Facebook caccia il capezzolo
Domenica 16 Settembre 2012 23:00
di Mario Braconi
Un piccolo caso divertente mette alla berlina l’ipocrita pruderie della corporate America. Il 10
settembre il feed Facebook del New Yorker pubblica la solita vignetta dall’umorismo sofisticato:
Adamo ed Eva siedono, nudi, sotto un albero del giardino dell’Eden, nell’atteggiamento di una
coppia che ha appena fatto l’amore. L’espressione facciale dei due denota insoddisfazione,
mentre la donna tiene eloquentemente le braccia conserte sotto il seno: “Bè, è stato originale”,
commenta sarcasticamente la madre dei viventi, facendo evidentemente riferimento al primo
peccato commesso dall’uomo, appunto il “peccato originale”. Non ci sarebbe niente di
particolare, se non fosse per il fatto che qualche utente di Facebook ha ritenuto che la
pubblicazione di immagini stilizzate di nudo (femminile) urtasse la sua sensibilità.
In questi casi, come da procedura interna, un dipartimento specifico della società che gestisce il
social network esamina la lamentela: al termine di della verifica potrà decidere di accogliere la
contestazione, rimuovendo il materiale considerato offensivo, ovvero rimettendolo al suo posto.
Bene, incredibile ma vero, i censori digitali al soldo di Mark Zuckerberg e soci hanno
confermato che l’immagine non era coerente con gli standard di “decenza” che l’azienda si è
data, e ha pertanto rimosso la vignetta.
Quel burlone di Steven ha finto di accondiscendere alle draconiane misure repressive di
Facebook, ridisegnando la medesima scenetta, questa volta mettendo addosso ad Adamo ed
Eva una gran quantità di vestiti (perfino la testa dei due pupazzi era coperta, rispettivamente, da
un capellino da baseball e dal cappuccio di una felpa); in questo modo, nota Bob Mankoff,
caporedattore delle vignette del New Yorker, la vignetta non solo non fa ridere, ma non ha
neanche più senso. Si trattava di una distorsione sarcastica della realtà (la censura) il cui
obiettivo era mettere il censore di fronte alle assurde conseguenze della sua azione: alcuni
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commentatori superficiali (compreso un redattore del
New York Times
) non hanno compreso la raffinatezza di questa polemica, interpretandola come il risultato di un
atteggiamento passivo del cartoonist nei confronti del diktat di Facebook.
L’incidente si è verificato perché, secondo le regole del buon costume su (o quelle imposte dalla
“squadra buoncostume di”) Facebook, foto e video che mostrino capezzoli maschili sono
accettabili; non altrettanto nel caso in cui i capezzoli rappresentati appartengano ad un corpo
femminile (viene stabilito in modo inequivocabile dal punto 2 della sezione “Sesso e Nudità” del
manuale in dotazione ai censori).
Qui la cosa si fa interessante: perché, in effetti, al punto 8 della medesima sezione, si specifica
che è bandita ogni forma di nudità espressa anche in forma digitale (avatar, ad esempio) o di
cartoon (ad esempio le donnine nude degli hentai giapponesi non hanno un passaporto valido
per accedere al recinto di Facebook). Tuttavia, in modo sibillino, il comma si conclude
concedendo un lasciapassare alla nudità “artistica”.
Questo aspetto è ancora più curioso, dal momento che, secondo la sensibilità di chi ha
formulato ed approvato queste regole, un nudo femminile fotografato è inaccettabile (in quanto
mostra “parti intime”, e in particolare capezzoli o natiche), mentre lo stesso nudo realizzato, che
so, a carboncino è perfettamente accettabile. Vittima di questo delirio è stato a suo tempo il
pittore Steven Assael: quando la New York Academy of Art ha postato sul suo profilo un suo
dipinto di che mostrava un busto femminile a il seno scoperto, si è vista rimuovere il contenuto
in quanto non coerente con le policy aziendali. Le scuse recapitate in seguito da Facebook
all’artista sono ancora più ridicole della vicenda in sé: l’amministratore si scusava dell’errore
commesso, giustificandosi in modo untuoso quando affermava che il ritratto era così realistico
da sembrare una foto, cosa di cui, anzi, desiderava complimentarsi con l’artista!
Come scrive Adrian Chen su Gawker, la policy di Facebook ci deve essere “qualcosa di
particolarmente sconveniente nei fotoni che rimbalzano dal petto di una donna, penetrano le
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lenti di una macchina fotografica e vanno a colpire un sensore luminoso.” Per rendersi conto di
quanto sia falso ed ipocrita questo punto di vista, continua Chen, basta vedere la campagna
orchestrata dalla ditta di abbigliamento American Apparel, la quale, per pubblicizzare le sue
mutande, ha creduto bene di lanciare una campagna con cui le modelle erano rappresentate
nell’atto di togliersele. Niente foto, per carità, ma dei pregevoli disegni “artistici” a carboncino.
Non occorre essere bacchettoni per notare, tra l’altro, che la cosa davvero disturbante di quei
disegni non è tanto la posa volutamente inelegante e provocante, quanto piuttosto il fatto che le
modelle sembrano davvero un po’ troppo giovani: sono, visibilmente, parecchio minorenni.
Meraviglie del disegno: la American Apparel, da fabbrica di stracci a buon mercato si è
magicamente trasformata in un mecenate, mentre le sue discutibili campagne filo-pedofile una
raccolta di opere d’arte.
In ogni caso l’innocente cartoon di Steven sarebbe dovuto passare senza danni attraverso le
forche caudine della censura su Facebook, in quanto nudo “artistico”; il tutto senza contare che
qui i temutissimi capezzoli non sono altro che due puntini tracciati con una matita. Eppure si è
verificato un errore. Un errore umano, ovviamente. I gestori di Facebook, infatti,
comprensibilmente controllano il materiale che viene caricato dagli utenti, in qualche caso
passando il lavoro in appalto a società esterne. Queste ultime si servono di lavoratori di paesi in
via di sviluppo che, per la fantasmagorica cifra (promessa) di 4 dollari l’ora, si danno a
visionare, in turni di quattro ore, i modi in cui la nequizia umana si deposita in una rete sociale.
Lo scorso aprile Gawker è riuscito ad entrare in contatto con uno di questi schiavi moderni
addetti a questo modernissimo lavoro e progressivo, il marocchino Derkaoui. Derkaoui, le cui
ragioni di malanimo nei confronti dei suoi sfruttatori non sono difficili da immaginare, ha passato
al periodico anche il manuale operativo del bravo censore, da cui sono stati estratti i
comandamenti sopra riportati. Vi si trovano altre regole assurde e ridicole: non si possono
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mostrare donne nell’atto di nutrire i loro bimbi al seno, a meno che, petto a parte, non siano
completamente vestite; si possono mostrare i liquidi corporali, ad eccezione dello sperma; non
è possibile postare foto che mostrino confronti tra due soggetti (paura del razzismo?), e sono
vietate tassativamente le foto ritoccate al photoshop (?).
Non è proprio una sorpresa constatare, come fa Chen in un altro pezzo su Gawker, che la
sensibilità degli amministratori di Facebook nei confronti della violenza esplicita è assai più
modesta di quella dimostrata nei confronti di questioni legate (anche alla lontana) al sesso o
(anche alla vicina) alle secrezioni umane: scrivere “amo sentire un teschio che si spacca” è
vietato, ma è ammesso mostrare foto di crani effettivamente schiacciati, purché il cervello
spappolato non risulti visibile, così come sono ammissibili foto di muscoli, tendini, ferite
profonde e di sangue in quantità...
Intendiamoci, un minimo di controllo sui contenuti, per una piattaforma come Facebook non è
solo consigliabile, ma quasi obbligatorio: ospitare un social network è un po’ come invitare
amici, conoscenti e persone quasi estranee nella propria casa, per fare una festa, divertirsi,
presentare cosmetici o un libro, poco importa. Il padrone di casa (quello che ci mette la
tecnologia, la banda e i soldi) ha diritto ad assicurarsi che i suoi ospiti non si insultino, non si
uccidano l’un l’altro, e, incidentalmente, che non gli brucino i tappeti buoni. Mentre però su
alcune cose (pedofilia, stupro, violenza) c’è un accordo unanime sul fatto che debbano essere
banditi, su altri temi le regole necessariamente riflettono idiosincrasie ed ipocrisie del padrone di
casa. E spesso il lavoro è svolto da qualcuno che sta mettendo i soldi da parte per scappare dal
suo inferno (reale).
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