Anno XX - Numero 35 - 8 maggio 2014 L’intervista Il regista Ruggero Cappuccio, racconta questo allestimento A Pag. 2 Storia dell’Opera Un lavoro nato in poco più di una settimana A Pag. 6 Analisi Musicale Opera giocosa, nei pieni canoni ottocenteschi A Pag. 7 Elisir e filtri magici Miti medioevali per la ricerca della perfezione A Pag. 8 e9 «E’ Bordeaux, non elisir» Il rosso nettare di Francia ed i riferimenti al vino nel Melodramma A Pag. 12, 13 e 14 L’ELisir D’AmorE di Gaetano Donizetti 2 L’Elisir d’amore il Giornale dei Grandi Eventi Parla il regista Ruggero Cappuccio «Uno spettacolo che prende forma attraverso i colori» I dolo a ricorrere a un filtro magico che, benché fasullo, si rivelerà “fatalmente” efficace, a dimostrazione che l’amore senza complessità non ha gusto, poiché la ricerca, il senso della felicità non è in ciò che abbiamo, ma nell’anelito di qualcosa che ci manca. E questo è rivoluzionario nell’opera. Qui nel libretto di Romani, in assenza di elementi estranei, è la donna ad imprime tensione alla vicenda». L’Elisir d’Amore, che debuttò il 12 maggio 1832 al teatro milanese della Canobbiana (poi Teatro Lirico), rappresentò un vero punto di svolta nella storia dell’opera buffa. «Nei molti decenni i registi si sono confrontati con questo titolo alcuni seguendo letteralmente il testo, altri discostandosi dalla tradizione ed altri ancora tentando una attualizzazione. Ma il rischio è che si cada nel manierismo. Io sono per la sospensione: la narrazione è nella musica stessa che va ascoltata, senza magari neppure le parole. Sospendere vuol dire che non c’è un tempo di ieri o di oggi, poiché questa è un’opera capace di vive fuori dal tempo. Per rapportarci con il pubblico, quindi, abbiamo puntato su spazio e costumi di plastica molto luminosi, un gioco sublime dove sublime è la musica fresca che ha bisogno di un visivo leggero, legato al concetto della luce». Il cast è formato da cantanti molto giovani. «Giovani, ma con una certa esperienza», dice Cappuccio. «I protagonisti necessitano di grande vitalismo interpretativo perché è una storia d’amore tra due ragazzi. L’abitudine è di puntare sulle voci, di mettere in scena stagionati cantanti dalle voci collaudate ed apprezzate. Ma il pubblico, oltre ad ascoltare, viene “a vedere” l’opera e dunque come protagonisti ci vogliono due ragazzi, due cantanti giovani anche se meno navigati». Ruggero Cappuccio, il quale oltre che con la regia ha lavorato come autore teatrale e come il G iornale dei G randi Eventi scrittore arrivando finalista al Premio Strega nel 2008 ed Direttore responsabile ora in libreria con il suo roAndrea Marini manzo Fuoco su Napoli, ama Direzione Redazione ed Amministrazione il genere dell’opera comica. Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma Con essa, in passato, si è e-mail: [email protected] confrontato attraverso le regie de Il Barbiere di Siviglia, Editore A. M. di Don Pasquale, del Falstaff Stampa Tipografica Renzo Palozzi con Muti alla Scala e della Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Nina pazza per amore di PaeRegistrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 siello. «E’ un genere che amo © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore molto perché nel genere giocoso si può fare del bel teatro, si può Visitate il nostro sito internet inventare molto e lasciar galopwww.giornalegrandieventi.it pare fantasia e creatività». dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale Andrea marini tenui colori pastello che giocano con le luci, quasi impalpabili espressioni dell’onirico, ripropongono in scena l’allestimento dell’Elisir d’Amore creato per il Teatro dell’Opera nel 2011 - ed allora andato in scena dal 4 febbraio - dal regista napoletano cinquantenne Ruggero Cappuccio. «Lo spettacolo è sostanzialmente lo stesso di tre anni fa. Non ho voluto apportare grandi modifiche, se non lavorare sui cantanti che questa volta sono giovani», sottolinea il regista, il quale al Teatro dell’Opera di Roma debuttò proprio in quell’occasione, per poi tornare al Costanzi nel giugno dello scorso anno con il Don Pasquale, sempre di Donizetti. «L’allestimento dell’Elisir si fondava e si fonda su una ricerca della luce ispirata dalla straordinaria musica di Donizetti, capace di esaltare le qualità delle luci e delle ombre interiori. Lo spettacolo è così costruito intorno ad uno spazio aperto che lo scenografo Nicola Rubertelli ha creato facendo dominare il colore bianco, in modo tale che lo stesso spazio riesca essere modulato di volta in volta attraverso la proiezione di varie tonalità di luce colorata». Regista e scenografo hanno lavorato su vari significati che sono dietro al libretto di Felice Romani, musicato da Donizetti – si narra – a tempo di record in sole due settimane.«Non dimentichiamo – sottolinea Cappuccio – che Gaetano Donizetti è vissuto nel periodo di Leopardi, Foscolo, Byron, Shelley, Keats: insomma in pieno romanticismo. In quest’opera, a differenza di gran parte del melodramma, non abbiamo un ostacolo strutturale di qualcuno che ama un altro ed è ostacolato da un terzo, piuttosto che da qualcosa o da un impedimento sociale. Qui l’impedimento lo inventa Adina respingendo il corteggiatore Nemorino costringen- stagione d’opera 2013 - 2014 del Teatro dell’opera di roma 18 - 28 giugno CArmEN di Georges Bizet Emmanuel Villaume Emilio Sagi Direttore Regia stagione Estiva 2014 Terme di Caracalla 14 luglio - 9 agosto LA bohEmE di Giacomo Puccini Daniele Rustioni Davide Livermore Direttore Regia 23 luglio - 8 agosto iL bArbiErE Di siViGLiA di Gioachino Rossini Stefano Montanari Lorenzo Mariani Direttore Regia 21 - 31 ottobre riGoLETTo di Giuseppe Verdi Renato Palumbo Leo Muscato Direttore Regia ~~ La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 8 – 14 maggio 2014 L’ELisir d’amorE Opera in due atti Da Le Philtre di Eugène Scribe (1831) Composizione: Primavera 1832 Prima Rappresentazione: Milano, Teatro Canobbiana, 12 maggio 1832 Libretto di Felice Romani Musica di Gaetano Donizetti Direttore Regia Direttore del Coro Scene Costumi Luci Domato Renzetti Ruggero Cappuccio Roberto Gabbiani Nicola Rubertelli Carlo Poggioli Agostino Angelini Personaggi / Interpreti Adina (S) Nemorino (T) Belcore (Bar) Dulcamara (B comico) Giannetta (S) Rosa Feola / Ekaterina Sadovnikova (9, 11, 14) Antonio Poli / Pavel Kolgatin (10, 14) Alessandro Luongo / Joan Martin-Royo (9, 11, 14) Adrian Sampetrean / Marco Nisticò (9, 11, 14) Damiana Mizzi ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA ~ ~ La Copertina ~ ~ oleografia ottocentesca dedicata a L’Elisir d’Amore. il Giornale dei Grandi Eventi D opo soli tre anni l’Opera di Roma riporta in scena L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti nell’allestimento del regista Ruggero Cappuccio, con le scene minimali e colorate di Nicola Rubertelli ed i costumi di Carlo Poggioli. Un’opera fresca, gioiosa, composta a tempo di record in 14 giorni da Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani (che si era rifatto a Le Philtre di Scribe) ed andata in scena per la L’Elisir d’amore prima volta a Milano al Teatro della Canobbiana (poi Teatro Lirico) il 12 maggio 1832, riscuotendo un immediato successo e ponendosi come punto di svolta dell’opera buffa. Il tema ironizza sull’umana ricerca della perfezione o dell’amore attraverso quei filtri e pozioni magiche che tanto seguito avevano nella credenza popolare, facendo proliferare ciarlatani scambiati per medici di grande fama. E così nell’opera l’eli- sir, con il suo effetto placebo, si scopre non essere altro che un buon vino Bordeaux, vino noto in Francia ma, da sempre, soprattutto nome e prodotto di esportazione per l’enologia d’oltralpe. Per quel che riguarda i cantanti, in questo allestimento si è voluto puntare su voci giovani che sappiano interpretare anche “visivamente” i protagonisti. Sul podio il 64enne collaudato maestro abruzzese Donato Renzetti. Torna l’Elisir colorato ed onirico di Cappuccio 3 Le Repliche Venerdì 9 maggio, h. 20.00 Sabato 10 maggio, h. 18.00 Domenica 11 maggio, h. 16.30 Martedì 13 maggio, h. 20.00 Mercoledì 14 maggio, h. 18.00 L’editoriale Parole e pochi fatti per una struttura che costa 6 euro l’anno ad ogni romano Salviamo l’Opera P La Trama La vicenda si svolge in un villaggio dei Paesi Baschi (Spagna), a cavallo tra XVIII e XIX secolo. ATTo i – Ingresso di una fattoria. – Mentre i mietitori riposano all'ombra di un faggio, il giovane contadino Nemorino pensa al suo amore per la bella proprietaria terriera Adina. Ma è troppo timido e semplice per potersi dichiarare. Adina intanto legge la storia di Tristano ed Isotta e racconta dell'elisir d'amore con cui Tristano aveva conquistato figlia del Re d’Irlanda. Alla testa di un drappello di soldati, giunge Belcore, il sergente della guarnigione, e inizia a corteggiare Adina con impudenza. La capricciosa possidente è lusingata dall'enfasi del sergente e si diverte alle sue richieste di matrimonio. Nemorino, indispettito, decide di dichiararsi. Adina però respinge i suoi timidi approcci. Lo incoraggia invece a partire per la città, dove lo zio in fin vita potrebbe lasciargli una fortuna. Nella piazza del villaggio. – A destare la curiosità degli abitanti del villaggio, arriva la fastosa carrozza di un misterioso personaggio. È il medico ambulante te Dulcamara, il quale mette in vendita un liquore a sua detta "miracoloso", in grado di curare qualsiasi dolore. Nemorino gli chiede se per caso non abbia quella bevanda amorosa che aveva fatto innamorare Isotta. Dulcamara, intuendo l'ingenuità del villico, gli vende a caro prezzo un prodigioso elisir che in un solo giorno gli permetterà di conquistare Adina. Si tratta in realtà dì una bottiglia di vino Bordeaux che, comunque, una volta bevuto, produce subito l'effetto desiderato. Nemorino, infatti, un po' alticcio inizia a cantare e ballare senza curarsi delle attenzioni dell'amata. La capricciosa Adina, indispettita, accetta per ripicca di sposare il sergente Belcore, Ma Nemorino, ancora in preda ai fumi del Bordeaux, non è per nulla turbato. Arriva la notizia che la guarnigione di Belcore deve partire il giorno seguente. Le nozze saranno, dunque, celebrate immediatamente. Nemorino, che inizia a riacquistare lucidità, do- po aver tentato di dissuadere Adina, va in cerca del dottore per chiedergli dell'altro elisir. ATTo ii – Nella fattoria di Adina. – Gli abitanti del villaggio e Dulcamara festeggiano le imminenti nozze di Adina e Belcore in attesa che giunga il notaio per celebrarle. La sposa, però, non sembra convinta della decisione presa. Nemorino, passata la sbornia, è disperato. Decide allora di comprare una seconda bottiglia del costoso elisir. Ma per pagare Dulcamara è costretto a farsi arruolare come soldato dal sergente Belcore. Ora che vede perso il suo amore la morte in guerra non gli fa paura. In un cortile. – Intanto nel villaggio si sparge la voce che lo zio di Nemorino è morto ed il giovane contadino è erede di una cospicua fortuna. Improvvisamente il ragazzo diventa l'uomo più ambito da tutte le giovani del villaggio. Ancora ignaro dell'eredità, Nemorino attribuisce l'improvviso successo al filtro magico di Dulcamara. Il ciarlatano, dal canto suo, e sorpreso dell'effetto sortito dal falso elisir, mentre Adina soffre nel vedere Nemorino, di nuovo brillo, corteggiato da tutte le villanelle. La donna si confida allora con Dulcamara, il quale le racconta di aver fornito a Nemorino l'elisir d'amore d'Isotta, per fargli dimenticare l'amata, Avendo così compreso che l'amore dì Nemorino era sincero, Adina rifiuta lo stesso elisir propostole dal ciarlatano e si precipita a riscattare il contadino dall'ingaggio nell'esercito. Porta, quindi, il contratto d'ingaggio ormai nullo a Nemorino, dicendogli al contempo che è libero dall'impegno militare, invitandolo così a non partire per la guerra rimanendo nella propria terra. Nemorino non accetta, affermando che per lui è meglio morire, poiché il suo sentimento non è ricambiato. Finalmente i due si confessano il loro amore. Belcore, già attratto dall'idea delle prossime conquiste, accetta senza drammi il fatto compiuto canticchiando «pieno di donne è il mondo e mille e mille n'avrà Belcore». Tutti inneggiano a Dulcamara: il suo portentoso elisir produce effetti eccezionali! arlare dei mali dell’Opera di Roma è come sparare sulla Croce Rossa. Sarà frase fatta, ma purtroppo è così. Facile, ma doveroso, è sparare di fronte a ciò che emerge ed a dati che vengono letti da questo o da quello a proprio comodo, anche senza il minimo pudore: per tre anni si è sbandierato con conferenze stampa e comunicati «il pareggio di bilancio per la prima volta nella storia del Teatro», per poi scoprire che l’Opera stava fallendo, che aveva 28 milioni di debiti, che era al limite di un commissariamento al quale non è giunti solo per motivi politici e di opportunità. Il giorno prima che i giornali uscissero con questi titoli roboanti, a nostra diretta domanda all’ufficio stampa cadevano dalle nuvole … tutte chiacchiere. Questo nonostante il Teatro lo scorso anno ricevesse dal Campidoglio, come contributo annuale, 20 milioni di euro, come dire che l’Opera di Roma come in nessun altro comune d’Italia - costa ad ogni cittadino, anche a colui che detesta la musica, (calcolando per eccesso i romani in 3 milioni e mezzo) ben quasi 6 euro (5,7) l’anno, neonati e moribondi compresi. Venti milioni a fronte – come lamenta l’assessore alla cultura Flavia Barca – «di soli altri 3 milioni per pagare tutto il resegue a pag. 14 il Giornale dei Grandi Eventi L’Elisir d’amore Antonio Poli e Pavel Kolgatin Rosa Feola e Ekaterina Sadovnikova Nemorino, povero contadino innamorato Adina, giovane ricca e viziata N ella parte di Nemorino, il contadino innamorato, saranno i tenori Antonio Poli (8, 9 e 11 maggio), e Pavel Kolgatin (10 e 14 maggio). Antonio Poli, nato a Viterbo nel 1986, ha studiato all’Accademia di Santa Cecilia di Roma con il Maestro Romualdo Savastano con il quale collabora attualmente. Nel 2010 ha vinto il 1° Premio del pubblico al “29° Concorso Internazionale Hans Gabor Belvedere” di Vienna e nello stesso hanno ha preso parte al “Young Singers Project” del Festival di Salisburgo. Tra i prossimi impegni canterà Don Ottavio, nel Don Giovanni e sarà Tamino nel Die Zauberflote, mentre nel 2015 Poli debutterà alla Baye- Antonio Poli rischen Staatsoper di Monaco nel Falstaff ed al National Theatre come Alfredo nella Traviata. Pavel Kolgatin, nato a Balaschow (Russia), nel 1987 dopo i suoi studi al “Moscow Boys Choir College,” ha vinto numerose competizioni canore e lavorato con importanti direttori d’orchestra fra i quali Louis Langree, Vladimir Popov e Nikolai Nekrasov. Nel 2009 è diventato membro del nuovo “Bolshoi Young Artist Program,”. E’ stato Nemorino ne L’elisir d’amore, Ferrando in Così Fan Tutte, Tamino in Die Zauberflote, Don Basilio ne Le Nozze di Figaro, e Fenton in Falstaff. Tra i suoi prossimi impegni Il barbiere di Siviglia, nel ruolo del Conte di Almaviva. 5 A cantare come la capricciosa Adina, saranno i soprano rosa Feola (8 e10 maggio), e Ekaterina sadovnikova (9, 11 e 14 maggio). rosa Feola, nata nel 1986, si è diplomata nel 2008 con il massimo dei voti a Salerno presso il conservatorio statale “Giuseppe Martucci”. Si è perfezionata nell’accademia di Santa Cecilia con Renata Scotto, Anna Vandi e Cesare Scarton. Nel 2010 la giovane so- Rosa Feola prano ha vinto il 2° premio speciale Zarzuela al Concorso Internazionale presieduto da Placido Domingo al Teatro la Scala di Milano. Successivamente ha preso parte a diverse produzioni quali L’elisir d’amore, Carmen, le Nozze di Figaro, Don Giovanni. Tra i suoi prossimi impegni la Bohème, e Die Zauberflote. Ekaterina sadovnikova, nata in Russia nel 1980, ha svolto i suoi studi al Conservatorio di San Pietroburgo e alla “Hochschule fur Muskik” di Dresda. Nel 2006 è stata fra i vincitori al “Competizione dell’opera” di Dresda e della “Elena Obraztsova International Competition”. Nella stagione 2008/09 è stata Violetta nella Traviata, riscuotendo grande consenso di pubblico. Nella stagione successiva ha cantato Gilda in Rigoletto e di nuovo la Traviata al San Carlo di Napoli; successivamente ha cantato ne Die Zauberflote, Le Nozze di Figaro, Falstaff e molte altre. Tra i prossimi impegni Il Trittico pucciniano con Gianni Schicchi, Suor Angelica ed Il Tabarro. Adrian Sampetrean e Marco Nisticò Alessandro Luongo e Joan Martin Rojo Belcore, il sergente che corteggia Adina A cantare come Belcore saranno i baritoni, Alessandro Luongo (8 e 10 maggio), e Joan martin royo (9, 11 e 14 maggio). Alessandro Luongo, nato a Pisa nel 1978, ha studiato con Luciano Roberti, ed ha frequentato corsi di perfezionamento con Alessandra Corbelli, Renato Bruson, Robert Kettelson e Mirella Freni. E’ stato vincitore di vari concorsi internazionali, fra cui la 56° edizione del Concorso “AS.LI.CO” nel 2005, e l’11 edizione del Concorso “Spiros Argiris” nel 2010. Ha inaugurato con grande successo la stagione 2013/14 presso il Festival di Glyndebourne proprio ne L’elisir d’amore ed in seguito ha interpretato Le Noz- Alessandro Luongo ze di Figaro, Don Giovanni e la Traviata. Tra i suoi prossimi impegni Il medico dei pazzi, la Bohème e Don Giovanni. Joan martin rojo, nato a Barcellona, ha studiato piano, violino e basso al “Conservatori Superior de Musica del Liceu,” e successivamente ha conseguito la laurea in storia dell’arte all’Università di Barcellona. Il Baritono, tuttavia, ha continuato a studiare canto, vincendo importanti competizioni canore e costruendosi pian piano un suo repertorio d’opera, interpretando spesso lavori di Rossini e Mozart. Martin Rojo ha collaborato con importanti direttori d’orchestra, da Helmut Deutsch, a Dalton Baldwin e Roger Vignoles. Nella stagione 2010/11 ha fatto il suo debutto nel Regno Unito ne La Cenerentola a Glyndebourne, e successivamente ha preso parte ad un tour negli Stati Uniti dove ha cantato Messiah di Haendel, con la National Symphony Orchestra. Tra i prossimi impegni, Curro Vargas, Romeo e Giulietta e Cosi fan tutte. Dulcamara, truffatore che si beffa di Nemorino N el ruolo del medico ciarlatano Nemorino, canteranno i bassi comici Adrian sampetrean (8 e 10 maggio) e marco Nisticò (9, 11 e 4 maggio). Adrian sampetrean, nato nel 1983 a Cluj Napoca (Romania), ha studiato canto all’Università “Gheorghe Dima” sotto la guida di suo padre, Mircea Sampetrean. Nel 2006 ha fatto il suo debutto all’Opera Rumena di Cluj con la Bohème; nella stagione 2007/08 è stato membro Adrian Sampetrean della Bayerische Staatsoper Munchen, mentre dal 2009 al 2011 ha fatto parte delle Deutsche Oper Am Rhein, dove si è esibito in Rigoletto, Norma, Tosca, Bohème e Lucia di Lammermoor. Nella stagione 2011/12 ha interpretato alla Hamburgische Staatsoper la Cenerentola, Il barbiere di Siviglia, Macbeth, l’Aida, ed è stato Leporello in Don Giovanni, ruolo quest’ultimo che ha ripreso nella tournée del 2012 della Scala di Milano a Mosca sotto la guida di Barenboim. marco Nisticò, nato a Napoli, si è laureato in studi teatrali all’Università Sorbona di Parigi. Nisticò ha studiato canto con il padre, Benito Nisticò, al Conservatorio di Avellino e all’International Vocal Arts Institute di Tel Aviv. La sua carriera si è svolta fin da subito tra Europa e Stati Uniti, dove è diventato ben presto artista stabile alla New York City Opera, debuttando nel 2005 il ruolo di Morales in Carmen e vi è stato successivamente come Sharpless in Madama Butterfly, Pallante in Agrippina, Prudenzio ne Il Viaggio a Reims, Schaunard nella Bohème e Dancairo in Carmen. In ambito concertistico ha debuttato alla Canergie Hall, attraverso la Mid America Productions, cantando il Requiem di Faurè e La Messa in Sol maggiore. Ha inoltre cantato come solista nel “Galà del Bel Canto” presso il Martin-Lipscomb Performing Arts Center. Pagina a cura di Mariachiara Onori – Foto di Corrado M. Falsini L’Elisir d’amore 6 il Giornale dei Grandi Eventi Storia dell’Opera Elisir d’Amore: una ricetta veloce per un successo immediato L a tradizione vuole che Elisir d’amore sia stato composto in una manciata di giorni, una settimana dedicata alla scelta del soggetto e del libretto - e qui il lavoro coinvolgeva in primis Felice Romani - e due settimane interamente votate alla musica. Sia questa leggenda o realtà, fuori di dubbio è che certamente questo gioiello della nutritissima produzione di Gaetano Donizetti sia nato da una prolifica e sgorgante ispirazione che accompagnò il compositore bergamasco lungo tutta la sua carriera e che fece uscire dalla sua penna un numero eccezionale, oltre al resto, di lavori per il teatro. «La mia divisa? Presto. Può essere biasimevole, ma tutto ciò che feci di buono è stato sempre fatto presto». E che però in una particolare fase della sua vita artistica, intorno al 1827, compromise in parte la qualità dei suoi lavori, facendogli guadagnare il maligno appellativo di “Dozzinetti”, si badi, non da “dozzine” bensì da “dozzinale”. La nascita dell’Elisir Nel 1832. Donizetti si trovava a Milano, ancora amareggiato dal fiasco di quell’Ugo, conte di Parigi che il 13 marzo dello stesso anno, a meno di tre mesi dal trionfo della Norma belliniana (26 dicembre 1831), era andato in scena alla Scala pesantemente storpiato dalla censura e che rimase in cartellone soltanto per quattro sere, nonostante l’interpretazione di grandissimi artisti come Giuditta Pasta, Giulia Grisi e Domenico Donzelli. La conquista della Scala era per il momento rimandata (il primo vero successo nel principale teatro milanese, Donizetti lo otterrà con Lucrezia Borgia, nel dicembre Il basso Giuseppe Frezzolini, primo interprete di Dulcamara del 1833). L’occasione di riguadagnare la fiducia del pubblico milanese - che nel luglio del 1830 aveva favorevolmente accolto Anna Bolena al Teatro Carcano, e poco più tardi, nel marzo successivo, La Sonnambula di Bellini - si presentò poco dopo con l’offerta di Alessandro Lanari, uno dei maggiori impresari dell’Ottocento insieme a Domenico Barbaja, Vincenzo Jacovacci e Bartolomeo Merelli, che in quella stagione gestiva un altro importante teatro di Milano, la Cannobiana; trovandosi in difficoltà per un “buco” improvviso nella programmazione, il Lanari chiese a Donizetti ed a Romani un’opera giocosa, magari riprendendo un vecchio spartito e adattandolo alle voci di cui si disponeva in quel momento. Il consenso fu immediato, anche se il musicista non aveva nessuna intenzione di “rattoppare” lavori passati; invece, dei cantanti si dovette accontentare. «Bada bene, amico mio - disse in confidenza il musicista al librettista - che abbiamo una prima donna tedesca (Sabine Heinefetter) un tenore che bal- Felice Romani, autore del libretto betta (Giambattista Genero), un buffo che ha la voce da capretto (Giuseppe Frezzolini), un basso francese e che val poco (Henri-Bernard Dabadie). Eppure dobbiamo farci onore». Se le condizioni di partenza non erano delle più rosee, tempo risicato compreso, tuttavia Donizetti aveva dalla sua, oltre alla straordinaria fantasia, anche la prassi compositiva dell’epoca, una sorta di catena di montaggio che non si curava del fatto che intere opere fossero realizzate tramite prestiti - non però “rattoppi” - da lavori propri precedenti, magari quelli meno riusciti, anche perché le strutture compositive si basavano su schemi formali fissi; così interi brani potevano essere ripresi e, con lievissime modifiche, adattarsi alla nuova opera in tempi naturalmente più rapidi. Ecco allora che per l’ingresso di Belcore Donizetti utilizzò un brano di una sua precedente opera seria, Alahor in Granata (1826) e per il preludio di apertura si servì invece, probabilmente, di uno dei suoi lavori giovanili non operistici. Romani ri- cavò il libretto da una commedia di Scribe, Le Philtre, già musicata l’anno prima (1831) da Auber (a sua volta ripresa da Il filtro, una commediola italiana di Silvio Malaperta) mutandone i nomi dei personaggi e mantenendo invariato l’intreccio; c’è da dire, però, che le figure ne escono molto più caratterizzate, allontanandosi parzialmente da quella natura di “maschera” fissa, che per tradizione non contemplava evoluzioni psicologiche del personaggio e che erano la cifra tipica del teatro buffo. L’immediato successo Elisir d’amore, dopo la buona riuscita della prova generale alla presenza dei censori, andò in scena appunto alla Cannobiana il 12 maggio 1832, con il cast sopraddetto più Marietta Sacchi nel ruolo di Giannetta, ottenendo tanto successo di pubblico e di critica da lasciare incredulo lo stesso compositore, allora trentacinquenne, che in una lettera al suo maestro Simone Mayr scrisse: «La Gazzetta giudica dell’Elisir d’amore e dice troppo bene, troppo, credete a me...troppo!». E il 16 maggio, appena dopo la terza recita, egli lasciò Milano diretto prima a Firenze, dove firmò le scritture per La Parisina, da rappresentare nella Quaresima del 1833 al Teatro della Pergola e per un’altra opera (che in realtà non venne mai scritta) destinata alla Fenice di Venezia per il Carnevale dello stesso anno; poi a Roma, dove si impegnò con l’impresario Paterni a musicare l’opera Il furioso all’isola di Santo Domingo su libretto di Ferretti per la stagione 1832-33 al Teatro Valle. Poi già nell’autunno successivo sarebbe andata in scena al San Carlo di Napoli Sancia di Castiglia (4 novembre) su libretto di Pietro Salatino. Tanto per restar fedele alla propria «divisa» di compositore infaticabile. Intanto Elisir aveva abbondantemente appagato il gusto milanese, suscitando sempre più entusiasmo: dopo trentadue rappresentazioni, trionfò l’anno successivo a Genova, nel 1834 tornò alla Cannobiana e debuttò al Teatro del Fondo di Napoli. Nel settembre 1835 arrivò alla Scala quattro giorni dopo la morte di Vincenzo Bellini a Parigi - con Maria Malibran nel ruolo di Adina e di nuovo Frezzolini in quello di Dulcamara. Non inferiore fu poi il successo sui palcoscenici internazionali, a partire da Berlino (1834), dove andò in scena con il titolo di Liebestrank, quindi Vienna (1835), Londra (1836), New York (1838), Parigi (1839). Da allora, l’opera è rimasta in repertorio, lodata anche dalla cultura tedesca (come Mendelssohn e Hanslick) e considerata insieme a Lucia di Lammermoor (1835) e Don Pasquale (1843) parte della suprema triade donizettiana. barbara Catellani il Giornale dei Grandi Eventi L’Elisir d’amore 7 Analisi musicale Un’opera nei pieni canoni d’inizio ’800 «L a mia divisa? Presto. Può essere biasimevole, ma tutto ciò che feci di buono è stato sempre fatto presto». La frase, attribuita dai biografi a Gaetano Donizetti, coglie efficacemente uno degli aspetti caratteristici del suo stile compositivo. Con una settantina circa di titoli fra opere serie, semiserie, comiche e farse in un arco di tempo compreso fra il 1818 e il 1843 il compositore bergamasco è stato uno dei più prolifici autori teatrali italiani, anello di congiunzione fra l’esperienza rossiniana e quella verdiana. Generoso, brillante, dotato di uno spiccato senso dello humour, Donizetti nella sua prima fase creativa, in parte ancora sotto l’ombra rossiniana cui era quasi impossibile sfuggire per un operista italiano, diede particolare spazio al teatro comico. Al 1832 risale L’elisir d’amore due atti su libretto di Felice Romani, ancor oggi considerata una delle sue prove più alte. Musicista e librettista, si dice, impiegarono quattordici giorni a scriverla. Romani si attenne scrupolosamente al testo originale (Le philtre di Scribe per la musica di Auber, rappresentata l’anno precedente a Parigi), ma vi aggiunse un patetismo delicato sul quale puntò lo stesso Donizetti, ad esempio, impo- nendo contro il parere del letterato, la romanza “Una furtiva lagrima”, pagina di straordinario fascino emotivo che conferisce al personaggio di Nemorino (tenore) un’aura squisitamente romantica e appassionata. Una rivelazione per questo ragazzotto di paese fino ad allora ritratto come un sempliciotto innamorato perso di Adina, pronto a bersi qualsiasi fandonia, compresa la storia del filtro d’amore della bella Isotta. Intorno a Nemorino ruotano i personaggi tipici del teatro comico: Adina (soprano) è la ragazzina maliziosa che sa come conquistare un cuore maschile («Una tenera occhiatina/ un sorriso una carezza/ vincer può chi più si ostina» canta nel secondo atto), ma sa pure dimostrarsi tenera nel momento in cui capisce la sincerità dell’affetto di Nemorino; Dulcamara, il più simpatico dei ciarlatani del teatro comico, esuberante, chiassoso, comunicativo (“Udite o rustici” è una cavatina irresistibile); infine, Belcore, il solito soldato spaccone e gradasso, colto nella sua boria già alle prime parole (“Come Paride vezzoso”). La ripetitività di caratteri e di situazioni non compromette il valore dell’opera sostenuta da un ritmo narrativo quanto mai incisivo e da una invenzione musicale felicissima. Una struttura tradizionale La struttura dell’opera, in conformità alla tradizione del primo Ottocento, prevede una lunga introduzione “corale”, cui si legano, una dopo l’altra la presentazione di tre dei quattro protagonisti: Adina, Nemorino, Belcore. Un clima di festa, ma anche di semplicità agreste nel quale prendono corpo due storie diverse e sovrapposte: l’amore di Nemorino per Adina, prima ignorato e poi asse- Gaetano Donizetti ai tempi della composizione de l’Elisir d’amore condato e la storia del filtro d’amore (in realtà una bottiglia di Bordeaux) che da Isotta passa a Nemorino attraverso la fantasiosa inventiva di Dulcamara. Le due storie scorrono rapide fra atmosfere malinconiche e gags umoristiche ispirando al compositore arie e concertati di indubbia verve. E’ stato sottolineato il respiro “europeo” della musica donizettiana che trae spunto non solo dalla tradizione italiana, ma anche da quella francese. Tipicamente italiano è il gusto che sostiene la cavatina di Belcore “Come Paride vezzoso” (un chiaro riferimento a “Come un’ape” della Cenerentola rossiniana), la cavatina di Dulcamara “Udite, udite o rustici” (una grande aria sul genere buffo ampiamente collaudata da Rossini); il duetto “Chiedi all’aura lusinghiera” che vuole forse ricordare “Son geloso del zefiro errante” della Sonnambula; l’aria di Adina “Prendi per me sei libero”; nonché in generale il taglio dei pezzi d’insieme, chiaramente debitori nei confronti del teatro rossiniano, anche se emerge la personalità di Donizetti che qui non è sicuramente un “imitatore”. Al versante francese si devono invece ascrivere i pezzi “caratteristici” come la marcia che precede la cavatina di Belcore, l’assolo di cornetta in tempo di valzer che precede e chiude la cavatina di Dulcamara, la “barcaruola a due voci” “Io son ricco, tu sei bella” il cui tema serve anche a chiudere l’opera. Ma soprattutto sono di taglio francese due brani solistici: la cavatina di Adina “Della crudele Isotta”, un vero calco della ballade narrativa sia per la posizione sia per la forma a couplet (di sapore francese sono anche i temi di valzer e di mazurca sui quali è imbastita); e la romanza in due strofe “Una furtiva lagrima”». A proposito della pagina di Nemorino, si noti la elegante orchestrazione di Donizetti che fa precedere l’entrata della voce dal tema cantato dal fagotto su un delicato accompagnamento pizzicato degli archi e dell’arpa. In Elisir d’amore, dunque, Donizetti se non mise da parte Rossini (Dulcamara potrebbe essere un personaggio rossiniano e così pure Adina), guardò anche altrove immettendo nel perfetto meccanismo buffo del suo predecessore elementi delicati che avrebbero avuto successo nell’opera-comique d’oltr’alpe. Ne derivò un’opera originale e autonoma, un punto fermo e isolato nel contesto comico ottocentesco. 8 L’Elisir d’amore il Giornale dei Grandi Eventi Elisir, Pietra filosofale e Graal Nei miti medioevali il percorso uman N on è che il buon Felice Romani si sia troppo dovuto spremere le meningi per buttar giù il libretto che a sua volta servì a Gaetano Donizetti per comporre – si dice in appena una quindicina di giorni – quel miracolo di melodia che è L’Elisir d’amore, rappresentata per la prima volta al Tetra La Cannobiana di Milano nel 1832. E’ probabile che il titolo – ed il nome del magico filtro prodotto e decantato dal dottor Dulcamara (lo stesso nome della solanacea dalle proprietà diuretiche, sudorifere, depurative ed anche afrodisiache ben presente nella farmacopea premoderna) – si sia ispirato ad uno dei capolavori della letteratura romantica, fantastica e “nera” Die Elixiere des Teufels di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, apparso nel 1816: ma il sorridente ed un po’ banale racconto del Romani nulla ha delle tormentose ed allucinate pagine hoffmanniane. L’elisir di Dulcamara, che il povero Nemorino acquista a caro prezzo dal simpatico ciarlatano e che finirà col veder trionfare sul serio, in seguito ad una catena di fortunosi – e fortunati – equivoci, le sue pretese virtù, viene davvero presentato come popolare - a partire dalla fine del Settecento. E una leggenda forse d’origine celto-scozzese, anche se non è mancato chi ne ha sottolineato le somiglianze, i paralleli e gli apporti rispetto alla tradizione greca e a quella arabopersiana, che ripete ed in un certo senso - quanto meno per noi occidentali moderni - fonda l’archetipo della fatalità, dell’amore e della morte. La letteratura magica la Panacea universale o la trionfale Teriaca: anzi, ben più ancora, dal momento che il celebre medicamento era notoriamente efficace contro ogni sorta di malanni, ma non regalava ancora l’amore. Quella era roba da pocula amatoria, cose ben più insane: e ne sapeva qualcosa per averne fatte le spese, a suo tempo, il grande Lucrezio. Anzi, l’elisir che Dulcamara propina all’ingenuo Nemorino è ancor più atipico. Deve berlo lui, affinché faccia effetto sull’amata. O meglio, affinché lo provveda d’uno charme tale da diventare irresistibile. Insomma, a rigore e sul piano della storia della medicina – popolare o no -, o della magia, o delle tradizioni popolari, o di quant’altro vogliate, la storia non sta in piedi. Il che non nuoce affatto al libretto, esile e godibile, e tanto meno alla musica che resta incantevole. il mito di Tristano ed isotta Tuttavia, a voler essere pignoli, si dovrebbe esaminare con cura almeno l’unico riferimento dotto che il Romani ci fornisce: quello della leggenda di Tristano ed Isotta, della quale al tempo di Donizetti non s’era ancora impadronito Richard Wagner (la sua opera Tristan und Isolde è del 1865), ma per la quale la cultura rinascimentale nutriva un’autentica passione. Che Nemorino l’avesse udita dalla viva, commossa voce dell’amata non era, dunque, incredibile. Al contrario. Ma se dall’ambito d’un sapere diffuso e magari orecchiato ci si sposta a quello di possibili, precisi, riferimenti testuali, si resta spiazzati. La storia di Tristano ed Isotta poteva esser arrivata al primo Ottocento attraverso i testi medievali che ne elaborano la leggenda: il poema sassone Tristant di Eilhart von Oberg di circa il 1170, il poema Tristan di Beroul, il Tristan di Thomas, entrambi francosettentrionali di fine XII secolo, e il Tristan alto-tedesco medio di Goffredo di Strasburgo, composto nel primo Ventennio del Duecento. Il modello di Eilhart, dal quale dipendono anche altri testi tristaniani, è una perduta Estoire francosettentrionale. Modificatosi e diffusosi in mille diverticoli letterari, la leggenda tristaniana venne durante il secolo XII sintetizzata e sistematizzata nel romanzo Tristan en prose, una “vulgata” che in differenti versioni era destinata a circolare in tutta l’Europa occidentale ed a venire rielaborata, copiata, letta e stampata incessantemente sino alla fine del Cinquecento per venir poi riscoperta e assurta ad una doppia fortuna filologica e romanzesco- Naturalmente, poco Romani e Donizetti sapevano di queste erudite questioni. Quel che dell’elisir era noto si desumeva piuttosto, allora, dalla letteratura magica di colportage che si acquistava per pochi soldi: Il Libro di San Cipriano, La Clavicola di Salomone, I Se- greti e ricette della regina Cleopatra, Il Gran Grimorio e così via: una letteratura mirabolante ch’ è rimasta in commercio fino a pochi anni or sono ed i succedanei della quale inondano ancora edicole e bancarelle librarie di provincia. Ad essa solo pochi spiriti eletti come Paolo Toschi o Piero Camporesi hanno prestato attenzione. L’elisir L’elisir, per la verità, di rado è associato all’eros e ancor meno al sentimento amoroso. Esso è semmai un filtro - un “beveraggio” , come si diceva -”di lunga vita” , una bevanda che assicura salute e longevità se non addirittura immortalità. La sua etimologia è leggermente paradossale, dal momento che il termine sembra derivare esattamente dal contrario del concetto di bevanda: dal greco kseròs, “secco”, da cui kseròn, “miscela di polveri secche”. Nel mondo chimico-medico arabo (ed anche in il L’Elisir d’amore Giornale dei Grandi Eventi 9 no verso la perfezione quello che noi abbiamo lessicalmente sdoppiato come “alchemico”: ma ch’era la medesima cosa) con il termine al-iksir, derivato dal greco al pari di altre espressioni dotte, s’indicava un medicamento balsamico a base di sostanze tendenzialmente solide: ma con esso si prese a indicare altresì, a livello più specificamente alchemico, la “pietra filosofale”. L’espressione da essa derivata e sommariamente tradotta in latino, lapis exillis, venne usata anche a sottolineare, da parte di alcuni commentatori, l’identificazione della “pietra filosofale” con il Graal, ch’è di solito raffigurato come una coppa ma può - seguendo una tradizione avviata nel primo Duecento dal Parzival di Wolfram von Eschenbach essere rappresentato altresì da una pietra o da una coppa di pietra preziosa (in questo caso, con riferimento alla reliquia del “Santo catino di Cesarea” conservato nel primo Duecento nella cattedrale di Genova, s’indicava lo smeraldo come il materiale in cui la santa coppa sarebbe stata scavata). In realtà, l’esegesi simbolica dell’alchimia interpretava la “Pietra filosofale” alla luce del versetto evangelico relativo alla pietra scartata dai costruttori e divenuta Pietra Angolare. Il che valeva a significare che la vera “pietra filosofale”, in grado di assicurare il successo della Grande Opera e di consentire la tramutazione dei metalli in oro, era il Cristo: dal momento che il vero oro alchemico cercato dagli alchimisti, era la purezza dell’anima conseguita attraverso il processo mistico di purificazione interiore del quale i procedimenti alchemici erano al tempo stesso simbolo e strumento tecnico- ascetico. Le espressioni “Grande Magistero” o “Grande Elisir” significavano, propriamente, il compimento della Grande Opera: cioè, appunto, il mutamento dei metalli in oro che poteva avvenire soltanto quando l’adepto era del tutto purificato da qualunque forma di inclinazione peccaminosa, quindi anche dall’avidità. L’oro può, in altri termini, esser prodotto solo da chi ne ha superato la passione e il desiderio. Molto diverse le descrizioni che i testimoni delle trasmutazioni alchemiche danno dell’elisir: che si configura come sostanza liquida immediatamente successiva alla manipolazione della “pietra filosofale” vera e propria. Talora, l’identificazione tra “pietra filosofale”, nobile metallo prodotto (l’oro) ed elisir era talmente perfetta che si parlava allora di “oro potabile”: ed era appunto esso ad assicurare mantenimento o recupero della salute, ringiovanimento, immortalità. E questa la strada proposta da testi tanto misteriosi e venerabili quanto per la verità sospetti, quali le Dodici Chiavi di Basilio Valentino o il Libro di Artefio, che si è preteso fosse tradotto dal latinoall’arabo: è questo il filtro che avrebbe ringiovanito il dottor Faust e tenuto giovane il signor di SaintGermain, e che Elemire Zolla assicurava di aver potuto gustare - una stilla d’oro, dal sapore asprigno, nel thé - durante un misterioso incontro con un mercante di gemme persiano. Uno che, di gemme, sapeva di più di quanto non desse a vede- re. C’è un legame tra gli antichi alchimisti, l’immortale del XVIII secolo, l’inquietante studioso dei tempi nostri e il buon Nemorino ? Come dicono gli Arabi, «Dio ne sa di più». Franco Cardini Ordinario di storia medievale all’Università di Firenze La storia d’amore letta da Adina Tristano ed Isotta stregati dal filtro magico U na antichissima epopea d’amore fra le più amate e conosciute, Tristano ed Isotta ha tutti gli ingredienti per costituire l’argomento di poemi, romanzi e opere. Il giovane Tristano, allevato a corte dallo zio Marco, Re di Cornovaglia, per liberare la sua Patria dai gravosi tributi imposti dal Re d’Irlanda, ne uccide il fratello Moroldo, ma rimane ferito ed è curato da Isotta, figlia del sovrano, che non sa della morte dello zio. Tornato in Cornovaglia, riparte poi per l’Irlanda per chiedere la mano di Isotta la Bionda, che il re Marco intende sposare. Il cavaliere porta a termine con diligenza il difficile compito, ma durante il viaggio in nave avviene un errore fatale: i due giovani bevono un filtro magico, che li accende di un amore irresistibile ed eterno. Sorpresi da Marco e quindi perdonati, per Tristano e Isotta inizia una serie di peripezie che li vedono a volte insieme, a volte divisi dalle avventure di Tristano o dalla gelosia del Re, ma sempre legati da un amore che durerà fino alla morte. Durante un combattimento, infatti, Tristano rimane ferito e manda uno scudiero a chiedere l’aiuto di Isotta, dalla quale era stato separato. Secondo gli accordi, la nave inviata avrebbe issato al ritorno una vela bianca nel caso in cui Isotta avesse accettato l’invito, una vela nera in caso contrarlo. Isotta la Bionda accettò la richiesta dell’innamorato, ma Isotta dalle Bianche Mani (che Tristano nel frattempo aveva sposato), accecata dalla gelosia, annuncia che la nave procedeva con issata una vela nera. Tristano, disperato, si lascia morire e Isotta, arrivata alla reggia, muore accanto a lui. In alcune versioni la storia si lega a quella di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola rotonda. Il soggetto fa parte, infatti, del ciclo di leggende celtiche dell’Irlanda e della Cornovaglia, raccolte nel XII secolo dai trovieri francesi che la diffusero in tutta Europa, dalla Norvegia all’Italia. Dell’antica versione scritta del Tristan di Chretien de Troyes, il più famoso dei trouvères francesi, non è rimasta traccia e anche i racconti medioevali in versi di Beroul e dello scrittore anglonormanno Thomas sono giunti incompleti. Le versioni più antiche sono, quindi, Sir Tristrant di Eilhart d’Oberge (1190 circa) e Tristan di Gottfried di Strasburgo (1210 circa), in cui per la prima volta compaiono le due donne dal nome di Isotta (Isotta la Bionda ed Isotta dalle bianche mani). il Tristano in italia In Italia inizialmente furono i cantastorie che contribuirono a diffondere verbalmente la leggenda. La testimonianza scritta più importante è il Tristano Riccardiano del XIII-XIV secolo, conservato a Firenze e tratto probabilmente da una redazione perduta del Tristan in prosa francese. Al Tristano medioevale di Thomas, sono invece ispirate le liriche della scuola siciliana, fra cui quelle di Giacomo da Lentino e Bonagiunta Orbiciani. Nel XIII secolo, a Padova, il giudice Lovato compose un poema, di cui sono giunti fino a noi solo pochi esametri. Famosa è l’ispirazione che da Tristano ed Isotta ha tratto Richard Wagner per il suo dramma lirico in tre atti, rappresentato per la prima volta al Teatro Reale di Monaco il 10 giugno del l865. Nelle pagine strazianti di Tristan und Isolde per la prima volta si mette l’accento sul dramma d’amore piuttosto che sul problema dell’adulterio. All’inizio del XX secolo un critico francese, Joseph Bedier, ha ricostruito la complessa trama della leggenda, avvalendosi dei frammenti di poemi e saghe medievali e delle rielaborazioni in prosa francesi e italiane. Elena Cagiano 10 L’Elisir d’amore il Giornale dei Grandi Eventi Un genere che riscosse alterne fortune L’opera comica, prima e dopo Donizetti F ra il 1790 e il 1795 in Italia vennero rappresentate 269 opere comiche per un totale di 1078 allestimenti contro 104 titoli seri per 199 allestimenti. Se dunque nei decenni precedenti, l’opera seria aveva dominato le scene relegando la sorella comica al ruolo di “cenerentola”, sul finire del Settecento il rapporto si capovolse e autori come Cimarosa e Paisiello furono i più richiesti non solo in Italia, ma anche all’estero. Il teatro comico raggiunse l’apice del successo con Rossini e visse nei primi anni dell’Ottocento la sua stagione migliore. Poi iniziò la parabola discendente. Nel 1812 La pietra di paragone di Rossini aveva trovato accoglienza alla Scala, ma nel 1832 L’elisir d’amore dovette accontentarsi della Canobbiana. L’opera comica non scomparve mai del tutto, sopravvisse in palcoscenici minori, con remunerazioni più modeste rispetto al teatro “serio”, solitamente coltivata da artisti meno acclamati. Fra i lavori collocabili nella prima parte del secolo (e pertanto più o meno contemporanei di Rossini) si possono ricordare, oltre alla Sonnambula di Bellini (appartenente non al genere dell’opera comica ma a quello dell’opera semiseria, in voga in quegli anni): Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti, Il poeta spiantato e Il nuovo barbiere di Siviglia di Francesco Morlacchi, Il maldicente ovvero la bottega del caffè (da Goldoni) e Ser Marcantonio di Stefano Pavesi, Il barone di Dolsheim di Giovanni Pacini, Elisa e Claudio di Saverio Mercadante, Le contesse villane di Lauro Rossi, Robinson Crosuè di Vincenzo Fioravanti e Il ventaglio di Pietro Raimondi. Titoli di cui si è ormai persa ogni traccia e che allora giravano i teatri Gaetano Donizetti ed attiravano grandi folle di melomani. D’altra parte le opere oggi regolarmente in repertorio costituiscono la piccola punta di un immenso iceberg se si tiene conto del numero di titoli che venivano prodotti annualmente in Italia nell’Ottocento. Il degno erede di Rossini fu naturalmente Donizetti cui si devono frequenti escursioni nel comico, nel semiserio e nel farsesco. La fase successiva fu caratterizzata da una decisa decadenza. Si continuarono a scrivere lavori di argomento leggero, ma di un livello nettamente inferiore. Fra i vari titoli che, a partire dalla fine degli anni Quaranta si susseguirono fino all’estremo Ottocento, si possono citare Don Bucefalo e Papà Martin di Antonio Cagnoni, Don Checco e Napoli di Carnevale di Nicola De Giosa, Le precauzioni di Errico Petrella, Pipelè di Serafino Amedeo De Ferrari, Tutti in maschera di Carlo Pedrotti, La locandiera (da Goldoni), Le educande di Sorrento e La secchia rapita di Emilio Usiglio. Nel secondo Ottocento ebbe notevole successo Crispino e la comare tre atti di Luigi e Federico Ricci Gioachino Rossini in un ritratto di Francesco Hayez su libretto di Francesco Maria Piave. I fratelli Luigi e Federico Ricci, napoletani di nascita e di formazione, avevano all’attivo una buona produzione individuale, ma avevano anche già lavorato insieme. “Melodramma fantasticogioioso”, Crispino e la comare mescola elementi comici e ironici con parente- si falsamente patetiche e con curiose aperture verso il fantastico. Emergono svariate componenti stilistiche: Rossini, naturalmente, ma anche Donizetti (sia per alcuni elementi comici, sia per i momenti di teso patetismo che potrebbero quasi scivolare verso la tragedia) e persino Verdi. C’è anche il val- zer (il vecchio Strauss, uno dei padri del valzer viennese era morto l’anno prima, nel 1849 e stava emergendo prepotentemente il giovane Johann Strauss, futuro autore di An der schönen blauen Donau) e nella brillantezza di alcuni episodi e nell’orchestrazione a volte anche “chiassosa” si avverte un’anticipazione di un clima ridanciano che sarebbe stato, in seguito, dell’operetta. Una curiosità. A Trieste dove lavorò per molti anni Luigi Ricci divenne il maestro e l’amante delle gemelle Fanny e Lidia Stolz, sorelle maggiori di Teresa Stolz, futura interprete (e amante) verdiana. Ricci sposò Lidia ma ebbe un figlio da Fanny, Luigi junior (1852-1906), compositore e direttore d’orchestra che divenne l’erede della zia Teresa tanto da modificare il proprio cognome in Ricci-Stolz. roberto iovino Il luogo della prima rappresentazione dell’Elisir Teatro La Canobbiana, poi Teatro Lirico I l 3 agosto 1778 a Milano, con l’opera L’Europa riconosciuta di Antonio Salieri, veniva inaugurato il Teatro Alla Scala, costruito a spese dei palchettisti del teatro Ducale, bruciato due anni prima, nel 1776 Il progetto era stato affidato all’architetto Giuseppe Piermarini, allievo e poi collaboratore del Vanvitelli. L’anno successivo all’inaugurazione de La Scala, il Piermarini completava anche l’edificazione di un altro teatro che, dal nome della contrada in cui era stato costruito, prese il nome di Teatro della Canobbiana. Questo teatro,in una Milano in cui i fermenti musicali erano particolarmente vivi, fu inaugurato il 21 agosto 1779 con due opere ancora di Salieri, La fiera di Venezia ed Il talismano, seguite da due balli. In questo spazio saranno rappresentate opere e balli d’estate, spettacoli di prosa e di danza nella stagione di Carnevale. Durante i periodi di chiusura de la Scala vi si svolgevano stagioni d’opera particolarmente curate, con prime rappresentazioni di rilievo. Alla fine dell’Ottocento, l’editore Edoardo Sonzogno acquistò la Canobbiana, la restaurò e ne cambiò il nome in Teatro Lirico Internazionale, che poi divenne semplicemente Teatro Lirico. Questo ospitò molte compagnie di prosa, ma vi si tennero prime rappresentazioni di opere di compositori della “scuderia” Sonzogno, come Cilea, Giordano, Leoncavallo. il Giornale dei Grandi Eventi L’Elisir d’amore 11 Donizetti a Roma Le sei opere “romane” del Bergamasco G aetano Donizetti, 24enne, giunse per la prima volta a Roma nel 1821, quando la Città era in pieno riordino seguito alla fine dell’occupazione francese e della prima Repubblica Romana. Al suo ritorno, dopo gli anni passati tra Savona e Fontainebleau come prigioniero di Napoleone, il papa Pio VII era stato accolto trionfalmente, ma a riportare indietro le lancette della storia non bastò l’editto che cancellò le leggi imposte dagli occupanti d’oltralpe, tra cui quelle riguardanti i codici napoleonici sullo Stato Civile e la spoliazione dei beni ecclesiastici. Il dinamico cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato nominato sulla via del ritorno il 10 maggio 1814 e che restò in carica fino alla morte di PioVII il 20 agosto 1823, si adoperò con impegno per dare al rinato Stato Pontificio una vera struttura amministrativa, pur talvolta ostacolato dai cardinali più conservatori. La sua azione però non fu proseguita dopo la morte di Pio VII dai pontefici che lo seguirono, Leone XII e Pio VIII. Solo successivamente, con Gregorio XVI che sul Soglio di Pietro fu dal 1831 a11846, riprese una pur cauta azione di consolidamento dello Stato, grazie anche ad una saggia azione amministrativa del Mons. Giacomo Antonelli, futuro cardinale e grande Segretario di Stato di Pio IX. La situazione, dopo l’invasione francese andava anche peggio nella cultura ,dove - se si esclude la scultura con il Thorwaldsen -, secondo un’affermazione del Saint- Beuve, era quella di una città morta. Un quadro che sconfortò pure Giacomo Leopardi, il quale riferì di onori profanati e di monumentali sciocchezze. In confronto, stava decisamente meglio la musica teatrale, secondo il Grillandi «arte prediletta dalle autorità perché non ha parole ne immagini, non fa male a nessuno e non dà scandalo». Nel 1822 a roma Il vero esordio operistico di Donizetti, a non contare le tre “operine” rappresentate nei teatri minori di Venezia e a Mantova, avvenne a Roma, al Teatro Argentina, Il Cardinal Consalvi con Pio VII propiziato presso l’impresario Giovanni Paterni - è supposizione fin troppo facile - dal suo maestro Giovanni Simone Mayr. I teatri privati romani offrivano stagioni brevi, con non più di quattro opere, due nuove e due riprese o nuove per la città; la compagnia di canto, la stessa per tutte le opere, contava in tutto una prima donna, un tenore, un basso, un buffo e due comprimari. L’orchestra era di una trentina di elementi, il coro non superava i quindici artisti. Al Paterni, Donizetti propose di scrivere un’opera seria, per lui la prima, su libretto del coetaneo bergamasco Bartolomeo Merelli dal titolo Zoraide di Granata. L’azione era in Spagna sul finire del medioevo, ai tempi della guerra tra i cattolicissimi re Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona e gli ultimi re moreschi. L’opera’ andò in scena il 28 gennaio 1822, protagonisti il soprano Maria Ester Bombelli e il tenore Domenico Donzelli. Fu un successo grande e inatteso; il principe Chigi che nel suo diario teneva nota dei maggiori eventi cittadini, lo definì “strabocchevole”. Il successo crebbe durante le repliche e dopo la “terza”, l’autore «fu condotto in carrozza, accompagnato da una folla plaudente, al lume di torce e al suono di una banda militare, alla trattoria di Monte Citorio dove fu allestita una cena». Durante quel primo positivo esordio compositivo a Roma, il Maestro strinse con alcune famiglie rapporti che durarono nel tempo: con il librettista Ferretti, con i Carnevali e con i Vasselli. E probabile che abbia conosciuto anche Gioachino Belli, il quale era amico stretto del Ferretti e di Toto Vasselli, fratello della sua futura sposa Virginia. La notizia del successo di Zoraide di Granata si sparse fulmineamente per tutta l’Italia e portò al musicista nuove offerte di lavoro. L’impresario Domenico Barbaja gli chiese subito due opere nuove per i teatri napoletani che egli scrisse come al solito di getto: la semiseria La zingara e le farsa La lettera anonima, andate in scena tra la primavera e l’estate dello stesso 1822. Dietro richiesta de La Scala compose, poi, la semiseria Chiara e Serafina, su libretto di Felice Romani, che debuttò in ottobre. Dunque ben 4 furono le opere scritte e portate - con esiti diversi - sulle scene teatrali di tre fra le maggiori città italiane in quel fortunato 1822. Due anni dopo di nuovo a roma Donizetti ritornò a Roma due anni dopo, stavolta al Teatro Valle, di proprietà dei Capranica, ma governato anch’esso dal Paterni, distillatore e commerciante che faceva anche l’impresario. Per lui Donizetti compose quattro opere: L’ajo nell’imbarazzo (1824), Olivo e Pasquale (1827), Il furioso nell’isola di San Domingo e Torquato Tasso (entrambe del 1833). Di tutte e quattro le opere il librettista fu Jacopo Ferretti, verseggiatore abile e sciolto. L ‘ajo nell’imbarazzo, su soggetto tratto dalla omonima fortunata commedia di Giovanni Girard, fu la prima opera del maestro bergamasco ad avere vasta diffusione, sempre coronata da successo, salvo a Bergamo nel 1830. L’autore però le preferì sempre Torquato Tasso, opera semiseria sullo sfortunato amore del poeta per Eleonora d’Este, gli intrighi della corte di Ferrara, la sua pazzia e la conclusiva apoteosi, nel breve terzo atto, con gli echi della sua incoronazione in Campidoglio. Quest’ultima è la parte più sentita e riuscita e nel secolo scorso, quando l’opera era praticamente scomparsa dalle scene, veniva ancora rappresentata come pezzo a se. Donizetti aveva una singolare predilezione per l’autore della Gerusalemme liberata e per la sua figura malinconica, simpatia accresciuta delle radici bergamasche del Tasso. Sul soggetto prescelto, insolito per un’opera in musica ma da lui imposto all’impresario ed al librettista, si preparò con particolare cura, leggendo Goldoni, Goethe, Zuccalà e la stessa preparazione impose al Ferretti con Muratori, Tiraboschi, Byron. Per la parte del protagonista aveva pensato a un altro compatriota, Giovan Battista Rubini, ma il celebre tenore «non ritenne associarsi alla nobile idea del Maestro». La presenza a Roma di Giorgio Ronconi, che era stato un superbo interprete del Furioso nell’isola di San Domingo, lo indusse ad affidare a questo baritono il ruolo di Torquato. L’opera andò in scena il 9 settembre 1833 con buon successo ed ebbe quattordici repliche. Cominciò poi il giro dei teatri italiani, e “resistette” per una decina d’anni. L’autografo della partitura riporta questa dedica al Tasso: «A Bergamo, Sorrento e Roma, la città che lo concepì, quella dove vide la luce e quella che ne ebbe la salma». L’ultima opera “romana” di Donizetti fu Adelia o La liglia dell’arciere, opera seria in tre atti sempre su libretto di Romani, rappresentata al Teatro Apollo l’11 febbraio 1841. Francesco Piccolo 12 L’Elisir d’amore il Giornale dei Grandi Eventi Dulcamara: «E’ Bordeaux , non elisir…» Il vino Bordeaux, elisir di Châteaux prestigiosi N el primo atto de L’Elisir d’amore, Dulcamara dice «E’ eccellente…», aggiungendo poi a mezza bocca: «E’ Bordeaux, non elisir», spiegando tra se il suo inganno da ciarlatano. In realtà il Bordeaux è vino di prestigio. Nel sud-ovest della Francia i grandiosi vigneti di Bordeaux coprono le sponde dell’estuario atlantico della Gironda per una superficie di 100.000 ettari. Ogni anno oltre nicolo si conclude con i possenti e generosi vini rossi di Saint Emilion, considerati fra i più robusti del Bordolese. Il prodotto delle vigne girondine è conosciuto, apprezzato e rispettato in tutte le nazioni, in ogni continente come uno dei prodotti più tipici della cultura francese. Fin dall’antichità il porto di Bordeaux è stato lo scalo più favorevole per il commercio dei vini; navi italiane, tedesche, olandesi e inglesi hanno attraversato il Mediterraneo infinite volte pur di portare sulle patrie mense un po’ di quel prezioso nettare. Gli Châteaux 1.600.000 ettoltri di vino rosso e 1.100.000 di bianco hanno diritto all’appellation d’ origine controlée; ovviamente la qualità non è sempre la stessa, soprattutto le regioni di provenienza determinano le fondamentali differenze di ogni vino. A nord di Bordeux si trovano le terre girondine di celebri vini come l’Haut Medoc e il Medoc, sulla sponda destra della gironda si estendono le Còtes de Bourg e le Còtes de Blaye, più a Sud, invece, è il Pomerol, Barsac e Sautemes (territori di grandi vini bianchi). L’itinerario vi- Parte del vino è prodotto in circa tremila Château, una sorta di fattorie castellane con fabbricati adibiti alla lavorazione dei vini, cantine comprese. Spesso ci si trova di fronte a splendide dimore (completamente diverse dai tipici castelli italiani) conservate intatte nei secoli nelle imponenti strutture funzionali alla produzione del vino. Ogni annata è una storia a sé, di anno in anno lo stesso vino può persino cambiare carattersistiche. Per questo le annate e i millésimes hanno rilevante importanza per i vini di Bordeaux e i migliori produttori, a prescindere dalle decisioni ufficiali, non distribuiscono bottiglie millesimate se non sono certi di aver raggiunto un buon risultato. Il clima bordo- lese, che insieme alla composizione dei terreni ed alla scelta dell’epoca della vendemmia, ha molta importanza per la qualità del vino, è conosciuto con il nome di “clima aquitano” essendo soggetto all’influenza dell’Oceano Atlantico. I rossi di Bordeaux rinomati, di grande annata, adeguatamente maturati in idonee cantine, sono i vini da bere nelle grandi occasioni. Gli appassionati sanno che la bottiglia di Bordeaux (del resto come tutti i rossi di una certa gradazione) va stappata in anticipo, dopo averla portata a temperatura ambiente e gustata magari in compagnia di un buon profumato prosciutto di Bayonne o di qualche pasticcio di selvaggina. rosso o rubino prodotto d’esportazione I vini di Bordeaux furono per secoli più conosciuti all’estero che in patria. E se il rosso piaceva tanto ai pallidi inglesi, il rubino del Medoc era più amato dai monsignori di Francia. Per meglio capire il prestigio che nel passato questo vino ha rappresentato si può dire che il Re Sole Luigi XIV men- tre riceveva a corte il marchese di Segur, proprietario delle tenute di Chàteau Lafite e Latour, disse: «Signori, ecco il gentiluomo più ricco del mio regno, le sue terre producono diamariti e nettare». Fra gli scrittori e gli uomini politici di Francia non mancano gli affezionati alla grande famiglia dei Bordeaux, da Rabelais a Montesquieu, dal duca di Richelieu ad Alfred de Vigny, da Moreau a Jammes. I vini rossi di Bordeaux di prima grandezza premiers grands crus erano tre fino a qualche anno fa: Chàte- au Lafite-Rothschild, Chàteau Latour, Chàteau Margaux. Dal 1973 è entrato a far parte di questa elite lo Chàteau Mouton-Rothschild, grazie alla sua qualità assoltua, mantenuta sempre ad alto livello da oltre un secolo. Tra i grandi collezionisti di questi grandi vini figurano molti italiani. Nonostante in Italia non manchino celeberrimi prodotti concorrenti con il vino di Francia, sono sempre di più gli acquirenti italiani dei preziosi Bordeaux. Tin. Alf. il Giornale dei Grandi Eventi L’Elisir d’amore 13 Il vino nell’opera Dal Bordeaux di Nemorino allo Champagne di Violetta, per allegre ebbrezze a suon di musica L a benefica ubriacatura di Nemorino, causata non da un “magico” elisir, ma da un rosso Bordeaux d’annata, rappresenta una delle tante occasioni di incontro fra Bacco e Apollo sulla scena lirica. Si può citare, come esempio illuminante, il Falstaff. Inizio atto III, esterno dell’Osteria della Giarrettiera. Falstaff è seduto su una panca e ordina «un bicchier di vin caldo». Indubbiamente ne ha bisogno. Alla fine dell’atto precedente, attirato con un tranello ad un finto appuntamento galante, l’impenitente rubacuori, a dispetto della non più verde età (ha 80 anni come il suo autore, Verdi) era finito in una cesta dei panni e con quella gettato nel Tamigi. La disavventura, al di là dello scampato pericolo, sembra lasciare il segno in Falstaff che improvvisamente si sente vecchio, fuori da un mondo in declino. «Non c’è più virtù», constata sconsolato e canta autocommiserandosi: «Va, vecchio John, va, va, per la tua via, cammina finchè tu muoia. Allor scomparirà la vera virilità dal mondo». Finalmente gli viene servito il bicchiere di vino, annunciato da un’orchestra nuovamente vivace e frizzante. Falstaff cambia umore: «Versiamo un po‘ di vino nell’acqua del Tamigi», dice allegramente. E poi, sorseggiando con calma, dopo essersi sbottonato il panciotto, fermo al sole, si lascia andare ad una delle più belle esaltazioni delle virtù terapeutiche del vino: «Il buon vino sperde le tetre fole dello sconforto, accende l’occhio e il pensier, dal labbro sale al cervel e qui risveglia il picciol fabbro dei trilli» (e l’orchestra si anima trillando nei fiati). «Un negro grillo che vibra entro l’uom brillo. Trilla ogni fibra in cor, l’allegro etere al trillo guizza e il giocondo globo squilibra una demenza trillante! E il trillo invade il mondo!». La riconciliazione con l’umanità è siglata da Falstaff con un semplice boccale di vino, sicuro espediente per guardare intorno a sè con occhi più benevoli e animo sereno. Il vino gioca un ruolo di rilievo (se pur spesso assai differente e variegato) in molte altre scene liriche. Nei Racconti di Hoffmann, capolavoro estremo di Offenbach, addirittura, sono gli spiriti del vino e della birra ad aprire l’opera. Offenbach, va ricordato, al vino ha dedicato svariate pagine. Nel quarto atto dell’ Orfeo all’inferno c’è persino un inno a Bacco. il brindisi Il termine “brindisi” ha origini probabilmente tedesche. I lanzichenecchi alzando il bicchiere esclamavano «bring dir’s», «lo offro a te». Un’offerta amichevole, dunque, non sempre, tuttavia, accettata con altrettanta bonomia. E’ il caso della celebre scena di Cavalleria rusticana. Alfio ha saputo da Santuzza che sua moglie Lola se la intende con Turiddu, il vinaio. Dopo la funzione pasquale, i paesani sono riuniti nella piazza su cui si affaccia l’osteria di mamma Lucia e Turiddu offre da bere a tutti. Il canto è apparentemente gioioso: «Viva il vino spumeggiante/ nel bicchiere scintillante…». La festa è bruscamente interrotta dal gesto di Alfio che rifiuta il bicchiere: «Grazie - dice al rivale ma il vostro vino io non l’accetto, diverrebbe veleno entro il mio petto». E’ il segnale della tragedia. Poche parole, l’appuntamento dietro l’orto. Per Turiddu c’è solo il tempo per un saluto alla madre che di lì a poco sentirà l’ormai famoso urlo disperato «Hanno ammazzato compare Turiddu». Brindisi, dunque, foriero di sventure. In un altro caso, invece, è portatore di un travolgente amore anche se destinato a sfociare ancora in dramma. ne esortato a pronunciare una formula beneaugurante. Le coppe dovrebbero essere colme di Dom Perignon, anche se sul palco nella realtà non si andrà oltre un buon bicchiere di acqua, forse minerale (ma non troppo gasata!). Una curiosità: i calici si dicono ispirati alle rotonde forme del seno della Pompadour, modello assai più allettante e sensuale di quello, musicale, per il “flûte”. Torniamo ad Alfredo che, fissando estasiato Violetta, canta «Libiam ne’ lieti calici/ che la bellezza infiora…». La risposta di Violetta è un’esortazione a godere l’attimo fuggente: «Tra voi, saprò dividere il tempo mio giocondo;/ tutto è follia nel mondo/ ciò che non è piacer…». Se i due brindisi citati sono probabilmente i più famosi ed emblematici di situazioni drammaturgiche opposte, di calici che si levano al cielo al suon di cori, arie e cabalette, se ne contano a decine nel nostro repertorio operistico. Ci limitiamo a chiudere con il personaggio più sfrenato, incontenibile e amorale della storia del teatro, Don Giovanni. Nel primo atto dell’opera mozartiana, il leggendario rubacuori, irrompe in scena, subito dopo l’aria, statica ed estatica di Don Ottavio («Dalla sua pace») per aggredire lo spettatore con un canto di violenta e baldanzosa vitalità: «Fin ch’han dal vin/ calda la testa/ una gran festa/ fa preparar./ Se trovi in piazza/ qualche ragazza/ teco ancor quella/ cerca menar./ Senza alcun ordine la danza sia/ ch’il minuetto, chi la follia,/ chi l’allemanna farai ballar/ Ed io frattanto/ dall’altro canto/ con questa e quella/ vo’ amoreggiar/ Ah la mia lista doman mattina/ d’una decina devi aumentar». Vino, danza, amore. La trinità perfetta per Don Giovanni. r. i. «Libiam ne’lieti calici» Ha affermato Curzio Malaparte che la musica di Giuseppe Verdi è colma di lambrusco fino all’orlo. Non è tuttavia il lambrusco ad allietare la festa in cui in Traviata si incontrano Violetta Valery e Alfredo Germont, ma un ghiacciato, morbido e frizzante champagne. Alfredo vie- Falstaff in un quadro di Eduard Grutzner 14 L’Elisir d’amore il Giornale dei Grandi Eventi Anche la Capitale ha il suo storico Bordò Fiorano: vitigni francesi impiantati a Roma per un vino d’eccellenza, inizialmente destinato alla sola tavola di un aristocratico N essuno aveva mai pensato di fare un vino da vitigni bordolesi sulle terre italiane fino alla seconda metà del secolo scorso, quando ancora i vini di qualità si compravano in Francia. I Bordeaux (o Bordò, come se ne scriveva nell’800) erano tra i più ambiti, soprattutto dall’aristocrazia e furono proprio alcuni nobili a dare inizio all’era moderna del vino italiano. Il più noto è il Sassicaia del Marchese Mario Incisa della Rocchetta. Il Marchese, intorno agli anni ’50 del ‘900, impiantò le uve cabernet sauvignon e franc nelle sue tenute in quella Bolgheri, in provincia di Livorno, cara al Carducci. I primi tentativi per fare un vino di qualità non furono esaltanti, ma con l’aiuto di un giovanissimo cugino, Carlo Guerrieri Gonzaga (che con il suo San Leonardo, a base cabernet franc divenne poi, nel Trentino, un altro pilastro della nuova cultura vinicola italiana) e successivamente con le modifiche apportate dall’enologo Giacomo Tachis, il Sassicaia raggiunse il suo equilibrio che ne ha creato la fama. Poi fu il figlio di Mario, Niccolò, a prendere le redini della cantina che segue tutt’ora, lanciandola verso un successo mondiale e trascinando con sé l’immagine di qualità dei vini italiani. il Fiorano, merlot “romano” Ma nella storia il vino “mitico” per eccellenza, quello avvolto dal fascino del mistero e da una fama internazionale nonostante le sue limitate produzioni, rimane un vino di taglio bordolese (cabernet sauvi- gnon e merlot) prodotto dentro Roma, il Fiorano. Fu il Principe Alberico Boncompagni Ludovisi, uomo schivo ma dalle idee chiare, che impiantò, sempre negli anni ‘50 un piccolo vigneto per produrre vino solo per il proprio consumo, ad avere la “sfortuna” di essere scoperto da Veronelli che si appassionò a questa piccola ma qualitativa produzione, tanto da paragonarla al già famoso Sassicaia, dandogli così una fama poi divenuta internazionale. Considerata la sua piccola produzione sembrava che il Fiorano fosse destinato a rimanere un mito inarrivabile ed ormai perso nel passato, a maggior ragione quando, nel 1998, Alberico stesso e senza darne spiegazioni, ne espiantò i vigneti. Già Burton Anderson in ‘Vino’, la sua guida ai vini italiani, nel 1980 scriveva «La grandezza di Fiorano è un segreto condiviso da pochi». Inve- segue da pag. 3 sto delle attività culturali in una città come Roma» che di cultura dovrebbe vivere. Si può così ben capire che, pur amando visceralmente l’opera lirica, ciò in questi tempi non è possibile, non è morale e neppure è giusto. «L’Opera – come ha sottolineato Valerio Cappelli, valente critico del Corriere della Sera – resta un corpo estraneo alla città, una nicchia che produce poco e costa tanto». Per questo ora noi ci offriamo di pubblicare - al fine di mettere lettori, spettatori ed abbonati di fronte alla realtà - notizie ed anche documentazioni che ci giungano (da noi ovviamente verificate) che dimostrino sprechi e situazioni paradossali. In tutto ciò, ora il Teatro con il nuovo Sovrintendente Carlo Fuortes, giunto come pacco natalizio a fine dicembre, ha deciso di aderire al cosiddetto decreto “Valore Cultura”, decreto che ha stanziato 75 milioni per salvare le fondazioni lirico-sinfoniche. Ma il Sovrintendente in conferenza stampa si è dimenticato di dire che i soldi ricevuti sono un prestito, anche se a lungo termine. Il decreto prevede due clausole: l’annullamento del contratto integrativo e la revisione della pianta organica con una riduzione fino al 50% del personale tecnico-amministrativo, facendo dunque salvi, ovviamente, orchestra e coro. Qui, però, di vere ristrutturazioni non se ne parla, o perlomeno non si vedono, se non il licenziamento di una ventina di ballerini. Sempre in conferenza stampa Fuortes ha dichiarato: «il contratto integrativo va annullato, fermo restando che nulla toglie di rifarlo uguale». Prima di sgranare gli occhi, abbiamo risentito le parole registrate. A noi pare - ma ci potremmo sbagliare (??) - che tale dichiarazione o eventuale comportamento in tal senso vada un tantino al di la dello spirito del decreto che nella logica imporrebbe di far calare le spese, e ciò ci meraviglia quando detto da una persona la quale vorrebbe farsi passare per manager e che in forza di questo continua a ricoprire il ruolo di commissario al Petruzzelli di Bari ed Amministratore delegato a Musica per Roma, ovvero all’Auditorium, la quale non appare proprio altra piccola struttura e dove non ci sia nulla da fare. In questo mare magnum, uno degli anacronismi che balza agli occhi è, per esempio, la cosiddetta “Indennità Caracalla”, ovvero un gettone (pure sostanzioso) percepito da tutti indistintamente i dipendenti del Teatro - anche quelli che a Caracalla non mettono piede - quando è in corso la stagione estiva. Ciò accade pure in altri teatri, ma è solo un esempio. Dunque, esprimendo tutta la nostra solidarietà ai lavoratori, molti dei quali sono vere ed uniche eccellenze artigiane che si tramandano mestieri antichi, eccellenze non sfruttate (si acquista fuori piuttosto che produrre internamente anche se il personale è comunque pagato, lamentano molti di loro), forse qualcosa bisognerebbe cambiare. Da una parte (quella dei lavoratori) di fronte al rischio del posto non si può rimanere attaccati a privilegi antichi che in questi tempi non facili diventano anacronistici e ci fanno tornare alla mente i piloti Alitalia che mentre la compagnia falliva si erano irrigiditi sul mantenimento dell’auto che li andava a prendere a casa. Dall’altra, alla luce di comportamenti e dichiarazioni forse ci vorrebbe davvero un commissario, altrimenti salta alla mente l’amara frase di Tancredi nel Gattopardo: «cambiare tutto per non cambiare nulla». re. Gio. ce, e per fortuna, all’inizio del 2000 Alberico ritornò sui suoi passi, ed ormai anziano e cagionevole di salute, fece reimpiantare il suo stesso vigneto al giovane cugino Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, suo erede, che ha riportato alla luce il Fiorano, mettendolo in commercio a partire dalla vendemmia 2006. La Tenuta di Fiorano con i suoi 200 ettari e la capacità di essere autosufficiente nelle pratiche agricole, si trova all’interno del comune di Roma, nel cuore del Parco dell’Appia Antica, in una posizione dalla quale si scorge in lontananza, da una parte il profilo della Cupola di San Pietro e dall’altra il dolce declinare delle alture dei cartelli romani. Cinque ettari quelli destinati a vigneto, per una produzione limitata (circa 5000 bottiglie di rosso e 5000 di bianco) su un terreno prevalentemente di pozzolana dal buon drenaggio che permette l’invecchiamento, il quale avviene in azienda in botti di rovere Slavonia da 10 ettolitri. Questo “Bordò romano” si caratterizza per un colore rubino vivo di media concentrazione, con profumi complessi, setoso all’assaggio, con tannini appena accennati, di grana finissima, privi di qualunque concessione ad elementi legnosi. Tutte caratteristiche di una qualità che ha già portato il Fiorano ad essere battuto alle aste internazionali, ad essere protagonista in degustazioni comparate con il Sassicaia, oltreché ad offrire la garanzia di poter gioire ancora, per gli stessi motivi che lo fecero impiantare, dello storico “Bordò” di Roma. Tin. Alf. il Giornale dei Grandi Eventi L’Elisir d’amore 15 Compositore raffinato Autore di sette libretti per Donizetti Gaetano Donizetti Felice Romani N ato a Borgo Casale, antico sobborgo appena fuori della cinta muraria della città di Bergamo, il 29 novembre 1797, Gaetano Donizetti iniziò a studiare musica all’età di nove anni grazie all’interessamento del generoso insegnante Simone Mayr il quale, intuite le doti del ragazzo, si prese cura della sua istruzione fino al 1815. Donizetti perfezionò la sua preparazione nel Liceo Filarmonico di Bologna studiando contrappunto. Nel comporre egli si ispirò dapprima ai modelli classici come Mozart e Gluck; quindi si dedicò all’opera con evidenti influenze di Gioacchino Rossini, il grande protagonista musicale del periodo, riuscendo però a mantenere una scrittura originale e molto personale. Nel 1818 debuttò al Teatro San Luca di Venezia con Enrico di Borgogna su libretto di Bartolomeo Merelli. Questa fortunata collaborazione aprì al compositore le porte di prestigiosi teatri come l’”Argentina” di Roma e il “Nuovo” di Napoli. Un ulteriore incontro fu fondamentale per la carriera di Donizetti, quello con il celebre librettista Felice Romani. Il primo suggello di questa collaborazione artistica fu la rappresentazione di Chiara e Serafina, ossia il pirata al Teatro Alla Scala di Milano (1822) e più tardi sfociò nell’importante successo di Anna Bolena (1830), che rivelò al grande pubblico il talento del compositore nel trovare la piena adesione e armonia tra la partitura melodica e l’azione scenica. La conquistata fama agì da stimolo per l’attività di Donizetti e lo portò ad intensificare ulteriormente il lavoro di scrittura. Nel 1832 vide la luce uno dei suoi principali capolavori: L ‘Elisir d’amore, sempre su libretto dell’ormai inseparabile Romani e tratto dalla commedia Le Philtre di Eugène Scribe. Altro grande successo di quegli anni fu Lucia di Lammermoor (1835), ispirato al romanzo di Walter Scott (La Sposa di Lammermoor) che segnò l’inizio della collaborazione con il librettista Salvatore Camrnarano. Probabilmente la mancata assegnazione di incarichi di rilievo e la perdita della moglie furono le cause che spinsero Donizetti a lasciare l’Italia per Parigi, dove si trasferì nel 1838. La Francia fu con lui più generosa di successi e gli regalò la consacrazione internazionale, che fu poi definitivamente sancita a Vienna dalla trionfale “prima” di Linda di Chamounix (1842). Anche negli ultimi anni della sua vita, Donizetti compose con infaticabile impegno tra Italia e Francia, fino a quando, nel 1845 fu colpito da una paralisi celebrale che tre anni più tardi gli fu fatale. Fu senza dubbio con i melodrammi romantici che Donizetti conobbe gli esiti più felici della propria scrittura. Toni dolorosi e malinconici disegnano con grazia la fragilità di sentimenti e passioni, costanti protagonisti della ricca opera donizettiana. Subito dopo la morte, avvenuta a Bergamo 1’8 aprile 1848 nel palazzo della baronessa Basoni Scotti, la salma di Gaetano Donizetti fu tumulata nella cripta della cappella della nobile famiglia Pezzoli presso il cimitero di Valtesse, un sobborgo della città. Qui rimase fino al 1875 quando, assieme a quella di Mayr, fu traslata nella Basilica di Santa Maria Maggiore, ove ancora oggi riposa sotto il monumento funebre. Questo fu realizzato nel 1855 dallo scultore torinese Vincenzo Vela su commissione del fratello maggiore di Donizetti, Giuseppe (1788-1856). La simbologia che lo caratterizza è chiara: una figura femminile, che rappresenta la musa Tersicore, siede abbandonata nel dolore per la scomparsa del musicista; sotto di lei, in bassorilievo, sette putti – simboleggianti le note musicali – piangono rompendo e calpestando le lire in segno di lutto. Lu. sa. F elice Romani nacque a Genova il 31 gennaio 1788 da una famiglia benestante dedita al commercio della seta sulle vie delle colonie spagnole. Da piccolo la famiglia ereditò da uno zio materno diverse terre nel monegliese, ma nonostante ciò conobbe la miseria a causa di una sbagliata amministrazione dei beni da parte del padre. Pur essendo nato a Genova, fu a Moneglia che Romani passò la sua infanzia e amò moltissimo quelle terre per tutta la vita. Fu proprio a Moneglia che svelò la sua precoce vocazione alle lettere, forte di una profonda conoscenza di Dante e Metastasio. Completò la propria preparazione presso i Padri della Scuole Pie a Genova e si laureò in scienze legali, continuando però a coltivare la passione per la poesia. Studiò quindi i classici e ottenne il diploma in Belle Arti. In seguito viaggiò per Spagna, Germania, Grecia e si trasferì anche temporaneamente a Parigi dove fu nominato mecenate di corte. Tornato in Italia nel 1814, a Milano conobbe Foscolo e frequentò assiduamente Vincenzo Monti. A Torino fu direttore della Gazzetta Piemontese dal 1834 al 1849 e di nuovo dal 1854 fino alla morte avvenuta a Moneglia, presso La Spezia, il 28 gennaio 1865. La sua attività in campo musicale iniziò nel 1813, ma le sue doti straordinarie di poeta conobbero la fama solo a cominciare dalla collaborazione con Bellini per il Pirata nel 1827. In seguito Romani scrisse sette libretti per Donizetti. Fu con Elisir d’Amore che la straordinaria capacità di caratterizzazione di Romani divenne davvero evidente. Sebbene il libretto fosse tratto da un lavoro di Scribe, l’adattamento che ne riuscì risultò superiore all’originale. Oltre che per bellini e Donizetti, scrisse libretti per Saverio Mercadante, Giacomo Meyerbeer, Giovanni Pacini e Gioachino Rossini. Nell’estate del 1840 concesse a Verdi un suo lavoro, Il finto Stanislao, musicato in precedenza da Adalbert Gyrowetz (Milano, Teatro Alla Scala, 5 agosto 1818) per farne un’opera buffa da mandare in scena nella stagione autunnale dello stesso anno, ma la forte revisione al libretto (compreso il titolo) da Temistocle Solera portò in scena questa seconda opera verdiana il 5 settembre 1840 con il titolo Un giorno di Regno, riscuotendo un giudizio talmente sfavorevole da farla ritirare dopo la prima rappresentazione. Di formazione classicista, Romani si dimostrò sempre diffidente verso i nuovi fermenti romantici, ma per la creazione dei suoi libretti seppe guardare anche alla produzione di moderni autori di questo genere poetico e letterario. In una lettera a Cavour, Felice Romani una volta scrisse: “Io non sono ne’ classico ne’ romantico, amo il bello e l’ammiro ove c’e’”. Per quanto forte fosse la sua educazione classica, fu proprio nel settore del melodramma romantico che egli ottenne i migliori successi, riuscendo a manifestarne lo spirito in modo ammirevole. maria Elena basili PER RICEVERE PREVENTIVAMENTE IL GIORNALE, ISCRIVETEVI ALLA NOSTRA MAILING SCRIVENDO A: [email protected] LO POTRETE COSÌ LEGGERE PRIMA DI VENIRE IN TEATRO