Modelli di sviluppo e modelli di difesa
Nanni Salio
Prima di analizzare i possibili nessi che si possono intravedere tra modelli di sviluppo e
modelli di difesa, è bene riassumere a grandi linee l’analisi critica del concetto stesso di sviluppo,
oggetto di una lunga controversia che coinvolge un gran numero di discipline.
Nell’accezione comune, soprattutto in campo economico, lo sviluppo è inteso
prevalentemente e sostanzialmente come crescita economica, misurabile attraverso il PIL (prodotto
interno lordo) definito come somma complessiva dei beni e servizi prodotti in un anno in un singolo
paese oppure su scala globale, mondiale, prescindendo da un giudizio di merito su quanto viene
prodotto. Si sommano con lo stesso segno positivo sia i beni che i mali, i servizi e i disservizi, senza
alcuna attenzione al dato qualitativo, ma solo a quello quantitativo. La tesi tuttora dominante tra gli
economisti, fatta propria dalla quasi totalità del mondo politico, è che il PIL deve crescere
costantemente, di anno in anno, senza fine, illimitatamente, pena la stagnazione del sistema
economico (nella vastissima letteratura si veda: Peter L. Berger, Le piramidi del sacrificio, Einaudi,
Torino 1981; Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri,
Torino 1997; Jean Gadrey, Florence Jany-Catrice, No PIL! Contro la dittatura della ricchezza,
Castelvecchi, Roma 2005; Johan Galtung, “Teoria dello sviluppo”, in Pace con mezzi pacifici, cap.
3, pp233-354, Esperia, Milano 2000).
Cosa intendiamo per modello di sviluppo
Sebbene si senta spesso usare l’espressione “modello di sviluppo”, si fatica a trovarne una
definizione critica nella letteratura corrente. In generale si usa questa espressione per indicare le
dottrine soggiacenti alla politica economica con la quale viene amministrato un determinato
territorio, su scala locale, nazionale, macroregionale, mondiale. Secondo l’accezione diffusa in
ambito scientifico, il termine “modello” indica inoltre una costruzione teorica con la quale si cerca
di descrivere e interpretare la realtà oggetto di studio e quindi “modellare” significa dare forma a un
particolare sviluppo. A ciascun modello corrisponde una scuola di pensiero e un ideal-tipo.
Come è ulteriormente precisato in altri contributi presentati in questo volume, vengono
individuati quattro principali modelli di sviluppo e si suppone che il passaggio dall’uno all’altro
comporti il cambiamento del paradigma di riferimento. Per quanto sia sempre difficile ingabbiare
una realtà assai complessa in uno schema con poche variabili di riferimento, questo esercizio è utile
per tentare di andare oltre i limiti di un’analisi soggettiva e cercare di individuare una struttura
oggettiva di riferimento. In effetti, questa analisi, che richiederà di essere verificata da ulteriori
ricerche, ci permette di sostenere che sembra esistere una sorta di incommensurabilità tra i diversi
modelli di sviluppo e tra le teorie alle quali essi fanno riferimento.
Una proposta di classificazione dei modelli di sviluppo
In passato, Johan Galtung aveva già individuato quattro modelli di sviluppo (vedi l’articolo
riportato in questo volume), che in seguito ha caratterizzato mediante variabili sociali strutturali.
Partendo dalle due variabili stato e mercato, egli propone una classificazione secondo una “teoria
dei colori politici”, che porta a individuare quattro principali modelli (blu e rosso, verde e giallo)
secondo lo schema di fig. 1. A questi modelli aggiunge inoltre quello di colore rosa e una possibile
degenerazione del blu e del rosso verso il totalitarismo bruno (non rappresentato in figura, ma
descritto nel suo saggio I blu e i rossi i verdi e i bruni, in: IPRI, a cura di, I movimenti per la pace,
vol. I, Le ragioni e il futuro, EGA, Torino 1986, pp. 31-59). A questa classificazione fanno
riferimento anche alcuni lavori di Antonino Drago e di Alberto L’Abate, riportati in questo volume.
Nello schema proposto da Galtung, la variabile stato (sull’asse verticale) può assumere un
valore minimo, prossimo allo zero, nel caso di una “società senza stato”, con un mercato solo su
scala locale, che Gandhi stesso prefigurava con le seguenti parole: "Lo stato, nel passaggio alla
società senza stato, sarà una federazione di comunità democratiche rurali nonviolente e
decentralizzate. Queste comunità si baseranno sulla ‘semplicità, povertà e lentezza volontaria’, cioè
su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l'accento sarà posto sull'autoespressione,
attraverso un più ampio ritmo di vita, piuttosto che attraverso più veloci pulsazioni nell'avidità e di
lucro" (Citato in: Aldo Capitini, Educazione Aperta, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol I, .pag. 172).
Il modello rosso corrisponde invece a una società in cui predomina il controllo centralizzato
dello stato, anche in questo caso con un mercato minimo, non di tipo liberista. All’opposto, il
modello blu corrisponde al libero mercato, idealmente senza nessun controllo dello stato. Nel
modello giallo ideale si ha contemporaneamente massimo sviluppo del mercato e dello stato. Infine,
nel modello rosa stato e mercato sono presenti come compromesso delle società
socialdemocratiche. Questa schematizzazione corrisponde inoltre alla modalità di soluzione di un
conflitto tra due obiettivi contrastanti, secondo l’elaborazione che lo stesso Galtung ha proposto nei
suoi lavori sulla “trasformazione nonviolenta dei conflitti” (La trasformazione nonviolenta dei
conflitti, EGA, Torino 2000, manuale mini; il manuale più ampio è in corso di stampa da parte del
Centro Studi Sereno Regis. Entrambi sono disponibili in rete, nell’edizione inglese originale, nel
sito www.transcnd.org ).
Fig. 1 Classificazione dei modelli di sviluppo secondo la “teoria dei colori politici” di Galtung.
Per una analisi gandhiana dei modelli di sviluppo
E’ essenziale completare la presentazione dei modelli di sviluppo facendo riferimento al
pensiero gandhiano, che verrà ripreso più ampiamente, in questo stesso volume, da Fulvio Manara:
Sin dall’inizio del secolo scorso, Gandhi analizzò con grande lungimiranza e acuto senso critico la
civiltà occidentale, denunciandone l’assoluta insostenibilità, oltre che l’immoralità. Come osserva
Giuliano Pontara, “il discorso di Gandhi muove… da una durissima, e tutt’altro che inattuale, critica
del capitalismo predatore, dell’industrialismo esasperato e del consumismo sfrenato, componenti di
un sistema saturo di violenza strutturale e che se non fosse stato bloccato, egli riteneva destinato a
‘denudare il mondo al modo delle locuste’”.( Giuiano Pontara, L’antibarbarie, EGA, Torino 2006,
p. 15)
Questa critica è contenuta in forma sintetica, sebbene non seguendo lo schema strutturale
che qui proponiamo, in un famoso libretto del 1909, Hindi Swaraj (M.K.Gandhi, Civiltà
occidentale e rinascita dell’India, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1984). E’ noto che
Gandhi ha suscitato e suscita tuttora le reazioni più diverse, che in molti casi fanno riferimento
proprio al testo appena citato. Da alcuni è stato visto come un eccentrico reazionario tradizionalista
e conservatore che suscitava “una sorta di disgusto estetico” (George Orwell, “Riflessioni su
Gandhi”, in: George Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Sansoni, Firenze 1988, p. 174), o
come un “fachiro mezzo nudo” (Churchill). Albert Einstein, invece, lo ammirò tanto da affermare
che “le generazioni future faticheranno probabilmente a credere che un uomo simile si sia mai
realmente aggirato in carne ed ossa su questa terra”. E Aldous Huxley anticipò un giudizio che oggi
appare quanto mai attuale “Prima o poi si verificherà che questo sognatore aveva i piedi ben piantati
a terra, e che l’idealista è il più concreto degli uomini” (A Note on Gandhi,
www.swaraj.org/huxley.htm ).
E’ dunque quanto meno curioso che due autorevoli docenti di scienze politiche
dell’Università di Chicago abbiano dedicato un libro intero per sostenere la tesi di un “Gandhi
postmoderno” (Lloyd I. Rudolph & Susanne Hoeber Rudolph, Postmodern Gandhi, Oxford
University Press, Delhi 2006). Come osserva in una acuta recensione Jyotirmaya Sharma (“Gandhi
as postmodern thinker, The Hindu, 4/7/2006) “scrivere su Gandhi… assomiglia a uno stato di cose
che cade tra due estremi: un abbraccio appassionato e un’autopsia. Gandhi diventa ogni sorta di
cosa per chiunque. I suoi interpreti lo hanno visto a seconda dei casi come tradizionalista,
modernista, femminista, socialista, comunista, ambientalista, e così via”.
In un’altra recensione, P.V.Subraya (“Gandhi: Postmodern or transmodern?”, Deccan
Herald, 5/3/2006) si chiede invece se “la vastità del discorso gandhiano non sia troppo elusiva per
poterlo “intrappolare” in queste definizioni: “Gandhi sembra trascendere tutte le categorie” e
volendolo classificare potremmo definirlo “transmoderno”, secondo la definizione di questo termine
data da autori come Ziauddin Sardar (Islam and the West in a Transmodern World,
http://www.islamonline.net/english/Contemporary/2002/05/Article20.shtml ) e Marc Luyckx
( 11 September was the end of the legitimacy of Western modernity as a dominant model,
http://www.siyassa.org.eg/esiyassa/ahram/2002/10/1/INTE1.HTM ).
Ma tornando ai Rudolph, essi sostengono che proprio Hindi Swaraj può essere considerato il
primo libro “post-trans-moderno” perché in quel testo Gandhi respinge i paradigmi fondativi della
modernità che si basano sulla pretesa di certezze razionali assolute della scienza, della politica e
della filosofia moderne e anticipa le analisi di una serie di autori (Ivan Illich, Fritz Schumacher,
Arne Naess, Serge Latouche, Vandana Shiva) che, richiamandosi spesso al suo pensiero, criticano
le moderne società industriali basate sul mito della crescita economica e del progresso lineare
inarrestabile e su uno stile di vita da “sogno americano”, individualista, consumista, alienato.
Famosi sono il richiamo di Gandhi a quella che in seguito è stata indicata come “filosofia del
limite”: “il nostro pianeta ha risorse sufficienti per soddisfare i bisogni fondamentali di tutti, ma non
l’avidità di alcuni” e l’invito a una scelta di vita ispirata alla “semplicità volontaria”, l’unica strada
che potrà consentire di avviare a soluzione i principali problemi dell’umanità: fame, protezione
ambientale, autorealizzazione. L’analisi di Gandhi non si limita tuttavia alla sola critica distruttiva,
ma propone un programma costruttivo che coglie il meglio del pre-moderno e del moderno in una
sintesi transmoderna: un superamento dei limiti della modernità, senza limitarsi né alla sterile critica
postmoderna né ad auspicare un ritorno acritico alla premodernità.
Per comprendere pienamente il pensiero di Gandhi si deve tuttavia esplicitare il suo punto di
vista etico. In un’ampia comparazione che mette a confronto la visione gandhiana con quella di altri
autori (da Marx a Sen, da Tariq Ali a Vandana Shiva e Arundhati Roy), Howard Richards individua
come punto chiave della critica gandhiana alla moderna società industriale la mancanza di dharma,
di una legge, di una “via” (The Gandhi Series, http://howardrichards.org ). La tensione esistenziale
che animava Gandhi è proprio questa incessante sete e ricerca della verità, per approssimazioni
successive, mediante una continua serie di “esperimenti etici con la verità”. Lo scopo della vita di
ognuno di noi è dunque questa costante tensione alla ricerca della verità che permetta di
autorealizzarci pienamente, lasciando che ciascuno segua in piena libertà morale e intellettuale
(questa è la vera libertà) la propria via, con un unico vincolo, quello della relazione
Classificazione dei modelli di difesa
Ancora una volta partiamo da una proposta fatta da Galtung (Ci sono alternative!, EGA,
Toino 1986, p.198) per individuare i principali modelli di difesa che derivano ciascuno da una
specifica teoria o dottrina. Nello schema di fig. 2 si distinguono i modelli di difesa innanzi tutto in
due grandi categorie: modelli offensivi oppure difensivi, a seconda della tipologia di sistemi d’arma
che, nel primo caso, consentono di portare l’offesa ovunque con potenziali distruttivi massimi,
mentre nel secondo caso permettono solo di resistere e contrastare un’azione offensiva sul proprio
territorio, contenendo i livelli distruttivi.
Una seconda soglia, interna ai modelli difensivi, permette di distinguere tra una difesa con
armi esclusivamente difensive (difesa difensiva) e una totalmente nonviolenta, la DPN (difesa
popolare nonviolenta), sulla quale ritorneremo più avanti. A questi tre modelli, offensivo, difensivo,
nonviolento, se ne può aggiungere un quarto, la non resistenza o non difesa.
Fig. 2 Classificazione dei modelli di difesa secondo Galtung
Correlazioni tra modelli di sviluppo e modelli di difesa
Se si assume come variabile la crescita quantitativa, si può riprendere la precedente
classificazione dei modelli di sviluppo mettendola in correlazione con i modelli di difesa, anch’essi
classificati secondo un’unica variabile, l‘intensità della reazione a un’aggressione, ovvero il livello
di distruttività, come indicato schematicamente in fig. 3.
Possiamo ipotizzare l’esistenza di una correlazione tra modello di sviluppo a crescita
illimitata e modello di difesa offensivo. Come ebbe a dire in modo molto colorito ed esplicito
l’allora segretario della difesa USA, Margaret Albright: “Per avere McDonald ci vuole
McDouglas”, ovvero per sostenere la globalizzazione economica liberista (crescita illimitata e
modello blu) è necessario esportarla e difenderla manu militari, come è sempre avvenuto
storicamente da parte delle potenze imperiali capitaliste (si veda, per tutti, William Blum, Il libro
nero degli Stati Uniti, Fazi, Roma 2003). Che non si tratti soltanto di una indebita illazione, è
confermato dall’ampia letteratura sull’argomento nonché dai documenti pubblicati da vari
organismi ufficiali USA e dalla teoria neocon “del nuovo secolo americano” (vedi la documentata
analisi sul “Progetto per un nuovo secolo americano” o PNAC Project for the New American
Century. su http://it.wikipedia.org/wiki/Project_for_the_New_American_Century . Vedi anche
l’ampia riflessione svolta da Giuliano Pontara in L’antibarbarie. La concezione etico-politica di
Gandhi e il XXI secolo, EGA, Torino 2006. Pontara individua delle esplicite tendenze naziste
nell’attuale politica internazionale ).
Fig. 3 Correlazioni tra modelli di sviluppo e modelli di difesa
Ma non tutti i paesi capitalisti hanno una politica così aggressiva e un’economia così vorace
come quella statunitense. Sin dal 1972 con il famoso rapporto del Club di Roma sui Limiti dello
sviluppo (Mondadori, Milano 1972. Il titolo dell’originale inglese era, più correttamente: Limits to
growth, limiti della crescita. Lo studio è stato riproposto in versione aggiornata: Donella e Tennis
Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio,
Mondadori, Milano 2006. Per una rilettura critica si veda infine: Dennis L. Meadow, “Evaluating
Past Forecast: Reflection on One Critique of The Limits to Growth”, in: Robert Costanza, Lisa J:
Graumlich and Will Steffen, eds., Sustainability or Collapse. An Integrated Historyand Future of
People on Earth, MIT Press, Cambridge-London 2007) si è sviluppato un ampio e controverso
dibattito che ha portato alcuni paesi a elaborare l’idea di uno sviluppo sostenibile che, pur
mantenendo ancora una ambiguità non pienamente risolta tra sviluppo e crescita, ha consentito di
avviare alcuni processi di razionalizzazione e di contenimento della crescita, o quanto meno di
messa in discussione del paradigma dominante. Parallelamente, di fronte alla manifesta follia della
dottrina nucleare MAD (Mutua Distruzione Assicurata) è sorto, intorno agli anni ‘70 del secolo
scorso, un movimento di “generali per la pace” che ha teorizzato un cambiamento di modello,
passando dalla difesa offensiva a quella puramente difensiva. Questo è il modello applicato da vari
paesi, tra i quali spiccano i seguenti: Svizzera, Austria, paesi scandinavi, Costarica, Canada. Così
come lo sviluppo sostenibile si propone di mantenere quanto meno sotto controllo i processi di
crescita dell’economia riducendone i tassi e l’impatto ambientale, anche nel caso della difesa si
propone una riduzione dell’intensità distruttiva, mantenendola entro i limiti delle armi
convenzionali difensive.
Il passaggio da un modello di difesa all’altro viene chiamato transarmo, un termine che, a
differenza di disarmo, si propone innanzi tutto il cambiamento della dottrina militare, per rendere
possibile anche operazioni di disarmo, per quanto limitate ad alcuni sistemi d’arma.
Il passo successivo, o parallelo, è quello della transizione a un modello di sviluppo basato su
un’economia nonviolenta, stazionario, in cui l’impatto ambientale sia autenticamente sostenibile,
ispirato a uno stile di vita che si richiama alla scelta della “semplicità volontaria” (per una
introduzione, vedi Giovanni Salio, Elementi di economia nonviolenta, Quaderni del Movimento
Nonviolento, Verona 2001). Ad esso è associata l’idea di una difesa popolare nonviolenta, che si
ispira alle molteplici lotte nonviolente, su varia scala, avvenute nel corso di tutta la storia umana e
in particolare nel Novecento.
Fig. 4 Punti nodali di attacco per le misure di disarmo
Lo schema in figura 4, proposto da Johan Galtung in Ambiente, sviluppo e attività militare
(EGA, Torino 1984), è un utilissimo punto di partenza per individuare i “punti nodali di attacco per
le misure di disarmo”, per capire perché molto spesso le azioni sia degli organismi internazionali
(ONU) sia dei movimenti per la pace sono poco efficaci e per introdurci criticamente all’idea di
DPN (vedi Antonino Drago, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e
nuovi scenari, EGA, Torino 2006). Il più delle volte, il movimento per la pace interviene nell’ultima
fase del processo, quando la potente macchina da guerra è già avviata, pronta per l’uso. Non ci si
deve stupire se di solito si fallisce, anche quando si è in presenza di movimenti tanto vasti come
quelli che culminarono nelle manifestazioni del 15 febbraio 2003 e che furono nientemeno definiti
dal New York Times, con molta enfasi, come “seconda superpotenza mondiale”. Si interviene
troppo tardi e solo nelle fasi ultime del processo, per fermare una macchina da guerra che funziona
ventiquattrore al giorno, con decine di milioni di persone a tempo pieno e mille miliardi di
euro/dollari a disposizione. Il processo messo in moto da questa gigantesca megamacchina diventa
inarrestabile, se ci si limita a intervenire all’ultimo minuto.
Si capisce quindi perché le misure di puro e semplice disarmo sortiscano risultati modesti. Si
prenda il caso, pur interessante, del trattato contro le mine antiuomo. E’ stato un successo (sebbene
alcuni dei paesi più importanti non l’abbiano sottoscritto), tuttavia oggi ci accorgiamo che una
nuova categoria di armi, le cluster bombs, agiscono a tutti gli effetti come mine antiuomo, ma non
sono messe al bando perché non previste dal trattato. Questo fatto è ricorrente in tutta la corsa agli
armamenti. Se si lasciano immutate la dottrina militare e la ricerca militare, esse si industrieranno
nel cercare nuovi sistemi d’arma con cui aggirare gli ostacoli posti dalle leggi e dai trattati
internazionali.
E’ una sorta di corsa tra guardie e ladri, con questi ultimi che corrono più veloci e non
vengono quasi mai acciuffati. Se vogliamo realmente estirpare la guerra dalla storia umana,
dobbiamo andare alle radici, culturali e teoriche, dei modelli di difesa e di sviluppo che stanno a
monte dell’intera “catena di comando” della macchina da guerra. Le dottrine del falso realismo che
vengono insegnate nelle accademie sia civili, le università, sia militari, le scuole di guerra, sono
inadeguate e continuano a provocare il sacrificio incessante di vite umane con la violenza diretta
della guerra e con quella strutturale dei modelli di sviluppo, delle spese militari, delle priorità che
ignorano i bisogni fondamentali delle popolazioni. Gli attuali modelli di difesa adottati da gran
parte dei paesi sono in realtà modelli di offesa, che basandosi su sistemi d’arma oggettivamente
offensivi (a largo raggio e ad alto potenziale distruttivo) comprendono ogni possibile arma di
distruzione di massa, senza alcuna soglia superiore che ne limiti la distruttività. Questi modelli
creano insicurezza invece che sicurezza, instabilità invece che stabilità (vedi Johan Galtung, Ci
sono alternative!, op. cit.)
Dopo la fine della guerra fredda, nel mondo della peace research si è posta l’attenzione sul
concetto di conflitto e sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti, più che sulla difesa. I teorici
dei modelli di difesa armati intendono il conflitto come sinonimo di guerra. Nella concezione
nonviolenta il conflitto è invece visto come una condizione esistenziale normale dell’umanità, che si
presenta al tempo stesso come “pericolo e opportunità”, come possibilità di crescita oppure di
distruzione (Angela Dogliotti, Elena Camino, Conflitto. Rischio e opportunità, Edizioni Qualevita,
Torre dei Nolfi 2005).
Mentre la peace research poneva al centro della propria indagine l’idea di conflitto,
l’establishment politico-militare-accademico ha riproposto il concetto di sicurezza, inteso in senso
globale, con sfumature e giochi linguistici di tipo orwelliano che hanno comunque come
conseguenza una crescente insicurezza e instabilità dei sistemi. Il modello di difesa offensivo ha
reso paesi come gli USA meno sicuri, non solo rispetto a possibili rappresaglie con armi nucleari da
parte di grandi potenze, ma anche attivando il fenomeno del blowback, di cui gli attentati dell’11
settembre 2001 sono un clamoroso esempio, previsti con acutezza e lungimiranza da Chalmers
Johnson (Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, lavoro “profetico”
pubblicato nell’originale nel 2000. Il secondo volume, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare
industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, è anch’esso pubblicato da Garzanti,
Milano 2005. Il terzo volume, Nemesis: The Last Days of the American Republic pubblicato nel
2007 da Metropolitan Books , non è ancora stato tradotto. In questi lavori, l’autore analizza, tra
l’altro, con una imponente quantità di dati il pericolo che il complesso militare industriale USA
costituisce non solo per la situazione internazionale ma anche per il futuro e la stabilità degli stessi
Stati Uniti).
La scelta dei paradigmi di difesa e di sviluppo che si richiamano alla nonviolenza sono la
coerente conseguenza di uno stile di vita e di una politica che vogliano realizzare una società
nonviolenta, della quale per il momento si vedono solo alcuni esperimenti in corso, purtroppo
ancora troppo minoritari sebbene di grandissimo valore sperimentale e profetico.
Infine, si possono associare le società tradizionali, basate su un’economia di sussistenza, che
non conoscono l’idea di sviluppo, con l’assenza di un’organizzazione collettiva della difesa (livello
zero di reazione), che pertanto le rende più esposte a essere travolte in caso di aggressione, come è
avvenuto nel Tibet invaso dalla Cina.
Nello schema di fig. 3 è indicato anche, sulla linea verticale dello sviluppo, il caso del
“mattatoio” per evidenziare il fatto che una conseguenza dell’attuale sistema economico è la miseria
estrema, uno sviluppo negativo, vera anticamera della morte, in cui versa circa un sesto
dell’umanità: una violenza strutturale pari a circa centomila vittime al giorno per la fame e le
malattie connesse. E’ una strage pari a una Hiroshima quotidiana prodotta da una violenza
strutturale di intensità almeno dieci volte superiore a quella diretta di tutte le guerre in corso.
Spesa militare e costi di opportunità
Non si presta sufficiente attenzione a un’altra delle nefaste conseguenze dei modelli di
difesa militari, provocata soprattutto dalla difesa offensiva realizzata nella sua forma più estrema
dagli USA. Sono i “costi di opportunità” che tutta l’umanità, ma in particolare quella che vive nelle
condizioni di estrema miseria, paga a causa della sottrazione di una quantità talmente ingente di
risorse che, se impiegate correttamente, potrebbero consentire di avviare a soluzione gran parte dei
problemi più gravi, realizzando effettivamente gli ambiziosi obiettivi del Millennium (Sachs, La fine
della povertà, Mondadori. Milano 2006). Un utilissimo esercizio sui costi di opportunità viene
proposto dal World Game Institute con una mappa di “Che cosa vuole il mondo e come pagarlo
usando
le
spese
militari”
che
si
può
consultare
all’indirizzo
internet
http://www.unesco.org/education/tlsf/TLSF/theme_a/mod02/www.worldgame.org/wwwproject/ind
ex.shtml . Ma l’analisi più profonda è quella svolta da Seymour Melman in tutta la sua infaticabile
opera. Nel suo ultimo libro, Guerra S.p.A. (Città Aperta, Troina, Enna, 2006) egli analizza le
conseguenze perverse e disastrose dell’”economia permanente di guerra” che gli USA perseguono
ininterrottamente sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
Tra i critici più espliciti che hanno denunciato queste pericolose conseguenze della corsa
agli armamenti, abbiamo nientemeno che un ex generale, diventato presidente degli USA, Dwight
D. Eisenhower che in un famoso passo del suo messaggio di congedo del 17 gennaio 1961 metteva
in guardia il popolo statunitense dal grave pericolo che il nascente complesso militare-industriale
comportava per la democrazia USA. Egli denunciava con forza che "L'America deve vigilare contro
l'acquisizione di un'ingiustificata influenza da parte del complesso militare-industriale e il pericolo
di
diventare
prigioniera
di
un'elite
scientifico-tecnologica"
(http://web.peacelink.it/pace2000/webstoria/4evocon/pentag.html ). Inoltre, in un discorso di alcuni
anni prima, pronunciato il 15 aprile del 1953, aveva detto: “Ogni cannone che viene costruito, ogni
nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene preparato rappresenta un urto a coloro che
hanno fame, a coloro che hanno freddo e non hanno da coprirsi. Infatti un bombardiere pesante
costa quanto trenta scuole o due centrali elettriche capace ognuna di fornire luce ad una città di 60
mila abitanti, o a due ospedali; un solo aeroplano da caccia costa come 150 mila quintali di grano;
con i dollari necessari per allestire un cacciatorpediniere, si potrebbero costruire case per 8.000
senzatetto….”
Dopo la stagione del 1989 e la fine della guerra fredda, quando la spesa militare si ridusse di
quasi il 30% facendo sperare a un’inversione di tendenza, essa è tornata a crescere rapidamente (e
pericolosamente) sino a superare i massimi storici raggiungendo l’iperbolica cifra di oltre un
trilione di euro all’anno, di cui il 50% da parte degli USA.
Per renderci meglio conto del significato di queste cifre, traduciamole in spesa militare pro
capite giornaliera. Ogni cittadino/a statunitense spende da 5 a 6 dollari al giorno in spese militari
contribuendo a creare, paradossalmente, una condizione di maggiore insicurezza e instabilità. Per
i/le cittadini/e italiani/e i valori sono molto più bassi, intorno a 1 euro al giorno, ma pur sempre
significativi poiché corrispondono al reddito pro capite giornaliero di quel miliardo di persone che
vive con meno di un euro (o un dollaro) al giorno. Nel caso USA, la spesa militare pro capite
giornaliera è circa il doppio di quanto i due terzi dell’umanità ha a disposizione ogni giorno per
vivere.
Da questi dati appare ancora più chiaro il prezzo che l’umanità intera sta pagando per
mantenere la perversa correlazione tra modello di sviluppo centrato sulla crescita illimitata e difesa
offensiva. La transizione verso un modello di sviluppo ispirato alla semplicità volontaria e a un
sistema di trasformazione nonviolenta dei conflitti mediante la difesa popolare nonviolenta
costituisce l’ambizioso, ma indispensabile e concretamente fattibile, progetto che i movimenti per la
pace di tutto il mondo debbono assumere come prioritario nella propria agenda politica.
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