Segni dell’uomo NELLE TERRE ALTE d’Aspromonte A cura di Alfonso Picone Chiodo Pubblicazione realizzata con il contributo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio Si ringraziano A.FO.R. (Azienda Foreste Regionali) Archeoclub d’Italia, sede di Reggio Calabria Associazione delle Guide Ufficiali del Parco C.T.A. (Coordinamento Territoriale per l’Ambiente del C.F.S.) Comune di Bagaladi Comune di Cittanova Cooperativa San Leo di Bova Deputazione per la Storia Patria Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte Fondazione Corrado Alvaro Soprintendenza Archeologica per la Calabria Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria Facoltà di Architettura Università della Calabria Le informazioni turistiche contenute nel libro possono essere soggette a variazioni, nessuna indicazione ha valore assoluto. Decliniamo quindi ogni responsabilità per eventuali inconvenienti subiti dal lettore e ringraziamo quanti vorranno segnalarci eventuali variazioni o inesattezze. Cura editoriale: Giuseppe Pontari Grafica: Carla Carbone Copyright © 2005 Edimedia edizioni www.edimedia.net Edimedia di Concetta Giuffré & C. s.a.s. 51012 Pescia PT Via Degli Alberghi 61 Tel./fax 0572444987 e-mail [email protected] Tutti i diritti di riproduzione anche parziale del testo e delle illustrazioni sono riservati per tutti i Paesi ISBN 88-86046-29-4 Finito di stampare nel mese di giugno Stampa: Rubbettino INDICE PREMESSA PRESENTAZIONE INTRODUZIONE L’eloquenza dei segni A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese Un po’ di storia in Aspromonte Aspromonte: l’ambiente Terre alte in Aspromonte 1. I ruderi di Pietro 2. Pietra Salva 3. Le muraglie antique del monte Fistocchio 4. Croce di Toppa 5. Palazzo di Zervò 6. La pietra di San Trabus 7. Palazzo di Zomaro 8. Bragatorta 9. Calcara 10. Altanum 11. Torre Carditto 12. Villaggio U.N.R.R.A. 13. Chiesa dei SS. Pietro e Paolo 14. Rocche di San Pietro 15. San Giorgio di Pietra Cappa 16. Pietra Castello 17. Precacore 18. La grotta di Nino Martino 19. Gli ovili di monte Perre 20. Chiesa di S. Maria dell’Alica 21. La ‘nsilicata di Polemo 22. Sauccio BIBLIOGRAFIA Informazioni sui siti Il CAI sez. Aspromonte Il Parco Nazionale dell’Aspromonte Montalto Delianova Scido Santa Cristina Oppido Mamertina Cittanova Cittanova Cittanova Cittanova San Giorgio Morgeto San Giorgio Morgeto Mammola Ciminà Natile Vecchio San Luca San Luca Samo Samo Samo Palizzi Bova Bagaladi 7 9 11 13 15 17 21 27 31 35 39 41 45 47 55 57 63 69 77 79 87 99 107 121 129 131 141 147 153 161 163 164 165 PREMESSA ’Aspromonte ha fama d’essere inaccessibile, selvaggio e da queste caratteristiche sembra conseguente discenda una natura primordiale e l’integrità degli ecosistemi naturali. Ciò è vero in parte perché non vi è luogo di questa montagna dove l’uomo non sia giunto ed abbia lasciato il segno della sua presenza. Nel nostro camminare lungo i sentieri (ma spesso al di fuori di essi) sono frequenti gli incontri con segni della presenza dell’uomo e su di loro ci siamo sempre interrogati per capire quale fosse la vita di quanti abitavano l’Aspromonte. Molto ci è stato chiarito dai numerosi studiosi che, ormai da oltre un decennio, ci affiancano in questa ricerca ma il progetto supportato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ci ha consentito di approfondire tale indagine e, soprattutto, curarne la divulgazione con questo libro. I siti individuati, scelti da un lungo elenco, sono stati oggetto di studio e di indagine secondo le seguenti fasi: – ricerca bibliografica preliminare; – acquisizione del corredo cartografico; – ricerca sul campo; – documentazione fotografica e grafica dello stato di fatto; – divulgazione dei risultati presso alcuni istituti scolastici della provincia con organizzazione di visite guidate. Finalità del progetto sono: produzione di documentazione di questi “segni”; tutela di tali risorse; migliorare la qualità dei servizi culturali per la valorizzazione di tale patrimonio; promozione della conoscenza e della divulgazione tramite la pubblicazione di prodotti editoriali. Il progetto ha visto il coinvolgimento di numerosi enti. Sono inoltre tanti gli studiosi ed esperti locali che, con pazienza, ci hanno aiutato in tale opera. È a tutti che va il nostro più sentito ringraziamento. L 7 Ci auguriamo pertanto che tale impegno corale contribuisca alla conoscenza ed alla corretta fruizione di questi luoghi negletti e dell’intero territorio del Parco. Ma già si vedono segni “moderni” dell’uomo nelle terre alte dell’Aspromonte che ci fanno ben sperare: guide, cooperative ecoturistiche, rifugi, ecc. La nostra infatti non è stata un’operazione nostalgica ma un tentativo di conoscere il nostro passato per dare speranza al futuro. Alfonso Picone Chiodo 8 PRESENTAZIONE na stretta fascia costiera da Reggio Calabria si allunga sul Tirreno e lo Ionio recingendo una delle più suggestive zone d’Italia: l’Aspromonte, un ventaglio aperto su due mari. Da un ambiente di tipo mediterraneo si passa in breve tempo sulle pendici del massiccio cristallino che digrada verso il mare con una serie di imponenti gradinate note come “piani” o “campi”, terrazze naturali dalle quali è possibile ammirare le fiumare biancheggianti scorrere lungo i pendii della montagna sino a lambire la fascia costiera. La perfetta convivenza tra ambiente marino e paesaggi montani offre panorami ineguagliabili dai colori intensi che si alternano, si fondono, sfumano gradatamente dando vita ad una gamma cromatica sorprendente. Sulle cime di questo massiccio boscoso, coperte da querce, lecci, pini, faggi e abeti, è possibile cogliere ovunque notevoli presenze storiche, artistiche e archeologiche, testimonianze della cultura arcaica, classica, greca, medievale e moderna nonché tracce della civiltà montana che, a causa del progressivo esodo dalle montagne, rischia di andare completamente perduta. Siti archeologici, fortificazioni belliche, edifici religiosi, romitori, incisioni su roccia, borghi abbandonati ed insediamenti pastorali costituiscono un vero e proprio patrimonio naturale e culturale da tutelare e valorizzare. Rileggere la montagna in termini di ricchezza ambientale e culturale consente di salvaguardare non solo gli aspetti naturalistici e geografici di questi territori, ma di tenere nella giusta considerazione il rapporto dialettico tra l’uomo e l’ambiente. Questa esigenza di un recupero, di una riscoperta delle Terre Alte dell’Aspromonte, attraverso i “segni dell’uomo” come criteri guida per un nuovo rapporto uomo-natura, è il messaggio racchiuso in questo pregevole volume curato dalla sezione di Reggio Calabria del Club Alpino Italiano che offre al lettore l’opportunità di avvicinarsi alle problematiche antropiche delle aree interne, attraverso l’interesse per una valorizzazione autentica del territorio montano oltre i confini puramente fisici della montagna stessa, rivalutando l’aspet- U 9 to culturale e antropologico, arginando il fenomeno del recente abbandono, per riscoprire, rivivere, far conoscere e visitare con una consapevolezza diversa questi bellissimi luoghi. Dott. Aldo Cosentino Direttore Generale della Direzione per la Protezione della Natura Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio 10 INTRODUZIONE er iniziativa di Quintino Sella, ben 140 anni or sono venne fondato il Club Alpino Italiano. L’art. 1 dello Statuto originario recitava che « …il Club ha per iscopo la conoscenza e lo studio delle montagne… » Nei tanti anni successivi il fine sociale si è ampliato e precisato, si sono aggiunti da una parte la pratica dell’« …alpinismo, in ogni sua manifestazione… » e dall’altra « …la difesa dell’ambiente naturale… » della montagna. Come tutti gli altri Club Alpini Europei, il CAI nasce come Associazione culturale, e tale anima rimane a renderne nobile l’azione, anche se è più conosciuto il volto dell’organizzazione della frequentazione della montagna nel tempo libero dei cittadini, con la rete dei rifugi e dei sentieri segnati, delle grandi imprese sportive e dell’educazione ambientale. Anche con questo spirito opera il gruppo di studio “TERRE ALTE”, costituitosi nel 1991 all’interno del Comitato Scientifico Centrale. È infatti lo stato di “emergenza culturale” in cui si trovano vaste aree della montagna italiana che risulta particolarmente preoccupante, e di cui il Gruppo coordina a livello nazionale una vasta operazione di censimento, documentazione e catalogazione dei “segni” della presenza umana in quota. Infatti a causa dell’abbandono o dell’introdursi di nuove attività turistiche o sportive, tali segni si stanno rapidamente degradando o rischiano di scomparire, comportando la perdita di un patrimonio storico culturale sulle “terre alte”. La documentazione di questi “segni” ha compreso inizialmente reperti in pietra scheggiata, incisioni rupestri, cippi confinari, sentieri lastricati o selciati, ricoveri pastorali; in una fase successiva ci si è proposto l’ambizioso disegno di una documentazione esaustiva di tutte le forme dei segni della presenza storica dell’uomo nel territorio. Dove è in corso (Bergamasca, Liguria, monte Linas (CA), provincia di Rieti e, più recentemente, in Aspromonte), ci si è resi conto che è molto impegnativa e richiede la mobilitazione di conoscenze e competenze specialistiche a tutto campo, di collaborazioni istituzionali, di congrue disponibilità finanziarie. P 11 È quanto si sta facendo in Aspromonte dove la sezione del CAI di Reggio Calabria, grazie ad un contributo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, ha condotto una ricerca che ha visto il coinvolgimento di diversi ed importanti soggetti istituzionali. La pregevole pubblicazione che presentiamo da conto di una parte della ricerca che, siamo certi, produrrà altri frutti. Prof. Oscar Casanova Commissione Protezione Montagna UIAA (Unione Internazionale Associazione Alpine) Ricercatore del gruppo “Terre Alte” del Comitato Scientifico Centrale del Club Alpino Italiano 12 L’eloquenza dei segni a conoscenza delle montagne realizzata attraverso una loro consapevole frequentazione è stata la sfida che il Club alpino italiano ha lanciato fin dalla sua nascita, quando l’Italia si stava faticosamente formando e le diverse regioni storiche e geografiche incominciavano a ripensarsi all’interno di un disegno unitario. Il carattere nazionale del Sodalizio ha significato dai suoi esordi una chiara volontà etica e sociale partita da una Torino subalpina sempre più proiettata fuori dai propri confini regionali. “Testimonial” d’eccezione è stato proprio il calabrese Giovanni Barracco che Quintino Sella ed i suoi amici piemontesi hanno voluto intenzionalmente coinvolgere nel concepimento del Sodalizio avvenuto in punta al Monviso il 12 Agosto del 1863. Alpi ed Appennini hanno incominciato così a rappresentare il terreno di elezione di una pratica della montagna finalizzata anzitutto all’esplorazione del territorio. Un territorio da far conoscere soprattutto ai giovani per rafforzare in loro un sentimento di appartenenza da condividere sia sul piano materiale che su quello simbolico. Le prime scelte operative di quasi tutte le Succursali del Sodalizio (le attuali Sezioni) hanno, infatti, riguardato lo studio degli aspetti naturalistici e storico-culturali delle rispettive aree geografiche nella convinzione che i territori montani, anche i più modesti per altitudine e notorietà, dovessero avere pieno diritto di cittadinanza nelle attività di istituto del Sodalizio. Proprio questo appello alla montagna minore e meno conosciuta rappresenta un richiamo forte alle origini di cui oggi abbiamo sempre più bisogno per conferire nuovo senso al nostro essere Soci. Le tendenze della società attuale, proiettate sempre più verso la cultura della performance atletica e sportiva, rischiano di “colonizzare” e stravolgere anche le motivazioni più autentiche del nostro “andar-permonti”, di far prevalere scopi e finalità che non ci appartengono in nome dei “fuochi fatui” delle mode. Ma se la modernizzazione degli approcci alla montagna attraverso nuove tecniche non ci deve lasciare indifferenti, decisivo deve però essere il monito a perseguire gli scopi e le finalità conoscitive ed esplorative di cui questa vostra lodevole iniziativa di ricognizione culturale delle “terre alte” di Calabria rappresenta un L 13 esempio virtuoso. Il Club alpino italiano, soprattutto nei territori più periferici della Penisola, è chiamato a testimoniare a favore di quell’opera di ri-territorializzazione e di ri-alfabetizzazione sempre più minacciate dall’omologazione livellatrice dei “non-luoghi”. Tutte le montagne sono infatti importanti giacimenti culturali di presenze umane che, in epoche diverse, hanno lasciato segni solo apparentemente muti quanto estremamente eloquenti per chi sa de-codificarli e leggerli con passione ed entusiasmo. L’invito che rivolgo a tutti gli amici impegnati in queste attività di ricerca è di contribuire, attraverso la conoscenza e lo studio del territorio, a demolire lo stereotipo della montagna come “luogo marginale” (per fatalismo o per definizione geografica) e far emergere, invece, l’idea forte che la marginalità è, soprattutto, figlia dell’emarginazione la quale – in ultima analisi – rappresenta una costruzione ed una scelta culturale di natura etico-politica. Prof. Annibale Salsa Presidente Generale del Club alpino italiano 14 A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese l Club alpino italiano Regione Calabria ha realizzato un progetto per la valorizzazione e la tutela del territorio dei Parchi nazionali della Calabria nell’ambito dell’accordo quadro triennale 2003/2005 sottoscritto tra il Club alpino italiano e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. Il progetto, denominato “A piedi nei Parchi Nazionali dell’Appennino calabrese”, coinvolge le sezioni calabresi di Catanzaro, Castrovillari, Cosenza e Reggio Calabria. Le azioni prevedono l’informatizzazione del catasto dei sentieri mediante G.I.S., la gestione di sentieri, la realizzazione di interventi strutturali presso rifugli, mirati anche a contenere i consumi energetici, la valorizzazione dei segni dell’uomo sulle terre alte e la tutela dell’ambiente montano. La sezione Aspromonte di Reggio Calabria ha ben saputo realizzare a livello locale il progetto riguardante la presenza umana in quota che il Club alpino italiano sta conducendo a livello nazionale. Questo pregevole testo, grazie all’attività di studio e di indagine condotta in collaborazione con Enti qualificati e prestigiosi, evidenzia che l’ambiente del Parco Nazionale dell’Aspromonte ospita, oltre a un patrimonio di eccezionale interesse naturalistico, anche importanti testimonianze della presenza umana nelle terre alte. La pubblicazione di questo volume è una ulteriore prova che viene ad arricchire la fruttuosa collaborazione tra il Club alpino italiano e il Parco Nazionale dell’Aspromonte. Si ringrazia l’Osservatorio Tecnico per l’Ambiente del Club alpino italiano, nella persona del dott. Alberto Ghedina, e la sezione Aspromonte, nella persona del suo incontenibile presidente dott. Alfonso Picone Chiodo, per la particolare attenzione che hanno rivolto per il successo di questo progetto. Auguro che questa iniziativa faccia riflettere molti lettori e sia di esempio per iniziative di più grande portata. I Prof. Antonino Falcomatà Presidente del Club Alpino italiano Regione Calabria 15 16 Un po' di storia in Aspromonte li antichi non distinguevano l'Aspromonte dalle Serre o dalla Sila: la parte montuosa del Bruzio era tutta detta Sila, termine che propriamente significa materia prima, bosco. Infatti per secoli e secoli i monti dell'attuale Calabria furono rinomati preminentemente per due prodotti boschivi: il legname e la pece, che si ricavava dalla resina dei pini. La pece, che trovava un impiego speciale nel calafataggio delle navi, fu usata assai dai Greci, che ne seppero anche ricavare un micidiale prodotto di guerra detto pece greca, efficace come materiale incendiario. Il legname serviva sia per le navi sia per le diverse opere di ingegneria, e specialmente per questo secondo motivo i Romani, quando si impadronirono della terra bruzia, iniziarono un'opera di disboscamento senza scrupoli ecologici. Nonostante ciò, tutti i monti dell'attuale Calabria, e quindi anche il massiccio oggi denominato Aspromonte, erano maestosamente ricchi di manto boschivo e lo rimasero fino a tutto il medioevo, così che molti corsi d'acqua, oggi ridotti a pittoresche e terribili fiumare, erano fiumi navigabili. Gli studi sulla Calabria antichissima ci attestano che fin dalle età più remote le alture della attuale Calabria furono luoghi molto frequentati. Le culture dell'età protostorica vi collocarono di preferenza i centri residenziali e le vie di comunicazione, che permettevano un collegamento celere fra le varie località della nostra terra, fossero esse site nel versante ionico o nel versante tirrenico. A monte e a valle dei centri abitati, la pastorizia e l'agricoltura sfruttavano, secondo le stagioni e le esigenze operative, sia le coltivazioni ed i pascoli vallivi sia quelli di altura. Chi dice oggi che i nostri paesini montani ebbero origine per la fuga dai pericoli delle scorribande marittime, operate soprattutto dai Saraceni, non prende in considerazione né il fatto che l'età in cui si formarono molti abitati di altura fu precedente agli assalti dei Saraceni, né la forte componente tradizionale del ritorno alle scelte abitative già memorizzate da millenni, quando venne meno il particolare richiamo del mare, di cui era portatrice la cultura dell'antica Grecia, e crebbe la moda dell'attività campestre, specialmente durante l'età tardo antica. Per gli antichi coloni greci che, venendo dal mare, si stanziarono nella nostra terra, la montagna, e quindi anche il nostro Aspromonte, oltre ad offrire materiale ligneo e pece, rappresentava due realtà assai diverse: G 17 una, molto attraente, di vasta area commerciale, l'altra di pericolo. Perchè gli indigeni che abitavano le alture avevano tanta esperienza da apprezzare e ricercare i prodotti delle officine greche, abbastanza ricchezza per acquistarli, soprattutto con il baratto di materie prime o di prodotti agropastorali, e notevole organizzazione bellica per tenere a bada o rintuzzare le velleità espansionistiche dei Greci. Fin da quella età, dunque, la nostra montagna significò, come oggi, per gli abitanti della costa, offerta di prodotti del suolo genuini e pericolo di reazioni assai ostili alla provocazione di gente che si riteneva più civile. Ma anche per i Greci la nostra montagna divenne presto una via, non appena essi si accorsero che i collegamenti fra i principali centri della costa ionica e le loro subcolonie della costa tirrenica erano più facili e rapidi mediante l'attraversamento concomitante di due diverticoli della via di quota. I Romani, poi, ne fecero l'asse portante delle comunicazioni stradali. Essi fecero passare in quota la via Popilia e consolidarono sullo spartiacque dell'attuale Aspromonte l'arteria di accesso alle fortificazioni che vi avevano impiantato; questo assetto si confermò soprattutto durante l'età tardo antica, le cui scelte logistiche e strategiche rilanciarono l'abitudine delle frequentazioni abitative d'altura. Per molti millenni, dunque, la nostra montagna fu attraversata da gente che camminava: per abitarvi, per procurarsi i mezzi di sussistenza, per recarsi da una parte all'altra, per cercare moglie, per vendere, comprare, darsi botte, pregare. Essa fu una solitudine costellata di agglomerati abitativi e brulicante di viandanti e pellegrini. Ma l'Aspromonte continuava a non chiamarsi Aspromonte. Secondo alcuni questo termine è bizantino ed è formato dalla combinazione di un aggettivo greco medievale, aspro, che significa bianco e un sostantivo latino, mons cioè monte. Come il Monte Bianco, dunque. Ma l'ipotesi non convince. Ormai quasi tutti gli studiosi sono del parere che il termine Aspromonte sia di origine francese, introdotto in Calabria con l'avvento dei Normanni. In realtà, nei documenti bizantini pervenutici non compare mai qualche parola che si assomigli al toponimo della nostra montagna. In età normanna, invece, essa è detta Aspermont, come tanti luoghi montani di Francia. Ma se la civiltà bizantina (che, distendendosi in Calabria per oltre sei secoli, ha modellato più di ogni altra l'identità culturale dei calabresi) non diede il nome all'Aspromonte, ne avvalorò l'importanza ed i ruoli nella vita della gente. L'aspetto più significativo della nostra montagna in quella età fu il suo supporto per la vita religiosa. Le testimonianze dirette e soprattutto indirette ci parlano di molti contemplatori cristiani solitari, allocati negli anfratti dei monti, nel fitto dei boschi, in capanne e in caverne, sia naturali che appositamente scavate. A questa folla, silenziosa e invisibile, di eremiti senza volto e senza organizzazione, che riteniamo abbiano frequentato l'Aspromonte fra il VI e l'VIII secolo, succedettero schiere di monaci più regolari. Verso il IX secolo, infatti, la Calabria fu attraversata, cominciando dalle zone meridionali, cioè, appunto, dall'Aspromonte, da monaci, asceti greci, in buona parte fuggiti dalla Sicilia, che era stata nel frattempo occupata dagli Arabi. L'Aspromonte divenne una santa montagna, paragonata spesso alla tebaide d'Egitto: S. Elia Speleota, reggino, S. Arsenio, che soggiornò a lungo e morì a Armo, S. Elia il Nuovo di Enna, il suo 18 discepolo Daniele, S. Nicodemo di Mammola, S. Filarete di Seminara, S. Leo di Africo che faceva il boscaiolo, e tanti altri asceti meno noti, seguendo le orme del più antico S. Fantino di Taureana, vissero nelle grotte, in casette rustiche, presso chiesette costruite alla meno peggio, vicino ai boschi e ai laghetti, salmodiando, digiunando, sempre schivi della folla perchè desiderosi di solitudine e insieme sempre circondati dalla gente, che riceveva conforto spirituale, consigli di vita, sovente miracoli, segno e frutto di amore. Allora essere calabrese significava essere uomo pio, esperto di vita ascetica. La montagna, prediletta dai contemplativi, accentuò il carattere sacro; la fatica del camminare intensificò il significato del pellegrinaggio, alla ricerca della fonte di vita. Si ingrossarono e si cinsero di mura, in quel tempo, gli antichi abitati di altura; la toponomastica aspromontana si arricchì di molti nomi di santi. I documenti ci parlano anche di un'accentuazione di percorsi di alta quota; le vite dei santi testimoniano frequenti e facilissimi collegamenti fra tutte le località dell'Aspromonte, impensabili ai giorni nostri. Gli stessi documenti testimoniano una riqualificazione agricola dei territori con coltivazioni miste, frequenti frutteti, notevoli vigneti. In modo particolare, dall'età bizantina ebbe inizio e incremento l'industria serica, che fu la principale fonte di proventi fino al terremoto del 1783. Allora, fra un abitante della costa ed uno di qualunque luogo aspromontano, non c'era differenza di mentalità, nè di abitudini, nè di conoscenze o di ricchezza: dappertutto c'era lo stesso grado, assai elevato, di civiltà. La dignità dei gesti e delle costumanze tradizionali del mondo contadino e pastorale d'Aspromonte deriva da quella civiltà; si pensi agli atteggiamenti devozionali, alla sobrietà degli ornamenti celebrata da Alvaro, allo stesso mantello delle donne, così simile a quello delle Madonne bizantine, al riserbo nella manifestazione dei sentimenti, alla sopportazione delle fatiche, all'ospitalità, alla saporita frugalità dei cibi. Tutte queste costumanze sono come un'umile, avvincente epopea di Bisanzio, cancellata dall'ignoranza di tanti intellettuali di oggi e destinata alla scomparsa prima ancora di essere stata rivisitata appieno e studiata. I Normanni celebrarono la montagna nella Chanson d'Aspromont, cui fece eco tardiva il Cantare d'Aspromonte di Andrea da Barberino; così l'Aspromonte si ammantò di leggende, con le lotte dei paladini di Carlo Magno contro i Saraceni e si arricchì degli apporti della cultura francese, che si aggiunse a quella bizantina. È ancora oggi stupefacente sentire l'eco di culture così diverse e così intense, nei frammenti che oggi l'Aspromonte riesce a darci della sua storia. Il viaggio di questa storia si fa avvincente anche solo con le parole, sulla scorta dei vocabolari del Rohlfs. Si pensi, ad esempio, allo zappino (latino sapinus, abete), allo sparto (voce greca, che significa ginestra), al ciavréddu (che significa capretto, dall'antico francese chavreil), alla mingioia (dal francese mont joy, la nicchia dei santi), al muccaturi (dal catalano mocador, fazzoletto), al musulupu (dall'arabo masluk, cacio fresco). Nell'agricoltura, l'età normanna apportò un leggero allentamento perchè le colture furono meno varie, con un notevole incremento dell'olivo. Poi, con un ulteriore deprezzamento dei terreni, venne il tempo degli allevamenti intensivi: tra il XIII e il XV secolo assistiamo alla formazione di grosse mandrie di ovini, suini, meno spesso bovini. Accanto all'olivo e al gelso, le pendici dell'Aspromonte accrebbero forse allora le già ricche 19 distese di querce da ghianda. Inoltre, dalla più remota antichità fino al secolo XVI e oltre, parecchi luoghi d'Aspromonte ospitarono un allevamento pregiato, quello dei cavalli, richiesti specialmente per le attività militari. In età moderna, la montagna in parte si rinchiuse. L'Aspromonte non fu più considerato un luogo di civile modernità come tutti gli altri, ma entroterra, ambiente delle classi subalterne immaginate come gente incolta e rozza dai benestanti della costa, sempre più ignoranti della loro cultura. Per i signori della società bene esso fu il luogo del diporto, soprattutto della caccia. Ma per tutti, continuava ad essere la via più facile di collegamento. L'arcivescovo di Reggio, ad esempio, mons. Annibale D'Afflitto, verso la fine del secolo XVI, da Bagaladi si trasferì a S. Agata sopra Reggio con una cavalcata di poche ore. L'Aspromonte allora accoglieva sbandati, masnadieri, fuggitivi politici. Ma continuava anche ad essere frequentato da contemplativi e asceti, percorso da pellegrini devoti, contadini, pastori e mercanti. I boschi, dal XVI secolo in poi, cominciarono a perdere un poco della loro immensa estensione, ma ancora nell'800 attiravano gli amanti della natura, come Edward Lear, che attraversò la montagna a piedi, per descriverli e disegnarli. I fiumi navigabili divennero a poco a poco torrenti, con le conseguenti alternanze di siccità e alluvioni. A lungo vi rimasero gli zinnapotami (lontre); poi, scomparsi questi animali, restarono le trote. Ma qualcuno afferma che essi siano ritornati a vivere in luoghi quasi inaccessibili. Il tardo ottocento diffuse il ricordo dell'Aspromonte per due diverse epopee: quella di Garibaldi, che ancora, risalendo da Melito, via Bagaladi, ai Piani di S. Eufemia, mostrava di apprezzare le antiche vie militari di altura; e quella, più fosca e inquieta, di Giuseppe Musolino. Oggi questa terra, resa incolta dal trasferimento a valle degli abitati, rovinata per il disfacimento geologico, spelacchiata per il disboscamento selvaggio, violentata dalle innumerevoli, spesso inutili e sempre sconnesse strade che la solcano, diffamata dai sequestratori, ha tuttavia ancora la forza di apparire in vaste zone maestosa, commovente, avvincente. Se le giovani generazioni saranno meno ingiuste di quelle oggi anziane, nei confronti dell'Aspromonte, la montagna potrà rivivere e forse ancora ritornare a raccontare la sua affascinante storia. Prof. Domenico Minuto Deputazione di Storia Patria della Calabria 20 Aspromonte: l’ambiente ircondato dal mare da tre parti l’Aspromonte, con rilievi che arrivano a sfiorare i 2.000 m, è una penisola nella penisola. Lo Ionio ad oriente, il Tirreno ad occidente e lo Stretto di Messina che lo separa dalla Sicilia. Vi sono perciò ambienti tipicamente montani ma a brevissima distanza dal mare, per un'estensione di 3.200 Kmq. Geologicamente l'Aspromonte fa parte del massiccio calabro-peloritano ed è uno dei territori più antichi della penisola. Nelle parti più elevate prevalgono le rocce silicee, gneiss e scisti mentre in basso la struttura geologica si complica con la sovrapposizione di rocce sedimentarie come marne, arenarie, conglomerati e sabbie. Il loro alternarsi disordinatamente è testimonianza di un passato geologico molto travagliato. Esso, infatti, iniziò a formarsi quando gran parte dell'Italia, comprese le Alpi, era coperta dal mare. La sua struttura è quindi atipica rispetto a quella delle formazioni vicine ma molto simile a quella di alcune zone delle Alpi e di parte della Corsica e della Sardegna. Così, forse, la somiglianza con le Alpi potrebbe indurre a vedere nell'Aspromonte una sorta di riproduzione delle vette e dei crinali alpini. Invece, niente di tutto ciò. La morfologia della montagna reggina è, infatti, addolcita da altipiani e da vasti gradini che si succedono via via verso il basso, formando ampie distese pianeggianti sulla costa del monte come degli immensi balconi che si affacciano sul mare. Viste dal largo, queste terrazze offrono un netto profilo orizzontale pressoché regolare e rappresentano un fenomeno quasi unico nei paesaggi montani. L'impalcatura orografica dell'Aspromonte, la cui forma può richiamare alla mente quella di un cono, è inoltre fortemente incisa dalle fiumare, corsi d'acqua a regime torrentizio e senza sorgente, che data la brevità del loro percorso e l'accentuata pendenza hanno una notevole capacità di erosione. La parte più prossima alla foce è un’ampia distesa di sabbia, ciottoli e ghiaia calcinata dal sole mentre più a monte la furia delle acque invernali, costrette a scorrere in gole anguste, ha creato profondi valloni, veri e propri canyons. Sembrerebbe quindi una montagna ostile all’uomo ma colture agrarie quali l’olivo risalgono dalla Piana di Gioia Tauro fino oltre gli 800 m di altitudine e gli altipiani (ad oltre 1.000 m s.l.m.) sono intensivamente coltivati a patate, cereali e vari tipi di ortaggi. C 21 Dal punto di vista climatico in Aspromonte si riscontrano accentuate differenze non solo tra le aree interne e le aree costiere (il litorale tra Capo d'Armi e Capo Spartivento è una delle aree più aride d'Italia), ma anche tra il versante ionico ed il versante tirrenico dato che le precipitazioni cadono soprattutto sulla parte occidentale del massiccio. La vegetazione ne è fortemente influenzata e si presenta sotto le forme più disparate. Colpisce il verde scuro dei boschi, nel versante settentrionale, che si sbiadisce nel giallo della fittissima macchia e delle gole, man mano che ci si avvicina ai versanti meridionale e orientale. Umide faggete e solari pinete lo ammantano nelle quote più elevate mentre le fioriture policrome della macchia mediterranea ne rivestono le pendici. In particolare si nota un'asimmetria di distribuzione nei due versanti che a partire dal tirrenico a quello ionico consente di incontrare boschi di roverella intorno ai 700 m, castagni sino ai 1.000 m, poi boschi misti d’ontano, acero ed altre essenze fino ai 1.200 m. Da qui hanno inizio le formazioni di pino laricio e di faggio, alle quali seguono, a quote ancora più elevate, la consociazione faggio e abete bianco. Sul versante jonico, alle faggete delle zone più alte seguono, discendendo intorno ai 1.400 m, i boschi misti di latifoglie e, sui 900 metri, i boschi di farnetto. Specie molto appariscente è la ginestra dei carbonai che colonizza rapidamente le radure lasciate libere dal bosco illuminando di giallo la primavera. La fauna, nonostante la forte pressione venatoria esercitata prima dell’istituzione del Parco, offre specie interessanti. Si segnala la presenza del lupo, sino a qualche anno fa scomparso, e del gatto selvatico. È diffuso lo scoiattolo in una forma meridionale caratterizzata da grandi dimensioni, colorazione nerastra e macchie bianche sul petto. Tra i rapaci sono presenti il gufo reale, lo sparviero, la poiana, il gheppio. Nei luoghi più impervi sopravvivono alcuni esemplari di coturnice e nei torrenti montani più integri, solitamente sotto le cascate, nidifica il merlo acquaiolo. L’aquila del Bonelli è il più raro dei rapaci, con poche coppie rifugiate nei recessi più impervi. Una piccola rarità è il driomio, un minuscolo roditore simile al quercino presente in Aspromonte e nel Trentino con una forma endemica scoperta solo recentemente. Il Parco è facilmente raggiungibile da Reggio Calabria, da Bagnara, da Bovalino e da altri centri sulla costa ed ha in Gambarie d'Aspromonte (1.300 m s.l.m.) l'insediamento più elevato con buoni alberghi che ne fanno una delle basi di partenza per escursioni nel massiccio. Ma l'Aspromonte non è solo natura: anche l'uomo ha conferito a questo massiccio particolari attrattive. Pittoreschi ed antichi paesi aggrappati a costoni rocciosi in bilico su profondi valloni: Staiti e Palizzi dall'impianto urbanistico caratteristico per i numerosi vicoli; Africo Vecchio, Casalnuovo, Precacore, Amendolea ormai abbandonati ma suggestivi; Delianuova, Oppido, S. Giorgio Morgeto sul versante settentrionale conservano centri storici con palazzi, chiese e castelli ben custoditi. L'artigianato è ancora vivo in numerose forme: la tessitura, in particolare di ginestra, si ritrova nell'area ionica con motivi ornamentali che si richiamano alla tradizione bizantina; la lavorazione del legno è legata alla realizzazione degli strumenti d'uso pastorale (collari, stampi per formaggi, cucchiai, ecc.) o agricolo e 22 particolarmente rinomata è la radica d'erica con la quale si fabbricano pipe ricercate anche dagli inglesi, noti estimatori; la realizzazione di strumenti musicali quali tamburelli e zampogne testimonia la vitalità della musica popolare ed infine la ceramica che ha i suoi centri di produzione più importanti a Gerace e Seminara. Un'ampia e ben organizzata raccolta si può ammirare al Museo Etnografico di Palmi. Sulla parte nord-occidentale interessante la visita al Mausoleo di Garibaldi che ricorda il fratricida scontro fra garibaldini e bersaglieri. La religiosità popolare ha trovato nell'Aspromonte la sede ideale della propria spiritualità con numerosi santuari e monasteri mete di partecipati pellegrinaggi. Polsi è certamente il più frequentato con decine di migliaia di pellegrini che giungono anche dalla Sicilia ad onorare la Madonna della Montagna e poi lanciarsi in sfrenate tarantelle e pranzi pantagruelici a base di carne di capra. Insomma: un paradiso verde al centro del Mediterraneo. Dott. Alfonso Picone Chiodo Presidente CAI sezione Aspromonte 23 Terre alte d’Aspromonte I RUDERI DI PIETRO Collocazione Località Montalto Comune di Samo Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 I Gambarie Long. 580641 lat. 4223985 Quota 1.950 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto A Montalto si può giungere da diversi punti della costa, sia ionica che tirrenica: dall'A3 all'altezza di Bagnara, dalla S.S. 106 da Melito o da Reggio Calabria. Le indicazioni da seguire sono quelle per Gambarie, sede del Parco Nazionale dell'Aspromonte. Da quì, seguendo per circa 15 Km una stradina asfaltata, si raggiunge la base del Montalto dove dovete lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T Il percorso più diretto alla cima di Montalto è una ripida scalinata, in gran parte diruta. Consigliamo invece un sentiero, delimitato da una staccionata in legno e contraddistinto da segnale bianco-rosso, che sale più dolcemente in circa 20 minuti. Per trovare i resti della dimora dell’eremita Pietro bisogna guardare a destra non appena termina la staccionata, quasi in cima, ma prima di entrare nella radura. Sulla vetta vi accoglie la statua del Redentore ed una rosa dei venti vi indicherà le località che osserverete. Ampio panorama sullo Ionio e sul Tirreno. Sentieri Vi transita il Sentiero Italia (segnavia bianco-rosso) che proviene da Gambarie e prosegue per Polsi e San Luca. Vi termina il percorso Samo – Montalto (segnavia bianco-rosso). Pellegrini a Polsi con un frate cercatore (1945) Montalto 27 AMBIENTE CIRCOSTANTE Montalto, in quanto vertice dell’Aspromonte, costituisce meta privilegiata di ogni escursionista che voglia conoscere questo massiccio. Anche se non raggiunge i 2.000 metri (1.955,92 m per la precisione) la sua posizione, al centro del Mediterraneo, offre un panorama grandioso: l'estrema punta della Calabria e la Sicilia che si toccano quasi fossero una stessa terra, l’Etna che sbuca da una coltre di nuvole con la sua mole spesso imbiancata di neve e con un pennacchio di fumo, lo Ionio e il Tirreno con le isole Eolie. Interessante il cambiamento di portamento dei faggi intorno alla vetta che a causa del vento e della neve crescono prostrati e contorti assumendo forme strane. In cima vi è una rosa dei venti eretta del G.E.A. nell'estate del 1994 ed un monumento al Redentore. L'idea di porre una statua sul Montalto risale al 1899. Fervevano infatti i preparativi per l'Anno Santo e tra le varie iniziative si pensò di salutare il XX secolo erigendo venti monumenti al Redentore su altrettante cime italiane. Il Comitato deputato all'individuazione dei siti prescelse anche l'Aspromonte e così il 23 settembre 1901 (occorsero ben due anni per la raccolta della somma necessaria) il cardinale Portanova, insieme ai vescovi della Calabria, celebrò la Santa Messa alla presenza di oltre duemila fedeli. 28 ATTUALE CONDIZIONE DEL SITO Dell’originario impianto planimetrico è leggibile l’ipotetica forma pressocchè trapezioidale. Attualmente si conservano gli angoli interni del manufatto e gli stipiti di accesso allo stesso (con apertura di 70 cm circa), orientato a ovest. Della struttura muraria a secco, delle ipotetiche pareti in elevato, dello spessore di circa 70 cm, restano elementi lapidei di mediapiccola dimensione. Il vano del romitorio misura circa 6 mq. 29 ANTICO UTILIZZO La presenza a così alta quota di una costruzione, seppur minima, difficilmente si può spiegare con necessità legate all’utilizzo del bosco o di controllo del territorio. Il luogo è così esposto ai venti ed innevato per diversi mesi all’anno che forse solo esigenze di espiazione e di raccoglimento possono farlo considerare abitabile. Magari in contrapposizione alle forze maligne dalla Maga Sibilla che la tradizione vuole nascosta in una grotta tra Montalto e il Santuario di Polsi. Ci piace pertanto supporre che tale rudere sia il riparo di un eremita. ORIGINI, FONTI, STORIA DEL SITO La presenza di eremiti in Aspromonte è ampiamente attestata (vedi il capitolo sull’asceterio delle rocce di San Pietro). L’unica fonte però che descrive la presenza di un romito a Montalto (anche se sui generis) è Francesco De Cristo nel 1932 ed è a lui che lasciamo la parola per raccontarci dell’incontro con l’eremita Pietro. “Mi trovavo ancora aggrappato al Redentore, e di lassù delibavo la meravigliosa vista che spazia su tutta la Calabria, sui mari che la circondano e sulla Sicilia, quando comparve, sbucato non so da dove, credo dalla terra, Pietro Stilo, l’eremita del Montalto. Ogni tanto, facendo solecchia, fissava me, il gagliardetto, i miei compagni e allargava le braccia urlando e facendo gesti di minaccia. Ci raggiunse in quattro salti, aprì la bocca, e giù un carico di contumelie. Io guardai quell’omiciattolo nero e sparuto, coperto da un vecchio lurido loden dal quale spuntavano un paio di calzoni spalmati di sego e due barcacce di scarpe, portante a tracolla un curioso ombrello ravvolto in cenci, ombrello che non lasciò mai, quasi fosse la sua ancora di salvezza, e capii che la fama che gode Pietro in tutta la Provincia è ben meritata. E l’omiciattolo garriva come un’oca spennata viva – Scostumati, chi vi ha dato il permesso di profanare il pio sacro luogo? Togliete quello straccio di bandiera! Ma non ebbe finite queste parole che mio fratello lo prese dalla gola e gli fece capire in buon italiano che la bandiera non è uno straccio e che conoscevamo lui Pietro Stilo in vita e miracoli come un eremita sui generis e quindi era inutile che con noi avesse a fare lo zelante difensore del pio sacro luogo. Capì l’antifona e si calmò e tolse dal loden un bossolo e fece il giro per l’obolo. Gli demmo qualche lira e al tintinno del nichel divenne più garbato e loquace come una lavandaia. – Non vi dovete dispiacere delle parole – interoquì l’ottimo eremita – perché tutti i ragazzi che passano vedono la bandiera e vengono qua e fanno scostumatezze! – Quali ragazzi? Dove sono quassù i ragazzi? Ci pigli in giro? – Dico se ne venissero! – Se ne venissero’’ – Dovete sapere che qui celebrò la messa il Cardinale, ed è pio sacro luogo, ed io ho una “carta” del Prefetto con la quale sono nominato padrone di Montalto! – Questa è grossa, Pietro! – e ridevamo come matti. E ci accingemmo a montar la tenda dietro il recinto del monumento, ad oriente, al riparo dal vento del tirreno. Se non che, nuova lotta con Pietro l’Eremita il quale pretendeva che non toccassimo le pietre; gridava perché massaro Peppe aveva acceso la pipa; voleva che stessimo a capo scoperto proprio sul Montalto con quel po’ di vento freddo; tirava sassi al povero Menelic il quale si era sdraiato vicino al cancelletto. Come Dio volle la tenda fu armata, in ciò aiutati anche da Pietro Stilo che, finita la bisogna s’inginocchiò sopra un mucchio di scheggie, e tolto il rosario cominciò le sue orazioni. Debbo confessare che lassù, contro il sole occiduo di fronte al Redentore, in quella posa, Pietro pareva più buono di quel che non sia; ed era in magnifico atteggiamento: per cui in un baleno armai il treppiedi, e trac! L’otturatore della Volgtlander scattò, mentre l’eremita volgeva i suoi occhietti irrequieti e sospettosi in giro, 30 prestando avido orecchio alle nostre parole, e recitando il rosario pro forma. E qui è necessario dir qualche parola su Pietro Stilo, perché non vogliam passar per… insomma per aver preso in giro un eremita il quale poi non è che un eremito furbacchione. Pagati cari peccatucci e peccatacci di gioventù, Stilo, da Canolo, sua patria, si rifugiò sul Montalto e nella bella stagione dal suo covo scende alle strade e chiede l’obolo. Nell’inverno, cacciato dalle nevi e dai geli, va mendicando per i paesi della provincia. Mangiò e bevve con noi, e ci aiutò a cercar l’acqua. Quando partimmo gli lasciammo una mezza bottiglia di olio ed altri soldi. Allora volle che ci fossimo essi in ginocchio e declamò una lunghissima predica irta di frasi peregrine, e ci impartì la Benedizione. Ci lasciò con rimpianto e di lassù salutava mentre scomparivamo nell’intrico dei cespugli tormentati”.1 1 F. DE CRISTO, Op. cit. AUTORI Redazione testi: dott. Alfonso Picone Chiodo Rilievi: Studio Riproarc di arch. cons. Claudia Cutrupi Foto: C. Cutrupi, A. Picone PIETRA SALVA Collocazione Comune di Delianova Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 589 II Oppido M. Long. 579719 lat. 4229290 Quota 1.291 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Da Delianuova salire in montagna ai Piani di Carmelia. Giunti alla chiesetta ed alla fontana deviare a destra. La strada è in pessime condizioni quindi consigliamo di percorrerla a piedi. Percorso a piedi: difficoltà T La stradina sterrata s’inoltra tra rigogliosi boschi ed attraversa numerosi ruscelli. Appena 2 km di piacevole passeggiata e incontrate, in una pineta, gli enormi massi di Pietra Salva. Sentieri A Carmelia s’incrociano il Sentiero del Brigante ed il Bova–Delianuova. 31 AMBIENTE CIRCOSTANTE Pietra Salva è uno dei sei altipiani che abbelliscono il nostro Aspromonte. È occupato in gran parte da un pineta, un tempo bellissima, oggi in gran parte minacciata dalla processionaria. Vago ornamento di Pietra Salva è un ingente macigno che s’innalza sul limite orientale dell’altipiano. Altri macigni di minore mole si trovano nel circondario, creando un ambiente particolarmente interessante. Tratto da: D. MINUTO, Escursione in Aspromonte e Ferruzzano, « Calabria sconosciuta », Anno XXIV luglio – settembre 2001, p. 55. II 3 novembre, per invito del prof. Tonino Perna, Presidente del Parco d'Aspromonte e con la sua guida, ho visitato Pietra Salva. Mi accompagnava il dott. Alfonso Picone. Questa località è una pietra, che spicca nell'ambiente boscoso in cui si trova per la sua mole massiccia che si 32 erge come un cono irregolare e per il contrasto fra la sua roccia grigia, il terreno scuro e il verde dei faggi e delle conifere. È una contrada vicina ai Piani di Carmelia, a sud di Delianuova, presso una cima che supera la quota di 1.300 metri sul mare e renderebbe visibile dalla roccia un ampio tratto di territorio a nord, cioè verso la Piana di Gioia Tauro, se non fosse piena di alberi. Il suo perimetro irregolare alla base può misurare una ventina di metri e la sua altezza è di circa 5, 6 metri. Su un suo fianco, nei pressi di un solco naturale di dilavamento, sono stati incisi dei rozzi gradini, per facilitare l'ascesa dell'uomo. La roccia reca, dunque, i segni di un manufatto e all'altezza di circa quattro metri, presenta due anfratti naturali, che permetterebbero un piccolo e piuttosto disagevole rifugio provvisorio. Mi pare di potere affermare con una certa sicurezza che non si tratti della dimora di un asceta cristiano. Per il resto, posso esprimere solo ipotesi. Potrebbe essere un semplice ricovero per pastori o boscaioli, ma salire sopra la roccia lungo quei gradini mi sembra che comporti troppa fatica per due piccoli anfratti da utilizzare in episodi di vita quotidiana. Resterebbe allora l'ipotesi che si tratti di un segno, e dunque qualcosa di sacro per una religione precristiana sensibile al fascino delle rocce isolate, oppure di un posto di vedetta, possibile soltanto se in un certo tempo, forse della preistoria, la sua visibilità non sia stata impedita dalla vegetazione. Ascia chelliana trovata nella cavernuola di Pietra Salva SCOPERTE Nell’estate del 1925 il dott. Francesco Leuzzi, illustre professore deliese dell’Università di Napoli, rinvenne un’ascia dell’epoca chelliana. È un’ascia di pietra verde serpentina aspromontese, scoperta in una cavernicola nei pressi di Pietra Salva, nell’interstizio tra il terreno e la roccia. La zona intorno, a quel tempo, era coltivata a grano, e la grotta faceva da riparo ai contadini che lavoravano nel circondario e che avevano, senza averne colpa, fatto scempio di quanto avevano trovato ritenendolo privo di importanza. 33 Solo la rivista Albori nel ’25 pubblica del rinvenimento dell’ascia e nel ’27 della “cavernicola paleolica di Pietrasalva” con il ritrovamento di altre due asce chelliane. Il rinvenimento all’epoca suscitò un certo rumore nell’ambiente scientifico. Il Professore anticipò delle considerazioni sull’aspetto geologico del territorio, che in Italia vennero viste con una certa ilarità ma che suscitarono la curiosità dei ricercatori francesi dell’Istituto Paleontologico di Parigi, che due anni più tardi confermarono le ipotesi del nostro luminare giungendo alle stesse conclusioni. LEGGENDE I nonni hanno raccontato a quelli della mia generazione, quando eravamo bambini, di una leggenda riguardante la rocca di Petrusalvu. Un tesoro è nascosto all’interno di questa grande pietra, per riuscire ad impossessarsene il fortunato deve girarci intorno tre volte senza fermarsi e senza prendere mai respiro. A questo punto il grande megalite si aprirà e darà il suo dono all’eroe. AUTORI Redazione testi: prof. Domenico Minuto, dott. Carla Carbone Foto: A. Picone 34 LE MURAGLIE ANTIQUE DEL MONTE FISTOCCHIO Altre denominazioni Fistorchio, Pristachì, Sturchio, Pistarchio Collocazione Comune di Scido Coordinate Carte I.G.M scala 1:25.000 F° 589 II Oppido M. Long. 583729 lat. 4228291 Quota 1.568 m s.l.m. Versante ionico d’Aspromonte 450 Scido Versante tirrenico d’Aspromonte • 1.204 Monumento a Garibaldi 1.310 Gambarie COME LEGENDA: 1 Monte Fistocchio Monte Fistocchio Santuario di Polsi • • 3 Percorso in pendio 3 Mare Tirreno 35 823 • Pietra cappa • 870 Pietra di Febo 2 1 2 Resti della fortificazione 302 Platì • 1.204 1.955 Montalto ARRIVARE Avvicinamento in auto Bisogna raggiungere Scido, sul versante tirrenico dell’Aspromonte, e imboccare la strada che, in circa 7 km, sale in montagna ai Piani di Iunco. Giunti ad un bivio deviare a destra e poco dopo a sinistra. Una stradina riprende a salire ed in un paio di km si congiunge con un’altra strada. Siete giunti a Portella Mastrangelo dove lasciare l’auto. Percorso a piedi: difficoltà T Monte Fistocchio è facilmente raggiungibile in meno di mezz’ora seguendo le ampie aperture tra i boschi che conducono alla vetta. Sentieri A Carmelia s’incrociano il Sentiero del Brigante ed il Bova–Delianuova. 513 Santa Cristina Ex sanatorio• 583 Delianova • Mar Ionio Piani di Carmelia Tratto da: D. MINUTO, Calabria Sconosciuta, n. 99, luglio/settembre 2001, p. 55. Assieme ai soci CAI Alfonso Picone e Antonio Barca, con un mezzo dell’Ente Parco messoci gentilmente a disposizione dal presidente prof. Tonino Perna ho potuto visitare il monte Fistocchio, la cui cima tocca la quota di metri 1.567 sul mare. Da tempo avevo il desiderio di compiere questa esplorazione perché in un documento di cinquecento anni fa si parla dell’esistenza di ruderi: esce alla serra dello Sturchio donde sono certe muraglie antiche, et detta serra similiter sagliendo esce et va alla pietra della spatacomena idest pietra tagliata de spata (Pompeo Basso, Apprezzo del 15 marzo 1586, in Archivio di Stato di Reggio Calabria, Capitoli, grazie, privilegi, apprezzi: copia Blasco, cart. 11, n. 96). Sulla cima e lungo la costa occidentale di questa bella montagna occupate da una vasta radura abbiamo rinvenuto molti blocchi di roccia tagliati in forme varie e irregolari, in prevalenza allungate e di dimensioni notevoli (ad es., cm 30x20 circa), sparsi alla rinfusa. Non c’era traccia né di cotti né di malta. Abbiamo notato che molti di questi 36 massi disegnano come una corona attorno ad un terreno alquanto pianeggiante sulla cima (come un cerchio irregolare di circa 30 metri di diametro): un altro gruppo di massi si nota presso un altro pianoro più piccolo ad ovest, dove c’è il segno geodetico. Altri massi si trovano fra i due pianori, come se costeggiassero una stradella ed altri ancora mostrano di essere caduti lungo il ripido pendio della costa occidentale. Dalla cima del monte si gode una veduta assai nitida sui due versanti, fra cui si distinguono le caratteristiche rocce di Pietra Castello e Pietra Cappa a sud est e gli abitati di Delianuova e Scido a nord ovest. Si scorgono nettamente anche le alte cime dell’Aspromonte, con Montalto a sud ovest e Pietra Tagliata ad ovest. La presenza dei massi conferma l’esistenza, un tempo, di un abitato, ma l’odierno disfacimento dei ruderi non permette se non illazioni sulla tipologia di questo insediamento. Esso doveva avere la maggiore concentrazione nei due pianori, per disperdersi poi gradatamente ai margini di qualche via. La sua posizione panoramica, e perciò dispersiva, escluderebbe l’ipotesi di un insediamento religioso cristiano (i quali, peraltro, se di tradizione bizantina, non sono collocati in cima alle montagne, ma sui fianchi). L’altitudine, con le conseguenti condizioni meteorologiche, rende improbabile anche l’ipotesi di un insediamento civile. È, dunque, più verosimile che si trattasse di una postazione militare, un luogo di vedetta assai privilegiato, a guardia della via che collegava Pietra Castello con Santa Cristina, per indicare due castelli assai antichi sui due versanti. E che tale insediamento sia notevolmente antico e affermato dalla testimonianza di Pompeo Basso. TRADIZIONI Corrado Alvaro scrive di un convento che sorgeva sul monte Pistarchìo (Polsi, 1912). Francescantonio Leuzzi e Salvatore Gemelli riferiscono di una grangia abitata dai monaci dal 1° maggio sino al giorno dei morti. Essa dipendeva dal monastero di S. Marina sito nei pressi di Paracorio, antico casale di Delianuova. Il terremoto del 1783 distrusse il monastero e causò l'abbandono della relativa grangia. (F. Leuzzi, Ediz. Barbaro, 2003; S. GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte, Gangemi Ed., 1992). Monte Fistocchio: resti della fortificazione 37 AUTORI Redazione testi: prof. Domenico Minuto, Deputazione di Storia Patria della Calabria Rilievi: prof. arch. Giovanni Brandolino, Università Mediterranea degli Studi di Reggio Calabria, Facoltà di Architettura Foto: V. Galluccio, A. Picone 38 CROCE DI TOPPA Collocazione Località Toppa Comune di Santa Cristina Coordinate Carte I.G.M scala 1:25.000 F° 589 II Oppido M. Long. 584569 lat. 4229359 Quota 1.230 m s.l.m. Fedeli in pellegrinaggio a Polsi COME ARRIVARE Avvicinamento in auto La strada più diretta per salire a Zervò è quella di S. Cristina d'Aspromonte. Superato l'ex Sanatorio (ora Comunità Incontro) continuare a sinistra per l'ampia strada che conduce a Carmelia. Percorsi 3 km porre attenzione dove la strada curva verso sinistra e nel muraglione di contenimento a sinistra noterete alcuni gradini che consentono di salire sul terrapieno dove si trova la croce. Sentieri Vi transita il Sentiero del Brigante che da Gambarie conduce alla Limina. ORIGINI, STORIA E FONTI “S. Toppa sacrificatosi per il prossimo”. È questa la sintetica scritta incisa nel marmo posto sotto la Croce di Toppa. La croce, restaurata qualche anno fa, è conosciuta da almeno un secolo, come attestano il brano che stralciamo dall'epico pellegrinaggio di De Cristo e le carte dell'IGMI dei primi del 1900. Nessuna notizia, tuttavia, siamo riusciti a reperire su questo sventurato sacerdote, monaco, pellegrino o cos'altro. La tradizione infatti narra di un pellegrino diretto (o di ritorno) alla Madonna della Montagna di Polsi che, sorpreso da una bufera, fu trovato morto in quel luogo. Il verificarsi di tali tragici episodi in una montagna come l'Aspromonte, con altitudini non elevate, non deve sorprendere. È di appena un decennio fa un episodio analogo accaduto ad un pastore nei pressi di Pietra Cappa, sul versante orientale del massiccio, a meno di 1.000 m di quota. Inoltre il luogo è spesso usato per il carico del legname in occasione di utilizzo del bosco. Nel passato, per trascinare la legna, si usava una slitta grossolana che, guarda caso, si chiama toppa. Comunque sia i pellegrini che, ancora oggi, si recano a piedi a Polsi e transitano da Croce di Toppa usano lasciare un pezzo di legno che consenta all'anima dello sfortunato di riscaldarsi, tant'è che vi è sempre una catasta continuamente rinnovata. Ma lasciamo ora la parola a Francesco 39 De Cristo che ci racconta del suo incontro con la Croce di Toppa. “Battiamo la via di Polsi per la quale ogni anno in maggio e settembre transitano torme di pellegrini che vengono dai paesi lontani e traversano le valli, i boschi, le montagne per andar là, nella gola profonda e selvaggia dove sorge il mistico santuario di Maria della Montagna, spinta dalla fede, dalla rozza ingenua fede che li sorregge nell'aspro cammino, nelle sofferenze della strada. Ed ecco un segno tangibile delle primitive credenze di gente nostra; il legno propiziatore da portare in certi tratti della via: ad un certo punto della strada ci forniamo anche noi di un pezzo di legno che porteremo per tutto un dolce pendio, sino alla Croce di Toppa, ampia radura in mezzo alla selva, dove si accumula della legna portata per devozione dai pellegrini. Più grave è il peso che urge alla coscienza, più grande e pesante è il legno che si porta al mucchio: e troviamo tutta una graduazione di rami. Dal tronco (chissà che peccatacci!) al fuscello, portato forse da una bimba il cui puro cuore ancora non è turbato dall'ansia del peccato di Eva che ferve nelle vene muliebri, ed i cui occhioni limpidi riflettono la maestà smeraldina della selva e la gioia di vivere. Sovrasta al mucchio una gran croce che sembra promettere, nella sua muta eloquenza, misericordia e perdono. Spiotta, portò su alla catasta una lunga pertica che non finiva più, simbolo certamente della sua peccaminosa ansia di tendere all'alto, verso le cime della gloria e dell'amore. Io e Don Pignataro ci contentammo di due rami qualsiasi e il geologo, alle nostre insistenze, si armò di un rametto secco contorto e leggerissimo. Che tolse dal natio tronco con un gran colpo di mazza.” AUTORI Redazione testi: dott. Alfonso Picone Chiodo Foto: A. Picone (Tratto da F. DE CRISTO, Vagabondaggi sull'Aspromonte, Guido Mauro Ed., 1932). 40 PALAZZO DI ZERVÒ Collocazione Località Palazzo Comune di Oppido Mamertina Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 III Platì Long. 587455 lat. 4233985 Quota 1.040 m s.l.m. Piminoro e Oppido Mamertina COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Da Oppido seguire le indicazioni per Zervò (Comunità Incontro). Superato il centro abitato, al bivio per Santa Cristina-Piminoro, imboccare a sinistra (Piminoro); state così percorrendo la Strada Provinciale 112. Proseguite verso monte fino a raggiungere Piano Rocchelli contraddistinto dal Cristo di Zervò. Al bivio proseguire sulla destra e dopo 3 Km, poco prima di una grande costruzione (rudere) posta sulla destra (Vaccarizzo), si apre, sempre a destra, una ampia pista sterrata. Lasciare l’auto. Percorso a piedi: difficoltà T Iniziate a percorrere la sterrata (in tutto appena 2 km) e dopo circa cento metri raggiungerete un primo bivio. Andate a destra e proseguite sulla 41 pista principale che prima costeggia il piano di Zillastro e dopo attraversa un fitto rimboschimento di pini. La pista termina esattamente alle mura di Palazzo di Zervò. Sentieri Nei pressi della fortificazione transita il Sentiero Italia (che qui utilizza un tratto del Sentiero del Brigante). DESCRIZIONE DEL SITO La scoperta effettuata dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria nella seconda metà degli anni ’90, nella località aspromontana di Palazzo (1.040 m s.l.m), è di particolare interesse per la conoscenza delle dinamiche insediative di un territorio interno, frequentato fin dall’età classica e dove, in età ellenistica, si stabilirono gruppi di popolazioni italiche, specificatamente brettie. Territorialmente e politicamente la zona di Palazzo va ricordato che, come tutta l’area a sud del fiume Petrace – antico Métauros – ricadeva fin dall’età coloniale, nell’area controllata dalla colonia calcidese di Rhegion, fondata alla fine dell’VIII sec. a.C. Dal punto di vista geomorfologico, il sito di Palazzo è identificabile con un terrazzo, ubicato nel punto di collegamento tra due percorsi di dorsale che permettono di raggiungere i Piani aspromontani di Zivernà sia dal moderno centro di Oppido Mamertina che da Oppido Vecchia e Mella, sede rispettivamente dell’abitato medievale di S.Agata (anno 1.044) e di quello italico di II-I sec. a.C. Ugualmente strategica la zona anche per il collegamento con il versante ionico della regione, controllato dal centro coloniale di Locri. Le campagne di scavo avviate, hanno messo in luce una struttura fortificata, a pianta quadrangolare, 30X30 m., con un unico ingresso non carrabile a sud, protetto da due contrafforti (2.5 m circa di larghezza), riconducibile ad ambito culturale brettio. Fu realizzata alla fine del IV sec. a.C. e rimase in uso nel corso del III sec. a.C.; la scoperta di frammenti ceramici a 42 vernice nera di VI sec. a.C. nella colmata di terra utilizzata dai suoi costruttori per realizzare le fondazioni, attestano la frequentazione dell’area anche in età arcaico-classica. Una frequentazione occasionale del sito anche per epoche successive al III sec. a.C. è documentato dal rinvenimento di materiali ceramici frammentarii tardoantichi e medievali. La tecnica costruttiva utilizzata, impiegava per l’alto zoccolo – a doppia cortina, con emplecton centrale – grossi blocchi appena sbozzati, inzeppati laddove necessario, con pietre più piccole, disponibili sul posto. Caratteristici, i contrafforti quadrangolari ed aggettanti, posizionati lungo tutto il perimetro. Per l’elevato, non più conservatosi, alto in origine almeno 3 o 4 m, è ipotizzabile l’uso di una tecnica mista di legname e pisè, con camminamento e probabili piccole torri in corrispondenza degli avancorpi dell’ingresso, dei rinforzi angolari e di quelli mediani delle mura; la copertura potrebbe essere stata realizzata in legno, data anche l’assenza di crolli di tegole di copertura. L’interno è suddiviso in più ambienti disposti attorno ad un’area centrale. Dei diversi ambienti messi in luce, in alcuni sono stati rinvenuti anche dei focolari; il piano pavimentale era realizzato in terra sabbiosa mista a ghiaia o in lastroni di pietra, come nel caso del cortile centrale, di forma rettangolare. La fortezza realizzata con molta probabilità, per il controllo del territorio, fu abitata forse, solo stagionalmente, e da un ristretto numero di persone. I materiali rinvenuti in occasione delle indagini condotte dalla Soprintendenza archeologica della Calabria, sono in prevalenza, vasellame acromo da fuoco, contenitori utilizzati per il trasporto dell’acqua, anfore vinarie ed elementi di macine in pietra lavica. Materiali di cui sarà esposta una campionatura significativa nel museo di Oppido Mamertina e del Territorio Aspromontano in corso di allestimento a cura della Soprintendenza presso i locali di Palazzo Grillo. BIBLIOGRAFIA R. AGOSTINO, Archeologia ad Oppido Mamertina: immagini,ipotesi, Gioia Tauro 1999. OPPIDO MAMERTINA, Ricerche archeologiche nel territorio e in contrada Mella, a cura di L. COSTAMAGNA, P. VISONÀ, Roma 1999. 43 AUTORI Redazione testi: dott. Rossella Agostino, Soprintendenza Archeologica della Calabria Foto: C. Cutrupi, V. Galluccio, A. Picone 44 LA PIETRA DI SAN TRABUS Collocazione Località Piano S. Trabus Comune di Cittanova Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova Long. 595354 lat. 4242197 Quota 900 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Bisogna raggiungere e superare l’abitato di Cittanova, percorrendo la S.S. 111 Cittanova-Locri. Seguire le indicazioni per Zomaro e raggiungere il villaggio. Percorrere la strada centrale del villaggio stesso e lasciare l’auto alla fine dell’asfalto. Percorso a piedi: difficoltà T Seguire una sterrata che attraversa un primo grande pianoro, proseguire per 500 m e superare un meraviglioso bosco di faggi, dove, alla fine si apre la grande pianura di San Trabus. All’ingresso del pianoro, girare a destra e dopo 200 m a sinistra. Seguire sempre la pista fino alla fine della stessa. Prendere infine il sentiero che scende verso il costone e dopo circa 50 m troverete la croce incisa su un lastrone di pietra posto orizzontalmente e dalle dimensioni di m 3x1.5. Sentieri Numerosi, forse troppi, i percorsi in tale area. Alcuni salgono da Cittanova allo Zomaro. Da tale villaggio inoltre transita il Sentiero Italia (che utilizza un tratto del Sentiero del Brigante) ed il Cammino dell’Alleanza. AMBIENTE CIRCOSTANTE Il pianoro dove è posta la pietra è detto Piano di San Trabus. Questa è collocata al margine occidentale di tale pianoro, dove la montagna degrada ripidamente nei valloni che confluiscono al torrente Serra. Ci troviamo quindi in una zona di transizione tra la faggeta e la lecceta con sottobosco di pungitopo ed erica. La pietra si trova a lato di uno dei sentieri che collegava Cittanova alla montagna. STORIA, ORIGINI, FONTI La pietra di Santa Trabus, secondo l’opportuna interpretazione del prof. Domenico Raso, deriva il suo nome dal greco trapeza, cioè “tavola”. Questa pietra, che i nostri antenati della preistoria avranno con ogni probabilità venerato, è davvero una tavola di roccia ed il suo nome greco è pertinente. Ma perché è rimasta la parola greca e non il nome che 1 avranno dato a questo oggetto i suoi adoratori? Forse perché alla cultura greca, specialmente nella sua veste bizantina, noi dobbiamo la formazione della nostra identità più profonda, che ci portiamo dentro il cuore e che ci invita a vedere le cose ancora con quegli occhi, a chiamarle con quei nomi. Poi, credo verso il XVII secolo, sarà stato attribuito alla parola “trabus”, ormai incomprensibile, il carattere di santità, con l’incisione di una caratteristica croce latina dalla lunga asta1. Domenico Minuto, 8/03/2004, considerazioni dopo un sopralluogo. 45 AUTORI Redazione testi: dott. Alfonso Picone Chiodo Rilievi: Studio Rproarc di Claudia Cutrupi Foto: C. Cutrupi, A. Picone 46 PALAZZO DI ZOMARO Altre denominazioni Fortificazione Palazzo Collocazione Località Zomaro Comune di Cittanova Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova Long. 597888 lat. 4241519 Quota 898 m s. l. m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Percorrere la S.S. 111, superare l'abitato di Cittanova seguendo le indicazioni per Zomaro. Dopo 9 Km si raggiunge un quadrivio. Imboccare a destra il lungo rettilineo. Alla fine dello stesso in piena curva, imboccare a destra la sterrata (che costeggia l'ultimo campo sperimentale). Lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T. Percorrere la sterrata per 150 m circa. Girare a sinistra e dopo 50 m a destra si accede al pianoro sovrastante le mura di Palazzo. Seguire per 50 m la mulattiera che scende nella faggeta e si ferma proprio alle mura di Palazzo poste su di un rilievo inciso a destra ed a sinistra da due impluvi. 47 Sentieri A ridosso delle mura transita il Cammino dell'Alleanza. AMBIENTE CIRCOSTANTE In direzione Nord rispetto alla località Bragatorto, a circa 5 Km di distanza, si erge il pianoro di Contrada Palazzo, fino a pochi anni addietro denominato “Pantano Palazzo”, per la presenza di acquitrini diffusi. Sulla punta estrema di un crinale pianeggiante, è localizzata una 48 fortificazione, immersa in una lussureggiante e suggestiva faggeta. Il sottobosco è caratterizzato dalla presenza di pungitopo, agrifoglio, funghi, ciclamini. Ad est ed ovest della parete del crinale scorrono due torrenti che si congiungono, verso nord, convogliando nel vallone “Lo stretto”. Palazzo di Zomaro: pianta 49 50 Prospetto principale 51 Palazzo Zomaro: presunta cisterna 52 Palazzo Zomaro: sezione trasversale 53 ATTUALE CONDIZIONE DEL SITO Della costruzione, in condizione di rudere, rimane ben poco. Sul terreno in pendenza è chiaramente riconoscibile un tratto di muro posizionato all'inizio del pendio ed orientato a nord, nel senso della lunghezza. Il muro, realizzato con pietrame irregolare a secco, è caratterizzato da una lunghezza di circa 27 m e da uno spessore di 0,70 m. Si articola in altezza con una dimensione minima di 75 cm che nei punti più alti raggiunge circa 2,4 m. Lungo la parete est del muro la presenza di alcuni fori lasciano ipotizzare che siano stati necessari per il posizionamento di impalcature realizzate in fase di costruzione. Nella parte finale del muro, verso nord, è presente un tratto di muro, perpendicolare all'asse principale, orientato verso est, della lunghezza di circa 2,6 m. Ad una distanza di circa 1,5 m e ad una quota inferiore, è individuabile una sorta di cisterna, realizzata con pietrame irregolare a secco, con una dimensione in altezza di circa 1,20 m per una larghezza massima alla base di 5,5 m circa. A ovest dello stesso muro, nella zona pianeggiante del crinale, corrono più o meno parallelamente, ad una distanza compresa tra 5 e 7 m circa, sparse porzioni di mura, le cui tracce sono parzialmente visibili, coperte da folta vegetazione ed alterate dalla presenza delle robuste e fitte radici dell'alberatura circostante. Opportuni saggi ed un'attenta indagine potrebbero fornire adeguate delucidazioni circa l'estensione, l'articolazione la funzione del sito. NOTIZIE STORICHE ED ANTICO UTILIZZO La posizione strategica della costruzione ne fa ipotizzare una funzione militare. Poggiata all'estremità del crinale in direzione nord, dominava l'intera piana di Gioia Tauro, quando la vegetazione doveva essere bassa e la visuale ampia. La localizzazione e le condizioni territoriali passate fanno pensare ad una funzione di controllo su tutto il territorio sottostante. Si può determinare una datazione di età tardo-antica o alto-medievale (tra il V e VIII secolo) dalla struttura muraria e in particolare dalla posizione delle pietre secondo la tecnica a “filare spezzato” 1. 1 D. MINUTO, G. OLIVA, S.M. VENOSO, Appunti per un elenco cronologico di murature tardo antiche in Calabria, in Chiesa e Società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 1998, pp. 1213-1218. AUTORI Redazione testi: dott. Carla Carbone Rilievi: arch. Antonella Ruggeri, arch. Eliana Gitto Supporto tecnico per lo studio strumentale: ing. Fortunato Mandanici, geom. Giuseppe Mannino Foto: V. Galluccio, E. Gitto, A. Picone, A. Ruggeri 54 BRAGATORTA Altre denominazioni Bracatorta Collocazione Località Bregatorto Comune di Antonimina Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova Long. 598676 lat. 4240152 Quota 923 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Superato Cittanova e percorrendo la SS. 111 Cittanova-Locri dopo 9 Km si raggiunge un quadrivio. Imboccare il rettilineo a destra con indicazione Zomaro. Dopo 1,5 Km circa sulla sinistra si apre una ampia pista sterrata. Lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T Proseguire a piedi sempre sulla pista principale. Percorsi circa 2 Km tra i faggi e dopo aver superato l'acquedotto di Gerace, poco prima di uscire dal bosco e sulla destra, a ridosso della pista sterrata, troverete i resti di Bracatorta. Sentieri Numerosi, forse troppi, i percorsi in tale area. Alcuni salgono da Cittanova allo Zomaro. Da tale villaggio inoltre transita il Sentiero Italia (che utilizza un tratto del Sentiero del Brigante) ed il Cammino dell'Alleanza. AMBIENTE CIRCOSTANTE Terreno leggermente scosceso con vegetazione a faggeta e nel sottobosco presenza di felce acquilina e rovi. 55 ATTUALI CONDIZIONI DEL SITO Costruzione in condizione di rudere e stato di abbandono. Oggi rimangono due muri disposti in posizione parallela tra loro e ortogonale rispetto alla pista che li costeggia. Il muro più grande presenta una lunghezza di 5 m e 10 ed una altezza che va da 98 cm a 1,90 circa, la larghezza alla base è di 112 cm e in alto si restringe fino a 53 cm. Alla base dove il muro raggiunge la maggiore dimensione è composto da pietrame irregolarmente spezzato e lisciato in faccia di media-piccola dimensione, nella parte più alta dove il muro si restringe, probabilmente di datazione successiva, notiamo la presenza di mattoni assemblati con malta (?). Nel pendio, al di là della pista, a circa 30 m di distanza si rileva una parte di muro crollato. È probabile che il crollo sia stato causato proprio dalla creazione della pista. Notiamo la presenza di cassapondaia a poca distanza dalla base. NOTIZIE STORICHE ED ANTICO UTILIZZO Non abbiamo notizie circa la sua costruzione, per cui la datazione così come la destinazione d’uso risultano incerte. La struttura muraria ci porta ad una datazione alta fra i secc. VI-VIII. AUTORI Redazione testi: dott. Carla Carbone Foto: V. Galluccio, A. Picone CALCARA Altre denominazioni Pozzo fusorio Collocazione Località Zomaro Comune di Cittanova Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova Long. 598885 lat. 4242699 Quota 800 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Giunti al quadrivio per Canolo Gerace Zomaro sito sulla S.S. 111 proseguire per Zomaro per circa 500 m sino ad una radura sulla destra della strada individuabile per alcune giostrine. Lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T L'intero tragitto è meno di 500 m, ma bisogna porre attenzione ai bivi. A destra della radura seguire una pista fino ad un bivio dove proseguire a sinistra. Poco avanti, guardando sulla sinistra, si noterà un grande faggio. Alla base dell'albero troverete la calcara. Sentiero che conduce al sito Sentieri Proprio nei pressi della calcara transita il Cammino dell'Alleanza. AMBIENTE CIRCOSTANTE Terreno quasi pianeggiante con vegetazione arborea composta da pini, faggi, ceduo di castagno, sottobosco di ginestra, biancospino, felce, rovi, erica e notevole presenza di edera. 57 58 Calcara: pianta e sezioni 59 ATTUALE CONDIZIONE DEL SITO Foro di areazione della calcara Particolare della parete di rivestimento Calcara lato est Calcara lato sud Ingresso della galleria Galleria 60 La calcara, oggi, si presenta come una fossa di forma irregolarmente circolare, con diametro compreso tra circa 2,60 m in direzione est-ovest e 2,30 circa in direzione nord-sud, ed una profondità massima, misurabile alle pareti, di 175 cm circa e minima di 60 cm. In origine, il pozzo, doveva raggiungere sicuramente una profondità maggiore di circa 1 m; è probabile che, nel tempo, si sia depositato terriccio sul fondo. Le pareti della calcara sono rivestite da pietrame irregolare a secco, di mediapiccola dimensione. Il colore, tendente al rosso, tra una pietra e l'altra è dovuto al calore prodotto dalla calcara in funzione. Nella parete est della calcara, lato che ha subito il maggiore crollo, è visibile un foro triangolare ottenuto dal posizionamento delle pietre, con una dimensione alla base di circa 80 cm per un'altezza di circa 40 cm. Il foro serviva come presa d'aria per il funzionamento della calcara. Un grosso faggio avvolto d'edera si trova sul lato sud-est del perimetro. A circa 5 m di distanza, a nord della calcara, è localizzato, sotto un dosso, una galleria ipogea che arriva sino alla parete del pozzo. Essa si presenta come una piccola grotta con pareti di arenaria, con un'apertura di 120 cm di altezza e 70 cm circa di larghezza. Al suo interno, dopo circa 1,5 m, il cunicolo si allarga fino a raggiunge quasi 2 m di larghezza per un'altezza di 190 cm. Tenendo conto che la galleria ha subito un crollo sul lato destro, il percorso, avvicinandosi alla calcara, si restringe e si abbassa; in questa parte finale è rilevabile una dimensione di 80 cm di altezza per una lunghezza di 70 cm, dove si notano le pietre della parete esterna del forno. Calcara e galleria: pianta Calcara e galleria: sezione longitudinale 61 NOTIZIE STORICHE ED ANTICO UTILIZZO Esempio di costruzione di una calcara con copertura in travi lignee È plausibile l'ipotesi che non ci sia connessione tra il cunicolo e la calcara. La galleria probabilmente venne costruita in un secondo tempo come rifugio sicuro ma facilmente localizzabile, quando il forno non era più in uso. È difficile anche stabilire una datazione della costruzione della calcara. La produzione della calce è attestata a partire da 5.000 anni fa. Nel territorio dello Zomaro non sono riscontrabili notizie sulla presenza di cave per l’estrazione di materiale calcareo. Pertanto la presenza di una calcara in questo territorio, implica l'ipotesi del trasporto della roccia estratta. Frantumata e cotta nel forno di calcinazione, a temperatura di almeno 800 gradi, la pietra calcarea si trasformava in calce viva. Nella fossa, rivestita di pietre, e con copertura mobile di travi lignee, veniva posto il combustibile e la pietra calcarea. La cottura andava avanti per settimane, e, una volta terminata, il pozzo veniva svuotato dalla calce. Il prodotto così ottenuto veniva bagnato, riscaldato, sgretolato, e polverizzato dando luogo alla calce usata in edilizia per preparare malte, miscelata con acqua e sabbia, e in agricoltura come correttivo delle caratteristiche dei terreni. AUTORI Redazione testi: dott. Carla Carbone Rilievi: arch. Antonella Ruggeri, arch. Eliana Gitto Foto: V. Galluccio, E. Gitto, A. Picone, A. Ruggeri 62 ALTANUM Collocazione Località Sant’Eusebio Comune di San Giorgio Morgeto Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova Long. 596366 lat. 4247419 Quota 800 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Da San Giorgio Morgeto salire verso la montagna, dopo 7 km, al bivio prendere a destra e, dopo circa 1 km, ancora a destra. La stradina, in circa 4 km, attraversa una splendida sughereta e termina alle case di S. Eusebio. Ampio panorama sulla Piana di Gioia Tauro Percorso a piedi: difficoltà T Seguendo la pista sterrata si incontrano i ruderi di Altanum. Sentieri Vi giunge un percorso (segnavia bianco-rosso) che sale da Cittanova. 63 DESCRIZIONE DEL SITO Il Piano di Casignano o di Casciano, sito nella località indicata in cartografia come S. Eusebio, è posto a circa due chilometri di distanza, in direzione sud-est, da S. Giorgio Morgeto (RC). L’area, nel 1921, era stata oggetto di una ricognizione preliminare e di due saggi archeologici, condotti da De Cristo su incarico di P. Orsi. “Relazione sugli scavi archeologici del Piano di Casciano o di Casignano (Altanum?), fatti per incarico del comm. dott. Paolo Orsi… nell’ottobre 1921”. Localizzazione delle cisterne e della cosiddetta chiesa di S. Eusebio (da Vincenzo De Cristo - 1921). 64 Gli scavi, condotti prevalentemente nell’area occidentale, la più pianeggiante, permisero di portare alla luce i resti di due grandi cisterne rettangolari funzionali alla conservazione di grosse scorte di acqua. Oltre ad abbondante materiale ceramico di diversa tipologia e fattura, tra i quali un “pezzo di vaso di creta bianca, con linee trasversali di colore rosso”, che potrebbe interpretarsi come un frammento di ceramica a bande rosse, si rinvennero elementi in ferro e due monete in bronzo protobizantine (VI-VII sec. circa). Un’altra moneta in bronzo (IX-X sec.) venne rinvenuta successivamente in maniera del tutto occasionale. Già alla fine del Settecento l’abitato, identificato con l’antica Altanum, era considerato dagli eruditi meta escursionistica di un certo interesse: “Avremmo desiderato di esplorare le vecchie reliquie del distrutto Altano. Dal generoso Principe di Ardore, Signore di Polistena, e marchese di S. Giorgio, D. Giovanni di Milano, si erano già prese tutte le misure per tenerci graziosa compagnia in tale esplorazione; ma, temendo noi di mancare al nostro principale istituto, dovemmo rinunziare a così buon desiderio, e avviarci ove ci chiamava il proprio dovere”. Il pianoro, posto a 700 metri s.l.m, è delimitato da un circuito murario che, sviluppandosi da est verso ovest seguendo la naturale pendenza del terreno, assume una forma poligonale. Nel rilievo eseguito da De Cristo, la cinta fortificata, il cui sviluppo è pari a tre chilometri circa, risulta caratterizzata dalla presenza di due torri, l’una a pianta circolare, detta ‘Bombardiera’, ubicata nell’angolo NO, l’altra semicircolare posta nell’angolo SE. Il muro, costruito con grossi blocchi di pietra locale cementata con malta e senza la presenza di laterizi e letti di posa, è spesso m. 1-1,20. L’estesa cinta muraria venne probabilmente edificata, così come testimoniano numerose altri recinti coevi, a protezione di un insediamento bizantino sorto in un punto ritenuto strategico nel controllo dell’importante via di attraversamento che, dallo Jonio al Tirreno, metteva in collegamento la Locride ed il kastron di Gerace con la Valle delle Saline (l’attuale piana di Gioia Tauro). Il perimetro della fortificazione, allo stato attuale di difficile lettura per la presenza di una folta vegetazione, Planimetria della fortificazione (da Vincenzo De Cristo, 1921). 65 risulta rimarcato da tracce più o meno coerenti di crollo; ben pochi sono invece i tratti di muro che si conservano in alzato. Non è stata individuata la torre SE, indicata da De Cristo, anche se l’uso del tratteggio nel rilievo potrebbe indicare che si tratta di una ricostruzione fatta sulla base di qualche struttura superstite. Si conserva invece, sostanzialmente integro, il tratto di muro di cinta con andamento curvilineo e concavità esterna, posto ad est della “Bombardiera”. Si può ipotizzare che il maggior numero di interventi costruttivi sia stato concentrato sul lato orientale del recinto fortificato che, seguendo l’orografia del sito, proprio su questo versante risultava più esposto agli attacchi nemici. Sul lato occidentale, il terreno, che presenta una pendenza più ripida, doveva garantire una maggiore sicurezza; l’angolo SO del circuito, a causa dell’orografia accidentata, infatti, è stato interessato da una frana che era stata già individuata da De Cristo. Nuove indagini archeologiche sono state svolte nel 2002 e 2003. Si sono svolte operazioni di scavo sia all’interno che all’esterno della ‘Bombardiera’, di cui si conserva, con un alzato di circa 7 metri, soltanto la metà sud-orientale; il dislivello del terreno, che immediatamente ad ovest della torre scende ripidamente di quota, ha causato lo scivolamento verso valle dei grandi blocchi di muratura, già precedentemente crollati. La torre, il cui diametro dovrebbe essere di circa 10 metri, costituisce il raccordo tra l’estremità nord del lato occidentale e l’estremità ovest del lato settentrionale; essendo posta completamente al di fuori della cinta muraria, il collegamento con l’area interna avveniva attraverso un ambiente a pianta quadrangolare con copertura a volta che si conserva parzialmente. La presenza di canalette rivestite in malta, che si sviluppano parallelamente e trasversalmente all’interno delle strutture murarie, lascerebbe supporre che alla base della torre fosse ubicata una cisterna. La rimozione di parte del crollo presente all’interno della metà sudorientale della struttura, costituito da blocchi lapidei irregolari, numerose scorie di ferro e frammenti ceramici tardo medievali acromi e con tracce di invetriatura, ha reso maggiormente visibili i paramenti murari interni. Sul lato orientale sono presenti fori rettangolari per l’incasso di travi, interposti ad aperture circolari, interpretabili come bocche da fuoco; quest’ultimi elementi tipologici, a differenza dei fori rettangolari, non sono in fase con il paramento murario e, pertanto, potrebbero riferirsi ad un intervento edilizio successivo, volto al rafforzamento della struttura, che si era reso necessario con l’evoluzione dell’arte militare. La tecnica costruttiva, riscontrata su alcune unità murarie pertinenti alla cinta difensiva e sui paramenti interni ed esterni della torre, risulta caratterizzata dall’impiego di blocchi lapidei di dimensioni e forma estremamente variabile, disposti in modo irregolare e legati da un tipo di malta piuttosto resistente. Un maggior numero di indicazioni sull’edificazione del circuito murario si sono avute con le indagini che hanno interessato, lungo il lato esterno, il tratto del muro di cinta ubicato immediatamente ad est della ‘Bombardiera’. La presenza di particolarità costruttive, di differenti tessiture murarie e di leganti di natura disomogenea, è indicativa delle diverse fasi edilizie della cinta difensiva. L’unità muraria, ubicata all’estremità orientale del settore indagato, visibile per una lunghezza pari a 2,50 m circa, risulta caratterizzata dall’impiego di malta friabile e dall’alternanza di filari di blocchi di pietra e di corsi con tegole frammentarie. All’estremità occidentale di questo tratto di cinta muraria, laddove il muro sembrerebbe curvarsi verso l’interno del circuito, si Pianta delle strutture murarie poste ad est della Bombardiera. 66 appoggia un diverso muro, ad andamento rettilineo e con orientamento EO. Lungo il lato interno, privo del paramento, è visibile, per breve tratto, un piano di calpestio costituito da terra battuta, grumi di malta e ciottoli di fiume, che continua in direzione sud oltre il limite dell’area di scavo. A questo muro si addossa quasi perpendicolarmente, a 1,70 m ad est della torre, una struttura muraria ad andamento rettilineo con orientamento NS. Le diverse tecniche costruttive, consentono di individuare almeno due fasi edilizie. Ad un primo intervento si possono ricondurre le strutture caratterizzate dall’impiego di laterizi e da una tessitura più regolare; ad un secondo momento devono invece riferirsi i lavori di edificazione dell’unità muraria, che prosegue in direzione ovest, priva di regolarità nella disposizione dei blocchi. L’edificazione della torre circolare sulla base della tessitura muraria e del materiale costruttivo impiegato potrebbe ascriversi a questa seconda fase. All’interno dell’area fortificata non si sono rinvenute altre strutture ad eccezione di alcuni cumuli costituiti da pietre e laterizi frammentari, ubicati nella parte più alta del pianoro, dei quali De Cristo poté annotare la disposizione ad intervalli regolari di 5 e 10 m, oggi non più verificabile a causa della fitta vegetazione. In assenza di ulteriori indagini che chiariscano la natura di queste concentrazioni, si può solo rilevare come la composizione stessa dei cumuli sia indicativa della presenza di abbondante materiale da costruzione nel sito. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, il circuito murario presenta tutte le caratteristiche di un recinto difensivo posto a presidio di una delle vie trasversali della regione che, sin dall’età antica, assicuravano i collegamenti tra la costa tirrenica e quella ionica. La tradizione storiografica, nel collocare sul piano di Casciano l’antica città di Altanum, sottolinea l’importanza di questo valico in epoca greca; Altanum, rientrando nei domini locresi, avrebbe assicurato alla colonia greca il controllo del territorio interno e, di conseguenza, il collegamento con le sue fondazioni tirreniche. viari lungo i quali potessero agevolmente spostarsi per raggiungere ogni “sacca di resistenza”; gli interventi costruttivi più tardi possono, infine, ricondursi al tempo degli scontri tra Angioini e Aragonesi che per lunghi anni si contesero il domino della regione. Di una più tarda frequentazione rimane testimonianza nella seisettecentesca chiesa di S. Eusebio, forse di più antica origine ed ora adibita a porcile, in alcune case, ed in piccoli ricoveri ancora oggi utilizzati da pastori e contadini. Il materiale datante rinvenuto e la tipologia della cinta muraria lasciano pensare, come già indicato, ad una postazione militare dei Bizantini che certamente non sottovalutarono l’importanza strategica del sito, dal quale si domina gran parte della piana di Gioia Tauro e un lungo tratto del litorale. La rilevanza militare del centro rimase inalterata sotto le dominazioni successive; i Normanni, infatti, alla conquista capillare del territorio, preferirono l’occupazione di punti nevralgici ed il controllo degli assi Ceramiche medievali (secc. XI-XII) provenienti dai Piani di Casignano. 67 BIBLIOGRAFIA F.A. CUTERI, M.T. IANNELLI, B. ROTUNDO, Da Kellerana a Borrello. Percorsi e insediamenti a nord delle Saline tra X e XII secolo, in Atti del XIII Incontro di Studi Bizantini, Reggio Calabria 2004, c.s. D. GANGEMI, Monografia di San Giorgio Morgeto, ovvero, cenni storici, archeologici,etnografici, Reggio Calabria 1886, rist. anast., Reggio Calabria 2003. G.P. GIVIGLIANO, I percorsi della conquista, in F.A. CUTERI (a cura di), I Normanni in finibus Calabriae, Soveria Mannelli 2003, pp. 23-34. Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783, posta in luce dalla Reale Accademia della Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli, ristampa dell’edizione del 1784 con introduzione di E. Zinzi, Roma 1987. F. MARTORANO, Tecniche edilizie e strutture architettoniche di castelli e luoghi fortificati, in A. PLACANICA (a cura di), Storia della Calabria medievale. Culture Arti Tecniche, Roma 1999, pp. 373-409. F. MARTORANO, Scelte insediative, condizionamenti geologici, problemi di conservazione della Calabria medioevale, in G. LOLLINO (a cura di), Condizionamenti Geologici e Geotecnica nella Conservazione del Patrimonio Storico Culturale, Atti del Convegno GeoBen 2000, Torino 2000, pp. 639-647. D. Minuto, Notizie sui monasteri greci dell’odierna Piana di Gioia Tauro fino al secolo XV, in S. LEANZA (a cura di), Calabria Cristiana. Società Religione Cultura nel territorio della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi. 1. Dalle origini al Medio Evo, Soveria Mannelli 1999, pp. 317-462. G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del regno di Napoli, Napoli 1788-1812. D. VALENSISE, Dell’origine e vicende di S. Giorgio Morgeto, Reggio Emilia 1882, rist. anast., Reggio Calabria 2003. AUTORI Redazione testi: dott. Francesco A. Cuteri, dott. Maria Teresa Iannelli Soprintendenza Archeologica della Calabria, dott. Barbara Rotundo Foto: F. Cuteri, A. Picone TORRE CARDITTO Altre denominazioni Torre Cardeto, Torre Cardito Collocazione Comune di Mammola Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 IV Taurianova F° 590 I Gioiosa I. Long. 601656 lat. 4249236 Quota 800 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Dalla strada di grande comunicazione Rosarno-Gioiosa uscire allo svincolo della Limina. Salire al Piano alla Limina ed al quadrivio seguire le indicazioni per San Giorgio Morgeto. Dopo circa 1 km s'incontra un bivio dove deviare a sinistra. Non appena la strada lascia il piano iniziano alcuni tornanti: posteggiare l'auto dove noterete uno spiazzo sulla sinistra, sotto una scarpata sabbiosa, delimitato da una staccionata. Percorso a piedi: difficoltà E Individuate i segnali bianco-rosso: indicano un sentiero che aggira e supera la scarpata. Traversato un 69 piccolo pianoro si sale nuovamente e giunti al secondo pianoro lasciare i segnali e spostarsi sulla destra. Al bordo della scarpata troverete i resti della torre. Sentieri Vi transita il Sentiero Italia (che qui segue il Sentiero del Brigante) che da Gambarie conduce alla Limina. Alla Limina giunge (o inizia) il Sentiero dei Greci che collega al Santuario di San Nicodemo ed al paese di Mammola. 70 AMBIENTE CIRCOSTANTE La torre sovrasta dall'alto il fiume Torbido, garantendo al visitatore eccezionali viste panoramiche e, in passato, un monitoraggio continuo dei transiti. II boschetto che oggi Ia circonda è costituito da lecci, faggi ed eriche, mentre il sottobosco assume particolare bellezza per la presenza di violette, pungitopo e felci che rivestono gran parte dell'altipiano. ATTUALE CONDIZIONE DEL SITO Della torre oggi rimane solo la base, tanto che il punto più alto rispetto alla linea di terra interna risulta essere 1,70 m circa. Il diametro esterno misura circa 5,00 m mentre quello interno 3,40 m circa. La maggior parte della superficie è ricoperta da muschio ed essenze erbacee (caratteristica è una pianta rampicante che ne ricopre una parte delIa parete interna) e circondata da felci. I muri in pietra irregolare, dello spessore di 80 cm, sul lato nord, sono quasi completamente nascoste dal terreno, lasciando però intravedere la loro chiara forma circolare. Salendo di quota la torre assume una forma conica e lo spessore delle mura arriva a 60 cm. Sono riscontrabili, inoltre, dei fori presumibilmente necessari per il posizionamento di impalcature realizzate in fase di costruzione. 71 Torre Carditto: pianta 72 Prospetto lato sud Prospetto lato ovest 73 Sezione lato ovest Sezione lato sud 74 Diametro interno: 3,40 m Diametro esterno: 5,00 m 75 NOTIZIE STORICHE ED ANTICO UTILIZZO Torre Carditto è un manufatto con funzione militare. Si trova nel comune di Mammola a circa 800 m s.l.m.. La zona è oggi comunemente chiamata “a turri", proprio per la presenza di questa struttura di cui oggi resta solamente la base. Ma la questione che riguarda il nome del sito risulta essere molto confusa, visto che ogni organo competente tende ad individuarlo in maniera diversa: per gli abitanti del posto diviene "Torre Cardito" per l'IGM "Torre Carditto" e per la Comunità Montana della Limina "Torre Cardeto”. Nei pressi, inoltre, vi sono i toponimi Monte della Torre e Fosso Carditto. L'intera zona, dal punto di vista storico, suscita notevole interesse. Gli altipiani della Limina infatti sono stati da tempo oggetto di scavi archeologici che hanno riportato alla luce armi di pietra, urne funerarie e i resti di una chiesa paleocristiana, nello stesso sito in cui si trova oggi il santuario di S. Nicodemo. Il monte Limina costituisce una sorta di limite tra lo Ionio e il Tirreno. La presenza di un antico sentiero greco, che gli storici ritengono fosse la via principale di collegamento tra Lokroi e Medma, ne dimostra l'importanza. Lungo il fiume Torbido, che si origina sui monti della Limina, e che sfocia poi nel mar Ionio nei pressi di Gioiosa Marina, vi sono altre due torri risalenti al 1.500, e precisamente Torre CavalIaro (a pianta circolare e situata a pochissimi metri dal mare), e Torre Galea (a pianta quadrata e collocata a circa 7 km dalla costa) che servivano come punti di avvistamento per il controllo di eventuali arrivi dal mare di navi turche. Altro elemento interessante è la presenza, lungo la strada provinciale 285 che da Cinquefrondi sale alla Limina, a circa 10 Km da essa, del toponimo Torre Alba. AUTORI Redazione testi: dott. Carla Carbone Rilievi: disegni di Salvatore Spatari e Giuseppe Zumbo elaborati nell’ambito del corso di “Rilievo dell’Architettura I”, condotto dal prof. R. G. Brandolino presso la Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Foto: A. Picone 76 VILLAGGIO U.N.R.R.A. Collocazione Comune di Mammola Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 I Gioiosa I. Long. 603784 lat. 4250542 Quota 818 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Dalla strada di grande comunicazione Rosarno-Gioiosa uscire allo svincolo della Limina. Salire al Piano della Limina ed al quadrivio andare a sinistra. Subito dopo, sulla destra, s'incontra il villaggio. Sentieri Vi transita il Sentiero Italia (che qui segue il Sentiero del Brigante) che da Gambarie conduce alla Limina e prosegue verso le Serre. AMBIENTE CIRCOSTANTE Recenti rimboschimenti hanno cancellato la vegetazione originaria. ORIGINI, FONTI, STORIA Il nome di questo piccolo villaggio ci aveva sempre incuriosito ma nemmeno la gente del posto ne ricordava il significato. Ci hanno detto tuttavia che le case che compongono il villaggio furono originariamente costruite per assegnarle ai contadini rimasti senza abitazioni a causa dell'alluvione che nel 1951 colpì duramente l'Aspromonte. Gli assegnatari però le rifiutarono perché lontani dai loro poderi. Subirono nel tempo un graduale abbandono e conseguente degrado. Alcune abitazioni furono occupate abusivamente divenendo seconde case per le vacanze. Attualmente gran parte del villaggio risulta essere posto sotto sequestro dalle autorità giudiziarie. Il 15 agosto di ogni anno la chiesetta richiama numerosi fedeli che vi festeggiano la Madonna dell'Assunta. L'acronimo UNRRA ci riporta ancora più indietro nel tempo. Era l'United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Amministrazione delle Nazioni Unite per l'Assistenza e la Ricostruzione), un organismo che nasce il 9 novembre 1943, due anni prima della creazione dell'ONU. Istituito per portare aiuto ai paesi che uscivano dalla guerra, su iniziativa degli USA con l'aiuto di Unione Sovietica, Gran Bretagna, Cina e l’adesione di 44 nazioni. Il programma era l'assistenza immediata, mediante la 77 fornitura di cibo, carburante, vestiario, medicine e protezione. Doveva anche aiutare la ripresa economica e industriale, creare alloggi (come quelli in Aspromonte) e favorire il rimpatrio di rifugiati e profughi. In Europa cominciò ad operare nel 1944, non appena iniziò lo sforzo di liberazione dei paesi balcanici e mediterranei. Tra il 1944 e il 1946 vennero impiegate 25.000 persone e spesi 4,5 miliardi di dollari soprattutto in Albania, Grecia, Italia, Polonia e Cina. Ben presto la struttura si rivelò inadeguata e nella prima Assemblea Generale dell'ONU si decise lo scioglimento dell’organismo che avvenne nel 1947. AUTORI Redazione testi: dott. Alfonso Picone Chiodo FONTI G. WOODBRIDGE, UNRRA: The History of the United Nations Relief and Rehabilitation Administration, 3 voll., Columbia University Press, New York, 1950. 78 Foto: A. Picone CHIESA DEI SANTI PIETRO E PAOLO Collocazione Monte Tre Pizzi Comune di Ciminà Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 590 III Platì Long. 600574 lat. 4235026 Quota 710 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Dalla S.S. 106, nei pressi di Ardore Marina, si devia per Ciminà dove si giunge dopo circa 15 km. Ci si porta a monte del centro abitato seguendo le indicazioni a sinistra per Zomaro e Moleti. Seguendo per circa 2 km la ripida stradina si giunge ad uno spiazzo sulla destra con un tabellone dove lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà E Il percorso che aggira monte Pettondo e conduce a monte Tre Pizzi segue un sentiero segnato bianco-rosso con lievi saliscendi tra eriche, corbezzoli e lecci. Giunge, in circa 1 ora, al panoramico pianoro di monte Tre Pizzi 79 offeso da una ringhiera che corre lungo il bordo del precipizio. L'antica chiesetta è addossata alla parete rocciosa che si affaccia verso est. Sentieri Dallo spiazzo dove avete lasciato l'auto tornando indietro di circa 3 km s'incontra un altro tabellone (loc. Fasola). Un sentiero, mal segnato, conduce alle cascate Caccamelle, sale a monte Antoninello e termina al villaggio Moleti. 80 AMBIENTE CIRCOSTANTE Una vallata dai morbidi rilievi si dispiega tra i paesi di Ciminà e di Platì, nel versante orientale dell'Aspromonte. Il rosso della sulla fiorita e il giallo del grano rendono dolce ed inconsueto questo territorio. Il paesaggio bucolico è però interrotto bruscamente dai ripidi costoni rocciosi che s'innalzano quasi verticalmente dai 300 m della pianura sino ai 1.000 degli altipiani sommitali. Monte Pinticudi, monte Colacjuri, monte Tre Pizzi, monte Jacono, monte Petrotondo, Aria del Vento, Rocche degli Smaleditti, Rocce dell'Agonia costituiscono una imponente ed inaspettata muraglia. Già i toponimi incutono timore ma, districandosi tra sentieri appena accennati e giunti alla sommità di questi monti, si può godere un panorama unico. A nord est l'amba di Gerace, le rupi di Canolo ed i primi monti delle Serre; a sud ovest Montalto e la dorsale appenninica che si dispiega verso settentrione, la vallata delle grandi pietre dove emergono Pietra Cappa, Pietra Lunga e Pietra Castello e le bianche ferite della frana del lago Costantino e della frana di Fassari; di fronte un ampio tratto della costa ionica. L'ambiente dove è incastonata la chiesetta dei SS. Pietro e Paolo è un pianoro roccioso dove vegetano radi lecci ed eriche sferzati dal vento. Il sentiero che conduce alla meta è semplice ed ombreggiato da una galleria arborea formata in parte da corbezzoli che offrono, in autunno, i loro colorati frutti che quando cadono a terra creano un tappeto giallo-rosso. 81 Pianta a quota 1,50 m Pianta a quota 3 m 82 DESCRIZIONE DEL SITO Dai ruderi tutt'oggi visibili la chiesa era a navata unica con forma pressoché rettangolare, a cui addossato si legge ancora un altro ambiente che era adibito a romitorio, 4,45 x 4,10 circa, che viene menzionato da A. Oppedisano, dimora di un eremita, rientrante di 25 cm rispetto all'edificio principale orientato ad ovest. La chiesa aveva due ingressi. Uno ad est, quello principale di circa 130 cm, e l'altro ad ovest. All'interno della navata si vede bene una nicchia di forma quadrangolare, 140 cm x 130 rientrante di 20 cm, con un elemento che potrebbe considerarsi decorativo per la bellezza, ma che tracce di intonaco tra i crolli fanno affermare con una certa sicurezza che si tratta di elemento strutturale. L'ingresso rivolto a sud è sormontato da una piatta a banda realizzata con materiale lapideo, anch'esso avente funzione strutturale; sulla parete sono leggibili quattro monofore con strombatura verso l'interno (in altre parole dall'esterno verso l'interno si allargano). Nell'ingresso è ben visibile un foro funzionale al portone. Negli angoli si evidenziano circa 7 cm di risega di fondazione. Il materiale usato è pietrame con alternanza di laterizi. Le buche pontaie sono anch'esse ben visibili alla distanza regolare di 1,50 cm. Una parete della Chiesa, precisamente quella di nord-ovest, sfrutta l'andamento e la presenza della roccia, sulla quale è ben evidente, scavata, una canalina che dirotterebbe l'acqua piovana su un lato dell'edificio di culto. Veniva forse raccolta? La proposta di ricostruzione della chiesa è alquanto verosimile poiché 83 sul lato nord, nella facciata principale addossata alla roccia, è ancora presente traccia di falda di tetto, e comunque per la stessa sua posizione doveva essere necessariamente a falda unica. Al mensionamento delle monofore ha contribuito la fortunosa presenza di un architrave di una delle monofore ancora reggente: si tratta di una pietra unica su una delle monofore. La Chiesa misura 8,30 m x 6 m all'esterno, con uno spessore murario di 70 cm. È presente anche un setto murario di 80 cm con funzioni divisorie, ovvero sfruttante lo spazio tra la parete della chiesa e la roccia (con quale funzione?). Prospetto: parete esterna lato sud 84 In alto: parete absidale In basso: particolari della nicchia d’altare Prospetto: parete interna lato nord 85 85 ORIGINI, FONTI, STORIA DEL SITO Lungo il crinale dei Tre Pizzi sono ben visibili i ruderi della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo che si attesta essere stata fondata per volere dell'arciprete Antonio Parrelli. Il vescovo Rossi, il 17 marzo 1751, intervenne alla posa della prima pietra, e il 4 ottobre 1753 lo stesso la benedisse celebrandovi anche la prima S. Messa. Le sue origini tuttavia sarebbero ben più antiche: i Tre Pizzi sarebbero infatti un monte più volte nominato in documenti medievali riguardanti chiese e beni religiosi, con i toponimi “Grande Pietra”, “Tre pietre uguali alberate”, “Pietra alberata”. S'ipotizza che in età medievale esistesse una chiesa o monastero di San Pietro presso i Tre Pizzi, nel cui territorio, o addirittura nel cui sito, sia stata fondata in seguito la Chiesa dei SS. Pietro e Paolo del XVII: il doppio titolo induce il prof. Minuto a supporre che esso fosse proprio dell'impianto religioso precedente, e che quindi fosse pertinente la notizia del monastero dei SS. Pietro e Paolo del sec. XII, anche in considerazione del fatto che Gennaro Pelle annotò che “ai piedi della roccia Tre Pizzi si scorgono ancora i ruderi di un convento di eremiti, che sembra sia stato eretto nel sec. XII. Presso il convento, nel secolo scorso, aveva luogo una tradizionale festa in onore di San Pietro…”. Ipotesi ricostruttiva AUTORI Redazione testi: dott. Rosalba Tripodo Rilievi e rielaborazione grafica: Studio Riproarc di arch. cons. Claudia Cutrupi BIBLIOGRAFIA Foto: C. Cutrupi, V. Galluccio, A. Picone D. MINUTO, Catalogo dei Monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Ed. Di Storia e Letteratura, Roma 1977. 86 ROCCHE DI SAN PIETRO Collocazione Località Rocche di S. Pietro Comune di Careri Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 IV San Luca Long. 591171 lat. 4226856 Quota 578 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Seguire la S.S. 106 sino al bivio con la S.S. 112 dir. per Platì. Percorrerla per 11 km fino a Natile Nuovo e subito dopo a sinistra una stradina scende verso una fiumara e poi risale a Natile in circa 2 km. Attraversare gli stretti vicoli del paese imboccando una pista in cemento e terra battuta che in 2 km sale ai pianori. Ad un ovile sulla sinistra si deve lasciare l’auto. Le rocce sono a breve distanza. Percorso a piedi: difficoltà E Il sentiero che conduce alle rocce è ben visibile e segnato. La scalata alla roccia che ospita l’asceterio è facilitata da un corrimano in legno e gradini scavati nella parete. L’intervento è stato realizzato dall’Associazione Escursionistica “Gente in Aspromonte”. Sentieri Da Natile Vecchio ha inizio il Cammino dell’Alleanza (segnavia bianco-rosso) che raggiunge lo spartiacque tra Ionio e Tirreno, lo segue verso nord e termina a Cittanova. Questi luoghi, d’altronde, si trovano presso la via carovaniera ipotizzata da Domenico Zangari, tra Pietra Castello, Pietra Cappa e la fiumara Careri. delle Rocche dì S. Pietro è scavata in forma di caverna a due piani intercomunicanti e con molte aperture; accanto a questa sono state praticate (si distinguono i segni del piccone) altre grotte minori. 1 a) Grotta principale. Piano inferiore. È il vano più ampio, di forma irregolarmente circolare (diametri: m. 5,58 tra est ed ovest, m 3,72 tra nord e sud), di altezza massima di m 1,86, con due aperture, la principale ad est (m 1,86 di altezza e di larghezza massime), la minore a nord (m 1,70 di altezza e m 0,93 di larghezza massime); comunica con il vano superiore attraverso due fori, uno di cm 15 di diametro, l'altro con diametri di cm 31 tra nord e sud e cm 15 tra est ed ovest. Tratto da: Prof. D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e luoghi di culto tra RC e Locri, 1977, pp.371-374. VISITA L’8 giugno 1969 ho visitato le Rocche di S. Pietro assieme al Sig. Sebastiano Giampaolo, a suo figlio Antonello, di San Luca, e ad alcuni alunni del Liceo Classico “T. Campanella” di Reggio Calabria. Una seconda volta ho visitato le Rocche di S.Pietro e una piccola pianura ad oriente di queste, dove dicesi sorgesse il monastero di Afrundu, il 24 luglio 1970, assieme al sig. Filippo Condemi di Gallicianò. Le Rocche di S. Pietro sono una rocca a forma di largo cono che fronteggia Pietra Cappa, la quale è posta sull'altro versante (quello destro) del torrente Ménica, ed è più alta. La cima 1 b) Grotta principale. Piano superiore. Vi si accede dall'esterno, con ingresso a sud (altezza dell'ingresso, m 1,40, larghezza m 1,30). È un vano diviso in due parti da un dislivello di circa 62 cm, che separa la parte a nord, più piccola e più elevata, da quella a sud, più ampia. La parte a nord misura m 2,17 nella linea est-ovest e m 1 circa, nella linea nord-sud; ha un'apertura di forma irregolarmente circolare con diametro m 0,62 esposta a nord ovest e parecchie incavature o buchi nelle pareti, sia in corrispondenza del foro esterno, sia in corrispondenza del gradino che separa la nicchia minore da quella maggiore; quasi al centro di questa parte sono praticati nel suolo i due fori che comunicano con la caverna del piano inferiore; nel suolo è anche scavata una fossa rettangolare, disposta presso il gradino di separazione delle due parti e parallela a quella della seconda parte, ma più piccola. La seconda parte, a sud, misura m 88 2,17 nella linea est-ovest e m 1,86 nella linea nord-sud; nel suolo, quasi parallela al gradino, è praticata una fossa rettangolare di circa m 0,50 di profondità, m 1,86 di lunghezza (linea est-ovest) e m 0,62 di larghezza (linea nord-sud); sopra l'estremità occidentale del lato lungo settentrionale della fossa sporge un da-do di roccia, in forme definite, anche se non squadrate, come un piccolo altare o sedile (misure approssimative: m 0,40 di altezza e di larghezza – da nord a sud – e m 0,60 di lunghezza, da est ad ovest); nella parete orientale di questa parte è praticata un'apertura irregolarmente oblunga, sopra l'ingresso della parete inferiore, di m 2,48 di altezza e m 0,93 di larghezza massima. 2) Grotta a nord di quella principale. È scavata su una parete di roccia, in forma di mezza calotta sferica (diametro m 2,01) e con un ingresso notevolmente regolare (m 1,60 di altezza e m 0,93 di larghezza), praticato a circa m 0,40 dal suolo e chiuso nella parte superiore con linea curva. Un pò più verso ovest, nella stessa parete, è praticata un'altra nicchietta molto più piccola, in cui si raccoglie acqua piovana. 3) Grotta ad ovest di quella principale. Nella estremità occidentale della rocca dove è praticata la grotta principale c'è una piattaforma di circa tre m di lunghezza (linea est-ovest) e due di larghezza, che può far pensare ad una grotta di cui poi sia crollata la volta… Nella pagina a fianco: inquadramento territoriale stralcio planimetrico scala 1:5000 89 90 91 92 93 …A Natile Vecchio le Rocche di San Pietro sono indicate come “la chiesa di S. Pietro”, mentre per Afrundu parlano di convento. Esse vengono anche chiamate “la mingiòia” termine che indica nel dialetto locale la nicchia nella quale vengono riposti i simulacri dei santi. I pastori che abbiamo incontrato nei pressi delle Rocche di San Pietro dicono che nella grotta più piccola fino a non molto tempo fa “c’erano i Santi”; si dice pure che la fossa nella grotta principale superiore fosse usata da briganti come madia per il pane. Pietra Cappa, che si scorge dalle Rocche dì San Pietro, ne è distante meno di un'ora di cammino, e, a quanto dicono i pastori, non disagevole; essi da Pietra Cappa in un'ora raggiungono Natile Vecchio, passando vicino alle Rocche di San Pietro e ad Afrundu; noi da Natile Vecchio alle Rocche di San Pietro abbiamo impiegato tre quarti d'ora di cammino, piuttosto facile, a parte una scalatella finale. Il piccolo altipiano dove i pastori e i contadini dicono che sorgesse il “convento di Afrundu” è posto ai piedi delle Rocche di San Pietro, tra queste e Natile Vecchio (Natile Vecchio: l 3°35'57" j 38"11'20" Foglio Piatì 255 IV SO 33SWC 92/2/27/5; quota 328: designazione della chiesa attualmente funzionante). Oggi non si vede altro che un piccolo ulivo, piuttosto giovane, un pò inclinato verso est, sopra un mucchio di sassi che formano una irregolare armacera (muretto a secco di sostegno del terreno). Tuttavia parecchi abitanti di Natile Vecchio ricordano l'edificio in piedi e sostengono che tutto il piccolo altipiano apparteneva al convento, dove dicono che fosse la statua lignea di San Pietro che ora è custodita nella chiesa funzionante di Natile Vecchio. Il sig. Luigi Pipicella di Natile mi ha detto di ricordare grandi "finestrate" esposte ad oriente e mi ha indicato un luogo accanto all'ulivo, dove c'era il cimitero del convento e che perciò è 94 chiamato “Santo”. Egli mi ha detto pure che un suo zio ha portato la statua di S. Pietro da Afrundu nella chiesa di Natile dove ora è conservata. In vari luoghi attorno alla pianura di Afrundu sgorgano sorgenti. Mi è stato detto che nella campagna verso est, tra Natile e Bovalino Marina, c'è una località chiamata Santu Petru senza resti di antichi impianti. Ho visitato la chiesa attualmente in funzione di Natìle Vecchio ed ho visto la statua lignea di San Pietro, chiusa in una bacheca che non si è potuta aprire. Il santo regge con gesto deciso nella destra protesa le chiavi e nella sinistra un libro ornato con una grande croce greca (con le liste uguali e rastremate al centro). I colori sono molto vivaci, frutto di un recente vigoroso restauro; pare che se ne minacci un altro ancor più radicale, da parte di emigrati d'America. Sulla base c'è scritto: “Scolpita il 29 giugno 1400 (o 1409?). Restaurata a cura dell'arciprete Jetto. Agosto 194...” (l'ultima cifra della prima e della seconda data erano nascoste dal giro della base). A Natile Vecchio, all'ingresso sud del paese c'è una chiesetta semidiruta che, secondo l'Oppedisano fu fondata verso il 1531 dal principe dì Cariati, fu lesionata dal terremoto del 1783, restaurata verso il 1830 e ancor più gravemente lesionata dal terremoto del 1908… Viste assonometriche del modello 95 96 OSSERVAZIONI …Ritengo che le grotte delle Rocche di San Pietro siano state adibite anticamente come asceterio di eremiti di rito greco: la denominazione di chiesa e il vago ricordo di simulacri di santi, il termine mingiòia (come abbiamo visto, è lo stesso termine che designa la contrada della chiesa di San Leo presso Africo Vecchio: il monastero di San Leo, Visita e Osservazioni), oltre al titolo del Principe degli Apostoli, parlano chiaramente di un impianto religioso. Il termine Àfrundu "Acrantos”, il ricordo di "Basiliani" (Notizie e Pareri, nota 1), la croce greca impressa sul libro tenuto da san Pietro, ne indicano il rito. Pertanto le due fosse rettangolari del piano superiore della grotta principale possono considerarsi come giacigli degli eremiti (dell'asceta e del suo discepolo). Credo che l'asceterio delle Rocche di San Pietro sia stata l'origine del monastero di Àfrundu… 97 Tratto da prof. D. Minuto, ‘Opera, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata n.s. LIII, 1999, p. 358. Gli embrici e la scelta della dimora in grotta, che ritengo una pratica diffusa in Calabria specialmente fra i secc. VII e IX, mi fanno credere che l’asceterio sia stato frequentato in età molto remota, presumibilmente verso il VII o l’VIII secolo. Tratto da: Prof. D. Minuto, L’avvenire di Calabria, 30 ottobre 2004. Ora per arrivarci hanno messo le scalette e il passamano in legno. Utili, perché prima bisognava arrampicarsi, con il facile rischio di precipitare. Ma in questo modo, l’asceterio delle Rocche di San Pietro sotto Pietra Cappa è divenuto una meta per turisti, anche se eletti, amanti della natura e discreti di numero. Per secoli era stato un luogo di assoluta intimità... AUTORI Redazione testi: prof. Domenico Minuto Rilievi e restituzione grafica computerizzata: Università Mediterranea degli Studi di Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, prof. arch. Gaetano Ginex, arch. Stefania Raschi, arch. Gabriella Falcomatà, arch. Domenico Tosto Il modello tridimensionale digitale è stato elaborato dall’arch. Domenico Tosto Foto: G. Ginex, A. Picone 98 SAN GIORGIO DI PIETRA CAPPA Collocazione Comune di San Luca Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 IV San Luca Long. 589990 lat. 4226314 Quota 730 m s. l. m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Dalla S.S. 106, presso Bovalino, deviare per San Luca (11 km). Superare il paese imboccando la strada per la montagna che passa dal cimitero. Seguirla per circa 8 km e poi lasciarla per una strada in terra battuta sulla destra. Si scende, per circa 2 km, sino all'abbeveratoio in località Fontanelle e guadato il torrente si sale per giungere, dopo meno di un km, al casello forestale di San Giorgio di Pietra Cappa. La chiesetta è poco sotto il casello. Sentieri Dal casello transita il Sentiero Italia (segnavia bianco-rosso) che verso valle conduce a San Luca, passando presso Pietra Lunga e Pietra Castello. Verso monte, invece, supera monte Scorda e monte Misafumera e giunge a Zervò. Aggira Pietra Cappa anche il Cammino dell’Alleanza. TERRITORIO CIRCOSTANTE È opportuno per meglio comprendere questo sito conoscere i dintorni e l’importanza del “distretto” di Pietra Cappa. A 3 Km in linea d’aria a sud di Pietra Cappa si trova Pietra Castello – a 900 m di altitudine – domina l’alto corso del Buonamico, un tempo navigabile. Il castello è chiaramente bizantino, posto in zona d’alta quota, permetteva il controllo sia della marina che della montagna e che il prof. Minuto identifica con la Torre d’Aspromonte, che la Chanson d’Aspremont del XII secolo fa teatro di aspre battaglie tra i Paladini di Carlo Magno e i Saraceni. A un’ora di marcia dalla chiesa di San Giorgio, su uno dei colli alle falde dell’altipiano di Pietra Cappa, c’è l’asceterio delle rocche di San Pietro – una grotta a due piani a forma di teschio – e, ai piedi di questo colle, il monastero di Afrundu (oggi 99 completamente scomparso, lo ricorda un albero di ulivo e i pastori anziani). La fiumara di Careri, qui vicina, portava accanto a sé un’antica strada romana che saliva allo spartiacque. Ad 1 Km in linea d’aria a sud est di Pietra Cappa – a quota 600 circa – vi è la località Cicerati, è fama che qui sorgesse un’antica cittadina, i cui abitanti si recavano nella chiesetta di San Giorgio per le funsioni religiose. Tutto il territorio godeva di un’intensa vitalità nell’altomedioevo e probabilmente anche in età più antiche, in età romana e forse in età greca. 100 DESCRIZIONE DEL SITO A 730 m di quota, orientata verso Pietra Cappa e non lontana da essa, vicino al casello della forestale, troviamo i ruderi, sempre più evanescenti della chiesetta di San Giorgio. La sua pianta quadrangolare misura circa 39 piedi bizantini (9,20 x 9,20 m, quindi un po’ più grande di San Pietro d’Otranto che misura circa 8 m, della Cattolica di Stilo e di San Marco di Rossano di circa 7 m, ma più piccola degli Ottimati di Reggio Calabria di 12 m circa), tranne il lato orientale, appunto, in direzione Pietra Cappa, che sporgeva verso l’esterno con 3 piccole absidi di diseguale regolarità geometrica. La più grande, quella mediana, di circa 3 m di diametro, guardava a 60° e conteneva l’altare; le laterali, più piccole di 1,90 m, dovevano avere il diaconicòn a 65° e la prothesis a 70°. A differenza delle altre chiese bizantine di uguale tipologia, la chiesetta di San Giorgio presenta 3 ingressi: quello principale sulla parete occidentale di fronte alle absidi e quindi in asse con l’abside maggiore e i due ingressi laterali più piccoli, orientati rispettivamente a nord e a sud, posti non al centro ma presso gli angoli con la parete ovest. Così che il Venditti ha potuto ipotizzare la presenza di un nartece, come negli Ottimati. Inoltre gli studi di Gennaro Pesce, condotti nel 1936, ci informano che per accedere all’interno bisognava scendere 3 gradini dall’ingresso occidentale, 2 da quello settentrionale, e tutto l’edificio poggiava su di una piattaforma appositamente costruita per ospitare la chiesa. Terrazza con 40 m di lato, alta sul piano di campagna circostante 1,50 m dai lati sud ed est, dove il piano della radura scende in declivio. I muri del quadrilatero, come pure quelli della fronte del terrazzamento, sono costituiti da pietre di arenaria grigia locale, unite con malta. L’interno era quindi diviso in 3 navate da 4 colonne monolitiche alte 4,15 m, due di granito e due di breccia. Le quattro colonne poste al centro, formavano un quadrato su cui certamente saranno stati poggiati gli archi i quali, nelle chiese di questa forma, costituivano al centro il telaio che sorregge una cupola e inoltre dividevano tutto l’ambiente in nove settori, disegnando una “croce inscritta” (a croce inscritta sono anche le chiese bizantine di Stilo, Reggio e Rossano). La massima altezza dell’edificio dal pavimento alla sommità della cupola molto probabilmente doveva raggiungere all’incirca i 30 piedi. Sicuramente la copertura era costituita da una cupola centrale (come a Pietro d’Otranto e anch’essa con 3 absidi diseguali), ma è anche probabile che avesse altre 4 cupole più piccole ai quattro lati, ed assumesse all’esterno l’aspetto molto prossimo a quello della Cattolica di Stilo, il monumento più noto della bizantinità calabrese. Questa ipotesi potrebbe essere confermata dalla presenza di molti frammenti di colonnine di marmo bianco, trovati sul luogo che fanno pensare a diverse bifore, finestrelle a doppio arco, che hanno il sostegno centrale di una colonnina e, - tenuto conto che queste finestrelle adornano le cupole – si potrebbe pensare che San Giorgio avesse più di una cupola. La struttura muraria non è regolare: presenta grosse pietre, fino a 30 cm, e conci (pietre squadrate) intervallate da strisce di mattoni. Riportiamo una descrizione attenta da parte del prof. Pianta Minuto, esperto bizantinista e studioso dei paramenti murari: “…Sono soprattutto mattoni ed embrici, e questi sia di tipo romano e tardo antico, sia di tipo greco. Sono alternati alle selci, che sovente sono sostituite da conci, specie negli allineamenti più bassi ed in alcune sezioni della muratura. Gli allineamenti dei cotti, che sono, come ho detto, frammenti di embrici o di mattoni, alcuni sesquipedali, non sono sempre continui e leggibili; tuttavia tutti i ricorsi sono disposti con evidente cura dell’orizzontalità. I conci sono di forma sia cubica che parallelepipeda, e questi 101 non sempre sono poggiati sul piano maggiore, ma in verticale. In tal modo si creano scompensi nell’orizzontalià, chiaramente ricercati, per quella forma che nello studio a più voci…, ho proposto di chiamare “a filare spezzato, attestata in apparecchiature murarie calabresi di secolo VI-VII e talvolta anche successive…” Quando, nel 1936, Gennaro Pesce studiò i ruderi della chiesetta, questi erano molto più appariscenti, allora resisteva parte del pavimento policromo in marmo lavorato a mosaico con tessere di forme quadrate, triangolari, romboidali (simile a quello degli Ottimati, ma forse più bello), gli intarsi si alternavano in modo da formare una successione di croci intervallate da svecchiature lapidee di pregevole fattura e di probabile provenienza romana. Infatti il tipo di materiale “nobile” utilizzato in una chiesetta così lontana e sperduta, fa propendere per l’ipotesi che il tempietto fosse stato costruito con materiale di risulta, ricavato da qualche tempio pagano e da una committenza di rango per una frequentazione notevole. Il Pesce fece smontare il pavimento affinché potesse essere ricostruito nel Museo di Reggio Calabria, cosa che però non avvenne, ne è facile sapere dove siano ora questi pezzi. Dopo il primo ed ultimo scavo del 1935, si è dovuto attendere l’intervento della Legambiente di RC nel 1993 con la squadra dei giovani volontari internazionali dello SCI, per un’azione di pulitura del sito completamente ricoperto da rovi e selci, e sotto la consulenza del dott. Claudio Sabbione, Funzionario della Soprintendenza Archeologica, furono raccolte molte cassette di cocci ed anche fu riconosciuta nei pressi della chiesa una tomba di età romana. Dei manufatti impiegati nella costruzione della chiesa di San Giorgio a San Luca, alcuni sono segnalati in altri siti. Una colonna delle maggiori, ad esempio, si trova ora a Polsi, mentre una delle colonnine delle bifore, è stata reimpiegata in una struttura religiosa di Natile Vecchio. Giorno 5 agosto del 2004 chi scrive, insieme ad Alfonso Picone, al dott. Cuteri e ad altri architetti ci siamo recati presso il sito, dove in quei giorni era stato condotto un eccellente lavoro di ripulitura da parte degli operai dell’Afor del casello forestale di San Luca diretti dal dott. Infantino (manutenzione che si spera venga mantenuta nel tempo, così come per gli altri siti), trascorrendo una bella 102 giornata in loro compagnia circondati dai castagni millenari. Uno di essi, enorme, ombreggia ancora il vasto spiazzo antistante il casello. Oggi, il terrazzamento è recintato per impedire che l’ingresso degli animali degradi ulteriormente i ruderi ormai evanescenti: quello che rimane sono due colonne spezzate, rotolate all’interno della chiesetta ormai senza copertura e porzioni di muri con spessore di circa 95 cm di cui quelli orientati a nord e a sud raggiungono le maggiori altezze (massimo 3 m) e spuntoni ancora visibili sul lato est che presuppongono le tre absidi. Schema di cinque chiese a pianta centrale comparate in scala 103 ORIGINI, STORIA DEL SITO Dagli ultimi studi condotti sulla nostra chiesetta ci si è orientati ad attribuire una datazione attorno al VIII secolo, una datazione più alta rispetto all’ipotesi del X secolo proposta nel ’36 da Gennaro Pesce. Indispensabili sono stati i contributi dati dal prof. Domenico Minuto. Il suo studio sui paramenti murari in collaborazione con l’architetto Venoso ha permesso di ipotizzare il VII-VIII secolo come età di appartenenza. È naturale chiedersi come mai una chiesetta così elaborata sia sorta in una zona così boscosa e solitaria. L’edificio è collegato con le memorie pervenuteci di un monastero greco indicato come San Giorgio. Nel 1197 c’era una comunità di asceti il cui categumeno (l’abate) commissionò la copia di un evangelario all’ieromonaco (monaco sacerdote) Atanasio. Dopo la distruzione della Cittadina di Pietra Cappa, che avvenne ad opera delle orde arabe nella primavera del 952, la popolazione si disperse e, dalla diaspora nacquero vari piccoli villaggi. Per questo nei documenti a noi pervenuti si parla di san Giorgio di Bovalino e non di Pietra Cappa, ed inoltre in età normanna inizia il declino di Pietra Cappa. Qui i nostri asceti greci praticavano l’isichia, cioè il raccoglimento nella preghiera e nel silenzio, e l’ambiente era certo adatto allo scopo; si dedicavano al lavoro manuale, soprattutto nella trascrizione di testi sacri e nell’attività agricola. Ma già alla fine del XII secolo era un avviato monastero. Un documento del 1240, riportato dal Minuto dà una descrizione dell’azienda agricola del monastero, che denota una situazione economica considerevole e 104 se San Giorgio fu concepita all’inizio come chiesa monastica, nel periodo di maggiore floridezza si sarà trasformato in un monastero suburbano oppure in un luogo di culto grandemente venerato e notevolmente solenne (conferma dataci dalle sontuose decorazioni del pavimento), come è ora Polsi; non certo di un cenobio per asceti dediti alla preghiera nella solitudine dei monti e alla completa povertà. D'altronde le altre tre chiese a croce inscritta si trovano in ambienti cittadini e furono molto frequentate: Stilo, Rossano, Reggio. Era, quindi, molto affollato questo luogo che oggi sembra suggestivo per la sua remota solitudine. Ma già nel 1457 il monastero doveva essere ormai deserto, probabilmente già soppresso e accorpato, come dipendenza, all’abbazia del Santuario di Polsi. Conferma dataci anche dalla Platea di Polsi nel XVI secolo. LEGGENDE Dopo il 1935 l’abbandono ha fatto dimenticare la chiesa di San Giorgio e tra il disinteresse delle autorità soltanto il mito popolare di san Giorgio si alimentava, producendo conseguenze disastrose. Come quando, tra gli anni ’60 e ’70, un intraprendente e troppo radicale ricercatore abusivo impiegò una ruspa abbattendo i muri dell’abside centrale per scavare sotto il sito alla ricerca di un improbabile cavallo d’oro di san Giorgio. E inoltre interessante riportare alcune informazioni circa la vita degli asceti calabresi. Particolare era la vita monastica che si conduceva in queste zone. I monaci vivevano da eremiti, specialmente tra i secoli VII e IX, nell’assoluto silenzio e nella completa solitudine e povertà scegliendo le grotte come dimora (gli asceteri di Pietra Castello, di Pietra Cappa, ecc.) o praticavano il cenobio, la vita di comunità. A volte i nostri asceti praticavano la forma mista, e tale forma si chiamava lavra o laura, esistevano gruppi di celle eremitiche, quasi sempre grotte, servite da una cappella comune detta “cattolica”. 105 BIBLIOGRAFIA D. MINUTO, ‘Opera. Pietra Cappa altomedievale, Bollettino della badia greca di Grottaferrata, n.s. LIII, 1999, pp. 349-367. D. MINUTO, L’avvenire di Calabria. Arte e storia, 18 gennaio 1997. F. NUCERA, La valle del buonamico, Quaderni della Fondazione Corrado Alvaro, p. 17. M. CARLINO, Calabria, A. XXII, n.s. n. 107, agosto 1994, pp. 68-76. D. MINUTO, S.M. VENOSO, Indagini per una classificazione cronologica dei paramenti murari calabresi in età medievale, Atti dell’VIII Congresso storico calabrese, Soveria Mannelli 1993, pp. 183-226. D. MINUTO, S.M. VENOSO, Storia della Calabria medievale. Cultura arti tecniche. L’architettura religiosa in età bizantina, Gangemi editore, Roma 1999. 106 AUTORI Redazione testi: dott. Carla Carbone Rilievi: arch. Sebastiano Maria Venoso Foto: C. Cutrupi, A. Picone PIETRA CASTELLO Altre denominazioni Castello delle Tortore, Castello, di Potamia, Torre D’Aspromonte Collocazione Comune di San Luca Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 IV San Luca Long. 590000 lat. 4223794 Quota 889-943 m s.l.m. I dirupati costoni di Pietra Castello COME ARRIVARE Di tutti i siti indagati questo è quello che presenta maggiori problemi nell'accedervi per la difficoltà di orientamento ed i diversi tratti esposti. Consigliamo quindi di farsi accompagnare da guide qualificate. TERRITORIO ED AMBIENTE CIRCOSTANTE Pietra Castello sorge su una piattaforma di conglomerati ed arenarie che interessa una grande area alle spalle dell'abitato di San Luca. Tutta la zona, conosciuta ormai come la Valle delle Grandi Pietre, si estende a partire da rocca di Saracinò, incombente sull'abitato, comprendendo l'altipiano di Palazzo, le alture di Pietre di Febo, il massiccio di Pietra Castello, la valle di Buttiglierìo, la collina di Carlo, Pietra Lunga, Pietra Stranghiò, il Vallone di Salìce, Pietra Cappa, le Rocche di San Pietro, i piani di Livodaci e Cicerati, il canyon di Cabelle, la rocca di Santo Jerasimo e Calarìa. Su questo tavoliere disomogeneo per altimetria, tagliato da frequenti e suggestivi valloni e da profondi canyon, si elevano, evidentemente modellate nei millenni dagli eventi naturali, delle eminenze rocciose di particolare bellezza ed effetto panoramico. Le più note sono: Pietre di Febo (m 870); Pietra Lunga (m 874); Pietra Stranghiò (m 798); Pietra Cappa (m 819) e Pietra Castello (m 943). Chi arriva per la prima volta ai piedi di quest'ultimo maestoso massiccio, ha la sensazione di trovarsi in un luogo di favola, per il particolare effetto scenico che si trova davanti. Pare impossibile che degli uomini abbiano pensato di costruire su quell'altura, in mezzo a quelle forre solitarie e a 107 quella intricata boscaglia, una fortezza militare. Al termine della faticosa ascesa per raggiungere l'interno della fortificazione, molti interrogativi si spiegano con la constatazione della imprendibilità della rocca, con la facilità del controllo totale del territorio circostante e con la straordinaria bellezza del paesaggio. Il cono di pietra che sovrasta i ruderi del castello, alto una quarantina di metri, è formato da conglomerati ben amalgamati con clasti sferoidali di granitoidi di varie dimensioni, alcuni con diametro superiore ad un metro. Affacciandosi verso nord-ovest, appena ai piedi della rocca, c'è l'impressionante vallone di Buttiglierìo con i suoi declivi a perpendicolo, le sue forre profonde rigate da piccole cascate e i suoi orridi dove si arrischiano solo le capre. Più in 108 Pietra Castello: planimetria LEGENDA: C - terza cortina muraria F - edificio orientale A - prima cortina muraria, accesso D - chiesa G - edificio settentrionale B - seconda cortina muraria E - cisterna H - resti di muratura nella grotta 109 lontananza verso nord spuntano dall'intrico delle foreste di querce, elci e corbezzoli, le sagome delle altre pietre monumentali : Pietra Lunga, Pietra Stranghiò e Pietra Cappa e più in lontananza il verde cupo delle foreste di monte Scorda, monte Misafumera e monte Ciarasara. Girando lo sguardo più ad ovest, l'attenzione dell'osservatore è attratta dalla catena più interna dell'Aspromonte: Monte Fistocchio, Vocali, Cannavi e più in alto Montalto, qualche volta velato di nubi, e l'alto corso del Buonamico che inizia il suo cammino nei pressi del Santuario di Polsi ai piedi della valle della Sibilla. Girando intorno al masso conico centrale e guardando verso sud c'è il lago degli oleandri e le due grandi ferite nella montagna: la frana di Costantino e quella di Fassari; sotto, i ruderi di Potamia, più in lontananza il Buonamico con il suo letto 110 spropositato e le ultime propaggini, verso sud est, dell'Appennino calabrese ai due lati del torrente Butramo. Portandosi poi sulla fenditura naturale del masso, che forma una terrazza naturale, e volgendo lo sguardo verso est, si scorge un vasto panorama sulla costa dei Gelsomini da Capo Bruzzano fino a Roccella. Veramente un punto di osservazione straordinario, forse unico. DESCRIZIONE DEL SITO Le condizioni attuali del sito sono naturalmente estremamente precarie. In pratica il manufatto, che sorgeva intorno alla rocca naturale, deve essere stato abbandonato già nel Medio Evo, giacché su di esso non sono rimaste altro che leggende e favole e, finora, nessuna testimonianza storica. Già all'inizio dell'ascesa, che si trova a notevole distanza, sono visibili, ma solo a chi conosce bene il posto, vestigia di una cortina muraria e segni di un probabile primo ingresso; più avanti affiorano altri mozziconi di strutture edili che bisognerebbe studiare per capirne la consistenza e l'eventuale funzione, poi si arriva ai piedi del masso e si procede attraverso un percorso scavato nella roccia a ridosso della grande pietra. Si raggiunge quindi un primo muro di cinta molto spesso, 1 metro (I prima cortina muraria), ma ormai cadente e poi, dopo pochi metri un secondo muro (II cortina muraria), dove si indovinano i segni di quelli che furono gli appoggi di un ponte levatoio; infine un terzo muro (III cortina muraria) su cui si appoggia la parte absidale orientata di una minuscola chiesa bizantina, costruita con trame murarie diverse: sono presenti infatti conci squadrati e a forma di cubo e di parallelepipedo ben lavorati e di grande dimensioni e selci non squadrate di varia grandezza assieme a cotti e mattoni di diverso spessore. La chiesetta è il primo manufatto che s'incontra entrando nel castello; attiguo alla chiesa un vano ipogeo, sgretolato in parte dalle radici di elci che si insinuano nei muri, ma ancora intatto in altre parti; la volta del vano è a forma di botte e i muri sono rivestiti con un intonaco fine e compatto: si indovina che potrebbe essere stata una cisterna per la raccolta e la conservazione dell'acqua piovana. Girando sulla fenditura naturale, si notano resti di muri attaccati alla roccia e vestigia di un parapetto sul lato nord. A nord-ovest e ad ovest, per una lunghezza di una cinquantina di metri, si notano i ruderi di altre fabbriche, costruite con la stessa tecnica di muratura alto medievale. Questo più o meno ciò che affiora e che è visibile tra le rovine, le frane e la fitta vegetazione. Certamente una campagna di scavi potrebbe dare risposte scientifiche che oggi è impossibile ipotizzare, anche se 111 alcune fortunate scoperte, come il rinvenimento di monete (follis di Bisanzio) del IX, X e XI secolo 1 confermerebbero le ipotesi più accreditate che vogliono Pietra Castello fortificazione bizantina. Tutta la zona, conosciuta come La Valle delle Grandi Pietre, è composta da un ecosistema ancora miracolosamente intatto, affatto antropizzato. La presenza dell'uomo è limitata quasi esclusivamente alla sorveglianza del bestiame, che qui vive allo stato brado, da sempre. Nessuna altra attività economica sarebbe possibile per la conformazione rocciosa della zona e l'assenza di campi arabili. Solo nelle brevi pianure di Cicerati e Livodaci e nella parte pianeggiante di Calarìa, di San Jerasimo e parzialmente di Palazzi sarebbe praticabile l'agricoltura. Un tempo queste località erano il granaio di San Luca, oggi, o sono totalmente incolte o in esse si coltivano solo la vite e l'ulivo. Per il resto il territorio è coperto da bellissimi boschi di elci, da erica arborea, da corbezzolo e dalle diverse varietà di quercia. Il castagno è quasi esclusivamente presente nella zona di San Giorgio, dove ancora si può ammirare qualche esemplare multi centenario di questa essenza, Particolare del muraglione Grotta scavata nella roccia probabilmente destinata alla funzione di rifugio Sezione longitudinale LEGENDA: A - seconda cortina muraria B - chiesa: sezione absidale C - chiesa: prospetto parete interna sud-est D - Muraglione: prolungamento della seconda cortina muraria E - cisterna 112 Chiesa: prospetto sud Chiesa: particolare dello stipite (visto dall’alto) e del relativo angolo nord-est della parete orientale 113 Chiesa: prospetto est 114 Seconda cortina muraria: parete 115 In primo piano: brano murario settentrionale della chiesa. In secondo piano: veduta della seconda cortina muraria di accesso alla fortezza portata dai monaci bizantini del monastero omonimo all'inizio del secondo millennio, e in cui negli ultimi decenni sono stati introdotte nuove piantagioni. La fauna del comprensorio ha subito, come nelle altre zone dell'Aspromonte, un feroce depauperamento, dovuto a molteplici cause, tutte legate alla modernizzazione dell'economia, all'imprevidenza delle autorità e all'incoscienza di alcuni frequentatori e fruitori del territorio. Erano presenti il lupo, la volpe, il cinghiale, la martora, la faina, il tasso, il driomio, il ghiro, lo scoiattolo, la donnola. Nel campo dei volatili c'erano quasi tutti i rappresentanti delle varie famiglie dei rapaci diurni e notturni, dall'aquila del Bonelli, ai piccoli e grossi falchi, al gufo reale; le pernici, le coturnici, beccacce e moltissime altre varietà di uccelli. Oggi solo alcuni di questi animali popolano il territorio, sebbene da qualche anno si stia osservando un 116 lento, ma continuo ritorno nella zona di rappresentanze di animali che erano quasi totalmente scomparsi, fatto dovuto certamente al divieto di caccia introdotto dall'Ente Parco dell'Aspromonte. La cengia di Pietra Castello ORIGINI, FONTI, STORIA DEL SITO Non esistono, o almeno non mi sono noti, documenti o fonti storiche che attestino le origini della fortezza aspromontana. Di fatto essa è un caso singolare e forse unico di munizione militare costruita nel cuore più remoto di una impervia montagna. Si deve allo studioso di storia alto medievale e bizantina prof. Domenico Minuto se conosciamo riferimenti o qualche menzione del sito (con diversa denominazione) in documenti antichi, a volte in maniera indiretta. Minuto riporta, nel citato studio sui Luoghi di Culto tra Reggio e Locri, quanto Giuseppe Minasi, in Lo Speleota – Napoli 1893 –, opina circa il Castello delle Tortore, menzionato nel bios del santo reggino, ritenendolo senza dubbio quello di Potamia, spingendosi persino a una descrizione dettagliata, come se l'autore ottocentesco avesse visitato direttamente il luogo « ...un castello nel territorio di San Luca sul versante del Jonio nella Calabria meridionale. Veggonsi anch'oggi corrosi dal tempo i merli, le feritoie e i ruderi di questo edifizio immenso per mole. Nella sua parte inferiore si osserva ancora l'antica scala, la cisterna e parecchie grotte, le quali servono talvolta di ricovero ai pastori 2 ». La descrizione più antica del luogo, però, è forse quella riferita a Stefano Piteri, rettore settecentesco del Santuario di Polsi che, in un suo manoscritto, composto nel primo trentennio del XVIII secolo, ritrovato da Vincenzo De Cristo nel 1911, e riportato dal Gemelli così dice del sito « ...Sorge sopra Potamia un altissimo promontorio, tutto circondato da rupi e da profondissime valli, sul quale duecento anni prima della venuta di Ruggero, nello 884, fu eretto un castello di natura inespugnabile, per ritiro delle genti nelle invasioni dei Saraceni... nel recinto delle mura vi erano bellissime piazze, molti edifici e cisterne... Il castello nell'interno del medesimo sasso ha più camere di pietra solidissima che ancora si vedono... 3 ». A parte la scarsa attendibilità della data di fondazione del Castello, citata 117 senza riferire la fonte, si direbbe che anche il Piteri abbia visitato il sito, trovandolo in condizioni assai meno precarie di oggi. Siamo all'inizio del 1700 e terremoti devastanti come quelli del 1783 e del 1908 dovevano ancora venire. Domenico Zangari, parlando di Potamia così dice del suo castello « Potamia veniva protetta dai monti che degradano dagli Appennini e da un inespugnabile castello che, quale occhio di falco, ne perlustrava i punti più importanti e le vie carovaniere di Pietra Lunga e Pietra Cappa 4 ».) Si può concludere, allineandosi all'ipotesi proposta dal prof. Minuto, magistralmente argomentata nello studio “Pietra Cappa e dintorni“ letta nel gennaio 1999 a San Luca nel convegno Monaci e Monasteri greci nel territorio di San Luca e dintorni, che la fortezza sia stata costruita nel VII o VIII secolo dagli occupatori bizantini, sovrapponendola ad un'opera di fortificazione preesistente, probabilmente costruita da popolazioni italiche in epoca ellenistica. Cisterna: spaccato assonometrico MITI E LEGGENDE Un sito così solitario, austero e misterioso non poteva non suscitare leggende, miti e favole. E molte sono state, nel passato, ormai caduti nell'oblìo. Pietra Castello era considerato un tempo, luogo frequentato da folletti capricciosi e birichini, da fantasmi del passato e anche luogo di riunione di streghe. Ma le leggende che sono giunte fino a noi sono quelle che riferiscono di soprusi e violenze compiuti da ignobili signori ai danni di indifese fanciulle del popolo. C'è pertanto l'arcinota leggenda della Bella Atì, quella dell'assedio degli sgherri del Papa alla ricerca di nemici della Santa Sede, c'è quella del conte Ruggero che, accompagnato dal monaco Florio cerca nel castello la nipote Rosalia, fuggita da Palermo per sfuggire al matrimonio e così conservare i gigli verginali, riportata dal già citato Piteri, altrettanto improbabile quanto inesatta nei nomi e nelle date. E quella raccontata da Domenico Giampaolo, medico di San Luca che qui mi piace riportare perché poco nota e per l'intensa partecipazione del narratore e il suo linguaggio erudito, zeppo di aggettivi e quasi gotico, come gotica è la rappresentazione « ... Il lieve stormire delle foglie sembra il passo misterioso di qualcheduno che s'avvicini, e comunica brividi. Vaghi profili si disegnano nell'oscurità, e in mezzo a quelle ombre fosche l'occhio allucinato stranamente vede delinearsi una bianca veste verginale, slanciata e flessuosa che sorge da una tomba, mentre una testa nascosta da lunghissime chiome scomposte che scendono fluttuanti fino al suolo, si disegna meglio. Due mani stecchite allontanano lentamente il volume di capelli che nascondono il volto, ed apparisce una faccia pallidissima, di una vaporosa bellezza, i cui occhi sembrano di poco a poco svegliarsi da un sonno lunghissimo, e fissarvi con 119 una espressione indefinibile, sinistra e tragica, mentre la bianca tunica, aprentesi d'improvviso, vi mostra il seno esuberante, su cui rosseggia una lunga striscia di sangue che stilla lentamente fino al suolo. Vi sentireste tentati, vincendo lo stupore, d'interrogare quella strana vergine, bella di una eterea bellezza, ma la vostra voce non otterrebbe risposta alcuna...nessuna umana favella potrebbe rendervi il senso profondo della sublime tragedia compiutasi, più di trecento anni fa, lì, in quel luogo, dove un'anima nobilissima, una candida vergine, rapita all'affetto dei suoi cari dall'amore prepotente del signore di quel forte antico, si trapassava il seno con un coltello, anziché cedere all'amplesso tirannico. E quella pallida ombra ogni notte, a quell'ora, suole mostrare quivi il suo dolente aspetto, sorgendo dall'avello, che fra quelle mura medesime ergevale l'innamorato e pentito suo tiranno, tardo ammiratore di inaudita virtù. Ed ella si dilegua, mentre gemiti lugubri e repressi le tengono dietro, come di persona che la seguisse, di un altro fantasma che implorasse un perdono chiesto da secoli e non mai concesso. ... In questo cupo luogo è entrata, sotto mille forme, la tragedia umana e vi spirano ancora il terrore e la pietà 5». RIFERIMENTI LETTERARI Corrado Alvaro, che molto probabilmente non visitò mai Pietra Castello, fa un solo accenno descrittivo « si vedeva da lontano il mare balenante nell'ombra serale... e davanti al mare una montagna che pareva un dito teso... 6 » Edward Lear non nomina direttamente Pietra Castello, ma dà una descrizione illuminante del massiccio visto da lontano, da par suo « Mentre proseguivamo salendo il torrente, le rocce apparivano sempre più vicine, fin sopra l'alta rupe della gola, le torreggianti forme dell'Aspromonte sembrano chiudere fuori il cielo... Il senso di mistero e di solitudine di quelle scene, la profonda solitudine di queste montagne, sono tali che né la penna né la matita possono descrivere 7 ». Domenico Giampaolo Nel libretto citato cosi descrive il Castello « Più in alto, come un antico feroce meditante le vicende di delitti passati, ergesi lugubre l'antico castello feudale che domina le misere rovine della cittadina scomparsa (Potamia). La massa conica, enorme e selvaggia, mostra da lontano macchie nere che destano l'impressione di immani occhi di Argo... A chi volesse arrivare fin là, quella amplissima, nera, profonda apertura farebbe l'impressione di una porta lugubre che conducesse in qualche inferno 8 ». Domenico Minuto dà una descrizione asciutta ed efficace « È un'altura con un amplissimo panorama su tutta la costa sottostante, con tracce ancora di fortificazioni medievali, grotte e cunicoli 9 ». Grotta e muraglione della seconda cortina muraria 1 D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977. 2 D. MINUTO, op. cit. 3 S. GEMELLI, Storia tradizioni leggende a Polsi d’Aspromonte, Ed. Parallelo 38, Reggio C. 1974. 4 D. ZANGARI, Appunti di Corografia Calabra (San Luca), Editrice Ardenza, Napoli 1939. 5 D. GIAMPAOLO, Un viaggio sl Santuario di Polsi in Aspromonte, 1911. 6 C. ALVARO, Gente in Aspromonte, cap. I, Treves, Milano 1931. 7 E. LEAR, Diario di un viaggio a piedi. Calabria 1847, Ed. Parallelo 38, Reggio C. 1976. 8 D. GIAMPAOLO, op. cit. 9 D. MINUTO, op. cit. 120 AUTORI Redazione testi: Fortunato Nucera Fondazione “Corrado Alvaro” Rilievi e rielaborazione grafica: Studio Riproarc di cons. arch. Claudia Cutrupi Foto: C. Cutrupi, A. Picone PRECACORE Altre denominazioni Crepacore, Pelicore, Percore, Petracore Collocazione Comune di Samo Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 III Bianco Long. 592202 lat. 4114366 Quota 302 m s.l.m. Il sentiero per Precacore COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Dalla S.S. 106 si dipartono le deviazioni per Samo. Chi viene da sud superato Africo Nuovo e poi il ponte sulla fiumara La Verde incontrerà a sinistra la diramazione per Samo. Per chi proviene da nord è all'altezza di Bianco che troverà le indicazioni per Samo dove si giungerà dopo circa 12 km di strada. Entrati nel paese lasciare l'auto in piazza Municipio e chiedere di Precacore. Percorso a piedi: difficoltà T Dopo una breve ma ripida discesa un ponte di recente costruzione consente di superare il torrente Santa Caterina, affluente della fiumara La Verde. A sinistra si nota l'antico ponte in pietra. Dopo un altro breve tratto di strada in terra battuta un'edicola indica l'inizio della Via Crucis che sale a Precacore. Alla fontana della Rocca, sulla sinistra, un sentiero acciottolato lascia la stradina seguendo quindi le stazioni della Via Crucis. Sotto incombenti pareti di conglomerato ci si affaccia sul vallone di S. Caterina e su Samo giungendo quindi ai primi ruderi di Precacore. Sentieri Da Samo ha inizio un sentiero (segnavia bianco-rosso) che conduce a Montalto, cima più elevata dell'Aspromonte. 121 La chiesa di San Sebastiano svetta su Precacore Tratto per intero da: Vito TETI, Il senso dei luoghi Paesi abbandonati della Calabria, Donzelli editore, Roma 2004, pp. 179-180, 188-192. Per gentile concessione dell'autore. Il nuovo abitato di Samo e gli antichi ruderi di Precacore sono contigui. Si osservano come per controllarsi, per non separarsi. Dall'abitato di Samo i ruderi di Precacore appaiono come una sorta di rimorso, di memento mori, come il luogo di fondazione e della memoria. Dalla collina con i ruderi le case di Samo appaiono una sorta di continuità della vita. Un colpo d'occhio, ma anche l'obiettivo del fotografo, li abbraccia tutti e due, e ne viene un senso di spaesamento e di pace, la percezione di osservare un luogo in cui il passato continua a vivere con il presente. L'antica Samo sarebbe stata fondata dagli Joni di Samo per fuggire a Dario, presso Capo Zefirio. Poi viene spostata verso l'interno nella pianura della fiumara La Verde. Non mancano, neanche in questo caso, i riferimenti 122 ad Erodoto e a Polibio. L'arretramento verso l'interno continua all'epoca delle invasioni saracene. Rasa al suolo alla fine del X secolo, i superstiti si dirigono all'interno verso il monte dove nasce Palecastro, l'antico castello. Precacore sorge nello stesso periodo come casale di Palecastro e quindi come centro fondato, probabilmente, dagli abitanti di Samo. Nel 1349 Samo e Precacore sono colpiti da un forte terremoto. Molte persone si trasferiscono nel luogo chiamato “giardino di Campolico”, oggi Sant’Agata, da dove poi alcuni abitanti si spostano e formano il nucleo di Caraffa. Il terremoto del 1536 sconvolge tutto il territorio. Resta intatto solo il borgo di Precacore, che non verrà abbandonato né a seguito del terremoto del 1638 né di quello più catastrofico del 1783. Il piccolo centro aveva 79 fuochi del 1552, 50 nel 1595, 21 nel 1669. Alla fine del Settecento contava 471 abitanti, 416 nel 1815, 436 nel 1825, 447 nel 1861, 753 nel 1901. Precacore viene abbandonato dopo la distruzione provocata del terremoto del 1908. In seguito a questa catastrofe nasce il nuovo abitato che prende l'antico nome di Samo. Precacore scompare come paese e anche come nome. Dal 1924 al 1946 con il nome di Samo di Calabria vengono unificati i comuni di Samo, S. Agata e Caraffa. Inquadramento generale del sito di Precacore 123 Successivamente i comuni aggregati riacquistano la loro autonomia e anche la precedente denominazione. Precacore, Crepacore, Pelicore, Percore, Petracore. Gli anagrammi dell'antico borgo, quasi una sorta di gioioso scioglilingua, sembrano un'invenzione dei suoi abitanti per nascondere ed occultare il paese ai ripetuti terremoti. Resta il fatto che anche in questo caso il nome del paese è legato a una disgrazia o a una catastrofe che lo distrugge piuttosto che a un evento o a un eroe che lo fonda. La distruzione sembra precedere la fondazione. La fine viene quasi prima della nascita. Altre fonti privilegiano la dizione di Pelicore e Percore, che deriverebbe da perìkore, vicino al paese o alla città. Gabriele Barrio segnala che nel territorio di Bulsano o Brettiano, regione fertile, dove si catturano piccoli uccelli e nascono i tartufi, c'è il villaggio di Mota e più in là il castello di Crepacorio (Crepacori, annota Tommaso Aceti, o Precacori nella diocesi di Gerace), “in luogo alto, con miele rinomato; dista dal mare cinquemila passi; forse una volta fu detto Samo; infatti in questi luoghi i Samii fondarono la città di Samo” Chiesa di San Sebastiano Palazzo baronale 2 1 3 Chiesa di San Giovanni Battista Particolare inquadramento generale del sito e piante degli edifici più significativi (Barrio 1737, p. 351). Nella zona orientale dell'Aspromonte, nel distretto che va dal monte Pittaro e dal fiume La Verde a Gerace, vi ha de' piccioli luoghi, de' quali è piaciuto agli scrittori della storia Calabra di far parola con molta pompa. In un luoghetto, che si è da essi chiamato Crepacore, e poi indi passò ad appellarsi Precacori, hanno creduto di rinvenire Samo, e in conseguenza l'hanno innalzato all'onore di essere stata la Patria di Pittagora. A dir vero gli uomini, che nascono per onorare l'umanità, possono venire alla luce in ogni dove; ma non è questo il primo esempio dell'impetuoso desio, con cui cotesti storici han cercato di rappresentare la Calabria, come la culla o l'albergo di molti illustri soggetti, e come la stabile sede di tutte le più speciose bellezze della natura (Sarconi 1987, p. 446). Nell'Istoria del Tremuoto a cura del Sarconi si legge di Crepacore, “paesetto” situato su uno di “què dirupevoli gioghi” nei quali si divide e si distende il monte Zefirio. E infatti Fu fama che l'erta rupe, la quale gli serviva di base, si fosse lacerata con una fenditura circolare, e che dalle aperte fauci di tale lacerazione uscito fosse un nero, e denso fumo. Di questo si creda ciò che si vuole; quello, ch'è innegabile, si è che il temuto e decantato vulcano, di cui già prometteasi imminente la comparsa, e l'eruzione, si è finora atteso in vano non solo da coloro, che prestarono fede a tali fumose osservazioni, ma anche di quei, che si risero della precipitanza di somiglianti giudizi (ibidem, p. 448). Precacore, Crepacore, Pelicore, Percore, Petracore. Man mano che i passi delle persone sulla strada diventano più forti e più frequenti l'antico paese sembra riprendere vita. Voci, canti, preghiere, richiami di uomini e donne che si recano a piedi, alcuni scalzi, da Samo al vecchio abitato sembrano il sottofondo di una nenia che, opportunamente recitata, 124 richiama in vita, come nelle storie di magia, il paese che è scomparso. E c'è qualcosa di magico e di struggente, di emotivo e di avvincente, in questa gioiosa e affannosa scalata della collina sulla cui cima si elevano, ancora imponenti, camuffati nel paesaggio, le rovine di Precacore. L'appuntamento il 28 agosto di ogni anno, vigilia della festa estiva di San Giovanni Battista, è atteso dagli abitanti di Samo-Crepacore con una frenesia e un'ansia insolita. Nel ritorno tra i ruderi sembrano scorgere una ragione profonda della loro esistenza individuale e collettiva. Molti partono dalla chiesa del paese, dove è custodita l'antica statua del Santo, dalla piazza addobbata con il palco e le luminarie; si muovono in gruppi di venti o dieci persone, gruppi che si formano, si sciolgono e si ricostituiscono lungo il tragitto e poi tra i ruderi dove viene celebrata la messa. Tanti escono dalle case, dai bar e muovono come seguendo un richiamo segreto. La banda, formata da giovanissimi suonatori, procede in ordine sparso. Ogni suonatore ha in mano il suo strumento che porta religiosamente lungo una salita dove è facile precipitare o scivolare nel vuoto di un burrone, di una vallata, di un fiume, peraltro in uno dei paesaggi più belli di questa parte di Calabria Il culto di San Giovanni Battista a Precacore, come in altre località della regione, ha origini molto antiche (con ogni probabilità istituito dai monaci basiliani) e accompagna, se non precede, la nascita del paese. Nel XVI secolo nella chiesa del paese esisteva l'altare di San Giovanni. Una campana dedicata al Santo porta la data del 1625. A Vallefonda c'è ancora un muro della chiesa dove era custodita la statua del Santo che, secondo alcuni, risalirebbe al XII secolo. La chiesa fu danneggiata, nel corso dei secoli, dai terremoti e da altre calamità naturali e definitivamente distrutta dal terremoto del 1783. La statua del Santo fu trasportata nella chiesa del paese, dove rimase fino al 1911, data dell'abbandono definitivo. Il pellegrinaggio nell'antico paese, tra i ruderi e le rovine degli antichi luoghi sacri, è un'istituzione relativamente recente. C'è un anno d'inizio, il 1964. E c'è un protagonista di quest'inizio: Giovanbattista Bonfà, nato a Samo, ma residente da molti anni a Bologna, ma con Samo nel cuore. Bonfà, tornato come tutti gli anni con i suoi familiari, mi racconta la storia. Lo fa in maniera lenta ed orgogliosa, propria di chi ha avviato una nuova tradizione quasi per volontà divina. Lo fa in un perfetto italiano, con garbo antico, con un accento lievemente bolognese, che però tradisce subito la sua origine calabrese. Un'antica legenda, una delle tante, vuole che una notte ignoti ladri rubassero dalla chiesa del paese Chiesa di San Giovanni Battista: prospetto principale la statua del Santo protettore, ma giunti nel punto dove ora sorge il luogo di culto e dove oggi ci troviamo a parlare, la statua divenne talmente pesante che dovettero abbandonarla. l'indomani alcuni abitanti che si recavano al lavoro dei campi, percorrendo gli angusti viottoli, scorsero la statua del Santo. Parroco e fedeli pensarono subito al miracolo, uno dei tanti che aveva salvato nel corso dei secoli la statua in occasione di calamità di vario genere. Da quel tempo, nel luogo in cui venne rinvenuta la statua, si venera San Giovanni col titolo di San Giovanni Battista della Rocca. Nella piccola grotta scavata nella roccia venne dipinta un'effigie del Santo. Sul lato sinistro un'antica fontana della Rocca. 125 Palazzo baronale: da sinistra prospetto laterale, sezione longitudinale, sezione trasversale e, in basso, prospetto principale Rocce, pietre, acque, Santi, culti, secondo motivi ricorrenti e che portano indietro, lontano, lontano. L'immagine fu deturpata, a colpi di pietra, da “ignoti malfattori” negli anni cinquanta. Quando Giovanbattista Bonfà ricevette una grazia dal Santo di cui porta il nome, nel 1963, decise d'ingrandire per voto l'antica grotta e, al posto dell'affresco deturpato, fece deporre una statuetta del Santo alta 60 cm, che portava la pecorella al piede e non sul braccio, come nella tradizione iconografica. Molti cittadini, tra cui il sindaco dell'epoca, Pasquale Talia, parteciparono alle spese dei lavori eseguiti nel 1964. In questo anno, il 28 agosto, vigilia della festa del nuovo paese, venne organizzato il primo pellegrinaggio alla grotta, dove fu celebrata la messa da due padri francescani provenienti da Bovalino. Negli anni la partecipazione dei fedeli è aumentata. I pellegrini, gli abitanti di Samo, gli emigrati che tornano sostano, durante la salita, davanti ai pannelli della Via Crucis, pregano, commentano, si riposano. Fuori dalla grotta numerose persone assistono e partecipano alla messa. Ma il vero officiante del rito è Giovanbattista Bonfà, emigrato, graziato, costruttore di identità. Tutta la collina diventa una sorta di anfiteatro, i sentieri sono delle linee di sosta e di osservazione. I musicanti suonano disposti tra i ruderi, su pianori di terra. La gente guarda dall'alto, si rivolge in direzione del nuovo abitato. Altri si aggirano tra i ruderi, visitano le rovine delle antiche chiese, guardano affreschi che affiorano da tempi remoti. Viste da lontano le persone tra i sentieri sul fianco della collina sembrano formiche che corrono verso i loro formicai per sistemare quanto sono riuscite a racimolare, a raccogliere con fatica. Gli abitanti di Samo portano i loro ricordi, le memorie dei padri in mezzo alle reliquie del tempo. Portano, con pazienza, previdenti, accorti a non perdersi nel nuovo luogo, il peso e il piacere della loro identità. Una leggenda narra di una nave che trasportava, probabilmente all'inizio del XVII secolo, un carico di campane, quando viene sorpresa da una violenta tempesta in mezzo al mare. Il comandante della nave, terrorizzato come tutti i suoi uomini, invoca San Giovani Battista, promettendo, qualora 126 l'equipaggio si fosse salvato, di fare dono alla sua chiesa delle più belle campane presenti sulla nave. La tempesta finisce miracolosamente e il capitano vuole esaudire il suo voto. Non conoscendo il posto dove veniva venerato il Santo, fa legare le campane a un paio di buoi, e con loro l'equipaggio comincia il cammino. Quando l'insolita comitiva giunge nei pressi della Chiesa di San Giovanni Battista, che a quel tempo sorgeva a Vallefonda, i buoi si fermano e in segno di devozione s'inginocchiano. Il capitano allora offre le campane e ringrazia il Santo per lo scampato pericolo (Bruzzaniti 1995, pp. 53-55). Il motivo dei quadri, delle statue, delle campane che arriva miracolosamente dal mare, quello dei buoi (o di altri animali) che si inginocchiano davanti alla divinità sono ricorrenti in Calabria e nella zona di Samo. I luoghi sacri erano scelti dalla Madonna o dai Santi: agli uomini e agli animali spettava scoprirli e riscoprirli. Ma queste storie miracolose di rinvenimenti raccontano anche viaggi, spostamenti, mobilità in una Calabria a torto considerata isolata. Prima, dopo, durante la messa, le persone sostano e si aggirano tra i ruderi. Le pietre sono state accostate e sistemate in maniera che non cadano. Interi muri indicano ancora una complessa struttura di case, che Chiesa di San Sebastiano: prospetto principale Chiesa di San Sebastiano: sezione con le tre nicchie 127 dovevano essere appiccicate l'una all'altra. Giovani, studiosi del luogo, organizzatori della festa ci accompagnano per mostrarci i segni di un passato con una storia religiosa ma anche architettonica e artistica certamente ricca e aperta. Ancora integri sono i muri perimetrali di quella che è stata individuata come la Chiesa di San Sebastiano. La Chiesa di San Giovanni è in pessime condizioni e conserva tracce di un affresco della Madonna Nera. Sui muri della chiesa crescono piante selvatiche. Dall'alto si scorge Samo nuova, il letto della fiumara La Verde. Mi dicono che sia ancora popolata dalle narade. (vedi sito Polemo). La mattina di Pasqua, anche a Precacore, si svolgeva il rito dell'affruntata. Secondo quanto riferiscono gli anziani e quanto attesta Bruzzaniti (1995, p. 49), le donne stavano tutte raccolte da una parte e guardavano, con grande apprensione, i viaggi che la statua di San Giovanni faceva per dare l'annuncio dell'avvenuta Resurrezione alla Madonna. I portantini camminavano e correvano in quelle strade ripide e tortuose facendo bene attenzione a che la statua del Battista non si piegasse o non cadesse. In tal caso la comunità avrebbe conosciuto terribili disgrazie e calamità. Le donne preoccupate esclamavano con timore: “Focu meu. Focu meu, cadi San Giovanni” quasi a sostenere la riuscita del rito. Quell'esclamazione mi giunge dal passato nelle orecchie e nella testa. Scendendo dai viottoli che dall'alto della collina dei ruderi portano alla Grotta, e poi più giù, in prossimità del letto del fiume, si è colti da un senso di vertigine. Ho come l'impressione che qualcuno possa cadere e guardo con apprensione i bambini e gli anziani, che invece si muovono con grande sicurezza. La funzione religiosa è già finita, il prete e le donne che cantavano e pregavano stanno tornando verso Samo, dove in serata si terrà lo spettacolo di un noto cantante. Domani si svolgerà la processione del Santo nelle vie del nuovo abitato. Davanti alla grotta continua a sostare, in compagnia di figlie e nipoti, Giovanbattista Bonfà. Riceve, come un moderno, laico patriarca, i saluti della gente. Viene riconosciuto e ringraziato come l'ideatore e l'inventore di questo rito d'identità, che collega al passato. S'intrattiene amabilmente con noi e ci invita a scendere insieme. Il caldo torrido e umido, l'afa appiccicaticcia che ci hanno accompagnato, facendoci sudare e faticare non poco, lasciano il posto a una frescura di sera d'estate. Il sole è dietro le colline, verso le cime dell'Aspromonte. La luce del crepuscolo dà un tono ancora più incantato a quei luoghi, a quel fiume, a quelle grotte. Bonfà scende lentamente, chiaramente soddisfatto, ci indica i pannelli della Via Crucis e della vita di San Giovanni. Alterna le sue spiegazioni con notizie sulla sua vita e sulla famiglia. Il cielo improvvisamente si fa buio. Ci sediamo e ci godiamo la pioggia. Qualcuno dice che se continuerà a piovere la festa verrà rovinata, Fabio Concato non canterà, i forestieri non saliranno e i soldi saranno stati buttati. Cessa improvvisamente di piovere. La gente si precipita nelle macchine da sotto i balconi dove si era riparata. Arriva un profumo di piante e di terra come capita dopo una pioggia subito prosciugata dalla calura che resta nell'aria. Andiamo a casa della famiglia Giampà. C'è una grande animazione. Chi riesce a riportare la vita tra le rovine ha di che 128 sentirsi soddisfatto. Su una grande tavola, che sta per essere apparecchiata, sono sistemati pasticcini e bevande per noi. Declino l'invito a cena. Mi aspettano degli amici in marina, dico. Chiamate anche loro, mi dice la figlia che vive a Bologna e torna ogni anno per la festa. Il padre ha voglia di parlare, non vuole lasciarmi. Mi consegna le foto delle feste, mi fa vedere cartelle in cui custodisce memorie della sua iniziativa. Mi aspetta a Bologna, dice, se capito. Ci salutiamo e ci baciamo come se ci fossimo conosciuti da sempre. AUTORI Redazione testi: prof. Vito Teti Università della Calabria Rilievi: geom. Roberto Laganà Foto: A. Picone, G. Pontari LA GROTTA DI NINO MARTINO Collocazione Località Piani di Litri Comune di Samo Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 603 III Bianco Long. 589489 lat. 4217104 Quota 948 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Da Reggio Calabria seguire la S.S. 106 per circa 35 km e subito dopo Africo Nuovo e il ponte sulla fiumara La Verde si incontra a sinistra la deviazione per Samo dove si giunge dopo altri tre bivi (il primo a destra e gli altri a sinistra) e 12 km di strada. A destra della piazza principale seguire la strada che sale verso monte Iofri e dopo circa 6 km siete a Portella d'Orgaro. Proseguire a sinistra e continuare per altri 3 km raggiungendo l'area pic-nic Runci dove potete lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T Seguire la carreggiabile che si stacca dalla strada principale poco avanti a destra. Si prosegue nel bosco di leccio e farnia per appena mezzora sino a quando il panorama si apre. Siete giunti alla meta: un grazioso pianoro affacciato sulla costa in mezzo al quale si eleva imponente la grotta di Nino Martino. Sentieri Nei pressi dell’ area pic-nic Runci passa il sentiero (segnavia biancorosso) che da Samo conduce a Montalto. 129 DESCRIZIONE DEL SITO E LEGGENDA In realtà non si tratta di una caverna sinsu strictu, bensì di un agglomerato litico composto da pietre di diverse grandezze formanti delle cavità più o meno spaziose, in quella maggiore, all’interno coperte dai licheni, sono visibili alcune lettere incise sulla roccia, forse risalenti al XVIII sec. 1 Il sito si è formato in epoca pliocenica, circa 4 milioni di anni fa, ed è composto da calcareniti giallastre ad elevata permeabilità. Il toponimo, come molti altri siti calabresi, ricorda il leggendario brigante Nino Martino. In agro samio si narra che il malfattore dopo aver ascoltato in una chiesa una predica particolarmente convincente decidesse di abbandonare il crimine e che i suoi compagni di scorribande, preoccupati di essere denunciati, lo uccisero e ne nascosero il corpo sotto un cumulo di sassi in montagna. La madre di Nino Martino però riuscì a scoprire il corpo del figlio e, nottetempo, recuperatolo, lo pose sotto una botte ed ogni tanto andava a guardarselo. Un giorno però non le fu possibile rimuovere la botte perché era divenuta incredibilmente pesante, praticata una fessura la madre del brigante si accorse che ne fuoriusciva vino: accanto al cuore di Nino Martino si era sviluppata una vite da cui scaturiva ottimo vino e così fu per sempre 2. 1 La suggestiva ipotesi della presenza di un tempio italiota sito presso le grotte di Nino Martino che sarebbe attestato da alcune immagini visibili sulle pareti rocciose interne, non è ancora supportato da idonea documentazione bibliografica ed archeologica 2 La leggenda del brigante Nino Martino si può leggere alle pp. 258-260 del volume Il Parco Nazionale d’Aspromonte.Guida Naturalistica ed escursionistica, (op. cit. in Bibliografia). BIBLIOGRAFIA F. BEVILACQUA, A. PICONE CHIODO, Il Parco Nazionale d’Aspromonte. Guida naturalistica ed escursionistica, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1999. E. BRUZZANITI, Samo dalla città di Pitagora all’antica Precacore, Iiriti editore, Reggio Calabria 1991. Carta Geologica d’Italia su base topografica dell’IGM. Foglio 254 III sud est CASMED 1968. Enciclopedia dei Comuni della Calabria, guida storico-turistica, voll. 1-2 a cura di Donatella GUIDO, cons. storico Massimiliano Cozzetto; s. l. ed. Il Quotidiano della Calabria, 2002. 130 AUTORI Redazione testi: dott. Filomena Tosi Foto: V. Galluccio, A. Picone GLI OVILI DI MONTE PERRE Collocazione Coordinate Quota COME Tra Monte Perre e Puntone Galera Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 I Gambarie Long. 586726 lat. 4218437 1.200-1.437 m s.l.m. ARRIVARE Avvicinamento in auto Da Reggio Calabria seguire la S.S. 106 per circa 35 km e subito dopo Africo Nuovo e poi il ponte sulla fiumara La Verde si incontra a sinistra la deviazione per Samo dove si giunge dopo altri tre bivi (il primo a destra e gli altri a sinistra) e 12 km di strada. A destra della piazza principale seguire la strada, in parte asfaltata, che sale verso monte Iofri. Raggiunto il piccolo altopiano di Portella d'Orgaro piegare a sinistra. Superato un casello forestale s'incontra, sulla sinistra, una grande croce e poco dopo termina l'asfalto. Lasciare l'auto. Percorso a piedi: difficoltà T Siete sul crinale che delimita la fiumara Butramo dalla fiumara Aposcipo, vallate tra le più selvagge del massiccio. L'escursione impegnerà per circa un'ora ma vale la pena dedicarvi più tempo. Sentieri Siete sul sentiero (segnavia biancorosso) che da Samo conduce a Montalto, cima più elevata dell'Aspromonte. Natile: copertura di stazzo in legno, terra e letame 131 132 DESCRIZIONE DEL SITO Lungo il sentiero che conduce da Monte Perre a Croce di Dio sia lodato, nel territorio del comune di Samo, si incontrano delle interessanti testimonianze di tipiche costruzioni realizzate da pastori in Aspromonte. Si tratta di una serie di agglomerati di costruzioni di cui rimangono in piedi alcuni muri per un altezza di non più di un metro; partendo da Monte Perre, il primo degli agglomerati in questione è costituito da un paio di costruzioni. Gli elementi più interessanti sono due: una zona che probabilmente era destinata al ricovero per animali parzialmente recintata che sfrutta una formazione naturale di rocce ed è completata da piccoli muri di pietre e filo spinato (ciò, insieme ad altri segni, fa supporre una utilizzazione relativamente recente) ed a pochi metri una costruzione circolare fatta di pietre del diametro di circa tre metri addossata ad un albero. In un angolo del primo locale si nota anche un piccolo piano rialzato che presumibilmente costituiva una sorta di giaciglio. Tutto il piccolo pianoro dove sorgono queste opere è caratterizzato dalla presenza di grossi monoliti (utilizzati quanto più è possibile come pareti delle costruzioni) e di numerosi alberi; una simile localizzazione è legata molto probabilmente alla protezione dalle intemperie e forse anche alla possibilità di controllo del territorio circostante (le costruzioni sono praticamente invisibili da lontano, quasi mimetizzate, ed allo stesso tempo offrono la possibilità di vedere le vallate sottostanti). Continuando il percorso verso Croce di Dio sia lodato, dopo qualche centinaio di metri, si possono vedere numerose altre costruzioni opera di pastori; a differenza delle precedenti queste ultime sono situate su un terreno un po' più scosceso e sono in numero di gran lunga superiore. I due siti hanno tuttavia tratti in comune: anche qui si sfrutta la presenza di monoliti presenti sul luogo che costituiscono lo scheletro di questo insieme di costruzioni la cui struttura è integrata poi da pietre che formano dei piccoli muri a secco. È probabile che le costruzioni fossero completate da tetti e da ulteriori muri in materiale vario, come rami o felci; tuttavia di ciò non possiamo avere certezza visto che anche in questo sito non sono rimasti altro che i muri per un altezza al più di un metro. La pianta delle costruzioni è varia: alcune sfruttano ampiamente la presenza di grandi rocce e, per l'estensione, la forma irregolare e la presenza di filo spinato, fanno pensare che la loro destinazione fosse quella di stazzi dove venivano condotte le pecore e le capre per passare la notte (peraltro va segnalata la presenza, in una zona di Monte Perre vicina a quella di questi siti, di moderni ovili che potrebbero confermare l'utilizzo di alcuni luoghi di questa montagna come luogo di ricovero per le greggi). Altri manufatti a pochi metri da questi probabili stazzi hanno invece forme rettangolari o semicircolari e sono costituiti prevalentemente da pietre e muri a secco. Il complesso di muri, rocce e stazzi si estende su una superficie abbastanza ampia (superiore ai cento metri quadrati). La densità di alberi in questo sito è minore rispetto a quella del sito precedente. 1 Quale fosse la destinazione d'uso di questo secondo tipo di costruzioni non è un dato facilmente decifrabile; per similitudine rispetto alla descrizione di alcune forme di insediamento che fa Luigi Lacquaniti in un saggio sui Piani d'Aspromonte 1, si potrebbe ipotizzare che si tratti sostanzialmente di piccole abitazioni temporanee utilizzate dai pastori nel periodo della tarda primavera-estate quando gli animali venivano condotti ai pascoli montani per rimanervi qualche mese. I vari elementi inducono a pensare che queste strutture abbiano costituito, fino a quando sono state utilizzate, una sorta di via di mezzo tra i semplici “pagghiari” e le cosiddette “casedde”: rispetto ai “pagghiari” L. LACQUANITI, Note Antropogeografiche sui Piani d'Aspromonte, in Rivista Geografica Italiana, 1948. 133 caratterizzati da una struttura molto elementare, dimensioni piuttosto ridotte legate alla funzione di ricovero e/o deposito, i resti che si possono ammirare a Monte Perre hanno una maggiore estensione e varietà di forme. Ciò li fa assomigliare appunto alle “casedde”, una forma abitativa più stabile situata vicino ai ricoveri per gli animali e centrale rispetto ai territori dove si svolge l'attività del pastore. Tuttavia il grado di accentramento delle costruzioni che si trovano a Monte Perre è decisamente minore di quello che le “casedde” raggiungono in alcune zone dell'Aspromonte. Da queste premesse si possono trarre alcune conclusioni: la prima attiene una caratteristica della pastorizia aspromontana che mi sembra viene confermata dalle ipotesi fatte sulla natura dei siti di Monte Perre: i pastori di questa zona svolgono (e hanno svolto) generalmente la loro attività in modo relativamente più stanziale se comparati ad altre società agopastorali. Lo spostamento delle greggi (e di conseguenza quello delle persone) avviene lungo l'asse vallemonte, la cosiddetta transumanza verticale, e non, come spesso accade altrove, tra territori diversi e distanti fra loro molti chilometri (la cosiddetta transumanza orizzontale). Anche le costruzioni che caratterizzano i due tipi di transumanza risultano chiaramente diverse, essendo quelle legate alla transumanza verticale più stabili e legate con un rapporto più saldo al territorio in cui sono costruite. La seconda conclusione riguarda invece il rapporto tra gli uomini e la montagna: il ritrovamento di testimonianze della presenza umana stabile ci suggerisce l'idea dell'Aspromonte come una montagna vissuta e caratterizzata da un rapporto denso con gli uomini in netta contrapposizione all'immaginario, spesso tramandato, di luogo inaccessibile, oscuro ed estraneo rispetto alla comunità. I PASTORI D’ASPROMONTE Ma chi sono oggi i pastori d'Aspromonte? Prima di conoscere i pastori reali, avevo provato ad immaginarli e, come forse molti, sono caduto nei più banali stereotipi, prefigurandomi uomini armati di lunghi bastoni, seguiti dal proprio fedele cane, solitari e sdegnosi come li descrive Angarano2 oppure vestiti con strani abiti ed umili e testardi come l'Argirò nato dalla penna di Corrado Alvaro 3 . Nella realtà questo tipo di pastore, che definirei “tradizionale”, non esiste quasi più. Invece dei lunghi bastoni ho visto qualche colorato (e forse più utile) ombrello, l'abbigliamento non è diverso da quello di un qualsiasi campagnolo e lo sguardo fiero, talvolta, ho dovuto cercarlo dietro il parabrezza di una automobile o la visiera di un casco: anche questi sono i mezzi di lavoro dei pastori di oggi. Non voglio sostenere che i pastori tradizionali siano scomparsi del tutto, ma il loro numero è davvero esiguo e si tratta per lo più di persone anziane spesso molto diffidenti e chiuse o di immigrati extracomunitari. Forse la difficoltà che deriva dal cogliere appieno le dimensioni di questo fenomeno attraverso una indagine qualitativa può avermi indotto a sottovalutarne l'importanza, cosa che cercherò comunque di evitare utilizzando tutte le fonti disponibili. E comunque è un fatto, solo per fare un esempio, che la transumanza 2 F.A. ANGARANO, Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi, Olschki, Firenze 1973. 3 C. ALVARO, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano 1996. 134 Ciminà: monte Pinticudi, ovile con tettoia d’erica verticale (il movimento delle greggi dai pascoli invernali delle zone più a valle a quelli estivi sulle colline e sulle montagne), tipica espressione della pastorizia della Calabria, anche aspromontana 4 sia oggi solo un ricordo lontano. La crisi del pastore “tradizionale” non significa però crisi della pastorizia tout-court; emerge lo schizzo di un altro tipo di pastore, che per comodità d'ora in poi definirò pastore “pecora e ulivo 5”, dove pecora ed ulivo rappresentano la combinazione fra agricoltura part-time e una particolare forma di pastorizia, oggi prevalente. Questa è caratterizzata generalmente da una marcata stanzialità e da greggi di dimensione piuttosto modesta (raramente oltre i 100 capi di bestiame); inoltre, di solito, l'attività è svolta in maniera autonoma (il pastore è proprietario degli animali e, seppur non sempre, anche dei pascoli o almeno di una parte di essi), è gestita quasi esclusivamente in ambito familiare e rappresenta solo una fra le varie attività svolte dai pastori. Laddove le caratteristiche della pastorizia legata al pastore “tradizionale” erano ben diverse: grandi greggi (migliaia di animali) e allevamenti transumanti allo stato brado, forza-lavoro bracciantile e piena integrazione nell'economia latifondistica. In questo sistema, diffuso fra i grandi proprietari di tutta la Calabria, il datore di lavoro era tenuto a fornire gli animali e il pascolo nonché tutto quanto era necessario per la produzione (ricovero per i pastori, attrezzi per la lavorazione del latte, la legna per il riscaldamento e, talvolta, persino i vestiti). Per esempio, per quanto riguarda la zona del versante ionico dell'Aspromonte, il contratto tipico prevedeva che il proprietario cedesse il terreno per il pascolo e per la coltivazione del grano e fornisse i due terzi del bestiame che doveva comporre il gregge; i pastori aggiungevano il restante terzo, ciascuno secondo le proprie capacità. Una prima considerazione che si può dedurre da quanto finora detto è lo stretto legame esistente fra pastorizia “tradizionale” ed economia latifondistica basato sull'integrazione fra colture cerealicole e foraggiere e fra le enormi greggi di migliaia di capi e la vasta schiera di braccianti senza terra. Viceversa la pastorizia che ho definito “pecora e ulivo” affonda le sue radici nella piccola proprietà contadina e nell'identità impresafamiglia che, se da un lato costituiscono un limite, dall'altro ne hanno fatto la fortuna. I due gruppi che ho sommariamente descritto hanno chiaramente una funzione idealtipica; la realtà è sicuramente più complessa e variegata come avremo modo di vedere più avanti. Uno degli aspetti più interessanti della differenza fra i tipi di pastore è costituito dal modo in cui essi sono percepiti e rappresentati dalle comunità in cui vivono: nei canti popolari e nel folklore il pastore “tradizionale” e la sua famiglia sono oggetto di scherno e di diffusa disistima: Lu pecuraru chi dd'u munti vena,/ Mancu allu lettu se sapia corcari,/ Quandu vidiju lu spruvieru,/ Disse: lu pagliaru ccu 'na porta!/ Quandu misi lu capu alli cuscini,/ Dissi ch'è lu zainu ccu lu pani;/ Quandu misi li carne alli linzola,/ Credia ch'era pella ccu la lana;/ Quandu toccau 'e minna d'a mogliera,/ Credia mùngeri pecura allu varu 6. 4 M. ROSSI-DORIA, La Calabria agricola e il suo avvenire, nella rivista Il Ponte, n.9-10, 1950 ristampata da Editoriale Bios, Cosenza 1994, pp.1176-1178. 5 La terminologia del binomio è ripresa da CATELLI, MONTANI, SAVELLI (a cura di), Le società mediterranee, Franco Angeli editore, Milano 1988. L'accoppiamento dei termini è mio. 6 Canto popolare riportato da F. FAETA, I razziatori morti, in F. CASTELLI, P. GRIMALDI (a cura di), Maschera e corpi, Meltemi, Roma 1997, p. 107. La traduzione è: “Il pecoraio che viene dal monte/ neanche in un letto si sapeva coricare/ quando vide la cortina del letto divisa in due parti/ disse: il pagliaio con una porta!/ Quando mise il capo sui cuscini/ disse che era lo zaino con i pani/ quando mise il corpo tra le lenzuola/ credette fosse pelle con la lana/ quando toccò i seni della moglie/ credette di mungere le pecore allo stazzo.” 135 Mi è capitato personalmente di assistere all'uso del termine pastore in senso quasi dispregiativo e stigmatizzante. Inoltre il mondo del pastore “tradizionale” è visto anche come l'ambito della magia e del mistero, cui dà adito la vita raminga del pastore vissuta spesso in luoghi lontani e sconosciuti 7, e come quel misto di bassezza psicologica e morale e di selvaggia animalità che è ben rappresentato dal rito orgiastico della “farchinoria” 8. La sregolatezza e la stravaganza, l'estraneità alle leggi e alla vita di famiglia o di paese sono le rappresentazioni tipiche del pastore “tradizionale”. All'opposto la società contadina della Calabria si è basata, fra le altre cose, su un lavoro di domesticazione dello spazio naturale: “lo spazio, intrinsecamente rischioso, può divenire umano nella misura in cui diviene contadino” 9. La terra coltivata, le strade, il borgo, la famiglia, la casa: questo è il regno del contadino e nel nostro specifico del pastore “pecora e ulivo”. Da quanto detto mi sembra chiaro che non esiste nessun tipo di legame evolutivo tra le due tipologie di pastori che ho abbozzato, come invece potrebbe apparire da una analisi statica della situazione: essi non derivano l'uno dall'altro, non sono il processo di una evoluzione da un modello più tradizionale ad uno più moderno. Piuttosto i due tipi sono da lunghissimo tempo coesistiti e la prevalenza di uno rispetto all'altro è legata all'andamento del sistema socio-economico in cui ciascuno di essi si inquadra. Negli ultimi decenni la pastorizia dell'Aspromonte (tanto quella dei pastori “tradizionali” quanto quella dei pastori “pecora e ulivo”) ha subito una graduale e continua involuzione; la razionalizzazione sempre più spinta della società rurale ha avuto un effetto devastante ed ha lacerato il tessuto sociale su cui si fondavano i paesi dei contadini e dei pastori. Lo spopolamento delle campagne, la modernizzazione e lo shock culturale dovuto all'impatto con l'economia di mercato hanno prodotto gravi danni tanto sul piano socio-economico (le condizioni materiali di vita sono indubbiamente migliorate ma con uno sviluppo per niente armonico) quanto su quello culturale, con l'evoluzione di una particolarissima forma di cultura agro-pastorale. È molto difficile stabilire con esattezza la dimensione quantitativa del calo della pastorizia in Aspromonte anche per il fatto che le poche statistiche ufficiali esistenti (la più affidabile è il censimento generale dell'agricoltura) non colgono appieno il fenomeno nella sua totalità; tutte le forme di microallevamento, che sono estremamente diffuse soprattutto in alcuni paesi dell'Aspromonte (a Platì e Canolo solo per fare qualche esempio), spesso non sono comprese nelle statistiche ed a questo bisogna aggiungere che è abbastanza diffusa, per una sorta di reticenza, l'usanza di non dichiarare gli animali posseduti anche quando si tratta di greggi di una certa rilevanza. La condizione effettiva della pastorizia può essere colta, a mio avviso, meglio attraverso l'analisi qualitativa, più che quantitativa, dei soggetti e dei modi di produzione. Bisogna innanzitutto considerare che quando ci riferiamo ai pastori che abbiamo definito “pecora e ulivo” l'unità di analisi non è l'individuo ma la famiglia: l'organizzazione della produzione economica e i rapporti familiari costituiscono una totalità indistinta, la famiglia è allo stesso tempo centro di produzione e centro di consumo. Tradizionalmente il capo-famiglia è allo stesso tempo a capo dell'impresa ed è sia il detentore dell'autorità e del controllo sui membri della famiglia sia il detentore del potere decisionale nell'impresa viste le sue competenze 7 M. MINICUCI, Il pastore e il meraviglioso, in N. Provenzano (a cura di), Per il decennale della biblioteca di Soriano Calabro, Jason, Soriano 1991, pp. 107-123. 8 Si tratta di un rito, descritto da G. DE GIACOMO in La farchinoria. Eros e magia in Calabria, da lui stesso osservato nei pressi del monte Cocuzzo. La veridicità pare che sia dubbia (per le critiche vedi D. SCAFOGLIO, Norma e trasgressione nella letteratura popolare, Gangemi, RomaReggio Calabria 1984, pp. 20-22) ma quello che qui interessa non è stabilire la realtà del fatto ma il modo in cui i pastori sono rappresentati. 9 F. FAETA, I razziatori morti, p. 115. 136 professionali. All'interno della famiglia i ruoli sono strutturati in modo ben preciso: le donne sono sempre escluse da qualsiasi compito attinente la cura del bestiame (eventuale vigilanza durante il pascolo, mungitura, assistenza sanitaria) mentre frequentemente si occupano della lavorazione dei prodotti (i formaggi, le ricotte, la lana). Di recente alcune sono diventate titolari dell'azienda di famiglia ma ciò è solamente una formalità legata ad agevolazioni in campo fiscale mentre sul piano sostanziale la distribuzione del potere non è cambiata di molto (e quando è cambiata ciò è avvenuto per altri fattori). Ci sono due fatti da notare: il primo è che la distinzione di ruoli è determinata puramente da regole socio-culturali che sono peraltro limitative solo per le donne. Infatti tutti i lavori che sono svolti dagli uomini potrebbero essere, tecnicamente, svolti dalle donne, che in effetti li svolgono in casi di necessità, ma che in tempi normali devono essere assolutamente evitati. Lo stesso non vale per gli uomini, che oltre ad occuparsi degli animali si impegnano non di rado anche in attività svolte dalle donne (fa eccezione la lavorazione della lana che era sempre e solo svolta dalle donne). Il secondo fatto è che questa divisione sessista del lavoro vale all'interno della stessa famiglia solo per quanto riguarda la pastorizia: mentre i lavori agricoli, anche i più duri, sono condivisi quelli legati al lavoro di pastore sono rigidamente separati. Il mestiere è tramandato di padre in figlio e tutti i pastori fanno parte di famiglie che si dedicano da diverse generazioni alla pastorizia. I ragazzi iniziano l'attività di pastore molto presto, quando sono ancora in età scolare, attraverso un lungo apprendistato, per esempio dando una mano, quando è possibile, per portare gli animali al pascolo (ma ho incontrato anche ragazzi di 14-15 anni che già avevano un loro piccolo gregge). Un ruolo privilegiato è rivestito spesso dal primogenito che è il collaboratore diretto del padre dal quale acquisisce tutte le informazioni necessarie e la cui ascesa è sanzionata attraverso precisi rituali. Nel caso del pastore-contadino dell'Aspromonte si può dire con Alvaro che la sua forza “è nella struttura familiare. La famiglia è la sua spinta vitale, il campo del suo genio, il suo dramma e la sua poesia. I figli rappresentano un continuo atto di fede nella vita, una promessa e una speranza, una forza che deve correggere il destino individuale […] senza il peso del gruppo famigliare a lui pare inutile combattere. Se rimane solo e libero di sé porterà il suo individualismo […] alle manifestazioni più sfrenate. Egli ha bisogno naturalmente del freno della famiglia: questo è il solo mezzo attraverso cui egli si potrà fissare nella società. […] È escluso ogni senso edonistico” 10. La fortissima normatività, con il suo rigido schema di funzioni, doveri e restrizioni autoritarie che caratterizzano la famiglia patriarcale, non è tuttavia gratuitamente repressiva bensì è funzionale alla natura multidimensionale della famiglia stessa cioè alla sua capacità di soddisfare i bisogni primari e allo stesso tempo di integrare i fattori economici e quelli non economici 11. Da questa rigida struttura familiare e dalla fusione al suo interno degli aspetti economici e non economici scaturiscono due importantissime conseguenze: la prima è il rapporto di interdipendenza che si crea fra dimensione della famiglia e potenzialità produttive dell'attività economica legata alla pastorizia. La seconda è invece un elemento culturale vale a dire la difficoltà dei pastori a guardare con favore qualsiasi forma di conduzione svincolata dall'ambito familiare o viceversa una vita familiare slegata dall'ambito aziendale. Un'ulteriore effetto dell'identificazione fra impresa e famiglia è la variabilità dell'ampiezza aziendale nel corso del ciclo naturale di vita della famiglia: con la formazione di una nuova famiglia dopo il matrimonio nasce una nuova impresa che si espande parallelamente alla crescita della famiglia, raggiunge il culmine quando i figli raggiungono l'età lavorativa e comincia a declinare man mano che i figli si sposano. In questo modo la dinamica del rapporto fra ciclo di vita della famiglia e volume dell'attività economica dei pastori costituisce il 10 C. ALVARO, Itinerario italiano, Milano 1941, pp.3 50-356. 11 P. ARLACCHI, Mafia contadini e latifondo, p. 38. 137 motore della mobilità sociale dei pastori sia in senso ascendente che in senso discendente. Non bisogna tuttavia pensare che la dimensione della famiglia determini meccanicamente la dimensione del gregge né si può ignorare il fatto che comunque esistono influenze esercitate da forze esogene rispetto alla famiglia. Definiti i soggetti, dobbiamo ancora analizzare il modo in cui essi operano: il sistema di produzione più diffuso fra i pastori in Aspromonte è quello che gli studiosi definiscono semiestensivo: (ma non senza significative eccezioni, che analizzeremo). Gli animali, bovini e ovo-caprini, sono allevati allo stato semi-brado e in alcuni, rari, casi allo stato completamente brado. In pratica, nella maggior parte dei casi, i capi di bestiame sono condotti la mattina al pascolo in terreni recintati di estensione proporzionale alla mandria e poi riportati in un luogo di ricovero la sera, prima del tramonto. Se il gregge è molto piccolo (meno di 20 unità) ed è composto di piccoli ruminanti è frequente che il pascolo sia costituito da un piccolo terreno di proprietà in cui il pastore cerca di conciliare l'attività di agricoltore con quella di contadino, non è raro il caso di piccole greggi che pascolano sotto gli uliveti. Il luogo di ricovero di questi animali si trova su questo stesso appezzamento di terra che spesso è adiacente all'abitazione del pastore. Questo sistema implica la necessità in alcuni periodi di fare a meno del pascolo (per esempio durante la raccolta delle olive) e di ricorrere a mangimi, prodotti spesso dallo stesso pastore. Quando il gregge è più grande il pastore destina invece una parte dei suoi terreni solamente per il pascolo e quando, come nella quasi totalità dei casi, non dispone di una quantità di terreno sufficiente a garantire il pascolo del suo gregge prende dei pascoli in affitto che si aggiungono alla sua proprietà, non di rado già spezzettata in piccoli appezzamenti. I pascoli presi in affitto, soprattutto se non sono terreni molto grandi, sono pagati con una parte dei prodotti del gregge (formaggi, latte o carne) mentre il pagamento in moneta è ancora poco diffuso così come l'uso di contratti scritti. La dislocazione dei pascoli varia durante le stagioni, i pastori cercano di utilizzare i pascoli più a valle durante l'inverno mentre d'estate si sfruttano di più quelli in altura. Anche per queste greggi di dimensioni maggiori l'alimentazione diversa dal pascolo ha un ruolo estremamente marginale (essenzialmente di integrazione al pascolo e di sostituzione per brevissimi periodi quando non è proprio possibile pascolare). Il pastore comunque pur sfruttando questa molteplicità di pascoli ha la 138 sua base sempre nell'appezzamento di sua proprietà dove il gregge ha un ricovero e che si trova ancora nelle adiacenze dell'abitazione del pastore. Il risultato è che in questi casi l'attività della pastorizia è slegata da qualsiasi rapporto fisso con un preciso appezzamento di terra fuorché il luogo di ricovero dove gli animali sono ricondotti ogni sera. Questo è l'unico elemento costante e stabile nell'attività del pastore e come abbiamo visto, quasi sempre, si tratta una stalla o un ricovero situato nei pressi della stessa dimora del pastore “pecora e ulivo”. La stessa dislocazione delle case dei pastori è significativa: non esistono pastori che risiedono dove l'insediamento è sparso per i campi, al contrario tutti abitano in grossi borghi: ciò è funzionale alla necessità di avere un punto di riferimento centrale rispetto alla pluralità di appezzamenti sparsi per le campagne che il gregge deve raggiungere di volta in volta. All'interno di questi stessi borghi, poi, viste anche le necessità igienicosanitarie, i pastori sono comunque costretti a vivere ai margini (nella periferia, se così si può dire 12. Alla già menzionata identità fra famiglia e impresa si aggiunge quindi un ulteriore termine che è la casa: mentre la mancanza di un legame fisso con un determinato territorio ha da sempre caratterizzato le società pastorali, il pastore “pecora e ulivo” ha sviluppato un legame molto stretto con il territorio adattandosi, però, al fatto che l'unico territorio che potesse dirsi veramente suo si riduceva alla sua casa e all'orticello che la circonda. La marcata stanzialità di questi pastori è un elemento tutt'altro che secondario ed ha conseguenze rilevanti che differenziano enormemente i pastori “pecora e ulivo” da altre comunità pastorali mediterranee. Il pastore tradizionale, a causa delle esigenze dell'organizzazione della transumanza, è costretto ad una vita quasi da nomade ed il suo gruppo sociale di riferimento per molte settimane è solo l'insieme dei pastori con cui lavora; così le forme di solidarietà che si sviluppano fra i pastori tradizionali sono strettamente legate alla dimensione professionale 13. Fra i pastori che oggi sono in attività in Aspromonte le forme di assistenza legate strettamente all'attività di pastore pur sopravvivendo 14 hanno un ruolo marginale rispetto ai fenomeni di reciprocità prevalenti che si basano invece sulla parentela e sul vicinato mentre addirittura qualsiasi modello di cooperazione formale è decisamente disprezzata. Quello che emerge nettamente, qualunque sia la specifica forma di allevamento è la assoluta predominanza del pascolo. Tutti i pastori con cui ho parlato sostengono che il pascolo è molto meno costoso dell'alimentazione nella stalla; ciò è dovuto anche al fatto che la contrazione del volume della pastorizia ha diminuito notevolmente la concorrenza per i pascoli. Un ruolo importantissimo al riguardo è costituito dalle concessioni comunali di pascolo che ancora persistono in alcuni paesi dell'Aspromonte e che sono di grandissimo aiuto per i pastori 15. L'utilità del pascolo è invece decisamente ridotta per i bovini da carne che sono alimentati nella stalla e vanno al pascolo molto più sporadicamente. Se il sistema di allevamento semiestensivo è sicuramente quello più diffuso esistono comunque altre forme di allevamento tra le quali va menzionata una particolare variante locale, ibrida fra l'allevamento brado e l'economia di rapina, che è rappresentata dal fenomeno delle “vacche sacre”. In realtà si tratta di capi di bestiame (a dispetto del nome non solo bovini ma anche ovo-caprini) di proprietà di alcuni pastori che vivono appunto liberamente allo stato brado nelle zone montagnose o nelle campagne abbandonate. Viste le dimensioni più piccole che raggiungono in seguito all'alimentazione completamente autonoma e vista la difficoltà di utilizzarne il latte, questi animali svolgono essenzialmente la funzione di riproduttori a costo zero per l'allevatore che vende poi gli agnelli e i vitelli (anche se questo è quanto di più lontano possa esistere dai principi di una zootecnia razionale). In qualche caso l'esistenza di questi animali è poi sfruttata dai pastori anche per percepire i premi della UE attraverso la loro registrazione e il loro controllo periodico. Questo fenomeno ha conseguenze molto pesanti visto che queste forme di pascolo incontrollato sono estremamente dannose sia per i boschi 12 Nel paese di Canolo Nuovo, dove il microallevamento è particolarmente diffuso, il problema della vicinanza dei ricoveri per gli animali al centro abitato, è stato affrontato in maniera originale destinando una zona del paese ai ricoveri per il bestiame e separandola dalla parte abitata. 13 Per esempio, in alcune comunità di pastori in Sardegna esistono delle forme di associazionismo informale per la gestione di terre comuni riservate al pascolo o per la assistenza ai pastori che dopo aver abbandonato l'attività per qualche disgrazia la vogliono riprendere (vedi SVIMEZ, Aspetti sociali e culturali dello sviluppo economico della Sardegna, Roma 1960. 14 Esistono usanze quali quella di unire greggi piccole per sfruttare, per quanto possibile, una sorta di economia di scala oppure quella di scambiarsi capi di bestiame che è dettata soprattutto da esigenze produttive ma non è scevra da elementi puramente ludici. 15 Il fenomeno dell'espropriazione, più o meno latente, del demanio pubblico non si è fermato fino ai nostri giorni: a Platì, secondo quanto riferito da un abitante del paese, dal dopoguerra ad oggi tutti i demani comunali sono stati sottratti da parte di “malandrini”. Fra tutti i comuni che ho avuto modo di visitare in Aspromonte, gli unici comuni ancora capaci di gestire i demani comunali sono Canolo e Samo. 139 (dove i piccoli ruminanti, se non controllati, possono compiere dei veri e propri disastri) sia per gli appezzamenti di terreno di proprietà privata dove gli animali sconfinano facilmente (nonostante le assicurazioni dei pastori che gli animali sono “istruiti”), non a caso nelle zone dove è presente il fenomeno ci sono forti tensioni degli agricoltori. I pastori con cui ho parlato quando si riferivano ai luoghi oggetto di questo pascolo di rapina parlavano sempre o di terreni abbandonati dai proprietari (perché definitivamente emigrati e perciò ormai ritenuti esterni rispetto alla comunità) o, molto più frequentemente, alla “montagna”; questo termine, si badi, non rappresenta una indicazione puramente geografica ma ingloba anche un elemento culturale di alterità rispetto alla percezione che di essa hanno i pastori-contadini. Ciò è legato ai processi storici che abbiamo visto: i pastori-contadini hanno assistito al processo di continua appropriazioneespropriazione della montagna e della sua distruzione da parte dei grandi proprietari terrieri, processi dai quali sono rimasti sempre esclusi, o meglio partecipi solo degli inconvenienti (perdita di un patrimonio collettivo, dissesto idrogeologico). Nel momento storico in cui cessa di essere utilizzata come elemento complementare dell'economia latifondistica, la “montagna” per i pastori è ormai diventata elemento estraneo (non lo è sempre stato, come potrebbe sembrare a primo acchito) e quindi oggetto passibile di reciprocità negativa. Il fatto più drammatico è che nel complesso gioco di persistenze e cambiamenti di ciò che fa parte della comunità o meno ne ha fatto le spese l'equilibrio fra sistemi di produzione e ambiente naturale. Melìa di Scilla Platì: Rocche degli smaliditti Palmi: gregge urbano AUTORI Redazione testi: dott. Marco Santagati Foto: A. Picone 140 CHIESA DI SANTA MARIA DELL’ALICA Collocazione Comune di Palizzi Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 616 IV Capo Spartivento Long. 588995 lat. 4206316 Quota 682 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto L’accesso più diretto a Pietrapennata, piccola frazione di Palizzi, avviene da Spròpoli, nei pressi di Capo Spartivento, lungo la S.S. 106. In appena 6 km si giunge alla chiesa del Carmine dove ci si collega alla strada tra Palizzi e Pietrapennata. Svoltando a destra, dopo 5 km giungerete a destinazione. Tuttavia, per chi non lo conoscesse, suggeriamo di passare da Palizzi per visitare questo ben conservato borgo. Percorso a piedi: difficoltà E Raggiunto il cimitero di Pietrapennata si lasciano le auto nel parcheggio antistante l’ingresso e s’imbocca a piedi la pista sterrata in discesa, a tratti completamente invasa da rovi che impediscono non poco il cammino. Dopo circa 15 minuti la pista diviene un sentiero ma la chiesa è già visibile ed ormai vicina. Sentieri Un tratto, non ben individuabile, di sentiero collega ad una pista sterrata che sale a monte Cerasia, eccezionale punto panoramico. Il paese di Pietrapennata fu noto per l’industria casalinga delle tovaglie di lino e ginestra, e i dintorni hanno esercitato il loro fascino sull’inglese Lear, sul lettone Brenson e sull’italiano Cosomati che li hanno scelti come soggetti dei loro disegni. 141 AMBIENTE monastero di San Ippolito, trasformato al culto dopo la vittoria di Lepanto, e di cui S. Maria dell’Alica risultava già grancia di San Ippolito di Palizzi. CIRCOSTANTE Dai massi rocciosi di Punta Gallo, sopra le alture di Pietrapennata, attraverso il lecceto della Forestòla si scende alla vallata di Alìca, dove ancora si ergono i resti suggestivi di ciò che un tempo fu una chiesa, forse un monastero, in un ambiente aperto ma silenzioso, soave e severo al tempo stesso come richiede un luogo atto al raccoglimento. Sebbene attualmente ciò che rimane di questo antico luogo di culto ricada nel comune di Palizzi, da documenti relativi alla visita pastorale di monsignor Marcantonio Contestabile del 19 aprile 1670 risulta che tale chiesa fosse collegata a Staiti. Posto al centro di una conca, presenta allo spettatore, in primo piano, i muri della sacrestia, il campanile, e la parte rivolta a valle; a digradare , una serie di quattro terrazzamenti con i muretti a secco ancora ben mantenuti. DESCRIZIONE ORIGINI DEL SITO Circa il titolo di questo affascinante luogo di ritiro si intrecciano diverse interpretazioni: secondo le notizie fornite dal sito ufficiale del Comune di Palizzi il nome Alica deriva probabilmente dalla contrada omonima e per l’esistenza nella zona di un tempio dedicato ad Apollo Licio, che i Basiliani trasformarono in Abazia intitolandola a Santa Maria che fu detta di A-Lica. Una diversa interpretazione attribuisce l’origine del titolo nel nome di luogo, ricavato, forse, dal fitonimo grecanico alìci, ossia spelta (meglio noto come farro), laddove altri ritengono possibile che il titolo sia stato coniato appositamente (come altri titoli di luoghi di culto dedicati alla Madonna ed accompagnati da un nome di pianta), o per ricordare magari, come suggerisce il prof. F. Mosino, la celebrazione della vittoria presso Lepanto della Lega contro i Turchi nel 1571, da cui poi la celebrazione della festa allora, come oggi, l’8 maggio, così come l’arcipretura di Staiti è intitolata alla Vittoria. L’anno 1571 potrebbe perciò essere, se non l’anno della fondazione certa, almeno della sua intitolazione, senza per questo pregiudicare l’ipotesi, del prof. Domenico Minuto, che la chiesa dell’Alica possa essere stato lo stesso 142 DEL SITO Dopo un attento intervento di pulizia dell’AFOR, le rovine si sono svelate in tutto il loro fascino, rivelando parti di strutture murarie che a una prima visita era risultato impossibile persino individuare perché coperte dai rovi. Sembrerebbe che la parte più antica (secc. XII-XIII) sia la sezione SE dell’arco ora attaccato al campanile. Lo spessore di questo brano murario è cm 65; a cm 89 dal suo spigolo esterno a est si può notare una leggera rientranza, forse il segno dell’apertura d’ingresso al campanile. Di periodo successivo pare essere il muro settentrionale della chiesa di m 12,78, che, leggermente più spesso Planimetria LEGENDA: A - chiesa B - abside C - campanile D - setti murari (porticato) E - frammenti di arco F - sacrestia 143 Interno del campanile degli altri, 90 cm circa, è visibilmente obliquo verso l’esterno, come lo è un muro di sostegno, ed ha la facciata esterna quasi completamente coperta di terra, fino a 50 cm circa dalla linea di gronda; la sua lunghezza, misurata all’interno della chiesa, è di m 12,85. Su questa parete si legge ancora traccia di un arco: forse un abside poi chiusa, poiché dal crollo si intravede una rientranza riempita da pietre . Sul lato orientato ad ovest si erge il muro di facciata in cui si intravede ancora un elemento decorativo, probabilmente, di forma circolare con ghiera in mattoni. All’interno invece una trave in legno disposta leggermente obliqua rispetto al piano orizzontale è forse il segno di una antica apertura di ingresso; In un momento successivo fu addossato al muro meridionale un campanile avente i lati di m 1,85, all’esterno, e m 1,13 all’interno ed 144 uno zoccolo esterno alto cm 20 e sporgente cm 17. Esso chiuse quasi completamente l’ingresso meridionale e rimase staccato dall’interno della chiesa, avendo un’apertura a nord-est, tale che, per accede al campanile, bisognava uscire dalla chiesa per un’apertura, successivamente praticata, nel muro orientale della chiesa. Il campanile, poi, ebbe a sua volta l’ingresso ostruito dalla costruzione di un ambiente esterno alla chiesa, verso nord-est, forse la sacrestia di cui parla il Contestabile nel 1670 come opera da completarsi. La cuspide è di forma ottagonale con 6 aperture di forma ovale. In corrispondenza degli angoli erano posizionati 4 pennacchi di cui ne rimangono uno integro e la base di un secondo. Le aperture sui lati del campanile sono rifinite con elementi laterizi così come le colonnine degli angoli ancora integre. Nell’insieme il campanile risulta essere stato molto curato nei particolari e aggraziato nello slancio verso la punta. Ancora ben conservata la decorazione della cimasa sotto la cuspide, ornata da un giro di mattonelle in maiolica con disegni a scacchiera bianchi e blu. La muratura addossata alla parete del campanile, dove precedentemente era stato praticato il suo piccolo ingresso, reca ancora visibile, al suo interno, un condotto leggermente obliquo , forse per il passaggio delle corde del campanile. Questa nuova costruzione 145 è ruotata rispetto alla chiesa, con un ingresso gradonato, con i muri spessi, alla base, cm 60 e rastremantisi fino a cm 50. A m 8,78 dal muro meridionale della chiesa, ed a una quota inferiore di circa 150 cm, vi sono cinque setti murari, profondi m 1,24 e larghi mediamente m 1,30 circa, disposti ad intervalli irregolari; alcuni di essi sono nettamente staccati dalla parete di fondo intonacata come i setti stessi. Tra il campanile e i setti murari si noterà un “moncone” di muro: ebbene si tratta di crollo cantonale del campanile che è rimasto integro e conficcato nel terreno! A m 5,20 dai setti, verso est, vi è un altro brano di muro, lungo m 5,20, spesso cm 90, con uno zoccolo di cm 20 alla base della sua faccia orientale, con uno sguincio di cm 20 nella sezione a nord e posizionato a m 2,80 dalla costruzione esterna della chiesa (sacrestia). Il muro ha nel lato interno tracce di ceramica invetriata di colore verde usata come inzeppatura. Si vuole ricordare che nell’antica Abbazia, fino al 1887, vi era una statua molto pregiata di finissimo marmo bianco, raffigurante la Madonna con bambino a mezzo busto, attribuita ad Antonello Gagini, perciò anteriore al 1536, anno della sua morte. La nicchia in pietra tufacea con alcuni rilievi, ov’è collocata la statua e la decorazione di questa, costituita da due colonne in pietra, si sostiene provengano dall’antica Chiesa dell’Alica Tutt’oggi, in paese, si ha memoria dei monaci, soprattutto della loro organizzazione autosufficiente. Il casolare che si incontra in direzione nord rispetto al sentiero CAI è indicato come caseificio, e la rocca a nod-ovest rispetto alla facciata della chiesa è ricordata come u furnu di monaci. Ricostruzione ipotetica BIBLIOGRAFIA G. SANTAGATA, Calabria Sacra. Compendio storico-artistico della monumentalità chiesastica Calabrese, Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1974. D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977. D. MINUTO, G. PONTARI, S. VENOSO, Ricerche su Santa Maria dell’Alica, Rivista Storica Calabrese, n.s., Anno IX, nn. 1-4, Gennaio-Dicembre 1988. Guida d’Italia del TCI, 4a ed., Milano 1980. AUTORI Redazione testi: dott. Rosalba Tripodo Rilievi e rielaborazione grafica: Studio Riproarc di cons. arch. Claudia Cutrupi Foto: C. Cutrupi, A. Picone, G. Pontari 146 LA ’NSILICATA DI POLEMO Collocazione Località Polemo Comune di Roghudi Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 II San Lorenzo Long. 581061 lat. 4206498 Quota 840 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Da Bova Marina una recente strada conduce velocemente in meno di 10 km a Bova. Giunti al paese non entrare nel centro ma proseguire verso la montagna superando il campo di calcio; poco più di un km e si nota a sinistra una stradina asfaltata che scende verso delle case. Lasciare l'auto. È qui che inizia la ’nsilicata, cioè il selciato. Percorso a piedi I segnali bianco-rosso conducono dietro una delle prime case a destra. È qui che ha inizio la mulattiera che da Bova (la Chora = la capitale) conduceva a Roghudi, probabilmente uno dei più antichi collegamenti tra i due centri. Metteva in comunicazione una serie di casolari ormai abbandonati o trasformati in ovili posti sui crinali dei valloni che confluiscono nella fiumara Amendolea. Sentieri Bova è collegata a Delianuova da un sentiero (segnavia bianco-rosso) che valica l’Aspromonte. Bova La fiumara Amendolea e il paese di Roghudi 147 DESCRIZIONE DEL SITO a cura di Andrea Provenzano È la fiumara Amendolea, la più imponente dell'intero Aspromonte, il motivo ricorrente di questo sentiero. La si domina dapprima dall'alto con ampi panorami che giungono sino al mare e all'Etna per poi avvicinarsi sempre più come risucchiati ed attratti inevitabilmente. Nell'ultimo tratto del percorso infatti ci si ritrova minuscoli e sperduti nell'immenso alveo del corso d'acqua con le ripidi pareti della valle che incombono. Si può quindi comprendere quanto questa sinuosa via d'acqua, pietre e sabbia potesse intimorire i grecanici che erano costretta a percorrerla ma nel contempo come fosse fonte di vita per gli innumerevoli giardini che irrigava. 148 Il sito indagato è l’inizio del sentiero che collegava Bova a Roghudi. In località Polemo, infatti, è ancora ben visibile un breve tratto di selciato. Le case che si trovano lungo il percorso erano tutte abitate fino a non molti anni fa da gente che oggi si è spostata a Bova. Fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso il sentiero era percorso tre volte la settimana dal postino di Bova (ancora vivo ed arzillo) che si recava a Roghudi per portare la posta. Dai suoi racconti emerge che molti degli abitanti, soprattutto gli anziani della vallata e anche molti di Roghudi, parlavano esclusivamente il grecanico, rendendogli difficile la comunicazione. Tutt’oggi il sentiero è percorso dall’unico abitante della vallata e di Roghudi, il signor Antonino Trapani (detto lu stiratu) di circa 65 anni, che, con la sorella, vive vicino al vecchio centro ormai abbandonato. Il signor Trapani si reca a Bova per fare la spesa, portare le olive al frantoio, andare in farmacia e alla posta, accompagnato da un paziente asino e da un cane. Passando vicino casa sua si ha l’impressione che il tempo si sia fermato a tanti anni fa: un focolare ed il minimo per difendersi dai rigidi inverni, un orto, un piccolo gregge di capre e mucche, senza energia elettrica e telefono. 149 In alto: Platì - In basso: Antonimina In alto: Sfalassà - In basso: Antonimina In alto: Platì - In basso: Favazzina-Tagli Reggio Calabria: S. Anna di Ortì Reggio Calabria: Eremo Botte Ferruzzano 150 LA VIABILITÀ IN ASPROMONTE a cura di Alfonso Picone Tra i segni della frequentazione dell’Aspromonte da parte dell’uomo vi sono le strade, i sentieri, le vie, insomma tutto ciò che gli ha consentito di percorrere questo territorio. Ma per quanto riguarda la viabilità antica lo studio è difficile in quanto rari sono i rinvenimenti archeologici di tratti di strade ed incerta è la loro datazione. Tuttavia l’intento di dedicare una parte della nostra piccola indagine a tale tema deriva dai numerosi brandelli di vie, selciate e non, che abbiamo incontrato lungo il nostro camminare in questa montagna. La capillarità di tale sistema viario conferma ancora una volta come l’Aspromonte, e la montagna in genere, non fosse un ostacolo nelle comunicazioni tra le genti. Anzi, per un popolo come quello calabrese, che ha vissuto sempre con difficoltà il rapporto con il mare, la montagna ha rappresentato luogo di transito privilegiato e fonte di risorse. La viabilità nella montagna reggina si componeva di due elementi principali. Le vie istmiche (esistenti già in età protostorica) che collegavano i due versanti dell’Aspromonte utilizzando le fiumare (d’estate) o i percorsi di crinale. Questi valicano la dorsale grazie a passi come quello di Cancelo, del Mercante e piani come quelli della Limina, di Zillastro. Lungo la dorsale appenninica, poi, la natura stessa offre un percorso in gran parte pianeggiante ed a quote di rado superiori ai 1.000 m che attraversa tutto l’Aspromonte allungandosi, lungo l’asse SO-NE, dai piani di Zervò sino a quelli della Limina: è la cosiddetta Via Grande, toponimo ancora riportato sulle vecchie tavolette dell’I.G.M. I due elementi (vie istmiche e dorsale appenninica) costituivano quindi un sistema a spina di pesce che consentiva di percorrere agevolmente l’Aspromonte. L’efficienza di tale viabilità è attestata da numerose testimonianze. Gli abitanti di un paesino della vallata dell’Amendolea ricordano ancora che Maru Gnoccu faceva Grécia (località montana sopra Gallicianò) – Reggio e ritorno in un giorno. Agli inizi del secolo scorso, il viaggiatore inglese Norman Douglas, impiegò una giornata per recarsi da Delianova a Bova. Negli ultimi decenni, tuttavia, le aree interne dell’Aspromonte hanno visto una notevole diminuzione demografica. Gran parte della popolazione si è spostata sulla costa ed i sistemi viari collegano ora quasi esclusivamente la marina con i pochi centri interni e non più questi tra di loro. Le vie interne sono state quindi abbandonate e l’incuria ma soprattutto l’ignoranza sta cancellando questo patrimonio. Molte le abbiamo segnalate alle autorità ed agli studiosi ed alcune sono state oggetto di indagini. Tuttavia nel breve volgere di un decennio molte sono scomparse. È per tale motivo che ne presentiamo una breve rassegna, di certo parziale rispetto all’esistente. STORIE E LEGGENDE a cura di Mimmo Cuppari E tutt’ora viva la leggenda che lungo il sentiero e precisamente dove questo si biforca per scendere nella località Foculiu, le Narade (Nereidi) la mattina presto, prima del sorgere del sole, aspettavano le donne di Bova che si recavano a fare il bucato nel greto della fiumara Amendolea per percorrere un tratto di sentiero insieme e fare qualche dispetto. 151 Samo: monte Perre San Luca Si racconta che una volta all’imbrunire una signora chiamò la vicina ad alta voce e si accordò con quella per andare insieme la mattina dopo a fare il bucato nella fiumara Amendolea. La Nnarata aveva seguito la conversazione tra le due comari e perciò la mattina dopo, quando era ancora buio, si presenta davanti la casa della comare, la chiama e spacciandosi per l’altra comare le chiede se è pronta per andare a fare il bucato. Quella, meravigliata, domanda: – Comu mai cummari venistivu kusì prestu? E la Nnarata risponde: – Non ndavjva kkiù sonnu e poi cusì non di pigghja lu suli pe strata. La comare un po’ timorosa si prepara, esce e s’incamminano, lei avanti e la Nnarata dietro. Vedendo che l'altra è silenziosa, il che non era nelle sue abitudini, si insospettisce e la fa passare davanti. A questo punto si accorge che la comare, pur avendo la veste lunga, mentre cammina fa scintille con i piedi sul selciato. (Le Narade erano degli esseri che pur avendo sembianze femminili, al posto dei piedi avevano gli zoccoli e non sopportavano la luce L’antico acciotolato di accesso al paese abbandonato di Africo vecchio solare). La donna capisce, perciò, che quella comare che la precede è una Nnarata e inventandosi la scusa di aver dimenticato di prendere con sé il sapone, dice alla falsa comare: – Mi son dimenticata di prendere il sapone; mi aspettate qua e mi guardate la truscia fintanto che ritorno a prenderlo? (Truscja: lenzuolo o altro telo con annodati insieme i quattro angoli a forma di fagotto contenente all’interno un qualcosa. In questo caso i panni sporchi.) – E la Nnarata: – Va bene, vi aspetto ma non vi ddjmuratj (non impiegate molto tempo). La donna torna a casa e tutta impaurita si chiude dentro in attesa che faccia giorno. Intanto la Nnarata aspetta, e aspetta che ti aspetta, il tempo passa ed inizia a fare giorno. È a questo punto che la Nnarata, che non sopporta la luce del sole, capisce che la donna l’ha ingannata, ed infuriata si avventa sulla truscia strappando e disperdendo tutt’intorno i panni. Mentre i primi raggi del sole cominciano a raggiungere la terra, la Nnarata scompare insieme alle tenebre. La donna ancora rinchiusa in casa viene raggiunta questa volta dalla vera comare con la quale avevano l’appuntamento. La donna racconta alla comare i fatti ed ormai, con il sole alto, decidono di andare a prendere la truscia, ma arrivati in loco trovano tutti i panni ormai inutilizzabili. Storia realmente accaduta o leggenda? Nessuno può dircelo. BIBLIOGRAFIA G.P. GIVIGLIANO, Assi e direttrici protostoriche in Calabria, « Klearchos », 1977, pp. 51104. G.P. GIVIGLIANO, Percorsi e strade, Storia della Calabria Antica, Gangemi Ed., Reggio C.-Roma 1994. G.P. GIVIGLIANO, Ricognizione di topologia storica fra Reggio e Leucopétra in Calabria bizantina, Rubbettino Ed., Soveria Mannelli 1991. L’intervento distruttivo delle ruspe nel 2001 AUTORI Redazione testi: D. Cuppari, A. Provenzano, A. Picone Rilievi e rielaborazione grafica: Studio Riproarc di cons. arch. Claudia Cutrupi Foto: C. Cutrupi, A. Picone SAUCCIO Altre denominazioni Saguccio Collocazione Località Sauccio Comune di Bagaladi Coordinate Carte I.G.M. scala 1:25.000 F° 602 II San Lorenzo Long. 573171 lat. 4214126 Quota 1.054 m s.l.m. COME ARRIVARE Avvicinamento in auto Sauccio si trova circa 15 km a monte di Bagaladi, seguendo la S.S. 183. Ad un quadrivio con un piccolo agglomerato di case ed un bar lasciare la statale e prendere a destra. Una stradina in piano entra in una fitta pineta ma poi scende aprendosi sulla vallata della fiumara Melito e giungendo, dopo 2 km, a Sauccio. Vi si può giungere anche da Gambarie lungo la S.S. 183 o da Reggio Calabria seguendo la ripida ma panoramica strada che da Gallina sale a Monte San Demetrio ed ai Piani di Lopa. Percorso a piedi: difficoltà T Sentieri Chi volesse camminare, dopo la visita di Sauccio, può seguire la strada, che diviene sterrata, e che in 2 km porta al greto della fiumara di Melito. Risalendo, di poco, il corso d'acqua, si raggiungono i resti del mulino. Tornando alla pista e seguendola sull'altro versante della valle si raggiunge monte Peripoli. 153 154 Bagaladi TERRITORIO CIRCOSTANTE Il centro abitato è posizionato a metà costa di un versante del torrente Tuccio, in posizione soleggiata, ai margini di un piccolo pianoro, che costituisce la zona coltivata del territorio. Il villaggio è immerso nel verde dei boschi soprastanti e della macchia mediterranea tipica dei versanti aspromontani. La vegetazione arborea è costituita da castagno (molti dei quali secolari), pino calabro da rimboschimento e, in presenza notevole, arbusti di ginestra. La fiumara sottostante, il cui letto è molto stretto, è ricchissima d’acqua che scende a valle superando salti naturali con magnifiche cascate. La vegetazione qui è costituita prevalentemente da ontano nero. Molte sono le sorgenti d’acqua all’interno dell’abitato e lungo la strada che porta al torrente. Sauccio 155 Prospetto laterale ATTUALI Prospetto frontale CONDIZIONI DEL SITO Allo stato attuale il centro è quasi completamente disabitato, anche se ancora poche persone coltivano i terreni di loro proprietà e, quindi, hanno fatto manutenzioni ordinarie nelle case, dove a volte soggiornano per più giorni la settimana. L'economia agricola e quasi del tutto scomparsa e le coltivazioni servono soltanto per il sostentamento familiare. 156 ORIGINI, FONTI, STORIA DEL SITO La storia di Sauccio è relativamente recente, infatti, fino alla fine dell'Ottocento non vi erano residenti nella frazione e i terreni, di proprietà di famiglie residenti a Cardeto, venivano coltivati dagli stessi che facevano la spola tra Cardeto e Sauccio. Le uniche costruzioni presenti sul territorio erano costituite da pagliai tronco conici con la base circolare di pietra posta a secco e copertura di frasche impermeabilizzata con foglie e fango, che servivano da riparo temporaneo. Agli inizi del Novecento, i figli dei vecchi proprietari iniziano a sposarsi e a stabilirsi definitivamente a Sauccio creando il primo nucleo della comunità saucciota. I primi fanno parte della famiglia Megale, che oltre a essere agricoltori, fondano una delle prime attività manifatturiere nella zona. Infatti, nella località ora detta Mulino, impiantano l'attività della battenderia, antico sistema per l'infeltrimento dei tessuti di lana, e iniziano a sfruttare l'energia idraulica prodotta con le acque del vicino torrente. Con tale attività, unica nella zona, si produceva un particolare tipo di tessuto di lana infeltrita, chiamato orbace, tessuto reso impermeabile da questo procedimento e adatto a confezionare i mantelli e i calzoni dei pastori. Essendo mosso dalla forza dell'acqua, il battinderi velocizzava il processo di infeltrimento e tutti i contadini e pastori della zona, conferivano qui i tessuti prodotti artigianalmente nelle proprie dimore per l'infeltrimento, operazione che in altre zone come la Bovesia, veniva svolta all'interno delle abitazioni a forza di braccia e gambe. Il funzionamento ininterrotto del battinderi necessitava di molto Teleferica Planimetria 157 combustibile per alimentare l'enorme caldaia e questo ha prodotto il veloce disboscamento dei due versanti del torrente. Intanto, altre famiglie si erano stanziate sul territorio, diventando agricoltori-pastori, e si continuò a costruire case in muratura, dapprima nella località chiamata Maro Nino, un po’ più a valle della località Mulino e poi a Sauccio, creando quello che oggi è il centro abitato. Con l'aumento della popolazione, aumentano in maniera proporzionale i terreni coltivati. Inizia l'attività di terrazzamento dei versanti e il convogliamento delle acque sorgive per l'irrigazione. Vengono stabiliti usi dei suoli e delle acque che tuttora permangono e ha inizio così lo sviluppo della comunità. Con l'inizio della guerra e l'imposizione della tassa sul macinato, l'antico battinderi viene convertito in mulino e inizia la macinatura dei cereali. Intanto si sviluppano attività artigianali collaterali, tra cui la più importante è la costruzione delle ciaramelle, antichi strumenti musicali, che ha raggiunto il massimo sviluppo con Antonino Megale. Intanto la comunità saucciota si afferma sempre più sul territorio, stringendo legami con i paesi circostanti in cui si approviggiona dei beni di prima necessità che non riusciva a produrre attraverso il sistema del baratto di prodotti agricoli e della pastorizia. Oltre che intrattenere rapporti commerciali con le comunità circostanti, i sauccioti hanno stretto con queste solidi legami culturali, manifestatisi in veri e propri gemellaggi, che prevedevano lo scambio di visite in particolari periodi dell'anno, soprattutto a Carnevale. Il fatto che gli abitanti fossero proprietari dei terreni che coltivavano, li poneva in un gradino superiore rispetto agli abitanti del territorio circostante, per lo più coloni di grandi proprietari terrieri, il cui misero guadagno spesso non bastava a sostenere la famiglia. Quindi la comunità, non solo si è sviluppata in maniera veloce, ma ha anche scelto le linee di sviluppo, senza imposizioni o costrizioni esterne. Questo tipo di economia, basato sulla quasi totale autosufficienza, ha retto fintanto che il sistema del baratto non è stato definitivamente sostituito dagli scambi monetari. Il bisogno di denaro ha provocato le prime migrazioni intorno agli anni '60, che da allora non si sono mai arrestate fino a provocare il totale spopolamento del sito che è avvenuto nel 2000. La saitta del mulino 158 La storia di Sauccio rappresenta, pertanto, la storia di una comunità che nell'arco di un secolo nasce, si sviluppa e muore. La velocità con cui la frazione nacque ed il numero di abitanti che ha raggiunto (fino a 120 circa), faceva presumere una costante crescita economica, ma così non è stato. Infatti, l’economia basata sull'autosufficienza, all'inizio resse. Man mano che la comunità cresceva e i figli si sposavano, i terreni venivano divisi in parti uguali tra i figli, ma il criterio guida era sempre quello dell'autosufficienza, così un proprietario che aveva ad esempio cinque figli e cinque appezzamenti di terreno di cui uno era irriguo, un'altro seminativo, ecc. dava a ciascuno dei figli la quinta parte di ogni appezzamento, in maniera tale da assicurare la sussistenza della nuova famiglia. Questo sistema di divisione dei beni ha portato a una estrema parcellizzazione del territorio, ancora 159 sufficiente per l'economia del baratto, ma non sostenibile con la nuova economia basata sugli scambi monetari. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, tutti i proprietari dei terreni che erano venuti in possesso degli stessi attraverso semplici accordi verbali, si riuniscono alla presenza di un notaio e legalizzano con un atto di divisione la proprietà dei beni. Tuttavia questo atto non è stato seguito da un frazionamento della proprietà che risultava ancora indivisa, proprio per l'elevata parcellizzazione delle particelle. Dagli anni Sessanta in poi si assistette al declino della comunità, in quanto i figli man mano che crescevano emigravano all'esterno in cerca di lavoro come operai, e la mancanza di braccia da impiegare nell'agricoltura e nella pastorizia ha portato all'abbandono della maggior parte delle terre coltivate. Gli ultimi nuclei familiari, per lo più costituiti da persone anziane si sono trasferiti nei centri vicini, in particolare Bagaladi, Melito e Gallina, abbandonando definitivamente Sauccio. Le case, per mancanza di manutenzione stanno oramai crollando, e i terreni coltivati sono sempre più ridotti. Sono oramai pochi pensionati che nei fine settimana ritornano a Sauccio e coltivano per hobby un pezzettino di terra, i superstiti di quella che è stata una comunità fiera e orgogliosa. AUTORI Redazione testi: arch. Giuseppe Battaglia Rilievi: geom. Roberto Laganà Foto: A. Picone 160 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Il territorio grecanico da Leucopetra a Capo Bruzzano, in Calabria bizantina, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. AA.VV., Samo “Urbs antiqua et nobilis”, Accademia Belle Arti, Reggio C. 2002. AA.VV., Archeologia ad Oppido Mamertina-Immagini e ipotesi, Soprintendenza Archeologica della Calabria, Gioia Tauro 1999. E. BARILLARO, Calabria. Guida artistica e archeologica, Pellegrini, Cosenza 1972. F. BEVILACQUA, A. PICONE CHIODO, Il Parco Nazionale d’Aspromonte. Guida naturalistica ed escursionistica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999. M. CARLINO, Come ripercorrere secoli d’Aspromonte, «Calabria Sconosciuta», a. XXII, n. 107, agosto 1994. Club Alpino Italiano, I segni dell’uomo sulle montagne di Feltre, Fondazione G. Angelini, Belluno 1995. F. DE CRISTO, Vagabondaggi sull’Aspromonte, Guido Mauro, Catanzaro 1932. G. DE CRISTO, Il culto della pietra sull'Aspromonte, Polistena 1926. S. Di Fazio, C. R. FICHERA, Architettura rurale e potenzialità di sviluppo del turismo nella provincia di Reggio Calabria, Laruffa Editore, Reggio C. 2001. F. FAETA, Calabria l'architettura popolare, Laterza, Bari 1984. A. FALCOMATÀ, Aspromonte vetta d'Europa, Jason, Reggio C. 1997. S. GEMELLI, Storia Tradizioni e Leggende a Polsi d’Aspromonte, Parallelo 38, Reggio C. 1974. G.P. GIVIGLIANO, Assi e direttrici protostoriche in Calabria, «Klearchos», nn. 73-76, anno 1977. G.P. GIVIGLIANO, Percorsi e strade, in Storia della Calabria Antica. Età italica e romana, a cura di S. SETTIS, Gangemi editore, Reggio C. 1994. G.P. GIVIGLIANO, Sistemi di comunicazioni e topologia greca nella Brettia, Cosenza 1978. C. IERO, Meraviglioso Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1999. R. LEUZZI, Francescantonio Leuzzi, la mente data alla scienza e il cuore al suo Aspromonte, Nuove Edizioni Barbaro, Villa S. Giovanni 2003. M.A. LIBERTI, L’Organizzazione del Territorio della Piana di Gioia Tauro in Età Antica, «Incontri Meridionali», a. 1996, nn. 1-3. 161 M.A. LIBERTI, La Piana di Gioia in età romana II, «Calabria Sconosciuta», a. XXII, n. 82, 1994. R. LIBERTI, L’industria della pece nelle montagne dell’Aspromonte a metà del XVII secolo, «Incontri Meridionali», a. 1984, n. 1. F. MEDICI, Il vecchio mulino ad acqua in Calabria, Laruffa Editore, Reggio C. 2003. D. MINUTO, S.M. VENOSO, Chiesette calabresi medievali a navata unica, Marra, Cosenza 1985. D. MINUTO, G. PONTARI, S.M. VENOSO, Indagini sull’abitato di Potamia, in San Luca Storia Tradizioni Società a 400 anni dalla fondazione, Arti Grafiche, Ardore 1994. D. MINUTO, Catalogo dei Monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Thesaurus Ecclesiarum Italiae, Roma 1977. D. MINUTO, Escursione in Aspromonte, «Calabria Sconosciuta», a. XXIV, lug-sett. 2001. D. MINUTO, Ritorno a Palecastro. «Calabria Sconosciuta», a. XXV, apr.-giug. 2002. F. NOCERA, La valle del Bonamico, «Quaderni della Fondazione Corrado Alvaro», s.d. F. NOCERA, Rovine di Calabria da Capo d’Armi al Bonamico, Casa del Libro, Reggio C. 1974. A. PLACANICA, a cura di, Storia della Calabria medievale, Gangemi Editore, Reggio C. 1999. D. RASO, E. SPANÒ, Romani in Aspromonte, «Calabria Sconosciuta», n. 96, ott.-dic. 2002. D. RASO, N. MARTINO, Il “cacciadiavoli”, «Calabria Sconosciuta», a. 1984, nn. 25-26. D. RASO, Sul Passo del Mercante. L’asse più importante di Locri Epizefiri, «Calabria Sconosciuta», nn.89-90, gen-giug 2001 D. RASO, Zomaro, La montagna dei Sette Popoli. Tra i misteri della montagna calabrese, Laruffa Editore, Reggio C. 2001 D. RASO, Tinnaria, antiche opere militari sullo Zomaro, «Calabria Sconosciuta», a. 1987, n. 37. G. ROHLFS, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Longo, Ravenna 1974. A. SALSA, I segni dell’uomo nelle Terre Alte: aspetti antropologico-culturali, I, «La Rivista del CAI», 1996. G. SANTAGATA, Calabria sacra, Edizioni Parallelo 38, Reggio C. 1974. G. STALUPPI, L’uomo e l’alta montagna, Franco Angeli, Milano 1979. V. TEDESCO, Memoria su i luoghi antichi e moderni del circondario di Bianco, Edizioni Brenner, Cosenza 1990. V. TETI, Il senso dei luoghi, Donzelli Editore, Roma 2004. M. Varotto, Il paesaggio dell’abbandono nel massiccio del Grappa, Club Alpino Italiano, Bergamo 1999. 162 INFORMAZIONI SUI SITI All’indagine sui segni dell’uomo nelle terre alte in Aspromonte abbiamo ritenuto importante, come già fatto in altre ricerche condotte dal CAI, accompagnare gli strumenti conoscitivi per una loro fruizione. La descrizione degli itinerari e l’indicazione delle coordinate geografiche consente di accedervi abbastanza agevolmente. È bene ricordare comunque che si tratta di camminate che si svolgono in montagna ed in un’area protetta dove è necessario avere attrezzatura ed abbigliamento idoneo, ma soprattutto prudenza e rispetto per l’ambiente. Infine per chi vuol trascorrere qualche giorno di vacanza nel Parco indichiamo alcune strutture ricettive e riferimenti telefonici per le principali aree riguardanti i siti. • Saguccio: Porta del Parco “Frantoio Jacopino” (Bagaladi), Giuseppe Battaglia cell. 339 1021274. • Villaggio UNRRA, Torre Carditto, Altanum: Rifugio Montano “Valle Spana” (Mammola) tel. 0964 414598 cell. 339 7888079. • Siti nei pressi di Zomaro (Cittanova): Ostello Zomaro, Gaetano Caminiti tel. 0966 625006. • Pietra Salvo, monte Fistocchio: Rifugio “Il Biancospino” loc. Carmelia (Delianuova), Antonio Barca (guida del Parco) tel. 0966 963154 - cell. 333 3685838. • Siti nei pressi di Zervò (S. Cristina): Comunità Incontro (presso ex-sanatorio) 0966 870297. • Montalto (Gambarie): Consorzio Turistico tel. 0965 744002, Assotur tel. 0965 743061. • Alica, Polemo: coop. San Leo (Bova), Andrea Laurenzano (guida del Parco) tel. 0965 762165 cell. 347 3046799. • Monte Tre Pizzi: azienda agrituristica ‘A Sena-Runcatini (Ciminà) tel. 0964 334839. • Siti tra Samo e San Luca: Consorzio del Turismo Verde EOS tel. 0964 22526. 163 Il Club Alpino Italiano nasce sul Monviso nel 1863, dall'idea di Quintino Sella, scienziato e statista, che volle riunire gli alpinisti italiani in un club. Ma gli anni non ci pesano perché sono serviti a costituire il nostro ricchissimo bagaglio d'esperienza. Un patrimonio fatto di puro volontariato. Oggi il CAI conta quasi 800 tra sezioni e sottosezioni presenti in tutte le regioni d’Italia con oltre 300.000 soci. Realizza iniziative in molti campi con attenzione agli aspetti tecnici, naturalistici e culturali delle montagne. Alcuni praticano l’arrampicata, i più preferiscono l’escursionismo, ma tutti con il comune intento di entrare a contatto con la natura, apprezzandone gli aspetti più significativi. Per far parte del CAI non sono quindi necessarie doti particolari ma spirito di gruppo, voglia di camminare e un pizzico di sana curiosità. La Sezione Aspromonte Fondata nel 1932 a Reggio Calabria, la Sezione Aspromonte gode oggi di ottima salute e vanta un alto numero di giovani tra i propri iscritti. Possiede una struttura a Gambarie (1310 m s.l.m.). Ogni anno organizza circa 30 escursioni con la partecipazione di oltre mille tra soci e simpatizzanti. Anche l’impegno culturale e formativo è intenso con cicli di conferenze su temi vicini alla civiltà montana ed orientati alla conoscenza del territorio. L’attività principale è l’escursionismo, favorito da una montagna come l’Aspromonte che consente itinerari in ogni stagione. Ma anche l’Etna, il Pollino, la Sila e le Isole Eolie per i fine settimana, e poi le Alpi, per trekking di più giorni. E dovunque tanti amici che ci guidano sulle loro montagne. Ma il CAI non è solo escursionismo: i soci possono praticare lo sci, la speleologia, l'arrampicata, la mountain bike, il torrentismo e tante altre attività. I motivi per camminare insieme sono davvero tanti ! CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Aspromonte www.caireggio.it - [email protected] sede sociale: via S. Francesco da Paola, 106 apertura: giovedì ore 21 (eccetto i mesi estivi) recapito postale: c. p. 60 - 89127 REGGIO CALABRIA tel. fax e segreteria: 0965 898295 164 40.000 ettari di rigogliosa superficie boschiva ed una grande e rara varietà di specie animali e vegetali (l’aquila del Bonelli e la gigantesca felce tropicale Woodwardia radicans, tanto per citarne alcune) costituiscono il patrimonio naturalistico del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Non solo i monumenti naturali (pietre, fiumare e cascate) ed i boschi ma anche le numerose testimonianze storiche, artistiche e culturali caratterizzano questo estremo lembo della penisola italiana, che si estende per 76.178 ettari ed abbraccia 37 Comuni della Provincia di Reggio Calabria: Africo, Antonimina, Bagaladi, Bova, Bruzzano Zeffirio, Canolo, Cardeto, Careri, Ciminà, Cinquefrondi, Cittanova, Condofuri, Cosoleto, Delianuova, Gerace, Mammola, Molochio, Oppido Mamertina, Palizzi, Platì, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi, Samo, San Giorgio Morgeto, San Lorenzo, San Luca, San Roberto, Santa Cristina d'Aspromonte, Sant'Agata del Bianco, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Santo Stefano in Aspromonte, Scido, Scilla, Sinopoli, Staiti, Varapodio. L’ istituzione del Parco Nazionale dell’Aspromonte - prevista da una legge del 1989 con la quale si intendeva creare una grande area protetta autonoma dal Parco Nazionale della Calabria (istituito nel 1968) e formalizzata dalla Legge Quadro sulle aree protette (n. 394 del 1991) – si realizzò concretamente nel 1994 quando, con D.P.R. datato 14 gennaio, fu istituito l’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte. L’Ente è quindi responsabile della salvaguardia di un patrimonio ambientale che è straordinario sotto l’aspetto biologico, naturalistico e scientifico, nonché della sua valorizzazione attraverso azioni di educazione e di promozione culturale nei confronti della collettività affinché il rispetto e la difesa della natura diventino elemento costante della vita di tutti. L’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte è inoltre attivamente impegnato sul terreno della promozione di uno sviluppo locale sostenibile, in grado di assicurare alle popolazioni locali condizioni di vita basate su forme d’economia moderne ma rispettose delle tradizioni più sane e genuine. Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte Via Aurora – 89050 GAMBARIE di Santo Stefano in Aspromonte RC Tel 0965 743060 fax 0965 743026 www.parcoaspromonte.it - [email protected] 165 INFORMAZIONI UTILI SEI REGOLE PER L’ESCURSIONISTA LA CARTOGRAFIA Chi volesse approfondire la conoscenza del territorio può consultare le pubblicazioni indicate in bibliografia e dotarsi della cartografia dettagliata dei sentieri: – Carte dell’I.G.M.I. scala 1:25.000, indicate nella descrizione dei siti; – Carta Escursionistica della Calabria – Aspromonte scala 1:50.000; – Atlante del T.C.I. scala 1:200.000, per le strade di accesso alle aree dei siti. 1) Per le tue escursioni in montagna, scegli itinerari in funzione delle tue capacità fisiche e tecniche, documentandoti adeguatamente sulla zona da visitare. Se cammini in gruppo prevedi tempi di percorrenza in relazione agli escursionisti più lenti. 2) Provvedi ad un abbigliamento ed equipaggiamento consono all’impegno e alla lunghezza dell’escursione e porta nello zaino l’occorrente per eventuali situazioni di emergenza, assieme ad una minima dotazione di pronto soccorso. I SENTIERI 3) Di preferenza non intraprendere da solo una escursione in montagna e, in ogni caso, lascia detto a qualcuno l’itinerario che prevedi di percorrere, riavvisando al tuo ritorno. La difficoltà degli itinerari è sintetizzata dalle lettere: T = Turistico (facile); E = Escursionistico (media difficoltà); 4) Informati sulle previsioni meteorologiche e osserva constantemente lo sviluppo del tempo. EE = Escursionisti Esperti (difficile). TELEFONI UTILI 5) Nel dubbio torna indietro. A volte è meglio rinunciare che arrischiare l’insidia del maltempo o voler superare difficoltà di grado superiore alle proprie forze, capacità, attrezzature. Parco Nazionale dell’Aspromonte 0965 743060 Corpo Forestale dello Stato 0965 591800 Guide Ufficiali del Parco 348 3368079 Club Alpino Italiano sezione Aspromonte 0965 898295 Soccorso Alpino 368 7402003 A.P.T. 0965 21171 6) Riporta a valle i tuoi rifiuti. Rispetta la flora e la fauna. Evita di uscire dal sentiero e di fare scorciatoie. Rispetta le tradizioni locali ricordandoti che sei ospite delle genti di montagna. 166