese di viaggio e di ospitalità per i medici. Ciò almeno fino a quando l’intervento sulle risorse pubbliche nel settore interessato non sarà adeguato alle necessità. In senso giuridico infatti il conflitto di interesse si realizza nell’ipotesi di comparaggio al quale si può resistere, e trionfa la probità intellettuale, o cedere, e si commette un reato. Il comparaggio, infatti, è vietato (art. 31 CDM), in quanto reato (confronta anche artt. 170-172 TUSL), e implica un patto, preliminare, diretto a far valere un interesse diverso rispetto a quello etico, e «ha per oggetto non l’atto professionale nella sua totalità, bensì semplicemente una modalità di esso, cioè il contenuto della prescrizione da parte del sanitario si realizzerebbe ugualmente senza l’accordo illecito [che] viene a condizionare soltanto il contenuto della prestazione […] tale contenuto non è di per sé antigiuridico [lo…] diventa solo in forza dell’accordo illecito» . In senso etico invece la questione è diversa, in quanto nell’esercizio quotidiano della medicina esistono condizionamenti che pongono in reciproco contrasto gli interessi del terzo pagante, del produttore e del cittadino: tra questi, il medico dovrebbe essere arbitro attento solo al bene del paziente, pur nella consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, invero lo stesso non garan- 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 309 tisce sempre la sua libertà di giudizio. Nella Carta della Professionalità Medica è scritto che «il giudizio professionale riguardante un interesse primario come la salute dei cittadini può essere influenzato indebitamente da un interesse secondario del professionista (guadagno economico, vantaggi di carriera ecc.)» e si aggiunge che i medici «hanno l’obbligo di riconoscere, rendere pubblici e affrontare i conflitti di interesse che si presentano nello svolgimento dei loro compiti o attività professionali». Si veda sul tema anche l’articolato parere di Barni dal titolo Il conflitto di interesse: dalla soggezione alla responsabilità medica, recentemente pubblicato sulla Rivista Italiana di Medicina Legale. Il problema del conflitto di interesse è poi sempre più di attualità nelle riviste scientifiche internazionali. Lancet ha esaminato gli eventuali conflitti di interesse degli autori degli articoli che gli sono stati sottoposti nel 2003, e ne ha respinto alcuni ad esempio perché il protocollo stabiliva che lo sponsor avesse il controllo dei dati della sperimentazione e potesse utilizzarli a suo piacere, naturalmente decidendo di pubblicare solo dati favorevoli ai suoi loro prodotti; oppure perché il protocollo stabiliva che la pubblicazione dei dati generati dal trial poteva essere decisa solo di comune accordo fra gli sperimentatori e lo sponsor e non dal solo sperimentatore; infine perché documentavano un’alta incidenza di alcune malattie e alcuni autori avevano rapporti di collaborazione con industrie che producevano farmaci indicati per il trattamento di quelle stesse malattie e così via. Certamente gli autori che hanno legami finanziari con compagnie che producono tabacco riferiscono dati costantemente rassicuranti sul fumo passivo, mentre gli studi sui farmaci contraccettivi di terza generazione finanziati dalle ditte che li producono sono più rassicuranti sulla trombosi di quelli prodotti da istituzioni pubbliche, solo per fare alcuni esempi. Una revisione sistematica di studi sul rapporto fra autori e industria conclude che la ricerca sponsorizzata tende costantemente a raggiungere conclusioni favorevoli ai prodotti delle industrie sponsorizzanti e questo porta le riviste scientifiche più indipendenti ad adottare la “diffidenza” come regola; in effetti però le riviste hanno l’obbligo di darsi delle regole anche per tracciare un confine fra ciò che le riviste stesse possono ospitare e ciò che non possono ospitare proprio in relazione a questo problema del conflitto di interesse, la sensibilità verso il quale è emersa specialmente nell’ultimo decennio e sta visto- 310 Manuale della Professione Medica samente crescendo, anche se meno nel nostro paese rispetto ad altri. Intanto, in Italia, l’applicazione della ECM pone il problema del conflitto di interesse proprio nel campo della formazione. Il CIRB (Coordinamento per l’Integrità della Ricerca Biomedica; www.cirb.it) ha inviato al Ministro e alla commissione ECM una lettera, nella quale pone il problema della definizione del conflitto di interesse, visto che l’organizzatore deve rispondere a una domanda che recita: «Le fonti di finanziamento configurano incompatibilità o conflitti di interesse?» Il collegato alla legge finanziaria 2003 al comma 25 dell’art. 48 stabilisce che i relatori e gli organizzatori di convegni devono dichiarare gli eventuali conflitti di interesse; attualmente, gli organizzatori, alla domanda 29, hanno finora risposto di non avere mai ravvisato conflitti di interesse. Ma che cos’è il conflitto di interesse? Chi lo deve dichiarare? C’è in tutto ciò una parte comica: la Commissione ECM ha chiesto a tutti gli organizzatori che non hanno ancora ottenuto l’accreditamento per eventi già avvenuti di farsi rilasciare da ogni relatore un’autocertificazione, nella quale venga escluso ogni conflitto di interesse, dato che dichiarazioni mendaci sono punite dal Codice penale. Provocatoriamente qualcuno sostiene che oggi il conflitto di interesse in medicina non esiste. Può sembrare provocatorio, o retorico, o polemico: le etichette, le prassi, le competenze chiamate in causa sono diverse: dalla bioetica, alla trasparenza, ai codici deontologici, all’auditing dei pari o dei garanti, ai giuramenti di Ippocrate rinnovati-riformulati. L’ipotesi che sottende i dibattiti, le raccomandazioni, le pratiche pervasive e i rituali di autodichiarazione del tipo e del grado di conflitti di interesse è molto semplice: si assume, come postulato, che il sistema di riferimento per coloro che praticano la medicina sia quello dell’assenza di interessi che non siano quelli di una professionalità autonoma, responsabile solo riguardo al benessere dei pazienti e della salute pubblica. Il conflitto di interesse non potrebbe invero esistere, se cessa il termine di riferimento strutturale della salute come diritto; il conflitto di interesse si capovolge: riguarda chi pretende di porre come norma operativa principi strutturalmente negati. È ciò che succede per i diritti umani: sono affermati come “indispensabili e obbligatori”, ma devono rispettare e mettersi in lista di attesa rispetto a quelli economici. L’azienda sanità rimanda alla politica globale, che non per nulla ha tolto al “diritto alla salute” la sua qualifica di “fondamentale universale”. 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 311 Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione dell’art. 30 Premessa Le situazioni di conflitto di interesse riguardano aspetti economici e non, e possono manifestarsi nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la pubblica amministrazione. I medici debbono rifiutare elargizioni che possono interferire con le proprie decisioni di cui i pazienti sarebbero i destinatari non informati; tali elargizioni possono essere assegnate a strutture pubbliche o a società non a scopo di lucro. I medici possono ricevere compensi, retribuzioni o altre forme di elargizione solo attraverso i meccanismi previsti dalla normativa vigente. L’informazione fornita ai medici deve garantire la massima correttezza scientifica e la massima trasparenza. È compito dell’Ordine svolgere azione di supporto e controllo per perseguire tali fini. È compito del medico acquisire strumenti e metodi per esercitare una continua revisione critica della validità degli studi clinici onde poterne estendere le acquisizioni alla prassi quotidiana. I medici o le associazioni professionali che effettuano campagne di educazione sanitaria o promuovono forme di informazione sanitaria o partecipano alla diffusione di notizie scientifiche attraverso i mass media o la stampa di categoria, debbono manifestare il nome dello sponsor e applicare le norme del presente regolamento, valido anche nei rapporti eventualmente intrattenuti con industrie, organizzazioni e enti pubblici e privati. Norme specifiche Ricerca Scientifica a. Il ricercatore deve svolgere un ruolo indipendente nella definizione e nella conduzione degli studi, assumendo sempre quale fine essenziale l’interesse dei pazienti, assicurandosi della priorità dell’obiettivo scientifico della ricerca; 312 Manuale della Professione Medica b. il ricercatore deve dichiarare gli eventuali rapporti di consulenza o collaborazione con gli sponsor della ricerca; c. il ricercatore deve applicare sempre regole di trasparenza, condurre l’analisi dei dati in modo indipendente rispetto agli eventuali interessi dello sponsor e non accettare condizioni per le quali non possa pubblicare o diffondere i risultati delle ricerche, senza vincoli di proprietà da parte degli sponsor, qualora questi comportino risultati negativi per il paziente; d. se la pubblicazione, anche quando non sia frutto di specifica ricerca, è sponsorizzata il nome dello sponsor deve essere esplicitato; e. chiunque pubblichi redazionali o resoconti di convegni o partecipi a conferenze stampa deve dichiarare il nome dell’eventuale sponsor; f. il ricercatore e i membri dei comitati editoriali debbono dichiarare alla rivista scientifica, nella quale intendono pubblicare, il ruolo avuto nel progetto e il nome del responsabile dell’analisi dei dati; g. il ricercatore deve vigilare sugli eventuali condizionamenti, anche economici, esercitati sui soggetti arruolati nella ricerca, in particolare rispetto a coloro che si trovano in posizione di dipendenza o di vulnerabilità; h. il medico non deve accettare di redigere il rapporto conclusivo per la pubblicazione di una ricerca alla quale non ha partecipato; i. il ricercatore non può accettare clausole di sospensione della ricerca a discrezione dello sponsor ma solo per motivazioni scientifiche o etiche comunicate al Comitato Etico per la convalida. I medici operanti nei Comitati Etici per la Sperimentazione sui Farmaci (CESF) e nei Comitati Etici Locali (CEL) devono rispettare le regole di trasparenza della sperimentazione prima di approvarla e rilasciare essi stessi dichiarazione di assenza di conflitti di interesse. Le norme di cui sopra si applicano anche agli studi multicentrici. Aggiornamento e formazione a. I medici non possono percepire direttamente finanziamenti allo scopo di favorire la loro partecipazione a eventi formativi; eventuali finanziamenti possono essere erogati alla Società Scientifica organizzatrice dell’evento o all’Azienda sanitaria presso la quale opera il medico; 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 313 b. il finanziamento da parte delle industrie a congressi e a corsi di formazione non deve condizionare la scelta sia dei partecipanti che dei contenuti, dei relatori, dei metodi didattici e degli strumenti impiegati; la responsabilità di tali scelte spetta al responsabile scientifico dell’evento; c. il medico non può accettare ristoro economico per un soggiorno superiore alla durata dell’evento, né per iniziative turistiche e sociali aggiuntive e diverse da quelle eventualmente organizzate dal congresso né ospitalità per familiari o amici; d. i relatori ai congressi hanno diritto ad un compenso ragionevole per il lavoro svolto, in particolare di preparazione, ed al rimborso delle spese di viaggio, alloggio e vitto; e. il responsabile scientifico vigila affinché il materiale distribuito dall’industria nel corso degli eventi formativi sia rispondente alla normativa vigente e che le voci di spesa relative al contributo dello sponsor, siano chiaramente esplicitate dalla società organizzatrice; f. i relatori nei mini-meeting, organizzati dalle industrie per illustrare ai medici le caratteristiche dei loro prodotti innovativi, devono dichiarare gli eventuali rapporti con l’azienda promotrice; g. è fatto divieto ai medici di partecipare ad eventi formativi, compresi i mini-meeting, la cui ospitalità non sia contenuta in limiti ragionevoli o, comunque, intralci l’attività formativa; h. nel caso in cui i corsi di aggiornamento si svolgano e vengano sponsorizzati in località turistiche nei periodi di stagionalità, i medici non devono protrarre, oltre la durata dell’evento, la loro permanenza a carico dello sponsor; i. il medico, ferma restando la libertà delle scelte formative, deve partecipare a eventi la cui rilevanza medico-scientifica e valenza formativa sia esclusiva. La prescrizione dei farmaci La pubblicità dei medicinali effettuata dall’industria farmaceutica tesa a promuoverne la prescrizione, deve favorire l’uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo senza esagerarne le proprietà, e non può essere ingannevole. 314 Manuale della Professione Medica a. L’Ordine collabora, ove richiesto, alla attuazione e alla verifica dei suddetti precetti e favorisce l’informazione indipendente e la formazione alla lettura critica della letteratura scientifica; b. il medico è tenuto a non sollecitare e a rifiutare premi, vantaggi pecuniari o in natura, offerti da aziende farmaceutiche o da aziende fornitrici di materiali o dispositivi medici, salvo che siano di valore trascurabile e comunque collegati all’attività professionale; il medico può accettare pubblicazioni di carattere medico-scientifico; c. i campioni di farmaci di nuova introduzione possono essere accettati dai medici per un anno dalla loro immissione in commercio; d. i medici ricevono gli informatori scientifici del farmaco in base alla loro discrezionalità e alle loro esigenze informative senza provocare intralcio all’assistenza; dell’orario di visita è data notizia ai pazienti mediante informativa esposta nelle sale di aspetto degli ambulatori pubblici o privati e degli studi professionali; e. il medico non deve sollecitare la pressione delle associazioni dei malati per ottenere la erogazione di farmaci di non provata efficacia; f. i medici facenti parte di commissioni di aggiudicazione di forniture non possono partecipare a iniziative formative a spese delle aziende partecipanti. Le norme che disciplinano la prescrizione dei farmaci, una delle decisioni più importanti del medico, sono illustrate all’art. 13. Per il conflitto d’interesse in tema di prescrizione terapeutica, l’art. 30 è perentorio: il medico non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi economici o di altra natura per trarne indebito profitto per sé o per altri. Una circostanza, quest’ultima, nella quale si configura, peraltro, il reato di comparaggio, punibile penalmente oltre che vietato espressamente dal Codice nel successivo art. 31, e che travalica i limiti “morali” di una personale valutazione di un conflitto di interessi. Art. 31 - Comparaggio Ogni forma di comparaggio è vietata. Quest’articolo nel vietare “ogni forma” di “comparaggio” rimanda, per la definizione del comportamento che in concreto costituisce illecito disciplinare, 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 315 al corrispondete reato previsto, per quanto riguarda i medici, dall’art. 170 del RD n. 1265 del 1934. Occorre, dunque, far riferimento alla fattispecie delittuosa in oggetto per verificare anche il contenuto dell’illecito disciplinare. L’art. 170, che è inserito nel testo Testo Unico delle Leggi Sanitarie (TULS), pone un preciso divieto, per il medico, di ricevere, per sé o per altri, denaro o altre utilità ovvero di accettarne la promessa, allo scopo di agevolare, con prescrizioni mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di medicinali o di altri prodotti a uso farmaceutico. Il reato, in seguito alla modifica delle sanzioni introdotta dall’art. 16 DLgs n. 541/92, è punito con la pena congiunta dell’arresto fino ad un anno e con una ammenda. La condanna in sede penale comporta anche la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della professione per un periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta. Scopo evidente della norma è quello di tutelare la salute pubblica contro i pericoli che possono derivare da prescrizioni operate deliberatamente dai medici per finalità di lucro e non per esigenze sanitarie. Si tratta, quindi, di un reato doloso punito severamente, tenuto anche conto della sanzione accessoria che finisce con l’incidere sulla possibilità di esercitare la professione, sia pure per un periodo di tempo limitato. La norma, peraltro, stabilendo che, se il comportamento del medico violi altre disposizioni di legge, si applicano le relative sanzioni secondo le norme sul concorso dei reati, impone all’interprete di verificare quale sia il confine tra l’art. 170 TULS e gli reati ipotizzabili che possono essere più gravi, come ad esempio quello di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, o considerati di pari gravità dal legislatore, come quello previsto dall’art. 123 DLgs n. 219/06. Il medico deve essere consapevole dei diversi rischi che corre violando queste normative che sono finalizzate a proteggere diversi interessi pubblici e che, come nel caso della corruzione, sono punite anche con pene di diversa gravità. L’art. 123 del DLgs n. 219/06, infatti, al primo comma, vieta – nell’ambito dell’attività di informazione e presentazione dei medicinali – la concessione o promessa ai medici di premi o vantaggi pecuniari o in natura da parte dei soggetti a ciò abilitati, salvo che «siano di valore trascurabile e siano comunque collegabili all’attività espletata dal medico». Nel contempo, al terzo comma di questa norma, è posto il divieto per i sanitari di sollecitare o accettare dagli informatori scientifici gli incentivi la cui concessione o promessa è vietata nel primo comma. 316 Manuale della Professione Medica La violazione di questo divieto è punita, ai sensi dell’art. 147 del DLgs n. 219/06 con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda da quattrocento a mille euro. Anche in questo caso la condanna in sede penale comporta anche la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della professione per un periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta. L’art. 319 del Codice penale, a sua volta, vieta ai pubblici ufficiali (sono considerati tali dalla giurisprudenza sia i medici che operano nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, sia i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta nell’esercizio della loro attività in convenzione) di ricevere, per sé o per un terzo, in denaro o altre utilità, retribuzioni che non sono dovute ovvero di accettarne la promessa, per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio (ad esempio, una prescrizione di medicinali a carico del Servizio Sanitario Nazionale a soggetto non affetto dalla patologia per la quale il farmaco è indicato o all’insaputa del malato che, quindi, non ne viene in possesso, effettuata al solo scopo di favorire la vendita di questi prodotti in cambio di somme di denaro). La pena prevista per questo delitto, considerato molto grave dal legislatore perché contro la pubblica amministrazione, è quella detentiva (da due a cinque anni di reclusione). Ai sensi dell’art. 31 del Codice penale alla condanna per questo delitto consegue l’interdizione temporanea dal pubblico ufficio ricoperto dall’autore del fatto. L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine” tra comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico La questione dei rapporti tra i reati descritti nelle loro linee generali nel paragrafo che precede è stata esaminata dalla Giurisprudenza in un caso che riguardava l’accertato rapporto illecito triangolare tra un informatore farmaceutico, un medico di medicina generale e un farmacista, verificato attraverso l’uso di intercettazioni telefoniche e di altri accertamenti, anche bancari. In questa fattispecie, decisa dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con sentenza n. 42750/07, emerge, tra l’altro, che un medico di base convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale e, quindi, pubblico ufficiale, aveva prescritto un numero elevato di farmaci prodotti dalle case farmaceutiche rappresentate dall’informatore in questione, prescindendo dalle effettive esigenze terapeutiche degli assistiti, dietro corresponsione di consistenti somme di denaro. La Suprema Corte, chiamata ad esaminare il rapporto tra l’ipotizzata violazione del norma di cui all’art. 170 TULS in tema di comparaggio e il contestato 7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 317 delitto di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, ha stabilito che tra le due norme non ricorre un rapporto di specialità, attesa la diversità del bene giuridico tutelato e l’atteggiarsi del dolo, e, quindi, entrambe potevano essere applicate alla fattispecie in base alla normativa sul concorso dei reati, sussistendone i presupposti di legge. La Cassazione non ha mancato di sottolineare che questa conclusione era giustificata dalla riserva contenuta nel secondo comma dell’art. 170 TULS sul comparaggio («se il fatto violi pure altre disposizioni di legge, si applicano le relative sanzioni secondo le norme sul concorso dei reati»), nonostante «la labilità della linea di demarcazione segnata dal legislatore per le distinte fattispecie» della corruzione e del comparaggio. Questa conclusione deve essere tenuta ben presente dai sanitari perché il delitto di corruzione prevede sanzioni penali molto più pesanti della contravvenzione di comparaggio, come sopra evidenziato. La Cassazione con questa decisione ha esaminato anche il rapporto intercorrente tra la violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06 e il mancato rispetto della disposizione sul divieto di comparaggio contenuta nell’art. 170 TULS. La Corte, al riguardo, ha affermato che la prima contravvenzione, prodromica rispetto al tradizionale reato di comparaggio, è stata introdotta dal legislatore a tutela anticipata della correttezza dell’attività promozionale in campo farmaceutico, del mercato e della concorrenza nel settore, e indirettamente anche a tutela della salute dei cittadini. Se, infatti, la promessa o la dazione di denaro o altra utilità al sanitario, sono eseguite nel medesimo contesto informativo, ma allo scopo specifico «di agevolare la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodotto ad uso farmaceutico», si configura la diversa e autonoma fattispecie illecita del “comparaggio” di cui all’art. 170 TULS. Le condotte tenute dal medico in violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06 ovvero dell’art. 170 TULS o ancora dell’art. 319 del codice penale sono tutte, comunque, rilevanti sul piano deontologico perché contrastano con i principi fondamentali dell’etica medica che vieta ai sanitari prescrizioni di medicinali in cambio di premi o vantaggi indebiti. 8 La sperimentazione A. Pagni Art. 47 - Sperimentazione scientifica Il progresso della medicina è fondato sulla ricerca scientifica che si avvale anche della sperimentazione sull’animale e sull’uomo. L’introduzione allo studio della medicina sperimentale, del fisiologo francese C. Bernard, pubblicata nel 1865, rappresentò una tappa miliare nella medicina trasformando una pratica, sino allora empirica, nell’esercizio di una professione che attingeva la validità delle sue congetture e conoscenze dalla ricerca scientifica. Le nuove conoscenze derivanti dall’ingresso della sperimentazione nella medicina, le permisero di rendersi indipendente da ogni specifica concezione filosofica, con le quali aveva mantenuto uno stretto rapporto lungo tutto il Medio Evo, e l’epoca rinascimentale, per attenuarsi nel XVII secolo con la nascita del metodo sperimentale (G. Galilei, Newton, F. Bacone ecc.). Il metodo sperimentale, genericamente inteso, consta di tre fasi: la prima consiste nell’osservazione dei fatti significativi; la seconda nel giungere a un’ipotesi, che, se vera, deve spiegare questi fatti; la terza nel dedurre conseguenze, da quell’ipotesi. Se le conseguenze sono confermate, l’ipotesi è provvisoriamente ritenuta “vera”, anche se in seguito potrà essere modificata, con la scoperta di altri fatti. Nel XX secolo, dopo i successi della medicina biologica nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, il cammino della medicina e della filosofia hanno cominciato ad incontrarsi di nuovo. Sia perché la scienza stava divenendo un fattore importante nella determinazione della vita biologica dell’individuo, nelle forme familiari, negli assetti sociali e nello stesso ambiente naturale. E sia perché si evidenziava che l’intero sviluppo della conoscenza scientifica, (condizionata da fattori extrascientifici, storici, sociali, pratici e metafisici), 320 Manuale della Professione Medica aveva un carattere provvisorio e approssimativo (che non offriva “verità” ma semplici “congetture”), e che i “fatti” ci erano noti solo tramite le teorie all’interno di determinati quadri concettuali (paradigmi). Le riflessioni post-positivistiche ed ermeneutiche hanno portato un contributo importante all’analisi epistemologica applicata alla scienza, mentre quelle fenomenologiche, esistenziali, psicanalitiche e della bioetica si sono occupate, in modo nuovo, dell’uomo e del valore e significato della vita. Tuttavia, né le une, né le altre hanno risolto interamente il genuino problema filosofico posto dalla medicina moderna: la conciliazione in un rapporto dialettico-morale con il malato, in un approccio clinico che “oggettiva” la persona secondo i canoni della scienza, e uno relazionale che ne deve rispettare l’autonomia soggettiva. Le prime, identificando l’attività del medico con le sole discipline scientifiche organicistiche, hanno fornito una descrizione insufficiente della metodologia clinica, che non si configura come ricerca scientifica della verità, ma come applicazione pratica delle “verità” scientifiche in relazione alle esigenze imposte dal contesto in cui si svolge l’incontro tra il medico e l’assistito. Le seconde hanno mostrano difficoltà a comprendere le dinamiche della relazione terapeutica con le persone, che si sviluppa all’interno di una matrice decisionale carica di valori, ma è insieme tributaria di altre discipline (fisiologia, chimica, fisica, farmacologia, biologia, genetica, ricerca, psicologia, sociologia della salute e ambiente), calate nella realtà vivente di un uomo, allo scopo di ripristinarne la salute e curarne le malattie. Art. 48 - Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo devono ispirarsi all’inderogabile principio della salvaguardia dell’integrità psicofisica e della vita e della dignità della persona. Esse sono subordinate al consenso del soggetto in esperimento, che deve essere espresso per iscritto, liberamente e consapevolmente, previa specifica informazione sugli obbiettivi, sui metodi, sui benefici previsti, nonché sui rischi potenziali e sul diritto del soggetto stesso di ritirarsi in qualsiasi momento dalla sperimentazione. Nel caso di soggetti minori, interdetti e posti in amministrazioni di sostegno è ammessa solo la sperimentazione per finalità preventive e terapeutiche. 8. La sperimentazione 321 Il consenso deve essere espresso dai legali rappresentanti, ma il medico sperimentatore è tenuto ad informare la persona documentandone la volontà e tenendola comunque sempre in considerazione. Ogni tipologia di sperimentazione compresa quella clinica deve essere programmata e attuata secondo idonei protocolli nel quadro della normativa vigente e dopo avere ricevuto il preventivo assenso da parte di un Comitato Etico indipendente. La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo comprende la sperimentazione biologica, farmacologica, diagnostica, terapeutica, epidemiologica, prenatale e genetica, oltre a quella sui dispositivi e le apparecchiature sanitarie. La storia della sperimentazione sull’uomo è inscindibile da quella della medicina e condizione necessaria e irrinunciabile per il suo progresso, anche se è relativamente recente la presa di coscienza del dovere di rispettare i più deboli, i detenuti e i minorati nella sua effettuazione, e di salvaguardare in generale i diritti dell’uomo. L’inizio della riflessione deontologica e legislativa, in tema di sperimentazione sull’uomo, si fa risalire tradizionalmente alle conclusioni del Processo di Norimberga (1946-1947), che condannò i medici nazisti per gli esperimenti criminali compiuti sui prigionieri nei campi di sterminio. In seguito a questi fatti, per la prima volta nella storia, una Corte di giustizia riconobbe l’ammissibilità della sperimentazione sull’uomo, purché rispettosa dei suoi diritti, e indicò nel cosiddetto Decalogo di Norimberga (agosto 1947) quali principi etici e giuridici dovessero regolarla per consentire di perseguire gli scienziati e i ricercatori che avessero compiuto sperimentazione criminali sulle persone. Da quel documento storico sono scaturiti tre principi indefettibili: 1. Che la condizione preliminare, “assolutamente essenziale”, allorché si intraprenda una sperimentazione è il consenso libero e informato da parte di chi vi sottopone. 2. Che colui che inizia, dirige o si impegna a condurre la sperimentazione stessa è personalmente responsabile della sua validità scientifica. 3. Che una sperimentazione è giustificata sulla base dei risultati che ci si attende di ottenere, e che il livello di rischio «non deve mai superare quello determinato dall’importanza che il problema, da risolvere mediante la sperimentazione, ha dal punto di vista umanitario». Nonostante si ritenesse che con il processo di Norimberga, si fossero definitivamente archiviati i maltrattamenti delle persone indifese, non mancarono 322 Manuale della Professione Medica negli anni seguenti alcuni episodi di sperimentazioni selvagge, compiute senza il loro consenso, su pazienti anziani, bambini disabili e braccianti di colore. Dal 1947 ad oggi oltre trenta tra Memorandum, Convenzioni, Linee-Guida, Risoluzioni e Raccomandazioni concernenti i diritti dell’uomo e i fondamenti etici e giuridici della sperimentazione sono stati emanati dall’OMS, dalle istituzioni comunitarie e dallo Stato italiano. Il ricercatore, tuttavia, oltre a rispettare gli articoli del Codice deontologico dei medici (2006), è tenuto a conoscere in particolare le Direttive etiche internazionali per la ricerca biomedica condotta sui soggetti umani (CIOMS, Ginevra, 1993), la versione più recente della Dichiarazione di Helsinki dell’Associazione Medica Mondiale (2000), le Good Clinical Practice (Direttiva CEE n. 91/507/1991), la Convenzione di Oviedo (1997), la Dichiarazione Universale di bioetica e diritti umani (UNESCO 2005), i documenti dell’EMEA, del Consiglio d’Europa, del Comitato Nazionale per la Bioetica, e il regolamento e le Procedure Operative Standards (SOPs) del Comitato di Bioetica. Art. 49 - Sperimentazione clinica La sperimentazione può essere inserita in trattamenti diagnostici e/o terapeutici, solo in quanto sia razionalmente e scientificamente suscettibile di utilità diagnostica o terapeutica per i cittadini interessati. In ogni caso di studio clinico, il malato non potrà essere deliberatamente privato dei consolidati mezzi diagnostici e terapeutici indispensabili al mantenimento e/o al ripristino dello stato di salute. I predetti principi adottati in tema di sperimentazione sono applicabili anche ai volontari sani. Le Good Clinical Practice (GCP) sono uno standard internazionale di etica e qualità scientifica, per progettare, condurre, registrare e comunicare i risultati relativi agli studi clinici che coinvolgono soggetti umani. Nessun farmaco può essere autorizzato al commercio se la sua tollerabilità ed efficacia non sono state precedentemente documentate da studi clinici controllati e sottoposti a rigide regole etiche e procedurali. Anche per farmaci già approvati, la richiesta di eventuali nuove indicazioni, 8. La sperimentazione 323 vie di somministrazione, diverso confezionamento e schema terapeutico deve essere sottoposto a nuovi studi clinici. Il DM n. 162/7/1997, recependo le linee-guida europee relative alla Buona Pratica Clinica, ha definito sperimentazione clinica, «ogni sperimentazione condotta su soggetti umani intesa a identificare o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o altri effetti farmacodinamici di un prodotto in sperimentazione, e/o studiare l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione di un prodotto in sperimentazione con l’obbiettivo di valutarne sicurezza e/o efficacia. I termini sperimentazione clinica e studio clinico sono sinonimi». Una sperimentazione clinica nasce, in genere, da un’idea, stimolata dall’osservazione clinica e da motivazioni etiche, e può essere proposta e condotta spontaneamente da uno sperimentatore o da un’organizzazione di cui fa parte, o ideata progettata e proposta da uno sponsor, sia esso una casa farmaceutica o altro ente. Una tutela particolare deve essere riservata ai soggetti “vulnerabili” (detenuti, prigionieri di guerra e condannati a morte) che non possono partecipare volontariamente e liberamente a una sperimentazione, e le leggi disciplinano in dettaglio i problemi etici presenti nelle sperimentazioni condotte sui minori, gli anziani, i disabili, le donne in età fertile e gli affetti da gravi malattie mentali. La ricerca in Italia è promossa prevalentemente dalle aziende farmaceutiche (il 73,7%) perché gli ingenti investimenti richiesti, in termini di tempo, danaro e di risorse umane, possono essere recuperati con l’immissione sul mercato dei principi attivi studiati e dei relativi brevetti. La collaborazione tra industria e ricercatori ha permesso finora la disponibilità di nuovi farmaci efficaci per il miglioramento della salute pubblica, anche se il recente ingresso dei farmaci generici, e la scadenza dei brevetti, pare minacciare gli investimenti in nuove ricerche da parte dell’industria del farmaco. Questo rapporto di collaborazione destinato a coinvolgere esseri umani, deve garantire la massima trasparenza e credibilità dei risultati, e che il ricercatore non possa essere sospettato di conflitto di interessi. Una sperimentazione clinica richiede la scelta di un buon disegno statistico, una rigorosa progettazione e conduzione, una raccolta e analisi accurata dei dati, una corretta e coerente interpretazione e un’utilizzazione efficace dei risultati., e può essere effettuata in un solo centro (studio monocentrico) o condotta, con un unico protocollo, in più strutture e numerosi sperimentatori (studio multicentrico). In quest’ultimo caso il centro coordinatore è rappresentato dal centro promotore dell’iniziativa. 324 Manuale della Professione Medica In una sperimentazione clinica sarebbe auspicabile il coinvolgimento del medico curante del paziente, sia perché ne conosce la storia clinica e personale, e può aiutarlo a dare un assenso consapevole alla proposta di una ricerca, e sia per evitare il rischio di un’interazione tra il farmaco che il paziente sta assumendo nella sperimentazione e quelli eventualmente prescritti dal medico di famiglia. Giova anche ricordare che una sperimentazione terapeutica ha una finalità individuale, la cui rilevanza diagnostico-terapeutica è diretta al paziente stesso e agli altri partecipanti alla ricerca, mentre la sperimentazione non terapeutica (pura o di base) ha una finalità sociale, in quanto la verifica delle ipotesi scientifiche non è direttamente correlata al beneficio di coloro che si sottopongono volontariamente alla ricerca. Infine, gli studi osservazionali rappresentano un metodo di osservazione e per lo studio epidemiologico dei dati relativi all’efficacia dei farmaci prescritti nella normale pratica clinica, ma i protocolli adottati, non potendo essere standardizzati come nella sperimentazione interventistica, devono essere ugualmente rigorosi e non influenzati dal marketing di eventuali sponsor. Conflitto d’interesse Il conflitto di interesse è ritenuto più una “condizione” che un “comportamento, e diviene «moralmente riprovevole soltanto quando provoca comportamenti riprovevoli». Questa definizione eticamente è chiara ma realisticamente incerta, per cui la FNOMCeO ha ritenuto necessario dedicargli oltre a un articolo anche un allegato esplicativo al Codice (vedi pag. 311). La sponsorizzazione privata è necessaria e ineliminabile nella ricerca, e sia l’azienda farmaceutica che il ricercatore, e anche la società, hanno un interesse legittimo nella sua promozione, purché tra i due contraenti sia stipulato un contratto pubblico, chiaro e trasparente. Nelle ricerche cliniche promosse dall’industria farmaceutica il ruolo del medico ricercatore può, infatti, assumere carattere subalterno allo sponsor ed essere influenzato, nella valutazione dei dati raccolti, da una ricerca orientata al profitto nel mercato, ma anche nelle ricerche non profit possono prevalere l’ambizione e gli interessi personali del ricercatore, per ottenere finanziamenti pubblici, piuttosto che il desiderio di conoscere la verità. 8. La sperimentazione 325 La pubblicazione dei risultati di una sperimentazione clinica rappresenta un momento di cruciale importanza perché quei dati, convalidati da referees autorevoli e accreditati, e pubblicati su importanti riviste scientifiche orienteranno le scelte terapeutiche facendo la fortuna commerciale di un farmaco, e potranno avere ripercussioni sulle scelte di politica sanitaria. In questo ambito si definisce “frode” la diffusione intenzionale di dati falsi o inesistenti. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha individuato nelle ricerche promosse dall’industria due categorie di conflitti di interesse: quelli diretti e quelli indiretti. I primi corrisponderebbero a situazioni nelle quali il medico ricercatore riceve direttamente un compenso per il suo lavoro da parte della committenza industriale. Gli indiretti si realizzerebbero, invece, quando il ricercatore riceve dall’industria che ha promosso la ricerca non vantaggi in danaro, ma: viaggi e vacanze, borse di studio, partecipazione gratuita a congressi, o concessioni di apparecchiature “in comodato d’uso”. Art. 50 - Sperimentazione sull’animale La sperimentazione sull’animale deve essere improntata a esigenze e finalità di sviluppo delle conoscenze non altrimenti conseguibili e non a finalità di lucro, deve essere condotta con metodi e mezzi idonei a evitare inutili sofferenze e i protocolli devono avere ricevuto il preventivo assenso di un Comitato Etico indipendente. Sono fatte salve le norme in materia di obiezione di coscienza. L’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica appare uno degli aspetti più controversi e inconciliabili del rapporto uomo/animale. Il dissidio non riguarda solo la sfera morale di pratiche che provocano sofferenze ad altri esseri, ma anche la validità scientifica di una ricerca ritenuta da alcuni fallace, e non predittiva per l’uomo. Gli antivivisezionisti sostengono infatti che, oltre alle sofferenze e al sacrificio di un alto numero di esseri viventi (12 milioni ogni anno nell’Unione Europea, senza contare i “non vertebrati” non censiti, usati come cavie), le differenze genetiche, metaboliche e biochimiche tra specie diverse, la diversità delle reazioni immunologiche e nosologiche tra uomini e animali e la lunghezza dei tempi di sperimentazione, condizionerebbero l’attendibilità e la trasferibilità di queste ricerche all’uomo. 326 Manuale della Professione Medica E qualcuno ha puntato il dito accusatorio anche contro la sperimentazione animale nella cosmetologia per valutare la tollerabilità cutanea di nuovi prodotti. L’opinione prevalente nella comunità scientifica che studia l’efficacia e la tollerabilità dei farmaci, i meccanismi biochimici e fisiopatologici delle malattie, e sperimenta nuove tecniche chirurgiche, sostiene invece che non si possa rinunciare alle sperimentazioni sull’animale, nella convinzione che finora abbiano permesso di acquisire una parte notevole delle attuali conoscenze e risultati altrimenti irraggiungibili nella cura delle malattie. Esse offrirebbero anche opportunità didattiche non sempre sostituibili con soluzioni tecnologiche alternative: simulatori elettronici, colture in vitro di cellule e tessuti, microrganismi, tecniche di imaging non invasive e sistemi artificiali.. Queste opinioni scientifiche antitetiche, e gli interrogativi etico-morali suscitati da questo tipo di sperimentazioni non hanno certamente resa agevole l’opera del legislatore a livello nazionale, e comunitario. Anzi, il Parlamento di Strasburgo, dopo due anni di dibattito, di correzioni e di ripensamenti ha approvato l’8 settembre 2010, tra le proteste di 40 eurodeputati che hanno abbandonato l’aula, una direttiva più arretrata di quella vigente in Italia (legge del 1992 e seguenti), in tema di sperimentazioni sull’animale. Le richieste provenienti da un’opinione pubblica sempre più sensibile all’importanza del rispetto degli animali, imporrebbe la ricerca di un ragionevole equilibrio tra chi rifiuta aprioristicamente la sperimentazione animale, rivendicando un uguaglianza interspecifica uomo-animale, e chi, altrettanto decisamente, rivendica la libertà assoluta, e la responsabilità autoreferenziale e incontrollata del ricercatore. Questo articolo del Codice si è attenuto al dettato del DLgs n. 116/92, e alle altre normative nazionali che disciplinano in ogni suo aspetto lo svolgimento di attività scientifiche che prevedano l’uso di animali, (compreso il riconoscimento all’obiezione di coscienza alla vivisezione), senza prendere partito sulla controversia tra utilità e insostituibilità, eticità e legittimità o meno, di questo genere di sperimentazioni. Riserve e prese di posizioni fortemente critiche sulle norme vigenti non sono mancate, ma allo sperimentatore sarà comunque richiesto di dimostrare, documentare e sottoscrivere: 1. Che non sono disponibili metodi “alternativi”. 2. Che è necessario il ricorso a una determinata specie animale. 3. Che adotterà la metodica sperimentale che richiederà il minor numero di animali, e con il 8. La sperimentazione 327 più basso sviluppo neurologico. 4. Che questa provocherà meno dolore, sofferenza, angoscia, o danni durevoli, offrendo le maggiori probabilità di risultati soddisfacenti. 5. Che non riutilizzerà lo stesso soggetto in altri esperimenti. E, infine. 6. Che ricorrerà all’anestesia dell’animale, a meno che non risulti più dolorosa dell’esperimento o non sia incompatibile con il suo fine (necessaria in questo caso una specifica autorizzazione ministeriale). 9 La documentazione dell’attività medica S. Del Vecchio, V. Fineschi Art. 24 - Certificazione Il medico è tenuto a rilasciare al cittadino certificazioni relative al suo stato di salute che attestino dati clinici direttamente constatati e/o oggettivamente documentati. Egli è tenuto alla massima diligenza, alla più attenta e corretta registrazione dei dati e alla formulazione di giudizi obiettivi e scientificamente corretti. Art. 25 - Documentazione clinica Il medico deve, nell’interesse esclusivo della persona assistita, mettere la documentazione clinica in suo possesso a disposizione della stessa o dei suoi legali rappresentanti o di medici o istituzioni da essa indicati per iscritto. Il certificato medico è la forma più diffusa di documentazione dell’attività medica, una testimonianza scritta su fatti e comportamenti tecnicamente apprezzabili e valutabili, la cui dimostrazione può produrre affermazione di particolari diritti soggettivi previsti dalla legge, ovvero determinare particolari conseguenze a carico dell’individuo e della società, aventi rilevanza giuridica e/o amministrativa. La certificazione di qualsivoglia condizione deve sempre e comunque essere preceduta dalla valutazione clinica del paziente ed è inoltre importante ricordare che il dato clinico deve essere tenuto ben distinto dai sintomi lamentati o comunque da quanto riferito dal paziente. Il medico, nel redigere certificazioni, deve valutare e attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato. Nella compilazione di un certificato medico devono essere riportati i seguenti elementi essenziali: 330 Manuale della Professione Medica – intestazione o timbro del medico certificante; – generalità del paziente richiedente (nome, cognome, data di nascita, residenza o domicilio); – oggetto della certificazione con eventuale diagnosi e prognosi di malattia; – firma del medico certificante; – data e luogo di redazione del certificato. Il certificato deve essere redatto con scrittura e termini comprensibili, senza correzioni e abrasioni che possano far sorgere il dubbio di successive alterazioni o contraffazioni dell’atto, e, nel caso in cui una correzione si rendesse indispensabile, questa va indicata a chiare lettere e controfirmata con firma leggibile. Il rilascio del certificato direttamente al paziente oggetto della certificazione rende implicita la sussistenza del consenso informato da parte del richiedente. È importante ricordare la duplice valenza di questo atto in quanto le eventuali irregolarità potranno avere tanto rilievo amministrativo quanto rilievo giuridico civile e/o penale. Il rilascio di un certificato falso potrà quindi rilevare un reato ed essere perseguito a livello deontologico, a livello amministrativo, a livello penale e a livello civile. La natura giuridica del certificato medico può rientrare in una delle tre ipotesi: – atto pubblico redatto attraverso la certificazione obbligatoria; – certificato amministrativo rilasciato nell’esercizio delle funzioni pubbliche; – scrittura privata rilasciata in regime libero-professionale, durante il quale il sanitario non svolge funzioni pubbliche. La distinzione tra atto pubblico (art. 2699 cc) e certificazione amministrativa è stata precisata dalla sentenza n. 257 del 3 luglio 1989 della Cassazione penale sez. V ed è rilevante per la maggiore severità con cui vengono puniti gli illeciti nella redazione degli atti pubblici: nell’atto pubblico si attestano fatti compiuti dal medico con funzioni pubbliche o avvenuti in sua presenza, mentre nella certificazione il medico con funzioni pubbliche attesta fatti da lui rilevati o conosciuti nell’ambito della sua attività. Va rilevato che sia l’atto pubblico sia la certificazione amministrativa si fondano sul presupposto essenziale che il sanitario li rediga nell’esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale (art. 357 cp) o incaricato di pubblico servizio (art. 358 cp). 9. La documentazione dell’attività medica 331 Sono atti pubblici che presuppongono l’avvenuta visita medica, la prescrizione su ricettario regionale di accertamenti diagnostici (sentenza n. 412 del 14 gennaio 1985 della Cassazione penale, sez. V), il certificato di morte e dell’identificazione delle relative cause (sentenza n. 8496 del 17 ottobre1983 della Cassazione penale, sez. V) e il certificato di idoneità alla guida di autoveicoli (sentenza n. 9228 del 22 novembre 1979 e sentenza n. 1429 del 15 novembre 1984 della Cassazione penale, sez. V) e quello di idoneità al porto d’armi (DM 28 aprile 1998 in GU n. 143 del 22 giugno 1998). Sono considerate certificazioni amministrative: la prescrizione di farmaci su ricettario regionale (sentenza n. 6752 del 7 giugno 1988 della Cassazione penale, sez. Unite, e sentenza n. 8051 del 1 giugno 1990 della Cassazione penale, sez. IV) e le altre certificazioni redatte in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio come, per esempio, i certificati di idoneità all’attività sportiva agonistica di cui al DM Sanità 18 febbraio 1992 per gli atleti non professionisti e di cui al DM Sanità 13 marzo 1995 per gli atleti professionisti. Va rilevato che i certificati di idoneità allo sport agonistico possono essere rilasciati solo da medici specialisti o accreditati, ai sensi del DL n. 633/79 convertito in legge n. 33/80. Ugualmente, i certificati attestanti l’esonero all’uso delle cinture di sicurezza per controindicazione derivante da malattia possono essere rilasciati solo dai medici dipendenti o incaricati del SSN ai sensi della legge 4 agosto 1989 e non dai medici di medicina generale, salvo i casi certificanti lo stato di gravidanza o la statura inferiore a cm 150. Sono considerate scritture private (art. 2702 cc) le certificazioni redatte dal medico in qualità di libero professionista, definito come esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 cp). Ad esempio: a) i certificati di assenza di controindicazioni per l’esercizio dell’attività sportiva non agonistica ai sensi del DM Sanità del 28 febbraio 1983; b) la proposta di ricovero coatto per pazienti psichiatrici di cui alla legge n. 180/78 (sentenza n. 18341 del 2 dicembre 1983 della Cassazione penale, sez. V) indirizzata al Sindaco, redatta da medico libero professionista; c) i certificati per l’interruzione volontaria di gravidanza di cui alla legge n. 194/78; d) la constatazione di decesso; e) i certificati di malattia per uso assicurativo privato. Alcuni reati sono tra l’altro previsti nel nostro Codice penale in tema di certificazioni quali il falso materiale, il falso ideologico, la truffa e la violazione di privacy e segreto professionale. 332 Manuale della Professione Medica Il sanitario con funzioni pubbliche risponde di falso materiale (art. 476 cp in atto pubblico e art. 477 cp in certificazione amministrativa) se nella redazione del certificato commette alterazioni o contraffazioni mediante cancellature, abrasioni, aggiunte successive miranti a far apparire adempiute le condizioni richieste per la sua validità. Il medico che svolge un’attività libero-professionale risponde invece, in caso di falso materiale all’art. 485 cp, articolo nel quale sono previste pene meno severe rispetto a quelle indicate a carico del medico con funzioni pubbliche. Il medico con funzioni pubbliche risponde di falso ideologico (art. 479 cp in atto pubblico e art. 480 cp in certificazione amministrativa) se il giudizio diagnostico espresso nel certificato si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio stesso, che siano non rispondenti al vero, sempre che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione, secondo la sentenza n. 11482 del 24 maggio 1977 della Cassazione, sez. VI. Il sanitario che svolge attività libero-professionale in caso di falso ideologico risponde all’art. 481 del cp: anche in questo caso le pene previste sono meno severe. Ovviamente, il presupposto essenziale di tutti questi reati è il dolo. La distinzione tra diagnosi falsa e diagnosi errata nel certificato medico ai fini della legge penale è stata definita dalla sentenza del 18 marzo 1999 della Cassazione penale, sezione V: è falsa la certificazione che si basa su premesse oggettive non corrispondenti al vero, è invece errata se risulta inattendibile l’interpretazione data per motivare il giudizio clinico. Ricordiamo a tal proposito che la Cassazione con sentenza del 14 dicembre 1977 ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 481 cp (falso ideologico) il medico che compila un certificato di morte senza aver visitato la salma. Il Tribunale di Modena con sentenza del 15 marzo 1964 ha stabilito la colpevolezza di cui all’art. 481 cp a carico di un medico che aveva attestato il falso per rimuovere un ostacolo al trasporto della salma di un paziente deceduto, favorendo così i congiunti, pur senza trarne vantaggio personale, ma eludendo in tal modo le norme di polizia mortuaria, anche se per un fine apparentemente umanitario. Il certificato medico, nonché come già sottolineato la ricetta e/o la richiesta di accertamenti, può determinare la costituzione di diritti a favore del richiedente con possibili oneri risarcitori a carico di terzi, tra cui anche lo Stato, ed è perciò, per sua propria natura, soggetto a verifica. Di conseguenza false attestazioni possono costituire anche il reato di truffa. 9. La documentazione dell’attività medica 333 L’ente pubblico può ovviamente esercitare un’azione di rivalsa nei confronti del medico, per il danno patrimoniale: questa procedura si aggiunge a quella penale ed è forse ancora più temibile di quest’ultima per il medico che non abbia agito correttamente. I contenuti del certificato medico sono poi coperti dal segreto professionale ai sensi del CDM e della legge sulla privacy. La violazione del segreto, in assenza di giusta causa, è punita dall’art. 622 cp, se compiuta da un medico durante la libera professione, e viene invece punita più severamente, dall’art. 326 cp, se commessa da un sanitario con funzioni pubbliche. Va rilevato che lo stesso rilascio di certificazioni o comunque di altra documentazione clinica a soggetti diversi dall’interessato, senza il suo preventivo consenso, può costituire una forma di violazione del segreto professionale e della privacy. La gestione della documentazione sanitaria investe un ambito di organizzazione sanitaria insufficientemente regolato dallo Stato tanto in senso normativo quanto in senso organizzativo dagli enti che lo rappresentano. Non vi è dubbio che la documentazione clinica rappresenta un bene destinato a un pubblico servizio, in quanto la sua destinazione è direttamente attinente al fine perseguito, che nel caso delle Aziende ospedaliere o del singolo medico si identifica nella tutela della salute. Ne deriva che la documentazione sanitaria è bene pubblico e in particolare bene patrimoniale indispensabile; la qualifica di bene pubblico del resto non può essere disconosciuta, trattandosi non solo di bene appartenente a un ente pubblico (Azienda sanitaria), ma anche di bene destinato all’immediata soddisfazione di bisogni considerati di importanza sociale. La normativa generale cui far riferimento è il DPR n. 128 del 1969 che, all’art. 5, intesta il relativo impegno al direttore sanitario cui è deputato il rilascio agli aventi diritto, in base ai criteri stabiliti dalle singole amministrazioni. Ne deriva che le copie delle «cartelle cliniche ed ogni altra certificazione sanitaria riguardante i malati assistiti in ospedale» rientrano in tale previsione. Gli aventi diritto, cui è riservato il rilascio del materiale sanitario, sono individuabili, oltre che nel paziente, nella persona fornita di delega, conformemente alle disposizioni di legge; in tutti i soggetti appartenenti al Servizio Sanitario pubblico, negli enti previdenziali (INAIL, INPS), nell’autorità giudiziaria. In effetti, la trasmissione di documenti inerenti le condizioni di salute e, in genere, personali di un soggetto non si sottrae alla disciplina giuridica del segreto professionale (art. 622), per cui solo l’avente diritto può cementare 334 Manuale della Professione Medica (per scritto) l’accesso di altri ai dati clinici che lo riguardano, salvo che non sussista una diversa previsione normativa che ne stabilisce la trasmissibilità. Art. 26 - Cartella clinica La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate. La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente, o di chi ne esercita la tutela, alle proposte diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento ad un protocollo sperimentale. La cartella clinica La cartella clinica (cc), alla cui compilazione sono tenuti i medici ospedalieri o dipendenti delle case di cura private, costituisce un documento di grande rilevanza sanitaria, strumento di lavoro essenziale per una corretta assistenza del paziente (9). Definizione e normativa «L’importanza che la cartella clinica ha assunto in ambito sanitario è progressivamente scandita e ben sintetizzata dalla messe di contributi offerti dalla dottrina medico-legale e dal riscontro giurisprudenziale di decisioni tese a un più completo assetto giuridico che tale documentazione assume nel contesto della tutela della salute oltre che della mera assistenza sanitaria» (Fineschi V, 2001). La cartella clinica (cc) era già stata definita come «il fascicolo nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle ricerche e delle analisi effettuate, quelli delle terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale» (Merusi F, Bargagna M, La cartella clinica, Giuffrè, Milano, 1978). Essa è pertanto un documento eterogeneo, nel quale il personale sanitario che si avvicenda intorno alla persona assistita cui la cartella si riferisce, registra 9. La documentazione dell’attività medica 335 un complesso di informazioni (anagrafiche, sanitarie, sociali, ambientali, giuridiche) concernenti un determinato paziente allo scopo di poter rilevare ciò che lo riguarda in senso diagnostico-terapeutico non solo nel momento della ospedalizzazione ma anche in tempi successivi. Questa infatti rappresenta un insostituibile strumento tecnico-professionale attraverso il quale garantire e/o programmare opportuni interventi medici, rilevare dati a fini scientifici, anche epidemiologico-statistici, oltre a rivestire, come meglio diremo innanzi, un innegabile ruolo/attributo di natura squisitamente medico-legale. Infine è nozione acquisita che, come chiaramente scandito dalla circolare del Ministero della Sanità, 14 marzo 1996, tanto la cartella infermieristica quanto il registro operatorio costituiscono parte integrante della cc in aggiunta alla scheda di dimissione ospedaliera, già prevista in ossequio al DM 21 dicembre 1991 e quindi ne rappresentano parte integrante e completante. Cartella clinica: verso una nuova definizione La cc è il diario nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato, cui il contenuto dello stesso integralmente appartiene, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle indagini strumentali e laboratoristiche effettuate, quelli inerenti le terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale e quindi le conclusioni diagnostiche e terapeutiche cui si è pervenuti al termine del ricovero. Costituiscono parte integrante della cc, la cartella infermieristica, il registro operatorio (quando presente) e la scheda di dimissione ospedaliera. I primi riferimenti normativi relativi alla cc risalgono in Italia alla fine dell’800, con il RD del 1891 che disponeva la conservazione dei documenti relativi all’ammissione del ricoverato, alla diagnosi, al sommario mensile delle condizioni cliniche e alla dimissione. Il successivo RD del 1909 disponeva che in ogni manicomio doveva essere presente un fascicolo personale per ciascun ricoverato. Nel 1938, con RD n. 1631 (legge Petragnani), all’articolo 34, si prevedeva che la regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici fosse compito del primario, principio che viene confermato dal DPR n. 128 del 1969, che all’articolo 7 individua nel primario il «[…] responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all’archivio centrale […]», quest’ultimo ubicato presso la Direzione sanitaria così come disciplinato all’art. 2 del medesimo decreto ove si rammenta che la 336 Manuale della Professione Medica Direzione sanitaria deve essere all’uopo fornita di un archivio clinico e si enuncia che tra i compiti del direttore sanitario vi è anche quello di vigilare sull’archivio delle cartelle cliniche e su ogni altra certificazione riguardante i malati assistiti in ospedale. La legge attribuisce specificamente al primario (oggi responsabile di Unità Operativa), l’onere della regolare tenuta della cc e dei registri nosocomiali, sottolineando una responsabilità che ha pertanto chiare implicazioni di natura giuridica sia in ordine ad aspetti prettamente penalistici (relativi, ad esempio, alla tenuta e compilazione di atti di natura pubblica) sia in ordine ad aspetti squisitamente civilistici, sotto il profilo dell’onere della prova e della individuazione della prestazione dovuta da parte di medici e struttura. Anche la giurisprudenza si è espressa in merito, affermando che: «la cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri dati rilevanti» (Cass. sez. V penale, 1983). Oltre al primario, corresponsabile della corretta compilazione della cc nel quadro delle «attribuzioni riferite ovviamente, e per quanto di competenza, è l’aiuto [figura oggi scomparsa, ma solo nominalmente] che collabora direttamente con il primario nell’espletamento dei compiti a lui attribuiti e lo sostituisce in caso di assenza o di impedimento», secondo un principio che nel DPR n. 761 del 1979, all’articolo 63 concretizza una titolarità plurisoggettiva nella regolare compilazione delle cartelle cliniche, anche in presenza del primario, poiché l’aiuto svolge funzioni autonome nell’area dei servizi a lui stesso affidata, sulla base delle direttive ricevute dal primario. Già con il DPR n. 225 del 1974, anche l’infermiere professionale diviene responsabile della corretta conservazione della documentazione sanitaria del paziente, sino al momento della consegna all’archivio centrale; è inoltre prevista la possibilità di annotare sulle schede cliniche gli abituali rilievi di competenza. E inoltre la ricerca di efficienza-efficacia e appropriatezza dei servizi e delle cure nell’ambito delle più generiche prestazioni sanitarie aziendali ha di fatto definitivamente formalizzato la caratterizzazione “multiprofessionale” di un tale atto che non si sottrae certamente dal controllo di qualità di cui, anzi, rappresenta un indice oltre che uno strumento atto alla valutazione dello stesso. Infatti all’art.15 del DLgs n. 229 del 1999 recante le “Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale a norma della legge 30 novembre 1998, n. 419”, in relazione alla disciplina della dirigenza medica e delle professioni sanitarie viene san- 9. La documentazione dell’attività medica 337 cito il principio secondo il quale: «L’autonomia tecnico-professionale, con le connesse responsabilità, si esercita nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale e aziendale, finalizzati all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità». A margine di quanto sin qui esposto deve annotarsi, come in relazione alla custodia della cartella clinica, al di là del frammentario richiamo, la legislazione attuale manchi di chiare norme che regolamentino in maniera univoca e definitiva la sua compilazione (sin dall’apertura) e la sua archiviazione (sin alla chiusura) ovvero che ne garantiscano la integrità/inalterabilità (non manomissione, non danneggiamento, non smarrimento), oltre che l’accessibilità ai soli aventi diritto. Un appiglio lo si trova nella recente norma per la tutela della privacy relativamente al trattamento dei dati sensibili nella quale il direttore di ogni unità operativa, individuato dall’Azienda quale incaricato, può delegare a propri collaboratori (medici e infermieri) il compito di curare la diligente custodia della cc e l’osservanza delle misure minime di sicurezza stabilite dal DLgs 318/1999 articolo 9 punto 4. Il DLgs 318/1999, art. 9 punto 4 «1. Nel caso di trattamento di dati personali per fini diversi da quelli dell’art. 3 della legge (= fini esclusivamente personali), effettuato con strumenti diversi da quelli previsti dal capo II (= strumenti elettronici o automatizzati), sono osservate le seguenti modalità: – nel designare gli incaricati del trattamento per iscritto e nell’impartire le istruzioni ai sensi dell’art. 8, comma 5 e 19 della legge, il titolare o, se designato, il responsabile devono prescrivere che gli incaricati abbiano accesso ai soli dati personali la cui conoscenza sia strettamente necessaria per adempiere ai compiti loro assegnati; – gli atti e i documenti contenenti i dati devono essere conservati in archivi ad accesso selezionato e, se affidati agli incaricati del trattamento, devono essere da questi ultimi conservati e restituiti al termine delle operazioni affidate. 2. Nel caso di trattamento di dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge, oltre a quanto previsto nel comma I, devono essere osservate le seguenti modalità: – se affidati agli incaricati del trattamento, gli atti e i documenti contenenti i dati sono conservati fino alla restituzione, in contenitori muniti di serratura; 338 Manuale della Professione Medica – l’accesso agli archivi deve essere controllato e devono essere identificati e registrati i soggetti che vi vengono ammessi dopo l’orario di chiusura degli archivi stessi». Va ricordato come in caso di smarrimento, di distruzione o comunque di cattiva gestione delle cartelle cliniche, la responsabilità civile di tali evenienze è sempre riferibile alla amministrazione dell’ospedale, anche se e quando l’illecito sia compiuto dalla persona fisica responsabile direttamente alla conservazione. Quest’ultima può incorrere in responsabilità di natura penale e poi come soggetto anche a sanzione disciplinare. Inquadramento giuridico Dal punto di vista giuridico, il panorama dottrinale risulta sostanzialmente diviso su tre distinte posizioni. Alcuni considerano il memoriale clinico quale semplice dichiarazione di scienza; altri quale un tertium genus in posizione intermedia tra la scrittura privata e l’atto pubblico, e assimilabile a una certificazione amministrativa; altri ancora, la parte più cospicua, si trovano in armonia con le numerose pronunce della Suprema Corte, in prevalenza orientata nel senso di riconoscere alla cc la natura di atto pubblico «inidoneo pertanto a produrre piena certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti richiesti dall’articolo 2699 cc» e facente quindi fede fino a prova contraria. Viene comunque escluso che la cc possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da configurarsi alla stregua di certificazione ai sensi degli articoli 477 e 480 cp. Differente è l’inquadramento giuridico della cc delle case di cura private, previsto nel DPCM del 27 giugno 1986 (ex art. 35), che così distingue: – se inerente prestazioni sanitarie per le quali la casa di cura privata è convenzionata con la ASL, la sua natura giuridica è la stessa della cc degli stabilimenti pubblici; – se trattasi di casa di cura non convenzionata, la cc ivi redatta rappresenta esclusivamente un promemoria privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta, non rivestendo pertanto né carattere di atto pubblico, né di certificazione. Per quanto concerne l’inquadramento penalistico, pur trattandosi di attività libero-professionale svolta dal medico all’interno della casa di cura privata, di un servizio di pubblica necessità, la falsità ideologica della cc, in questi casi è punibile ai sensi dell’articolo 481 cp (“Falsità ideologica in certificati commessa 9. La documentazione dell’attività medica 339 da persone esercenti un servizio di pubblica necessità”), non sussistendo la natura giuridica di certificazione. A fronte di un tale variegato panorama dottrinale, la Giurisprudenza si mostra costante nel riconoscere in capo alla cc natura di atto pubblico. Doveroso il richiamo alla dissonante e isolata sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, n. 30150/2002 ove la cartella assume natura di atto privato (per di più in un caso di manifesta connivenza degli amministrativi per soddisfare un interesse privato). Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, sentenza n. 30150/2002: assolto il marito che aveva avuto copia della cartella clinica della moglie senza l’autorizzazione della stessa, ricoverata in reparto psichiatrico: «Il Tribunale di Trapani, in composizione monocratica, con sentenza emessa il 14 marzo 2001, assolveva M.G. dal reato di cui all’art. 35, comma 2° legge 675/1996 in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata, perché il fatto non era previsto dalla legge come reato. Avverso la citata sentenza, il PM presso il Tribunale di Trapani proponeva ricorso per Cassazione, deducendo: motivo unico, violazione di legge. Il fatto doveva essere qualificato quale rivelazione del segreto di ufficio, ai sensi dell’art. 326 cp, stante la qualifica di incaricato di pubblico servizi. Motivi della decisione. Il ricorso è infondato. Ai fini di una completa intelligibilità della vicenda in esame, è opportuno riassumere i termini fattuali della fattispecie. A M.G. è stato contestato il delitto di cui all’art. 35, comma 2° legge 675/1996, in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata perché, in concorso tra loro e al fine di trarne profitto, lo S., quale soggetto addetto al rilascio di copia delle cartelle cliniche presso l’Ospedale S. Antonio Abate e il M., quale soggetto richiedente, comunicavano dati idonei e rilevare lo stato di salute della D.R.; in particolare, su richiesta del M., lo S. rilasciava al primo copia della cartella clinica relativa al periodo di degenza della D. presso il reparto di psichiatria dell’Ospedale S. Antonio Abate, al fine di consentire al M. di produrre la predetta documentazione sanitaria nella causa civile di separazione personale tra i coniugi, instaurata presso il Tribunale di Marsala […]. Il Tribunale di Trapani, con sentenza emessa il 14 marzo 2001, assolveva il M. dal reato ascrittogli perché, tenuto conto dell’epoca della vicenda in esame, 30 luglio 1997, il fatto non era previsto dalla legge come reato, ex art. 45 legge 675/1996. Tanto premesso in fatto, va affermato che nella fattispecie non ricorrono gli estremi 340 Manuale della Professione Medica del reato di cui all’art. 326 cp. La cartella clinica relativa allo stato di salute di D.R., pur essendo atto attinente a notizie riservate, non costituiva documento relativo a notizie di ufficio destinate a rimanere segrete. La cartella clinica, invero, previo consenso dell’interessata o previa autorizzazione della competente Autorità amministrativa o giudiziaria, poteva essere rilasciata a terzi per finalità legittime previste dall’ordinamento giuridico. Manca, quindi, l’elemento obiettivo del reato di cui all’art. 326 cp. Va respinto, pertanto, il ricorso proposto dal PM avverso la sentenza del Tribunale di Trapani del 14 marzo 2001. PQM La Corte rigetta il ricorso del PM». Di contro la gran messe di pronunzie della Corte Costituzionale attribuiscono alla cc il possesso dei requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato di certezza legale, implicherebbe per il giudice un vincolo di verità su ciò che il pubblico ufficiale ha attestato, salvo che la parte privata che vi ha interesse, intenti una querela di falso, mirante a porre in questione la falsità del documento. Cass. pen., sez. V, 21 gennaio 1981: «[…] ha natura di atto pubblico la cartella redatta dal medico dipendente da casa di cura convenzionata con il Ministero della Sanità […]». (Concetto ribadito anche per il medico dipendente da casa di cura convenzionata – Cass. pen. 27 maggio 1992 e Cass. pen. sez. unite 11febbraio 1992). Cass. pen., sez. V 17 dicembre 1992: «[…] la cartella clinica rientra nella categoria degli atti pubblici ove sia redatta dal medico di un ospedale pubblico essendo caratterizzata dalla produttività di atti costitutivi traslativi modificativi o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto […]». In precedenza, la stessa corte (Cass. pen. 24 maggio 1992) aveva stabilito che la cc redatta dal medico di un pubblico ospedale non può ritenersi solo e in toto atto pubblico munito di fede privilegiata dovendo tale particolare efficacia probatoria intendersi limitata alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti. Per atto di fede privilegiata si intende un atto pubblico redatto nelle forme di legge, che promana da un pubblico ufficiale, cui la legge riconosca una speciale potestà certificativa, contenente quanto riferito al pubblico ufficiale e quanto da lui attestato come detto o accaduto. 9. La documentazione dell’attività medica 341 Definire la cc come atto pubblico di fede privilegiata comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata: a) l’applicazione degli articoli 479 e 476 cp per il falso ideologico e materiale nella previsione della pena più grave; b) l’eventuale responsabilità per omissione o rifiuto di atti di ufficio ex art. 328 cp; c) la rivelazione di segreto di ufficio ex art. 326 cp. Cartella clinica e segreto professionale In ambito sanitario, la classica tutela del segreto professionale ex art. 622 cp attiene a tutto ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e del suo modo di essere non ovviamente palesi, di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua attività professionale che si identifica con quanto riportato in cc. Ben diversa tale accezione dal concetto di tutela della privacy e trattamento dei dati sensibili, così come regolamentati dall’Istituto del Garante, come più avanti specificato nella apposita sezione a esso dedicato. Cartella clinica: segreto (riferimenti): – – – – – – – Giuramento di Ippocrate. Art. 326 cp: “Rivelazione di segreti d’ufficio”. Art. 622 cp: “Rivelazione di segreto professionale”. Nuovo Codice di Deontologia medica, artt. 9, 10, 11, 23. DPR n. 128 del 27 marzo 1968, art. 6 DM 5 agosto 1977 artt. 19, 24. Legge n. 675 del 31 dicembre 1996 (legge per la tutela della privacy). DLgs n. 196 del 30 giugno 2003, art. 92. L’illegittima divulgazione del contenuto della cc può condurre a conseguenze di ordine penale per la violazione del segreto professionale o di quello d’ufficio e a censure a carico del proprio Ordine o Collegio professionale per violazione del segreto professionale. Lo studente frequentatore e il medico tirocinante in quanto non strutturati sono tenuti al segreto professionale e non a quello d’ufficio. La trasmissione consiste nel rendere partecipi del segreto altre persone o enti interessati allo stesso caso, a loro volta vincolati al segreto per ragione di professione o di ufficio. 342 Le Manuale della Professione Medica cause di giustificazione 1. Norme imperative: sono disposizioni di legge che obbligano l’esercente la professione sanitaria al dovere di informativa mediante denunce, referti, rapporti, certificazioni, dichiarazioni o relazioni concernenti fatti di natura professionale, che altrimenti sarebbero coperti dal segreto più rigoroso. 2. Norme scriminative o permissive: sono previste dal codice penale: – – – – – – – consenso del paziente; caso fortuito o forza maggiore; violenza fisica; errore di fatto; altrui inganno; stato di necessità; legittima difesa. Requisiti formali Il contenuto della cc può essere variabile in quanto, a tutt’oggi, come ribadito, non esiste una norma che definisca le modalità di strutturazione e di compilazione della cc. In particolare, non c’è ancora una vera e propria direttiva di compilazione specifica, pur parlandosi ampiamente di standard, di cartelle cliniche normalizzate ecc.; il vecchio sistema della cartella con la storia clinica divisa per dati anamnestici familiari, fisiologici, della patologia remota e della storia clinica recente nonché dei rilievi clinici scaturiti dalla visita, è ormai superato. Si impongono, infatti, diversi indirizzi nella compilazione della cc e, la struttura e le informazioni riportate per ogni sezione dipendono dal tipo di ricovero e di patologia, oltre che dalle regole di compilazione e della modulistica adottate in ciascun ospedale e ciò è dovuto ai diversi obiettivi personali o di reparto oltre che di area. Cartella clinica: compilazione Il più delle volte le cartelle cliniche risultano difficili da consultare per differenti motivi: – quantità eccessiva e ridondante di dati; – mancanza di un indice; – mancanza di un sistema esplicito di ordinamento dei dati; 9. La documentazione dell’attività medica 343 – duplicazione e moltiplicazione di cartelle (medica, infermieristica, anestesiologica, riabilitativa, dietologica ecc.); – fonti parallele e indipendenti di dati (diario clinico, esami, consegne, comunicazioni varie ecc.); – raccolta dati per analogia (esami, consulenze, procedure ecc.) e non per problema, fonte, data; – disordine dei documenti; – cartella a misura di specialista; – mancanza di razionale esplicito e documentato per decisioni maggiori o minori o cambiamenti di strategia; – differenze non controllate (datazione USA o europea, luogo della datazione, luogo e formato dei dati identificativi); – dati sparsi qua e là; – differente formato dei dati (parole, numeri, simboli); – scarsa chiarezza della tempistica di riscontri, decisioni, esiti; – datazione non chiara; – uso irrazionale di formati, simboli; – scritture illeggibili; – lista delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati mancante; – lista delle firme e sigle dei professionisti mancante. Le cartelle facili da consultare dovrebbero essere lineari, essenziali, scevre da eccessivi elementi di distrazione (simboli), da definizioni gergali, da abbreviazioni criptiche o da salti logici, dovrebbero seguire un ordine definito (cronologico, consequenziale, per problemi, per categorie), obbedendo a regole di omogeneità: – – – – – – – evitare annotazioni illeggibili; scrivere a macchina/computer, evitando un eccesso di fonti, colori, formati; usare caratteri adeguati; non comporre righe troppo lunghe o troppo corte; spaziare adeguatamente le righe tra di loro; limitare gli elenchi; usare con moderazione i richiami (stelle, frecce ecc.). La cc è in effetti un documento che incorpora elementi di carattere clinico (relativo alle parti compilate dal medico), di carattere terapeutico (quelle a opera dell’infermiere), di carattere amministrativo e gestionale. Ogni attività 344 Manuale della Professione Medica svolta dal personale sul paziente viene riportata in cc che diventa lo strumento fondamentale di condivisione del lavoro per tutto il personale. Ogni figura professionale compila per ogni passaggio terapeutico lo schema funzionale di propria competenza in tempi e modi diversi a seconda delle proprie necessità ed esigenze. Quando il paziente viene dimesso, le informazioni raccolte consentono non solo di espletare le procedure di rendiconto previste per ogni ASL e per gli uffici amministrativi relativi, ma anche di fornire i dati per permettere alla direzione la possibilità di effettuare bilanci e consultivi. Il DPCM del 27 giugno 1986 detta principi di compilazione della cc, che possono servire da generico riferimento e ausilio anche per uno schematico approccio alla documentazione sanitaria da esibire in ambito pubblicistico. Nella compilazione della cartella debbono risultare per ogni ricoverato le generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi. Le cartelle cliniche, firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento, dovranno portare un numero progressivo ed essere conservate a cura della Direzione sanitaria. Così come già ricordato, traspare in tutta evidenza che la cc deve essere completa di tutti i dati significativi relativi alla degenza del paziente e deve riflettere quanto effettivamente è stato per lui fatto. Una indicazione sul significato contenutistico della cc viene fornito dalla Suprema Corte allorché ammonisce essere tale documento un «diario diagnostico-terapeutico», nel quale vanno annotati fatti di rilevanza giuridica quali i dati anagrafici e anamnestici del paziente, gli esami obiettivi, di laboratorio e specialistici, le terapie praticate, nonché l’andamento, gli esiti e gli eventuali postumi della malattia (Cass. pen. sez. unite, 27 marzo 1992). I requisiti formali richiesti nella stesura della cc, possono pertanto essere così riassunti: – – – – – – – intellegibilità della grafia; descrizione della epicrisi; precisazione fonte anamnesi; modalità di acquisizione del consenso; disposizione cronologica dei rilievi; indicazione sede dell’accertamento; correzione adeguata di errori materiali. 9. La documentazione dell’attività medica 345 Così come deducibile dall’art 23 del nuovo Codice di Deontologia medica, il cui monito deontologico ha l’intento di impegnare il medico alla completezza della documentazione sanitaria, riassumendosi nella raccomandazione l’obbligo sostanziale della chiarezza e veridicità che è presupposto imprescindibile di ogni attestazione sanitaria e che si compendia di una annotazione formalmente accorta e sostanzialmente corretta, da cui non possono che scaturire giudizi parimenti accorti e corretti, prudenti, oltreché diligenti e periti. La cc deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona prativa clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo corso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate. La finalità è quella di rendere utilizzabile la testimonianza documentata a fini di interesse individuale e collettivo, affinché il singolo o le pluralità degli individui possano valersi dell’atto medico traendo indicazioni comportamentali, organizzative o programmatiche aventi carattere sanitario. I requisiti formali sono stati oggetto di una decisione dell’Autorità Garante (n. 165 del 31 marzo-6 aprile 2003): se la cc è illeggibile per la grafia di chi l’ha redatta, deve essere trascritta in modo che le informazioni in essa contenute risultino chiare per il malato. La leggibilità delle informazioni è la prima condizione per la loro piena comprensione. Il Garante lo ha precisato accogliendo il ricorso di un paziente che lamentava un riscontro inadeguato da parte dell’Azienda ospedaliera cui si era rivolto chiedendo la comunicazione in forma intelligibile dei dati personali contenuti nella sua cc. In risposta aveva ricevuto copia della cartella che, però, a suo parere, risultava illeggibile per la pessima grafia degli autori e quindi incomprensibile. Nel ricorso il malato chiedeva che le spese del procedimento fossero attribuite all’Azienda ospedaliera. Nel provvedimento il Garante ha sottolineato la specifica tutela che la legge sulla privacy garantisce alle persone al momento dell’accesso ai propri dati personali, rispetto al diverso diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi disciplinato dalla legge 241/1990. L’articolo 13 della legge 675/1996 prevede, infatti, che i dati personali devono essere estratti e comunicati all’interessato in forma intelligibile e il principio viene ulteriormente specificato nel DPR 501/1998, quando in riferimento ad alcune modalità di riscontro al diritto di accesso, si afferma che la comprensione dei dati deve essere agevole e obbliga il titolare del trattamento ad adottare opportune misure per agevolare l’accesso ai dati da parte degli interessati. 346 Manuale della Professione Medica Anche nel caso in cui l’estrazione e la trasposizione dei dati su un supporto cartaceo o informatico dovesse risultare particolarmente difficoltosa, la richiesta di accesso ai dati personali, formulata ai sensi della legge sulla privacy, può essere sì soddisfatta dall’esibizione o dalla consegna in copia di un documento, ma la leggibilità delle informazioni è la prima condizione, necessaria anche se non sufficiente, per la loro comprensibilità. Riconosciuta, quindi, la legittimità delle richieste del ricorrente, il Garante ha ordinato all’Azienda ospedaliera di rilasciare, entro un termine stabilito, una trascrizione dattiloscritta o comunque comprensibile delle informazioni contenute nella cc e di comunicarle all’interessato, come prescrive la legge, tramite il medico di fiducia o designato dalla ASL. All’Azienda sono state inoltre imputate le spese del procedimento. Oltre ai requisiti formali, assumono un ruolo non meno importante nella compilazione della cc i così detti requisiti sostanziali o essenziali, così riassumibili: veridicità; completezza; chiarezza; correttezza formale; contestualità, tempestività. – Veridicità: consiste nella conformità di quanto descritto dal medico (o da altro operatore sanitario) con quanto da lui constatato in modo obiettivo. – Chiarezza: consiste nel redigere l’attestazione scritta in modo esattamente e compiutamente comprensibile per chiunque. – Contestualità: la cc per «sua natura è un acclaramento storico contemporaneo». Le annotazioni vanno pertanto fatte contemporaneamente allo svolgersi dell’evento descritto e cioè senza ritardo né a cose fatte. Deve essere redatta in pendenza di degenza e secondo la sequenza cronologica della registrazione di eventi. La contestualità può non essere intesa in maniera rigorosa, ma nel rispetto di alcuni limiti temporali, quali un equo periodo di riflessione clinica, il rispetto della sequenza cronologica nella registrazione degli eventi e l’estensione in pendenza di degenza. Il problema è quello della contestualità tra verbalizzazione ed eventi della malattia e della definitività della verbalizzazione nel momento stesso in cui vengono annotati gli eventi di degenza, che ex tunc escono dalla disponibilità del verbalizzante. La contestualità tra verbalizzazione ed evento si ritiene possa realizzarsi nei limiti di tempo compatibili con la riflessione clinica, con le situazioni con- 9. La documentazione dell’attività medica 347 tingenti e, comunque, in pendenza di ricovero, con il rispetto della sequenza cronologica della registrazione. È da ritenere, quindi, contemporanea anche la registrazione che avviene qualche tempo dopo in relazione alle contingenze del caso clinico, alle attività di reparto e, in caso di informatizzazione, della organizzazione della immissione dei dati nel computer. La contestualità della registrazione va intesa in senso stretto in alcune obiettività che possono evolvere e cambiare in breve tempo; al riguardo la Giurisprudenza ha espresso più volte la necessità di una registrazione rigorosamente contestuale, non postuma, per i «fatti clinici rilevanti». Giurisprudenza costante afferma che: «la cartella clinica adempie la funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, per cui gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne consegue che (all’infuori della correzione di meri errori materiali) le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici» (Cass. pen. sez. V, 11 novembre 1983 n. 9423; Cass. pen. sez. V, 23 marzo 1987, n. 3632). Ciascuna annotazione presenta, singolarmente, autonomo valore documentale definitivo che si realizza nel momento stesso in cui vengono trascritte e qualsiasi successiva alterazione, apportata durante la progressiva formazione del complesso documento, costituisce falsità, ancorché il documento sia ancora nella materiale disponibilità del suo autore, in attesa di trasmissione alla Direzione sanitaria. «La cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione a ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento in cui la singola annotazione viene registrata. Ogni annotazione assume, pertanto, valore documentale autonomo e spiega efficacia nel traffico giuridico non appena viene scritta, con la conseguenza che la successiva alterazione da parte del compilatore costituisce falsità punibile, ancorché il documento sia ancora disponibile materialmente, in attesa della trasmissione alla direzione sanitaria per la definitiva custodia» (Cass. pen, 1963). Un ritardo nella compilazione oppure la mancata compilazione può dunque configurarsi per il medico esercente all’interno di una struttura sanitaria come una omissione di atti di ufficio, mentre una sua compilazione non veritiera come falso ideologico e una sua correzione postuma come un falso materiale. 348 Manuale della Professione Medica «Art. 481 cp: “Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità” – Chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da lire centomila e un milione. Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro». «Art. 479 cp: “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici” – Il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto in sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali il certificato è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’art. 476». «Art. 485 cp: “Falso materiale (Falsità in scrittura privata)” – Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata». La falsificazione ideologica si riferisce ai “fatti”, ossia ai dati obiettivi e controllabili di cui il certificato è destinato a provare l’esistenza. Incide sul contenuto concettuale dell’atto, dando per autentici fatti non veri, pur essendo corretta la forma. La falsificazione materiale riguarda la parte formale dell’atto che può essere contraffatta in vario modo, ad esempio, apponendovi la firma falsa o alterandone la materia mediante cancellature, raschiature, aggiunte. «[…] la terapia domiciliare (Verapamil per os) viene confermata da due medici, con il conforto dello specialista cardiologo. Viene prescritto verbalmente all’infermiera Verapamil 20 milligrammi per tre volte al giorno, prescrizione che viene registrata nella documentazione clinica e riportata come tale nel “foglio di terapia”. Non risulta specificata la forma farmaceutica da somministrare e l’infermiera somministra il farmaco (inteso per via orale, ma non 9. La documentazione dell’attività medica 349 esplicitamente riportato) per via e.v. Il bambino decede poco dopo l’iniezione per arresto cardiaco. I medici alteravano la cartella clinica, facendo sparire il foglio di terapia e aggiungendo nella grafica la dizione “per os”, allo scopo di far ricadere la colpa solo sull’infermiera» (Cass. pen. 1983). Cartella clinica: conservazione Le cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimitatamente, poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico-sanitario. La documentazione diagnostica assimilabile alle radiografie, o alla restante documentazione diagnostica, va conservata almeno 20 anni, non rivestendo il carattere di atti ufficiali, mentre i referti stilati dal medico specialista radiologo o medico nucleare seguono la sorte della cc, quindi vanno conservati in maniera illimitata nel tempo. La documentazione clinica, deve essere custodita dal medico solo durante la fase di assistenza e cura del paziente, mentre la responsabilità si trasferisce al direttore sanitario dell’ente, nel momento in cui viene trasferita all’archivio centrale. È prevista la possibilità della microfilmatura, sostitutiva, nei casi in cui vi fosse difficoltà, da parte dei presidi sanitari, nell’allestimento di idonei locali da destinare all’archivio. Gli archivi Il DPR 14 gennaio 1997 n. 37 fornisce le indicazioni di carattere generale in tema di archiviazione di dati di struttura: il compito di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati deve far capo alla “Direzione”, che trattandosi di dati sanitari si identifica nella Direzione sanitaria. Va ricordato che la cc, ai sensi dell’art. 830 cc è un bene patrimoniale indisponibile, la cui gestione è disciplinata dagli artt. 30 e 35 del DPR 30 settembre 1963, n. 1409 sugli archivi di Stato. La tempistica della conservazione del materiale, nel caso di specie delle cartelle cliniche è illimitata, così come previsto nella Circolare n. 61 del 1986, poiché rappresentano atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto oltre a costituire una preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico-sanitario. 350 Manuale della Professione Medica Per le radiografie e per gli altri esami diagnostici viene stabilito un limite di 20 anni. Il DM 14 febbraio 1997 ha apportato ulteriori chiarimenti, operando una distinzione tra documenti e resoconti radiologici e di medicina nucleare: – Documenti: documentazione iconografica prodotta a seguito dell’indagine diagnostica effettuata dal medico specialista. Possono essere detenuti in un locale predisposto, in forma di pellicole radiografiche, in forma cartacea, memorizzati in forma di microfilm o in archivio elettronico in conformità alle direttive dell’agenzia per l’informatizzazione della pubblica amministrazione (legge 1° aprile 1981, n 121. art. 8: “Obbligo di denuncia per chi possiede un archivio magnetico”). – Resoconti diagnostici e di medicina nucleare: referti stilati dal medico specialista radiologo o dal medico nucleare. Devono essere conservati in maniera illimitata. Viene inoltre stabilito che il riferimento di archivio del materiale, deve coincidere con quello riportato nel decreto emanato ai sensi dell’articolo 114 del DL 230/1995, costituito da caratteri alfanumerici, e indicare in forma diretta o indiretta il soggetto al quale è stata erogata la prestazione, la struttura che ha erogato la prestazione e il tipo di prestazione. La presenza di archivi elettronici, che consente la conservazione delle informazioni per un tempo superiore al regime di ricovero, da una parte determina ricadute positive (disponibilità per consultazione in caso di successivi esami, possibilità di eseguire valutazioni di tipo epidemiologico e statistico, necessità di adempiere a obblighi di legge relativi alle procedure di accreditamento delle strutture sanitarie), dall’altra configura un conflitto tra l’interesse del singolo paziente e la società. La nuova normativa sulla privacy prevede che tali archivi debbano essere segnalati periodicamente (annualmente) al Garante e che debba essere identificato un responsabile della loro corretta conservazione. La circolazione della cartella clinica Conflittualità deontologiche emergono in tema di circolazione della cc posto che, oltre all’interessato, altri possono aver diritto a ottenerne copia. Il paziente ha diritto di avere, ogni volta che lo desidera, piena visione e copia della cc, tuttavia non può farsi consegnare l’originale e portarlo al proprio domicilio. 9. La documentazione dell’attività medica 351 Il problema della circolazione della cc e del trattamento dei dati in essa contenuti è oggi estremamente collegato a quello della tutela della riservatezza (privacy), specie se essa inserisce i dati personali cosiddetti sensibili (inerenti cioè la salute e la vita sessuale) che trovano nella cc la più ampia descrizione. Questa assoluta tutela di un diritto fondamentale della persona, implica una cura particolare nella tenuta e nella custodia di un documento che sempre più e meglio individua nel paziente o nel suo legale rappresentante e (in caso di paziente minore o incapace) il titolare del diritto rivelare o meno ad altri soggetti (diversi da quelli appartenenti al circuito clinico ove si svolge la vicenda diagnostico-terapeutica). La cartella clinica può essere rilasciata: – al paziente stesso; – al tutore o a chi esercita la patria potestà in caso di minore o incapace; – a persona fornita di delega, conformemente alle disposizioni di legge (ivi compreso il medico curante); – all’autorità giudiziaria; – agli Enti previdenziali (INAIL, INPS, ecc.); – al SSN (obbligo da parte dell’ente ospedaliero di trasmettere copia della cc a un altro soggetto del servizio sanitario che abbia strumentalmente bisogno della cc per erogare il servizio di sua competenza); – agli eredi legittimi con riserva per determinate notizie; – ai medici a scopo scientifico-statistico purché sia mantenuto l’anonimato. La cartella clinica non può essere rilasciata: – – – – a terzi se non muniti di delega (compresi il coniuge o i parenti stretti); al medico curante senza la autorizzazione del paziente; ai patronati; ai Ministeri e all’Autorità di PS solo le notizie a seguito di precisi quesiti di ordine sanitario. Il DLgs n. 196 del 30 giugno 2003: “Codice in materia di protezione dei dati personali”, prevede un articolo, il 92, interamente dedicato alla cc: «Nei casi in cui organismi sanitari pubblici e privati redigono e conservano una cc in conformità alla disciplina applicabile, sono adottati opportuni accorgimenti per assicurare la comprensibilità dei dati e per distinguere i dati relativi 352 Manuale della Professione Medica al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati, ivi comprese informazioni relative a nascituri. Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell’acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall’interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: – di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell’articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; – di tutelare, in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile». Numerosi quesiti sull’accesso ad atti e documenti contenenti dati personali idonei a rivelare lo stato di salute, per verificare entro quali limiti persone diverse dagli interessati possano prenderne visione ed estrarre copia, sono stati posti al Garante, il quale il 9 luglio 2003 ha emesso dei provvedimenti a carattere generale in merito ai dati sanitari. I quesiti riguardavano in particolare: – il caso in cui la richiesta di accesso sia formulata a una pubblica amministrazione ai sensi della disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (legge n. 241/1990 e altre normative in materia di trasparenza); – l’accesso a cartelle cliniche detenute presso strutture sanitarie; – il caso in cui la richiesta sia formulata da un difensore in conformità a quanto previsto dal Codice di procedura penale in materia di cosiddette indagini difensive (art. 391-quater cpp). Gestione della documentazione sanitaria Gli atti e i documenti nei quali vengono riportati dati sulla salute e la vita sessuale sono a volte predisposti o raccolti non per finalità di cura dell’interessato, ma per scopi amministrativi connessi ad esempio al riconoscimento di particolari benefici o malattie professionali, all’accertamento di responsabilità o al risarcimento di danni. 9. La documentazione dell’attività medica 353 I quesiti pervenuti vanno poi affrontati tenendo presente che alcuni di tali atti e documenti, come le cartelle cliniche, si caratterizzano per la presenza di diagnosi e anamnesi, nonché per la menzione di patologie riferite a volte anche a individui diversi dal principale interessato, il che influisce sulla legittimazione all’accesso alla cartella e sulle modalità di visione o rilascio delle relative copie, integrali o per estratto (v. ad esempio l’art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, in tema di compilazione di cartelle cliniche presso case di cura private). Le richieste di accesso di cui si tratta riguardano inoltre documenti per i quali (specie per le cartelle cliniche) specifiche disposizioni possono prevedere speciali modalità o responsabilità di conservazione che si aggiungono ai comuni obblighi di rispetto del segreto professionale. È il caso, appunto, dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri, il quale demanda al primario di ciascuna divisione il compito di curare la regolare compilazione delle cartelle cliniche e la loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale, e attribuisce al direttore sanitario il compito di vigilare sull’archivio delle cartelle e di rilasciarne copia agli aventi diritto, anche in base a criteri “stabiliti” dall’amministrazione (artt. 5 e 7 DPR 27 marzo 1969, n. 128; v., analogamente, il citato art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, per il quale le cartelle cliniche firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento sono conservate a cura della Direzione sanitaria). Le norme sulla trasparenza amministrativa Rispetto ai quesiti formulati, non suscitano particolari problemi l’accesso ai dati personali da parte dell’interessato (art. 13 legge n. 675/1996) e il rilascio di copia della cc al medesimo interessato a persona munita di specifica delega o, in caso di decesso, a chi «ha un interesse proprio o agisce a tutela dell’interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione» (art. 13, comma 3, legge n. 675, come sostituito dall’art. 9, comma 3, del Codice Privacy). La comunicazione all’interessato di dati personali sulla salute va comunque effettuata solo per il tramite di un medico (art. 23, comma 2, legge n. 675/1996; v., ora, art. 84 del citato Codice). Rispetto all’accesso ai documenti da parte di terzi, il Garante ha più volte evidenziato che la legge n. 675/1996 non ha comportato l’abrogazione della disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (art. 43, comma 2, legge n. 675/1996), la cui applicabilità, anche in caso di documenti contenenti dati sen- 354 Manuale della Professione Medica sibili, è stata confermata dalla successiva disposizione (art. 16, DLgs 11 maggio 1999, n. 135) che in riferimento ai soggetti pubblici ha individuato come di «rilevante interesse pubblico», i trattamenti di dati sensibili «necessari per far valere il diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte di un terzo» (lett. b) e quelli «effettuati in conformità alle leggi e ai regolamenti per l’applicazione della disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi» (lett. c). Il medesimo articolo 16, nel comma 2, ha anche introdotto un’ulteriore garanzia riferita unicamente ai dati riguardanti lo stato di salute o la vita sessuale, precisando che il trattamento di tali dati da parte del soggetto pubblico è consentito solo se «il diritto da far valere o difendere […] è di rango almeno pari a quello dell’interessato». Quest’ultima garanzia, come meglio specificato nel Codice Privacy (artt. 60, 71, 92, comma 2), riguarda sia il caso in cui il soggetto pubblico debba valutare una richiesta di terzi di conoscere singoli dati sulla salute o la vita sessuale, ritenuti necessari per far valere il diritto di difesa (lett. b cit.), sia il caso in cui il soggetto pubblico riceva una richiesta di accesso ai documenti amministrativi contenenti siffatti dati. La cosiddetta questione del “pari rango” interessa poi anche la comunicazione a terzi, da parte di un soggetto privato, di singoli dati personali sulla salute e la vita sessuale (ad es., casa di cura privata: art. 22, comma 4, lett. c), legge n. 675/1996; art. art. 26, comma 4, lett. c) del Codice Privacy). La concreta valutazione dei diritti coinvolti Le disposizioni da ultimo indicate hanno posto l’interrogativo sul comportamento che deve tenere il soggetto pubblico o privato (in caso di richiesta di un terzo di conoscere dati sulla salute o la vita sessuale, oppure di accedere a documenti che li contengono), in particolare nello stabilire se il diritto dedotto dal richiedente vada considerato “di pari rango” rispetto a quello della persona cui si riferiscono i dati. Il destinatario della richiesta, nel valutare il “rango” del diritto di un terzo che può giustificare l’accesso o la comunicazione, deve utilizzare come parametro di raffronto non il “diritto di azione e difesa” che pure è costituzionalmente garantito (e che merita in generale protezione a prescindere dall’”importanza” del diritto sostanziale che si vuole difendere), quanto questo diritto sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale che chiede di conoscere. 9. La documentazione dell’attività medica 355 Ciò chiarito, tale sottostante diritto, come già constatato dall’Autorità e come ora espressamente precisato dal Codice, può essere ritenuto di “pari rango” rispetto a quello dell’interessato – giustificando quindi l’accesso o la comunicazione di dati che l’interessato stesso intende spesso mantenere altrimenti riservati – solo se fa parte della categoria dei diritti della personalità o è compreso tra altri diritti o libertà fondamentali e inviolabili: v. gli artt. 71, 92 comma 2 e 60 del Codice. In particolare, la norma da ultimo citata prevede espressamente che «quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile». In ogni altra situazione riguardante dati sulla salute o la vita sessuale, non è quindi possibile aderire alla richiesta di accesso o di comunicazione da parte di terzi se i dati o il documento sono ritenuti utili dal richiedente per tutelare in giudizio un interesse legittimo o un diritto soggettivo che possono essere anche di rilievo, ma che restano comunque subvalenti rispetto alla concorrente necessità di tutelare la riservatezza, la dignità e gli altri diritti e libertà fondamentali dell’interessato: si pensi al caso dell’accesso – in un caso, denegato dalla Giurisprudenza – volto a soddisfare generiche esigenze basate sulla prospettiva eventuale di apprestare la difesa di diritti non posti in discussione in quel momento (Cons. Stato sez. VI, n. 2542/2002). Con una Newsletter del 3-9 gennaio 2005, n. 240 il Garante informa che anche le foto scattate a fini di interventi chirurgici sono dati personali. «Una donna ottiene le fotografie dell’operazione di chirurgia plastica grazie all’intervento del Garante. La donna si rivolge al Garante e riesce a ottenere le fotografie scattate prima e dopo alcuni interventi di chirurgia plastica ai quali si era sottoposta e che intendeva produrre in una causa di risarcimento danni nei confronti del medico che l’aveva operata. Protagonista una giovane donna che dal 1996 al 2003 aveva subito tre interventi chirurgici al seno per impianti di protesi, successive sostituzioni e riduzione delle cicatrici. Palesemente insoddisfatta dei risultati raggiunti, nel tentativo di recuperare tutta la documentazione clinica che la riguardava, aveva chiesto 356 Manuale della Professione Medica direttamente al chirurgo plastico al quale si era affidata le foto che lo stesso le aveva scattate prima e dopo le operazioni e copia dei moduli di consenso agli interventi, sottoscritti presso lo studio medico. Di questa documentazione non vi era traccia nelle copie delle cartelle cliniche rilasciate alla paziente dalla casa di cura presso la quale aveva subito gli interventi. Di fronte all’assoluto silenzio del medico, la donna si è vista “costretta” a presentare ricorso al Garante. Iniziativa che si è rivelata di per sé sufficiente a farle raggiungere l’obiettivo. Già nella fase di primo esame del procedimento, infatti, il medico, seppure su invito dell’Autorità, ha dato completo riscontro alle richieste della paziente. Il ricorso è stato quindi definito con provvedimento di non luogo a provvedere. Il Garante ha comunque posto a carico del chirurgo plastico le spese del procedimento, per aver concesso alla donna l’accesso ai propri dati solo dopo la presentazione del ricorso. La richiesta presentata al medico era, infatti, pienamente legittima, essendo stata presentata ai sensi del Codice, che riconosce a ognuno il diritto di accedere a tutti i propri dati personali, comprese le fotografie che ritraggono in tutto o in parte il proprio corpo». Si tratta di una tematica complessa, ancora in evoluzione, che peraltro conferisce al medico curante un ruolo di rappresentante degli interessi clinici del malato anche in caso di ricovero e di custode primario della relativa documentazione nosologica. Cartella clinica orientata per problemi (CMOP) Nel corso degli anni si è sviluppata un’evoluzione concettuale e contenutistica sulla cc con l’obiettivo di poter usufruire di uno strumento che consenta una valutazione della qualità dell’assistenza medica e fornisca i dati necessari per la pianificazione orientata per problemi (CMOP), produttiva di una migliore consultazione e di una più chiara organizzazione, attraverso una compilazione rispondente alla logica di individuare gli eventi clinici giustificativi del ricovero e di creare per ciascuno una linea di indagine e di trattamento specifico. Il principio ispiratore è rappresentato dalla necessità di una assistenza globale, preventiva in primis e poi assistenziale, fondata su una irrinunciabile comunicativa fatta di plurimi approcci specialistici o di settoriali équipe cliniche. Tale strumento operativo valorizza il tentativo di crescita e di comunicazione tra il personale paramedico e infermieristico coinvolto nella risoluzione dei problemi assistenziali. La cartella, così intesa, dovrebbe prevedere una 9. La documentazione dell’attività medica 357 parte dedicata a una breve descrizione delle informazioni fornite al paziente circa la sua malattia, della loro influenza su ritmi di vita e terapia; dovrebbe inoltre riportare le domande poste dal paziente o le sue preoccupazioni, nonché il contenuto dei colloqui con i familiari. Un siffatto sistema consentirebbe di restituire al rapporto medico-paziente, oggi depersonalizzato per l’eccessivo peso dato all’aspetto tecnologico dell’assistenza, un nuovo significato. Ulteriore risvolto è la esistenza di un sistema di tutela tale da spingere i medici all’aggiornamento permanente e da impedire a quei sanitari la cui competenza tecnica non sia più all’altezza della situazione di provocare danni nei potenziali assistiti. Introdotta negli USA nel 1969, si compone di quattro parti: 1. 2. 3. 4. la lista dei problemi attivi e inattivi; i dati di base definitivi; piani iniziali; il diario clinico (schema SOVP). La lista dei problemi dovrebbe contenerli tutti e includere diagnosi già formulate, stati fisiopatologici e inoltre sintomi, segni obiettivi patologici ed esami di laboratorio, che sono potenzialmente importanti, non collegati a malattie o sindromi già incluse nella lista, e poi altri importanti fattori connessi alla cura del paziente, come problemi di ordine psichico o di ordine sociale, fattori di rischio e malattie già sofferte. Non appena uno dei problemi sarà risolto, la lista dovrà essere aggiornata. I dati di base dovrebbero comprendere: sintomi che costituiscono la ragione del ricovero; condizione psico-sociale del paziente; malattia attuale; revisione dei dati anamnestici per una costruzione più logica dei dati emersi o riferiti; – esame obiettivo; – dati di laboratorio già acquisiti, compresi quelli eseguiti fin dalle prime ore del ricovero. – – – – I piani iniziali dovrebbero favorire l’attuazione di un programma allo scopo di pervenire alla diagnosi o al chiarimento di ciascun problema e a eventuale 358 Manuale della Professione Medica intervento terapeutico (Nonis M, Braga M, Guzzanti E. Cartella clinica e qualità dell’assistenza. Passato, presente e futuro. Il Pensiero Scientifico editore, 1998). In un diario clinico così strutturato sono previste, oltre all’intestazione del problema, delle sottosezioni (schema SOVP): – S = informazioni soggettive: registra i mutamenti della sintomatologia o l’assenza di una modificazione attesa; – O = informazioni oggettive: descrive come mutano i dati obiettivi e comprende i risultati delle indagini eseguite per chiarire il problema alla luce dei nuovi risultati ottenuti; – V = valutazione sulla base delle precedenti voci: revisione critica del problema alla luce dei nuovi risultati ottenuti; – P = piano di lavoro: formulazione dei piani di lavoro, che dovrebbe riportare le decisioni prese a riguardo di nuove informazioni da raccogliere per la diagnosi, la terapia e l’educazione del paziente. In sostanza la CMOP, introducendo concetti di grande rilievo, quale quello dell’assistenza globale, facilitando l’impiego di personale sanitario infermieristico per fini assistenziali, aiutando i medici con una precisa e nitida selezione dei problemi assistenziali, diventa uno strumento necessario ai fini di verifica delle cure prestate e attualizza altresì i principi di formazione professionale continua. Controllo di qualità e cartella clinica Il DLgs del 30 dicembre 1992, n. 502 ha apportato profonde modifiche e innovazioni nell’organizzazione del SSN, con l’istituzione delle ASL (art. 3) e delle Aziende ospedaliere (art. 4), nonché l’introduzione del DRG System (Diagnosis Related Groups) e delle modalità di finanziamento a esso connesso, introducendo pertanto criteri di verifica e revisione della qualità nell’assistenza ospedaliera. Con tale sistema si costruiscono gruppi di pazienti omogenei per consumo di risorse a partire dalle informazioni sulle caratteristiche cliniche e socio-demografiche dei pazienti presenti nella scheda nosologica ospedaliera. La costruzione dei DRG si basa non più sulla consultazione del memoriale clinico, ma deriva dalla scheda di dimissione ospedaliera e la caratteristica principale dei DRG è quella di essere costruiti sulle procedure cliniche, perché fortemente influenzati dal tipo di trattamento cui il paziente viene sottoposto dal medico. Il sistema dei DRG rappresenta uno schema classificatorio che bene si presta 9. La documentazione dell’attività medica 359 anche all’estrazione di dati per la valutazione dell’assistenza sanitaria. Tale classificazione si esprime in 25 categorie diagnostiche principali riferibili alle varie specialità mediche e chirurgiche e articolata nell’insieme in 489 gruppi. Per assegnare ciascun paziente a uno specifico DRG sono necessarie le seguenti informazioni: la diagnosi principale di dimissione, tutte le diagnosi secondarie, tutti gli interventi chirurgici e le principali procedure diagnostiche e terapeutiche, l’età, il sesso e lo stato alla dimissione. Nel nostro paese i DRG vengono utilizzati per procedimenti di verifica e revisione della qualità delle cure all’interno dell’ospedale, discostandosi dalla realtà nordamericana ove vengono utilizzati per determinare l’ammontare delle quote di rimborso per gli ospedali per l’assistenza prestata. In questa ottica la cc acquisisce una ulteriore connotazione economicoamministrativa, nell’ambito della pubblica amministrazione, diventando documento rilevante a fini epidemiologici, di prevenzione, di valutazione e di controllo di qualità delle cure (VRQ), di contenimento della spesa sanitaria, di equa distribuzione delle risorse, per cui una buona pratica clinica si realizza e si documenta in una buona redazione e in una attuale tenuta di tale documentazione. La cc diviene pertanto strumento informativo essenziale per questo tipo di indagini, fonte di dati privilegiata, facilmente accessibile; tuttavia la cattiva qualità formale e sostanziale di tale documentazione nel nostro paese rende difficoltose tali indagini. Un altro problema strettamente connesso al controllo di qualità della cc è rappresentato dal fenomeno dell’accreditamento delle strutture ospedaliere, introdotto negli USA sin dai primi anni del secolo scorso (Joint Commission on Accreditation of Health Care Organizations) e diffusosi nei paesi più avanzati d’Europa e anche in Italia, favorito dalle nuove disposizioni normative in materia (DLgs 502/1992, art. 8, comma 7; legge 23 dicembre 1994, n. 721, art. 6; DPR 1° marzo 1994, cap. 8). E anche nel processo di accreditamento la cc riveste un ruolo importante, essendo, secondo autorevoli autori, la qualità e la riservatezza delle informazioni relative all’utente, tra i criteri da prendere in considerazione, con particolare riferimento alla definizione di criteri di qualità per la compilazione della documentazione sanitaria e una periodica verifica del rispetto di tali criteri. Altri autori sottolineano l’importanza della cc quale strumento di verifica della qualità delle strutture ospedaliere, delle prestazioni delle stesse. La necessità di sottoporre 360 Manuale della Professione Medica la cc a un monitoraggio continuo della qualità deriva dall’introduzione dei sistemi di qualità nella nuova gestione della Aziende sanitarie, deputati alla valutazione del rapporto costi/benefici delle prestazioni erogate e alla verifica della qualità delle stesse. L’OMS parla di qualità dell’assistenza quando: «ogni paziente riceve l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in tema di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo e i minori rischi iatrogeni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle integrazioni umane avute all’interno del sistema sanitario». La cc, “accompagnando” il paziente durante tutta la degenza, diventa fonte insostituibile per la valutazione della qualità del sistema, mentre la sua corretta compilazione e tenuta ha sicuramente ricadute positive sulla soddisfazione del paziente, ulteriore parametro di rilievo nella valutazione della qualità della prestazione. Il controllo di qualità esige la definizione di rigorosi canoni e criteri osservativi atti a valutare la qualità formale e sostanziale della cc, quali per esempio: qualità dell’anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota; qualità dell’anamnesi patologica prossima (motivo del ricovero); qualità dell’esame obiettivo all’accettazione; qualità del diario clinico (regolare, corretta e dettagliata tenuta del diario clinico); – consenso informato; – corrispondenza scheda di dimissione ospedaliera (SDO)-cartella clinica; – qualità grafica della compilazione. – – – – Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente Il cattivo uso delle cartelle cliniche è abbastanza generalizzato e forse tende ad aumentare anche per una scarsa coscienza del valore che tale documento riveste. Infatti, la cc è anche una costante certificazione di ciò che si rileva e di ciò che si fa. La compilazione della cc riveste grande importanza nella formulazione di un giudizio di responsabilità medica. Oltre al rilievo penalistico, da attribuirsi alla cc, precedentemente ripercorso, la scorretta compilazione della stessa ha notevoli ripercussioni anche dal punto di vista civilistico. Non mancano pronunce che stigmatizzano duramente la lacunosità del memoriale clinico, a rafforzare ulteriormente un già fondato giudi- 9. La documentazione dell’attività medica 361 zio di condanna dell’operato dei medici. Ma non è mancato l’apprezzamento della omessa (o scorretta) compilazione della cc alla stregua di fattore idoneo a determinare l’inversione dell’onere probatorio: la mancata indicazione del compimento di una data attività nel diario clinico farebbe sorgere una presunzione iuris tantum (come tale suscettibile di prova contraria) di mancata effettuazione della stessa (Tribunale Roma 28 gennaio 2002). Sarà dunque il medico a dover dimostrare di aver posto in essere tutti quegli atti, imposti dalle leges artis. Si riportano di seguito alcuni passi significativi estrapolati dalle pronunce dei Giudici di merito in tema di cartella clinica: «[…] Inoltre la possibilità che la morte del paziente sia intervenuta per altre cause, diverse da quelle diagnosticate e inadeguatamente trattate, le quali non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione di una difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (anche autoptici), non vale a escludere il nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti l’idoneità di tale condotta a provocarla […]». (Cass. civ., sez. III, 13 settembre 2000, n. 12103 – Cass. civ., sez. III 8 agosto 2000 n. 10414). Il caso riguarda una neonata che, nel corso del parto, aveva riportato la frattura dell’omero destro e lesioni del plesso brachiale di sinistra, con conseguenti menomazioni. Tralasciando la parte circa l’appropriatezza o meno delle manovre effettuate durante il parto, la Corte si esprime in merito alla compilazione della cartella clinica: «[…] la cartella clinica non aveva consentito ai consulenti di ricostruire le concrete modalità di andamento del parto e dell’assistenza prestata dal personale sanitario. In una situazione siffatta, è possibile presumere che le attività che altrimenti vi sarebbero state documentate siano state omesse e comunque la mancata segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di trattamenti medicamentosi e di atti operativi, è indice di un comportamento assistenziale costantemente negligente e imperito. Le irregolarità e deficienze della cartella clinica denotavano per sé un corrispondente comportamento di assistenza al parto manchevole e negligente, segno di un impegno mediocre e disatteso, fonte certa di responsabilità, perché avevano influito in modo determinante sull’insuccesso medico nelle fasi del parto. Ma ad analoga conclusione si perveniva quando si valutavano le specifiche, concrete attività svolte dal personale sanitario che aveva assistito al parto […]». (Cass. civ., sez. III, 8 settembre 1998, n. 8875). 362 Manuale della Professione Medica La responsabilità del ginecologo era stata riconosciuta in primo grado di giudizio sia in ordine alla conduzione del parto senz’alcun dubbio produttiva (per negligenza e imperizia) di anossia fetale, sia per quanto riguarda la inerzia omissiva successiva (mancato riconoscimento della sindrome asfittica). In sede di appello il giudizio era stato ribaltato in senso assolutorio, nella presunzione di una carenza di prove: non risultando in cc neppure la circostanza che il feto era nato con gravi conseguenze dell’anossia ed essendo per di più le annotazioni riportate in cartella e nel certificato di assistenza al parto tra loro contrastanti e oggettivamente lacunose. La Corte di Appello aveva ritenuto che, comunque, «non fosse stato provato che la situazione era già alla nascita così grave» da dover imporre al ginecologo il trasferimento del neonato in un ambito clinico di terapia intensiva. Assumendo che le pur riconosciute vistose omissioni e contraddizioni, presenti sia in cc che nel certificato di assistenza al parto, fossero destituite di qualsiasi valore anche solo meramente indiziario delle difficoltà e della cattiva conduzione del parto (nonostante la cc costituisca un fondamentale documento di cui compete al medico la puntuale gestione). La Cassazione ribalta nuovamente la decisione: «[…] espongono i ricorrenti – la responsabilità del ginecologo era stata prospettata sia nella conduzione del parto (nel corso del quale, per sua grave imperizia e negligenza, si produsse l’anossia cerebrale), sia per quanto riguarda il comportamento omissivo posteriore alla nascita, concretatosi nell’incapacità di diagnosticare la sindrome asfittica già in atto e nell’apprestare al neonato le tempestive terapie, quantomeno per ridurne le conseguenze. Si era in particolare dedotto – affermano ancora – che la colpa grave dell’operatore era scolpita nell’istruttoria dell’esaurito giudizio, da cui era emerso che, contrariamente a quanto indicato nella cartella clinica, il parto era stato provocato, aveva prodotto frattura alla clavicola (indice delle difficoltà riscontrate nella fase espulsiva e di estrazione, volutamente omesse nel documento ufficiale della sala operatoria) e aveva causato la sindrome asfittica, per fronteggiare la quale sarebbe stato necessario l’immediato ricovero presso un centro specializzato, mentre il neonato era stato collocato in incubatrice e sottoposto a ossigenoterapia del tutto inutile; e che l’ipossia anossica era stata gestita con omissione, negligenza e imperizia […]. Col terzo motivo la sentenza è censurata […] per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione laddove aveva ritenuto che le vistose omissioni e contraddizioni della cartella clinica e 9. La documentazione dell’attività medica 363 del certificato di assistenza al parto non potessero assurgere, neppure a livello indiziario, a prova dei fatti causativi del danno lamentato e, in particolare, delle asserite complicazioni che si sarebbero verificate durante il parto. Era stato in tal modo disatteso il principio, enunciato in materia di valutazione dell’esattezza della prestazione medica da Cass. n. 12103 del 2000, che le omissioni imputabili al medico nella redazione della cartella clinica rilevano come nesso eziologico presunto, atteso che l’imperfetta compilazione della stessa non può, in via di principio, ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla prestazione sanitaria […]». (Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2003, n. 11316). La Cassazione richiama la propria sentenza n. 12103/2000, secondo cui non può, in sostanza, tradursi in pregiudizio del paziente, la imperfetta compilazione della cc (atto di esclusiva competenza del sanitario), nel caso in cui ne derivi l’impossibilità di trarre utili elementi di valutazione sulla condotta del medico. La parte veramente importante della sentenza non è tanto quella relativa alla decisione circa la responsabilità del ginecologo a seguito di una condotta omissiva (qui i giudici hanno deliberato in base a principi ormai consolidati in Giurisprudenza), quanto quella relativa all’individuazione degli elementi di responsabilità a carico del medico. E difatti la Cassazione punta l’indice soprattutto sulle carenze rilevate nella cc, che non fu compilata dal ginecologo nel modo dovuto, tanto che in essa non furono annotati, come il medico avrebbe dovuto fare con puntualità, tutti gli atti diagnostici e terapeutici compiuti, né tanto meno il decorso del parto nelle sue diverse fasi. «In tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale a escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza della prova” e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla». (Cass. civ., sez. III, n. 11316/2003). A tale riguardo la Cassazione afferma che la carente compilazione della cc e del certificato di assistenza al parto non può mai andare a pregiudizio del paziente. Pertanto, nel caso in cui dalla cartella non correttamente redatta non 364 Manuale della Professione Medica sia possibile trarre utili elementi di valutazione della condotta del medico, il giudice – ed è questo il punto nodale – potà fare ricorso “a presunzioni logiche” come fonti di prova. Quando dalla cc non è possibile stabilire quale siano stati il processo diagnostico-terapeutico attuato dal medico e il decorso della malattia, il giudice legittimamente, attraverso le presunzioni, può risalire a quello che presuntivamente fu il comportamento positivo oppure omissivo del sanitario e al decorso della patologia. In buona sostanza, questa sentenza della Cassazione, assegna alla cartella significato probatorio e addebita a negligenza (produttiva di colpa del sanitario) la mancata registrazione in cartella di un esame, sanzionando, con molta severità, un comportamento del medico ritenuto “non conforme a scienza e coscienza” sulla scorta di indicazioni probatorie presuntive e non certo in base ai dati obiettivi. E tutto perché la cartella clinica non era stata compilata nel modo dovuto. «[…] Peraltro, poiché la cartella clinica relativamente a una partoriente deve contenere detti dati, la mancanza degli stessi si risolve in omissione imputabile al medico nella redazione della cartella clinica». «Senonché in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale a escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e il danno subito alla salute, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato […]». (Cass. civ. sez. III n. 583, 13 gennaio 2005). Amniocentesi: nella cartella clinica vanno annotati anche i prelievi falliti. I medici che effettuano l’amniocentesi hanno l’obbligo di annotare nella cartella clinica tutti i prelievi di liquido amniotico effettuati, compresi quelli “andati male” che sono da ripetere. La Cassazione conferma la condanna inflitta a un dottore dell’ospedale di … colpevole di non aver segnalato sulla cartella di una paziente in gravidanza che il primo prelievo era stato ematico, segnalando solo il secondo andato a buon fine. La donna aveva perso il bambino. Il medico interrogato si era difeso sostenendo che era “prassi” annotare soltanto i prelievi riusciti. Di qui il processo e la condanna per falso ideologico. Per il sanitario era irrilevante annotare il primo prelievo ematico per la sua inutilità ai fini dell’indagine genetica e perché non aveva comportato l’aumento 9. La documentazione dell’attività medica 365 dei rischi connessi all’operazione. La Suprema Corte invece afferma che «nel caso di amniocentesi, intervento particolarmente delicato per i rischi connessi, dato clinico rilevante è anche quello costituito da un prelievo ematico, che, pur se ininfluente ai fini dell’indagine genetica cui l’intervento mira, acquista indubbia valenza alla luce delle conseguenze che ne possono derivare. Il trauma fetale da puntura anche se ritenuta evenienza molto rara da quando la procedura di amniocentesi è guidata dall’ecografia, è pur sempre possibile». Il medico è pertanto tenuto a documentare le attività compiute delle quali si “assume la paternità”. Concludono i giudici che la cartella clinica è un «atto pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi». (Cass. pen. sez. V, sentenza n. 22694 del 16 giugno 2005). «[…] al Dr. B. vada imputata una colpa professionale, ravvisabile: a) nella errata valutazione della possibilità di tenuta della protesi nonostante l’elevato grado di mobilità degli elementi inferiori; b) nella prematura protesizzazione definitiva; c) nell’aver omesso di annotare in cartella clinica i dati inerenti lo stato parodontale […] impedendo di fatto la verifica della graduale guarigione del parodonto […]». (Trib. Modena 9 luglio 1993). La cc assume quindi un ruolo importante nel contenzioso medico-legale, quale utile testimonianza per lo stato anteriore (stati patologici, trattamenti preesistenti ecc.), per il trattamento disposto (percorso diagnostico, terapie suggerite, terapie scelte con il paziente, risultati ottenuti ecc.), per gli interventi successivi (re-interventi, completamento di terapie interrotte ecc.), per gli interventi disposti da altri sanitari (completamento di piani terapeutici compositi, terapia di mantenimento, semplice successione di più operatori sanitari ecc.). La scheda di dimissione ospedaliera (SDO) È già dal 1995 che il finanziamento degli ospedali avviene in base a un sistema tariffario predeterminato, il cosiddetto sistema dei DRG. Nel momento della dimissione del paziente il sanitario compila la SDO indicando sia la diagnosi principale, motivo del ricovero, che le patologie concomitanti, quando esistenti, gli eventuali interventi o procedure diagnostiche eseguite oltre un altro considerevole 366 Manuale della Professione Medica numero di item. A ogni informazione presente sulla SDO corrisponde un numero di codice cui a sua volta corrisponde una maggiore specificazione nosologica. In una sanità che per molti versi punta sull’Evidence Based Medicine (EBM), concetto per il quale le prestazioni sanitarie sono ritenute appropriate secondo criteri scientifici e obiettivi fondati sui dati forniti dalla migliore ricerca possibile, che esista anche un’Evidence Based Health Care Policy per gestire i servizi sanitari, dei cui strumenti fanno parte senz’altro la cartella clinica e la scheda di dimissione ospedaliera è senz’altro un momento di garanzia in più sia per il cittadino utente che per il medico. Solitamente dopo l’avvenuta codifica, la scheda di dimissione ospedaliera, istituita con DM del 28 dicembre 1991, successivamente integrato e disciplinato dal DM del 26 luglio 1993 (che ha precisato analiticamente contenuti e modalità di trasmissione delle informazioni raccolte e ha attivato il flusso informativo della SDO prevedendo la trasmissione, con periodicità trimestrale, delle informazioni in essa raccolte dai singoli istituti di cura alla Regione di appartenenza e, da questa, al Ministero della Sanità) e parte integrante della cartella clinica, viene processata da un apposito software, denominato grouper, che attraverso una sofisticata analisi di parametri (età, patologie associate, procedure ecc.) attribuisce il tipo di DRG e quindi la relativa valutazione del valore economico del ricovero. Dal 1° gennaio 1995, la SDO ha sostituito la precedente rilevazione sui ricoveri attuata con il modello ISTAT/D10. Il DM del 27 ottobre 2000, n. 380, ha aggiornato i contenuti e il flusso informativo della SDO e ha fissato regole generali per la codifica delle informazioni di natura clinica (diagnosi, interventi chirurgici e procedure diagnostico-terapeutiche), precisando che per tale operazione di codifica deve essere utilizzato il più aggiornato sistema di codici ICD9-CM (1997) (codice a 5 cifre) in sostituzione dell’ormai datato sistema ICD9 del 1975 (codice a 4 cifre). Inoltre tale decreto ha introdotto anche altre innovazioni nel sistema, quale l’identificazione del paziente attraverso il codice fiscale e l’adeguamento del flusso ai sensi della normativa sulla privacy e sulle misure di sicurezza per il trattamento dei dati personali, mediante la gestione separata delle informazioni anagrafiche e sanitarie. Il procedimento di codifica della SDO coinvolge varie figure, quindi non solo il sanitario che dimette il paziente (codifica decentrata), ma anche il personale sanitario della Direzione sanitaria (codifica centralizzata) e altri operatori. Il sanitario ha ovviamente un ruolo centrale nell’operazione di codifica, perché deve tener conto di vari aspetti, spesso solo a lui noti, come la diagnosi clinica, la corrispondenza di questa con la nomenclatura del Ministero della 9. La documentazione dell’attività medica 367 salute, l’allocazione delle risorse per un determinato ricovero, le procedure utilizzate per quel caso specifico, la selezione dei codici corrispondenti, e molto altro. Certo è che la SDO è all’origine di qualsiasi flusso informativo, e fondamentale è la sua corretta compilazione e codifica, nonché la sua utilizzabilità nell’ambito del sistema informativo territoriale e ospedaliero, ricordando che le informazioni raccolte e codificate tramite la SDO sono poi trasmesse alle Regioni e da queste al Ministero della Salute. La SDO è quindi lo strumento di raccolta delle informazioni relative a ogni paziente dimesso dagli istituti di ricovero pubblici e privati in tutto il territorio nazionale, nel rispetto della normativa sulla privacy, ed è raccolta obbligatoriamente sia in caso di ricovero ordinario sia in caso di Day hospital, non applicandosi, invece, all’attività ambulatoriale né a quella delle strutture socioassistenziali (salvo disposizioni regionali specifiche). Le informazioni descrivono aspetti del ricovero sia clinici (diagnosi e sintomi rilevanti, interventi chirurgici, procedure diagnostico-terapeutiche, impianto di protesi, modalità di dimissione), sia organizzativi (ad esempio: unità operativa di ammissione e di dimissione, trasferimenti interni, soggetto che sostiene i costi del ricovero). Di queste informazioni, alcune indispensabili alle attività di indirizzo e monitoraggio nazionale, vengono trasmesse, come già precisato, dalle Regioni al Ministero della Salute. Dalla SDO sono escluse informazioni relative a farmaci somministrati durante il ricovero o reazioni avverse agli stessi che sono oggetto di altri peculiari flussi informativi. I dati raccolti attraverso la SDO costituiscono un prezioso strumento di conoscenza, di valutazione e di programmazione delle attività di ricovero sia a livello di singoli ospedali che a livello delle istituzioni regionali e nazionali, e le finalità con le quali si possono utilizzare possono essere sia di natura organizzativo-gestionale, sia di natura clinico-epidemiologica, purtuttavia tenendo sempre in debita considerazione le limitazioni della banca dati e l’adozione di precise cautele nella lettura e interpretazione, in quanto possono verificarsi diversità nella codifica e nella completezza delle informazioni registrate da Regione a Regione. I significativi cambiamenti dell’ultimo decennio avvenuti nel Servizio Sanitario Nazionale richiedono certamente la disponibilità di informazioni con l’obiettivo di poter effettuare un sempre migliore monitoraggio degli effetti prodotti dai cambiamenti medesimi e la SDO ne rappresenta un valido strumento, costituendo il fulcro per la costruzione di un sistema inte- 368 Manuale della Professione Medica grato tra informazioni anagrafico-gestionali e cliniche all’interno delle strutture ospedaliere, e all’esterno il tramite per le transazioni di tipo economico e per le attività di verifica e controllo di eventuali comportamenti opportunistici. Le Regioni, oltre al contenuto informativo minimo ed essenziale, possono poi prevedere informazioni ulteriori di proprio interesse. La SDO, pertanto, che ha le stesse valenze della cartella clinica in quanto parte integrante della stessa, deve recare la firma del medico curante nonché del responsabile di divisione, il quale assume la responsabilità della regolare compilazione della stessa e deve contenere sia la denominazione dell’ospedale di ricovero che il numero della scheda, il cognome e nome del paziente, il sesso dello stesso, la sua data di nascita e il comune di nascita, il luogo di residenza, la cittadinanza, il suo codice sanitario individuale, la regione di appartenenza, l’ASL di iscrizione, ma anche informazioni sulle modalità di dimissione e sull’eventualità di un riscontro autoptico nonché sulla diagnosi principale alla dimissione e le patologie concomitanti o complicanze della patologia principale, e infine notizie sull’intervento chirurgico principale (o parto) e altri interventi e/o procedure (in casi di Day hospital motivo del ricovero e giornate di presenza). Le responsabilità medico-legali connesse alla compilazione della scheda di dimissione ospedaliera sono analoghe a quelle della cartella clinica e i dati raccolti attraverso di essa costituiscono un prezioso strumento di conoscenza, di valutazione e di programmazione delle attività di ricovero sia a livello di singoli ospedali sia a livello delle istituzioni regionali e nazionali. Il Ministero della Salute divulga pubblicazioni periodiche, rapporti statistici e studi e i cittadini e gli utenti specializzati possono avere accesso diretto a una banca dati on-line dove sono archiviate tutte le informazioni aggregate (quindi solo ai dati di insieme) relative alle SDO, e rende disponibili alle Regioni dati dettagliati e indicatori relativi alla attività registrata in ciascuna di esse, in modo da ottenere dal riassunto codificato di ogni singolo episodio di ricovero la disponibilità per un’analisi fenomenologica, statistica, epidemiologica, di allocazione di risorse a livello sovraospedaliero. Il registro operatorio Con la Circolare del Ministero della Sanità del 14 marzo 1996 n. 61 viene istituito il registro operatorio, parte integrante anch’esso della cartella clinica e con le stesse valenze medico-legali, con finalità di documentare il numero e le moda- 9. La documentazione dell’attività medica 369 lità esecutive degli interventi chirurgici. Nella cartella clinica deve sempre essere compresa una copia di tale verbale qualunque siano le modalità della sua tenuta, tenuta che però è obbligatoria, in quanto il registro operatorio è un atto pubblico. Nel registro operatorio non si devono utilizzare simboli o abbreviazioni (a eccezione di quelli convenzionali), oppure legenda degli stessi. Il registro operatorio è la raccolta dei verbali (ogni verbale è in duplice copia), dell’intervento o degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero ordinario, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa seduta operatoria. Il verbale deve essere compilato obbligatoriamente in ogni suo campo e deve essere inserito in originale nella cartella clinica, e come questa conservato illimitatamente; in caso di procedura informatizzata, per ogni verbale operatorio vanno stampate due copie cartacee, di cui una va inserita in cartella clinica e l’altra costituisce copia cartacea del registro operatorio. Ogni unità operativa che effettua interventi chirurgici deve avere un proprio registro operatorio, la cui compilazione deve garantire i seguenti requisiti, sia formali che sostanziali. Tra quelli formali, ad esempio, vanno riportati: – indicazione della data, di ora di inizio, ora di fine dell’atto operatorio; – indicazione del nome del primo operatore e di quanti hanno partecipato direttamente all’intervento; – diagnosi pre-operatoria, denominazione sintetica della procedura eseguita (codifica ICD9-CM); – diagnosi finale, post-operatoria; – tipo di anestesia utilizzata e nome dei sanitari che l’hanno condotta; – ora di inizio e fine dell’atto anestesiologico; – descrizione chiara e sufficientemente particolareggiata della procedura attuata; – sottoscrizione da parte del primo operatore; – tipologia di intervento dal punto di vista igienico-sanitario; – tipologia di intervento a seconda dell’urgenza; – identificazione sala operatoria; – eventuali indagini complementari intraoperatorie effettuate; – eventuale esame istologico richiesto, ordinario e/o estemporaneo; – ora di ingresso e ora di uscita del paziente dalla sala operatoria; – etichetta di materiale protesico e/o impiantabile, nel caso utilizzato; 370 Manuale della Professione Medica – etichette identificative dei container e/o buste sterili; – attestazione dell’esecuzione del conteggio garze/tamponi/strumenti. Tra i requisiti sostanziali si annoverano, invece: – la veridicità, cioè l’annotazione puntuale dell’intervento, degli interventi o delle procedure invasive eseguite; – la completezza, consistente nel fatto che attraverso ogni registro operatorio sia possibile identificare in modo univoco l’esecuzione dell’intervento o degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero ordinario, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa seduta operatoria e che il verbale deve essere compilato in ogni sua parte; – la chiarezza, riguardante sia la grafia che l’esposizione: il testo deve essere chiaramente leggibile e comprensibile da tutti coloro che hanno accesso al registro operatorio. Ovviamente la custodia del registro operatorio è obbligatoria, e le modalità di custodia devono garantire la massima tutela nei riguardi di eventuali manomissioni e nel rispetto della privacy, in luoghi accessibili solo da personale autorizzato. I registri vanno tenuti presso le sale/blocco operatorio prima della consegna all’archivio centrale, e sarà cura delle direzioni mediche ospedaliere indicare il periodo di conservazione, comunque non oltre l’anno corrente. All’inizio di ogni anno si dovranno utilizzare nuovi registri operatori al fine di facilitare le modalità di archiviazione. La scheda sanitaria La scheda sanitaria è stata introdotta dall’articolo 31 dell’accordo collettivo nazionale per la medicina generale (DPR 270 del 28 luglio 2000) il quale prevede, a carico del medico di medicina generale convenzionato con il SSN, un vero e proprio obbligo giuridico di tenuta, compilazione e custodia di questo documento per ciascuno dei suoi assistiti, in quanto strumento tecnico-professionale finalizzato a migliorare la continuità assistenziale e che permette di collaborare a eventuali indagini epidemiologiche. Sempre per le stesse disposizioni normative, il medico di medicina generale deve inserire nella scheda sanitaria tutti i dati relativi allo stato di salute dell’assistito, provvedendo all’aggiornamento della stessa in caso di variazioni; è inoltre obbli- 9. La documentazione dell’attività medica 371 gato alla conservazione dei dati rispettando le norme sulla privacy (legge 675 del 1996 come modificata dal DLgs n. 196 del 30 giugno 2003 entrato in vigore dal 1° gennaio 2004). La scheda sanitaria è destinata esclusivamente all’uso del medico di fiducia dell’assistito contenendo la sua storia clinica e assumendo rilevanza, sempre per detto sanitario, anche ai fini delle certificazioni richieste dall’assistito. Per contro, la cartella clinica, compilata per ogni ricovero ospedaliero, è destinata anche ai rapporti esterni e può essere richiesta addirittura da terzi quando particolari esigenze lo impongano, mentre la scheda, al contrario di quanto avviene per la cartella clinica, che costituisce un vero e proprio atto pubblico, nonostante sia compilata da un pubblico ufficiale non acquista un tale valore a meno che, in alcune situazioni, la sua esibizione sia necessaria, come nel caso di ricovero ospedaliero urgente. In tale ipotesi, infatti, il medico di medicina generale è tenuto a compilare sia la richiesta di ricovero sia la scheda di accesso in ospedale in cui deve indicare le ragioni cliniche della richiesta di ricovero urgente, i dati anamnestici, i provvedimenti terapeutici eventualmente in corso e gli accertamenti diagnostici effettuati. In questi casi la scheda sanitaria acquista la natura di atto pubblico, mentre negli altri ha valore di certificazione. La Corte di Cassazione non si è mai occupata specificamente della problematica relativa alla natura e alla rilevanza della scheda individuale sanitaria redatta dal medico di medicina generale. In una decisione ha tuttavia affrontato l’analoga questione della natura della ricetta medica redatta dallo stesso (Sezioni unite penali della Cassazione, sentenza n. 6752 del 7 giugno 1998). Al riguardo la Suprema Corte afferma che la ricetta medica non è un atto pubblico, ma una certificazione amministrativa anche se redatta da un pubblico ufficiale, e ciò in quanto con essa il sanitario si limita a compiere un’attività amministrativa che attesta il diritto dell’assistito all’erogazione dei farmaci. Diversamente, nel caso in cui il sanitario attesti in una certificazione di aver personalmente compiuto una determinata attività a favore del proprio assistito e di aver accertato la sussistenza di uno stato patologico del medesimo in realtà inesistente, allora in tal caso detta certificazione assume la natura di atto pubblico. Tutto ciò ha delle conseguenze, in quanto, nell’ipotesi di ricetta falsa, è applicabile l’articolo 480 cp che prevede il reato di falso in certificazioni amministrative punendolo con una pena fino a due anni di reclusione, mentre, nel caso di false certificazioni, sussiste il ben più grave reato di falso in atto pubblico punito dall’articolo 479 372 Manuale della Professione Medica cp con una pena di gran lunga maggiore (fino a sei anni di reclusione). Applicando questi principi all’ipotesi di compilazione della scheda sanitaria relativa a un assistito, in cui ad esempio il medico di medicina generale attesti falsamente l’avvenuta prescrizione di determinati farmaci o l’informazione ai fini del consenso informato, allora tale falsificazione rientrerà nell’ipotesi appena accennata del falso in certificazione amministrativa (articolo 480 cp), mentre nel caso in cui ad esempio il medico attesti falsamente nella scheda l’accertamento di uno stato patologico in verità non esistente e poi lo riproduca nella richiesta di ricovero ordinario e urgente in ospedale, allora sarà prospettabile l’esistenza del più grave reato di falso in atto pubblico, punito dall’articolo 479 cp. Oggi per il medico di medicina generale è possibile sostituire (DPR n. 445 del 28 dicembre 2000, “Testo unico delle telecomunicazioni”) la scheda individuale cartacea con una digitale. L’articolo 6 di tale DPR dispone che le pubbliche amministrazioni e i privati hanno facoltà di sostituire, a tutti gli effetti, i documenti dei propri archivi e gli altri atti dei quali per legge sia prevista la conservazione su supporto informatico purché sia garantita la conformità con i documenti originali. Ma per quanti anni il medico è tenuto alla conservazione della scheda sanitaria? La norma non specifica al riguardo. Bisogna, quindi, far riferimento alla cartella clinica, e secondo l’opinione prevalente, convalidata dalla circolare del Ministro della Sanità del 19 dicembre 1986, indirizzata agli assessori regionali della sanità, la sua conservazione è illimitata rappresentando essa un atto ufficiale destinato a garantire la certezza del diritto e a costituire fonte per le ricerche in campo sanitario. In effetti la tesi deve ritenersi avvalorata dal testo unico sulla privacy in cui è prevista la possibilità per chiunque intenda far valere un proprio diritto innanzi al giudice, il cui riconoscimento è condizionato all’accertamento del contenuto della cartella clinica, di poterla acquisire in ogni tempo. E per analogia, ciò deve intendersi anche per le schede individuali sanitarie redatte dal medico di medicina generale per il proprio assistito. 10 Assistenza al malato inguaribile M. Barni Art. 39 - Assistenza al malato a prognosi infausta In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psico-fisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Art. 16 - Accanimento diagnostico-terapeutico Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. Art. 17 - Eutanasia Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte. Art. 18 - Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica I trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di alleviarne le sofferenze. 374 Manuale della Professione Medica Art. 38 - Autonomia del cittadino e direttive anticipate Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa. Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante deve segnalare il caso all’autorità giudiziaria; analogamente deve comportarsi di fronte ad un maggiorenne infermo di mente. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato. Il tema, meglio il dramma “medico” dell’assistenza al malato inguaribile sembra letterariamente tradursi in una sorta di “ossimoro” rispetto alla medicina terapeutica, ove se ne consideri solo la prospettiva della conservazione in vita e non, più realisticamente ed in modo eticamente corretto, quella della qualità della vita stessa che ciascuno ha diritto di far valere finché non venga meno la vigilanza della coscienza. Ed anche oltre se una opzione non sia stata in precedenza esplicitata. Sarebbe forse più “scientificamente” corretto riferirsi al trattamento del paziente incurabile; ma l’essenziale è circoscrivere e definire nei giusti termini la mission del medico al tramonto irrevocabile della vita della persona assistita. Non è ad essa assolutamente pertinente ogni forma di eutanasia estranea per motivi di incompatibilità finalistica ed etica al concetto stesso di Medicina. Una trattazione esaustiva del tema non è qui prospettabile, perché in buona misura strettamente pertinente alla clinica e perché suscettibile di piegarsi al soggettivismo e destinata pertanto ad evocare premesse e differenziazioni ideologiche, quelle stesse che diversificano gli approcci e lacerano le coscienze. Sui molteplici aspetti che la particolare e in massimo grado specializzata funzione della medicina di fine-vita investe e propone, legittimamente si muovono in effetti la clinica, la deontologia, la legislazione, la Giurisprudenza e si confrontano le varie anime della filosofia morale e della bioetica, sicché una guida 10. Assistenza al malato inguaribile 375 esaustiva, che valga per l’universo professionale, sembra inesperibile e impropria, tanto da far preferire una sintetica trattazione di più utile valenza pratica. Per essa, occorre un pragmatismo che prudentemente e rispettosamente operi un doveroso rinvio al riservato dominio di una ben intesa autonomia illuminata da principi generali oltre che dalle soluzioni e dalle raccomandazioni altamente specialistiche magari valide solo per particolari settori delle attività impersonati dai neonatologi, dai rianimatori, dai palliativisti, dai terapeuti del dolore, che si avvicendano lungo tutta l’ininterrotta parabola statisticamente assegnata alla vita, dall’alta prematurità sino alla estrema decadenza. Essenziale conto meritano comunque il quadro delle esigenze fondamentali della professione medica che sono quelle stesse cui autorevolmente si rivolge il Codice di Deontologia e che in questa Guida sono state riprese e considerate nei precedenti capitoli. Ne deriva che, anche nelle condizioni di inguaribilità, ogni trattamento di assistenza e di cura non può prescindere dal principio universale (fondante anche per la bioetica) delle libertà della persona che la Costituzione della Repubblica stabilisce come diritto inalienabile alla autonoma gestione della propria esistenza biologica, la quale non consente deroghe ai paralleli diritti di discrezionalità e di dignità personali neppure in omaggio alla salvaguardia della salute e della vita che restano beni disponibili nel novero della sola autonomia individuale e nel quadro delle condizioni e con le riserve scandite, tra l’altro, dalla nostra Carta Costituzionale. Per esse il medico, se non ha potestà autonoma alcuna relativamente alla vita di chi a lui si affida (o è affidato), il quale ne è e ne resta il titolare finché capace di intendere e l’unico legittimo decisore, conserva invece (e non ne può prescindere) il dovere di garanzia, tanto della vita, quanto della salute ma sempre in armonia con la volontà della persona, validamente espressa e/o attestata. Al di fuori di questa partnership, malamente definita come alleanza terapeutica, vien meno, oltre alla rispettabilità del singolo professionista, la legittimità stessa dell’attività medica, che altrimenti abdicherebbe dalla sua funzione/missione di tutela della persona sconfinando nella violenza contro la persona psichicamente competente. Ed è appunto nella definizione dell’atto e delle scelte terapeutiche, anche di fine vita, che si muove e si sviluppa una nuova deontologia medica, promossa e sostenuta dalla bioetica e dal biodiritto, senza venir meno ai principi pacificamente accolti e perseguiti nel segno dell’autonomia e avvertiti con i sensori della scienza e della coscienza. Da questo essenziale 376 Manuale della Professione Medica fondamento etico-giuridico può e deve trarsi ogni ispirazione e segnalazione alla condotta medica anche nei confronti del malato inguaribile, il cui trattamento esige un plus di responsabilità professionali ma non esente è dall’autolegittimante partecipazione della persona assistita. L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata L’unica e democratica direttiva cui ha da ispirarsi l’attività medica (meno perspicuamente si parla di atto medico che resta ogni singolo momento della condotta) stabilisce come ogni condotta resti giuridicamente garantita (vedi la sentenza della Cass. pen. sez. unite 21/1/2009 n. 2437), finché si ispira al rispetto assoluto, da parte del medico, dei doveri di congrua informazione e di acquisizione del consenso, momenti preliminari ma irrinunciabili al dispiegarsi delle procedure e prescrizioni tecniche. Si deve quindi considerare che anche nel quadro della assistenza al malato ormai deprivato da ogni suscettibilità di guarigione, non solo, ma soprattutto ormai prossimo alla fine, non può venir meno ai principi della sacralità (che significa essenza e mistero di ciascuna vita) e della inviolabile autonomia della persona, informata, cosciente e responsabile. Ad ogni effetto, essa può essere surrogata nei casi di immaturità o di non coscienza dalla espressione di consapevolezza e di consenso di chi esercita la tutela, efficace e determinante se contenuta entro limiti che non contrastino con le irrinunciabili finalità di garanzia proprie del medico (rispetto della vita e della dignità della persona anche non competente), che soltanto la libera e diretta scelta del soggetto competente avrebbe potuto altrimenti delimitare e indirizzare, in un confronto capace di attingere le ragioni più intime e individuali dell’esistenza. Ma la sua inesperibilità diretta non può, salvo particolarissime condizioni d’emergenza-urgenza, slatentizzare insindacabili e immotivate potestà. L’altro requisito da considerare e sottolineare come espressione di un concetto apparentemente ovvio e tanto connaturato all’attività medica quanto inteso come espressione di una nouvelle vague deontologica è quello dell’appropriatezza delle scelte, non slogan rivoluzionario rispetto alla classica cultura medica ma implicito alla vicenda sanitaria se intesa alla stregua di ovvia garanzia di sicurezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in effetti, il risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo e conflitto 10. Assistenza al malato inguaribile 377 di interesse); e logos vuol dire discorso problematico (non verbum che sottende etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che si articoli su proposizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, sia tributario di un metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia espressione di una cultura in costante divenire, per quanto possibile, avvalendosi di punti fermi (le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su tutte e su ciascuna delle contingenze cliniche anche le più esasperate. E ciò attraverso il ragionamento clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni razionali che il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni patologici o come il complesso dei processi ermeneutici che il medico anche empaticamente impegna per spiegare e comprendere la condizione del paziente. Come saggiamente afferma Pagni, l’appropriatezza sta a significare la scelta «giusta, da parte dell’operatore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica clinica non può quindi che operare tanto la medicina della esperienza, ambiguo frutto della certezza naturalistica e della osservazione casistica e sperimentale, quanto la medicina della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto infine la medicina della induzione valida sempre se capace di non arrendersi alle suggestioni statistiche. Si impone così una appropriatezza capace di umanizzarsi, di individualizzarsi, di confluire nell’alveo della medicina della persona in ogni fase della vita, di una medicina cioè che si ponga al rispettoso servizio dell’ammalato: la medicina cioè dell’amore, del dolore, della felicità, dell’autonomia e della dignità di ciascuno, in un amalgama sereno e flessibile, anelante alla simpatia, non precipitato dalle ideologie e dalle scorciatoie culturali (preconcette). Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta, opzione, indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o anche desistiva; ed è qui che si ripropone il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal messaggio costituzionale (art. 32 Cost.). Il comportamento medico autolegittimato rappresenta così non tanto un dovere (ovvio) quanto una porzione della condotta terapeutica (meglio, direi, del rapporto medico-paziente) che trae il suo primo fondamento proprio dalla informazione e dalla esplicitazione del consenso. Se consentito ed eseguito lege artis, l’atto, in se stesso, gode di compiuta fisionomia e di una sua complessiva legittimità, sempre che non sia stata la monologante autorevolezza del medico a orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che il paziente abbia potuto intendere o abbia mal compreso al riguardo. L’atto 378 Manuale della Professione Medica medico è per contro privo della necessaria dimensione etica e della specifica copertura costituzionale allorché vi faccia difetto la componente relazionale che nel caso di persona non competente (minore, incapace di mente) dev’essere entro certi limiti intrattenuta con chi esercita la tutela. Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento Ad una complessa ispirazione valoriale, e cioè la tutela della salute da perseguire nel rispetto della libertà e della dignità personali, non può dunque non attenersi la logica clinica che resta ancora il fondamentale, ma non il solo, fattore delle scelte. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza di pulsioni diverse: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente preponderante se e quando definito dalla legge (malattie infettive, malattie mentali, ecc.), dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del singolo medico da contenere peraltro entro quei limiti di autonomia traducibili nella obiezione di coscienza quando ex lege prevista o nella clausola di coscienza deontologicamente corretta e responsabilmente intesa. Il resto può essere oggetto solo di scansione deontologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della correttezza “sociale” d’ogni decisione medica, fatta di scienza e di umanità, concretizzata ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico, cui non può supplire, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone, né la consulenza etica ne l’apporto decisivo di figure professionali diverse. La decisione è un atto di coscienza e di volontà che unisce medico e paziente. Dall’esterno può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza e di responsabilità nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la formazione e la informazione, la crescita scientifica e morale. Le fasi diverse e le competenze diverse non possono né debbono in effetti scomporre la dialogante unicità di un percorso, specialmente se obbligato dalle contingenze della incurabilità, ma semmai porre in luce, a monte della contingenza stessa, la gamma delle opzioni possibili su cui scienza e morale si confrontino e da cui derivi a valle una armonia tra le varie istanze e prospettive anche quando la scelta non dovrebbe tecnicamente che essere una. Non può in effetti frapporsi tra il medico decisore e l’atto della decisione una trama di suggerimenti, che non sono, comunque, né metodologicamente, né scientificamente, né eticamente vincolanti anche ai fini della scelta (ed è in questo senso giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e 10. Assistenza al malato inguaribile 379 tanto meno scriminanti in senso deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del medico è destinata a cedere alla inerzia (medicina difensiva) o alla predominante soggezione ai dogmi (scientifici o etici) incombenti sui giudizi, alla deresponsabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, con il risultato di frantumare così ogni unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi né dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto assistito o suo legale rappresentante che sottende, come si è visto, un dialogo pregnante, semplice o complesso che sia: non più un soliloqio del medico, da recitare, come in passato, in riservata e ombrosa solitudine, ma un’impresa plurisoggettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta, in una trepida e lucida atmosfera di ascolto anche dei motivi espressi o inespressi da una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffattamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella coscienza individuale, ma non fino alla inderogabilità o alla obiezione apodittica. In questo quadro si sviluppa dunque il percorso prasseologico della medicina c.d. di fine vita, che non può, per quanto sin qui riassunto (e semplicemente esposto nell’allegato Codice di Deontologia), distaccarsi dal rapporto con la persona ed ignorarne la autonomia. La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nella maniera migliore possibile l’approccio diagnostico e prognostico, risiede infatti nel trattamento o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o desistenza terapeutica), fasi essenziali che presuppongono una decisione non sempre revocabile e ad un certo punto inflessibile che deve rispettare pur sempre il fine della medicina, quello di tentare il recupero dello stato di salute migliore possibile e di salvaguardare la vita o almeno la qualità della vita, ma entro i termini della logica (ragionevolezza) clinica; mai al di fuori della duplice reciproca potestà individuale di far valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto della propria dignità. E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato. Giova qui ripetere che il paziente competente può accettare o respingere la intrapresa di un trattamento che sia persino sostitutivo di una funzione essenziale della vita (ventilazione artificiale, emodialisi, emotrasfusione, trapianto, nutrizione artificiale) e può esigerne la sospensione; ed il medico ha il dovere essenziale di renderlo edotto dei rischi connessi ad una scelta che può essere definitiva. 380 Manuale della Professione Medica Il rifiuto del trattamento Per quanto peculiarmente riguarda il rifiuto di terapie salva-vita si continua a discutere (con ricadute bioetiche inquietanti) sulla indisponibilità del substrato corporeo, oltre che della vita stessa e si revoca, mettendola in dubbio, la legittimità del rifiuto di curarsi. Per converso, si condannano i trattamenti non direttamente correlati a condizioni patologiche, riconducendo così la malattia e la salute nelle strettoie del mero organicismo. Questa escalation di divieti moralistici non è tuttavia accettabile, posto che nella temperie civile e democratica, la scelta deve solo derivare da una effettiva armonia tra libertà di curarsi e libertà di essere curati: ed è questo un principio basilare della professione medica, un principio del resto prevalente nella stessa Bioetica, quale è nata e si è nel tempo affermata. Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali, non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, assolutamente legittime se indirizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi. Esse vanno considerate nella temperie di una responsabilità medica cui fiduciosamente dare credito ma non possono tuttavia tradursi in obblighi sul se e sul come, tanto per il medico (di cui tuttavia sono ammessi anche nella terminalità e la obiezione di coscienza ed il rifiuto deontologicamente corretto) che per il paziente. La Corte Costituzionale ha d’altronde negato a più riprese allo stesso legislatore la discrezionalità di intervenire nella materia decisionale delle scelte curative (se e quando, ad es., siano ammissibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alternative, i divieti extrabiologici ed extraterapeutici, la procreazione medicalmente assistita), ammonendo sulla inesperibilità e la intrasferibilità sul piano tecnico di prescrizioni normative. Ed è quanto meno improprio che proposte legislative relative al testamento biologico contemplino la indichiarabilità e la inaccettabilità di scelte anticipate relative, ad es., alla nutrizione artificiale dei soggetti in stato vegetativo. Allorché l’accettazione o il rifiuto di una terapia assumono la tragica fisionomia delle scelte di vita, per il medico non può venir meno il rispetto della autonomia della persona. In questa atmosfera d’acceso impegno morale, si fondano e si identificano le due finalità di scelta (la salute, la vita) e i problemi che sembrano ancora marcarne la differenza concorrono solo come occasionali distonie proprie delle evenienze di inesperibilità e di indisponibilità del consenso o del dissenso al trattamento, direttamente e contestualmente espressi. Ma sono solo parvenze di alterità, che la medicina legale, la deonto- 10. Assistenza al malato inguaribile 381 logia e il diritto, hanno, col trascorrere di un tempo ben misurabile, del tutto superate anche grazie alla affermazione, in chiave non solo bioetica, dell’autonomia della persona. Ove il soggetto non sia competente si pongono tuttavia ulteriori e più articolate esigenze di rispetto dell’autonomia stessa, alternative rispetto alla diretta esressione di volontà che nel malato, ormai inguaribile, possono considerarsi non superabili: a) Informazione e acquisizione del consenso da coloro che esercitano la tutela, sempre che la scelta di questi soggetti non implichi un trattamento diretto a provocare la morte (eutanasia attiva). b) Richiesta di intervento di un amministratore di sostegno in caso di controversia o di profonda incertezza. c) Ricorso costante e sereno alla leniterapia e alla sedazione del dolore. d) Non adozione o sospensione di ogni trattamento (ivi compresa la nutrizione artificiale) quanto incapace di svolgere una effettiva azione e non sia biologicamente attivo. Possono così riprendersi questioni particolari che per quanto attiene le scelte mediche di fine-vita acquistano un significato esemplare. La prima riguarda la persistenza (o la inesistenza) di un trattamento ormai inutile, futile ed al limite dannoso: in altri termini chiama in causa il c.d. accanimento terapeutico. E si ripresenta inevitabilmente la domanda che vediamo emergere sempre più distintamente nel dibattito pubblico: fino a che punto il medico può e deve spingersi con la terapia? Certamente, è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo può provocare frustrazione e sconforto, specialmente nei casi, che vorremmo chiamare “estremi”, quando cioè lo stato del paziente non solo gli impedisce di esprimersi e di relazionarsi col mondo esterno, ma blocchi la coscienza e riduca la persona ad una anatoma succube della terapia e tale stato si riveli, dopo un attento e prolungato esame, come irreversibile. Non si tratta solo di eventi riguardanti l’interrogativo dei limiti della medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimentazione e in particolare dei trapianti. In queste situazioni deve recuperarsi e liberarsi una umanità onestamente esperibile nel trattamento dei singoli casi, la quale non esclude la incombenza di qualche rischio anche drammatico che la responsabilità di ciscuno deve saper assumere quando venga il momento di farlo. È 382 Manuale della Professione Medica così anche chi sente «il mistero di Dio» pervadere la propria vita potrà porre con fiducia il proprio dovere di scelta «nelle mani del Padre». Lo afferma con schiettezza I. Marino e laicamente vorremmo aggiungere che non dovrebbe proprio allora venir meno la fiducia nel medico, che anche nel mondo giuridico è considerato l’insostituibile arbitro delle opzioni più drammatiche: una fiducia che riconosce e rintraccia il senso di umanità, di carità, di responsabilità. Del resto «Arriva un tempo in cui finisce il tempo e sempre più si assottiglia e aderisce alle rughe della terra e dei massi. La memoria è il velo sottile di muschio che c’è e non c’è. Lo spazio non ha confini, è irriconoscibile. Ogni bagliore è luce dell’eterno, è riflessione divina.»1 Le direttive anticipate L’ultimo punto che impone qualche definitiva considerazione è il testamento biologico ovviamente riferito alle condizioni di fine-vita. Un documento approvato pressoché unanimemente dal Consiglio nazionale degli Ordini dei Medici (Terni, 12 luglio 2009) ha previsto con chiarezza e lungimiranza la propensione dei medici italiani per una normazione in tema di testamento biologico, limitata alle procedure di compilazione e di gestione e non più pervasiva delle scelte professionali da adottare caso per caso, con scienza e coscienza e in armonia con le volontà della persona assistita direttamente espresse o consegnate ad una direttiva anticipata. Naturalmente la essenziale e più dibattuta questione resta quella dello stato vegetativo e della pertinenza della alimentazione e idratazione artificiali alle comuni forme di assistenza ovvero all’ambito terapeutico, al quale deve essere estranea ogni forma di accanimento. Su quest’ultima tesi è decisamente schierata la comunità clinico-scientifica, a partire dall’American Medical Association che già il 15 marzo 1986, approvando una risoluzione del Council on Ethical and Juridical Affairs ha configurato «la somministrazione artificiale di nutrizione ed idratazione tramite una sonda per gastrosto1 Cesare Viviani, Credere all’invisibile, Einaudi 2009. 10. Assistenza al malato inguaribile 383 mia (ma anche tramite sondino naso-gastrico) come una forma di trattamento medico che può essere interrotta in conformità ai principi e alle pratiche che regolano il non inizio e la sospensione di trattamenti medici che solo prolungano la vita. Le fondamentali risoluzioni sono presentate e discusse nel documento pubblicato da JAMA (263 - 1990, pp. 426-430: Persistent Vegetative State and the decision to withdrow or withold life support), le varie e pressoché conformi linee-guida operanti in ogni paese meno che in Italia (ove il Ministero della Salute elaborò alla fine degli anni ’90 il c.d. rapporto della Commissione Oleari, mai peraltro ufficializzato) si sono attestate sulle stesse conclusioni. Si veda per tutte la esemplare risoluzione della British Medical Association: Witholding or withdrowing life prolonging medical treatment: guidance for decision making (BMJ Books, London, 1999) che definisce “the categorization of artificial nutrition and hydratation as a form of medical treatment”, stabilendo anche le più logiche garanzie per la decisione di sospensione terapeutica. La Giurisprudenza è assolutamente e ubiquitariamente ferma su tali principi. Vedasi per tutti la sentenza sul caso Bland (dicembre 1992 - febbraio 1993) relativo ad un soggetto in s.v.p. successivo a traumatismo multiplo, esaminato dalla House of Lords (la Corte Suprema inglese). Per essa i trattamenti life-saving (nutrizione e idratazione) «costituiscono trattamenti medici soggetti alla valutazione medica di appropriatezza per cui il medico non ha l’obbligo giuridico di somministrare trattamenti medici quando ormai incapaci di qualsiasi beneficio (incorrispondenti cioè al best interest); e il medico è tenuto a sospenderli, quando un paziente non è più in grado di acconsentire o di rifiutare e non abbia precedentemente espresso la sua volontà, pur avendone discusso con la famiglia». Ma anche la Giustizia italiana ha recentemente sancito (Cass. sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21745) come «non v’è dubbio che l’idratazione e la alimentazione artificiale con sondino naso-gastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse infatti integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche». Anche la Corte di Appello di Milano, col decreto della sezione I civile del 9 luglio 2008, segue tale linea, elencando i fondamentali presupposti per una ricostruzione “oggettiva”. Una impostazione di tal genere ha d’altronde una sua ragione etico-giuridica che riconosce una matrice estranea alla competenza medica e tuttavia essenziale per tutte le implicazioni deontologiche (vedi Convenzione di Oviedo e Codice di Deontologia medica). Il problema del procedimento applicativo o sospen- 384 Manuale della Professione Medica sivo di idratazione e alimentazione artificiale è invece di natura esclusivamente clinico-terapeutica e di competenza quindi esclusivamente medica. Ne fa fede, alla fine, un recentissimo intervento della Corte Costituzionale, che al punto 6.1, penultimo comma della sentenza 151/2009, ha nuovamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica, sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (vedi anche le sentenze delle n. 338 e n. 382 del 2002 sulla incostituzionalità di leggi regionali relative alle terapie elettroconvulsivanti e alle pratiche non convenzionali). La decisione della Corte del 10 aprile 2009 proietta così molta ombra sul disegno di legge relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento, là dove per l’appunto vengono prospettati limiti alle decisioni mediche legittimamente e responsabilmente assunte in armonia con le espressioni di volontà, anche anticipate, del paziente, che peraltro non possono ritenersi vincolanti per chi abbia espresso specifica obiezione di coscienza. Per evocare una suggestiva metafora potremmo infine dire che l’autonomia del paziente relativa al trattamento e quindi il rispetto da parte del medico della libertà personale, anche alla fine della vita, si riconoscono nella idea di una porta che separa il paziente dal medico. Se il paziente ha taciuto e tace, il medico vi ha legittimo accesso, mentre se la decisione di non aprirla è stata presa o anticipata liberamente e consapevolmente dal paziente, essa non può essere forzata neanche quando, oltre la soglia, si esaurisce ogni speranza2. Definizioni Eutanasia Azione od omissione deliberatamente diretta a provocare una morte non accompagnata o liberata da sofferenze fisiche e/o morali. È una soluzione finale assolutamente estranea alla potestà e all’etica medica. Il termine è tuttavia infelicemente utilizzato con aggettivazioni deontologicamente inammissibili: attivapassiva, pietosa (mercy killing), volontaria (invocata cioè dalla persona assistita). La Chiccoli I.: Brevi note sulla distinzione fra eutanasia attiva e passiva, in «Forum biodiritto 2008: percorsi a confronto: inizio vita, fine vita e altri problemi» a cura di Casonato C. e coll., Trento, 2008. 2 10. Assistenza al malato inguaribile 385 più esatta definizione ne è offerta dall’art. 17 CDM (vedi). Non è culturalmente oltre che professionalmente accettabile la inclusione nella dimensione eutanasia nel processo di desistenza dalla terapia eticamente e deontologicamente legittima, e quando sia richiesta dal paziente competente ovvero espressa dal legale rappresentante ovvero infine confidata a direttive anticipate (art. 39 CDM). Accanimento terapeutico La migliore definizione è quella offerta dall’ultimo comma dell’art. 39 CDM, che ne evidenzia la censurabile e difensivistica pretestuosità e futilità, ponendo per contro in positiva luce il dovere del medico di proteggere la vita anche «in caso di compromissione dello stato di coscienza» e di proseguire «nelle terapie di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile» anche nel quadro di una equa fruibilità delle risorse e dei presidi. Direttive anticipate Espressione di opzioni relative alle scelte diagnostiche o curative desiderate o rifiutate, manifestate dal cittadino ancora in condizioni di ben intendere, ma valide anche se derivate da una dichiarazione di volontà quod vitam aut valetudinem dirette a proiettare la propria autonomia decisionale verso una fase o condizione della propria vita nelle quali sia impossibile o inesperibile il consenso informato. Rinviando ad altra parte della Guida la trattazione del tema, ci si limita qui ad affermare che il medico è tenuto a soddisfare le volontà siffattamente espresse, sempre che esse non contrastino con l’etica (deontologia) e la dignità professionale e non contemplino attività eutanasiche ultronee alla consapevole e motivata desistenza terapeutica. Leniterapia Ogni atto medico che, oltre che alla desistenza di ogni inane o straordinaria iniziativa su soggetti ormai prossimi alla fine, specialmente se sofferenti, sia diretta a realizzare una qualità dignitosa e serena della vita che si spegne. Trattamenti incidenti sulla integrità psicofisica Nel quadro della attività terapeutica sono quelli diretti a lenire il dolore o a consentire salvifici trattamenti. Non sono condannabili ed anzi doverosi se finalisticamente positivi, ancorché inaccessibili di ridurre e/o indebolire le funzioni vitali. 11 Sessualità e riproduzione E. Turillazzi Art. 42 - Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione Il medico, nell’ambito della salvaguardia del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, è tenuto a fornire ai singoli e alla coppia, nel rispetto della libera determinazione della persona, ogni corretta informazione in materia di sessualità, di riproduzione e di contraccezione. Ogni atto medico in materia di sessualità e di riproduzione è consentito unicamente al fine di tutela della salute. La contraccezione e la sterilizzazione La contraccezione La contraccezione ormonale è una metodica volta alla prevenzione del concepimento attuata tramite la somministrazione di preparati estroprogestinici variamente combinati secondo determinati schemi posologici. I metodi contraccettivi meccanici e di barriera sono, invece, quelli che creano un ostacolo all’incontro fra spermatozoi e ovocita. V’è da sottolineare un aspetto particolarissimo della contraccezione rappresentato da quelle pratiche che vengono ricomprese nella definizione di intercezione, termine col quale si definisce la prevenzione della gravidanza prima o subito dopo il concepimento. I metodi attraverso i quali si può attuare la intercezione sono: a) ormonali: tendenti alla inibizione dell’annidamento mediante somministrazione orale di dosi elevate di estrogeni oppure di estroprogestinici con inizio 388 Manuale della Professione Medica della assunzione idealmente entro le 24 ore dal rapporto presunto fecondante e comunque non oltre le 72 ore (cosiddetta “pillola del giorno dopo”); b) meccanici: mediante la applicazione di un dispositivo intrauterino nei giorni immediatamente successivi al concepimento in modo da impedire l’annidamento e quindi l’inizio della gravidanza (cosiddetto “IUD del giorno dopo”). La pillola del giorno dopo, in definitiva, altro non è che un contraccettivo ormonale usato con particolare sequenza cronologica e con particolare dosaggio e gravato da effetti collaterali e indesiderati non indifferenti. Si tratta di una metodica già in uso da lungo tempo e che consistite nella somministrazione di estroprogestinici variamente combinati e a vario dosaggio utilizzati, appunto, a scopo di contraccezione d’emergenza. L’introduzione di farmaci nuovi (nel senso che a sostanze già note e utilizzate è stata data una formulazione farmaceutica nuova) è stata definitivamente sancita con decreto di autorizzazione del Ministero della Sanità (GU n. 238 dell’11 ottobre 2000) che autorizza la immissione in commercio di specialità medicinali a base di levonorgestrel, prescrivibili con ricetta rinnovabile di volta in volta e con la specifica indicazione terapeutica di «contraccettivo d’emergenza da usare entro 72 ore da un rapporto sessuale non protetto o in caso di mancato funzionamento di un sistema anticoncezionale». La prescrizione della pillola del giorno dopo deve rispondere a precisi requisiti (rispetto delle indicazioni, considerazione delle controindicazioni e degli effetti collaterali) la cui valutazione spetta in definitiva solo al medico, tenendo ben presente che essa non può essere considerata tout court una alternativa agli usuali metodi contraccettivi. Solo quando il sanitario ritenga, sulla base dei dati clinico-anamnestici in suo possesso, la somministrazione della pillola del giorno dopo opportuna, efficace e ragionevolmente priva di prevedibili effetti collaterali, egli è tenuto alla sua prescrizione, previa ampia informazione al soggetto. In merito alla possibilità di rifiuto della prescrizione della pillola del giorno dopo, da parte del sanitario occorrono ulteriori specificazioni. Tali metodiche esulano dalle previsioni della legge 194/1978. I mezzi intercettivi vengono impiegati prima dell’instaurarsi dello stato gravidico e del suo accertamento per cui il loro utilizzo non richiede la attivazione delle procedure previste dalla legge per l’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni. Ciò premesso, è evidente che non è applicabile in questa fattispecie la obiezione di coscienza così come prevista dalla legge 194/1978 esplicitamente 11. Sessualità e riproduzione 389 solo nelle ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza. Rimane, tuttavia, per il medico la possibilità, motivata da contrasti con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, di un «rifiuto d’opera professionale». La sterilizzazione Definizione Nell’affrontare la questione della sterilizzazione, occorrono, ai fini di un corretto inquadramento del fenomeno, alcune precisazioni terminologiche. Il termine sterilizzazione indica «ogni atto (e in particolare ogni atto medico) volto a provocare la sterilità in un soggetto sessualmente fecondo». Sterilizzazione terapeutica Il tema della sterilizzazione terapeutica, volta cioè a “curare” patologie neoplastiche o di altra natura nell’uomo o nella donna, non offre particolari spunti di indole etico-giuridica, fatto salvo il dovere del rispetto dell’indicazione terapeutica e, soprattutto, dell’obbligo per il medico di assolvere a una informazione ampia a coprire tutti i molteplici aspetti della procedura (in particolare i rischi e le possibili complicanze fra cui, appunto, gli esiti sterilizzanti) al fine di ottenere un consenso veramente informato e consapevole da parte del soggetto che si sottopone a simili procedure terapeutiche mediche o chirurgiche. Sterilizzazione volontaria La sterilizzazione volontaria necessita di essere inquadrata sotto il duplice profilo della liceità etica e della fattibilità giuridica nel contesto del nostro ordinamento giuridico attuale. Considerata la sterilizzazione volontaria, come fattispecie di intervento con finalità terapeutiche, occorre procedere al suo inquadramento normativogiuridico, ricordando come l’abrogazione dell’art. 522 cp (procurata impotenza alla procreazione) ex art. 22 legge n. 194/1978 non ha, ipso facto, aperto la strada alla liberalizzazione delle ipotesi di sterilizzazione: la causazione della perdita della capacità di procreare configurerebbe, infatti, una lesione personale gravissima (art. 583 cp). L’abrogazione dell’art. 522 cp non sembra, quindi, aver risolto definitivamente il problema della liceità penale degli interventi di sterilizzazione umana volontaria la cui interpretazione giuridica non appare univoca, oscillante com’è 390 Manuale della Professione Medica fra le opposte posizioni di quanti ravvisano nell’art. 5 cc (che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando provochino diminuzioni permanenti della integrità psico-fisica del soggetto) un limite invalicabile non superabile nella fattispecie della sterilizzazione nemmeno con il consenso dell’interessato, e quanti, invece, ritengono che «un soggetto consenta ad atti relativi alla propria integrità fisica, se rispondenti ad una scelta per finalità di salute psichica, liberamente valutata». In altri termini, la barriera dell’art. 5 cc non opererebbe nelle fattispecie della sterilizzazione volontaria in quanto non di diminuzione della propria integrità psico-fisica si tratterebbe, bensì del raggiungimento del bene salute (seppure latamente estesa) tutelato dalla Costituzione. La sterilizzazione volontaria sembra, quindi, essere ammessa nel nostro ordinamento solo se veramente volontaria e suffragata da un consenso realmente informato e consapevole proprio a motivo delle particolari implicazioni (irreversibilità) dell’atto che si intraprende; ne deriva per il sanitario un obbligo informativo forte e imprescindibile. La reversibilità degli interventi di sterilizzazione e il conseguente venir meno dell’attributo della permanenza della riduzione della integrità psico-fisica indotta dagli atti di disposizione del proprio corpo di cui all’art. 5 cc, potrebbe attutire, fino a eliderla completamente e finalmente, la vetusta ed abusata barriera dell’art. 5 cc. È altresì evidente che il medico cui venga richiesto di praticare un intervento di sterilizzazione può legittimamente rifiutarsi di aderire alla richiesta del soggetto, rientrando appieno tale evenienza nella ipotesi di legittimità del rifiuto di obiezione di coscienza. Sterilizzazione coattiva Un cenno, sia pur breve, merita la sterilizzazione coattiva, termine questo comprensivo di tutte le forme di sterilizzazione attuate senza o contro il consenso dell’interessato, «indipendentemente dal soggetto che ne deliberi l’effettuazione (genitori o tutori, medici, giudici, Stato) o dalle motivazioni (in particolare quelle di carattere sociale) che possono essere addotte per giustificarle» (CNB). Ci si riferisce alle forme di sterilizzazione rituale di certe etnie, alla sterilizzazione di soggetti che abbiano compiuto reati di carattere sessuale, a quella demografica praticata in certe aree del mondo ove consistente è il problema dell’eccesso numerico della popolazione o a ipotesi di sterilizzazione eugenetica a danno di soggetti disabili. In ogni caso, la sterilizzazione coattiva, eseguita cioè sull’uomo o sulla donna senza il consenso o con consenso viziato 11. Sessualità e riproduzione 391 e non valido, al di là della assoluta esecrabilità etico-morale, costituisce reato previsto dal nostro ordinamento penale nella fattispecie della lesione personale gravissima (art. 583 cp). Il transessualismo e il mutamento di sesso Il transessualismo e il mutamento del sesso morfologico implicano, ancora una volta, attività e potestà mediche afferenti a una concezione ampia di salute che percorre tutte le imprese mediche in ambito di sessualità e riproduzione. Il rifiuto della propria realtà sessuale biologica può senza ombra di dubbio ingenerare, nei casi di contrasto fra la dimensione psichica della personalità sessuale, l’assetto cromosomico e la espressione fenotipica dei caratteri sessuali primari e secondari, gravi ripercussioni negative sulla salute dell’individuo stesso. Va, allora, inquadrata in questa ottica e solo in essa la potestà conferita al medico di intervenire con mezzi chirurgici (ma non solo se si pensi alle terapie ormonali) per adeguare i caratteri sessuali di un individuo a quelli del sesso opposto. La legge n. 164 del 14 aprile 1982 che reca disposizioni in materia di rettificazione di attribuzione di sesso rappresenta l’approdo legislativo di un lungo viaggio intrapreso da dottrina e Giurisprudenza. Accanto, infatti, a posizioni di formale rigore concettuale e giurisprudenziale per le quali la necessità di tutelare la certezza dei rapporti giuridici appariva preminente (per tutte si citi Cass., 3 aprile 1980 che rigettava la domanda di rettificazione stabilendo che l’intervento chirurgico è incompatibile con le esigenze primarie dell’ordinamento poiché i rapporti intersoggettivi devono essere improntati al criterio della chiarezza e della certezza giuridica), si faceva vieppiù strada un indirizzo giurisprudenziale sempre più sensibile alla questione del transessualismo e alla affermazione del cosiddetto diritto alla identità sessuale, intesa come aspettativa di riconoscimento giuridico delle condizioni nelle quali l’aspetto psicologico e umano è predominante e connotato spesso da una forte componente di dolore e di disagio di ostacolo al raggiungimento di uno stato di pieno benessere che si identifica con la salute. La attuale normativa viene promulgata nel 1982 in risposta anche a un chiaro invito del giudice costituzionale (Corte Cost. n. 98, 12 luglio-1° agosto 1979) che, investito della questione della legittimità costituzionale della norma 392 Manuale della Professione Medica civilistica che impediva la rettifica degli atti di stato civile a seguito della modificazione chirurgica degli organi genitali esterni, pur non riconoscendo ancora fra i «diritti inviolabili dell’uomo quello di far riconoscere e registrare un sesso esterno diverso dall’originale, acquisito con una trasformazione chirurgica per farlo corrispondere a una originaria personalità psichica», indicava, tuttavia, la necessità di una soluzione legislativa per la questione del transessualismo. La legge introduce di fatto un concetto nuovo di identità sessuale che dà risalto all’orientamento psichico del soggetto come elemento prevalente sui caratteri sessuali somatici e riconosce il diritto di ciascuno di attribuirsi un sesso conforme alla propria personalità psichica. Non poche critiche ha sollevato la legge del 1982 in merito alla liceità dell’intervento di correzione chirurgica del sesso e delle ripercussioni sull’eventuale matrimonio, sulla famiglia e sulla vita di relazione del soggetto sottoposto a modificazione artificiale del sesso gonadico. Illuminanti in tal senso sono le parole della Corte Costituzionale che, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge n. 164/1982, afferma (Corte Cost., 6 maggio 1985, n. 161) che: «Anche a tacere del rilievo che il principio dell’indisponibilità del proprio corpo è salvaguardato, nella legge in esame, dalla necessità del previo intervento autorizzatorio del tribunale, resta comunque che, per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, anche psichica, devono ritenersi leciti. La natura terapeutica che la scienza assegna all’intervento chirurgico – e che la legge riconosce – nella fattispecie considerata ne esclude la illiceità, mentre le norme che lo consentono, dettate a tutela della persona umana e della sua salute – fondamentale diritto dell’individuo e dell’interesse della collettività – non offendono per certo i parametri costituzionali invocati». Le procedure Ai sensi dell’art. 1, quando siano intervenute modificazioni dei caratteri sessuali o quando le condizioni psico-fisiche del soggetto siano tali da richiederlo, l’interessato (maggiorenne) può inoltrare domanda per la rettificazione di attribuzione di sesso al tribunale. Il tribunale può, quando necessario (art. 2), nominare un consulente tecnico per accertare le condizioni psico-fisiche del soggetto. L’art. 3 della legge 164 dispone che: «Il Tribunale quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, 11. Sessualità e riproduzione 393 lo autorizza con sentenza. In tal caso il Tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio». La questione che può porsi, come acutamente è stato sottolineato da parte della dottrina giuridica, insiste sulla «reale necessità dell’intervento chirurgico per ottenere la richiesta di rettificazione degli atti dello stato civile di cui all’art. 3 della legge 164». Ebbene, a tale proposito ondivago – e non poteva essere altrimenti – è l’orientamento della Giurisprudenza che si è espressa in maniera difforme. Si citano, a mo’ di esempio, la sentenza del Tribunale di San Remo (7 ottobre 1991) per il quale «non può accogliersi la domanda di attribuzione del sesso maschile formulata da un soggetto, nato con le caratteristiche del sesso femminile e come tale dichiarato allo stato civile, sul presupposto della mancata accettazione dell’identità femminile e del possesso di caratteristiche psichiche di tipo maschile, senza però che il soggetto si sia sottoposto, in mancanza di una evoluzione naturale, a interventi demolitori degli organi sessuali esistenti (e successivamente ricostruttivi) per assumere anche solo l’apparenza del sesso opposto a quello anagrafico, non essendo a tal fine sufficiente la mastectomia e la disposizione pilifera di tipo maschile, che non incidono sui caratteri sessuali primari della persona, la quale non ha pertanto perduto le caratteristiche fisiche del sesso originario»; e quella, ben diversa, del Tribunale di Macerata (12 novembre 1984) secondo il quale «l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico di cui all’art. 3 della legge n. 164 del 1982, si rileva necessario ai fini della rettifica del sesso solo quando occorre adattare le caratteristiche del sesso medesimo alla personalità psicosessuale del soggetto, in presenza di provata dissociazione fra la psiche dell’interessato e i suoi caratteri sessuali, vale a dire nell’ipotesi che si suole definire di “transessualismo”. Viceversa, nel caso della cosiddetta “intersessualità” in cui a un assetto genetico definito corrisponde un fenotipo ambiguo congenito, per effetto del quale alla nascita si è apprezzata soltanto una definizione apparente del sesso, va disposta direttamente con sentenza la rettificazione dell’attribuzione del sesso, a termini dell’art. 2 legge n. 164 del 1982». La sentenza di rettificazione di sesso ha come effetto lo scioglimento dell’eventuale matrimonio e la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso (art. 4). Le attestazioni di stato civile riferite a persona della quale sia stata giudizialmente rettificata l’attribuzione di sesso sono rilasciate con la sola indicazione del nuovo sesso e 394 Manuale della Professione Medica nome (art. 5). Rimane insoluta la questione relativa all’affidamento dei figli che andrà risolta, di volta in volta, a seconda dell’età dei figli stessi e delle situazioni contingenti. Art. 43 - Interruzione volontaria di gravidanza L’interruzione della gravidanza, al di fuori dei casi previsti dalla legge, costituisce grave infrazione deontologica tanto più se compiuta a scopo di lucro. L’obiezione di coscienza del medico si esprime nell’ambito e nei limiti della legge vigente e non lo esime dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna. L’interruzione volontaria di gravidanza La interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è disciplinata dalla legge n. 194 del 22 maggio 1978. Tutela della maternità Necessaria premessa a una corretta lettura della legge 194 è l’articolo 1 che testualmente recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è un mezzo per il controllo delle nascite…». Si tratta, in buona sostanza, di una dichiarazione chiarissima dei principi sui quali si articolerà poi tutta la legge. Le procedure della legge 194/1978 La IVG nei primi novanta giorni L’art. 4 regolamenta le procedure per adire l’IVG nei primi novanta giorni di gravidanza. In questa ipotesi «la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge a un consultorio pubblico […] o a una struttura socio-sanitaria […] o a 11. Sessualità e riproduzione 395 un medico di sua fiducia». Il medico (art. 5) deve compiere gli accertamenti sanitari necessari (alla conferma dello stato gravido) nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valutare con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, le circostanze che hanno determinato la richiesta dell’IVG; informarla sui diritti a lei spettanti e su eventuali interventi di carattere sociale cui può fare ricorso; aiutare la donna a verificare la possibilità di rimuovere le cause che l’hanno portata alla decisione di interrompere la gravidanza e promuovere comportamenti consapevoli nel controllo della fecondità. Prima di rilasciare il documento che a norma dell’art. 5 deve contenere solo l’attestazione dello stato di gravidanza e della avvenuta richiesta di interruzione della medesima, il medico può e deve effettuare solo controlli sullo stato e l’epoca della gravidanza in atto. In buona sostanza il medico non ha il dovere di accertare l’effettiva esistenza e la rilevanza delle motivazioni addotte dalla donna, pur essendo opportuno che nel corso del colloquio egli valuti insieme con la donna le motivazioni che l’hanno condotta a richiedere la IVG senza che, peraltro, risulti di sua competenza contestarle o dimostrarne la eventuale irrilevanza. Al termine del colloquio il medico «rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi per ottenere la interruzione della gravidanza […] presso una delle sedi autorizzate». In caso di urgenza clinica, «quando il medico […] riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi a una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione di gravidanza». Il ruolo del padre del concepito L’analisi della legge porta inevitabilmente ad affrontare una questione assai delicata, quella cioè relativa al ruolo decisionale del padre del concepito nei confronti del quale la legge mostra, in effetti, solo una minima apertura (art. 5). La esclusione, di fatto, dell’uomo dal processo decisionale che prelude alla IVG appare coerente con l’opzione di fondo ispiratrice della legge la quale ritiene comunque e sempre prevalente la tutela della salute fisio-psichica della madre; e in questa ottica il diritto dell’uomo alla paternità non può mai superare né contrastare il diritto alla salute della donna, fulcro dell’intero sistema normativo sull’aborto. 396 Manuale della Professione Medica La IVG dopo i primi novanta giorni Dopo il 90° giorno la IVG può essere praticata (art. 6): a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per salute fisica o psichica della donna. Nessun commento si rende necessario in merito al comma a) essendo evidente come la sussistenza di un grave pericolo per la vita della donna legittimi la possibilità di ricorrere alla IVG dopo i primi novanta giorni. Vale solo la pena sottolineare come, secondo la più attenta dottrina medico-legale, «il riscontro di un grave pericolo può essere effettuato anche sulla base di una ragionevole previsione e in mancanza del requisito della sua attualità. È sufficiente che tale pericolo si prospetti come probabile, attendibile, verosimile anche a scadenze non immediate». La valutazione tanto del benessere della madre quanto dell’esistenza di un nesso causale tra la patologia fetale e il grave pericolo per la madre, rappresenta, in effetti, lo snodo cruciale della normativa che, siffattamente escludendo la liceità di qualsiasi forma di aborto eugenetico, giustifica in realtà la IVG dopo il 90° giorno solo alla luce dell’esistenza di una minaccia grave e comprovata per la salute della madre. Si ritiene, quindi, che non sia determinante la possibilità o meno di diagnosticare l’esistenza delle malformazioni fetali e anzi che ciò sia sostanzialmente irrilevante rispetto a quanto il legislatore addita all’attenzione dei medici cui l’indagine compete. La ratio della norma rispecchia, d’altronde, l’esclusiva preoccupazione del legislatore di tutelare un effettivo pericolo per la salute e la vita della donna da qualunque causa possa essere esso determinato. Ne emerge, come momento di fondamentale rilievo, l’accertamento non tanto delle anomalie e delle malformazioni fetali, di per sé – giova rammentarlo – non giustificatrici della IVG, bensì del pericolo grave per la salute materna (fosse anche solo dell’integrità psichica), unico presupposto che garantisce e dà accesso al ricorso alle pratiche di IVG dopo i primi 90° giorni di gravidanza. Le modalità tecnico-procedurali per adire la IVG dopo i primi 90 giorni sono previste dall’art. 7 della legge cui si rimanda, limitandosi a sottolineare come «qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione 11. Sessualità e riproduzione 397 della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) – quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna – e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto». La obiezione di coscienza da parte di tutti i professionisti sanitari medici e non medici è specificatamente prevista dall’art. 9 della legge 194. Per quanto riguarda le prestazioni oggetto della obiezione di coscienza, è esplicitamente previsto dall’art. 12 che il personale non «è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e agli interventi per l’interruzione della gravidanza». Nessun dubbio, quindi, in merito alla possibilità per il personale sanitario di astenersi solo da quelle procedure che siano «specificamente e necessariamente» dirette a determinare la IVG, mentre non rientrano nella obiezione di coscienza tutte quelle attività volte alla assistenza, latamente intesa, della donna nei momenti che precedono e che seguono la IVG. Anche in merito alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e suscettibili di rifiuto da parte degli operatori obiettori sono necessarie alcune precisazioni. Il primo punto concerne l’incontro e il colloquio di cui all’art. 5 che, per oramai concorde dottrina medico-legale, rappresenta una prestazione non suscettibile di opzioni da parte del medico, non rifiutabile, quindi, neppure attraverso lo strumento della obiezione di coscienza, ma che anzi, proprio per i suoi contenuti, costituisce una prestazione formativa e informativa doverosa anche per il medico obiettore. Maggiori questioni sorgono in ordine alla redazione del “documento” previsto, sempre ai sensi dell’art. 5, al termine del colloquio con la donna. Ebbene, sull’onda di un intenso e serrato dibattito sviluppatosi sin dai primi momenti della applicazione della legge 194, si è da più autorevoli voci sottolineata la non incompatibilità tra la obiezione di coscienza e la compilazione del documento, giungendosi persino a indicare la obbligatorietà anche per il medico obiettore di svolgere tale procedura, posto che «siffatto documento è atto medico sin dove attesta la gravidanza, ma cessa di esserlo là dove registra la volontà della donna». Più controversa è la questione se il medico obiettore di coscienza possa o debba rilasciare al termine del colloquio il documento che certifica l’esistenza e l’epoca della gravidanza qualora si ravvisino condizioni di urgenza (art. 5, penultimo comma). In simili ipotesi il certificato costituisce uno strumento autorizzativo che permette alla donna di adire alle procedure di IVG, immediatamente 398 Manuale della Professione Medica senza quel periodo di 7 giorni previsto, invece, nei casi non urgenti e sembrerebbe rientrare nelle procedure coperte dall’obiezione di coscienza. In senso contrario, vi è chi sostiene che anche tale certificato potrebbe essere compatibile con l’obiezione «tenuto conto che esso si limita a constatare una serie di dati […] lasciando alla donna la decisione ultima (anche se non più rinviata di sette giorni) circa l’effettuazione o meno dell’interruzione della gravidanza». Per quanto attiene, infine, le procedure previste dall’art. 7 non rientrano, sicuramente, nella obiezione di coscienza le attività svolte dagli specialisti volte ad accertare la esistenza delle ipotesi di un grave pericolo per la salute della donna. IVG nelle minorenni La fattispecie è regolata dall’art. 12 sulla base della premessa generale e imprescindibile secondo la quale «la richiesta di IVG […] è fatta personalmente dalla donna» e che «è richiesto l’assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela», la legge si sofferma su alcune ipotesi particolari: a) nei primi 90 giorni, quando non si ravvisi nessuna condizione di urgenza e «quando vi siano seri motivi che impediscono o sconsigliano la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi […]». Si tratta di ipotesi in cui difetta l’assenso di coloro che esercitano la potestà o la tutela per impossibilità a ottenerlo, per rifiuto dell’assenso o per seri motivi che impediscano la consultazione. In tali casi la legge prevede il ricorso al giudice tutelare attraverso le modalità normativamente indicate: un intervento che si concretizza nella emanazione di un atto di autorizzazione della minore a decidere da sola, escludendo l’intervento dei genitori o di chi esercita la patria potestà. Non vi è nessuna sostituzione di volontà da parte del magistrato nei confronti della minore: il suo operato si traduce solo in un provvedimento che integra la volontà della minore, ma non autorizza, di fatto, nessun procedimento abortivo, essendo la decisione finale rimessa unicamente e solo alla responsabilità della donna; b) nei primi novanta giorni il medico quando ravvisi «l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l’esistenza delle condizioni che giustificano l’IVG. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento […]»; 11. Sessualità e riproduzione 399 c) dopo i primi novanta giorni «si applicano anche alla minore le procedure di cui all’art. 7, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela». Degna di attenzione è l’ipotesi, assai frequente a verificarsi, del caso di genitori separati. Si ricorda, a mente dell’art. 155 cc (Provvedimenti riguardo ai figli) come «[…] salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi […]»; se ne deduce che nel caso di genitori separati, entrambi devono essere interpellati riguardo alla richiesta della figlia minore di adire la IVG anche se la figlia è affidata a uno solo di essi. IVG nella donna interdetta Tale fattispecie è regolata dall’art. 13 cui si rimanda per le modalità procedurali: nel caso di donna interdetta la richiesta può essere presentata personalmente dalla donna oppure dal marito o dal tutore, dovendosi in quest’ultimo caso acquisire anche il consenso della donna. L’art. 13 presuppone che la donna interdetta (si rammenti che, ex art. 414 cc, l’interdizione riguarda la incapacità di provvedere agli interessi di natura patrimoniale) conservi la capacità di compiere atti di natura personale e, quindi, di richiedere o, comunque, di consentire alla richiesta di IVG. L’articolo va, dunque, interpretato nel senso che «la gestante interdetta può essere, in astratto, capace di prendere consapevolmente la decisione sull’interruzione della propria gravidanza: la sua capacità andrà però verificata, volta per volta, dal sanitario». La decisione finale resta affidata al giudice tutelare che, a differenza di quanto previsto nella ipotesi della minore nella quale il giudice si limita ad autorizzare la stessa a decidere personalmente sulla IVG, nel caso, appunto, di donna interdetta è il giudice che autorizza di fatto l’intervento abortivo. La responsabilità medica nella IVG La legge 194 prospetta questioni del tutto peculiari posto che essa impone obblighi e doveri ben precisi per i medici coinvolti nelle procedure, dai quali discendono ben definite ipotesi di reato nel caso di mancata osservanza delle previsioni di legge. L’art. 17 contempla le ipotesi di interruzione della gravidanza e di parto prematuro colposi, reati questi non specifici degli esercenti le professioni sanitarie ma che si vengono a realizzare ogniqualvolta che, in conseguenza di una 400 Manuale della Professione Medica qualsiasi condotta colposa messa in atto da chiunque sulla donna, si realizzi o la interruzione della gravidanza o il parto prematuro. Il successivo articolo 18 prevede la fattispecie dell’aborto doloso, messo in atto, cioè senza il consenso della donna, considerandosi come non prestato il consenso estorto con violenza ovvero carpito con l’inganno e quella dell’aborto preterintenzionale, ipotesi questa che si concretizza quando l’interruzione della gravidanza consegua ad azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Infine l’art. 19, di particolare interesse per il medico, che sanziona le ipotesi di IVG attuate senza il rispetto delle procedure di cui alla legge n. 194/1978, quali previste in particolare dagli artt. 5, 8, 6, 7, 12 e 13. L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo C. Riviello, G.A. Norelli La storia dell’aborto e dell’intercezione medica La possibilità di interferire mediante farmaci con l’instaurarsi della gravidanza (contraccezione d’emergenza mediante levonorgestrel) o con il proseguimento della stessa (“pillola abortiva” RU486) propone sostanziali implicazioni di indole clinica, etica e medico-legale. In particolare, per ciò che attiene la contraccezione d’emergenza, le annose discussioni investono il meccanismo d’azione del farmaco, non ancora chiarito in tutti i suoi aspetti, evocandosi dubbi nell’ambito della legittimità dell’obiezione di coscienza per i medici e i farmacisti, della corretta prescrizione e dell’informazione da garantire alla paziente. Nella più recente questione della pillola abortiva, i dubbi recentemente sollevati, entro i confini dello Stato italiano, sono a proposito della sua compatibilità con la legge n. 194/1978 oltre che della sua efficacia e sicurezza in rapporto alla procedura di aborto chirurgico. È importante notare come il concetto d’intercezione medica (tecnica volta a impedire l’instaurarsi della gravidanza dopo un rapporto sessuale a rischio) e d’interruzione farmacologica di gravidanza abbia origine negli anni ’50, con l’utilizzo di un antagonista dell’acido folico, l’aminopterina, che, tuttavia, ottiene scarsi risultati. Agli inizi degli anni ’70, l’efficacia del metodo farmacologico è migliorata dall’introduzione delle prostaglandine naturali (PGE2 e PGF2), gravate, tuttavia, da effetti collaterali superiori a quelli di 11. Sessualità e riproduzione 401 un intervento chirurgico. La svolta nell’aborto medico avviene con la scoperta del mifepristone negli anni ’80 per opera di Emile Baulieu. Il mifepristone è un farmaco con forte affinità per i recettori del progesterone e con l’aggiunta di dosi di prostaglandine può determinare un aborto completo. L’efficacia e la sicurezza del farmaco sono state dichiarate dall’OMS e dalle più accreditate linee-guida [come l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e il Royal College of Obstetricians and Gynaecolgists (RCOG)], che attribuiscono al mifepristone un’evidenza di grado A-B, per quanto riguarda l’efficacia e la sicurezza nel determinare un aborto, se assunto entro il 56° giorno di gravidanza, e nell’indurre modificazioni della cervice uterina in caso di interruzione terapeutica di gravidanza o di induzione del parto per morte intrauterina fetale. In Europa, il farmaco conosce una buona diffusione: in Francia è disponibile sin dalla fine degli anni ’80; nel decennio successivo viene autorizzato dall’agenzia europea per i farmaci in otto paesi dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Spagna, Olanda) e, negli stessi anni, è utilizzabile in Svizzera, Israele, Norvegia, Tunisia, Sudafrica, Taiwan, Nuova Zelanda e Federazione Russa; nel settembre 2000 la Food and Drug Administration (FDA) autorizza il farmaco negli Stati Uniti e nel 2005 è inserito nella lista dei farmaci dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Alla fine degli anni ’90, il mifepristone viene autorizzato in Italia per il trattamento della sindrome di Cushing paraneoplastica (grazie alla sua azione di antagonismo sui recettori dei glicocorticoidi); nello stesso periodo viene approvato il Levonorgestrel, farmaco progestinico che, indicato nella contraccezione di emergenza, permette di prevenire la gravidanza, in caso di rapporto sessuale non protetto, con meccanismo d’azione ancora controverso, in quanto secondo alcuni interferirebbe solo con l’ovulazione, secondo altri impedirebbe anche l’impianto dello zigote. Si sono dovuti aspettare oltre 10 anni prima che l’Agenzia Italiana del Farmaco, il 30 luglio 2009, approvasse la commercializzazione della RU486, meglio nota come “pillola abortiva”, introducendo in Italia la possibilità dell’aborto medico in linea con altri paesi europei ed extra europei. Questa decisione, tuttavia, ha suscitato notevoli polemiche e dibattiti politici e religiosi al punto che è stata indetta un’indagine conoscitiva al Senato, per valutare che l’utilizzo di tale pillola avvenga nel rispetto della legge n. 194/1978. 402 Manuale della Professione Medica RU486: meccanismo di azione Il mifepristone è uno steroide sintetico che mostra una forte affinità per i recettori del progesterone e dei glucocorticoidi, esercitando un antagonismo competitivo a questi ormoni, sia in esperimenti in vitro sia sugli animali. L’azione competitiva a livello endometriale si traduce in una marcata azione anti-progestinica, che ha portato a proporre l’uso del mifepristone per l’interruzione della gravidanza. La sicurezza e l’efficacia del mifepristone nel determinare l’interruzione della gravidanza è stato approfonditamente analizzato in molte reviews, molte delle quali concludono che la sua azione spesso necessita di essere affiancata alla somministrazione di prostaglandine. Il regime combinato con mifepristone e prostaglandine è molto più efficace del regime con il solo mifepristone. Come già accennato, il mifepristone è registrato anche con altre indicazioni in campo ostetrico: è utilizzato per l’induzione della maturazione cervicale in caso di aborto chirurgico, per accelerare l’espulsione fetale in caso di aborto nel secondo-terzo trimestre, per il trattamento medico delle gravidanze extrauterine e dell’induzione del travaglio di parto con feto vivo. A basse dosi può essere utilizzato come contraccettivo di emergenza, per quanto il levonorgesterl sia il preparato più adatto allo scopo. Evoluzione politica italiana, dall’indagine conoscitiva del Senato alla compatibilità della RU486 con la legge n. 194/1978 Per quanto vi sia una consistente letteratura scientifica internazionale che, forte di dati su un’ampia casistica di popolazione e per un tempo considerevole, abbia dimostrato la sicurezza e i vantaggi dell’utilizzo del farmaco, l’approvazione del mifepristone da parte dell’Agenzia Nazionale del Farmaco ha determinato molte obiezioni, che a livello politico si sono concretizzate nell’indagine conoscitiva del Senato. Tale indagine si è conclusa nel mese di novembre 2009 con la decisione di sospendere l’utilizzo del farmaco e riavviare la procedura di approvazione dall’inizio, includendo l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero per tutta la durata della procedura come requisito necessario per utilizzare il farmaco dalla sua somministrazione all’espulsione del prodotto del concepimento. 11. Sessualità e riproduzione 403 I punti salienti su cui ruota la decisione di questa indagine sono due: da una parte la sicurezza del farmaco, dall’altra la modalità di somministrazione dello stesso; in entrambi i casi si fa ricorso a dubbi di compatibilità con la legge n. 194/1978. Per quanto riguarda il primo punto si apprende dal testo dell’indagine conoscitiva che «la Commissione suggerisce di verificare l’esistenza di studi per superiorità del metodo farmacologico o studi di non inferiorità, al fine di ottemperare all’articolo 15 della citata legge n. 194». Nonostante che, come spiegato in precedenza, negli anni ’80 si sia ancora agli albori della scoperta dell’aborto medico, l’articolo 15 della legge n. 194 contempla la possibilità di un metodo abortivo diverso da quello chirurgico, auspicando un aggiornamento del «personale sanitario […] sui metodi anticoncezionali […] sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Rimane, dunque, da definire se la RU486 sia più rispettosa dell’integrità fisica, psichica della donna e meno rischiosa. Per quanto riguarda l’integrità fisica, appare evidente che l’assunzione di un farmaco per via orale o l’introduzione dello stesso al livello vaginale, come accadrebbe per le prostaglandine, presenta un’invasività nettamente inferiore rispetto alla procedura chirurgica, che prevede il ricorso ad anestesia, alla dilatazione spesso meccanica della cervice uterina, all’isterosuzione e al curettage del materiale endocavitario. Appare evidente che il rispetto dell’integrità fisica è una caratteristica peculiare dell’aborto medico, rispetto a quello chirurgico. Più controverso è, invece, definire se questa metodica sia più rispettosa dell’integrità psichica della donna rispetto al trattamento chirurgico. In primo luogo è opportuno evidenziare come il processo d’interruzione della gravidanza, di per sé, determini una ripercussione psicologica importante, indipendentemente dalla modalità con cui venga eseguito. Dai dati ottenuti dagli altri stati europei nei quali, ormai da molti anni, le donne possono scegliere il metodo abortivo, se medico o chirurgico, emerge che esistono differenti ripercussioni psicologiche nella donna: da un lato la procedura chirurgica ha il vantaggio di risolversi in un tempo breve e stabilito e la procedura medica ha lo svantaggio dell’imprevedibilità e della maggiore durata del processo stesso. Inoltre, il suo protocollo di assunzione impegna attivamente la donna per alcuni giorni, per quanto solitamente la fase espulsiva si 404 Manuale della Professione Medica risolva in poche ore nella maggioranza dei casi. Questo implica la responsabilizzazione e il coinvolgimento attivo della donna che controlla il decorso dell’aborto e che potrebbe avere un contatto visivo con il materiale espulso. Nonostante questi inconvenienti, in numerosi studi l’80- 90% delle donne si esprime a favore del metodo medico. Nei luoghi dove l’aborto medico è routinariamente offerto e la facilità d’accesso è simile a quello chirurgico, la percentuale di donne che lo preferisce è in crescita: il 61% in Scozia, il 56% in Francia e il 51% in Svezia. Si potrebbe obiettare che la pratica medica, meno invasiva e apparentemente più semplice, possa indurre a sottovalutare l’importanza del ricorso all’aborto e determinarne un incremento. Questo ragionamento suona, tuttavia, alquanto offensivo per la figura femminile, posto che la scelta è subordinata non tanto alla difficoltà dell’intervento, quanto a una mancata prevenzione della gravidanza. In altre parole, la vera riduzione del tasso di aborti dovrebbe essere raggiunta mediante una promozione della contraccezione consapevole, come d’altronde auspica la stessa legge n. 194/1978, e non con un impedimento al ricorso ad una tecnica alternativa rispetto all’aborto chirurgico. Un altro argomento della legge n. 194 consiste nel ricorso a tecniche moderne e meno rischiose; in tal caso, è sufficiente citare gli studi eseguiti nel corso degli anni, comprese le reviews della Cochrane, che hanno dimostrato la superiorità o la non inferiorità dell’assunzione della RU486. I principali effetti collaterali, infatti, riguardano le perdite ematiche dipendenti dall’azione delle prostaglandine, che hanno una durata di circa 9-10 giorni con variabilità da 2 a 32 giorni. La loro entità è solitamente moderata e il rischio di un curettage è del 2,6%, mentre molto inferiore è il rischio di trasfusione (0,1- 0,2%); dagli studi effettuati su oltre 4000 pazienti, non è mai stato riportato alcun intervento di isterectomia per risolvere una problematica di perdite ematiche post aborto medico. Una non frequente complicanza dell’aborto medico consiste nel fallimento completo o parziale della metodica, che espone la donna a revisione di cavità uterina. Appare evidente che il trattamento chirurgico rappresenti una sorta di necessario atto riparatore al mancato, positivo, esito dell’assunzione del farmaco, per cui non potrebbe discutersi che è indubbiamente da privilegiare un atto rispetto ad un altro cui si debba ricorrere in caso di mancato successo del primo. A parte questa evenienza, gli effetti collaterali e le 11. Sessualità e riproduzione 405 complicazioni dell’aborto medico sono inferiori rispetto a quelli dell’aborto chirurgico ed anche a quelli cui la donna potrebbe andare potenzialmente incontro con il proseguimento della gravidanza. La mortalità e la morbosità da gravidanza e da parto sono circa dieci volte maggiori rispetto a quelle dell’aborto, anche nei paesi industrializzati. Il dolore a carattere crampiforme è un ulteriore possibile effetto collaterale; esso accompagna il periodo espulsivo, è più accentuato con l’avanzare dell’epoca gestazionale, è sensibile ai comuni analgesici e varia moltissimo in relazione alla tolleranza e alle esperienze personali. Effetti collaterali più lievi sono i sintomi gastrointestinali, costituiti da nausea, vomito e diarrea, che sono presenti in quasi la metà delle donne, dipendono dalle prostaglandine, sono autolimitanti e spesso si risolvono senza ricorso alla terapia. Più raramente compaiono cefalea, vertigini e stanchezza. Le controindicazioni all’utilizzo della RU486 sono rappresentate dal sospetto di gravidanza extrauterina, dalla presenza di IUD in utero, dall’insufficienza surrenalica cronica, da coagulopatie e da trattamenti in corso con anticoagulanti e, com’è ovvio, dall’allergia nota verso il mifepristone o le prostaglandine. In conclusione, sono stati effettuati molti studi e reviews per confrontare la metodica chirurgica e medica dell’aborto, e spesso le conclusioni raggiunte propendono per una eguaglianza dei due metodi con vantaggi e svantaggi diversi a carico di entrambi. Nel dibattito politico, il nodo centrale di presunta incompatibilità con la legge n. 194/1978 riguarda la modalità di somministrazione e il luogo nel quale si verifica l’espulsione del materiale abortivo. Secondo la legge n. 194/1978, la procedura abortiva deve avvenire in ambito ospedaliero pubblico, casa di cura o poliambulatorio, strutture, comunque, regolarmente autorizzate e accreditate; questo concetto è ribadito in più articoli; art. 7: «[…] i processi patologici […] vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento, che ne certifica l’esistenza […]»; art. 8: «L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetricoginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20 della legge n. 132 del 12 febbraio 1968, il quale verifi