Anno XX - Numero 35 - 8 maggio 2014
L’intervista
Il regista Ruggero Cappuccio,
racconta questo allestimento
A Pag.
2
Storia dell’Opera
Un lavoro nato in
poco più di una settimana
A Pag.
6
Analisi Musicale
Opera giocosa, nei pieni
canoni ottocenteschi
A Pag.
7
Elisir e filtri magici
Miti medioevali per la
ricerca della perfezione
A Pag.
8 e9
«E’ Bordeaux, non elisir»
Il rosso nettare di Francia
ed i riferimenti al vino nel
Melodramma
A Pag.
12, 13 e 14
L’ELisir D’AmorE
di Gaetano Donizetti
2
L’Elisir d’amore
il
Giornale dei Grandi Eventi
Parla il regista Ruggero Cappuccio
«Uno spettacolo che prende forma attraverso i colori»
I
dolo a ricorrere a un filtro magico che, benché
fasullo, si rivelerà “fatalmente” efficace, a dimostrazione che l’amore senza complessità
non ha gusto, poiché la ricerca, il senso della
felicità non è in ciò che abbiamo, ma nell’anelito di qualcosa che ci manca. E questo è rivoluzionario nell’opera. Qui nel libretto di Romani, in assenza di elementi estranei, è la
donna ad imprime tensione alla vicenda».
L’Elisir d’Amore, che debuttò il 12 maggio 1832
al teatro milanese della
Canobbiana (poi Teatro Lirico), rappresentò
un vero punto di svolta
nella storia dell’opera
buffa. «Nei molti decenni
i registi si sono confrontati con questo titolo alcuni
seguendo letteralmente il
testo, altri discostandosi
dalla tradizione ed altri
ancora tentando una attualizzazione. Ma il
rischio è che si cada nel manierismo. Io sono
per la sospensione: la narrazione è nella musica stessa che va ascoltata, senza magari
neppure le parole. Sospendere vuol dire che
non c’è un tempo di ieri o di oggi, poiché questa è un’opera capace di vive fuori dal tempo.
Per rapportarci con il pubblico, quindi, abbiamo puntato su spazio e costumi di plastica
molto luminosi, un gioco sublime dove sublime è la musica fresca che ha bisogno di un visivo leggero, legato al concetto della luce».
Il cast è formato da cantanti molto giovani. «Giovani, ma con una certa esperienza»,
dice Cappuccio. «I protagonisti necessitano
di grande vitalismo interpretativo perché è
una storia d’amore tra due ragazzi. L’abitudine è di puntare sulle voci, di mettere in scena stagionati cantanti dalle voci collaudate
ed apprezzate. Ma il pubblico, oltre ad ascoltare, viene “a vedere” l’opera e dunque come
protagonisti ci vogliono due ragazzi, due
cantanti giovani anche se meno navigati».
Ruggero Cappuccio, il quale oltre che
con la regia ha lavorato come autore teatrale e come
il G iornale dei G randi Eventi
scrittore arrivando finalista
al Premio Strega nel 2008 ed
Direttore responsabile
ora in libreria con il suo roAndrea Marini
manzo Fuoco su Napoli, ama
Direzione Redazione ed Amministrazione
il genere dell’opera comica.
Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma
Con essa, in passato, si è
e-mail: [email protected]
confrontato attraverso le regie de Il Barbiere di Siviglia,
Editore A. M.
di Don Pasquale, del Falstaff
Stampa Tipografica Renzo Palozzi
con Muti alla Scala e della
Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma)
Nina pazza per amore di PaeRegistrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995
siello.
«E’ un genere che amo
© Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore
molto perché nel genere giocoso
si può fare del bel teatro, si può
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inventare molto e lasciar galopwww.giornalegrandieventi.it
pare fantasia e creatività».
dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale
Andrea marini
tenui colori pastello che giocano con
le luci, quasi impalpabili espressioni
dell’onirico, ripropongono in scena
l’allestimento dell’Elisir d’Amore creato
per il Teatro dell’Opera nel 2011 - ed allora andato in scena dal 4 febbraio - dal
regista napoletano cinquantenne Ruggero Cappuccio. «Lo spettacolo è sostanzialmente lo stesso di tre anni
fa. Non ho voluto apportare grandi modifiche, se non
lavorare sui cantanti che
questa volta sono giovani»,
sottolinea il regista, il
quale al Teatro dell’Opera di Roma debuttò proprio in quell’occasione,
per poi tornare al Costanzi nel giugno dello
scorso anno con il Don
Pasquale, sempre di Donizetti. «L’allestimento
dell’Elisir si fondava e si
fonda su una ricerca della luce ispirata dalla
straordinaria musica di Donizetti, capace di
esaltare le qualità delle luci e delle ombre interiori. Lo spettacolo è così costruito intorno
ad uno spazio aperto che lo scenografo Nicola
Rubertelli ha creato facendo dominare il colore bianco, in modo tale che lo stesso spazio
riesca essere modulato di volta in volta attraverso la proiezione di varie tonalità di luce colorata». Regista e scenografo hanno lavorato su vari significati che sono dietro al
libretto di Felice Romani, musicato da
Donizetti – si narra – a tempo di record
in sole due settimane.«Non dimentichiamo
– sottolinea Cappuccio – che Gaetano Donizetti è vissuto nel periodo di Leopardi, Foscolo, Byron, Shelley, Keats: insomma in pieno romanticismo. In quest’opera, a differenza
di gran parte del melodramma, non abbiamo
un ostacolo strutturale di qualcuno che ama
un altro ed è ostacolato da un terzo, piuttosto
che da qualcosa o da un impedimento sociale.
Qui l’impedimento lo inventa Adina respingendo il corteggiatore Nemorino costringen-
stagione d’opera 2013 - 2014
del Teatro dell’opera di roma
18 - 28 giugno
CArmEN
di Georges Bizet
Emmanuel Villaume
Emilio Sagi
Direttore
Regia
stagione Estiva 2014
Terme di Caracalla
14 luglio - 9 agosto
LA bohEmE
di Giacomo Puccini
Daniele Rustioni
Davide Livermore
Direttore
Regia
23 luglio - 8 agosto
iL bArbiErE Di siViGLiA
di Gioachino Rossini
Stefano Montanari
Lorenzo Mariani
Direttore
Regia
21 - 31 ottobre
riGoLETTo
di Giuseppe Verdi
Renato Palumbo
Leo Muscato
Direttore
Regia
~~
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 8 – 14 maggio 2014
L’ELisir d’amorE
Opera in due atti
Da Le Philtre di Eugène Scribe (1831)
Composizione: Primavera 1832
Prima Rappresentazione:
Milano, Teatro Canobbiana, 12 maggio 1832
Libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Direttore
Regia
Direttore del Coro
Scene
Costumi
Luci
Domato Renzetti
Ruggero Cappuccio
Roberto Gabbiani
Nicola Rubertelli
Carlo Poggioli
Agostino Angelini
Personaggi / Interpreti
Adina (S)
Nemorino (T)
Belcore (Bar)
Dulcamara (B comico)
Giannetta (S)
Rosa Feola /
Ekaterina Sadovnikova (9, 11, 14)
Antonio Poli /
Pavel Kolgatin (10, 14)
Alessandro Luongo /
Joan Martin-Royo (9, 11, 14)
Adrian Sampetrean /
Marco Nisticò (9, 11, 14)
Damiana Mizzi
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
~ ~ La Copertina ~ ~
oleografia ottocentesca dedicata a
L’Elisir d’Amore.
il
Giornale dei Grandi Eventi
D
opo soli tre anni l’Opera di
Roma riporta in scena L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti nell’allestimento del regista
Ruggero Cappuccio, con le scene
minimali e colorate di Nicola Rubertelli ed i costumi di Carlo Poggioli.
Un’opera fresca, gioiosa, composta a
tempo di record in 14 giorni da Gaetano Donizetti su libretto di Felice
Romani (che si era rifatto a Le Philtre
di Scribe) ed andata in scena per la
L’Elisir d’amore
prima volta a Milano al Teatro della
Canobbiana (poi Teatro Lirico) il 12
maggio 1832, riscuotendo un immediato successo e ponendosi come
punto di svolta dell’opera buffa.
Il tema ironizza sull’umana ricerca
della perfezione o dell’amore attraverso quei filtri e pozioni magiche
che tanto seguito avevano nella credenza popolare, facendo proliferare
ciarlatani scambiati per medici di
grande fama. E così nell’opera l’eli-
sir, con il suo effetto placebo, si scopre non essere altro che un buon vino Bordeaux, vino noto in Francia
ma, da sempre, soprattutto nome e
prodotto di esportazione per l’enologia d’oltralpe. Per quel che riguarda i cantanti, in questo allestimento
si è voluto puntare su voci giovani
che sappiano interpretare anche “visivamente” i protagonisti. Sul podio
il 64enne collaudato maestro abruzzese Donato Renzetti.
Torna l’Elisir colorato ed onirico di Cappuccio
3
Le Repliche
Venerdì 9 maggio, h. 20.00
Sabato 10 maggio, h. 18.00
Domenica 11 maggio, h. 16.30
Martedì 13 maggio, h. 20.00
Mercoledì 14 maggio, h. 18.00
L’editoriale
Parole e pochi fatti per una
struttura che costa 6 euro
l’anno ad ogni romano
Salviamo
l’Opera
P
La Trama
La vicenda si svolge in un villaggio dei Paesi Baschi (Spagna), a cavallo tra XVIII e XIX secolo.
ATTo i – Ingresso di una fattoria. –
Mentre i mietitori riposano all'ombra di un faggio, il giovane contadino Nemorino
pensa al suo amore per la bella proprietaria terriera Adina.
Ma è troppo timido e semplice per potersi dichiarare. Adina
intanto legge la storia di Tristano ed Isotta e racconta dell'elisir d'amore con cui Tristano aveva conquistato figlia del Re
d’Irlanda. Alla testa di un drappello di soldati, giunge Belcore, il sergente della guarnigione, e inizia a corteggiare Adina
con impudenza. La capricciosa possidente è lusingata dall'enfasi del sergente e si diverte alle sue richieste di matrimonio. Nemorino, indispettito, decide di dichiararsi. Adina però respinge i suoi timidi approcci. Lo incoraggia invece a
partire per la città, dove lo zio in fin vita potrebbe lasciargli
una fortuna.
Nella piazza del villaggio. – A destare la curiosità degli abitanti
del villaggio, arriva la fastosa carrozza di un misterioso personaggio. È il medico ambulante te Dulcamara, il quale mette in vendita un liquore a sua detta "miracoloso", in grado di
curare qualsiasi dolore. Nemorino gli chiede se per caso non
abbia quella bevanda amorosa che aveva fatto innamorare
Isotta. Dulcamara, intuendo l'ingenuità del villico, gli vende
a caro prezzo un prodigioso elisir che in un solo giorno gli
permetterà di conquistare Adina. Si tratta in realtà dì una
bottiglia di vino Bordeaux che, comunque, una volta bevuto,
produce subito l'effetto desiderato. Nemorino, infatti, un po'
alticcio inizia a cantare e ballare senza curarsi delle attenzioni dell'amata. La capricciosa Adina, indispettita, accetta per
ripicca di sposare il sergente Belcore, Ma Nemorino, ancora
in preda ai fumi del Bordeaux, non è per nulla turbato.
Arriva la notizia che la guarnigione di Belcore deve partire il
giorno seguente. Le nozze saranno, dunque, celebrate immediatamente. Nemorino, che inizia a riacquistare lucidità, do-
po aver tentato di dissuadere Adina, va in cerca del dottore
per chiedergli dell'altro elisir.
ATTo ii – Nella fattoria di Adina. – Gli abitanti del villaggio
e Dulcamara festeggiano le imminenti nozze di Adina e Belcore in attesa che giunga il notaio per celebrarle. La sposa,
però, non sembra convinta della decisione presa. Nemorino,
passata la sbornia, è disperato. Decide allora di comprare
una seconda bottiglia del costoso elisir. Ma per pagare Dulcamara è costretto a farsi arruolare come soldato dal sergente
Belcore. Ora che vede perso il suo amore la morte in guerra
non gli fa paura.
In un cortile. – Intanto nel villaggio si sparge la voce che lo
zio di Nemorino è morto ed il giovane contadino è erede di
una cospicua fortuna. Improvvisamente il ragazzo diventa
l'uomo più ambito da tutte le giovani del villaggio. Ancora
ignaro dell'eredità, Nemorino attribuisce l'improvviso successo al filtro magico di Dulcamara. Il ciarlatano, dal canto
suo, e sorpreso dell'effetto sortito dal falso elisir, mentre Adina soffre nel vedere Nemorino, di nuovo brillo, corteggiato
da tutte le villanelle. La donna si confida allora con Dulcamara, il quale le racconta di aver fornito a Nemorino l'elisir
d'amore d'Isotta, per fargli dimenticare l'amata, Avendo così
compreso che l'amore dì Nemorino era sincero, Adina rifiuta
lo stesso elisir propostole dal ciarlatano e si precipita a riscattare il contadino dall'ingaggio nell'esercito. Porta, quindi, il
contratto d'ingaggio ormai nullo a Nemorino, dicendogli al
contempo che è libero dall'impegno militare, invitandolo così a non partire per la guerra rimanendo nella propria terra.
Nemorino non accetta, affermando che per lui è meglio morire, poiché il suo sentimento non è ricambiato. Finalmente i
due si confessano il loro amore. Belcore, già attratto dall'idea
delle prossime conquiste, accetta senza drammi il fatto compiuto canticchiando «pieno di donne è il mondo e mille e mille
n'avrà Belcore». Tutti inneggiano a Dulcamara: il suo portentoso elisir produce effetti eccezionali!
arlare dei mali
dell’Opera di Roma
è come sparare sulla
Croce Rossa. Sarà frase fatta, ma purtroppo è così.
Facile, ma doveroso, è sparare di fronte a ciò che
emerge ed a dati che vengono letti da questo o da
quello a proprio comodo,
anche senza il minimo pudore: per tre anni si è sbandierato con conferenze
stampa e comunicati «il
pareggio di bilancio per la
prima volta nella storia del
Teatro», per poi scoprire
che l’Opera stava fallendo,
che aveva 28 milioni di debiti, che era al limite di un
commissariamento al quale non è giunti solo per
motivi politici e di opportunità. Il giorno prima che
i giornali uscissero con
questi titoli roboanti, a nostra diretta domanda all’ufficio stampa cadevano
dalle nuvole … tutte chiacchiere. Questo nonostante
il Teatro lo scorso anno ricevesse dal Campidoglio,
come contributo annuale,
20 milioni di euro, come
dire che l’Opera di Roma come in nessun altro comune d’Italia - costa ad
ogni cittadino, anche a colui che detesta la musica,
(calcolando per eccesso i
romani in 3 milioni e mezzo) ben quasi 6 euro (5,7)
l’anno, neonati e moribondi compresi. Venti milioni
a fronte – come lamenta
l’assessore alla cultura Flavia Barca – «di soli altri 3
milioni per pagare tutto il resegue a pag. 14
il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Elisir d’amore
Antonio Poli e Pavel Kolgatin
Rosa Feola e Ekaterina Sadovnikova
Nemorino, povero contadino
innamorato
Adina,
giovane ricca e viziata
N
ella parte di Nemorino, il contadino innamorato, saranno i tenori Antonio Poli (8, 9 e 11 maggio), e Pavel Kolgatin (10 e
14 maggio).
Antonio Poli, nato a Viterbo nel 1986, ha
studiato all’Accademia di Santa Cecilia di
Roma con il Maestro Romualdo Savastano con il quale collabora attualmente. Nel
2010 ha vinto il 1° Premio del pubblico al
“29° Concorso Internazionale Hans Gabor
Belvedere” di Vienna e nello stesso hanno
ha preso parte al “Young Singers Project”
del Festival di Salisburgo. Tra i prossimi
impegni canterà Don Ottavio, nel Don
Giovanni e sarà Tamino nel Die Zauberflote,
mentre nel 2015 Poli debutterà alla Baye- Antonio Poli
rischen Staatsoper di Monaco nel Falstaff
ed al National Theatre come Alfredo nella Traviata.
Pavel Kolgatin, nato a Balaschow (Russia), nel 1987 dopo i suoi studi al
“Moscow Boys Choir College,” ha vinto numerose competizioni canore
e lavorato con importanti direttori d’orchestra fra i quali Louis Langree,
Vladimir Popov e Nikolai Nekrasov. Nel 2009 è diventato membro del
nuovo “Bolshoi Young Artist Program,”. E’ stato Nemorino ne L’elisir
d’amore, Ferrando in Così Fan Tutte, Tamino in Die Zauberflote, Don Basilio ne Le Nozze di Figaro, e Fenton in Falstaff. Tra i suoi prossimi impegni
Il barbiere di Siviglia, nel ruolo del Conte di Almaviva.
5
A
cantare come la capricciosa Adina,
saranno i soprano rosa Feola (8 e10
maggio), e Ekaterina sadovnikova
(9, 11 e 14 maggio).
rosa Feola, nata nel 1986, si è diplomata nel
2008 con il massimo dei voti a Salerno presso il conservatorio statale “Giuseppe Martucci”. Si è perfezionata nell’accademia di
Santa Cecilia con Renata Scotto, Anna Vandi e Cesare Scarton. Nel 2010 la giovane so- Rosa Feola
prano ha vinto il 2° premio speciale Zarzuela al Concorso Internazionale presieduto da Placido Domingo al Teatro la Scala di Milano. Successivamente ha preso parte a diverse produzioni quali L’elisir d’amore, Carmen, le Nozze di Figaro, Don Giovanni.
Tra i suoi prossimi impegni la Bohème, e Die Zauberflote.
Ekaterina sadovnikova, nata in Russia nel 1980, ha svolto i suoi studi
al Conservatorio di San Pietroburgo e alla “Hochschule fur Muskik”
di Dresda. Nel 2006 è stata fra i vincitori al “Competizione dell’opera”
di Dresda e della “Elena Obraztsova International Competition”. Nella stagione 2008/09 è stata Violetta nella Traviata, riscuotendo grande
consenso di pubblico. Nella stagione successiva ha cantato Gilda in
Rigoletto e di nuovo la Traviata al San Carlo di Napoli; successivamente ha cantato ne Die Zauberflote, Le Nozze di Figaro, Falstaff e molte altre.
Tra i prossimi impegni Il Trittico pucciniano con Gianni Schicchi, Suor
Angelica ed Il Tabarro.
Adrian Sampetrean e Marco Nisticò
Alessandro Luongo e Joan Martin Rojo
Belcore, il sergente
che corteggia Adina
A
cantare come Belcore saranno i baritoni, Alessandro
Luongo (8 e 10 maggio), e Joan martin royo (9, 11 e 14
maggio).
Alessandro Luongo, nato a Pisa nel 1978,
ha studiato con Luciano Roberti, ed ha frequentato corsi di perfezionamento con
Alessandra Corbelli, Renato Bruson, Robert
Kettelson e Mirella Freni. E’ stato vincitore
di vari concorsi internazionali, fra cui la 56°
edizione del Concorso “AS.LI.CO” nel
2005, e l’11 edizione del Concorso “Spiros
Argiris” nel 2010. Ha inaugurato con grande successo la stagione 2013/14 presso il
Festival di Glyndebourne proprio ne L’elisir
d’amore ed in seguito ha interpretato Le Noz- Alessandro Luongo
ze di Figaro, Don Giovanni e la Traviata. Tra i
suoi prossimi impegni Il medico dei pazzi, la Bohème e Don Giovanni.
Joan martin rojo, nato a Barcellona, ha studiato piano, violino e basso
al “Conservatori Superior de Musica del Liceu,” e successivamente ha
conseguito la laurea in storia dell’arte all’Università di Barcellona. Il
Baritono, tuttavia, ha continuato a studiare canto, vincendo importanti
competizioni canore e costruendosi pian piano un suo repertorio
d’opera, interpretando spesso lavori di Rossini e Mozart. Martin Rojo
ha collaborato con importanti direttori d’orchestra, da Helmut
Deutsch, a Dalton Baldwin e Roger Vignoles. Nella stagione 2010/11
ha fatto il suo debutto nel Regno Unito ne La Cenerentola a Glyndebourne, e successivamente ha preso parte ad un tour negli Stati Uniti
dove ha cantato Messiah di Haendel, con la National Symphony Orchestra. Tra i prossimi impegni, Curro Vargas, Romeo e Giulietta e Cosi
fan tutte.
Dulcamara, truffatore
che si beffa di Nemorino
N
el ruolo del medico ciarlatano Nemorino, canteranno i bassi comici
Adrian sampetrean (8 e 10 maggio) e marco Nisticò (9, 11 e 4 maggio).
Adrian sampetrean, nato nel 1983 a Cluj Napoca (Romania), ha studiato canto all’Università “Gheorghe Dima” sotto la guida di suo
padre, Mircea Sampetrean. Nel 2006 ha fatto il
suo debutto all’Opera Rumena di Cluj con la
Bohème; nella stagione 2007/08 è stato membro Adrian Sampetrean
della Bayerische Staatsoper Munchen, mentre
dal 2009 al 2011 ha fatto parte delle Deutsche Oper Am Rhein, dove si è esibito in Rigoletto, Norma, Tosca, Bohème e Lucia di Lammermoor. Nella stagione
2011/12 ha interpretato alla Hamburgische Staatsoper la Cenerentola, Il barbiere di Siviglia, Macbeth, l’Aida, ed è stato Leporello in Don Giovanni, ruolo
quest’ultimo che ha ripreso nella tournée del 2012 della Scala di Milano a
Mosca sotto la guida di Barenboim.
marco Nisticò, nato a Napoli, si è laureato in studi teatrali all’Università Sorbona di Parigi. Nisticò ha studiato canto con il padre, Benito Nisticò, al Conservatorio di Avellino e all’International Vocal Arts Institute di Tel Aviv. La sua carriera si è svolta fin da subito tra Europa e Stati
Uniti, dove è diventato ben presto artista stabile alla New York City
Opera, debuttando nel 2005 il ruolo di Morales in Carmen e vi è stato
successivamente come Sharpless in Madama Butterfly, Pallante in Agrippina, Prudenzio ne Il Viaggio a Reims, Schaunard nella Bohème e Dancairo in Carmen. In ambito concertistico ha debuttato alla Canergie Hall, attraverso la Mid America Productions, cantando il Requiem di Faurè e
La Messa in Sol maggiore. Ha inoltre cantato come solista nel “Galà del
Bel Canto” presso il Martin-Lipscomb Performing Arts Center.
Pagina a cura di Mariachiara Onori – Foto di Corrado M. Falsini
L’Elisir d’amore
6
il
Giornale dei Grandi Eventi
Storia dell’Opera
Elisir d’Amore: una ricetta veloce
per un successo immediato
L
a tradizione vuole
che Elisir d’amore sia
stato composto in
una manciata di giorni,
una settimana dedicata alla scelta del soggetto e del
libretto - e qui il lavoro
coinvolgeva in primis Felice Romani - e due settimane interamente votate alla
musica. Sia questa leggenda o realtà, fuori di dubbio
è che certamente questo
gioiello della nutritissima
produzione di Gaetano
Donizetti sia nato da una
prolifica e sgorgante ispirazione che accompagnò il
compositore bergamasco
lungo tutta la sua carriera e
che fece uscire dalla sua
penna un numero eccezionale, oltre al resto, di lavori
per il teatro. «La mia divisa?
Presto. Può essere biasimevole, ma tutto ciò che feci di buono è stato sempre fatto presto». E che però in una particolare fase della sua vita
artistica, intorno al 1827,
compromise in parte la
qualità dei suoi lavori, facendogli guadagnare il
maligno appellativo di
“Dozzinetti”, si badi, non
da “dozzine” bensì da
“dozzinale”.
La nascita dell’Elisir
Nel 1832. Donizetti si trovava a Milano, ancora
amareggiato dal fiasco di
quell’Ugo, conte di Parigi
che il 13 marzo dello stesso
anno, a meno di tre mesi
dal trionfo della Norma belliniana (26 dicembre 1831),
era andato in scena alla
Scala pesantemente storpiato dalla censura e che rimase in cartellone soltanto
per quattro sere, nonostante l’interpretazione di
grandissimi artisti come
Giuditta Pasta, Giulia Grisi
e Domenico Donzelli. La
conquista della Scala era
per il momento rimandata
(il primo vero successo nel
principale teatro milanese,
Donizetti lo otterrà con Lucrezia Borgia, nel dicembre
Il basso Giuseppe Frezzolini, primo interprete di Dulcamara
del 1833). L’occasione di riguadagnare la fiducia del
pubblico milanese - che nel
luglio del 1830 aveva favorevolmente accolto Anna
Bolena al Teatro Carcano, e
poco più tardi, nel marzo
successivo, La Sonnambula
di Bellini - si presentò poco
dopo con l’offerta di Alessandro Lanari, uno dei
maggiori impresari dell’Ottocento insieme a Domenico Barbaja, Vincenzo
Jacovacci e Bartolomeo
Merelli, che in quella stagione gestiva un altro importante teatro di Milano,
la Cannobiana; trovandosi
in difficoltà per un “buco”
improvviso nella programmazione, il Lanari chiese a
Donizetti ed a Romani
un’opera giocosa, magari
riprendendo un vecchio
spartito e adattandolo alle
voci di cui si disponeva in
quel momento. Il consenso
fu immediato, anche se il
musicista non aveva nessuna intenzione di “rattoppare” lavori passati; invece, dei cantanti si dovette
accontentare. «Bada bene,
amico mio - disse in confidenza il musicista al librettista - che abbiamo una prima
donna tedesca (Sabine Heinefetter) un tenore che bal-
Felice Romani, autore del libretto
betta (Giambattista Genero), un buffo che ha la voce da
capretto (Giuseppe Frezzolini), un basso francese e che
val poco (Henri-Bernard
Dabadie). Eppure dobbiamo
farci onore».
Se le condizioni di partenza
non erano delle più rosee,
tempo risicato compreso,
tuttavia Donizetti aveva
dalla sua, oltre alla straordinaria fantasia, anche la
prassi compositiva dell’epoca, una sorta di catena
di montaggio che non si curava del fatto che intere
opere fossero realizzate tramite prestiti - non però
“rattoppi” - da lavori propri precedenti, magari
quelli meno riusciti, anche
perché le strutture compositive si basavano su schemi formali fissi; così interi
brani potevano essere ripresi e, con lievissime modifiche, adattarsi alla nuova opera in tempi naturalmente più rapidi. Ecco allora che per l’ingresso di Belcore Donizetti utilizzò un
brano di una sua precedente opera seria, Alahor in
Granata (1826) e per il preludio di apertura si servì
invece, probabilmente, di
uno dei suoi lavori giovanili non operistici. Romani ri-
cavò il libretto da una commedia di Scribe, Le Philtre,
già musicata l’anno prima
(1831) da Auber (a sua volta ripresa da Il filtro, una
commediola italiana di Silvio Malaperta) mutandone
i nomi dei personaggi e
mantenendo invariato l’intreccio; c’è da dire, però,
che le figure ne escono
molto più caratterizzate, allontanandosi parzialmente
da quella natura di “maschera” fissa, che per tradizione non contemplava
evoluzioni psicologiche del
personaggio e che erano la
cifra tipica del teatro buffo.
L’immediato successo
Elisir d’amore, dopo la buona riuscita della prova generale alla presenza dei
censori, andò in scena appunto alla Cannobiana il
12 maggio 1832, con il cast
sopraddetto più Marietta
Sacchi nel ruolo di Giannetta, ottenendo tanto successo di pubblico e di critica da lasciare incredulo lo
stesso compositore, allora
trentacinquenne, che in
una lettera al suo maestro
Simone Mayr scrisse: «La
Gazzetta giudica dell’Elisir
d’amore e dice troppo bene,
troppo, credete a me...troppo!». E il 16 maggio, appena dopo la terza recita, egli
lasciò Milano diretto prima
a Firenze, dove firmò le
scritture per La Parisina, da
rappresentare nella Quaresima del 1833 al Teatro della Pergola e per un’altra
opera (che in realtà non
venne mai scritta) destinata alla Fenice di Venezia
per il Carnevale dello stesso anno; poi a Roma, dove
si impegnò con l’impresario Paterni a musicare
l’opera Il furioso all’isola di
Santo Domingo su libretto
di Ferretti per la stagione
1832-33 al Teatro Valle. Poi
già nell’autunno successivo sarebbe andata in scena
al San Carlo di Napoli Sancia di Castiglia (4 novembre) su libretto di Pietro Salatino. Tanto per restar fedele alla propria «divisa» di
compositore infaticabile.
Intanto Elisir aveva abbondantemente appagato il
gusto milanese, suscitando
sempre più entusiasmo:
dopo trentadue rappresentazioni, trionfò l’anno successivo a Genova, nel 1834
tornò alla Cannobiana e
debuttò al Teatro del Fondo di Napoli. Nel settembre 1835 arrivò alla Scala quattro giorni dopo la
morte di Vincenzo Bellini a
Parigi - con Maria Malibran nel ruolo di Adina e
di nuovo Frezzolini in
quello di Dulcamara. Non
inferiore fu poi il successo
sui palcoscenici internazionali, a partire da Berlino
(1834), dove andò in scena
con il titolo di Liebestrank,
quindi Vienna (1835), Londra (1836), New York
(1838), Parigi (1839). Da allora, l’opera è rimasta in repertorio, lodata anche dalla cultura tedesca (come
Mendelssohn e Hanslick) e
considerata insieme a Lucia
di Lammermoor (1835) e Don
Pasquale (1843) parte della
suprema triade donizettiana.
barbara Catellani
il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Elisir d’amore
7
Analisi musicale
Un’opera nei pieni canoni d’inizio ’800
«L
a mia divisa? Presto.
Può essere biasimevole,
ma tutto ciò che feci di
buono è stato sempre fatto presto».
La frase, attribuita dai biografi
a Gaetano Donizetti, coglie efficacemente uno degli aspetti caratteristici del suo stile compositivo. Con una settantina circa
di titoli fra opere serie, semiserie, comiche e farse in un arco
di tempo compreso fra il 1818 e
il 1843 il compositore bergamasco è stato uno dei più prolifici
autori teatrali italiani, anello di
congiunzione fra l’esperienza
rossiniana e quella verdiana.
Generoso, brillante, dotato di
uno spiccato senso dello humour, Donizetti nella sua prima
fase creativa, in parte ancora
sotto l’ombra rossiniana cui era
quasi impossibile sfuggire per
un operista italiano, diede particolare spazio al teatro comico.
Al 1832 risale L’elisir d’amore
due atti su libretto di Felice Romani, ancor oggi considerata
una delle sue prove più alte.
Musicista e librettista, si dice,
impiegarono quattordici giorni
a scriverla. Romani si attenne
scrupolosamente al testo originale (Le philtre di Scribe per la
musica di Auber, rappresentata
l’anno precedente a Parigi), ma
vi aggiunse un patetismo delicato sul quale puntò lo stesso
Donizetti, ad esempio, impo-
nendo contro il parere del letterato, la romanza “Una furtiva lagrima”, pagina di straordinario
fascino emotivo che conferisce
al personaggio di Nemorino
(tenore) un’aura squisitamente
romantica e appassionata. Una
rivelazione per questo ragazzotto di paese fino ad allora ritratto come un sempliciotto innamorato perso di Adina, pronto a bersi qualsiasi fandonia,
compresa la storia del filtro
d’amore della bella Isotta. Intorno a Nemorino ruotano i
personaggi tipici del teatro comico: Adina (soprano) è la ragazzina maliziosa che sa come
conquistare un cuore maschile
(«Una tenera occhiatina/ un sorriso una carezza/ vincer può chi più
si ostina» canta nel
secondo atto), ma sa
pure dimostrarsi tenera nel momento in
cui capisce la sincerità dell’affetto di Nemorino; Dulcamara,
il più simpatico dei
ciarlatani del teatro
comico, esuberante,
chiassoso, comunicativo (“Udite o rustici”
è una cavatina irresistibile); infine, Belcore, il solito soldato
spaccone e gradasso,
colto nella sua boria
già alle prime parole
(“Come Paride vezzoso”). La ripetitività di
caratteri e di situazioni non compromette il valore dell’opera sostenuta da
un ritmo narrativo
quanto mai incisivo e da una invenzione musicale felicissima.
Una struttura tradizionale
La struttura dell’opera, in conformità alla tradizione del primo Ottocento, prevede una
lunga introduzione “corale”,
cui si legano, una dopo l’altra la
presentazione di tre dei quattro
protagonisti: Adina, Nemorino,
Belcore. Un clima di festa, ma
anche di semplicità agreste nel
quale prendono corpo due storie diverse e sovrapposte:
l’amore di Nemorino per Adina, prima ignorato e poi asse-
Gaetano Donizetti ai tempi della composizione de l’Elisir d’amore
condato e la storia del filtro
d’amore (in realtà una bottiglia
di Bordeaux) che da Isotta passa a Nemorino attraverso la
fantasiosa inventiva di Dulcamara. Le due storie scorrono rapide fra atmosfere malinconiche e gags umoristiche ispirando al compositore arie e concertati di indubbia verve. E’ stato
sottolineato il respiro “europeo” della musica donizettiana
che trae spunto non solo dalla
tradizione italiana, ma anche da
quella francese. Tipicamente
italiano è il gusto che sostiene la
cavatina di Belcore “Come Paride vezzoso” (un chiaro riferimento a “Come un’ape” della Cenerentola rossiniana), la cavatina di Dulcamara “Udite, udite o
rustici” (una grande aria sul genere buffo ampiamente collaudata da Rossini); il duetto
“Chiedi all’aura lusinghiera” che
vuole forse ricordare “Son geloso del zefiro errante” della Sonnambula; l’aria di Adina “Prendi
per me sei libero”; nonché in generale il taglio dei pezzi d’insieme, chiaramente debitori nei
confronti del teatro rossiniano,
anche se emerge la personalità
di Donizetti che qui non è sicuramente un “imitatore”. Al versante francese si devono invece
ascrivere i pezzi “caratteristici”
come la marcia che precede la
cavatina di Belcore, l’assolo di
cornetta in tempo di valzer che
precede e chiude la cavatina di
Dulcamara, la “barcaruola a
due voci” “Io son ricco, tu sei bella” il cui tema serve anche a
chiudere l’opera. Ma soprattutto sono di taglio francese due
brani solistici: la cavatina di
Adina “Della crudele Isotta”, un
vero calco della ballade narrativa sia per la posizione sia per la
forma a couplet (di sapore francese sono anche i temi di valzer
e di mazurca sui quali è imbastita); e la romanza in due strofe
“Una furtiva lagrima”». A proposito della pagina di Nemorino, si noti la elegante orchestrazione di Donizetti che fa precedere l’entrata della voce dal tema cantato dal fagotto su un
delicato accompagnamento pizzicato degli archi e dell’arpa.
In Elisir d’amore, dunque, Donizetti se non mise da parte Rossini (Dulcamara potrebbe essere
un personaggio rossiniano e così pure Adina), guardò anche
altrove immettendo nel perfetto
meccanismo buffo del suo predecessore elementi delicati che
avrebbero avuto successo nell’opera-comique d’oltr’alpe. Ne
derivò un’opera originale e autonoma, un punto fermo e isolato nel contesto comico ottocentesco.
8
L’Elisir d’amore
il
Giornale dei Grandi Eventi
Elisir, Pietra filosofale e Graal
Nei miti medioevali il percorso uman
N
on è che il buon
Felice Romani si
sia troppo dovuto spremere le meningi
per buttar giù il libretto
che a sua volta servì a
Gaetano Donizetti per
comporre – si dice in appena una quindicina di
giorni – quel miracolo di
melodia che è L’Elisir
d’amore, rappresentata
per la prima volta al Tetra
La Cannobiana di Milano
nel 1832. E’ probabile che
il titolo – ed il nome del
magico filtro prodotto e
decantato dal dottor Dulcamara (lo stesso nome
della solanacea dalle proprietà diuretiche, sudorifere, depurative ed anche
afrodisiache ben presente
nella farmacopea premoderna) – si sia ispirato ad
uno dei capolavori della
letteratura
romantica,
fantastica e “nera” Die
Elixiere des Teufels di
Ernst Theodor Amadeus
Hoffmann, apparso nel
1816: ma il sorridente ed
un po’ banale racconto
del Romani nulla ha delle
tormentose ed allucinate
pagine
hoffmanniane.
L’elisir di Dulcamara, che
il povero Nemorino acquista a caro prezzo dal
simpatico ciarlatano e che
finirà col veder trionfare
sul serio, in seguito ad
una catena di fortunosi –
e fortunati – equivoci, le
sue pretese virtù, viene
davvero presentato come
popolare - a partire dalla
fine del Settecento. E una
leggenda forse d’origine
celto-scozzese, anche se
non è mancato chi ne ha
sottolineato le somiglianze, i paralleli e gli apporti
rispetto alla tradizione
greca e a quella arabopersiana, che ripete ed in
un certo senso - quanto
meno per noi occidentali
moderni - fonda l’archetipo della fatalità, dell’amore e della morte.
La letteratura magica
la Panacea universale o la
trionfale Teriaca: anzi,
ben più ancora, dal momento che il celebre medicamento era notoriamente efficace contro
ogni sorta di malanni, ma
non regalava ancora
l’amore. Quella era roba
da pocula amatoria, cose
ben più insane: e ne sapeva qualcosa per averne
fatte le spese, a suo tempo, il grande Lucrezio.
Anzi, l’elisir che Dulcamara propina all’ingenuo
Nemorino è ancor più atipico. Deve berlo lui, affinché faccia effetto sull’amata. O meglio, affinché lo provveda d’uno
charme tale da diventare
irresistibile. Insomma, a
rigore e sul piano della
storia della medicina –
popolare o no -, o della
magia, o delle tradizioni
popolari, o di quant’altro
vogliate, la storia non sta
in piedi. Il che non nuoce
affatto al libretto, esile e
godibile, e tanto meno alla musica che resta incantevole.
il mito di
Tristano ed isotta
Tuttavia, a voler essere
pignoli, si dovrebbe esaminare con cura almeno
l’unico riferimento dotto
che il Romani ci fornisce:
quello della leggenda di
Tristano ed Isotta, della
quale al tempo di Donizetti non s’era ancora impadronito Richard Wagner (la sua opera Tristan
und Isolde è del 1865), ma
per la quale la cultura rinascimentale
nutriva
un’autentica passione.
Che Nemorino l’avesse
udita dalla viva, commossa voce dell’amata
non era, dunque, incredibile. Al contrario.
Ma se dall’ambito d’un
sapere diffuso e magari
orecchiato ci si sposta a
quello di possibili, precisi, riferimenti testuali, si
resta spiazzati. La storia
di Tristano ed Isotta poteva esser arrivata al primo
Ottocento attraverso i testi medievali che ne elaborano la leggenda: il
poema sassone Tristant di
Eilhart von Oberg di circa
il 1170, il poema Tristan
di Beroul, il Tristan di
Thomas, entrambi francosettentrionali di fine
XII secolo, e il Tristan alto-tedesco medio di Goffredo di Strasburgo, composto nel primo Ventennio del Duecento. Il modello di Eilhart, dal quale
dipendono anche altri testi tristaniani, è una perduta Estoire francosettentrionale. Modificatosi e
diffusosi in mille diverticoli letterari, la leggenda
tristaniana venne durante
il secolo XII sintetizzata e
sistematizzata nel romanzo Tristan en prose, una
“vulgata” che in differenti versioni era destinata a
circolare in tutta l’Europa
occidentale ed a venire
rielaborata, copiata, letta
e stampata incessantemente sino alla fine del
Cinquecento per venir
poi riscoperta e assurta
ad una doppia fortuna filologica e romanzesco-
Naturalmente, poco Romani e Donizetti sapevano di queste erudite questioni. Quel che dell’elisir
era noto si desumeva
piuttosto, allora, dalla letteratura magica di colportage che si acquistava per
pochi soldi: Il Libro di San
Cipriano, La Clavicola di
Salomone, I Se- greti e ricette della regina Cleopatra, Il
Gran Grimorio e così via:
una letteratura mirabolante ch’ è rimasta in
commercio fino a pochi
anni or sono ed i succedanei della quale inondano
ancora edicole e bancarelle librarie di provincia.
Ad essa solo pochi spiriti
eletti come Paolo Toschi o
Piero Camporesi hanno
prestato attenzione.
L’elisir
L’elisir, per la verità, di
rado è associato all’eros e
ancor meno al sentimento
amoroso. Esso è semmai
un filtro - un “beveraggio”
, come si diceva -”di lunga
vita” , una bevanda che
assicura salute e longevità se non addirittura immortalità. La sua etimologia è leggermente paradossale, dal momento che
il termine sembra derivare esattamente dal contrario del concetto di bevanda: dal greco kseròs, “secco”, da cui kseròn, “miscela di polveri secche”.
Nel mondo chimico-medico arabo (ed anche in
il
L’Elisir d’amore
Giornale dei Grandi Eventi
9
no verso la perfezione
quello che noi abbiamo
lessicalmente sdoppiato
come “alchemico”: ma
ch’era la medesima cosa)
con il termine al-iksir, derivato dal greco al pari di
altre espressioni dotte,
s’indicava un medicamento balsamico a base
di sostanze tendenzialmente solide: ma con esso
si prese a indicare altresì,
a livello più specificamente alchemico, la “pietra filosofale”. L’espressione da essa derivata e
sommariamente tradotta
in latino, lapis exillis, venne usata anche a sottolineare, da parte di alcuni
commentatori, l’identificazione della “pietra filosofale” con il Graal, ch’è
di solito raffigurato come
una coppa ma può - seguendo una tradizione
avviata nel primo Duecento dal Parzival di Wolfram von Eschenbach essere rappresentato altresì da una pietra o da
una coppa di pietra preziosa (in questo caso, con
riferimento alla reliquia
del “Santo catino di Cesarea” conservato nel primo Duecento nella cattedrale di Genova, s’indicava lo smeraldo come il
materiale in cui la santa
coppa sarebbe stata scavata). In realtà, l’esegesi
simbolica dell’alchimia
interpretava la “Pietra filosofale” alla luce del versetto evangelico relativo
alla pietra scartata dai costruttori e divenuta Pietra
Angolare. Il che valeva a
significare che la vera
“pietra filosofale”, in grado di assicurare il successo della Grande Opera e
di consentire la tramutazione dei metalli in oro,
era il Cristo: dal momento che il vero oro alchemico cercato dagli alchimisti, era la purezza dell’anima conseguita attraverso il processo mistico
di purificazione interiore
del quale i procedimenti
alchemici erano al tempo
stesso simbolo e strumento tecnico- ascetico. Le
espressioni “Grande Magistero” o “Grande Elisir”
significavano, propriamente, il compimento
della Grande Opera: cioè,
appunto, il mutamento
dei metalli in oro che poteva avvenire soltanto
quando l’adepto era del
tutto purificato da qualunque forma di inclinazione peccaminosa, quindi anche dall’avidità.
L’oro può, in altri termini, esser prodotto solo da
chi ne ha superato la passione e il desiderio. Molto
diverse le descrizioni che
i testimoni delle trasmutazioni alchemiche danno
dell’elisir: che si configura come sostanza liquida
immediatamente successiva alla manipolazione
della “pietra filosofale”
vera e propria. Talora,
l’identificazione tra “pietra filosofale”, nobile metallo prodotto (l’oro) ed
elisir era talmente perfetta che si parlava allora di
“oro potabile”: ed era appunto esso ad assicurare
mantenimento o recupero della salute, ringiovanimento, immortalità. E
questa la strada proposta
da testi tanto misteriosi e
venerabili quanto per la
verità sospetti, quali le
Dodici Chiavi di Basilio
Valentino o il Libro di Artefio, che si è preteso fosse
tradotto dal latinoall’arabo: è questo il filtro che
avrebbe ringiovanito il
dottor Faust e tenuto giovane il signor di SaintGermain, e che Elemire
Zolla assicurava di aver
potuto gustare - una stilla
d’oro, dal sapore asprigno, nel thé - durante un
misterioso incontro con
un mercante di gemme
persiano. Uno che, di
gemme, sapeva di più di
quanto non desse a vede-
re. C’è un legame tra gli
antichi alchimisti, l’immortale del XVIII secolo,
l’inquietante studioso dei
tempi nostri e il buon Nemorino ? Come dicono gli
Arabi, «Dio ne sa di più».
Franco Cardini
Ordinario di storia medievale
all’Università di Firenze
La storia d’amore letta da Adina
Tristano ed Isotta stregati dal filtro magico
U
na antichissima epopea d’amore fra le più amate e conosciute, Tristano ed Isotta ha tutti gli ingredienti per costituire l’argomento di poemi, romanzi e opere. Il giovane Tristano, allevato a corte dallo zio Marco, Re di Cornovaglia, per liberare la sua Patria dai gravosi tributi imposti dal Re
d’Irlanda, ne uccide il fratello Moroldo, ma rimane ferito ed è
curato da Isotta, figlia del sovrano, che non sa della morte dello
zio. Tornato in Cornovaglia, riparte poi per l’Irlanda per chiedere la mano di Isotta la Bionda, che il re Marco intende sposare. Il cavaliere porta a termine con diligenza il difficile compito,
ma durante il viaggio in nave avviene un errore fatale: i due
giovani bevono un filtro magico, che li accende di un amore irresistibile ed eterno. Sorpresi da Marco e quindi perdonati, per
Tristano e Isotta inizia una serie di peripezie che li vedono a
volte insieme, a volte divisi dalle avventure di Tristano o dalla
gelosia del Re, ma sempre legati da un amore che durerà fino
alla morte. Durante un combattimento, infatti, Tristano rimane
ferito e manda uno scudiero a chiedere l’aiuto di Isotta, dalla
quale era stato separato. Secondo gli accordi, la nave inviata
avrebbe issato al ritorno una vela bianca nel caso in cui Isotta
avesse accettato l’invito, una vela nera in caso contrarlo. Isotta
la Bionda accettò la richiesta dell’innamorato, ma Isotta dalle
Bianche Mani (che Tristano nel frattempo aveva sposato), accecata dalla gelosia, annuncia che la nave procedeva con issata
una vela nera. Tristano, disperato, si lascia morire e Isotta, arrivata alla reggia, muore accanto a lui.
In alcune versioni la storia si lega a quella di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola rotonda. Il soggetto fa parte, infatti, del ciclo di leggende celtiche dell’Irlanda e della Cornovaglia, raccolte nel XII secolo dai trovieri francesi che la diffusero in tutta
Europa, dalla Norvegia all’Italia.
Dell’antica versione scritta del Tristan di Chretien de Troyes, il
più famoso dei trouvères francesi, non è rimasta traccia e anche
i racconti medioevali in versi di Beroul e dello scrittore anglonormanno Thomas sono giunti incompleti. Le versioni più antiche sono, quindi, Sir Tristrant di Eilhart d’Oberge (1190 circa)
e Tristan di Gottfried di Strasburgo (1210 circa), in cui per la
prima volta compaiono le due donne dal nome di Isotta (Isotta
la Bionda ed Isotta dalle bianche mani).
il Tristano in italia
In Italia inizialmente furono i cantastorie che contribuirono a
diffondere verbalmente la leggenda. La testimonianza scritta
più importante è il Tristano Riccardiano del XIII-XIV secolo, conservato a Firenze e tratto probabilmente da una redazione perduta del Tristan in prosa francese. Al Tristano medioevale di
Thomas, sono invece ispirate le liriche della scuola siciliana, fra
cui quelle di Giacomo da Lentino e Bonagiunta Orbiciani. Nel
XIII secolo, a Padova, il giudice Lovato compose un poema, di
cui sono giunti fino a noi solo pochi esametri.
Famosa è l’ispirazione che da Tristano ed Isotta ha tratto Richard
Wagner per il suo dramma lirico in tre atti, rappresentato per
la prima volta al Teatro Reale di Monaco il 10 giugno del l865.
Nelle pagine strazianti di Tristan und Isolde per la prima volta
si mette l’accento sul dramma d’amore piuttosto che sul problema dell’adulterio. All’inizio del XX secolo un critico francese, Joseph Bedier, ha ricostruito la complessa trama della leggenda, avvalendosi dei frammenti di poemi e saghe medievali
e delle rielaborazioni in prosa francesi e italiane.
Elena Cagiano
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L’Elisir d’amore
il
Giornale dei Grandi Eventi
Un genere che riscosse alterne fortune
L’opera comica, prima e dopo Donizetti
F
ra il 1790 e il 1795 in
Italia vennero rappresentate 269 opere
comiche per un totale di
1078 allestimenti contro
104 titoli seri per 199 allestimenti. Se dunque nei
decenni precedenti, l’opera seria aveva dominato le
scene relegando la sorella
comica al ruolo di “cenerentola”, sul finire del Settecento il rapporto si capovolse e autori come Cimarosa e Paisiello furono i
più richiesti non solo in
Italia, ma anche all’estero.
Il teatro comico raggiunse
l’apice del successo con
Rossini e visse nei primi
anni dell’Ottocento la sua
stagione migliore. Poi iniziò la parabola discendente. Nel 1812 La pietra di paragone di Rossini aveva
trovato accoglienza alla
Scala, ma nel 1832 L’elisir
d’amore dovette accontentarsi della Canobbiana.
L’opera comica non scomparve mai del tutto, sopravvisse in palcoscenici
minori, con remunerazioni più modeste rispetto al
teatro “serio”, solitamente
coltivata da artisti meno
acclamati.
Fra i lavori collocabili nella prima parte del secolo
(e pertanto più o meno
contemporanei di Rossini)
si possono ricordare, oltre
alla Sonnambula di Bellini
(appartenente non al genere dell’opera comica ma
a quello dell’opera semiseria, in voga in quegli anni): Le cantatrici villane di
Valentino Fioravanti, Il
poeta spiantato e Il nuovo
barbiere di Siviglia di Francesco Morlacchi, Il maldicente ovvero la bottega del
caffè (da Goldoni) e Ser
Marcantonio di Stefano Pavesi, Il barone di Dolsheim
di Giovanni Pacini, Elisa e
Claudio di Saverio Mercadante, Le contesse villane di
Lauro Rossi, Robinson Crosuè di Vincenzo Fioravanti
e Il ventaglio di Pietro Raimondi. Titoli di cui si è ormai persa ogni traccia e
che allora giravano i teatri
Gaetano Donizetti
ed attiravano grandi folle
di melomani. D’altra parte le opere oggi regolarmente in repertorio costituiscono la piccola punta
di un immenso iceberg se
si tiene conto del numero
di titoli che venivano prodotti annualmente in Italia nell’Ottocento.
Il degno erede di Rossini
fu naturalmente Donizetti
cui si devono frequenti
escursioni nel comico, nel
semiserio e nel farsesco.
La fase successiva fu caratterizzata da una decisa
decadenza. Si continuarono a scrivere lavori di argomento leggero, ma di
un livello nettamente inferiore.
Fra i vari titoli che, a partire dalla fine degli anni
Quaranta si susseguirono
fino all’estremo Ottocento, si possono citare Don
Bucefalo e Papà Martin di
Antonio Cagnoni, Don
Checco e Napoli di Carnevale di Nicola De Giosa, Le
precauzioni di Errico Petrella, Pipelè di Serafino
Amedeo De Ferrari, Tutti
in maschera di Carlo Pedrotti, La locandiera (da
Goldoni), Le educande di
Sorrento e La secchia rapita
di Emilio Usiglio.
Nel secondo Ottocento
ebbe notevole successo
Crispino e la comare tre atti
di Luigi e Federico Ricci
Gioachino Rossini in un ritratto di Francesco Hayez
su libretto di Francesco
Maria Piave. I fratelli Luigi e Federico Ricci, napoletani di nascita e di formazione, avevano all’attivo
una buona produzione individuale, ma avevano anche già lavorato insieme.
“Melodramma fantasticogioioso”, Crispino e la comare mescola elementi comici e ironici con parente-
si falsamente patetiche e
con curiose aperture verso
il fantastico. Emergono
svariate componenti stilistiche: Rossini, naturalmente, ma anche Donizetti (sia per alcuni elementi
comici, sia per i momenti
di teso patetismo che potrebbero quasi scivolare
verso la tragedia) e persino Verdi. C’è anche il val-
zer (il vecchio Strauss,
uno dei padri del valzer
viennese era morto l’anno
prima, nel 1849 e stava
emergendo prepotentemente il giovane Johann
Strauss, futuro autore di
An der schönen blauen Donau) e nella brillantezza di
alcuni episodi e nell’orchestrazione a volte anche
“chiassosa” si avverte
un’anticipazione di un clima ridanciano che sarebbe stato, in seguito, dell’operetta.
Una curiosità. A Trieste
dove lavorò per molti anni Luigi Ricci divenne il
maestro e l’amante delle
gemelle Fanny e Lidia
Stolz, sorelle maggiori di
Teresa Stolz, futura interprete (e amante) verdiana.
Ricci sposò Lidia ma ebbe
un figlio da Fanny, Luigi
junior (1852-1906), compositore e direttore d’orchestra che divenne l’erede della zia Teresa tanto
da modificare il proprio
cognome in Ricci-Stolz.
roberto iovino
Il luogo della prima rappresentazione dell’Elisir
Teatro La Canobbiana, poi Teatro Lirico
I
l 3 agosto
1778 a Milano, con l’opera L’Europa riconosciuta di Antonio Salieri, veniva inaugurato il
Teatro Alla Scala,
costruito a spese
dei palchettisti
del teatro Ducale,
bruciato due anni prima, nel 1776 Il
progetto era stato affidato all’architetto Giuseppe Piermarini, allievo e poi
collaboratore del Vanvitelli.
L’anno successivo all’inaugurazione
de La Scala, il Piermarini completava
anche l’edificazione di un altro teatro
che, dal nome della contrada in cui
era stato costruito, prese il nome di
Teatro della Canobbiana. Questo teatro,in una Milano in cui i fermenti
musicali erano particolarmente vivi,
fu inaugurato il 21 agosto 1779 con
due opere ancora di Salieri, La fiera di
Venezia ed Il talismano, seguite da
due balli. In questo spazio saranno rappresentate
opere e balli
d’estate, spettacoli di prosa e di
danza nella stagione di Carnevale. Durante i periodi di chiusura de la Scala vi si svolgevano stagioni d’opera particolarmente curate, con prime rappresentazioni di rilievo. Alla fine dell’Ottocento, l’editore Edoardo Sonzogno acquistò la Canobbiana, la restaurò e ne
cambiò il nome in Teatro Lirico Internazionale, che poi divenne semplicemente Teatro Lirico. Questo ospitò
molte compagnie di prosa, ma vi si
tennero prime rappresentazioni di
opere di compositori della “scuderia”
Sonzogno, come Cilea, Giordano, Leoncavallo.
il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Elisir d’amore
11
Donizetti a Roma
Le sei opere “romane” del Bergamasco
G
aetano Donizetti, 24enne,
giunse per la prima volta
a Roma nel 1821, quando
la Città era in pieno riordino seguito alla fine dell’occupazione
francese e della prima Repubblica
Romana. Al suo ritorno, dopo gli
anni passati tra Savona e Fontainebleau come prigioniero di Napoleone, il papa Pio VII era stato
accolto trionfalmente, ma a riportare indietro le lancette della storia non bastò l’editto che cancellò
le leggi imposte dagli occupanti
d’oltralpe, tra cui quelle riguardanti i codici napoleonici sullo
Stato Civile e la spoliazione dei
beni ecclesiastici. Il dinamico cardinale Ercole Consalvi, Segretario
di Stato nominato sulla via del ritorno il 10 maggio 1814 e che restò in carica fino alla morte di PioVII il 20 agosto 1823, si adoperò
con impegno per dare al rinato
Stato Pontificio una vera struttura
amministrativa, pur talvolta ostacolato dai cardinali più conservatori. La sua azione però non fu
proseguita dopo la morte di Pio
VII dai pontefici che lo seguirono,
Leone XII e Pio VIII. Solo successivamente, con Gregorio XVI che
sul Soglio di Pietro fu dal 1831
a11846, riprese una pur cauta
azione di consolidamento dello
Stato, grazie anche ad una saggia
azione amministrativa del Mons.
Giacomo Antonelli, futuro cardinale e grande Segretario di Stato
di Pio IX.
La situazione, dopo l’invasione
francese andava anche peggio
nella cultura ,dove - se si esclude
la scultura con il Thorwaldsen -,
secondo un’affermazione del
Saint- Beuve, era quella di una città morta. Un quadro che sconfortò pure Giacomo Leopardi, il quale riferì di onori profanati e di monumentali sciocchezze. In confronto, stava decisamente meglio
la musica teatrale, secondo il Grillandi «arte prediletta dalle autorità
perché non ha parole ne immagini,
non fa male a nessuno e non dà scandalo».
Nel 1822 a roma
Il vero esordio operistico di Donizetti, a non contare le tre “operine” rappresentate nei teatri minori di Venezia e a Mantova, avvenne a Roma, al Teatro Argentina,
Il Cardinal Consalvi con Pio VII
propiziato presso l’impresario
Giovanni Paterni - è supposizione
fin troppo facile - dal suo maestro
Giovanni Simone Mayr. I teatri
privati romani offrivano stagioni
brevi, con non più di quattro opere, due nuove e due riprese o nuove per la città; la compagnia di
canto, la stessa per tutte le opere,
contava in tutto una prima donna, un tenore, un basso, un buffo
e due comprimari. L’orchestra era
di una trentina di elementi, il coro
non superava i quindici artisti.
Al Paterni, Donizetti propose di
scrivere un’opera seria, per lui la
prima, su libretto del coetaneo
bergamasco Bartolomeo Merelli
dal titolo Zoraide di Granata.
L’azione era in Spagna sul finire
del medioevo, ai tempi della
guerra tra i cattolicissimi re Ferdinando di Castiglia e Isabella di
Aragona e gli ultimi re moreschi.
L’opera’ andò in scena il 28 gennaio 1822, protagonisti il soprano
Maria Ester Bombelli e il tenore
Domenico Donzelli. Fu un successo grande e inatteso; il principe
Chigi che nel suo diario teneva
nota dei maggiori eventi cittadini,
lo definì “strabocchevole”. Il successo crebbe durante le repliche e
dopo la “terza”, l’autore «fu condotto in carrozza, accompagnato da
una folla plaudente, al lume di torce e
al suono di una banda militare, alla
trattoria di Monte Citorio dove fu allestita una cena».
Durante quel primo positivo esordio compositivo a Roma, il Maestro strinse con alcune famiglie
rapporti che durarono nel tempo:
con il librettista Ferretti, con i Carnevali e con i Vasselli. E probabile
che abbia conosciuto anche Gioachino Belli, il quale era amico
stretto del Ferretti e di Toto Vasselli, fratello della sua futura sposa Virginia.
La notizia del successo di Zoraide
di Granata si sparse fulmineamente per tutta l’Italia e portò al musicista nuove offerte di lavoro.
L’impresario Domenico Barbaja
gli chiese subito due opere nuove
per i teatri napoletani che egli
scrisse come al solito di getto: la
semiseria La zingara e le farsa La
lettera anonima, andate in scena tra
la primavera e l’estate dello stesso
1822. Dietro richiesta de La Scala
compose, poi, la semiseria Chiara
e Serafina, su libretto di Felice Romani, che debuttò in ottobre.
Dunque ben 4 furono le opere
scritte e portate - con esiti diversi
- sulle scene teatrali di tre fra le
maggiori città italiane in quel fortunato 1822.
Due anni dopo
di nuovo a roma
Donizetti ritornò a Roma due anni dopo, stavolta al Teatro Valle,
di proprietà dei Capranica, ma
governato anch’esso dal Paterni,
distillatore e commerciante che
faceva anche l’impresario. Per lui
Donizetti compose quattro opere:
L’ajo nell’imbarazzo (1824), Olivo e
Pasquale (1827), Il furioso nell’isola
di San Domingo e Torquato Tasso
(entrambe del 1833). Di tutte e
quattro le opere il librettista fu Jacopo Ferretti, verseggiatore abile
e sciolto. L ‘ajo nell’imbarazzo, su
soggetto tratto dalla omonima
fortunata commedia di Giovanni
Girard, fu la prima opera del
maestro bergamasco ad avere vasta diffusione, sempre coronata
da successo, salvo a Bergamo nel
1830. L’autore però le preferì sempre Torquato Tasso, opera semiseria sullo sfortunato amore del
poeta per Eleonora d’Este, gli intrighi della corte di Ferrara, la sua
pazzia e la conclusiva apoteosi,
nel breve terzo atto, con gli echi
della sua incoronazione in Campidoglio. Quest’ultima è la parte
più sentita e riuscita e nel secolo
scorso, quando l’opera era praticamente scomparsa dalle scene,
veniva ancora rappresentata come pezzo a se. Donizetti aveva
una singolare predilezione per
l’autore della Gerusalemme liberata
e per la sua figura malinconica,
simpatia accresciuta delle radici
bergamasche del Tasso. Sul soggetto prescelto, insolito per
un’opera in musica ma da lui imposto all’impresario ed al librettista, si preparò con particolare cura, leggendo Goldoni, Goethe,
Zuccalà e la stessa preparazione
impose al Ferretti con Muratori,
Tiraboschi, Byron. Per la parte del
protagonista aveva pensato a un
altro compatriota, Giovan Battista
Rubini, ma il celebre tenore «non
ritenne associarsi alla nobile idea del
Maestro».
La presenza a Roma di Giorgio
Ronconi, che era stato un superbo
interprete del Furioso nell’isola di
San Domingo, lo indusse ad affidare a questo baritono il ruolo di
Torquato. L’opera andò in scena il
9 settembre 1833 con buon successo ed ebbe quattordici repliche.
Cominciò poi il giro dei teatri italiani, e “resistette” per una decina
d’anni. L’autografo della partitura riporta questa dedica al Tasso:
«A Bergamo, Sorrento e Roma, la città che lo concepì, quella dove vide la
luce e quella che ne ebbe la salma».
L’ultima opera “romana” di Donizetti fu Adelia o La liglia dell’arciere, opera seria in tre atti sempre
su libretto di Romani, rappresentata al Teatro Apollo l’11 febbraio
1841.
Francesco Piccolo
12
L’Elisir d’amore
il
Giornale dei Grandi Eventi
Dulcamara: «E’ Bordeaux , non elisir…»
Il vino Bordeaux, elisir di Châteaux prestigiosi
N
el primo atto de
L’Elisir d’amore,
Dulcamara dice
«E’ eccellente…», aggiungendo poi a mezza bocca: «E’ Bordeaux, non elisir», spiegando tra se il
suo inganno da ciarlatano.
In realtà il Bordeaux è
vino di prestigio. Nel
sud-ovest della Francia i
grandiosi vigneti di Bordeaux coprono le sponde dell’estuario atlantico
della Gironda per una
superficie di 100.000 ettari. Ogni anno oltre
nicolo si conclude con i
possenti e generosi vini
rossi di Saint Emilion,
considerati fra i più robusti del Bordolese.
Il prodotto delle vigne
girondine è conosciuto,
apprezzato e rispettato
in tutte le nazioni, in
ogni continente come
uno dei prodotti più tipici della cultura francese. Fin dall’antichità il
porto di Bordeaux è stato lo scalo più favorevole per il commercio dei
vini; navi italiane, tedesche, olandesi e inglesi
hanno attraversato il Mediterraneo infinite
volte pur di
portare
sulle
patrie mense un
po’ di quel prezioso nettare.
Gli Châteaux
1.600.000 ettoltri di vino
rosso e 1.100.000 di bianco hanno diritto all’appellation d’ origine controlée; ovviamente la qualità non è sempre la stessa, soprattutto le regioni
di provenienza determinano le fondamentali
differenze di ogni vino.
A nord di Bordeux si
trovano le terre girondine di celebri vini come
l’Haut Medoc e il Medoc, sulla sponda destra
della gironda si estendono le Còtes de Bourg e le
Còtes de Blaye, più a
Sud, invece, è il Pomerol, Barsac e Sautemes
(territori di grandi vini
bianchi). L’itinerario vi-
Parte del vino è
prodotto in circa tremila Château, una sorta
di fattorie castellane
con
fabbricati adibiti alla lavorazione dei vini,
cantine
comprese. Spesso ci
si trova di fronte a splendide
dimore (completamente
diverse dai tipici castelli
italiani) conservate intatte nei secoli nelle imponenti strutture funzionali alla produzione
del vino.
Ogni annata è una storia
a sé, di anno in anno lo
stesso vino può persino
cambiare carattersistiche. Per questo le annate
e i millésimes hanno rilevante importanza per i
vini di Bordeaux e i migliori produttori, a prescindere dalle decisioni
ufficiali, non distribuiscono bottiglie millesimate se non sono certi di
aver raggiunto un buon
risultato. Il clima bordo-
lese, che insieme alla
composizione dei terreni
ed alla scelta dell’epoca
della vendemmia, ha
molta importanza per la
qualità del vino, è conosciuto con il nome di
“clima aquitano” essendo soggetto all’influenza
dell’Oceano Atlantico.
I rossi di Bordeaux rinomati, di grande annata,
adeguatamente maturati
in idonee cantine, sono i
vini da bere nelle grandi
occasioni. Gli appassionati sanno che la bottiglia di Bordeaux (del resto come tutti i rossi di
una certa gradazione) va
stappata in anticipo, dopo averla portata a temperatura ambiente e gustata magari in compagnia di un buon profumato prosciutto di Bayonne o di qualche pasticcio di selvaggina.
rosso o rubino
prodotto d’esportazione
I vini di Bordeaux furono per secoli più conosciuti all’estero che in
patria. E se il rosso piaceva tanto ai pallidi inglesi, il rubino del Medoc era più amato dai
monsignori di Francia.
Per meglio capire il prestigio che nel passato
questo vino ha rappresentato si può dire che il
Re Sole Luigi XIV men-
tre riceveva a corte il
marchese di Segur, proprietario delle tenute di
Chàteau Lafite e Latour,
disse: «Signori, ecco il
gentiluomo più ricco del
mio regno, le sue terre
producono diamariti e
nettare». Fra gli scrittori
e gli uomini politici di
Francia non mancano
gli affezionati alla grande famiglia dei Bordeaux, da Rabelais a Montesquieu, dal duca di Richelieu ad Alfred de Vigny, da Moreau a Jammes. I vini rossi di Bordeaux di prima grandezza premiers grands
crus erano tre fino a
qualche anno fa: Chàte-
au Lafite-Rothschild,
Chàteau Latour, Chàteau Margaux. Dal 1973 è
entrato a far parte di
questa elite lo Chàteau
Mouton-Rothschild,
grazie alla sua qualità
assoltua,
mantenuta
sempre ad alto livello da
oltre un secolo. Tra i
grandi collezionisti di
questi grandi vini figurano molti italiani. Nonostante in Italia non
manchino celeberrimi
prodotti concorrenti con
il vino di Francia, sono
sempre di più gli acquirenti italiani dei preziosi
Bordeaux.
Tin. Alf.
il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Elisir d’amore
13
Il vino nell’opera
Dal Bordeaux di Nemorino allo Champagne di Violetta,
per allegre ebbrezze a suon di musica
L
a benefica ubriacatura di Nemorino,
causata non da un
“magico” elisir, ma da
un rosso Bordeaux d’annata, rappresenta una
delle tante occasioni di
incontro fra Bacco e
Apollo sulla scena lirica.
Si può citare, come esempio illuminante, il Falstaff. Inizio atto III, esterno dell’Osteria della
Giarrettiera. Falstaff è seduto su una panca e ordina «un bicchier di vin
caldo». Indubbiamente ne
ha bisogno. Alla fine dell’atto precedente, attirato
con un tranello ad un finto appuntamento galante, l’impenitente rubacuori, a dispetto della
non più verde età (ha 80
anni come il suo autore,
Verdi) era finito in una
cesta dei panni e con
quella gettato nel Tamigi. La disavventura, al di
là dello scampato pericolo, sembra lasciare il segno in Falstaff che improvvisamente si sente
vecchio, fuori da un
mondo in declino. «Non
c’è più virtù», constata
sconsolato e canta autocommiserandosi: «Va,
vecchio John, va, va, per la
tua via, cammina finchè tu
muoia. Allor scomparirà la
vera virilità dal mondo».
Finalmente gli viene servito il bicchiere di vino,
annunciato da un’orchestra nuovamente vivace
e frizzante. Falstaff cambia umore: «Versiamo un
po‘ di vino nell’acqua del
Tamigi», dice allegramente. E poi, sorseggiando con calma, dopo essersi sbottonato il panciotto, fermo al sole, si lascia andare ad una delle
più belle esaltazioni delle
virtù terapeutiche del vino: «Il buon vino sperde le
tetre fole dello sconforto, accende l’occhio e il pensier,
dal labbro sale al cervel e
qui risveglia il picciol fabbro dei trilli» (e l’orchestra si anima trillando
nei fiati). «Un negro grillo
che vibra entro l’uom brillo.
Trilla ogni fibra in cor, l’allegro etere al trillo guizza e
il giocondo globo squilibra
una demenza trillante! E il
trillo invade il mondo!».
La riconciliazione con
l’umanità è siglata da
Falstaff con un semplice
boccale di vino, sicuro
espediente per guardare
intorno a sè con occhi più
benevoli e animo sereno.
Il vino gioca un ruolo di
rilievo (se pur spesso assai differente e variegato) in molte altre scene liriche. Nei Racconti di
Hoffmann, capolavoro
estremo di Offenbach,
addirittura, sono gli spiriti del vino e della birra
ad aprire l’opera. Offenbach, va ricordato, al vino ha dedicato svariate
pagine. Nel quarto atto
dell’ Orfeo all’inferno c’è
persino un inno a Bacco.
il brindisi
Il termine “brindisi” ha
origini probabilmente tedesche. I lanzichenecchi
alzando il bicchiere esclamavano «bring dir’s», «lo
offro a te». Un’offerta amichevole, dunque, non
sempre, tuttavia, accettata con altrettanta bonomia. E’ il caso della celebre scena di Cavalleria rusticana. Alfio ha saputo
da Santuzza che sua moglie Lola se la intende con
Turiddu, il vinaio. Dopo
la funzione pasquale, i
paesani sono riuniti nella
piazza su cui si affaccia
l’osteria di mamma Lucia
e Turiddu offre da bere a
tutti. Il canto è apparentemente gioioso: «Viva il vino spumeggiante/ nel bicchiere scintillante…».
La festa è bruscamente
interrotta dal gesto di Alfio che rifiuta il bicchiere:
«Grazie - dice al rivale ma il vostro vino io non
l’accetto, diverrebbe veleno
entro il mio petto». E’ il segnale della tragedia. Poche parole, l’appuntamento dietro l’orto. Per
Turiddu c’è solo il tempo
per un saluto alla madre
che di lì a poco sentirà
l’ormai famoso urlo disperato «Hanno ammazzato compare Turiddu».
Brindisi, dunque, foriero
di sventure. In un altro
caso, invece, è portatore
di un travolgente amore
anche se destinato a sfociare ancora in dramma.
ne esortato a pronunciare
una formula beneaugurante. Le coppe dovrebbero essere colme di Dom
Perignon, anche se sul
palco nella realtà non si
andrà oltre un buon bicchiere di acqua, forse minerale (ma non troppo gasata!). Una curiosità: i calici si dicono ispirati alle rotonde forme del seno della
Pompadour, modello assai più allettante e sensuale di quello, musicale, per
il “flûte”.
Torniamo ad Alfredo
che, fissando estasiato
Violetta, canta «Libiam
ne’ lieti calici/ che la bellezza infiora…».
La risposta di Violetta è
un’esortazione a godere
l’attimo fuggente: «Tra
voi, saprò dividere il tempo
mio giocondo;/ tutto è follia
nel mondo/ ciò che non è
piacer…».
Se i due brindisi citati sono probabilmente i più
famosi ed emblematici di
situazioni drammaturgiche opposte, di calici che
si levano al cielo al suon
di cori, arie e cabalette, se
ne contano a decine nel
nostro repertorio operistico. Ci limitiamo a
chiudere con il personaggio più sfrenato, incontenibile e amorale della
storia del teatro, Don Giovanni. Nel primo atto
dell’opera mozartiana, il
leggendario rubacuori,
irrompe in scena, subito
dopo l’aria, statica ed
estatica di Don Ottavio
(«Dalla sua pace») per aggredire lo spettatore con
un canto di violenta e
baldanzosa vitalità:
«Fin ch’han dal vin/ calda
la testa/ una gran festa/ fa
preparar./ Se trovi in piazza/ qualche ragazza/ teco
ancor quella/ cerca menar./
Senza alcun ordine la danza sia/ ch’il minuetto, chi la
follia,/ chi l’allemanna farai
ballar/ Ed io frattanto/
dall’altro canto/ con questa
e quella/ vo’ amoreggiar/
Ah la mia lista doman mattina/ d’una decina devi aumentar».
Vino, danza, amore. La
trinità perfetta per Don
Giovanni.
r. i.
«Libiam ne’lieti calici»
Ha affermato Curzio Malaparte che la musica di
Giuseppe Verdi è colma
di lambrusco fino all’orlo.
Non è tuttavia il lambrusco ad allietare la festa in
cui in Traviata si incontrano Violetta Valery e Alfredo Germont, ma un ghiacciato, morbido e frizzante
champagne. Alfredo vie-
Falstaff in un quadro di Eduard Grutzner
14
L’Elisir d’amore
il
Giornale dei Grandi Eventi
Anche la Capitale ha il suo storico Bordò
Fiorano: vitigni francesi impiantati a Roma per un vino d’eccellenza,
inizialmente destinato alla sola tavola di un aristocratico
N
essuno aveva mai pensato
di fare un vino da vitigni
bordolesi sulle terre italiane fino alla seconda metà del secolo scorso, quando ancora i vini di
qualità si compravano in Francia. I
Bordeaux (o Bordò, come se ne
scriveva nell’800) erano tra i più
ambiti, soprattutto dall’aristocrazia e furono proprio alcuni nobili a
dare inizio all’era moderna del vino italiano. Il più noto è il Sassicaia
del Marchese Mario Incisa della
Rocchetta. Il Marchese, intorno agli
anni ’50 del ‘900, impiantò le uve
cabernet sauvignon e franc nelle
sue tenute in quella Bolgheri, in
provincia di Livorno, cara al Carducci. I primi tentativi per fare un
vino di qualità non furono esaltanti, ma con l’aiuto di un giovanissimo cugino, Carlo Guerrieri Gonzaga (che con il suo San Leonardo, a
base cabernet franc divenne poi,
nel Trentino, un altro pilastro della
nuova cultura vinicola italiana) e
successivamente con le modifiche
apportate dall’enologo Giacomo
Tachis, il Sassicaia raggiunse il suo
equilibrio che ne ha creato la fama.
Poi fu il figlio di Mario, Niccolò, a
prendere le redini della cantina che
segue tutt’ora, lanciandola verso
un successo mondiale e trascinando con sé l’immagine di qualità dei
vini italiani.
il Fiorano,
merlot “romano”
Ma nella storia il vino “mitico” per
eccellenza, quello avvolto dal fascino del mistero e da una fama internazionale nonostante le sue limitate produzioni, rimane un vino di
taglio bordolese (cabernet sauvi-
gnon e merlot) prodotto dentro Roma, il
Fiorano. Fu il Principe
Alberico Boncompagni Ludovisi, uomo
schivo ma dalle idee
chiare, che impiantò,
sempre negli anni ‘50
un piccolo vigneto
per produrre vino
solo per il proprio
consumo, ad avere la
“sfortuna” di essere scoperto da
Veronelli che si appassionò a questa piccola ma qualitativa produzione, tanto da paragonarla al già
famoso Sassicaia, dandogli così una
fama poi divenuta internazionale.
Considerata la sua piccola produzione sembrava che il Fiorano fosse
destinato a rimanere un mito inarrivabile ed ormai perso nel passato, a maggior ragione quando, nel
1998, Alberico stesso e senza darne
spiegazioni, ne espiantò i vigneti.
Già Burton Anderson in ‘Vino’, la
sua guida ai vini italiani, nel 1980
scriveva «La grandezza di Fiorano è
un segreto condiviso da pochi». Inve-
segue da pag. 3
sto delle attività culturali in una città come Roma» che di
cultura dovrebbe vivere. Si può così ben capire che,
pur amando visceralmente l’opera lirica, ciò in questi
tempi non è possibile, non è morale e neppure è giusto. «L’Opera – come ha sottolineato Valerio Cappelli,
valente critico del Corriere della Sera – resta un corpo
estraneo alla città, una nicchia che produce poco e costa tanto». Per questo ora noi ci offriamo di pubblicare - al fine di mettere lettori, spettatori ed abbonati di fronte
alla realtà - notizie ed anche documentazioni che ci
giungano (da noi ovviamente verificate) che dimostrino sprechi e situazioni paradossali.
In tutto ciò, ora il Teatro con il nuovo Sovrintendente
Carlo Fuortes, giunto come pacco natalizio a fine dicembre, ha deciso di aderire al cosiddetto decreto “Valore Cultura”, decreto che ha stanziato 75 milioni per
salvare le fondazioni lirico-sinfoniche. Ma il Sovrintendente in conferenza stampa si è dimenticato di dire
che i soldi ricevuti sono un prestito, anche se a lungo
termine. Il decreto prevede due clausole: l’annullamento del contratto integrativo e la revisione della
pianta organica con una riduzione fino al 50% del personale tecnico-amministrativo, facendo dunque salvi,
ovviamente, orchestra e coro. Qui, però, di vere ristrutturazioni non se ne parla, o perlomeno non si vedono, se non il licenziamento di una ventina di ballerini. Sempre in conferenza stampa Fuortes ha dichiarato: «il contratto integrativo va annullato, fermo restando
che nulla toglie di rifarlo uguale». Prima di sgranare gli
occhi, abbiamo risentito le parole registrate. A noi pare - ma ci potremmo sbagliare (??) - che tale dichiarazione o eventuale comportamento in tal senso vada un
tantino al di la dello spirito del decreto che nella logica
imporrebbe di far calare le spese, e ciò ci meraviglia
quando detto da una persona la quale vorrebbe farsi
passare per manager e che in forza di questo continua
a ricoprire il ruolo di commissario al Petruzzelli di Bari
ed Amministratore delegato a Musica per Roma, ovvero all’Auditorium, la quale non appare proprio altra
piccola struttura e dove non ci sia nulla da fare. In questo mare magnum, uno degli anacronismi che balza
agli occhi è, per esempio, la cosiddetta “Indennità Caracalla”, ovvero un gettone (pure sostanzioso) percepito da tutti indistintamente i dipendenti del Teatro - anche quelli che a Caracalla non mettono piede - quando
è in corso la stagione estiva. Ciò accade pure in altri
teatri, ma è solo un esempio. Dunque, esprimendo tutta la nostra solidarietà ai lavoratori, molti dei quali sono vere ed uniche eccellenze artigiane che si tramandano mestieri antichi, eccellenze non sfruttate (si acquista
fuori piuttosto che produrre internamente anche se il
personale è comunque pagato, lamentano molti di loro), forse qualcosa bisognerebbe cambiare. Da una parte (quella dei lavoratori) di fronte al rischio del posto
non si può rimanere attaccati a privilegi antichi che in
questi tempi non facili diventano anacronistici e ci fanno tornare alla mente i piloti Alitalia che mentre la
compagnia falliva si erano irrigiditi sul mantenimento
dell’auto che li andava a prendere a casa. Dall’altra, alla luce di comportamenti e dichiarazioni forse ci vorrebbe davvero un commissario, altrimenti salta alla
mente l’amara frase di Tancredi nel Gattopardo: «cambiare tutto per non cambiare nulla».
re. Gio.
ce, e per fortuna, all’inizio del 2000
Alberico ritornò sui suoi passi, ed
ormai anziano e cagionevole di salute, fece reimpiantare il suo stesso
vigneto al giovane cugino Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi,
suo erede, che ha riportato alla luce
il Fiorano, mettendolo in commercio a partire dalla vendemmia
2006. La Tenuta di Fiorano con i
suoi 200 ettari e la capacità di essere autosufficiente nelle pratiche
agricole, si trova all’interno del comune di Roma, nel cuore del Parco
dell’Appia Antica, in una posizione dalla quale si scorge in lontananza, da una parte il profilo della
Cupola di San Pietro e dall’altra il
dolce declinare delle alture dei cartelli romani. Cinque ettari quelli
destinati a vigneto, per una produzione limitata (circa 5000 bottiglie
di rosso e 5000 di bianco) su un terreno prevalentemente di pozzolana dal buon drenaggio che permette l’invecchiamento, il quale avviene in azienda in botti di rovere Slavonia da 10 ettolitri. Questo “Bordò romano” si caratterizza per un
colore rubino vivo di media concentrazione, con profumi complessi, setoso all’assaggio, con tannini
appena accennati, di grana finissima, privi di qualunque concessione ad elementi legnosi. Tutte caratteristiche di una qualità che ha già
portato il Fiorano ad essere battuto
alle aste internazionali, ad essere
protagonista in degustazioni comparate con il Sassicaia, oltreché ad
offrire la garanzia di poter gioire
ancora, per gli stessi motivi che lo
fecero impiantare, dello storico
“Bordò” di Roma.
Tin. Alf.
il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Elisir d’amore
15
Compositore raffinato
Autore di sette libretti per Donizetti
Gaetano Donizetti
Felice Romani
N
ato a Borgo Casale, antico sobborgo appena fuori della cinta muraria della città di Bergamo, il 29 novembre 1797, Gaetano Donizetti iniziò
a studiare musica all’età di nove
anni grazie all’interessamento del
generoso insegnante Simone
Mayr il quale, intuite le doti del
ragazzo, si prese cura della sua
istruzione fino al 1815. Donizetti
perfezionò la sua preparazione
nel Liceo Filarmonico di Bologna
studiando contrappunto. Nel
comporre egli si ispirò dapprima
ai modelli classici come Mozart e
Gluck; quindi si dedicò all’opera
con evidenti influenze di Gioacchino Rossini, il grande protagonista musicale del periodo, riuscendo
però a mantenere una scrittura originale e molto personale. Nel 1818
debuttò al Teatro San Luca di Venezia con Enrico di Borgogna su libretto di Bartolomeo Merelli. Questa fortunata collaborazione aprì al
compositore le porte di prestigiosi teatri come l’”Argentina” di Roma
e il “Nuovo” di Napoli.
Un ulteriore incontro fu fondamentale per la carriera di Donizetti,
quello con il celebre librettista Felice Romani. Il primo suggello di
questa collaborazione artistica fu la rappresentazione di Chiara e Serafina, ossia il pirata al Teatro Alla Scala di Milano (1822) e più tardi
sfociò nell’importante successo di Anna Bolena (1830), che rivelò al
grande pubblico il talento del compositore nel trovare la piena adesione e armonia tra la partitura melodica e l’azione scenica. La conquistata fama agì da stimolo per l’attività di Donizetti e lo portò ad
intensificare ulteriormente il lavoro di scrittura. Nel 1832 vide la luce
uno dei suoi principali capolavori: L ‘Elisir d’amore, sempre su libretto
dell’ormai inseparabile Romani e tratto dalla commedia Le Philtre di
Eugène Scribe. Altro grande successo di quegli anni fu Lucia di Lammermoor (1835), ispirato al romanzo di Walter Scott (La Sposa di Lammermoor) che segnò l’inizio della collaborazione con il librettista Salvatore Camrnarano. Probabilmente la mancata assegnazione di incarichi di rilievo e la perdita della moglie furono le cause che spinsero
Donizetti a lasciare l’Italia per Parigi, dove si trasferì nel 1838. La
Francia fu con lui più generosa di successi e gli regalò la consacrazione internazionale, che fu poi definitivamente sancita a Vienna dalla
trionfale “prima” di Linda di Chamounix (1842). Anche negli ultimi
anni della sua vita, Donizetti compose con infaticabile impegno tra
Italia e Francia, fino a quando, nel 1845 fu colpito da una paralisi celebrale che tre anni più tardi gli fu fatale. Fu senza dubbio con i melodrammi romantici che Donizetti conobbe gli esiti più felici della
propria scrittura. Toni dolorosi e malinconici disegnano con grazia la
fragilità di sentimenti e passioni, costanti protagonisti della ricca opera donizettiana. Subito dopo la morte, avvenuta a Bergamo 1’8 aprile
1848 nel palazzo della baronessa Basoni Scotti, la salma di Gaetano
Donizetti fu tumulata nella cripta della cappella della nobile famiglia
Pezzoli presso il cimitero di Valtesse, un sobborgo della città. Qui rimase fino al 1875 quando, assieme a quella di Mayr, fu traslata nella
Basilica di Santa Maria Maggiore, ove ancora oggi riposa sotto il monumento funebre. Questo fu realizzato nel 1855 dallo scultore torinese Vincenzo Vela su commissione del fratello maggiore di Donizetti,
Giuseppe (1788-1856). La simbologia che lo caratterizza è chiara: una
figura femminile, che rappresenta la musa Tersicore, siede abbandonata nel dolore per la scomparsa del musicista; sotto di lei, in bassorilievo, sette putti – simboleggianti le note musicali – piangono rompendo e calpestando le lire in segno di lutto.
Lu. sa.
F
elice Romani nacque a Genova il 31 gennaio 1788 da
una famiglia benestante dedita al commercio della seta sulle
vie delle colonie spagnole. Da
piccolo la famiglia ereditò da
uno zio materno diverse terre nel
monegliese, ma nonostante ciò
conobbe la miseria a causa di
una sbagliata amministrazione
dei beni da parte del padre.
Pur essendo nato a Genova, fu a
Moneglia che Romani passò la
sua infanzia e amò moltissimo
quelle terre per tutta la vita. Fu
proprio a Moneglia che svelò la
sua precoce vocazione alle lettere, forte di una profonda conoscenza di Dante e Metastasio. Completò la propria preparazione
presso i Padri della Scuole Pie a Genova e si laureò in scienze legali, continuando però a coltivare la passione per la poesia. Studiò
quindi i classici e ottenne il diploma in Belle Arti. In seguito viaggiò per Spagna, Germania, Grecia e si trasferì anche temporaneamente a Parigi dove fu nominato mecenate di corte. Tornato in Italia nel 1814, a Milano conobbe Foscolo e frequentò assiduamente
Vincenzo Monti. A Torino fu direttore della Gazzetta Piemontese dal
1834 al 1849 e di nuovo dal 1854 fino alla morte avvenuta a Moneglia, presso La Spezia, il 28 gennaio 1865.
La sua attività in campo musicale iniziò nel 1813, ma le sue doti
straordinarie di poeta conobbero la fama solo a cominciare dalla
collaborazione con Bellini per il Pirata nel 1827. In seguito Romani
scrisse sette libretti per Donizetti. Fu con Elisir d’Amore che la straordinaria capacità di caratterizzazione di Romani divenne davvero
evidente. Sebbene il libretto fosse tratto da un lavoro di Scribe,
l’adattamento che ne riuscì risultò superiore all’originale. Oltre che
per bellini e Donizetti, scrisse libretti per Saverio Mercadante, Giacomo Meyerbeer, Giovanni Pacini e Gioachino Rossini. Nell’estate
del 1840 concesse a Verdi un suo lavoro, Il finto Stanislao, musicato
in precedenza da Adalbert Gyrowetz (Milano, Teatro Alla Scala, 5
agosto 1818) per farne un’opera buffa da mandare in scena nella
stagione autunnale dello stesso anno, ma la forte revisione al libretto (compreso il titolo) da Temistocle Solera portò in scena questa
seconda opera verdiana il 5 settembre 1840 con il titolo Un giorno
di Regno, riscuotendo un giudizio talmente sfavorevole da farla ritirare dopo la prima rappresentazione.
Di formazione classicista, Romani si dimostrò sempre diffidente
verso i nuovi fermenti romantici, ma per la creazione dei suoi libretti seppe guardare anche alla produzione di moderni autori di
questo genere poetico e letterario. In una lettera a Cavour, Felice
Romani una volta scrisse: “Io non sono ne’ classico ne’ romantico, amo
il bello e l’ammiro ove c’e’”. Per quanto forte fosse la sua educazione
classica, fu proprio nel settore del melodramma romantico che egli
ottenne i migliori successi, riuscendo a manifestarne lo spirito in
modo ammirevole.
maria Elena basili
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