L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 sabato 8 agosto 2015 Dietrich von Hildebrand La malamovida di MARCELLO FILOTEI Quasi tutti gli adolescenti, prima o poi, si lasciano andare a qualche forma di trasgressione. Se vivono in stagioni storiche di lotte politiche magari gridano slogan rivoluzionari alle manifestazioni, se sono inghiottiti da quello che negli anni Ottanta i sociologi chiamavano il “riflusso nel privato” sfidano le regole dei padri. Qualche volta le due cose coincidono. Nella maggior parte dei casi cercano solamente di dimostrare che esistono in quanto entità autonome. E pare sia anche un percorso necessario a diventare adulti consapevoli. Le preoccupazioni devono intervenire quando questi comportamenti oltrepassano il livello dalla sana affermazione della propria identità. Le notizie degli ultimi giorni portano all’attenzione generale la degenerazione in condotte illegali e autolesionistiche di un fenomeno che circoscritto in opportuni confini sarebbe di normale amministrazione. L’uso di sostanze stupefacenti e l’abuso di alcol, in particolare, sembrano diventati il principale interesse in alcune fasce delle ultime generazioni. Ovviamente pretendere il rispetto della legge all’interno dei locali della movida notturna, come in qualsiasi altro luogo, è un dovere delle istituzioni. Chiudere un occhio davanti allo spaccio di stupefacenti o all’abuso di alcolici da parte di minori, magari per evitare di danneggiare gli interessi economici degli esercenti, non solo è un reato ma anche un grave passo indietro rispetto alle responsabilità che una qualsiasi amministrazione ha il dovere di assumersi. Senza dimenticare che esistono anche i diritti dei cittadini che nelle zone dello sballo ci vivono e protestano perché, come denuncia il «Coordinamento nazionale no degrado e mala movida», se si ha poco rispetto per se stessi e per gli altri «ancor meno si rispettano luoghi dove l’espressione dell’istinto si esprime senza freni con la conseguente devastazione di interi quartieri». Al tempo stesso, però, pensare che si possa affrontare un problema di questa portata solamente attraverso misure di ordine pubblico rischia di spostare l’attenzione sugli effetti e di far perdere di vista le cause. Senza scadere nel facile moralismo sempre in agguato, ci si può chiedere perché sempre più giovani cerchino strumenti per evadere dalle realtà piuttosto che idee per cambiarla. Se da una parte abbiamo il dovere di esigere il rispetto delle regole della convivenza civile, dall’altro dovremmo interrogare noi stessi sui motivi per cui ai nostri ai figli proprio non piace il mondo che gli stiamo lasciando. di CRISTIANA D OBNER ietrich von Hildebrand, figlio del celebre scultore Adolf von Hildebrand, nato nella famosa villa San Francesco a Firenze, divenne filosofo e studiò con Edmund Husserl e Max Scheler. Fu persona di fede, preghiera e verità, riconobbe nell’opposizione al delirio di Hitler la sua particolare missione, da portare avanti a ogni costo. Una battaglia sferrata senza armi, senza versare sangue, senza vendetta. Una battaglia pagata in proprio, perdendo tutto: l’amata patria, la splendida dimora e la docenza all’Università di Monaco di Baviera, la cerchia dei parenti, degli amici e il benessere economico. Dobbiamo ad Alice, nota filosofa, che da giovane studentessa divenne moglie del maturo vedovo, se l’esule ormai residente negli Stati Uniti, scrisse le sue memorie che coprono un ampio arco di anni: dal 1921 al 1938 (My Battle against Hitler. Faith, Truth, and defiance in the Shadow of the Third Reich, Image, New York, 2015, pagine 339, dollari 28). Afferma con fierezza John Henry Crosby, fondatore del Hildebrad Project, filosofo e musicista, traduttore e commentatore di queste memorie: «È un immenso privilegio presentare al mondo la risplendente testimonianza di un uomo che ha rischiato tutto per seguire la propria coscienza e resistere sfidando il tiranno». Von Hildebrand divenne così per il dittatore nazista il nemico per eccellenza, il primo da incarcerare e mettere a morte una volta ottenuto il potere politico. Eppure, l’opposizione si consumava nel campo delle idee e delle radici spirituali della Germania e dell’Europa, in nome del Vangelo, proprio come è esplicitato nel sottotitolo del libro «Fede, verità e resistenza nell’ombra del Terzo Reich». Dietrich von Hildebrand non creò una rete di spionaggio, non assoldò si- D La battaglia di Dietrich von greto del 30 aprile 1937 scrisse: «Questo dannato Hildebrand è il più grande ostacolo per il nazionalsocialismo in Austria. Nessuno causa più danno». A Vienna, ben presto, si circondò di colte e trasparenti amicizie fra cui Engelbert Dollfuss, il cancelliere austriaco che si oppose all’Anschluss e con cui si sentiva in profonda intesa. Piccoli ritratti di illustri amici si susseguono nel corso delle memorie: Otto von Hildebrand contro il nazismo Habsburg, Zita von Habsburg, Jacques e Raïssa Maritain, Balduin Schwarz, Joseph Ratzinger e molti altri. Con la fondazione del settimanale «Der Christliche Ständestaat» von Hildebrand diffondeva le sue idee e sulla carta realizzava «la battaglia contro l’antipersonalismo e il totalitarismo». Gli articoli si susseguirono a getto continuo, una loro selezione si trova nell’ultima sezione del volume. Immerso nel turbine del pericolo costante, von Hildebrand resistette a lungo. Anticonservare il silenzio sulle ingiustizie che sa- cipò le SS di sole quattro ore quando dovetrebbe sopravvenute oppure rischiare il cam- te lasciare rapidamente Vienna e fuggire atpo di concentramento». traversando l’Europa, fidando sempre e solo Con un rocambolesco viaggio attraverso nella forza che gli veniva da Dio. Approdò la Cecoslovacchia raggiunse prima l’Italia e infine a New York dove insegnò alla Fordham University. Il basso continuo dell’opera è rappreOptò per l’assoluta non violenza sentato dalla difesa dell’insegnamento ma fu messo subito sulla lista nera dai nazisti della fede cattolica E considerato il più grave ostacolo e del popolo ebraiper il nazionalsocialismo in Austria co. In tempi bui von Hildebrand fu una luce che anche Edith Stein intravvipoi si stabilì a Vienna, dove non si rifugiò de e comprese. Egli sempre osò. Né la pernella tranquillità ma iniziò ad agire, a porta- dita e la confisca delle proprietà, né la mire avanti la sua “missione”, tanto che l’am- naccia di morte poterono intimidirlo e metbasciatore tedesco von Papen lo descrisse a terlo a tacere: «Dio ci chiama a combattere Hitler come «l’architetto della resistenza in- l’Anticristo senza badare al trionfo che, in tellettuale in Austria». E in un dispaccio se- fin dei conti, spetta a Dio». Una luce nell’oscurità cari, optò per l’assoluta non violenza. Il nazismo, ai suoi occhi si presentava come la più grande eresia del XVIII e XIX secolo. Il crescente pericoloso allarme, intriso di violenza, sospinse von Hildebrand alla resistenza anti-nazista ben prima che il furore hitleriano manifestasse apertamente i suoi orrori. Così si trovò sulla lista nera già nel 1921. E nel 1923 con il Bürgerbräu-Putsch realizzò che la Baviera «era precipitata nelle mani di criminali». Il pensatore, l’amante della Bellezza, non indietreggiò dinanzi alla percezione della devastazione che la furia nazionalsocialista avrebbe scatenato quando ancora in molti ritenevano fosse un campanello d’allarme eccessivo. Quando il potere si insediò a Monaco, von Hildebrand non esitò: «Mi fu chiaro che non avrei potuto insegnare più a lungo in una nazione nazionalsocialista perché ero convinto che sarei stato costretto a dei compromessi e che avrei dovuto anche Difficile attuazione del codice per il reclutamento internazionale di personale sanitario Meno cure ai più poveri di CARLO PETRINI L’espressione “fuga dei cervelli”, entrata nell’uso comune, allude al fenomeno dell’emigrazione dei giovani più promettenti e preparati da Paesi poveri, in via di sviluppo o in fase di decadenza, verso luoghi dove è più facile trovare buone opportunità di impiego. Il problema assume una gravità particolare in ambito sanitario: la migrazione di professionisti della salute da Paesi con sistemi sanitari fragili compromette il funzionamento dei sistemi sanitari locali e ostacola il La migrazione dei medici per ragioni economiche sta gravemente pregiudicando le condizioni della salute pubblica nelle zone sfavorite miglioramento delle condizioni della salute pubblica nelle zone sfavorite. L’O rganizzazione mondiale della sanità (Oms) attribuisce a questo problema una «straordinaria importanza», dal momento che si tratta di un fenomeno di dimensioni gravi in almeno una sessantina di Stati, e ha conseguenze particolarmente negative soprattutto nell’Africa subSahariana. Nel 2010 i 193 Stati membri dell’O ms adottarono un «Codice globale di condotta per il reclutamento internazionale di personale sanitario», frutto di un lungo lavoro: fin dal 2004 l’Assemblea generale dell’Oms aveva adottato una risoluzione in cui si dava mandato al direttore generale di elaborare, con la collaborazione di tutti gli Stati membri, un Codice sull’argomento. Il Codice «fornisce principi etici applicabili al reclutamento internazionale di personale sanitario in modo da rafforzare i sistemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo, dei Paesi con economie in transizione e dei piccoli Stati insulari». Nel documento, dopo aver dichiarato che «la salute di tutte le popolazioni è fondamentale» e che «i Governi hanno una responsabilità» verso di essa, si riconosce che «affrontare il problema della carenza, attuale e prevista, di personale sanitario è fondamentale per proteggere la salute a livello mondiale». Pertanto, gli Stati dovrebbero «sforzarsi, nella misura del possibile, di sviluppare una forza lavoro sanitaria sostenibile e impegnarsi per mettere in atto un’efficace programmazione, educazione e formazione del personale sanitario e strategie di trattenimento in loco che riducano la necessità di reclutare personale sanitario migrante» e «adottare misure per correggere gli squilibri nella distribuzione geografica dei lavoratori del settore sanitario e favorire la loro permanenza nelle aree poco servite». Viene affrontato anche il tema delle condizioni del personale sanitario migrante: dovrebbero essere garantiti gli stessi diritti e responsabilità giuridiche rispetto al personale sanitario formato in loco. Nell’adottare il Codice, gli Stati membri dell’Oms stabilirono che ogni cinque anni dovesse essere redatto un rapporto sulla sua attuazione, focalizzato in particolare su due aspetti: rilevanza (verifica sull’attualità dei principi e degli obiettivi espressi nel Codice) ed efficacia (verifica delle politiche specifiche attuate dagli Stati e dei risultati ottenuti). Secondo il primo rapporto quinquennale (2015), il Codice mantiene la sua attualità e ha portato risultati. Tuttavia, al bilancio positivo si possono aggiungere alcune considerazioni. Per quanto riguarda la rilevanza, si deve riconoscere che l’architettura globale delineata dal Codice è tuttora valida, soprattutto grazie al fatto che sono coniugati principi di etica e requisiti pratici di tipo organizzativo e legale. Per quanto riguarda l’efficacia, si rileva che in numerosi Stati sono state adottate politiche per gestire il fenomeno della migrazione del personale sanitario. Tuttavia, per valutare l’efficacia dei provvedimenti sarebbe opportuno che ciascuno Stato rendesse disponibili dati precisi sul fenomeno della migrazione del personale sanitario dai e nei propri confini. Un’altra considerazione scaturisce dal fatto che il Codice non è vincolante. È evidente che ci si potrebbero attendere risultati diversi se gli Stati membri fossero obbligati ad affrontare il problema, per esempio tramite programmi di formazione, incentivi economici, misure giuridiche e sostegno sociale e professionale. Inoltre, nessuna disposizione contenuta nel Codice dovrebbe essere interpretata nel senso di una limitazione della libertà del personale sanitario, nel rispetto delle normative nazionali e internazionali che consentono loro di migrare verso Paesi desiderosi di accoglierli. Infatti il Codice è finalizzato ad arginare il fenomeno del brain drain, non a ostacolare un proficuo brain exchange: una migrazione circolare del personale sanitario, con una reciproca acquisizione di capacità e conoscenze, può andare a vantaggio sia del Paese di origine, sia di quello di destinazione. Si deve anche riconoscere che l’attuazione del Codice non è facile. Due difficoltà paiono particolarmente incisive: la prima è la necessità di coinvolgere molti attori (i Ministeri che si occupano di salute, di lavoro, di formazione, di interni e di esteri; le organizzazioni professionali; gli organismi di reclutamento e previdenziali; le organizzazioni internazionali), che spesso è difficile coordinare. La seconda è la necessità di agire su due fronti: i fattori che attraggono nei Paesi di destinazione, così quelli che spingono fuori dai Paesi di provenienza. Infine, nell’epoca in cui il fenomeno della globalizzazione riguarda ogni settore, non si può non associare il Codice alla cosiddetta “bioetica globale”, che gode di vasti successi e sulla quale la letteratura è copiosa. Nelle riviste specializzate, e soprattutto nella manualistica, il fenomeno della migrazione del personale sanitario, che per l’oms «costituisce una minaccia importante per il funzionamento dei sistemi sanitari», non ha ancora adeguato spazio. Scempio sul Canal Grande Suscita molte perplessità una nuova costruzione realizzata a Venezia. Sul «Corriere della sera» del 7 agosto Gian Antonio Stella lo definisce uno «spropositato catafalco bianco che raddoppia e stupra l’Hotel Santa Chiara sul Canal Grande». Il contrasto «col retro dell’edificio, la poltiglia di piazzale Roma coi grandi parcheggi auto, le rotatorie per gli autobus, gli autonoleggi, le baracche dei venditori di maschere e gondolette o la immensa bara bruna della nuova Cittadella di giustizia, effettivamente è ridotto. Piazzale Roma potrebbe essere un brutto slargo cittadino del Texas o di Tijuana ed è vero: il nuovo parallelepipedo con la scritta colorata “Vacancy”, lì non sfigurerebbe affatto». Ma il guaio, aggiunge, «è che il confronto va fatto con ciò che il nuovo motel Santa Chiara ha davanti. Il Canal Grande. La via d’acqua più bella, più amata, più narrata, più sognata, più dipinta e più fotografata del pianeta. E lì il pugno nell’occhio del primo manufatto in cemento e acciaio (il cristallo e le formelle di vetro sono state tolte a quanto pare su consiglio della Soprintendenza), è davvero traumatico. E certo non bastano le linee avveniristiche del ponte di Calatrava, lì accanto, a dare un senso al grossolano e incombente scatolone bianco. Il colore del lutto, in tanti Paesi. Prova provata di quanti danni possa fare la spocchia di architetti decisi a lasciare il loro marchio, la loro firma, la loro zampata in un delicato contesto d’arte, d’amore che altre mani hanno disegnato nei secoli». L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 27-28 luglio 2015 pagina 5 Mario Gonzalez Chavajay, «Tijo’nem/Teaching» (2004) Tra pratica clinica e sperimentazione medica Se i rischi violano l’etica di CARLO PETRINI a terapia che il dottore mi propone è una pratica consolidata oppure un’innovazione sperimentale? La risposta dovrebbe essere chiara tramite il consenso informato. Nella realtà talvolta ciò non avviene. Il motivo, a eccezione di eventuali comportamenti fraudolenti del medico, non risiede nel fatto che il medico voglia tacere la verità al paziente, ma nel fatto che i confini tra normale pratica terapeutica e sperimentazione sono talvolta sfumati: risulta quindi difficile tracciare linee nette di separazione. Per decenni, però, le normative sulla ricerca clinica sono state basate su una distinzione tra ricerca e pratica clinica. Le stesse normative prevedono che la ricerca, a differenza della pratica, debba essere obbligatoriamente soggetta a valutazione da parte di un comitato etico. In genere si afferma che la necessità della valutazione dipenda soprattutto dai rischi che la ricerca comporta. Tuttavia, spesso interventi considerati “non ricerca” comportano rischi rilevanti. Per questo motivo diversi autori propongono che per stabilire se occorra una valutazione etica sia opportuno L Il cattolicesimo latinoamericano dopo Medellín e Puebla Bellissimi banchi vuoti di MARIA BARBAGALLO o avuto la fortuna di svolgere la mia missione in America Latina dagli anni Settanta e parte degli anni Ottanta del Novecento, periodo in cui noi religiosi, donne e uomini, vivevamo sotto l’influsso ecclesiale della Conferenza episcopale di Medellín del 1968 e più tardi di quella di Puebla del 1979. Durante quel tempo quasi tutti i Paesi dell’America Latina erano governati da dittature di vario genere o da regimi militari. Non c’era da stare allegri: l’emergente teologia della liberazione viveva tempi difficili, accusata di fondarsi su analisi marxiste, di produrre sintesi poco ortodosse e quindi esercitare un influsso pericoloso, che poteva suscitare rivoluzioni e guerriglie destabilizzando uno status quo che faceva comodo a tutti. Noi religiosi eravamo ritenuti seguaci di queste idee sovversive e perciò sorvegliati e spesso minacciati. Le due Conferenze episcopali di Medellín e Puebla ebbero invece l’intelligenza di affrontare le questioni da punti di vista strettamente pastorali, determinando una vera svolta nella riflessione teologica ed ecclesiale con ripercussioni indiscutibili sull’attività del clero e dei religiosi. Possiamo dire che, in termini generali, Medellín ebbe davanti agli occhi la drammatica realtà dell’America Latina e dei Caraibi e la mise a confronto con l’evento e i documenti del concilio Vaticano II (19621965), sviluppando una ricezione conciliare, nello stesso tempo, fedele e creativa, selettiva e innovativa. Ascoltare il grido dei poveri, come appello evangelico, compromettersi insieme a loro e agire per trasformare la Chiesa e il mondo, fu l’ispirazione che animò l’assemblea di Medellín: «Non basta riflettere, ot- H Scoprire come la gente più umile fosse capace di capire il Vangelo servì a noi religiosi da esempio per le nostre stesse comunità tenere maggiore chiarezza e parlare. È necessario agire. Questa non ha cessato di essere l’ora della parola, ma è diventata, con drammatica urgenza, l’ora dell’azione» (da Medellín: quarant’anni di José Oscar Beozzo, San Paolo, Brasile). Le denunce dell’ingiustizia istituzionalizzata che facevano le due Conferenze episcopali toccarono ovviamente tutte le istituzioni sociali e culturali ed anche quelle religiose. In sostanza, si diceva e si commentava, nelle varie riunioni organizzate per i religiosi post-Medellín, che anche la vita religiosa doveva sentirsi interpellata perché, nonostante i nostri fondatori e fondatrici fossero noti per essersi orientati ai poveri, la nostra vita si era imborghesita e la prova di questo era che la grande maggioranza delle nostre scuole, ospedali, centri di evangelizzazione, era situata nelle grandi città e spesso serviva l’utenza benestante con scarsa influenza sulle classi rurali, le periferie emarginate, i poveri in generale. Tutte noi, congregazioni religiose con case e missioni in America Latina, sentimmo la pressione di queste conclusioni che ci mettevano sotto accusa, a volte con ragione, a volte senza una vera approfondita analisi, ma l’effetto fu fulminante: moltissime congregazioni religiose femminili e maschili, celebrando i loro capitoli ordinari o straordinari, rinnovando le loro costituzioni, applicando i documenti del concilio Vaticano II, decisero di rispondere al richiamo di Medellín. Specialmente le suore o i padri più giovani e meno inclinati alla missione da svolgere dentro le grandi istituzioni scelsero di dedicarsi alle classi più emarginate, agli indigeni, alle periferie, alle zone rurali. Nonostante alcune ambiguità, nonostante i conflitti e le divergenze che dividevano la sensibilità della vita religiosa tradizionale da quella più progressista, fu impressionante il fatto che, andando verso “i poveri”, si capì subito che questi recepivano il messaggio del concilio Vaticano II prima e meglio di molte altre classi più istruite e benestanti. Il metodo pastorale che suggeriva Medellín, «Vedere — Giudicare — Agire», portò i religiosi, quasi sempre all’avanguardia missionaria, a realizzare una penetrazione del Vangelo tra le classi più povere e a scoprire la ricchezza che la gente povera possedeva, quella di recepire il messaggio immediatamente e di applicarlo alla loro realtà concreta. «La Parola di Dio, restituita al popolo nei circoli biblici, nelle comunità ecclesiali di base e nel movimento di lettura popolare della Bibbia, stava nel cuore della rivoluzione provocata da Medellín. A questo contribuì, e molto, la generosa iniziativa della comunità di Taizé in Francia che, dopo il concilio, donò alle chiese dell’America Latina, soprattutto a quelle cattoliche, un milione di esemplari del Nuovo Testamento in spagnolo e un altro milione in portoghese, perché venissero distribuiti gratuitamente alle comunità più povere» (ibidem). L’esperienza positiva che si ricavava scoprendo come la gente più umile era capace di capire il Vangelo, servì a noi religiosi da esempio per le nostre stesse comunità, anche se molto merito lo si doveva alle numerosissime suore che contribuirono a far comprendere al popolo come vivere concretamente il Vangelo. Ricordo una comunità di contadine indigene del Guatemala, quasi tutte analfabete: ascoltavano la proclamazione della Parola di Dio e dopo una pausa di silenzio ognuna poteva condividere cosa significavano per lei e per la sua comunità le parole appena lette. Tutte, indistintamente, intervenivano ricordando esattamente quello che era stato letto e lo applicavano con facilità impressionante alla loro situazione. E lo facevano con brevità ed essenzialità. Ricordo che una signora concluse: «Questo vuol dire che Gesù è qui, in mezzo a noi e conosce e condivide la nostra storia». In Brasile le comunità delle zone rurali potevano contare sulla presenza del sacerdote solo due o tre volte l’anno. Le immense estensioni delle parrocchie disponevano spesso di un solo sacerdote. Chi manteneva e coltivava le comunità cristiane erano le comunità organizzate con leader appositamente preparati per la loro guida. Una volta mi sono trovata in una zona rurale un po’ impervia nella zona di Rio de Janeiro, di domenica: non c’era il prete per celebrare la Messa, ma c’era riunita la co- munità cristiana per la celebrazione della Parola e per ricevere la santa Comunione. Quel giorno l’organizzazione di tutto toccava al gruppo delle pre-adolescenti. Bambine perfettamente istruite sul da farsi preparavano l’altare, distribuivano le letture, impegnavano il ministro dell’Eucaristia, distribuivano i libri e intonavano i canti, di fronte ad una assemblea perfettamente ordinata e silenziosa. Capaci di creare condivisione della Parola di Dio, ottima gestione del tempo e una serietà commovente. In un’altra zona invece era un vecchio contadino cristiano che dirigeva il tutto e dopo la celebrazione dava consigli, organizzava i corsi per la preparazione al battesimo o al matrimonio, distribuiva i compiti. Nel centro della città di Rio vi erano e vi sono delle belle chiese antiche. Entrando in una di esse, una volta, in un giorno di festa, osservai i bellissimi banchi con inginocchiatoi e sedili imbottiti e rivestiti di vera pelle: Nella favela del Morro do Ceu la piccola cappella la domenica straripava di gente E fuori ve ne era altrettanta che partecipava dalle finestre la chiesa quasi deserta. Al contrario, nella favela del Morro do Ceu la piccola cappella la domenica straripava di gente e fuori ve ne era altrettanta che partecipava alla Messa dalle finestrine. La gente al momento della proclamazione della Parola di Dio prendeva la parola e commentava fino a quando il sacerdote invitava a continuare la Messa che durava oltre un’ora. All’ora del saluto della pace, la gente si rivolgeva a me sorridendo: «Da dove viene?», «Da Roma» rispondevo, «Sia la benvenuta nella nostra comunità» e tutti mi davano un bacio. Qualche tempo dopo a Roma, prima del Natale, la nostra comunità decise di invitare i vicini di casa per una preparazione spirituale insieme. Vennero varie persone, tutta gente educata e di un certo livello sociale. Preparammo una paraliturgia con la lettura biblica. Il testo era quello, prettamente natalizio, della visita di Maria a santa Elisabetta. Cercammo di creare un po’ di atmosfera e cominciammo a invitare la gente presente a condividere le loro impressioni sul Vangelo appena ascoltato. Dopo un lungo silenzio durante il quale nessuno prendeva la parola, un signore, medico chirurgo molto bravo, finalmente parlò: «Sa, suora — disse — io non sono proprio d’accordo che le donne leggano la lettura biblica in Chiesa». Ci volle molto tempo per riportare il gruppo al tema principale, perché si creò una discussione. Infine ritornammo al Vangelo e una signora — colta ed erudita, aveva studiato dalle suore — disse: «Io veramente non capisco una cosa: ma quando si va a visitare una persona, come Maria ad Elisabetta, si sta lì sei mesi? A fare che?». Non riuscimmo a dire niente. Era davvero una tragedia. Sì, ha ragione Gesù quando dice: «la buona novella è annunciata ai poveri… e beati i poveri di spirito». La buona nuova del concilio Vaticano II, è stata accolta e vissuta soprattutto dai “poveri”. Applicare terapie innovative su pazienti attuali a beneficio di quelli futuri significherebbe trasformare il malato da fine a mezzo basarsi sull’entità e la probabilità di rischi, anziché su una teorica distinzione tra ricerca e pratica. Alcuni ricercatori hanno recentemente pubblicato nella rivista «Bmc Medical Ethics» un utile strumento a questo proposito. Lo strumento consiste in una sorta di questionario elettronico finalizzato a identificare i possibili rischi per chi partecipa a una ricerca/pratica e, conseguentemente, a stabilire se sia necessaria una valutazione etica. Lo strumento è composto da venti argomenti suddivisi in cinque aree, che includono anche rischi che non incidono direttamente sull’integrità della persona, come, ad esempio, indebiti sfruttamenti commerciali. La proposta è utile, ma merita alcune considerazioni. Il lettore è avvertito: dopo le considerazioni, non troverà la soluzione per poter rispondere alla domanda iniziale. Infatti, una risposta definitiva probabilmente non c’è. In primo luogo, è evidente che il dubbio sulla distinzione tra pratica clinica e sperimentazione non si pone quando non è disponibile alcuna terapia validata oppure, nel caso opposto, quando l’efficacia della terapia è comprovata da un lungo uso in un’ampia popolazione. Un esempio del primo caso sono i diversi trattamenti non (ancora?) validati utilizzati per cercare di curare persone colpite dal virus Ebola. Un esempio del secondo caso sono gli antibiotici contro specifici batteri. Una seconda considerazione riguarda il dovere di informare i pazienti, affinché essi siano consapevoli se il trattamento loro proposto consista in una pratica consolidata oppure in un’innovazione che si intende sperimentare. Nel 1982 Paul Appelbaum e alcuni altri autori coniarono l’espressione “fraintendimento terapeutico”. Essi notarono che i partecipanti a uno studio con farmaci psichiatrici, pur essendo stati informati della possibilità di ricevere un placebo, continuavano a credere che il medico avrebbe somministrato loro un farmaco attivo. Nel 2001, la National Bioethics Advisory Commission (Nbac) statunitense definì il fraintendimento terapeutico come «la convinzione che l’obiettivo primario di un trial clinico sia il beneficio del singolo paziente piuttosto che la raccolta di informazioni necessarie alla conoscenza scientifica». La commissione precisò anche che «il fraintendimento non consiste nel credere che i partecipanti probabilmente riceveranno buone cure mediche durante una ricerca. Il fraintendimento consiste nel credere che l’obiettivo del trial clinico sia la somministrazione di un trattamento e non la conduzione di una ricerca». Qui nasce una terza considerazione. Le sperimentazioni cliniche sono finalizzate a produrre conoscenze generalizzabili. Tuttavia, sperimentare su pazienti attuali con il solo fine di mettere a punto terapie per pazienti futuri costituirebbe una grave violazione dei fondamentali principi dell’etica: la persona diverrebbe un mezzo anziché un fine e sarebbe contraddetto l’imperativo categorico kantiano. È questo un requisito su cui concordano i più autorevoli documenti di etica medica, come, ad esempio, la Dichiarazione di Helsinki dell’Associazione medica mondiale. Nella Dichiarazione, infatti, si stabilisce che «sebbene lo scopo primario della ricerca medica sia quello di generare nuove conoscenze, queste non possono prevaricare sui diritti e gli interessi dei singoli soggetti coinvolti nella ricerca». Cercare di conciliare il beneficio del singolo paziente attuale con l’interesse per l’avanzamento delle conoscenze non è facile. Da decenni l’etica medica studia l’argomento. A questo proposito è utile anche ricordare che la distinzione tra “sperimentazione terapeutica” e “sperimentazione non-terapeutica” che si trovava nella versione iniziale della Dichiarazione di Helsinki (1964) fu mantenuta nelle versioni successive fino al 2000: nella versione adottata nel 2000 la distinzione fu abbandonata e furono inseriti alcuni “principi aggiuntivi per la ricerca medica associata alle cure mediche”. Il motivo è evidente: la sperimentazione deve sempre essere volta al beneficio del paziente (e quindi essere terapeutica). Da ciò scaturisce una quarta considerazione: quando una terapia è innovativa? Anche questo è un tema studiato da decenni. Già nei lavori della commissione statunitense che elaborò il Belmont Report (1979), Robert J. Levine proponeva di utilizzare l’espressione “pratica non validata” anziché “terapia innovativa”: la caratteristica qualificante, infatti, non è la novità, bensì la mancanza di validazione (cioè di dimostrazione della sicurezza e dell’efficacia). Alla luce di tutto ciò, il nuovo strumento pubblicato in «Bmc Medical Ethics» per valutare l’impatto etico delle “iniziative che generano evidenze” può risultare operativamente utile, ma occorrono alcune cautele. Due tra queste paiono particolarmente importanti. La prima: la valutazione etica deve includere molti aspetti e non è sufficiente valutare se una pratica sia rischiosa. La seconda: come afferma l’Institute of Medicine (Iom), «lo sviluppo e l’applicazione della conoscenza si costruisce in ogni stadio del processo di cura» e le procedure terapeutiche e sperimentali sono inserite in una cornice che l’Iom definisce learning healthcare system, dove pratica consolidata e innovazione si intrecciano. L’OSSERVATORE ROMANO mercoledì 8 luglio 2015 pagina 5 Nelle riflessioni del benedettino Massimo Lapponi L’era delle donne di LUCETTA SCARAFFIA pieno di spunti di riflessione nuovi e interessanti il libro di Massimo Lapponi, sacerdote benedettino dell’abbazia di Farfa. Eppure il titolo, affascinante ma generico, La luce splende nelle tenebre (Ariccia, Aracne, 2014, pagine 732, 32 euro), e la mole del volume non aiutano a trovare nell’abbondanza dei pensieri esposti una linea di lettura. Sarebbe stato meglio dividerlo in più volumetti, che avrebbero valorizzato l’originalità di un pensiero che fa toccare con mano come il punto di vista cristiano, quando è interpretato con rigore e libertà, possa essere culturalmente ricco e rivoluzionario. Due assaggi fra i mille che il È volume offre: l’osservazione che il diavolo, per tentare gli esseri umani e portarli lontani dal vero bene, deve usare i beni che esistono, che Dio ha creato, e che quindi sono veri. E quindi corre il rischio che, attraverso il contatto con questi beni, la preda gli sfugga. Lapponi fa l’esempio dei casi di sesso degradato, che però si aprono pur sempre a una possibilità di affetto, se non di amore, che può aprire le porte alla ricerca dell’amore più grande, quello di Dio. Quindi, anche l’essere umano che sta seguendo la strada di tentazione propostagli dal diavolo può, in realtà, trovare la strada della salvezza. L’altro pensiero nuovo che Lapponi propone è relativo alla costruzione dell’identità femminile, in quella che viene chiamata “l’era Uomo di teatro e di televisione giornalista e scrittore La sua vita è stata un pellegrinaggio alla ricerca della verità della fede delle donne”. Oggi le donne si offendono se vengono definite attraverso la loro dignità di spose e di madri: sospettano subito l’inganno e il tentativo di riportarle a uno stato di sottomissione. Ma questo non succederebbe se anche gli uomini fossero definiti dal loro status di mariti e padri: sono gli uomini — osserva Lapponi — che, cercando di impadronirsi del mondo attraverso il potere e la scienza, hanno scelto di definirsi solo attraverso i ruoli pubblici e di potere. Non ci dobbiamo stupire, quindi, se le donne oggi cercano di fare la stessa cosa. Sono questi solo due piccoli esempi di pensiero originale che offre la lettura del libro di Massimo Lapponi, a chi ha il coraggio di affrontare la mole un po’ disordinata degli scritti. È morto Franco Scaglia Avanti senza inerzia di MARIO BENOTTI crittore, giornalista, autore di teatro, uomo di televisione e di radio, dirigente Rai, personalità di spicco del mondo della cultura, presidente del Teatro di Roma: è stato tutto questo Franco Scaglia, morto il 6 luglio a Roma all’età di 71 anni. Ma è stato soprattutto un uomo la cui vita si è configurata come un pellegrinaggio alla ricerca della verità della fede. Chi scrive conobbe Scaglia alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, al Gr 1 della Rai. Era impegnato allora nella preparazione e nel montaggio di un documentario radiofonico per il premio Italia, dove nulla poteva essere essere lasciato al caso. In quell’occasione la professionalità, la cura dei dettagli nonché la capacità di comprendere le persone, e di scoprire e valorizzare i giovani talenti si manifestarono in tutta la loro evidenza. Doti che, del resto, hanno sempre caratterizzato la sua vita. Ligure di Camogli, aveva iniziato la carriera nel giornalismo. Come scrittore, i suoi primi lavori furono realizzati nell’ambito del romanzo sperimentale. Per quarant’anni ha lavorato alla Rai divenendone dirigente e cercando di portare — riuscendoci — un grande contributo culturale. Sua la rubrica culturale del Gr 1 Il Circolo Pickwick, fu coautore di Effetto notte, in onda su Rai Uno, di Casablanca su Rai Due, La biblioteca ideale e Il giardino di Oz su Rai Tre. In qualità di presidente di Rai Cinema promosse la valorizzazione per la televisione del grande patrimonio teatrale della Rai producendo uno dei tanti “cofanetti” che hanno caratterizzato gli anni in piazza Adriana. Il progetto, anche qui riuscitissimo, del “Viaggio” in Terrasanta, sempre per Rai Cinema, è stato condotto parallelamente ai suoi successi come scrittore, grazie al ciclo di romanzi sulle avventure di un frate, Padre Matteo, che impersonava il suo grande amico archeologo Padre Michele Piccirillo. Il primo di questi romanzi Il custode dell’acqua (2006) gli valse il premio Campiello. L’ultimo libro di questo filone è anche la sua ultima pubblicazione L’erede del tempo, del 2014. In mezzo, Nome in codice Gesù, e Il viaggio di Gesù, con il racconto del Cristo delle origini, la vita di allora ricostruita attraverso le parole degli studiosi in quella che sarebbe dovuta essere terra di pace S Perdita della memoria e nuove frontiere della medicina Proust non basterebbe di CARLO PETRINI ilosofia, letterati, psicologi, scienziati da sempre si interrogano sulle potenzialità e sulla fragilità della memoria. La memoria si perde o forse è l’accesso a essa che si blocca? Dimenticare è soltanto un fallimento della memoria oppure è anche un procedimento attivo, in cui si reprimono o scartano ricordi indesiderati? In anni recenti le neuroscienze hanno ottenuto successi straordinari. Non è azzardato affermare che una larga parte delle moderne neuroscienze sono nate dalla perdita di memoria di Henry Gustave Molaison. Il 25 agosto 1953 Henry, all’epoca ventisettenne, subì la parziale ablazione bilaterale degli ippocampi e delle amigdale, come terapia sperimentale contro una grave forma di epilessia di cui soffriva. L’intervento fu eseguito dal neurochirurgo William Beecher Scoville all’Hartford Hospital, in Connecticut. Scoville utilizzò una tecnica chiamata “aspirazione”: inserì una cannula in due fori del diametro di 3,8 centimetri praticati trapanando il cranio. L’operazione ebbe parzialmente l’effetto auspicato, ma con conseguenze devastanti: Henry perse la memoria. Dopo l’intervento il cervello di Henry dimenticava qualsiasi esperienza entro pochi secondi: era completamente annullata la memoria dichiarativa, cioè la capacità di ricordare ogni episodio biografico. Henry conservò, invece, la memoria non-dichiarativa, che riguarda capacità apprese senza consapevolezza: rimase, infatti, autonomo negli atti di rou- F tine quotidiana, come radersi, mangiare, lavarsi i denti. Il caso H.M. (così l’identità di Henry fu protetta fino alla morte, il 2 dicembre 2008) ha consentito ai neurologi di comprendere che i diversi tipi di memoria dipendono da diverse aree cerebrali e di studiare i meccanismi dell’apprendimento. Generazioni di neurologi hanno costruito la loro carriera studiando il caso. Suzanne Corkin, professore di neuroscienze comportamentali al Massachusetts Institute Of Technology (Mit) e autrice di Prigioniero del presente (Milano, Adelphi, 2015, pagine 432, euro 30), incontrò per la prima volta Henry per un’intervista nel 1962: all’epoca frequentava il Montreal Neurological Institute come dottoranda. Da allora, e fino alla morte di Henry, la neuroscienziata ed Henry passarono molta parte delle loro giornate insieme. Per Henry ogni visita era come un primo incontro: dopo essersi separati anche solo pochi secondi, Suzanne e Henry si ripresentava- Gregory Peck e Ingrid Bergman in una scena del film «Spellbound» (1945) nozioni apprese a scuola: ricordava la crisi di Wall Street del 1929, così come Pearl Harbor. I ricordi erano, però tra loro scollegati, senza connessioni e senza un contesto. Due esperienze personali, che Henry ripeteva molto spesso, erano, invece, memorizzate con dettagli precisi e circostanziati. La prima era il furto, a suo padre, di una sigaretta Chesterfield, che poi fumò e che lo fece tossire. La seconda riguardava un volo di mezz’ora su un aereo monomotore Ryan quando aveva tredici anni. Le due esperienze, una negativa e una positiva, avevano suscitato in Henry emozioni molto forti, coinvolgendo molteplici sensazioni, ed erano localizzate in varie aree del cervello. Suzanne Corkin mostra come Henry conservasse la sua personalità, fosse collaborativo nel partecipare agli studi svolti su di Suzanne Corkin del Mit racconta lui, si dichiarasse contento di poter i suoi quarantasei anni di incontri contribuire all’avancon Henry Gustave Molaison zamento delle conoscenze scientifiche. vittima nel 1953 di una lobotomia Henry era anche dotato di una buona intelligenza, aveva no come se non si fossero mai co- capacità di dialogo e senso dell’umorismo. Per esempio, parnosciuti. Henry, tuttavia, ricordava le tecipò a uno scherzo che un’assiesperienze anteriori al 1953, rico- stente di Corkin fece a un dottonosceva i suoi genitori e aveva rando: approfittando del fatto una buona conoscenza lessicale. che Henry riusciva a ricordare un Era incapace di immagazzinare poco più a lungo informazioni rinuove informazioni, ma ricordava petute ininterrottamente, l’assistente disse a Henry che la persona che sarebbe entrata per somministrargli un test si chiamava John e gli chiese di dire al momento dell’ingresso: «Oh, ciao, John», fingendo così di riconoscerlo. Dopo qualche minuto di esercizio, Henry recitò egregiamente la sua parte e rise di gusto, con l’assistente, vedendo il volto di John sbiancarsi per lo stupore. Henry non era mai triste o depresso. In questo senso l’amnesia fu per lui non solo una prigione, ma anche una liberazione. Il libro è, allo stesso tempo, il resoconto di uno studio e una biografia. Fino al caso H.M. si credeva che la memoria fosse una capacità dell’intero cervello. Henry ha fornito la prova causale Salvador Dalì, «La persistenza della memoria» (1931) che una precisa regione situata in profondità nei lobi temporali è cruciale per convertire i ricordi a breve termine in ricordi durevoli. Henry ha voluto che il cervello, dopo la morte, fosse donato al Mit. Dopo essere stato diviso in 2.401 sottili sezioni, il cervello è tuttora oggetto di studio. La narrazione di quarantasei anni di incontri tra Suzanne e Henry suscita nel lettore emozione e simpatia. Non si può, però, dimenticare ciò che avvenne prima: il brutale esperimento di cui Henry fu vittima. Data la gravità dell’epilessia e l’impossibilità di controllarla, Scoville ritenne Henry un buon candidato per una “terapia” che in seguito avrebbe definito «un’operazione francamente sperimentale». All’epoca i fautori della psicochirurgia erano non solo numerosi, ma anche nomi tra i più prestigiosi della psichiatria accademica. In particolare, dagli anni trenta fino alla metà degli anni cinquanta, la lobotomia frontale era ritenuta la soluzione più adatta per curare gravi malattie psichiatriche: i fautori della lobotomia sostenevano che i rischi fossero giustificati dalla possibilità di salvare pazienti altrimenti incurabili. Tuttavia, alla luce degli effetti devastanti di quelle operazioni, è difficile comprendere come si sia arrivati a eseguirle. Jeanine Meerapfel presidente dell’Accademia delle arti Da Buenos Aires a Berlino «Dopo trecento anni, forse era il momento giusto» ama dire Jeanine Meerapfel, prima donna chiamata a guidare l’Akademie der Künste, l’Accademia delle Arti di Berlino, ai giornalisti che le chiedono di commentare la sua elezione, avvenuta il 30 maggio scorso. L’Accademia è stata fondata nel 1696 dal principe elettore Federico I di Prussia con l’intento di promuovere la cultura e far dialogare mondo della politica e mondo degli artisti. Dopo oltre tre secoli, la mission dell’istituzione non è cambiata. Vice della nuova presidente è la scrittrice e drammaturga Kathrin Röggla. Nata a Buenos Aires nel 1943, in una famiglia di ebrei tedeschi fuggita in Argentina prima della seconda guerra mondiale, Jeanine Meerapfel ha studiato nella scuola di giornalismo della sua città e ha lavorato per vari giornali argentini prima di trasferirsi a Ulm, in Germania, nel 1964 per studiare cinema. Per anni critica cinematografica, nel 1981 gira il suo primo lungometraggio, Malou, che vince il premio Fipresci a Cannes, seguito da un’altra dozzina di film. ma che si è trasformata in un luogo di conflitto infinito. La traccia del Viaggio di Gesù gli diede lo spunto per il Giardino di Dio, con il grande argomento del Mediterraneo, un’opera sulla storia «di uomini e di pesci» che fondendo ricordi personali, storia e spiritualità propone — con grande anticipo rispetto a quanto sarebbe poi avvenuto nella cronaca attuale — il Mediterraneo come culla della civiltà, centro del mondo, sede del mito e della fantasia, luogo in cui sono nate e si sono sviluppate le tre grandi religioni monoteiste. Dai Fenici ai migranti di oggi, Scaglia racconta e interpreta il movimento di viaggiatori che spostandosi da una costa all’altra, ha prodotto una fitta rete di scambi di sapere, cultura e commerci fino, purtroppo, alle guerre contemporanee. In questo suo lavoro e in questo suo costante pellegrinaggio nei luoghi di Terrasanta, Scaglia ebbe grande attenzione per i frati francescani. Cercava Gesù e, nel suo pellegrinaggio fra gli uomini, lo raccontava partendo dalla storia e dall’attualità: i temi che riguardano da vicino il mondo di oggi, l’importanza dell’altro, la carità, lo sviluppo economico che troppo spesso viene fatto coincidere con la felicità, la perdita della pietas che colpisce soprattutto i più deboli, i labirinti della solitudine sono il tessuto connettivo di Cercando Gesù, scritto insieme a monsignor Vincenzo Paglia, con cui aveva già composto In cerca dell’anima – Dialogo su un’Italia che ha smarrito se stessa. Scaglia approfondisce, per combatterlo, il tema dell’inerzia, partendo allora da un discorso di Benedetto XVI in cui veniva formulato l’invito a ripensare certi paradigmi economici e finanziari dominanti negli ultimi anni per andare incontro alle esigenze della solidarietà e del rispetto della dignità umana. «Se ciò non accade — scriveva Scaglia — sopravviene una malattia che si trasforma presto in una epidemia e che ha un nome semplice e apparentemente innocuo ma in realtà brutale, l’inerzia appunto, l’epidemia che ha colpito il Belpaese afferrandone le coscienze ancor prima delle menti». Sul suo tavolo sono rimasti i manoscritti dei capitoli del lavoro cui aveva appena messo mano. A noi, dopo tanti anni di frequentazione, lascia quel grande vuoto tipico di chi sa consigliare senza giudicare, invitando a guardare avanti. Sempre avanti. Senza inerzia. Proseguendo il pellegrinaggio. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 venerdì 26 giugno 2015 Quindici anni fa veniva sequenziato il genoma umano Ossessione da controllo È morto Silvano Fausti La liberazione del giudicare di SILVIA GUIDI «Noi diventiamo le parole che ascoltiamo»: è uno dei tweet con cui Francesco Occhetta ha ricordato Silvano Fausti — gesuita come lui, suo maestro e soprattutto amico — dopo la morte, avvenuta nella mattina del 24 giugno, festa della nascita di san Giovanni Battista, l’ultimo dei grandi profeti d’Israele. «Mi aveva fatto innamorare della Parola» continua Francesco Occhetta su twitter, e in tanti gli hanno fatto eco sui social network, la bacheca virtuale del nostro tempo, tanto iperconnesso e ricco dei contenuti più disparati quanto povero di voci davvero originali. Una sorta di salotto letterario allargato in cui ognuno può lasciare il suo messaggio, senza filtri o precondizioni, e soprattutto senza previi attestati di idoneità o di avvenuta omologazione, come vorrebbero molti sedicenti maîtres à penser per i quali in teoria siamo tutti uguali ma forse qualcuno — a causa di un cursus honorum particolarmente brillante, delle tante comparsate televisive e dei molti, moltissimi libri venduti — è un pochino più uguale degli altri. Ma torniamo alla figura di padre Silvano Fausti — lui sì, davvero, un padre e un maestro del pensiero, cristiano e non, serenamente immune dal rischio di atteggiarsi a venerata auctoritas grazie a una letizia evangelica profonda e contagiosa, tenacemente custodita nel corso degli anni come il bene più prezioso — senza perdere tempo nelle pastoie della polemica. In molti hanno sentito il bisogno di esprimere tutta la loro gratitudine per libri come Occasione o tentazione? Scuola pratica per discernere e decidere (l’ultima edizione è del 2005), un “manuale di cammino” che attinge alle tradizioni più antiche e collaudate del patrimonio culturale cristiano per insegnare la difficile arte del discernimento. Fausti, in questo libro come in molti altri scritti, con un linguaggio semplice e di CARLO PETRINI ono trascorsi quindici anni dal 26 giugno 2000, quando Bill Clinton e Tony Blair annunciarono che, dopo anni di lavoro, con il Progetto Genoma Umano si era ottenuto il sequenziamento completo del genoma umano. Una buona dose di enfasi nell’annuncio contribuì a suscitare nel mondo intero entusiasmo (e qualche sovraeccitamento). I due politici paragonarono il risultato a «una svolta che porta l’umanità attraverso una frontiera in una nuova era», a un «trionfo epocale della scienza e della ragione», a una rivoluzione scientifica: come Galileo Galilei trovò «il linguaggio con cui Dio ha creato l’universo», così ora la genomica permette di conoscere «il linguaggio con cui Dio ha creato la vita». Sebbene, in realtà, il sequenziamento non fosse ancora completo — mancava circa il 10 per cento, il tasso di errori era molto elevato e vi erano oltre 150 mila “buchi” — l’esaltazione nell’annunciare il risultato conseguito dal Progetto Genoma Umano fu anche motivata dall’intenzione di sminuire lo smacco subito sei mesi prima: il 10 gennaio dello stesso anno il multimiliardario John Craig Venter, proprietario della Celera Genomics (a Rockville), aveva annunciato di aver sequenziato, nei suoi laboratori, oltre il 90 per cento del genoma umano, con tempi e costi assai più contenuti rispetto al progetto di ricerca scientifica internazionale. Il Progetto Genoma Umano fu proposto nel 1986; fu approvato dal Congresso statunitense nel 1988 per una durata di quindici anni a partire dal 1991, con un costo stimato di tre miliardi di dollari e il S coinvolgimento di diciotto istituti di ricerca nel mondo. Venter annunciò l’avvio della sua ricerca nel 1999 e ottenne il risultato con un investimento tre volte inferiore. Il sequenziamento portò alcune sorprese. Per esempio si appurò che il genoma umano è composto da circa 30 mila geni (mentre le stime precedenti erano comprese tra 80 mila e 150 mila). In particolare, sollecitò gli interessi verso la medicina personalizzata. Venter sequenziò il suo proprio genoma e pubblicò la mappa completa dei suoi 23.224 geni, venendo a conoscenza — e con lui il mondo intero — che alcuni polimorfismi potrebbero renderlo suscettibile al comportamento antisociale, all’alcolismo, alla coronaropatia, all’ipertensione, all’obesità, all’insulino-resistenza, all’ipertrofia del cuore sinistro, all’infarto acuto del miocardio, al deficit di lipasi lipoproteica, all’ipertrigliceridemia, all’ictus e alla Un paesaggio islandese malattia di Alzheimer. Al momento, però, Venter gode di ottima salute. L’evoluzione nelle tecniche è stata travolgente: oggi chiunque, rivolgendosi a una delle tante ditte commerciali che si sono lanciate nel business, con un migliaio di dollari può ottenere, in circa una settimana, il sequenziamento com- pleto del genoma personale. Giuseppe Remuzzi, medico e scienziato di fama internazionale, nel 2014 lo ha fatto. Dopo aver ricevuto una relazione con la descrizione delle 172.115 varianti del suo genoma, di cui 15.459 rare e 83 potenzial- Il Journal of Medical Ethics nel 1994 si domandava se la screeningite fosse una malattia curabile Oggi l’epidemia pare dilagante mente predisponenti per alcune patologie — tra cui osteoartrite, calcolosi della colecisti, degenerazione maculare — ne ha tratto un’unica conseguenza: «Saperlo è stato inutile, ma ho cominciato a muovermi e a controllare quello che mangio». Occorre, infatti, essere consapevoli delle profonde differenze tra i vari tipi di test genetici. Mentre i test diagnostici riguardanti patologie che si trasmettono con il modello dell’eredità semplice sono precisi ed efficaci, dai test di analisi genomica globale derivano risultati assai incerti e di dubbia utilità clinica. Poco prima del quindicesimo anniversario dell’annuncio del (quasi) completamento del Progetto Genoma, un altro importante evento ha richiamato l’attenzione sull’interesse degli studi sul genoma non solo ai fini della medicina personalizzata, ma anche per studi di popolazione: nel numero di maggio di «Nature Genetics» sono pubblicati quattro studi (che erano già stati anticipati il 27 marzo) effettuati dal gruppo DeCode Genetics, a Reykjavík, sul genoma della popolazione islandese. Alcune caratteristiche rendono la popolazione dell’Islanda particolarmente adatta per studi di genomica: i 322 mila abitanti discendono da un unico piccolo gruppo insediatosi sull’isola circa mille anni fa; non vi sono stati significativi fenomeni di immigrazione; grazie alla tradizionale passione per le genealogie sono disponibili grandi alberi genealogici che coprono un intero millennio, e in particolare un ampio database chiamato Íslendigabók (libro degli islandesi). Tutto ciò spinse il Parlamento islandese ad approvare, il 17 dicembre 1988, una legge che autorizzò la raccolta e l’elaborazione dei dati sanitari e genetici dell’intera popolazione dell’isola con un meccanismo di consenso presunto: al cittadino non viene proposto di esprimere il consenso, ma gli si dà la possibilità di chiedere di essere escluso. Inoltre, venne attribuito a una compagnia privata (Íslensk erfðagreining, legata a DeCode Genetics) l’onere di sostenere i costi di costruzione dell’infrastruttura, con annesso il diritto esclusivo di licenza nella raccolta, nel trattamento, nell’impiego a scopo di profitto dei dati. Gli studi ora pubblicati si basano sul sequenziamento completo del genoma di 2636 islandesi e sul confronto con una sequenza parziale del genoma di altri 104.220 abitanti dell’isola. Ne è derivata una grande mole di informazioni non solo sulle caratteristiche genetiche della popolazione islandese, ma anche, più in generale, sul genoma umano. Inclusa la presunta identificazione di un unico antenato dell’attuale specie umana, risalente e 290 mila anni fa. Consenso, utilità clinica, proprietà dei dati, eventuale sfruttamento commerciale, utilizzo dei campioni biologici sono soltanto alcune delle domande su cui ci si interroga. Ventuno anni fa il «Journal of Medical Ethics», analizzando il dilagante utilizzo — e spesso abuso — di screening di vario tipo, si domandava anche se la “screeningite” fosse una malattia curabile. Oggi l’epidemia pare dilagante. Il Quirinale aperto al pubblico di LOUIS GODART tanti esempi concreti aiuta il lettore a vedere la differenza tra piacere apparente e gioia autentica, fra tristezza positiva e negativa, e propone esercizi per allenarsi a vivere nel modo più pieno e consapevole possibile due dei doni più grandi che Dio ha fatto all’uomo: la libertà e una ragione che non ha paura di misurarsi con tutto (ma proprio tutto) quello che entra nel raggio dell’esperienza. «Conosco Fausti da tanti anni — scrive un lettore in un forum in Rete su Occasione o tentazione — a casa ho molti dei suoi testi e ho ascoltato molte lectiones sui Vangeli, disponibili gratis su internet. Questo testo è da leggere e rileggere, da custodire gelosamente tra le cose più care, da regalare agli amici più veri. Tratta del discernimento, indispensabile per entrare nella nostra coscienza e avere una vita spirituale. I chiarimenti, le introduzioni e le note a margine sono un distillato di saggezza, frutto sicuramente di anni e anni di riflessioni». Padre Fausti era nato nel 1940; per molti anni, dopo aver studiato filosofia e aver conseguito un dottorato in fenomenologia del linguaggio nell’università di Münster in Germania, ha insegnato teologia. Da trent’anni viveva in una cascina alla periferia di Milano, Villapizzone, con una comunità di gesuiti dediti al servizio della Parola, che aveva collaborato a fondare, inserita in una comunità più ampia di famiglie; è stato, con grande discrezione, il direttore spirituale del cardinale Martini. Tra i suoi libri più noti, la serie «Una comunità legge» sui Vangeli, una sorta di guida spirituale a partire dalla lectio divina della Bibbia. «Se la divisione è morte, la differenza è vita», ripeteva padre Fausti. «L’omologazione non è unione che aumenta la vita, ma confusione che la toglie. Un omogeneizzato di uomo non è più un uomo. Che rispetto c’è delle differenze e dei diversi doni nelle comunità e nella Chiesa? Non c’è il pericolo di ridurre la sposa di Cristo, bella, senza rughe e senza macchie, a un frullato disgustoso?». I funerali saranno sabato 27 giugno nella chiesa di San Martino a Villapizzone. «Non so tu, ma a me interessa vivere» diceva spesso Fausti al suo interlocutore con il suo tipico sorriso franco e luminoso. «E si vive meglio, molto meglio passando da homo homini lupus a homo homini Deus». Per volontà del presidente Sergio Mattarella, il Palazzo del Quirinale, sede dell’auctoritas da quasi mezzo millennio, apre le sue porte al pubblico per 5 giorni a settimana. I cittadini d’Italia e del mondo potranno scoprire i tesori conservati nella residenza che ospitò trenta Pontefici, quattro sovrani ed è oggi sede della massima magistratura dello Stato repubblicano. Finora dodici presidenti hanno soggiornato in Quirinale. Gli spazi aperti al pubblico sono doppi rispetto al passato e comprenderanno tutto il Piano nobile, gli Appartamenti napoleonici con lo studio del capo dello Stato, la Vasella e le meravigliose collezioni di porcellane, il museo delle Carrozze con la galleria dei finimenti e il gabinetto storico dove sono conservate preziose bardature offerte ai Savoia da vari sovrani. Il pianoterra della Palazzina costruita da Mascarino su ordine di Papa Gregorio XIII nel 1583 è stato destinato a diversi spazi museali. Cinque sale sono allestite per consentire al pubblico di ripercorrere i quasi cinque secoli di vita del Palazzo del Quirinale attraverso i protagonisti della sua storia. È stato così deciso di allestire una sala dedicata ai Papi, una sala ai Savoia, una sala dove è ricostituito l’arredamento dello studio di re Vittorio Emanuele II, una sala consacrata ai presidenti della Repubblica. A queste quattro sale è stata aggiunta una sala che consentirà di visionare documenti legati alla storia risorgimentale tra cui il famoso telegramma di Garibaldi al sovrano con la parola «Obbedisco» e alcuni volumi di pregio appartenenti alla biblioteca del Palazzo. Grazie alla collaborazione fornita dai Musei Vaticani, dalla Pontificia Università Gregoriana, dal Museo e Galleria Borghese, dal museo di Palazzo Corsini e dal comune di Roma, alcuni prestiti di eccezionale valore arric- Schegge di storia chiscono l’ambiente consacrato alla presenza dei Pontefici nel Palazzo di Montecavallo. Il dipinto raffigurante Gregorio XIII Boncompagni di Bartolomeo Passerotti evoca il Pontefice che volle per primo trasferirsi durante i mesi estivi sul colle Quirinale; il busto di Paolo V Borghese, capolavoro di Gianlorenzo Bernini, rappresenta il Papa che ha segnato più di qualunque altro, durante il suo pontificato (1605-1621), la storia del Palazzo con le costruzioni dell’ala orientale e di quella meridionale; il ritratto di Urbano VIII Barberini di Guido Ubaldo Abbatini, i busti di Alessandro VII Chigi realizzato da Bernini e quello di Clemente XII Corsini di Pietro Bracci, il dipinto della Cappella Paolina di Tra gli spazi visitabili tutto il Piano nobile gli Appartamenti napoleonici lo studio del capo dello Stato E il museo delle Carrozze Agostino Tassi e il grande dipinto di Maratta raffigurante la Madonna e il bambino benedicente completano le opere esposte nella sala. L’apertura del Palazzo consentirà ai cittadini di scoprire antiche pagine di storia del Quirinale cadute nell’oblio come il «Corridore dei Papi» recentemente riportato alla luce con le mirabili pitture di Annibale Durante, Simone Lagi e Marco Tullio Montagna. Sisto V, Paolo V e Urbano volevano utilizzare l’intensa attività edilizia legata al proprio pontificato come potente la che Plinio il Giovane chiamava «L’immensa maestà dell’impero romano». La disastrosa campagna di Russia e la sconfitta a Waterloo impediranno all’imperatore di raggiungere Roma. Il quadro di Palagi, i saloni con le immagini dei dodici Cesari e con i grandi artisti e pensatori d’Italia e di Francia, il fregio di Bertel Thorvaldsen con l’ingresso di Alessandro Magno a Babilonia sono le schegge sopravvissute al naufragio dell’epopea napoleonica di cui le stanze del Quirinale serbano gelosamente la memoria. veicolo di propaganda e autocelebrazione. Nel «Corridore» aperto per la prima volta al pubblico, ecco l’immagine di San Leo, il paese marchigiano arroccato su uno sperone roccioso, che celebrava simbolicamente l’acquisizione del Ducato di Urbino da parte del Barberini; Pesaro e Senigallia a loro volta legate all’acquisizione del Ducato; Ancona altra città marchigiana che collega il Ducato acquisito con gli Stati della Chiesa; Nettuno, piccolo borgo marittimo sulla costa occidentale dello Stato della Chiesa fortificato da Urbano VIII; la cittadella di Ferrara, un altro dei forti ammodernati dal Papa; la chiesa di Santa Anastasia; il forte Urbano di Castelfranco presso Bologna; la chiesa di San Lorenzo a Prima Porta con l’arco romano sulla via Flaminia, primo simbolico approccio a Roma; due vedute dell’apertura della Porta Santa in occasione del giubileo il 24 dicembre 1624; la Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano voluta da Gregorio XIII ma restaurata da Urbano VIII; l’armeria vaticana costruita dal Papa nel 1625. Le sale napoleoniche consentiranno ai visitatori di comprendere i grandi progetti che Napoleone aveva per il Palazzo del Quirinale, del quale voleva fare la reggia del suo Il «Corridore dei Papi» a Palazzo del Quirinale impero e ripristinare quel- L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 lunedì-martedì 1-2 giugno 2015 Nuovi modelli di valutazione prevedono studi sequenziali in cui ciascuna tappa può essere modificata sulla base della precedente Il metodo adattativo nella sperimentazione dei trattamenti Medicina personalizzata di CARLO PETRINI n nuovo modello di sperimentazione, definito “adattativo”, si sta affacciando nei centri di ricerca più avanzati. La diffusione è ancora limitata perché sono necessarie competenze molto specializzate. La Food and Drug Administration statunitense ha diffuso le U Newton Wells, «Young Boy Taking His Medicine» (XX secolo) prime linee guida per l’esecuzione di studi adattativi, ma al momento soltanto in forma di bozza. Le potenzialità, però, si rivelano già assai promettenti, soprattutto per la terapia di malattie rare. Lo schema classico finora utilizzato per verificare se un nuovo trattamento sperimentale sia efficace, pur con molte varianti, non è concettualmente diverso da quello che adottò sir Austin Bradford Hill nel 1947 per valutare l’efficacia della streptomicina contro la tubercolosi. Egli suddivise un centinaio di pazienti, ricoverati presso tre ospedali londinesi, in due gruppi. L’assegnazione ai gruppi avvenne in modo casuale, mediante buste sigillate nelle quali era indicata la terapia da somministrare. I pazienti di un gruppo ricevettero streptomicina, mentre gli altri pazienti ricevettero trattamenti ordinari già in uso. La valutazione delle lastre al torace, per verificare se le persone fossero guarite, fu effettuata da due radiologi ignari del trattamento ricevuto dal paziente e del giudizio dato dal collega. I risultati dello studio furono pubblicati il 30 ottobre 1948 nel prestigioso «British Medical Journal». Da allora, il modello classico della sperimentazione, per valutare se un nuovo trattamento sperimentale sia efficace, percorre un binario: si coinvolge un numero statisticamente adeguato di pazienti, si misura un indicatore di efficacia in gruppi di pazienti che ricevono trattamenti diversi, si analizzano i dati raccolti confrontando i gruppi. La maggior parte dei farmaci che, nel secolo scorso, hanno contribuito a un aumento delle aspettative di vita quale mai si era prima realizzato, sono stati messi a punto seguendo tale binario. Le nuove sperimentazioni adattative prevedono un percorso non più su un unico binario: una serie di scambi permette di modificare il tragitto lungo il percorso. Semplificando con non poche approssimazioni, si può dire che sono adattative le sperimentazioni in cui si utilizzano i dati accumulati durante lo studio per modificare alcune caratteristiche dello schema dello studio stesso, In altre parole, le sperimentazioni adattative sono studi sequenziali in cui ciascuna tappa può essere modificata sulla base della tappa precedente. A seconda del tipo di studio gli adattamenti possono essere, per esempio: interruzioni precoci dello studio, aumenti o diminuzioni della numerosità del campione, variazioni nella dose di farmaco somministrato, modifica dei criteri con cui i pazienti vengono selezionati per essere ammessi allo studio. Gli adattamenti devono essere il più possibile previsti in anticipo. Dietro questi concetti, apparentemente semplici, vi sono, in realtà, elaborazioni molto complesse. Ovviamente gli adattamenti non devono compromettere la validità e il valo- Messa di Morricone In croce «È una croce che suona, non mi risulta che esistano precedenti: i due corni con due melopee diverse, poi la tromba che fa un suono sommesso, leggero, e la verticalità dell’orchestra. Alla fine prende forma la croce e si creano dodici suoni diversi, come i multipli di tre. Ho scritto pensando alla Trinità». È quanto rivela Ennio Morricone in una intervista concessa a Valerio Cappelli sul numero del 31 maggio della «Lettura», l’inserto del «Corriere della sera». Il 10 giugno, nella Chiesa del Gesù a Roma, continua l’articolo, «Morricone dirigerà in prima mondiale la Missa Papae Francisci. È l’omaggio a Papa Francesco di un laico che ha avuto un’educazione cattolica, che non va a messa, che da giovane stringeva il rosario per i morti della guerra; è l’omaggio ai duecento anni dalla ricostituzione dell’ordine dei gesuiti, quello di Francesco, con un lieve ritardo — l’anniversario cadeva lo scorso anno — dovuto a un problema di salute di Ennio: tutto superato. Ma la dedica comprende anche la compagna di una vita, Maria, la moglie del grande compositore». re dello studio. Per validità si intende la solidità metodologica e, in particolare, il fatto che l’inferenza statistica sia corretta e che sia preservata la coerenza tra le differenti tappe dello studio. Il valore implica che i risultati siano considerati accettabili dalla comunità scientifica e utili per l’avanzamento delle conoscenze. Molte componenti non sono prevedibili a priori E questo rende più difficile per i comitati etici esprimere ex ante un parere rigoroso Il modello adattativo può offrire vantaggi sia per il paziente, sia per il ricercatore. Per esempio, se ci si accorge che alcuni tra i pazienti, ai quali viene somministrata una nuova terapia sperimentale, non ricavano alcun beneficio dal trattamento, è inutile — anzi, eticamente inaccettabile — proseguire quel tipo di trattamento. Ciò può accadere, per esempio, in alcune malattie oncologiche, dove uno stesso farmaco è efficace per alcuni pazienti, ma non per altri. Con il modello adattativo, quindi, si possono sviluppare terapie specifiche per piccoli gruppi di pazienti, a differenza di molti dei farmaci finora sviluppati, che hanno un ampio spettro di azione e possono essere utilizzati su popolazioni eterogenee. Gli studi adattativi, pertanto, possono essere considerati uno dei modi con cui la medicina moderna tende a una sempre maggiore personalizzazione. Tutto ciò merita attenzione per le potenzialità cliniche, ma anche perché ha, sotto il profilo dell’etica, implicazioni rilevanti, che è opportuno siano note ai cittadini. Due tra tali implicazioni possono essere particolarmente interessanti per i pazienti e, più in generale, per i cittadini. La prima è espressa, per esempio, nella rubrica “punto di vista” del «Journal of the American Medical Association»: Rieke Van der Graaf, insieme ad altri esperti, fa notare che negli studi adattativi «i pazienti che entrano più tardi nella sperimentazione probabilmente avranno un beneficio maggiore». In realtà ciò è insito in qualsiasi progresso della scienza medica: i pazienti successivi beneficiano sempre delle conoscenze ottenute trattando pazienti precedenti. Tuttavia, il problema è più acuto nel caso degli studi adattativi, perché i pazienti che partecipano alle prime fasi potrebbero non essere sufficientemente consapevoli del fatto che i pazienti che partecipano alle fasi successive potrebbero essere avvantaggiati. Questo aspetto è collegato anche al problema, più generale, della validità del consenso informato: poiché negli studi adattativi non tutto è rigidamente programmato a priori, vi è il rischio che si chieda ai pazienti di esprimere un consenso vago e generico. Una seconda implicazione riguarda i comitati etici, che hanno la responsabilità di autorizzare le sperimentazioni. Per la valutazione degli studi classici, pur essendo sempre possibili imprevisti, i comitati etici dispongono di precise informazioni sull’intera pianificazione degli studi. Per gli studi adattativi, invece, molte componenti dello studio non sono prevedibili a priori. È quindi più difficile, per i comitati etici, esprimere a priori un parere rigoroso. La nuova «Oasis» di MARIA LAURA CONTE Un dialogo aperto con l’islam Venezia, giugno 2004: al primo incontro del comitato scientifico internazionale di «Oasis» sono presenti il vescovo di Tunisi, Maroun Elias Nimeh Lahham, l’arcivescovo greco- libri e gli account sui social network; melchita di Aleppo, Jean-Clément l’orizzonte della ricerca si è allargato Jeanbart, il vescovo di Islamabad, fino a scegliere come sottotitolo «criAnthony Lobo, per citare solo alcuni stiani e musulmani nel mondo globadei numerosi ospiti giunti da Oriente le», a rimarcare la loro rilevanza cule Occidente per rispondere a un in- turale reciproca. Ma ancora non basta: le circostanvito. Lavoriamo insieme per produrre una rivista plurilingue che possa es- ze storiche attuali, incalzanti, se da sere strumento di supporto culturale un lato confermano l’intuizione oriper le comunità dei cristiani che vi- ginaria, dall’altro chiedono un passo vono in Paesi a maggioranza musul- in più. Lo spiegano drammaticamenmana. Un invito a rispondere a una te le vicende che hanno segnato alcudomanda concreta, espressa dai pa- ni dei presenti a Venezia in triarchi e vescovi delle Chiese orientali, non esercizio intellettuale astratto. «Quale soggetto e strumento espressivo — rilevò il cardinale Angelo Scola in quella circostanza — “O asis” può in qualche modo favorire la nascita di un soggetto comunionale (...) e aiutarci ad affrontare il fenomeno “musulmano”. Nello stesso tempo, tale strumento potrà educare i battezzati che vivono in Paesi tradizionalmente cristiani a incontrare i musulmani e gli uomini delle altre religioni che, ormai numerosi, vivono in Europa e nelle Americhe». Giugno 2015: «Oasis» ha sede a Venezia e Milano, la rete del comitato scientifico si è ampliata e può contare sulla presenza di alcuni intellettuali musulmani accanto a personalità ecclesiastiche e del mondo accademico. Alla rivista si è affiancata Devastazioni nella città siriana di Aleppo una newsletter, una serie di quell’estate di oltre dieci anni fa e dei loro Paesi: il Pakistan non riesce a uscire dalla spirale di odio che colpisce le minoranze non musulmane, la Tunisia di oggi ha poco in comune con quella di allora, essendosi aperta alla democrazia, mentre in Siria e Iraq i confini sono saltati per l’azione di Is. L’Aleppo di Jeanbart è oggi un campo di macerie di una guerra senza tregua. E sull’altro versante, quello occidentale, è evidente come le nostre società, sempre più plurali e “meticce”, sono attraversate da tensioni che chiedono di essere sciolte. Sollecitata da tutti questi dati, «Oasis» ha deciso di rinnovare forma e contenuto, che sempre si intrecciano: la rivista punta con più decisione su un tema monografico per offrire una maggiore unitarietà nella lettura dei processi storici in atto; indirizza la ricerca comune verso l’elaborazione di un giudizio culturale più esplicito, osando una lettura sintetica; infine accentua il metodo scelto all’origine di parlare “con” i musulmani e non solo “di” loro, che si è dimostrato negli anni molto fecondo. Le nuove scelte si documentano nel primo numero della nuova edizione (n. 21) che prende in esame la crisi che investe l’islam e tutte le realtà che ne sono a contatto. Europa e Occidente compresi. Il titolo, Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad, viene ben illuminato dall’espressione emblematica di uno degli autori di questo numero, Hamadi Redissi, che osserva: «Tutti parlano in nome dell’islam, ma non dello stesso islam; ognuno lo reinventa nel presente». Da semestrale la rivista può permettersi di accogliere le domande sollevate dalla cronaca, di non schiacciarsi sul presentismo e guardare indietro, alla storia degli ultimi secoli: come l’islam ha avviato una riforma che, rileggendo la tradizione, l’ha ammodernata ma anche ideologizzata, ponendo i germi del jihadismo che oggi si manifesta in uno spaven- Il 4 giugno Dopo venti numeri e dieci anni di vita, la rivista plurilingue semestrale «Oasis» esce il 4 giugno con copertina, formato e grafica rinnovati e con un nuovo editore, Marsilio. Il nuovo numero sarà presentato il 5 giugno a Milano dall’arcivescovo della città, il cardinale Angelo Scola, che è anche presidente di «Oasis», dal direttore del «Corriere della Sera» Luciano Fontana, dal direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio, da Roberto Rho, caporedattore della «Repubblica» di Milano, e da Shahrazad Houshmand, docente di islamologia alla Pontificia università Gregoriana. In questa pagina il direttore editoriale e della comunicazione della Fondazione Oasis riassume per L’Osservatore Romano le ragioni dell’operazione. toso nichilismo. E come ora, nello sforzo obbligato di rispondere all’incontro con la modernità, questo molteplice islam sia arrivato a un bivio decisivo, al centro del quale sta la questione “violenza”. Nella prima parte della rivista, “Temi”, una sequenza di articoli sviluppa da angolature diverse il titolo di copertina, con una più spiccata unitarietà rispetto al passato, tracciata da un breve editoriale in apertura di Martino Diez. Tra gli autori di questo numero di «Oasis» gli egiziani Sherif Younis e Wael Farouq, l’indiana Aminah Mohammad-Arif, l’iraniana Forough Jahanbakhsh, il marocchino Hassan Rachik, l’americano David Cook e il curdo Hamit Bozarslan. Segue la sezione “Classici”, del pensiero islamico e cristiano: estratti di al-Jâhiz e al-Ghazâlî, sul tema del dubbio come metodo utile, anche se non sufficiente, per raggiungere la certezza, e del grande islamologo Louis Gardet, che riflette sull’atto di fede nell’islam. Il foto-reportage da Erbil, racconto di viaggio e di incontri personali, offre un’ulteriore prospettiva sul tema guida del numero, mettendo a fuoco il volto delle vittime della deriva violenta dell’islam jihadista, in particolare i cristiani dell’Iraq. Infine chiude la rivista una rassegna di recensioni di libri e film offerte ai lettori che desiderano approfondire ulteriormente i temi offerti con nuove analisi e argomentazioni. La scelta del nuovo formato, più amico del digitale, ha ricevuto ulteriore impulso da un altro fattore: la volontà di favorire una diffusione più capillare nei Paesi del mondo musulmano, in Medio Oriente, Africa e in Asia, dove la versione su carta arriva con maggior fatica, e allargare così la rete di persone con cui attuare uno scambio effettivo. L’OSSERVATORE ROMANO giovedì 21 maggio 2015 pagina 5 Papi inesistenti di CARLO PETRINI e frodi nelle pubblicazioni scientifiche e l’integrità nella ricerca sono oggetto di crescente attenzione da parte non soltanto degli ambienti scientifici direttamente coinvolti, ma anche del pubblico. Il fenomeno delle frodi nelle pubblicazioni scientifiche occupa spazi crescenti nella stampa ed è stato recentemente oggetto di una raccolta di articoli pubblicati su «Le Monde». Molte sono le modalità con cui si realizzano frodi, e in particolare: plagio, duplicazione di articoli già pubblicati, falsificazione nella paternità delle pubblicazioni (con esclusioni o introduzioni indebite di autori), falsificazione parziale o completa dei dati e dei risultati della ricerca. Quest’ultima modalità è particolarmente grave. Ogni anno centinaia di articoli scientifici vengono ritrattati, cioè giudicati non veritieri, dopo la pubblicazione. Le ritrattazioni sono frequenti anche nelle riviste scientifiche più prestigiose e nelle quali il controllo della qualità degli articoli proposti per la pubblicazione è (o pare essere) più rigoroso. Secondo dati (non falsificati!) pubblicati nella rivista «PLoS One», il 14,12 per cento dei ricercatori reputa che i colleghi abbiano falsificato dati (e il numero sale al 72 per cento se si considerano scorrettezze minori), ma sol- L Audrey Hepburn di fronte alla Bocca della verità in «Vacanze romane» (1953) tanto l’1,8 per cento ammette di aver falsificato dati. «Le Monde» cita vari casi recenti, ma il fenomeno delle falsificazioni non è nuovo nella storia della scienza. Non pochi casi hanno scosso per anni intere discipline. Si pensi, per esempio, al caso di Charles Dawson, che nel 1912 sostenne di aver trovato a Piltdown i resti dell’“anello mancante” tra la scimmia e l’uomo. L’Eoanthropus dawsoni (dal no- Le frodi nelle pubblicazioni scientifiche Se la competizione fra scienziati genera bufale non ha resistito alla vergogna e si è suicidato. Oltre le vere e proprie falsificazioni, sono possibili “ritocchi” per far propendere i dati verso ciò che l’autore vuole dimostrare. Anche questo non è un fenomeno nuovo. Nel 1993 James L. Mills pubblicò nel «New England Journal of Medicine» un gustoso articolo intitolato Data torturing. Complice nella “tortura” dei dati, mediante aggiustamenti Ogni anno centinaia di articoli per allinearli a ciò che il ricercatore intende dimostrare, vengono ritrattati cioè giudicati è la statistica. Nel 1954 lo non veritieri dopo la pubblicazione scrittore freelance Darell Huff pubblicò l’agile libretto E le ritrattazioni sono frequenti How to lie with statistics, poi anche nelle riviste più prestigiose tradotto in varie lingue (nel 2003 anche in cinese) e tuttora diffuso. L’edizione inglese ta continua. Uno dei motivi di ciò è la è stata venduta in oltre mezzo milione sempre più accesa competizione tra di copie. Anche la comunicazione scienziati. Le più clamorose falsificazio- scientifica può contribuire alle distorsioni. Ne tratta, per esempio, Tom Jefni hanno avuto esiti tra loro diversi. Il 17 giugno 2005 Woo Suk Hwang, ferson in un divertente libretto intitolascienziato sudcoreano già acclamato to Attenti alle bufale. Con toni sarcasticome eroe nazionale per suoi preceden- ci, l’autore dà consigli pragmatici ai riti studi, pubblicò in «Science» uno cercatori e ai comunicatori, come, ad studio con la descrizione della clona- esempio: «esagera il problema», «non zione di blastocisti umane per ricavar- mettere, ometti», «fai star bene i tuoi ne cellule staminali. complici», «pubblicizza la ricerca “giuA parte la violazione di principi di sta”». etica basilari, lo studio, potenzialmente Molte istituzioni scientifiche hanno dirompente per i possibili sviluppi, fu già da tempo reagito al fenomeno delle presto smascherato: i risultati di nove frodi scientifiche. Il dossier di «Le delle undici linee cellulari utilizzate Monde» riferisce alcune iniziative in erano falsi e anche nelle restanti due Francia, ma anche in altre nazioni si non vi era alcuna clonazione. Hwang si sono prese iniziative, per esempio medimise dai suoi incarichi, ma tuttora è diante la creazione di apposite strutture coinvolto in controverse ricerche. Per per il controllo del fenomeno. esempio, collabora con Shoukhrat MiNegli Stati Uniti, per esempio, nel talipov, uno scienziato russo che da 1992 fu istituito l’Office of Research tempo opera alla Oregon Health and Integrity. Dieci anni dopo il National Science University e che è ora impe- Research Council e l’Institute of Medignato in sperimentazioni di “sostituzio- cine adottarono il rapporto «Integrity ne mitocondriale”, cioè per la creazione in scientific research: creating an envidi embrioni con il Dna di tre “geni- ronment that promotes responsible tori”. conduct», che resta tuttora un’opera di Altri casi hanno avuto ben altra evo- riferimento. Il rapporto statunitense luzione. Si è dimostrato che l’“acquisi- contiene indicazioni operative sia per i zione di pluripotenza per stimolazione” singoli scienziati, sia per le istituzioni. (Stap), presentata dalla rampante ricer- Nell’Unione europea decine di istitucatrice giapponese Haruko Obokata zioni (tra cui varie italiane) hanno come un’innovativa tecnica per produr- adottato il Codice europeo per l’intere cellule staminali pluripotenti era fal- grità nella ricerca elaborato nel 2011 sa. La rivista «Nature» che il 30 gen- dalla federazione All European Acadenaio 2014 aveva pubblicato la ricerca, mies (Allea) e dall’European Science ha ritirato l’articolo. Yoshiki Sasai, un Foundation (Esf). Tutti i documenti noto scienziato coautore della ricerca, sull’integrità nella ricerca sono concorme dello “scopritore”) segnò gli sviluppi della paleoantropologia fino a quando, nel 1953, si scoprì che i resti erano una contraffazione, ottenuta combinando l’osso mandibolare di un orango con frammenti di cranio di un uomo moderno. In anni recenti, tuttavia, il fenomeno delle falsificazioni ha avuto una cresci- Ritratto di Shakespeare in vita È o non è? È lui o non è lui? Questo è il problema riguardo al presunto volto di Shakespeare contenuto in un libro di botanica di 400 anni fa: potrebbe essere l’unico ritratto del cigno di Stratfordupon-Avon realizzato quando era in vita. La scoperta è stata fatta dallo storico Mark Griffiths mentre stava lavorando alla biografia di John Gerard, uno dei pionieri della botanica, contemporaneo di Shakespeare. Il volume fu pubblicato nel 1598, quando l’autore di Amleto aveva 34 anni. Mark Hedges, direttore della rivista Country Life che pubblica il ritratto, ha affermato che si potrebbe trattare della «scoperta letteraria del secolo». (gabriele nicolò) di nell’affermare doveri di onestà, correttezza, obiettività, imparzialità, responsabilità. Dal 31 maggio al 3 giugno 2015 tali temi saranno oggetto della quarta conferenza mondiale sull’integrità nella ricerca, che si svolgerà a Rio de Janeiro. La seconda edizione si concluse il 24 luglio 2010 con l’adozione della Dichiarazione di Singapore sull’integrità nella ricerca. Nella Dichiarazione si enunciano quattro principi — onestà in ogni aspetto della ricerca, responsabilità nella conduzione della ricerca, cortesia professionale ed equità nel lavorare con altri, buona gestione della ricerca nell’interesse di terzi — e quattordici raccomandazioni. Se si assiste a un incremento sia del numero di frodi scientifiche, sia delle iniziative per contrastarle, non si deve dimenticare che, come si evince anche dai fatti descritti da «Le Monde», i due fenomeni sono correlati in molti modi: l’aumento nel numero di articoli scientifici ritrattati dipende anche dal miglioramento negli strumenti per identificare le frodi. Occorre considerare anche che il problema delle frodi scientifiche è stato, negli ultimi anni, alimentato anche dal proliferare di riviste open access, il cui contenuto è accessibile online senza abbonamento: infatti, non paga l’utente, bensì l’autore. Vi sono autorevoli e rigorose riviste open access, ma molti editori improvvisati pubblicano riviste open access finalizzate soltanto al profitto. Il 4 ottobre 2013 John Bohannon, Dal 31 maggio al 3 giugno si svolgerà a Rio de Janeiro la quarta conferenza mondiale dedicata all’integrità e alla responsabilità nella ricerca biologo e giornalista scientifico, descrisse nella prestigiosa rivista «Science» una sua esperienza. Firmandosi con l’improbabile nome di Ocarrafoo Cobange, e dichiarando di lavorare presso il Wassee Institute of Medicine (in realtà inesistente) ad Asmara, Bohannon aveva inviato a 304 riviste open access un articolo con dati inventati, carenze metodologiche ed errori linguistici (creati volontariamente traducendo il testo, con Google, dall’inglese al francese e poi nuovamente all’inglese). Ebbene: 157 riviste accettarono l’articolo. Il problema della corsa a pubblicare, nella quale tutti i ricercatori si affannano, è alimentato anche dalla “tirannia dell’impact factor. L’impact factor è un parametro con cui si misura la qualità delle pubblicazioni scientifiche. È utilizzato per valutare il curriculum (e determinare gli avanzamenti di carriera) dei ricercatori. La sua validità è, non a torto, oggetto di critiche. Il 29 luglio 2008 su «Genome Biology» fu pubblicato un divertente editoriale in cui si propone di misurare l’impact factor di Dio. Ebbene, il risultato è zero: infatti, Dio ha pubblicato un libro (anzi, una raccolta di libri) anziché un articolo, ha utilizzato una lingua diversa dall’inglese, non ha avuto peer-review e, soprattutto, l’esperimento non è ripetibile. Pubblichiamo quasi integralmente, in una nostra traduzione, un articolo uscito su «Abc» del 18 maggio scorso. «La difesa del capitalismo fa parte del nucleo della dottrina sociale della Chiesa?» si chiede provocatoriamente lo scrittore spagnolo, premio Planeta 1997, commentando alcuni recenti attacchi a Papa Francesco. In realtà, continua Prada, da settori neocon e filo-liberali si cerca di far passare tra i cattolici più distratti la convinzione che le dichiarazioni di Bergoglio su questioni sociali ed economiche sostengano tesi marxiste, diffondendo anche in questo modo un’immagine falsa del Pontefice. di JUAN MANUEL DE PRADA u capitalismo e dottrina sociale della Chiesa Francesco non ha detto nulla che sfidi il magistero dei suoi predecessori. Nella Rerum novarum Leone XIII già denunciava le ingiustizie della società capitalista, in cui «un piccolissimo numero di straricchi ha imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile». In modo ancora più incisivo, Pio XI affermava nella Divini redemptoris che il liberalismo S Lo scrittore spagnolo ha aperto la strada al comunismo, poiché l’«economia liberale» ha lasciato i lavoratori nel più grande «abbandono religioso e morale»; e nella Quadragesimo anno denunciava la concentrazione del denaro in poche mani e l’emergere di un «imperialismo internazionale del denaro», propiziato da una «supremazia economica» fondata sulla «bramosia di lucro», e sulla «sfrenata cupidigia del predominio». In modo analogo si pronunciarono Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. I settori neocon e liberaloidi, ignari di dottrina sociale cattolica, pretendono d’ingannare i cattolici distratti contrapponendo a Francesco la figura di Giovanni Paolo II, che presentano indecorosamente come un paladino del capitalismo. Ma nel magistero di Giovanni Paolo II troviamo una riflessione molto profonda sulla dignità del lavoro (Laborem exercens), un’invettiva contro le strutture di peccato su cui poggia un ordine economico assetato di potere e di denaro (Sollicitudo rei socialis), e un avvertimento clamoroso sui pericoli di un capitalismo senza freni (Centesimus annus). In questa ultima enciclica, Giovanni Paolo II denunciava l’emarginazione dei lavoratori, che in alcuni casi diventava uno «sfruttamento inumano», dovuto alle «carenze umane del capitalismo». Giovanni Paolo II inoltre asseriva qui che è «inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto “socialismo reale” lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica», e arrivava a utilizzare il concetto marxista di “alienazione” — pur dandogli un significato molto diverso — per riferirsi alla situazione che si genera quando l’economia si organizza «in modo tale da massimizzare soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, (…) si realizzi (…) come uomo». Per concludere affermando che un capitalismo «in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale» (ossia un capitalismo come quello che subiamo) non si può considerare un’«economia libera». E ricordava che la Chiesa deve mostrare sempre una «opzione preferenziale per i poveri». È quello che, in campo sociale ed economico, sta facendo Francesco. Alle tre o quattro lettrici che ancora ci sopportano consigliamo di non lasciarsi abbindolare dal canto delle sirene che cerca di contrapporre un inesistente Francesco “marxista” a un inesistente Giovanni Paolo II “paladino del capitalismo”. Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 07-MAG-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 22-APR-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 22-APR-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 10-APR-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 04-MAR-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 04-MAR-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 19-FEB-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 12-FEB-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati 12-FEB-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 29-GEN-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 Tiratura 09/2014: Diffusione: n.d. Lettori: n.d. 60.000 29-GEN-2015 Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 16-GEN-2015 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 04-GEN-2015 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 04-GEN-2015 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 17-DIC-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 17-DIC-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 giovedì 27 novembre 2014 La delicata gestione delle priorità nel trattare i pazienti Giusto equilibrio di ATTILIO NICORA L di CARLO PETRINI olto spesso la cura di malati — in presenza di una quantità definita di operatori sanitari, medicinali e posti di cura — non può essere rivolta a tutti, e soprattutto non nello stesso momento: si impone, quindi, una scelta, che prende oggi il nome di triage e che è un’operazione ovviamente molto discussa. Il termine triage deriva dal verbo francese trier, in uso dal XIV secolo con il significato di classificare o selezionare. La parola ebbe successo soprattutto in ambito militare: in questo contesto, l’origine del significato è attribuita al barone Dominique Jean Larrey, capo-chirurgo nell’esercito di Napoleone, che codificò uno dei primi sistemi di classificazione dei feriti sulla base della loro gravità (anziché della nazionalità, come in uso precedentemente). Una procedura di classificazione più formale in ambito militare fu definita dal chirurgo russo Nukolai Pirogov durante la guerra di Crimea: i soldati feriti venivano suddivisi in base a quattro livelli di gravità. Negli ultimi decenni il termine triage si è esteso ampiamente dal contesto militare a vari ambiti della medicina per indicare sistemi di classificazione dei pazienti in base all’urgenza, specialmente nei dipartimenti di emergenza e nel pronto soccorso. Ma i criteri della classificazione, e il fatto stesso di farla, possono es- o spunto del discorso dell’arcivescovo Montini del 12 settembre 1958, in occasione dell’inaugurazione della grande statua dorata della Madonna sopra l’Alpe Motta di Campodolcino, è certamente interessante, anche nell’attuale contesto storico e culturale europeo. L’idea era venuta pensando al fatto che nell’area dell’Alpe Motta, in sostanza nel cuore delle alpi centrali, esistono le sorgenti dei grandi fiumi che attraversano l’Europa: il Reno, il Danubio, il Rodano, i tre grandi fiumi che hanno anche largamente segnato la storia del continente. Lì si pensò di collocare una statua della Madonna, sotto il titolo di Nostra Signora d’Europa. L’arcivescovo Montini non solo s’impegnò a presenziare all’inaugurazione, ma addirittura mandò un messaggio a don Luigi Re, il grande patrono dell’iniziativa. Il messaggio [che pubblichiamo in questa stessa pagina] è più breve del discorso che poi fece, ma ugualmente interessante perché in un certo modo ne è la sintesi anticipata. Si tratta di una pagina singolarmente intensa, certamente segnata da qualche dimensione retorica, però carica di una grande e lirica passione. Dopo averlo annunciato, il 12 settembre l’arcivescovo salì effettivamente all’Alpe Motta e vi tenne un discorso più impegnativo, di cui mi limito a ricordare i tratti fondamentali. Montini spiega perché si è saliti in alto: afferma che da lì, dall’alto, dal centro delle alpi, si possono avere tre visioni che si dispongono su diversi piani: una “visione geografica” dei monti e delle valli, che nella prassi più consueta sono diventati purtroppo elementi di divisione, così che un popolo sta da una parte e uno dall’altra delle montagne, e i fiumi, talvolta, fan da confine invece M conosce infatti che il medico possa far correre un rischio al paziente che ha in cura per il maggior bene di altri. Nel secondo caso, la scelta è decisa collegialmente, non in condizioni di emergenza. In un molto noto articolo pubblicato in «The Lancet» un gruppo di autorevoli bioeticisti individuò, tra i possibili approcci all’etica dell’allocazione delle risorse, quattro modelli principali: trattare le persone egualmente; favorire chi è nelle condizioni peggiori; massimizzare il beneficio complessivo; privilegiare l’utilità sociale. Secondo gli autori, La sfida consiste nel tutelare insieme ciascun modello ha alcune caratteristiche pola salute di tutti sitive, ma nessuno è e il diritto di ogni persona pienamente soddisfacente. Pertanto, gli aualle cure basilari tori proposero un moOttimizzando le risorse dello alternativo, che essi definirono Complete lives system e che sere soggetti a critica: già nel «Ti- prevede cinque elementi: priorità ai me» dell’11 novembre 1974, si legge- giovani; prognosi (in termini di anva che triage è un «concetto ni di vita); massimizzazione del nucrudele che insegna che, quando le mero di vite salvate; lotteria (cioè risorse sono scarse, bisogna allocar- un criterio casuale); valore strumenle dove producono la maggiore uti- tale (cioè privilegiare coloro che, in lità». Il triage è quindi esplicita- un tempo successivo, possono promente associato a un approccio uti- durre la maggiore utilità sociale). litarista. In sanità pubblica il ricorso a moTuttavia, il triage non è solo que- delli quali quello ora citato, o ad alsto, ma ha caratteristiche diverse a tri analoghi, è frequente. Essi sono seconda delle circostanze. Per esem- in genere accomunati da un approcpio, è assai diverso il triage che at- cio pragmatico. Sotto il profilo opetua un singolo medico che debba rativo, tali modelli possono essere attribuire le priorità tra un gruppo validi. Sotto il profilo teorico, essi di pazienti in condizioni di emertendono a focalizzare l’attenzione genza e il triage applicato da istituzioni o commissioni nella scelta non sulla singola persona, bensì suldelle priorità per l’allocazione delle la collettività, privilegiando l’utilità e l’efficienza. risorse. La sfida è quindi, come già osNel primo caso, il triage determina una violazione dell’etica servavano nel 1995 i vescovi cattolici ippocratica. Secondo l’etica ippo- statunitensi riuniti nella Conferenza cratica, infatti, il fatto che ci sia un episcopale, trovare il giusto equilipaziente in più gravi condizioni brio che consenta, nell’allocazione non autorizza il medico ad delle risorse, «sia di promuovere abbandonare il paziente, meno gra- l’equità delle cure — cioè, assicurare ve, che sta curando. Tuttavia, è as- che il diritto di ogni persona alle sai difficile, o forse impossibile, ap- cure basilari venga rispettato — sia plicare un’etica strettamente ippo- di promuovere la salute di tutti nelcratica. L’etica medica moderna ri- la comunità». Il primo stimolo al cammino verso l’Unione europea partiva dall’esigenza della pace E dalla speranza di un progresso aperto a tutti che da via di comunicazione; una “visione storica”, che in qualche modo aggrava la prospettiva perché la storia europea, considerata da lì quasi come in una sintesi unitaria, mostra, soprattutto nei secoli più recenti, divisioni drammatiche, guerre senza fine, sino alle immani stragi della prima e della seconda guerra mondiale; da queste prime due visioni, emerge un anelito e un bisogno di pace che invitano ad aprirsi a una “visione politica”, la visione dell’unità del continente. Montini non entra più di tanto nel disegno istituzionale, non cita il trattato di Roma siglato poco più di un anno prima (marzo 1957), si mantiene a livello molto alto. Però è interessante la sua visione politica dell’unità dell’Europa: questa unità è a suo giudizio l’unica vera garanzia della pace. E in questo riprende il pensiero di Schuman e le motivazioni dei padri fondatori. Il primo stimolo al cammino verso una meta, che poi diventerà l’Unione europea, parti- Era il 12 settembre 1958 In alto per vedere l’Europa unita va proprio dall’esigenza della pace dopo le tragedie delle guerre. Si accomunava a questo la speranza di un progresso aperto a tutti e meglio condiviso nel continente. Si alimentava anche del timore del “grande avversario”, il comunismo sovietico, e del bisogno di difesa delle libertà democratiche. Montini sottolinea soprattutto la garanzia della pace, sulla quale mi permetto di citare un passaggio particolarmente interessante del discorso del 12 settembre: «E guardate bene e vedete che questa unione che sta delineandosi e che oscilla, a stagione a stagione, fra una conclusione che sembra felice e una delusione che sembra mortale, è una unione fragile e precaria, piuttosto prodotta da forze estrinseche che la vogliono, che non palpitante di interiore vitalità propria ed autonoma. I componenti di questa unità non vogliono cedere nulla della loro sovranità e quindi andiamo verso una pace che può essere equivoca, fragile e precaria, ma il giorno che una circolazione di pensiero, di sangue e di amicizia, di una cultura comune, fonderà i diversi popoli che compongono questa Europa ancora così mal compaginata, una unità spirituale sarà fatta. Abbiamo bisogno che un’anima unica componga l’Europa, perché davvero la sua unità sia forte, sia coe- Adesso siamo nella fase della delusione che sembra “mortale”. Però non è detto che questa sia l’ultima parola sulle potenzialità dell’Unione europea. Essa è infatti un’unione assai singolare, non paragonabile a nessuno schema giuridico; ed è caratterizzata sempre da un elemento di assoluta importanza: la libertà di adesione. Costituisce uno dei casi rari nella storia in cui una unità politica — perché l’Unione europea ormai è anche un’unità politica, seppur limitata e parziale nelle sue competenze — avviene non per eventi violenti o fortuiti, ma per libero consenso di Stati. Non bisogna dunque guardare con pessimismo aprioristico a questo sforzo ormai più che decennale verso l’unità dell’Europa. È vero, però, che il passaggio da competenze prevalentemente di tipo economico-finanziario o di mercato a competenze di tipo più chiaramente politico richiederebbe una forza di convincimento, una passione politica diffusa, condivisa e sostenuta da un humus, che abbia radici nella coscienza delle persone e nell’ethos delle popolazioni europee. In più c’è un punto che, secondo me, è forse il più delicato, anche se meno apparentemente rilevabile, e cioè quel tanto di identità, per dir così, umanistica, a cui fa riferimento l’arcivescovo Montini rivolgendosi a coloro che non hanno un credo religioso. Quel tipo di «identità umanistica», che in fondo era di radice classica e cristiana, anche quando si era capovolta di segno, perché polemicamente si era affermata in contrasto con ritardi, ambiguità e rente, sia cosciente e sia benefica. E ci soccorrano a questa convergenza delle aspirazioni umane, cioè verso l’unità spirituale dell’Europa, le voci più qualificate di quelli che la amano». C’è dunque un interessante sviluppo a cerchi via via più aperti nel suo appello e nel suo auspicio; e l’intervento finisce con l’invito alle varie famiglie spirituali a ritrovarsi, ovviamente confidando che soprattutto quelle che hanno una radice dichiaratamente religiosa e specificatamente cristiana possano dare il loro apporto. Tornando al sogno montiniano il cammino della costruzione Il passaggio da competenze europea dovrebbe essere abbastanza noto. di tipo economico-finanziario Non sono incline a a organismi politici pessimismi esasperati quando si parla delrichiederebbe l’unità europea, almemaggiore forza di convincimento no secondo il disegno umanamente prevedibile, perché sono convinto che di cammino ne è contro-testimonianze delle confesstato fatto parecchio, più di sioni cristiane, tende sempre più quanto si potesse immaginare, e a lacerarsi e in qualche modo a che esso si muove secondo quel scomparire. L’insidia maggiore è quella ritmo ben delineato da Montini: cioè «a stagione a stagio- dell’identità di base, quella dei ne, fra una conclusione princìpi primi ispiratori, quella che sembra felice e una dei valori assiomatici presenti nel delusione che sembra “nascere da europei” prima che nel “pensare da europei”. La simortale». tuazione si sta velocemente logorando, con l’aggravante della teorizzazione esasperata di alcune correnti culturali, le quali arrivano addirittura a sostenere che proprio questo è l’apporto che l’Europa dovrà dare al mondo: un modo di impostare la società civile dove la garanzia della democrazia sia fondata sulla rinuncia da parte di chicchessia di affermare verità ritenute assolute, perché di per sé tale affermazione sarebbe il germe dell’antidemocrazia. Questo rende assai difficoltoso andare avanti in termini di convinzioni profonde. Si pone perciò sempre più il problema dell’identità, dell’anima, di quello che l’arcivescovo Montini chiamava bisogno per «questa Europa ancora così mal compaginata» di un’anima spirituale: «Il giorno in cui una circolazione di pensiero, di sangue, di amicizia, di una cultura comune fonderà i diversi popoli una unità spirituale sarà fatta». Maria simbolo di speranza Pubblichiamo il messaggio inviato il 20 maggio 1958 dall’arcivescovo di Milano a don Luigi Re a sostegno del progetto di innalzare una statua della Madonna. di GIOVANNI BATTISTA MONTINI La Madonna in alto: questa è stata l’idea di Dio, che «fece per Lei grandi cose», e tanto La colmò di doni, tanto La inserì nel piano della salvezza del mondo, tanto La associò a Cristo, al «Solo altissimo», da meritarle il titolo di «alta più che creatura». Innalzare perciò la sua effigie benedetta sopra il nostro panorama terreno esprime materialmente un sommo disegno spirituale. È questo un gesto che la pietà cattolica ha non poche volte ripetuto; a Milano poi, su la guglia più alta del Duomo, s’è appunto voluto che si librasse, quasi volando, quasi cantando in ebbrezza di cielo, fatto limpido e propizio alla città e alla pianura, l’immagine d’oro di Lei. Questo gesto ora lo ripete l’Opera Casa Alpina di Motta, portando una grande statua di Maria su la vetta della vicina montagna, donde la visione delle Alpi, dei laghi, delle valli e dei piani si allarga in orizzonte, che pare trascendere ogni ristretto perimetro e offrire l’aspetto vario e vasto d’un mondo senza confine: è realtà? È sogno? È desiderio dell’occhio che vuole abbracciare in unità l’immenso cerchio di regioni e di popoli, che si distendono ai piedi della montagna, fatta piedestallo alla Vergine? Il promotore di questa impresa ha il cuore grande, e ha chiamato questa visione: Europa! Nome superbo, ma ben degno della Regina del cielo e della terra. Nome solenne, carico di secoli, che hanno lentamente depositato un manto di storia, dovunque esso si stende, e si chiama civiltà, degno perciò della Regina del- la pace. Nome antico, ma che oggi risuona come fosse ora scoperto, e che ben si addice a Colei che fu portatrice nel tempo del Dio eterno. Nome nostro, nome caro, nome benedetto, dalle cento favelle, dalle mille città, dalle infinite strade; nome di questo suolo fatidico, arato senza fine per un pane che ora vogliamo comune; conteso da intermina- bili guerre, perché finalmente riposasse placato dal sangue d’ogni nazione: cosparso da sterminate officine, ora non più frementi di ostile invidia, ma pulsanti al ritmo di fraterna fatica; ornato da innumerevoli templi che tutti si dicono cristiani e attendono di ricomporre una medesima, indefettibile Chiesa cattolica; tutto disseminato delle nostre case e dei nostri cimiteri; nome sacro, Europa, nome della madre terra, risplende congiunto a quello della Madre di Cristo, della nostra Madre celeste. È un’idea; è un segno, un simbolo; e che sia posto al vertice dei monti, nel silenzio delle nevi e al canto dei venti, sotto le stelle e sopra le valli, è bello; e sembra pieno di poesia e di preghiera; di ricordi del passato e di speranze dell’avvenire. 29-OTT-2014 Quotidiano Diffusione: n.d. art Lettori: n.d. Direttore: Giovanni Maria Vian da pag. 4 29-OTT-2014 Quotidiano Diffusione: n.d. Lettori: n.d. Direttore: Giovanni Maria Vian da pag. 4 07-OTT-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 06-SET-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 06-SET-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 28-AGO-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 28-AGO-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 26-LUG-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 26-LUG-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 19-LUG-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 2 19-LUG-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 2 28-GIU-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 28-GIU-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 05-GIU-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 05-GIU-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 15-NOV-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 15-NOV-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 5 17-DIC-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 17-DIC-2014 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. Resp.: Giovanni Maria Vian da pag. 4 04-GEN-2015 Lettori: n.d. Diffusione: n.d. Dir. 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