Segni dell’uomo
NELLE TERRE ALTE
d’Aspromonte
A cura di Alfonso Picone Chiodo
Pubblicazione realizzata con il contributo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela
del Territorio
Si ringraziano
A.FO.R. (Azienda Foreste Regionali)
Archeoclub d’Italia, sede di Reggio Calabria
Associazione delle Guide Ufficiali del Parco
C.T.A. (Coordinamento Territoriale per l’Ambiente del C.F.S.)
Comune di Bagaladi
Comune di Cittanova
Cooperativa San Leo di Bova
Deputazione per la Storia Patria
Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte
Fondazione Corrado Alvaro
Soprintendenza Archeologica per la Calabria
Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
Facoltà di Architettura
Università della Calabria
Le informazioni turistiche contenute nel libro possono essere soggette a variazioni,
nessuna indicazione ha valore assoluto. Decliniamo quindi ogni responsabilità per
eventuali inconvenienti subiti dal lettore e ringraziamo quanti vorranno segnalarci
eventuali variazioni o inesattezze.
Cura editoriale: Giuseppe Pontari
Grafica: Carla Carbone
Copyright © 2005 Edimedia edizioni
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Edimedia di Concetta Giuffré & C. s.a.s.
51012 Pescia PT
Via Degli Alberghi 61
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Tutti i diritti di riproduzione anche parziale del testo
e delle illustrazioni sono riservati per tutti i Paesi
ISBN 88-86046-29-4
Finito di stampare nel mese di giugno
Stampa: Rubbettino
INDICE
PREMESSA
PRESENTAZIONE
INTRODUZIONE
L’eloquenza dei segni
A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese
Un po’ di storia in Aspromonte
Aspromonte: l’ambiente
Terre alte in Aspromonte
1. I ruderi di Pietro
2. Pietra Salva
3. Le muraglie antique del monte Fistocchio
4. Croce di Toppa
5. Palazzo di Zervò
6. La pietra di San Trabus
7. Palazzo di Zomaro
8. Bragatorta
9. Calcara
10. Altanum
11. Torre Carditto
12. Villaggio U.N.R.R.A.
13. Chiesa dei SS. Pietro e Paolo
14. Rocche di San Pietro
15. San Giorgio di Pietra Cappa
16. Pietra Castello
17. Precacore
18. La grotta di Nino Martino
19. Gli ovili di monte Perre
20. Chiesa di S. Maria dell’Alica
21. La ‘nsilicata di Polemo
22. Sauccio
BIBLIOGRAFIA
Informazioni sui siti
Il CAI sez. Aspromonte
Il Parco Nazionale dell’Aspromonte
Montalto
Delianova
Scido
Santa Cristina
Oppido Mamertina
Cittanova
Cittanova
Cittanova
Cittanova
San Giorgio Morgeto
San Giorgio Morgeto
Mammola
Ciminà
Natile Vecchio
San Luca
San Luca
Samo
Samo
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Palizzi
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PREMESSA
’Aspromonte ha fama d’essere inaccessibile, selvaggio e da queste caratteristiche sembra conseguente
discenda una natura primordiale e l’integrità degli ecosistemi naturali. Ciò è vero in parte perché non vi
è luogo di questa montagna dove l’uomo non sia giunto ed abbia lasciato il segno della sua presenza.
Nel nostro camminare lungo i sentieri (ma spesso al di fuori di essi) sono frequenti gli incontri con segni
della presenza dell’uomo e su di loro ci siamo sempre interrogati per capire quale fosse la vita di quanti abitavano l’Aspromonte. Molto ci è stato chiarito dai numerosi studiosi che, ormai da oltre un decennio, ci
affiancano in questa ricerca ma il progetto supportato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio ci ha consentito di approfondire tale indagine e, soprattutto, curarne la divulgazione con questo
libro.
I siti individuati, scelti da un lungo elenco, sono stati oggetto di studio e di indagine secondo le seguenti
fasi:
– ricerca bibliografica preliminare;
– acquisizione del corredo cartografico;
– ricerca sul campo;
– documentazione fotografica e grafica dello stato di fatto;
– divulgazione dei risultati presso alcuni istituti scolastici della provincia con organizzazione di visite guidate.
Finalità del progetto sono:
produzione di documentazione di questi “segni”;
tutela di tali risorse;
migliorare la qualità dei servizi culturali per la valorizzazione di tale patrimonio;
promozione della conoscenza e della divulgazione tramite la pubblicazione di prodotti editoriali.
Il progetto ha visto il coinvolgimento di numerosi enti.
Sono inoltre tanti gli studiosi ed esperti locali che, con pazienza, ci hanno aiutato in tale opera. È a tutti
che va il nostro più sentito ringraziamento.
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Ci auguriamo pertanto che tale impegno corale contribuisca alla conoscenza ed alla corretta fruizione di
questi luoghi negletti e dell’intero territorio del Parco. Ma già si vedono segni “moderni” dell’uomo nelle
terre alte dell’Aspromonte che ci fanno ben sperare: guide, cooperative ecoturistiche, rifugi, ecc.
La nostra infatti non è stata un’operazione nostalgica ma un tentativo di conoscere il nostro passato per
dare speranza al futuro.
Alfonso Picone Chiodo
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PRESENTAZIONE
na stretta fascia costiera da Reggio Calabria si allunga sul Tirreno e lo Ionio recingendo una delle più
suggestive zone d’Italia: l’Aspromonte, un ventaglio aperto su due mari.
Da un ambiente di tipo mediterraneo si passa in breve tempo sulle pendici del massiccio cristallino che
digrada verso il mare con una serie di imponenti gradinate note come “piani” o “campi”, terrazze naturali
dalle quali è possibile ammirare le fiumare biancheggianti scorrere lungo i pendii della montagna sino a lambire la fascia costiera.
La perfetta convivenza tra ambiente marino e paesaggi montani offre panorami ineguagliabili dai colori
intensi che si alternano, si fondono, sfumano gradatamente dando vita ad una gamma cromatica sorprendente.
Sulle cime di questo massiccio boscoso, coperte da querce, lecci, pini, faggi e abeti, è possibile cogliere ovunque notevoli presenze storiche, artistiche e archeologiche, testimonianze della cultura arcaica, classica, greca,
medievale e moderna nonché tracce della civiltà montana che, a causa del progressivo esodo dalle montagne,
rischia di andare completamente perduta.
Siti archeologici, fortificazioni belliche, edifici religiosi, romitori, incisioni su roccia, borghi abbandonati ed
insediamenti pastorali costituiscono un vero e proprio patrimonio naturale e culturale da tutelare e valorizzare.
Rileggere la montagna in termini di ricchezza ambientale e culturale consente di salvaguardare non solo
gli aspetti naturalistici e geografici di questi territori, ma di tenere nella giusta considerazione il rapporto
dialettico tra l’uomo e l’ambiente.
Questa esigenza di un recupero, di una riscoperta delle Terre Alte dell’Aspromonte, attraverso i “segni dell’uomo” come criteri guida per un nuovo rapporto uomo-natura, è il messaggio racchiuso in questo pregevole volume curato dalla sezione di Reggio Calabria del Club Alpino Italiano che offre al lettore l’opportunità
di avvicinarsi alle problematiche antropiche delle aree interne, attraverso l’interesse per una valorizzazione
autentica del territorio montano oltre i confini puramente fisici della montagna stessa, rivalutando l’aspet-
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to culturale e antropologico, arginando il fenomeno del recente abbandono, per riscoprire, rivivere, far conoscere e visitare con una consapevolezza diversa questi bellissimi luoghi.
Dott. Aldo Cosentino
Direttore Generale della Direzione per la Protezione della Natura
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio
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INTRODUZIONE
er iniziativa di Quintino Sella, ben 140 anni or sono venne fondato il Club Alpino Italiano. L’art. 1 dello
Statuto originario recitava che « …il Club ha per iscopo la conoscenza e lo studio delle montagne… »
Nei tanti anni successivi il fine sociale si è ampliato e precisato, si sono aggiunti da una parte la pratica
dell’« …alpinismo, in ogni sua manifestazione… » e dall’altra « …la difesa dell’ambiente naturale… » della
montagna.
Come tutti gli altri Club Alpini Europei, il CAI nasce come Associazione culturale, e tale anima rimane a
renderne nobile l’azione, anche se è più conosciuto il volto dell’organizzazione della frequentazione della
montagna nel tempo libero dei cittadini, con la rete dei rifugi e dei sentieri segnati, delle grandi imprese
sportive e dell’educazione ambientale.
Anche con questo spirito opera il gruppo di studio “TERRE ALTE”, costituitosi nel 1991 all’interno del
Comitato Scientifico Centrale.
È infatti lo stato di “emergenza culturale” in cui si trovano vaste aree della montagna italiana che risulta
particolarmente preoccupante, e di cui il Gruppo coordina a livello nazionale una vasta operazione di censimento, documentazione e catalogazione dei “segni” della presenza umana in quota.
Infatti a causa dell’abbandono o dell’introdursi di nuove attività turistiche o sportive, tali segni si stanno
rapidamente degradando o rischiano di scomparire, comportando la perdita di un patrimonio storico culturale sulle “terre alte”.
La documentazione di questi “segni” ha compreso inizialmente reperti in pietra scheggiata, incisioni rupestri, cippi confinari, sentieri lastricati o selciati, ricoveri pastorali; in una fase successiva ci si è proposto l’ambizioso disegno di una documentazione esaustiva di tutte le forme dei segni della presenza storica dell’uomo nel territorio. Dove è in corso (Bergamasca, Liguria, monte Linas (CA), provincia di Rieti e, più recentemente, in Aspromonte), ci si è resi conto che è molto impegnativa e richiede la mobilitazione di conoscenze e competenze specialistiche a tutto campo, di collaborazioni istituzionali, di congrue disponibilità finanziarie.
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È quanto si sta facendo in Aspromonte dove la sezione del CAI di Reggio Calabria, grazie ad un contributo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, ha condotto una ricerca che ha visto il coinvolgimento di diversi ed importanti soggetti istituzionali.
La pregevole pubblicazione che presentiamo da conto di una parte della ricerca che, siamo certi, produrrà
altri frutti.
Prof. Oscar Casanova
Commissione Protezione Montagna UIAA
(Unione Internazionale Associazione Alpine)
Ricercatore del gruppo “Terre Alte”
del Comitato Scientifico Centrale del Club Alpino Italiano
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L’eloquenza dei segni
a conoscenza delle montagne realizzata attraverso una loro consapevole frequentazione è stata la sfida
che il Club alpino italiano ha lanciato fin dalla sua nascita, quando l’Italia si stava faticosamente formando e le diverse regioni storiche e geografiche incominciavano a ripensarsi all’interno di un disegno unitario.
Il carattere nazionale del Sodalizio ha significato dai suoi esordi una chiara volontà etica e sociale partita da
una Torino subalpina sempre più proiettata fuori dai propri confini regionali. “Testimonial” d’eccezione è
stato proprio il calabrese Giovanni Barracco che Quintino Sella ed i suoi amici piemontesi hanno voluto
intenzionalmente coinvolgere nel concepimento del Sodalizio avvenuto in punta al Monviso il 12 Agosto del
1863.
Alpi ed Appennini hanno incominciato così a rappresentare il terreno di elezione di una pratica della montagna finalizzata anzitutto all’esplorazione del territorio. Un territorio da far conoscere soprattutto ai giovani per rafforzare in loro un sentimento di appartenenza da condividere sia sul piano materiale che su quello
simbolico.
Le prime scelte operative di quasi tutte le Succursali del Sodalizio (le attuali Sezioni) hanno, infatti, riguardato lo studio degli aspetti naturalistici e storico-culturali delle rispettive aree geografiche nella convinzione che i territori montani, anche i più modesti per altitudine e notorietà, dovessero avere pieno diritto di cittadinanza nelle attività di istituto del Sodalizio. Proprio questo appello alla montagna minore e meno conosciuta rappresenta un richiamo forte alle origini di cui oggi abbiamo sempre più bisogno per conferire nuovo
senso al nostro essere Soci.
Le tendenze della società attuale, proiettate sempre più verso la cultura della performance atletica e sportiva, rischiano di “colonizzare” e stravolgere anche le motivazioni più autentiche del nostro “andar-permonti”, di far prevalere scopi e finalità che non ci appartengono in nome dei “fuochi fatui” delle mode.
Ma se la modernizzazione degli approcci alla montagna attraverso nuove tecniche non ci deve lasciare
indifferenti, decisivo deve però essere il monito a perseguire gli scopi e le finalità conoscitive ed esplorative
di cui questa vostra lodevole iniziativa di ricognizione culturale delle “terre alte” di Calabria rappresenta un
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esempio virtuoso. Il Club alpino italiano, soprattutto nei territori più periferici della Penisola, è chiamato a
testimoniare a favore di quell’opera di ri-territorializzazione e di ri-alfabetizzazione sempre più minacciate
dall’omologazione livellatrice dei “non-luoghi”. Tutte le montagne sono infatti importanti giacimenti culturali di presenze umane che, in epoche diverse, hanno lasciato segni solo apparentemente muti quanto estremamente eloquenti per chi sa de-codificarli e leggerli con passione ed entusiasmo.
L’invito che rivolgo a tutti gli amici impegnati in queste attività di ricerca è di contribuire, attraverso la
conoscenza e lo studio del territorio, a demolire lo stereotipo della montagna come “luogo marginale” (per
fatalismo o per definizione geografica) e far emergere, invece, l’idea forte che la marginalità è, soprattutto,
figlia dell’emarginazione la quale – in ultima analisi – rappresenta una costruzione ed una scelta culturale di
natura etico-politica.
Prof. Annibale Salsa
Presidente Generale
del Club alpino italiano
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A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese
l Club alpino italiano Regione Calabria ha realizzato un progetto per la valorizzazione e la tutela del territorio dei Parchi nazionali della Calabria nell’ambito dell’accordo quadro triennale 2003/2005 sottoscritto
tra il Club alpino italiano e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. Il progetto, denominato
“A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese”, coinvolge le sezioni calabresi di Catanzaro,
Castrovillari, Cosenza e Reggio Calabria.
Le azioni prevedono l’informatizzazione del catasto dei sentieri mediante G.I.S., la gestione di sentieri, la
realizzazione di interventi strutturali presso rifugli, mirati anche a contenere i consumi energetici, la valorizzazione dei segni dell’uomo sulle terre alte e la tutela dell’ambiente montano.
La sezione Aspromonte di Reggio Calabria ha ben saputo realizzare a livello locale il progetto riguardante
la presenza umana in quota che il Club alpino italiano sta conducendo a livello nazionale.
Questo pregevole testo, grazie all’attività di studio e di indagine condotta in collaborazione con Enti qualificati e prestigiosi, evidenzia che l’ambiente del Parco Nazionale dell’Aspromonte ospita, oltre a un patrimonio di eccezionale interesse naturalistico, anche importanti testimonianze della presenza umana nelle
terre alte.
La pubblicazione di questo volume è una ulteriore prova che viene ad arricchire la fruttuosa collaborazione tra il Club alpino italiano e il Parco Nazionale dell’Aspromonte.
Si ringrazia l’Osservatorio Tecnico per l’Ambiente del Club alpino italiano, nella persona del dott. Alberto
Ghedina, e la sezione Aspromonte, nella persona del suo incontenibile presidente dott. Alfonso Picone
Chiodo, per la particolare attenzione che hanno rivolto per il successo di questo progetto.
Auguro che questa iniziativa faccia riflettere molti lettori e sia di esempio per iniziative di più grande portata.
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Prof. Antonino Falcomatà
Presidente del Club Alpino italiano Regione Calabria
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Un po' di storia in Aspromonte
li antichi non distinguevano l'Aspromonte dalle Serre o dalla Sila: la parte montuosa del Bruzio era tutta
detta Sila, termine che propriamente significa materia prima, bosco. Infatti per secoli e secoli i monti
dell'attuale Calabria furono rinomati preminentemente per due prodotti boschivi: il legname e la pece, che
si ricavava dalla resina dei pini. La pece, che trovava un impiego speciale nel calafataggio delle navi, fu usata
assai dai Greci, che ne seppero anche ricavare un micidiale prodotto di guerra detto pece greca, efficace
come materiale incendiario. Il legname serviva sia per le navi sia per le diverse opere di ingegneria, e specialmente per questo secondo motivo i Romani, quando si impadronirono della terra bruzia, iniziarono un'opera di disboscamento senza scrupoli ecologici. Nonostante ciò, tutti i monti dell'attuale Calabria, e quindi
anche il massiccio oggi denominato Aspromonte, erano maestosamente ricchi di manto boschivo e lo rimasero fino a tutto il medioevo, così che molti corsi d'acqua, oggi ridotti a pittoresche e terribili fiumare, erano
fiumi navigabili.
Gli studi sulla Calabria antichissima ci attestano che fin dalle età più remote le alture della attuale Calabria
furono luoghi molto frequentati. Le culture dell'età protostorica vi collocarono di preferenza i centri residenziali e le vie di comunicazione, che permettevano un collegamento celere fra le varie località della nostra
terra, fossero esse site nel versante ionico o nel versante tirrenico.
A monte e a valle dei centri abitati, la pastorizia e l'agricoltura sfruttavano, secondo le stagioni e le esigenze operative, sia le coltivazioni ed i pascoli vallivi sia quelli di altura. Chi dice oggi che i nostri paesini montani ebbero origine per la fuga dai pericoli delle scorribande marittime, operate soprattutto dai Saraceni, non
prende in considerazione né il fatto che l'età in cui si formarono molti abitati di altura fu precedente agli
assalti dei Saraceni, né la forte componente tradizionale del ritorno alle scelte abitative già memorizzate da
millenni, quando venne meno il particolare richiamo del mare, di cui era portatrice la cultura dell'antica
Grecia, e crebbe la moda dell'attività campestre, specialmente durante l'età tardo antica.
Per gli antichi coloni greci che, venendo dal mare, si stanziarono nella nostra terra, la montagna, e quindi
anche il nostro Aspromonte, oltre ad offrire materiale ligneo e pece, rappresentava due realtà assai diverse:
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una, molto attraente, di vasta area commerciale, l'altra di pericolo. Perchè gli indigeni che abitavano le alture avevano tanta esperienza da apprezzare e ricercare i prodotti delle officine greche, abbastanza ricchezza
per acquistarli, soprattutto con il baratto di materie prime o di prodotti agropastorali, e notevole organizzazione bellica per tenere a bada o rintuzzare le velleità espansionistiche dei Greci. Fin da quella età, dunque,
la nostra montagna significò, come oggi, per gli abitanti della costa, offerta di prodotti del suolo genuini e
pericolo di reazioni assai ostili alla provocazione di gente che si riteneva più civile. Ma anche per i Greci la
nostra montagna divenne presto una via, non appena essi si accorsero che i collegamenti fra i principali centri della costa ionica e le loro subcolonie della costa tirrenica erano più facili e rapidi mediante l'attraversamento concomitante di due diverticoli della via di quota. I Romani, poi, ne fecero l'asse portante delle comunicazioni stradali. Essi fecero passare in quota la via Popilia e consolidarono sullo spartiacque dell'attuale
Aspromonte l'arteria di accesso alle fortificazioni che vi avevano impiantato; questo assetto si confermò
soprattutto durante l'età tardo antica, le cui scelte logistiche e strategiche rilanciarono l'abitudine delle frequentazioni abitative d'altura.
Per molti millenni, dunque, la nostra montagna fu attraversata da gente che camminava: per abitarvi, per
procurarsi i mezzi di sussistenza, per recarsi da una parte all'altra, per cercare moglie, per vendere, comprare, darsi botte, pregare. Essa fu una solitudine costellata di agglomerati abitativi e brulicante di viandanti e
pellegrini.
Ma l'Aspromonte continuava a non chiamarsi Aspromonte. Secondo alcuni questo termine è bizantino ed
è formato dalla combinazione di un aggettivo greco medievale, aspro, che significa bianco e un sostantivo
latino, mons cioè monte. Come il Monte Bianco, dunque. Ma l'ipotesi non convince. Ormai quasi tutti gli
studiosi sono del parere che il termine Aspromonte sia di origine francese, introdotto in Calabria con l'avvento dei Normanni. In realtà, nei documenti bizantini pervenutici non compare mai qualche parola che si
assomigli al toponimo della nostra montagna. In età normanna, invece, essa è detta Aspermont, come tanti
luoghi montani di Francia.
Ma se la civiltà bizantina (che, distendendosi in Calabria per oltre sei secoli, ha modellato più di ogni altra
l'identità culturale dei calabresi) non diede il nome all'Aspromonte, ne avvalorò l'importanza ed i ruoli nella
vita della gente. L'aspetto più significativo della nostra montagna in quella età fu il suo supporto per la vita
religiosa. Le testimonianze dirette e soprattutto indirette ci parlano di molti contemplatori cristiani solitari,
allocati negli anfratti dei monti, nel fitto dei boschi, in capanne e in caverne, sia naturali che appositamente scavate. A questa folla, silenziosa e invisibile, di eremiti senza volto e senza organizzazione, che riteniamo
abbiano frequentato l'Aspromonte fra il VI e l'VIII secolo, succedettero schiere di monaci più regolari. Verso
il IX secolo, infatti, la Calabria fu attraversata, cominciando dalle zone meridionali, cioè, appunto,
dall'Aspromonte, da monaci, asceti greci, in buona parte fuggiti dalla Sicilia, che era stata nel frattempo
occupata dagli Arabi. L'Aspromonte divenne una santa montagna, paragonata spesso alla tebaide d'Egitto:
S. Elia Speleota, reggino, S. Arsenio, che soggiornò a lungo e morì a Armo, S. Elia il Nuovo di Enna, il suo
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discepolo Daniele, S. Nicodemo di Mammola, S. Filarete di Seminara, S. Leo di Africo che faceva il boscaiolo, e tanti altri asceti meno noti, seguendo le orme del più antico S. Fantino di Taureana, vissero nelle grotte, in casette rustiche, presso chiesette costruite alla meno peggio, vicino ai boschi e ai laghetti, salmodiando, digiunando, sempre schivi della folla perchè desiderosi di solitudine e insieme sempre circondati dalla
gente, che riceveva conforto spirituale, consigli di vita, sovente miracoli, segno e frutto di amore. Allora essere calabrese significava essere uomo pio, esperto di vita ascetica. La montagna, prediletta dai contemplativi, accentuò il carattere sacro; la fatica del camminare intensificò il significato del pellegrinaggio, alla ricerca della fonte di vita.
Si ingrossarono e si cinsero di mura, in quel tempo, gli antichi abitati di altura; la toponomastica aspromontana si arricchì di molti nomi di santi. I documenti ci parlano anche di un'accentuazione di percorsi di
alta quota; le vite dei santi testimoniano frequenti e facilissimi collegamenti fra tutte le località
dell'Aspromonte, impensabili ai giorni nostri. Gli stessi documenti testimoniano una riqualificazione agricola dei territori con coltivazioni miste, frequenti frutteti, notevoli vigneti. In modo particolare, dall'età bizantina ebbe inizio e incremento l'industria serica, che fu la principale fonte di proventi fino al terremoto del
1783. Allora, fra un abitante della costa ed uno di qualunque luogo aspromontano, non c'era differenza di
mentalità, nè di abitudini, nè di conoscenze o di ricchezza: dappertutto c'era lo stesso grado, assai elevato,
di civiltà. La dignità dei gesti e delle costumanze tradizionali del mondo contadino e pastorale d'Aspromonte
deriva da quella civiltà; si pensi agli atteggiamenti devozionali, alla sobrietà degli ornamenti celebrata da
Alvaro, allo stesso mantello delle donne, così simile a quello delle Madonne bizantine, al riserbo nella manifestazione dei sentimenti, alla sopportazione delle fatiche, all'ospitalità, alla saporita frugalità dei cibi. Tutte
queste costumanze sono come un'umile, avvincente epopea di Bisanzio, cancellata dall'ignoranza di tanti
intellettuali di oggi e destinata alla scomparsa prima ancora di essere stata rivisitata appieno e studiata.
I Normanni celebrarono la montagna nella Chanson d'Aspromont, cui fece eco tardiva il Cantare
d'Aspromonte di Andrea da Barberino; così l'Aspromonte si ammantò di leggende, con le lotte dei paladini
di Carlo Magno contro i Saraceni e si arricchì degli apporti della cultura francese, che si aggiunse a quella
bizantina. È ancora oggi stupefacente sentire l'eco di culture così diverse e così intense, nei frammenti che
oggi l'Aspromonte riesce a darci della sua storia. Il viaggio di questa storia si fa avvincente anche solo con
le parole, sulla scorta dei vocabolari del Rohlfs. Si pensi, ad esempio, allo zappino (latino sapinus, abete), allo
sparto (voce greca, che significa ginestra), al ciavréddu (che significa capretto, dall'antico francese chavreil), alla
mingioia (dal francese mont joy, la nicchia dei santi), al muccaturi (dal catalano mocador, fazzoletto), al musulupu
(dall'arabo masluk, cacio fresco).
Nell'agricoltura, l'età normanna apportò un leggero allentamento perchè le colture furono meno varie, con
un notevole incremento dell'olivo. Poi, con un ulteriore deprezzamento dei terreni, venne il tempo degli allevamenti intensivi: tra il XIII e il XV secolo assistiamo alla formazione di grosse mandrie di ovini, suini, meno
spesso bovini. Accanto all'olivo e al gelso, le pendici dell'Aspromonte accrebbero forse allora le già ricche
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distese di querce da ghianda. Inoltre, dalla più remota antichità fino al secolo XVI e oltre, parecchi luoghi
d'Aspromonte ospitarono un allevamento pregiato, quello dei cavalli, richiesti specialmente per le attività
militari.
In età moderna, la montagna in parte si rinchiuse. L'Aspromonte non fu più considerato un luogo di civile
modernità come tutti gli altri, ma entroterra, ambiente delle classi subalterne immaginate come gente incolta e rozza dai benestanti della costa, sempre più ignoranti della loro cultura. Per i signori della società bene
esso fu il luogo del diporto, soprattutto della caccia. Ma per tutti, continuava ad essere la via più facile di
collegamento. L'arcivescovo di Reggio, ad esempio, mons. Annibale D'Afflitto, verso la fine del secolo XVI,
da Bagaladi si trasferì a S. Agata sopra Reggio con una cavalcata di poche ore.
L'Aspromonte allora accoglieva sbandati, masnadieri, fuggitivi politici. Ma continuava anche ad essere frequentato da contemplativi e asceti, percorso da pellegrini devoti, contadini, pastori e mercanti. I boschi, dal
XVI secolo in poi, cominciarono a perdere un poco della loro immensa estensione, ma ancora nell'800 attiravano gli amanti della natura, come Edward Lear, che attraversò la montagna a piedi, per descriverli e disegnarli. I fiumi navigabili divennero a poco a poco torrenti, con le conseguenti alternanze di siccità e alluvioni. A lungo vi rimasero gli zinnapotami (lontre); poi, scomparsi questi animali, restarono le trote. Ma qualcuno afferma che essi siano ritornati a vivere in luoghi quasi inaccessibili.
Il tardo ottocento diffuse il ricordo dell'Aspromonte per due diverse epopee: quella di Garibaldi, che ancora, risalendo da Melito, via Bagaladi, ai Piani di S. Eufemia, mostrava di apprezzare le antiche vie militari di
altura; e quella, più fosca e inquieta, di Giuseppe Musolino. Oggi questa terra, resa incolta dal trasferimento a valle degli abitati, rovinata per il disfacimento geologico, spelacchiata per il disboscamento selvaggio,
violentata dalle innumerevoli, spesso inutili e sempre sconnesse strade che la solcano, diffamata dai sequestratori, ha tuttavia ancora la forza di apparire in vaste zone maestosa, commovente, avvincente. Se le giovani generazioni saranno meno ingiuste di quelle oggi anziane, nei confronti dell'Aspromonte, la montagna
potrà rivivere e forse ancora ritornare a raccontare la sua affascinante storia.
Prof. Domenico Minuto
Deputazione di Storia Patria della Calabria
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Aspromonte: l’ambiente
ircondato dal mare da tre parti l’Aspromonte, con rilievi che arrivano a sfiorare i 2.000 m, è una penisola
nella penisola. Lo Ionio ad oriente, il Tirreno ad occidente e lo Stretto di Messina che lo separa dalla Sicilia.
Vi sono perciò ambienti tipicamente montani ma a brevissima distanza dal mare, per un'estensione di
3.200 Kmq.
Geologicamente l'Aspromonte fa parte del massiccio calabro-peloritano ed è uno dei territori più antichi
della penisola. Nelle parti più elevate prevalgono le rocce silicee, gneiss e scisti mentre in basso la struttura geologica si complica con la sovrapposizione di rocce sedimentarie come marne, arenarie, conglomerati
e sabbie. Il loro alternarsi disordinatamente è testimonianza di un passato geologico molto travagliato. Esso,
infatti, iniziò a formarsi quando gran parte dell'Italia, comprese le Alpi, era coperta dal mare. La sua struttura è quindi atipica rispetto a quella delle formazioni vicine ma molto simile a quella di alcune zone delle Alpi
e di parte della Corsica e della Sardegna. Così, forse, la somiglianza con le Alpi potrebbe indurre a vedere
nell'Aspromonte una sorta di riproduzione delle vette e dei crinali alpini. Invece, niente di tutto ciò. La morfologia della montagna reggina è, infatti, addolcita da altipiani e da vasti gradini che si succedono via via
verso il basso, formando ampie distese pianeggianti sulla costa del monte come degli immensi balconi che
si affacciano sul mare. Viste dal largo, queste terrazze offrono un netto profilo orizzontale pressoché regolare e rappresentano un fenomeno quasi unico nei paesaggi montani.
L'impalcatura orografica dell'Aspromonte, la cui forma può richiamare alla mente quella di un cono, è inoltre fortemente incisa dalle fiumare, corsi d'acqua a regime torrentizio e senza sorgente, che data la brevità
del loro percorso e l'accentuata pendenza hanno una notevole capacità di erosione. La parte più prossima
alla foce è un’ampia distesa di sabbia, ciottoli e ghiaia calcinata dal sole mentre più a monte la furia delle
acque invernali, costrette a scorrere in gole anguste, ha creato profondi valloni, veri e propri canyons.
Sembrerebbe quindi una montagna ostile all’uomo ma colture agrarie quali l’olivo risalgono dalla Piana di
Gioia Tauro fino oltre gli 800 m di altitudine e gli altipiani (ad oltre 1.000 m s.l.m.) sono intensivamente coltivati a patate, cereali e vari tipi di ortaggi.
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Dal punto di vista climatico in Aspromonte si riscontrano accentuate differenze non solo tra le aree interne e le aree costiere (il litorale tra Capo d'Armi e Capo Spartivento è una delle aree più aride d'Italia), ma
anche tra il versante ionico ed il versante tirrenico dato che le precipitazioni cadono soprattutto sulla parte
occidentale del massiccio. La vegetazione ne è fortemente influenzata e si presenta sotto le forme più disparate.
Colpisce il verde scuro dei boschi, nel versante settentrionale, che si sbiadisce nel giallo della fittissima
macchia e delle gole, man mano che ci si avvicina ai versanti meridionale e orientale. Umide faggete e solari pinete lo ammantano nelle quote più elevate mentre le fioriture policrome della macchia mediterranea ne
rivestono le pendici.
In particolare si nota un'asimmetria di distribuzione nei due versanti che a partire dal tirrenico a quello
ionico consente di incontrare boschi di roverella intorno ai 700 m, castagni sino ai 1.000 m, poi boschi misti
d’ontano, acero ed altre essenze fino ai 1.200 m. Da qui hanno inizio le formazioni di pino laricio e di faggio,
alle quali seguono, a quote ancora più elevate, la consociazione faggio e abete bianco. Sul versante jonico,
alle faggete delle zone più alte seguono, discendendo intorno ai 1.400 m, i boschi misti di latifoglie e, sui
900 metri, i boschi di farnetto. Specie molto appariscente è la ginestra dei carbonai che colonizza rapidamente le radure lasciate libere dal bosco illuminando di giallo la primavera.
La fauna, nonostante la forte pressione venatoria esercitata prima dell’istituzione del Parco, offre specie
interessanti. Si segnala la presenza del lupo, sino a qualche anno fa scomparso, e del gatto selvatico. È diffuso lo scoiattolo in una forma meridionale caratterizzata da grandi dimensioni, colorazione nerastra e macchie bianche sul petto. Tra i rapaci sono presenti il gufo reale, lo sparviero, la poiana, il gheppio. Nei luoghi
più impervi sopravvivono alcuni esemplari di coturnice e nei torrenti montani più integri, solitamente sotto
le cascate, nidifica il merlo acquaiolo. L’aquila del Bonelli è il più raro dei rapaci, con poche coppie rifugiate nei recessi più impervi. Una piccola rarità è il driomio, un minuscolo roditore simile al quercino presente
in Aspromonte e nel Trentino con una forma endemica scoperta solo recentemente.
Il Parco è facilmente raggiungibile da Reggio Calabria, da Bagnara, da Bovalino e da altri centri sulla costa
ed ha in Gambarie d'Aspromonte (1.300 m s.l.m.) l'insediamento più elevato con buoni alberghi che ne fanno
una delle basi di partenza per escursioni nel massiccio.
Ma l'Aspromonte non è solo natura: anche l'uomo ha conferito a questo massiccio particolari attrattive.
Pittoreschi ed antichi paesi aggrappati a costoni rocciosi in bilico su profondi valloni: Staiti e Palizzi dall'impianto urbanistico caratteristico per i numerosi vicoli; Africo Vecchio, Casalnuovo, Precacore, Amendolea
ormai abbandonati ma suggestivi; Delianuova, Oppido, S. Giorgio Morgeto sul versante settentrionale conservano centri storici con palazzi, chiese e castelli ben custoditi.
L'artigianato è ancora vivo in numerose forme: la tessitura, in particolare di ginestra, si ritrova nell'area
ionica con motivi ornamentali che si richiamano alla tradizione bizantina; la lavorazione del legno è legata
alla realizzazione degli strumenti d'uso pastorale (collari, stampi per formaggi, cucchiai, ecc.) o agricolo e
22
particolarmente rinomata è la radica d'erica con la quale si fabbricano pipe ricercate anche dagli inglesi, noti
estimatori; la realizzazione di strumenti musicali quali tamburelli e zampogne testimonia la vitalità della
musica popolare ed infine la ceramica che ha i suoi centri di produzione più importanti a Gerace e Seminara.
Un'ampia e ben organizzata raccolta si può ammirare al Museo Etnografico di Palmi. Sulla parte nord-occidentale interessante la visita al Mausoleo di Garibaldi che ricorda il fratricida scontro fra garibaldini e bersaglieri.
La religiosità popolare ha trovato nell'Aspromonte la sede ideale della propria spiritualità con numerosi
santuari e monasteri mete di partecipati pellegrinaggi. Polsi è certamente il più frequentato con decine di
migliaia di pellegrini che giungono anche dalla Sicilia ad onorare la Madonna della Montagna e poi lanciarsi in sfrenate tarantelle e pranzi pantagruelici a base di carne di capra. Insomma: un paradiso verde al centro del Mediterraneo.
Dott. Alfonso Picone Chiodo
Presidente CAI sezione Aspromonte
23
Terre alte d’Aspromonte
I RUDERI DI PIETRO
Collocazione
Località Montalto Comune di Samo
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 I Gambarie
Long. 580641 lat. 4223985
Quota
1.950 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
A Montalto si può giungere da diversi
punti della costa, sia ionica che
tirrenica: dall'A3 all'altezza di
Bagnara, dalla S.S. 106 da Melito o da
Reggio Calabria. Le indicazioni da
seguire sono quelle per Gambarie,
sede del Parco Nazionale
dell'Aspromonte. Da quì, seguendo per
circa 15 Km una stradina asfaltata, si
raggiunge la base del Montalto dove
dovete lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Il percorso più diretto alla cima di
Montalto è una ripida scalinata, in
gran parte diruta. Consigliamo invece
un sentiero, delimitato da una
staccionata in legno e contraddistinto
da segnale bianco-rosso, che sale più
dolcemente in circa 20 minuti. Per
trovare i resti della dimora dell’eremita
Pietro bisogna guardare a destra non
appena termina la staccionata, quasi
in cima, ma prima di entrare nella
radura. Sulla vetta vi accoglie la statua
del Redentore ed una rosa dei venti vi
indicherà le località che osserverete.
Ampio panorama sullo Ionio e sul
Tirreno.
Sentieri
Vi transita il Sentiero Italia (segnavia
bianco-rosso) che proviene da
Gambarie e prosegue per Polsi e San
Luca. Vi termina il percorso Samo –
Montalto (segnavia bianco-rosso).
Pellegrini a Polsi con un frate cercatore
(1945)
Montalto
27
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Montalto, in quanto vertice
dell’Aspromonte, costituisce meta
privilegiata di ogni escursionista che
voglia conoscere questo massiccio.
Anche se non raggiunge i 2.000 metri
(1.955,92 m per la precisione) la sua
posizione, al centro del Mediterraneo,
offre un panorama grandioso:
l'estrema punta della Calabria e la
Sicilia che si toccano quasi fossero
una stessa terra, l’Etna che sbuca da
una coltre di nuvole con la sua mole
spesso imbiancata di neve e con un
pennacchio di fumo, lo Ionio e il
Tirreno con le isole Eolie. Interessante
il cambiamento di portamento dei
faggi intorno alla vetta che a causa del
vento e della neve crescono prostrati e
contorti assumendo forme strane. In
cima vi è una rosa dei venti eretta del
G.E.A. nell'estate del 1994 ed un
monumento al Redentore. L'idea di
porre una statua sul Montalto risale al
1899. Fervevano infatti i preparativi
per l'Anno Santo e tra le varie
iniziative si pensò di salutare il XX
secolo erigendo venti monumenti al
Redentore su altrettante cime italiane.
Il Comitato deputato all'individuazione
dei siti prescelse anche l'Aspromonte
e così il 23 settembre 1901 (occorsero
ben due anni per la raccolta della
somma necessaria) il cardinale
Portanova, insieme ai vescovi della
Calabria, celebrò la Santa Messa alla
presenza di oltre duemila fedeli.
28
ATTUALE
CONDIZIONE DEL SITO
Dell’originario impianto planimetrico è
leggibile l’ipotetica forma pressocchè
trapezioidale. Attualmente si
conservano gli angoli interni del
manufatto e gli stipiti di accesso allo
stesso (con apertura di 70 cm circa),
orientato a ovest. Della struttura
muraria a secco, delle ipotetiche pareti
in elevato, dello spessore di circa 70
cm, restano elementi lapidei di mediapiccola dimensione. Il vano del
romitorio misura circa 6 mq.
29
ANTICO
UTILIZZO
La presenza a così alta quota di una
costruzione, seppur minima,
difficilmente si può spiegare con
necessità legate all’utilizzo del bosco o
di controllo del territorio. Il luogo è
così esposto ai venti ed innevato per
diversi mesi all’anno che forse solo
esigenze di espiazione e di
raccoglimento possono farlo
considerare abitabile. Magari in
contrapposizione alle forze maligne
dalla Maga Sibilla che la tradizione
vuole nascosta in una grotta tra
Montalto e il Santuario di Polsi. Ci
piace pertanto supporre che tale
rudere sia il riparo di un eremita.
ORIGINI,
FONTI, STORIA DEL SITO
La presenza di eremiti in Aspromonte
è ampiamente attestata (vedi il
capitolo sull’asceterio delle rocce di
San Pietro). L’unica fonte però che
descrive la presenza di un romito a
Montalto (anche se sui generis) è
Francesco De Cristo nel 1932 ed è a
lui che lasciamo la parola per
raccontarci dell’incontro con l’eremita
Pietro.
“Mi trovavo ancora aggrappato al
Redentore, e di lassù delibavo la
meravigliosa vista che spazia su tutta
la Calabria, sui mari che la circondano
e sulla Sicilia, quando comparve,
sbucato non so da dove, credo dalla
terra, Pietro Stilo, l’eremita del
Montalto. Ogni tanto, facendo
solecchia, fissava me, il gagliardetto, i
miei compagni e allargava le braccia
urlando e facendo gesti di minaccia.
Ci raggiunse in quattro salti, aprì la
bocca, e giù un carico di contumelie.
Io guardai quell’omiciattolo nero e
sparuto, coperto da un vecchio lurido
loden dal quale spuntavano un paio di
calzoni spalmati di sego e due
barcacce di scarpe, portante a tracolla
un curioso ombrello ravvolto in cenci,
ombrello che non lasciò mai, quasi
fosse la sua ancora di salvezza, e
capii che la fama che gode Pietro in
tutta la Provincia è ben meritata. E
l’omiciattolo garriva come un’oca
spennata viva
– Scostumati, chi vi ha dato il
permesso di profanare il pio sacro
luogo? Togliete quello straccio di
bandiera!
Ma non ebbe finite queste parole che
mio fratello lo prese dalla gola e gli
fece capire in buon italiano che la
bandiera non è uno straccio e che
conoscevamo lui Pietro Stilo in vita e
miracoli come un eremita sui generis e
quindi era inutile che con noi avesse a
fare lo zelante difensore del pio sacro
luogo. Capì l’antifona e si calmò e
tolse dal loden un bossolo e fece il
giro per l’obolo. Gli demmo qualche
lira e al tintinno del nichel divenne più
garbato e loquace come una
lavandaia.
– Non vi dovete dispiacere delle parole
– interoquì l’ottimo eremita – perché
tutti i ragazzi che passano vedono la
bandiera e vengono qua e fanno
scostumatezze!
– Quali ragazzi? Dove sono quassù i
ragazzi? Ci pigli in giro?
– Dico se ne venissero!
– Se ne venissero’’
– Dovete sapere che qui celebrò la
messa il Cardinale, ed è pio sacro
luogo, ed io ho una “carta” del
Prefetto con la quale sono nominato
padrone di Montalto!
– Questa è grossa, Pietro! – e
ridevamo come matti.
E ci accingemmo a montar la tenda
dietro il recinto del monumento, ad
oriente, al riparo dal vento del tirreno.
Se non che, nuova lotta con Pietro
l’Eremita il quale pretendeva che non
toccassimo le pietre; gridava perché
massaro Peppe aveva acceso la pipa;
voleva che stessimo a capo scoperto
proprio sul Montalto con quel po’ di
vento freddo; tirava sassi al povero
Menelic il quale si era sdraiato vicino
al cancelletto. Come Dio volle la tenda
fu armata, in ciò aiutati anche da
Pietro Stilo che, finita la bisogna
s’inginocchiò sopra un mucchio di
scheggie, e tolto il rosario cominciò le
sue orazioni. Debbo confessare che
lassù, contro il sole occiduo di fronte
al Redentore, in quella posa, Pietro
pareva più buono di quel che non sia;
ed era in magnifico atteggiamento: per
cui in un baleno armai il treppiedi, e
trac! L’otturatore della Volgtlander
scattò, mentre l’eremita volgeva i suoi
occhietti irrequieti e sospettosi in giro,
30
prestando avido orecchio alle nostre
parole, e recitando il rosario pro
forma.
E qui è necessario dir qualche parola
su Pietro Stilo, perché non vogliam
passar per… insomma per aver preso
in giro un eremita il quale poi non è
che un eremito furbacchione. Pagati
cari peccatucci e peccatacci di
gioventù, Stilo, da Canolo, sua patria,
si rifugiò sul Montalto e nella bella
stagione dal suo covo scende alle
strade e chiede l’obolo. Nell’inverno,
cacciato dalle nevi e dai geli, va
mendicando per i paesi della
provincia.
Mangiò e bevve con noi, e ci aiutò a
cercar l’acqua. Quando partimmo gli
lasciammo una mezza bottiglia di olio
ed altri soldi. Allora volle che ci
fossimo essi in ginocchio e declamò
una lunghissima predica irta di frasi
peregrine, e ci impartì la Benedizione.
Ci lasciò con rimpianto e di lassù
salutava mentre scomparivamo
nell’intrico dei cespugli tormentati”.1
1
F. DE CRISTO, Op. cit.
AUTORI
Redazione testi: dott. Alfonso Picone
Chiodo
Rilievi: Studio Riproarc di arch. cons.
Claudia Cutrupi
Foto: C. Cutrupi, A. Picone
PIETRA SALVA
Collocazione
Comune di Delianova
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 589 II Oppido M.
Long. 579719 lat. 4229290
Quota
1.291 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da Delianuova salire in montagna ai
Piani di Carmelia. Giunti alla
chiesetta ed alla fontana deviare a
destra. La strada è in pessime
condizioni quindi consigliamo di
percorrerla a piedi.
Percorso a piedi: difficoltà T
La stradina sterrata s’inoltra tra
rigogliosi boschi ed attraversa
numerosi ruscelli. Appena 2 km di
piacevole passeggiata e incontrate,
in una pineta, gli enormi massi di
Pietra Salva.
Sentieri
A Carmelia s’incrociano il Sentiero
del Brigante ed il Bova–Delianuova.
31
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Pietra Salva è uno dei sei altipiani che
abbelliscono il nostro Aspromonte. È
occupato in gran parte da un pineta,
un tempo bellissima, oggi in gran
parte minacciata dalla processionaria.
Vago ornamento di Pietra Salva è un
ingente macigno che s’innalza sul
limite orientale dell’altipiano. Altri
macigni di minore mole si trovano nel
circondario, creando un ambiente
particolarmente interessante.
Tratto da: D. MINUTO, Escursione in
Aspromonte e Ferruzzano, « Calabria
sconosciuta », Anno XXIV luglio –
settembre 2001, p. 55.
II 3 novembre, per invito del prof. Tonino Perna, Presidente del Parco
d'Aspromonte e con la sua guida, ho
visitato Pietra Salva. Mi
accompagnava il dott. Alfonso Picone.
Questa località è una pietra, che
spicca nell'ambiente boscoso in cui si
trova per la sua mole massiccia che si
32
erge come un cono irregolare e per il
contrasto fra la sua roccia grigia, il
terreno scuro e il verde dei faggi e
delle conifere. È una contrada vicina
ai Piani di Carmelia, a sud di
Delianuova, presso una cima che
supera la quota di 1.300 metri sul
mare e renderebbe visibile dalla
roccia un ampio tratto di territorio a
nord, cioè verso la Piana di Gioia
Tauro, se non fosse piena di alberi. Il
suo perimetro irregolare alla base può
misurare una ventina di metri e la sua
altezza è di circa 5, 6 metri. Su un
suo fianco, nei pressi di un solco
naturale di dilavamento, sono stati
incisi dei rozzi gradini, per facilitare
l'ascesa dell'uomo. La roccia reca,
dunque, i segni di un manufatto e
all'altezza di circa quattro metri,
presenta due anfratti naturali, che
permetterebbero un piccolo e
piuttosto disagevole rifugio
provvisorio. Mi pare di potere
affermare con una certa sicurezza che
non si tratti della dimora di un asceta
cristiano. Per il resto, posso esprimere
solo ipotesi. Potrebbe essere un
semplice ricovero per pastori o
boscaioli, ma salire sopra la roccia
lungo quei gradini mi sembra che
comporti troppa fatica per due piccoli
anfratti da utilizzare in episodi di vita
quotidiana. Resterebbe allora l'ipotesi
che si tratti di un segno, e dunque
qualcosa di sacro per una religione
precristiana sensibile al fascino delle
rocce isolate, oppure di un posto di
vedetta, possibile soltanto se in un
certo tempo, forse della preistoria, la
sua visibilità non sia stata impedita
dalla vegetazione.
Ascia chelliana trovata nella cavernuola di Pietra Salva
SCOPERTE
Nell’estate del 1925 il dott. Francesco
Leuzzi, illustre professore deliese
dell’Università di Napoli, rinvenne
un’ascia dell’epoca chelliana. È
un’ascia di pietra verde serpentina
aspromontese, scoperta in una
cavernicola nei pressi di Pietra Salva,
nell’interstizio tra il terreno e la roccia.
La zona intorno, a quel tempo, era
coltivata a grano, e la grotta faceva da
riparo ai contadini che lavoravano nel
circondario e che avevano, senza
averne colpa, fatto scempio di quanto
avevano trovato ritenendolo privo di
importanza.
33
Solo la rivista Albori nel ’25 pubblica
del rinvenimento dell’ascia e nel ’27
della “cavernicola paleolica di
Pietrasalva” con il ritrovamento di
altre due asce chelliane.
Il rinvenimento all’epoca suscitò un
certo rumore nell’ambiente scientifico. Il
Professore anticipò delle considerazioni
sull’aspetto geologico del territorio, che
in Italia vennero viste con una certa
ilarità ma che suscitarono la curiosità
dei ricercatori francesi dell’Istituto
Paleontologico di Parigi, che due anni
più tardi confermarono le ipotesi del
nostro luminare giungendo alle stesse
conclusioni.
LEGGENDE
I nonni hanno raccontato a quelli
della mia generazione, quando
eravamo bambini, di una leggenda
riguardante la rocca di Petrusalvu.
Un tesoro è nascosto all’interno di
questa grande pietra, per riuscire ad
impossessarsene il fortunato deve
girarci intorno tre volte senza fermarsi
e senza prendere mai respiro. A
questo punto il grande megalite si
aprirà e darà il suo dono all’eroe.
AUTORI
Redazione testi: prof. Domenico Minuto,
dott. Carla Carbone
Foto: A. Picone
34
LE MURAGLIE ANTIQUE DEL MONTE FISTOCCHIO
Altre denominazioni
Fistorchio, Pristachì, Sturchio, Pistarchio
Collocazione
Comune di Scido
Coordinate
Carte I.G.M scala 1:25.000 F° 589 II Oppido M.
Long. 583729 lat. 4228291
Quota
1.568 m s.l.m.
Versante
ionico
d’Aspromonte
450
Scido
Versante
tirrenico
d’Aspromonte
•
1.204
Monumento a
Garibaldi
1.310
Gambarie
COME
LEGENDA:
1 Monte Fistocchio
Monte
Fistocchio
Santuario
di Polsi •
•
3 Percorso in pendio
3
Mare Tirreno
35
823
• Pietra cappa
•
870
Pietra di Febo
2
1
2 Resti della fortificazione
302
Platì
• 1.204
1.955
Montalto
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Bisogna raggiungere Scido, sul
versante tirrenico dell’Aspromonte, e
imboccare la strada che, in circa 7 km,
sale in montagna ai Piani di Iunco.
Giunti ad un bivio deviare a destra e
poco dopo a sinistra. Una stradina
riprende a salire ed in un paio di km si
congiunge con un’altra strada. Siete
giunti a Portella Mastrangelo dove
lasciare l’auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Monte Fistocchio è facilmente
raggiungibile in meno di mezz’ora
seguendo le ampie aperture tra i
boschi che conducono alla vetta.
Sentieri
A Carmelia s’incrociano il Sentiero del
Brigante ed il Bova–Delianuova.
513
Santa Cristina
Ex sanatorio•
583
Delianova
•
Mar Ionio
Piani di
Carmelia
Tratto da: D. MINUTO, Calabria
Sconosciuta, n. 99, luglio/settembre
2001, p. 55.
Assieme ai soci CAI Alfonso Picone e
Antonio Barca, con un mezzo dell’Ente
Parco messoci gentilmente a
disposizione dal presidente prof.
Tonino Perna ho potuto visitare il
monte Fistocchio, la cui cima tocca la
quota di metri 1.567 sul mare. Da
tempo avevo il desiderio di compiere
questa esplorazione perché in un
documento di cinquecento anni fa si
parla dell’esistenza di ruderi: esce alla
serra dello Sturchio donde sono certe
muraglie antiche, et detta serra
similiter sagliendo esce et va alla pietra
della spatacomena idest pietra tagliata
de spata (Pompeo Basso, Apprezzo del
15 marzo 1586, in Archivio di Stato di
Reggio Calabria, Capitoli, grazie,
privilegi, apprezzi: copia Blasco, cart.
11, n. 96). Sulla cima e lungo la costa
occidentale di questa bella montagna
occupate da una vasta radura
abbiamo rinvenuto molti blocchi di
roccia tagliati in forme varie e
irregolari, in prevalenza allungate e di
dimensioni notevoli (ad es., cm 30x20
circa), sparsi alla rinfusa. Non c’era
traccia né di cotti né di malta.
Abbiamo notato che molti di questi
36
massi disegnano come una corona
attorno ad un terreno alquanto
pianeggiante sulla cima (come un
cerchio irregolare di circa 30 metri di
diametro): un altro gruppo di massi si
nota presso un altro pianoro più
piccolo ad ovest, dove c’è il segno
geodetico. Altri massi si trovano fra i
due pianori, come se costeggiassero
una stradella ed altri ancora mostrano
di essere caduti lungo il ripido pendio
della costa occidentale. Dalla cima del
monte si gode una veduta assai nitida
sui due versanti, fra cui si distinguono
le caratteristiche rocce di Pietra
Castello e Pietra Cappa a sud est e gli
abitati di Delianuova e Scido a nord
ovest. Si scorgono nettamente anche le
alte cime dell’Aspromonte, con
Montalto a sud ovest e Pietra Tagliata
ad ovest. La presenza dei massi
conferma l’esistenza, un tempo, di un
abitato, ma l’odierno disfacimento dei
ruderi non permette se non illazioni
sulla tipologia di questo insediamento.
Esso doveva avere la maggiore
concentrazione nei due pianori, per
disperdersi poi gradatamente ai
margini di qualche via. La sua
posizione panoramica, e perciò
dispersiva, escluderebbe l’ipotesi di un
insediamento religioso cristiano (i
quali, peraltro, se di tradizione
bizantina, non sono collocati in cima
alle montagne, ma sui fianchi).
L’altitudine, con le conseguenti
condizioni meteorologiche, rende
improbabile anche l’ipotesi di un
insediamento civile. È, dunque, più
verosimile che si trattasse di una
postazione militare, un luogo di
vedetta assai privilegiato, a guardia
della via che collegava Pietra Castello
con Santa Cristina, per indicare due
castelli assai antichi sui due versanti. E
che tale insediamento sia notevolmente
antico e affermato dalla testimonianza
di Pompeo Basso.
TRADIZIONI
Corrado Alvaro scrive di un convento
che sorgeva sul monte Pistarchìo (Polsi,
1912). Francescantonio Leuzzi e
Salvatore Gemelli riferiscono di una
grangia abitata dai monaci dal 1°
maggio sino al giorno dei morti. Essa
dipendeva dal monastero di S. Marina
sito nei pressi di Paracorio, antico
casale di Delianuova. Il terremoto del
1783 distrusse il monastero e causò
l'abbandono della relativa grangia. (F.
Leuzzi, Ediz. Barbaro, 2003; S. GEMELLI,
Storia, tradizioni e leggende a Polsi
d’Aspromonte, Gangemi Ed., 1992).
Monte Fistocchio: resti della fortificazione
37
AUTORI
Redazione testi: prof. Domenico Minuto,
Deputazione di Storia Patria della
Calabria
Rilievi: prof. arch. Giovanni
Brandolino, Università Mediterranea
degli Studi di Reggio Calabria, Facoltà
di Architettura
Foto: V. Galluccio, A. Picone
38
CROCE DI TOPPA
Collocazione
Località Toppa
Comune di Santa Cristina
Coordinate
Carte I.G.M scala 1:25.000
F° 589 II Oppido M.
Long. 584569 lat. 4229359
Quota
1.230 m s.l.m.
Fedeli in pellegrinaggio a Polsi
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
La strada più diretta per salire a Zervò
è quella di S. Cristina d'Aspromonte.
Superato l'ex Sanatorio (ora Comunità
Incontro) continuare a sinistra per
l'ampia strada che conduce a
Carmelia. Percorsi 3 km porre
attenzione dove la strada curva verso
sinistra e nel muraglione di
contenimento a sinistra noterete alcuni
gradini che consentono di salire sul
terrapieno dove si trova la croce.
Sentieri
Vi transita il Sentiero del Brigante che
da Gambarie conduce alla Limina.
ORIGINI,
STORIA E FONTI
“S. Toppa sacrificatosi per il
prossimo”. È questa la sintetica scritta
incisa nel marmo posto sotto la Croce
di Toppa. La croce, restaurata qualche
anno fa, è conosciuta da almeno un
secolo, come attestano il brano che
stralciamo dall'epico pellegrinaggio di
De Cristo e le carte dell'IGMI dei primi
del 1900. Nessuna notizia, tuttavia,
siamo riusciti a reperire su questo
sventurato sacerdote, monaco,
pellegrino o cos'altro. La tradizione
infatti narra di un pellegrino diretto (o
di ritorno) alla Madonna della
Montagna di Polsi che, sorpreso da
una bufera, fu trovato morto in quel
luogo. Il verificarsi di tali tragici
episodi in una montagna come
l'Aspromonte, con altitudini non
elevate, non deve sorprendere. È di
appena un decennio fa un episodio
analogo accaduto ad un pastore nei
pressi di Pietra Cappa, sul versante
orientale del massiccio, a meno di
1.000 m di quota.
Inoltre il luogo è spesso usato per il
carico del legname in occasione di
utilizzo del bosco. Nel passato, per
trascinare la legna, si usava una slitta
grossolana che, guarda caso, si
chiama toppa.
Comunque sia i pellegrini che, ancora
oggi, si recano a piedi a Polsi e
transitano da Croce di Toppa usano
lasciare un pezzo di legno che
consenta all'anima dello sfortunato di
riscaldarsi, tant'è che vi è sempre una
catasta continuamente rinnovata.
Ma lasciamo ora la parola a Francesco
39
De Cristo che ci racconta del suo
incontro con la Croce di Toppa.
“Battiamo la via di Polsi per la quale
ogni anno in maggio e settembre
transitano torme di pellegrini che
vengono dai paesi lontani e traversano
le valli, i boschi, le montagne per
andar là, nella gola profonda e
selvaggia dove sorge il mistico
santuario di Maria della Montagna,
spinta dalla fede, dalla rozza ingenua
fede che li sorregge nell'aspro
cammino, nelle sofferenze della strada.
Ed ecco un segno tangibile delle
primitive credenze di gente nostra; il
legno propiziatore da portare in certi
tratti della via: ad un certo punto della
strada ci forniamo anche noi di un
pezzo di legno che porteremo per
tutto un dolce pendio, sino alla Croce
di Toppa, ampia radura in mezzo alla
selva, dove si accumula della legna
portata per devozione dai pellegrini.
Più grave è il peso che urge alla
coscienza, più grande e pesante è il
legno che si porta al mucchio: e
troviamo tutta una graduazione di
rami. Dal tronco (chissà che
peccatacci!) al fuscello, portato forse
da una bimba il cui puro cuore ancora
non è turbato dall'ansia del peccato di
Eva che ferve nelle vene muliebri, ed i
cui occhioni limpidi riflettono la
maestà smeraldina della selva e la
gioia di vivere. Sovrasta al mucchio
una gran croce che sembra
promettere, nella sua muta eloquenza,
misericordia e perdono.
Spiotta, portò su alla catasta una
lunga pertica che non finiva più,
simbolo certamente della sua
peccaminosa ansia di tendere all'alto,
verso le cime della gloria e dell'amore.
Io e Don Pignataro ci contentammo di
due rami qualsiasi e il geologo, alle
nostre insistenze, si armò di un
rametto secco contorto e leggerissimo.
Che tolse dal natio tronco con un gran
colpo di mazza.”
AUTORI
Redazione testi: dott. Alfonso Picone
Chiodo
Foto: A. Picone
(Tratto da F. DE CRISTO, Vagabondaggi
sull'Aspromonte, Guido Mauro Ed.,
1932).
40
PALAZZO DI ZERVÒ
Collocazione
Località Palazzo
Comune di Oppido Mamertina
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 590 III Platì
Long. 587455 lat. 4233985
Quota
1.040 m s.l.m.
Piminoro e Oppido Mamertina
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da Oppido seguire le indicazioni per
Zervò (Comunità Incontro). Superato il
centro abitato, al bivio per Santa
Cristina-Piminoro, imboccare a
sinistra (Piminoro); state così
percorrendo la Strada Provinciale 112.
Proseguite verso monte fino a
raggiungere Piano Rocchelli
contraddistinto dal Cristo di Zervò. Al
bivio proseguire sulla destra e dopo 3
Km, poco prima di una grande
costruzione (rudere) posta sulla destra
(Vaccarizzo), si apre, sempre a destra,
una ampia pista sterrata. Lasciare
l’auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Iniziate a percorrere la sterrata (in
tutto appena 2 km) e dopo circa cento
metri raggiungerete un primo bivio.
Andate a destra e proseguite sulla
41
pista principale che prima costeggia il
piano di Zillastro e dopo attraversa un
fitto rimboschimento di pini. La pista
termina esattamente alle mura di
Palazzo di Zervò.
Sentieri
Nei pressi della fortificazione transita
il Sentiero Italia (che qui utilizza un
tratto del Sentiero del Brigante).
DESCRIZIONE
DEL SITO
La scoperta effettuata dalla
Soprintendenza ai Beni Archeologici
della Calabria nella seconda metà
degli anni ’90, nella località
aspromontana di Palazzo (1.040 m
s.l.m), è di particolare interesse per la
conoscenza delle dinamiche
insediative di un territorio interno,
frequentato fin dall’età classica e dove,
in età ellenistica, si stabilirono gruppi
di popolazioni italiche,
specificatamente brettie.
Territorialmente e politicamente la
zona di Palazzo va ricordato che,
come tutta l’area a sud del fiume
Petrace – antico Métauros – ricadeva
fin dall’età coloniale, nell’area
controllata dalla colonia calcidese di
Rhegion, fondata alla fine dell’VIII sec.
a.C.
Dal punto di vista geomorfologico, il
sito di Palazzo è identificabile con un
terrazzo, ubicato nel punto di
collegamento tra due percorsi di
dorsale che permettono di raggiungere
i Piani aspromontani di Zivernà sia dal
moderno centro di Oppido Mamertina
che da Oppido Vecchia e Mella, sede
rispettivamente dell’abitato medievale
di S.Agata (anno 1.044) e di quello
italico di II-I sec. a.C. Ugualmente
strategica la zona anche per il
collegamento con il versante ionico
della regione, controllato dal centro
coloniale di Locri.
Le campagne di scavo avviate, hanno
messo in luce una struttura fortificata,
a pianta quadrangolare, 30X30 m.,
con un unico ingresso non carrabile a
sud, protetto da due contrafforti (2.5
m circa di larghezza), riconducibile ad
ambito culturale brettio. Fu realizzata
alla fine del IV sec. a.C. e rimase in
uso nel corso del III sec. a.C.; la
scoperta di frammenti ceramici a
42
vernice nera di VI sec. a.C. nella
colmata di terra utilizzata dai suoi
costruttori per realizzare le fondazioni,
attestano la frequentazione dell’area
anche in età arcaico-classica.
Una frequentazione occasionale del
sito anche per epoche successive al III
sec. a.C. è documentato dal
rinvenimento di materiali ceramici
frammentarii tardoantichi e medievali.
La tecnica costruttiva utilizzata,
impiegava per l’alto zoccolo – a
doppia cortina, con emplecton
centrale – grossi blocchi appena
sbozzati, inzeppati laddove
necessario, con pietre più piccole,
disponibili sul posto. Caratteristici, i
contrafforti quadrangolari ed
aggettanti, posizionati lungo tutto il
perimetro. Per l’elevato, non più
conservatosi, alto in origine almeno 3
o 4 m, è ipotizzabile l’uso di una
tecnica mista di legname e pisè, con
camminamento e probabili piccole
torri in corrispondenza degli avancorpi
dell’ingresso, dei rinforzi angolari e di
quelli mediani delle mura; la copertura
potrebbe essere stata realizzata in
legno, data anche l’assenza di crolli di
tegole di copertura. L’interno è
suddiviso in più ambienti disposti
attorno ad un’area centrale. Dei
diversi ambienti messi in luce, in
alcuni sono stati rinvenuti anche dei
focolari; il piano pavimentale era
realizzato in terra sabbiosa mista a
ghiaia o in lastroni di pietra, come nel
caso del cortile centrale, di forma
rettangolare. La fortezza realizzata
con molta probabilità, per il controllo
del territorio, fu abitata forse, solo
stagionalmente, e da un ristretto
numero di persone.
I materiali rinvenuti in occasione delle
indagini condotte dalla
Soprintendenza archeologica della
Calabria, sono in prevalenza,
vasellame acromo da fuoco,
contenitori utilizzati per il trasporto
dell’acqua, anfore vinarie ed elementi
di macine in pietra lavica. Materiali di
cui sarà esposta una campionatura
significativa nel museo di Oppido
Mamertina e del Territorio
Aspromontano in corso di allestimento
a cura della Soprintendenza presso i
locali di Palazzo Grillo.
BIBLIOGRAFIA
R. AGOSTINO, Archeologia ad Oppido
Mamertina: immagini,ipotesi, Gioia Tauro
1999.
OPPIDO MAMERTINA, Ricerche
archeologiche nel territorio e in contrada
Mella, a cura di L. COSTAMAGNA, P.
VISONÀ, Roma 1999.
43
AUTORI
Redazione testi: dott. Rossella Agostino,
Soprintendenza Archeologica della
Calabria
Foto: C. Cutrupi, V. Galluccio, A.
Picone
44
LA PIETRA DI SAN TRABUS
Collocazione
Località Piano S. Trabus
Comune di Cittanova
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 590 IV Taurianova
Long. 595354 lat. 4242197
Quota
900 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Bisogna raggiungere e superare
l’abitato di Cittanova, percorrendo la
S.S. 111 Cittanova-Locri.
Seguire le indicazioni per Zomaro e
raggiungere il villaggio. Percorrere la
strada centrale del villaggio stesso e
lasciare l’auto alla fine dell’asfalto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Seguire una sterrata che attraversa un
primo grande pianoro, proseguire per
500 m e superare un meraviglioso
bosco di faggi, dove, alla fine si apre la
grande pianura di San Trabus.
All’ingresso del pianoro, girare a
destra e dopo 200 m a sinistra.
Seguire sempre la pista fino alla fine
della stessa. Prendere infine il sentiero
che scende verso il costone e dopo
circa 50 m troverete la croce incisa su
un lastrone di pietra posto
orizzontalmente e dalle dimensioni di
m 3x1.5.
Sentieri
Numerosi, forse troppi, i percorsi in tale
area. Alcuni salgono da Cittanova allo
Zomaro. Da tale villaggio inoltre
transita il Sentiero Italia (che utilizza un
tratto del Sentiero del Brigante) ed il
Cammino dell’Alleanza.
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Il pianoro dove è posta la pietra è
detto Piano di San Trabus. Questa è
collocata al margine occidentale di
tale pianoro, dove la montagna
degrada ripidamente nei valloni che
confluiscono al torrente Serra. Ci
troviamo quindi in una zona di
transizione tra la faggeta e la lecceta
con sottobosco di pungitopo ed erica.
La pietra si trova a lato di uno dei
sentieri che collegava Cittanova alla
montagna.
STORIA,
ORIGINI, FONTI
La pietra di Santa Trabus, secondo
l’opportuna interpretazione del prof.
Domenico Raso, deriva il suo nome
dal greco trapeza, cioè “tavola”.
Questa pietra, che i nostri antenati
della preistoria avranno con ogni
probabilità venerato, è davvero una
tavola di roccia ed il suo nome greco è
pertinente. Ma perché è rimasta la
parola greca e non il nome che
1
avranno dato a questo oggetto i suoi
adoratori? Forse perché alla cultura
greca, specialmente nella sua veste
bizantina, noi dobbiamo la formazione
della nostra identità più profonda, che
ci portiamo dentro il cuore e che ci
invita a vedere le cose ancora con
quegli occhi, a chiamarle con quei
nomi. Poi, credo verso il XVII secolo,
sarà stato attribuito alla parola
“trabus”, ormai incomprensibile, il
carattere di santità, con l’incisione di
una caratteristica croce latina dalla
lunga asta1.
Domenico Minuto, 8/03/2004, considerazioni dopo un sopralluogo.
45
AUTORI
Redazione testi: dott. Alfonso Picone
Chiodo
Rilievi: Studio Rproarc di Claudia
Cutrupi
Foto: C. Cutrupi, A. Picone
46
PALAZZO DI ZOMARO
Altre denominazioni
Fortificazione Palazzo
Collocazione
Località Zomaro Comune di Cittanova
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova
Long. 597888 lat. 4241519
Quota
898 m s. l. m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Percorrere la S.S. 111, superare
l'abitato di Cittanova seguendo le
indicazioni per Zomaro. Dopo 9 Km si
raggiunge un quadrivio. Imboccare a
destra il lungo rettilineo. Alla fine dello
stesso in piena curva, imboccare a
destra la sterrata (che costeggia
l'ultimo campo sperimentale). Lasciare
l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T.
Percorrere la sterrata per 150 m circa.
Girare a sinistra e dopo 50 m a destra
si accede al pianoro sovrastante le
mura di Palazzo. Seguire per 50 m la
mulattiera che scende nella faggeta e
si ferma proprio alle mura di Palazzo
poste su di un rilievo inciso a destra
ed a sinistra da due impluvi.
47
Sentieri
A ridosso delle mura transita il
Cammino dell'Alleanza.
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
In direzione Nord rispetto alla località
Bragatorto, a circa 5 Km di distanza, si
erge il pianoro di Contrada Palazzo,
fino a pochi anni addietro denominato
“Pantano Palazzo”, per la presenza di
acquitrini diffusi.
Sulla punta estrema di un crinale
pianeggiante, è localizzata una
48
fortificazione, immersa in una
lussureggiante e suggestiva faggeta.
Il sottobosco è caratterizzato dalla
presenza di pungitopo, agrifoglio,
funghi, ciclamini.
Ad est ed ovest della parete del
crinale scorrono due torrenti che si
congiungono, verso nord,
convogliando nel vallone “Lo
stretto”.
Palazzo di Zomaro: pianta
49
50
Prospetto principale
51
Palazzo Zomaro: presunta cisterna
52
Palazzo Zomaro: sezione trasversale
53
ATTUALE
CONDIZIONE DEL SITO
Della costruzione, in condizione di
rudere, rimane ben poco.
Sul terreno in pendenza è chiaramente
riconoscibile un tratto di muro
posizionato all'inizio del pendio ed
orientato a nord, nel senso della
lunghezza.
Il muro, realizzato con pietrame
irregolare a secco, è caratterizzato da
una lunghezza di circa 27 m e da uno
spessore di 0,70 m.
Si articola in altezza con una
dimensione minima di 75 cm che nei
punti più alti raggiunge circa 2,4 m.
Lungo la parete est del muro la
presenza di alcuni fori lasciano
ipotizzare che siano stati necessari
per il posizionamento di impalcature
realizzate in fase di costruzione.
Nella parte finale del muro, verso
nord, è presente un tratto di muro,
perpendicolare all'asse principale,
orientato verso est, della lunghezza di
circa 2,6 m. Ad una distanza di circa
1,5 m e ad una quota inferiore, è
individuabile una sorta di cisterna,
realizzata con pietrame irregolare a
secco, con una dimensione in altezza
di circa 1,20 m per una larghezza
massima alla base di 5,5 m circa.
A ovest dello stesso muro, nella zona
pianeggiante del crinale, corrono più o
meno parallelamente, ad una distanza
compresa tra 5 e 7 m circa, sparse
porzioni di mura, le cui tracce sono
parzialmente visibili, coperte da folta
vegetazione ed alterate dalla presenza
delle robuste e fitte radici
dell'alberatura circostante.
Opportuni saggi ed un'attenta
indagine potrebbero fornire adeguate
delucidazioni circa l'estensione,
l'articolazione la funzione del sito.
NOTIZIE
STORICHE ED ANTICO UTILIZZO
La posizione strategica della
costruzione ne fa ipotizzare una
funzione militare.
Poggiata all'estremità del crinale in
direzione nord, dominava l'intera
piana di Gioia Tauro, quando la
vegetazione doveva essere bassa e la
visuale ampia.
La localizzazione e le condizioni
territoriali passate fanno pensare ad
una funzione di controllo su tutto il
territorio sottostante.
Si può determinare una datazione di
età tardo-antica o alto-medievale (tra
il V e VIII secolo) dalla struttura
muraria e in particolare dalla
posizione delle pietre secondo la
tecnica a “filare spezzato” 1.
1
D. MINUTO, G. OLIVA, S.M. VENOSO, Appunti per un elenco cronologico di murature tardo antiche
in Calabria, in Chiesa e Società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, Ed. Rubbettino,
Soveria Mannelli 1998, pp. 1213-1218.
AUTORI
Redazione testi: dott. Carla Carbone
Rilievi: arch. Antonella Ruggeri, arch. Eliana Gitto
Supporto tecnico per lo studio strumentale: ing. Fortunato Mandanici, geom. Giuseppe
Mannino
Foto: V. Galluccio, E. Gitto, A. Picone, A. Ruggeri
54
BRAGATORTA
Altre denominazioni
Bracatorta
Collocazione
Località Bregatorto Comune di Antonimina
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova
Long. 598676 lat. 4240152
Quota
923 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Superato Cittanova e percorrendo la
SS. 111 Cittanova-Locri dopo 9 Km si
raggiunge un quadrivio. Imboccare il
rettilineo a destra con indicazione
Zomaro. Dopo 1,5 Km circa sulla
sinistra si apre una ampia pista
sterrata. Lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Proseguire a piedi sempre sulla pista
principale. Percorsi circa 2 Km tra i
faggi e dopo aver superato
l'acquedotto di Gerace, poco prima di
uscire dal bosco e sulla destra, a
ridosso della pista sterrata, troverete i
resti di Bracatorta.
Sentieri
Numerosi, forse troppi, i percorsi in
tale area. Alcuni salgono da Cittanova
allo Zomaro. Da tale villaggio inoltre
transita il Sentiero Italia (che utilizza
un tratto del Sentiero del Brigante) ed
il Cammino dell'Alleanza.
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Terreno leggermente scosceso con
vegetazione a faggeta e nel sottobosco
presenza di felce acquilina e rovi.
55
ATTUALI
CONDIZIONI DEL SITO
Costruzione in condizione di rudere e
stato di abbandono. Oggi rimangono
due muri disposti in posizione
parallela tra loro e ortogonale rispetto
alla pista che li costeggia. Il muro più
grande presenta una lunghezza di 5 m
e 10 ed una altezza che va da 98 cm a
1,90 circa, la larghezza alla base è di
112 cm e in alto si restringe fino a 53
cm. Alla base dove il muro raggiunge
la maggiore dimensione è composto
da pietrame irregolarmente spezzato e
lisciato in faccia di media-piccola
dimensione, nella parte più alta dove il
muro si restringe, probabilmente di
datazione successiva, notiamo la
presenza di mattoni assemblati con
malta (?). Nel pendio, al di là della
pista, a circa 30 m di distanza si rileva
una parte di muro crollato. È
probabile che il crollo sia stato
causato proprio dalla creazione della
pista.
Notiamo la presenza di cassapondaia
a poca distanza dalla base.
NOTIZIE
STORICHE ED ANTICO UTILIZZO
Non abbiamo notizie circa la sua
costruzione, per cui la datazione così
come la destinazione d’uso risultano
incerte.
La struttura muraria ci porta ad una
datazione alta fra i secc. VI-VIII.
AUTORI
Redazione testi: dott. Carla Carbone
Foto: V. Galluccio, A. Picone
CALCARA
Altre denominazioni
Pozzo fusorio
Collocazione
Località Zomaro Comune di Cittanova
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova
Long. 598885 lat. 4242699
Quota
800 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Giunti al quadrivio per Canolo Gerace
Zomaro sito sulla S.S. 111 proseguire
per Zomaro per circa 500 m sino ad
una radura sulla destra della strada
individuabile per alcune giostrine.
Lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
L'intero tragitto è meno di 500 m, ma
bisogna porre attenzione ai bivi. A
destra della radura seguire una pista
fino ad un bivio dove proseguire a
sinistra. Poco avanti, guardando sulla
sinistra, si noterà un grande faggio.
Alla base dell'albero troverete la
calcara.
Sentiero che conduce al sito
Sentieri
Proprio nei pressi della calcara
transita il Cammino dell'Alleanza.
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Terreno quasi pianeggiante con
vegetazione arborea composta da pini,
faggi, ceduo di castagno, sottobosco di
ginestra, biancospino, felce, rovi, erica
e notevole presenza di edera.
57
58
Calcara: pianta e sezioni
59
ATTUALE CONDIZIONE DEL SITO
Foro di areazione della calcara
Particolare della parete di rivestimento
Calcara lato est
Calcara lato sud
Ingresso della galleria
Galleria
60
La calcara, oggi, si presenta come una
fossa di forma irregolarmente circolare,
con diametro compreso tra circa 2,60
m in direzione est-ovest e 2,30 circa in
direzione nord-sud, ed una profondità
massima, misurabile alle pareti, di 175
cm circa e minima di 60 cm.
In origine, il pozzo, doveva raggiungere
sicuramente una profondità maggiore
di circa 1 m; è probabile che, nel
tempo, si sia depositato terriccio sul
fondo.
Le pareti della calcara sono rivestite da
pietrame irregolare a secco, di mediapiccola dimensione. Il colore, tendente
al rosso, tra una pietra e l'altra è
dovuto al calore prodotto dalla calcara
in funzione.
Nella parete est della calcara, lato che
ha subito il maggiore crollo, è visibile
un foro triangolare ottenuto dal
posizionamento delle pietre, con una
dimensione alla base di circa 80 cm
per un'altezza di circa 40 cm. Il foro
serviva come presa d'aria per il
funzionamento della calcara.
Un grosso faggio avvolto d'edera si
trova sul lato sud-est del perimetro.
A circa 5 m di distanza, a nord della
calcara, è localizzato, sotto un dosso,
una galleria ipogea che arriva sino alla
parete del pozzo. Essa si presenta
come una piccola grotta con pareti di
arenaria, con un'apertura di 120 cm di
altezza e 70 cm circa di larghezza. Al
suo interno, dopo circa 1,5 m, il
cunicolo si allarga fino a raggiunge
quasi 2 m di larghezza per un'altezza
di 190 cm. Tenendo conto che la
galleria ha subito un crollo sul lato
destro, il percorso, avvicinandosi alla
calcara, si restringe e si abbassa; in
questa parte finale è rilevabile una
dimensione di 80 cm di altezza per una
lunghezza di 70 cm, dove si notano le
pietre della parete esterna del forno.
Calcara e galleria: pianta
Calcara e galleria: sezione longitudinale
61
NOTIZIE STORICHE ED ANTICO UTILIZZO
Esempio di costruzione di una calcara con copertura in travi lignee
È plausibile l'ipotesi che non ci sia
connessione tra il cunicolo e la
calcara. La galleria probabilmente
venne costruita in un secondo tempo
come rifugio sicuro ma facilmente
localizzabile, quando il forno non era
più in uso. È difficile anche stabilire
una datazione della costruzione della
calcara. La produzione della calce è
attestata a partire da 5.000 anni fa.
Nel territorio dello Zomaro non sono
riscontrabili notizie sulla presenza di
cave per l’estrazione di materiale
calcareo. Pertanto la presenza di una
calcara in questo territorio, implica
l'ipotesi del trasporto della roccia
estratta.
Frantumata e cotta nel forno di
calcinazione, a temperatura di almeno
800 gradi, la pietra calcarea si
trasformava in calce viva. Nella fossa,
rivestita di pietre, e con copertura
mobile di travi lignee, veniva posto il
combustibile e la pietra calcarea. La
cottura andava avanti per settimane,
e, una volta terminata, il pozzo veniva
svuotato dalla calce. Il prodotto così
ottenuto veniva bagnato, riscaldato,
sgretolato, e polverizzato dando luogo
alla calce usata in edilizia per
preparare malte, miscelata con acqua
e sabbia, e in agricoltura come
correttivo delle caratteristiche dei
terreni.
AUTORI
Redazione testi: dott. Carla Carbone
Rilievi: arch. Antonella Ruggeri, arch.
Eliana Gitto
Foto: V. Galluccio, E. Gitto, A. Picone,
A. Ruggeri
62
ALTANUM
Collocazione
Località Sant’Eusebio
Comune di San Giorgio Morgeto
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 590 IV Taurianova
Long. 596366 lat. 4247419
Quota
800 m s.l.m.
COME ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da San Giorgio Morgeto salire verso la
montagna, dopo 7 km, al bivio
prendere a destra e, dopo circa 1 km,
ancora a destra. La stradina, in circa 4
km, attraversa una splendida
sughereta e termina alle case di S.
Eusebio. Ampio panorama sulla Piana
di Gioia Tauro
Percorso a piedi: difficoltà T
Seguendo la pista sterrata si
incontrano i ruderi di Altanum.
Sentieri
Vi giunge un percorso (segnavia
bianco-rosso) che sale da Cittanova.
63
DESCRIZIONE DEL SITO
Il Piano di Casignano o di Casciano,
sito nella località indicata in
cartografia come S. Eusebio, è posto a
circa due chilometri di distanza, in
direzione sud-est, da S. Giorgio
Morgeto (RC).
L’area, nel 1921, era stata oggetto di
una ricognizione preliminare e di due
saggi archeologici, condotti da De
Cristo su incarico di P. Orsi.
“Relazione sugli scavi archeologici del Piano di Casciano o di Casignano (Altanum?), fatti
per incarico del comm. dott. Paolo Orsi… nell’ottobre 1921”.
Localizzazione delle cisterne e della
cosiddetta chiesa di S. Eusebio (da
Vincenzo De Cristo - 1921).
64
Gli scavi, condotti prevalentemente
nell’area occidentale, la più
pianeggiante, permisero di portare alla
luce i resti di due grandi cisterne
rettangolari funzionali alla
conservazione di grosse scorte di
acqua. Oltre ad abbondante materiale
ceramico di diversa tipologia e fattura,
tra i quali un “pezzo di vaso di creta
bianca, con linee trasversali di colore
rosso”, che potrebbe interpretarsi
come un frammento di ceramica a
bande rosse, si rinvennero elementi in
ferro e due monete in bronzo protobizantine (VI-VII sec. circa). Un’altra
moneta in bronzo (IX-X sec.) venne
rinvenuta successivamente in maniera
del tutto occasionale.
Già alla fine del Settecento l’abitato,
identificato con l’antica Altanum, era
considerato dagli eruditi meta
escursionistica di un certo interesse:
“Avremmo desiderato di esplorare le
vecchie reliquie del distrutto Altano.
Dal generoso Principe di Ardore,
Signore di Polistena, e marchese di S.
Giorgio, D. Giovanni di Milano, si
erano già prese tutte le misure per
tenerci graziosa compagnia in tale
esplorazione; ma, temendo noi di
mancare al nostro principale istituto,
dovemmo rinunziare a così buon
desiderio, e avviarci ove ci chiamava il
proprio dovere”.
Il pianoro, posto a 700 metri s.l.m, è
delimitato da un circuito murario che,
sviluppandosi da est verso ovest
seguendo la naturale pendenza del
terreno, assume una forma poligonale.
Nel rilievo eseguito da De Cristo, la
cinta fortificata, il cui sviluppo è pari a
tre chilometri circa, risulta
caratterizzata dalla presenza di due
torri, l’una a pianta circolare, detta
‘Bombardiera’, ubicata nell’angolo NO,
l’altra semicircolare posta nell’angolo
SE.
Il muro, costruito con grossi blocchi di
pietra locale cementata con malta e
senza la presenza di laterizi e letti di
posa, è spesso m. 1-1,20.
L’estesa cinta muraria venne
probabilmente edificata, così come
testimoniano numerose altri recinti
coevi, a protezione di un insediamento
bizantino sorto in un punto ritenuto
strategico nel controllo dell’importante
via di attraversamento che, dallo Jonio
al Tirreno, metteva in collegamento la
Locride ed il kastron di Gerace con la
Valle delle Saline (l’attuale piana di
Gioia Tauro).
Il perimetro della fortificazione, allo
stato attuale di difficile lettura per la
presenza di una folta vegetazione,
Planimetria della fortificazione (da Vincenzo De Cristo, 1921).
65
risulta rimarcato da tracce più o meno
coerenti di crollo; ben pochi sono
invece i tratti di muro che si
conservano in alzato. Non è stata
individuata la torre SE, indicata da De
Cristo, anche se l’uso del tratteggio
nel rilievo potrebbe indicare che si
tratta di una ricostruzione fatta sulla
base di qualche struttura superstite. Si
conserva invece, sostanzialmente
integro, il tratto di muro di cinta con
andamento curvilineo e concavità
esterna, posto ad est della
“Bombardiera”.
Si può ipotizzare che il maggior
numero di interventi costruttivi sia
stato concentrato sul lato orientale del
recinto fortificato che, seguendo
l’orografia del sito, proprio su questo
versante risultava più esposto agli
attacchi nemici. Sul lato occidentale, il
terreno, che presenta una pendenza
più ripida, doveva garantire una
maggiore sicurezza; l’angolo SO del
circuito, a causa dell’orografia
accidentata, infatti, è stato interessato
da una frana che era stata già
individuata da De Cristo.
Nuove indagini archeologiche sono
state svolte nel 2002 e 2003.
Si sono svolte operazioni di scavo sia
all’interno che all’esterno della
‘Bombardiera’, di cui si conserva, con
un alzato di circa 7 metri, soltanto la
metà sud-orientale; il dislivello del
terreno, che immediatamente ad ovest
della torre scende ripidamente di
quota, ha causato lo scivolamento
verso valle dei grandi blocchi di
muratura, già precedentemente
crollati. La torre, il cui diametro
dovrebbe essere di circa 10 metri,
costituisce il raccordo tra l’estremità
nord del lato occidentale e l’estremità
ovest del lato settentrionale; essendo
posta completamente al di fuori della
cinta muraria, il collegamento con
l’area interna avveniva attraverso un
ambiente a pianta quadrangolare con
copertura a volta che si conserva
parzialmente. La presenza di canalette
rivestite in malta, che si sviluppano
parallelamente e trasversalmente
all’interno delle strutture murarie,
lascerebbe supporre che alla base
della torre fosse ubicata una cisterna.
La rimozione di parte del crollo
presente all’interno della metà sudorientale della struttura, costituito da
blocchi lapidei irregolari, numerose
scorie di ferro e frammenti ceramici
tardo medievali acromi e con tracce di
invetriatura, ha reso maggiormente
visibili i paramenti murari interni. Sul
lato orientale sono presenti fori
rettangolari per l’incasso di travi,
interposti ad aperture circolari,
interpretabili come bocche da fuoco;
quest’ultimi elementi tipologici, a
differenza dei fori rettangolari, non
sono in fase con il paramento murario
e, pertanto, potrebbero riferirsi ad un
intervento edilizio successivo, volto al
rafforzamento della struttura, che si
era reso necessario con l’evoluzione
dell’arte militare.
La tecnica costruttiva, riscontrata su
alcune unità murarie pertinenti alla
cinta difensiva e sui paramenti interni
ed esterni della torre, risulta
caratterizzata dall’impiego di blocchi
lapidei di dimensioni e forma
estremamente variabile, disposti in
modo irregolare e legati da un tipo di
malta piuttosto resistente.
Un maggior numero di indicazioni
sull’edificazione del circuito murario si
sono avute con le indagini che hanno
interessato, lungo il lato esterno, il
tratto del muro di cinta ubicato
immediatamente ad est della
‘Bombardiera’. La presenza di
particolarità costruttive, di differenti
tessiture murarie e di leganti di natura
disomogenea, è indicativa delle
diverse fasi edilizie della cinta
difensiva.
L’unità muraria, ubicata all’estremità
orientale del settore indagato, visibile
per una lunghezza pari a 2,50 m
circa, risulta caratterizzata
dall’impiego di malta friabile e
dall’alternanza di filari di blocchi di
pietra e di corsi con tegole
frammentarie. All’estremità
occidentale di questo tratto di cinta
muraria, laddove il muro sembrerebbe
curvarsi verso l’interno del circuito, si
Pianta delle strutture murarie poste ad est della Bombardiera.
66
appoggia un diverso muro, ad
andamento rettilineo e con
orientamento EO. Lungo il lato
interno, privo del paramento, è
visibile, per breve tratto, un piano di
calpestio costituito da terra battuta,
grumi di malta e ciottoli di fiume, che
continua in direzione sud oltre il limite
dell’area di scavo. A questo muro si
addossa quasi perpendicolarmente, a
1,70 m ad est della torre, una struttura
muraria ad andamento rettilineo con
orientamento NS.
Le diverse tecniche costruttive,
consentono di individuare almeno due
fasi edilizie. Ad un primo intervento si
possono ricondurre le strutture
caratterizzate dall’impiego di laterizi e
da una tessitura più regolare; ad un
secondo momento devono invece
riferirsi i lavori di edificazione
dell’unità muraria, che prosegue in
direzione ovest, priva di regolarità
nella disposizione dei blocchi.
L’edificazione della torre circolare
sulla base della tessitura muraria e del
materiale costruttivo impiegato
potrebbe ascriversi a questa seconda
fase.
All’interno dell’area fortificata non si
sono rinvenute altre strutture ad
eccezione di alcuni cumuli costituiti
da pietre e laterizi frammentari,
ubicati nella parte più alta del
pianoro, dei quali De Cristo poté
annotare la disposizione ad intervalli
regolari di 5 e 10 m, oggi non più
verificabile a causa della fitta
vegetazione. In assenza di ulteriori
indagini che chiariscano la natura di
queste concentrazioni, si può solo
rilevare come la composizione stessa
dei cumuli sia indicativa della
presenza di abbondante materiale da
costruzione nel sito.
Allo stato attuale delle nostre
conoscenze, il circuito murario
presenta tutte le caratteristiche di un
recinto difensivo posto a presidio di
una delle vie trasversali della regione
che, sin dall’età antica, assicuravano i
collegamenti tra la costa tirrenica e
quella ionica. La tradizione
storiografica, nel collocare sul piano di
Casciano l’antica città di Altanum,
sottolinea l’importanza di questo
valico in epoca greca; Altanum,
rientrando nei domini locresi, avrebbe
assicurato alla colonia greca il
controllo del territorio interno e, di
conseguenza, il collegamento con le
sue fondazioni tirreniche.
viari lungo i quali potessero
agevolmente spostarsi per raggiungere
ogni “sacca di resistenza”; gli
interventi costruttivi più tardi
possono, infine, ricondursi al tempo
degli scontri tra Angioini e Aragonesi
che per lunghi anni si contesero il
domino della regione.
Di una più tarda frequentazione
rimane testimonianza nella seisettecentesca chiesa di S. Eusebio,
forse di più antica origine ed ora
adibita a porcile, in alcune case, ed in
piccoli ricoveri ancora oggi utilizzati
da pastori e contadini.
Il materiale datante rinvenuto e la
tipologia della cinta muraria lasciano
pensare, come già indicato, ad una
postazione militare dei Bizantini che
certamente non sottovalutarono
l’importanza strategica del sito, dal
quale si domina gran parte della piana
di Gioia Tauro e un lungo tratto del
litorale. La rilevanza militare del centro
rimase inalterata sotto le dominazioni
successive; i Normanni, infatti, alla
conquista capillare del territorio,
preferirono l’occupazione di punti
nevralgici ed il controllo degli assi
Ceramiche medievali (secc. XI-XII)
provenienti dai Piani di Casignano.
67
BIBLIOGRAFIA
F.A. CUTERI, M.T. IANNELLI, B. ROTUNDO, Da Kellerana a Borrello. Percorsi e
insediamenti a nord delle Saline tra X e XII secolo, in Atti del XIII Incontro di Studi
Bizantini, Reggio Calabria 2004, c.s.
D. GANGEMI, Monografia di San Giorgio Morgeto, ovvero, cenni storici,
archeologici,etnografici, Reggio Calabria 1886, rist. anast., Reggio Calabria 2003.
G.P. GIVIGLIANO, I percorsi della conquista, in F.A. CUTERI (a cura di), I Normanni in
finibus Calabriae, Soveria Mannelli 2003, pp. 23-34.
Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno
1783, posta in luce dalla Reale Accademia della Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli,
ristampa dell’edizione del 1784 con introduzione di E. Zinzi, Roma 1987.
F. MARTORANO, Tecniche edilizie e strutture architettoniche di castelli e luoghi fortificati,
in A. PLACANICA (a cura di), Storia della Calabria medievale. Culture Arti Tecniche,
Roma 1999, pp. 373-409.
F. MARTORANO, Scelte insediative, condizionamenti geologici, problemi di conservazione
della Calabria medioevale, in G. LOLLINO (a cura di), Condizionamenti Geologici e
Geotecnica nella Conservazione del Patrimonio Storico Culturale, Atti del Convegno
GeoBen 2000, Torino 2000, pp. 639-647.
D. Minuto, Notizie sui monasteri greci dell’odierna Piana di Gioia Tauro fino al secolo
XV, in S. LEANZA (a cura di), Calabria Cristiana. Società Religione Cultura nel territorio
della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi. 1. Dalle origini al Medio Evo, Soveria
Mannelli 1999, pp. 317-462.
G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del regno di Napoli, Napoli 1788-1812.
D. VALENSISE, Dell’origine e vicende di S. Giorgio Morgeto, Reggio Emilia 1882, rist.
anast., Reggio Calabria 2003.
AUTORI
Redazione testi: dott. Francesco A.
Cuteri, dott. Maria Teresa Iannelli Soprintendenza Archeologica della
Calabria, dott. Barbara Rotundo
Foto: F. Cuteri, A. Picone
TORRE CARDITTO
Altre denominazioni
Torre Cardeto, Torre Cardito
Collocazione
Comune di Mammola
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova F° 590 I Gioiosa I.
Long. 601656 lat. 4249236
Quota
800 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Dalla strada di grande comunicazione
Rosarno-Gioiosa uscire allo svincolo
della Limina. Salire al Piano alla
Limina ed al quadrivio seguire le
indicazioni per San Giorgio Morgeto.
Dopo circa 1 km s'incontra un bivio
dove deviare a sinistra. Non appena la
strada lascia il piano iniziano alcuni
tornanti: posteggiare l'auto dove
noterete uno spiazzo sulla sinistra,
sotto una scarpata sabbiosa,
delimitato da una staccionata.
Percorso a piedi: difficoltà E
Individuate i segnali bianco-rosso:
indicano un sentiero che aggira e
supera la scarpata. Traversato un
69
piccolo pianoro si sale nuovamente e
giunti al secondo pianoro lasciare i
segnali e spostarsi sulla destra. Al
bordo della scarpata troverete i resti
della torre.
Sentieri
Vi transita il Sentiero Italia (che qui
segue il Sentiero del Brigante) che da
Gambarie conduce alla Limina.
Alla Limina giunge (o inizia) il Sentiero
dei Greci che collega al Santuario di
San Nicodemo ed al paese di
Mammola.
70
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
La torre sovrasta dall'alto il fiume
Torbido, garantendo al visitatore
eccezionali viste panoramiche e, in
passato, un monitoraggio continuo dei
transiti.
II boschetto che oggi Ia circonda è
costituito da lecci, faggi ed eriche,
mentre il sottobosco assume
particolare bellezza per la presenza di
violette, pungitopo e felci che
rivestono gran parte dell'altipiano.
ATTUALE
CONDIZIONE DEL SITO
Della torre oggi rimane solo la base,
tanto che il punto più alto rispetto alla
linea di terra interna risulta essere
1,70 m circa. Il diametro esterno
misura circa 5,00 m mentre quello
interno 3,40 m circa. La maggior parte
della superficie è ricoperta da muschio
ed essenze erbacee (caratteristica è
una pianta rampicante che ne ricopre
una parte delIa parete interna) e
circondata da felci. I muri in pietra
irregolare, dello spessore di 80 cm, sul
lato nord, sono quasi completamente
nascoste dal terreno, lasciando però
intravedere la loro chiara forma
circolare. Salendo di quota la torre
assume una forma conica e lo
spessore delle mura arriva a 60 cm.
Sono riscontrabili, inoltre, dei fori
presumibilmente necessari per il
posizionamento di impalcature
realizzate in fase di costruzione.
71
Torre Carditto: pianta
72
Prospetto
lato sud
Prospetto
lato ovest
73
Sezione
lato ovest
Sezione
lato sud
74
Diametro interno: 3,40 m
Diametro esterno: 5,00 m
75
NOTIZIE
STORICHE ED ANTICO UTILIZZO
Torre Carditto è un manufatto con
funzione militare. Si trova nel comune
di Mammola a circa 800 m s.l.m.. La
zona è oggi comunemente chiamata “a
turri", proprio per la presenza di
questa struttura di cui oggi resta
solamente la base.
Ma la questione che riguarda il nome
del sito risulta essere molto confusa,
visto che ogni organo competente
tende ad individuarlo in maniera
diversa: per gli abitanti del posto
diviene "Torre Cardito" per l'IGM
"Torre Carditto" e per la Comunità
Montana della Limina "Torre
Cardeto”. Nei pressi, inoltre, vi sono i
toponimi Monte della Torre e Fosso
Carditto.
L'intera zona, dal punto di vista
storico, suscita notevole interesse. Gli
altipiani della Limina infatti sono stati
da tempo oggetto di scavi archeologici
che hanno riportato alla luce armi di
pietra, urne funerarie e i resti di una
chiesa paleocristiana, nello stesso sito
in cui si trova oggi il santuario di S.
Nicodemo.
Il monte Limina costituisce una sorta
di limite tra lo Ionio e il Tirreno. La
presenza di un antico sentiero greco,
che gli storici ritengono fosse la via
principale di collegamento tra Lokroi e
Medma, ne dimostra l'importanza.
Lungo il fiume Torbido, che si origina
sui monti della Limina, e che sfocia
poi nel mar Ionio nei pressi di Gioiosa
Marina, vi sono altre due torri risalenti
al 1.500, e precisamente Torre
CavalIaro (a pianta circolare e situata
a pochissimi metri dal mare), e Torre
Galea (a pianta quadrata e collocata a
circa 7 km dalla costa) che servivano
come punti di avvistamento per il
controllo di eventuali arrivi dal mare di
navi turche.
Altro elemento interessante è la
presenza, lungo la strada provinciale
285 che da Cinquefrondi sale alla
Limina, a circa 10 Km da essa, del
toponimo Torre Alba.
AUTORI
Redazione testi: dott. Carla Carbone
Rilievi: disegni di Salvatore Spatari e Giuseppe Zumbo elaborati nell’ambito del
corso di “Rilievo dell’Architettura I”, condotto dal prof. R. G. Brandolino presso la
Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
Foto: A. Picone
76
VILLAGGIO U.N.R.R.A.
Collocazione
Comune di Mammola
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 I Gioiosa I.
Long. 603784 lat. 4250542
Quota
818 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Dalla strada di grande comunicazione
Rosarno-Gioiosa uscire allo svincolo
della Limina. Salire al Piano della
Limina ed al quadrivio andare a
sinistra. Subito dopo, sulla destra,
s'incontra il villaggio.
Sentieri
Vi transita il Sentiero Italia (che qui
segue il Sentiero del Brigante) che da
Gambarie conduce alla Limina e
prosegue verso le Serre.
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Recenti rimboschimenti hanno
cancellato la vegetazione originaria.
ORIGINI,
FONTI, STORIA
Il nome di questo piccolo villaggio ci
aveva sempre incuriosito ma
nemmeno la gente del posto ne
ricordava il significato. Ci hanno detto
tuttavia che le case che compongono il
villaggio furono originariamente
costruite per assegnarle ai contadini
rimasti senza abitazioni a causa
dell'alluvione che nel 1951 colpì
duramente l'Aspromonte. Gli
assegnatari però le rifiutarono perché
lontani dai loro poderi. Subirono nel
tempo un graduale abbandono e
conseguente degrado. Alcune
abitazioni furono occupate
abusivamente divenendo seconde case
per le vacanze. Attualmente gran parte
del villaggio risulta essere posto sotto
sequestro dalle autorità giudiziarie. Il
15 agosto di ogni anno la chiesetta
richiama numerosi fedeli che vi
festeggiano la Madonna dell'Assunta.
L'acronimo UNRRA ci riporta ancora
più indietro nel tempo. Era l'United
Nations Relief and Rehabilitation
Administration (Amministrazione delle
Nazioni Unite per l'Assistenza e la
Ricostruzione), un organismo che
nasce il 9 novembre 1943, due anni
prima della creazione dell'ONU.
Istituito per portare aiuto ai paesi che
uscivano dalla guerra, su iniziativa
degli USA con l'aiuto di Unione
Sovietica, Gran Bretagna, Cina e
l’adesione di 44 nazioni. Il programma
era l'assistenza immediata, mediante la
77
fornitura di cibo, carburante, vestiario,
medicine e protezione. Doveva anche
aiutare la ripresa economica e
industriale, creare alloggi (come quelli
in Aspromonte) e favorire il rimpatrio
di rifugiati e profughi. In Europa
cominciò ad operare nel 1944, non
appena iniziò lo sforzo di liberazione
dei paesi balcanici e mediterranei. Tra
il 1944 e il 1946 vennero impiegate
25.000 persone e spesi 4,5 miliardi di
dollari soprattutto in Albania, Grecia,
Italia, Polonia e Cina.
Ben presto la struttura si rivelò
inadeguata e nella prima Assemblea
Generale dell'ONU si decise lo
scioglimento dell’organismo che
avvenne nel 1947.
AUTORI
Redazione testi: dott. Alfonso Picone
Chiodo
FONTI
G. WOODBRIDGE, UNRRA: The History of
the United Nations Relief and
Rehabilitation Administration, 3 voll.,
Columbia University Press, New York,
1950.
78
Foto: A. Picone
CHIESA DEI SANTI PIETRO E PAOLO
Collocazione
Monte Tre Pizzi Comune di Ciminà
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 III Platì
Long. 600574 lat. 4235026
Quota
710 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Dalla S.S. 106, nei pressi di Ardore
Marina, si devia per Ciminà dove si
giunge dopo circa 15 km. Ci si porta a
monte del centro abitato seguendo le
indicazioni a sinistra per Zomaro e
Moleti. Seguendo per circa 2 km la
ripida stradina si giunge ad uno
spiazzo sulla destra con un tabellone
dove lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà E
Il percorso che aggira monte Pettondo
e conduce a monte Tre Pizzi segue un
sentiero segnato bianco-rosso con
lievi saliscendi tra eriche, corbezzoli e
lecci. Giunge, in circa 1 ora, al
panoramico pianoro di monte Tre Pizzi
79
offeso da una ringhiera che corre
lungo il bordo del precipizio. L'antica
chiesetta è addossata alla parete
rocciosa che si affaccia verso est.
Sentieri
Dallo spiazzo dove avete lasciato
l'auto tornando indietro di circa 3 km
s'incontra un altro tabellone (loc.
Fasola). Un sentiero, mal segnato,
conduce alle cascate Caccamelle, sale
a monte Antoninello e termina al
villaggio Moleti.
80
AMBIENTE
CIRCOSTANTE
Una vallata dai morbidi rilievi si
dispiega tra i paesi di Ciminà e di
Platì, nel versante orientale
dell'Aspromonte. Il rosso della sulla
fiorita e il giallo del grano rendono
dolce ed inconsueto questo territorio.
Il paesaggio bucolico è però interrotto
bruscamente dai ripidi costoni rocciosi
che s'innalzano quasi verticalmente
dai 300 m della pianura sino ai 1.000
degli altipiani sommitali. Monte
Pinticudi, monte Colacjuri, monte Tre
Pizzi, monte Jacono, monte
Petrotondo, Aria del Vento, Rocche
degli Smaleditti, Rocce dell'Agonia
costituiscono una imponente ed
inaspettata muraglia. Già i toponimi
incutono timore ma, districandosi tra
sentieri appena accennati e giunti alla
sommità di questi monti, si può
godere un panorama unico. A nord est
l'amba di Gerace, le rupi di Canolo ed
i primi monti delle Serre; a sud ovest
Montalto e la dorsale appenninica che
si dispiega verso settentrione, la
vallata delle grandi pietre dove
emergono Pietra Cappa, Pietra Lunga e
Pietra Castello e le bianche ferite della
frana del lago Costantino e della frana
di Fassari; di fronte un ampio tratto
della costa ionica. L'ambiente dove è
incastonata la chiesetta dei SS. Pietro
e Paolo è un pianoro roccioso dove
vegetano radi lecci ed eriche sferzati
dal vento. Il sentiero che conduce alla
meta è semplice ed ombreggiato da
una galleria arborea formata in parte
da corbezzoli che offrono, in autunno,
i loro colorati frutti che quando
cadono a terra creano un tappeto
giallo-rosso.
81
Pianta a quota 1,50 m
Pianta a quota 3 m
82
DESCRIZIONE
DEL SITO
Dai ruderi tutt'oggi visibili la chiesa
era a navata unica con forma
pressoché rettangolare, a cui
addossato si legge ancora un altro
ambiente che era adibito a romitorio,
4,45 x 4,10 circa, che viene
menzionato da A. Oppedisano, dimora
di un eremita, rientrante di 25 cm
rispetto all'edificio principale orientato
ad ovest.
La chiesa aveva due ingressi. Uno ad
est, quello principale di circa 130 cm,
e l'altro ad ovest.
All'interno della navata si vede bene
una nicchia di forma quadrangolare,
140 cm x 130 rientrante di 20 cm, con
un elemento che potrebbe considerarsi
decorativo per la bellezza, ma che
tracce di intonaco tra i crolli fanno
affermare con una certa sicurezza che
si tratta di elemento strutturale.
L'ingresso rivolto a sud è sormontato
da una piatta a banda realizzata con
materiale lapideo, anch'esso avente
funzione strutturale; sulla parete sono
leggibili quattro monofore con
strombatura verso l'interno (in altre
parole dall'esterno verso l'interno si
allargano). Nell'ingresso è ben visibile
un foro funzionale al portone.
Negli angoli si evidenziano circa 7 cm
di risega di fondazione.
Il materiale usato è pietrame con
alternanza di laterizi.
Le buche pontaie sono anch'esse ben
visibili alla distanza regolare di 1,50
cm.
Una parete della Chiesa, precisamente
quella di nord-ovest, sfrutta
l'andamento e la presenza della
roccia, sulla quale è ben evidente,
scavata, una canalina che dirotterebbe
l'acqua piovana su un lato dell'edificio
di culto. Veniva forse raccolta?
La proposta di ricostruzione della
chiesa è alquanto verosimile poiché
83
sul lato nord, nella facciata principale
addossata alla roccia, è ancora
presente traccia di falda di tetto, e
comunque per la stessa sua posizione
doveva essere necessariamente a falda
unica.
Al mensionamento delle monofore ha
contribuito la fortunosa presenza di
un architrave di una delle monofore
ancora reggente: si tratta di una pietra
unica su una delle monofore.
La Chiesa misura 8,30 m x 6 m
all'esterno, con uno spessore murario
di 70 cm.
È presente anche un setto murario di
80 cm con funzioni divisorie, ovvero
sfruttante lo spazio tra la parete della
chiesa e la roccia (con quale
funzione?).
Prospetto: parete esterna lato sud
84
In alto: parete absidale
In basso: particolari della nicchia d’altare
Prospetto: parete interna lato nord
85
85
ORIGINI,
FONTI, STORIA DEL SITO
Lungo il crinale dei Tre Pizzi sono ben
visibili i ruderi della Chiesa dei Santi
Pietro e Paolo che si attesta essere
stata fondata per volere dell'arciprete
Antonio Parrelli. Il vescovo Rossi, il 17
marzo 1751, intervenne alla posa della
prima pietra, e il 4 ottobre 1753 lo
stesso la benedisse celebrandovi
anche la prima S. Messa.
Le sue origini tuttavia sarebbero ben
più antiche: i Tre Pizzi sarebbero
infatti un monte più volte nominato in
documenti medievali riguardanti
chiese e beni religiosi, con i toponimi
“Grande Pietra”, “Tre pietre uguali
alberate”, “Pietra alberata”. S'ipotizza
che in età medievale esistesse una
chiesa o monastero di San Pietro
presso i Tre Pizzi, nel cui territorio, o
addirittura nel cui sito, sia stata
fondata in seguito la Chiesa dei SS.
Pietro e Paolo del XVII: il doppio titolo
induce il prof. Minuto a supporre che
esso fosse proprio dell'impianto
religioso precedente, e che quindi
fosse pertinente la notizia del
monastero dei SS. Pietro e Paolo del
sec. XII, anche in considerazione del
fatto che Gennaro Pelle annotò che “ai
piedi della roccia Tre Pizzi si scorgono
ancora i ruderi di un convento di
eremiti, che sembra sia stato eretto nel
sec. XII. Presso il convento, nel secolo
scorso, aveva luogo una tradizionale
festa in onore di San Pietro…”.
Ipotesi ricostruttiva
AUTORI
Redazione testi: dott. Rosalba Tripodo
Rilievi e rielaborazione grafica: Studio
Riproarc di arch. cons. Claudia
Cutrupi
BIBLIOGRAFIA
Foto: C. Cutrupi, V. Galluccio, A.
Picone
D. MINUTO, Catalogo dei Monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Ed. Di
Storia e Letteratura, Roma 1977.
86
ROCCHE DI SAN PIETRO
Collocazione
Località Rocche di S. Pietro
Comune di Careri
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 603 IV San Luca
Long. 591171 lat. 4226856
Quota
578 m s.l.m.
COME ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Seguire la S.S. 106 sino al bivio con la
S.S. 112 dir. per Platì. Percorrerla per 11
km fino a Natile Nuovo e subito dopo
a sinistra una stradina scende verso
una fiumara e poi risale a Natile in
circa 2 km. Attraversare gli stretti vicoli
del paese imboccando una pista in
cemento e terra battuta che in 2 km
sale ai pianori. Ad un ovile sulla
sinistra si deve lasciare l’auto. Le rocce
sono a breve distanza.
Percorso a piedi: difficoltà E
Il sentiero che conduce alle rocce è
ben visibile e segnato. La scalata alla
roccia che ospita l’asceterio è facilitata
da un corrimano in legno e gradini
scavati nella parete. L’intervento è stato
realizzato dall’Associazione
Escursionistica “Gente in Aspromonte”.
Sentieri
Da Natile Vecchio ha inizio il Cammino
dell’Alleanza (segnavia bianco-rosso)
che raggiunge lo spartiacque tra Ionio
e Tirreno, lo segue verso nord e
termina a Cittanova.
Questi luoghi, d’altronde, si trovano
presso la via carovaniera ipotizzata da
Domenico Zangari, tra Pietra Castello,
Pietra Cappa e la fiumara Careri.
delle Rocche dì S. Pietro è scavata in
forma di caverna a due piani
intercomunicanti e con molte aperture;
accanto a questa sono state praticate
(si distinguono i segni del piccone)
altre grotte minori.
1 a) Grotta principale. Piano inferiore.
È il vano più ampio, di forma
irregolarmente circolare (diametri: m.
5,58 tra est ed ovest, m 3,72 tra nord
e sud), di altezza massima di m 1,86,
con due aperture, la principale ad est
(m 1,86 di altezza e di larghezza
massime), la minore a nord (m 1,70 di
altezza e m 0,93 di larghezza
massime); comunica con il vano
superiore attraverso due fori, uno di
cm 15 di diametro, l'altro con diametri
di cm 31 tra nord e sud e cm 15 tra est
ed ovest.
Tratto da: Prof. D. MINUTO, Catalogo
dei monasteri e luoghi di culto tra RC e
Locri, 1977, pp.371-374.
VISITA
L’8 giugno 1969 ho visitato le Rocche
di S. Pietro assieme al Sig. Sebastiano
Giampaolo, a suo figlio Antonello, di
San Luca, e ad alcuni alunni del Liceo
Classico “T. Campanella” di Reggio
Calabria. Una seconda volta ho
visitato le Rocche di S.Pietro e una
piccola pianura ad oriente di queste,
dove dicesi sorgesse il monastero di
Afrundu, il 24 luglio 1970, assieme al
sig. Filippo Condemi di Gallicianò.
Le Rocche di S. Pietro sono una rocca
a forma di largo cono che fronteggia
Pietra Cappa, la quale è posta
sull'altro versante (quello destro) del
torrente Ménica, ed è più alta. La cima
1 b) Grotta principale. Piano superiore.
Vi si accede dall'esterno, con ingresso
a sud (altezza dell'ingresso, m 1,40,
larghezza m 1,30). È un vano diviso in
due parti da un dislivello di circa 62
cm, che separa la parte a nord, più
piccola e più elevata, da quella a sud,
più ampia. La parte a nord misura m
2,17 nella linea est-ovest e m 1 circa,
nella linea nord-sud; ha un'apertura di
forma irregolarmente circolare con
diametro m 0,62 esposta a nord ovest
e parecchie incavature o buchi nelle
pareti, sia in corrispondenza del foro
esterno, sia in corrispondenza del
gradino che separa la nicchia minore
da quella maggiore; quasi al centro di
questa parte sono praticati nel suolo i
due fori che comunicano con la
caverna del piano inferiore; nel suolo
è anche scavata una fossa
rettangolare, disposta presso il gradino
di separazione delle due parti e
parallela a quella della seconda parte,
ma più piccola.
La seconda parte, a sud, misura m
88
2,17 nella linea est-ovest e m 1,86
nella linea nord-sud; nel suolo, quasi
parallela al gradino, è praticata una
fossa rettangolare di circa m 0,50 di
profondità, m 1,86 di lunghezza (linea
est-ovest) e m 0,62 di larghezza (linea
nord-sud); sopra l'estremità occidentale del lato lungo settentrionale
della fossa sporge un da-do di roccia,
in forme definite, anche se non
squadrate, come un piccolo altare o
sedile (misure approssimative: m 0,40
di altezza e di larghezza – da nord a
sud – e m 0,60 di lunghezza, da est ad
ovest); nella parete orientale di questa
parte è praticata un'apertura
irregolarmente oblunga, sopra
l'ingresso della parete inferiore, di m
2,48 di altezza e m 0,93 di larghezza
massima.
2) Grotta a nord di quella principale. È
scavata su una parete di roccia, in
forma di mezza calotta sferica
(diametro m 2,01) e con un ingresso
notevolmente regolare (m 1,60 di
altezza e m 0,93 di larghezza),
praticato a circa m 0,40 dal suolo e
chiuso nella parte superiore con linea
curva. Un pò più verso ovest, nella
stessa parete, è praticata un'altra
nicchietta molto più piccola, in cui si
raccoglie acqua piovana.
3) Grotta ad ovest di quella principale.
Nella estremità occidentale della rocca
dove è praticata la grotta principale
c'è una piattaforma di circa tre m di
lunghezza (linea est-ovest) e due di
larghezza, che può far pensare ad una
grotta di cui poi sia crollata la volta…
Nella pagina a fianco: inquadramento
territoriale stralcio planimetrico scala 1:5000
89
90
91
92
93
…A Natile Vecchio le Rocche di San
Pietro sono indicate come “la chiesa
di S. Pietro”, mentre per Afrundu
parlano di convento. Esse vengono
anche chiamate “la mingiòia” termine
che indica nel dialetto locale la nicchia
nella quale vengono riposti i simulacri
dei santi. I pastori che abbiamo
incontrato nei pressi delle Rocche di
San Pietro dicono che nella grotta più
piccola fino a non molto tempo fa
“c’erano i Santi”; si dice pure che la
fossa nella grotta principale superiore
fosse usata da briganti come madia
per il pane. Pietra Cappa, che si
scorge dalle Rocche dì San Pietro, ne è
distante meno di un'ora di cammino,
e, a quanto dicono i pastori, non
disagevole; essi da Pietra Cappa in
un'ora raggiungono Natile Vecchio,
passando vicino alle Rocche di San
Pietro e ad Afrundu; noi da Natile
Vecchio alle Rocche di San Pietro
abbiamo impiegato tre quarti d'ora di
cammino, piuttosto facile, a parte una
scalatella finale.
Il piccolo altipiano dove i pastori e i
contadini dicono che sorgesse il
“convento di Afrundu” è posto ai piedi
delle Rocche di San Pietro, tra queste e
Natile Vecchio (Natile Vecchio: l
3°35'57" j 38"11'20" Foglio Piatì 255
IV SO 33SWC 92/2/27/5; quota 328:
designazione della chiesa attualmente
funzionante). Oggi non si vede altro
che un piccolo ulivo, piuttosto
giovane, un pò inclinato verso est,
sopra un mucchio di sassi che
formano una irregolare armacera
(muretto a secco di sostegno del
terreno). Tuttavia parecchi abitanti di
Natile Vecchio ricordano l'edificio in
piedi e sostengono che tutto il piccolo
altipiano apparteneva al convento,
dove dicono che fosse la statua lignea
di San Pietro che ora è custodita nella
chiesa funzionante di Natile Vecchio.
Il sig. Luigi Pipicella di Natile mi ha
detto di ricordare grandi "finestrate"
esposte ad oriente e mi ha indicato un
luogo accanto all'ulivo, dove c'era il
cimitero del convento e che perciò è
94
chiamato “Santo”. Egli mi ha detto
pure che un suo zio ha portato la
statua di S. Pietro da Afrundu nella
chiesa di Natile dove ora è conservata.
In vari luoghi attorno alla pianura di
Afrundu sgorgano sorgenti. Mi è stato
detto che nella campagna verso est,
tra Natile e Bovalino Marina, c'è una
località chiamata Santu Petru senza
resti di antichi impianti.
Ho visitato la chiesa attualmente in
funzione di Natìle Vecchio ed ho visto
la statua lignea di San Pietro, chiusa
in una bacheca che non si è potuta
aprire. Il santo regge con gesto deciso
nella destra protesa le chiavi e nella
sinistra un libro ornato con una
grande croce greca (con le liste uguali
e rastremate al centro). I colori sono
molto vivaci, frutto di un recente
vigoroso restauro; pare che se ne minacci un altro ancor più radicale, da
parte di emigrati d'America. Sulla base
c'è scritto: “Scolpita il 29 giugno 1400
(o 1409?). Restaurata a cura
dell'arciprete Jetto. Agosto 194...”
(l'ultima cifra della prima e della
seconda data erano nascoste dal giro
della base). A Natile Vecchio,
all'ingresso sud del paese c'è una
chiesetta semidiruta che, secondo
l'Oppedisano fu fondata verso il 1531
dal principe dì Cariati, fu lesionata dal
terremoto del 1783, restaurata verso il
1830 e ancor più gravemente lesionata
dal terremoto del 1908…
Viste assonometriche del modello
95
96
OSSERVAZIONI
…Ritengo che le grotte delle Rocche di
San Pietro siano state adibite
anticamente come asceterio di eremiti
di rito greco: la denominazione di
chiesa e il vago ricordo di simulacri di
santi, il termine mingiòia (come
abbiamo visto, è lo stesso termine che
designa la contrada della chiesa di
San Leo presso Africo Vecchio: il
monastero di San Leo, Visita e
Osservazioni), oltre al titolo del
Principe degli Apostoli, parlano
chiaramente di un impianto religioso.
Il termine Àfrundu "Acrantos”, il
ricordo di "Basiliani" (Notizie e Pareri,
nota 1), la croce greca impressa sul
libro tenuto da san Pietro, ne indicano
il rito. Pertanto le due fosse
rettangolari del piano superiore della
grotta principale possono considerarsi
come giacigli degli eremiti (dell'asceta
e del suo discepolo).
Credo che l'asceterio delle Rocche di
San Pietro sia stata l'origine del
monastero di Àfrundu…
97
Tratto da prof. D. Minuto, ‘Opera,
Bollettino della Badia Greca di
Grottaferrata n.s. LIII, 1999, p. 358.
Gli embrici e la scelta della dimora in
grotta, che ritengo una pratica diffusa
in Calabria specialmente fra i secc. VII
e IX, mi fanno credere che l’asceterio
sia stato frequentato in età molto
remota, presumibilmente verso il VII o
l’VIII secolo.
Tratto da: Prof. D. Minuto, L’avvenire
di Calabria, 30 ottobre 2004.
Ora per arrivarci hanno messo le
scalette e il passamano in legno. Utili,
perché prima bisognava arrampicarsi,
con il facile rischio di precipitare. Ma
in questo modo, l’asceterio delle
Rocche di San Pietro sotto Pietra
Cappa è divenuto una meta per turisti,
anche se eletti, amanti della natura e
discreti di numero. Per secoli era stato
un luogo di assoluta intimità...
AUTORI
Redazione testi: prof. Domenico Minuto
Rilievi e restituzione grafica computerizzata: Università Mediterranea degli Studi di
Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, prof. arch. Gaetano Ginex, arch. Stefania
Raschi, arch. Gabriella Falcomatà, arch. Domenico Tosto
Il modello tridimensionale digitale è stato elaborato dall’arch. Domenico Tosto
Foto: G. Ginex, A. Picone
98
SAN GIORGIO DI PIETRA CAPPA
Collocazione
Comune di San Luca
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 603 IV San Luca
Long. 589990 lat. 4226314
Quota
730 m s. l. m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Dalla S.S. 106, presso Bovalino,
deviare per San Luca (11 km). Superare
il paese imboccando la strada per la
montagna che passa dal cimitero.
Seguirla per circa 8 km e poi lasciarla
per una strada in terra battuta sulla
destra. Si scende, per circa 2 km, sino
all'abbeveratoio in località Fontanelle e
guadato il torrente si sale per
giungere, dopo meno di un km, al
casello forestale di San Giorgio di
Pietra Cappa. La chiesetta è poco sotto
il casello.
Sentieri
Dal casello transita il Sentiero Italia
(segnavia bianco-rosso) che verso
valle conduce a San Luca, passando
presso Pietra Lunga e Pietra Castello.
Verso monte, invece, supera monte
Scorda e monte Misafumera e giunge a
Zervò. Aggira Pietra Cappa anche il
Cammino dell’Alleanza.
TERRITORIO
CIRCOSTANTE
È opportuno per meglio comprendere
questo sito conoscere i dintorni e
l’importanza del “distretto” di Pietra
Cappa.
A 3 Km in linea d’aria a sud di Pietra
Cappa si trova Pietra Castello – a 900
m di altitudine – domina l’alto corso
del Buonamico, un tempo navigabile. Il
castello è chiaramente bizantino,
posto in zona d’alta quota, permetteva
il controllo sia della marina che della
montagna e che il prof. Minuto
identifica con la Torre d’Aspromonte,
che la Chanson d’Aspremont del XII
secolo fa teatro di aspre battaglie tra i
Paladini di Carlo Magno e i Saraceni.
A un’ora di marcia dalla chiesa di San
Giorgio, su uno dei colli alle falde
dell’altipiano di Pietra Cappa, c’è
l’asceterio delle rocche di San Pietro –
una grotta a due piani a forma di
teschio – e, ai piedi di questo colle, il
monastero di Afrundu (oggi
99
completamente scomparso, lo ricorda
un albero di ulivo e i pastori anziani).
La fiumara di Careri, qui vicina,
portava accanto a sé un’antica strada
romana che saliva allo spartiacque.
Ad 1 Km in linea d’aria a sud est di
Pietra Cappa – a quota 600 circa – vi
è la località Cicerati, è fama che qui
sorgesse un’antica cittadina, i cui
abitanti si recavano nella chiesetta di
San Giorgio per le funsioni religiose.
Tutto il territorio godeva di un’intensa
vitalità nell’altomedioevo e
probabilmente anche in età più
antiche, in età romana e forse in età
greca.
100
DESCRIZIONE
DEL SITO
A 730 m di quota, orientata verso
Pietra Cappa e non lontana da essa,
vicino al casello della forestale,
troviamo i ruderi, sempre più
evanescenti della chiesetta di San
Giorgio.
La sua pianta quadrangolare misura
circa 39 piedi bizantini (9,20 x 9,20 m,
quindi un po’ più grande di San Pietro
d’Otranto che misura circa 8 m, della
Cattolica di Stilo e di San Marco di
Rossano di circa 7 m, ma più piccola
degli Ottimati di Reggio Calabria di 12
m circa), tranne il lato orientale,
appunto, in direzione Pietra Cappa,
che sporgeva verso l’esterno con 3
piccole absidi di diseguale regolarità
geometrica. La più grande, quella
mediana, di circa 3 m di diametro,
guardava a 60° e conteneva l’altare; le
laterali, più piccole di 1,90 m,
dovevano avere il diaconicòn a 65° e la
prothesis a 70°.
A differenza delle altre chiese
bizantine di uguale tipologia, la
chiesetta di San Giorgio presenta 3
ingressi: quello principale sulla parete
occidentale di fronte alle absidi e
quindi in asse con l’abside maggiore e
i due ingressi laterali più piccoli,
orientati rispettivamente a nord e a
sud, posti non al centro ma presso gli
angoli con la parete ovest. Così che il
Venditti ha potuto ipotizzare la
presenza di un nartece, come negli
Ottimati. Inoltre gli studi di Gennaro
Pesce, condotti nel 1936, ci informano
che per accedere all’interno bisognava
scendere 3 gradini dall’ingresso
occidentale, 2 da quello settentrionale,
e tutto l’edificio poggiava su di una
piattaforma appositamente costruita
per ospitare la chiesa. Terrazza con 40
m di lato, alta sul piano di campagna
circostante 1,50 m dai lati sud ed est,
dove il piano della radura scende in
declivio. I muri del quadrilatero, come
pure quelli della fronte del
terrazzamento, sono costituiti da
pietre di arenaria grigia locale, unite
con malta.
L’interno era quindi diviso in 3 navate
da 4 colonne monolitiche alte 4,15 m,
due di granito e due di breccia. Le
quattro colonne poste al centro,
formavano un quadrato su cui
certamente saranno stati poggiati gli
archi i quali, nelle chiese di questa
forma, costituivano al centro il telaio
che sorregge una cupola e inoltre
dividevano tutto l’ambiente in nove
settori, disegnando una “croce
inscritta” (a croce inscritta sono anche
le chiese bizantine di Stilo, Reggio e
Rossano).
La massima altezza dell’edificio dal
pavimento alla sommità della cupola
molto probabilmente doveva
raggiungere all’incirca i 30 piedi.
Sicuramente la copertura era
costituita da una cupola centrale
(come a Pietro d’Otranto e anch’essa
con 3 absidi diseguali), ma è anche
probabile che avesse altre 4 cupole
più piccole ai quattro lati, ed
assumesse all’esterno l’aspetto molto
prossimo a quello della Cattolica di
Stilo, il monumento più noto della
bizantinità calabrese. Questa ipotesi
potrebbe essere confermata dalla
presenza di molti frammenti di
colonnine di marmo bianco, trovati
sul luogo che fanno pensare a diverse
bifore, finestrelle a doppio arco, che
hanno il sostegno centrale di una
colonnina e, - tenuto conto che
queste finestrelle adornano le cupole
– si potrebbe pensare che San Giorgio
avesse più di una cupola.
La struttura muraria non è regolare:
presenta grosse pietre, fino a 30 cm, e
conci (pietre squadrate) intervallate da
strisce di mattoni. Riportiamo una
descrizione attenta da parte del prof.
Pianta
Minuto, esperto bizantinista e studioso
dei paramenti murari:
“…Sono soprattutto mattoni ed embrici, e
questi sia di tipo romano e tardo antico,
sia di tipo greco. Sono alternati alle selci,
che sovente sono sostituite da conci,
specie negli allineamenti più bassi ed in
alcune sezioni della muratura. Gli
allineamenti dei cotti, che sono, come ho
detto, frammenti di embrici o di mattoni,
alcuni sesquipedali, non sono sempre
continui e leggibili; tuttavia tutti i ricorsi
sono disposti con evidente cura
dell’orizzontalità. I conci sono di forma
sia cubica che parallelepipeda, e questi
101
non sempre sono poggiati sul piano
maggiore, ma in verticale. In tal modo si
creano scompensi nell’orizzontalià,
chiaramente ricercati, per quella forma
che nello studio a più voci…, ho proposto
di chiamare “a filare spezzato, attestata in
apparecchiature murarie calabresi di
secolo VI-VII e talvolta anche
successive…”
Quando, nel 1936, Gennaro Pesce
studiò i ruderi della chiesetta, questi
erano molto più appariscenti, allora
resisteva parte del pavimento
policromo in marmo lavorato a
mosaico con tessere di forme
quadrate, triangolari, romboidali
(simile a quello degli Ottimati, ma
forse più bello), gli intarsi si
alternavano in modo da formare una
successione di croci intervallate da
svecchiature lapidee di pregevole
fattura e di probabile provenienza
romana. Infatti il tipo di materiale
“nobile” utilizzato in una chiesetta
così lontana e sperduta, fa propendere
per l’ipotesi che il tempietto fosse
stato costruito con materiale di risulta,
ricavato da qualche tempio pagano e
da una committenza di rango per una
frequentazione notevole. Il Pesce fece
smontare il pavimento affinché
potesse essere ricostruito nel Museo di
Reggio Calabria, cosa che però non
avvenne, ne è facile sapere dove siano
ora questi pezzi.
Dopo il primo ed ultimo scavo del
1935, si è dovuto attendere
l’intervento della Legambiente di RC
nel 1993 con la squadra dei giovani
volontari internazionali dello SCI, per
un’azione di pulitura del sito
completamente ricoperto da rovi e
selci, e sotto la consulenza del dott.
Claudio Sabbione, Funzionario della
Soprintendenza Archeologica, furono
raccolte molte cassette di cocci ed
anche fu riconosciuta nei pressi della
chiesa una tomba di età romana.
Dei manufatti impiegati nella
costruzione della chiesa di San Giorgio
a San Luca, alcuni sono segnalati in
altri siti. Una colonna delle maggiori,
ad esempio, si trova ora a Polsi,
mentre una delle colonnine delle
bifore, è stata reimpiegata in una
struttura religiosa di Natile Vecchio.
Giorno 5 agosto del 2004 chi scrive,
insieme ad Alfonso Picone, al dott.
Cuteri e ad altri architetti ci siamo
recati presso il sito, dove in quei giorni
era stato condotto un eccellente lavoro
di ripulitura da parte degli operai
dell’Afor del casello forestale di San
Luca diretti dal dott. Infantino
(manutenzione che si spera venga
mantenuta nel tempo, così come per
gli altri siti), trascorrendo una bella
102
giornata in loro compagnia circondati
dai castagni millenari. Uno di essi,
enorme, ombreggia ancora il vasto
spiazzo antistante il casello.
Oggi, il terrazzamento è recintato per
impedire che l’ingresso degli animali
degradi ulteriormente i ruderi ormai
evanescenti: quello che rimane sono
due colonne spezzate, rotolate
all’interno della chiesetta ormai senza
copertura e porzioni di muri con
spessore di circa 95 cm di cui quelli
orientati a nord e a sud raggiungono
le maggiori altezze (massimo 3 m) e
spuntoni ancora visibili sul lato est
che presuppongono le tre absidi.
Schema di cinque chiese a pianta centrale comparate in scala
103
ORIGINI,
STORIA DEL SITO
Dagli ultimi studi condotti sulla nostra
chiesetta ci si è orientati ad attribuire
una datazione attorno al VIII secolo,
una datazione più alta rispetto
all’ipotesi del X secolo proposta nel
’36 da Gennaro Pesce.
Indispensabili sono stati i contributi
dati dal prof. Domenico Minuto. Il suo
studio sui paramenti murari in
collaborazione con l’architetto Venoso
ha permesso di ipotizzare il VII-VIII
secolo come età di appartenenza.
È naturale chiedersi come mai una
chiesetta così elaborata sia sorta in
una zona così boscosa e solitaria.
L’edificio è collegato con le memorie
pervenuteci di un monastero greco
indicato come San Giorgio. Nel 1197
c’era una comunità di asceti il cui
categumeno (l’abate) commissionò la
copia di un evangelario all’ieromonaco
(monaco sacerdote) Atanasio. Dopo la
distruzione della Cittadina di Pietra
Cappa, che avvenne ad opera delle
orde arabe nella primavera del 952, la
popolazione si disperse e, dalla
diaspora nacquero vari piccoli villaggi.
Per questo nei documenti a noi
pervenuti si parla di san Giorgio di
Bovalino e non di Pietra Cappa, ed
inoltre in età normanna inizia il
declino di Pietra Cappa.
Qui i nostri asceti greci praticavano
l’isichia, cioè il raccoglimento nella
preghiera e nel silenzio, e l’ambiente
era certo adatto allo scopo; si
dedicavano al lavoro manuale,
soprattutto nella trascrizione di testi
sacri e nell’attività agricola.
Ma già alla fine del XII secolo era un
avviato monastero. Un documento del
1240, riportato dal Minuto dà una
descrizione dell’azienda agricola del
monastero, che denota una
situazione economica considerevole e
104
se San Giorgio fu concepita all’inizio
come chiesa monastica, nel periodo
di maggiore floridezza si sarà
trasformato in un monastero
suburbano oppure in un luogo di
culto grandemente venerato e
notevolmente solenne (conferma
dataci dalle sontuose decorazioni del
pavimento), come è ora Polsi; non
certo di un cenobio per asceti dediti
alla preghiera nella solitudine dei
monti e alla completa povertà.
D'altronde le altre tre chiese a croce
inscritta si trovano in ambienti
cittadini e furono molto frequentate:
Stilo, Rossano, Reggio.
Era, quindi, molto affollato questo
luogo che oggi sembra suggestivo per
la sua remota solitudine.
Ma già nel 1457 il monastero doveva
essere ormai deserto, probabilmente
già soppresso e accorpato, come
dipendenza, all’abbazia del Santuario
di Polsi. Conferma dataci anche dalla
Platea di Polsi nel XVI secolo.
LEGGENDE
Dopo il 1935 l’abbandono ha fatto
dimenticare la chiesa di San Giorgio e
tra il disinteresse delle autorità
soltanto il mito popolare di san
Giorgio si alimentava, producendo
conseguenze disastrose. Come
quando, tra gli anni ’60 e ’70, un
intraprendente e troppo radicale
ricercatore abusivo impiegò una ruspa
abbattendo i muri dell’abside centrale
per scavare sotto il sito alla ricerca di
un improbabile cavallo d’oro di san
Giorgio.
E inoltre interessante riportare alcune
informazioni circa la vita degli asceti
calabresi.
Particolare era la vita monastica che si
conduceva in queste zone. I monaci
vivevano da eremiti, specialmente tra i
secoli VII e IX, nell’assoluto silenzio e
nella completa solitudine e povertà
scegliendo le grotte come dimora (gli
asceteri di Pietra Castello, di Pietra
Cappa, ecc.) o praticavano il cenobio,
la vita di comunità. A volte i nostri
asceti praticavano la forma mista, e
tale forma si chiamava lavra o laura,
esistevano gruppi di celle eremitiche,
quasi sempre grotte, servite da una
cappella comune detta “cattolica”.
105
BIBLIOGRAFIA
D. MINUTO, ‘Opera. Pietra Cappa altomedievale, Bollettino della badia greca di
Grottaferrata, n.s. LIII, 1999, pp. 349-367.
D. MINUTO, L’avvenire di Calabria. Arte e storia, 18 gennaio 1997.
F. NUCERA, La valle del buonamico, Quaderni della Fondazione Corrado Alvaro, p.
17.
M. CARLINO, Calabria, A. XXII, n.s. n. 107, agosto 1994, pp. 68-76.
D. MINUTO, S.M. VENOSO, Indagini per una classificazione cronologica dei paramenti
murari calabresi in età medievale, Atti dell’VIII Congresso storico calabrese, Soveria
Mannelli 1993, pp. 183-226.
D. MINUTO, S.M. VENOSO, Storia della Calabria medievale. Cultura arti tecniche.
L’architettura religiosa in età bizantina, Gangemi editore, Roma 1999.
106
AUTORI
Redazione testi: dott. Carla Carbone
Rilievi: arch. Sebastiano Maria Venoso
Foto: C. Cutrupi, A. Picone
PIETRA CASTELLO
Altre denominazioni
Castello delle Tortore, Castello, di Potamia,
Torre D’Aspromonte
Collocazione
Comune di San Luca
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 IV
San Luca Long. 590000 lat. 4223794
Quota
889-943 m s.l.m.
I dirupati costoni di Pietra Castello
COME
ARRIVARE
Di tutti i siti indagati questo è quello
che presenta maggiori problemi
nell'accedervi per la difficoltà di
orientamento ed i diversi tratti esposti.
Consigliamo quindi di farsi
accompagnare da guide qualificate.
TERRITORIO
ED AMBIENTE CIRCOSTANTE
Pietra Castello sorge su una
piattaforma di conglomerati ed
arenarie che interessa una grande
area alle spalle dell'abitato di San
Luca. Tutta la zona, conosciuta ormai
come la Valle delle Grandi Pietre, si
estende a partire da rocca di Saracinò,
incombente sull'abitato,
comprendendo l'altipiano di Palazzo,
le alture di Pietre di Febo, il massiccio
di Pietra Castello, la valle di
Buttiglierìo, la collina di Carlo, Pietra
Lunga, Pietra Stranghiò, il Vallone di
Salìce, Pietra Cappa, le Rocche di San
Pietro, i piani di Livodaci e Cicerati, il
canyon di Cabelle, la rocca di Santo
Jerasimo e Calarìa.
Su questo tavoliere disomogeneo per
altimetria, tagliato da frequenti e
suggestivi valloni e da profondi
canyon, si elevano, evidentemente
modellate nei millenni dagli eventi
naturali, delle eminenze rocciose di
particolare bellezza ed effetto
panoramico. Le più note sono: Pietre
di Febo (m 870); Pietra Lunga (m 874);
Pietra Stranghiò (m 798); Pietra Cappa
(m 819) e Pietra Castello (m 943).
Chi arriva per la prima volta ai piedi di
quest'ultimo maestoso massiccio, ha
la sensazione di trovarsi in un luogo
di favola, per il particolare effetto
scenico che si trova davanti. Pare
impossibile che degli uomini abbiano
pensato di costruire su quell'altura, in
mezzo a quelle forre solitarie e a
107
quella intricata boscaglia, una fortezza
militare.
Al termine della faticosa ascesa per
raggiungere l'interno della
fortificazione, molti interrogativi si
spiegano con la constatazione della
imprendibilità della rocca, con la
facilità del controllo totale del
territorio circostante e con la
straordinaria bellezza del paesaggio. Il
cono di pietra che sovrasta i ruderi del
castello, alto una quarantina di metri,
è formato da conglomerati ben
amalgamati con clasti sferoidali di
granitoidi di varie dimensioni, alcuni
con diametro superiore ad un metro.
Affacciandosi verso nord-ovest,
appena ai piedi della rocca, c'è
l'impressionante vallone di Buttiglierìo
con i suoi declivi a perpendicolo, le
sue forre profonde rigate da piccole
cascate e i suoi orridi dove si
arrischiano solo le capre. Più in
108
Pietra Castello: planimetria
LEGENDA:
C - terza cortina muraria
F - edificio orientale
A - prima cortina muraria, accesso
D - chiesa
G - edificio settentrionale
B - seconda cortina muraria
E - cisterna
H - resti di muratura nella grotta
109
lontananza verso nord spuntano
dall'intrico delle foreste di querce, elci
e corbezzoli, le sagome delle altre
pietre monumentali : Pietra Lunga,
Pietra Stranghiò e Pietra Cappa e più
in lontananza il verde cupo delle
foreste di monte Scorda, monte
Misafumera e monte Ciarasara.
Girando lo sguardo più ad ovest,
l'attenzione dell'osservatore è attratta
dalla catena più interna
dell'Aspromonte: Monte Fistocchio,
Vocali, Cannavi e più in alto Montalto,
qualche volta velato di nubi, e l'alto
corso del Buonamico che inizia il suo
cammino nei pressi del Santuario di
Polsi ai piedi della valle della Sibilla.
Girando intorno al masso conico
centrale e guardando verso sud c'è il
lago degli oleandri e le due grandi
ferite nella montagna: la frana di
Costantino e quella di Fassari; sotto, i
ruderi di Potamia, più in lontananza il
Buonamico con il suo letto
110
spropositato e le ultime propaggini,
verso sud est, dell'Appennino
calabrese ai due lati del torrente
Butramo. Portandosi poi sulla
fenditura naturale del masso, che
forma una terrazza naturale, e
volgendo lo sguardo verso est, si
scorge un vasto panorama sulla costa
dei Gelsomini da Capo Bruzzano fino
a Roccella. Veramente un punto di
osservazione straordinario, forse
unico.
DESCRIZIONE
DEL SITO
Le condizioni attuali del sito sono
naturalmente estremamente precarie.
In pratica il manufatto, che sorgeva
intorno alla rocca naturale, deve
essere stato abbandonato già nel
Medio Evo, giacché su di esso non
sono rimaste altro che leggende e
favole e, finora, nessuna
testimonianza storica.
Già all'inizio dell'ascesa, che si trova a
notevole distanza, sono visibili, ma
solo a chi conosce bene il posto,
vestigia di una cortina muraria e segni
di un probabile primo ingresso; più
avanti affiorano altri mozziconi di
strutture edili che bisognerebbe
studiare per capirne la consistenza e
l'eventuale funzione, poi si arriva ai
piedi del masso e si procede attraverso
un percorso scavato nella roccia a
ridosso della grande pietra. Si
raggiunge quindi un primo muro di
cinta molto spesso, 1 metro (I prima
cortina muraria), ma ormai cadente e
poi, dopo pochi metri un secondo
muro (II cortina muraria), dove si
indovinano i segni di quelli che furono
gli appoggi di un ponte levatoio; infine
un terzo muro (III cortina muraria) su
cui si appoggia la parte absidale
orientata di una minuscola chiesa
bizantina, costruita con trame murarie
diverse: sono presenti infatti conci
squadrati e a forma di cubo e di
parallelepipedo ben lavorati e di
grande dimensioni e selci non
squadrate di varia grandezza assieme
a cotti e mattoni di diverso spessore.
La chiesetta è il primo manufatto che
s'incontra entrando nel castello;
attiguo alla chiesa un vano ipogeo,
sgretolato in parte dalle radici di elci
che si insinuano nei muri, ma ancora
intatto in altre parti; la volta del vano
è a forma di botte e i muri sono
rivestiti con un intonaco fine e
compatto: si indovina che potrebbe
essere stata una cisterna per la
raccolta e la conservazione dell'acqua
piovana.
Girando sulla fenditura naturale, si
notano resti di muri attaccati alla
roccia e vestigia di un parapetto sul
lato nord. A nord-ovest e ad ovest, per
una lunghezza di una cinquantina di
metri, si notano i ruderi di altre
fabbriche, costruite con la stessa
tecnica di muratura alto medievale.
Questo più o meno ciò che affiora e
che è visibile tra le rovine, le frane e la
fitta vegetazione. Certamente una
campagna di scavi potrebbe dare
risposte scientifiche che oggi è
impossibile ipotizzare, anche se
111
alcune fortunate scoperte, come il
rinvenimento di monete (follis di
Bisanzio) del IX, X e XI secolo 1
confermerebbero le ipotesi più
accreditate che vogliono Pietra
Castello fortificazione bizantina. Tutta
la zona, conosciuta come La Valle
delle Grandi Pietre, è composta da un
ecosistema ancora miracolosamente
intatto, affatto antropizzato. La
presenza dell'uomo è limitata quasi
esclusivamente alla sorveglianza del
bestiame, che qui vive allo stato
brado, da sempre. Nessuna altra
attività economica sarebbe possibile
per la conformazione rocciosa della
zona e l'assenza di campi arabili. Solo
nelle brevi pianure di Cicerati e
Livodaci e nella parte pianeggiante di
Calarìa, di San Jerasimo e
parzialmente di Palazzi sarebbe
praticabile l'agricoltura. Un tempo
queste località erano il granaio di San
Luca, oggi, o sono totalmente incolte o
in esse si coltivano solo la vite e
l'ulivo. Per il resto il territorio è
coperto da bellissimi boschi di elci, da
erica arborea, da corbezzolo e dalle
diverse varietà di quercia. Il castagno
è quasi esclusivamente presente nella
zona di San Giorgio, dove ancora si
può ammirare qualche esemplare
multi centenario di questa essenza,
Particolare del muraglione
Grotta scavata nella roccia probabilmente
destinata alla funzione di rifugio
Sezione longitudinale
LEGENDA:
A - seconda cortina muraria
B - chiesa: sezione absidale
C - chiesa: prospetto parete
interna sud-est
D - Muraglione: prolungamento
della seconda cortina muraria
E - cisterna
112
Chiesa: prospetto sud
Chiesa: particolare dello stipite (visto dall’alto) e del relativo angolo nord-est della parete orientale
113
Chiesa: prospetto est
114
Seconda cortina muraria: parete
115
In primo piano: brano murario settentrionale della chiesa. In secondo piano: veduta della seconda cortina muraria di accesso alla
fortezza
portata dai monaci bizantini del
monastero omonimo all'inizio del
secondo millennio, e in cui negli ultimi
decenni sono stati introdotte nuove
piantagioni.
La fauna del comprensorio ha subito,
come nelle altre zone dell'Aspromonte,
un feroce depauperamento, dovuto a
molteplici cause, tutte legate alla
modernizzazione dell'economia,
all'imprevidenza delle autorità e
all'incoscienza di alcuni frequentatori
e fruitori del territorio. Erano presenti
il lupo, la volpe, il cinghiale, la
martora, la faina, il tasso, il driomio, il
ghiro, lo scoiattolo, la donnola. Nel
campo dei volatili c'erano quasi tutti i
rappresentanti delle varie famiglie dei
rapaci diurni e notturni, dall'aquila del
Bonelli, ai piccoli e grossi falchi, al
gufo reale; le pernici, le coturnici,
beccacce e moltissime altre varietà di
uccelli.
Oggi solo alcuni di questi animali
popolano il territorio, sebbene da
qualche anno si stia osservando un
116
lento, ma continuo ritorno nella zona
di rappresentanze di animali che
erano quasi totalmente scomparsi,
fatto dovuto certamente al divieto di
caccia introdotto dall'Ente Parco
dell'Aspromonte.
La cengia di Pietra Castello
ORIGINI,
FONTI, STORIA DEL SITO
Non esistono, o almeno non mi sono
noti, documenti o fonti storiche che
attestino le origini della fortezza
aspromontana. Di fatto essa è un caso
singolare e forse unico di munizione
militare costruita nel cuore più remoto
di una impervia montagna.
Si deve allo studioso di storia alto
medievale e bizantina prof. Domenico
Minuto se conosciamo riferimenti o
qualche menzione del sito (con diversa
denominazione) in documenti antichi,
a volte in maniera indiretta.
Minuto riporta, nel citato studio sui
Luoghi di Culto tra Reggio e Locri,
quanto Giuseppe Minasi, in Lo Speleota
– Napoli 1893 –, opina circa il
Castello delle Tortore, menzionato nel
bios del santo reggino, ritenendolo
senza dubbio quello di Potamia,
spingendosi persino a una descrizione
dettagliata, come se l'autore
ottocentesco avesse visitato
direttamente il luogo « ...un castello
nel territorio di San Luca sul versante
del Jonio nella Calabria meridionale.
Veggonsi anch'oggi corrosi dal tempo i
merli, le feritoie e i ruderi di questo
edifizio immenso per mole. Nella sua
parte inferiore si osserva ancora
l'antica scala, la cisterna e parecchie
grotte, le quali servono talvolta di
ricovero ai pastori 2 ».
La descrizione più antica del luogo,
però, è forse quella riferita a Stefano
Piteri, rettore settecentesco del
Santuario di Polsi che, in un suo
manoscritto, composto nel primo
trentennio del XVIII secolo, ritrovato
da Vincenzo De Cristo nel 1911, e
riportato dal Gemelli così dice del sito
« ...Sorge sopra Potamia un altissimo
promontorio, tutto circondato da rupi
e da profondissime valli, sul quale
duecento anni prima della venuta di
Ruggero, nello 884, fu eretto un
castello di natura inespugnabile, per
ritiro delle genti nelle invasioni dei
Saraceni... nel recinto delle mura vi
erano bellissime piazze, molti edifici e
cisterne... Il castello nell'interno del
medesimo sasso ha più camere di
pietra solidissima che ancora si
vedono... 3 ».
A parte la scarsa attendibilità della
data di fondazione del Castello, citata
117
senza riferire la fonte, si direbbe che
anche il Piteri abbia visitato il sito,
trovandolo in condizioni assai meno
precarie di oggi. Siamo all'inizio del
1700 e terremoti devastanti come
quelli del 1783 e del 1908 dovevano
ancora venire.
Domenico Zangari, parlando di
Potamia così dice del suo castello
« Potamia veniva protetta dai monti
che degradano dagli Appennini e da
un inespugnabile castello che, quale
occhio di falco, ne perlustrava i punti
più importanti e le vie carovaniere di
Pietra Lunga e Pietra Cappa 4 ».)
Si può concludere, allineandosi
all'ipotesi proposta dal prof. Minuto,
magistralmente argomentata nello
studio “Pietra Cappa e dintorni“ letta
nel gennaio 1999 a San Luca nel
convegno Monaci e Monasteri greci nel
territorio di San Luca e dintorni, che la
fortezza sia stata costruita nel VII o
VIII secolo dagli occupatori bizantini,
sovrapponendola ad un'opera di
fortificazione preesistente,
probabilmente costruita da
popolazioni italiche in epoca
ellenistica.
Cisterna: spaccato assonometrico
MITI
E LEGGENDE
Un sito così solitario, austero e
misterioso non poteva non suscitare
leggende, miti e favole. E molte sono
state, nel passato, ormai caduti
nell'oblìo. Pietra Castello era
considerato un tempo, luogo
frequentato da folletti capricciosi e
birichini, da fantasmi del passato e
anche luogo di riunione di streghe. Ma
le leggende che sono giunte fino a noi
sono quelle che riferiscono di soprusi
e violenze compiuti da ignobili signori
ai danni di indifese fanciulle del
popolo. C'è pertanto l'arcinota
leggenda della Bella Atì, quella
dell'assedio degli sgherri del Papa alla
ricerca di nemici della Santa Sede, c'è
quella del conte Ruggero che,
accompagnato dal monaco Florio
cerca nel castello la nipote Rosalia,
fuggita da Palermo per sfuggire al
matrimonio e così conservare i gigli
verginali, riportata dal già citato Piteri,
altrettanto improbabile quanto
inesatta nei nomi e nelle date. E quella
raccontata da Domenico Giampaolo,
medico di San Luca che qui mi piace
riportare perché poco nota e per
l'intensa partecipazione del narratore
e il suo linguaggio erudito, zeppo di
aggettivi e quasi gotico, come gotica è
la rappresentazione « ... Il lieve
stormire delle foglie sembra il passo
misterioso di qualcheduno che
s'avvicini, e comunica brividi. Vaghi
profili si disegnano nell'oscurità, e in
mezzo a quelle ombre fosche l'occhio
allucinato stranamente vede delinearsi
una bianca veste verginale, slanciata e
flessuosa che sorge da una tomba,
mentre una testa nascosta da
lunghissime chiome scomposte che
scendono fluttuanti fino al suolo, si
disegna meglio. Due mani stecchite
allontanano lentamente il volume di
capelli che nascondono il volto, ed
apparisce una faccia pallidissima, di
una vaporosa bellezza, i cui occhi
sembrano di poco a poco svegliarsi da
un sonno lunghissimo, e fissarvi con
119
una espressione indefinibile, sinistra e
tragica, mentre la bianca tunica,
aprentesi d'improvviso, vi mostra il
seno esuberante, su cui rosseggia una
lunga striscia di sangue che stilla
lentamente fino al suolo.
Vi sentireste tentati, vincendo lo
stupore, d'interrogare quella strana
vergine, bella di una eterea bellezza,
ma la vostra voce non otterrebbe
risposta alcuna...nessuna umana
favella potrebbe rendervi il senso
profondo della sublime tragedia
compiutasi, più di trecento anni fa, lì,
in quel luogo, dove un'anima
nobilissima, una candida vergine,
rapita all'affetto dei suoi cari
dall'amore prepotente del signore di
quel forte antico, si trapassava il seno
con un coltello, anziché cedere
all'amplesso tirannico. E quella pallida
ombra ogni notte, a quell'ora, suole
mostrare quivi il suo dolente aspetto,
sorgendo dall'avello, che fra quelle
mura medesime ergevale l'innamorato
e pentito suo tiranno, tardo
ammiratore di inaudita virtù. Ed ella si
dilegua, mentre gemiti lugubri e
repressi le tengono dietro, come di
persona che la seguisse, di un altro
fantasma che implorasse un perdono
chiesto da secoli e non mai concesso.
... In questo cupo luogo è entrata,
sotto mille forme, la tragedia umana e
vi spirano ancora il terrore e la
pietà 5».
RIFERIMENTI
LETTERARI
Corrado Alvaro, che molto
probabilmente non visitò mai Pietra
Castello, fa un solo accenno
descrittivo « si vedeva da lontano il
mare balenante nell'ombra serale... e
davanti al mare una montagna che
pareva un dito teso... 6 »
Edward Lear non nomina
direttamente Pietra Castello, ma dà
una descrizione illuminante del
massiccio visto da lontano, da par suo
« Mentre proseguivamo salendo il
torrente, le rocce apparivano sempre
più vicine, fin sopra l'alta rupe della
gola, le torreggianti forme
dell'Aspromonte sembrano chiudere
fuori il cielo... Il senso di mistero e di
solitudine di quelle scene, la profonda
solitudine di queste montagne, sono
tali che né la penna né la matita
possono descrivere 7 ».
Domenico Giampaolo Nel libretto
citato cosi descrive il Castello « Più in
alto, come un antico feroce meditante
le vicende di delitti passati, ergesi
lugubre l'antico castello feudale che
domina le misere rovine della cittadina
scomparsa (Potamia).
La massa conica, enorme e selvaggia,
mostra da lontano macchie nere che
destano l'impressione di immani occhi
di Argo... A chi volesse arrivare fin là,
quella amplissima, nera, profonda
apertura farebbe l'impressione di una
porta lugubre che conducesse in
qualche inferno 8 ».
Domenico Minuto dà una descrizione
asciutta ed efficace « È un'altura con
un amplissimo panorama su tutta la
costa sottostante, con tracce ancora di
fortificazioni medievali, grotte e
cunicoli 9 ».
Grotta e muraglione della seconda cortina
muraria
1
D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma 1977.
2
D. MINUTO, op. cit.
3
S. GEMELLI, Storia tradizioni leggende a Polsi d’Aspromonte, Ed. Parallelo 38, Reggio
C. 1974.
4
D. ZANGARI, Appunti di Corografia Calabra (San Luca), Editrice Ardenza, Napoli
1939.
5
D. GIAMPAOLO, Un viaggio sl Santuario di Polsi in Aspromonte, 1911.
6
C. ALVARO, Gente in Aspromonte, cap. I, Treves, Milano 1931.
7
E. LEAR, Diario di un viaggio a piedi. Calabria 1847, Ed. Parallelo 38, Reggio C. 1976.
8
D. GIAMPAOLO, op. cit.
9
D. MINUTO, op. cit.
120
AUTORI
Redazione testi: Fortunato Nucera Fondazione “Corrado Alvaro”
Rilievi e rielaborazione grafica: Studio
Riproarc di cons. arch. Claudia
Cutrupi
Foto: C. Cutrupi, A. Picone
PRECACORE
Altre denominazioni
Crepacore, Pelicore, Percore,
Petracore
Collocazione
Comune di Samo
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 603 III Bianco
Long. 592202 lat. 4114366
Quota
302 m s.l.m.
Il sentiero per Precacore
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Dalla S.S. 106 si dipartono le
deviazioni per Samo. Chi viene da sud
superato Africo Nuovo e poi il ponte
sulla fiumara La Verde incontrerà a
sinistra la diramazione per Samo. Per
chi proviene da nord è all'altezza di
Bianco che troverà le indicazioni per
Samo dove si giungerà dopo circa 12
km di strada. Entrati nel paese lasciare
l'auto in piazza Municipio e chiedere
di Precacore.
Percorso a piedi: difficoltà T
Dopo una breve ma ripida discesa un
ponte di recente costruzione consente
di superare il torrente Santa Caterina,
affluente della fiumara La Verde. A
sinistra si nota l'antico ponte in pietra.
Dopo un altro breve tratto di strada in
terra battuta un'edicola indica l'inizio
della Via Crucis che sale a Precacore.
Alla fontana della Rocca, sulla sinistra,
un sentiero acciottolato lascia la
stradina seguendo quindi le stazioni
della Via Crucis. Sotto incombenti
pareti di conglomerato ci si affaccia
sul vallone di S. Caterina e su Samo
giungendo quindi ai primi ruderi di
Precacore.
Sentieri
Da Samo ha inizio un sentiero
(segnavia bianco-rosso) che conduce
a Montalto, cima più elevata
dell'Aspromonte.
121
La chiesa di San Sebastiano svetta su
Precacore
Tratto per intero da: Vito TETI, Il
senso dei luoghi Paesi abbandonati
della Calabria, Donzelli editore, Roma
2004, pp. 179-180, 188-192. Per
gentile concessione dell'autore.
Il nuovo abitato di Samo e gli antichi
ruderi di Precacore sono contigui. Si
osservano come per controllarsi, per
non separarsi. Dall'abitato di Samo i
ruderi di Precacore appaiono come
una sorta di rimorso, di memento
mori, come il luogo di fondazione e
della memoria. Dalla collina con i
ruderi le case di Samo appaiono una
sorta di continuità della vita. Un colpo
d'occhio, ma anche l'obiettivo del
fotografo, li abbraccia tutti e due, e ne
viene un senso di spaesamento e di
pace, la percezione di osservare un
luogo in cui il passato continua a
vivere con il presente.
L'antica Samo sarebbe stata fondata
dagli Joni di Samo per fuggire a Dario,
presso Capo Zefirio. Poi viene spostata
verso l'interno nella pianura della
fiumara La Verde. Non mancano,
neanche in questo caso, i riferimenti
122
ad Erodoto e a Polibio. L'arretramento
verso l'interno continua all'epoca delle
invasioni saracene. Rasa al suolo alla
fine del X secolo, i superstiti si
dirigono all'interno verso il monte
dove nasce Palecastro, l'antico
castello. Precacore sorge nello stesso
periodo come casale di Palecastro e
quindi come centro fondato,
probabilmente, dagli abitanti di Samo.
Nel 1349 Samo e Precacore sono
colpiti da un forte terremoto. Molte
persone si trasferiscono nel luogo
chiamato “giardino di Campolico”,
oggi Sant’Agata, da dove poi alcuni
abitanti si spostano e formano il
nucleo di Caraffa. Il terremoto del
1536 sconvolge tutto il territorio. Resta
intatto solo il borgo di Precacore, che
non verrà abbandonato né a seguito
del terremoto del 1638 né di quello
più catastrofico del 1783. Il piccolo
centro aveva 79 fuochi del 1552, 50
nel 1595, 21 nel 1669. Alla fine del
Settecento contava 471 abitanti, 416
nel 1815, 436 nel 1825, 447 nel 1861,
753 nel 1901. Precacore viene
abbandonato dopo la distruzione
provocata del terremoto del 1908. In
seguito a questa catastrofe nasce il
nuovo abitato che prende l'antico
nome di Samo. Precacore scompare
come paese e anche come nome. Dal
1924 al 1946 con il nome di Samo di
Calabria vengono unificati i comuni di
Samo, S. Agata e Caraffa.
Inquadramento generale del sito di Precacore
123
Successivamente i comuni aggregati
riacquistano la loro autonomia e
anche la precedente denominazione.
Precacore, Crepacore, Pelicore,
Percore, Petracore. Gli anagrammi
dell'antico borgo, quasi una sorta di
gioioso scioglilingua, sembrano
un'invenzione dei suoi abitanti per
nascondere ed occultare il paese ai
ripetuti terremoti. Resta il fatto che
anche in questo caso il nome del
paese è legato a una disgrazia o a una
catastrofe che lo distrugge piuttosto
che a un evento o a un eroe che lo
fonda. La distruzione sembra
precedere la fondazione. La fine viene
quasi prima della nascita. Altre fonti
privilegiano la dizione di Pelicore e
Percore, che deriverebbe da perìkore,
vicino al paese o alla città. Gabriele
Barrio segnala che nel territorio di
Bulsano o Brettiano, regione fertile,
dove si catturano piccoli uccelli e
nascono i tartufi, c'è il villaggio di
Mota e più in là il castello di
Crepacorio (Crepacori, annota
Tommaso Aceti, o Precacori nella
diocesi di Gerace), “in luogo alto, con
miele rinomato; dista dal mare
cinquemila passi; forse una volta fu
detto Samo; infatti in questi luoghi i
Samii fondarono la città di Samo”
Chiesa di
San Sebastiano
Palazzo
baronale
2
1
3
Chiesa di
San Giovanni Battista
Particolare inquadramento generale del sito e piante degli edifici più significativi
(Barrio 1737, p. 351). Nella zona
orientale dell'Aspromonte, nel distretto
che va dal monte Pittaro e dal fiume
La Verde a Gerace,
vi ha de' piccioli luoghi, de' quali è
piaciuto agli scrittori della storia
Calabra di far parola con molta
pompa. In un luoghetto, che si è da
essi chiamato Crepacore, e poi indi
passò ad appellarsi Precacori, hanno
creduto di rinvenire Samo, e in
conseguenza l'hanno innalzato
all'onore di essere stata la Patria di
Pittagora. A dir vero gli uomini, che
nascono per onorare l'umanità,
possono venire alla luce in ogni dove;
ma non è questo il primo esempio
dell'impetuoso desio, con cui cotesti
storici han cercato di rappresentare la
Calabria, come la culla o l'albergo di
molti illustri soggetti, e come la stabile
sede di tutte le più speciose bellezze
della natura (Sarconi 1987, p. 446).
Nell'Istoria del Tremuoto a cura del
Sarconi si legge di Crepacore,
“paesetto” situato su uno di “què
dirupevoli gioghi” nei quali si divide e
si distende il monte Zefirio. E infatti
Fu fama che l'erta rupe, la quale gli
serviva di base, si fosse lacerata con
una fenditura circolare, e che dalle
aperte fauci di tale lacerazione uscito
fosse un nero, e denso fumo. Di
questo si creda ciò che si vuole;
quello, ch'è innegabile, si è che il
temuto e decantato vulcano, di cui già
prometteasi imminente la comparsa, e
l'eruzione, si è finora atteso in vano
non solo da coloro, che prestarono
fede a tali fumose osservazioni, ma
anche di quei, che si risero della
precipitanza di somiglianti giudizi
(ibidem, p. 448).
Precacore, Crepacore, Pelicore,
Percore, Petracore. Man mano che i
passi delle persone sulla strada
diventano più forti e più frequenti
l'antico paese sembra riprendere vita.
Voci, canti, preghiere, richiami di
uomini e donne che si recano a piedi,
alcuni scalzi, da Samo al vecchio
abitato sembrano il sottofondo di una
nenia che, opportunamente recitata,
124
richiama in vita, come nelle storie di
magia, il paese che è scomparso. E c'è
qualcosa di magico e di struggente, di
emotivo e di avvincente, in questa
gioiosa e affannosa scalata della
collina sulla cui cima si elevano,
ancora imponenti, camuffati nel
paesaggio, le rovine di Precacore.
L'appuntamento il 28 agosto di ogni
anno, vigilia della festa estiva di San
Giovanni Battista, è atteso dagli
abitanti di Samo-Crepacore con una
frenesia e un'ansia insolita. Nel
ritorno tra i ruderi sembrano scorgere
una ragione profonda della loro
esistenza individuale e collettiva. Molti
partono dalla chiesa del paese, dove è
custodita l'antica statua del Santo,
dalla piazza addobbata con il palco e
le luminarie; si muovono in gruppi di
venti o dieci persone, gruppi che si
formano, si sciolgono e si
ricostituiscono lungo il tragitto e poi
tra i ruderi dove viene celebrata la
messa. Tanti escono dalle case, dai
bar e muovono come seguendo un
richiamo segreto. La banda, formata
da giovanissimi suonatori, procede in
ordine sparso. Ogni suonatore ha in
mano il suo strumento che porta
religiosamente lungo una salita dove è
facile precipitare o scivolare nel vuoto
di un burrone, di una vallata, di un
fiume, peraltro in uno dei paesaggi più
belli di questa parte di Calabria
Il culto di San Giovanni Battista a
Precacore, come in altre località della
regione, ha origini molto antiche (con
ogni probabilità istituito dai monaci
basiliani) e accompagna, se non
precede, la nascita del paese. Nel XVI
secolo nella chiesa del paese esisteva
l'altare di San Giovanni. Una campana
dedicata al Santo porta la data del
1625. A Vallefonda c'è ancora un
muro della chiesa dove era custodita
la statua del Santo che, secondo
alcuni, risalirebbe al XII secolo. La
chiesa fu danneggiata, nel corso dei
secoli, dai terremoti e da altre
calamità naturali e definitivamente
distrutta dal terremoto del 1783. La
statua del Santo fu trasportata nella
chiesa del paese, dove rimase fino al
1911, data dell'abbandono definitivo.
Il pellegrinaggio nell'antico paese, tra i
ruderi e le rovine degli antichi luoghi
sacri, è un'istituzione relativamente
recente. C'è un anno d'inizio, il 1964.
E c'è un protagonista di quest'inizio:
Giovanbattista Bonfà, nato a Samo,
ma residente da molti anni a Bologna,
ma con Samo nel cuore. Bonfà,
tornato come tutti gli anni con i suoi
familiari, mi racconta la storia. Lo fa in
maniera lenta ed orgogliosa, propria di
chi ha avviato una nuova tradizione
quasi per volontà divina. Lo fa in un
perfetto italiano, con garbo antico, con
un accento lievemente bolognese, che
però tradisce subito la sua origine
calabrese. Un'antica legenda, una
delle tante, vuole che una notte ignoti
ladri rubassero dalla chiesa del paese
Chiesa di San Giovanni Battista: prospetto principale
la statua del Santo protettore, ma
giunti nel punto dove ora sorge il
luogo di culto e dove oggi ci troviamo
a parlare, la statua divenne talmente
pesante che dovettero abbandonarla.
l'indomani alcuni abitanti che si
recavano al lavoro dei campi,
percorrendo gli angusti viottoli,
scorsero la statua del Santo. Parroco e
fedeli pensarono subito al miracolo,
uno dei tanti che aveva salvato nel
corso dei secoli la statua in occasione
di calamità di vario genere. Da quel
tempo, nel luogo in cui venne
rinvenuta la statua, si venera San
Giovanni col titolo di San Giovanni
Battista della Rocca. Nella piccola
grotta scavata nella roccia venne
dipinta un'effigie del Santo. Sul lato
sinistro un'antica fontana della Rocca.
125
Palazzo baronale: da sinistra prospetto laterale, sezione longitudinale, sezione trasversale e, in basso, prospetto principale
Rocce, pietre, acque, Santi, culti,
secondo motivi ricorrenti e che
portano indietro, lontano, lontano.
L'immagine fu deturpata, a colpi di
pietra, da “ignoti malfattori” negli anni
cinquanta. Quando Giovanbattista
Bonfà ricevette una grazia dal Santo di
cui porta il nome, nel 1963, decise
d'ingrandire per voto l'antica grotta e,
al posto dell'affresco deturpato, fece
deporre una statuetta del Santo alta
60 cm, che portava la pecorella al
piede e non sul braccio, come nella
tradizione iconografica. Molti cittadini,
tra cui il sindaco dell'epoca, Pasquale
Talia, parteciparono alle spese dei
lavori eseguiti nel 1964. In questo
anno, il 28 agosto, vigilia della festa
del nuovo paese, venne organizzato il
primo pellegrinaggio alla grotta, dove
fu celebrata la messa da due padri
francescani provenienti da Bovalino.
Negli anni la partecipazione dei fedeli
è aumentata. I pellegrini, gli abitanti di
Samo, gli emigrati che tornano
sostano, durante la salita, davanti ai
pannelli della Via Crucis, pregano,
commentano, si riposano. Fuori dalla
grotta numerose persone assistono e
partecipano alla messa. Ma il vero
officiante del rito è Giovanbattista
Bonfà, emigrato, graziato, costruttore
di identità. Tutta la collina diventa una
sorta di anfiteatro, i sentieri sono delle
linee di sosta e di osservazione. I
musicanti suonano disposti tra i
ruderi, su pianori di terra. La gente
guarda dall'alto, si rivolge in direzione
del nuovo abitato. Altri si aggirano tra
i ruderi, visitano le rovine delle
antiche chiese, guardano affreschi che
affiorano da tempi remoti. Viste da
lontano le persone tra i sentieri sul
fianco della collina sembrano formiche
che corrono verso i loro formicai per
sistemare quanto sono riuscite a
racimolare, a raccogliere con fatica.
Gli abitanti di Samo portano i loro
ricordi, le memorie dei padri in mezzo
alle reliquie del tempo. Portano, con
pazienza, previdenti, accorti a non
perdersi nel nuovo luogo, il peso e il
piacere della loro identità.
Una leggenda narra di una nave che
trasportava, probabilmente all'inizio
del XVII secolo, un carico di campane,
quando viene sorpresa da una
violenta tempesta in mezzo al mare. Il
comandante della nave, terrorizzato
come tutti i suoi uomini, invoca San
Giovani Battista, promettendo, qualora
126
l'equipaggio si fosse salvato, di fare
dono alla sua chiesa delle più belle
campane presenti sulla nave. La
tempesta finisce miracolosamente e il
capitano vuole esaudire il suo voto.
Non conoscendo il posto dove veniva
venerato il Santo, fa legare le campane
a un paio di buoi, e con loro
l'equipaggio comincia il cammino.
Quando l'insolita comitiva giunge nei
pressi della Chiesa di San Giovanni
Battista, che a quel tempo sorgeva a
Vallefonda, i buoi si fermano e in
segno di devozione s'inginocchiano. Il
capitano allora offre le campane e
ringrazia il Santo per lo scampato
pericolo (Bruzzaniti 1995, pp. 53-55).
Il motivo dei quadri, delle statue, delle
campane che arriva miracolosamente
dal mare, quello dei buoi (o di altri
animali) che si inginocchiano davanti
alla divinità sono ricorrenti in Calabria
e nella zona di Samo. I luoghi sacri
erano scelti dalla Madonna o dai
Santi: agli uomini e agli animali
spettava scoprirli e riscoprirli. Ma
queste storie miracolose di
rinvenimenti raccontano anche viaggi,
spostamenti, mobilità in una Calabria
a torto considerata isolata.
Prima, dopo, durante la messa, le
persone sostano e si aggirano tra i
ruderi. Le pietre sono state accostate e
sistemate in maniera che non cadano.
Interi muri indicano ancora una
complessa struttura di case, che
Chiesa di San Sebastiano: prospetto principale
Chiesa di San Sebastiano: sezione con le tre nicchie
127
dovevano essere appiccicate l'una
all'altra. Giovani, studiosi del luogo,
organizzatori della festa ci
accompagnano per mostrarci i segni
di un passato con una storia religiosa
ma anche architettonica e artistica
certamente ricca e aperta. Ancora
integri sono i muri perimetrali di
quella che è stata individuata come la
Chiesa di San Sebastiano. La Chiesa di
San Giovanni è in pessime condizioni
e conserva tracce di un affresco della
Madonna Nera. Sui muri della chiesa
crescono piante selvatiche. Dall'alto si
scorge Samo nuova, il letto della
fiumara La Verde. Mi dicono che sia
ancora popolata dalle narade. (vedi
sito Polemo).
La mattina di Pasqua, anche a
Precacore, si svolgeva il rito
dell'affruntata. Secondo quanto
riferiscono gli anziani e quanto
attesta Bruzzaniti (1995, p. 49), le
donne stavano tutte raccolte da una
parte e guardavano, con grande
apprensione, i viaggi che la statua di
San Giovanni faceva per dare
l'annuncio dell'avvenuta Resurrezione
alla Madonna. I portantini
camminavano e correvano in quelle
strade ripide e tortuose facendo bene
attenzione a che la statua del Battista
non si piegasse o non cadesse. In tal
caso la comunità avrebbe conosciuto
terribili disgrazie e calamità. Le donne
preoccupate esclamavano con timore:
“Focu meu. Focu meu, cadi San
Giovanni” quasi a sostenere la riuscita
del rito.
Quell'esclamazione mi giunge dal
passato nelle orecchie e nella testa.
Scendendo dai viottoli che dall'alto
della collina dei ruderi portano alla
Grotta, e poi più giù, in prossimità del
letto del fiume, si è colti da un senso
di vertigine. Ho come l'impressione
che qualcuno possa cadere e guardo
con apprensione i bambini e gli
anziani, che invece si muovono con
grande sicurezza. La funzione
religiosa è già finita, il prete e le
donne che cantavano e pregavano
stanno tornando verso Samo, dove in
serata si terrà lo spettacolo di un noto
cantante. Domani si svolgerà la
processione del Santo nelle vie del
nuovo abitato. Davanti alla grotta
continua a sostare, in compagnia di
figlie e nipoti, Giovanbattista Bonfà.
Riceve, come un moderno, laico
patriarca, i saluti della gente. Viene
riconosciuto e ringraziato come
l'ideatore e l'inventore di questo rito
d'identità, che collega al passato.
S'intrattiene amabilmente con noi e ci
invita a scendere insieme. Il caldo
torrido e umido, l'afa appiccicaticcia
che ci hanno accompagnato,
facendoci sudare e faticare non poco,
lasciano il posto a una frescura di sera
d'estate. Il sole è dietro le colline,
verso le cime dell'Aspromonte. La luce
del crepuscolo dà un tono ancora più
incantato a quei luoghi, a quel fiume,
a quelle grotte. Bonfà scende
lentamente, chiaramente soddisfatto,
ci indica i pannelli della Via Crucis e
della vita di San Giovanni. Alterna le
sue spiegazioni con notizie sulla sua
vita e sulla famiglia. Il cielo
improvvisamente si fa buio. Ci
sediamo e ci godiamo la pioggia.
Qualcuno dice che se continuerà a
piovere la festa verrà rovinata, Fabio
Concato non canterà, i forestieri non
saliranno e i soldi saranno stati
buttati. Cessa improvvisamente di
piovere. La gente si precipita nelle
macchine da sotto i balconi dove si
era riparata. Arriva un profumo di
piante e di terra come capita dopo
una pioggia subito prosciugata dalla
calura che resta nell'aria. Andiamo a
casa della famiglia Giampà. C'è una
grande animazione. Chi riesce a
riportare la vita tra le rovine ha di che
128
sentirsi soddisfatto. Su una grande
tavola, che sta per essere
apparecchiata, sono sistemati
pasticcini e bevande per noi. Declino
l'invito a cena. Mi aspettano degli
amici in marina, dico. Chiamate anche
loro, mi dice la figlia che vive a
Bologna e torna ogni anno per la
festa. Il padre ha voglia di parlare, non
vuole lasciarmi. Mi consegna le foto
delle feste, mi fa vedere cartelle in cui
custodisce memorie della sua
iniziativa. Mi aspetta a Bologna, dice,
se capito. Ci salutiamo e ci baciamo
come se ci fossimo conosciuti da
sempre.
AUTORI
Redazione testi: prof. Vito Teti Università della Calabria
Rilievi: geom. Roberto Laganà
Foto: A. Picone, G. Pontari
LA GROTTA DI NINO MARTINO
Collocazione
Località Piani di Litri
Comune di Samo
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 603 III Bianco
Long. 589489 lat. 4217104
Quota
948 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da Reggio Calabria seguire la S.S. 106
per circa 35 km e subito dopo Africo
Nuovo e il ponte sulla fiumara La
Verde si incontra a sinistra la
deviazione per Samo dove si giunge
dopo altri tre bivi (il primo a destra e
gli altri a sinistra) e 12 km di strada. A
destra della piazza principale seguire
la strada che sale verso monte Iofri e
dopo circa 6 km siete a Portella
d'Orgaro. Proseguire a sinistra e
continuare per altri 3 km
raggiungendo l'area pic-nic Runci dove
potete lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Seguire la carreggiabile che si stacca
dalla strada principale poco avanti a
destra. Si prosegue nel bosco di leccio
e farnia per appena mezzora sino a
quando il panorama si apre. Siete
giunti alla meta: un grazioso pianoro
affacciato sulla costa in mezzo al
quale si eleva imponente la grotta di
Nino Martino.
Sentieri
Nei pressi dell’ area pic-nic Runci
passa il sentiero (segnavia biancorosso) che da Samo conduce a
Montalto.
129
DESCRIZIONE
DEL SITO E LEGGENDA
In realtà non si tratta di una caverna
sinsu strictu, bensì di un agglomerato
litico composto da pietre di diverse
grandezze formanti delle cavità più o
meno spaziose, in quella maggiore,
all’interno coperte dai licheni, sono
visibili alcune lettere incise sulla
roccia, forse risalenti al XVIII sec. 1
Il sito si è formato in epoca pliocenica,
circa 4 milioni di anni fa, ed è
composto da calcareniti giallastre ad
elevata permeabilità.
Il toponimo, come molti altri siti
calabresi, ricorda il leggendario
brigante Nino Martino. In agro samio
si narra che il malfattore dopo aver
ascoltato in una chiesa una predica
particolarmente convincente decidesse
di abbandonare il crimine e che i suoi
compagni di scorribande, preoccupati
di essere denunciati, lo uccisero e ne
nascosero il corpo sotto un cumulo di
sassi in montagna. La madre di Nino
Martino però riuscì a scoprire il corpo
del figlio e, nottetempo, recuperatolo,
lo pose sotto una botte ed ogni tanto
andava a guardarselo.
Un giorno però non le fu possibile
rimuovere la botte perché era divenuta
incredibilmente pesante, praticata una
fessura la madre del brigante si
accorse che ne fuoriusciva vino:
accanto al cuore di Nino Martino si era
sviluppata una vite da cui scaturiva
ottimo vino e così fu per sempre 2.
1
La suggestiva ipotesi della presenza di un tempio italiota sito presso le grotte di Nino
Martino che sarebbe attestato da alcune immagini visibili sulle pareti rocciose interne, non
è ancora supportato da idonea documentazione bibliografica ed archeologica
2
La leggenda del brigante Nino Martino si può leggere alle pp. 258-260 del volume Il Parco
Nazionale d’Aspromonte.Guida Naturalistica ed escursionistica, (op. cit. in Bibliografia).
BIBLIOGRAFIA
F. BEVILACQUA, A. PICONE CHIODO, Il Parco Nazionale d’Aspromonte. Guida naturalistica
ed escursionistica, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1999.
E. BRUZZANITI, Samo dalla città di Pitagora all’antica Precacore, Iiriti editore, Reggio
Calabria 1991.
Carta Geologica d’Italia su base topografica dell’IGM. Foglio 254 III sud est
CASMED 1968.
Enciclopedia dei Comuni della Calabria, guida storico-turistica, voll. 1-2 a cura di
Donatella GUIDO, cons. storico Massimiliano Cozzetto; s. l. ed. Il Quotidiano della
Calabria, 2002.
130
AUTORI
Redazione testi: dott. Filomena Tosi
Foto: V. Galluccio, A. Picone
GLI OVILI DI MONTE PERRE
Collocazione
Coordinate
Quota
COME
Tra Monte Perre e Puntone Galera
Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 I Gambarie
Long. 586726 lat. 4218437
1.200-1.437 m s.l.m.
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da Reggio Calabria seguire la S.S. 106
per circa 35 km e subito dopo Africo
Nuovo e poi il ponte sulla fiumara La
Verde si incontra a sinistra la
deviazione per Samo dove si giunge
dopo altri tre bivi (il primo a destra e
gli altri a sinistra) e 12 km di strada. A
destra della piazza principale seguire
la strada, in parte asfaltata, che sale
verso monte Iofri. Raggiunto il piccolo
altopiano di Portella d'Orgaro piegare
a sinistra. Superato un casello
forestale s'incontra, sulla sinistra, una
grande croce e poco dopo termina
l'asfalto. Lasciare l'auto.
Percorso a piedi: difficoltà T
Siete sul crinale che delimita la
fiumara Butramo dalla fiumara
Aposcipo, vallate tra le più selvagge
del massiccio. L'escursione impegnerà
per circa un'ora ma vale la pena
dedicarvi più tempo.
Sentieri
Siete sul sentiero (segnavia biancorosso) che da Samo conduce a
Montalto, cima più elevata
dell'Aspromonte.
Natile: copertura di stazzo in legno, terra
e letame
131
132
DESCRIZIONE
DEL SITO
Lungo il sentiero che conduce da
Monte Perre a Croce di Dio sia lodato,
nel territorio del comune di Samo, si
incontrano delle interessanti
testimonianze di tipiche costruzioni
realizzate da pastori in Aspromonte.
Si tratta di una serie di agglomerati di
costruzioni di cui rimangono in piedi
alcuni muri per un altezza di non più
di un metro; partendo da Monte Perre,
il primo degli agglomerati in questione
è costituito da un paio di costruzioni.
Gli elementi più interessanti sono due:
una zona che probabilmente era
destinata al ricovero per animali
parzialmente recintata che sfrutta una
formazione naturale di rocce ed è
completata da piccoli muri di pietre e
filo spinato (ciò, insieme ad altri
segni, fa supporre una utilizzazione
relativamente recente) ed a pochi
metri una costruzione circolare fatta
di pietre del diametro di circa tre metri
addossata ad un albero. In un angolo
del primo locale si nota anche un
piccolo piano rialzato che
presumibilmente costituiva una sorta
di giaciglio.
Tutto il piccolo pianoro dove sorgono
queste opere è caratterizzato dalla
presenza di grossi monoliti (utilizzati
quanto più è possibile come pareti
delle costruzioni) e di numerosi alberi;
una simile localizzazione è legata
molto probabilmente alla protezione
dalle intemperie e forse anche alla
possibilità di controllo del territorio
circostante (le costruzioni sono
praticamente invisibili da lontano,
quasi mimetizzate, ed allo stesso
tempo offrono la possibilità di vedere
le vallate sottostanti).
Continuando il percorso verso Croce
di Dio sia lodato, dopo qualche
centinaio di metri, si possono vedere
numerose altre costruzioni opera di
pastori; a differenza delle precedenti
queste ultime sono situate su un
terreno un po' più scosceso e sono in
numero di gran lunga superiore. I due
siti hanno tuttavia tratti in comune:
anche qui si sfrutta la presenza di
monoliti presenti sul luogo che
costituiscono lo scheletro di questo
insieme di costruzioni la cui struttura
è integrata poi da pietre che formano
dei piccoli muri a secco. È probabile
che le costruzioni fossero completate
da tetti e da ulteriori muri in materiale
vario, come rami o felci; tuttavia di ciò
non possiamo avere certezza visto che
anche in questo sito non sono rimasti
altro che i muri per un altezza al più
di un metro.
La pianta delle costruzioni è varia:
alcune sfruttano ampiamente la
presenza di grandi rocce e, per
l'estensione, la forma irregolare e la
presenza di filo spinato, fanno
pensare che la loro destinazione fosse
quella di stazzi dove venivano
condotte le pecore e le capre per
passare la notte (peraltro va segnalata
la presenza, in una zona di Monte
Perre vicina a quella di questi siti, di
moderni ovili che potrebbero
confermare l'utilizzo di alcuni luoghi
di questa montagna come luogo di
ricovero per le greggi).
Altri manufatti a pochi metri da questi
probabili stazzi hanno invece forme
rettangolari o semicircolari e sono
costituiti prevalentemente da pietre e
muri a secco. Il complesso di muri,
rocce e stazzi si estende su una
superficie abbastanza ampia
(superiore ai cento metri quadrati). La
densità di alberi in questo sito è
minore rispetto a quella del sito
precedente.
1
Quale fosse la destinazione d'uso di
questo secondo tipo di costruzioni
non è un dato facilmente decifrabile;
per similitudine rispetto alla
descrizione di alcune forme di
insediamento che fa Luigi Lacquaniti
in un saggio sui Piani d'Aspromonte 1,
si potrebbe ipotizzare che si tratti
sostanzialmente di piccole abitazioni
temporanee utilizzate dai pastori nel
periodo della tarda primavera-estate
quando gli animali venivano condotti
ai pascoli montani per rimanervi
qualche mese.
I vari elementi inducono a pensare che
queste strutture abbiano costituito,
fino a quando sono state utilizzate,
una sorta di via di mezzo tra i
semplici “pagghiari” e le cosiddette
“casedde”: rispetto ai “pagghiari”
L. LACQUANITI, Note Antropogeografiche sui Piani d'Aspromonte, in Rivista Geografica Italiana,
1948.
133
caratterizzati da una struttura molto
elementare, dimensioni piuttosto
ridotte legate alla funzione di ricovero
e/o deposito, i resti che si possono
ammirare a Monte Perre hanno una
maggiore estensione e varietà di
forme. Ciò li fa assomigliare appunto
alle “casedde”, una forma abitativa
più stabile situata vicino ai ricoveri
per gli animali e centrale rispetto ai
territori dove si svolge l'attività del
pastore. Tuttavia il grado di
accentramento delle costruzioni che si
trovano a Monte Perre è decisamente
minore di quello che le “casedde”
raggiungono in alcune zone
dell'Aspromonte.
Da queste premesse si possono trarre
alcune conclusioni: la prima attiene
una caratteristica della pastorizia
aspromontana che mi sembra viene
confermata dalle ipotesi fatte sulla
natura dei siti di Monte Perre: i pastori
di questa zona svolgono (e hanno
svolto) generalmente la loro attività in
modo relativamente più stanziale se
comparati ad altre società agopastorali. Lo spostamento delle greggi
(e di conseguenza quello delle
persone) avviene lungo l'asse vallemonte, la cosiddetta transumanza
verticale, e non, come spesso accade
altrove, tra territori diversi e distanti
fra loro molti chilometri (la cosiddetta
transumanza orizzontale). Anche le
costruzioni che caratterizzano i due
tipi di transumanza risultano
chiaramente diverse, essendo quelle
legate alla transumanza verticale più
stabili e legate con un rapporto più
saldo al territorio in cui sono
costruite.
La seconda conclusione riguarda
invece il rapporto tra gli uomini e la
montagna: il ritrovamento di
testimonianze della presenza umana
stabile ci suggerisce l'idea
dell'Aspromonte come una montagna
vissuta e caratterizzata da un rapporto
denso con gli uomini in netta
contrapposizione all'immaginario,
spesso tramandato, di luogo
inaccessibile, oscuro ed estraneo
rispetto alla comunità.
I
PASTORI D’ASPROMONTE
Ma chi sono oggi i pastori
d'Aspromonte?
Prima di conoscere i pastori reali,
avevo provato ad immaginarli e, come
forse molti, sono caduto nei più banali
stereotipi, prefigurandomi uomini
armati di lunghi bastoni, seguiti dal
proprio fedele cane, solitari e sdegnosi
come li descrive Angarano2 oppure
vestiti con strani abiti ed umili e
testardi come l'Argirò nato dalla
penna di Corrado Alvaro 3 .
Nella realtà questo tipo di pastore, che
definirei “tradizionale”, non esiste
quasi più. Invece dei lunghi bastoni ho
visto qualche colorato (e forse più
utile) ombrello, l'abbigliamento non è
diverso da quello di un qualsiasi
campagnolo e lo sguardo fiero,
talvolta, ho dovuto cercarlo dietro il
parabrezza di una automobile o la
visiera di un casco: anche questi sono
i mezzi di lavoro dei pastori di oggi.
Non voglio sostenere che i pastori
tradizionali siano scomparsi del tutto,
ma il loro numero è davvero esiguo e
si tratta per lo più di persone anziane
spesso molto diffidenti e chiuse o di
immigrati extracomunitari. Forse la
difficoltà che deriva dal cogliere
appieno le dimensioni di questo
fenomeno attraverso una indagine
qualitativa può avermi indotto a
sottovalutarne l'importanza, cosa che
cercherò comunque di evitare
utilizzando tutte le fonti disponibili.
E comunque è un fatto, solo per fare
un esempio, che la transumanza
2
F.A. ANGARANO, Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi, Olschki, Firenze 1973.
3
C. ALVARO, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano 1996.
134
Ciminà: monte Pinticudi, ovile con tettoia
d’erica
verticale (il movimento delle greggi dai
pascoli invernali delle zone più a valle
a quelli estivi sulle colline e sulle
montagne), tipica espressione della
pastorizia della Calabria, anche
aspromontana 4 sia oggi solo un
ricordo lontano.
La crisi del pastore “tradizionale” non
significa però crisi della pastorizia
tout-court; emerge lo schizzo di un
altro tipo di pastore, che per comodità
d'ora in poi definirò pastore “pecora e
ulivo 5”, dove pecora ed ulivo
rappresentano la combinazione fra
agricoltura part-time e una particolare
forma di pastorizia, oggi prevalente.
Questa è caratterizzata generalmente
da una marcata stanzialità e da greggi
di dimensione piuttosto modesta
(raramente oltre i 100 capi di
bestiame); inoltre, di solito, l'attività è
svolta in maniera autonoma (il pastore
è proprietario degli animali e, seppur
non sempre, anche dei pascoli o
almeno di una parte di essi), è gestita
quasi esclusivamente in ambito
familiare e rappresenta solo una fra le
varie attività svolte dai pastori.
Laddove le caratteristiche della
pastorizia legata al pastore
“tradizionale” erano ben diverse:
grandi greggi (migliaia di animali) e
allevamenti transumanti allo stato
brado, forza-lavoro bracciantile e
piena integrazione nell'economia
latifondistica.
In questo sistema, diffuso fra i grandi
proprietari di tutta la Calabria, il
datore di lavoro era tenuto a fornire gli
animali e il pascolo nonché tutto
quanto era necessario per la
produzione (ricovero per i pastori,
attrezzi per la lavorazione del latte, la
legna per il riscaldamento e, talvolta,
persino i vestiti). Per esempio, per
quanto riguarda la zona del versante
ionico dell'Aspromonte, il contratto
tipico prevedeva che il proprietario
cedesse il terreno per il pascolo e per
la coltivazione del grano e fornisse i
due terzi del bestiame che doveva
comporre il gregge; i pastori
aggiungevano il restante terzo,
ciascuno secondo le proprie capacità.
Una prima considerazione che si può
dedurre da quanto finora detto è lo
stretto legame esistente fra pastorizia
“tradizionale” ed economia
latifondistica basato sull'integrazione
fra colture cerealicole e foraggiere e
fra le enormi greggi di migliaia di capi
e la vasta schiera di braccianti senza
terra. Viceversa la pastorizia che ho
definito “pecora e ulivo” affonda le
sue radici nella piccola proprietà
contadina e nell'identità impresafamiglia che, se da un lato
costituiscono un limite, dall'altro ne
hanno fatto la fortuna.
I due gruppi che ho sommariamente
descritto hanno chiaramente una
funzione idealtipica; la realtà è
sicuramente più complessa e variegata
come avremo modo di vedere più
avanti.
Uno degli aspetti più interessanti della
differenza fra i tipi di pastore è
costituito dal modo in cui essi sono
percepiti e rappresentati dalle comunità
in cui vivono: nei canti popolari e nel
folklore il pastore “tradizionale” e la
sua famiglia sono oggetto di scherno e
di diffusa disistima:
Lu pecuraru chi dd'u munti vena,/ Mancu
allu lettu se sapia corcari,/ Quandu vidiju
lu spruvieru,/ Disse: lu pagliaru ccu 'na
porta!/ Quandu misi lu capu alli cuscini,/
Dissi ch'è lu zainu ccu lu pani;/ Quandu
misi li carne alli linzola,/ Credia ch'era
pella ccu la lana;/ Quandu toccau 'e
minna d'a mogliera,/ Credia mùngeri
pecura allu varu 6.
4
M. ROSSI-DORIA, La Calabria agricola e il suo avvenire, nella rivista Il Ponte, n.9-10, 1950
ristampata da Editoriale Bios, Cosenza 1994, pp.1176-1178.
5
La terminologia del binomio è ripresa da CATELLI, MONTANI, SAVELLI (a cura di), Le società
mediterranee, Franco Angeli editore, Milano 1988. L'accoppiamento dei termini è mio.
6
Canto popolare riportato da F. FAETA, I razziatori morti, in F. CASTELLI, P. GRIMALDI (a cura di),
Maschera e corpi, Meltemi, Roma 1997, p. 107. La traduzione è: “Il pecoraio che viene dal
monte/ neanche in un letto si sapeva coricare/ quando vide la cortina del letto divisa in due
parti/ disse: il pagliaio con una porta!/ Quando mise il capo sui cuscini/ disse che era lo
zaino con i pani/ quando mise il corpo tra le lenzuola/ credette fosse pelle con la lana/
quando toccò i seni della moglie/ credette di mungere le pecore allo stazzo.”
135
Mi è capitato personalmente di
assistere all'uso del termine pastore in
senso quasi dispregiativo e
stigmatizzante.
Inoltre il mondo del pastore
“tradizionale” è visto anche come
l'ambito della magia e del mistero, cui
dà adito la vita raminga del pastore
vissuta spesso in luoghi lontani e
sconosciuti 7, e come quel misto di
bassezza psicologica e morale e di
selvaggia animalità che è ben
rappresentato dal rito orgiastico della
“farchinoria” 8.
La sregolatezza e la stravaganza,
l'estraneità alle leggi e alla vita di
famiglia o di paese sono le
rappresentazioni tipiche del pastore
“tradizionale”. All'opposto la società
contadina della Calabria si è basata,
fra le altre cose, su un lavoro di
domesticazione dello spazio naturale:
“lo spazio, intrinsecamente rischioso,
può divenire umano nella misura in
cui diviene contadino” 9. La terra
coltivata, le strade, il borgo, la
famiglia, la casa: questo è il regno del
contadino e nel nostro specifico del
pastore “pecora e ulivo”.
Da quanto detto mi sembra chiaro che
non esiste nessun tipo di legame
evolutivo tra le due tipologie di pastori
che ho abbozzato, come invece
potrebbe apparire da una analisi
statica della situazione: essi non
derivano l'uno dall'altro, non sono il
processo di una evoluzione da un
modello più tradizionale ad uno più
moderno. Piuttosto i due tipi sono da
lunghissimo tempo coesistiti e la
prevalenza di uno rispetto all'altro è
legata all'andamento del sistema
socio-economico in cui ciascuno di
essi si inquadra.
Negli ultimi decenni la pastorizia
dell'Aspromonte (tanto quella dei
pastori “tradizionali” quanto quella
dei pastori “pecora e ulivo”) ha subito
una graduale e continua involuzione;
la razionalizzazione sempre più spinta
della società rurale ha avuto un effetto
devastante ed ha lacerato il tessuto
sociale su cui si fondavano i paesi dei
contadini e dei pastori.
Lo spopolamento delle campagne, la
modernizzazione e lo shock culturale
dovuto all'impatto con l'economia di
mercato hanno prodotto gravi danni
tanto sul piano socio-economico (le
condizioni materiali di vita sono
indubbiamente migliorate ma con uno
sviluppo per niente armonico) quanto
su quello culturale, con l'evoluzione di
una particolarissima forma di cultura
agro-pastorale.
È molto difficile stabilire con esattezza
la dimensione quantitativa del calo
della pastorizia in Aspromonte anche
per il fatto che le poche statistiche
ufficiali esistenti (la più affidabile è il
censimento generale dell'agricoltura)
non colgono appieno il fenomeno
nella sua totalità; tutte le forme di
microallevamento, che sono
estremamente diffuse soprattutto in
alcuni paesi dell'Aspromonte (a Platì e
Canolo solo per fare qualche
esempio), spesso non sono comprese
nelle statistiche ed a questo bisogna
aggiungere che è abbastanza diffusa,
per una sorta di reticenza, l'usanza di
non dichiarare gli animali posseduti
anche quando si tratta di greggi di una
certa rilevanza.
La condizione effettiva della pastorizia
può essere colta, a mio avviso, meglio
attraverso l'analisi qualitativa, più che
quantitativa, dei soggetti e dei modi di
produzione.
Bisogna innanzitutto considerare che
quando ci riferiamo ai pastori che
abbiamo definito “pecora e ulivo”
l'unità di analisi non è l'individuo ma
la famiglia: l'organizzazione della
produzione economica e i rapporti
familiari costituiscono una totalità
indistinta, la famiglia è allo stesso
tempo centro di produzione e centro
di consumo.
Tradizionalmente il capo-famiglia è
allo stesso tempo a capo dell'impresa
ed è sia il detentore dell'autorità e del
controllo sui membri della famiglia sia
il detentore del potere decisionale
nell'impresa viste le sue competenze
7
M. MINICUCI, Il pastore e il meraviglioso, in N. Provenzano (a cura di), Per il decennale della
biblioteca di Soriano Calabro, Jason, Soriano 1991, pp. 107-123.
8
Si tratta di un rito, descritto da G. DE GIACOMO in La farchinoria. Eros e magia in Calabria, da
lui stesso osservato nei pressi del monte Cocuzzo. La veridicità pare che sia dubbia (per le
critiche vedi D. SCAFOGLIO, Norma e trasgressione nella letteratura popolare, Gangemi, RomaReggio Calabria 1984, pp. 20-22) ma quello che qui interessa non è stabilire la realtà del
fatto ma il modo in cui i pastori sono rappresentati.
9
F. FAETA, I razziatori morti, p. 115.
136
professionali. All'interno della famiglia
i ruoli sono strutturati in modo ben
preciso: le donne sono sempre escluse
da qualsiasi compito attinente la cura
del bestiame (eventuale vigilanza
durante il pascolo, mungitura,
assistenza sanitaria) mentre
frequentemente si occupano della
lavorazione dei prodotti (i formaggi, le
ricotte, la lana). Di recente alcune
sono diventate titolari dell'azienda di
famiglia ma ciò è solamente una
formalità legata ad agevolazioni in
campo fiscale mentre sul piano
sostanziale la distribuzione del potere
non è cambiata di molto (e quando è
cambiata ciò è avvenuto per altri
fattori).
Ci sono due fatti da notare: il primo è
che la distinzione di ruoli è
determinata puramente da regole
socio-culturali che sono peraltro
limitative solo per le donne. Infatti tutti
i lavori che sono svolti dagli uomini
potrebbero essere, tecnicamente, svolti
dalle donne, che in effetti li svolgono
in casi di necessità, ma che in tempi
normali devono essere assolutamente
evitati. Lo stesso non vale per gli
uomini, che oltre ad occuparsi degli
animali si impegnano non di rado
anche in attività svolte dalle donne (fa
eccezione la lavorazione della lana
che era sempre e solo svolta dalle
donne).
Il secondo fatto è che questa
divisione sessista del lavoro vale
all'interno della stessa famiglia solo
per quanto riguarda la pastorizia:
mentre i lavori agricoli, anche i più
duri, sono condivisi quelli legati al
lavoro di pastore sono rigidamente
separati.
Il mestiere è tramandato di padre in
figlio e tutti i pastori fanno parte di
famiglie che si dedicano da diverse
generazioni alla pastorizia. I ragazzi
iniziano l'attività di pastore molto
presto, quando sono ancora in età
scolare, attraverso un lungo
apprendistato, per esempio dando una
mano, quando è possibile, per portare
gli animali al pascolo (ma ho
incontrato anche ragazzi di 14-15
anni che già avevano un loro piccolo
gregge). Un ruolo privilegiato è
rivestito spesso dal primogenito che è
il collaboratore diretto del padre dal
quale acquisisce tutte le informazioni
necessarie e la cui ascesa è
sanzionata attraverso precisi rituali.
Nel caso del pastore-contadino
dell'Aspromonte si può dire con
Alvaro che la sua forza “è nella
struttura familiare. La famiglia è la
sua spinta vitale, il campo del suo
genio, il suo dramma e la sua poesia.
I figli rappresentano un continuo atto
di fede nella vita, una promessa e
una speranza, una forza che deve
correggere il destino individuale […]
senza il peso del gruppo famigliare a
lui pare inutile combattere. Se rimane
solo e libero di sé porterà il suo
individualismo […] alle
manifestazioni più sfrenate. Egli ha
bisogno naturalmente del freno della
famiglia: questo è il solo mezzo
attraverso cui egli si potrà fissare
nella società. […] È escluso ogni
senso edonistico” 10.
La fortissima normatività, con il suo
rigido schema di funzioni, doveri e
restrizioni autoritarie che
caratterizzano la famiglia patriarcale,
non è tuttavia gratuitamente
repressiva bensì è funzionale alla
natura multidimensionale della
famiglia stessa cioè alla sua capacità
di soddisfare i bisogni primari e allo
stesso tempo di integrare i fattori
economici e quelli non economici 11.
Da questa rigida struttura familiare e
dalla fusione al suo interno degli
aspetti economici e non economici
scaturiscono due importantissime
conseguenze: la prima è il rapporto di
interdipendenza che si crea fra
dimensione della famiglia e
potenzialità produttive dell'attività
economica legata alla pastorizia. La
seconda è invece un elemento
culturale vale a dire la difficoltà dei
pastori a guardare con favore
qualsiasi forma di conduzione
svincolata dall'ambito familiare o
viceversa una vita familiare slegata
dall'ambito aziendale.
Un'ulteriore effetto dell'identificazione
fra impresa e famiglia è la variabilità
dell'ampiezza aziendale nel corso del
ciclo naturale di vita della famiglia:
con la formazione di una nuova
famiglia dopo il matrimonio nasce una
nuova impresa che si espande
parallelamente alla crescita della
famiglia, raggiunge il culmine quando
i figli raggiungono l'età lavorativa e
comincia a declinare man mano che i
figli si sposano. In questo modo la
dinamica del rapporto fra ciclo di vita
della famiglia e volume dell'attività
economica dei pastori costituisce il
10
C. ALVARO, Itinerario italiano, Milano 1941, pp.3 50-356.
11
P. ARLACCHI, Mafia contadini e latifondo, p. 38.
137
motore della mobilità sociale dei
pastori sia in senso ascendente che in
senso discendente.
Non bisogna tuttavia pensare che la
dimensione della famiglia determini
meccanicamente la dimensione del
gregge né si può ignorare il fatto che
comunque esistono influenze
esercitate da forze esogene rispetto
alla famiglia.
Definiti i soggetti, dobbiamo ancora
analizzare il modo in cui essi operano:
il sistema di produzione più diffuso fra
i pastori in Aspromonte è quello che
gli studiosi definiscono semiestensivo: (ma non senza significative
eccezioni, che analizzeremo). Gli
animali, bovini e ovo-caprini, sono
allevati allo stato semi-brado e in
alcuni, rari, casi allo stato
completamente brado.
In pratica, nella maggior parte dei
casi, i capi di bestiame sono condotti
la mattina al pascolo in terreni
recintati di estensione proporzionale
alla mandria e poi riportati in un
luogo di ricovero la sera, prima del
tramonto.
Se il gregge è molto piccolo (meno di
20 unità) ed è composto di piccoli
ruminanti è frequente che il pascolo
sia costituito da un piccolo terreno di
proprietà in cui il pastore cerca di
conciliare l'attività di agricoltore con
quella di contadino, non è raro il caso
di piccole greggi che pascolano sotto
gli uliveti. Il luogo di ricovero di questi
animali si trova su questo stesso
appezzamento di terra che spesso è
adiacente all'abitazione del pastore.
Questo sistema implica la necessità in
alcuni periodi di fare a meno del
pascolo (per esempio durante la
raccolta delle olive) e di ricorrere a
mangimi, prodotti spesso dallo stesso
pastore.
Quando il gregge è più grande il
pastore destina invece una parte dei
suoi terreni solamente per il pascolo e
quando, come nella quasi totalità dei
casi, non dispone di una quantità di
terreno sufficiente a garantire il
pascolo del suo gregge prende dei
pascoli in affitto che si aggiungono
alla sua proprietà, non di rado già
spezzettata in piccoli appezzamenti. I
pascoli presi in affitto, soprattutto se
non sono terreni molto grandi, sono
pagati con una parte dei prodotti del
gregge (formaggi, latte o carne)
mentre il pagamento in moneta è
ancora poco diffuso così come l'uso di
contratti scritti.
La dislocazione dei pascoli varia
durante le stagioni, i pastori cercano di
utilizzare i pascoli più a valle durante
l'inverno mentre d'estate si sfruttano
di più quelli in altura. Anche per
queste greggi di dimensioni maggiori
l'alimentazione diversa dal pascolo ha
un ruolo estremamente marginale
(essenzialmente di integrazione al
pascolo e di sostituzione per
brevissimi periodi quando non è
proprio possibile pascolare).
Il pastore comunque pur sfruttando
questa molteplicità di pascoli ha la
138
sua base sempre nell'appezzamento di
sua proprietà dove il gregge ha un
ricovero e che si trova ancora nelle
adiacenze dell'abitazione del pastore.
Il risultato è che in questi casi
l'attività della pastorizia è slegata da
qualsiasi rapporto fisso con un preciso
appezzamento di terra fuorché il
luogo di ricovero dove gli animali sono
ricondotti ogni sera. Questo è l'unico
elemento costante e stabile
nell'attività del pastore e come
abbiamo visto, quasi sempre, si tratta
una stalla o un ricovero situato nei
pressi della stessa dimora del pastore
“pecora e ulivo”.
La stessa dislocazione delle case dei
pastori è significativa: non esistono
pastori che risiedono dove
l'insediamento è sparso per i campi, al
contrario tutti abitano in grossi borghi:
ciò è funzionale alla necessità di avere
un punto di riferimento centrale
rispetto alla pluralità di appezzamenti
sparsi per le campagne che il gregge
deve raggiungere di volta in volta.
All'interno di questi stessi borghi, poi,
viste anche le necessità igienicosanitarie, i pastori sono comunque
costretti a vivere ai margini (nella
periferia, se così si può dire 12.
Alla già menzionata identità fra
famiglia e impresa si aggiunge quindi
un ulteriore termine che è la casa:
mentre la mancanza di un legame fisso
con un determinato territorio ha da
sempre caratterizzato le società
pastorali, il pastore “pecora e ulivo” ha
sviluppato un legame molto stretto con
il territorio adattandosi, però, al fatto
che l'unico territorio che potesse dirsi
veramente suo si riduceva alla sua
casa e all'orticello che la circonda.
La marcata stanzialità di questi
pastori è un elemento tutt'altro che
secondario ed ha conseguenze
rilevanti che differenziano
enormemente i pastori “pecora e
ulivo” da altre comunità pastorali
mediterranee. Il pastore tradizionale, a
causa delle esigenze
dell'organizzazione della
transumanza, è costretto ad una vita
quasi da nomade ed il suo gruppo
sociale di riferimento per molte
settimane è solo l'insieme dei pastori
con cui lavora; così le forme di
solidarietà che si sviluppano fra i
pastori tradizionali sono strettamente
legate alla dimensione professionale 13.
Fra i pastori che oggi sono in attività
in Aspromonte le forme di assistenza
legate strettamente all'attività di
pastore pur sopravvivendo 14 hanno un
ruolo marginale rispetto ai fenomeni
di reciprocità prevalenti che si basano
invece sulla parentela e sul vicinato
mentre addirittura qualsiasi modello di
cooperazione formale è decisamente
disprezzata.
Quello che emerge nettamente,
qualunque sia la specifica forma di
allevamento è la assoluta
predominanza del pascolo. Tutti i
pastori con cui ho parlato sostengono
che il pascolo è molto meno costoso
dell'alimentazione nella stalla; ciò è
dovuto anche al fatto che la
contrazione del volume della
pastorizia ha diminuito notevolmente
la concorrenza per i pascoli. Un ruolo
importantissimo al riguardo è
costituito dalle concessioni comunali
di pascolo che ancora persistono in
alcuni paesi dell'Aspromonte e che
sono di grandissimo aiuto per i
pastori 15. L'utilità del pascolo è invece
decisamente ridotta per i bovini da
carne che sono alimentati nella stalla
e vanno al pascolo molto più
sporadicamente.
Se il sistema di allevamento semiestensivo è sicuramente quello più
diffuso esistono comunque altre forme
di allevamento tra le quali va
menzionata una particolare variante
locale, ibrida fra l'allevamento brado e
l'economia di rapina, che è
rappresentata dal fenomeno delle
“vacche sacre”. In realtà si tratta di
capi di bestiame (a dispetto del nome
non solo bovini ma anche ovo-caprini)
di proprietà di alcuni pastori che
vivono appunto liberamente allo stato
brado nelle zone montagnose o nelle
campagne abbandonate.
Viste le dimensioni più piccole che
raggiungono in seguito
all'alimentazione completamente
autonoma e vista la difficoltà di
utilizzarne il latte, questi animali
svolgono essenzialmente la funzione
di riproduttori a costo zero per
l'allevatore che vende poi gli agnelli e i
vitelli (anche se questo è quanto di più
lontano possa esistere dai principi di
una zootecnia razionale). In qualche
caso l'esistenza di questi animali è poi
sfruttata dai pastori anche per
percepire i premi della UE attraverso
la loro registrazione e il loro controllo
periodico.
Questo fenomeno ha conseguenze
molto pesanti visto che queste forme
di pascolo incontrollato sono
estremamente dannose sia per i boschi
12
Nel paese di Canolo Nuovo, dove il microallevamento è particolarmente diffuso, il
problema della vicinanza dei ricoveri per gli animali al centro abitato, è stato affrontato in
maniera originale destinando una zona del paese ai ricoveri per il bestiame e separandola
dalla parte abitata.
13
Per esempio, in alcune comunità di pastori in Sardegna esistono delle forme di
associazionismo informale per la gestione di terre comuni riservate al pascolo o per la
assistenza ai pastori che dopo aver abbandonato l'attività per qualche disgrazia la vogliono
riprendere (vedi SVIMEZ, Aspetti sociali e culturali dello sviluppo economico della Sardegna, Roma
1960.
14
Esistono usanze quali quella di unire greggi piccole per sfruttare, per quanto possibile, una
sorta di economia di scala oppure quella di scambiarsi capi di bestiame che è dettata
soprattutto da esigenze produttive ma non è scevra da elementi puramente ludici.
15
Il fenomeno dell'espropriazione, più o meno latente, del demanio pubblico non si è
fermato fino ai nostri giorni: a Platì, secondo quanto riferito da un abitante del paese, dal
dopoguerra ad oggi tutti i demani comunali sono stati sottratti da parte di “malandrini”. Fra
tutti i comuni che ho avuto modo di visitare in Aspromonte, gli unici comuni ancora capaci
di gestire i demani comunali sono Canolo e Samo.
139
(dove i piccoli ruminanti, se non
controllati, possono compiere dei veri
e propri disastri) sia per gli
appezzamenti di terreno di proprietà
privata dove gli animali sconfinano
facilmente (nonostante le assicurazioni
dei pastori che gli animali sono
“istruiti”), non a caso nelle zone dove
è presente il fenomeno ci sono forti
tensioni degli agricoltori.
I pastori con cui ho parlato quando si
riferivano ai luoghi oggetto di questo
pascolo di rapina parlavano sempre o
di terreni abbandonati dai proprietari
(perché definitivamente emigrati e
perciò ormai ritenuti esterni rispetto
alla comunità) o, molto più
frequentemente, alla “montagna”;
questo termine, si badi, non
rappresenta una indicazione
puramente geografica ma ingloba
anche un elemento culturale di alterità
rispetto alla percezione che di essa
hanno i pastori-contadini. Ciò è legato
ai processi storici che abbiamo visto: i
pastori-contadini hanno assistito al
processo di continua appropriazioneespropriazione della montagna e della
sua distruzione da parte dei grandi
proprietari terrieri, processi dai quali
sono rimasti sempre esclusi, o meglio
partecipi solo degli inconvenienti
(perdita di un patrimonio collettivo,
dissesto idrogeologico). Nel momento
storico in cui cessa di essere utilizzata
come elemento complementare
dell'economia latifondistica, la
“montagna” per i pastori è ormai
diventata elemento estraneo (non lo è
sempre stato, come potrebbe sembrare
a primo acchito) e quindi oggetto
passibile di reciprocità negativa. Il
fatto più drammatico è che nel
complesso gioco di persistenze e
cambiamenti di ciò che fa parte della
comunità o meno ne ha fatto le spese
l'equilibrio fra sistemi di produzione e
ambiente naturale.
Melìa di Scilla
Platì: Rocche degli smaliditti
Palmi: gregge urbano
AUTORI
Redazione testi: dott. Marco Santagati
Foto: A. Picone
140
CHIESA DI SANTA MARIA DELL’ALICA
Collocazione
Comune di Palizzi
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 616 IV Capo Spartivento
Long. 588995 lat. 4206316
Quota
682 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
L’accesso più diretto a Pietrapennata,
piccola frazione di Palizzi, avviene da
Spròpoli, nei pressi di Capo
Spartivento, lungo la S.S. 106. In
appena 6 km si giunge alla chiesa del
Carmine dove ci si collega alla strada
tra Palizzi e Pietrapennata. Svoltando
a destra, dopo 5 km giungerete a
destinazione. Tuttavia, per chi non lo
conoscesse, suggeriamo di passare da
Palizzi per visitare questo ben
conservato borgo.
Percorso a piedi: difficoltà E
Raggiunto il cimitero di Pietrapennata
si lasciano le auto nel parcheggio
antistante l’ingresso e s’imbocca a
piedi la pista sterrata in discesa, a
tratti completamente invasa da rovi
che impediscono non poco il
cammino. Dopo circa 15 minuti la
pista diviene un sentiero ma la chiesa
è già visibile ed ormai vicina.
Sentieri
Un tratto, non ben individuabile, di
sentiero collega ad una pista sterrata
che sale a monte Cerasia, eccezionale
punto panoramico.
Il paese di Pietrapennata fu noto per
l’industria casalinga delle tovaglie di
lino e ginestra, e i dintorni hanno
esercitato il loro fascino sull’inglese
Lear, sul lettone Brenson e sull’italiano
Cosomati che li hanno scelti come
soggetti dei loro disegni.
141
AMBIENTE
monastero di San Ippolito, trasformato
al culto dopo la vittoria di Lepanto, e
di cui S. Maria dell’Alica risultava già
grancia di San Ippolito di Palizzi.
CIRCOSTANTE
Dai massi rocciosi di Punta Gallo,
sopra le alture di Pietrapennata,
attraverso il lecceto della Forestòla si
scende alla vallata di Alìca, dove
ancora si ergono i resti suggestivi di
ciò che un tempo fu una chiesa, forse
un monastero, in un ambiente aperto
ma silenzioso, soave e severo al
tempo stesso come richiede un luogo
atto al raccoglimento.
Sebbene attualmente ciò che rimane di
questo antico luogo di culto ricada nel
comune di Palizzi, da documenti
relativi alla visita pastorale di
monsignor Marcantonio Contestabile
del 19 aprile 1670 risulta che tale
chiesa fosse collegata a Staiti.
Posto al centro di una conca, presenta
allo spettatore, in primo piano, i muri
della sacrestia, il campanile, e la parte
rivolta a valle; a digradare , una serie
di quattro terrazzamenti con i muretti
a secco ancora ben mantenuti.
DESCRIZIONE
ORIGINI
DEL SITO
Circa il titolo di questo affascinante
luogo di ritiro si intrecciano diverse
interpretazioni: secondo le notizie
fornite dal sito ufficiale del Comune di
Palizzi il nome Alica deriva
probabilmente dalla contrada
omonima e per l’esistenza nella zona
di un tempio dedicato ad Apollo Licio,
che i Basiliani trasformarono in
Abazia intitolandola a Santa Maria
che fu detta di A-Lica.
Una diversa interpretazione attribuisce
l’origine del titolo nel nome di luogo,
ricavato, forse, dal fitonimo grecanico
alìci, ossia spelta (meglio noto come
farro), laddove altri ritengono
possibile che il titolo sia stato coniato
appositamente (come altri titoli di
luoghi di culto dedicati alla Madonna
ed accompagnati da un nome di
pianta), o per ricordare magari, come
suggerisce il prof. F. Mosino, la
celebrazione della vittoria presso
Lepanto della Lega contro i Turchi nel
1571, da cui poi la celebrazione della
festa allora, come oggi, l’8 maggio,
così come l’arcipretura di Staiti è
intitolata alla Vittoria. L’anno 1571
potrebbe perciò essere, se non l’anno
della fondazione certa, almeno della
sua intitolazione, senza per questo
pregiudicare l’ipotesi, del prof.
Domenico Minuto, che la chiesa
dell’Alica possa essere stato lo stesso
142
DEL SITO
Dopo un attento intervento di pulizia
dell’AFOR, le rovine si sono svelate in
tutto il loro fascino, rivelando parti di
strutture murarie che a una prima
visita era risultato impossibile persino
individuare perché coperte dai rovi.
Sembrerebbe che la parte più antica
(secc. XII-XIII) sia la sezione SE
dell’arco ora attaccato al campanile.
Lo spessore di questo brano murario è
cm 65; a cm 89 dal suo spigolo
esterno a est si può notare una
leggera rientranza, forse il segno
dell’apertura d’ingresso al campanile.
Di periodo successivo pare essere il
muro settentrionale della chiesa di m
12,78, che, leggermente più spesso
Planimetria
LEGENDA:
A - chiesa
B - abside
C - campanile
D - setti murari (porticato)
E - frammenti di arco
F - sacrestia
143
Interno del campanile
degli altri, 90 cm circa, è visibilmente
obliquo verso l’esterno, come lo è un
muro di sostegno, ed ha la facciata
esterna quasi completamente coperta
di terra, fino a 50 cm circa dalla linea
di gronda; la sua lunghezza, misurata
all’interno della chiesa, è di m 12,85.
Su questa parete si legge ancora
traccia di un arco: forse un abside poi
chiusa, poiché dal crollo si intravede
una rientranza riempita da pietre .
Sul lato orientato ad ovest si erge il
muro di facciata in cui si intravede
ancora un elemento decorativo,
probabilmente, di forma circolare con
ghiera in mattoni. All’interno invece
una trave in legno disposta
leggermente obliqua rispetto al piano
orizzontale è forse il segno di una
antica apertura di ingresso;
In un momento successivo fu
addossato al muro meridionale un
campanile avente i lati di m 1,85,
all’esterno, e m 1,13 all’interno ed
144
uno zoccolo esterno alto cm 20 e
sporgente cm 17. Esso chiuse quasi
completamente l’ingresso meridionale
e rimase staccato dall’interno della
chiesa, avendo un’apertura a nord-est,
tale che, per accede al campanile,
bisognava uscire dalla chiesa per
un’apertura, successivamente
praticata, nel muro orientale della
chiesa. Il campanile, poi, ebbe a sua
volta l’ingresso ostruito dalla
costruzione di un ambiente esterno
alla chiesa, verso nord-est, forse la
sacrestia di cui parla il Contestabile
nel 1670 come opera da completarsi.
La cuspide è di forma ottagonale con
6 aperture di forma ovale. In
corrispondenza degli angoli erano
posizionati 4 pennacchi di cui ne
rimangono uno integro e la base di un
secondo. Le aperture sui lati del
campanile sono rifinite con elementi
laterizi così come le colonnine degli
angoli ancora integre. Nell’insieme il
campanile risulta essere stato molto
curato nei particolari e aggraziato
nello slancio verso la punta. Ancora
ben conservata la decorazione della
cimasa sotto la cuspide, ornata da un
giro di mattonelle in maiolica con
disegni a scacchiera bianchi e blu. La
muratura addossata alla parete del
campanile, dove precedentemente era
stato praticato il suo piccolo ingresso,
reca ancora visibile, al suo interno, un
condotto leggermente obliquo , forse
per il passaggio delle corde del
campanile. Questa nuova costruzione
145
è ruotata rispetto alla chiesa, con un
ingresso gradonato, con i muri spessi,
alla base, cm 60 e rastremantisi fino a
cm 50.
A m 8,78 dal muro meridionale della
chiesa, ed a una quota inferiore di
circa 150 cm, vi sono cinque setti
murari, profondi m 1,24 e larghi
mediamente m 1,30 circa, disposti ad
intervalli irregolari; alcuni di essi sono
nettamente staccati dalla parete di
fondo intonacata come i setti stessi.
Tra il campanile e i setti murari si
noterà un “moncone” di muro: ebbene
si tratta di crollo cantonale del
campanile che è rimasto integro e
conficcato nel terreno!
A m 5,20 dai setti, verso est, vi è un
altro brano di muro, lungo m 5,20,
spesso cm 90, con uno zoccolo di cm
20 alla base della sua faccia orientale,
con uno sguincio di cm 20 nella
sezione a nord e posizionato a m 2,80
dalla costruzione esterna della chiesa
(sacrestia). Il muro ha nel lato interno
tracce di ceramica invetriata di colore
verde usata come inzeppatura.
Si vuole ricordare che nell’antica
Abbazia, fino al 1887, vi era una
statua molto pregiata di finissimo
marmo bianco, raffigurante la
Madonna con bambino a mezzo
busto, attribuita ad Antonello Gagini,
perciò anteriore al 1536, anno della
sua morte. La nicchia in pietra tufacea
con alcuni rilievi, ov’è collocata la
statua e la decorazione di questa,
costituita da due colonne in pietra, si
sostiene provengano dall’antica
Chiesa dell’Alica
Tutt’oggi, in paese, si ha memoria dei
monaci, soprattutto della loro
organizzazione autosufficiente. Il
casolare che si incontra in direzione
nord rispetto al sentiero CAI è indicato
come caseificio, e la rocca a nod-ovest
rispetto alla facciata della chiesa è
ricordata come u furnu di monaci.
Ricostruzione ipotetica
BIBLIOGRAFIA
G. SANTAGATA, Calabria Sacra. Compendio storico-artistico della monumentalità
chiesastica Calabrese, Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1974.
D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma 1977.
D. MINUTO, G. PONTARI, S. VENOSO, Ricerche su Santa Maria dell’Alica, Rivista Storica
Calabrese, n.s., Anno IX, nn. 1-4, Gennaio-Dicembre 1988.
Guida d’Italia del TCI, 4a ed., Milano 1980.
AUTORI
Redazione testi: dott. Rosalba Tripodo
Rilievi e rielaborazione grafica: Studio
Riproarc di cons. arch. Claudia
Cutrupi
Foto: C. Cutrupi, A. Picone, G. Pontari
146
LA ’NSILICATA DI POLEMO
Collocazione
Località Polemo Comune di Roghudi
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 602 II San Lorenzo
Long. 581061 lat. 4206498
Quota
840 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Da Bova Marina una recente strada
conduce velocemente in meno di 10
km a Bova. Giunti al paese non
entrare nel centro ma proseguire verso
la montagna superando il campo di
calcio; poco più di un km e si nota a
sinistra una stradina asfaltata che
scende verso delle case. Lasciare
l'auto. È qui che inizia la ’nsilicata,
cioè il selciato.
Percorso a piedi
I segnali bianco-rosso conducono
dietro una delle prime case a destra. È
qui che ha inizio la mulattiera che da
Bova (la Chora = la capitale)
conduceva a Roghudi, probabilmente
uno dei più antichi collegamenti tra i
due centri. Metteva in comunicazione
una serie di casolari ormai
abbandonati o trasformati in ovili posti
sui crinali dei valloni che confluiscono
nella fiumara Amendolea.
Sentieri
Bova è collegata a Delianuova da un
sentiero (segnavia bianco-rosso) che
valica l’Aspromonte.
Bova
La fiumara Amendolea e il paese di Roghudi
147
DESCRIZIONE
DEL SITO
a cura di Andrea Provenzano
È la fiumara Amendolea, la più
imponente dell'intero Aspromonte, il
motivo ricorrente di questo sentiero.
La si domina dapprima dall'alto con
ampi panorami che giungono sino al
mare e all'Etna per poi avvicinarsi
sempre più come risucchiati ed attratti
inevitabilmente. Nell'ultimo tratto del
percorso infatti ci si ritrova minuscoli
e sperduti nell'immenso alveo del
corso d'acqua con le ripidi pareti della
valle che incombono. Si può quindi
comprendere quanto questa sinuosa
via d'acqua, pietre e sabbia potesse
intimorire i grecanici che erano
costretta a percorrerla ma nel
contempo come fosse fonte di vita per
gli innumerevoli giardini che irrigava.
148
Il sito indagato è l’inizio del sentiero
che collegava Bova a Roghudi. In
località Polemo, infatti, è ancora ben
visibile un breve tratto di selciato. Le
case che si trovano lungo il percorso
erano tutte abitate fino a non molti
anni fa da gente che oggi si è spostata
a Bova. Fino alla fine degli anni ’60
del secolo scorso il sentiero era
percorso tre volte la settimana dal
postino di Bova (ancora vivo ed
arzillo) che si recava a Roghudi per
portare la posta. Dai suoi racconti
emerge che molti degli abitanti,
soprattutto gli anziani della vallata e
anche molti di Roghudi, parlavano
esclusivamente il grecanico,
rendendogli difficile la comunicazione.
Tutt’oggi il sentiero è percorso
dall’unico abitante della vallata e di
Roghudi, il signor Antonino Trapani
(detto lu stiratu) di circa 65 anni, che,
con la sorella, vive vicino al vecchio
centro ormai abbandonato. Il signor
Trapani si reca a Bova per fare la
spesa, portare le olive al frantoio,
andare in farmacia e alla posta,
accompagnato da un paziente asino e
da un cane. Passando vicino casa sua
si ha l’impressione che il tempo si sia
fermato a tanti anni fa: un focolare ed
il minimo per difendersi dai rigidi
inverni, un orto, un piccolo gregge di
capre e mucche, senza energia
elettrica e telefono.
149
In alto: Platì - In basso: Antonimina
In alto: Sfalassà - In basso: Antonimina
In alto: Platì - In basso: Favazzina-Tagli
Reggio Calabria: S. Anna di Ortì
Reggio Calabria: Eremo Botte
Ferruzzano
150
LA
VIABILITÀ IN
ASPROMONTE
a cura di Alfonso Picone
Tra i segni della frequentazione
dell’Aspromonte da parte dell’uomo vi
sono le strade, i sentieri, le vie,
insomma tutto ciò che gli ha
consentito di percorrere questo
territorio. Ma per quanto riguarda la
viabilità antica lo studio è difficile in
quanto rari sono i rinvenimenti
archeologici di tratti di strade ed
incerta è la loro datazione. Tuttavia
l’intento di dedicare una parte della
nostra piccola indagine a tale tema
deriva dai numerosi brandelli di vie,
selciate e non, che abbiamo incontrato
lungo il nostro camminare in questa
montagna. La capillarità di tale
sistema viario conferma ancora una
volta come l’Aspromonte, e la
montagna in genere, non fosse un
ostacolo nelle comunicazioni tra le
genti. Anzi, per un popolo come quello
calabrese, che ha vissuto sempre con
difficoltà il rapporto con il mare, la
montagna ha rappresentato luogo di
transito privilegiato e fonte di risorse.
La viabilità nella montagna reggina si
componeva di due elementi principali.
Le vie istmiche (esistenti già in età
protostorica) che collegavano i due
versanti dell’Aspromonte utilizzando le
fiumare (d’estate) o i percorsi di
crinale. Questi valicano la dorsale
grazie a passi come quello di Cancelo,
del Mercante e piani come quelli della
Limina, di Zillastro. Lungo la dorsale
appenninica, poi, la natura stessa
offre un percorso in gran parte
pianeggiante ed a quote di rado
superiori ai 1.000 m che attraversa
tutto l’Aspromonte allungandosi, lungo
l’asse SO-NE, dai piani di Zervò sino a
quelli della Limina: è la cosiddetta Via
Grande, toponimo ancora riportato
sulle vecchie tavolette dell’I.G.M.
I due elementi (vie istmiche e dorsale
appenninica) costituivano quindi un
sistema a spina di pesce che
consentiva di percorrere agevolmente
l’Aspromonte. L’efficienza di tale
viabilità è attestata da numerose
testimonianze. Gli abitanti di un
paesino della vallata dell’Amendolea
ricordano ancora che Maru Gnoccu
faceva Grécia (località montana sopra
Gallicianò) – Reggio e ritorno in un
giorno. Agli inizi del secolo scorso, il
viaggiatore inglese Norman Douglas,
impiegò una giornata per recarsi da
Delianova a Bova.
Negli ultimi decenni, tuttavia, le aree
interne dell’Aspromonte hanno visto
una notevole diminuzione demografica.
Gran parte della popolazione si è
spostata sulla costa ed i sistemi viari
collegano ora quasi esclusivamente la
marina con i pochi centri interni e non
più questi tra di loro.
Le vie interne sono state quindi
abbandonate e l’incuria ma
soprattutto l’ignoranza sta
cancellando questo patrimonio.
Molte le abbiamo segnalate alle
autorità ed agli studiosi ed alcune
sono state oggetto di indagini. Tuttavia
nel breve volgere di un decennio molte
sono scomparse. È per tale motivo che
ne presentiamo una breve rassegna, di
certo parziale rispetto all’esistente.
STORIE
E LEGGENDE
a cura di Mimmo Cuppari
E tutt’ora viva la leggenda che lungo il
sentiero e precisamente dove questo
si biforca per scendere nella località
Foculiu, le Narade (Nereidi) la mattina
presto, prima del sorgere del sole,
aspettavano le donne di Bova che si
recavano a fare il bucato nel greto
della fiumara Amendolea per
percorrere un tratto di sentiero
insieme e fare qualche dispetto.
151
Samo: monte Perre
San Luca
Si racconta che una volta all’imbrunire
una signora chiamò la vicina ad alta
voce e si accordò con quella per
andare insieme la mattina dopo a fare
il bucato nella fiumara Amendolea.
La Nnarata aveva seguito la
conversazione tra le due comari e
perciò la mattina dopo, quando era
ancora buio, si presenta davanti la
casa della comare, la chiama e
spacciandosi per l’altra comare le
chiede se è pronta per andare a fare il
bucato. Quella, meravigliata,
domanda:
– Comu mai cummari venistivu kusì
prestu?
E la Nnarata risponde:
– Non ndavjva kkiù sonnu e poi cusì non
di pigghja lu suli pe strata.
La comare un po’ timorosa si prepara,
esce e s’incamminano, lei avanti e la
Nnarata dietro.
Vedendo che l'altra è silenziosa, il che
non era nelle sue abitudini, si
insospettisce e la fa passare davanti.
A questo punto si accorge che la
comare, pur avendo la veste lunga,
mentre cammina fa scintille con i
piedi sul selciato. (Le Narade erano
degli esseri che pur avendo sembianze
femminili, al posto dei piedi avevano
gli zoccoli e non sopportavano la luce
L’antico acciotolato di accesso al paese
abbandonato di Africo vecchio
solare). La donna capisce, perciò, che
quella comare che la precede è una
Nnarata e inventandosi la scusa di
aver dimenticato di prendere con sé il
sapone, dice alla falsa comare:
– Mi son dimenticata di prendere il
sapone; mi aspettate qua e mi
guardate la truscia fintanto che ritorno
a prenderlo?
(Truscja: lenzuolo o altro telo con
annodati insieme i quattro angoli a
forma di fagotto contenente all’interno
un qualcosa. In questo caso i panni
sporchi.)
– E la Nnarata:
– Va bene, vi aspetto ma non vi
ddjmuratj (non impiegate molto
tempo).
La donna torna a casa e tutta
impaurita si chiude dentro in attesa
che faccia giorno.
Intanto la Nnarata aspetta, e aspetta
che ti aspetta, il tempo passa ed inizia
a fare giorno. È a questo punto che la
Nnarata, che non sopporta la luce del
sole, capisce che la donna l’ha
ingannata, ed infuriata si avventa sulla
truscia strappando e disperdendo
tutt’intorno i panni. Mentre i primi
raggi del sole cominciano a
raggiungere la terra, la Nnarata
scompare insieme alle tenebre.
La donna ancora rinchiusa in casa
viene raggiunta questa volta dalla vera
comare con la quale avevano
l’appuntamento. La donna racconta
alla comare i fatti ed ormai, con il sole
alto, decidono di andare a prendere la
truscia, ma arrivati in loco trovano
tutti i panni ormai inutilizzabili.
Storia realmente accaduta o leggenda?
Nessuno può dircelo.
BIBLIOGRAFIA
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L’intervento distruttivo delle ruspe nel
2001
AUTORI
Redazione testi: D. Cuppari, A.
Provenzano, A. Picone
Rilievi e rielaborazione grafica: Studio
Riproarc di cons. arch. Claudia
Cutrupi
Foto: C. Cutrupi, A. Picone
SAUCCIO
Altre denominazioni
Saguccio
Collocazione
Località Sauccio Comune di Bagaladi
Coordinate
Carte I.G.M. scala 1:25.000
F° 602 II San Lorenzo
Long. 573171 lat. 4214126
Quota
1.054 m s.l.m.
COME
ARRIVARE
Avvicinamento in auto
Sauccio si trova circa 15 km a monte
di Bagaladi, seguendo la S.S. 183. Ad
un quadrivio con un piccolo
agglomerato di case ed un bar lasciare
la statale e prendere a destra. Una
stradina in piano entra in una fitta
pineta ma poi scende aprendosi sulla
vallata della fiumara Melito e
giungendo, dopo 2 km, a Sauccio. Vi
si può giungere anche da Gambarie
lungo la S.S. 183 o da Reggio Calabria
seguendo la ripida ma panoramica
strada che da Gallina sale a Monte
San Demetrio ed ai Piani di Lopa.
Percorso a piedi: difficoltà T
Sentieri
Chi volesse camminare, dopo la visita
di Sauccio, può seguire la strada, che
diviene sterrata, e che in 2 km porta al
greto della fiumara di Melito.
Risalendo, di poco, il corso d'acqua, si
raggiungono i resti del mulino.
Tornando alla pista e seguendola
sull'altro versante della valle si
raggiunge monte Peripoli.
153
154
Bagaladi
TERRITORIO
CIRCOSTANTE
Il centro abitato è posizionato a metà
costa di un versante del torrente
Tuccio, in posizione soleggiata, ai
margini di un piccolo pianoro, che
costituisce la zona coltivata del
territorio. Il villaggio è immerso nel
verde dei boschi soprastanti e della
macchia mediterranea tipica dei
versanti aspromontani. La vegetazione
arborea è costituita da castagno (molti
dei quali secolari), pino calabro da
rimboschimento e, in presenza
notevole, arbusti di ginestra. La
fiumara sottostante, il cui letto è molto
stretto, è ricchissima d’acqua che
scende a valle superando salti naturali
con magnifiche cascate. La
vegetazione qui è costituita
prevalentemente da ontano nero.
Molte sono le sorgenti d’acqua
all’interno dell’abitato e lungo la
strada che porta al torrente.
Sauccio
155
Prospetto laterale
ATTUALI
Prospetto frontale
CONDIZIONI DEL SITO
Allo stato attuale il centro è quasi
completamente disabitato, anche se
ancora poche persone coltivano i
terreni di loro proprietà e, quindi,
hanno fatto manutenzioni ordinarie
nelle case, dove a volte soggiornano
per più giorni la settimana.
L'economia agricola e quasi del tutto
scomparsa e le coltivazioni servono
soltanto per il sostentamento
familiare.
156
ORIGINI,
FONTI, STORIA DEL SITO
La storia di Sauccio è relativamente
recente, infatti, fino alla fine
dell'Ottocento non vi erano residenti
nella frazione e i terreni, di proprietà
di famiglie residenti a Cardeto,
venivano coltivati dagli stessi che
facevano la spola tra Cardeto e
Sauccio. Le uniche costruzioni presenti
sul territorio erano costituite da
pagliai tronco conici con la base
circolare di pietra posta a secco e
copertura di frasche
impermeabilizzata con foglie e fango,
che servivano da riparo temporaneo.
Agli inizi del Novecento, i figli dei
vecchi proprietari iniziano a sposarsi e
a stabilirsi definitivamente a Sauccio
creando il primo nucleo della comunità
saucciota. I primi fanno parte della
famiglia Megale, che oltre a essere
agricoltori, fondano una delle prime
attività manifatturiere nella zona.
Infatti, nella località ora detta Mulino,
impiantano l'attività della battenderia,
antico sistema per l'infeltrimento dei
tessuti di lana, e iniziano a sfruttare
l'energia idraulica prodotta con le
acque del vicino torrente.
Con tale attività, unica nella zona, si
produceva un particolare tipo di
tessuto di lana infeltrita, chiamato
orbace, tessuto reso impermeabile da
questo procedimento e adatto a
confezionare i mantelli e i calzoni dei
pastori. Essendo mosso dalla forza
dell'acqua, il battinderi velocizzava il
processo di infeltrimento e tutti i
contadini e pastori della zona,
conferivano qui i tessuti prodotti
artigianalmente nelle proprie dimore
per l'infeltrimento, operazione che in
altre zone come la Bovesia, veniva
svolta all'interno delle abitazioni a
forza di braccia e gambe.
Il funzionamento ininterrotto del
battinderi necessitava di molto
Teleferica
Planimetria
157
combustibile per alimentare l'enorme
caldaia e questo ha prodotto il veloce
disboscamento dei due versanti del
torrente.
Intanto, altre famiglie si erano
stanziate sul territorio, diventando
agricoltori-pastori, e si continuò a
costruire case in muratura, dapprima
nella località chiamata Maro Nino, un
po’ più a valle della località Mulino e
poi a Sauccio, creando quello che oggi
è il centro abitato.
Con l'aumento della popolazione,
aumentano in maniera proporzionale i
terreni coltivati. Inizia l'attività di
terrazzamento dei versanti e il
convogliamento delle acque sorgive
per l'irrigazione. Vengono stabiliti usi
dei suoli e delle acque che tuttora
permangono e ha inizio così lo
sviluppo della comunità.
Con l'inizio della guerra e
l'imposizione della tassa sul macinato,
l'antico battinderi viene convertito in
mulino e inizia la macinatura dei
cereali. Intanto si sviluppano attività
artigianali collaterali, tra cui la più
importante è la costruzione delle
ciaramelle, antichi strumenti musicali,
che ha raggiunto il massimo sviluppo
con Antonino Megale.
Intanto la comunità saucciota si
afferma sempre più sul territorio,
stringendo legami con i paesi
circostanti in cui si approviggiona dei
beni di prima necessità che non
riusciva a produrre attraverso il
sistema del baratto di prodotti agricoli
e della pastorizia.
Oltre che intrattenere rapporti
commerciali con le comunità
circostanti, i sauccioti hanno stretto
con queste solidi legami culturali,
manifestatisi in veri e propri
gemellaggi, che prevedevano lo
scambio di visite in particolari periodi
dell'anno, soprattutto a Carnevale.
Il fatto che gli abitanti fossero
proprietari dei terreni che coltivavano,
li poneva in un gradino superiore
rispetto agli abitanti del territorio
circostante, per lo più coloni di grandi
proprietari terrieri, il cui misero
guadagno spesso non bastava a
sostenere la famiglia.
Quindi la comunità, non solo si è
sviluppata in maniera veloce, ma ha
anche scelto le linee di sviluppo,
senza imposizioni o costrizioni
esterne.
Questo tipo di economia, basato sulla
quasi totale autosufficienza, ha retto
fintanto che il sistema del baratto non
è stato definitivamente sostituito dagli
scambi monetari.
Il bisogno di denaro ha provocato le
prime migrazioni intorno agli anni '60,
che da allora non si sono mai
arrestate fino a provocare il totale
spopolamento del sito che è avvenuto
nel 2000.
La saitta del mulino
158
La storia di Sauccio rappresenta,
pertanto, la storia di una comunità
che nell'arco di un secolo nasce, si
sviluppa e muore.
La velocità con cui la frazione nacque
ed il numero di abitanti che ha
raggiunto (fino a 120 circa), faceva
presumere una costante crescita
economica, ma così non è stato.
Infatti, l’economia basata
sull'autosufficienza, all'inizio resse.
Man mano che la comunità cresceva e
i figli si sposavano, i terreni venivano
divisi in parti uguali tra i figli, ma il
criterio guida era sempre quello
dell'autosufficienza, così un
proprietario che aveva ad esempio
cinque figli e cinque appezzamenti di
terreno di cui uno era irriguo, un'altro
seminativo, ecc. dava a ciascuno dei
figli la quinta parte di ogni
appezzamento, in maniera tale da
assicurare la sussistenza della nuova
famiglia. Questo sistema di divisione
dei beni ha portato a una estrema
parcellizzazione del territorio, ancora
159
sufficiente per l'economia del baratto,
ma non sostenibile con la nuova
economia basata sugli scambi
monetari.
Negli anni Cinquanta del secolo
scorso, tutti i proprietari dei terreni
che erano venuti in possesso degli
stessi attraverso semplici accordi
verbali, si riuniscono alla presenza di
un notaio e legalizzano con un atto di
divisione la proprietà dei beni.
Tuttavia questo atto non è stato
seguito da un frazionamento della
proprietà che risultava ancora
indivisa, proprio per l'elevata
parcellizzazione delle particelle.
Dagli anni Sessanta in poi si
assistette al declino della comunità,
in quanto i figli man mano che
crescevano emigravano all'esterno in
cerca di lavoro come operai, e la
mancanza di braccia da impiegare
nell'agricoltura e nella pastorizia ha
portato all'abbandono della maggior
parte delle terre coltivate. Gli ultimi
nuclei familiari, per lo più costituiti
da persone anziane si sono trasferiti
nei centri vicini, in particolare
Bagaladi, Melito e Gallina,
abbandonando definitivamente
Sauccio.
Le case, per mancanza di
manutenzione stanno oramai
crollando, e i terreni coltivati sono
sempre più ridotti. Sono oramai pochi
pensionati che nei fine settimana
ritornano a Sauccio e coltivano per
hobby un pezzettino di terra, i
superstiti di quella che è stata una
comunità fiera e orgogliosa.
AUTORI
Redazione testi: arch. Giuseppe
Battaglia
Rilievi: geom. Roberto Laganà
Foto: A. Picone
160
BIBLIOGRAFIA
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162
INFORMAZIONI SUI SITI
All’indagine sui segni dell’uomo nelle terre alte in Aspromonte abbiamo ritenuto importante, come già fatto
in altre ricerche condotte dal CAI, accompagnare gli strumenti conoscitivi per una loro fruizione.
La descrizione degli itinerari e l’indicazione delle coordinate geografiche consente di accedervi abbastanza
agevolmente. È bene ricordare comunque che si tratta di camminate che si svolgono in montagna ed in un’area protetta dove è necessario avere attrezzatura ed abbigliamento idoneo, ma soprattutto prudenza e rispetto per l’ambiente.
Infine per chi vuol trascorrere qualche giorno di vacanza nel Parco indichiamo alcune strutture ricettive e riferimenti telefonici per le principali aree riguardanti i siti.
• Saguccio: Porta del Parco “Frantoio Jacopino” (Bagaladi), Giuseppe Battaglia cell. 339 1021274.
• Villaggio UNRRA, Torre Carditto, Altanum: Rifugio Montano “Valle Spana” (Mammola) tel. 0964 414598
cell. 339 7888079.
• Siti nei pressi di Zomaro (Cittanova): Ostello Zomaro, Gaetano Caminiti tel. 0966 625006.
• Pietra Salvo, monte Fistocchio: Rifugio “Il Biancospino” loc. Carmelia (Delianuova), Antonio Barca
(guida del Parco) tel. 0966 963154 - cell. 333 3685838.
• Siti nei pressi di Zervò (S. Cristina): Comunità Incontro (presso ex-sanatorio) 0966 870297.
• Montalto (Gambarie): Consorzio Turistico tel. 0965 744002, Assotur tel. 0965 743061.
• Alica, Polemo: coop. San Leo (Bova), Andrea Laurenzano (guida del Parco) tel. 0965 762165
cell. 347 3046799.
• Monte Tre Pizzi: azienda agrituristica ‘A Sena-Runcatini (Ciminà) tel. 0964 334839.
• Siti tra Samo e San Luca: Consorzio del Turismo Verde EOS tel. 0964 22526.
163
Il Club Alpino Italiano nasce sul Monviso nel 1863, dall'idea di Quintino Sella, scienziato e statista, che volle
riunire gli alpinisti italiani in un club. Ma gli anni non ci pesano perché sono serviti a costituire il nostro ricchissimo bagaglio d'esperienza. Un patrimonio fatto di puro volontariato. Oggi il CAI conta quasi 800 tra
sezioni e sottosezioni presenti in tutte le regioni d’Italia con oltre 300.000 soci. Realizza iniziative in molti
campi con attenzione agli aspetti tecnici, naturalistici e culturali delle montagne. Alcuni praticano l’arrampicata, i più preferiscono l’escursionismo, ma tutti con il comune intento di entrare a contatto con la natura, apprezzandone gli aspetti più significativi. Per far parte del CAI non sono quindi necessarie doti particolari ma spirito di gruppo, voglia di camminare e un pizzico di sana curiosità.
La Sezione Aspromonte
Fondata nel 1932 a Reggio Calabria, la Sezione Aspromonte gode oggi di ottima salute e vanta un alto numero di giovani tra i propri iscritti. Possiede una struttura a Gambarie (1310 m s.l.m.). Ogni anno organizza circa
30 escursioni con la partecipazione di oltre mille tra soci e simpatizzanti. Anche l’impegno culturale e formativo è intenso con cicli di conferenze su temi vicini alla civiltà montana ed orientati alla conoscenza del territorio. L’attività principale è l’escursionismo, favorito da una montagna come l’Aspromonte che consente itinerari in ogni stagione. Ma anche l’Etna, il Pollino, la Sila e le Isole Eolie per i fine settimana, e poi le Alpi,
per trekking di più giorni. E dovunque tanti amici che ci guidano sulle loro montagne. Ma il CAI non è solo
escursionismo: i soci possono praticare lo sci, la speleologia, l'arrampicata, la mountain bike, il torrentismo
e tante altre attività. I motivi per camminare insieme sono davvero tanti !
CLUB ALPINO ITALIANO
Sezione Aspromonte
www.caireggio.it - [email protected]
sede sociale: via S. Francesco da Paola, 106
apertura: giovedì ore 21 (eccetto i mesi estivi)
recapito postale: c. p. 60 - 89127 REGGIO CALABRIA
tel. fax e segreteria: 0965 898295
164
40.000 ettari di rigogliosa superficie boschiva ed una grande e rara varietà di specie animali e vegetali (l’aquila del Bonelli e la gigantesca felce tropicale Woodwardia radicans, tanto per citarne alcune) costituiscono il patrimonio naturalistico del Parco Nazionale dell’Aspromonte.
Non solo i monumenti naturali (pietre, fiumare e cascate) ed i boschi ma anche le numerose testimonianze
storiche, artistiche e culturali caratterizzano questo estremo lembo della penisola italiana, che si estende per
76.178 ettari ed abbraccia 37 Comuni della Provincia di Reggio Calabria: Africo, Antonimina, Bagaladi, Bova,
Bruzzano Zeffirio, Canolo, Cardeto, Careri, Ciminà, Cinquefrondi, Cittanova, Condofuri, Cosoleto,
Delianuova, Gerace, Mammola, Molochio, Oppido Mamertina, Palizzi, Platì, Reggio Calabria, Roccaforte del
Greco, Roghudi, Samo, San Giorgio Morgeto, San Lorenzo, San Luca, San Roberto, Santa Cristina
d'Aspromonte, Sant'Agata del Bianco, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Santo Stefano in Aspromonte, Scido,
Scilla, Sinopoli, Staiti, Varapodio.
L’ istituzione del Parco Nazionale dell’Aspromonte - prevista da una legge del 1989 con la quale si intendeva creare una grande area protetta autonoma dal Parco Nazionale della Calabria (istituito nel 1968) e formalizzata dalla Legge Quadro sulle aree protette (n. 394 del 1991) – si realizzò concretamente nel 1994 quando,
con D.P.R. datato 14 gennaio, fu istituito l’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte.
L’Ente è quindi responsabile della salvaguardia di un patrimonio ambientale che è straordinario sotto l’aspetto biologico, naturalistico e scientifico, nonché della sua valorizzazione attraverso azioni di educazione
e di promozione culturale nei confronti della collettività affinché il rispetto e la difesa della natura diventino elemento costante della vita di tutti. L’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte è inoltre attivamente impegnato sul terreno della promozione di uno sviluppo locale sostenibile, in grado di assicurare alle popolazioni locali condizioni di vita basate su forme d’economia moderne ma rispettose delle tradizioni più sane e
genuine.
Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte
Via Aurora – 89050 GAMBARIE di Santo Stefano in Aspromonte RC
Tel 0965 743060 fax 0965 743026
www.parcoaspromonte.it - [email protected]
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INFORMAZIONI UTILI
SEI REGOLE PER L’ESCURSIONISTA
LA CARTOGRAFIA
Chi volesse approfondire la conoscenza del territorio può consultare le pubblicazioni indicate
in bibliografia e dotarsi della cartografia dettagliata dei sentieri:
– Carte dell’I.G.M.I. scala 1:25.000, indicate
nella descrizione dei siti;
– Carta Escursionistica della Calabria – Aspromonte
scala 1:50.000;
– Atlante del T.C.I. scala 1:200.000, per le strade
di accesso alle aree dei siti.
1) Per le tue escursioni in montagna,
scegli itinerari in funzione delle tue
capacità fisiche e tecniche,
documentandoti adeguatamente sulla
zona da visitare. Se cammini in gruppo
prevedi tempi di percorrenza in relazione
agli escursionisti più lenti.
2) Provvedi ad un abbigliamento ed
equipaggiamento consono all’impegno e
alla lunghezza dell’escursione e porta
nello zaino l’occorrente per eventuali
situazioni di emergenza, assieme ad una
minima dotazione di pronto soccorso.
I SENTIERI
3) Di preferenza non intraprendere da
solo una escursione in montagna e, in
ogni caso, lascia detto a qualcuno
l’itinerario che prevedi di percorrere,
riavvisando al tuo ritorno.
La difficoltà degli itinerari è sintetizzata dalle
lettere:
T = Turistico (facile);
E = Escursionistico (media difficoltà);
4) Informati sulle previsioni
meteorologiche e osserva constantemente
lo sviluppo del tempo.
EE = Escursionisti Esperti (difficile).
TELEFONI UTILI
5) Nel dubbio torna indietro. A volte è
meglio rinunciare che arrischiare
l’insidia del maltempo o voler superare
difficoltà di grado superiore alle proprie
forze, capacità, attrezzature.
Parco Nazionale dell’Aspromonte
0965 743060
Corpo Forestale dello Stato 0965 591800
Guide Ufficiali del Parco 348 3368079
Club Alpino Italiano sezione Aspromonte
0965 898295
Soccorso Alpino 368 7402003
A.P.T. 0965 21171
6) Riporta a valle i tuoi rifiuti. Rispetta
la flora e la fauna. Evita di uscire dal
sentiero e di fare scorciatoie. Rispetta le
tradizioni locali ricordandoti che sei
ospite delle genti di montagna.
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Segni dell`uomo NELLE TERRE ALTE d`Aspromonte