Œdipus Rex 2 Il Giornale dei Grandi Eventi Intervista con il direttore Zoltan Pesko e lo scenografo Luigi Squarzina Per l’Edipo, il coro nella buca e mimi in scena P er la quinta volta torna al Costanzi l’Œdipus Rex di Igor Strawinskij, opera-oratorio in due atti su testo di Jean Cocteau, dalla omonima tragedia di Sofocle. L’opera, prevista nel cartellone del Costanzi della stagione inaugurale del 1928, quale novità assoluta per l’Italia e diretta dall’autore, ma mai realizzata, ebbe la prima rappresentazione romana il 19 febbraio 1964, sotto la bacchetta di Antàl Dorati, con le scene e i costumi del grande scultore Giacomo Manzù e la regia di uno fra i maggiori registi teatrali italiani, Luigi Squarzina, che oggi ripropone - a distanza di quarant’anni lo stesso storico allestimento. Seguirà, dello stesso autore, L’’Uccello di Fuoco, racconto coreografico di Michel Fokine, la cui prima italiana si tenne al Costanzi nel 1917. La direzione musicale in questa serata Stravinskji è affidata alla prestigiosa bacchetta del maestro ungherese Zoltan Pesko. D. - Maestro Pesko, sotto l’aspetto musicale quali Le Repliche Mercoledì 6 aprile, 20.30 Giovedì 7 aprile, 20.30 Venerdì 8 aprile, 20.30 Sabato 9 aprile, 18.00 Domenica 10 aprile, 17.00 novità presenta questa edizione di Œdipus? «Rispetto alle scorse edizioni il cast è di tutt’altro livello. Una volta – almeno in Italia i cantanti che si occupavano della musica contemporanea, erano generalmente buoni comprimari con una discreta sicurezza nel solfeggio. Oggi infine, dal punto di vista tecnico, le voci - soprattutto quella del protagonista - sono costantemente portate sul “passaggio”. E’ la prima volta che dirigo Œdipus Rex, mentre ho già diretto ampiamente il resto del repertorio strawiskiano, come per Uccello di Fuoco, immagine. Tuttavia aveva un talento colto, modernissimo. Pur essendo un comunista sfegatato, in quel periodo stava lavorando alle porte di S. Pietro ed era molto ispirato, anche da un punto di vista spirituale. Fu un rapporto simpaticissimo, del resto, con i grandi artisti ci si trova che affronto per la ventesima volta circa. L’Œdipus Rex del 1964, che io ebbi l’occasione di vedere di persona, è tra i cinque spettacoli lirici a me rimasti in tutta la vita maggiormente impressi; sono stato quindi felice di trovare finalmente nel Teatro dell’Opera un teatro interessato alla programmazione di quest’opera-oratorio. Per quanto riguarda la partitura di Uccello di Fuoco, mi sono basato esclusivamente sulla prima edizione, del 1909, a parte alcune battute dell’inizio che sono state integrate con la seconda edizione del 1919». Luigi Squarzina, come abbiamo detto, firma anche oggi la regia di questo spettacolo su scene disegnate dallo scultore Giacomo Manzù. D. - Maestro Squarzina, un ricordo personale dell’uomo Giacomo Manzù? «Manzù era un “contadino di genio”. Portava sempre il cappello in testa, come i contadini. Lui teneva a questa subito d’accordo, ti vengono incontro su tutto e non hanno remore, proprio perché sicuri del fatto loro». D. - Come avvenne il suo incontro con Manzù e come si svolse il vostro lavoro? «L’incontro tra me e Manzù avvenne grazie all’idea del sovrintendente del Teatro dell’Opera di allora, Massimo Bogiankinoi che mi propose di rendere per la prima volta quest’opera-oratorio uno spettacolo, con la collaborazione di Giacomo Manzù, che allora non aveva ancora lavorato per il teatro. Subito Manzù dimostrò di avere una grande predisposizione anche per la scenografia: cominciò con il disegnare il grande emiciclo, con il podio e la scala. Io gli chiesi di aggiungere altri elementi e lui disegnò e realizzò con le sue mani la sedia con l’elmo, la quale ricorda che la vicenda dell’eroe non finisce con l’Edipo Re, ma prosegue come in letteratura. La sedia, tipico elemento di Manzù, Zoltan Pesko e Luigi Squarzina invece abbiamo un cast eccezionale che spazia dal repertorio più classico, italiano e tedesco, alla musica contemporanea. Questo lo si deve soprattutto all’interesse delle nuove generazioni di cantanti per la musica contemporanea. Del resto, Œdipus è un’opera non facile per le voci: innanzitutto, le tessiture multi-tonali richiedono ai cantanti una pronta capacità di intonazione; le difficili fioriture, che sono molto diverse dal repertorio tradizionale; Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Le fotografie sono realizzate in digitale con fotocamera Kodak DC290 era infatti da lui chiamata “ l’unica eredità di casa mia”. Avevo ancora bisogno di un idolo arcaico e lo scultore per il grande elemento centrale si ispirò alla Bocca della Verità. Pensai che per fare lo spettacolo, il coro avrebbe dovuto muoversi, ma poichè il coro è fatto principalmente per cantare, mi venne l’idea di nascondere il coro nella buca e di mettere al suo posto, in palcoscenico, dei mimi. Da allora molti hanno ripreso quest’idea, ma nel ‘64 questo apparve quasi come u n o ” s c a n d a l o ” . Nell’allestimento, volutamente non c’è nulla di preciso o di esplicito: le figure fanno parte della grande scultura della scena, in perenne movimento, che si articola, si fa e si disfa, senza raccontare realisticamente la vicenda. Tra le variazioni rispetto alla produzione del ‘64, devo ricordare l’inserimento delle guardie e il maggior risalto dato al ruolo delle otto minacciose presenze sacerdotali, che sembrano conoscere già tutto fin dall’inizio e che rappresentano il destino: “coloro che ci sorvegliano al di là della morte”». D. - Ricordiamo anche la grande qualità del testo di Jean Cocteau… «Esattamente, un testo formidabile che fu tradotto dal cardinale Jean Daniélou, grande teologo francese, in un latino molto antico, preciceroniano dalla pronuncia francesizzata. Il Cardinale suggerì anche l’idea di far annunciare al coro il suicidio di Giocasta: un fatto così terribile doveva essere affidato a una forza superiore alla voce del singolo messaggero. Il coro anticipa sempre gli altri personaggi nella comprensione degli eventi. L’ultimo a capire è sempre Edipo. Ho cercato di rendere, attraverso la mia regia, la lenta presa di coscienza del protagonista, punito dagli Dèi per il suo sconfinato orgoglio». Andrea Cionci Il Giornale dei Grandi Eventi ~~ Œdipus Rex - L’Uccello di Fuoco 3 La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 5 – 10 aprile 2005 L’UCCELLO DI FUOCO Racconto coreografico in due quadri di Michel Fokine Musica di Igor Stravinskij Maestro concertatore e Direttore d’Orchestra Zoltan Pesko ORCHESTRA, CORO E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento dell’Opera Nazionale Lettone Coreografia Ricostruzione coreografica Scene e costumi ricostruiti sui bozzetti originali di da Disegno luci Uccello di Fuoco Principe Principessa Castchey – Il Mago Michel Fokine Andris Liepa Alexander Golovin e Lèon Bakst Anna e Anatoly Nezhny Bruno Monopoli Personaggi / Interpreti Irma Nioradze / Gaia Straccamore (6, 8, 10/4) Mario Marozzi / Igor Yebra (6, 8, 10/4) Laura Comi / Gaia Straccamore (7, 9/4) Manuel Paruccini / Mauro Murri (6, 8, 10/4) Trama Œdipus Rex N el corso della rappresentazione un testo di Cocteau è letto da un annunciatore a commento dell’azione, mentre attori e coro rimangono quasi immobili ATTO PRIMO - Nella piazza di Tebe la folla chiede con angoscia ad Edipo di salvare la città dalla peste, così come in precedenza l’aveva liberata dalla Sfinge e dal suo pericoloso quesito. L’oracolo, dice Creonte, sostiene che la città è colpevole di ospitare l’uccisore del vecchio re Laio. Visto che ogni ricerca dell’assassino è vana, Edipo manda a chiamare il veggente cieco Tiresia. Il loro confronto si trasforma in aspro dissidio: Tiresia, provocato nell’amor proprio, dichiara che l’assassino del re è il re. Edipo è infuriato credendo in una congiura contro di lui. Intanto un coro esultante saluta l’ingresso di Giocasta. ATTO SECONDO – Giocasta rimprovera al marito Edipo di urlare nel mezzo di una città malata. Giocasta cerca di rassicurare il consorte, sostenendo che non c’è da fidarsi degli oracoli; anche di Laio, dice, predissero che sarebbe stato ucciso dal figlio ed invece morì ad un trivio della strada per mano di un forestiero. Mentre il coro ripete ossessivamente la parola “trivium”, Edipo comincia a dubitare, ricordando come egli stesso, prima di arrivare a Tebe, avesse ucciso ad un trivio un vecchio che lo aveva provocato. In un duetto agitato i due coniugi esprimono la loro ansia crescente. La tragedia precipita su Edipo: un messaggero porta da Corinto la notizia della morte di Polibio, rivelando allo stesso tempo ad Edipo che in realtà egli era solo un figlio adottivo del Re deceduto. Infine, le parole del vecchio pastore non lasciano più dubbi ad Edipo sull’atroce e dura verità: senza saperlo egli ha ucciso il padre e si è congiunto con la madre. Il messaggero dà notizia della tragica fine di Giocasta che si è tolta la vita, mentre il coro rende omaggio all’infelice destino dell’autoaccecato Edipo. Serata Stravinskji con Œdipus Rex ed Uccello di fuoco C ome nel recente, ultimo appuntamento (fuori abbonamento), dedicato a Mascagni, il Teatro dell’Opera propone un’altra serata a tema sul compositore russo Igor Stravinkji. Due titoli molto suggestivi, l’opera-oratorio Edipo Re ed il balletto L’Uccello di fuoco. Il primo, che si avvale del libretto di Jean Cocteau, sarà proposto in lingua originale, ovvero quel latino voluto dallo stesso Stravinkji per accentuare l’arcaicità dell’azione, donando monumentalità all’antichissima tragedia che vede l’uomo Edipo impotente di fronte alla profezia dell’oracolo. Le scene ed i costumi sono quelli disegnati dallo scultore Giacomo Manzù per l’allestimento del 1964, mentre la regia è affidata ad un nome di spicco della cinematografia come Luigi Squarzina. Secondo titolo della serata L’Uccello di fuoco, racconto coreografico in due quadri di Michel Fokine, tratto da varie fiabe russe, la cui prima italiana si tenne proprio al Teatro Costanzi il 9 aprile 1917, rappresentata dalla famosa compagnia dei Balletti Russi di Diaghilev. La direzione d’orchestra di questa serata è affidata all’ottima bacchetta del maestro ungherese Zoltan Pesko. Editoriale Un restyling per il decennale U na esperienza lunga dieci anni. Era l’aprile del 1995 quando uscì il primo numero de Il Giornale dei Grandi Eventi, per la passione che univa alcuni di noi nei confronti dell’equitazione e del melodramma. Il debutto del giornale, infatti, avvenne in occasione del Concorso Ippico Internazionale di Piazza di Siena. Il tutto nacque dal disagio che in tutti noi c’era, di trovare sui quotidiani una informazione che, per quanto ampia, si presentava sempre troppo limitata per il grande appassionato, per lo specialista che non si accontentava di notizie necessariamente superficiali, ma avrebbe voluto saperne di più senza attendere un mese per leggere resoconti ormai lontani sulle riviste di settore. L’idea fu quindi quella di creare, in spirito un po’ “eroico”, un giornale che rispondesse a quello che a noi mancava e che quindi – peccando forse di presunzione - anche all’altro pubblico sarebbe stato gradito. In più – e fummo tra i primi ad intuirlo – la pubblicazione doveva essere gratuita, sostenuta dalla sola pubblicità (e qui mi sento di dover ringraziare la Dott.sa Isabella Tosato e l’amico Alessandro Di Giacomo che cedettero in noi). Il pericolo, però, era che un giornale gratuito venisse sottovalutato, scambiato per un semplice volantino. Nacque così la formula che ha poi contraddistinto la pubblicazione in tutti questi anni: un giornale agile ma approfondito, che sapesse scavare in modo autorevole, variegato ed anche curioso, tutti gli aspetti di una manifestazione, con articoli di lunghezza contenuta in modo tale da non scoraggiarne la lettura. Insomma un giornale che, senza perdere i contenuti, potesse – e possa - essere letto nei tempi morti, quando la concentrazione è destinata ad essere spezzata dal vicino che magri chiede di passare. Adottammo così una delle regole base del giornalismo, che ci veniva ripetuta agli esordi della professione: tutto quello che è riportato in venti pagine può essere benissimo detto in venti righe! Quell’anno capitò poi che in luglio Piazza di Siena ospitasse la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, orfana di Caracalla. L’amore per la lirica ci portò a provare ad adattare la formula all’Opera, trovando anche la simpatia dell’allora soprintendente Vidusso. L’intento era quello di fornire al pubblico uno strumento per apprezzare al meglio l’opera lirica, che rimane una delle forme d’arte più complete, ma che per la sua complessità necessita di un approfondimento a tutto tondo su ambientazione, personaggi, cantanti e musicisti. Da quell’estate sono passate stagioni dopo stagioni. In tutto questo tempo abbiamo sempre cercato di accontentare il pubblico, di incuriosirlo e - attraverso i vari collaboratori qualificatissimi – di guidarlo per mano nella migliore comprensione possibile del singolo titolo. In occasione di questi dieci anni abbiamo anche deciso un piccolo restyling della testata, come omaggio al pubblico che ci gratifica con continui elogi e dimostrazioni di apprezzamento. Un restyling affidato al grafico Alessandro Spagnoli, che ha interessato la sola copertina, visto il gradimento del pubblico nei confronti di una grafica interna volutamente sobria e lineare. Siamo orgogliosi osservare ogni sera la quasi totalità della platea leggere con attenzione il giornale durante gli intervalli ed anche del fatto che gli spettatori lo vogliano collezionare. Desiderando, dunque, ringraziarVi per il sostegno morale che ci avete fornito in tutti questi anni, sperando da parte nostra di offrirVi un giornale che sia all’altezza delle Vostre aspettative. Andrea Marini Il Giornale dei Grandi Eventi Œdipus Rex Brigitte Pinter e Marta Moretto John Uhlenhopp Giocasta, madre e moglie di Edipo Edipo, semidio “figlio della Fortuna” e vittima del Fato I l personaggio di Giocasta avrà la voce di due mezzosoprano: Brigitte Pinter (5, 7, 8, 10 aprile) e Marta Moretto (6, 9 aprile). Brigitte Pinter ha iniziato lo studio del canto a Vienna perfezionandosi poi a New York alla Juilliard School of Music. Nel 1994 ha vinto il concorso Belvedere di Vienna, cui è seguito nel 1995 il grande successo quale Jeanne in Die Teufel von Loudun di Penderecki. Dal 1996 ha iniziato a cantare nei più noti teatri e nelle maggiori manifestazioni internazionali: dalla Carnegie Hall di New York, al Salzburger Festspielen, alla Staatsoper di Amburgo e quella di Stoccarda, per continuare con la Musikverein di Vienna, la Filarmonica di Colonia, la Konzerthaus di Vienna. Ha anche cantato a Monaco, Francoforte e Zurigo. In Italia si è esibita a Cagliari, Brigitte Pinter Catania e Palermo. I ruoli da lei interpretati hanno privilegiato la musica tedesca e il repertorio moderno e contemporaneo. Marta Moretto si è diplomata in Canto presso il Conservatorio Cesare Pollini di Padova, perfezionandosi successivamente con corsi e seminari sulla tecnica vocale e interpretazione operistica e cameristica. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti artistici e premi internazionali e il suo debutto risale al 1990 nel ruolo di Maddalena in Rigoletto a Città del Messico. Nel 1991 è stata Santuzza in Cavalleria Rusticana a Lucca. Si è poi esibita nei maggiori titoli verdiani (Aida, Ballo in maschera, Nabucco, Rigoletto, Trovatore), pucciniani (Madama Butterfly, Suor Angelica, Gianni Schicchi) e wagneriani (Lohengrin), ma anche in lavori di Busoni (Arlecchino), Britten (The rape of Lucrezia) e Kurt Weill (Ascesa e caduta della città di Mahagonny). Nel 1994 ha debuttato al Teatro La Fenice di Venezia con l’opera Turandot di Busoni, produzione premiata con il Premio Abbiati. Ha cantato nei maggiori teatri del mondo, ma i suoi impegni includono anche un’intensa attività concertistica, che riserva particolare attenzione al repertorio liederistico. L a voce di Edipo sarà quella del tenore d’oltreoceano John Uhlenhopp, nato a Rochester, nel Minnesota e cresciuto a Bogotà in Colombia. I suoi debutti statunitensi includono anche il ruolo di Alfredo nella Traviata, di Ismaele nel Nabucco, di Arturo nella Lucia di Lammermoor, di Don José nella Carmen di Bizet, rappresentati su palcoscenici del livello dell’Opera di Seattle, di Cincinnati, del Metropolitan e della Carnegie Hall di New York. Vincitore di importanti premi internazionali, da New York a Vienna, ha calcato i palcoscenici europei di Londra, Düsseldorf, Lucerna, Oslo, ma il suo debutto in Europa risale al 1995 in Pelléas et Mélisande di Debussy, seguito dal ruolo di Tom Rakewell in The John Uhlenhopp Rake’s Progress di Stravinsky e quello di Tamino per Die Zauberflöte. Le sue apparizioni sono state anche in manifestazioni concertistiche. I suoi impegni futuri includono il ruolo di Hoffmann in Les contes d’Hoffmann per l’Opera di Seattle, quello di Eléazar in La Juive per La Fenice di Venezia e quello di Tristano per il Teatro Regio di Torino. Michail Ryssov Tiresia, l’indovino non creduto Alessandro Guerzoni Creonte, cognato infedele ambizioso di potere I 5 l baritono che darà la voce a Creonte è il pescarese Alessandro Guerzoni, diplomato in canto col massimo dei voti, lode e menzione d’onore al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Finalista e vincitore di importanti concorsi internazionali (Viotti di Vercelli, Riccardo Zandonai di Rovereto, Umberto Giordano di Foggia, T.I.M. di Roma, Pavarotti International di Modena, Belvedere di Vienna e Mozarteum di Salisburgo), ha esordito nel 1993 al Teatro La Fenice di Venezia nella Bohème. In campo concertistico è stato ospite di prestigiosi enti e festival internazionali e il suo repertorio spazia da Monteverdi a Rossini, da Haydn, a Händel, Purcell, Mozart, Gounod, Bellini, Verdi, Puccini, Prokofiev, Wolf-Ferrari, Martinu, fino ai Lieder di Brahms, Schubert e Alessandro Guerzoni Mahler. Ha preso parte alla produzione di Don Giovanni diretta da Claudio Abbado (regìa di Peter Brook) ad Aix-Provence, ripresa a Stockholm, Lyon, Milano, Bruxelles e Tokyo e ha recentemente debuttato nella Traviata al Maggio Musicale Fiorentino e in Le siège de Corinthe al Rossini Opera Festival. Canta nel cast stabile del Bühnen der Stadt Köln e si è esibito a Roma nella Messa da Requiem di Mozart all’Accademia di Santa Cecilia e in Semiramide al Teatro dell’Opera. I l basso che interpreta Tiresia è Michail Ryssov, nato in Crimea nell’ex Unione Sovietica e laureatosi al Conservatorio di Minsk. Perfezionatosi al Teatro alla Scala, ha vinto concorsi internazionali tra cui il Toti dal Monte di Treviso. Dal 1990 ha iniziato a collaborare con l’Arena di Verona dove ha cantato nei più importanti ruoli verdiani: il Re e Ramphis (Aida), Zaccaria (Nabucco), Sparafucile (Rigoletto) e Padre Guardiano (La forza del destino). E’ stato poi Eugenio Onieghin alla Fenice di Venezia, il Grande Inquisitore nel Don Carlo alla Deutsche Oper di Duesseldorf e Filippo II alla Swedish Royal Opera di Stoccolma, Ramfis nell’Aida a Reykjavik, Banco (Macbeth) e Timur nella Turandot al Bellini di Catania e Procida ne I vespri siciliani a St. Gallen. La sua attività concertistica Michail Ryssova valorizza il repertorio del Novecento: L’enfance de Christ (Berlioz), Le Renard (Stravinskij), Divara (Azio Corghi), Stabat mater (Szymanowski) e la Messa Glasgolitica (Janacek). Presente nei cartelloni dei più importanti teatri e festival di tutto il mondo, canterà ancora all’opera di Roma in Turandot e Aida. Pagina a cura di Stefania Soldati - Foto di Corrado Maria Falsini 6 Œdipus Rex Il Giornale dei Grandi Eventi Storia dell’opera Un linguaggio antico per un’opera moderna L ’opera-oratorio Oedipus rex è un lavoro del tutto singolare nel panorama musicale novecentesco: pur utilizzando, infatti, strumenti di linguaggio antichi per il periodo in cui fu creata, si presenta come un’opera modernissima sia rispetto al secolo in cui fu concepita, ma anche a quello in cui ci troviamo a vivere. Pensata nella forma di “opera-oratorio” in un periodo in cui l’opera stava diventando fuori Igor Stravinskij (caricatura) moda e l’oratorio non era utilizzato come forma di espressione musicale da diversi secoli, la genialità di questo lavoro va ricercata nella sua capacità di farsi specchio dell’ineluttabilità del destino dell’esistenza umana. L’Oedipus rex di Stravinskji non è, infatti, un dramma di personaggi e di passioni umane, ma quello di un uomo contro il fato: l’uomo e il suo destino, ovvero l’umanità e il mistero del vivere. Compreso questo, la staticità dei personaggi e la forza della sua musica appaiono quanto mai contestualizzate e moderne. Per utilizzare le parole del musico- logo Massimo Mila «Se al posto del fato volessimo metterci qualcos’altro come il collettivismo di una civiltà di massa, l’alienazione, la morsa in cui la tecnocrazia va serrando l’individuo, allora ecco che questo venerabile pezzo da museo potrebbe apparirci di spaventosa attualità e spiegare le ragioni della sua crescente fortuna». Musica unica protagonista L’Oedipus rex, in due atti ispirato alla tragedia di Sofocle Edipo re, fu sin dall’inizio concepita dal suo autore come un “lavoro di grandi proporzioni”: un’opera o un oratorio, il cui soggetto fosse così conosciuto da non distrarre il pubblico dalla musica che avrebbe dovuto essere la vera e unica protagonista dell’opera. Chiamato agli inizi del 1926 a Venezia per eseguire la sua Sonata per pianoforte (1925) al Festival organizzato dalla Società Internazionale di Musica Contemporanea, Stravinskji di ritorno dalla città lagunare si fermò a Genova. In una libreria acquistò il libro di Joergensen sulla vita di San Francesco D’Assisi, che gli fu d’ispirazione per il nuovo lavoro che aveva l’intenzione di creare. Dalla lettura del testo egli apprese che il Santo di Assisi nelle occasioni solenni e quando pregava, preferiva utilizzare il francese invece dell’italiano. Si convinse, dunque, che le situazioni speciali meritassero l’utilizzo di un linguaggio particolare e iniziò a pensare a quale potesse essere la lingua più adatta per la nuova opera. La scelta cadde sul latino. «Questa scelta presentava ancora il vantaggio che avrei avuto a che fare con una materia non morta, ma pietrificata, divenuta monumentale e immunizzata contro ogni trivializzazione». Libretto di Cocteau Tornato a Nizza maturò l’idea di utilizzare come soggetto uno dei miti della Grecia classica e affidò la stesura del libretto all’amico Jean Cocteau, del quale Stravinskij aveva una stima incondizionata: «possiede un eccellente senso del teatro. Sa mutuamente scambiare i valori, vedere e sentire il particolare che, in lui, assume sempre un’importanza capitale. Tale qualità si riferisce sia al modo di disporre le parti degli attori, sia ai costumi e fino ai più piccoli accessori». A Cocteau, l’idea piacque immediatamente e i due artisti iniziarono a collaborare. Al principio di novembre subirono una battuta d’arresto perché Stravinskij partì per eseguire e dirigere alcuni suoi lavori nel nord Europa. Dapprima fu a Zurigo eseguì il Concerto sotto la direzione di Volkmanr Andrete e poi a Basilea, dove fu diretto dal maestro Herman Suter. Tornò a Nizza nel mese di dicembre e durante le vacanze Théatre Sarah Bernardt di Natale attese impaziente di ricevere il materiale dall’amico drammaturgo per potersi rimettere a lavoro. All’inizio di gennaio finalmente Cocteau gli inviò le prime pagine dell’Oedipus rex, già tradotte in latino da Jean Daniélon. Stravinskij, entusiasta, si mise immediatamente a comporre. «Non avrei mai potuto augurarmi un testo così perfetto e che rispondesse meglio ad ogni mio desiderio», commenterà poi nelle Cronache della mia vita testo in cui sono raccolte notizie biografiche fino all’anno 1935 in cui fu pubblicato. La lenta composizione La composizione però fu nuovamente interrotta per un nuovo giro di concerti in Europa: Amsterdam, Rotterdam, Haarlem, Budapest, Vienna, Zagabria e infine Milano dove il composi- Sergej Diaghilev in un dipinto di Valentin Serov tore ebbe modo di incontrare Toscanini che nella stagione di primavera della Scala avrebbe dovuto dirigere le Rossignol (1914) e Petru?ka (1911). Tornato a Nizza alla fine dell’estate si rimise alacremente a lavoro. La partitura dell’Oedipus rex fu completata il 14 maggio 1927 e la prima rappresentazione ebbe luogo, in forma di concerto, il 30 maggio 1927 a Parigi al Théatre Sarah Bernhardt, sotto la direzione dello stesso Stravinskji con la compagnia dei Balletts Russes di Sergej Djagilev. La serata fu dedicata proprio a Djagilev, impresario e artista, intimo amico di Stravinskji e di Couteau, per festeggiare il suo primo ventennio di attività teatrale con la compagnia dei Ballets Russes, che tanta fortuna aveva portato a Stravinskji al tempo della creazione dell’Oiseau de feu. La prima rappresentazione in forma teatrale avvenne, però, il 23 febbraio 1928 a Vienna con la direzione di Otto Klemperer, mentre la prima italiana ebbe luogo al Teatro Comunale di Firenze il 22 maggio 1937 con la direzione di Enrico Molinari, in occasione del 3° Maggio Musicale Fiorentino. Dell’opera Stravinskji realizzò nel 1948 una nuova versione con piccolissime differenze. Claudia Capodagli Il Giornale dei Grandi Eventi Œdipus Rex 7 Analisi musicale Edipo, nel filone di opere sull’antica Grecia « … Qui (a Genova, n.d.r.) trovai per caso in una libreria, un libro di Jorgenses su San Francesco d’Assisi, opera della quale avevo già sentito parlare. Sentendola, fui colpito da un passo che confermò una convinzione profondamente radicata in me. Si sa che la lingua familiare del Santo era l’italiana. Ma nelle occasioni solenni, come la preghiera, egli faceva l’uso del francese (provenzale? Sua madre era provenzale). Ho sempre ritenuto che negli argomenti sublimi si imponesse un linguaggio speciale e non quello di tutti i giorni. Fu così che mi posi alla ricerca della lingua che sarebbe stata più adatta all’opera progettata e, finalmente, mi fermai al latino. Questa scelta presentava ancora il vantaggio che avrei avuto a che fare con una materia non morta, ma pietrificata, divenuta monumentale e immunizzata contro ogni trivializzazione». Nelle sue “Cronache della mia vita”, Stravinskij rac- F contò così la genesi di “Edipo re”, una delle sue opere più importanti e più originali, eseguita per la prima volta, non senza contrasti, nel 1927 sotto la direzione dello stesso autore. Oedipus rex appartiene, nel quadro del neoclassicismo più austero, ad un filone d’opere “greche” che impegnò l’artista russo per un buon numero d’anni. Già nel 1905, infatti, aveva scritto Il fauno e la pastorella, fra il 1926 e il 1934 avrebbe prodotto Apollon Musagete e Persephone, mentre al periodo americano risale Orfeo. La rivisitazione della classicità servì a Stravinskij per adottare uno stile musicale decisamente “controcorrente”. E se in Apollon Musagete la scelta si tradusse in un balletto dai caratteri soavemente eufonici, in Oedipus rex, il compositore si divertì a ricreare le atmosfere della tragedia greca con uno stile maestosamente oratoriale. L’amicizia con Cocteau suggerì Edipo re che aveva il vantaggio di raccontare una storia ben nota con la conseguenza di consentire agli ascoltatori di concentrarsi sui valori musicali, essenziali in questa operazione di “recupero”. Latino e francese Il testo, da Sofocle, fu dunque tradotto in latino. Ma nel prologo, pronunciato dallo speaker, la lingua utilizzata è il francese. E questo bilinguismo serviva a legare l’antichità all’attualità, con esiti davvero stimolanti. Stravinskij costruì un teatro epico spogliato dell’azione, oggettivo, con gli attori fermi come statue, in una vocalità che privilegia il declamato senza rifiutare altre soluzioni espressive. E’ il caso, ad esempio di Edipo che si esprime in uno stile melismatico di forte impatto espressivo. Il tessuto musicale, sempre rifacendosi al dettato neoclassico, si struttura nelle tradizionali forme chiuse: ci sono dunque arie, duetti e cori. Questi ultimi rivestono un ruolo fondamentale in quanto il coro, nella tradizione della tragedia classica, ha una funzione di “commento” dell’azione: si esprime in blocchi poderosi, statici, granitici. La struttura Igor Stravinskij musicale si muove su atmosfere tonali privile- di entro i quali non si avvergiando un diatonismo dal tono sostanziali modifiche, al contrario si impone una sorta sapore antico. di ritmico basso ostinato. Ritmica compassata Le voci sono sostenute da L’idea di fissità si estrinseca una vera e propria orchestra anche attraverso una ritmi- sinfonica, il che costituisce ca compassata che rinuncia, per Stravinskij quasi una se non in rari casi, a quei novità se si considera che a continui spostamenti di partire dal 1914 le sue espeaccenti e mutamenti di rienze teatrali avevano utilizfigure metriche che aveva- zato organici ridotti e sovenno segnato in maniera inci- te dal sapore timbrico partisiva la prima fase creativa colari (si pensi alle “Nozze” stravinskiana. La trama rit- accompagnate da quattro mica invece si basa su una pianoforti e percussioni). Roberto Iovino successione di lunghi perio- Il librettista u battezzato dai circoli bohémien il Principe frivolo, dall’omonimo titolo di una sua raccolta di poesie pubblicata a 21 anni, ma Jean Cocteau, amante della mondanità, della provocazione e dell’oppio, non era privo di reale talento che versò brillantemente in diverse arti: poesia, letteratura, teatro, cinema, balletto, opera e pittura. Nato a Maison-Laffitte, piccola città vicino Parigi, il 5 luglio 1889 da una famiglia alto-borghese, e, dopo una carriera scolastica mediocre, si insersce nei circoli mondani e intellettuali parigini e divenendo presto una delle figure più in vista dell’avanguardia francese nel periodo fra le due guerre mondiali. Frequenta scrittori come Rostand, Daudet, Proust e Apollinaire; successivamente si avvicina al gruppo della Nouvelle Revue Française di Gide e Copeau, ma l’incontro per lui determinante fu quello con i compositori Stravinskij, Satie, il coreografo russo Diaghilev e Picasso. Entrò in contatto con i movimenti cubista, surrealista e dadaista; con i surrealisti ebbe anche degli scontri piuttosto violenti, ma rimase uno spirito libero sempre alla ricerca di nuove forme di creatività che passarono dalla prima opera in versi scritta a soli 19 anni, La lampada di Aladino (1909) alla decorazione della cappella della Vergine nella Chiesa di Francia a Londra nel 1959. Verso la fine della Grande Guerra stringe amicizia con Satie di cui sostenne la poetica musicale che reagisce al debussismo con un ordine semplificatore, ispirato alla melodia elementare dei circhi e delle fiere. Su questa poetica si baserà l’opuscolo Le Coq et l’Arlequin (1918) e il libretto del balletto Parade (1917) con la musica di Satie, la direzione di Diaghilev e le scene di Picasso. Quest’opera parodistica e cubista provocò scandalo e movimentate polemiche. Cocteau realizzò inoltre scene e costumi di molti balletti per l’Opéra di Parigi (Phèdre 1950). Il suo primo libro importante fu Le Potomak (1919), una sorta di abile costruzio- Jean Cocteau ne intellettualistica, mentre nel 1929 pubblicò il suo romanzo più famoso, Les Enfants terribles, documento intenso e singolare della disperazione moderna. Successivamente con Le Sang d’un poète (1930) di ispirazione autobiografica approda al cinema e da questo momento teatro e cinema diventano le sue attività principali. Per il teatro tenta di modernizzare antichi miti: Orphée (1926), Antigone (1928), La Machine infernale (1934), Bacchus (1952) o analizza temi tragici del costume contemporaneo come Les Parents terribles (1938) e La voix humaine (1930). Scrive per Strawinsky il libretto dell’Oedipe roi (1927) che in seguito rielabora e diventa l’originale Machine infernale, opera che segna una svolta nella sua produzione drammatica e gli assicura una vasta popolarità. Cocteau ha il merito di essere un arguto esteta dell’intelligenza e un incredibile inventore e sperimentatore di forme che lasceranno il segno negli spettacoli di quegli anni. Durante la seconda guerra mondiale Cocteau si stabilisce lontano da Parigi, sono anni di contrasti con l’ambiente parigino e lotte con l’autorità. Dalla fine della guerra Cocteau vive tra Parigi e la Costa Azzurra e continua a scrivere libri tra cui è importante La Difficulté d’être (1947), si occupa di cinema e viaggia per diversi paesi europei dove fa delle applauditissime conversazioni. Il 3 marzo 1955 è eletto membro dell’Accadémie Française. Muore a 74 ani a Milly-la-Forêt, nei pressi di Fontainebleau, l’11 ottobre1963. Alice Calabresi Œdipus Rex 8 Il Giornale dei Grandi Eventi Nelle tragedie greche la storia del re di Tebe Edipo, un Re in cerca della verità È una delle massime figure del teatro di tutti i tempi, Edipo, simbolo di chi è in continuo pellegrinaggio, di chi lungo la strada cerca e vuole possedere a tutti costi la sua verità, pur sapendo che questa può provocare atroci sofferenze. Una verità che l’uomo vuole conoscere e comprendere, ma che non può essere cambiata, vista l’inesorabilità del destino. Ed a forza di strattoni nel tentativo di liberarsi dalle sue angosce, l’uomo si impiglia sempre di più nelle maglie della rete ed alla fine precipita nella rovina. Edipo non è però una vittima e tanto meno uno psicopatico. È invece una figura eletta, magnanima, integra; una grande personalità trasmessa dalla tradizione popolare e tramandata nei secoli dai tragediografi che raccontarono la saga tebana, ed in particolare nell’Edipo Re e nell’Edipo a Colono di Sofocle, rappresentato postumo nel 401 a.C. Una figura positiva, che da oltre 2400 anni permette agli spettatori di uscire dal teatro con un sentimento di sollievo, nonostante la tragedia. L’origine del mito All’origine del mito di Edipo c’è una verità divina. L’oracolo di Apollo a Delfi aveva infatti predetto al Re di Tebe Laio che il figlio nato dalla sua unione con la moglie Giocasta avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la madre. Fu così che, quando il bambino venne alla luce, fu affidato ad un servo perché lo uccidesse. Non avendo il cuore di eseguire il crudele ordine, il servo forò i piedi al neonato e lo appese ad un albero sul Monte Cicerone, lasciandolo al suo destino. Il piccolo non era, però, destinato alla morte e fu raccolto da un pastore che lo affidò al re di una città vicina, Polibo. Gli fu dato il nome di Edipo, che vuol dire “piede gonfio”, proprio per i postumi della ferita subita. Molti anni dopo, Edipo, sospettando di non essere il figlio del re Polibo, consultò l’oracolo di Delfi per sapere chi fosse il suo vero padre. Ma ricevette lo stesso responso che molti anni prima era stato dato a Laio: Edipo era destinato ad uccidere suo padre e a sposare sua madre. Dunque, meglio per lui mai tornare nella sua terra. Sulla strada di ritorno dal santuario Edipo, però, ebbe un incontro che gli sarà fatale. Incrociò Laio, il quale gli intimò di lasciare la precedenza ai più anziani. Ne nacque un violento diverbio, durante il quale Edipo, senza saperlo, uccise suo padre. La prima parte della profezia si era compiuta. Prima di morire, anche Laio si stava recando a Delfi per consultare l’oracolo. La Sfinge, infatti, accovacciata su una rupe vicino a Tebe, poneva un indovinello ad ogni viaggiatore che passava. Chi non riusciva a risolvere il quesito veniva strangolato e divorato dal mostro, divenuto un vero e proprio flagello per la regione. Anche Edipo incontrò la Sfinge, riuscì a trovare la risposta esatta al quesito e l’animale si gettò dalla rupe, sfracellandosi. I Tebani, esultanti, acclamarono Edipo re della città. Fu così che egli, senza saperlo, prese il trono che era stato di suo padre. Ignaro del suo passato, sposò anche la regina Giocasta, in realtà sua madre. L’incestuosa unione fu punita dagli dei e così sulla città di Tebe si abbattè la tremenda pestilenza con cui si apre la tragedia sofoclea. Il re Edipo, non riuscendo ad affrontare il flagello, consultò l’indovino Tiresia, il quale rispose che, per porre fine alla calamità, sarebbe stato necessario punire l’assassino di Laio, di cui nessuno però conosceva il nome. Dopo aver maledetto e condannato all’esilio l’ignoto uccisore, Edipo perseguì un tragico percorso di ricerca del colpevole che lo portò a scoprire tutta la verità. Per l’orrore, la regina Giocasta si suicidò, mentre Edipo si trafisse gli occhi. Ma il peso della maledizione incombeva. Fu così che Edipo lasciò Tebe e, completamente cieco, vagò per molti anni di paese in paese. Il crudele destino Il destino crudele doveva però abbattersi anche sui suoi quattro figli, Eteocle, Polinice, Antigone ed Ismene. I due maschi, Etoeocle e Polinice, si uccisero a vicenda nella lotta per il governo di Tebe, mentre Antigone – destinata molti anni dopo a vendicare i fratelli – accompagnò Edipo nel suo lungo peregrinare, fino a giungere nell’Attica, in un sobborgo chiamato Colono. Lì, dopo svariate avventure, Edipo misteriosamente morì. Fu seppellito ad Atene da Teseo, in una tomba che più tardi divenne luogo di culto. Anche se, come racconta Pausania, ad Atene «c’è la tomba di Edipo: ma, dopo molte indagini, ho scoperto che le sue ossa furono portate a Tebe». Elena Cagiano d’Azevedo Come la leggenda è giunta fino a noi Edipo nella letteratura antica I “Edipo e la Sfinge, in un quadro di Gustave Moreau del 1864” l racconto del tragico destino di Edipo è una delle fonti di ispirazione più ricche della letteratura greca. La narrazione più nota e più vicina al nostro sentire è quella contenuta nelle tre tragedie di Sofocle, Antigone, Edipo Re e Edipo a Colono, rappresentato postumo, nel 401 a.C. Ma anche gli altri tragediografi e i commediografi, come Aristofane nelle Rane, alludono a questa storia che doveva essere ben nota nell’antichità. Ogni autore adattava la trama ai valori e agli ammonimenti che desiderava trasmettere. Eschilo si concentrò sul tema della colpa atavica, iniziata con Laio, che genera la maledizione degli dei e che ricade sulle generazioni fino all’espiazione. Scrisse Laio, Edipo, entrambe perdute, i Sette contro Tebe e il dramma satiresco Sfinge, che insieme compongono la Trilogia tebana, con cui il tragediografo vinse il primo premio dell’agone ateniese nel 467 a.C. Euripide scrisse le Fenicie, Antigone ed un Edipo che non è giunto fino a noi. Perdute sono anche l’Edipodia, un poema epico del ciclo tebano in 6600 versi, attribuito a Cinetone, e la Tebaide. Dalla versione più nota del mito si discostano gli scrittori più antichi, come Omero nell’Iliade e Esiodo nelle Opere e i giorni. Anche i Latini presero spunto dal ciclo tebano per delle tragedie sul tema: la più celebre e densa di significati è l’Edipo di Seneca che, pur distaccandosi dal tema sofocleo, volle ancora una volta ricordare l’impotenza dell’uomo di fronte all’ansia, alle preoccupazioni, ai misteri della vita: «È il fato che ci trascina, cedete al fato: / la nostra inquietudine non può / cambiare la fama del fuso destinato. / Tutto ciò che noi mortali soffriamo, / tutto ciò che compiamo viene dall’alto». Il Œdipus Rex Giornale dei Grandi Eventi 9 La verità archeologica del mito La saga tebana, fra leggenda e storia L a saga tebana razionalizza le vicende della dinastia di Cadmo, capostipite della famiglia da cui discesero Edipo ed i suoi figli Eteocle e Polinice, al tempo dei quali Tebe fu distrutta dalla città di Argo. Nonostante le vicende narrate siano costruite sui motivi classici del mito – si pensi all’esposizione di Edipo neonato e al suo ritrovamento da parte di un pastore – gli eventi narrati sembrano avere dei fondamenti storici, testimoniati dalle indagini archeologiche. La città di Tebe, teatro delle vicende della saga, era un antichissimo centro posto in una fertile pianura fra i due fiumi Asopo ed Ismeno, ad una sessantina di chilometri a Nord-Ovest di Atene, nella regione della Beozia. La sua origine si perde nella notte dei tempi. Secondo la tradizione più comune, era stata fondata per volere dell’oracolo di Delfi dal leggendario eroe Cadmo, il capo di un gruppo di Fenici, che si erano appropriati del territorio uccidendo il drago che custodiva la fonte Areia. Questi eventi leggendari, trovano però un riscontro nel territorio della moderna città di Tebe: il celebre Palazzo di Cadmo, citato dalle fonti antiche, viene riconosciuto nelle rovine di un ampio palazzo regale del XIV sec.a.C., posto sull’acropoli della città. Lo studio della disposizione degli ambienti ha permesso agli archeologi di identificare una tipica struttura palaziale micenea, in cui, oltre al potere politico e militare, si esercitavano le funzioni amministrative e le azioni commerciali, si conservavano gli archivi, si svolgevano le feste di un territorio posto sotto il controllo di un capo riconosciuto. Il rinvenimento di tesori artistici di notevole valore, come gli affreschi e un ingente numero di tavolette Affreschi del Palazzo c.d. di Cadmo (XIV-XIII Sec. a.C.) iscritte in lineare B (l’antica scrittura dei greci micenei), ha permesso di ridare vita al palazzo ed ha offerto un’immagine della fioritura economica e culturale della Tebe cadmea. Per questo, la situazione tebana è molto simile a quella delle altre cittàstato dell’Età del Bronzo, come Micene, Argo, Tirinto, Pilo, da cui secondo il mito erano partiti i capi achei che combatterono la Guerra di Troia. A Tebe si conservano anche i resti delle antiche mura, con le sette porte mitologiche (una sola è ben conservata), davanti alle quali combatterono gli eroi di Argo venuti in aiuto del figlio di Edipo, Polinice, a cui il fratello Eteocle aveva usurpato il trono. Una guerra civile, dunque, che si concluse con la morte dei due fratelli, ai quali si attribuisce convenzionalmente la tomba a camera “dei figli di Edipo”. L’impresa, raccontata nei Sette contro Tebe di Eschilo, fu ripetuta dieci anni dopo dai discendenti degli eroi di Argo, gli Epigoni, anch’essi provenienti da Argo, che trionfarono e rasero al suolo la città. A questi eventi mitici, corrispondono sul terreno i segni di due distruzioni di Tebe, avvenute rispettivamente alla metà e alla fine del XIII sec. a.C. L’evento dovette assumere un’importanza epocale nei rapporti fra le antiche cittàstato, dal momento che – molti secoli dopo – la città di Argo dedicò nel Santuario di Delfi degli ex voto che evocavano proprio i mitici Sette e gli Il quesito della Sfinge La sfinge chiede a Edipo chi è «quell’essere che ha quattro gambe, poi due e poi ancora tre, ma una sola voce; e quante più gambe ha, tanto più è debole». La risposta di Edipo è: «L’uomo». Questi infatti è l’unico essere che all’inizio della vita si muove aiutandosi con le mani, da adulto sui due piedi, e da vecchio aiutandosi con un bastone. Gioielli trovati nella stanza del tesoro del palazzo miceneo a Tebe Epigoni. La fine della Tebe di Cadmo e di Edipo, testimoniata dalle due distruzioni, si inserisce in quel collasso politico, economico e culturale di immense proporzioni che fu la fine della civiltà micenea. Intorno al 1200 a.C., i centri più importanti bruciarono, le rotte marittime commerciali si chiusero e consistenti nuclei di popoli si spostarono da un luogo all’altro, dando origine a nuove società. Le ipotesi su questa catastrofe che sconvolse tutto il Mediterraneo orientale sono diverse ed una spiegazione unanimemente riconosciuta ancora non esiste. Certo è che, quando questo processo fu completato, in Grecia era sorto un nuovo mondo. E.C.A. Œdipus Rex 10 Il Giornale dei Grandi Eventi Un musicista che ha saputo spaziare tra generi diversi La straordinaria carriera di Igor il Grande “E ra un insegnante molto insolito. Benché fosse lui stesso professore al Conservatorio di Pietroburgo, mi consigliò di non entrarci; ma al suo posto mi fece il dono prezioso delle sue indimenticabili lezioni (1903-06). Queste lezioni duravano poco più di un’ora e avvenivano due volte la settimana. L’insegnamento e l’esercitazione all’orchestrazione ne costituivano l’argomento principale. Mi diede da orchestrare le Sonate per pianoforte ed i Quartetti di Beethoven e le marce di Schubert e talvolta la sua stessa musica, la cui orchestrazione non era ancora stata pubblicata». Igor Stravinskij ricordò così il suo periodo di apprendistato in Russia con Rimskij-Korsakov. Stravinskij ha costituito con Schoenberg il punto di riferimento fondamentale per tutto il Novecento. Artisti dagli interessi e dal temperamento differente, hanno saputo interpretare lucidamente il loro tempo in maniera del tutto autonoma e personale indicando due vie essenziali per la musica moderna. Dopo la formazione con R i m s k i - K o r s a k o v, Stravinskij ebbe la fortuna di conoscere Diaghilev, vulcanico direttore della Compagnia dei Balletti Russi, che gli commissionò la strumentazione di due pezzi di Chopin per il balletto Les Sylphides, allestito nella prima stagione dei Balletti Russi a Parigi (1909). Il successo arriso allo spettacolo convinse Diaghilev ad affidare all’artista russo la composizione di un intero balletto, L’oiseau de feu (L’uccello di fuoco) presentato all’Opéra di Parigi il 25 giugno 1910 con la coreografia di Michel Fokine. Partitura colorita e abbagliante, irruente nei ritmi, che rivelò l’estro del giovane autore, degno erede del suo maestro nel trattamento dell’orchestra. Nel 1911 a Parigi Diaghilev rappresentò con grande successo il balletto Petrouchka, coreografia di Fokine, scene di Alexandre Benois. Stravinskij fece largo uso di fonti popolari russe, piegando però le citazioni ad un gusto totalmente personale e originale. Rese il clima festoso di un carnevale russo attraverso un pulsare ritmico irruente, trascinante, un quadro di vita incalz a n t e . Abbandonò la tonalità a favore di scale modali, costruì ampie strutture basando il proprio metodo elaborativo non sul tradizionale p r o c e d i - Igor Stravinskij mento dello sviluppo classico-romantico, ma sul principio della ripetizione: brevi incisi tematici venivano cioè iterati, sovrapposti o isolati originando un originale uso della dissonanza. La timbrica era secca, tagliente, per l’armonia aspra e per l’utilizzo degli strumenti in funzione antiromantica: il pianoforte era a tutti gli effetti strumento percussivo, i fiati spaziavano negli acuti o ricreano l’ambientazione delle bande chiassose. La rivoluzione della “Sagra della primavera” Nel 1913 (l’anno prima Schoenberg aveva prodotto Pierrot lunaire) Stravinskij mise in scena la Sagra della primavera ancora su commissione di Diaghilev e con le coreografie di Nijinskij. Un grande scandalo nella Parigi del tempo e un’au- tentica rivoluzione nella musica. Con il Pierrot e con La sagra appariva chiaro che il concetto di bello dell’epoca classico-romantica era definitivamente tramontato. La Primavera stravinskijana non aveva nulla della eleganza, della dolcezza delle tante primavere del passato. Il musicista volle creare una serie di “Quadri della Russia pagana”, celebrando l’avvento della primavera secondo i riti antichi culminanti nel sacrificio di una vergine. Questo programma lo portò a concepire una musica selvaggia, aggressiva, apparentemente caotica come caotico era l’universo dominato dalle forze primigenie che si scatenano in danze dal ritmo incontenibile. L’uso di scale modali, l’ossessiva ripetizione di elementi motivici, lo straordinario irrompere di sezioni ritmiche incontrollabili attraverso un geniale utilizzo di pause e di fragorosi accordi a piena orchestra davano alla partitura una fisionomia del tutto nuova. Nel periodo bellico successivo, Stravinskij, esaurita la fase giovanile fortemente rivoluzionaria, mutò gradualmente rotta. I lavori teatrali del tempo rivelarono l’ironia e l’atteggiamento provocatorio dell’artista che si muoveva in direzione antiwagneria- na, puntando su una dissociazione espressiva: così in Les noces manca la corrispondenza fra i personaggi e le voci, in una visione astratta di teatro; in Renard i quattro cantanti stanno in buca con gli strumenti mentre sul palcoscenico agiscono mimi; e nella Histoire du soldat gli interpreti recitano mentre gli strumenti accompagnano l’azione di mimi. Archiviata la tragedia della guerra, negli anni Venti, mentre Schoenberg creava la dodecafonia, Stravinskij approdò al n e o c l a s s i c ismo con il balletto Pulcinella e l’opera buffa Mavra. Il neoclassicismo si traduceva in Stravinskij in una rivisitazione del passato fra caricatura e omaggio, in una riappropriazione di tecniche e stili compositivi filtrati naturalmente attraverso la propria geniale personalità, con un linguaggio che manteneva colori e asprezze, ma sapeva anche ammorbidire, talvolta, le angolosità, in una ricerca eufonica di rara eleganza. E’ il caso del balletto bianco Apollon Musagete (1928) di notevole raffinatezza lirica. In precedenza, Stravinskij aveva reso omaggio a Bach con l’Ottetto per fiati (1922-23) e soprattutto aveva avviato una esplorazione dell’ambiente classico con l’operaoratorio Oedipus rex (1927). Al neoclassicismo Stravinskij si mantenne fedele, in pratica, per il resto della carriera anche se il termine va inteso nel suo significato più ampio, di esplorazione di ogni genere di tecnica musicale storicizzata. Tra generi diversi L’artista russo si volse pertanto al sacro con la straordinaria Sinfonia di Salmi (1930), tornò all’antichità con il balletto Persephone e poi, varcato l’oceano, variò la scrittura con il colorito Circus polka per un balletto di elefanti del Circo Barnum (1942) e con Ebony Concerto per l’orchestra jazz di Woody Herman (1945). Nel 1951 (anno della morte di Schoenberg) mise in scena a Venezia The rake’s progress (La carriera di un libertino) ispirato alla omonima serie pittorica di Hogarth, uno straordinario capolavoro in cui l’artista rivisitò con garbata ironia l’opera settecentesca, attingendo a stili, forme, generi, tipologia di personaggi appartenenti ad una secolare tradizione. Un’operazione di recupero geniale, punto di arrivo del lungo itinerario neoclassico percorso dal compositore a partire dagli anni Venti. L’attenzione per la tradizione e per le forme ormai “storicizzate” condusse coerentemente Stravinskij ad esplorare negli ultimi anni anche la dodecafonia. Morto Schoenberg, ormai entrata nel linguaggio “classico” la tecnica seriale venne assunta dal compositore come uno dei possibili mezzi espressivi. Si possono ricordare due fondamentali pagine sacre come Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis per la Basilica di San Marco di Venezia (1956) e Threni: id est lamentationes Jeremiae prophetae (1958). Con queste opere Stravinskij chiudeva in pratica una carriera improntata alla massima ecletticità, animata da uno spirito libero, portato a guardare al passato ma anche al presente con la vivificante curiosità di un autentico uomo di genio. Roberto Iovino Il Giornale dei Grandi Eventi Œdipus Rex 11 Il complesso di Edipo in psichiatria Naturale nel bambino, patologico nell’adulto N el libro L’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, che inaugura il XX secolo, viene affrontato il tema del complesso edipico, che verrà ripreso ed ampliato in numerosi scritti successivi. Freud a questo proposito scrive: «Secondo le mie ormai numerose esperienze, i genitori hanno la parte principale nella vita psichica infantile di tutti i futuri psiconevrotici: amore per l’uno, odio per l’altro dei genitori, fanno parte di quella riserva inalienabile di impulsi psichici che si forma in quel periodo». Tuttavia nelle pagine successive Freud chiarisce che sentimenti analoghi, anche se in modo meno chiaro e meno intenso, si possono osservare in tutti i bambini riconfermando il fatto che queste pulsioni fanno parte della vita psichica umana, in modo più evidente nel corso dell’infanzia. Per confermare queste osservazioni che scaturiscono dal lavoro clinico, Freud si rifa al mito di Edipo descritto nel dramma di Sofocle, che costituisce una sorta di prototipo leggendario che si ripropone nello sviluppo dei bambini. Nella tragedia di Sofocle Edipo è vittima del fato, a cui non riesce a sottrarsi perché inconsapevolmente uccide il padre Laio, re di Tebe, e si unisce alla madre Giocasta, che diventa sua sposa. L’inconsapevolezza di Edipo ricorda quella del bambino fra i 3 ed i 5 anni che si trova, secondo Freud, nel periodo fallico, ossia il periodo nel quale, proiettandosi nel mondo genitoriale, esprime a livello di fantasie inconsce i suoi desideri sessuali e soprattutto di affetto morboso verso la madre ed al contempo le sue spinte aggressive verso il padre che vorrebbe detronizzare. Vale la pena di ricordare che nel dramma di Sofocle Giocasta cerca di consolare Edipo, non ancora consapevole della sua colpa ma preoccupato dai responsi dell’oracolo, facendo riferimento alla dimensione del sono: «Quanti uomini, prima di te, nei sogni loro giacquero con la madre!» Il complesso edipico, che raggiunge – come abbiamo detto - il suo acume fra i 3 ed i 5 anni, per poi fugacemente riattivarsi durante l’adolescenza, tende a scemare verso i 5 - 6 anni quando il bambino, anche per paura delle “rappresaglie” e dell’au- torevolezza del padre e per l’angoscia di castrazione rinuncia alle fantasie onnipotenti di sostituirsi al padre. Per certi versi il bambino riconosce così il suo ruolo ed accetta la differenza fra sé ed i genitori, spostando le sue pulsioni verso il mondo sociale attraverso il meccanismo della sublimazione. Se questo è il percorso normale che consente di superare il complesso edipico, vi è in alcune situazioni il rischio che le dinamiche psicologiche di questo periodo tendano a permanere ed a fissarsi, influenzando il funzionamento psichico. Da queste fissazioni possono svilupparsi dei conflitti nevrotici che potranno permanere in fasi successive della vita ed addirittura organizzarsi in una nevrosi. Alla base di questi conflitti si può riconoscere il senso di colpa per le proprie fantasie incestuose e per le proprie p u l s i o n i aggressive, oppure un abnorme legame con la propria madre od ancora un’ostilità ed una competizione verso il padre od al contrario un padre rinunciatario od assente. Vale la pena di ricordare che tali conflitti con le figure dei genitori possono essere estesi ad altre figure significative o anche ai coniugi o ai partner. Edipo ed Antigona Nel definire il complesso edipico Freud ritiene che esso abbia una portata universale poiché probabilmente si sono sedimentate nella storia della specie ed addirittura negli anni Venti antropologi come Malinowski hanno cercato di portare osservazioni ed evidenze dell’esistenza delle dinamiche edipiche anche in altre culture, anche se, ad esempio, in Giappone – per diversi condizionamenti culturali – non si verificherebbe la situazione triadica descritta da Freud ma un intenso coinvolgimento dialico fra madre e bambino, con il padre che rimane marginale. Un’ultima osservazione: Freud ha considerato il complesso edipico un’esperienza soggettiva presente nella vita psichica di ogni persona, sostenuta dalle pulsioni inconsce che avrebbero le radici nella struttura biologica di ciascuno. Tuttavia, le dinamiche edipiche possono essere lette anche in una prospettiva famigliare ed intergenerazionale. Non dimentichiamo che il parricidio e l’incesto di Edipo sono preceduti da vicende famigliari drammatiche. Infatti Edipo, nella storia leggendaria, fu abbandonato dai genitori su un monte perché morisse, per timore che si potessero avverare le previsioni dell’oracolo. Pertanto fu l’atto di abbandono dei genitori che avviò il processo drammatico che lo avrebbe condotto ad uccidere inconsapevolmente il padre, proprio mentre Edipo era spinto a ricercare le proprie origini. Potremmo concludere dicendo che i conflitti e le ambivalenze nei figli possono essere generate dal rifiuto, dall’abbandono e dal maltrattamento da parte dei genitori che inevitabilmente suscitano ostilità, risentimento e desiderio di rivalsa, anche se spesso inconsci. Massimo Ammaniti Psicoanalista Professore di Psicopatologia dello Sviluppo Università “La Sapienza” Roma 12 L’Uccello di Fuoco Il Giornale dei Grandi Eventi Mario Marozzi e Igor Yebra Irma Nioradze e Gaia Straccamore Il Principe Ivan, salvatore delle fanciulle L’Uccello di Fuoco, dalle piume dorate I l Principe sarà impersonato da Mario Marozzi (5, 7, 9 aprile) e Igor Yebra (6, 8, 10 aprile). Mario Marozzi è il Primo Ballerino del Teatro dell’Opera di Roma, con cui in passato ha avuto una fitta e proficua collaborazione. Ha ballato nei maggiori ruoli classici del balletto (Giselle, Amleto, La Sylphide, Coppelia, Don Quixote, Romeo e Giulietta, Cenerentola, Onegin, Lo Schiaccianoci) e per le più grandi produzioni coreutiche. Spesso ospite di rassegne internazionali, le sue performances abbracciano il repertorio neoclassico, fino a giungere alla danza moderna, senza esclusione del genere jazz. Igor Yebra è nato a Bilbao nel 1974 e ha al suo attivo una veloce e brillante carriera nell’ambito del balletto classico. Trasferitosi a Madrid ha studiato alla Scuola di Danza di Victor Ullate dove poi è diventato primo ballerino del Ballet de la Comunidad de Madrid. Irma Nioradze e Mario Marozzi Diplomatosi come Matricola d’Onore presso il Reale Conservatorio della Danza di Madrid, è ormai conosciuto a livello internazionale. In Italia collabora spesso con l’Arena di Verona, oltre che con l’Opera di Roma. Insignito di importanti premi, si è esibito sui palcoscenici della Russia, Lituania, America, Australia e Giappone (per Romeo e Giulietta). Nel 1996 ha ricevuto il primo premio al concorso Maya Plissetskaya a San Pietroburgo. Laura Comi e Gaia Straccamore La Principessa, la più bella tra le prigioniere L a Principessa avrà le sembianze di Laura Comi (5, 6, 8, 10 aprile) e Gaia Straccamore (7, 9 aprile). Laura Comi si è diplomata con passo d’addio presso la scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma. E’ stata allieva di numerosi Maestri di levatura internazionale sia in Italia sia all’estero. Dopo una tournèe in Germania, ha svolto nel 1989 un periodo di perfezionamento presso la compagnia londinese English National Ballet con la guida di P. Shaufuss. A Roma ha iniziato a danzare da protagonista presso il Teatro dell’Opera sotto la direzione di Elisabetta Terabust. Il suo repertorio abbraccia i più famosi balletti del repertorio classico, dallo Schiaccianoci, a Giselle, a La Bella Addormentata. Ha danzato in ruoli eclettici per diversi coreografi tra i quali Carbone per L’Uccello di Fuoco, ricevendo numerosi riconoscimenti artistici tra i quali il premio Gino Tani nel 2001. Dal marzo 2004 è stata nominata Prima Ballerina Etoile del Teatro dell’Opera di Roma. Gaia Straccamore interpreta alternativamente anche il ruolo dell'Uccello di Fuoco. Pagina a cura di Stefania Soldati - Foto di Corrado Maria Falsini L ’Uccello di Fuoco sarà interpretato da Irma Nioradze (5, 7, 9 aprile) e da Gaia Straccamore (6, 8, 10 aprile). Irma Nioradze è Etoile del Kirov Ballet. Nata in Georgia, a Tblisi, ha iniziato a studiare all’Accademia di Danza Statale della sua città, allora diretta da Vakhtang Chabukiani, che ha inaugurato lo stile eroico del balletto sovietico. Con il grande maestro ha danzato anche Giselle. Dopo gli studi a Tblisi ha frequentato l’Accademia Vaganova a Leningrado, vincendo poi il Concorso Internazionale di Danza a Jackson, negli Stati Uniti. Nel 1992 è stata invitata al balletto del Kirov da Oleg Vinogradov, che allora era il direttore della compagnia. Si sta perfezionando con Ninel Kurgapkina, che è stata partner e collaboratrice di Rudolf Nureyev. Di Balanchine, georgiano anch’egli, danza abitualmente Jewelse, Le Palais de cristal e Apollon musagète. Tra gli altri riconoscimenti artistici ha rice- Irma Nioradze vuto il premio Positano, che in passato è stato assegnato ad artisti come Rudolf Nureyev, Vladimir Vassiliev, Ekaterina Maximova. Gaia Straccamore è uno degli elementi di punta della compagnia di balletto del Teatro dell’Opera. Diplomatasi a soli diciassette anni nella scuola di ballo dell’Opera ed entrata subito dopo nella stessa compagnia di balletto, ha immediatamente interpretato ruoli solistici e di prima ballerina, sia del repertorio classico che moderno. Tra i suoi ruoli più recenti, Aurora e la Fata dei Lillà ne La Bella Addormentata, la Silfide nell’omonima opera, Zobeide in Shéhérazade, l’Eletta ne Le sacre du printemps e Odette/Odile nel Lago dei cigni. È di prossima uscita il libro La donna del terzo millennio in cui la fotografa Giorgia Fiorio ha ritratto dieci donne simbolo della nostra epoca. Gaia è una di loro. In questa edizione interpreta alternativamente anche il ruolo della Principessa. Manuel Paruccini e Mauro Murri Castchey, emblema della malvagità punita C astchey – Il Mago sarà impersonato da Manuel Paruccini (5, 7, 9 aprile) e Mauro Murri (6, 8, 10 aprile). Il nome di Manuel Paruccini è legato al Teatro dell’Opera di Roma, con cui ha realizzato diverse importanti produzioni (prima fra tutte il Lago dei Cigni), cui si affiancano altre importanti, anche di stile particolarmente originale, quali il Ricordo di Isadora Dunchan e il Girotondo ispirato all’omonima opera di Arthur Schnitzler. Ha debuttato nei principali ruoli del balletto classico, ma il suo repertorio spazia fino alle produzioni moderne. Mauro Murri ha al suo attivo un’intensa collaborazione con l’Arena di Verona, ma, soprattutto, con il Teatro dell’Opera di Roma, per cui ha ballato, tra gli altri, nel Lago dei Cigni. Per la stessa istituzione ha anche partecipato alla singolare produzione Dio salvi la Regina (God save the Queen) balletto liberamente tratto da The Beggar’s Opera di John Gay, con musiche di Kurt Weill eseguite dal vivo. Il suo nome è presente in Italia e all’estero in manifestazioni di alto livello culturale e artistico. Il L’Uccello di Fuoco Giornale dei Grandi Eventi 13 Storia del balletto L’Uccello di Fuoco, nato nel crogiuolo culturale dei Balletti Russi L ’Oiseau de feu nacque da una collaborazione a più mani realizzata da tre artisti russi particolarmente attivi nel panorama culturale europeo agli inizi del 1900: Sergej Pavlovic Djagilev, Michail Fokin e l’allora giovanissimo musicista Igor Stravinskji. Djiagilev, impresario e critico d’arte, era un uomo dalla personalità multiforme ed eclettica. Dedicatosi per gran parte della sua carriera artistica alle arti figurative e all’organizzazione di mostre, nel 1898 diede vita insieme a N. Benois alla prima rivista di arte russa Mir Iskusstva. Successivamente fondò una compagnia stabile di ballo denominata Ballets Russes, con l’intento di riformare il balletto russo classico, che aveva in Marius Petipa il suo grande maestro. L’obiettivo del vulcanico impresario era quello mantenere una continuità con la tradizione russa classica relativamente ai soggetti da interpretare, ma di operare un rinnovamento totale sia dal punto di vista teatrale che coreografico. La compagnia raccoglieva giovani danzatori e artisti di talento tra cui spiccava il geniale ballerino e coreografo russo Michail Fokin, che con le sue coreografie avanguardistiche ~~ è oggi considerato uno dei creatori del balletto moderno. Da un racconto leggendario L’Oiseau de feu fu concepito, dunque, in questo clima di rinnovamento culturale vissuto dal balletto russo agli inizi del novecento. Djagilev, per la seconda stagione dei balletti russi da tenersi all’Opéra di Parigi, pensò di sfruttare un soggetto tratto dal racconto leggendario Katscei l’immortale, già utilizzato da RimskijKorsakov per una opera rappresentata a Mosca nel 1910. Inizialmente la composizione delle musiche di scena fu affidata al compositore Liadov. Dal momento che questi non si risolveva mai ad iniziare il lavoro, Djagilev mandò Fokin e Benoise ad ascoltare l’Feux d’artefice (1908), opera di un giovane musicista russo allora emergente: Stravinskji. I due ne rimasero entusiasti. Djagilev allora si recò a Pietroburgo per proporre al compositore di scrivere le musiche per l’Oiseau de feu. Stravinskji accettò immediatamente, affascinato dalla possibilità di collaborare con una compagnia di artisti così multiforme e all’avanguardia. In realtà il compositore era già venuto a contatto, seppur La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 5 – 10 aprile 2005 L’UCCELLO DI FUOCO Racconto coreografico in due quadri di Michel Fokine Musica di Igor Stravinskij Maestro concertatore e Direttore d’Orchestra Zoltan Pesko ORCHESTRA, CORO E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento dell’Opera Nazionale Lettone Coreografia Ricostruzione coreografica Scene e costumi ricostruiti sui bozzetti originali di da Disegno luci Michel Fokine Andris Liepa Alexander Golovin e Lèon Bakst Anna e Anatoly Nezhny Bruno Monopoli Personaggi / Interpreti Uccello di Fuoco Principe Principessa Castchey – Il Mago Irma Nioradze / Gaia Straccamore (6, 8, 10/4) Mario Marozzi / Igor Yebra (6, 8, 10/4) Laura Comi / Gaia Straccamore (7, 9/4) Manuel Paruccini / Mauro Murri (6, 8, 10/4) brevemente, con la compagnia dei Ballets Russes strumentando un notturno e un valzer di Chopin per Les Sylphides. Durante l’inverno del 1910 il giovane compositore si mise a lavoro alacremente, mantenendo sempre una collaborazione strettissima con Djagilev, Fokin e la compagnia. La coreografia veniva disposta mano a mano che il compositore andava ultimando i vari frammenti della strumentazione. Stravinskij non perdeva una prova con gli artisti e le giornate scorrevano pregne dell’euforia e dell’entusiasmo, tipiche di coloro che sono consapevoli di contribuire a creare qualcosa di assolutamente nuovo e grandioso. Di sera tutta la compagnia soleva recarsi a cena a bere del buon vino e a parlare d’arte e di vita. Quando la partitura fu ultimata, Djaghilev invitò alcuni amici per una lettura al pianoforte del lavoro. Uno degli artisti presenti, Brussel, ebbe a commentare: «Alla fine della prima scena era già conquistato, all’ultima ero entusiasta. Il manoscritto, che stava sul leggio, ricoperto da una sottile scrittura a matita, risultava un capolavoro». Immediatamente la compagnia partì per Parigi, mentre Stravinskij decise di concedersi un breve periodo di riposo in campagna prima di raggiungerli. Al suo arrivo nella Capitale francese le prove erano in pieno fermento. Le parti erano già state assegnate, sebbene Stravinskji avrebbe preferito prendere parte alla distribuzione dei ruoli, come ebbe ad osservare successivamente nelle sue Cronache della mia vita del 1935: la Karsavina ebbe la parte dell’uccello, che il compositore avrebbe preferito assegnare all’agile e slanciato corpo della Pavlova che fu invece la principessa prigioniera. Il lavoro, che Stravinskji dedicò al suo maestro Rimskij-Korsakov, fu rappresentato all’Opera di Parigi il 25 giugno 1910, con le scene e i costumi di Golovin e Baskt e la superba direzione del maestro Gabriel Pirenè. Il consenso fu unanime e immediato. La sera della “prima” Debussy, che assisteva allo spettacolo, volle andare sul palcoscenico per complimentarsi con il giovane compositore. L’opera riportò un successo enorme e tutti i più grandi musicisti contemporanei di Stravinskji - tra cui De Falla, Florent Schmidt, Satie e Ravel - mostrarono di apprezzare il talento del giovane compositore russo. Nel 1970 M. Béjart operò una vera e propria reinvenzione del soggetto e della coreografia utilizzando la suite che Stravinskji aveva prodotto nel 1919. Esistono altre due suite delle musiche di questo balletto composte da Stravinskji nel 1911 e nel 1945. Claudia Capodagli Trama L’Uccello di Fuoco E ’ notte: il giovane principe Ivan Tsarevich, aggirandosi nel bosco durante una partita di caccia giunge nel giardino incantato del mostro Kaschchei, un gigante immortale dalle dita verdi, dove sorprende un magico uccello di fuoco che emana una vivida luce. L’uccello sta svolazzando intorno ad un albero dalle mele d’oro all’interno del giardino del mostro. Il principe Ivan si avvicina furtivamente all’albero e, approfittando di una nuvola che nasconde la luna e rende buio il giardino, cattura l’uccello con un retino d’amianto. L’uccello di fuoco implora il principe di lasciarlo libero e gli dona in cambio della libertà una penna di fuoco. Il principe lo libera ed esso gli promette di volare subito da lui in caso di pericolo. Poco dopo, dal vicino castello di Kashchei, escono tredici bellissime fanciulle che avanzano leggiadre verso il giardino e si avvicinano all’albero dalle mele d’oro. Le fanciulle, al chiaro di luna, giocano con le mele d’oro, scherzano, ridono fra di loro, sembrano spensiera- te, ma ... nascondono un segreto. Mentre le ragazze giocano al chiaro di luna, ignare di essere osservate, appare il principe. In un primo momento le ragazze si spaventano, ma poi capiscono che il giovane non vuole fare loro del male e accettano di farlo partecipare al loro gioco. Egli si unisce alla danza: fa ballare tutte le ragazze che si divertono moltissimo e fanno a gara per ballare con lui. Il principe ha tuttavia una preferenza per la più bella e si innamora di lei. Le ragazze raccontano al principe la loro storia: esse sono prigioniere del mostro Kaschchei e devono rientrare nel castello prima dell’alba. Ivan vuole seguirle ed entrare con loro nel castello. Le ragazze lo avvisano che il mostro pietrifica chiunque tenti di liberare le sue prigioniere. Nonostante l’avvertimento il principe decide ugualmente di entrare. Ivan entra nel castello e subito gli viene incontro una schiera di mostri terribili e spaventosi. Si fermano davanti ad Ivan che cerca di affrontarli, ma lo fanno prigioniero. Quando il principe sta per essere pietrifi- cato, si ricorda dell’uccello di fuoco e della sua promessa. Prende la piuma magica di fuoco e chiama l’uccello in suo aiuto. L’uccello accorre e gli rivela il segreto dell’immortalità di Kaschchei. Per annientare il mostro occorre distruggere lo scrigno-uovo in cui è racchiusa la sua anima. L’uccello di fuoco, intanto, blocca l’incantesimo del mostro con una magia più potente: trascina tutti i mostri guardiani al seguito di Kaschchei in una furiosa danza che li stordisce e li sfinisce. Con un’altra magia fa loro ascoltare una dolce ninna nanna che calma i loro spiriti aggressivi portando loro visioni di pace fino a che cadono sul pavimento addormentati in un sonno profondo. Ivan rompe lo scrigno-uovo provocando la morte di Kaschchei e la definitiva liberazione dall’incantesimo. Il principe e Zarièvna, la più bella delle principesse prigioniere, vengono portati in trionfo. L’uccello di fuoco unisce infine il principe e la principessa e vola via. L’Uccello di Fuoco 14 Il Giornale dei Grandi Eventi L’Oiseau de Feu Una partitura dalle molte valenze B asta ascoltarla anche una sola volta la musica dell’Uccello di fuoco di Strawinsky per rendersi conto di quanto in essa vi sia di tradizione e quanto di originalità. I modelli del ventottenne Strawinsky sono qui assai evidenti. Non si tratta, come spesso accade, di generiche influenze, come ad esempio da Mussorgsky e soprattutto da Rimsky Korsakov, il primo un maestro riconosciuto del drammatismo russo, il secon- do il più sapiente del Gruppo dei Cinque e per altro maestro di orchestrazione di Strawinsky al conservatorio di Pietroburgo. Le citazioni sono infatti molto evidenti da non poter passare sott’occhio. Insomma se c’è tanto Rimsky (che per altro aveva già trattato nel 1902 il soggetto nell’opera Kascei l’immortale) nell’Uccello (vedasi il rutilante turgore della orchestrazione, di cui Korsakov era maestro e di cui ha lasciato un ampio ed ancora esemplare trattato), sono innegabili le assonanze (per non dire quasi esplicite affettuose citazioni) dei celeberrimi Quadri di una esposizione di Mussorgsky evidenti sia nella Berceuse delle principesse (leggi Vecchio Castello) sia nel finale monumentale e trionfale (Grande porta di Kiev). Ma in Uccello nasce anche lo Strawinsky fauve che esploderà poi in Sacre e lo ritroviamo nelle danze frenetiche, sinco- pate e sghimbesce del Kascei e dei suoi scherani (Danza infernale). Un’altra riflessione inerente alla partitura riguarda l’uso distinto del diatonismo e del cromatismo, il primo affidato al bene, alla luce, al positivo (lo zarevic Ivan e le sfortunate principesse prigioniere nel castello incantato del Kascei), il secondo al male, alle tenebre, al negativo (il mondo del Kascei), ma anche della trasformazione (l’ Uccello e la sua piuma fatata che consentirà un lieto epilogo alla favola), dunque più generalmente potremmo dire per la sfera del soprannaturale e sovrumano, sia positivo che negativo, contrapposta all’umano. Una distinzione ben nota anche a Wagner ma soprattutto, per restare più vicino a Strawinsky, a Rimski che già nel Gallo d’oro (1903) lo aveva usato per contrapporre il mondo terreno e quello magico. Lo. To. Enrico Cecchetti, il primo malvaggio nell’Uccello di Fuoco Un Kascei che ha guardato al passato ’è un nome che tre de ballet” dei Ballets attraversa inden- Russes di Diaghilev, dunne il trapasso epo- que l’arbitro del livello cale della danza d’arte tra tecnico quotidiano della Otto e Novecento ed è compagnia, tenendo le quello di Enrico quotidiane lezioni di Cecchetti. Fu lui, ormai danza ai grandi ballerini sessantenne (era nato della compagnia che infatti in un camerino del rispondevano ai nomi di Teatro Apollo di Roma il Anna Pavlova, Tamara Vaslav 21 giugno 1850), ad inter- Karsavina, pretare il ruolo, evidente- Nijinsky ma anche Serge mente a marcate tinte Lifar. pantomimiche, del mal- Era lui, un italiano e non vagio Kascei nell’Uccello un francese come si di fuoco di Fokine- potrebbe pensare, dunStrawinsky (1910) e l’anno successivo quello egualmente mimico del Ciarlatano nel Petrouchka ancora di Fokine e Strawinsky per non dire d’altro. Due fotografie d’annata ce lo restituiscono con lunghissima barba ed unghie, un lungo bastone, manto ed elmo ornati ed atteggiamento inequivocabilmente perverso e minaccioso nel mago dell’ Oiseau de feu. Ma Cecchetti era soprattutto il “mai- Enrico Cecchetti ne l’Uccello di Fuoco C que il garante della perfetto rispetto della base accademica della compagnia forse perché più che il virtuosismo premeva a Diaghilev e a Fokine la espressività del gesto, di cui gli italiani sono da sempre congenitamente maestri. Era del resto anche lui il legame stretto con la precedente tradizione tardo-ottocentesca italiana e russa. Cecchetti infatti si era formato con Giovanni Lepri, un allievo fiorentino di Carlo Blasis e dunque il suo insegnamento affondava le radici nel più fulgido accademismo italiano del primo romanticismo. Spesso insieme alla moglie, la torinese Giuseppina De Maria anche lei ottima mima e danzatrice alla maniera italiana, era stato interprete con la compagnia della Scala (1870-1878) a Milano ed in tournée di numerosi balletti di Luigi Manzotti (Amor nel 1886 a Milano ed Excelsior a Londra in primis). Ma poi dal 1887 al 1892 a Pietroburgo per volere di Petipa era stato nominato “maitre de ballet en second”, primo ballerino del Mariinskij ed insegnante di danza alla Scuola Imperiale. Anche a Pietroburgo, nel teatro dove era cresciuto come danzatore Mikhail Fokine, il primo coreografo di Diaghilev ed autore dell’ Uccello di fuoco, si era distinto in balletti di Petipa tra i quali La fille du bandit (1888), La Vestale (1889), Mlada (1892), Cendrillon (1893), Coppelia (1894), ma soprattutto La bella addormentata (1890), Alla prima di questo balletto, che segnò le future fortune delle partiture ciaikovskiane di danza (com’è noto il Lago dei cigni a Mosca tredici anni prima si era rivelato un clamoroso fiasco), fu l’ ormai quarantenne Cecchetti ad interpretare sia en travesti il ruolo mimico della malvagia strega Carabosse, artefice del maleficio contro la innocente neonata Aurora, che quello invece estremamente virtuosistico della variazione del passo a due dell’ Uccello blu. Nel 1923 rientrò in Italia per ritirarsi a vita privata, ma fu invitato da Arturo Toscanini a riprendere la sua carriera insegnamento a La Scala, il suo sogno della sua vita. E proprio mentre insegnava, Cecchetti fu colpito da collasso. Portato a casa, mori il giorno seguente, 13 novembre 1928. Fu lui insomma, fino all’ultimo, l’anello di congiunzione tra passato e presente ed il custode del trapasso dalla tradizione alla modernità in danza. Lo. To. Il Giornale dei Grandi Eventi L’Uccello di Fuoco 15 Analisi musicale L’Uccello di fuoco, primo balletto moderno “ 25 giugno 1910”. Nella dorata sede dell’Opéra di Parigi va in scena L’Oiseau de feu . L’Europa impara a conoscere Igor Strawinskji, una delle voci più personali ed autorevoli del nascente Novecento musicale. La meravigliosa avventura parigina dei favolosi Ballets Russes di Sergej Diaghilev era iniziata la stagione precedente (19 maggio 1909) con Le pavillon d’Armide, una produzione del Mariinskij intesa come glorificazione del Settecento francese, le danze polovesiane del Principe Igor di Borodin e Le festin, un divertissement in un salone dell’Antica Russia medioevale. Mikhail Fokin, il coreografo che qualche anno dopo (6 luglio 1914) in una celebre lettera al Times di Londra doveva formalizzare in cinque punti le esigenze del nuovo balletto moderno all’insegna di una nuova espressività (creazione di nuovi passi in relazione all’argomento, danza e mimica al servizio dell’espressione drammatica, estendere la espressività dalla testa ai piedi, cura della significa- zione della danza di gruppo, alleanza della danza con le altre arti) che sembra riecheggiare in termini moderni molti dei termini un secolo e mezzo prima espressi da Jean Georges Noverre nelle celebri Lettres sur la danse e sur les ballets (Lione-Stoccarda 1760) replicò qui con il ventottenne Strawinskji la fortunata collaborazione instaurata vent’anni prima tra Petipa e Ciaikovsky. Così come Ciaikovsky aveva saputo corrispondere alle esigenze drammaturgiche e coreografiche, così anche Strawinskji fu chiamato ad un’opera di geniale sincronizzazione delle sue note (la partitura è a pezzi chiusi secondo la più consolidata tradizione ottocentesca del genere balletto). E questo lavoro di stesura (proprio come si farebbe oggidì per una colonna sonora che sposa il suono sull’immagine visiva già realizzata) è avvertibile soprattutto negli allestimenti, come questa dell’Opera, che riproducono fedelmente nella coreografia come nell’impianto scenografico (scene e costumi) l’edizione fokiniana del 1910. La storia, tratta dalla celebre raccolta di fiabe popolari russe di AlexanderAfanasjev pubblicata verso la metà dell’ Ottocento, raccontava di un magico uccello infuocato che aiuta lo zarevic Ivan a vincere il Kascei che tiene prigioniere tredici fanciulle ( un elemento che sembra rimandare ai racconti di magia così cari al balletto, come ben illustra ad esempio Il Lago dei cigni). Forse non era solo un caso che il balletto fosse dedicato a Andrei Rimski Korsakov, figlio di Nikolai. La direzione musicale era di Gabriel Piernè. Scene di Golovine e costumi di Léon Bakst. Interpreti Tamara Karsavina (L’uccello), Mikhail Fokin (Ivan), sua moglie Vera Fokina (la principessa), Boulgakov e Cecchetti ( Kascei). L’esecuzione colpì Ravel («è più importante di Rimski», scrisse a un amico ) e Debussy («non è un lavoro perfetto ma sotto certi aspetti bellissimo», confessava all’editore Durand). E’ forse proprio il valore della partitura musicale più che il soggetto ad avere convinto in seguito anche altri coreografi a ritornare sulla partitura di Strawinskji, riscrivendo la storia in termini più attuali e meno anacronistici a partire da Béjart che nel 1970 si ispira alla Resistenza francese (Suite dal balletto), Milloss (che nel 1980 sviluppò coreograficamente la parte del Kascei pur muovendosi su principi estetici fokiniani) e Tamara Kasarvin ne L’Uccello di Fuoco Balanchine (1949 retaggio dell’arte pantomimica con scene di Chagall) sino alla italiana ottocentesca. Non a versione avveniristica di John caso, come detto, esso era interNeumeier e a quella di ambienpretato da un artista che alle tazione borghese vittoriana di doti del danzatore univa anche Glen Tetley. Per non dire ancoquelle di tradizione scaligera di ra di Lifar, Cranko o Scholz. grande mimo come appunto La parte del Pascei così come Enrico Cecchetti. era concepita da Fokine, ovveInsomma con l’Uccello di fuoco ro più mimica che danzata, nasceva in fondo il Balletto appare poi superata grazie alle moderno e nasceva non da una conquiste espressive della traumatica rottura col passato, danza cosiddetta “libera”, per come avvenne poi con la meglio dire dell’espressioniDuncan o con la modern dance smo tedesco degli anni a veniamericana, bensì sulle ceneri re. E non errerebbe chi vedesse proprio di quel passato, nel ruolo del Kascei (spesso rafapprezzato, amato ma considefigurato con una sorta di calzarato non più adeguato al veloce maglia a scheletro proprio passo dei tempi. come l’Oscurantismo dell’Excelsior) una sorta di Lorenzo Tozzi L’autore della coreografia de L’Uccello di fuoco Michel Fokine, artista poliedrico e grande innovatore coreografico C ome tutte le arti il cui naturale esito è quello della performance, anche il balletto è stato investito dall’ondata di svecchiamento e innovazione di cui il Novecento è stato portatore. Tra coloro che si dedicarono all’elaborazione di nuovi criteri di una nuova danza va annoverato il ballerino e coreografo Michel Fokine (1880-1942), autore del racconto coreografico dell’Uccello di Fuoco di Igor Strawinskij. Di padre russo e madre tedesca, Fokine fa il suo debutto come ballerino nel 1898, stesso anno in cui si diploma presso la scuola di San Pietroburgo. Le sue particolari doti di leggerezza nei movimenti gli valgono presto ruoli di solista, anziché subalterno, presso la scuola di Mariinsky dove diviene rapidamente insegnante grazie alla sua ampia preparazione musicale ed artistica. Suona infatti diversi strumenti, anche da professionista in un’orchestra di buon livello ed è apprezzabile ritrattista. Tra il 1902 e il 1912, con la sua attività di riformatore, si sforza di modificare l’organizzazione gerarchica della troupe del teatro accademico, ricalcata su quella della società imperiale, cercando di attribuire al corpo di ballo e ai primi ballerini un nuovo senso di libertà plastica e di movimento. Nella pratica si preoccupò di rendere più fluidi gli esercizi che provocavano crampi agli allievi, distendere il portamento, ridurre l’enfasi delle acrobazie. Il 6 luglio 1914, un mese prima dello scoppio della Grande Guerra che avrebbe travolto la Russia zarista, Fokine pubblica sul Times di Londra, in forma di lettera, i principi del nuovo balletto, un vero e proprio manifesto che teorizza un’armonica complementarietà tra musica, scenografia e danza. Nella prima delle cinque regole, Fokine dichiara come il balletto debba essere collocato in un’ambientazione ispirata a stili passati e dotata di autenticità archeologica. Ciò rispecchia i suoi personali interessi in materia, ma anche la tendenza al revival storico - molto in voga presso la dinastia dei Romanov - con tutti i rischi ad esso collegati, primo fra tutti l’eccessiva stilizzazione. Nel secondo punto auspica un riordino razionale dell’espressione mimica, decretando che la gestualità convenzionale debba essere sostituita dal movimento appropriato e non stereotipato, con l’uso dell’intero corpo. La terza regola è dedicata a considerazioni sullo stile, mentre nella quarta - forse la più interessante - Fokine si preoccupa invece di fornire delle indicazioni sul come organizzare gli ensamble, cioè di evitare che i gruppi di ballerini presenti sulla scena siano lasciati alla sola improvvisazione. Egli stesso però nella sua Petruska tratteggia appena i movimenti delle comparse, circa un centinaio, senza pienamente mettere in pratica proprio quell’innovazione di cui si faceva promotore. Vede la scena come una tavolozza di movimenti caleidoscopici, il cui effetto deve essere quello di mettere a fuoco l’immagine centrale, sfumando poi progressivamente verso i bordi. Nella quinta ed ultima regola infine le diverse anime dell’artista, ballerino, coreografo, musicista, pittore, si proiettano in un ideale di sintesi tra le arti. M. E. Lat.