Cendon / Book
DIRITTO CIVILE
PROFESSIONAL
FAVOLE QUASI - GIURIDICHE
Francesco Gazzoni
Edizione MARZO 2015
Copyright © MMXV
KEY SRL
VIA PALOMBO 29
03030 VICALVI (FR)
P.I./C.F. 02613240601
ISBN 978-88-6959-113-6
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di
adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le
copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi.
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DIRITTO CIVILE
Professional
FAVOLE QUASI - GIURIDICHE
Francesco Gazzoni
L'autore
Francesco Gazzoni ha insegnato Istituzioni di diritto privato e
Diritto civile nella facoltà di giurisprudenza delle Università di
Macerata, Roma-Tor Vergata e Roma – La Sapienza. E’ autore di
saggi e delle seguenti monografie: Equità e autonomia privata
(1970); L’attribuzione patrimoniale mediante conferma (1974); Dal
concubinato alla famiglia di fatto (1985); La trascrizione
immobiliare, I volume (1998, sec. ed.); La trascrizione
immobiliare, II volume (1991); Il contratto preliminare (2010, terza
ed.); La trascrizione degli atti e delle sentenze, nel Trattato della
trascrizione, condiretto con E.Gabrielli (2012). E’ inoltre autore di
un Manuale di diritto privato, giunto alla XVII edizione.
L’Opera
Raccolta di scritti in tono favolistico e semi-serio sull’università (professori,
concorsi a cattedra, studenti), su argomenti tecnico-giuridici e
sull’antiformalismo nel diritto.
INDICE
Introduzione
9
1. La favola degli omaggi e degli emeriti
17
2. La favola delle cooptazioni e di Panettone
41
3. La favola degli studenti
65
4. La favola dell’amore non corrisposto, delle dimissioni
non date e dei concorsi taroccati
81
5. La favola dei rapporti contrattuali di fatto
113
6. La favola di Trito e della critica musicale
127
7. La favola dei giudici permalosi e delle censure
137
8. La favola del danno esistenziale
153
9. La favola dei formalisti, degli antiformalisti e degli Indignati
175
Introduzione
Quando giunge il fatidico 31 ottobre di ogni anno, schiere di
professori universitari vanno in pensione. I pensionati si dividono in
due categorie, quella di chi è ben lieto e vede migliorare nettamente
la qualità della vita, per aver abbandonato un Titanic che sta
affondando, e quella di chi, viceversa, si dispera e briga per ottenere
un incarico gratuito al fine di continuare ad esibirsi narcisisticamente.
Per non parlare di quei professori che farebbero carte false per
ottenere il titolo di professore emerito, una delle più grandi
pagliacciate dell’attuale università.
Io ho fatto e faccio parte della prima schiera, sicché, una volta
pensionato, anziché brigare, ho pensato di divertirmi, scrivendo
qualcosa di polemico sulle gesta universitarie che avevo potuto
osservare da vicino e su taluni argomenti giuridici degni di
canzonatura. Per la pubblicazione mi rivolsi a Bruno Sassani,
autorevole processualcivilista, responsabile di Judicium, una rivista
online, con il quale concordammo la pubblicazione, con cadenza
settimanale, dei vari scritti, preceduta dalla seguente Introduzione
Nel 1954 Walter Bigiavi pubblicò nella Rivista trimestrale di diritto
e procedura civile un curioso saggio dal titolo altrettanto curioso:
Scritti quasi-giuridici in onore di me stesso compiendosi il mio
cinquantesimo anno. Il grande giurista dichiarava il proprio
disinteresse a pubblicare, in quell’occasione, i propri scritti giuridici,
non già per vanità, ma perché «pur avendo compiuto i cinquant’anni,
non riesco ancora a guardare indietro. Guardo sempre innanzi a me,
nonostante le molte delusioni e i molti dolori, che pur mi dovrebbero
rendere guardingo e sfiduciato. [Pertanto] ho preferito
un’autocommemorazione di tipo diverso dal solito [pubblicando la]
presente breve raccolta di scrittarelli ispirati alla mia esperienza
ormai non più breve di direttore di riviste giuridiche; una raccolta cui
ho dato un titolo paradossalmente umoristico, non solo per ovvii
motivi di giornalismo, ma anche per prendere in giro, più che gli altri,
me stesso».
Come dirò, detti “scrittarelli” contenevano esilaranti invettive, lanciate
contro taluni professori, indicati con nome e cognome.
Ho dunque pensato di imitare Bigiavi, pubblicando anch’io taluni
scritti, definiti pertanto scritti quasi-giuridici in onore di me stesso, di
tono polemico, libellistico e panflettistico, i quali, forse, nel rievocare
talune vicende, potrebbero anche dare, in termini di conferma, un sia
pur minimo apporto alla discussione sull’attuale condizione
9
dell’università e sulla necessità di abolire i concorsi a cattedra, così
mettendo in concorrenza tra di loro le varie facoltà, con conseguente
taglio delle unghie al mefitico potere accademico, causa prima,
anche se non unica, dell’attuale degrado, temo irreversibile,
dell’università stessa.
Essi sono frutto di mezzo secolo di esperienze universitarie a tutti i
livelli, sicché quel che riferisco, quando si tratta di episodi della vita
che ho scelto di raccontare, tra i tanti possibili, per il loro carattere
emblematico e non certo per mero pettegolezzo fine a se stesso,
come un pettegolo potrebbe ritenere, è la pura verità.
Mi sono posto il problema se, parlando delle persone, cioè dei vari
colleghi, per lo più, come è ovvio, civilisti, dovessi usare le solite
iniziali. Blaise Pascal osservava che «nessuno parla di noi davanti a
noi come ne parla in nostra assenza. L’unione tra gli uomini è
fondata soltanto su questo inganno reciproco; e poche amicizie
sussisterebbero, se ciascuno sapesse quel che il suo amico dice di
lui quando non è presente, sebbene allora ne parli con sincerità e
senza passione. L’uomo non è, dunque, se non dissimulazione,
menzogna e ipocrisia e in sé e verso gli altri».
Poiché non sono un ipocrita, né lo sono mai stato, ho pertanto evitato
di tirare il sasso per poi nascondermi dietro le iniziali. Per quel che
valgono, dunque assai poco, ho dato i miei giudizi apertamente,
pronto ad essere criticato da chi non li condivida. Del resto anch’io
ho ricevuto le mie belle critiche da chi mi ha attaccato in modo
radicale e un po’ provocatorio per le mie tesi sulla trascrizione del
trust o da chi (E. Gabrielli, Trusts, 2002, p.520 n.139), facendo il
gioco delle banche, ha contestato quelle sul pegno rotativo,
sostenendo addirittura che esse «sono prive di alcuna rilevanza sul
piano del dibattito scientifico, proprio perché fondate su “ossessioni
concettuali” e non su “costruzioni concettuali”» (mamma mia, che
impressione mi ha fatto questa autorevole critica, così radicale! Non
ci ho dormito per tre notti di seguito!). Per quanto riguarda poi il mio
Manuale di diritto privato, ho ricevuto critiche a non finire, compresa
quella che esso sarebbe una parafrasi o un compendio del
Commentario Cian-Trabucchi, dunque un doppione, probabilmente
poco utile e anzi privo, nella sostanza, di senso. Sul piano editoriale,
e quindi commerciale, la critica è molto positiva, perché il
Commentario costa € 298,00 mentre il mio Manuale costa solo €
118,00, sicché molti potrebbero essere indotti a preferire il
compendio, che costa meno della metà. Nel merito della critica mi
avvalgo della appassionata difesa che, anche sul punto, ha svolto
theboss3x, una aspirante magistrato, che ringrazio, nel sito di chi sta
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preparando il concorso in magistratura e che si trova digitando su
Google Francesco Gazzoni manuale aspirantimagistrati, andando poi
alla p.2.
Scriveva ancora Pascal che quando gli altri «scoprono in noi soltanto
imperfezioni e vizi che abbiamo veramente, è evidente che non
usano nessun torto, perché non ne son essi la causa; anzi, ci
rendono un servizio, perché ci aiutano a liberarci da un male:
l’ignoranza di quei difetti. Non dobbiamo irritarci che li conoscano, e
ci disprezzino: è giusto che ci conoscano quali siamo e che ci
disprezzino, se siam degni di disprezzo».
I giuristi criticati potranno dunque non riconoscersi in quei difetti. I
punti di vista ben possono essere divergenti, anche se, come è
ovvio, il giudizio sui nostri difetti e sulle nostre lacune, anche
giuridiche, è affidato non a noi, ma agli altri, almeno per chi non sia
un narcisista all’ultimo stadio, ben oltre la soglia del fisiologico.
Giustificata, quindi, la scelta del rifiuto dell’anonimato, resta da dire
dei toni. Gli scritti giuridici sono così noiosi che ho scelto, come ho
detto, la strada della polemica e della satira oltre che della drasticità
dei giudizi scientifici, in ciò seguendo pedissequamente
l’insegnamento di Bigiavi, il quale sosteneva che «se è giusto essere
indulgenti nella vita di ogni giorno, è invece errato praticare
l’indulgenza in materia scientifica, che è o dovrebbe essere materia
indisponibile».
Comunque sia, se i Colleghi di cui parlo negli scritti, giudicandoli
negativamente, si adontassero, mi farebbero un grande onore,
perché ciò significherebbe che mi hanno preso sul serio e ritengono
le mie opinioni personali a tal punto autorevoli, da poter influire
sull’opinione dei terzi. Vorrei allora, se così fosse, tranquillizzare i
suscettibili permalosi: posso infatti garantire loro che di quel che io
penso non gliene importa niente a nessuno! In ogni caso, affinché
possa valutarsi se io abbia o non abbia superato i limiti
dell’accettabilità nei toni, si deve considerare, da un lato, la verità dei
fatti e il diritto ad ironizzare e a farne oggetto anche di satira;
dall’altro, che i giudizi sull’opera scientifica sono insindacabili, in
quanto espressione di opinioni personali. Se quindi dico che un certo
professore è un giurista di serie B, esprimo un mio giudizio in modo
riassuntivo, così come se dico che i suoi studi civilistici sono
irrilevanti o insufficienti o mere chiacchiere inconcludenti o addirittura
errati e quindi pericolosi per la scienza, non si tratta di una
denigrazione offensiva, ma di una valutazione critica.
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D’altra parte i professori sono sempre in lotta tra di loro con una
continua reciproca critica, anche pesante, onde la difesa è nella
replica scientifica pur quando l’attacco è a carattere personale.
Querelare in questi casi è segno di debolezza. Scriveva Bigiavi a
proposito di Pannain, il quale lo aveva attaccato sul piano personale
e morale: «Dar querela? L’idea non mi passò nemmeno per la testa,
chè anzi, io mi ritenni felice di essere attaccato dal prof. Pannain. Se
egli mi avesse elogiato, allora sì, allora sarebbe stata un’altra storia.
Così, invece, tutto andava per il meglio».
Anche io, nel mio piccolo, ho subíto attacchi pesanti, anche sul piano
personale. Ad esempio, quello di Antonio Gambaro, il quale, a
proposito della trascrizione del trust, non potendo o non sapendo
trovare altri argomenti validi, ha scritto che io, per essermi definito un
giurista «non vivente», in opposizione al c.d. “diritto vivente”, sarei un
necrofilo che, con la propria necrofilia, offende il prossimo, per poi
benevolmente darmi del «rissoso», accusandomi di «diffondere
veleno giuridico». Mi sarei dovuto adontare? Figuriamoci! Gli ho
risposto a tono, sfottendolo anche sul piano non giuridico, per la sua
conoscenza zoppicante della sintassi. E che cosa avrei dovuto dire di
Francesco Galgano, il quale, in uno scritto poi non pubblicato perché
pericoloso per lui, criticò un mio lavoro, sostenendo, dopo avermene
dette di tutti i colori, sul piano personale, che sarebbe dovuto finire in
una discarica? Anche in questo caso ben lungi dall’offendermi scrissi
una replica, anch’essa non pubblicata, e a riprova che io non mi
offendo, perché non sono un complessato permaloso, pubblicherò
ora entrambi gli scritti in questa raccolta.
Chi nutrisse dubbi sui toni dovrà comunque leggere gli scritti quasigiuridici in cui Bigiavi, come ho detto, metteva in ridicolo otto
professori e cioè Renzo Provinciali (un «quasi-studioso», che
avrebbe vinto la cattedra per usucapione, perché «batti e ribatti, ce
l’hai fatta, a quasi 60 anni, talché, in un certo senso devo dirti “e
bravo il mio Provincialotto per la tua inflessibile tenacia”, ma in un
altro senso, ricordando che la tenacia è un difetto [dirò]:
«PEGGIO TARDI CHE MAI»
Scritto in caratteri tutti maiuscoli e al centro della riga!); Guglielmo
Sabatini («come non sorridere quando lo si vede qualificato
addirittura giurista tra i maggiori d’Italia?», onde l’autore di questa
qualifica, scritta in un necrologio, «è sprovvisto non solo del senso
della misura, ma anche del senso del ridicolo»); il di lui figlio
Giuseppe (di cui pubblicò la lettera di protesta inviatagli, facendola
seguire da una risposta al vetriolo); Vito Reina (autore del necrologio,
di cui pubblicò altra lettera, parimenti di protesta con allusione al
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necrologio che avrebbe meritato Bigiavi stesso, seguita dalla sua
replica, parimenti per lettera, che fu però respinta al mittente); Remo
Pannain (di cui pubblicò, con caustici commenti, l’ennesima critica al
necrologio e nel contempo sottolineò una certa ambigua
informazione accademica, data dal Pannain stesso per far credere di
insegnare a Roma, anziché a Trieste e prima ancora «nientepopodimeno! - a Camerino»); Alberto Asquini (di cui così
scrisse: «uomo di ingegno elevatissimo, che avrebbe dato preziosi
contributi alla nostra scienza se avesse avuto al suo attivo anziché il
solo studio del trasporto, un po’ di trasporto per lo studi», sicché non
poteva «permettersi di scherzare appunto perché la sua scarsissima
produzione scientifica non lo pone al riparo da un’eventuale
ritorsione. A me nessuno può dire: “Invece di scherzare, lavora”. A lui
sì, invece; ed ecco perché Asquini, il quale non lavora … non
scherza e non ama gli scherzi»); Mario Ghidini (autore di «un
pessimo libro con il quale vince un concorso di diritto commerciale»);
Remo Franceschelli (di cui, oltre ad ironizzare sull’espressione
“branchia” usata in luogo di “branca”, onde il Fernet ribattezzato
Branchia, riferì per filo e per segno la «serie di coincidenze e colpi di
fortuna indiretti», grazie ai quali vinse la cattedra di diritto industriale,
per poi schernirlo con un gioco di parole finale). Si può aggiungere
che di Enrico Redenti scrisse: «Redenti ha, come il papa, il dono
dell’infallibilità. Come lo ha conseguito? E’ semplice: da anni non
scrive più un rigo, dunque, non può sbagliare». Ma la battuta più
fulminante fu quella, detta in privato, sulla produzione scientifica del
civilista G.D.N., definita «un peto in una ampolla».
Ma Bigiavi era un Grande e poteva permettersi questo ed altro,
sicché non essendo io alla sua altezza, potrei ricevere critiche per
pretesa arroganza, se non avessi un argomento decisivo a mio
favore, ricordando quel che scrisse il prof. Natalino Irti a proposito di
un saggio con il quale Cesare Massimo Bianca criticava la tesi dello
scambio senza accordo, vera e propria barzelletta giuridica, partorita
dalla fantasia giuridicamente perversa dell’Irti stesso e già in
precedenza criticata da Giorgio Oppo e poi da me, con toni anche
ironici e satirici, non potendo detta tesi essere presa sul serio.
Ebbene, l’Irti parlò di espressioni «di conio bianchesco» e di nota a
piè di pagina che «si leva in ardita frivolezza», per poi così riferirsi
allo studioso Bianca: «Inutile ripararsi dietro al nome di Giorgio
Oppo: con il quale ci fu e ci è dissenso: ma altro stile argomentativo!
altra atmosfera!». Ed ancora: «La serena tranquillità del B.,
presidiata dalle due “fondamentali obiezioni”, suscita un’invida
tenerezza».
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Se l’Irti si è irtescamente permesso il lusso di usare espressioni
spregiative e di trinciare giudizi pesanti, accusando il proprio critico
perfino di vigliaccheria di pensiero scientifico, quando questo critico è
Cesare Massimo Bianca, ben posso io, esercitando il diritto di satira,
dileggiare anche l’Irti, che reputo un civilista di serie B, ma prossimo
alla C, pur riconoscendogli una notevole capacità di scrittore, con
termini caramellati, ricercati e infiocchettati, al punto che, per la sua
produzione scientifica civilistica, si potrebbe bigiavianamente parlare
di «un peto in una ampolla».
Sono consapevole che questi miei scritti quasi-giuridici
accresceranno l’antipatia di cui ho goduto e, nel ricordo, ancora godo
ampiamente nell’ambiente universitario, specie considerando che i
professori sono permalosissimi, quasi quanto i giudici, ma tant’è.
Arrivato alla mia età posso dire di avere almeno uguagliato József
Joachim, il cui motto era Frei aber einsam. Peccato però che non
riceverò mai un omaggio nemmeno lontanamente paragonabile alla
Sonata F.A.E. (acronimo del motto) per violino e pianoforte di
Dietrich, Schumann e Brahms.
Questa introduzione fu pubblicata senza dar adito a polemiche o
proteste. Seguì pertanto la pubblicazione del primo scritto dal titolo
Cooptazioni : ieri e oggi. Dopo tre giorni Bruno Sassani mi telefonò e,
piuttosto sconfortato e imbarazzato, mi comunicò di aver dovuto
cancellare lo scritto dal sito, a causa della quantità di proteste e
minacce di querele e di azioni di danni ricevute. Vista l’aria che
tirava, mi disse che la programmata pubblicazione degli altri scritti
era annullata. Lo scritto, peraltro, continuò a girare da un computer di
chi l’aveva scaricato, all’altro, tant’è che ne dette notizia un’inchiesta
del settimanale L’Espresso sull’università, con un articolo che ne
riportava anche qualche periodo. Il giornalista, per avvalorarne le
tesi, che condivideva, non trovò di meglio che darmi del “Maestro
indiscusso della materia”, nonché addirittura, non bastasse
l’esagerazione, del “luminare”, cosa di cui sorrisi non poco.
Venni poi a sapere che su Persona e danno, una rivista online diretta
dal mio vecchio amico Paolo Cendon, era stato pubblicato un
lavoretto polemico in replica al mio, con cui un avvocato di una
piccola cittadina sicula, che girovagava intorno all’Accademia, me ne
diceva di tutti i colori. Costui, strano personaggio macchiettistico,
covava da ben nove anni un sentimento di rancore nei miei confronti,
per uno scambio epistolare del tutto occasionale, di cui mi ero
completamente dimenticato e aveva trovato una sponda in un
vecchio professore, soprannominato Dotto, per la sua straordinaria
somiglianza con l’omonimo personaggio di Biancaneve e i sette nani
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nella versione cinematografica di Walt Disney. Di Dotto, altro patetico
soggetto altrettanto rancoroso nei miei confronti, la macchietta è
diventato l’autista e portaborse, mentre gli altri professori cercano di
evitarlo come la peste, anche se è difficile, come è difficile liberarsi
dei postulanti ossequiosi e insistenti.
Poiché, dunque, Cendon aveva pubblicato la replica ad uno scritto,
che era ormai alla macchia, gli chiesi di ripubblicarlo, affinché il
lettore avesse il quadro completo della polemica. La risposta fu
negativa, ma accompagnata dalla proposta di pubblicare lo scritto
stesso in forma di favola. Anni prima, infatti, avevo pubblicato una
favola sul danno esistenziale, prendendo benevolmente in giro le tesi
formulate da Paolo, senza in verità immaginare che i giudici se ne
sarebbero appropriati, dando così luogo alla più incredibile follia
giudiziaria che la storia del diritto italiano ricordi.
La prima favola fu pubblicata, con successiva replica favolistica del
medesimo personaggio macchiettistico. Ne feci poi seguire altre su
argomenti più tecnici e anche in ulteriore polemica con costui, un
vero mitomane paranoico e logorroico, di cui pubblicai le lettere
sgrammaticate che mi aveva scritto a suo tempo, uno che, essendo
totalmente ignorante, non trovava di meglio, al fine di sfoggiare una
qualche cultura, se non copiare integralmente da Wikipedia.
Il lettore, leggendo le prime due favole, si renderà conto del grado di
decadimento cui è giunta l’università italiana, considerando che il
mitomane, non essendo peggiore di taluni professori di modestissimo
e perfino infimo livello, potrebbe anche conseguire l’idoneità quale
professore associato, pur se essa resterà una ridicola corona in testa
ad un illuso, che non sarà mai chiamato da nessuna università a
diventare titolare di una cattedra, per quanto squalificate le cattedre
universitarie ormai siano.
Le favole sono ora qui raccolte e potranno divertire gli addetti ai
lavori, i quali certamente sapranno dare un nome ai vari protagonisti.
I non addetti ai lavori potranno comunque interessarsi, se non altro, a
vicende accademiche emblematiche, in grado, forse, di fornire un
piccolo spunto di riflessione sulla necessità di ricostruire dalle
fondamenta l’università italiana secondo il modello meritocratico
americano, senza concorsi fasulli ed egualitarismi deleteri.
Roma, 30 gennaio 2015
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1
La favola degli omaggi e degli emeriti
L’Accademia dei Maestri Cantori aveva i suoi riti. Uno di questi era la
dedica dell’opera. Alcune erano memorabili. Ad esempio, Federico
dedicò la sua prima opera «Ai miei genitori e al Maestro», sicché la
forma impersonale ingenerò, in Till, il dubbio che egli intendesse
riferirsi al Capo di una qualche setta di appartenenza o magari al
Redentore, tanto più che un laureando di Till in Composizione
musicale, più platealmente, aveva dedicato la tesi «A Dio, ai miei
genitori, al mio Professore», bensì in ovvio ordine di importanza, ma
a Till aveva riservato la maiuscola come a Dio. Gabinetto, per parte
sua, aveva dedicato una modesta canzone «ad Angelica», con la
successiva seguente frase di Anatole France «vecchio inverno – apri
la porta – entra la primavera», non a caso, considerata l’avvenenza
del dedicante, mai più tornato principe, degna della fiaba La bella e
la bestia nella classica versione di Jeanne-Marie Leprince de
Beaumont. Innamoratissimo doveva essere Particolare, al punto da
esibirsi, in un preludio corale, nella seguente dedica: «Dedicato a
Marghe, esplosione di vita di chi ha nel palmo della mano il destino in
ventisette candeline soffiate di colpo, un pomeriggio di fine estate.
Dal silenzio di autunno, i tuoi occhi di pece e il sorriso di incanto».
Quando Till la lesse, non fece altro, studiando lo spartito, che
pensare a Marghe, dandole il volto dei suoi passati amori. Paolone
dedicò una delle sue singolari Variazioni sul tema «A Dounia, che mi
ha dato nuova parola». Non l’avesse mai fatto! Da quel giorno
Paolone non si perse un Convegno, un Congresso, una Relazione,
una Lezione, un Intervento tra Italia e Francia, parlando e parlando:
la “nuova parola” come una sorta di “Nuovo Testamento”, con
annuncio della “Buona Novella” ed evangelizzazione della plebe
musicale.
Till fu particolarmente colpito da un’altra dedica, scritta
dall’Accademico Sicché, del seguente tenore: «A S..., che adoro e a
F… e F…, che crescono allegri, intelligenti e belli, come la loro
mamma». Till decise di scrivergli la seguente lettera
Illustre Maestro Sicché,
ho ricevuto dall’editore musicale la sua poderosa opera, di cui farò
tesoro. Della dedica terrò conto nella raccolta che un giorno o l’altro
farò, insieme ai necrologi, che sto già raccogliendo. Anch’io ho
dedicato un’opera a mia moglie e un’altra ai miei figli, ma senza
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esprimere alcun giudizio di valore. Poiché viceversa Ella ci tiene a
farci sapere che S. (Sua moglie?) è, come F. e F., allegra,
intelligente e bella, vorrei saperne di più, come è mio diritto, quale
terzo cui la dedica è stata esternata per conoscenza.
Il giudizio sulla allegria e sull’intelligenza della sig.ra S.
presuppongono una frequentazione che, salvo ripensamenti, non ho
in animo di fare, mentre la bellezza della medesima può essere
verificata anche solo per il tramite di una fotografia, che Ella pertanto
vorrà inviarmi. Gradirei che fosse recente, lasciando a Lei la scelta
del contesto (foto con i bambini, con Lei, in costume da bagno, in
abito da sera, ecc.).
Per vincere la Sua eventuale gelosia ho chiesto lumi all’amico
giurista Ciccio Gazza, il quale mi ha assicurato che, secondo un tal
Carne, lo jus in corpore del marito non si «potrebbe spingere fino al
punto da impedire che gli altri godano nell’ammirare la bellezza di
sua moglie». E poiché Ella stesso ha magnificato tale bellezza,
anziché tenersela per sé, dovrà, per coerenza, pur se geloso,
inviarmi la foto.
Resto in fervida attesa e invio a Lei e ovviamente alla sig.ra S. i miei
migliori saluti.
Sicché rispose così
Illustre Maestro Eulenspiegel,
La ringrazio della Sua del 20 u.s. S. è mia moglie e non vorrei far
torto alla sua allegria ed intelligenza con una foto, che di quelle doti
non parlerebbe.
Peraltro ieri sera abbiamo letto tutti insieme in famiglia la Sua lettera
e mia figlia F. ha detto che Lei è sicuramente un uomo spiritoso e
simpatico (ha riso quando leggeva dei necrologi), sicché se verrà a
[…] non esiti affatto ad avvisarmi, perché saremo tutti lieti di averLa
ospite a pranzo e cena con la Sua famiglia e ad accompagnarVi ad
una delle mostre che sempre allietano […], dall’arte moderna a
quella classica.
Con i migliori saluti
La risposta era molto gentile e garbata, ma anche molto evasiva sul
punto centrale della questione, sicché Till insistette
Illustre Maestro Sicché,
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