Œdipus Rex
2
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Intervista con il direttore Zoltan Pesko e lo scenografo Luigi Squarzina
Per l’Edipo, il coro nella buca e mimi in scena
P
er la quinta volta
torna al Costanzi
l’Œdipus Rex di Igor
Strawinskij, opera-oratorio in due atti su testo di
Jean Cocteau, dalla omonima tragedia di Sofocle.
L’opera, prevista nel cartellone del Costanzi della
stagione inaugurale del
1928, quale novità assoluta
per l’Italia e diretta dall’autore, ma mai realizzata, ebbe la prima rappresentazione romana il 19
febbraio 1964, sotto la bacchetta di Antàl Dorati, con
le scene e i costumi del
grande scultore Giacomo
Manzù e la regia di uno fra
i maggiori registi teatrali
italiani, Luigi Squarzina,
che oggi ripropone - a
distanza di quarant’anni lo stesso storico allestimento. Seguirà, dello stesso autore, L’’Uccello di
Fuoco, racconto coreografico di Michel Fokine, la cui
prima italiana si tenne al
Costanzi nel 1917.
La direzione musicale in
questa serata Stravinskji è
affidata alla prestigiosa
bacchetta del maestro
ungherese Zoltan Pesko.
D. - Maestro Pesko, sotto
l’aspetto musicale quali
Le Repliche
Mercoledì 6 aprile, 20.30
Giovedì 7 aprile, 20.30
Venerdì 8 aprile, 20.30
Sabato 9 aprile, 18.00
Domenica 10 aprile, 17.00
novità presenta questa
edizione di Œdipus?
«Rispetto alle scorse edizioni
il cast è di tutt’altro livello.
Una volta – almeno in Italia i cantanti che si occupavano
della musica contemporanea,
erano generalmente buoni
comprimari con una discreta
sicurezza nel solfeggio. Oggi
infine, dal punto di vista tecnico, le voci - soprattutto
quella del protagonista - sono
costantemente portate sul
“passaggio”.
E’ la prima volta che dirigo
Œdipus Rex, mentre ho già
diretto ampiamente il resto
del repertorio strawiskiano,
come per Uccello di Fuoco,
immagine. Tuttavia aveva un
talento colto, modernissimo.
Pur essendo un comunista
sfegatato, in quel periodo
stava lavorando alle porte di
S. Pietro ed era molto ispirato, anche da un punto di vista
spirituale. Fu un rapporto
simpaticissimo, del resto, con
i grandi artisti ci si trova
che affronto per la ventesima
volta circa. L’Œdipus Rex
del 1964, che io ebbi l’occasione di vedere di persona, è tra
i cinque spettacoli lirici a me
rimasti in tutta la vita maggiormente impressi; sono
stato quindi felice di trovare
finalmente
nel
Teatro
dell’Opera un teatro interessato alla programmazione di
quest’opera-oratorio.
Per quanto riguarda la partitura di Uccello di Fuoco, mi
sono basato esclusivamente
sulla prima edizione, del
1909, a parte alcune battute
dell’inizio che sono state integrate con la seconda edizione
del 1919».
Luigi Squarzina, come
abbiamo detto, firma
anche oggi la regia di questo spettacolo su scene
disegnate dallo scultore
Giacomo Manzù.
D. - Maestro Squarzina,
un ricordo personale dell’uomo Giacomo Manzù?
«Manzù era un “contadino
di genio”. Portava sempre il
cappello in testa, come i contadini. Lui teneva a questa
subito d’accordo, ti vengono
incontro su tutto e non
hanno remore, proprio perché
sicuri del fatto loro».
D. - Come avvenne il suo
incontro con Manzù e
come si svolse il vostro
lavoro?
«L’incontro tra me e Manzù
avvenne grazie all’idea del
sovrintendente del Teatro
dell’Opera
di
allora,
Massimo Bogiankinoi che mi
propose di rendere per la
prima volta quest’opera-oratorio uno spettacolo, con la
collaborazione di Giacomo
Manzù, che allora non aveva
ancora lavorato per il teatro.
Subito Manzù dimostrò di
avere una grande predisposizione anche per la scenografia: cominciò con il disegnare
il grande emiciclo, con il
podio e la scala. Io gli chiesi
di aggiungere altri elementi e
lui disegnò e realizzò con le
sue mani la sedia con l’elmo,
la quale ricorda che la vicenda dell’eroe non finisce con
l’Edipo Re, ma prosegue
come in letteratura. La sedia,
tipico elemento di Manzù,
Zoltan Pesko e Luigi Squarzina
invece abbiamo un cast eccezionale che spazia dal repertorio più classico, italiano e
tedesco, alla musica contemporanea. Questo lo si deve
soprattutto all’interesse delle
nuove generazioni di cantanti per la musica contemporanea. Del resto, Œdipus è
un’opera non facile per le
voci: innanzitutto, le tessiture multi-tonali richiedono ai
cantanti una pronta capacità
di intonazione; le difficili fioriture, che sono molto diverse
dal repertorio tradizionale;
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era infatti da lui chiamata “
l’unica eredità di casa
mia”.
Avevo ancora bisogno di un
idolo arcaico e lo scultore per
il grande elemento centrale si
ispirò alla Bocca della Verità.
Pensai che per fare lo spettacolo, il coro avrebbe dovuto
muoversi, ma poichè il coro è
fatto principalmente per cantare, mi venne l’idea di
nascondere il coro nella buca
e di mettere al suo posto, in
palcoscenico, dei mimi. Da
allora molti hanno ripreso
quest’idea, ma nel ‘64 questo
apparve
quasi
come
u n o ” s c a n d a l o ” .
Nell’allestimento, volutamente non c’è nulla di preciso o di esplicito: le figure
fanno parte della grande scultura della scena, in perenne
movimento, che si articola, si
fa e si disfa, senza raccontare
realisticamente la vicenda.
Tra le variazioni rispetto alla
produzione del ‘64, devo
ricordare l’inserimento delle
guardie e il maggior risalto
dato al ruolo delle otto minacciose presenze sacerdotali, che
sembrano conoscere già tutto
fin dall’inizio e che rappresentano il destino: “coloro
che ci sorvegliano al di là
della morte”».
D. - Ricordiamo anche la
grande qualità del testo di
Jean Cocteau…
«Esattamente, un testo formidabile che fu tradotto dal
cardinale Jean Daniélou,
grande teologo francese, in
un latino molto antico, preciceroniano dalla pronuncia
francesizzata. Il Cardinale
suggerì anche l’idea di far
annunciare al coro il suicidio
di Giocasta: un fatto così terribile doveva essere affidato a
una forza superiore alla voce
del singolo messaggero. Il
coro anticipa sempre gli altri
personaggi nella comprensione degli eventi. L’ultimo a
capire è sempre Edipo. Ho
cercato di rendere, attraverso
la mia regia, la lenta presa di
coscienza del protagonista,
punito dagli Dèi per il suo
sconfinato orgoglio».
Andrea Cionci
Il
Giornale dei Grandi Eventi
~~
Œdipus Rex - L’Uccello di Fuoco 3
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 5 – 10 aprile 2005
L’UCCELLO DI FUOCO
Racconto coreografico in due quadri di Michel Fokine
Musica di Igor Stravinskij
Maestro concertatore e Direttore d’Orchestra Zoltan Pesko
ORCHESTRA, CORO E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento dell’Opera Nazionale Lettone
Coreografia
Ricostruzione coreografica
Scene e costumi ricostruiti sui
bozzetti originali di
da
Disegno luci
Uccello di Fuoco
Principe
Principessa
Castchey – Il Mago
Michel Fokine
Andris Liepa
Alexander Golovin
e Lèon Bakst
Anna e Anatoly Nezhny
Bruno Monopoli
Personaggi / Interpreti
Irma Nioradze /
Gaia Straccamore (6, 8, 10/4)
Mario Marozzi /
Igor Yebra (6, 8, 10/4)
Laura Comi /
Gaia Straccamore (7, 9/4)
Manuel Paruccini / Mauro Murri
(6, 8, 10/4)
Trama
Œdipus Rex
N
el corso della rappresentazione un testo di Cocteau
è letto da un annunciatore a commento dell’azione,
mentre attori e coro rimangono quasi immobili
ATTO PRIMO - Nella piazza di Tebe la folla chiede
con angoscia ad Edipo di salvare la città dalla peste,
così come in precedenza l’aveva liberata dalla Sfinge
e dal suo pericoloso quesito. L’oracolo, dice Creonte,
sostiene che la città è colpevole di ospitare l’uccisore
del vecchio re Laio. Visto che ogni ricerca dell’assassino è vana, Edipo manda a chiamare il veggente cieco
Tiresia. Il loro confronto si trasforma in aspro dissidio:
Tiresia, provocato nell’amor proprio, dichiara che
l’assassino del re è il re. Edipo è infuriato credendo in
una congiura contro di lui. Intanto un coro esultante
saluta l’ingresso di Giocasta.
ATTO SECONDO – Giocasta rimprovera al marito
Edipo di urlare nel mezzo di una città malata.
Giocasta cerca di rassicurare il consorte, sostenendo
che non c’è da fidarsi degli oracoli; anche di Laio,
dice, predissero che sarebbe stato ucciso dal figlio ed
invece morì ad un trivio della strada per mano di un
forestiero. Mentre il coro ripete ossessivamente la
parola “trivium”, Edipo comincia a dubitare, ricordando come egli stesso, prima di arrivare a Tebe,
avesse ucciso ad un trivio un vecchio che lo aveva
provocato. In un duetto agitato i due coniugi esprimono la loro ansia crescente. La tragedia precipita su
Edipo: un messaggero porta da Corinto la notizia
della morte di Polibio, rivelando allo stesso tempo ad
Edipo che in realtà egli era solo un figlio adottivo del
Re deceduto. Infine, le parole del vecchio pastore non
lasciano più dubbi ad Edipo sull’atroce e dura verità:
senza saperlo egli ha ucciso il padre e si è congiunto
con la madre. Il messaggero dà notizia della tragica
fine di Giocasta che si è tolta la vita, mentre il coro
rende omaggio all’infelice destino dell’autoaccecato
Edipo.
Serata Stravinskji con
Œdipus Rex ed Uccello di fuoco
C
ome nel recente, ultimo appuntamento
(fuori abbonamento), dedicato a
Mascagni, il Teatro dell’Opera propone
un’altra serata a tema sul
compositore russo Igor
Stravinkji. Due titoli molto
suggestivi, l’opera-oratorio
Edipo Re ed il balletto
L’Uccello di fuoco. Il primo,
che si avvale del libretto di
Jean Cocteau, sarà proposto
in lingua originale, ovvero
quel latino voluto dallo stesso Stravinkji per accentuare l’arcaicità dell’azione, donando monumentalità all’antichissima
tragedia che vede l’uomo Edipo impotente di
fronte alla profezia dell’oracolo. Le scene ed i
costumi sono quelli disegnati dallo scultore
Giacomo Manzù per l’allestimento del 1964,
mentre la regia è affidata ad un nome di spicco
della cinematografia come
Luigi Squarzina.
Secondo titolo della serata
L’Uccello di fuoco, racconto
coreografico in due quadri di
Michel Fokine, tratto da varie
fiabe russe, la cui prima italiana si tenne proprio al Teatro
Costanzi il 9 aprile 1917, rappresentata dalla famosa compagnia dei Balletti Russi di Diaghilev.
La direzione d’orchestra di questa serata è affidata all’ottima bacchetta del maestro ungherese
Zoltan Pesko.
Editoriale
Un restyling per il decennale
U
na esperienza lunga dieci anni. Era
l’aprile del 1995 quando uscì il primo
numero de Il Giornale dei Grandi
Eventi, per la passione che univa alcuni di noi
nei confronti dell’equitazione e del melodramma. Il debutto del giornale, infatti,
avvenne in occasione del Concorso Ippico
Internazionale di Piazza di Siena. Il tutto nacque dal disagio che in tutti noi c’era, di trovare sui quotidiani una informazione che, per
quanto ampia, si presentava sempre troppo
limitata per il grande appassionato, per lo
specialista che non si accontentava di notizie
necessariamente superficiali, ma avrebbe
voluto saperne di più senza attendere un
mese per leggere resoconti ormai lontani sulle
riviste di settore.
L’idea fu quindi quella di creare, in spirito un
po’ “eroico”, un giornale che rispondesse a
quello che a noi mancava e che quindi – peccando forse di presunzione - anche all’altro
pubblico sarebbe stato gradito. In più – e
fummo tra i primi ad intuirlo – la pubblicazione doveva essere gratuita, sostenuta dalla
sola pubblicità (e qui mi sento di dover ringraziare la Dott.sa Isabella Tosato e l’amico
Alessandro Di Giacomo che cedettero in noi).
Il pericolo, però, era che un giornale gratuito
venisse sottovalutato, scambiato per un semplice volantino. Nacque così la formula che
ha poi contraddistinto la pubblicazione in
tutti questi anni: un giornale agile ma approfondito, che sapesse scavare in modo autorevole, variegato ed anche curioso, tutti gli
aspetti di una manifestazione, con articoli di
lunghezza contenuta in modo tale da non
scoraggiarne la lettura. Insomma un giornale
che, senza perdere i contenuti, potesse – e
possa - essere letto nei tempi morti, quando la
concentrazione è destinata ad essere spezzata
dal vicino che magri chiede di passare.
Adottammo così una delle regole base del
giornalismo, che ci veniva ripetuta agli esordi
della professione: tutto quello che è riportato
in venti pagine può essere benissimo detto in
venti righe!
Quell’anno capitò poi che in luglio Piazza di
Siena ospitasse la stagione estiva del Teatro
dell’Opera di Roma, orfana di Caracalla.
L’amore per la lirica ci portò a provare ad
adattare la formula all’Opera, trovando anche
la simpatia dell’allora soprintendente
Vidusso. L’intento era quello di fornire al
pubblico uno strumento per apprezzare al
meglio l’opera lirica, che rimane una delle
forme d’arte più complete, ma che per la sua
complessità necessita di un approfondimento
a tutto tondo su ambientazione, personaggi,
cantanti e musicisti. Da quell’estate sono passate stagioni dopo stagioni. In tutto questo
tempo abbiamo sempre cercato di accontentare il pubblico, di incuriosirlo e - attraverso i
vari collaboratori qualificatissimi – di guidarlo per mano nella migliore comprensione
possibile del singolo titolo.
In occasione di questi dieci anni abbiamo
anche deciso un piccolo restyling della testata, come omaggio al pubblico che ci gratifica
con continui elogi e dimostrazioni di apprezzamento. Un restyling affidato al grafico
Alessandro Spagnoli, che ha interessato la
sola copertina, visto il gradimento del pubblico nei confronti di una grafica interna volutamente sobria e lineare. Siamo orgogliosi
osservare ogni sera la quasi totalità della platea leggere con attenzione il giornale durante
gli intervalli ed anche del fatto che gli spettatori lo vogliano collezionare.
Desiderando, dunque, ringraziarVi per il
sostegno morale che ci avete fornito in tutti
questi anni, sperando da parte nostra di
offrirVi un giornale che sia all’altezza delle
Vostre aspettative.
Andrea Marini
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Œdipus Rex
Brigitte Pinter e Marta Moretto
John Uhlenhopp
Giocasta, madre e
moglie di Edipo
Edipo, semidio “figlio della
Fortuna” e vittima del Fato
I
l personaggio di Giocasta avrà la voce di due mezzosoprano: Brigitte Pinter
(5, 7, 8, 10 aprile) e Marta Moretto (6, 9 aprile). Brigitte Pinter ha iniziato lo
studio del canto a Vienna perfezionandosi poi a New York alla Juilliard
School of Music. Nel 1994 ha vinto il concorso Belvedere di Vienna, cui è seguito
nel 1995 il grande successo quale Jeanne in Die Teufel
von Loudun di Penderecki. Dal 1996 ha iniziato a cantare nei più noti teatri e nelle maggiori manifestazioni internazionali: dalla Carnegie Hall di New York, al
Salzburger Festspielen, alla Staatsoper di Amburgo e
quella di Stoccarda, per continuare con la
Musikverein di Vienna, la Filarmonica di Colonia, la
Konzerthaus di Vienna. Ha anche cantato a Monaco,
Francoforte e Zurigo. In Italia si è esibita a Cagliari,
Brigitte Pinter
Catania e Palermo. I ruoli da lei interpretati hanno
privilegiato la musica tedesca e il repertorio moderno e contemporaneo.
Marta Moretto si è diplomata in Canto presso il Conservatorio Cesare Pollini di
Padova, perfezionandosi successivamente con corsi e seminari sulla tecnica
vocale e interpretazione operistica e cameristica. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti artistici e premi internazionali e il suo debutto risale al 1990 nel ruolo
di Maddalena in Rigoletto a Città del Messico. Nel 1991 è stata Santuzza in
Cavalleria Rusticana a Lucca. Si è poi esibita nei maggiori titoli verdiani (Aida,
Ballo in maschera, Nabucco, Rigoletto, Trovatore), pucciniani (Madama Butterfly, Suor
Angelica, Gianni Schicchi) e wagneriani (Lohengrin), ma anche in lavori di Busoni
(Arlecchino), Britten (The rape of Lucrezia) e Kurt Weill (Ascesa e caduta della città di
Mahagonny). Nel 1994 ha debuttato al Teatro La Fenice di Venezia con l’opera
Turandot di Busoni, produzione premiata con il Premio Abbiati. Ha cantato nei
maggiori teatri del mondo, ma i suoi impegni includono anche un’intensa attività concertistica, che riserva particolare attenzione al repertorio liederistico.
L
a voce di Edipo sarà quella del tenore d’oltreoceano John
Uhlenhopp, nato a Rochester, nel Minnesota e cresciuto a
Bogotà in Colombia. I suoi debutti statunitensi includono
anche il ruolo di Alfredo nella Traviata, di Ismaele nel Nabucco, di
Arturo nella Lucia di Lammermoor,
di Don José nella Carmen di Bizet,
rappresentati su palcoscenici del
livello dell’Opera di Seattle, di
Cincinnati, del Metropolitan e
della Carnegie Hall di New York.
Vincitore di importanti premi
internazionali, da New York a
Vienna, ha calcato i palcoscenici
europei di Londra, Düsseldorf,
Lucerna, Oslo, ma il suo debutto
in Europa risale al 1995 in Pelléas et
Mélisande di Debussy, seguito dal
ruolo di Tom Rakewell in The
John Uhlenhopp
Rake’s Progress di Stravinsky e
quello di Tamino per Die Zauberflöte. Le sue apparizioni sono state
anche in manifestazioni concertistiche. I suoi impegni futuri includono il ruolo di Hoffmann in Les contes d’Hoffmann per l’Opera di
Seattle, quello di Eléazar in La Juive per La Fenice di Venezia e quello di Tristano per il Teatro Regio di Torino.
Michail Ryssov
Tiresia, l’indovino
non creduto
Alessandro Guerzoni
Creonte, cognato infedele
ambizioso di potere
I
5
l baritono che darà la voce a Creonte è il pescarese Alessandro Guerzoni,
diplomato in canto col massimo dei voti, lode e menzione d’onore al
Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Finalista e vincitore di importanti
concorsi internazionali (Viotti di Vercelli, Riccardo Zandonai di Rovereto,
Umberto Giordano di Foggia, T.I.M. di Roma,
Pavarotti International di Modena, Belvedere di
Vienna e Mozarteum di Salisburgo), ha esordito
nel 1993 al Teatro La Fenice di Venezia nella
Bohème. In campo concertistico è stato ospite di
prestigiosi enti e festival internazionali e il suo
repertorio spazia da Monteverdi a Rossini, da
Haydn, a Händel, Purcell, Mozart, Gounod,
Bellini, Verdi, Puccini, Prokofiev, Wolf-Ferrari,
Martinu, fino ai Lieder di Brahms, Schubert e
Alessandro Guerzoni
Mahler. Ha preso parte alla produzione di Don
Giovanni diretta da Claudio Abbado (regìa di Peter Brook) ad Aix-Provence,
ripresa a Stockholm, Lyon, Milano, Bruxelles e Tokyo e ha recentemente
debuttato nella Traviata al Maggio Musicale Fiorentino e in Le siège de Corinthe al
Rossini Opera Festival. Canta nel cast stabile del Bühnen der Stadt Köln e si è
esibito a Roma nella Messa da Requiem di Mozart all’Accademia di Santa
Cecilia e in Semiramide al Teatro dell’Opera.
I
l basso che interpreta Tiresia è Michail Ryssov, nato in Crimea nell’ex Unione Sovietica e laureatosi al Conservatorio di Minsk.
Perfezionatosi al Teatro alla Scala, ha vinto concorsi internazionali
tra cui il Toti dal Monte di Treviso. Dal 1990 ha iniziato a collaborare con
l’Arena di Verona dove ha cantato nei
più importanti ruoli verdiani: il Re e
Ramphis (Aida), Zaccaria (Nabucco),
Sparafucile (Rigoletto) e Padre
Guardiano (La forza del destino). E’ stato
poi Eugenio Onieghin alla Fenice di
Venezia, il Grande Inquisitore nel Don
Carlo alla Deutsche Oper di
Duesseldorf e Filippo II alla Swedish
Royal Opera di Stoccolma, Ramfis
nell’Aida a Reykjavik, Banco (Macbeth) e
Timur nella Turandot al Bellini di
Catania e Procida ne I vespri siciliani a
St. Gallen. La sua attività concertistica
Michail Ryssova
valorizza il repertorio del Novecento:
L’enfance de Christ (Berlioz), Le Renard (Stravinskij), Divara (Azio
Corghi), Stabat mater (Szymanowski) e la Messa Glasgolitica (Janacek).
Presente nei cartelloni dei più importanti teatri e festival di tutto il
mondo, canterà ancora all’opera di Roma in Turandot e Aida.
Pagina a cura di Stefania Soldati - Foto di Corrado Maria Falsini
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Œdipus Rex
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Storia dell’opera
Un linguaggio antico per un’opera moderna
L
’opera-oratorio
Oedipus rex è un
lavoro del tutto singolare nel panorama
musicale novecentesco:
pur utilizzando, infatti,
strumenti di linguaggio
antichi per il periodo in
cui fu creata, si presenta
come un’opera modernissima sia rispetto al secolo
in cui fu concepita, ma
anche a quello in cui ci
troviamo a vivere.
Pensata nella forma di
“opera-oratorio” in un
periodo in cui l’opera
stava diventando fuori
Igor Stravinskij (caricatura)
moda e l’oratorio non era
utilizzato come forma di
espressione musicale da
diversi secoli, la genialità
di questo lavoro va ricercata nella sua capacità di
farsi specchio dell’ineluttabilità del destino dell’esistenza umana. L’Oedipus
rex di Stravinskji non è,
infatti, un dramma di personaggi e di passioni
umane, ma quello di un
uomo contro il fato: l’uomo e il suo destino, ovvero l’umanità e il mistero
del vivere. Compreso
questo, la staticità dei personaggi e la forza della
sua musica appaiono
quanto mai contestualizzate e moderne. Per utilizzare le parole del musico-
logo Massimo Mila «Se al
posto del fato volessimo metterci qualcos’altro come il
collettivismo di una civiltà
di massa, l’alienazione, la
morsa in cui la tecnocrazia
va serrando l’individuo, allora ecco che questo venerabile
pezzo da museo potrebbe
apparirci di spaventosa
attualità e spiegare le ragioni
della sua crescente fortuna».
Musica unica protagonista
L’Oedipus rex, in due atti
ispirato alla tragedia di
Sofocle Edipo re, fu sin dall’inizio concepita dal suo
autore come un
“lavoro di grandi
proporzioni”:
un’opera o un
oratorio, il cui
soggetto
fosse
così conosciuto
da non distrarre il
pubblico
dalla
musica
che
avrebbe dovuto
essere la vera e
unica protagonista
dell’opera.
Chiamato
agli
inizi del 1926 a
Venezia per eseguire
la
sua
Sonata per pianoforte (1925) al
Festival organizzato dalla Società
Internazionale di
Musica Contemporanea,
Stravinskji di ritorno dalla
città lagunare si fermò a
Genova. In una libreria
acquistò il libro di
Joergensen sulla vita di
San Francesco D’Assisi,
che gli fu d’ispirazione
per il nuovo lavoro che
aveva l’intenzione di creare. Dalla lettura del testo
egli apprese che il Santo
di Assisi nelle occasioni
solenni e quando pregava, preferiva utilizzare il
francese invece dell’italiano. Si convinse, dunque,
che le situazioni speciali
meritassero l’utilizzo di
un linguaggio particolare
e iniziò a pensare a quale
potesse essere la lingua
più adatta per la nuova
opera. La scelta cadde sul
latino. «Questa scelta presentava ancora il vantaggio
che avrei avuto a che fare con
una materia non morta, ma
pietrificata, divenuta monumentale e immunizzata contro ogni trivializzazione».
Libretto di Cocteau
Tornato a Nizza maturò
l’idea di utilizzare come
soggetto uno dei miti
della Grecia classica e affidò la stesura del libretto
all’amico Jean Cocteau,
del quale Stravinskij
aveva una stima incondizionata: «possiede un eccellente senso del teatro. Sa
mutuamente scambiare i
valori, vedere e sentire il particolare che, in lui, assume
sempre un’importanza capitale. Tale qualità si riferisce
sia al modo di disporre le
parti degli attori, sia ai
costumi e fino ai più piccoli
accessori». A Cocteau, l’idea piacque immediatamente e i due artisti iniziarono a collaborare. Al
principio di novembre
subirono una battuta d’arresto perché Stravinskij
partì per eseguire e dirigere alcuni suoi lavori nel
nord Europa. Dapprima
fu a Zurigo eseguì il
Concerto sotto la direzione
di Volkmanr Andrete e
poi a Basilea, dove fu
diretto
dal
maestro
Herman Suter. Tornò a
Nizza nel mese di dicembre e durante le vacanze
Théatre Sarah Bernardt
di Natale attese impaziente di ricevere il materiale
dall’amico drammaturgo
per potersi rimettere a
lavoro. All’inizio di gennaio finalmente Cocteau
gli inviò le prime pagine
dell’Oedipus rex, già tradotte in latino da Jean
Daniélon.
Stravinskij,
entusiasta, si mise immediatamente a comporre.
«Non avrei mai potuto
augurarmi un testo così perfetto e che rispondesse
meglio ad ogni mio desiderio», commenterà poi
nelle Cronache della mia
vita testo in cui sono raccolte notizie biografiche
fino all’anno 1935 in cui fu
pubblicato.
La lenta composizione
La composizione però fu
nuovamente interrotta
per un nuovo giro di concerti
in
Europa:
Amsterdam, Rotterdam,
Haarlem,
Budapest,
Vienna, Zagabria e infine
Milano dove il composi-
Sergej Diaghilev in un dipinto di Valentin Serov
tore ebbe modo di incontrare Toscanini che nella
stagione di primavera
della Scala avrebbe dovuto dirigere le Rossignol
(1914) e Petru?ka (1911).
Tornato a Nizza alla fine
dell’estate si rimise alacremente a lavoro. La partitura dell’Oedipus rex fu completata il 14 maggio 1927 e
la prima rappresentazione
ebbe luogo, in forma di
concerto, il 30 maggio
1927 a Parigi al Théatre
Sarah Bernhardt, sotto la
direzione dello stesso
Stravinskji con la compagnia dei Balletts Russes di
Sergej Djagilev. La serata
fu dedicata proprio a
Djagilev, impresario e artista, intimo amico di
Stravinskji e di Couteau,
per festeggiare il suo
primo ventennio di attività teatrale con la compagnia dei Ballets Russes, che
tanta fortuna aveva portato a Stravinskji al tempo
della creazione dell’Oiseau
de feu.
La prima rappresentazione in forma teatrale
avvenne, però, il 23 febbraio 1928 a Vienna con la
direzione
di
Otto
Klemperer, mentre la
prima italiana ebbe luogo
al Teatro Comunale di
Firenze il 22 maggio 1937
con la direzione di Enrico
Molinari, in occasione del
3° Maggio Musicale
Fiorentino.
Dell’opera Stravinskji realizzò nel 1948 una nuova
versione con piccolissime
differenze.
Claudia Capodagli
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Œdipus Rex
7
Analisi musicale
Edipo, nel filone di opere
sull’antica Grecia
«
… Qui (a Genova,
n.d.r.) trovai per caso in
una libreria, un libro di
Jorgenses su San Francesco
d’Assisi, opera della quale
avevo già sentito parlare.
Sentendola, fui colpito da un
passo che confermò una convinzione profondamente radicata in me. Si sa che la lingua
familiare del Santo era l’italiana. Ma nelle occasioni solenni,
come la preghiera, egli faceva
l’uso del francese (provenzale?
Sua madre era provenzale). Ho
sempre ritenuto che negli
argomenti sublimi si imponesse un linguaggio speciale e non
quello di tutti i giorni. Fu così
che mi posi alla ricerca della
lingua che sarebbe stata più
adatta all’opera progettata e,
finalmente, mi fermai al latino.
Questa scelta presentava ancora
il vantaggio che avrei avuto a
che fare con una materia non
morta, ma pietrificata, divenuta
monumentale e immunizzata
contro ogni trivializzazione».
Nelle sue “Cronache della
mia vita”, Stravinskij rac-
F
contò così la genesi di
“Edipo re”, una delle sue
opere più importanti e più
originali, eseguita per la
prima volta, non senza contrasti, nel 1927 sotto la direzione dello stesso autore.
Oedipus rex appartiene, nel
quadro del neoclassicismo
più austero, ad un filone
d’opere “greche” che impegnò l’artista russo per un
buon numero d’anni. Già
nel 1905, infatti, aveva scritto Il fauno e la pastorella, fra il
1926 e il 1934 avrebbe prodotto Apollon Musagete e
Persephone, mentre al periodo americano risale Orfeo.
La rivisitazione della classicità servì a Stravinskij per
adottare uno stile musicale
decisamente “controcorrente”. E se in Apollon Musagete
la scelta si tradusse in un
balletto dai caratteri soavemente eufonici, in Oedipus
rex, il compositore si divertì
a ricreare le atmosfere della
tragedia greca con uno stile
maestosamente oratoriale.
L’amicizia con Cocteau suggerì Edipo re che aveva il
vantaggio di raccontare una
storia ben nota con la conseguenza di consentire agli
ascoltatori di concentrarsi
sui valori musicali, essenziali in questa operazione
di “recupero”.
Latino e francese
Il testo, da Sofocle, fu dunque tradotto in latino. Ma
nel prologo, pronunciato
dallo speaker, la lingua utilizzata è il francese. E questo bilinguismo serviva a
legare l’antichità all’attualità, con esiti davvero stimolanti. Stravinskij costruì un
teatro epico spogliato dell’azione, oggettivo, con gli
attori fermi come statue, in
una vocalità che privilegia
il declamato senza rifiutare
altre soluzioni espressive.
E’ il caso, ad esempio di
Edipo che si esprime in uno
stile melismatico di forte
impatto espressivo.
Il tessuto musicale, sempre
rifacendosi al dettato neoclassico, si struttura nelle
tradizionali forme chiuse:
ci sono dunque arie, duetti e cori. Questi ultimi
rivestono un ruolo fondamentale in quanto il coro,
nella tradizione della tragedia classica, ha una funzione di “commento” dell’azione: si esprime in
blocchi poderosi, statici,
granitici. La struttura Igor Stravinskij
musicale si muove su
atmosfere tonali privile- di entro i quali non si avvergiando un diatonismo dal tono sostanziali modifiche, al
contrario si impone una sorta
sapore antico.
di ritmico basso ostinato.
Ritmica compassata
Le voci sono sostenute da
L’idea di fissità si estrinseca una vera e propria orchestra
anche attraverso una ritmi- sinfonica, il che costituisce
ca compassata che rinuncia, per Stravinskij quasi una
se non in rari casi, a quei novità se si considera che a
continui spostamenti di partire dal 1914 le sue espeaccenti e mutamenti di rienze teatrali avevano utilizfigure metriche che aveva- zato organici ridotti e sovenno segnato in maniera inci- te dal sapore timbrico partisiva la prima fase creativa colari (si pensi alle “Nozze”
stravinskiana. La trama rit- accompagnate da quattro
mica invece si basa su una pianoforti e percussioni).
Roberto Iovino
successione di lunghi perio-
Il librettista
u battezzato dai circoli
bohémien il Principe frivolo, dall’omonimo titolo
di una sua raccolta di poesie
pubblicata a 21 anni, ma Jean
Cocteau, amante della mondanità, della provocazione e dell’oppio, non era
privo di reale talento che versò brillantemente in diverse arti: poesia, letteratura, teatro, cinema, balletto, opera e pittura.
Nato a Maison-Laffitte, piccola città vicino Parigi, il 5 luglio 1889 da una famiglia alto-borghese, e, dopo una carriera scolastica mediocre, si insersce nei circoli mondani e intellettuali parigini e divenendo presto una delle figure più in
vista dell’avanguardia francese nel periodo fra le due guerre mondiali.
Frequenta scrittori come Rostand, Daudet, Proust e Apollinaire; successivamente si avvicina al gruppo della Nouvelle Revue Française di Gide e Copeau,
ma l’incontro per lui determinante fu quello con i compositori Stravinskij,
Satie, il coreografo russo Diaghilev e Picasso.
Entrò in contatto con i movimenti cubista, surrealista e dadaista; con i surrealisti ebbe anche degli scontri piuttosto violenti, ma rimase uno spirito libero
sempre alla ricerca di nuove forme di creatività che passarono dalla prima
opera in versi scritta a soli 19 anni, La lampada di Aladino (1909) alla decorazione della cappella della Vergine nella Chiesa di Francia a Londra nel 1959.
Verso la fine della Grande Guerra stringe amicizia con Satie di cui sostenne la
poetica musicale che reagisce al debussismo con un ordine semplificatore,
ispirato alla melodia elementare dei circhi e delle fiere. Su questa poetica si
baserà l’opuscolo Le Coq et l’Arlequin (1918) e il libretto del balletto Parade
(1917) con la musica di Satie, la direzione di Diaghilev e le scene di Picasso.
Quest’opera parodistica e cubista provocò scandalo e movimentate polemiche. Cocteau realizzò inoltre scene e costumi di molti balletti per l’Opéra di
Parigi (Phèdre 1950).
Il suo primo libro importante fu Le Potomak (1919), una sorta di abile costruzio-
Jean Cocteau
ne intellettualistica, mentre nel 1929 pubblicò il suo romanzo più famoso, Les Enfants
terribles, documento intenso e singolare
della
disperazione
moderna.
Successivamente con Le Sang d’un poète
(1930) di ispirazione autobiografica approda al cinema e da questo momento teatro e
cinema diventano le sue attività principali. Per il teatro tenta di modernizzare
antichi miti: Orphée (1926), Antigone (1928), La Machine infernale (1934), Bacchus
(1952) o analizza temi tragici del costume contemporaneo come Les Parents terribles (1938) e La voix humaine (1930). Scrive per Strawinsky il libretto
dell’Oedipe roi (1927) che in seguito rielabora e diventa l’originale Machine
infernale, opera che segna una svolta nella sua produzione drammatica e gli
assicura una vasta popolarità.
Cocteau ha il merito di essere un arguto esteta dell’intelligenza e un incredibile inventore e sperimentatore di forme che lasceranno il segno negli spettacoli
di quegli anni.
Durante la seconda guerra mondiale Cocteau si stabilisce lontano da Parigi,
sono anni di contrasti con l’ambiente parigino e lotte con l’autorità. Dalla fine
della guerra Cocteau vive tra Parigi e la Costa Azzurra e continua a scrivere
libri tra cui è importante La Difficulté d’être (1947), si occupa di cinema e viaggia per diversi paesi europei dove fa delle applauditissime conversazioni.
Il 3 marzo 1955 è eletto membro dell’Accadémie Française.
Muore a 74 ani a Milly-la-Forêt, nei pressi di Fontainebleau, l’11 ottobre1963.
Alice Calabresi
Œdipus Rex
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Nelle tragedie greche la storia del re di Tebe
Edipo, un Re in cerca della verità
È
una delle massime
figure del teatro di
tutti i tempi, Edipo,
simbolo di chi è in continuo
pellegrinaggio, di chi lungo
la strada cerca e vuole possedere a tutti costi la sua
verità, pur sapendo che questa può provocare atroci sofferenze. Una verità che l’uomo vuole conoscere e comprendere, ma che non può
essere cambiata, vista l’inesorabilità del destino. Ed a
forza di strattoni nel tentativo di liberarsi dalle sue
angosce, l’uomo si impiglia
sempre di più nelle maglie
della rete ed alla fine precipita nella rovina.
Edipo non è però una vittima e tanto meno uno psicopatico. È invece una figura
eletta, magnanima, integra;
una grande personalità trasmessa dalla tradizione
popolare e tramandata nei
secoli dai tragediografi che
raccontarono la saga tebana,
ed in particolare nell’Edipo
Re e nell’Edipo a Colono di
Sofocle,
rappresentato
postumo nel 401 a.C.
Una figura positiva, che da
oltre 2400 anni permette agli
spettatori di uscire dal teatro
con un sentimento di sollievo, nonostante la tragedia.
L’origine del mito
All’origine del mito di Edipo
c’è una verità divina.
L’oracolo di Apollo a Delfi
aveva infatti predetto al Re
di Tebe Laio che il figlio nato
dalla sua unione con la
moglie Giocasta avrebbe
ucciso il proprio padre e
sposato la madre.
Fu così che, quando il bambino venne alla luce, fu affidato ad un servo perché lo
uccidesse. Non avendo il
cuore di eseguire il crudele
ordine, il servo forò i piedi al
neonato e lo appese ad un
albero sul Monte Cicerone,
lasciandolo al suo destino.
Il piccolo non era, però,
destinato alla morte e fu raccolto da un pastore che lo
affidò al re di una città vicina, Polibo. Gli fu dato il
nome di Edipo, che vuol dire
“piede gonfio”, proprio per i
postumi della ferita subita.
Molti anni dopo, Edipo,
sospettando di non essere il
figlio del re Polibo, consultò
l’oracolo di Delfi per sapere
chi fosse il suo
vero padre. Ma
ricevette lo stesso responso che
molti
anni
prima era stato
dato a Laio: Edipo era destinato ad uccidere suo padre e
a sposare sua madre.
Dunque, meglio per lui mai
tornare nella sua terra.
Sulla strada di ritorno dal
santuario Edipo, però, ebbe
un incontro che gli sarà fatale.
Incrociò Laio, il quale gli intimò di lasciare la precedenza
ai più anziani. Ne nacque un
violento diverbio, durante il
quale Edipo, senza saperlo,
uccise suo padre. La prima
parte della profezia si era
compiuta.
Prima di morire, anche Laio
si stava recando a Delfi per
consultare l’oracolo. La
Sfinge, infatti, accovacciata su
una rupe vicino a Tebe, poneva un indovinello ad ogni
viaggiatore che passava. Chi
non riusciva a risolvere il
quesito veniva strangolato e
divorato dal mostro, divenuto un vero e proprio flagello
per la regione. Anche Edipo
incontrò la Sfinge, riuscì a trovare la risposta esatta al quesito e l’animale si gettò dalla
rupe, sfracellandosi. I Tebani,
esultanti, acclamarono Edipo
re della città. Fu così che egli,
senza saperlo, prese il trono
che era stato di suo padre.
Ignaro del suo passato, sposò
anche la regina Giocasta, in
realtà sua madre.
L’incestuosa unione fu punita dagli dei e così sulla città
di Tebe si abbattè la tremenda pestilenza con cui si apre
la tragedia sofoclea. Il re
Edipo, non riuscendo ad
affrontare il flagello, consultò l’indovino Tiresia, il quale
rispose che, per porre fine
alla calamità, sarebbe stato
necessario punire l’assassino
di Laio, di cui nessuno però
conosceva il nome.
Dopo aver maledetto e condannato all’esilio l’ignoto
uccisore, Edipo perseguì un
tragico percorso di ricerca
del colpevole che lo portò a
scoprire tutta la verità. Per
l’orrore, la regina Giocasta si
suicidò, mentre Edipo si trafisse gli occhi.
Ma il peso della maledizione
incombeva. Fu così che
Edipo lasciò Tebe e, completamente cieco, vagò per
molti anni di paese in paese.
Il crudele destino
Il destino crudele doveva
però abbattersi anche sui
suoi quattro figli, Eteocle,
Polinice, Antigone ed
Ismene. I due maschi,
Etoeocle e Polinice, si uccisero a vicenda nella lotta per il
governo di Tebe, mentre
Antigone – destinata molti
anni dopo a vendicare i fratelli – accompagnò Edipo
nel suo lungo peregrinare,
fino a giungere nell’Attica,
in un sobborgo chiamato
Colono. Lì, dopo svariate
avventure, Edipo misteriosamente morì. Fu seppellito
ad Atene da Teseo, in una
tomba che più tardi divenne
luogo di culto. Anche se,
come racconta Pausania, ad
Atene «c’è la tomba di Edipo:
ma, dopo molte indagini, ho
scoperto che le sue ossa furono
portate a Tebe».
Elena Cagiano d’Azevedo
Come la leggenda è giunta fino a noi
Edipo nella letteratura antica
I
“Edipo e la Sfinge, in un quadro di
Gustave Moreau del 1864”
l racconto del tragico destino di Edipo è una
delle fonti di ispirazione più ricche della letteratura greca. La narrazione più nota e più vicina al nostro sentire è quella contenuta nelle tre tragedie di Sofocle, Antigone, Edipo Re e Edipo a
Colono, rappresentato postumo, nel 401 a.C. Ma
anche gli altri tragediografi e i commediografi,
come Aristofane nelle Rane, alludono a questa storia che doveva essere ben nota nell’antichità.
Ogni autore adattava la trama ai valori e agli
ammonimenti che desiderava trasmettere. Eschilo
si concentrò sul tema della colpa atavica, iniziata
con Laio, che genera la maledizione degli dei e che
ricade sulle generazioni fino all’espiazione. Scrisse
Laio, Edipo, entrambe perdute, i Sette contro Tebe e il
dramma satiresco Sfinge, che insieme compongono
la Trilogia tebana, con cui il tragediografo vinse il
primo premio dell’agone ateniese nel 467 a.C.
Euripide scrisse le Fenicie, Antigone ed un Edipo
che non è giunto fino a noi.
Perdute sono anche l’Edipodia, un poema epico del
ciclo tebano in 6600 versi, attribuito a Cinetone, e
la Tebaide. Dalla versione più nota del mito si
discostano gli scrittori più antichi, come Omero
nell’Iliade e Esiodo nelle Opere e i giorni.
Anche i Latini presero spunto dal ciclo tebano per
delle tragedie sul tema: la più celebre e densa di
significati è l’Edipo di Seneca che, pur distaccandosi dal tema sofocleo, volle ancora una volta
ricordare l’impotenza dell’uomo di fronte
all’ansia, alle preoccupazioni, ai misteri della
vita: «È il fato che ci trascina, cedete al fato: / la
nostra inquietudine non può / cambiare la fama
del fuso destinato. / Tutto ciò che noi mortali
soffriamo, / tutto ciò che compiamo viene dall’alto».
Il
Œdipus Rex
Giornale dei Grandi Eventi
9
La verità archeologica del mito
La saga tebana, fra leggenda e storia
L
a saga tebana razionalizza le vicende
della dinastia di
Cadmo, capostipite della
famiglia da cui discesero
Edipo ed i suoi figli Eteocle
e Polinice, al tempo dei
quali Tebe fu distrutta dalla
città di Argo.
Nonostante le vicende narrate siano costruite sui
motivi classici del mito – si
pensi all’esposizione di
Edipo neonato e al suo
ritrovamento da parte di
un pastore – gli eventi narrati sembrano avere dei
fondamenti storici, testimoniati dalle indagini archeologiche.
La città di Tebe, teatro delle
vicende della saga, era un
antichissimo centro posto
in una fertile pianura fra i
due fiumi Asopo ed
Ismeno, ad una sessantina
di chilometri a Nord-Ovest
di Atene, nella regione
della Beozia. La sua origine
si perde nella notte dei
tempi. Secondo la tradizione più comune, era stata
fondata per volere dell’oracolo di Delfi dal leggendario eroe Cadmo, il capo di
un gruppo di Fenici, che si
erano appropriati del territorio uccidendo il drago
che custodiva la fonte
Areia.
Questi eventi leggendari,
trovano però un riscontro
nel territorio della moderna città di Tebe: il celebre
Palazzo di Cadmo, citato
dalle fonti antiche, viene
riconosciuto nelle rovine di
un ampio palazzo regale
del XIV sec.a.C., posto sull’acropoli della città.
Lo studio della disposizione degli ambienti ha permesso agli archeologi di
identificare una tipica
struttura palaziale micenea, in cui, oltre al potere
politico e militare, si esercitavano le funzioni amministrative e le azioni commerciali, si conservavano gli
archivi, si svolgevano le
feste di un territorio posto
sotto il controllo di un capo
riconosciuto.
Il
rinvenimento
di
tesori artistici
di notevole
valore, come
gli affreschi e
un ingente
numero di
tavolette
Affreschi del Palazzo c.d. di Cadmo (XIV-XIII Sec. a.C.)
iscritte in lineare B (l’antica scrittura dei greci micenei), ha permesso di ridare vita al palazzo ed ha
offerto un’immagine della
fioritura economica e culturale della Tebe cadmea.
Per questo, la situazione
tebana è molto simile a
quella delle altre cittàstato dell’Età del Bronzo,
come
Micene, Argo,
Tirinto, Pilo, da cui secondo il mito erano partiti i
capi achei che combatterono la Guerra di Troia.
A Tebe si conservano
anche i resti delle antiche
mura, con le sette porte
mitologiche (una sola è
ben conservata), davanti
alle quali combatterono
gli eroi di Argo venuti in
aiuto del figlio di Edipo,
Polinice, a cui il fratello
Eteocle aveva usurpato il
trono. Una guerra civile,
dunque, che si concluse
con la morte dei due fratelli, ai quali si attribuisce
convenzionalmente
la
tomba a camera “dei figli
di Edipo”. L’impresa, raccontata nei Sette contro
Tebe di Eschilo, fu ripetuta
dieci anni dopo dai
discendenti degli eroi di
Argo,
gli
Epigoni,
anch’essi provenienti da
Argo, che trionfarono e
rasero al suolo la città.
A questi eventi mitici, corrispondono sul terreno i
segni di due distruzioni di
Tebe, avvenute rispettivamente alla metà e alla fine
del XIII sec. a.C. L’evento
dovette assumere un’importanza epocale nei rapporti fra le antiche cittàstato, dal momento che –
molti secoli dopo – la città
di Argo dedicò nel
Santuario di Delfi degli ex
voto che evocavano proprio i mitici Sette e gli
Il quesito
della Sfinge
La sfinge chiede a Edipo chi è «quell’essere che
ha quattro gambe, poi due e poi ancora tre, ma
una sola voce; e quante più gambe ha, tanto più
è debole».
La risposta di Edipo è: «L’uomo». Questi infatti
è l’unico essere che all’inizio della vita si muove
aiutandosi con le mani, da adulto sui due piedi,
e da vecchio aiutandosi con un bastone.
Gioielli trovati nella stanza del tesoro del palazzo miceneo a Tebe
Epigoni.
La fine della Tebe di
Cadmo e di Edipo, testimoniata dalle due distruzioni, si inserisce in quel
collasso politico, economico e culturale di immense
proporzioni che fu la fine
della civiltà micenea.
Intorno al 1200 a.C., i centri più importanti bruciarono, le rotte marittime
commerciali si chiusero e
consistenti nuclei di popoli si spostarono da un
luogo all’altro, dando origine a nuove società.
Le ipotesi su questa catastrofe che sconvolse tutto
il Mediterraneo orientale
sono diverse ed una spiegazione unanimemente
riconosciuta ancora non
esiste. Certo è che, quando questo processo fu
completato, in Grecia era
sorto un nuovo mondo.
E.C.A.
Œdipus Rex
10
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Un musicista che ha saputo spaziare tra generi diversi
La straordinaria carriera di Igor il Grande
“E
ra un insegnante
molto
insolito.
Benché fosse lui
stesso
professore
al
Conservatorio
di
Pietroburgo, mi consigliò di
non entrarci; ma al suo posto
mi fece il dono prezioso delle
sue indimenticabili lezioni
(1903-06). Queste lezioni
duravano poco più di un’ora e
avvenivano due volte la settimana. L’insegnamento e l’esercitazione all’orchestrazione ne costituivano l’argomento principale. Mi diede da
orchestrare le Sonate per pianoforte ed i Quartetti di
Beethoven e le marce di
Schubert e talvolta la sua
stessa musica, la cui orchestrazione non era ancora
stata pubblicata». Igor
Stravinskij ricordò così il
suo periodo di apprendistato in Russia con
Rimskij-Korsakov.
Stravinskij ha costituito
con Schoenberg il punto di
riferimento fondamentale
per tutto il Novecento.
Artisti dagli interessi e dal
temperamento differente,
hanno saputo interpretare
lucidamente il loro tempo
in maniera del tutto autonoma e personale indicando due vie essenziali per la
musica moderna.
Dopo la formazione con
R i m s k i - K o r s a k o v,
Stravinskij ebbe la fortuna
di conoscere Diaghilev,
vulcanico direttore della
Compagnia dei Balletti
Russi, che gli commissionò
la strumentazione di due
pezzi di Chopin per il balletto Les Sylphides, allestito
nella prima stagione dei
Balletti Russi a Parigi
(1909).
Il successo arriso allo spettacolo convinse Diaghilev
ad affidare all’artista russo
la composizione di un
intero balletto, L’oiseau de
feu (L’uccello di fuoco) presentato all’Opéra di Parigi
il 25 giugno 1910 con la
coreografia di Michel
Fokine. Partitura colorita e
abbagliante, irruente nei
ritmi, che rivelò l’estro del
giovane autore, degno
erede del suo maestro nel
trattamento dell’orchestra.
Nel 1911 a Parigi Diaghilev
rappresentò con grande
successo
il
balletto
Petrouchka, coreografia di
Fokine, scene di Alexandre
Benois. Stravinskij fece
largo uso di fonti popolari
russe, piegando però le
citazioni ad un gusto totalmente personale e originale. Rese il clima festoso di
un carnevale russo attraverso un pulsare ritmico
irruente, trascinante, un
quadro di
vita incalz a n t e .
Abbandonò
la tonalità a
favore
di
scale modali, costruì
ampie strutture basando il proprio metodo elaborativo non sul
tradizionale
p r o c e d i - Igor Stravinskij
mento dello
sviluppo classico-romantico, ma sul principio della
ripetizione: brevi incisi
tematici venivano cioè iterati, sovrapposti o isolati
originando un originale
uso della dissonanza. La
timbrica era secca, tagliente, per l’armonia aspra e
per l’utilizzo degli strumenti in funzione antiromantica: il pianoforte era a
tutti gli effetti strumento
percussivo, i fiati spaziavano negli acuti o ricreano
l’ambientazione
delle
bande chiassose.
La rivoluzione della
“Sagra della primavera”
Nel 1913 (l’anno prima
Schoenberg aveva prodotto
Pierrot
lunaire)
Stravinskij mise in scena la
Sagra della primavera ancora su commissione di
Diaghilev e con le coreografie di Nijinskij. Un
grande scandalo nella
Parigi del tempo e un’au-
tentica rivoluzione nella
musica. Con il Pierrot e con
La sagra appariva chiaro
che il concetto di bello dell’epoca classico-romantica
era definitivamente tramontato. La Primavera
stravinskijana non aveva
nulla della eleganza, della
dolcezza delle tante primavere del passato. Il
musicista volle creare una
serie di “Quadri della
Russia pagana”, celebrando l’avvento della primavera secondo i riti antichi
culminanti nel sacrificio di
una vergine. Questo programma lo portò a concepire una musica selvaggia,
aggressiva, apparentemente caotica come caotico era
l’universo dominato dalle
forze primigenie che si
scatenano in danze dal
ritmo incontenibile. L’uso
di scale modali, l’ossessiva
ripetizione di elementi
motivici, lo straordinario
irrompere di sezioni ritmiche incontrollabili attraverso un geniale utilizzo
di pause e di fragorosi
accordi a piena orchestra
davano alla partitura una
fisionomia
del
tutto
nuova.
Nel periodo bellico successivo, Stravinskij, esaurita
la fase giovanile fortemente rivoluzionaria, mutò
gradualmente rotta.
I
lavori teatrali del tempo
rivelarono l’ironia e l’atteggiamento provocatorio
dell’artista che si muoveva
in direzione antiwagneria-
na, puntando su una dissociazione espressiva: così
in Les noces manca la corrispondenza fra i personaggi e le voci, in una visione
astratta di teatro; in
Renard i quattro cantanti
stanno in buca con gli strumenti mentre sul palcoscenico agiscono mimi; e nella
Histoire du soldat gli interpreti recitano mentre gli
strumenti accompagnano
l’azione di mimi.
Archiviata la tragedia
della guerra, negli anni
Venti, mentre Schoenberg
creava
la
dodecafonia,
Stravinskij
approdò al
n e o c l a s s i c ismo con il
balletto
Pulcinella e
l’opera buffa
Mavra. Il neoclassicismo si
traduceva in
Stravinskij in
una rivisitazione del passato fra caricatura e omaggio, in una riappropriazione di tecniche e stili compositivi filtrati naturalmente attraverso la propria
geniale personalità, con un
linguaggio che manteneva
colori e asprezze, ma sapeva anche ammorbidire, talvolta, le angolosità, in una
ricerca eufonica di rara eleganza. E’ il caso del balletto bianco Apollon Musagete
(1928) di notevole raffinatezza lirica. In precedenza,
Stravinskij aveva reso
omaggio a Bach con
l’Ottetto per fiati (1922-23)
e soprattutto aveva avviato
una esplorazione dell’ambiente classico con l’operaoratorio Oedipus rex (1927).
Al
neoclassicismo
Stravinskij si mantenne
fedele, in pratica, per il
resto della carriera anche
se il termine va inteso nel
suo significato più ampio,
di esplorazione di ogni
genere di tecnica musicale
storicizzata.
Tra generi diversi
L’artista russo si volse pertanto al sacro con la straordinaria Sinfonia di Salmi
(1930), tornò all’antichità
con il balletto Persephone e
poi, varcato l’oceano, variò
la scrittura con il colorito
Circus polka per un balletto
di elefanti del Circo
Barnum (1942) e con Ebony
Concerto per l’orchestra jazz
di Woody Herman (1945).
Nel 1951 (anno della morte
di Schoenberg) mise in
scena a Venezia
The rake’s progress (La carriera di un libertino) ispirato alla omonima serie pittorica di Hogarth, uno straordinario capolavoro in cui
l’artista rivisitò con garbata
ironia l’opera settecentesca,
attingendo a stili, forme,
generi, tipologia di personaggi appartenenti ad una
secolare
tradizione.
Un’operazione di recupero
geniale, punto di arrivo del
lungo itinerario neoclassico
percorso dal compositore a
partire dagli anni Venti.
L’attenzione per la tradizione e per le forme ormai
“storicizzate” condusse
coerentemente Stravinskij
ad esplorare negli ultimi
anni anche la dodecafonia.
Morto Schoenberg, ormai
entrata nel linguaggio
“classico” la tecnica seriale
venne assunta dal compositore come uno dei possibili mezzi espressivi. Si
possono ricordare due fondamentali pagine sacre
come Canticum sacrum ad
honorem Sancti Marci nominis per la Basilica di San
Marco di Venezia (1956) e
Threni: id est lamentationes
Jeremiae prophetae (1958).
Con
queste
opere
Stravinskij chiudeva in
pratica
una
carriera
improntata alla massima
ecletticità, animata da uno
spirito libero, portato a
guardare al passato ma
anche al presente con la
vivificante curiosità di un
autentico uomo di genio.
Roberto Iovino
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Œdipus Rex
11
Il complesso di Edipo in psichiatria
Naturale nel bambino,
patologico nell’adulto
N
el libro L’Interpretazione dei sogni
di
Sigmund
Freud, che inaugura il XX
secolo, viene affrontato il
tema del complesso edipico, che verrà ripreso ed
ampliato in numerosi
scritti successivi.
Freud a questo proposito
scrive: «Secondo le mie
ormai numerose esperienze,
i genitori hanno la parte
principale nella vita psichica infantile di tutti i futuri
psiconevrotici: amore per
l’uno, odio per l’altro dei
genitori, fanno parte di
quella riserva inalienabile di
impulsi psichici che si forma
in quel periodo».
Tuttavia nelle pagine successive Freud chiarisce
che sentimenti analoghi,
anche se in modo
meno chiaro e meno
intenso, si possono
osservare in tutti i
bambini riconfermando il fatto che
queste
pulsioni
fanno parte della
vita psichica umana,
in modo più evidente nel corso dell’infanzia.
Per confermare queste osservazioni che
scaturiscono
dal
lavoro clinico, Freud
si rifa al mito di
Edipo descritto nel
dramma di Sofocle,
che costituisce una
sorta di prototipo
leggendario che si
ripropone nello sviluppo dei bambini.
Nella tragedia di
Sofocle Edipo è vittima del fato, a cui non
riesce a sottrarsi perché
inconsapevolmente uccide il padre Laio, re di
Tebe, e si unisce alla
madre Giocasta, che
diventa sua sposa.
L’inconsapevolezza di
Edipo ricorda quella del
bambino fra i 3 ed i 5 anni
che si trova, secondo
Freud, nel periodo fallico, ossia il periodo nel
quale, proiettandosi nel
mondo genitoriale, esprime a livello di fantasie
inconsce i suoi desideri
sessuali e soprattutto di
affetto morboso verso la
madre ed al contempo le
sue spinte aggressive
verso il padre che vorrebbe detronizzare.
Vale la pena di ricordare
che nel dramma di
Sofocle Giocasta cerca di
consolare Edipo, non
ancora consapevole della
sua colpa ma preoccupato dai responsi dell’oracolo, facendo riferimento
alla dimensione del sono:
«Quanti uomini, prima di
te, nei sogni loro giacquero
con la madre!»
Il complesso edipico, che
raggiunge – come abbiamo detto - il suo acume
fra i 3 ed i 5 anni, per poi
fugacemente riattivarsi
durante l’adolescenza,
tende a scemare verso i 5
- 6 anni quando il bambino, anche per paura delle
“rappresaglie” e dell’au-
torevolezza del padre e
per l’angoscia di castrazione rinuncia alle fantasie onnipotenti di sostituirsi al padre.
Per certi versi il bambino
riconosce così il suo ruolo
ed accetta la differenza
fra sé ed i genitori, spostando le sue pulsioni
verso il mondo sociale
attraverso il meccanismo
della sublimazione. Se
questo è il percorso normale che consente di
superare il complesso
edipico, vi è in alcune
situazioni il rischio che le
dinamiche psicologiche
di questo periodo tendano a permanere ed a fissarsi, influenzando il funzionamento psichico.
Da queste fissazioni possono svilupparsi dei conflitti nevrotici
che potranno
permanere in
fasi successive
della vita ed
addirittura
organizzarsi in
una nevrosi.
Alla base di
questi conflitti
si può riconoscere il senso di
colpa per le
proprie fantasie incestuose e
per le proprie
p u l s i o n i
aggressive,
oppure
un
abnorme legame con la propria madre od
ancora un’ostilità ed una
competizione
verso il padre od al contrario un padre rinunciatario od assente.
Vale la pena di ricordare
che tali conflitti con le
figure dei genitori possono essere estesi ad altre
figure significative o
anche ai coniugi o ai partner.
Edipo ed Antigona
Nel definire il complesso
edipico Freud ritiene che
esso abbia una portata
universale poiché probabilmente si sono sedimentate nella storia della
specie ed addirittura
negli anni Venti antropologi come Malinowski
hanno cercato di portare
osservazioni ed evidenze
dell’esistenza delle dinamiche edipiche anche in
altre culture, anche se, ad
esempio, in Giappone –
per diversi condizionamenti culturali – non si
verificherebbe la situazione triadica descritta
da Freud ma un intenso
coinvolgimento dialico
fra madre e bambino, con
il padre che rimane marginale.
Un’ultima osservazione:
Freud ha considerato il
complesso edipico un’esperienza soggettiva presente nella vita psichica
di ogni persona, sostenuta dalle pulsioni inconsce
che avrebbero le radici
nella struttura biologica
di ciascuno. Tuttavia, le
dinamiche edipiche possono essere lette anche in
una prospettiva famigliare ed intergenerazionale.
Non dimentichiamo che
il parricidio e l’incesto di
Edipo sono preceduti da
vicende famigliari drammatiche. Infatti Edipo,
nella storia leggendaria,
fu abbandonato dai genitori su un monte perché
morisse, per timore che si
potessero avverare le previsioni
dell’oracolo.
Pertanto fu l’atto di
abbandono dei genitori
che avviò il processo
drammatico che lo avrebbe condotto ad uccidere
inconsapevolmente
il
padre, proprio mentre
Edipo era spinto a ricercare le proprie origini.
Potremmo concludere
dicendo che i conflitti e le
ambivalenze nei figli
possono essere generate
dal rifiuto, dall’abbandono e dal maltrattamento
da parte dei genitori che
inevitabilmente suscitano
ostilità, risentimento e
desiderio di rivalsa,
anche se spesso inconsci.
Massimo Ammaniti
Psicoanalista
Professore di Psicopatologia
dello Sviluppo
Università “La Sapienza”
Roma
12
L’Uccello di Fuoco
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Mario Marozzi e Igor Yebra
Irma Nioradze e Gaia Straccamore
Il Principe Ivan,
salvatore delle fanciulle
L’Uccello di Fuoco,
dalle piume dorate
I
l Principe sarà impersonato da Mario Marozzi (5, 7, 9 aprile) e Igor Yebra
(6, 8, 10 aprile). Mario Marozzi è il Primo Ballerino del Teatro dell’Opera
di Roma, con cui in passato ha avuto una fitta e proficua collaborazione.
Ha ballato nei maggiori ruoli classici del balletto (Giselle, Amleto, La Sylphide,
Coppelia, Don Quixote, Romeo e Giulietta, Cenerentola, Onegin, Lo Schiaccianoci) e
per le più grandi produzioni
coreutiche. Spesso ospite di
rassegne internazionali, le sue
performances abbracciano il
repertorio neoclassico, fino a
giungere alla danza moderna,
senza esclusione del genere
jazz.
Igor Yebra è nato a Bilbao nel
1974 e ha al suo attivo una veloce e brillante carriera nell’ambito del balletto classico.
Trasferitosi a Madrid ha studiato alla Scuola di Danza di Victor
Ullate dove poi è diventato
primo ballerino del Ballet de la
Comunidad
de
Madrid.
Irma Nioradze e Mario Marozzi
Diplomatosi come Matricola
d’Onore presso il Reale Conservatorio della Danza di Madrid, è ormai conosciuto a livello internazionale. In Italia collabora spesso con l’Arena di Verona,
oltre che con l’Opera di Roma. Insignito di importanti premi, si è esibito sui
palcoscenici della Russia, Lituania, America, Australia e Giappone (per Romeo
e Giulietta). Nel 1996 ha ricevuto il primo premio al concorso Maya Plissetskaya
a San Pietroburgo.
Laura Comi e Gaia Straccamore
La Principessa, la più
bella tra le prigioniere
L
a Principessa avrà le sembianze di Laura Comi (5, 6, 8, 10 aprile) e
Gaia Straccamore (7, 9 aprile). Laura Comi si è diplomata con passo
d’addio presso la scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma. E’
stata allieva di numerosi Maestri di levatura internazionale sia in Italia sia
all’estero. Dopo una tournèe in Germania, ha svolto nel 1989 un periodo
di perfezionamento presso la compagnia londinese English National
Ballet con la guida di P. Shaufuss. A Roma ha iniziato a danzare da protagonista presso il Teatro dell’Opera sotto la direzione di Elisabetta
Terabust. Il suo repertorio abbraccia i più famosi balletti del repertorio
classico, dallo Schiaccianoci, a Giselle, a La Bella Addormentata. Ha danzato
in ruoli eclettici per diversi coreografi tra i quali Carbone per L’Uccello di
Fuoco, ricevendo numerosi riconoscimenti artistici tra i quali il premio
Gino Tani nel 2001. Dal marzo 2004 è stata nominata Prima Ballerina Etoile
del Teatro dell’Opera di Roma.
Gaia Straccamore interpreta alternativamente anche il ruolo dell'Uccello
di Fuoco.
Pagina a cura di Stefania Soldati - Foto di Corrado Maria Falsini
L
’Uccello di Fuoco sarà interpretato da Irma Nioradze (5, 7, 9 aprile)
e da Gaia Straccamore (6, 8, 10 aprile). Irma Nioradze è Etoile del
Kirov Ballet. Nata in Georgia, a Tblisi, ha iniziato a studiare
all’Accademia di Danza Statale della sua città, allora diretta da Vakhtang
Chabukiani, che ha inaugurato lo stile eroico del balletto sovietico. Con il grande maestro ha danzato anche Giselle. Dopo gli studi
a Tblisi ha frequentato l’Accademia
Vaganova a Leningrado, vincendo poi il
Concorso Internazionale di Danza a
Jackson, negli Stati Uniti. Nel 1992 è stata
invitata al balletto del Kirov da Oleg
Vinogradov, che allora era il direttore della
compagnia. Si sta perfezionando con Ninel
Kurgapkina, che è stata partner e collaboratrice di Rudolf Nureyev. Di Balanchine,
georgiano anch’egli, danza abitualmente
Jewelse, Le Palais de cristal e Apollon musagète.
Tra gli altri riconoscimenti artistici ha rice- Irma Nioradze
vuto il premio Positano, che in passato è stato assegnato ad artisti come
Rudolf Nureyev, Vladimir Vassiliev, Ekaterina Maximova.
Gaia Straccamore è uno degli elementi di punta della compagnia di balletto del Teatro dell’Opera. Diplomatasi a soli diciassette anni nella scuola
di ballo dell’Opera ed entrata subito dopo nella stessa compagnia di balletto, ha immediatamente interpretato ruoli solistici e di prima ballerina,
sia del repertorio classico che moderno. Tra i suoi ruoli più recenti, Aurora
e la Fata dei Lillà ne La Bella Addormentata, la Silfide nell’omonima opera,
Zobeide in Shéhérazade, l’Eletta ne Le sacre du printemps e Odette/Odile nel
Lago dei cigni. È di prossima uscita il libro La donna del terzo millennio in cui
la fotografa Giorgia Fiorio ha ritratto dieci donne simbolo della nostra
epoca. Gaia è una di loro. In questa edizione interpreta alternativamente
anche il ruolo della Principessa.
Manuel Paruccini e Mauro Murri
Castchey, emblema della
malvagità punita
C
astchey – Il Mago sarà impersonato da Manuel Paruccini (5, 7,
9 aprile) e Mauro Murri (6, 8, 10 aprile). Il nome di Manuel
Paruccini è legato al Teatro dell’Opera di Roma, con cui ha realizzato diverse importanti produzioni (prima fra tutte il Lago dei Cigni),
cui si affiancano altre importanti, anche di stile particolarmente originale, quali il Ricordo di Isadora Dunchan e il Girotondo ispirato all’omonima opera di Arthur Schnitzler. Ha debuttato nei principali ruoli del balletto classico, ma il suo repertorio spazia fino alle produzioni moderne.
Mauro Murri ha al suo attivo un’intensa collaborazione con l’Arena di
Verona, ma, soprattutto, con il Teatro dell’Opera di Roma, per cui ha
ballato, tra gli altri, nel Lago dei Cigni. Per la stessa istituzione ha anche
partecipato alla singolare produzione Dio salvi la Regina (God save the
Queen) balletto liberamente tratto da The Beggar’s Opera di John Gay,
con musiche di Kurt Weill eseguite dal vivo. Il suo nome è presente in
Italia e all’estero in manifestazioni di alto livello culturale e artistico.
Il
L’Uccello di Fuoco
Giornale dei Grandi Eventi
13
Storia del balletto
L’Uccello di Fuoco, nato nel crogiuolo
culturale dei Balletti Russi
L
’Oiseau de feu nacque da
una collaborazione a più
mani realizzata da tre artisti russi particolarmente attivi
nel panorama culturale europeo
agli inizi del 1900: Sergej
Pavlovic Djagilev, Michail Fokin
e l’allora giovanissimo musicista
Igor Stravinskji. Djiagilev, impresario e critico d’arte, era un
uomo dalla personalità multiforme ed eclettica. Dedicatosi per
gran parte della sua carriera artistica alle arti figurative e all’organizzazione di mostre, nel 1898
diede vita insieme a N. Benois
alla prima rivista di arte russa
Mir Iskusstva. Successivamente
fondò una compagnia stabile di
ballo denominata Ballets Russes,
con l’intento di riformare il balletto russo classico, che aveva in
Marius Petipa il suo grande maestro. L’obiettivo del vulcanico
impresario era quello mantenere
una continuità con la tradizione
russa classica relativamente ai
soggetti da interpretare, ma di
operare un rinnovamento totale
sia dal punto di vista teatrale che
coreografico. La compagnia raccoglieva giovani danzatori e artisti di talento tra cui spiccava il
geniale ballerino e coreografo
russo Michail Fokin, che con le
sue coreografie avanguardistiche
~~
è oggi considerato uno dei creatori del balletto moderno.
Da un racconto leggendario
L’Oiseau de feu fu concepito, dunque, in questo clima di rinnovamento culturale vissuto dal balletto russo agli inizi del novecento. Djagilev, per la seconda stagione dei balletti russi da tenersi
all’Opéra di Parigi, pensò di
sfruttare un soggetto tratto dal
racconto leggendario Katscei l’immortale, già utilizzato da RimskijKorsakov per una opera rappresentata a Mosca nel 1910.
Inizialmente la composizione
delle musiche di scena fu affidata al compositore Liadov. Dal
momento che questi non si risolveva mai ad iniziare il lavoro,
Djagilev mandò Fokin e Benoise
ad ascoltare l’Feux d’artefice
(1908), opera di un giovane
musicista russo allora emergente: Stravinskji. I due ne rimasero
entusiasti. Djagilev allora si recò
a Pietroburgo per proporre al
compositore di scrivere le musiche per l’Oiseau de feu. Stravinskji
accettò immediatamente, affascinato dalla possibilità di collaborare con una compagnia di artisti
così multiforme e all’avanguardia. In realtà il compositore era
già venuto a contatto, seppur
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 5 – 10 aprile 2005
L’UCCELLO DI FUOCO
Racconto coreografico in due quadri di Michel Fokine
Musica di Igor Stravinskij
Maestro concertatore e Direttore d’Orchestra Zoltan Pesko
ORCHESTRA, CORO E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento dell’Opera Nazionale Lettone
Coreografia
Ricostruzione coreografica
Scene e costumi ricostruiti sui
bozzetti originali di
da
Disegno luci
Michel Fokine
Andris Liepa
Alexander Golovin
e Lèon Bakst
Anna e Anatoly Nezhny
Bruno Monopoli
Personaggi / Interpreti
Uccello di Fuoco
Principe
Principessa
Castchey – Il Mago
Irma Nioradze /
Gaia Straccamore (6, 8, 10/4)
Mario Marozzi /
Igor Yebra (6, 8, 10/4)
Laura Comi /
Gaia Straccamore (7, 9/4)
Manuel Paruccini / Mauro
Murri (6, 8, 10/4)
brevemente, con la compagnia
dei Ballets Russes strumentando
un notturno e un valzer di
Chopin per Les Sylphides.
Durante l’inverno del 1910 il giovane compositore si mise a lavoro alacremente, mantenendo
sempre una collaborazione strettissima con Djagilev, Fokin e la
compagnia. La coreografia veniva disposta mano a mano che il
compositore andava ultimando i
vari frammenti della strumentazione. Stravinskij non perdeva
una prova con gli artisti e le giornate scorrevano pregne dell’euforia e dell’entusiasmo, tipiche di
coloro che sono consapevoli di
contribuire a creare qualcosa di
assolutamente nuovo e grandioso. Di sera tutta la compagnia
soleva recarsi a cena a bere del
buon vino e a parlare d’arte e di
vita. Quando la partitura fu ultimata, Djaghilev invitò alcuni
amici per una lettura al pianoforte del lavoro. Uno degli artisti
presenti, Brussel, ebbe a commentare: «Alla fine della prima
scena era già conquistato, all’ultima
ero entusiasta. Il manoscritto, che
stava sul leggio, ricoperto da una
sottile scrittura a matita, risultava
un capolavoro».
Immediatamente la compagnia
partì per Parigi, mentre
Stravinskij decise di concedersi
un breve periodo di riposo in
campagna prima di raggiungerli.
Al suo arrivo nella Capitale francese le prove erano in pieno fermento. Le parti erano già state
assegnate, sebbene Stravinskji
avrebbe preferito prendere parte
alla distribuzione dei ruoli, come
ebbe ad osservare successivamente nelle sue Cronache della mia
vita del 1935: la Karsavina ebbe la
parte dell’uccello, che il compositore avrebbe preferito assegnare
all’agile e slanciato corpo della
Pavlova che fu invece la principessa prigioniera. Il lavoro, che
Stravinskji dedicò al suo maestro
Rimskij-Korsakov, fu rappresentato all’Opera di Parigi il 25 giugno 1910, con le scene e i costumi
di Golovin e Baskt e la superba
direzione del maestro Gabriel
Pirenè. Il consenso fu unanime e
immediato. La sera della “prima”
Debussy, che assisteva allo spettacolo, volle andare sul palcoscenico per complimentarsi con il
giovane compositore. L’opera
riportò un successo enorme e
tutti i più grandi musicisti contemporanei di Stravinskji - tra cui
De Falla, Florent Schmidt, Satie e
Ravel - mostrarono di apprezzare
il talento del giovane compositore russo. Nel 1970 M. Béjart operò
una vera e propria reinvenzione
del soggetto e della coreografia
utilizzando la suite che
Stravinskji aveva prodotto nel
1919. Esistono altre due suite
delle musiche di questo balletto
composte da Stravinskji nel 1911
e nel 1945.
Claudia Capodagli
Trama
L’Uccello di Fuoco
E
’ notte: il giovane principe Ivan Tsarevich, aggirandosi nel bosco durante una partita di caccia giunge
nel giardino incantato del
mostro Kaschchei, un gigante
immortale dalle dita verdi, dove
sorprende un magico uccello di
fuoco che emana una vivida
luce. L’uccello sta svolazzando
intorno ad un albero dalle mele
d’oro all’interno del giardino
del mostro. Il principe Ivan si
avvicina furtivamente all’albero
e, approfittando di una nuvola
che nasconde la luna e rende
buio il giardino, cattura l’uccello
con un retino d’amianto.
L’uccello di fuoco implora il
principe di lasciarlo libero e gli
dona in cambio della libertà una
penna di fuoco. Il principe lo
libera ed esso gli promette di
volare subito da lui in caso di
pericolo. Poco dopo, dal vicino
castello di Kashchei, escono tredici bellissime fanciulle che
avanzano leggiadre verso il
giardino e si avvicinano all’albero dalle mele d’oro. Le fanciulle,
al chiaro di luna, giocano con le
mele d’oro, scherzano, ridono
fra di loro, sembrano spensiera-
te, ma ... nascondono un segreto. Mentre le ragazze giocano al
chiaro di luna, ignare di essere
osservate, appare il principe.
In un primo momento le ragazze si spaventano, ma poi capiscono che il giovane non vuole
fare loro del male e accettano di
farlo partecipare al loro gioco.
Egli si unisce alla danza: fa ballare tutte le ragazze che si divertono moltissimo e fanno a gara
per ballare con lui. Il principe ha
tuttavia una preferenza per la
più bella e si innamora di lei. Le
ragazze raccontano al principe
la loro storia: esse sono prigioniere del mostro Kaschchei e
devono rientrare nel castello
prima dell’alba. Ivan vuole
seguirle ed entrare con loro nel
castello. Le ragazze lo avvisano
che il mostro pietrifica chiunque
tenti di liberare le sue prigioniere. Nonostante l’avvertimento il
principe decide ugualmente di
entrare. Ivan entra nel castello e
subito gli viene incontro una
schiera di mostri terribili e spaventosi. Si fermano davanti ad
Ivan che cerca di affrontarli, ma
lo fanno prigioniero. Quando il
principe sta per essere pietrifi-
cato, si ricorda dell’uccello di
fuoco e della sua promessa.
Prende la piuma magica di
fuoco e chiama l’uccello in suo
aiuto. L’uccello accorre e gli
rivela il segreto dell’immortalità
di Kaschchei. Per annientare il
mostro occorre distruggere lo
scrigno-uovo in cui è racchiusa
la sua anima. L’uccello di fuoco,
intanto, blocca l’incantesimo del
mostro con una magia più
potente: trascina tutti i mostri
guardiani al seguito di
Kaschchei in una furiosa danza
che li stordisce e li sfinisce. Con
un’altra magia fa loro ascoltare
una dolce ninna nanna che
calma i loro spiriti aggressivi
portando loro visioni di pace
fino a che cadono sul pavimento addormentati in un sonno
profondo. Ivan rompe lo scrigno-uovo provocando la morte
di Kaschchei e la definitiva liberazione dall’incantesimo. Il
principe e Zarièvna, la più bella
delle principesse prigioniere,
vengono portati in trionfo.
L’uccello di fuoco unisce infine
il principe e la principessa e
vola via.
L’Uccello di Fuoco
14
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Oiseau de Feu
Una partitura dalle molte valenze
B
asta
ascoltarla
anche una sola
volta la musica
dell’Uccello di fuoco di
Strawinsky per rendersi
conto di quanto in essa
vi sia di tradizione e
quanto di originalità. I
modelli del ventottenne
Strawinsky sono qui
assai evidenti. Non si
tratta, come spesso accade, di generiche influenze, come ad esempio da
Mussorgsky e soprattutto da Rimsky Korsakov,
il primo un maestro
riconosciuto del drammatismo russo, il secon-
do il più sapiente del
Gruppo dei Cinque e
per altro maestro di
orchestrazione
di
Strawinsky al conservatorio di Pietroburgo. Le
citazioni sono infatti
molto evidenti da non
poter passare sott’occhio. Insomma se c’è
tanto Rimsky (che per
altro aveva già trattato
nel 1902 il soggetto nell’opera Kascei l’immortale) nell’Uccello (vedasi
il rutilante turgore della
orchestrazione, di cui
Korsakov era maestro e
di cui ha lasciato un
ampio ed ancora esemplare trattato), sono
innegabili le assonanze
(per non dire quasi
esplicite affettuose citazioni) dei celeberrimi
Quadri di una esposizione
di Mussorgsky evidenti
sia nella Berceuse delle
principesse
(leggi
Vecchio Castello) sia nel
finale monumentale e
trionfale (Grande porta di
Kiev). Ma in Uccello
nasce
anche
lo
Strawinsky fauve che
esploderà poi in Sacre e
lo
ritroviamo
nelle
danze frenetiche, sinco-
pate e sghimbesce del
Kascei e dei suoi scherani (Danza infernale).
Un’altra riflessione inerente alla partitura
riguarda l’uso distinto
del diatonismo e del cromatismo, il primo affidato al bene, alla luce, al
positivo (lo zarevic Ivan
e le sfortunate principesse prigioniere nel
castello incantato del
Kascei), il secondo al
male, alle tenebre, al
negativo (il mondo del
Kascei), ma anche della
trasformazione
(l’
Uccello e la sua piuma
fatata che consentirà un
lieto epilogo alla favola), dunque più generalmente potremmo dire
per la sfera del soprannaturale e sovrumano,
sia positivo che negativo, contrapposta all’umano. Una distinzione
ben nota anche a
Wagner ma soprattutto,
per restare più vicino a
Strawinsky, a Rimski
che già nel Gallo d’oro
(1903) lo aveva usato
per contrapporre il
mondo terreno e quello
magico.
Lo. To.
Enrico Cecchetti, il primo malvaggio nell’Uccello di Fuoco
Un Kascei che ha guardato al passato
’è un nome che tre de ballet” dei Ballets
attraversa inden- Russes di Diaghilev, dunne il trapasso epo- que l’arbitro del livello
cale della danza d’arte tra tecnico quotidiano della
Otto e Novecento ed è compagnia, tenendo le
quello
di
Enrico quotidiane lezioni di
Cecchetti. Fu lui, ormai danza ai grandi ballerini
sessantenne (era nato della compagnia che
infatti in un camerino del rispondevano ai nomi di
Teatro Apollo di Roma il Anna Pavlova, Tamara
Vaslav
21 giugno 1850), ad inter- Karsavina,
pretare il ruolo, evidente- Nijinsky ma anche Serge
mente a marcate tinte Lifar.
pantomimiche, del mal- Era lui, un italiano e non
vagio Kascei nell’Uccello un francese come si
di fuoco di Fokine- potrebbe pensare, dunStrawinsky (1910) e
l’anno successivo
quello egualmente
mimico
del
Ciarlatano
nel
Petrouchka ancora di
Fokine e Strawinsky
per non dire d’altro.
Due fotografie d’annata ce lo restituiscono con lunghissima
barba
ed
unghie, un lungo
bastone, manto ed
elmo ornati ed
atteggiamento inequivocabilmente
perverso e minaccioso nel mago dell’
Oiseau de feu. Ma
Cecchetti
era
soprattutto il “mai- Enrico Cecchetti ne l’Uccello di Fuoco
C
que il garante della perfetto rispetto della base
accademica della compagnia forse perché più che
il virtuosismo premeva a
Diaghilev e a Fokine la
espressività del gesto, di
cui gli italiani sono da
sempre congenitamente
maestri. Era del resto
anche lui il legame stretto
con la precedente tradizione tardo-ottocentesca
italiana e russa. Cecchetti
infatti si era formato con
Giovanni Lepri, un allievo fiorentino di Carlo
Blasis e dunque il suo
insegnamento affondava le radici nel più
fulgido accademismo
italiano del primo
romanticismo.
Spesso insieme alla
moglie, la torinese
Giuseppina De Maria
anche lei ottima mima
e danzatrice alla
maniera italiana, era
stato interprete con la
compagnia della Scala
(1870-1878) a Milano
ed in tournée di
numerosi balletti di
Luigi Manzotti (Amor
nel 1886 a Milano ed
Excelsior a Londra in
primis). Ma poi dal
1887 al 1892 a
Pietroburgo
per
volere di Petipa era
stato
nominato
“maitre de ballet
en second”, primo
ballerino
del
Mariinskij ed insegnante di danza
alla
Scuola
Imperiale. Anche a
Pietroburgo, nel
teatro dove era cresciuto come danzatore
Mikhail Fokine, il primo
coreografo di Diaghilev
ed autore dell’ Uccello di
fuoco, si era distinto in
balletti di Petipa tra i
quali La fille du bandit
(1888), La Vestale (1889),
Mlada (1892), Cendrillon
(1893), Coppelia (1894),
ma soprattutto La bella
addormentata (1890), Alla
prima di questo balletto,
che segnò le future fortune delle partiture ciaikovskiane di danza (com’è
noto il Lago dei cigni a
Mosca tredici anni prima
si era rivelato un clamoroso fiasco), fu l’ ormai
quarantenne Cecchetti ad
interpretare sia en travesti il ruolo mimico della
malvagia
strega
Carabosse, artefice del
maleficio contro la innocente neonata Aurora,
che quello invece estremamente virtuosistico
della variazione del
passo a due dell’ Uccello
blu. Nel 1923 rientrò in
Italia per ritirarsi a vita
privata, ma fu invitato da
Arturo
Toscanini
a
riprendere la sua carriera
insegnamento a La Scala,
il suo sogno della sua
vita. E proprio mentre
insegnava, Cecchetti fu
colpito
da
collasso.
Portato a casa, mori il
giorno seguente, 13
novembre 1928. Fu lui
insomma, fino all’ultimo,
l’anello di congiunzione
tra passato e presente ed
il custode del trapasso
dalla tradizione alla
modernità in danza.
Lo. To.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L’Uccello di Fuoco
15
Analisi musicale
L’Uccello di fuoco, primo
balletto moderno
“
25 giugno 1910”. Nella
dorata sede dell’Opéra di
Parigi va in scena
L’Oiseau de feu . L’Europa
impara a conoscere Igor
Strawinskji, una delle voci più
personali ed autorevoli del
nascente Novecento musicale.
La meravigliosa avventura
parigina dei favolosi Ballets
Russes di Sergej Diaghilev era
iniziata la stagione precedente
(19 maggio 1909) con Le pavillon d’Armide, una produzione
del Mariinskij intesa come glorificazione del Settecento francese, le danze polovesiane del
Principe Igor di Borodin e Le
festin, un divertissement in un
salone dell’Antica Russia
medioevale.
Mikhail Fokin, il coreografo
che qualche anno dopo (6
luglio 1914) in una celebre lettera al Times di Londra doveva formalizzare in cinque
punti le esigenze del nuovo
balletto moderno all’insegna
di una nuova espressività
(creazione di nuovi passi in
relazione all’argomento, danza
e mimica al servizio dell’espressione drammatica, estendere la espressività dalla testa
ai piedi, cura della significa-
zione della danza di gruppo,
alleanza della danza con le
altre arti) che sembra riecheggiare in termini moderni molti
dei termini un secolo e mezzo
prima espressi da Jean
Georges Noverre nelle celebri
Lettres sur la danse e sur les
ballets (Lione-Stoccarda 1760)
replicò qui con il ventottenne
Strawinskji la fortunata collaborazione instaurata vent’anni
prima tra Petipa e Ciaikovsky.
Così come Ciaikovsky aveva
saputo corrispondere alle esigenze drammaturgiche e coreografiche, così anche Strawinskji
fu chiamato ad un’opera di
geniale sincronizzazione delle
sue note (la partitura è a pezzi
chiusi secondo la più consolidata tradizione ottocentesca del
genere balletto). E questo lavoro di stesura (proprio come si
farebbe oggidì per una colonna
sonora che sposa il suono sull’immagine visiva già realizzata) è avvertibile soprattutto
negli allestimenti, come questa
dell’Opera, che riproducono
fedelmente nella coreografia
come nell’impianto scenografico (scene e costumi) l’edizione
fokiniana del 1910.
La storia, tratta dalla celebre
raccolta di fiabe popolari russe
di AlexanderAfanasjev pubblicata verso la metà dell’
Ottocento, raccontava di un
magico uccello infuocato che
aiuta lo zarevic Ivan a vincere il
Kascei che tiene prigioniere tredici fanciulle ( un elemento che
sembra rimandare ai racconti di
magia così cari al balletto, come
ben illustra ad esempio Il Lago
dei cigni). Forse non era solo un
caso che il balletto fosse dedicato a Andrei Rimski Korsakov,
figlio di Nikolai. La direzione
musicale era di Gabriel Piernè.
Scene di Golovine e costumi di
Léon Bakst. Interpreti Tamara
Karsavina (L’uccello), Mikhail
Fokin (Ivan), sua moglie Vera
Fokina
(la
principessa),
Boulgakov e Cecchetti ( Kascei).
L’esecuzione colpì Ravel («è più
importante di Rimski», scrisse a
un amico ) e Debussy («non è
un lavoro perfetto ma sotto certi
aspetti bellissimo», confessava
all’editore Durand).
E’ forse proprio il valore della
partitura musicale più che il
soggetto ad avere convinto in
seguito anche altri coreografi a
ritornare sulla partitura di
Strawinskji, riscrivendo la storia in termini più attuali e meno
anacronistici a
partire da Béjart
che nel 1970 si
ispira
alla
Resistenza francese (Suite dal
balletto), Milloss
(che nel 1980 sviluppò coreograficamente la parte
del Kascei pur
muovendosi su
principi estetici
fokiniani)
e Tamara Kasarvin ne L’Uccello di Fuoco
Balanchine (1949
retaggio dell’arte pantomimica
con scene di Chagall) sino alla
italiana ottocentesca. Non a
versione avveniristica di John
caso, come detto, esso era interNeumeier e a quella di ambienpretato da un artista che alle
tazione borghese vittoriana di
doti del danzatore univa anche
Glen Tetley. Per non dire ancoquelle di tradizione scaligera di
ra di Lifar, Cranko o Scholz.
grande mimo come appunto
La parte del Pascei così come
Enrico Cecchetti.
era concepita da Fokine, ovveInsomma con l’Uccello di fuoco
ro più mimica che danzata,
nasceva in fondo il Balletto
appare poi superata grazie alle
moderno e nasceva non da una
conquiste espressive della
traumatica rottura col passato,
danza cosiddetta “libera”, per
come avvenne poi con la
meglio dire dell’espressioniDuncan o con la modern dance
smo tedesco degli anni a veniamericana, bensì sulle ceneri
re. E non errerebbe chi vedesse
proprio di quel passato,
nel ruolo del Kascei (spesso rafapprezzato, amato ma considefigurato con una sorta di calzarato non più adeguato al veloce
maglia a scheletro proprio
passo dei tempi.
come
l’Oscurantismo
dell’Excelsior) una sorta di
Lorenzo Tozzi
L’autore della coreografia de L’Uccello di fuoco
Michel Fokine, artista poliedrico
e grande innovatore coreografico
C
ome tutte le arti il cui naturale esito è quello della performance, anche il balletto
è stato investito dall’ondata di svecchiamento e innovazione di cui il
Novecento è stato portatore. Tra coloro che si dedicarono all’elaborazione di
nuovi criteri di una nuova danza va annoverato il ballerino e coreografo Michel Fokine
(1880-1942), autore del racconto coreografico dell’Uccello di Fuoco di Igor Strawinskij.
Di padre russo e madre tedesca, Fokine fa il suo debutto come ballerino nel 1898, stesso anno in cui si diploma presso la scuola di San Pietroburgo. Le sue particolari doti di
leggerezza nei movimenti gli valgono presto ruoli di solista, anziché subalterno, presso la scuola di Mariinsky dove diviene rapidamente insegnante grazie alla sua ampia
preparazione musicale ed artistica.
Suona infatti diversi strumenti, anche da professionista in un’orchestra di buon livello ed è apprezzabile ritrattista. Tra il 1902 e il 1912, con la sua attività di riformatore, si
sforza di modificare l’organizzazione gerarchica della troupe del teatro accademico,
ricalcata su quella della società imperiale, cercando di attribuire al corpo di ballo e ai
primi ballerini un nuovo senso di libertà plastica e di movimento.
Nella pratica si preoccupò di rendere più fluidi gli esercizi che provocavano crampi
agli allievi, distendere il portamento, ridurre l’enfasi delle acrobazie.
Il 6 luglio 1914, un mese prima dello scoppio della Grande Guerra che avrebbe travolto la Russia zarista, Fokine pubblica sul Times di Londra, in forma di lettera, i principi
del nuovo balletto, un vero e proprio manifesto che teorizza un’armonica complementarietà tra musica, scenografia e danza.
Nella prima delle cinque regole, Fokine dichiara
come il balletto debba essere collocato in un’ambientazione ispirata a stili passati e dotata di autenticità
archeologica. Ciò rispecchia i suoi personali interessi in materia, ma anche la tendenza al revival storico
- molto in voga presso la dinastia dei Romanov - con
tutti i rischi ad esso collegati, primo fra tutti l’eccessiva stilizzazione. Nel secondo
punto auspica un riordino razionale dell’espressione mimica, decretando che la
gestualità convenzionale debba essere sostituita dal movimento appropriato e non stereotipato, con l’uso dell’intero corpo.
La terza regola è dedicata a considerazioni sullo stile, mentre nella quarta - forse la più
interessante - Fokine si preoccupa invece di fornire delle indicazioni sul come organizzare gli ensamble, cioè di evitare che i gruppi di ballerini presenti sulla scena siano
lasciati alla sola improvvisazione. Egli stesso però nella sua Petruska tratteggia appena
i movimenti delle comparse, circa un centinaio, senza pienamente mettere in pratica
proprio quell’innovazione di cui si faceva promotore. Vede la scena come una tavolozza di movimenti caleidoscopici, il cui effetto deve essere quello di mettere a fuoco l’immagine centrale, sfumando poi progressivamente verso i bordi. Nella quinta ed ultima regola infine le diverse anime dell’artista, ballerino, coreografo, musicista, pittore,
si proiettano in un ideale di sintesi tra le arti.
M. E. Lat.
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