[intellĕgĕre]
il
Barone
PREMESSA
Ho avuto poco tempo per frequentare Werner von der Schulenburg in quanto lui è morto che avevo solo quattro anni, ma ho potuto
conoscerlo molto bene attraverso i suoi scritti, l’abbondante archivio
che ha lasciato, le testimonianze di personaggi del suo tempo, storici,
amici e soprattutto attraverso i ricordi della sua ultima moglie, mia
madre, Jsa von der Schulenburg, quarant’anni più giovane di lui.
I motivi che mi hanno spinto a realizzare quest’opera sono principalmente due: primo, rispondere a diversi interrogativi che sovente mi
vengono posti da giornalisti e storici senza però entrare nei dettagli di
tipo tecnico, secondo, poter raccontare la vita di un personaggio interessante senza annoiare il lettore. La forma del romanzo storico è stata
scelta perché consente un racconto vivace e accattivante, in cui, certo,
molti brani sono tratti dai memoriali, appunti e articoli di Werner von
der Schulenburg, ma è stata evitata la citazione delle migliaia di fonti
servite alla ricostruzione degli eventi, ottenuta anche grazie a indizi
trovati in appunti e lettere di vari corrispondenti, articoli su giornali di
quel periodo, annotazioni in archivi di Stato, ecc. Lo storico che vorrà
approfondire qualche argomento potrà rivolgersi all’archivio privato
Werner von der Schulenburg (www.wernervonderschulenburg.com).
I personaggi che compaiono nel romanzo sono tutti esistiti e hanno
avuto con Schulenburg i rapporti descritti nell’opera. Gli incontri con
nomi importanti come Benito Mussolini, Margherita Sarfatti, Alessandro Pavolini, Gabriele d’Annunzio, Edda Ciano, Franz von Papen,
Leone XIII, Otto von Bismarck, Lenin, Nicola Bombacci ecc., sono
descritti nei memoriali e il contenuto dei dialoghi è stato rispettato.
Altri incontri come quelli con Luciana Frassati, Ulrich von Hassel,
Elisabeth Foerster-Nietzsche, Rudolf Hess, Edgar Jung, Herbert von
Bose, ecc., sono testimoniati soprattutto da lettere private e, anche in
questi casi, i contenuti sono stati rispettati.
Molti altri personaggi che Schulenburg ha conosciuto, quali artisti, diplomatici e studiosi non sono stati menzionati onde evitare la
dispersione e concentrare il racconto sul suo rapporto con l’Italia, ma
non per questo vengono considerati meno importanti.
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Sibyl von der Schulenburg
La personalità di Werner von der Schulenburg ha posto vari interrogativi sia ai suoi contemporanei sia agli odierni studiosi. Su di lui
sono stati scritti articoli e saggi, considerato sia sotto l’aspetto di letterato sia sotto quello di diplomatico e membro della resistenza contro
il nazismo; sono stati fatti convegni e ricerche da parte di professori,
studiosi e giornalisti di rilievo come Francesco Vecchiato, Antonella Gargano, Gabriele Clemens, Renzo De Felice, Roberto Festorazzi
e altri, che tuttavia non hanno mai avuto l’occasione di cogliere una
panoramica della vita di Schulenburg che permettesse loro di recepire le tante sfaccettature del suo essere, lasciandoli sovente con mille
domande. Anche a questi signori dedico la presente opera, invitando
tutti gli storici a non scordare che uomini e donne, autori o comparse
degli eventi oggetto del loro studio, andrebbero sempre valutati nella
loro complessità umana, considerando che ognuno di loro ha vissuto il
suo tempo scandito in piccole quotidianità.
Schulenburg è stato uno di quei personaggi che hanno contribuito
fattivamente a plasmare il tempo nel quale è vissuto; non ha mai voluto
sottostare passivamente agli eventi culturali, sociali e politici che si muovevano attorno a lui; ha voluto far parte di quel gruppo di persone che
rappresentavano il divenire ben sapendo che vi sarebbe stato un prezzo
da pagare. Accettò da giovane di seguire la carriera diplomatica, allora riservata agli esponenti della nobiltà, riuscendo però sempre a distinguersi
per il suo modo poco convenzionale di affrontare qualsiasi questione,
anche la più complessa. Le opinioni che pubblicamente non poteva
esternare le affidava a suoi articoli sotto pseudonimo; nell’arco della vita
ha usato circa settanta pseudonimi e li ha messi al servizio della sua filosofia, un pensiero europeista che voleva coniugare la tradizione culturale
di ogni singolo paese con l’esigenza del pacifico progresso comune; un
pensiero condiviso da tanti altri pensatori di quel periodo, ispirazione di
interessanti filoni artistici e politici che portò gradualmente all’idea di
Europa che oggi conosciamo. In questo senso Schulenburg è certamente da considerare un avanguardista del pensiero europeista.
Dott.ssa Sibyl von der Schulenburg
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INTRODUZIONE
Illuminista e illuminato, in un’epoca nella quale i lumi (della ragione) erano abbrunati dalla follia nazista, il Conte Werner von der
Schulenburg, letterato, commediografo, scrittore, critico d’arte, grafologo e fine conoscitore della cultura italiana (1881-1958) fu immune
dalle suggestioni hitleriane per motivi “genetici”. Esponente di una
famiglia dell’antica nobiltà prussiana, si tenne, infatti, lontano dalla
demagogia populista offerta da Hitler come balsamo all’orgoglio ferito
delle masse tedesche, dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale e la
inarrestabile crisi economica, sociale e morale che colpì la Repubblica
di Weimar. Per questo, von der Schulenburg si divideva fra Germania,
Svizzera e Italia, instancabile globetrotter culturale. Malgrado una salute precaria, minata sia da una sciatalgia cronica – forse determinata
da una lesione alla spina dorsale subita in gioventù – sia, soprattutto,
da una patologia cardiaca che, aggravata dalle emozioni scardinanti
sofferte nel corso del secondo conflitto mondiale, quando fu perseguitato e in fuga da una caccia all’uomo scatenata dai nazisti contro di lui,
gli causò quattro infarti. Fino all’ultimo, fatale, del 1958.
La biografia, ricca di documentazioni inedite che la sua ultimogenita Sibyl - che quasi non lo conobbe, giacché il padre le morì che
lei aveva appena quattro anni - ha raccolto nel libro “Il Barone” ce lo
restituiscono a tutto tondo, senza tacere le sue prodezze di “tombeur
de femmes”, spinto da un’inguaribile inquietudine esistenziale a inseguire, febbrilmente, un ideale femminile complesso e inafferrabile.
Questa “nuance” della sua personalità, però, è solo una sfaccettatura di un uomo culturalmente “vorace”. Sibyl sottolinea, infatti,
anche la raffinatezza del gourmet; dopo un’infanzia e un’adolescenza
represse nella camicia di Nesso di una carriera militare impostagli
dalle tradizioni familiari, nonché dalla volizione paterna che, in tal
modo, voleva stroncare, sul nascere, le sue attitudini artistiche, finalmente ruppe il bozzolo dei retaggi per abbracciare la sua più genuina
ispirazione: lo studio. Che fosse quello della Giurisprudenza, a cui si
dedicò frequentando alcune Università tedesche, per laurearsi, infine,
a Erlangen, o fossero la filosofia, l’ontologia, le grandi questioni poli9
Sibyl von der Schulenburg
tiche sue contemporanee, anche nell’interpretazione di un pacifismo
che animò i dibattiti negli ambienti culturali tedeschi per bocca di
Bertha von Suttner, vero è che il Conte von der Schulenburg plasmò
se stesso fino a essere, in qualche modo, affine a un Pico della Mirandola dei nostri giorni.
I suoi contatti e le sue frequentazioni con l’intellighenzia dell’epoca (ebbe modo d’incrociare in Svizzera persino Lenin, appena prima
della Rivoluzione d’Ottobre), fra i primi del ‘900 fino alla morte, furono alimento indispensabile al suo spirito raffinato e recettivo che necessitava di ricevere, continuamente, nuove sollecitudini intellettuali.
Uomo quasi vitruviano, von der Schulenburg ebbe, inoltre, una costante, testimoniata presenza paranormale accanto a sé: la figura femminile evanescente e opalescente che lo affiancò in momenti nevralgici
della sua esistenza. Così, la lettura di questa “speciale” biografia che ci
parla, col linguaggio dell’emozione ma anche con quello della raffinata
ricerca archivistica, di un intellettuale che sempre ebbe in disdegno le
farneticanti teorie del pangermanesimo e che era uomo di dialogo e
non di contrapposizione, può suscitare una miriade di riflessioni. Tra
le altre che, nel suo difficile tempo, dove il Male assunse la fisionomia
di una Bestia assetata di sangue dei più deboli e perseguitati – von der
Schulenburg deplorò l’antisemitismo. Ma la questione della razza si
accanì anche contro i portatori di handicap fisico e psichico, nonché
contro chi appariva “irregolare”, come gli omosessuali o gli zingari. E,
certamente e soprattutto, contro gli intellettuali poiché essi, come il
Conte von der Schulenburg, volevano che il mondo non rinunciasse
all’autonomia del pensiero, all’educazione al pensare, alla libertà del
ricercare. E, soprattutto, che non fossero indifferenti alle barbarie e
che non tacessero. Per dirla con le parole della celeberrima poesia di
Brecht:
(Berlino, 1932 - Attribuita anche al pastore Martin Niemöller)
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
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Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Una poesia scritta in un momento in cui Hitler non era ancora arrivato al potere né come Cancelliere del Reich (1933) né si era autoinvestito del titolo di Führer (1934); dunque, rappresenta un presagio
che fa il paio con gli stimoli predittivi che von der Schulenburg provò,
intessuti nella sua esasperata sensibilità di letterato.
La missione che si sobbarcò, quale “ponte” fra la cultura tedesca e
quella italiana lo resero uno dei più profondi conoscitori del nostro
Paese in Germania. E il Mussolini prima maniera aveva in grande
considerazione quest’uomo dallo sguardo penetrante e attento. Sua
estimatrice e buona amica fu una donna “del destino” come Margherita Sarfatti, considerata all’epoca come un’ennesima amante del Duce,
ma che, invece, ebbe un ben preciso ruolo intellettuale, formativo e
ispiratore di contenuti, nella vita di Mussolini. Perché il suo posto era
ben altro. Innanzitutto, la Sarfatti, sovvenzionò il movimento fascista
ai suoi primordi, essendo esponente di una ricca famiglia ebrea veneziana; poi, il sentimento che la legò a Mussolini – e, si legge fra le righe, forse vi fu una liaison anche con von der Schulenburg – determinò un rispetto del Duce verso lo spessore intellettuale di Margherita
tale che a lei affidò, fino alla svolta tragicamente autoritaria del regime,
il ruolo di Musa della Cultura fascista.
Una figura femminile da riscoprire, anche in considerazione delle
sue scelte di esilio in Sudamerica negli anni bui dell’antisemitismo,
del suo ritorno in Italia, nel dopoguerra e, infine, della sua decisione di
ritirarsi, in una posizione defilata, quasi un esilio volontario nella villa
di Cavallasca, presso Como.
Il testo getta, dunque, una luce interpretativa, per certi tratti inedita
riguardo ad alcune figure storiche e una serie di eventi che accompa11
Sibyl von der Schulenburg
gnarono l’escalation del potere, cieco e assoluto, dei dittatori tedesco e
italiano: ad esempio l’ambiguo von Papen e l’aristocratico aventinismo
dei gruppi dirigenti militari, che fondavano sulla genealogia il loro
potere, e che, in qualche modo, lasciarono campo libero all’avidità di
Hitler. E un Mussolini diffidente rispetto a Hitler così come raramente la saggistica storica ce l’aveva restituito.
Di grande finezza psicologica, inoltre, la notazione di von der Schulenburg su un certo “mimetismo animale” da lui osservato nel fondatore del fascismo: un camaleonte che, di fronte al suo interlocutore, era
capace di assumere il comportamento e, addirittura, la mentalità, via
via, di un insegnante elementare, di un capopopolo, di un giornalista.
Non una recita – precisa il Conte – ma una giostra di pluripersonalità.
Espressione di una volontà, di un’esigenza o, piuttosto, di un bisogno
inesauribile di ricercare attenzione e consenso che non mancavano
neanche ad un altro personaggio il quale, sul piano culturale e di agitprop di regime, animò i tempi: Gabriele d’Annunzio. Il Vate abruzzese
viene dipinto dal “Barone” – che per il libro del Gotha, in realtà, era un
Conte – come un omino dai denti marci e dalle suggestioni fanaticoreligiose, con un ego sterminato. Un’immagine di lui che conferma le
opinioni degli osservatori che, allora, ebbero occasione di incontrare
e/o, meglio ancora, di conoscere il “padre” della “Figlia di Jorio”.
Per questo motivo, la testimonianza, vivace e ponderosa, di von der
Schulenburg è preziosa, quale voce narrante del retroscena del XX
secolo, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con lui, si viene
trasportati, in un Grand Tour dell’anima, attraverso tempi angosciosi
per la civiltà occidentale e si approda, poi, in un passato ancora più remoto, con un salto all’indietro di alcuni secoli, nel romanzo che rimane il suo capolavoro e riguarda la biografia di un suo famoso antenato,
il Maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, vissuto a cavallo
fra il XVII e il XVIII secolo. A lui, il Barone dedica “Il re di Corfù”,
un testo di 900 pagine, nella cui stesura investe sei anni di vita, dal
1944 al 1950. Si tratta di un romanzo complesso, nel quale l’affresco
dell’epoca ove agì questo singolare personaggio è reso con vividezza
e accresce l’interesse per lo snodarsi delle sue gesta. La traduzione in
italiano è stata approntata e si spera di poter godere, al più presto, della lettura di questa importante biografia. Dobbiamo ricordare, infine,
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ancora e ancora, che l’opera di riscoperta di un così interessante esponente della cultura europea - oltre che tedesca -, che tanto amò l’Italia
da divenirne quasi l’ambasciatore culturale in Germania, viene messa
in atto dalla figlia Sibyl, che del padre ha un ricordo vago e fiabesco;
un genitore con cui fu a contatto solo nella primissima infanzia e del
quale, invece, “materializza” il ricordo trasformandolo in ricerca e in
documenti e raccolta, in indagine di formidabile valenza. Quasi che,
con questo libro, la figlia volesse, come Orfeo, riportare nel mondo
dei vivi, il padre, troppo presto, a lei, sottratto. All’ultima moglie, Jsa,
ancora vivente, di quarant’anni più giovane di lui e sposata nel 1951,
madre di Sibyl e di altri due figli, viene, invece, affidato il ruolo di Vestale degli ultimi giorni del Barone.
E chissà, poi, se si possono fare ipotesi riguardo a quell’ombra opalescente che si manifestava accanto a lui in certi momenti particolari,
quasi che il Conte von der Schulenburg fosse un inconsapevole medium. Una cosa è certa: anch’essa fa parte del fascino di un personaggio che è merito di quest’opera aver riproposto al centro del dibattito
culturale. Oggi, così come lo fu in vita, con l’affettuosa complicità di
una figlia che lo ha amato quasi senza conoscerlo. E che, in fondo, ripete sia l’operazione culturale di comporre una biografia come quella,
appunto, scritta da suo padre sul Maresciallo Johann Matthias von
der Schulenburg; sia l’azione compiuta dal padre stesso riguardo alla
statua dell’antenato Feldmaresciallo, abbandonata e dimenticata a Verona perché senza scritte identificative. Infatti, gli scritti e gli archivi
inediti con cui Sibyl ne ricompone la figura, permettono di edificare
al Conte von der Schulenburg, suo padre, un monumento letterario
degno del suo valore culturale.
Prof.ssa Maria Rita Parsi
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«Sono sempre affascinato dalle donne intelligenti. Amo discutere
di arte e cultura e, se il mio interlocutore è una donna, la discussione
assume sfumature particolari. Ma la politica...» dichiarò il tedesco.
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Il monumento che si trova a Verona, realizzato dallo scultore Raffaele Bonente,
è testimonianza di come le vicende dei von der Schulenburg, abbiano da sempre
avuto grande importanza sia per l’Occidente che per l’Italia, e della particolare
attenzione che hanno riservato al nostro Paese.
Al centro il Feldmaresciallo J. Matthias von der Schulenburg, in alto a destra
Werner von der Schulenburg, in alto a sinistra lo stemma del casato.
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«Allora la chiamerò barone. Lei potrà interpretarlo nell’accezione
che più le piacerà, di uomo libero o di aristocratico». La risata
di Schulenburg esplose alta e divertita. Che fantasia, cultura e
intelligenza albergavano in quella donna!
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Sibyl von der Schulenburg
Margherita Sarfatti
in una fotografia lasciata a Werner von der Schulenburg negli anni ‘20.
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La marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, ebbe successo. Il re fu scaltro abbastanza da affidare a Mussolini la formazione di un nuovo governo; probabilmente sapeva che il popolo non poteva evitare questa esperienza e che questo volevano i maggiorenti della politica. Le
strade di Milano si gonfiarono fino a diventare un uragano quando il
Duce si recò alla stazione.
«D’ora in poi i treni saranno puntuali» disse Mussolini al capostazione, mentre saliva i gradini della carrozza letto per Roma. E i treni
furono puntuali. Molte altre cose si svolsero con ordine in Italia, anche
se nel profondo l’animo italiano vi si opponeva. Mussolini mirava a
educare il popolo e ottenne anche ordine pubblico e disciplina.
«Il pericolo per l’Italia sta nella fossilizzazione e militarizzazione
del fascismo» disse Schulenburg al giovane avvocato. Ebbe, infatti,
delle perplessità quando venne a sapere che Mussolini aveva chiesto a
Berlino il testo del primo atto di governo di Federico Guglielmo I, il
re dei soldati. «Che Mussolini non veda il pericolo del militarismo?».
«Riuscirà a evitare questo pericolo?» chiese ancora, ben sapendo che la
Germania s’era infranta contro quella scogliera.
Dall’alto della villa di Schulenburg ad Ascona, Rezzonico lasciò
vagare lo sguardo sul Lago Maggiore e rispose solo: «Margherita ne
è convinta».
Dovette passare del tempo prima che Schulenburg avesse occasione di incontrare di nuovo Margherita Sarfatti. Ne aveva sentito parlare molto e si era fatto di lei l’immagine di donna intelligente, avveduta
e forte di carattere. Aveva creato il Novecento, l’associazione fascista
degli artisti, si occupava di letteratura e soprattutto era la consulente
fidata di Mussolini. Circolavano voci secondo cui la sera prima della
marcia su Roma avesse opposto a un presunto esaurimento nervoso
del Duce una freddezza estrema, cristallizzata nelle parole «O marci,
o muori. Ma io so che tu marcerai». Forse era solo una diceria, una
favola, ma il fatto stesso che si fosse generata dava l’idea della fama di
cui Margherita godeva.
Un giorno finalmente Schulenburg fu introdotto da Rezzonico nel
salotto di Corso Venezia.
Li fece entrare non un solenne maggiordomo, ma una graziosa cameriera con crestina bianca, che dava all’ambiente un’impronta di an55
Sibyl von der Schulenburg
ticonformismo e leggerezza. E forse voleva anche essere un messaggio
di austerità.
Gli ospiti, tutti di sesso maschile, sedevano a vari tavolini in legno
intarsiato intenti in discussioni animate. Qualcuno si spostava da un
tavolo all’altro, da una conversazione all’altra, forse perché vari erano gli
argomenti in discussione. La casa era arredata in modo rigoroso, con
un’eleganza un po’ dura. La vita sociale di Milano aveva assunto un tono
nuovo, quasi un che di militaresco. Al centro del salone con tappezzeria
cremisi, sedevano in comode poltrone vari signori in abito scuro, tra
i quali Schulenburg riconobbe Carrà, Funi e Salietti, tutti pittori che
avevano aderito al Novecento e parevano in adorazione di Margherita
Sarfatti. La padrona di casa, bionda, bella, snella, elegante, sedeva al
centro su un grande divano, quasi una sacerdotessa tra i suoi discepoli.
Si alzò lesta quando la cameriera, leggendo faticosamente il biglietto da visita che il nuovo ospite le aveva garbatamente allungato, annunciò: «L’avvocato Rezzonico e il dottor Werner von... der...
Scolembor...». Si avvicinò con passo spedito ed energico a quell’uomo
alto, dal cranio rasato e gli occhiali tondi, da miope, che mettevano
in risalto lo sguardo deciso e penetrante. Qualcuno l’avrebbe anche
potuto definire arrogante.
«Benvenuto, caro conte! L’amico Rezzonico mi ha tanto parlato
di lei, dei suoi scritti e della sua cultura in fatto d’arte. Ricordo che ci
siamo incontrati fugacemente a Cavallasca».
Schulenburg restò folgorato dalla donna e dall’ambiente, o forse
dalla donna in quell’ambiente maschile. Si chinò sulla mano curata
che lei gli aveva teso e mormorò soltanto: «Enchanté, madame».
La signora guardò con curiosità la figura imponente del nuovo
ospite e apprezzò il suo modo signorile di muoversi. Sorrise con sguardo d’intesa al giovane avvocato pregandolo: «Guido, per favore, occupi
momentaneamente il trono della salonnière e tenga impegnati i nostri
artisti». Poi si rivolse di nuovo a Schulenburg: «Conosco la storia della
sua famiglia, dei suoi illustri rappresentanti. Ho avuto il piacere di
incontrare suo cugino il conte Friedrich Werner von der Schulenburg.
Dove si trova ora? A Teheran mi pare».
«Sì, il cugino Friedrich Werner è attualmente all’ambasciata di Teheran per la Repubblica di Weimar» confermò Schulenburg.
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«Pensi, quando tempo fa ho saputo che a Milano era arrivato il
conte von der Schulenburg ho pensato fosse lui. Avete quasi lo stesso
nome. Lei è Gebhard Werner e lui è Friedrich Werner. È facile fare
confusione», aggiunse quasi in tono di scusa.
«In effetti, altre volte sono stato scambiato per lui e lui per me.
Soprattutto all’estero e nell’ambito diplomatico, dove entrambi siamo
stati chiamati a servire» la rassicurò Schulenburg con la sua voce coltivata e ben modulata. Sapeva quale effetto avesse sugli interlocutori,
in particolare sulle donne.
«Ah, caro conte...».
«La prego», la interruppe il tedesco, «mi chiami semplicemente
Schulenburg. Non ho una grande opinione dell’odierna nobiltà tedesca. In Germania mi sono fatto parecchi nemici scrivendo su un’aristocrazia sempre meno sensibile alla cultura, che non indirizza i suoi
rampolli agli studi universitari. Sono orgoglioso dei miei titoli accademici, non di quelli nobiliari, perché è la mia istruzione non i miei
nobili natali che mi aprono gli orizzonti sul mondo. In questo senso
ritengo davvero di essere un uomo libero».
«Un barone, allora. Dall’antico germanico baro, uomo libero». E
qui Margherita volse lo sguardo in alto a sinistra, come era solita fare
quando cercava qualcosa nella sua memoria. «Inoltre, credo proprio di
ricordare che suo cugino mi disse che i Schulenburg godettero prima
del baronato e poi del titolo comitale».
«La sua memoria mi colpisce, madame».
«Allora la chiamerò barone. Lei potrà interpretarlo nell’accezione
che più le piacerà, di uomo libero o di aristocratico».
La risata di Schulenburg esplose alta e divertita. Che fantasia, cultura e intelligenza albergavano in quella donna!
«Certo, madame, sarà un piacere» acconsentì il barone sorridendo.
«Bene», disse Margherita, riprendendosi dalla sorpresa per la sonora risata che aveva meravigliato anche qualcuno degli altri ospiti.
Fece un cenno alla giovane cameriera: «Francesca, un bicchiere per il
nostro barone».
La crestina bianca sparì ondeggiando dietro un porta di legno per
poi rientrare quasi subito con un vassoio d’argento, sul quale facevano
bella mostra di sé due altissime flûte luccicanti per le allegre, esube57
Sibyl von der Schulenburg
ranti bollicine di spumante. «Il re e la regina bianchi sulla scacchiera
vuota. I vincitori» pensò il tedesco.
«Prego!». Margherita porse un bicchiere a Schulenburg e prese l’altro per sé. «Salute! Benvenuto a Milano e, prima ancora, benvenuto
nel mio salotto. Non vediamo molti tedeschi da queste parti. A proposito», disse poi in un tedesco fluente, «cosa pensano i suoi connazionali di noi e, soprattutto, cosa si pensa in Germania dell’Anschluss,
dell’annessione dell’Austria all’impero?».
Grato di potersi esprimere nella propria lingua, il barone rispose:
«Vede, madame, in certi ambienti tedeschi, socialmente elevati, si riflette molto sull’argomento. I protestanti del nord vedono in questa annessione soprattutto un possibile rafforzamento cattolico. A parte ciò,
si deve considerare che l’Austria non è in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento e anche le nostre riserve non sono
eccessive; un giorno potrebbero essere appena sufficienti per noi. Si può
prevedere un momento in cui la Germania stessa si trovi in difficoltà».
«E, in generale, qual è l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’Italia?». La domanda di Margherita era delicata.
Schulenburg non vide però alcun motivo di addomesticare la risposta.
«Le ho appena detto che in Germania si hanno perplessità sull’annessione. Tuttavia, ciò non ostacola l’amore della Germania acculturata per la romantica Austria, così come non ostacola quello per l’Italia,
un amore, questo, che io ritengo indistruttibile. Purtroppo, su questo
amore è caduta un’ombra, ed è il Sud Tirolo».
Margherita lanciò a Schulenburg uno sguardo tagliente.
«Signore», disse duramente, «non esiste un Sud Tirolo, c’è solo un
Altoadige».
Il barone accennò un breve inchino e, riprendendo la lingua nativa
di lei: «Allora, dobbiamo parlare l’italiano. Nella mia lingua non esiste
la parola Altoadige».
Sul viso di Margherita si distese un sorriso cordiale. «No», rispose
in tedesco, «cerchiamo piuttosto una parola tedesca per questa terra,
diciamo Oberetsch».
«Questa denominazione non evoca per nulla lo splendore della terra che invece in ogni tedesco evoca la parola Südtirol». Schulenburg
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avvicinò alle labbra l’elegante bicchiere e prese un sorso di spumante.
Poi, mentre le bollicine gli solleticavano il naso, riprese: «Ammetto
però che una siffatta denominazione dovrebbe essere la più adeguata
per l’impiego italiano».
Margherita sorrise. «Cosa pensa dell’arte fascista?» chiese per cambiare argomento.
«Anch’io amo l’arte e, nonostante l’indirizzo classico dei miei studi
di storia dell’arte, ho imparato ad apprezzare un poco il futurismo, soprattutto grazie ad amici come Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky,
ma, devo ammettere, non sono mai riuscito ad amare veramente quelle opere che si fondano strettamente sulle tradizioni italo-romaniche,
nelle quali viene ampiamente incorporato l’impressionismo francese a
sua volta fortemente influenzato dall’Italia. Sono quadri che ricordano
affreschi pompeiani, pitture gotiche, maestri del Rinascimento come
Cossa o direttamente impressionisti francesi...».
«La pittura fascista, appunto» sottolineò Margherita con tono
divertito.
«Mi dispiace» mormorò Schulenburg. «Non volevo denigrarla. La
pittura italiana si è ripresa dal precedente stato di decadenza, come si è
ben visto durante la mostra d’arte italiana a Zurigo del 1918. E questo
grazie a lei. La pittura fascista è buona e interessante. Solo non riesce
a colmare il mio romantico cuore germanico che ama ancora la pittura
italiana come la intendevano Canaletto, Guardi, Caravaggio...».
«Capisco cosa vuole dire, non si preoccupi» lo scusò la padrona di
casa.
Schulenburg appoggiò il bicchiere vuoto su un mobiletto in un
angolo dello studiolo nel quale si erano appartati nel frattempo per
discutere senza essere disturbati dal vociferare degli artisti. «Curioso»
disse additando una fotografia con cornice di mogano. «È Mussolini
come pochi lo conoscono. La stampa ci ha sempre fatto vedere ritratti
dai lineamenti duri. Qui invece è ritratto con fattezze decisamente
morbide. Non si direbbe la stessa persona».
Margherita non rispose. Sorrise, invitando l’ospite a raggiungere gli
altri nel salone.
Schulenburg lasciò il salone Sarfatti a notte inoltrata. Ripensò alla
figura di quella donna che tanto l’aveva affascinato. Aveva avuto la
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Sibyl von der Schulenburg
conferma che fosse una donna forte, energica e decisa. Aveva anche
avuto la conferma che il salotto in corso Venezia serviva sì da palcoscenico della cultura e dell’arte italiana, ma anche da cassa di risonanza
ed ente di promozione dell’ideologia fascista. Il mobile poi, sul quale
aveva così disinvoltamente posato il bicchiere vuoto, era certamente la
scrivania di Mussolini nei momenti in cui si serviva di quelle stanze
come ufficio personale. Era risaputo che i rapporti tra i due non erano
di semplice amicizia, ma non che ciò si potesse arguire dal loro comportamento pubblico. Gli piaceva quella donna.
Il 1924 fu un anno movimentato, l’anteprima della difficoltà degli
anni successivi. Donna Margherita Sarfatti si trasferì definitivamente
a Roma e riaprì lì il suo salotto. Dal Ticino Schulenburg andò spesso
a trovarla, prima a Milano, poi a Roma e così ebbe sovente occasione
di osservare il suo lavoro. Mussolini le aveva assegnato una specie di
mansione dittatoriale: quadri, filmati, libri, teatro, progetti per opere
pubbliche, tutto soggiaceva al suo giudizio e spesso alla sua approvazione. Soprattutto la occupava la pittura fascista.
Nonostante tutte queste attività della signora Sarfatti, Schulenburg
non riusciva a liberarsi dal pensiero che l’intenzione di Mussolini era
di tenerla lontana dal governo dello Stato. Ancora presentava al Duce
una relazione settimanale, ma sembrava che egli non ricordasse troppo volentieri il loro legame del passato. Il legame risaliva al tempo in
cui Mussolini era redattore dell’Avanti, il giornale socialista, e donna
Margherita era una collaboratrice. Allora lei lo aveva sostenuto strenuamente. Lui aveva ogni motivo per esserle grato. Ora, però, a questo
uomo sensuale, che aveva un successo incredibile, si offrivano donne di
tutti i paesi e di tutte le classi sociali e Mussolini, anche in questo simile
al suo grande predecessore Cavour, godette di quanto gli veniva offerto.
Con la vecchia amica si comportò come il loro temperamento e la sua
sensibilità permettevano. Le lasciò soprattutto il settore dell’arte.
Ma la posizione di Margherita, pensò Schulenburg, resterà ancora
a lungo sufficientemente potente. Anche grazie alla tenace energia con
cui lei si aggrappava alla gestione della cultura. Cultura è in fondo un
campo in cui tutti i fili si incrociano e dal quale si lasciano sempre
gettare nuovi ponti verso la politica in senso stretto.
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Ed era la cultura, quella italiana e quella tedesca, che più interessavano Schulenburg. Era finalmente nella posizione di fare quello a cui
si era sempre sentito chiamato, a promuovere cioè lo scambio culturale tra Germania e Italia, la costruzione di un ponte su solidi pilastri
culturali, non a fini politici ma di avvicinamento dei due popoli per le
loro qualità umane.
Margherita aveva iniziato la stesura della biografia di Mussolini ed
ebbe modo di parlarne con il barone. Conoscendo il suo interesse per
la grafologia, gli permise di prendere visione di vari campioni della
scrittura del Duce ed egli si rese conto che aveva visto bene un’amica
grafologa. Dal punto di vista caratteriale, sosteneva la grafologa, doveva essere avvenuto uno sconvolgimento decisivo in Mussolini durante
l’acquisizione della piena maturità, avvenuta relativamente tardi, solo
dopo gli anni in cui era stato insegnante. Tra gli autografi mostrati
da Margherita, alcuni risalivano al periodo dell’insegnamento, altri a
periodi successivi. La calligrafia del periodo in cui insegnava era in
linea con l’espressione del volto del Mussolini di allora, l’una e l’altra
straordinariamente morbide. Ricordarono al barone i lineamenti della
fotografia che aveva visto sulla scrivania in Corso Venezia. La grafia
immediatamente successiva a quel periodo era invece caratterizzata da
uno slancio verticale ed era palesemente modellata su quella di Gabriele
d’Annunzio. Non fu un’infatuazione passeggera e anche i suoi appunti
successivi, compresi quelli assolutamente privati, avevano l’impronta
della grafia dannunziana. Schulenburg pensò che forse Mussolini aveva cambiato la sua scrittura quando si persuase che per il successo nella
vita pubblica fosse necessario assumere la posa che nell’Italia di allora
era stata mostrata e imposta da Gabriele d’Annunzio.
Correva voce a quei tempi che Mussolini fosse affetto da un’infezione luetica e comunemente si riteneva che ciò portasse a una modifica del carattere. Che questa infezione avesse avuto luogo, per il
barone era fuori dubbio.
Quando, nel 1924, a Roma, Schulenburg alloggiò nella pensione Sesters in via Sistina, notò una giovane tedesca che assumeva i suoi pasti
taciturna e intimidita. Chiese allora alla signorina Sesters informazioni
sulla ragazza. La proprietaria della pensione gli disse che si trattava di
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Sibyl von der Schulenburg
un’assistente del medico personale di Mussolini, una batteriologa, che
aveva commesso l’imprudenza di parlare con altri dei risultati delle analisi batteriologiche del Duce. In conseguenza di ciò era stata interrogata
dalla polizia segreta del fascismo e minacciata di ritorsioni terribili, qualora avesse osato dire ancora una sola parola sui risultati di quelle analisi.
La sera del due giugno 1924 Schulenburg sedeva tranquillo nella
sua poltrona nella biblioteca della villa di Ascona. Lisa, al nono mese
di gravidanza, stava aiutando la domestica a riordinare le stoviglie della cena e a preparare la casa per la notte. Dalla portafinestra aperta sul
giardino entrava il dolce profumo dei fiori. L’aria quasi estiva portava la
voce di Hetty che cantava un Lied del romanticismo tedesco. La bella
cantante concertista viveva giusto una casa più su o, come lei diceva,
più vicino alla verità del monte. Un monte in effetti non c’era. C’era
una collina di forse trecento metri che il destino aveva voluto vincolare
alla cultura mondiale. Nei primi anni del Novecento vi si erano insediati degli originali ‘spiriti liberi’, un gentile appellativo che in genere
alludeva non poco al loro stato di salute mentale. Erano convinti che
una vita sana, all’aperto, lontana dalla civiltà incalzante, li avrebbe fatti
vivere meglio e più a lungo, liberi nello spirito e nella mente.
Il progetto iniziale aveva subito parecchie modifiche nel corso degli
anni. Molti personaggi culturalmente rilevanti ci avevano provato e
quasi tutti se n’erano poi andati, lasciando traccia della loro aura ‘originale’ nello spirito dei luoghi. La collina era stata chiamata Monte
Verità forse perché qualcuno davvero pensava che, salendo in alto, si
sarebbe avvicinato al ‘Verbo’; poi, giacché nei fatti intendeva solo darsi
al naturismo, pensò bene che trecento metri erano sufficienti (e, del
resto, vivere a duemila avrebbe comportato problemi non indifferenti).
A onor del vero i fondatori avevano sempre sostenuto che la verità era
l’obiettivo della loro ricerca fin da quando, venuti a piedi dalla Germania per sfuggire alle costrizioni della società materialistica, cercavano
una vita in armonia con la natura. Secondo loro, coltivare la terra nudi
portava benefici sia al coltivatore sia all’insalatina e costruire esclusivamente con materiale naturale, evitando spigoli e angoli, permetteva
sicuramente un flusso più libero dello spirito tra le mura domestiche.
Erano vegetariani, promuovevano il libero amore, l’emancipazione
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il
Barone
femminile, il baratto. I cardini del pensiero erano espressi da termini
quali utopia, esoterismo, teosofia e poi antroposofia. Un bel calderone
in cui, all’insegna della cultura, confluivano ballerini, agricoltori, pittori, artisti d’ogni tipo e pensatori aspiranti al titolo di filosofo.
Nel volgere di pochi anni sulla sommità della collina, sui terreni acquistati dalla comunità, i vicini ebbero modo di vedere danzatori nudi,
soprattutto nelle notti di luna piena, quando praticavano l’euritmia.
S’insospettirono, ma col tempo si abituarono, limitandosi a chiamare
quegli individui i balabiott. Comunque sia, la collina ebbe presto fama
mondiale e attirò soggetti estrosi di ogni tipo, come Thomas Mann,
Isadora Duncan, Erick Maria Remarque, Carl Gustav Jung, André
Gide, Herman Hesse, e qualcuno dice che ci si fossero smarriti anche
Lenin e Bakunin.
Schulenburg poi, non mancava di ricordare i discepoli di quello
Steiner, il padre dell’antroposofia, che sulla sommità della collina tentavano di associare la chiarezza del pensiero scientifico moderno alla
consapevolezza di quel mondo spirituale che è intrinseco di tutte le
esperienze religiose e mistiche.
Ora, però, la situazione era più tranquilla. Il progetto iniziale poteva
dirsi intiepidito e anche i pochi balabiott rimasti avevano la decenza
di paludarsi con bianche lenzuola e indossare sandali romani, almeno
quando giravano sulla pubblica via. Sulla collina ora si coltivava molto
la pittura e grandi maestri traevano ispirazione dalla vista sul lago.
Ciò che legava Schulenburg ai frequentatori del Monte Verità erano
l’antimilitarismo, il disprezzo per i sistemi politici e religiosi, l’arte e la
cultura. Sempre che il padrone non fosse in giro per il mondo, molti
di loro frequentavano la sua casa dando vita a un salotto di alta e varia
cultura, dove si incontravano artisti e pensatori. La villa del barone a
metà collina, sulla via che saliva al Monte Verità, divenne un punto di
riferimento e di ispirazione intellettuale.
La soave voce di Hetty lo riportò al presente. Sorrise divertito ricordando come l’aveva conosciuta. Era successo l’anno prima, in una
giornata tiepida della tarda estate. Era in giardino in cerca di ispirazione per un capitolo del nuovo libro, Briefe vom Roccolo (Lettere
dal Roccolo), quello di sua proprietà che si ergeva vetusto e maestoso
a circa cinquanta metri dalla villa. Al suo interno aveva creato uno
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Sibyl von der Schulenburg
spazio abitativo che gli era servito come studio nel periodo in cui fece
ampliare la villa e ora serviva prevalentemente come alloggio per gli
ospiti. Quanti ricordi di quel roccolo!
Quella stretta scaletta di legno che portava nel piccolo locale aveva
vibrato molte volte per la corsa allegra di due gambe lunghe e affusolate che salivano e scendevano. Erano stati giorni spensierati e felici che
almeno a grandi linee richiedevano di essere documentati per iscritto.
Ed è quello che stava facendo.
Quel giorno girò dunque attorno alla torretta che un tempo era
servita da appostamento di caccia e scese il vialetto per una breve passeggiata in paese. Toccò la strada pubblica sul retro della casa e a passo
spedito s’avviò nella discesa che passava sul davanti della villa dov’era
l’ingresso principale. Giunto in vista delle aiuole in fiore, dove delle
splendide dalie giganti erano state piantate per dare il benvenuto agli
ospiti, restò di sasso alla vista di un marmocchio che non poteva avere
più di quattro o cinque anni, e teneva i piedi su due maestosi fiori
rosso rubino, mentre la mano sinistra stringeva due prede già spezzate
e la destra era avvinghiata a un esemplare giallo che, posto un po’ più
in là, si ostinava a non voler entrare nel bottino del piccolo razziatore.
Schulenburg a passo veloce e silenzioso, come mai avrebbe pensato di
potersi muovere, si avvicinò da dietro alla figura mingherlina in pantaloni corti e gambe sporche. L’ombra del barone si allungò su di lui e
sulla dalia gialla. Il movimento della figurina si arrestò. La mano destra
lasciò lentamente lo stelo del fiore che stoicamente aveva resistito, ma
ora, reciso, cadeva mestamente in avanti con tutto il peso della corolla
dorata. La mano sinistra si strinse ancora più forte attorno al bottino e
il ragazzino si drizzò senza fretta. Lentamente si girò ad affrontare la
mole del barone che oscurava il sole e portava il buio nella sua vita.
«Buongiorno» disse.
«Chi sei?» rispose fremente Schulenburg, che in frangenti come
quelli non riusciva proprio a dominare certe ruvidità germaniche intrinseche della sua eredità genetica.
«La mamma dice che è maleducazione non salutare».
«Chi sei?» ribadì il gigante rosso in volto.
«Non te lo dico» rispose, cocciuto, il ragazzino mentre con gli occhi
cercava una via di fuga.
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il
Barone
«Non credere di scappare, furfante!». Ora stava proprio urlando ed
era decisamente paonazzo.
«Alla mamma piacciono i fiori» provò a scusarsi il piccolo.
«Anche a me, ciofanotto», e nell’agitazione disse proprio ciofanotto, come si conviene a un tedesco indignato che ci prova con l’italiano,
«anche a me. Ed è per questo che li ho piantati, non certo per farmeli
rubare da te».
«Cos’è un ciofanotto? È una parola brutta? La mamma dice sempre
che non sta bene dire le parole brutte».
Schulenburg stava per esplodere. I suoi amati fiori erano stati assassinati non propriamente da un giovanotto, ma da un vandalo in braghe
corte che ora lo stava anche prendendo in giro. «Chi è la tua mamma?»
chiese con voce tremante che faceva pensare piuttosto alle lacrime che
a un’azione punitiva.
«La mia mamma è la signora più bella che c’è. E poi è la più brava
a cantare».
«Ecco chi sei, Attila!» sbraitò dall’alto della sua stazza da lottatore.
«Hai sbagliato vedi? Sei tanto rosso, stai male?» rispose il piccolo
tra il curioso e il preoccupato.
«Attila...» ripeté Schulenburg che stava per perdere il senso delle
proporzioni e cedere alla furia dei sentimenti.
«Ho detto che non mi chiamo Attila, mi chiamo Eddo!» precisò
con fermezza il bambino.
Schulenburg si calmò un poco e cercò un modo per gestire gli attacchi nemici alle aiuole del suo giardino. La mamma doveva essere la
signora che stava una casa più in là e che sentiva cantare con voce soave
i Lieder tedeschi. «Sarà il caso di informarla sulle malefatte del figlio».
Nel frattempo era uscita anche Lisa che, temendo problemi cardiaci del marito, era accorsa a calmarne i bollori. Sorrise al bambino
che ancora non capiva la ragione di tanta agitazione da parte di quel
gigante e gli accarezzò il capo biondo. «Beh!», gli disse, «visto che i
morti ci sono stati, tanto vale raccoglierli e goderseli in un vaso».
Raccattò i fiori che il piccolo aveva calpestato e la dalia gialla piegata a metà. Li porse a Eddo che li afferrò al volo e li aggiunse con
espressione di trionfo alle due prede già strette nella manina sudata.
«Grazie, signora, anche tu sei bella» disse con un sorriso a Lisa.
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Sibyl von der Schulenburg
«Grazie, caro. Non aver paura di quest’omone. Grida ma non
morde».
«Io credo di sì» rispose Eddo con grande sicurezza.
«Andiamo», intervenne l’omone, «andiamo dalla tua mamma e le
raccontiamo dove vai a rifornirti di fiori».
Il bambino, la mano stretta attorno a cinque grossi steli di altrettante magnifiche dalie giganti, si avviò felice verso casa senza dar ulteriormente retta a quell’uomo antipatico.
Sul vialetto della piccola casa in cui abitava, Hetty era già alla ricerca del figlio che si era allontanato un po’ troppo.
«Tesoro!» lo chiamò. «Eccoti finalmente. Lo sai che non devi allontanarti». Poi vide l’omone che lo seguiva ansimante a qualche passo.
«Buongiorno» lo salutò con voce interrogativa.
«Signora», esordì Schulenburg provato dalla salita fatta di corsa e in
stato di grande agitazione, «signora, suo figlio mi uccide le dalie».
«Eddo!» e solo allora parve accorgersi del trionfo di colori dietro
cui si intravedeva il visino del figlio. Sorrise. Prese i fiori che il piccolo
le porgeva e portandoli al viso, non per sentirne il profumo, quanto
per celare una risatina che minacciava di prorompere, disse: «Grazie
amore, ma non avresti dovuto rubarle».
«Lei è il conte von der Schulenburg, presumo» disse poi in tedesco
con voce dolce e melodiosa, rivolgendosi all’uomo rosso in viso e sudato che sembrava annaspare. «Sediamoci un attimo sotto la pergola.
Spero che accetterà un bicchiere di Merlot in cambio delle sue dalie».
Poi assunse l’espressione più severa che poté nei confronti dell’amato
figliolo e gli disse: «Eddo, vedi quanto è gentile il conte Schulenburg,
chiedigli scusa».
Eddo serrò i denti e corrugò lievemente la fronte, poi, come preso
da una decisione improvvisa proruppe nell’affermazione: «Schulenburg è grasso e cattivo». E lo disse in tedesco, forse per esser sicuro che
l’omone l’avrebbe ben capito. Quindi sgattaiolò in casa.
Fu così che Werner conobbe Hetty Marx, più tardi contessa Antonini, che gli fu buona amica per tanti anni.
La voce melodiosa di Hetty fu sopraffatta da quella stridula di Lisa
che gridava: «Werner, ci siamo».
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il
Barone
Il barone che, salvo in casi particolari, come quello dell’attentato ai
suoi fiori, non perdeva facilmente la calma, non si scompose e tornò a
guardare fuori dalla finestra in cerca di altri ricordi in cui ancora cullarsi. Si sa, le donne si agitano per nulla e gridano.
«Werner! Si sono rotte le acque!» insisté la voce della moglie.
Nella sua mente la vide urlare. Cercò di spiegarsi tanta agitazione
e immaginò lei piegata sul lavello a tamponare una falla del rubinetto.
Che si facesse aiutare da Teresa, la domestica. Poi, però, gli si affacciò
un ricordo: sua moglie non riusciva a piegarsi sul lavello perché il pancione di nove mesi glielo impediva. Capì. E benché quello che arrivava
non fosse il suo primo figlio, la calma sparì, come se gli avessero strappato tutti i fiori del giardino.
Balzò fuori dalla poltrona. «Stai tranquilla, cara. Teresa!» sbraitò,
«aiuti la signora a prepararsi e metta dell’acqua a bollire. Corro a cercare il medico».
Di colpo fu tranquillo. Aveva preso in mano la situazione e, come
sempre, l’avrebbe risolta. Uscì e si precipitò per la discesa verso la casa
del medico condotto, che aveva garantito la propria assistenza in ogni
momento. Lisa avrebbe preferito partorire a Zurigo, in clinica, ma non
si era mai veramente decisa a lasciarlo solo ad Ascona. Forse aveva creduto di poterci pensare ancora qualche giorno, ma il piccolo aveva deciso per tutti e si era presentato in anticipo rispetto ai loro programmi.
Cinque minuti dopo bussava con impeto alla porta del medico.
I due uomini arrancarono fianco a fianco su per la collina, entrambi con la mente fissa alla partoriente e alle possibili complicazioni.
«Sua moglie è giovane e sana», aveva detto il medico, «sarà semplice
e rapido, vedrà».
Purtroppo quattro ore più tardi il medico dovette ricredersi e Werner non era più tanto sicuro di avere il controllo della situazione. Si
decise a chiamare l’amico van de Velde, al quale già pensava da qualche
ora. Theo era medico con vasta esperienza in problemi ginecologici e
Schulenburg era forse quello che lo sapeva meglio di tutti.
S’infilò una leggera giacca da passeggio, uscì e prese la salita verso
il Monte Verità. Già da diverso tempo l’olandese era attivamente partecipe degli eventi della comunità di ‘originali’ e frequentava il salotto
Schulenburg regolarmente. Si ricordava persino la dedica che gli aveva
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Sibyl von der Schulenburg
lasciato nel settembre dell’anno precedente: «It is so often the better
things in us, that the word calls our insanities». Il significato di quella
frase la conoscevano forse solo loro due. Theo, durante lunghe notti
insonni, aveva scritto un libro sui rapporti matrimoniali ma, essendo
appunto medico e non scrittore, aveva chiesto a Werner di riportarlo
in buon tedesco e correggere dove necessario. L’amico l’aveva letto e
giudicato improponibile a qualsiasi editore. L’opera, se così la si voleva
chiamare, sarebbe stata da riscrivere, in quanto era sconnessa, piena di
strafalcioni e nel descrivere il rapporto di coppia si perdeva in dettagli
decisamente pornografici. Ed erano quelle le «insanities» a cui il buon
Theo faceva riferimento nella sua dedica: evidentemente, nella sua goliardia le riteneva le cose migliori di sé. Il manoscritto era rimasto lì,
nel cassetto di Schulenburg e oramai non ne parlavano più.
«Che coincidenza», pensò Werner in vista della villa di van de Velde, «questa sera mi sono venuti in mente due olandesi, Hetty e Theo;
gli italiani dicono che non ci sia due senza tre...».
Si fermò un attimo a riprendere fiato, poi batté con decisione il
pugno sul portone e, scordandosi l’ora tarda, prese a chiamare l’amico
a gran voce.
Theo, da buon medico qual era, si prese cura della partoriente senza
perdere altro tempo e la mattina del due giugno vide ad Ascona un nuovo piccolo Schulenburg. Il terzo figlio di Werner von der Schulenburg.
Il padre lo tenne timoroso tra le braccia. «Ecco un altro Schulenburg che sarà chiamato a far onore al nome della famiglia» pensò. E lo
sguardo andò dal visino dell’erede alla parete sulla quale era appeso uno
dei quadri della loro collezione privata, il Ciuffo d’erba di Vincent van
Gogh, acquistato l’anno prima ad Amsterdam dalla signora van GoghBonger. Schulenburg diceva sempre che era un tipico Vincent del 1888
e che sortiva quasi l’effetto dell’autoritratto. L’autore era un pittore
simbolo della genialità e dell’avanguardia molto apprezzato presso la
comitiva del Monte Verità. Poi gli occhi del barone tornarono sull’esserino appena nato. «Eccolo il terzo della serie di olandesi» pensò.
«Vincent», disse poi al figlio, «ti chiamerai Vincent, in ricordo di
questa grande notte degli olandesi». E a Theo van de Velde che stava
uscendo di casa stanco e soddisfatto disse semplicemente: «Questo intervento sarà pagato più di un intervento per la nascita di un principe».
68
il
Barone
VII
Al barone parve tanto diverso dall’uomo fresco e sicuro che aveva
incontrato molti anni prima, gli sembrò tanto fragile e vecchio...
Schulenburg si inchinò e lui borbottò con voce stranamente rotta:
«È un onore riceverla».
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Sibyl von der Schulenburg
Dedica di Ada Negri a Schulenburg del 1926.
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il
Barone
«Achaz sta meglio. Saluti. Lisa». Schulenburg rilesse un paio di
volte il telegramma speditogli dalla moglie all’albergo di Brescia. Alla
continua ricerca di materiale per la rivista, aveva preso contatti con
Gabriele d’Annunzio e avrebbe dovuto incontrarlo il giorno dopo.
Si sentì immensamente sollevato per la recuperata salute del figlio e,
come spesso gli accadeva nei momenti di felicità, la sua mente veniva
trasportata dai ricordi al periodo trascorso in Sicilia. O forse fu il pensiero di d’Annunzio che ve lo riportò.
Sul finire del 1902, all’età di ventuno anni, Schulenburg era finalmente riuscito ad andare in Italia. Sua madre gli aveva trovato una
sistemazione presso degli amici, don Giulio e donna Marta a Taormina. Passava diverse ore seduto nel teatro greco a leggere i classici
tedeschi, oppure seguiva degli antiquari locali alla ricerca di oggetti
del passato. Si era fatto anche una piccola collezione di monete antiche. Il sole siciliano aveva sanato molte cicatrici spirituali e anche la
sciatalgia andava molto meglio. Un giorno era seduto su un muretto
in contemplazione di alcune interessanti monete greche che avevano
da poco arricchito la sua collezione, quando un uomo elegante, col
pizzetto, gli si avvicinò. Lo riconobbe subito perché lo aveva già visto
in fotografia e da donna Marta aveva saputo che in quel periodo soggiornava a Taormina. Lei citava con devozione lunghi brani delle sue
opere teatrali, mentre don Giulio riferiva una maldicenza, secondo cui
Lord Stopford sarebbe quasi venuto alle mani con quel signore, perché
geloso di un bel giovane della città.
Ora l’aveva di fronte. Gabriele D’Annunzio. L’uomo elegante sulla
quarantina lo fissava sorridente appoggiandosi all’impugnatura d’oro
del bastone da passeggio; poi guardò le monete e si mise seduto sul
muretto vicino a lui.
«Allora, giovane barbaro», chiese in francese, «forse che la Magna
Grecia ha inviato i saluti dalla sua tomba terragna?».
«Accetto sempre con emozione questi saluti» rispose il giovane,
corrispondendo in parte al tono pomposo della domanda.
D’Annunzio proseguì citando alcuni versi in greco e portando in
avanti il capo come se volesse gustare la bellezza delle parole con le sue
labbra. Schulenburg non comprendeva quei versi e glielo disse. Allora
passò al tedesco: «Un fulgore bianco riposa sulla terra e sul mare e
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Sibyl von der Schulenburg
l’etere sta, profumato e senza nuvole». Tacque un secondo, poi riprese:
«Ecco. Ora lo capisce meglio?».
«Quanto è rimasto del Nausicaa di Goethe l’ho letto di recente,
seduto nel teatro».
«Là il tondo ancor rimembra l’armonia dell’anima greca e lo sguardo si lascia scaldare dall’alito di fuoco del dio incatenato». Il poeta
parlava con voce morbida e carezzevole. Ma aveva i denti guasti.
«A quei tempi le pendici dell’Etna non riscaldavano gli sguardi
degli spettatori» replicò il giovane.
Il pizzetto si mosse in qua e in là. «Gliel’ha forse sussurrato una
delle divinità delle sue monete?» chiese il poeta risentito.
Schulenburg rise. «No, semplicemente il mio buonsenso. Se lei dovesse ricostruire l’edificio del palcoscenico, si renderebbe conto che la
vista dell’Etna resterebbe preclusa».
«Gli occhi greci bruciavano da parte a parte anche le pietre, quando
dietro di esse ardeva la bellezza».
«Se i greci avessero posseduto occhi così penetranti, non avrebbero
avuto bisogno di andare a teatro. Avrebbero potuto godersi la bellezza
della tragedia attraverso le mura delle loro case».
D’Annunzio guardò il tedesco sconcertato. Aveva osato dubitare
della sua autorità. Non era abituato a tanta sfrontatezza. Attinse di
nuovo alla sua scorta inesauribile di belle trovate e rispose benevolmente: «Lei si scorda dell’estasi rituale legata all’esperienza vissuta in
comune. Solo una tale estasi rende lo sguardo del singolo libero per
il miracolo».
«Ma san Francesco era insieme ad altri o era solo, quando ricevette
le stigmate?» chiese il giovane perfidamente.
«Era in compagnia dei santi».
Schulenburg riusciva a cogliere l’alone di poesia di quell’uomo famoso, ma pensava anche che fosse lievemente strano. Allora, ancora
non sapeva quanto il vate fosse abituato a ricevere ammirazione incondizionata, ad avere l’adorazione dei giovani che restavano senza
fiato quando lui diceva frasi di quel tipo. Il giovane barbaro, invece, gli
oppose che lui non sapeva nulla degli occhi dei santi e che non saprebbe dire se i loro sguardi potessero attraversare i muri dei conventi in
un’estasi collettiva. D’Annunzio lo fissò con durezza. «Come, lei non
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il
Barone
sa nulla degli occhi di sant’Agata, nei quali si specchiano i sogni di
Dio? Non sa nulla degli occhi di sant’Agostino, nei quali fiammeggia
color porpora la gioia della rinuncia totale di sé?». Con la voce carica
di profondo rimprovero elencò ancora alcuni simili fenomeni ottici,
che però Schulenburg non seppe pienamente apprezzare. Ad ogni
modo, l’intensità con cui il poeta perorava la causa fece impressione
al giovane ufficiale che cercava comunque di essere gentile. In fondo,
si trovava di fronte a un poeta famoso! Così, replicò che aveva sentito
di una certa santa Ottilia, il cui convento si trovava nei Vosgi e la cui
sorgente avrebbe un potere curativo sugli occhi ammalati.
«E come cura gli occhi ammalati? Attraverso la forza della bellezza
che si allarga sotto i monti, nel profumo divino della vite santa, nel
quale arde verso il cielo l’organo di pietra di Strasburgo, suonato dal
geniale Erwin de Stenback».
«Chi?».
«Erwin de Stenback. Forse non lo sa, ma egli osò accettare la gara
con Dio, quando lanciò verso il cielo la cattedrale».
Schulenburg sapeva di sicuro che la cattedrale, costruita per diventare l’edificio più alto del mondo, non era opera di Erwin von Steinbach, il quale fece forse la facciata ma, per non offendere l’autorevolezza del famoso poeta, non lo corresse neppure sulla pronuncia del nome.
D’Annunzio intanto si era dedicato a due monete, esaminandole con
fare da esperto. Apriva e chiudeva ritmicamente gli occhi respirando
attraverso la bocca. «Monete», borbottò, «merce di scambio del potere.
Ma quanto era nobile allora il potere che si serviva di questa merce
di scambio! Ancora le monete non erano piatte da poterle impilare
avidamente. Invece ognuna di esse era ancora un oggetto plastico, una
creatura, un’anima». I baffi a manubrio dell’uomo vibravano mentre
continuava la sua istruzione al giovane tedesco: «E parlano solo al
possessore. Ognuna di queste monete ancor’oggi esclama: Il nostro
popolo è stato grande perché ha servito la bellezza, non l’avidità».
Per un po’ osservò intensamente il loro conio, poi proseguì: «E
grandi erano anche queste donne, perché la loro anima era quella di
un ragazzino».
Presso gli amici che lo ospitavano erano a servizio due ragazze siciliane, figure viventi della bellezza greca; la più anziana era piena e
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Sibyl von der Schulenburg
compassata, mentre la più giovane era snella e capricciosa. Ne parlò a
D’Annunzio.
«Ah», esclamò, «e come si chiamano?».
«Maria e Bastiana».
«Maria e Bastiana! I vostri nomi, voi donne, sono dolci come il
profumo del gelsomino!».
Schulenburg rifletté su cosa avrebbe detto sua madre, ma rimase ad
ascoltare le parole del poeta: «Io la inizierò ai segreti della divina bellezza.
Lei dovrà diventare un mistico del culto del sole che abbraccia il mondo
intero. Domani le farò avere un paio di libri francesi; sono templi dai
quale inizierà a fluire verso di lei il profumo del santo incenso. Si immerga
in questi libri, giovane barbaro, e ringrazi gli abitanti dell’Olimpo che le
preparano la strada verso l’eterna Grecia». Poi sollevò le mani come in
un atto di supplica: «Ma non infranga mai la grande legge degli iniziati.
Taccia! Taccia! Serri le labbra e giri in bocca la lingua per sette volte prima
di lasciar fluire una parola attraverso i denti».
Il giorno seguente Bastiana depose con un’impertinente riverenza
due libri sulla scrivania. Uno era Education sentimentale di Flaubert e
l’altro un libricino in edizione privata dal titolo Les mistères du soleil,
nel quale D’Annunzio aveva scritto a grandi lettere: «Per Ganimede».
La dedica fece sogghignare don Giulio.
Più tardi incontrò il poeta durante la passeggiata serale; sempre
più insisteva a parlare della bellezza e della dolcezza dell’immergersi
nell’unità del sole. Cose che col tempo annoiarono il giovane ufficiale.
Un giorno gli venne incontro radioso sulla strada principale, invitandolo a essere suo ospite in una visita alle cateratte superiori del Nilo.
Schulenburg ringraziò e rifiutò.
D’Annunzio congiunse le mani e sospirò: «Infelice! Ora ha distrutto la sua vita che era stata preparata in modo tanto radioso!».
Per non apparire troppo scortese il giovane spiegò: «Sono in congedo solo per l’Italia, non per l’Egitto».
«Congedo! Congedo! Oh, voi kantiani! Per questo misero congedo
lei rifiuta i misteri del sole!».
Lo guardò ancora una volta con grande rammarico, poi alzò lentamente le spalle, le lasciò ricadere, agganciò la maniglia del bastone da
passeggio al braccio e se ne andò a passo spedito.
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il
Barone
Dopo che nel 1920 conquistò Fiume e diventò il principe di Montenevoso, D’Annunzio prese a vivere nel Vittoriale, in precedenza proprietà di Henry Thodes, genero di Richard Wagner, che attraverso la
sua vita e le sue opere (Francesco d’Assisi, L’anello dei Frangipane, ecc.)
tentò, proprio come Schulenburg, di rendere sempre più forti i rapporti tra Italia e Germania.
Dall’albergo di Brescia Schulenburg, in quella mattina del ’29, partì
alla volta di Gardone Riviera. Era atteso e l’autista si era fatto dare indicazioni precise. Il barone si accomodò nel fondo della vettura e pensò a
quel personaggio originale che era sempre stato Gabriele D’Annunzio.
La sua villa era stata modificata con gusto un poco eccentrico. Su un’altura nel parco era incastonata la prua della nave Puglia, con la quale il
poeta guerriero aveva incrociato al largo di Fiume e che era ancora dotata di marinai d’equipaggio, che però non rischiavano più il mal di mare.
La macchina scivolò lungo il viale della villa e si fermò dinanzi
all’ingresso principale. Schulenburg scese dall’auto, si guardò intorno
un attimo, poi si avvicinò al portone d’ingresso e con l’impugnatura
del bastone bussò. Nessuno rispose. Riprovò a bussare e indietreggiò
per alzare lo sguardo sulla facciata dell’edificio. Dopo qualche secondo,
finalmente si aprì una finestrella al primo piano e nella sua cornice
apparve un monaco. Sorrise con un’espressione tra l’estatico e il faunesco, fece un segno di benedizione sul capo del barone sottostante, e
richiuse la finestrella.
Improvvisamente si aprì il portone e un domestico in livrea disse:
«Il principe la prega di entrare». Accompagnò Schulenburg al piano
superiore attraverso un vano scale zeppo di oggetti d’antiquariato e
cianfrusaglie, fino a un salone arredato anch’esso di mobili e suppellettili dello stesso genere. L’ospite fu lasciato solo ad attendere. Dopo
qualche tempo si aprì una porta a battenti e una voce annunciò: «Il
principe di Montenevoso!». Quindi apparve l’immaginifico con una
benda nera su un occhio, nell’alta uniforme dell’aviazione italiana sovraccarica di medaglie. Al barone parve tanto diverso dall’uomo fresco e sicuro che aveva incontrato molti anni prima, gli sembrò tanto
fragile e vecchio. Per un momento si fermò nella luce che entrava
dalla grande finestra. Schulenburg si inchinò e lui borbottò con voce
stranamente rotta: «È un onore riceverla».
127
Sibyl von der Schulenburg
Si sedettero a un tavolo e il padrone di casa prese un pacchiano
portasigarette in oro che, così informò l’ospite, era stato realizzato dal
suo gioielliere di fiducia su suo personale disegno. Offrì una sigaretta
profumata. E tra una voluta di fumo e l’altra fissava il barone con l’occhio buono: l’altro, aveva detto, l’aveva perso in guerra (ma Schulenburg aveva già sentito versioni differenti e meno eroiche). Dopo un po’
prese a parlare: «Lei desidera che io le fornisca un contributo letterario
per la sua rivista Italien. La rivista è molto raffinata. Le svilupperò le
mie riflessioni su Theodora d’Effrée».
«Potrebbe essere interessante, ma purtroppo non so chi sia questa
signora» osservò il tedesco.
«Non può saperlo» disse il vecchio facendo dondolare il capo. «È
una monaca francese del sedicesimo secolo che morì d’estasi alla vista
di un’immagine che credeva sacra e che in verità era profana. La conseguenza fu che il suo corpo astrale non trovò redenzione e vagò per
quattrocento anni nel mondo per trovare un alloggio dignitoso. Con
terribili battaglie notturne, questo corpo astrale conquistò due delle
mie camere cardiache. Ora alloggia lì. Le scriverò qualche cosa sulla
sua vita nelle camere del mio cuore».
«Attendo fremente questa grandiosa creazione» rispose Schulenburg, a cui, più che l’acquartieramento forzato nel cuore del poeta,
interessava capire se il vecchio geniaccio aveva ancora l’abitudine di
bluffare o se invece era irreparabilmente uscito di senno.
Con voce carica di dignità D’Annunzio raccontò della magia
dell’ascesi che viveva giornalmente, in quanto frate francescano di terzo grado. «Mentre attorno a me fioriscono i gigli...» e disse la parola
gigli trascinandola con piacere attraverso le labbra pesanti.
Non menzionò mai il loro incontro a Taormina, se n’era del tutto
scordato. «E comunque», si disse Schulenburg, «avrà sicuramente trovato qualcun altro che lo accompagnasse alle cateratte del Nilo».
Dopo qualche tempo il vate si sollevò con un movimento rapido,
come un principe reggente che si accomiata dal visitatore. Il domestico accompagnò Schulenburg all’uscita, facendo a ritroso quel percorso
tra gli oggetti d’antiquariato, poi si accomodò sul sedile accanto all’autista per consentire all’auto di passare attraverso il posto di controllo
della villa. Mentre scendevano la collina, sentirono improvvisamente
128
il
Barone
tre colpi di cannone. Il domestico si girò verso il barone adagiato nel
fondo e disse: «Il principe la saluta con tre salve di cannone: per l’aristocratico straniero, il soldato e il poeta». Poi, giunti al cancello, saltò
giù dall’auto lasciando il tedesco preso dall’ilarità.
Schulenburg non ricevette mai le riflessioni su Theodora d’Effrée,
ma qualche settimana dopo quell’incontro gli giunse la fotografia del
poeta che lo raffigurava con una cravatta colpita dalla luce in modo tale
da formare un effetto che poteva assomigliare a una mano femminile.
Sotto la fotografia d’Annunzio aveva scritto: «La mano della Madre
mi protegge». Il barone sapeva che era una fotografia che D’Annunzio inviava a mezzo mondo con la stessa dedica; infatti l’aveva vista
presso amici e conoscenti, tra questi Margherita Sarfatti e la ballerina
Charlotte Barra, la quale raccontava sempre storielle divertenti sul poeta. Per Schulenburg D’Annunzio era un grande poeta, un uomo con
un’incredibile fantasia, creativo nel linguaggio e un serio lavoratore.
Contemporaneamente riteneva che fosse anche un commediante e un
professionista pubblicitario. Il barone si meravigliò sempre che il popolo italiano perdonasse le stranezze di D’Annunzio che in Germania
sarebbero state ammesse solo in un attore, mai in un poeta. Di questo
atteggiamento un giorno scrisse: «È indice dell’alta intellettualità del
popolo italiano».
E fu anche quello che disse a Margherita Sarfatti in una visita a
Milano. Margherita aveva invitato Schulenburg e la moglie i primi di
maggio a una festa tra amici. Al sontuoso ricevimento la depressione e
la miseria erano momentaneamente dimenticati. La cultura e la politica
erano come sempre al centro dei colloqui: si parlò di scambi culturali e
quindi della rivista Italien, di autori italiani e tedeschi, tra i quali in particolare di Emil Ludwig, e Schulenburg non perse occasione per discutere
a lungo di articoli apparsi su Gerarchia che non l’avevano soddisfatto.
Dopo che i primi invitati se n’erano andati, rimase un ristretto gruppo di
ospiti oramai sazi di cultura e molto allegri. Schulenburg stava curiosando tra i libri esposti in bell’ordine nella splendida libreria in stile impero:
vide una vecchia edizione della Divina Commedia e la prese.
«Ah!», disse Margherita vedendolo, «la mia Sibilla».
«Sibilla?».
129
Sibyl von der Schulenburg
«Sì», rispose sorridendo la padrona di casa, «mi dà indicazioni per
interpretare il presente e mi predice il futuro. Ma lo fa in modo enigmatico. Occorre interpretare le sue indicazioni, ma non è facile e solo
dopo si saprà se l’interpretazione è stata corretta».
«Le Sibille erano profetesse della religione greca e romana. La più
famosa è la Sibilla cumana, titolo che spettava alla somma sacerdotessa
dell’oracolo di Apollo e di Ecate, oracolo situato nella città di Cuma.
Non vedo il nesso con la Divina Commedia, non letterario almeno. La
Sibilla scriveva i suoi vaticini in esametri su foglie di palma, mentre
Dante ha scritto la Commedia in terzine concatenate su fogli di carta»
disse Schulenburg divertito.
«No, questo tipo di nesso non c’è». Margherita prese dalle mani di
Schulenburg l’antico volume rivestito in pelle rossa con incisioni in
oro. «Quando ho un problema che mi preme e non trovo risposte, apro
il libro a caso e con una yad indico un punto sulla pagina di destra o
di sinistra».
Schulenburg aveva effettivamente ammirato lì vicino una manina
indicatrice in argento decorata con pietre preziose. Avrebbe detto che
fosse un’opera d’arte russa. Ne aveva viste diverse là e nella cultura
ebraica servivano per tenere il segno sui testi sacri durante la lettura,
e ciò perché la mano umana non può toccarli. In ebraico yad significa
semplicemente mano.
«E trova sempre le sue risposte?».
«Sempre».
«Facciamo una prova», la sfidò il barone, «e vediamo come se la
cava la Divina Commedia con le risposte in tedesco. Troviamo alcune
parole che lei poi userà scrivendo un testo in tedesco che racconti la
deliziosa cena di questa sera».
«Accetto» disse, stuzzicata, la padrona di casa, «ma le parole le facciamo trovare a qualcuno che non sappia già dove cercarle. A sua moglie, forse».
Lisa si prestò con gioia al gioco e, stringendo la preziosa yad, si
diede da fare per trovare le sei parole che avevano deciso di fornire a
Margherita. Al primo tentativo trovò «Venere» nel Purgatorio, canto
XXV, poi nel Paradiso, canto XVI trovò «campi» e in seguito «Francia» nel Paradiso, canto XV.
130
il
Barone
«Nell’Inferno non cerchi mai, cara?» chiese Schulenburg alla consorte concentrata a trascrivere le parole trovate.
«Stai cercando qualche cosa di piccante?».
«Non c’era peperoncino nelle pietanze. A cosa alludi?». Il viso del
tedesco assunse un’espressione angelica.
Lisa lo accontentò sfogliando nel primo terzo del volume e fece
centro: «scrofa», eccoti accontentato! Inferno, canto XVII».
Seguirono «Roma», Purgatorio, canto VI e «Bologna», Inferno,
canto XXIII.
«Ecco, abbiamo le sei parole: Venere, campi, Francia, scrofa, Roma
e Bologna». Lisa le aveva scritte in bella grafia su un foglio di carta. Le
diede a Margherita.
«Bene, come avevo detto non è facile interpretare il vaticino della
Sibilla, ma vedrete che dopo una buona dormita mi verrà in mente la
risposta. La Commedia non mi ha mai tradito». E con questo la compagnia si sciolse.
La mattina dopo Schulenburg trovò due buste vicino alla tazza del
caffè, una era senza indirizzo e l’altra era all’indirizzo di Ascona. Le
aveva evidentemente portate la segretaria dal Ticino.
Prese la busta bianca. Conteneva sei fogli di carta carbone scritti
dalla mano di Margherita, in lingua tedesca salvo alcune parole sottolineate, scritte in italiano e francese. Schulenburg lesse:
«Tre nutrienti storielle di Margherita Sarfatti.
I . Omero e il maiale.
C’è qualcuno che sarebbe abbastanza curioso da chiedersi perché la
moglie del molto venerabile signor maiale presso i contadini in terra
italiana si chiami troia e in francese generalmente truie?
In italiano questo appellativo è considerato oggi non solo impertinente, ma altamente offensivo, infame e motivo di grande indignazione
quando riferito ad una femmina bipede. Eppure, la sua origine è nobile e aristocratica. Deriva dalla storia e leggenda di Omero e Virgilio.
Mentre i greci ai tempi di Omero avevano un menu alquanto ridotto,
in genere solo carne arrostita sul fuoco, latte, formaggio, miele, olio, fichi e mele, e nient’altro, i romani avevano una tavola più raffinata. Gli
abitanti delle coste e delle isole del pescoso mar Ionio, non sapevano
131
Sibyl von der Schulenburg
neppure che nel mare si potesse pescare e Omero definì il mare spesso
infruttuoso e non seminato. Ma a Roma, a dispetto dello scorbutico
Catone che sonoramente denunciava la corruzione, si facevano arrivare le ostriche dalla Britannia. E durante i grandi banchetti si portava
adagiata sul triclinio una grassa scrofa dal cui corpo, una volta tagliato,
saltavano fuori delizie arrostite, uccelli e finanche fagiani, così come
dal cavallo di Troia saltarono fuori gli ultimi guerrieri greci armati.
Per questo motivo la pietanza tanto prelibata fu chiamata cavallo di
Troia. Ma la storia, la mitologia, Omero e Virgilio furono nel Medioevo presto dimenticati. La signora scrofa fu in breve chiamata troia e
in francese truie, sia che fosse viva o che fosse cotta. A chi importava
ancora delle vecchie leggende! Ma le tradizioni che mettono radici
nello stomaco sono difficili da dimenticare o estirpare. E ancora oggi
la porchetta arrosto costituisce il piatto preferito del popolo romano.
Durante le grandi serate di festa, come la notte di San Giovanni, il
ventiquattro giugno, in cui fin dai tempi pagani si è sempre festeggiato
l’evento astronomico del solstizio, non esiste romano verace che non
si conceda una bella fetta di porchetta dalle bancarelle in piazza San
Giovanni in Laterano, la più antica delle basiliche del cristianesimo, la
più vecchia delle chiese cristiane costruite da Costantino a Roma.
Una fetta di porchetta e un bicchiere o due di vino dei castelli, il
biondo Frascati. Il fatto che anche Goethe lo sapesse apprezzare rende
un romano oggigiorno felice e di buon umore.
A ciò si aggiungono forse le rosse ciliegie che Lucullo, grande
buongustaio quanto grande generale, trovò come bacche selvatiche nei
boschi dell’Asia minore quando era impegnato nell’assedio della città
di Cerasa o Cerasunte, oggi Keresun. Per questo le ciliegie vengono
doverosamente ancora chiamate cerase a Roma. Così come le pesche,
dalla Persia e le albicocche dall’Armenia vengono presso il popolo ancora chiamate perseghi e armellini. La fama di Lucullo sparì, ma le
ciliege gli garantiscono immortalità gloriosa.
II. America. Tabacco e patate
La scoperta dell’America portò uno sconvolgimento di tutti i valori,
anche di quelli di ambito culinario. Colombo volle «buscar el Oriente
por Ponente», come disse e scrisse in spagnolo. Le nuove terre si chia132
il
Barone
mavano effettivamente India dell’ovest e per i nostri ingenui antenati
la porta per l’India si trovava in Turchia. Per questo il tacchino in inglese si chiama turkey, il turco, e presso il nostro popolo si chiama dindo, colui che proviene dall’India. Ma fu il Messico che ci regalò questo
cugino povero del pavone, questo grigio soldato privo dello sfarzo del
general maggiore Pavone nella sua scintillante uniforme di gala.
Anche il mais dell’America si chiama in Italia grano turco.
Circa nello stesso periodo Sir Walter Raleigh ci portò da terre lontane il prezioso dono del tabacco, che egli in onore dell’amata regina
vergine, Elisabetta, chiamò Virginia. Povero cavaliere e poeta, povero diavolo. Il successore di Elisabetta lo rinchiuse per ringraziamento
nella torre di Londra, dove Raleigh bruciò il manoscritto della sua
Storia Universale quando si accorse che non riusciva a definire una lite
accaduta nel cortile della torre sotto i suoi occhi. Ogni testimone raccontò l’accaduto in modo diverso assicurando di essere l’unico ad avere
ragione. Come si poteva allora sperare di conoscere davvero la storia
del passato? Questo spirito altamente filosofico lo avrà forse consolato
quando là, nello stesso cortile causa della sua delusione storica, lasciò
il suo capo nobile e bello sul ceppo sotto la scure del boia.
Il tabacco è una merce peccaminosa, inutile e probabilmente dannosa, per cui ebbe immediatamente successo. Ma le patate sono salutari,
utili e nutrienti. Così fu che tutto il popolo francese, indignato e cocciuto, si rifiutasse di mangiare questa radice velenosa, sporca e totalmente estranea. Sicuramente si trattava di un complotto dei ricchi per
liberarsi di tante bocche affamate, data la scarsità dei raccolti, la carestia
che a quei tempi impoverivano la Francia. Ma il dottor Parmentier era
uno psicologo e aveva probabilmente letto nella Bibbia la storia della
mela fatale, per cui fece piantare la patata in tutti i campi reali sparsi per
la Francia, provvedendo anche a farli piantonare da guardaboschi armati, affinché nessuno si appropriasse di quelle leccornie che dovevano
comparire solo sulla tavola del re. Ovviamente le patate furono rubate,
mangiate, godute e di nascosto coltivate nel campo di ogni contadino.
È la vecchia e sempre nuova storia dell’ufficiale italiano, che portò
i suoi uomini a paracadutarsi, dicendo loro che non glielo avrebbe
permesso.
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Sibyl von der Schulenburg
III. Vietato agli adulti...
Stimo che solo la nuova gioventù, minorenne, sia sufficientemente
impura nel cuore e scostumata nei costumi, per non scandalizzarsi del
seguente aneddoto. A noi persone un po’ più vecchie resta sempre la
cattiva abitudine della buona educazione, nevvero?
C’era una volta... una dea che si chiamava Venere Afrodite che veniva particolarmente venerata nella bella e colta città di Bologna. Perciò vi si recò in visita, trovò un’allegra accoglienza e si divertì molto.
Al momento del commiato volle ringraziare attraverso un regalo indimenticabile e perciò prese un po’ di pasta fatta in casa, che a Bologna
sanno fare molto bene, e con il suo divino pollice la premette sul suo
divino ombelico, lo rigirò e premette ancora sicché ne prese le forme
creando così i famosi tortellini che ancora oggi costituiscono il piatto
preferito dei bolognesi».
Schulenburg sorrise guardando fuori dalla finestra. E brava Margherita! Con un’erudizione non comune, ancorché non impeccabile,
aveva scritto tre storielle su ciò che avevano mangiato la sera prima.
Aveva solo dimenticato il buon vino toscano, ma sicuramente a ben
cercare c’era anche quello. Non aveva scordato neppure il sigaro!
Prese l’altra busta, lesse il mittente e s’incuriosì.
«Caro Conte», scriveva Ginsberg dal Sudafrica, «La ringrazio per
la copia del Suo libro Stechinelli che ho molto apprezzato e che, dopo
loro insistenti richieste, ho messo a disposizione della comunità tedesca di King Williams Town. L’ho letto con immenso piacere e ha
risvegliato in me il desiderio di visitare Venezia ma, purtroppo, la mia
attività politica mi lega all’Africa. Mi sono fermato a lungo in Germania e il gran gelo di inizio anno mi ha bloccato lì per parecchi mesi.
Tornato a casa ho sviluppato tutte le pellicole delle fotografie fatte durante il mio viaggio in Europa e anche di quelle fatte ad Aden,
durante la nostra escursione al porto. Ricordo che avevo avuto dei
problemi a scattare in quel vicolo del veggente, perché il ragazzino era
scappato via e non riuscivo a sistemare la macchina sul cavalletto. Però
un’immagine, seppur pessima, l’avevo ottenuta. Raffigurava Lei trascinato dalla schiavetta nera con la scimmia sulla spalla, gli occhiali di
sbieco sul naso e un’espressione di debole resistenza. L’immagine era
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il
Barone
rovinata da una macchia bianca che assomigliava alla sagoma di una
donna dietro di Lei. Ho pensato a cosa potesse aver causato il danno.
Dato che avevo usato il nuovo modello Reflex, potevo escludere il
riflesso della luce, mentre non potevo del tutto escludere l’accidentale sovrapposizione di un’altra fotografia. Non ricordo però di aver
scattato fotografie a donne in quell’occasione e in effetti ho sviluppato
con successo gli scatti che avevo fatto del mercato e del porto. Comunque, l’avevo stesa ad asciugare con le altre poiché, seppur rovinata,
documentava bene la situazione comica di Lei che veniva trascinato
nell’ ‘antro della Sibilla’ con la coda della scimmia attorno al collo, ma
purtroppo il giorno dopo non l’ho più ritrovata e nessuno dello studio sa dov’è finita. Le invio allora, con grande piacere, una fotografia
che ho scattato a una bella negra e che Le ricorderà l’Africa migliore.
Cordialmente, Suo...».
Che coincidenza. Era il momento delle Sibille.
135
il
Barone
XI
Poi, il quattordici settembre le cose precipitarono. Ci furono le
elezioni per la quinta legislatura della Repubblica di Weimar
e Schulenburg era in Germania per votare. Il popolo aveva
evidentemente assorbito la propaganda della quale si occupava
Joseph Goebbels e aveva premiato il partito nazional-socialista con
un 18,3% dei consensi, facendolo così diventare il secondo partito della
Germania, con centosette seggi in parlamento.
191
Sibyl von der Schulenburg
Tessera della NSDAP firmata da Himmler
per convincere Schulenburg a entrare nel partito.
192
il
Barone
Quel giorno di aprile del 1930, dopo vari giorni di pioggia il tempo
si mise al bello. Schulenburg guardò con tristezza verso il lago non
del tutto libero dai colori che l’avevano incupito nei giorni precedenti.
Una lieve increspatura della superficie diceva che il vento la stava accarezzando.
Rifletteva sulla decisione presa insieme a Lisa di vendere la grande villa. Volevano trasferirsi almeno temporaneamente in Germania
perché lei desiderava che i ragazzi ricevessero un’istruzione tedesca.
Forse era solo un pretesto per potersi avvicinare alla madre. Lisa non
stava molto bene e neppure il loro rapporto si riprendeva. Schulenburg
avrebbe desiderato conservare almeno la proprietà della torretta, il
Roccolo, e ovviamente La Monda. Però entrambi ravvisavano l’opportunità di ridurre le spese, giacché lo spettro della fame che attraversava
tutta l’Europa si faceva sempre più vicino.
Intanto la grande villa serviva ancora a ricevere ospiti, e in quei
giorni c’era Leopold von Wiese, direttore dell’Istituto di ricerca delle scienze sociali e sociologo di chiara fama, assieme alla moglie. La
grande tavola era stata apparecchiata con attenzione e il profumo
dell’arrosto aleggiava tutt’intorno, infiltrandosi nei tessuti di arredamento, dove sarebbe sopravvissuto per diverse ore.
La compagnia era allegra, i signori von Wiese apprezzavano i vini,
per i quali Schulenburg aveva sempre un’attenzione particolare. Argomento della conversazione era la sorella di Friedrich Nietzsche.
«Negli ultimi tempi la critica sull’opera di Elisabeth Foerster Nietzsche si è inasprita», provocò bonariamente il sociologo, sapendo bene
quanta stima Schulenburg avesse per la signora, «le falsificazioni apportate al lascito del fratello non sono state perdonate».
«Ognuno, caro amico, è padrone di censurare le opere di Elisabeth e di offrire qualche cosa di meglio». Così cominciò la risposta
di Schulenburg che, per come egli aveva messo le posate nel piatto
e appoggiato la schiena allo schienale, si capiva sarebbe stata lunga.
«Voglio però far notare un dato di fatto: le opere di Nietzsche, quelle
che vanno dal volume numero sei e mezzo a quelle del volume numero
diciannove della grande edizione, le dobbiamo tutte esclusivamente
alla perseveranza della sorella. Tutto ciò che oggi viene considerato un
bene della cultura mondiale, sarebbe andato perduto. Nessuno degli
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Sibyl von der Schulenburg
amici, neppure Overbeck, si è mai preoccupato di salvare quelle opere,
mentre lei si è opposta con tutte le sue forze allo scempio che voleva
farne la famiglia. Si è seduta sulla cassapanca che le conteneva e da
lì non si è mossa, sottoponendosi anche alle indagini da parte della
magistratura per l’accusa di diffusione di scritti contro il cristianesimo.
Oggi i letterati potranno sorridere di queste circostanze, ma a quei
tempi il clima era ben diverso e la figlia di un pastore non era certo
incallita come un giornalista berlinese. Anche quello del coraggio è
un concetto relativo, e ciò che la signora Foerster-Nietzsche ha fatto
era certamente un atto di coraggio, indipendentemente dal fatto che
la donna difendesse le opere di un genio o di un folle. Lei ha creduto
fermamente nelle capacità di suo fratello in un momento in cui sembrava che tutti gli amici di lui avessero di meglio da fare». Schulenburg
si interruppe per prender fiato. Stava infervorandosi troppo e non era
cortese nei confronti degli ospiti.
Leopold von Wiese si stava divertendo, invece. Amava follemente prendere in giro il barone. Sapeva che talvolta bastava pochissimo
per farlo indignare, mentre altre volte era granitico là, dove un uomo
normale avrebbe letteralmente perso le staffe. Uomo colto, cortese e
calmo, von Wiese si dispiacque per l’interruzione e pensò di avere forse esagerato. «Concordo con te. La signora si è fatta carico di un bel
fardello. Stava così bene in Paraguay, vita tropicalmente rilassata senza
preoccupazioni, poi, repentinamente, il ritorno alla nostra civiltà stressante». Guardò di sottecchi il padrone di casa e notò che si era ripreso;
non aveva più il viso rosso e aveva in mano le sue posate. «Ma perché
l’avrà fatto?» chiese prima di portare il bicchiere alla bocca.
«Albagia?» chiese la moglie del sociologo, visto che il marito aveva
la lingua occupata.
Schulenburg la fissò con sguardo severo per un secondo poi, perdonandola in quanto ospite e donna, si aggiustò gli occhialetti e rivolgendosi a Leopold rispose: «Come hai ben rilevato, lasciò la vita comoda
per chiudersi davanti a una scrivania e lavorare su un argomento che
non conosceva. Le sue poche conoscenze di filologia le erano venute
dalla stesura dell’indice, a cui aveva atteso quando per circa un anno e
mezzo fece da governante al fratello a Basilea». Schulenburg fece un
cenno a Teresa, lanciando un’occhiata al bicchiere vuoto dell’ospite e
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il
Barone
continuò: «E ce l’ha fatta. Con una memoria ferrea ha scritto la vita
del fratello. Il problema è che qualcuno pretenderebbe che lei avesse
scritto di Nietzsche nello stile di Nietzsche. E se l’avesse fatto, qualcuno avrebbe avuto ancora da recriminare, perché il vero fastidio sta nel
fatto che, grazie all’opera di Elisabeth, Nietzsche non è più cancellabile dalla memoria umana; e, così com’è, a molti non piace».
«In effetti. Nietzsche non entra nella odierna, brevettata visione del
mondo. Non è utilizzabile in questo nostro periodo di democrazia; al
contrario, è pericoloso» intervenne il sociologo, stendendo sulla sua
faccia paciosa un velo di serietà.
«Ha detto cose che oggi non gli provocherebbero più attacchi dalla critica, e penso solo al suo riferirsi ai tempi delle grandi guerre o
al dichiarare che il futuro del mondo alberga nei figli degli ufficiali
prussiani». Schulenburg ricordava, aveva davanti agli occhi l’anziana
amica di Weimar. Continuò: «Anche il fatto che non fosse filo-semitico in modo univoco, ma piuttosto cangiante e vario nei suoi giudizi
sull’ebraismo, come ogni intellettuale non ebreo, oggi non gli verrebbe certamente rinfacciato. Ma a sua sorella qualcosa si può rimproverare: si può accusarla di pangermanesimo, tendenziosità, falsificazione e occultamento di documenti. E proprio perché non è orientata
verso il pangermanesimo e non ha le prove di non aver falsificato od
occultato documenti».
«E, dicendo che la sorella ha falsificato la sua figura dandogli un
orientamento a destra, non si fa che falsificare veramente la sua figura attribuendole un orientamento a sinistra» concluse la signora von
Wiese lasciando di stucco Schulenburg.
Il pomeriggio fu dedicato alla gita al ‘covo dell’artista’ ad Auressio.
Dopo aver lasciato l’autovettura in una curva della strada tortuosa che
s’inerpicava sulla montagna, Schulenburg condusse i suoi ospiti su per
una scalinata e poi su un ripido sentiero. Sorrise, quando la signora
ansimante e rossa in viso chiese di fermarsi a riprender fiato. Si era
scordato di avvertirla che l’unico accesso alla casa richiedeva una bella
camminata di venticinque minuti.
La Monda li accolse nella sua più bella veste primaverile. I germogli dei mille castagni attorno alla casetta di roccia si erano colorati
di un verde tenue per ricevere il poeta, mentre il giardiniere mise le
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Sibyl von der Schulenburg
brache nuove per ricevere il padrone. Dopo una breve presentazione
del luogo, Schulenburg e i suoi ospiti si sedettero a godere di un tè e
della vista sulla valle.
L’argomento Nietzsche non era del tutto esaurito. La signora von
Wiese covava qualche altra domanda. «Tornando a Elisabeth Foerster-Nietzsche, mi sa spiegare il motivo per cui si è tanto dedicata al
lascito del fratello? C’entra forse l’accusa che le hanno mosso di aver
voluto minimizzare il ruolo delle donne nella vita di Nietzsche?».
«Nietzsche disse che tra mille anni il mondo riderà del peso che
oggi diamo ai nostri rapporti con le donne. Era effettivamente il suo
punto di vista, non amava molto le donne e ha detto di aver amato
nella sua vita una sola persona: Richard Wagner» rispose il barone
nascondendo con un sorriso il ricordo delle mille sofferenze dovute
all’intricato rapporto di Nietzsche con l’altro sesso.
«Si dice che abbia amato la moglie di Wagner, Cosima. Anche
Mussolini lo dà per certo in un suo articolo sul Popolo di Roma», suggerì la signora.
«A detta di Elisabeth, Cosima per Nietzsche è stata il modello della donna che si sacrifica totalmente per l’opera del marito. Non era
un semplice amore, ma l’idealizzazione della donna che ogni artista
vorrebbe trovare: quella che gli sopravvivrà e avrà cura di riordinare i
suoi lasciti, consentendo la sua gloria postuma».
«Ma, quando fu internato in manicomio, Nietzsche disse che lo
aveva portato lì sua moglie Cosima Wagner. Una dichiarazione del
genere lascia supporre un rapporto intimo» ribatté la moglie del sociologo.
«Non credo che possa essere interpretata in questo senso. Cosima
fu per Nietzsche un simbolo, certo desiderato. Come ho detto, non era
un semplice amore e lo dimostrano gli attacchi nei confronti del marito. Se fosse stata una banale storia d’amore, Nietzsche, che aveva in
alta considerazione il duello e il codice d’onore, non avrebbe mai denigrato il marito dell’amante. No, al di là del mito di Arianna, Cosima
rappresentava proprio il filo che Nietzsche superuomo voleva tendere
verso l’eternità, e che fu poi impersonato dalla sorella». Schulenburg
sospirò. Anche lui cercava la sua Cosima che un giorno riordinasse
tutto quanto lui aveva vissuto e scritto per lasciare il suo ricordo ai
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il
Barone
posteri. Ma occorreva che lei fosse intelligente, matura abbastanza da
comprendere, e tanto giovane da sopravvivergli. Non bastava che fosse
una collaboratrice; solo una moglie, una sorella o una figlia avrebbero potuto dedicarsi anima e corpo a questo compito. Un uomo non
avrebbe mai accettato di lavorare per la gloria di un altro, fosse anche
il padre o il fratello, mentre una donna della famiglia avrebbe trovato
in quel lavoro un modo di realizzarsi.
«Come sta Elisabeth Foerster-Nietzsche?» volle sapere Leopold
rimasto fino ad allora in silenzio a contemplare lo stupendo paesaggio
ticinese.
«Come ben sai, ha ottantaquattro anni. Dirige sempre l’archivio a
Weimar, vivendo nella casa che appartenne a suo fratello. È oramai
quasi cieca e le lettere le deve dettare alla segretaria, ma ha ancora
l’energia per organizzare serate culturali, alle quali partecipo sempre
con piacere. Certo, Weimar è lontana da qui, ma quando sono in Germania non manco di passare a salutarla».
«Le sarebbe piaciuto essere qui con noi e filosofeggiare lontano dai
problemi che affliggono la Germania» riprese von Wiese senza staccare gli occhi dai boschi di castagno. «Le donne oggi più coraggiose
sono le nostre madri di famiglia che non hanno di che sfamare i figli.
La guerra ha portato via gli uomini adulti. Le donne, rimaste a casa
hanno dovuto sostituirli in tutti i lavori: le fabbriche, i campi e i servizi
pubblici, anche le ferrovie. Hanno mandato avanti il lavoro quotidiano
mentre i padri, i mariti, i fratelli e i figli in età di reggere un fucile venivano massacrati al fronte». La voce del sociologo era bassa e vibrante.
Quasi ipnotica. «Molte non hanno più rivisto i loro uomini e hanno
dovuto allevare i figli da sole. Il nostro governo è cambiato ogni anno
dalla fine della guerra e ha sempre dovuto pensare a trovare i soldi da
dare a francesi e inglesi, che a loro volta li usavano per pagare i loro
debiti all’America, mentre le nostre madri non avevano di che mettere
in tavola. Oggi è arrivato un uomo che promette minestra calda e salsicce per tutti. Che effetto credete che avrà sul voto? Le nostre donne,
al contrario delle italiane e delle svizzere, hanno il diritto di voto dal
1918». Leopold von Wiese tacque. La sua formazione culturale gli
permetteva di cogliere sfumature nel comportamento delle masse che
altri forse non avrebbero colto.
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Sibyl von der Schulenburg
Schulenburg rifletté su quanto l’amico aveva detto e ancora una
volta si rese conto di quanto fosse efficace la semplice propaganda
del partito nazionalsocialista. Minestra calda e salsicce. Un messaggio
chiaro per la folla di elettrici affamate, una tentazione alla quale non
potevano resistere. La promessa di riforme, crescita economica e riarmo servirà per catturare il voto degli uomini, ma, come aveva detto
Leopold, in Germania gli uomini sono venuti a mancare con le guerre;
il voto delle donne sarebbe stato decisivo. Le prossime elezioni dimostreranno se hanno abboccato.
Si alzò, prese il blocco degli appunti che teneva sempre a portata
di mano e scrisse un breve riassunto di quanto discusso quel giorno su
Elisabeth. Aveva in mente di preparare un articolo su di lei per uno
degli ultimi numeri di Italien.
«A me non dispiace quel tipo» disse la signora von Wiese. «Vuole
ridare forza e potere alla Germania, l’unità nazionale per tornare a
essere un grande popolo!».
«Sì», pensò Schulenburg, «hanno abboccato».
Il ventuno di maggio la penna di Schulenburg a Monaco era velocemente all’opera per Margherita Sarfatti. Il barone lamentava di
non aver ricevuto risposta alla proposta, che lui e l’editore Kampmann
avevano sottoposto al capo del governo, di rendere la rivista bimestrale, collegandola a uno scambio studentesco e accademico. L’editore
poi si lamentava che non gli era ancora stato pagato il dovuto, che
gli avevano offerto un pagamento solo se avesse concesso uno sconto
sostanzioso.
«Nel prossimo numero di Gerarchia», continuava, «troverà il mio
articolo sul libro del dottor Edgar Jung che tanto scalpore ha destato
in Germania. Ritengo che una collaborazione con il dottor Jung sia
importante per l’Italia. Lei sa com’ero scettico sulla questione Hitler;
qui non lo sono e anzi la pregherei di ricevere il dottor Jung che a
fine giugno farà un viaggio in Italia. Ci tengo a che lui La conosca
direttamente. Solo attraverso una personalità come la Sua potrà farsi
l’immagine migliore della forza che ha l’Italia moderna. Mi farebbe immensamente piacere se lui potesse intervistarla. È intelligente e
scrive in maniera brillante».
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il
Barone
Schulenburg sperava che Margherita capisse il significato di un
personaggio come Jung e desiderasse conoscerlo. Solo lei sarebbe poi
riuscita a presentarlo a Mussolini. La risposta dell’amica non tardò
a raggiungerlo a Bressanone, dove con Lisa seguiva un ciclo di cure
termali.
«Caro amico! Sono appena tornata. Come sta? Vedrò con piacere
il Dr. Jung. Cordialmente, Margherita Sarfatti». Era tornata, dunque,
ed era a Roma.
E il venticinque di luglio Jung gli fece un breve resoconto sul suo
viaggio in Italia:
«Sono tornato dalla mia terapia sudorifera durata cinque settimane
e voglio ringraziarla». Schulenburg, che sudava a sua volta, comprese bene l’allusione. Era un’estate torrida. Continuò a leggere: «La sua
raccomandazione alla Signora Sarfatti e la recensione del mio libro su
Gerarchia sono state molto importanti e non posso ringraziarla abbastanza. Durante il mio viaggio, cinque settimane, ho guadagnato tanto
nel conoscere l’essenza del fascismo, quanto ho perso in peso corporeo.
Ora mi è ben chiara la differenza tra gli abitanti della Westfalia e
quelli della Sicilia: corrisponde a quella tra un genio politico intuitivo
e una politica, quella tedesca, frutto di una dottrina. Ho verificato con
sorpresa che in Germania l’idea portante del fascismo è filosoficamente molto più fondata che in Italia. Ho anche visto un governo di
minoranza tollerato dalla maggioranza per indolenza, diversamente
da come avviene nella situazione tedesca, dove l’opinione politica si
contrappone duramente a un volere politico. Nonostante ciò sono del
parere che le idee base del fascismo siano internazionali. Si tratta semplicemente di superare la lotta di classe con una azione integrativa da
parte dello Stato. Il fascismo, nella sua forma italiana, non sarà mai un
articolo d’esportazione, tanto più se si considera che molte istituzioni
in Italia sono condizionate dalla storia. Quello che là è un progresso,
da noi non sarebbe assolutamente una novità. Sono stato da M. per
due sere e scriverò le mie impressioni per la stampa, beninteso con la
prudenza dovuta e concordata.
La signora Sarfatti mi è stata molto d’aiuto. Ho seguito la Sua ‘ricetta’ e mi sono fatto in quattro per conquistare la sua benevolenza, nei
limiti consentiti dalla mia sensibilità. Le ho promesso un’apparizione
199
Sibyl von der Schulenburg
a Monaco in autunno e m’impegnerò a prepararla». Schulenburg posò
la lettera in grembo. Si asciugò il sudore sorridendo, tolse la camicia e,
sperando che nessuno lo sorprendesse in canottiera, riprese a leggere:
«Per il resto sono d’accordo con Lei che Roma sia per la politica tedesca di oggi un posto enormemente importante e che sarebbe una grave
perdita se un uomo come Lei venisse escluso dai lavori di avvicinamento. Si dovrebbe perciò trovare un qualche modo per salvare l’impresa. Da noi la valanga ha preso a muoversi, la democrazia piccoloborghese scricchiola da tutte le parti e la macchina parlamentare non
vuole più funzionare. Qualcosa mi dice che presto sarà arrivata l’ora
dell’intervento per lo strato intellettuale sempre più potente. Spero
che questa voce non m’inganni. Sarebbe la disperazione».
Anche Jung aveva visto il pericolo Hitler. Da tempo, non da ora.
Aveva anche riconosciuto che lui, Schulenburg, poteva essere importante nell’avvicinamento tra l’Italia e la Germania. Evidentemente, sia
Margherita, sia Mussolini che lui chiamava M., gli avevano trasmesso
la loro fiducia nel barone. Riconosceva anche l’importanza della rivista
Italien che, a parte il suo intrinseco valore letterario e politico come
ponte tra le due culture, aveva anche la funzione di giustificare la presenza di Schulenburg a Roma e a Milano e i contatti con personaggi
importanti della politica e della cultura.
Tra le poche cose che gli studenti ticinesi apprendono durante le
ridotte ore di storia, è la data di nascita della Confederazione, che
viene fatta risalire al primo di agosto del 1291. Così, da allora il primo
d’agosto in Svizzera è giorno di festa nazionale con rappresentazioni
dello storico evento, grandi mangiate e la sera grandi falò sulle montagne, e fuochi d’artificio.
Per questo motivo Ascona d’estate era affollata di turisti, tanto che
molti cittadini, stranieri residenti inclusi, diventavano per tre mesi degli affittacamere. Era in voga l’elioterapia, che sembrava aver preso
tutti, soprattutto i tedeschi, perché i locali non si sarebbero mai sognati di frequentare quei bagni pubblici dove, maschi separati dalle femmine, si accalcavano ignudi, bramosi di farsi ustionare dal sole dietro
a enormi pareti divisorie in legno, che garantivano la riservatezza nei
confronti dell’altro sesso. C’era anche chi assicurava che queste lunghe
200
il
Barone
esposizioni facessero bene e la sera, dopo un incontro attorno al fiasco
nel grotto, la caratteristica osteria ticinese, la terapia proseguiva con
esposizioni alla luna senza separazione tra maschi e femmine. Ma i
tempi erano così. Si percepiva una frenesia ovunque e in ogni cosa,
anche nei rapporti intimi, cosa per Schulenburg del tutto inconcepibile. In questo si sentiva certamente più vicino a D’Annunzio che a
Mussolini. E gli venne in mente la giovane Ursula, che lo corteggiava
in modo sfacciato e lui non aveva alcuna volontà di resistere. Lei frequentava i nudisti di qualche isoletta persa nel lago e, quando andava
a trovarlo, era giusto vestita con uno straccetto.
Si impose di fissare la mente su cose più serie e più urgenti e, mentre i suoi conterranei si divertivano a festeggiare la nascita della Svizzera, il barone scrisse a Jung sperando di segnare l’inizio della rinascita
della Germania. Pensava, sperava che con Jung si iniziasse a reagire
contro un pericolo che loro sentivano reale, mentre la maggior parte
dei politici e degli osservatori riteneva neppure esistesse. Forse Hitler
non sarebbe mai arrivato al potere, ma intanto minava la stabilità della
società tedesca che poggiava enormemente sul contributo degli ebrei.
Erano solo circa cinquecentomila, ma tra loro c’era la maggior parte
dei liberi professionisti di elevata capacità, avvocati, consulenti aziendali e medici. All’ospedale La Charité di Berlino i medici erano quasi
tutti ebrei. Se Hitler avesse continuato con le sue azioni di disturbo,
se ne sarebbero andati in massa in America, dove venivano accolti
degnamente e la Germania ne avrebbe presto sentito la mancanza. E
gli altri? Avrebbero dovuto restare e soffrire quella emarginazione, alla
quale il loro popolo sembrava essere ciclicamente condannato.
«Egregio Signor Jung», iniziò a scrivere, «La ringrazio per le Sue
righe del venticinque di luglio. La Signora Sarfatti mi ha già descritto
come Lei sia stato ricevuto a Roma e può immaginare come io sia stato contento. L’estate in Italia costa ciccia, ma fa bene al corpo. Allora
si impara anche ad apprezzare le chiese, nelle quali frescura e contemplazione si uniscono nel modo più gradevole.
Le Sue considerazioni politiche si sovrappongono perfettamente
alle mie. Il fascismo non è di certo un articolo da esportazione, non
fosse che per il fatto che non è un prodotto tipico dell’Italia. La sua
forza sta nel suo ecletticismo. E nel senso realistico di Mussolini.
201
Sibyl von der Schulenburg
Ripeto la mia preghiera: resti in buoni rapporti con la Signora Sarfatti. Sempre più spesso mi bisbigliano all’orecchio che sia ‘caduta’ e
però ancora non è caduta. Chi ce l’ha per amica ha anche nemici, ma
chi ce l’ha per nemica non ha amici. È saggio da parte Sua incontrarla
in inverno a Monaco. Spero di poter venire anch’io. Non si scordi di
organizzare un bel ricevimento alla stazione. Se non c’è qualcuno ad
accoglierla con dei fiori, tutto è perduto. La prego di non ridere, ne so
qualche cosa.
Mi fa immenso piacere quello che scrive sulla mia rivista. È certamente una follia, un’idiozia, che essa muoia proprio in questo momento. Il primo ottobre, ultimo numero. Se non mi giunge un aiuto da
fuori, non posso più tenerla in vita. Ho inviato un esposto a Roma con
la proposta di pubblicarla bimestrale con un’appendice ufficiale del regime italiano, per così dire un foglio d’istruzioni per la stampa tedesca;
ho offerto di collegare all’editore Kampmann, che sarà residente a Friburgo, un istituto italiano per lo scambio di studenti e professori, edizione di libri, ecc. Non ho ottenuto risposta. Gli dei minori di Roma
trascinano tutto nell’ozio. In Germania sono stato assolutamente il
primo a impegnarsi per la nuova Italia; dobbiamo tenere questo contatto, altrimenti saremo perduti per quanto riguarda la politica estera.
Ora se ne accorgono anche a Berlino. Ma, egregio Signor Jung, a cosa
mi serve tutto il benvolere, se non mi si aiuta concretamente?».
Schulenburg alzò la testa e si massaggiò il collo. Il caldo aiutava
almeno a migliorare la sciatalgia. Chissà se questo giovane avvocato
poteva davvero fare qualche cosa per la sua amata rivista e per la Germania. Terminò la lettera pregando Jung di aiutarlo a trovare qualcuno
che evitasse alla sua opera la parola fine.
Poi, il quattordici settembre le cose precipitarono. Ci furono le elezioni per la quinta legislatura della Repubblica di Weimar e Schulenburg era in Germania per votare. Il popolo aveva evidentemente
assorbito la propaganda della quale si occupava Joseph Goebbels e
aveva premiato il partito nazional-socialista con un 18,3% dei consensi, facendolo così diventare il secondo partito della Germania, con
centosette seggi in parlamento. Per Schulenburg e per chi la pensava
come lui fu un colpo tremendo. E così, il sette di ottobre l’amico Hermann von Wedderkop, collaboratore della Vossische Zeitung, uno dei
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il
Barone
quotidiani più letti di Berlino, gli scrisse chiedendo un articolo sul
Duce che proponesse un confronto tra il Duce e Hitler. Quanto al
contenuto Wedderkop osservava: «1) È una sciocchezza sostenere che
valga solo il sistema, non vale solo il sistema bensì, sempre, l’uomo di
genio che vi sta dietro; e in questo caso il Duce, il primo grande uomo
dai tempi di Napoleone; 2) per questo è anche una sciocchezza pensare che in Germania si possa avere successo adottando solo il sistema;
in altre parole, il signor Hitler non è un Mussolini, e non si metta in
mente di esserlo.
Tutto ciò deve ovviamente essere scritto con tatto e con saggezza da statista, ossia, non con un illimitato entusiasmo per il Duce e
non un illimitato disprezzo per l’austriaco Hitler. Heinz Ullstein ed
io siamo convinti che Lei riuscirà perfettamente in questo compito,
tanto più che solo a queste condizioni, che si abbia questo articolo, la
pubblicazione avrà possibilità di sopravvivere».
Schulenburg capiva i problemi del giornale. Avevano cestinato un
articolo di Wedderkop su Goebbels probabilmente perché era troppo critico. Era anche da rilevare che oltre la metà dei duemila collaboratori, fissi e occasionali, erano ebrei. I modi dei nazionalsocialisti
erano oramai noti a tutti, ma non era solo questo. Oltre a fissare un
debito di trentatré miliardi di dollari, che poco spazio avrebbe comunque lasciato alle spese in armamenti, il trattato di Versailles del
1919 abolì la coscrizione e pose anche grosse limitazioni alle forze
armate tedesche, che non avrebbero dovuto superare le centomila unità. La conseguenza fu un proliferare di gruppi paramilitari al servizio
dell’uno o dell’altro partito. Erano costituiti da ex ufficiali senza lavoro
e da uomini ancora vigorosi appartenenti a quella massa di sei milioni
di disoccupati che non sapevano come scaricare le loro frustrazioni.
Servivano fondamentalmente a disturbare i discorsi degli avversari,
intimorire i membri dei partiti concorrenti e fare da codazzo ai politicanti. Non erano certo pacifisti, ma la loro violenza si era comunque
limitata agli ambienti politici e con azioni relativamente nascoste. Facevano un grande effetto sulla piccola borghesia, perché enunciavano i
valori dell’onore e della patria. All’inizio degli anni venti Ernst Röhm,
ex ufficiale dell’esercito rimasto senza occupazione per il drastico taglio alle forze armate, costituì all’interno del partito nazionalsocialista
203
Sibyl von der Schulenburg
un gruppo paramilitare chiamandolo Sturmabteilung, SA, nel quale
trovarono posto moltissimi militari disoccupati, gente che aveva imparato a combattere e uccidere nella grande guerra. Queste SA erano
molto più violente degli altri gruppi e criticare Hitler o Göbbels, capo
della propaganda nazionalsocialista, equivaleva a tirarsele addosso.
Schulenburg capiva le perplessità dell’editore Heinz Ullstein, ebreo
anche lui, che doveva difendere il suo impero ricco di diversi periodici
di varia natura. Wedderkop inoltre chiedeva se la collaborazione di
Margherita Sarfatti fosse opportuna. Avevano in mente una pubblicazione speciale in omaggio a Mussolini. Il barone von Wedderkop era
rimasto folgorato dalla persona del Duce durante il loro incontro il
cinque maggio a Roma. Schulenburg gli aveva anche fatto conoscere
Margherita Sarfatti e gli aveva suggerito di far scrivere un articolo
anche a lei. Ora gli erano venuti dei dubbi. Temeva che la pubblicazione potesse essere bollata come strumento di propaganda fascista e,
nonostante la dichiarata simpatia di Hitler per Mussolini, potesse essere censurata in malo modo. L’amico scriveva: «...non so se la Signora
Sarfatti scriverà l’articolo. Non so neppure se, in queste circostanze,
sia opportuno lei lo scriva, perché, lo spiegherò anche a Renzetti, ci
vogliono i nervi particolarmente saldi e un procedimento alquanto
oculato per far accettare questa pubblicazione. Oltretutto, questa pubblicazione non è in alcun modo a favore del fascismo: intende solo
essere un rilevamento obiettivo. Se, nonostante tutto, Lei ritiene che
potrebbe vantarsi di una meravigliosa collaboratrice come la Signora
Sarfatti, La prego di scrivermi brevemente».
Schulenburg, che si trovava ad Amburgo, rispose il sette dello stesso mese rassicurando che avrebbe scritto l’articolo accettando il compromesso. Poi: «Io non oserei mai cestinare un articolo di Margherita
Sarfatti. Non si scordi che nella traduzione Lei ha sempre la possibilità di smussare eventuali punti spigolosi. La Signora Sarfatti è del
mestiere e lo comprenderà.
Spero di finire il mio articolo su Mussolini entro dopodomani.
Me lo rimandi pure se c’è qualcosa che non La convince. Per intanto,
all’inizio dell’articolo sto sulla posizione che tutto si può dimostrare,
perché ogni prova si affronta sulla base di presupposti; provare che
un sistema è buono o cattivo si può fare secondo capriccio: si tor204
il
Barone
nerà sempre al proprio assioma e dietro all’assioma si erge il mito,
la venerazione dell’eroe. Non so se ora si possa parlare di venerazione dell’eroe. Chiaro è però che con una tale argomentazione si nega
l’eroismo di Hitler».
Schulenburg rilesse le sue righe. Per avere contributi validi per
la pubblicazione straordinaria sull’Italia, aveva consigliato di rivolgersi al Maggiore Giuseppe Renzetti, che presiedeva la Camera di
Commercio Italiana in Germania. Gli aveva anche consigliato di
rivolgersi alla Montessori, il cui metodo di insegnamento aveva trovato tanti seguaci anche tra i tedeschi. Informò che Margherita non
era passata da Berlino, come Wedderkop credeva, ed era arrivata a
Genova solo il cinque.
Posò la penna sullo scrittoio vicino agli occhiali. Faceva parte di
quel rituale che gli serviva talvolta per concentrarsi e riordinare le idee
che il cuore suggeriva al cervello e poi scendevano alle dita. Infine,
decise che non si sarebbe negato un piccolo lamento. Riprese la penna,
la intinse nel calamaio e aggiunse: «Questo è quanto, per oggi; con
questo clima impossibile sono di nuovo a letto ed ho nostalgia delle
montagne del Ticino. Attività complementare!».
Doveva pur dirlo a qualcuno che in Germania non stava più bene.
Anche a causa del clima. Gli mancava il sud, i profumi dell’autunno
nei boschi di castagno, la gente allegra e la speranza nel futuro, senza
dover mettere in conto le squadriglie di Goebbels. E Margherita.
Eppure, sarebbe tornato sovente a Berlino negli anni successivi. Il
teatro chiedeva commedie brillanti, la gente aveva voglia di ridere e lui
aveva sempre tanta ironia e senso dell’umorismo che sarebbe stato un
peccato non sfruttare. E poi c’era la sua nuova fiamma. Doveva trovare
un appartamento a Berlino e nella lettera Wedderkop diceva anche
di aver trovato qualche cosa. Ancora spese. Ecco perché di pari passo
lui doveva sollecitare il pagamento del compenso per i suoi articoli. A
tal proposito si ricordò del suo articolo che Mussolini aveva bloccato.
Margherita gli aveva detto che forse sarebbe stato pubblicato, ma, visti
i risultati delle elezioni, ne dubitava fortemente. Comunque, valeva
sempre la pena di scrivere due righe a Isa Foà quando, tra qualche
giorno, avrebbe inviato il suo articolo per Gerarchia.
Wedderkop gli rispose concordando sui compensi e dicendosi con205
Sibyl von der Schulenburg
tento di avere la firma di Schulenburg che definiva «il partito di centro» e «l’ago della bilancia». Sapevano come gratificarlo e lui godeva
di questi complimenti da parte di persone di cultura che sapevano valutare il suo lavoro. Però Wedderkop ricordava pure che non si poteva
«dichiarare nullo il regime e attribuire tutti i meriti al solo Mussolini,
poiché alla fine Mussolini è solo l’esponente di qualche cosa che deve
venire e, d’altra parte, non si può definire Hitler semplicemente un
rimbambito. Qui ci si potrebbe forse aiutare brillantemente indicando
l’alquanto migliore posizione in cui si trova l’Italia che ama il gesto, la
bella parola e la retorica piena di contenuto».
«E perché non lo scrivi tu?» pensò il barone lievemente colpito
nel suo lato più sensibile. Non amava farsi dare indicazioni su cosa e
come scrivere. Gli avevano anche detto che era un po’ presuntuoso e
permaloso, ma tutti i suoi colleghi lo erano. Perché lui avrebbe dovuto
essere diverso? Poi riprese il controllo dei sentimenti e si vergognò un
poco del suo carattere, talvolta un po’ infantile. L’amico Wedderkop
voleva solo essergli d’aiuto e ottenere il miglior risultato. La questione
Sarfatti invece non sembrava averla capita bene, perché scriveva: «Per
Sarfatti non sono molto tranquillo. Non so cosa sarà. La cosa migliore
sarebbe incaricare di tutto Renzetti, ovviamente solo riguardo ai pezzi
più importanti, e gestire quelli marginali separatamente». Sembrava
quasi che non fosse convinto dell’utilità di un articolo di Margherita
e Schulenburg, che aveva cercato sempre di promuoverla, doveva forse
arrendersi. Renzetti riferiva direttamente a Mussolini e a quel punto
avrebbe dovuto pensarci lui a far sì che la voce della Sarfatti comparisse in una pubblicazione tedesca.
Il quattordici ottobre Wedderkop sollecitava di nuovo l’articolo e
riferiva delle rappresaglie di gruppi nazisti contro vetrine di negozi
ebrei e anche di alcuni negozi di cristiani. «Mi sembra la cosa giusta»,
scriveva, «da inserire nell’articolo. Non è forse necessario menzionare
questi fatti, ma si potrebbe forse rilevare che sono proprio queste cose
che distinguono i nazisti dagli italiani (accanto a tutto il resto: gesto,
retorica), perché la gente là ha una disciplina e soprattutto il buon
senso di evitare queste indicibili sciocchezze. Le ricordo solo il caso
Matteotti e la disperazione che provocò a Mussolini. Anche l’antisemitismo deve ovviamente essere rimarcato fortemente, questa pure
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il
Barone
una questione cretina promossa qui da noi dal nazismo, sconsiderata e
sollevata dagli impulsi peggiori».
Schulenburg si appoggiò allo schienale e sospirò. Episodi di violenza lo facevano sempre star male. Era giurista e uomo di lettere,
le parole erano per lui la base della vita stessa, le pensava, le diceva e
soprattutto le scriveva, non gli mancavano mai. La violenza invece gli
era del tutto estranea.
Mentre lui prendeva appunti per i vari articoli in cantiere, usciva
l’ultimo numero di Italien, la rivista che egli aveva voluto e diretto.
Per essa aveva lavorato e combattuto, ma alla fine aveva dovuto rinunciarvi. L’ultima parola però fu la sua, con i saluti ad amici e lettori e
l’espressione di una speranza: che il sentiero segnato dalla rivista e che
ora veniva percorso da entrambi i paesi, potesse portare a un grande
traguardo comune.
207
il
Barone
XIV
A settembre si tenne la Conferenza di Ginevra. Soprattutto
grazie alla mediazione di Madame Boas de Jouvenel,
Schulenburg prese i primi contatti con il Senatore Bérenger,
capo della delegazione francese.
241
Sibyl von der Schulenburg
Incontro a San Moritz al Palace Hotel.
I nomi dei partecipanti W.v.d.Sch., Margherita Sarfatti, M. de Youvenel
e Marianne Wentzel, sono stati scritti da Schulenburg.
242
il
Barone
Il Führer era di cattivo umore. Durante la visita a Venezia di qualche giorno prima, Mussolini lo aveva invitato a un atteggiamento più
morbido nei confronti degli ebrei e al rispetto dei confini austriaci.
E lui aveva dovuto promettere, digrignando i denti, mentre guardava
quella massa di camicie nere sfilare in Piazza San Marco. Non bastasse
l’umiliazione degli sberleffi nascosti dietro tutti quei volti allegri degli
italiani, la stampa mondiale continuava a confrontarlo con Mussolini.
E lui ne usciva sempre male.
Ora aveva dinanzi a sé una rapporto sul discorso tenuto da Franz
von Papen all’università di Marburg il giorno prima, e sentiva che il
cattivo umore si stava trasformando in rabbia. Cosa credeva di fare
quello stupido nanerottolo? A cosa mirava dicendo «È stata fatta una
rivoluzione antimarxista per poi mettere in atto un programma marxista?». E si riferiva forse a lui quando diceva: «Soltanto i deboli non
tollerano critiche: i grandi uomini non sono creati dalla propaganda.
È tempo di unirsi nell’amicizia e nel rispetto di tutti i nostri cittadini
e far tacere i fanatici?». Un testo del genere non l’aveva di certo scritto
Papen, c’era sicuramente la mano di Erich Klausener, di Edgar Jung e
certamente anche del suo portavoce Herbert von Bose.
La rabbia esplose nei confronti di quel pigmeo che credeva di fermare il gigantesco rinnovamento di un intero popolo. Goebbels vietò
immediatamente la divulgazione del discorso di Papen, il quale, però,
aveva già provveduto a distribuirne copie il giorno prima di pronunciarlo. Così la Frankfurter Zeitung era riuscita a pubblicarlo. E la Gestapo rincorse ogni singola copia...
Il trenta giugno 1934 entrò nella storia come «La notte dei lunghi
coltelli».
Hitler non era mai stato interessato a convenzioni e trattati; era
molto più incline alle decisioni autonome e rapide. La fortuna di Papen fu di essere amico e rappresentante del presidente Hindenburg:
Hitler ne aveva ancora bisogno. La fortuna di Schulenburg fu di trovarsi al sicuro in Ticino. Ma per tanti altri, tra cui Erich Klausener,
Kurt von Schleicher, Edgar Jung e Herbert von Bose, non ci fu via di
scampo. Vennero tutti uccisi dai nazionalsocialisti con l’accusa di aver
complottato ai danni di Hitler, quindi della Germania.
283
Sibyl von der Schulenburg
La stampa tedesca non aveva dato grande rilievo all’epurazione
compiuta da Hitler; si era semplicemente liberato di molti suoi collaboratori. In effetti, era un’azione che sembrava rispondere alla domanda di Mussolini: «Che si fa dei rivoluzionari dopo la rivoluzione?». La
stampa estera non aveva avuto molte informazioni e in Germania il
fatto veniva presentato come una resa dei conti tra bande paramilitari. La SA aveva da sempre fama di essere violenta e Madame, come
veniva chiamato l’omosessuale Röhm, fu l’emblema di una classe militare decadente, in cui lo spirito «cameratesco» veniva esaltato proprio
nell’intimità delle camerate. Un emblema da eliminare.
Il cittadino tedesco medio, inebriato dalla prospettiva di una ripresa
economica, non aveva nulla da ridire: che si ammazzassero tra di loro.
L’intellettuale, il giornalista od osservatore politico che riuscì a cogliere l’orrore dell’intera operazione nella sua reale misura, dovette tacere,
pena essere internato in un campo di concentramento, e chi usciva di
lì era tenuto al silenzio più assoluto su quel che aveva vissuto.
Era un giorno della seconda settimana del luglio di quel 1934.
Schulenburg stava seduto sotto il pergolato della casetta in pietra viva
ad Auressio. Guardava verso valle senza vedere altro che macchie verdi e blu. Gli occhiali erano sul tavolo da giardino, fatto di lastroni di
pietra lavica. Le mani stringevano spasmodicamente i bordi di una
lettera che aveva già letto un paio di volte; il volto pallido rivelava
una grande sofferenza. Cominciò a rileggere ancora la lettera. Gliela
aveva spedita il sette luglio da Londra il signor Thornheden, pseudonimo sotto il quale si celava Nicholas Berlin, e gli comunicava: «Da
due giorni provo a scriverle un rapporto su tutte le cose terribili che
ho potuto vivere personalmente a Berlino. Ma ho ancora gli occhi e
le orecchie come paralizzati, così che il tentativo odierno potrebbe
riuscire un po’ confuso. Sono tornato a Londra mercoledì, giusto in
tempo per bloccare la pubblicazione del mio necrologio sulle testate
di Week e Daily Express.
L’ultima volta le scrissi che avevo la sensazione che a Berlino stesse succedendo qualcosa e avevo il desiderio di tornarvi. Il ventun di
giugno ricevetti una lettera di Bose che, con il pretesto di inviarmi
del materiale di scarsa importanza, coglieva l’occasione per ricontattarmi. Esprimeva il desiderio di volersi di nuovo sfogare con me e
284
il
Barone
riteneva anche di essere in grado di versarmi la somma che ancora
mi doveva».
Schulenburg posò la lettera sul piano freddo e ruvido del tavolo; prese gli occhiali e si concedette tutto il tempo per aggiustarseli sul naso e dietro le orecchie. Guardò verso la valle quasi cercando
la conferma che era in Svizzera. Aveva avuto notizie indirette dalla
Germania, ma non era riuscito a parlare con alcuno che avesse avuto
informazioni precise. Si tolse di nuovo gli occhiali. Nicholas Berlin
continuava:
«La lettera di Bose mi parve il dito indicatore di Dio, investii le
mie ultime monete in un biglietto e arrivai a Berlino il ventitré. La
città era come sempre, di nuovo bella e piena di attività. Saltava agli
occhi come la gente leggesse in pubblico la stampa estera e come
chiunque si fosse procurato sottobanco e avesse letto il discorso di
Papen a Marburg.
Bose era partito per un paio di giorni di vacanza e tornò solo il
ventinove. Io sono rimasto tutta la settimana a Berlino e ho potuto
constatare che Goebbels è l’uomo più odiato nel nostro paese e che la
maggior parte della SA andrebbe volentieri in vacanza ad infinitum,
perché stanca di quella faticaccia. Gli intelligentoni discussero coram
publico il putsch freddo di destra, facendo gli stessi nomi che a noi
sono noti da tempo».
I nomi. Avranno messo tutti in un calderone: gli intellettuali come
Jung e Klausener, i nobili militari come von Bose e von Schleicher,
gentaglia come Röhm. E Papen, l’uomo che non lasciava mai uno
scritto compromettente, ma faceva fare tutto al suo segretario? E
Schulenburg?
Riprese a leggere ancora i passi che ben conosceva: «Quella storica domenica mattina alle nove, concordai con Bose di trovarci per
il pranzo all’una da Peltzer. Quando sono arrivato in quella zona ho
notato molta polizia armata e lo sbarramento della Wilhelmstrasse.
Ingenuo, come talvolta sono, ho creduto che fosse arrivato il re del
Siam. Per un’ora ho atteso invano che arrivasse Bose. Alle due ho tentato di avere notizie da Vosstrasse 1 su cosa gli fosse accaduto, ma ho
solo potuto constatare che l’edificio era occupato dalle SS. Alle undici
di notte ho incontrato due conoscenti che mi hanno detto che Bose
285
Sibyl von der Schulenburg
era stato ucciso a colpi di pistola da sei ragazzi delle SS alle dodici e
quarantacinque».
Non gli era mai stato simpatico quel Carl Fedor Eduard Herbert
von Bose, ma il modo e le ragioni per cui era morto gli lasciavano
un grande vuoto nell’anima. Ancora una volta sorgeva spontanea la
domanda: e Papen? Bose era stato solo il portavoce e segretario di
Papen, avevano ammazzato il servo e lasciato vivere il padrone. Di
Edgar Jung almeno si poteva dire che già in altre occasioni aveva dimostrato tendenze al sovvertimento dell’ordine stabilito, ma in fondo anche lui era stato eliminato solo perché la critica al nazionalsocialismo espressa da Papen in quel discorso del diciassette richiedeva
dei capri espiatori.
Nathan aveva avuto un bel coraggio a tornare a Berlino. Dopo il
loro incontro davanti all’esclusivo club di Zurigo, la sera dell’anno
precedente, Schulenburg si era diretto a passo deciso verso una caratteristica birreria popolare. Nathan non aveva chiesto nulla, lo aveva
seguito e si era seduto vicino a lui al grande tavolo tondo in un angolo
del locale. Avevano ordinato due boccali di birra, poi il barone aveva
fatto la sua offerta al giovane berlinese.
«Sono scrittore e giornalista. Ho sempre necessità di sapere cosa
dice la stampa e la gente nelle grandi capitali estere. Leggo i giornali inglesi, francesi, tedeschi e italiani ma, soprattutto quelli inglesi,
quando giungono nelle mie mani sono oramai vecchi. Per questo io la
manderò a Londra». Prese un lungo sorso di birra svizzera e mentalmente non mancò di paragonarla a quella tedesca. Non c’era paragone,
la patria della birra era la Germania e poi, comunque, lui preferiva il
vino. Quello italiano.
«Devo mandarle i giornali?» chiese sorpreso e il giovane.
«No», sospirò spazientito il barone, «deve leggerli lei e mandarmi il
resoconto delle notizie più interessanti dal punto di vista politico. Ma
m’interessa anche conoscere le opinioni della gente comune e delle
persone che contano».
«E mi pagherà?».
«Certo che la pagherò giovanotto. E le darò anche l’occasione per
inserirsi nell’alta società londinese; starà poi a lei far valere le sue
286
il
Barone
conoscenze e arrivare ai club esclusivi, come tanto desidera». C’era
disapprovazione nella voce di Schulenburg, ma il giovane berlinese
non la colse.
Due giorni dopo il ragazzo era partito per la capitale inglese, e lì
si era stabilito con l’aiuto di un rappresentante della camera dei Lord,
amico del barone. Aveva regolarmente ricevuto il compenso per gli
invii delle notizie, ed era finalmente riuscito a darsi un assetto che gli
permetteva di frequentare i migliori club di Londra. Scriveva lunghi
rapporti sui discorsi di contenuto politico che si facevano in quei club;
aveva sempre le orecchie tese come antenne a captare qualsiasi notizia, che in Svizzera potesse aiutare il suo datore di lavoro a capire la
situazione politica inglese e l’opinione dei politici nei confronti della Germania e dell’Italia. Nathan leggeva tutta la stampa, seguiva le
trasmissioni radio su argomenti politici, s’interessava a ogni opinione
comunicata dai media. E poi riferiva. Ma, quando non aveva grandi
notizie da riportare, limitatamente all’inizio ma via via sempre più,
tendeva a colorire i suoi rapporti. Schulenburg l’aveva capito e l’aveva
più volte ripreso; cercava di limitare la sua esuberanza, dovuta anche
alla giovane età, e aveva più volte dovuto negargli richieste ingiustificate di denaro. I versamenti dei compensi erano fatti sotto falso nome
e dalla Svizzera raggiungevano Londra passando per Parigi. Nathan
non riteneva di dover rilasciare sempre la ricevuta; spesso negava di
aver ricevuto il denaro e, ovviamente, Schulenburg non si sarebbe
esposto con un reclamo presso gli uffici postali.
Nathan, come altri corrispondenti dalle grandi capitali europee, era
stato indispensabile nel lavoro per conto di Franz von Papen. Schulenburg aveva chiesto rapporti periodici, ma non troppo frequenti; aveva
spiegato a Bose e Papen che la legge elvetica prevedeva la prigione o
l’espulsione per chi avesse raccolto in Svizzera informazioni per una
potenza estera. La legge era applicata severamente e per questo si era
visto obbligato a organizzare il centro di raccolta in Germania. Lì ogni
tanto egli vedeva i rapporti, selezionava ed eventualmente tagliava o
rettificava per poi trasmettere quanto fosse veramente importante a
Papen o a chi per lui.
Ma in Germania volevano notizie più frequenti. Negli uffici di
Stato sottoposti a Papen, volevano qualsiasi cosa, con preferenza per
287
Sibyl von der Schulenburg
i pettegolezzi e le notizie personali e minor interesse per i grandi argomenti. Fu così che in un momento di particolare concitazione degli
eventi, il barone si vide costretto a mettere Nathan in contatto diretto
con l’organizzazione di Papen e lì il giovane conobbe il capitano Nussbaum, un membro della Polizia segreta (diretta da Diehls) scelto da
Franz per servire da collegamento con quella istituzione che avrebbe
dovuto sostenerlo per il colpo di Stato. Schulenburg aveva caldamente
consigliato a Papen e Bose di non fidarsi di Nussbaum, ma la sua voce
non era stata ascoltata.
Il barone aveva dato a Nathan la possibilità di farsi conoscere sia a
Roma sia a Berlino, l’aveva finanche presentato a Bose. E un giorno
Nathan gli aveva scritto una lettera dai toni volutamente allegri, comunicandogli il suo rapporto di amicizia con Nussbaum e i bei giorni che a Berlino aveva trascorso con lui. Era chiaro che il ragazzo si
sentiva oramai arrivato, stava vicino al potere ed era convinto di avere
un futuro in politica. S’intrufolava ovunque per conoscere sempre più
gente che potesse dargli informazioni, che lui poi avrebbe utilizzato
per articoli d’effetto sulla stampa inglese.
Tornò a leggere le righe da Londra. «Avevo sentito che la dirigenza
che faceva capo a Diehls era fuggita o già era prigioniera. Un buon
Dio mi ha impedito per tutto il tempo di contattare Nussbaum. Ma
dove sarà ora? Domenica sera alcuni amici delle SS mi portarono con
loro a Lichterfelde, dove, da una finestra che dava sul cortile potei
assistere al miserevole spettacolo. Mi risparmi il racconto delle mie
impressioni. Aggiungerò che non mi sono comportato in modo né più
coraggioso né più eroico dei delinquenti. Martedì sono poi tornato
qui. E so bene come quei fatti sono veramente accaduti.
Tutto l’affare è opera del signor Goebbels, che sentiva l’avvicinarsi
della sua rovina e volle rendersi indispensabile agli occhi di Hitler.
Ecco perché il tiro mancino di tradire Röhm. Madame voleva fare un
discorso il trenta giugno davanti a una platea di condottieri delle SA,
nient’altro. Goebbels l’aveva saputo da lui personalmente e ne informò
il Führer, così come fece notare al Fürer il presunto legame reazionario
di Röhm con Göring. “Hermann il pataccaro” venne a trovarsi sotto
un diabolico tiro incrociato: o stava a destra e allora avrebbe dovuto
mettere le carte in tavola, oppure non era certo dell’assicurazione che
288
il
Barone
aveva alle spalle, e avrebbe dovuto eseguire in modo ubbidiente l’ordine di Adolf Hitler e agire personalmente contro la destra. Decise per
questa seconda opzione e fece ammazzare indiscriminatamente tutti
quelli contro i quali nutriva qualche risentimento».
La frequenza cardiaca di Schulenburg era di nuovo salita. Tornò
a guardare il verde della valle ticinese, reprimendo l’angoscia che gli
saliva dalla bocca dello stomaco. Si chiedeva chi potevano essere gli
‘amici’ delle SS che avevano portato un giornalista a Lichterfelde. Probabilmente erano stati pagati, e Nathan aveva colto al volo l’occasione
di essere testimone oculare delle atrocità, che poi avrebbe potuto rivendere a caro prezzo alla stampa estera.
Di Hermann Göring, che si adornava sempre come un albero di
Natale con tutte le sue medaglie (e per ciò chiamato «Hermann il
pataccaro»), Nathan aveva detto che aveva ammazzato molta gente.
Schulenburg rivide nella sua memoria il volto pacioso e cordiale di
quell’uomo, che risultava sempre tanto simpatico al popolo semplice.
Mise da parte lo scritto. Il finale lo ricordava oramai a memoria.
Nathan diceva che tre gangster governavano in modo terroristico un
popolo impaurito. «Stiamo a vedere chi ammazzerà per primo chi.
Questa terra è perduta. Tutto potrà accadere. Se almeno si potesse
salvare la cultura tedesca...».
Il barone avrebbe voluto piangere. Sentì i passi di Marianne che si
avvicinava. Lei vide la lettera sulla pietra del tavolo e scosse la testa.
«Non devi tormentarti a questo modo. In questo momento non puoi
far nulla. Devono essere accadute cose orribili. Per questo probabilmente Mussolini ha detto che è contento di saperti al sicuro in Svizzera in questi giorni che si preannunciano critici. Lui evidentemente aveva avuto sentore degli accadimenti». Sperava tanto di poterlo
rasserenare. Tra pochi giorni, il quattordici, si sarebbero finalmente
sposati. Lui aveva insistito per legalizzare la posizione. Sarebbe stato
un matrimonio triste.
L’esule tedesco tra i monti svizzeri prese la penna e scrisse a Berlin, chiedendo ulteriori dettagli sugli avvenimenti. Aveva bisogno di
notizie che lo aiutassero a elaborare il tutto. Chiese a Berlin di confermargli che Bose non era stato portato a Lichterfelde e chiese notizie anche di altre persone che conosceva. Erano stati segnalati strani
289
Sibyl von der Schulenburg
movimenti in Svizzera, per i quali non trovava spiegazione, come la
presenza di Joseph Goebbels alla stazione di Lugano.
La risposta di Berlin non si fece attendere, ma non servì a consolarlo. Nathan raccomandava di non mettere piede in Germania, finché
le cose non si fossero calmate.
Schulenburg non poteva però evitare un’ultima capatina al di là
della frontiera. Avevano ottenuto i documenti per un matrimonio in
Germania e il matrimonio non poteva essere celebrato all’estero, perché ciò avrebbe richiesto altri documenti da parte di un consolato,
richiesta che avrebbe suscitato la curiosità di qualche burocrate troppo
diligente. E così, sabato quattordici luglio 1934, con l’aiuto del passaporto a nome Walter Schneiderhahn e sperando di non imbattersi in
un altro finanziere musicofilo, Schulenburg passò clandestinamente
la frontiera tra Svizzera e Germania per ricongiungersi qualche chilometro dentro il territorio tedesco, nella casa municipale di Costanza, con la promessa sposa, che aveva percorso quell’ultimo tratto da
sola. Uscirono poco dopo, coniugati e soddisfatti, esaltati dal successo
dell’impresa in cui erano stati complici, e tanto sicuri da andare a festeggiare in un buon ristorante, ma poi di nuovo tanto saggi da rientrare in terra elvetica separatamente.
Dopo un breve viaggio di nozze a Roma, dove Schulenburg poté
riabbracciare Hetty Antonini, la bella cantante di arie tedesche, il barone ritenne opportuno di tornare a rintanarsi tra i monti svizzeri e
attendere ulteriori sviluppi. Hitler dichiarò chiusa la vicenda dell’epurazione dei traditori dello Stato.
Il venticinque di luglio, in un tentativo di colpo di Stato da parte dei nazionalsocialisti austriaci, venne ucciso a Vienna il cancelliere Dollfuss. In punto di morte chiese di avvertire Mussolini, perché
provvedesse alla moglie e ai figli. Tra i due uomini si era creata una
forte intesa di collaborazione per contrastare la pressione nazionalsocialista e l’Anschluss.
La morte di Dollfuss fece il gioco di Hitler, il quale sostituì immediatamente l’ambasciatore a Vienna con Franz von Papen, negò
di aver responsabilità nell’attentato e addirittura impedì ai congiurati di entrare in Germania. Mussolini non ebbe dubbi nel vedere
proprio la mente di Hitler dietro all’assassinio del suo alleato au290
il
Barone
striaco e, dopo aver personalmente dato l’annuncio della morte alla
signora Dollfuss, che si trovava sull’Adriatico, fece trasferire quattro
divisioni al Brennero.
Il due agosto morì Hindenburg e il Führer riunì in sé le cariche di
Presidente e di cancelliere.
A luglio Margherita Sarfatti aveva scritto da Cavallasca, annunciando una visita e promettendo comunque di chiamare o telegrafare,
ma solo da Chiasso. Schulenburg sapeva bene che le linee telefoniche e
telegrafiche erano costantemente controllate, non c’era modo di sfuggire al controspionaggio. Anche il passaggio della frontiera italiana
poteva sempre riservare sorprese, soprattutto a chi, come Margherita,
aveva oramai tanti nemici a Roma. Qualche mese prima, a marzo, erano stati bloccati alla dogana di Ponte Tresa, Sion Segre e Mario Levi,
che detenevano materiale antifascista; era stato stampato in Ticino e
tentavano di portarlo in Italia. Il Segre era stato arrestato, mentre il
Levi si era sottratto all’arresto con un bel tuffo nell’acqua gelida del
fiume e una nuotata a bracciate vigorose verso la riva elvetica. Qualcuno aveva detto a Schulenburg che quel Levi era il figlio di Giuseppe,
cognato di Margherita.
La mattina del nove agosto 1934 trovò un sereno Schulenburg sotto il pergolato di Auressio. Il sole era alto in cielo e il caldo aveva raggiunto anche le valli ticinesi. Il barone, dopo aver lungamente guardato con invidia il giardiniere che si aggirava a torso nudo tra i fiori
e gli alberi da frutto, decise che avrebbe potuto concedersi la libertà
di togliersi almeno la camicia e restare in canottiera. Ma mentre stava
slacciando il terzo bottone, vide sul vialetto d’accesso un ragazzetto,
che, giunto alla gradinata, arrancava quasi trascinando i piedi.
Si riallacciò rapidamente il bottone e andò incontro allo straniero
che si era introdotto nella sua proprietà. Se c’era una cosa che Schulenburg detestava veramente, erano le visite inaspettate; chiunque
volesse far visita, aveva il dovere di avvertire con congruo anticipo; i
fornitori dovevano telefonare al guardiano. Il barone, nel suo castello,
non amava improvvisate.
Si alzò contrariato e andò incontro al ragazzo, che era giunto sul
piazzale davanti a casa e stava riprendendo fiato e ammirando il pae291
Sibyl von der Schulenburg
saggio con la soddisfazione dell’alpinista che ha raggiunto la vetta. La
destra stringeva una busta.
«Posso fare qualche cosa per te?» abbaiò il padrone di casa in
tedesco.
«Buongiorno», rispose il ragazzo con voce incerta, perché non aveva capito la domanda, «devo consegnare questa busta al barone che
abita qui. Il Mario mi ha detto che mi dava la mancia».
«Marianne!», urlò Schulenburg, il cui buonumore era stato soppiantato dall’ira nei confronti dell’invasore, sul quale ora teneva puntati due occhi di fuoco.
La giovane sposa uscì di corsa dalla casa di pietra. Afferrò al volo
la situazione, prese la busta dalla mano tremante del ragazzo e la consegnò al marito due passi più in là. Quando si girò per ricompensare
il giovane, lo vide che correva a perdifiato verso valle, saltando quattro
gradini per volta. «Ne hai spaventato un altro», disse con un sospiro al
marito, «non so se resterà qualcuno in paese disposto a far consegne
a La Monda». La bella donna con la fluente chioma rossa, dentro un
leggero abitino verde di cotone che esaltava le sue forme, seguì lo scapigliato artista fin sotto la pergola, dove entrambi si accomodarono.
La busta conteneva un biglietto di Margherita, senza data e senza
firma. La signora evidentemente adottava ogni mezzo per non cadere
vittima del controspionaggio dal quale veniva controllata. La scrittura era indubbiamente la sua, ma alcune parole erano difficilmente
leggibili. Che l’avesse fatto di proposito? Se un tale biglietto, scritto
in tedesco, in una scrittura quasi illeggibile, fosse finito in mano a un
agente italiano, quell’agente ben poco ne avrebbe cavato. Margherita Sarfatti scriveva: «Caro amico, sarò con la macchina da Lei, se il
tempo sarà buono. Vengo con i Peroni. Va bene? A rivederci. M.». La
parola amico e qualche altra erano illeggibili.
Schulenburg e la moglie studiarono a lungo il messaggio dell’amica di Cavallasca, poi decisero che una parola illeggibile poteva essere
Donnerstag, giovedì. Sarebbe stato opportuno chiamare Margherita e
farle in qualche modo capire che il messaggio non era chiaro. Si era
fatto tardi, il pranzo era già in tavola e l’etichetta voleva che ogni altra
cosa fosse rinviata a dopo.
La sonnolenza postprandiale colse il barone come un’onda ano292
il
Barone
mala, grande e improvvisa. Allungato sulla sdraio, si era finalmente
deciso a restare in canottiera, all’ombra delle rigogliose foglie di vite
che infoltivano il tetto alla pergola. Le cicale gli cantarono la ninna
nanna, mentre le braccia che reggevano il giornale si arresero alla forza
di gravità. Un lieve russare si unì al coro delle cicale.
Nessuno vide la comitiva salire lentamente gli oltre duecento ripidi
scalini e poi scarpinare lungo l’impervio sentiero. Schulenburg fu svegliato da una voce maschile ansimante: «Non c’è nessuno?».
«Maledizione!», pensò mentre a fatica apriva l’occhio destro,
«questo è un paese di maleducati. Non c’è alcun rispetto per l’ora
della siesta».
Automaticamente allungò la mano e afferrò la camicia abbandonata sulla sedia vicina, mentre lentamente anche l’occhio sinistro si apriva. «Marianne!» gridò, ed era la seconda volta che chiamava d’urgenza,
in quel torrido giorno estivo, «Marianne!».
La bella signora dalla folta chioma rossa cominciava ad assuefarsi
all’incombenza e, per evitare che un altro malcapitato dovesse fuggire in preda al terrore per l’accoglienza riservatagli dal marito, uscì
subito sul piazzale reggendo in una mano un vassoio colmo di dolci e
nell’altra un bicchiere di vino rosso: chiunque fosse il visitatore, lei era
preparata. Cercò di ricordare le frasi in italiano che aveva imparato e,
mentre scendeva i gradini, senza guardare bene agli ospiti, «Puonciorno...», disse, provando a controllare l’accento teutonico.
«Buongiorno, cara», rispose una voce femminile che lei già conosceva, «buongiorno!».
Margherita Sarfatti. Marianne si sentì confusa e necessitò di alcuni
secondi per rendersi conto che la voce era realmente di Margherita e
Margherita era sul piazzale della Monda.
«Werner!» pensò di gridare, ma dalla gola le uscì solo una sorta di
rantolo. Il marito, però, stava già arrivando, gli occhi assonnati e la
camicia ancora aperta. Vide sul piazzale dinanzi a sé Margherita, la
moglie che sembrava offrirle dolci e vino, mentre a una certa distanza i coniugi Peroni si godevano il paesaggio. Si stropicciò gli occhi e
guardò meglio. Era rimasta immutata. Si rese conto che quella parola
intelleggibile era proprio giovedì, e che gli ospiti erano già arrivati.
293
Sibyl von der Schulenburg
Le camere furono presto preparate e sotto il pergolato furono aggiunte alcune sedie. Schulenburg mostrò a Margherita il biglietto così
poco comprensibile e lei tuffò una mano nella sua borsa, ne trasse
la matita rosso-blu con la quale in rosso scrisse sul suo messaggio
“Donnerstag” e in blu “den 9”, il nove. «Ecco», esclamò, «ora si capisce
meglio».
Gli ospiti restarono alcuni giorni e Schulenburg ebbe diverse occasioni per parlare con Margherita privatamente. Era tornata dal viaggio
negli Stati Uniti, dove aveva promosso l’idea fascista e cercato l’appoggio di Roosevelt. Ora desiderava informazioni sugli ultimi accadimenti
in Germania, sulla morte di Schleicher, Bose, Jung e altri che avevano
frequentato insieme. Si felicitò più volte con l’amico per lo scampato
pericolo e lo pregò di restare lontano dalla sua patria per altro tempo
ancora. Margherita sapeva del piano di Papen, sapeva anche del tradimento ai danni di Schulenburg e ora non la stupiva il fatto che l’ex
vice cancelliere fosse ancora vivo, anche se ‘rimosso’ e inviato come
ambasciatore a Vienna. Ma la Sarfatti non era più nelle condizioni di
un tempo. La rivista Gerarchia le era stata tolta e i suoi nemici avevano
l’ardire di attaccarla apertamente, sempre più ferocemente. Margherita aveva creduto nell’idea fascista, l’aveva coltivata e promossa. Ora
era stata lasciata da parte come una scarpa vecchia, e lei era arrivata
a desiderare di non essere più coinvolta nel destino politico di alcuno
Stato. La guerra era nell’aria. Ovunque. I fragili equilibri europei si
reggevano a vicenda, a giorni alterni. Potevano crollare da un momento all’altro. Solo certi argomenti la incuriosivano ancora. Chiese a
Schulenburg: «Cosa pensa della nostra politica estera?».
«Cara amica, sono straniero e non mi compete alcun giudizio in
merito».
«Lo dica liberamente», fece lei concisa, «è una politica di avventurieri. Chi vuole governare un grande paese deve passare diciotto ore
seduto alla scrivania; non può in alcun modo improvvisare. Solo due
giorni fa ho detto al Duce “Lei ha abbastanza da colonizzare in Puglia,
Sicilia e Calabria. È là che lei ha ancora tanto lavoro da fare”. Gli ho
anche detto chiaramente che, qualora andasse in Abissinia, cadrebbe
nelle mani dei tedeschi e allora sarebbe perduto».
«Mi annoterò immediatamente queste sue parole, geniale signora.
294
il
Barone
Sono parole che rispecchiano pienamente la mia opinione personale.
Ma», continuò, «il Duce è posseduto dall’idea dell’Imperium Romanum, la sua vista sull’atlante geografico è annebbiata. È facile capire
che una grande colonia italiana autosufficiente nel caso di una guerra,
situata di fronte all’inglese conca rocciosa di Aden che garantisce i
collegamenti marittimi tra l’Inghilterra e l’India, non sarebbe mai tollerata dagli inglesi».
«Se queste cose le fa notare a un fascista, la risposta è sempre la
stessa: l’impero coloniale inglese è forse nato in maniera diversa?». Si
era fatta triste la voce della donna che un tempo aveva avuto un grande
ascendente sul Duce, ridotta ora a occasionale ghostwriter del grande
statista per articoli destinati al New York Herald Tribune.
«Certamente no. Ma Mussolini arriva troppo tardi. Da allora la coscienza mondiale è diventata più rigorosa. E soprattutto negli inglesi.
La gente sazia ha sempre una coscienza rigorosa. È vergognoso, ma
è una realtà politica che il più debole deve sempre mettere in conto.
Mussolini arrederà la nuova casa del cugino Tommy a sue spese» commentò il barone.
«Evidentemente abbiamo il denaro per sciocchezze di questo genere, veri atti di beneficenza».
La mattinata di agosto era illuminata da un sole particolarmente
caldo. Margherita, in abito bianco, scese le scale e si diresse alla sala da
pranzo, dove veniva servita la colazione. Si fermò un istante nel vano
della porta e il sole alle sue spalle le creò intorno un’aura di luce. Schulenburg, seduto al tavolo, sentì un rumore, alzò lo sguardo dal giornale
e lo colpì nel vano della porta la bianca apparizione. «La dama bianca»
pensò, «finalmente la vedo anch’io». Abbassò il foglio e rimase a bocca
aperta a fissare l’immagine luminosa.
«Nascerà a giorni» disse la dama bianca.
«Cosa»? chiese il barone in attesa di un vaticinio.
«Non cosa. Chi» rispose Margherita, entrando del locale, e lasciandosi naturalmente alle spalle la precedente luminosità. «Mio nipote,
nascerà a giorni. Fiammetta è prossima al parto».
Schulenburg, un po’ compiaciuto, un po’ deluso, si alzò per fare accomodare l’ospite: «Mi saluti tanto la sua figliola allora, e le faccia i
miei più cari auguri. Un figlio è sempre un grande avvenimento».
295
Sibyl von der Schulenburg
«Sì» bisbigliò la donna, pensando al figlio Roberto morto in guerra.
«E sarà bene che la nostra gente si riproduca per far fronte al pericolo
dei neri e dei gialli».
«E dei tedeschi» concluse il barone. «Lo so che lei, come altri,
sente la minaccia della popolazione tedesca, che è effettivamente in
crescita».
«Voglio solo dire che la politica demografica di Mussolini è stata
previdente».
Schulenburg non rispose, sospinse gentilmente la sedia sotto l’ospite che si accomodava al tavolo e suonò il campanello per far servire la
colazione.
«Omnia Monda Mundi, Margherita G. Sarfatti, 11 agosto 34».
Questa iscrizione sul libro degli ospiti sembrò preoccupare Marianne
per parecchio tempo. Ripensava spesso all’espressione complice della
donna mentre la scriveva, e di suo marito che con la stessa espressione
la guardava. Le risuonavano nella mente le parole di Lisa, la moglie
precedente. «C’è qualche cosa di non detto tra quei due, qualche cosa
che li unisce in una maniera che una moglie non può tollerare». Detto
da Lisa, che tollerava tutte le amanti del barone, l’affermazione doveva
avere un certo fondamento.
«Cosa significa?» chiese, quando gli ospiti se ne furono andati.
«Fa il verso al motto “omnia munda mundis”, “tutte le cose sono
pure per i puri”. È una frase biblica, ma credo che Margherita la citasse da quel classico della letteratura italiana che sono I Promessi Sposi
di Manzoni».
Marianne, che non conosceva l’opera, non chiese in quale occasione
venisse pronunciata, ma rifletté a lungo sulla portata del motto, sulla
verità che conteneva: le persone dal cuore puro vedono tutto puro.
Alla fine decise che può essere difficile distinguere una persona
pura da una persona ingenua.
Mussolini fece conquistare al suo popolo l’Abissinia. Le pur blande
sanzioni che ne conseguirono, con effetti, quindi, non proprio rilevanti, lo costrinsero comunque tra le braccia della Germania. L’‘Asse’
iniziava a delinearsi all’orizzonte.
«Qual è la sua opinione su questa nuovo assetto?» scrisse una volta
donna Margherita a Schulenburg.
296
il
Barone
Lui rispose con un distico di Goethe: «All’asse saranno assestati
svariati colpi; non si piega e alfin si spezza».
A settembre Berlin, che nel frattempo si firmava sempre più spesso
Canterbury, riferì di essere stato arrestato a Berlino e di essere stato
trattenuto per ben quattordici giorni. Essendo stato trovato il suo tesserino di giornalista, gli inquirenti l’avevano ricollegato agli eventi che
portarono alla notte dei lunghi coltelli. Informò il barone che gli era
più volte stato chiesto di riferire dove si trovasse Schulenburg, al quale
erano visibilmente interessati.
«Posso dire di essere stato molto, molto fortunato a poter uscire
dalla Germania. Per esperienza personale le consiglio fortemente di
non tornarvi. È troppo pericoloso». Più avanti scriveva: «Dal punto di
vista economico è una catastrofe, tutti si danno all’accaparramento, i
prezzi sono alle stelle. Ci avviciniamo in modo sensibile alle condizioni di guerra. Nonostante ciò, non credo che l’iniziativa sarà presa da
questa parte...».
297
il
Barone
XIX
«No. Come saprai, la Germania ha invaso anche la
Danimarca, la Norvegia, il Belgio, l’Olanda e la Francia.
E qualche idiota continua a credere che stia solo procurando spazi
vitali per il popolo tedesco».
333
Sibyl von der Schulenburg
Dedica di Emma Gramatica.
334
il
Barone
Marianne aveva raggiunto il marito a Roma, ma trovava la capitale
italiana troppo caotica. Era stata diverse volte in Italia, ne adorava il
clima, l’allegria della gente, l’arte e la capacità degli italiani di godere
la vita; era estasiata dalle colline romane, dove si produceva l’ottimo
vino, il vino dei castelli, e i salumi che le facevano scordare le salsicce tedesche. Nonostante tutto questo però, non riusciva a perdonare
il carattere a tratti pressappochistico delle popolazioni mediterranee.
Soffriva immensamente per i loro ritardi, per il modo impreciso con
cui si fornivano informazioni, per tutta l’incertezza che aleggiava per
le strade d’Italia e che neppure la mano forte del fascismo era riuscita
a correggere. Era l’incertezza tipica del sud, quella che sta alla base dei
voli dell’artista, quella che promuove un «forse» anche nelle occasioni
più serie, e che può trasformare un giorno qualsiasi in un giorno di
vacanza. O un giorno sereno in un inferno.
Queste caratteristiche dell’Italia, che si presentavano in certa misura attenuate al nord, non erano in alcun modo accettabili da persone
rigidamente tedesche, come era Marianne. Schulenburg le aveva accettate e talvolta anche fatte sue, ma per la maggior parte dei tedeschi
erano singolarità di cui parlare al rientro dalle vacanze, e peccati perdonabili solo a distanza.
Decisero di cercare una residenza fuori città e per questo si recarono ad Ariccia, dove Hetty Antonini li attendeva nella sua bella villa.
Schulenburg conosceva abbastanza bene la zona, apprezzava la tranquillità di quei luoghi, la gente meno sofisticata rispetto ai cittadini
romani, il clima mite e il verde intenso dei colli Albani. Ariccia distava
solo una ventina di chilometri da Roma. Aveva la sua storia e una sua
identità precisa, non era uno sperduto paesello di montagna, bensì un
centro cresciuto anche culturalmente, grazie al fatto di essere stata nei
secoli la prima tappa sull’Appia antica per i viaggiatori che da Roma
si volgessero al sud.
Scansando filobus, carretti, carrozze, biciclette e autoveicoli di ogni
tipo, Marianne riuscì a uscire dalla città, lamentandosi spesso per l’indisciplina degli italiani sulle strade. Schulenburg, nervoso, era aggrappato alla maniglia in alto a sinistra e si rilassò solo quando Roma fu
alle spalle.
«Rilassati, tesoro!» suggerì la bella tedesca, «Guarda com’è già ver335
Sibyl von der Schulenburg
de la campagna, anche se siamo solo a giugno! In Germania è verde
molto più tardi».
«In Germania...», rispose lui a mezza voce, «in Germania i campi
non saranno verdi a lungo, si profilano i tempi dei campi rosso sangue».
«Esagerato!».
«Vedrai, cara, vedrai che cosa combinerà Hitler!».
Marianne preferì non rispondere. Sapeva che Werner non approvava il suo ottimismo per il futuro della Germania. D’altra parte, come
non vedere la ripresa economica? I tedeschi avevano compiuto invasioni, era vero, ma dicevano che serviva lo spazio vitale per la nuova
Germania. Era spesso confusa, come lo erano tanti suoi connazionali.
Trovarono il grande ingresso della villa già aperto, e Marianne guidò la macchina prudentemente lungo il viale che saliva alla villa.
«Don Giovanni!». La voce melodiosa di Hetty riconciliò Schulenburg col mondo femminile, verso cui si era come annuvolato per la
superficialità della moglie. La padrona di Villa Sole parlava un ottimo
tedesco e lo usava anche con i figli.
«Cara amica!». Il barone era sceso faticosamente dalla vettura e si
lanciò sulla mano della contessa Antonini, serrandola e portandosela
al volto con un impeto, che un osservatore esterno avrebbe definito
amoroso. Ma c’erano già le voci, secondo cui c’era stato del tenero
tra i due.
Hetty viveva oramai da tempo separata dal marito. Si diceva che
frequentasse un agente francese, un certo Lagardelle, ma Schulenburg
evitava sempre accuratamente di parlarne. Ora la giovane signora sorrideva divertita alla vista del cranio pelato di quell’uomo chino sulla
sua mano, mentre il caldo sole romano creava bizzarri giochi di luce,
che si rincorrevano tra le lenti e la calvizie del tedesco.
«Può lasciarmela, ora» disse con dolcezza all’uomo che ancora
esitava.
Lui sfoderò il suo miglior sorriso seduttore, e cedette. «Come sta?».
Si guardò intorno alla ricerca dei figli, Eddo e Marco: «Dove sono i
ragazzi?».
«Eddo è miracolosamente scampato al bombardamento di Rotterdam, e oggi è in visita da amici, e Marco...» si girò e chiamò: «Marco!».
336
il
Barone
Il ragazzo, quattordici anni, uscì da dietro un cespuglio fiorito e si
avvicinò alla madre, senza, però, staccare gli occhi da Marianne. «Oh!»
fece Schulenburg. «Hai buon gusto, figliolo! Questa è Marianne, mia
moglie».
Marco tese la mano ferma alla giovane bellezza nordica, colpito dai
colori degli elfi irlandesi. Non salutò, disse solo: «Che occhi!».
A tavola Schulenburg ricordò con l’amica i momenti felici trascorsi ad Ascona e le chiese se potesse aiutarlo a trovare un terreno
vicino ad Ariccia, dove avrebbe potuto costruire una casetta e coltivare una vigna.
«Ho sentito che sei molto occupato a Roma, tra Palazzo Zuccari,
Palazzo Venezia e il Vaticano» lo motteggiò Hetty. «Come faresti a
star lontano dalla città?».
«Vedo che le notizie arrivano anche in questo paesello...».
«Non è un paesello!» intervenne Marco. «E ascoltiamo anche noi
radio Londra!».
Un silenzio imbarazzato calò sulla compagnia, poi la risata di Schulenburg scoppiò come una bomba: «Ma bene, giovanotto! Solo, non
andare a dirlo in giro. L’Italia è in guerra e gli inglesi non sono tra gli
alleati».
«Seriamente, Schulenburg», riprese con una punta di rimprovero
nella voce Hetty, «ho saputo che hai organizzato la visita di Ribbentrop al Santo Padre».
«Non è proprio così. Facciamo un riassunto per l’ascoltatore di radio
Londra» disse Schulenburg rivolgendo un sorriso a Marco, che l’ascoltava rapito. «Dunque, papa Pacelli credeva molto in un suo progetto
diplomatico con cui riconciliare tra loro le cinque maggiori potenze
europee, Francia, Inghilterra, Italia, Polonia e Germania e, insomma,
desiderava che si concludesse un patto a cinque. Per l’intransigenza di
qualcuno, in primis l’imbianchino di Vienna, il progetto fallì».
«Chi è l’imbianchino?» chiese Marco.
«Hitler. Era un pittore paesaggista», rispose Schulenburg, «che non
se la cavava male. Quando cominciò a farsi notare in politica, qualcuno in Germania prese a chiamarlo “Anstreicher”, imbianchino, che
però in tedesco significa anche imbroglione, e questo soprannome gli
è rimasto».
337
Sibyl von der Schulenburg
«Ah!».
«Il primo settembre scorso, le truppe tedesche entrarono in Polonia
e, come sappiamo, la conseguenza è stata la dichiarazione di guerra di
Francia e Inghilterra. La Germania aveva già invaso la Cecoslovacchia
e a quel punto era chiaro che una politica di pace era difficile da attuare. Ma il Santo Padre era convinto, e lo è tuttora, di poter raggiungere
il cuore degli uomini, e in varie occasioni ha dichiarato che la pace è
l’unica via per il progresso dell’uomo, e che nulla è perduto con la pace,
tutto può esserlo con la guerra. Queste dichiarazioni che in Italia trovarono ancora orecchie attente, in Germania furono sentite con fastidio. Io, però, ero convinto che un contatto diretto tra il nostro ministro
degli esteri Ribbentrop e Pio XII avrebbe portato a qualcosa di buono.
Ne parlai con Walther Wüster, il console generale a Roma, che sapevo
amico di Ribbentrop, e insieme a Federico Stallforth, un finanziere
americano, riuscimmo a destare l’interesse del primo ministro per una
visita in Vaticano. Il Santo Padre era stato preventivamente informato
e aveva dato la sua approvazione».
«Era andato lei a chiederglielo? Io l’ho visto qui, a Castel Gandolfo,
ma non sono mai riuscito ad andargli vicino» intervenne Marco.
«Ho buoni contatti in Vaticano e il papa mi ha ricevuto diverse
volte, ma credo che non riuscirei neppure io ad avvicinarlo quando si
trova nella sua residenza estiva» lo confortò il barone. «In ogni caso»,
riprese, «la visita era stata fissata per l’undici di marzo ed eravamo pieni
di speranza. Ribbentrop giunse con un convoglio ferroviario speciale e,
appena sceso a Villa Madama, chiese di vedermi immediatamente. Lo
feci attendere un poco, poi mi presentai. Era come lo ricordavo, un vanitoso, arrogante e ignorante. Mi chiese informazioni di vario genere,
sulle quali tergiversai parecchio, e non ritenni di dovergli dare consigli
sul comportamento da tenere dinanzi al papa, per quanto il mio amico,
cubicularius papae Raiz von Frenz, mi avesse consigliato di farlo».
«Cos’è un cubicularius?» volle sapere Marco.
«Credo che in italiano si dica cubicolario. È in sostanza il cameriere
del papa. Comunque», riprese il racconto Schulenburg, «dopo l’udienza fui ricevuto dal Santo Padre, che mi informò sul comportamento
vergognoso del ministro degli esteri tedesco».
«Cos’aveva fatto?». La curiosità di Marco era accesa.
338
il
Barone
«Aveva contravvenuto a elementari regole di protocollo, che sono
importanti perché necessarie a salvaguardare la dignità del papa.
Quando, ad esempio, due persone importanti s’incontrano per discutere ufficialmente tra di loro, il protocollo vuole che si siedano
l’una di fianco all’altra. Ora, le sedie per Pio XII e per Ribbentrop
erano state poste entrambe a un solo lato della scrivania. Ma il ministro cosa fa?».
«Cosa?».
«Afferra la sedia e la piazza sull’altro lato; si siede, appoggia i gomiti
sul piano del mobile e inizia a parlare, gesticolando in faccia a Pio XII.
Gli racconta le cose più insignificanti, tocca l’argomento della Chiesa
cattolica in Germania, ma non sfiora l’argomento pace in Europa. Usa
frasi da caserma, per dire che lui e il papa troveranno il modo di intendersi. Mancava che gli desse le pacche sulla spalla».
Scoppiò una risata generale.
«Non l’ho trovato divertente allora» commentò Schulenburg.
«Quindi niente pace?» chiese Hetty, quando l’allegria si smorzò.
«No. Come saprai, la Germania ha invaso anche la Danimarca, la
Norvegia, il Belgio, l’Olanda e la Francia. E qualche idiota continua a
credere che stia solo procurando spazi vitali per il popolo tedesco».
Marianne non disse nulla e volse gli occhi sul piatto quasi vuoto.
Qualche tempo dopo, Hetty chiamò Schulenburg per comunicargli che aveva trovato un terreno idoneo a Villariccia, un comune
poco distante da loro. La casa era da costruire, ma la vigna, seppur
piccola, era in buone condizioni. Schulenburg andò subito a vedere e
l’acquistò. I lavori in muratura sarebbero stati eseguiti dal precedente
proprietario, ma ci sarebbe voluto del tempo, e Marianne premeva per
poter lasciare la città. Il barone occupava le sue giornate a Palazzo
Zuccari, dove aveva sede l’Istituto Germanico di cultura, oppure nel
suo ufficio di traduzioni in via Paolo Frisi. Amava poter disporre del
suo tempo incontrando gente, e per questo era solito organizzare incontri culturali per l’ora del tè a Palazzo Zuccari, o cene allegre in uno
dei tanti ristoranti romani, insieme a esponenti del mondo artistico
romano, tra i quali Domenico Ponzi, i pittori Carlo e Mario Toppi, gli
autori di teatro Viola, Gherardi e de Stefani. Il dopocena era spesso
in compagnia di belle signore del mondo cinematografico o teatrale.
339
Sibyl von der Schulenburg
Emma Gramatica l’aveva già conosciuta a Milano. Marianne, ovviamente, non partecipava a questi incontri; si annoiava a morte.
E poi c’erano le amicizie più intime, come quella con Diana Azzariti, che aiutavano il barone a dare un senso alla vita.
Un giorno, Schulenburg si rese conto che sua moglie soffriva troppo stando a Roma, e chiese un consiglio a Hetty. «Ah! Dongiovanni!»,
esclamò lei al telefono con un tono materno, «la conosco da tanto
tempo e so cosa si nasconde dietro a questa sua perplessità. Marianne
è tanto allegra e simpatica, forse un poco superficiale, ma non è colpa
sua. Perché non venite a stare da me intanto che si completa la costruzione della vostra casa?».
«Ne sarei davvero felice» rispose prontamente il barone, scordando
le buone maniere, che avrebbero voluto un formale rifiuto.
«Hubert è partito, e la dependance che lui occupava è libera». Una
profonda tristezza velava le ultime parole della contessa.
«Hubert?».
«Sì, il signor Lagardelle, il mio amico».
«Mi dispiace, cara amica. Sento sofferenza nella sua voce e forse
l’allegria di Marianne potrà aiutarla».
I coniugi von der Schulenburg si trasferirono ad Ariccia, ospiti di
Hetty Antonini, nella dependance di Villa Sole: una possibilità per il
barone di poter seguire da vicino i lavori della nuova casa, e di sapere
sua moglie in buone mani, quando lui era impegnato a Roma. La vita
ad Ariccia era rilassante, l’intesa coniugale ne guadagnò, e la presenza
dei ragazzi contribuì a creare un ambiente famigliare. Marco passava
parecchio tempo a parlare con Schulenburg, lo ammirava e sentiva
che quel tedesco era diverso dagli altri, da quelli che avevano bombardato l’Olanda. Aveva sentito Hubert Lagardelle dire a sua madre
di stare attenta a quel Schulenburg, che parlava troppo liberamente
per non essere un agente provocatore, ma lui sentiva che era un amico; percepiva in quell’uomo un fondo di tristezza, una nostalgia come
quella che aveva sentito lui, quando stava in collegio ad Ascona. Aveva
concluso che il barone aveva nostalgia della sua terra, della sua gente e
delle sue tradizioni. Forse anche il barone piangeva sotto le coperte, la
sera prima di dormire. Così, un giorno decise di portargli un pezzo di
340
il
Barone
Germania attraverso una rivista tedesca, che aveva visto in un’edicola
di Ariccia e, raccolti alcuni spiccioli che aveva risparmiato, scese in paese. Mezz’ora dopo risaliva frettolosamente con il suo tesoro stretto al
petto. Andò alla casetta dove abitavano i Schulenburg e trovò il barone
sotto il portico, immerso nella scrittura.
«Signor von der Schulenburg», disse col fiato corto per la corsa in
salita, «ecco!». Non seppe dire altro. Il volto raggiante fissava gli occhi
interrogativi del barone. Aprì la rivista e lesse il nome della testata,
Signal.
«Scheisse!» urlò Schulenburg, buttando lontano la rivista come se
scottasse. «Merda, Marco! Questa è merda!».
Marco, spaventato a morte, restò paralizzato. Schulenburg, pallido,
lo fissava senza effettivamente vederlo, giacché non aveva messo gli
occhiali. «Questo è un indegno bollettino di propaganda del nazismo,
un’ideologia politica che ha già fatto tanto danno alla Germania e al
mondo». Gli parlò con la severità che aveva sempre riservato ai suoi
figli, e Marco capì che c’era qualche cosa di terribile nella propaganda, qualche cosa di equiparabile alla forza distruttiva delle bombe, e
pensò a lungo a un modo per rimediare al dolore involontariamente
causato all’ospite.
Il barone gli aveva parlato spesso dei tesori italiani, dei reperti archeologici, delle antiche opere d’arte e di ogni altra testimonianza delle varie, grandi culture che avevano prosperato nella penisola italica.
«Bene», si disse Marco, «se non sono riuscito a fargli piacere con un
ricordo della sua patria, proverò con un ricordo della mia».
Tra gli oggetti che riempivano le tasche del suo amico Elio, aveva
notato una moneta consumata e fuori corso, sicuramente antica. Un
pomeriggio, durante uno dei loro soliti incontri, lo sfidò al gioco delle
biglie e gli chiese di mostrare cosa avesse da mettere in palio. Il ragazzo rovesciò il contenuto delle tasche sui gradini della villa e mise in
bella mostra i suoi tesori: biglie colorate, la catenella di un tappo da
lavandino, un soldatino di piombo che aveva perso i lineamenti del
volto, una minuscola trottola di legno, vari pezzi di ferro dalle svariate
forme e... la moneta. Marco la guardò di sottecchi, ma dimostrò più
interesse per la catenella; sapeva che quello era il pezzo a cui l’amico
teneva di più.
341
Sibyl von der Schulenburg
«Vuoi giocarti questa?».
«Potrei. Però tu devi giocarti uno dei tuoi soldatini svizzeri» rispose
Elio, sapendo bene che Marco non avrebbe rischiato tanto.
«E questa?» chiese Marco, prendendo in mano la moneta.
«Dipende da cosa ti giochi tu».
Marco osservò da vicino la moneta. Si leggeva ancora bene la scritta Juppiter Anxurus e si vedeva chiaramente l’immagine di un bambino
nudo. Che strana moneta, si disse, in genere sulle monete sono raffigurate le facce di vecchi re e condottieri. Che sia una medaglia? «Non
vale molto, se è una moneta non ci comperi niente e se è una medaglia
le manca l’asola per infilarci il nastro».
«Invece è bellissima. Cosa ti giochi tu?» insisté Elio.
«Per questo vecchio soldo che non vale nulla? Guarda», disse con
l’aria del consumato mercante di cavalli, «sono riuscito a farmi dare
questa rivista tedesca da gente che conosco. È nuova e piena di fotografie interessanti di carri armati e fucili. Però se non t’interessa la
rivendo facilmente a qualcuno, magari al barone».
«Va bene, va bene» si affrettò ad accettare l’amico. E giocarono.
Vinsero una partita a testa.
«Che bella!» esclamò Schulenburg, quando Marco gli porse la moneta vinta poco prima. «Molto ben conservata!». Rigirò tra le mani il
dischetto metallico, cercando di carpire le sensazioni che emanava, la
bellezza e la testimonianza del passato.
«Ho pensato che le avrebbe fatto piacere avere un ricordo dell’Italia
antica» disse il ragazzo, arrossendo lievemente per la soddisfazione di
aver destato l’interesse del tedesco.
«È una moneta dedicata a Giove bambino. Sai chi era?» chiese il
barone.
«So chi era Giove».
«Giove era figlio di Rea Silvia e di Saturno. Il padre aveva la brutta
abitudine di mangiarsi i figli e per questo Rea Silvia, per salvare il piccolo Giove, lo affidò in gran segreto ad un’ancella. La ragazza lo portò
in una caverna sull’isola di Creta, dove fu accudito amorevolmente
dalle ninfe e gli fu dato da bere il latte della capra Amaltea, e poi fu
nutrito con il miele che le api producevano solo per lui, con l’ambrosia
342
il
Barone
che gli veniva portata dalle colombe e con una bevanda dolcissima
riservata agli dei, che gli veniva portata da un’aquila».
«Allora è quello della statua che ho visto alla galleria Borghese!».
«Sì, è una statua del Bernini. C’è anche un tempio a Terracina a
lui dedicato». Schulenburg non aveva smesso un attimo di toccare la
moneta. Gli ricordava la sua piccola collezione di monete, che aveva
quando incontrò D’Annunzio in Sicilia. Tanto tempo prima. «Grazie
ancora, Marco. La terrò sempre con me come portafortuna».
Marco era raggiante. Si voltò per tornare alla villa, poi, come preso
da un pensiero improvviso, si fermò e si rivolse di nuovo al barone:
«Potrebbe essere che Elio venga a offrirle di acquistare un numero di
Signal. Non si arrabbi. Sa, lui non capisce il tedesco e non sente radio
Londra».
La semplice casetta di Schulenburg nella vigna sulle colline romane
fu finalmente pronta, e lui volle inaugurarla con una festa campestre,
come quelle che aveva conosciuto nel sud dell’Italia: tanto cibo, tanto
vino e tanta gente. Si fece fotografare nella sua nuova vigna accanto
a Eddo, il figlio di Hetty. Erano allegri, nella forma isterica tipica dei
tempi di guerra, quando il silenzio tra una cannonata e l’altra fa di
nuovo credere che ci sarà un futuro. Eppure, era stato firmato da poco
il patto «Roberto» tra Italia, Germania e Giappone e tra un brindisi e
l’altro se ne discuteva.
Schulenburg aveva finalmente trovato il posto dove avrebbe potuto
trascorrere la sua vecchiaia. Ad ampliare la casa ci avrebbe pensato
più avanti. Intanto aveva una sua abitazione campestre sotto il caldo sole italiano. Lui trascorreva la maggior parte del tempo a Roma,
Marianne invece stava perlopiù a Vallericcia, ma non ci mise molto a
decidere che in fondo le mancava il trambusto di Roma. Di tornare
in Germania non se ne parlava neppure; le notizie che giungevano di
là erano terribili. Il barone aveva sempre accesso al settore culturale
dell’ambasciata tedesca, e lì carpiva informazioni sull’andamento della
guerra dal punto di vista dei tedeschi. Hitler e la sua organizzazione
continuavano a predicare una sicura vittoria, il popolo era totalmente
plagiato, mentre per gli ebrei era giunto il momento di andarsene.
Un giorno di aprile, dopo aver saputo dell’invasione della Jugosla343
Sibyl von der Schulenburg
via e della Grecia da parte dei tedeschi, Schulenburg si trovò a camminare per le vie di Roma senza una meta. Rifletteva sulla necessità di
rafforzare una certa resistenza che si era creata in Germania, e di cui
aveva conosciuto alcuni esponenti. Non credeva più a un accordo di
pace con l’aiuto del Vaticano o di Mussolini. Era in contatto costante
con i cugini Friedrich Werner, ambasciatore a Mosca, e Fritz Dietlof,
responsabile della polizia di Berlino. Entrambi erano contrari al nazismo ed entrambi ritenevano di dover continuare a rischiare, restando
all’interno del sistema per avere l’occasione di rovesciare ogni cosa. Ma
l’occasione propizia tardava a prestarsi.
Rifletteva anche sui mezzi di sostentamento che gli provenivano
dai compensi per le sue traduzioni. Aveva tradotto e preparato per il
teatro tedesco opere di Guglielmo Zorzi e di Corrado Alvaro; sarebbe uscita anche la versione italiana di un suo romanzo ambientato in
Lombardia col titolo Terra sotto l’arcobaleno, edito da Garzanti con
una prefazione di Alessandro Pavolini. La pubblicazione e diffusione
delle sue opere era sempre vietata in Germania, ma il divieto non riguardava le traduzioni.
Senza accorgersene, si trovò dinanzi al Pantheon, un edificio che
Schulenburg riteneva molto significativo, in quanto l’unico costruito
in origine come tempio dedicato a tutti gli dei e poi trasformato nel
settimo secolo, senza soluzione di continuità, in luogo di culto cattolico con il nome di Santa Maria ad martyres. Sole, Luna, Venere, Saturno, Giove, Mercurio e Marte, le divinità dedicatarie di quel tempio
avevano ceduto il tempio a Cristo, che non aveva chiesto distruzioni o
anche solo modifiche. I romani lo chiamavano La Ritonna.
Il barone mise in tasca la mano e toccò la moneta ricevuta in dono
da Marco. Sorrise, era ancora lì.
Oltrepassò le colonne del pronao ed entrò nel tempio cristiano, col
rispetto che, da buon protestante, gli era stato insegnato. Si sedette su
una panca e godette della frescura e del silenzio. I pensieri tornarono
alla necessità di fare qualche cosa per la pace, ma oltre al continuo dichiarare apertamente il suo disprezzo per Hitler e il nazismo, non sapeva cosa fare. Il numero dei nemici continuava ad aumentare. Aveva
saputo che all’ambasciata si diceva che la sua cultura e le sue capacità
andavano sfruttate, ma poi si doveva cospargerlo di benzina e dargli
344
il
Barone
fuoco. Pavolini lo aveva invitato a essere prudente e qualche motivo
l’avrà avuto.
Si alzò per uscire, ringraziò la Madonna per l’opportunità di poter
vivere in Italia, e si girò di colpo verso il grande portone centrale, andando a cozzare contro un anziano fedele che passava alle sue spalle.
«Schulenburg!». La voce tonante di Nicola Bombacci echeggiò tra
nicchie e marmi, affievolendosi presto in un lieve sussurro, come una
folata di vento improvvisa.
«Signor Bombacci! Cosa può portare un uomo come lei in un tempio cristiano?».
«Lo chiederei a lei!» rispose ridendo l’editore della rivista Verità,
senza peraltro sentire l’esigenza di abbassare il tono della voce.
«Le chiese sono per me un luogo in cui ritrovare me stesso. Non
importa a quale culto sono dedicate, sono luoghi carichi di stimoli
energetici, nelle quali posso rivoltare l’anima, mi permetta il banale
paragone, come un calzino per controllare che non sia bucato nel fondo. In questi tempi ne sento molto l’esigenza».
«Sempre filosofo lei, barone. Io invece sono entrato per riposare un
attimo» spiegò il vecchio comunista.
«Il Pantheon è certamente un luogo adatto per riposare; c’è chi qui
riposa per sempre» commentò il tedesco.
«Per me è soprattutto un luogo di pace». Una dichiarazione che
forse scaturiva dalle riflessioni di Bombacci sulla guerra in Grecia. La
Germania aveva rispettato il patto, e l’Italia era sempre più obbligata.
«Se solo il Duce vi potesse presto trovare la pace!» disse Schulenburg, indicando una nicchia vuota di fronte all’ingresso.
Bombacci sollevò sorpreso lo sguardo. Scrutò l’uomo con attenzione. «Non stimate più il Duce?».
«Proprio perché lo stimo!».
Il vecchio fissò il tedesco. Lo sguardo s’illuminò e rispose: «Lei ha
ragione! Ha ragione!».
L’ultimo contatto personale di Schulenburg con Mussolini avvenne per caso qualche tempo dopo. Era giunto a Roma Robert
Ley, il massimo dirigente del «nuovo sindacato verticale» che, col
pretesto di una maggiore produttività, aveva eliminato con ferocia
345
Sibyl von der Schulenburg
tutti gli altri sindacati. In Germania era conosciuto con l’appellativo
«lo sbronzo del Reich» e, vista l’infatuazione platonica della moglie
Inga per Hitler, qualcuno pensava che il motivo dell’alcolismo fosse
quello.
Era, dunque, giunto a Roma convinto che anche la città eterna
avesse meritato di godere almeno una volta della sua presenza. Fu
annunciato un discorso che sarebbe stato tenuto dal nazista in una
tipografia davanti a un pubblico di simpatizzanti italiani e tedeschi.
A Schulenburg fu chiesto di raccogliere stenograficamente il discorso
per poi tradurlo e presentarlo al Duce. Il barone ricordava sempre con
un brivido uno dei passaggi più noti di un discorso di Ley: «Io su questa terra credo solamente in Adolf Hitler. Credo in un Dio supremo
che mi creò e che mi guida, e credo fermamente che Adolf Hitler ci
sia stato inviato da questo Dio supremo».
Schulenburg, incuriosito, si prestò volentieri al compito di segretario per il Duce e, con una stenografa del suo ufficio, prese posto nel
locale poco affollato. Ley giunse in ritardo, sorretto da due uomini che
ebbero un bel daffare a issare quel peso morto su una macchina tipografica, dall’alto della quale egli avrebbe potuto inneggiare a Hitler.
«È nella vigna del Signore» disse una voce in perfetto italiano alle
spalle di Schulenburg.
«No», rispose qualcuno con forte accento tedesco, «da noi si dice
che è un’altra volta ubriaco fradicio».
La risata generale che seguì diede il via al clima per così dire goliardico che caratterizzò il discorso di Ley, una vera goduria per chi
non avesse il compito di tradurlo. Il gerarca nazista, in divisa da parata,
rappresentava agli astanti un modello di spirito tedesco commisto con
lo spirito molto etilico del soggetto. Era abbracciato a una canna del
macchinario e berciava: «Noi tutti... sì, io ho... che io sia giunto dopo
Tom». Ogni tanto si fermava per riprender fiato e sorridere amorevolmente alla canna.
«Legatelo all’albero maestro, non vedete che cade?» disse l’italiano
dietro a Schulenburg.
«Non interrompetelo! Sono pensieri profondi!» rispose di nuovo la
voce con l’accento germanico.
Ma non era facile interrompere Ley. Col berretto che gli era sci346
il
Barone
volato tra collo e colletto, continuava a sorridere e declamare: «... è
certo... poiché l’energia concentrata... Potete essere certi, compagni del
Reich, è così...».
Mezz’ora dopo la voce italiana commentò rassegnata: «Sta surclassando non poco i pensieri di Mynheer van Peperkorn nella Montagna
incantata di Thomas Man».
Schulenburg avrebbe voluto ribattere alla dotta osservazione, ma
l’immagazzinamento delle assurdità recitate dal nazista lo teneva
troppo occupato.
In quel mentre, Ley concludeva trionfante: «... avanti con il Führer... io sarò, voi sarete...». Un conato di vomito convinse i suoi assistenti a tirarlo giù dalla macchina, sulla quale l’avevano issato.
Un’ora dopo la fine del discorso, Schulenburg aveva la trascrizione
della versione stenografata sulla sua scrivania e ne valutava pensieroso il risultato. «Cosa devo fare?» si chiese. «Non posso mandare
questo demente ciangottio al Duce, non possiamo renderci ridicoli
davanti con lui». Ci pensò un po’, preso dal senso del dovere verso
chi gli aveva conferito l’incarico e dall’esigenza di salvaguardare in
qualche modo l’onore germanico. Alla fine decise: avrebbe scritto un
nuovo discorso.
Chiamò una segretaria e le dettò un discorso bello, chiaro, lineare
e trasparente che una mente italiana avrebbe apprezzato. Lo lesse e
rilesse, poi, con un vago senso di colpa lo inviò a palazzo Venezia la
sera stessa. Ma non si sentiva tranquillo. Pensava all’eventualità che un
inviato del Duce avesse assistito all’esibizione etilica di Ley e l’avesse
registrata con un microfono nascosto; di casi del genere si sentiva parlare spesso di quei tempi. Scacciò l’idea e si disse che era diventata una
fissazione, quella dei microfoni. La gente oramai credeva che ci fossero
microfoni ovunque!
La mattina successiva, nel suo ufficio, ricevette una chiamata: «Resti in linea per favore», gli disse una cordiale voce maschile all’altro
capo, «qui è il gabinetto del capo di governo».
Dopo qualche secondo, sentì la voce a lui ben conosciuta: «Qui è
Mussolini. Caro barone, la ringrazio per la sua superba traduzione del
discorso di Ley. La lingua tedesca è davvero particolare. Quanto suona
diversa quando è scritta da quand’è parlata! La ringrazio».
347
Sibyl von der Schulenburg
Schulenburg si accarezzò il cranio pelato. Le farfalle che aveva sentito nello stomaco erano diventate un uragano. Non fu pronto a rispondere, ma non fu necessario: il Duce aveva riagganciato.
Rimase seduto immobile dietro la scrivania con la testa rossa e gli
occhi fissi sulla foto che il Duce gli aveva regalato con la dedica «traduttore non traditore», mentre sulle sue labbra si fece strada la preghiera da tavola del fanciullo tedesco:
«Dio abbia vicino il nostro Führer,
Dio abbia vicino Robert Ley.
Röhm ormai l’ha già avuto
Dio li abbia tutt’e tre».
348
il
Barone
XXIII
La fine della guerra vide Schulenburg stremato.
Più tardi di sé dirà: «Ero ridotto come Gandhi, rintanato
nell’angolo della stanza a vomitare bile in attesa della morte».
395
Sibyl von der Schulenburg
Dedica di De Pisis.
396
il
Barone
La nebbia di dicembre avvolgeva palazzi e canali. La notte calava
presto in quel mese, ma il freddo era sopportabile, soprattutto per un
tedesco che aveva conosciuto climi ben peggiori. Schulenburg, avvolto
in un’ampia e calda mantella dell’aviazione militare, uscì a passo spedito dal Danieli e s’incamminò verso San Barnaba. Rifletteva sull’opportunità avuta da Koester e ricordava il viaggio lungo e faticoso da Roma
a Venezia, via Verona. Aveva portato con sé poche cose, soprattutto il
manoscritto con la biografia del Feldmaresciallo e le trascrizioni dei
documenti scovati negli archivi in Germania e in Italia, che gli sarebbero serviti per continuare il romanzo biografico. Non voleva dire a
nessuno dove si trovava, solo a Erna e naturalmente a Diana che lo
avrebbe raggiunto a giorni, sistemandosi in un piccolo albergo non
lontano dal Danieli.
Attraversò vari ponti e s’infilò in strette calli tendendo l’orecchio.
Si sentiva relativamente al sicuro; conosceva bene la città, sapeva dove
nascondersi e come sfuggire a eventuali inseguitori; parlava abbastanza l’italiano e, a differenza della maggior parte dei tedeschi, sapeva
interagire con la popolazione italiana senza suscitare diffidenza. Dopo
tanti anni, ancora non era riuscito a perdere quell’accento da crucco
che spesso era stato motivo di divertimento presso gli amici italiani,
ma era comunque riuscito ad apprendere la lingua meglio del tedesco
medio; era anche riuscito ad accettare la monotona cucina veneziana,
cosa che al Danieli gli aviatori non erano riusciti a fare. Al buon tedesco prima o poi mancano le salsicce.
La ricorrenza era particolare: la notte di Natale. Un amico pittore
l’aveva invitato nel suo atelier per mangiare qualcosa insieme; era riuscito a procurarsi non si sa come del fegato d’oca e del vino di Borgogna. Allungò il passo, attraversò il ponte dell’Accademia e poco dopo
si trovò in Campo San Barnaba.
Schulenburg bussò discretamente al portone di legno umido, e dopo
poco l’amico gli aprì: «Schulenburg! Benvenuto nella tana dell’imbrattatele!». Filippo De Pisis accolse l’amico con entusiasmo. Avevano
trascorso insieme diverse ore allegre a Roma, ma poi si erano persi di
vista. Ora si erano ritrovati in mezzo ai canali. «Entri, e si cerchi un
posto dove mettersi comodo».
397
Sibyl von der Schulenburg
Schulenburg chinò un poco il capo per non batterlo sullo stipite
basso, e si trovò in un piccolo locale pieno di fumo che però non copriva l’odore di olio di lino ed essenza di trementina. Ovunque c’erano quadri accatastati; l’unico tavolo era ingombro di fogli coperti di
schizzi a carboncino e a matita; sul cavalletto troneggiava un dipinto:
un vaso di fiori.
Due uomini erano seduti su delle sedie instabili; guardarono incuriositi il nuovo arrivato, poi salutarono con un rapido «Bonsoir!».
De Pisis mise la testa fuori della porta e, dopo aver guardato la
strada a destra e a sinistra, chiuse con due giri di chiave. «I miei amici
da Parigi» disse poi, rivolto a Schulenburg. «Sono riusciti a portarmi
del fois gras che spero sia ancora buono. Non si fermano con noi, sono
stati invitati a mangiare le sarde e dell’ottimo baccalà mantecato dai
colleghi veneziani». Trovò la battuta divertente e rise di gusto.
Due ore dopo Schulenburg e De Pisis sedevano uno di fronte all’altro al tavolo sgomberato dai fogli e imbandito con diverse pietanze
ricercate, tra cui appunto il fois gras che aveva apparentemente ben superato il lungo viaggio. In quei giorni, comunque, non si andava molto
per il sottile: un po’ di colorazione verde non spaventava più di tanto.
Filippo aveva suggerito di restare nello studio, anziché spostarsi nel
suo palazzetto di Campo San Sebastiano: gli sembrava più intimo.
I due uomini mangiarono lentamente e con gusto, bevvero il vino di
Borgogna che a entrambi ricordò Parigi. Schulenburg pensò ai giorni
in cui avrebbe voluto raggiungervi Margherita, ma ormai era molto
più lontana, in Sudamerica. La conversazione si incentrò dapprima sul
Guardi, il pittore al quale Filippo si ispirava, e poi inevitabilmente si
andò a parlare di Mussolini.
«Da settembre è oramai un vassallo di Hitler. Non mi dà l’impressione di esserci tutto con la testa» disse il pittore.
«A me piace ricordarlo in tempi diversi. Ora, per esempio, mi torna
alla mente quando, sulla sua piccola Alfa Romeo rossa, andò su fino
a Bressanone per ricevere anche là gli omaggi tributati dalla popolazione, per poi confessare di malumore: “Ho accolto solo l’applauso
dei fascisti, non quello degli altoatesini”». Schulenburg imitò la parlata dura del Duce, ma l’accento tedesco la rese estremamente comica,
provocando una risata di Filippo che tossì per il vino che gli era andato
398
il
Barone
per traverso. «Forse ora farà lo stesso con i tedeschi» fece il pittore,
quando poté di nuovo respirare.
«A Bressanone, quando mi riconobbe tra il pubblico, con un gesto
di rabbia piegò dall’altra parte la grossa testa protetta dal berretto rosso con l’aquila d’oro. In quel momento lo disturbava la presenza del
tedesco. Erano i tempi in cui passò dal suo modo di giudicare limpido
e chiaro, il mondo della limpidezza, alle cupe nebbie del fanatismo
cesareo, i giorni in cui credeva di aver trasformato con i suoi discorsi
l’amato popolino nel popolo degli antichi romani e, nonostante gli
avvertimenti di donna Margherita, affascinato dall’esempio di Cesare,
si avventurò in Africa».
«Avrebbe dovuto ascoltarla invece. Ricordo la Sarfatti molto bene;
una donna intelligente e anche di lunghe vedute. Ho lavorato con lei
per il Novecento a Milano e poi l’ho ritrovata qualche volta a Parigi».
Filippo De Pisis fissò lo sguardo sul quadro rimasto sul cavalletto.
«Ma noi uomini duri non amiamo ascoltar le donne...». Sorrise della
sua battuta. Non aveva mai fatto mistero della sua preferenza per gli
uomini.
«Mussolini riconobbe ben presto il suo errore» proseguì il barone.
«Però si era ammalato di storicismo, cedendo a modelli inopportuni: Cesare, Napoleone, Cavour. Sarebbe stato certamente in grado di
comprendere che circostanze diverse portano a risultati diversi, che
l’epoca di Mussolini non poteva essere quella di Cesare, Napoleone
o Cavour. Ma la sua volontà si rivelò instabile, fissandosi per giunta
su un obiettivo troppo alto. Non si accorse che i suoi mezzi non erano sufficienti all’impresa. Quando si trovò nel bisogno, si rivolse allo
strozzino del nord che prima o poi lo avrebbe strangolato».
«Pare che lei l’abbia conosciuto bene. È davvero così ambivalente
come alcuni dicono?».
«Durezza e bontà si combattono in quest’uomo. Alla fine, nell’uomo
stanco prevale la durezza che però il più delle volte manca il bersaglio
e degenera in vanagloria istrionica. Ma talora il muro della durezza
cade e per qualche attimo s’intravvede la luce del genio. Agli inizi ha
fatto moltissimo per gli italiani. Ha amato e conosciuto il sacro suolo
della patria. Ha amato ma non ha conosciuto il suo popolo. Così ha
condotto la sua gente alla rovina». Il barone si rese conto di aver final399
Sibyl von der Schulenburg
mente formulato il pensiero che da tempo aveva in mente: Mussolini
è finito e l’Italia è persa, insieme alla Germania. Lo colse una profonda
tristezza.
Il pittore alzò il bicchiere: «Suvvia, caro barone, stanotte si festeggia
una nascita, quella del nostro Salvatore!».
Schulenburg prese il suo calice e lo alzò in direzione dell’amico: «È
vero. Questa è una ricorrenza di gioia, l’inizio della vita, non la fine».
Bevve un lungo sorso di forte rosso di Borgogna.
«Per questa ricorrenza voglio farle due doni che le ricorderanno
la nostra amicizia». De Pisis si alzò e prese il quadro dal cavalletto:
«Questo l’ho appena firmato, come vede è siglato S.B. che sta per San
Barnaba». Lo porse al tedesco e soggiunse: «E desidero anche regalarle una copia delle mie poesie, alle quali ora aggiungerò una dedica».
Schulenburg accettò i doni con particolare gratitudine. Amava i
dipinti di De Pisis. In tempi migliori ne aveva acquistati alcuni, e ora,
proprio a Venezia, dove l’antenato Schulenburg era noto per essere
stato un grande mecenate di pittori, tra i quali Piazzetta e Guardi, lui,
oramai povero, riceveva in dono un quadro da quel pittore.
La mattina presto, le campane di Venezia annunciavano la nascita
del Salvatore e, nella sua stanza al Danieli, Schulenburg attendeva alla
stesura della biografia del Maresciallo. Stava studiando il succedersi
cronologico dei vari dogi di Venezia e il parallelo tra doge e Duce
lo riportò al colloquio con De Pisis. Rilesse le parole che, colto da
improvvisa ispirazione, aveva scritto prima della mezzanotte, immaginando che il doge parlasse al Duce:
«Vivi oltre te stesso. La sacra fiaccola della morte calò troppo tardi
sul tuo capo.
“Vivi pericolosamente!”. Un motto per avventurieri e pensatori.
Ma nel fascino del rischio non si può governare, caro amico.
Governare significa sentire la forza, guidarla possibilmente con
saggezza, in modo da apparire l’esecutore della volontà del popolo.
Hai certamente appreso tanto, ma molte cose non si possono imparare: ciò che si concentra nel sangue per costrizione centenaria.
Non hai mai conosciuto il tuo popolo. Gli fosti troppo vicino e
troppo lontano.
Troppo l’hai amato. E per questo ti causò la morte».
400
il
Barone
Si chiese perché la previsione della morte di Mussolini e perché
l’idea che a ucciderlo potesse essere il suo popolo. Probabilmente aveva in mente una morte politica, ma egli non poteva negare la sensazione che presto per Mussolini sarebbe finita comunque.
Una calda sera della tarda primavera veneziana, Schulenburg era
ospite in uno dei grandi salotti culturali della laguna. Appoggiato
alla balaustra di una loggia con vista sui canali, ricordava alcuni
versi che Rilke aveva scritto per l’amica Pia di Valmarana negli
anni venti:
«Si la langue ne tout vous retien,
si un peu de moi se précise,
rendez à l’air de Venise
un peu de mon coeur vénitien».
La donna, alla quale i versi poetici erano stati dedicati molti anni
prima, sorrise e guardò l’amico di vecchia data: «Lo sento il suo cuore
veneziano, caro amico, e lo hanno colto anche tutti coloro che hanno
letto la sua bella guida di Venezia».
«Oh quella!» esclamò il barone, sorpreso che il libretto avesse trovato credito presso i veneziani. «Quella è una guida per i soldati
tedeschi in visita in questa splendida città. Un libretto semplice, che
vuol solo dare qualche informazione sulla storia e la cultura di Venezia; nulla di speciale».
«Oh sì, invece. È speciale; è scritto da qualcuno che ama e conosce
Venezia». La contessa di Valmarana accarezzò con lo sguardo le acque
della laguna, poi alzò gli occhi verso l’amico: «Ho sentito che al piano
nobile discuteva animatamente con gli ospiti e, come sempre, esponeva con franchezza la sua opinione».
«Mi è stato chiesto un parere, quasi una previsione su quello che
accadrà ai due dittatori e io ho risposto che prima toccherà a Mussolini, e poi a Hitler. Niente di più». Schulenburg ripensò attentamente a quanto aveva detto in quella cerchia di nobili veneziani, ma
non ricordò altro che potesse essere importante. Ricordò lo sguardo
indispettito della contessa Emo, ma era risaputo che la signora fosse
filonazista.
«Le raccomando prudenza, caro amico». Pia respirò a pieni pol401
Sibyl von der Schulenburg
moni l’aria pregna degli odori della laguna. «Ha motivi particolari per
giungere a quella previsione?».
«L’ultimo viaggio a Verona mi ha riportato a incontrare vecchi
amici, dei quali non desidero fare i nomi, che mi hanno informato
sulla vita attuale del Duce. Pare che giochi molto con i nipoti». Il
barone sorrise all’idea di Mussolini che giocava con i nipotini come
un qualsiasi nonno. «La sua libertà di movimento è molto limitata;
le SS gli hanno affiancato il professor Prinzig, il galantuomo che mi
aveva sottratto la rivista Italien per farne un organo di partito. Credo
che Prinzig abbia il compito di ‘educare’ il Duce alla loro ideologia; lo
controllano in ogni cosa che fa, ne censurano anche gli articoli. Senza
l’autorizzazione dell’ambasciata tedesca, Mussolini non può apporre il
suo nome neppure nelle dediche sulle sue fotografie».
«È per questo che lei ritiene che la sua fine sia vicina?».
«Anche. Mi ha inviato una sua foto che lo ritrae di profilo con un
gesto di commiato. È solo siglata “M” con l’aggiunta della data. È una
foto commovente: un enorme antropoide mortalmente ammalato, la
mandibola spinta in avanti con un effetto grottesco e gli occhi colmi
di una tristezza che si direbbe di un comune animale. E nonostante
tutto, su quella distorsione del superuomo di Nietzsche aleggia un velo
di autentica tragicità umana».
«Comunque vada, lei avrà sempre degli amici nella nobiltà veneziana, la quale non ha scordato che all’inizio del Settecento il nome
di Schulenburg fu annoverato tra quello dei patrizi». La contessa di
Valmarana sembrò davvero preoccupata.
Pochi giorni dopo, il barone fu fatto chiamare da Koester. «C’è stata
una segnalazione che l’accusa di disfattismo» esordì il console dopo
aver chiuso la porta. Schulenburg non seppe cosa rispondere; forse gli
sembrò strano che nessuna segnalazione fosse stata fatta prima e non
poté ricordarsi di aver recentemente detto o fatto qualche cosa di più
compromettente del solito. «Cosa avrei fatto?» chiese allegramente al
console.
«Se fossi in lei mi preoccuperei» rispose severamente Koester.
«Si riferisce che lei abbia detto che prima morirà Mussolini e poi
Hitler».
402
il
Barone
Schulenburg tornò mentalmente a quel circolo di nobili nel palazzo sul canale e all’esortazione alla prudenza di Pia di Valmarana.
«Perché», disse mantenendo il sorriso, «qualcuno si preoccupa della
mia preveggenza?».
«Schulenburg, lei sa che la sua posizione qui è precaria. La Gestapo
si era momentaneamente scordata di lei e grazie al caos che regna nelle forze armate poteva ritenersi abbastanza al sicuro qui in laguna. Le
comunicazioni tra i vari uffici, di qualsiasi tipo, sono confuse e questo
lasciava ben sperare».
«Chi è stato?» chiese il barone.
«La contessa Emo» rispose rapidamente il console come se ciò non
fosse importante. «Ora deve partire, Schulenburg, si nasconda, se può
in una delle cliniche dove esercitano suoi amici, oppure in un paesino agreste dove neppure sanno cosa sia una radio. Posso darle ancora
qualche giorno e trovarle un passaggio su un’auto di collegamento. In
quale direzione intende andare?».
Schulenburg non rifletté neppure un istante: «A nord».
«Bene, domani mattina all’alba parte l’auto di collegamento per
Udine».
«La ringrazio, console. Sarò pronto all’alba».
L’aria frizzante di una Venezia dormiente avvolse il barone che scivolava lungo le calli, portando due valigie e uno zaino. Aveva già salutato tutti la sera precedente; gli avevano offerto ospitalità e nascondigli
nei palazzi sul Canal grande e nelle ville lungo il Brenta. Ma lui aveva
rifiutato: non aveva mai messo in pericolo la vita degli altri per salvare
la sua, non poteva accettare.
Era andato a salutare l’amica Pia nel suo laboratorio di pizzi, e
anche lei aveva offerto aiuto e rifugio: «Non può andarsene così, senza
aver terminato il libro sul Feldmaresciallo» cercò di convincerlo.
«Ho giusto finito in questi giorni la raccolta delle informazioni che
mi servono per la biografia. Il mio antenato ha potuto restare, io devo
partire. Ma tornerò un giorno, quando tutto sarà finito e la mia previsione sul destino di quei due uomini di Stato si sarà avverata». Sorrise,
pensando a quanto facile fosse prevedere la fine dei due regimi con gli
alleati che risalivano lo stivale.
403
Sibyl von der Schulenburg
«Ha già avvertito sua moglie?».
«Marianne». Il barone sospirò: «Mi hanno riferito che si è innamorata di un ufficiale tedesco e ha seguito la sua divisione. Ho già
inoltrato richiesta di divorzio».
«Mi dispiace».
«Non importa, ha solo ferito il mio onore, non il mio cuore».
E si mise in strada. Camminava a testa bassa per bilanciare il peso
dello zaino che conteneva i suoi preziosi manoscritti, il suo passaporto,
un lasciapassare di Koester che per qualche giorno poteva servire e i
pochi soldi che aveva. Guardava i disegni fatti a terra dai bambini, le
griglie che servivano per giocare a inferno e paradiso. Pensò a quanto
fossero agili e svelti i bambini cresciuti nelle calli, dove, se vuoi correre
almeno un po’, ti devi abituare a scansare in continuazione i passanti.
Non c’erano campi dove correre liberamente. Crescere a Venezia significava abituarsi agli spazi ristretti, alle limitazioni poste dall’acqua.
Gli vennero alla memoria tanti ricordi, momenti felici vissuti tra i
canali e i ponti della laguna, e sapeva che avrebbe avuto sempre nostalgia del senso di protezione che essi davano a chi li conosceva e
rispettava. Si ricordò anche dei primi tentativi di ritrovare la strada tra
le calli e i campielli, quando, fidando solo sul suo senso d’orientamento, andava a finire immancabilmente in un vicolo cieco addosso a un
muro o su una riva senza ponte.
Rivide la Salute, bianca e fremente nell’aria mattutina; fissò
quell’immagine nei suoi occhi accanto alle molte altre raccolte nel
corso della vita e allungò il passo fino a piazzale Roma.
Salì sul camion militare col cuore pesante. Il grande ponte che collegava la laguna alla terraferma passò sotto le ruote del veicolo troppo
in fretta. Mestre si presentò nella luce del sole oramai sorto e, come
sempre, a confronto con Venezia, sembrava solo l’anticamera sgraziata
di un immenso e meraviglioso museo d’arte.
Il giovane autista era taciturno e riservato; sapeva che a bordo aveva
un personaggio affidatogli dal console e che avrebbe dovuto lasciarlo
alle porte di Udine. Nulla di più.
Schulenburg era grato a Koester per avergli dato la possibilità di
lasciare Venezia tempestivamente e tutto sommato comodamente. A
sessantatré anni non era facile mettersi lo zaino in spalla e ripartire da
404
il
Barone
zero, senza una fissa dimora, senza una famiglia e senza mezzi. A Roma
restava qualche sua proprietà, ma non si faceva illusioni: Marianne sarebbe riuscita a dissipare tutto e, se anche avesse avanzato qualche cosa,
sarebbe sparito nelle fauci mostruose della guerra. Si preoccupò per i
dipendenti lasciati nell’ufficio di Roma: la contessa Rességuier, nata
Scherrischeff, un’ebrea di Vienna, per assumere la quale aveva dovuto
combattere a lungo con l’ambasciata; Franz Schutzmann, ebreo, un
personaggio che non sempre aveva dimostrato carattere; la signorina
Malfair, che dava l’impressione di controllare ogni cosa; Erna Kraft,
che aveva voluto venire in Italia a luglio del ’42 per raggiungere il padre
di suo figlio e che divenne la sua persona di fiducia. Diana Azzariti,
anche lei semi ebrea, che era diventata la sua amante e compagna con
la massima discrezione, sempre vicini ma mai ufficialmente insieme,
era partita per Bad Gastein con la promessa di andarlo a prendere con
l’auto non appena avesse oltrepassato il confine.
Mise in tasca la mano sinistra, frugò un attimo e le dita strofinarono lentamente la moneta che aveva ricevuto da Marco Antonini. Ora
la fortuna gli sarebbe servita.
Il cuore aveva dato segni di cedimento; sentiva una forte pressione
toracica, giramenti di testa, debolezza. Non avrebbe potuto permettersi di ammalarsi prima di arrivare da Diana, che gli aveva promesso
rifugio nella casetta di sua proprietà.
Il giovane milite lo lasciò sul ciglio della strada prima di Udine.
«Non entri in città», si era sentito di suggerire a quell’uomo anziano
e stanco, che gli ricordava tanto il padre rimasto in Germania. «Se
vuole oltrepassare il confine, vada a Tarvisio e lì troverà sicuramente
qualcuno che per pochi soldi l’aiuterà a passare dall’altra parte. Buona
fortuna».
Tarvisio. E come ci sarebbe arrivato, se doveva evitare stazioni e
strade principali?
Il caldo cominciava a farsi sentire, l’estate si avvicinava a grandi passi. Aveva sempre detto che chi non conosceva l’estate italiana
non conosceva l’Italia, ma in quel momento avrebbe voluto godere la
frescura delle foreste tedesche. Afferrò a fatica le sue valigie, sistemò
con uno scossone lo zaino sulle spalle e si diresse a nord est, sperando di trovare un mezzo di trasporto. Quando il sole fu a picco, sentì
405
Sibyl von der Schulenburg
la pressione sul torace farsi più forte, il braccio sinistro gli doleva, il
fiato era corto e la vista annebbiata. Si fermò all’ombra di un albero e
si lasciò cadere sull’erba. Sentì il battito cardiaco farsi frenetico, una
morsa al cuore e poi perse i sensi, forse si addormentò. Quando si
risvegliò, il sole stava tramontando e accanto a lui sedeva una donna
vestita come le contadine locali, un fazzoletto in testa e i piedi sporchi in un paio di zoccoli. Gli sorrise. «Tutto bene?» chiese come se si
conoscessero da tempo.
«Non sono sicuro». Schulenburg impiegò qualche minuto per riavere piena coscienza. Si ricordò del perché era lì, sentì un lieve dolore
al torace, ma si rese conto che la pressione si era allentata. Si mise a sedere e guardò con attenzione la donna. Era molto anziana, la pelle era
bruna e cadeva in pieghe armoniche dagli zigomi sporgenti, mentre gli
occhi scuri, incorniciati da mille rughe, erano però giovani e attenti.
La donna si scostò una ciocca di capelli bianchi che erano sfuggiti
al fazzoletto e sorrise di nuovo lasciando vedere i denti ingialliti intervallati da spazi vuoti. «Figliolo, eri qui sull’erba, bianco e col fiato
grosso» disse. «Ho pensato che stavi davvero male».
Schulenburg la guardò con simpatia e ricambiò il sorriso. «Non sto
molto bene, il cuore mi dà problemi». Poco distante vide un carretto
di legno colmo di fascine di legna del sottobosco, fiori ed erbe varie.
Fece scorrere lo sguardo in ogni direzione. Si sentiva stanco e incapace
di respirare a fondo; si alzò, ma un giramento di testa lo costrinse di
nuovo sull’erba.
La donna guardò il bagaglio e chiese con semplicità: «Stai cercando di evitare i tedeschi?».
«Mi piacerebbe non doverli incontrare», rispose lui con lo stesso
tono, «abbiamo poco in comune».
«Dall’accento non avrei detto», commentò l’anziana contadina.
«Hai bisogno di riposo e di cure». Si alzò con un’agilità inaspettata e
si diresse verso il carretto, ne estrasse un ampio cappello di paglia che
porse al barone. «Metti in testa questo, figliolo, e reggiti al carretto. Ti
porto a casa mia». Senza attendere risposta, la donna caricò rapidamente i bagagli di Schulenburg sotto fiori e fascine, nascondendoli a
occhi indiscreti.
406
il
Barone
Chi si fosse trovato su quella strada secondaria a nord di Udine,
avrebbe visto una vecchia contadina tra le stanghe di un carretto e
dietro, attaccato alla sponda, un uomo barcollante sotto un ampio cappello di paglia. Probabilmente il figlio, demente o ubriaco.
All’altezza di una Madonnina collocata nel cavo di una quercia,
svoltarono in un viottolo di campagna segnato dalle ruote dei carri,
e poco più in là si fermarono davanti a una capanna nascosta in una
macchia verde di piante e arbusti. La donna staccò il tedesco dal carretto e lo portò quasi di peso in casa, lo adagiò su un giaciglio e lasciò
che si addormentasse. Poi accese il fuoco, mise a bollire dell’acqua,
selezionò alcune erbe da una serie di vasi in bella vista su una mensola
e, recitando una strana litania, preparò un decotto. Un gatto tigrato
appollaiato su una sedia traballante la osservava strizzando gli occhi.
Schulenburg fu risvegliato dal rumoroso cinguettare di una colonia
di uccelli che annunciava l’arrivo del sole. Aprì gli occhi cercando di
capire dov’era, ma non ricordava nulla dopo l’incontro con la vecchia
contadina. Si trovava in un grande locale di legno, in cui l’ordine e la
pulizia regnavano sovrani. Due pareti erano occupate da librerie piene
di volumi apparentemente antichi e di vasi di varie misure contenenti
chissà che cosa; il resto dell’arredamento era dato dal giaciglio di paglia sul quale si trovava lui, un tavolo con due sedie, un vecchio armadio, una cucina a legna e una madia. Richiuse gli occhi e la mente gli
presentò le immagini e le sensazioni dei sogni fatti. Incubi.
«Buongiorno». La voce delicata lo colse di sorpresa.
«Buongiorno. Evidentemente mi sono addormentato, ma ora sto
meglio» rispose mettendosi lentamente a sedere.
«Sono due giorni che dormi e vaneggi; ti sentirai un po’ fiacco, ma
passerà in fretta».
«Due giorni?».
«Sì, due giorni e tre notti. Ti ho dato dei decotti per aiutare il tuo
cuore a ritrovare la forza e il ritmo, il sonno ha fatto il resto».
«Non mi sono neppure presentato e lei mi ha curato e nascosto».
Schulenburg si sentiva in debito con quella donna che, a giudicare
dalla sua abitazione, non poteva essere una semplice contadina.
«A che serve un nome? È un suono cosmico che segna un destino.
407
Sibyl von der Schulenburg
Se lo si pronuncia, risuona fino alle stelle e può sortire strani echi». La
vecchia sorrise e continuò: «Preferisco i suoni comuni, figliolo, quelli
che nel mondo terreno definiscono chi ho di fronte. E poi, di questi
tempi è più sicuro; se domani i crucchi mi chiedessero chi c’era con
me, direi: “un figliolo”».
Schulenburg rise tanto forte da spaventare il gatto, che infilò la
porta. «E come può fidarsi di me che sono tedesco, nonna?».
«Mi hai raccontato tanto di te in due giorni! Sai, ci sono erbe che
salvano il cuore, ma hanno qualche effetto collaterale sulla lingua». Gli
occhi neri della vecchia brillarono divertiti, puntati in quelli del barone
interdetto. «Hai raccontato storie di paesi che non ho mai visto, hai
inveito contro la tua stessa razza e hai fatto tanti nomi. Uno solo di
essi, però, mi ha colpito per il modo in cui ne parlavi».
«Donna o uomo?».
«Bestia». Lo sguardo della vecchia divenne freddo e la voce dura.
«Da queste parti è meglio neanche nominarlo, ha causato troppa sofferenza. E, grazie a lui, ora abbiamo in casa i crucchi che ci ammazzano i ragazzi».
«E come ho parlato di questa bestia?» chiese Schulenburg.
«Con un misto di stima, comprensione e pietà. Attento, barone»
continuò la donna ponendo l’accento sul titolo nobiliare perché il tedesco potesse capire che lei sapeva, «la nostra terra è antifascista, le
montagne pullulano di uomini che ti taglierebbero la gola per molto
meno».
«Stima, comprensione e pietà». Schulenburg cercò gli occhi neri e li
trovò di nuovo tranquilli. «Ma l’ho anche giustificato?».
«No. È per questo che sei ancora vivo».
Dopo una colazione a base di pane e latte di capra, Schulenburg
chiese indicazioni per raggiungere il confine con l’Austria.
«Qualche chilometro più avanti c’è un paese, Tricesimo. Lì ti aspetta il Ciccio, che ti darà uno strappo fino a Tolmezzo».
«Il Ciccio?». Schulenburg abbassò involontariamente lo sguardo
sulla sua pancia che, nonostante la guerra, si era mantenuta prominente.
«Sì. Non è abbastanza agile per arrampicarsi sulle montagne e al408
il
Barone
lora lo tengono dietro al volante a fare da autista. Ti consegnerà a
certi ragazzi che conoscono i valichi più comodi per farti arrivare in
Austria».
«Di chi stiamo parlando?». Schulenburg era disorientato e preoccupato. Dal primo di ottobre dell’anno precedente tutta l’area faceva parte
della Zona di operazioni litorale adriatico, totalmente in mano tedesca,
e le strade principali erano piene di truppe naziste. Aveva sentito parlare di partigiani, che però erano divisi in cattolici e comunisti.
«Mentre tu dormivi e chiacchieravi, sono venuti il Gufo e lo Stambecco a farmi visita. Hanno voluto indagare sul tuo conto e hanno
deciso che potevano aiutarti. Non posso dirti altro».
«E come faranno a farmi passare il confine?».
«Figliolo, da quelle montagne sono arrivati gli Unni e i Longobardi.
Riusciranno bene a farci passare un crucco!». La risata della vecchia
fece vibrare le rughe del suo viso. Non sapeva che di lì a poco per quegli stessi valichi sarebbero passati anche i cosacchi.
Amaltea. L’avrebbe ricordata come Amaltea, la capra che salvò la
vita a Giove fanciullo. Figliolo l’aveva chiamato, e lui non aveva avuto
obiezioni. Prima di partire gli diede due vecchie valigie: «Come credi di passare inosservato con quelle tue valigie da barone?» gli disse
gentilmente. E mentre lui a fatica traslava il contenuto da un bagaglio
all’altro, si rese conto che qualcuno vi aveva frugato: le indagini di
Gufo e Stambecco.
L’aveva accompagnato col carretto fino al paese e aiutato a caricare
il bagaglio sul furgone, mentre lui debolmente si opponeva con un «La
prego madame, ci penso io!» che non sortì alcun effetto. Il barone, che
un tempo risplendeva sui palchi della bella vita delle capitali europee,
si accomodò accanto alla mole sudaticcia e maleodorante di Ciccio, riuscendo a reprimere i commenti salaci che si affacciavano alla mente.
«Grazie» disse alla donna che lo guardava attraverso l’intelaiatura del finestrino che aveva perduto il vetro. Non gli venne in mente
null’altro da dire razionalmente e le parole che gli sgorgavano dal cuore erano tutte in tedesco. «Danke».
Lei alzò la mano destra con tre dita morbidamente sollevate, come
per benedirlo.
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Sibyl von der Schulenburg
Il viaggio fino a Tolmezzo fu tranquillo. I tedeschi non avevano
interesse a fermare un vecchio furgone con un grassone e un anziano
sporco e scapigliato a bordo. Con le limitazioni di carburante in atto,
era ovvio si trattasse di un mezzo addetto alle consegne di generi di
conforto per gli ufficiali del Comando militare tedesco di zona. Il loro
compito era quello di tenere la strada tra Tarvisio e Udine sgombra da
partigiani che potevano organizzare attentati.
In vista del paese, Schulenburg pensò a Mussolini che lì fu maestro
elementare quasi quarant’anni prima. Quanta strada aveva fatto! Ripensò a tutti i suoi incontri col Duce, all’uomo che era stato prima che
il potere annebbiasse la sua mente, prima che la sua stessa creatura gli
si rivoltasse contro. Amaltea aveva detto che aveva parlato di lui nel
sonno indotto dalle droghe; chissà se aveva espresso tutto il suo rammarico per la fine nel fango di un’anima, della quale aveva percepito la
grandezza. E Margherita, avrà parlato anche di lei?
Il Ciccio lo accompagnò fino a un borgo ben più su di Tolmezzo,
quattro case di sassi e una chiesetta di montagna. Sul sagrato erboso
il veicolo si fermò e l’autista suonò il clacson. Uscì di corsa un giovane prete con la cotta svolazzante, non fece domande e afferrò le due
valigie del tedesco per poi dirigersi a passo spedito verso l’ingresso di
quella che poteva essere la casa parrocchiale. Schulenburg ringraziò
brevemente Ciccio e seguì barcollando la sagoma nera che portava il
suo bagaglio.
Chiusa la solida porta dietro di sé, l’uomo di chiesa si rivolse
all’ospite: «Verranno a prenderla alle prime luci dell’alba e l’accompagneranno oltre confine. Nel frattempo potrà riposare e mangiare
qualche cosa».
Schulenburg aveva mille domande in testa, ma i suoi pensieri erano
ancora annebbiati e la debolezza lo fece desistere dal chiedere informazioni. «La ringrazio, padre» riuscì a dire. «Non so chi siano le persone che mi vogliono aiutare, ma vorrei sdebitarmi almeno in parte.
Crede che accetteranno del denaro?».
«La causa ha sempre bisogno di mezzi terreni». Il giovane prete
sorrise e fece entrare il barone in un piccolo locale fresco, arredato con
un tavolino, una sedia e un lettino. «Si riposi» raccomandò al tedesco
che aveva l’aria davvero provata. «Più tardi le porterò da mangiare».
410
il
Barone
Schulenburg non provò neppure a chiedere il nome o a presentarsi.
Aveva imparato che c’erano occasioni in cui l’etichetta non si applicava.
«Ma va là mona!». Le voci all’esterno svegliarono Schulenburg.
Aveva dormito a lungo e si sentiva un po’ meglio. La porta si aprì ed
entrò il giovane che l’aveva accolto la sera prima. Era in abiti civili e
lo pregò di prepararsi in fretta; avrebbe fatto colazione più tardi. Il
barone prese il suo bagaglio, lasciò dei soldi sul tavolo e uscì.
La notte andava dileguandosi nelle prime luci del giorno, quando i
tre, il tedesco e due ragazzoni dall’accento friulano, presero il cammino attraverso i boschi, per poi arrivare, più in alto, agli storici sentieri
percorsi dagli alpini nella prima guerra mondiale. A un certo punto il
barone, stanco e anche inebetito per le frequenti somministrazioni di
grappa con cui si volle sostenerlo, fu lasciato a dormire sotto l’enorme
corona di una quercia che affondava le sue radici in terreno austriaco.
Quando si svegliò, la vista del ramo di quercia gli portò alla memoria
una sua dichiarazione giovanile, quando diceva che la quercia non poteva essere il simbolo della nazione germanica perché dava solo frutti
piccolissimi che servivano esclusivamente a sfamare i porci. Crescendo, aveva imparato che il ramo di quercia rappresentava per i romani
virtù, forza, coraggio, dignità e perseveranza e aveva compreso perché
il suo commento aveva fatto ridere Bismarck. Si mise a sedere e i suoi
occhi gioirono alla splendida vista di un paesello dai lindi contorni.
Faceva buio, ormai, quando il barone bussò all’unico alberghetto
della zona, in cerca di un letto e di un telefono.
Diana andò a prenderlo e lo portò nella sua casa a Badgastein.
Lentamente Schulenburg si riprese. Rimase sempre in contatto con
i cugini Friedrich Werner e Fritz Dietlof e gli altri cospiratori contro
il regime di Hitler. I medici gli diagnosticarono una grave affezione
cardiaca e i segni di un recente infarto, ma Schulenburg non si lasciò
piegare. Poi arrivò il venti luglio 1944, l’undicesimo anniversario del
concordato tra la Santa Sede e la Germania. Quella sera il barone era
al ristorante, e sentì la radio che annunciava la morte di Hitler in seguito a un attentato. «Grazie a Dio!» gridò Schulenburg. Poi, rendendosi conto che in un locale attiguo soggiornava la moglie del governatore del distretto, si affrettò a soggiungere: «Grazie a Dio, ci è rimasto
Himmler!». La notizia era errata, l’attentato c’era stato, ma Hitler non
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Sibyl von der Schulenburg
era morto, e neppure era rimasto ferito. Nel giro di qualche giorno la
vendetta del Führer calò terribile su molte persone, tra le quali vari
amici e conoscenti di Schulenburg. Il giorno dopo l’attentato fu arrestato il cugino Fritz Dietlof e più tardi Friedrich Werner. Entrambi
dovettero morire col cappio al collo, quali cospiratori nell’attentato
‘Valchiria’.
Il barone non vide altra possibilità che fuggire ancora e nascondersi
tra le montagne bavaresi. Mentre i nazisti lo cercavano attivamente
anche per radio, gli amici lo aiutarono a trasferirsi di baita in baita,
sempre in movimento, scendendo qualche volta a valle solo per una
doccia o un pasto caldo presso l’amico dottor Heinrich Spörl il quale,
giurista, scrittore e antinazista, condivideva con Schulenburg anche
l’innato umorismo. Restò a lungo in clandestinità, sopravvivendo a
stento e pagando con la propria salute.
La fine della guerra vide Schulenburg stremato. Più tardi di sé dirà:
«Ero ridotto come Gandhi, rintanato nell’angolo della stanza a vomitare bile in attesa della morte». Ma scampò ancora una volta.
Nel dopoguerra, il tribunale per i risarcimenti – Landgericht
München I, 4. Entschädigungskammer AZ.EK 10189/53 - con sentenza del dicembre 1955 ha dichiarato Werner von der Schulenburg
quale perseguitato dal regime nazista, ha riconosciuto la sua grave
affezione cardiaca quale conseguenza di tale persecuzione, gli ha riconosciuto un risarcimento danni, il rimborso medico per ogni tipo
di cura e un vitalizio.
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