TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 75 Quinto Marini Docente di Letteratura Italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università di Genova “Viva Garibaldi!” “Non finì a favore del popolo il sogno di Garibaldi, non fu per il popolo l’unità d’Italia, ma per i potenti che seppero cambiar bandiera al momento giusto, seguire i nuovi tempi traducendo il trasformismo romano in una prassi politica locale basata su opportunistici e disinvolti adattamenti alle proprie convenienze”. TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 76 TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 77 Il Tempietto “Viva Garibaldi!” Il mito tra letteratura e realtà* Quinto Marini 1. Tra mito e leggenda In una delle più belle poesie “garibaldine” di Francesco Dall’Ongaro, composta per l’impresa dei Mille come una sacra rappresentazione in cui si alternano voci popolari (Garibaldi in Sicilia, maggio 1860), le donne di Palermo interpretano così il mito del «celeste eroe», fiammeggiante, immortale, vittorioso sempre: e vidi i lampi che gli uscian dagli occhi. Ei non è fatto di tempra mortale, e non c’è piombo che nel cor lo tocchi[…] Quando si move e ti fiammeggia avanti, sprona il cavallo e fa marciare i fanti: quando si ferma in mezzo all’aria aperta, suona l’attacco e la vittoria è certa.1 Al coro delle donne segue quello dei soldati napoletani che implorano re Franceschiello di portarli a combattere contro Turchi e Zuavi, e persino contro i diavoli, ma non contro Garibaldi, «ch’ei non è fatto della nostra carne» («Noi gli tiriamo, e il colpo indietro torna; / noi cadiam morti, e lui ci fa le corna»): è il figlio di San Gennaro, terribile e pietoso come «un santo sotto forme umane: / prima ci vinse e 77 poi ci diè del pane». I lazzari, a loro volta, lo dicono «nato d’un demonio e d’una santa, / in un momento che han sentito amore: / gli è tutto il padre, quando il ferro agguanta, / ma della madre ha la dolcezza in core», e pensano che sia protetto da Santa Rosalia e da San Gennaro. Ma sono i volontari garibaldini a chiudere il canto precisando la vera e laica santità del loro generale: lasciate star li santi e li demoni; ché Garibaldi de’ dimon non trema, e sa che i santi non son tutti buoni. La santa da cui nacque è Italia bella, la libertà d’Italia è la sua stella. La stella che lo guida è Libertade, chi per lei pugna vince anche se cade!2 La composizione a più voci di questo popolarissimo poeta veneto (ex prete, fervente mazziniano, combattente a Venezia nel ’48 e con Garibaldi nella Repubblica Romana, esule fino al ’59 e poi sostenitore della soluzione sabauda) valga per l’infinita congerie di canti patriottici fioriti in pieno Ottocento a creare e diffondere il mito di Garibaldi, a cominciare dall’Inno di Luigi Mercantini3. Al mito e alla leggenda di Garibaldi e delle sue camicie rosse contribuì lo stesso Generale, che, fin dall’anno della sconfitta di Aspromonte (1862) cominciò a scrivere un Poema autobiografico in ventinove canti e dopo Mentana (1867) stese le sue Memorie per poi passare ai “romanzi storici”, non solo per nobili motivi di TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 78 78 Il Tempietto propaganda ideologica, ma anche «per ritrarre un onesto lucro del suo lavoro».4 Da Cantoni il volontario (1870) a Clelia (1870), ai Mille (1874), a Manlio (scritto nel 1876 e inedito fino al 1982), Garibaldi raccontò storie d’amore e di passione patriottica vissute dentro i grandi avvenimenti della Repubblica Romana, dell’impresa dei Mille, di Mentana: trame romanzesche sulla linea di Guerrazzi e di Dumas continuamente deviate a pamphlet politici e a proclami ideologici (il distacco da Mazzini, la prospettiva monarchica, il governo della nuova Italia, l’ossessione anticlericale e anticattolica che si esprime con l’onnipresente figura del prete malvagio o del gesuita stupratore di innocenti fanciulle e orditore di funesti intrighi politici), convulsa produzione di un uomo di spada a disagio con la penna (di Garibaldi scrittore si salvano appena le Memorie, soprattutto nella prima parte che narra la giovinezza selvaggia tra le Pampas e la guerriglia sudamericana)5 e, dopo Aspromonte e Mentana, in forti difficoltà a capire i nuovi tempi e comunque a disagio come osservava Guglielminetti col linguaggio politico della cultura democratica del secondo Ottocento.6 Più che gli scritti dello stesso Garibaldi dobbiamo dunque leggere, per studiare il suo mito, le opere su Garibaldi e sulle sue imprese. E nel campo della memorialistica abbiamo una varia e vasta tipologia sociale e intellettuale di autori, dai più umili, quasi illetterati, ai più famosi (su tutti Giuseppe Cesare Abba col suo Da Quarto al Volturno), anche stranieri (Alexandre Dumas). 2. Un prestigiatore ovadese tra i Mille Tra gli umili che hanno raccontato l’impresa dei Mille, colpisce ad esempio la figura di un ovadese giramondo e prestigiatore, campione di biliardo col soffio, Bartolomeo Marchelli detto Bazàra, che, forse anche per sfuggire a qualche guaio con la giustizia, si fa arruolare per forza sostando notte e giorno davanti al cancello di Villa Spinola.7 Il diario del Marchelli, che aveva fatto la seconda elementare, è un esempio di scrittura popolare genuina e immediata (frequenti gli errori di tempi, le incertezze ortografiche, i salti di soggetto, le sgrammaticature, gli «io ci dico»), che ci fa subito entrare nell’atmosfera trepidante e festosa, come «un campo di fiera», dei Mille sul Piemonte appena salpato agli ordini di Garibaldi: Come era bello nel vedere ad abracciarsi a vicenda! Uno diceva: Non ti ho più veduto dopo il combattimento di San Fermo. L’altro: Tu sei dei nostri. Come stai? Ti rammenti alla difesa di Roma, là sul bastione di S. Pancrazio? […] In tutti i crocchi si parlava di fatti d’armi. Altri si pulivano i revolveri. In prima classe sento che si suona il pianoforte, discendo, vedo due studenti pavesi che erano suonando a due mani; altro cantava canzoni patriottiche; altri si misero a ballare. Poi tornai TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 79 Il Tempietto sopra e vedo Garibaldi sul ponte di comando che dirigeva il vapore sulla striscia che segnava il Lombardo comandato da Bixio. Lo fissai bene; era colla sua calotta in testa spinta in dietro; quei occhi tutto fuoco, dando ogni istante colla tromba ordini al macchinista. A poppa riconosco un certo Bianchi di Piacenza che suonava col suo flauto; altro lo accompagnava con una stopenda armonica. Per me, mi sembrava di trovarmi in campo di fiera; tutti allegri come se si andasse a una festa da ballo8. Efficacissima risulta poi la sua semplicità nel descrivere nuovi luoghi e città, come quando scopre Palermo dalle alture, Palermo sembra che si tocchi colle mani; sparsa la città in una pianura come un bigliardo; belle le sue chiese, i molti campanili dei tanti monasteri, il Palazzo Reale, la Cattedrale, i legni da guerra immensi fermi nel porto9, o quando fa la cronaca di spostamenti o manovre militari (siamo ancora sopra Palermo, la notte prima dell’attacco): Si discese nei sentieri che nemeno le capre avrebbero potuto passarci e nel massimo silenzio, saltando da un fosso ad un altro con fatica e pericolo, dandosi aiuto uno con l’altro. Si arrivò alla pianura sempre camminando fra i campi e vigneti. Un silenzio regnava nella 79 nostre file e con ordine ci siamo trovati al Ponte dell’Ammiraglio, che un drapello dei nostri sorprese il primo corpo di guardia avanzato di soldati nemici vicini ad un molino e ne venne preso d’assalto e messo in fuga10. Ma accanto al fascino delle battaglie e delle armi («Il sole che compariva dalle alture; scintillavano le spade dei ufficiali che stavano alla testa delle colonne che si avanzavano su di noi…»),11 Marchelli è anche pronto a registrare le sofferenze dei nemici («In quei tre giorni [della battaglia di Palermo] certo quei poveri soldati non avranno chiuso un occhio»)12 e gli enormi disagi di un popolo, come quando si trova davanti alla disperazione di una madre di quattro figli cui i borbonici hanno bruciato la casa e ferito il marito: La signora Marchioli era in uno stato deplorevole, un piccolo bimbo di pochi mesi e altri tre di circa 8, 9, 11 anni. Il mio cuore non poteva rimanere indiferente di vedere questa famiglia gettata a terra in poco di paglia13. Marchelli conduce la famiglia da Garibaldi e poi in un convento, dove, davanti alle reticenze di una monaca, deve metter mano alla pistola per ottenere un ricovero. 3. Una folla di memorialisti garibaldini Certo, Bartolomeo Marchelli è un narratore minore e lo si è posto qui in TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 80 80 Il Tempietto apertura solo per testimoniare la varietà socio-culturale dei garibaldini. Alle loro gloriose imprese non mancarono memorialisti d’eccezione e le vecchie antologie di Giani Stuparich o di Gaetano Mariani,14 annoverano, dopo lo stesso Garibaldi (è lui ad avviare nelle sue Memorie il romantico mito di Anita, la «martire dell’amore», che altri continueranno romanzescamente;15 ed è lui a raccontarci in dettaglio le battaglie, ma anche le amarezze: si vedano su tutte, le pagine di Aspromonte)16, autori come Giuseppe Cesare Abba, il maggior cantore dell’impresa siciliana che vedremo tra poco, o come Giuseppe Bandi (ufficiale d’ordinanza del Generale, nei suoi Mille ce lo ritrae anche nei momenti intimi, quando dorme, quando s’inerpica sui monti di Genova per farsi un «bagno a vapore», quando è di malumore, quando mangia lesso, fagioli e frittata di cipolle in una povera osteria di Talamone, quando sospira sulle sorti d’Italia e sui Savoia; sono sue le pagine più intense sulla partenza da Quarto)17, Giulio Adamoli (granatiere a San Martino nel ’59 e poi con Garibaldi in Sicilia, sull’Aspromonte, in Trentino, a Mentana, per scrivere Da San Martino a Mentana ed entrare attivamente in politica), Ulisse Barbieri (lo scapigliato drammaturgo sociale e romanziere di Misteri e Sotterranei, volontario sui monti del Tirolo, soldataccio avventuroso e trascurato, eppure pronto a slanci del cuore), Anton Giulio Barrili (un’istituzione garibaldina nella Genova di secondo Ottocento), Achille Bizzoni (del nobile gruppo pavese dei fratelli Cairoli, soldato regolare e dal ’66 con Garibaldi, in Trentino, a Mentana e poi nell’esercito dei Vosgi), il livornese Eugenio Checchi (le sue Memorie di un garibaldino, che raccontano la guerra del ’66, piacquero al Manzoni), il romano transteverino Nino Costa (pittore macchiaiolo ante litteram Telemaco Signorini gli attribuisce responsabilità di fondatore rivoluzionario del ’48 e combattente per la Repubblica Romana e poi ancora a Mentana e a Porta Pia, fino a diventare consigliere comunale di Roma liberata), Emilio Dandolo (varesino, cattolico, eroe delle Cinque Giornate di Milano e della difesa di Roma, dove perse il fratello Enrico), Giuseppe Guerzoni (mantovano, cacciatore delle Alpi, ferito a S. Fermo, uno dei garibaldini che a Talamone seguirono Zambianchi per distrarre i papalini, ma che riuscì ad arrivare a Milazzo e poi divise la vita tra impegni parlamentari, imprese militari fu ad Aspromonte e a Mentana e nel ’70 a Porta Pia e scrittura: una monografia su Garibaldi in due volumi e una Vita di Nino Bixio), Alberto Mario (giornalista e cospiratore, venuto a Genova dopo il ’48 e vissuto tra Padova, Bologna e Milano, esule a Portsmouth, dove sposò Jessie White, e poi negli Stati Uniti, per tornare a far parte dei Mille insieme all’infaticabile moglie e a seguire Garibaldi anche in Francia), Ettore Socci (pisano, classe 1846, combattente a Mentana e poi in Francia), Gioacchino Toma (salentino di Galatina, fuggito a Napoli TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 81 Il Tempietto dall’orfanotrofio di Giovinazzo, che ci descrive Garibaldi nei suoi Ricordi di un orfano) e infine - ma la schiera potrebbe anche esser più ampia - il medico fiorentino Giovanni del Greco che, sotto lo pseudonimo di Veritas, scrive Ricordi di un garibaldino con quadretti vivacizzati anche da inserti dialettali (come quando le donne siciliane, vedendolo ferito, gridano «Meschinu!», «Povero figghiu mio!», o come quel soldato di terza categoria che ha lasciato a casa moglie e tre figli e che s’infuria con un volontario contento di attaccar battaglia: «Sestu content adess, plandron d’un volontari?») e che non evitano struggimenti, come quello del giovane ferito di Milazzo che a notte fonda sospira: «Oh se la povera mamma fosse davvero qui!»18. 4. Le “grand Dumas” in crociera garibaldina Un testimone d’eccezione dell’impresa dei Mille fu Alexandre Dumas, amico personale di Garibaldi che si era infiammato col Conte di Montecristo e i Tre moschettieri. A bordo di una sua elegante goletta, l’Emma, e insieme a una «poltroncella vestita da uomo, e precisamente da ammiraglio […] piccina e leziosa e piena di gestri» come ci racconta il Bandi con fastidio19 le grand Alexandre, facendo scalo a Genova a fine maggio, era venuto a sapere della spedizione dei Mille e immediatamente aveva fatto rotta per la Sicilia. Il 9 giugno giungeva a Palermo già conquistata e in festa, abbracciava affettuosamente Garibaldi e si accasava 81 nell’appartamento del governatore a Palazzo Reale. Il resoconto della sua nuova avventura in Sicilia (c’era già stato nel ’34 e aveva conosciuto il banditismo e la corruzione), che accoglie anche la cronaca retrospettiva dei fatti avvenuti dallo sbarco a Calatafimi alla presa di Palermo, è tutto imperniato sulla celebrazione dell’amico Generale, che egli esorta a tener le distanze da Vittorio Emanuele, a fondare una repubblica e a mantenersi povero come ha vissuto.20 È la costruzione di un eroe da feuilleton, un vendicatore e giustiziere del popolo, come tanti protagonisti dei suoi romanzi o di quelli di Victor Hugo cui spesso si richiama. Dumas segue la spedizione più con l’atteggiamento dell’inviato speciale d’alto bordo che del soldato e non v’è traccia, nel suo diario, delle fatiche e dei pericoli della spedizione, delle marce forzate, della fame, delle notti all’addiaccio, delle battaglie, degli assalti alla baionetta. Col suo gruppetto di amici accompagna allegramente la colonna dei garibaldini su due calessi requisiti, dorme in castelli o masserie, tiene i contatti solo con gli uomini dello Stato maggiore, Turr, Bixio, Sirtori, Carini, La Masa (di cui fornisce un vivace ritratto: «un guascone […] Nel sangue siciliano c’è rimasto più dell’arabo che del normanno»);21 è affascinato da figure sinistre come quella del bandito Santo Meli, che contribuisce a far arrestare e che segue durante il processo, ricevendo anche la vecchia madre che viene a implorare aiuto proprio a lui. Ma i grandi scontri armati, come quello di Milazzo, Dumas TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 82 82 Il Tempietto li osserva dal mare, sulla sua goletta, dove ospita poi il Generale per festeggiare la vittoria sorseggiando champagne nei calici dorati che si è portato via da Palazzo Reale (Garibaldi, come suo solito, beve acqua). Sempre a bordo dell’Emma costeggia la Sicilia avanti e indietro: ritorna a Palermo per chiedere sussidi e organizzare l’acquisto di fucili in Francia, poi si sposta davanti a Messina per assistere all’ultima resistenza dei Borbonici del generale Bosco. Passato sul Posillipo, bastimento delle Messaggerie Imperiali - l’Emma era stata speronata da un vapore napoletano -, naviga verso Marsilia per concludere l’affare dei fucili. Una sosta a Napoli gli fa toccare con mano la sua fama: due agenti di polizia saliti a bordo, anziché arrestarlo, lo venerano come un divo e gli chiedono impazienti dell’arrivo di Garibaldi. La città è tutta in fermento e lo sarà ancor di più il 13 agosto, quando, di ritorno dalla missione marsigliese, riprende a costeggiare la Campania e la Calabria: si sparge addirittura la voce che Garibaldi sia a bordo della sua goletta o che comunque Dumas sappia dove si trovi e quali siano i suoi piani. Sicchè, quando l’Emma getta l’ancora nel porto di Napoli, Liborio Romano (ritratto in modo lusinghiero in ben quattro pagine)22 viene addirittura a consultare Dumas, che si propone come intermediario tra il nuovo governo napoletano e Garibaldi e che di lì a poco riceve la visita dell’accorato principe Luigi, finchè il re in persona non gli ordina di lasciare la rada. Dumas parte promettendo al re che tra pochi giorni egli stesso gli notificherà lo sfratto da Napoli. Per intanto fa rotta su Messina a caricare le armi giunte dalla Francia e quindi ritorna a Napoli per celebrare la vittoria insieme a Garibaldi e a Liborio Romano: la nuova dimora di Dumas, nominato direttore degli scavi di Pompei, sarà a Palazzo Chiatamone con regolare contratto d’affitto firmato da Giuseppe Garibaldi. Les garibaldiens è in fondo una sorta di romanzo autobiografico protagonista lo stesso Dumas che si attribuisce meriti senz’altro eccessivi nella conquista del Sud - ma è altresì un documento di quello che fu l’impresa dei Mille, dell’intreccio di affari e politica, di nobili ideali e interessi privati, di sogni e volgari realtà, di eroismi e guasconate (Dumas non era affatto apprezzato dalla maggior parte dei garibaldini). 5. Giuseppe Cesare Abba e il “romanzo” dei Mille Certo, rispetto a questo dandy che segue l’impresa dei Mille come se fosse in crociera sulle coste del Sud, ci ispira maggior simpatia il nostro Giuseppe Cesare Abba che costruisce col suo Da Quarto al Volturno un capolavoro indiscusso, il migliore in assoluto nel genere memorialistico garibaldino (con buona pace di Luigi Russo che, dopo averlo appassionatamente commentato nel 1925, gli preferì in seguito I Mille del Bandi per «il gusto di cronaca realistica»)23. Il mito del Generale e delle sue camicie rosse è intatto e alto in queste TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 83 Il Tempietto Noterelle d’uno dei Mille, meditate e cesellate per vent’anni sugli appunti estemporanei annotati in un taccuino, riesumato da Gino Bandini, e dopo un primo enfatico poemetto in cinque canti pubblicato a Pisa nel ’66.24 Quanto noi leggiamo è il frutto di una lunga e spesso amara meditazione condotta, anche alla luce delle successive disillusioni politiche, sugli avvenimenti vissuti in prima persona combattendo a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo, al Volturno, da questo giovane di Cairo Montenotte rimasto volontario garibaldino per tutto il tempo delle guerre (avrà una medaglia d’argento a Bezzecca) e poi modestamente dedito all’amministrazione del suo borgo, come consigliere comunale e sindaco, professore d’italiano nelle scuole superiori, senatore solo nel 1910, a pochi mesi dalla morte, custode di quella preziosa eredità risorgimentale che il Paese andava via via disperdendo. Le Noterelle hanno la loro bellezza proprio nell’intima tensione tra ideali e realtà, tra il sogno quasi folle di quei mille giovani affascinati dal grande Generale e la crudeltà della guerra, i maneggi della politica, la fragile precarietà delle conquiste umane. Da Parma, quando finalmente «le ciance sono finite» e si passa all’azione, via Voghera e Novi, su un treno che si riempie di strani viaggiatori allegri ma raccolti, e poi a Genova, dove ci si sente quasi in famiglia pur tra tanti estranei che parlano tutti i vernacoli d’Italia e in un’osteria ci si trova a recitare il ritornello della Spigolatrice 83 di Sapri sotto un quadro di Carlo Pisacane («Eran trecento, eran giovani e forti…»), fino alla partenza da Quarto, al viaggio in nave, dove si fraternizza coi nuovi compagni, si ascoltano le storie dei veterani, si conoscono i comandanti (efficace il ritratto di Nino Bixio),25 al primo approdo a Talamone. E poi la rotta avventurosa a Sud, verso «una terra che brucia in mezzo al mare»26, e lo sbarco a Marsala sotto le prime cannonate dei nemici, senza capire quasi nulla di quanto sta succedendo, di quello che esattamente si sta facendo. E lo stupore per quello «schioppo rugginoso» che gli hanno dato e quel «cinturino che pare d’un birro, una giberna, una baionetta e venti cartucce»27. 12, 13, 14, 15, 16 maggio: si marcia a tappe forzate in questa regione strana e meravigliosa, dove «il sole pioveva addosso liquefatto, per la interminabile landa ondulata, dove l’erba nasce e muore come nei cimiteri. E mai una vena d’acqua, mai un rigagnolo, mai all’orizzonte un profilo di villaggio»; un vecchio pastore è quasi una figura mitologica: «vestiva pelli di capra, e la sua testa, fiera e quasi da selvaggio, era coperta da un enorme berretto di lana»28. Garibaldi appare e scompare - camicia rossa e calzoni grigi, un cappello di foggia ungherese e al collo un fazzoletto di seta - sul suo cavallo da Gran Visir29. È una figura leggendaria da re fiabesco («veduto da basso, grandeggiava sul suo cavallo nel cielo; in un cielo di gloria, da cui pioveva una luce calda, che insieme al TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 84 84 Il Tempietto profumo della vallata ci inebriava»)30, ma è anche un uomo come gli altri quando, in un momento di sosta, «al piè di un olivo, mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno» («Io lo guardo commenta Abba - e ho il senso della grandezza antica»)31. Poi arrivano le grandi battaglie, Calatafimi, Palermo, Milazzo…, tra la confusione, gli spari, gli ordini dei comandanti, gli assalti alla baionetta, i lamenti dei feriti, il sudore, la polvere, le siepi di fichi d’india che fanno da riparo, i campi di grano dove ci si abbandona esausti. Più avanti a impressionare i garibaldini è il paesaggio notturno del Monte Pellegrino intorno a Palermo, con le sue rupi maestose punteggiate di fuochi, e sotto i boschi infiniti di mandorli. A tratti si vive come in un mondo irreale e prima delle battaglie ci si scopre diversi nei volti selvaggi e spettrali («L’alba spuntava, tutti si aveva non so che di selvaggio nel volto», «Stamane mi destai che tutti si alzavano, e in quella luce crepuscolare pareva la resurrezione dei morti»)32. Il fascino dell’avventura, l’entusiasmo per le vittorie, la gioia di essere nella storia e di fare la storia, non impediscono però ad Abba di vedere la nuda realtà e il suo occhio si posa spesso sugli orrori della guerra, sulla gente spaventata e in fuga («Fuggivano portando le masserizie, trascinando i vecchi e i fanciulli, un pianto»)33. sui morti, anche nemici: sul colle di Calatafimi, alla tristezza per quei trenta garibaldini caduti - giorni prima erano «belli, confidenti, allegri» - si unisce la pietà per i morti dell’esercito borbonico, per giunta violati dalla ferocia dei villani: I Napoletani morti, che pietà a vederli! Morti di baionetta molti; quelli che giacevano sul ciglio del colle quasi tutti erano stati colti nel capo. Là un mostriciattolo, che ai panni mi parve un villano di queste parti, inferociva su d’uno di quei morti. «Uccidete l’infame!» urlò Bixio, e spronò su di lui colla sciabola in alto34. Camminando per Palermo in festa appena dopo la conquista si può inciampare nel braccio di un morto mal seppellito e scoprire l’orrore di una fossa comune («Oh si fa bene a coprirci la faccia appena morti!»).35 E lasciando la città per nuove conquiste chissà perché ritorna in mente l’immagine di quel soldato borbonico riverso davanti a Porta Sant’Antonino, sotto i due grandi pioppi che ora «tremolano fino all’ultima foglia con un sussurro allegro quasi consapevole»: Passandovi sotto, pensai raccapricciando a quel morto, a quella povera montanara della Calabria o dell’Abruzzo che si farà sulla soglia della capanna, con una paura confusa della guerra che c’è pel mondo, dove forse crede ancora di avere il suo figliuolo soldato. E pensai anche ai principi di Casa Borbone, che sino ad ora non se n’è visto uno a cavar la spada36. TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 85 Il Tempietto I morti, anche nemici, turbano la coscienza di questo garibaldino, che in un’«ora mesta», vigilia di una grande battaglia, s’accende di dubbi parlando di rivoluzione con un umile monaco: al suo sogno di «unire l’Italia per farne un grande e solo popolo», padre Carmelo oppone «una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa»37. E quasi alla fine dell’impresa, ormai da giorni nella capitale partenopea, si chiede se basterà Garibaldi, con quel suo cuore, quella sua testa, quella sua faccia barbuta che fa pensare a Mosè, a Gesù Cristo, a Carlomagno, basterà a liberare Napoli non solo dai Borboni, ma anche da quella grande, immensa, quasi fastosa miseria? Basterà alle speranze di un’intero popolo?38 L’Italia è ancora tutta da farsi, e corre lungo il libro di Abba la nostalgia per il sogno vissuto e non avverato. Come un amaro risveglio, peraltro già presagito («Ho inteso che sono già arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fin dai primi giorni della capitolazione», annotava lasciando Palermo)39, un’ombra s’addensa sulla gloriosa impresa dei Mille già da Teano, quando il re d’Italia viene a prendersi il regno conquistato da quei giovani e il freddo volto del potere raggela ogni ideale: Garibaldi appare «mesto» mentre cavalca alla sinistra di Vittorio Emanuele e il suo cavallo «sentiva forse in groppa meno forte il leone, e sbuffava e si lanciava di lato, come avesse voluto portarlo nel deserto, 85 nelle Pampas, lontano da quel trionfo di grandi»40. Il giorno dopo il Generale non va a colazione dal re, preferisce mangiare pane e cacio coi suoi: Abba ce lo descrive ancora «mesto, raccolto, rassegnato»41. La tristezza lo segna anche nell’ultimo saluto alle sue camicie rosse, quando il re, atteso dai garibaldini schierati, non si presenta e arriva invece lui, insieme al suo stato maggiore, col poncho e il cappello ungherese calcato sulle ciglia come quando è infuriato, sotto un cielo di novembre che minaccia tempesta e un vento gelido che annuncia «discordie tremende». È sotto questo gelido vento che si chiudono le Noterelle di Giuseppe Cesare Abba, quasi sospese nell’ansia che, come le foglie, non vadano disperse le parole che ciascun garibaldino porterà nella sua terra: Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero, ma di quelle della Sibilla; portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta!… rimani pur bianca… Finiremo poi…42 6. Un garibaldino per la pelle: Ippolito Nievo A Palermo, tra i Mille, c’era anche Ippolito Nievo (Abba ce ne fa un ritratto romantico: «va solitario sempre, guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 86 86 Il Tempietto l’orizzonte»)43, che, dopo aver scritto il romanzo più bello del nostro Risorgimento, aveva voluto trasformare in azione il sogno di quella nuova Italia racchiusa nella lunga storia di Carlo Altoviti (Le confessioni d’un italiano, uscite postume nel 1867, hanno una loro parte “garibaldina” negli ultimi capitoli, col Giornale del figlio Giulio che si è riscattato dal traviamento fuggendo coi volontari sulle Alpi e che nel giugno del ’49 partecipa alla difesa di Roma sul Gianicolo attaccato dai Francesi, guadagnandosi i gradi di capitano e aiutante di campo di Garibaldi)44. Da subito con Garibaldi e i suoi Cacciatori delle Alpi, piuttosto che nell’esercito regolare come i fratelli Carlo e Alessandro, esule in patria con l’armistizio di Villafranca, nel maggio del ’60 Ippolito non esita a raggiungere Genova di nascosto dai suoi cari e ad imbarcarsi sul Lombardo di Bixio. Ma dopo le prime battaglie, Garibaldi gli chiede di fermarsi a Palermo per reggere l’Intendenza generale dell’esercito, e, mentre le camicie rosse si coprono di gloria in Sicilia e poi risalendo la penisola fino al Volturno, il maggiore e poi colonnello Nievo è inchiodato alla sua scrivania a occuparsi di rifornimenti, di acquisti, di pagamenti e di postulanti d’ogni risma (arrivano anche falsi combattenti a chiedere sussidi, aiuti, un posto fisso, una pensione), mentre cominciano i primi maneggi del cavouriano La Farina per screditare l’impresa dei Mille. Sicché, dopo l’iniziale entusiasmo persino per il «bel paese verde, spopolato, sereno e miserabile» (la lettera è del 28 maggio 1860)45, l’incarico si fa sempre più pesante e, oltre ai fastidi dell’Intendenza, Nievo deve fronteggiare gli effetti delle lotte di partito, della sostituzione del prodittatore Depretis (14 settembre), dell’annessione al Piemonte con un plebiscito-farsa (ottobre) e della liquidazione politica dell’impresa dopo il ritiro di Garibaldi a Caprera e lo scioglimento dell’esercito garibaldino (9-11 novembre). La corrispondenza di Nievo con familiari e amici dal 5 maggio 1860, cioè dal suo imbarco coi Mille a Quarto, fino al 23 febbraio 1861 (data dell’ultima lettera prima del fatale viaggio sull’Ercole la notte tra il 4 e 5 marzo) registra questa progressiva depressione in cui gli affetti più cari fanno da argine alla delusione politica (Nievo ci ha lasciato anche un Giornale della spedizione in Sicilia in supplemento al “Pungolo” del giugno 1860, e un Resoconto amministrativo)46. Ci sono così lettere molto affettuose alla madre, Adele Marin. Le chiede perdono per la partenza segreta, ma «è una gran disgrazia comune a tutti di guardar le cose traverso il prisma della passione!» (5 maggio)47; la informa del «miracolo che ci ha portati a Palermo» in una lettera del 28 maggio piena di baci e di sospiri («Quante volte ti ho baciata col pensiero!», «Addio Mamma mia, amami, amami, amami»)48; le racconta del nuovo incarico all’Intendenza e della sua bella divisa garibaldina («due spanne di blouse rossa e settanta centimetri di scimitarra, ci fa gli uomini TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 87 Il Tempietto più contenti della terra»)49; avanza le sue perplessità sui siciliani («sono Veneziani più flosci, più falsi e senza una gran dose di coraggio!), scherza sulla propria modestia («Sai che per rango potrei sottoscrivermi General di Brigata e che per modestia e per sola memoria di Calatafimi resto Capitano? Hanno scoperto in me di gran talenti amministrativi! Figurati!… Ma il non rubare è una gran virtù in Sicilia ove principe e imbroglione è tutt’uno»)50; dà notizie del fratello Alessandro che si trova nell’armata Cialdini; spera sempre di partire per il campo, ma poi si rassegna alla vita d’ufficio, pesantissima: «Vi son giornate nelle quali la mia vita è una serie non interrotta di gridate e di strapazzate dalla mattina alla sera. Lo Stato trovò in me un Cerbero adattissimo pel suo Tesoro […] Qui mi chiamano l’Intendente antropofago» (14 ottobre)51. Da novembre in poi, nonostante la nomina a «Intendente di 1a Classe e perciò Colonnello», racconta con crescente amarezza l’andamento delle cose in Sicilia: registra con scetticismo la stessa visita di Vittorio Emanuele a Palermo («Il Re è qui grandi fracassi non so cosa pensare del domani»), mentre sospira il suo ritorno a Fossato (5 dicembre)52. Eppure, dopo il periodo di licenza passato tra Milano e il Friuli, a gennaio tornerà ancora al Sud per difendere l’operato di Garibaldi dal fango diffuso da parte del Ministero della Guerra proprio sull’Amministrazione economica dell’impresa dei Mille. La sua ultima lettera alla madre è datata «Milano, 26 gennaio 1861», poco prima della 87 partenza, ed è piena di nostalgia per la vacanza appena trascorsa («Quanto volentieri avrei prolungato il mio soggiorno con te! È proprio vero che la mamma è la migliore delle Società, e questa volta hai proprio ottenuto un pieno»)53. Il filo degli affetti tra madre e figlio resisterà a lungo anche dopo la tragedia: fra le notizie incerte sul naufragio, che sconvolgono il padre e i fratelli, Adele Marin coltiva la tenace speranza che il figlio sia ancora una volta partito senza informarla per qualche bella impresa, magari per l’Albania, come nel ’49 quando era fuggito in Toscana o nel ’60 con i Mille. Le Lettere garibaldine di Nievo hanno però un altro forte nucleo psicologicoaffettivo nelle venticinque lettere inviate alla cugina Bice Melzi Gobio, con cui corre più di una confidenza parentale. A lei, ancor più che alla madre, Nievo confessa i suoi sentimenti più profondi, le angosce e le delusioni. Anche i resoconti dell’impresa sono alquanto realistici e ben lontani dalla retorica patriottica dei giornali del Nord. «Rivoluzione in Sicilia non ce n’è mai stata», afferma perentorio, e a Palermo la vittoria di quegli ottocento garibaldini male armati e peggio vestiti, abbandonati dai picciotti, è solo frutto di un miracolo: Che miracolo! - Ti giuro, Bice! Noi l’abbiamo veduto e ancora esitiamo quasi a credere! I Picciotti fuggivano d’ogni banda: dentro pareva una città di morti: non altra rivoluzione, che sul tardi qualche scampanìo. E noi soli, ottocento al più, sparsi in uno TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 88 88 Il Tempietto spazio grande quanto Milano, occupati senz’ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?) alla conquista d’una città contro venticinquemila uomini di truppa regolare, bella, ben montata, che farebbe la delizia del Ministro La Marmora! Figurati che sorpresa per noi straccioni! Io era vestito come quando partii da Milano; mostrava fuori dei calzoni quello che comunemente non si osa mostrar mai al pubblico, e portava addosso uno schioppettone che consumava quattro capsule per tirare un colpo per compenso aveva un pane infilato nella baionetta, un bel fiore di aloè sul cappello, e una magnifica coperta da letto sulle spalle alla Pollione54. L’ironia stempera continuamente la drammaticità e nel suo ruolo di Vice Intendente generale gli sembra di recitare la farsa di Arlecchino finto principe, mentre si pavoneggia con la sua «zimarra rossa che sembra un Generale di Napoleone» e seduce le suore che coccolano i garibaldini con le creme al fico d’India (lettera del 24 giugno 1860)55. Poi, col passare del tempo, prevale la nostalgia dei luoghi ove Bice soggiorna, di Bellagio e del lago, dove si specchia una luna meno sfacciata di quella siciliana, mentre crescono la fatica e la noia dello scribacchino e cresce l’invidia per quei compagni che si stanno preparando al «gran salto» sul continente (10 agosto 1860)56; quindi l’impazienza aumenta, e la calura estiva che continua ad ottobre gli fa sognare le brume del Nord: Ti confesso in verità che un po’ d’aria di Lombardia, e le nebbie di Fossato e la frescura autunnale del lago di Como mi gioverebbe assai più del tepore balsamico di Sicilia (9 ottobre 1860)57. È un amore impossibile e lontano quello per la cugina Bice, sposa e madre, che si esprime in lunghissime lettere e ben s’accorda alla situazione di ondeggianti incertezze: Qui si ondeggia in un mare d’incertezze - le scrive il 2 novembre e quello che è sicuro di ondeggiare ancora per un pezzo, sono precisamente io. […] Sei mesi, sei eterni mesi, che diventeranno sette e più assai! O patria mia, sei pur crudele a punirmi dell’amarti in maniera sì acerba! La Sicilia è una specie di paradiso senza alberi, ove io mi trovo perfettamente fuori del mio centro terreno; non ho aria per i miei polmoni, non ho immagini pel mio spirito.58 Ma l’ansia di tornare non lo fa venir meno al dovere di difendere Garibaldi e quando a novembre la bella impresa ha fine e i garibaldini sono sciolti, la propaganda avversaria lo costringe ad aumentare il lavoro per consegnare il rendiconto dell’Intendenza in forma ineccepibile. Un’amarissima lettera del 2 dicembre descrive il precipitare TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 89 Il Tempietto della situazione proprio mentre il re è a Palermo («il solo galantuomo in una turba di bricconi e di coccodrilli. Povero diavolo! Mi fa compassione quanto e più di noi. Se giungerà a far l’Italia, non sarà certo merito di coloro che gli stanno attorno»)59, e tra feste, parate e gran balli svanisce il sogno della nuova Italia di Garibaldi. Il voltafaccia di tanta gentaglia lo stomaca, ma lui è orgoglioso della sua camicia rossa: Qui si festeggia sempre. Al Pretorio e al Palazzo Reale gran lusso di polke e di seni scoperti. Io son rimasto l’ultima camicia rossa a Palermo: sarò guardato come un selvaggio, ma non me la caverò a tutti i costi. Ci dovrà metter le mani il conte Cavour o S. Ecc. il ministro Fanti60. I toni si fanno drammatici: «Sono affranto come una bestia da soma troppo carica…», «Sono finito, sfinito, sfinitissimo! Ti confesso che, se avessi creduto d’imbarcarmi per questa galera a Genova il 5 maggio, mi sarei annegato»61. Una frase che suona terribile se pensiamo alla morte di Nievo e che si accorda all’amaro finale delle Noterelle di Abba: entrambi avevano intuito in quella liquidazione di novembre la fine di un sogno. 7. La più bella pagina di Anton Giulio Barilli La riprova storica di questo presentimento sarà ad Aspromonte, il 28 agosto 1862, dove il grido di «O Roma o morte» verrà soffocato dagli 89 stessi bersaglieri dell’esercito italiano, e sarà a Mentana, il 3 novembre 1867, quando i micidiali chassepots francesi abbatteranno centinaia di garibaldini e lo stesso Garibaldi cercherà la morte62. Ce lo ha descritto in questo gesto disperato Anton Giulio Barrili, nelle pagine in assoluto più belle di tutta sua produzione letteraria: Lo vedo ancora, fiammeggiante cavaliere, nella luce sanguigna del tramonto; ritto in sella, battendo a colpi ripetuti il fianco del suo cavallo alto e bianco, con una striscia di cuoio, all’americana; risoluto di arrestare, ad ogni costo, un nemico che la fortuna aveva fatto insolente. E percuotendo il cavallo, scendeva dalla spianata, gridando con voce vibrata: Venite a morire con me! Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?63 La scena è grandiosa e solenne («L’uomo era solenne, e solenne il momento») con quei reduci sfiniti che si stringono attorno a Garibaldi a baionette spianate per una «carica della disperazione» e fanno arretrare il nemico; ma poi subiscono di nuovo il fuoco dei francesi nascosti dietro le siepi. Altri garibaldini cadono; il Generale vorrebbe proseguire, ma qui lo ferma uno dei più vecchi e fidati ufficiali, Stefano Canzio (ne ha sposato la figlia Teresa, è stato con lui a Caprera e sull’Aspromonte e lo seguirà a Digione), afferrando le redini del suo cavallo con un grido che racchiude tutta la disperazione della nuova Italia: TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 90 90 Il Tempietto Per chi vuol farsi ammazzare, Generale? Per chi?64 Mentana, con «Garibaldi che andava alla morte» e «Roma perduta… e perduto lui nelle file nemiche», quando per molti «la camicia rossa si è stretta, appigliata alle carni»65, fu la fine politica e militare di Garibaldi, ma anche il momento culminante del suo mito di eroe grande e sventurato. Un mito che ha avuto una durata lunghissima, entrando poi nel Novecento con segni politici diversi, addirittura opposti66, e che la nostra narrativa in particolare (non ci occuperemo qui del mito di Garibaldi nei grandi poeti tra Otto e Novecento, Carducci, Pascoli e D’Annunzio)67 ha avuto da subito il merito di non accogliere e coltivare passivamente, ma di confrontare con la realtà storica per evidenziare il progressivo divario dagli ideali di quell’uomo. E non è un caso che siano stati autori del Sud, ossia della terra che più d’ogni altra in Italia fu segnata dalla grande ventata garibaldina, a produrre in proposito le pagine più interessanti. 8. Giovanni Verga e l’onda lunga del pessimismo politico meridionale Viene subito in mente Libertà, una delle novelle politicamente più impegnate di Giovanni Verga, che, ventenne all’arrivo dei Mille, si arruolò nella Guardia Nazionale e vi prestò servizio per quasi quattro anni; proprio nel ’60 fondò il settimanale politico “Roma degli italiani” con un programma unitario e antiregionalistico, e tra il ’61 e il ’63 collaboratore di altre riviste filogaribaldine come “L’Italia Contemporanea” e “La Nuova Europa” pubblicò i romanzi storico-patriottici I carbonari della montagna e Sulle lagune (rimase inedito Amore e Patria, del ’57). A un ventennio di distanza, rivivendo nella novella “rusticana” i tragici fatti accaduti a Bronte tra il 2 e il 5 agosto 1860, quando i sogni di libertà s’incarnarono in massacri efferati di cui furono carnefici e poi vittime dei poveri contadini, la delusione e il pessimismo di Verga (delusione e pessimismo maturati anche in conseguenza dell’involuzione della politica italiana: la novella è del febbraio dell’82, in pieno trasformismo), producono tutt’altra visione delle pagine con cui il garibaldino Abba legittima l’azione repressiva di Nino Bixio68. Che cosa risponde la storia ai morti di Bronte? E che cosa risponde soprattutto al carbonaio che domanda stupito ai carabinieri che lo ammanettano dopo il processo: Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…69 Non finì a favore del popolo il sogno di Garibaldi, non fu per il popolo l’unità d’Italia, ma per i potenti che seppero cambiar bandiera al momento giusto, seguire i nuovi tempi traducendo il trasformismo romano in una prassi politica locale basata su opportunistici e disinvolti adattamenti alle proprie convenienze. TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 91 Il Tempietto 9. Consalvo VIII de Uzeda, un “vicerè” trasformista «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri!», dice, deformando volgarmente la nota frase del D’Azeglio, il Duca d’Oragua, il primo «liberalone» della famiglia degli Uzeda nei Vicerè di Federico De Roberto (1894)70, e traccia la linea del comportamento politico che permetterà a chi ha governato per secoli sotto gli Spagnoli e i Borboni di continuare a governare sotto il tricolore dei Savoia. Al termine della Parte prima del romanzo, quella che ha sullo sfondo i fatti che da Villafranca («dove il gran Cavurre ha fatto fagotto»)71 vanno all’impresa dei Mille e al primo Parlamento del nuovo Regno d’Italia (18 febbraio 1861), l’ostilità preconcetta verso il nuovo corso della storia esercitata da quasi tutto il clan (si pensi, in particolare, al perfido don Blasco, che di fronte all’entusiasmo dei confratelli per lo sbarco di Garibaldi, grida: «Garibaldi? Chi è Garibaldi? Non lo conosco»)72, si tramuta in aperto favore e si fa una gran festa per il neoeletto deputato D’Oragua e per il suo protetto Benedetto Giulente, l’eroe del Volturno, finalmente ammesso al palazzo degli Uzeda. Tutti gridano «Evviva Oracqua!», «Viva Garibaldi!», «Viva Vittorio Emanuele», «Viva l’unità italiana», «Viva il ferito del Volturno!»73, e il principe erede spiega al suo riottoso figliuolo, Consalvo VIII, l’immutabile teorema del potere: Quando c’erano i Vicerè, i nostri erano Vicerè; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!73 91 E ad uno ad uno - tranne la zia Ferdinanda, l’arcigna custode degli stemmi e dell’onore familiare - tutti gli Uzeda si convertono al nuovo corso e sono ben pronti a mescolare interessi privati e politica: lo stesso don Blasco investe in cartelle del governo e si dispone a speculare sulle terre del convento messe all’asta (alla notizia della presa di Roma scenderà in piazza a festeggiare col popolo)75 e il Duca d’Oragua, dal Parlamento di Torino, nell’agosto del 1862 si dà un gran da fare perché Garibaldi, ridisceso in Sicilia, venga arrestato e comunque non passi lo Stretto e scrive a Benedetto Giulente che usi ogni mezzo per soffocare i nuovi moti insurrezionali76. Gli affari hanno bisogno di pace e non è più tempo di rivoluzioni; l’intemperanza di Garibaldi, con la sua smania di arrivare a Roma, e le irrequietudini del popolo non giovano agli appalti di opere pubbliche (ferrovia, porto, guardie forestali, ecc.), alle nuove banche, alle speculazioni77. I crescenti successi del Duca d’Oragua e l’andamento delle cose d’Italia, convertono infine anche l’ultimo e il più reazionario rampollo dei Vicerè, il principino Consalvo, che viaggiando per l’Italia unita negli anni Settanta, s’accorge di essere «don Consalvo de Uzeda, VIII principe di Francalanza» a Catania, appena «eccellenza» a Napoli, ma soltanto «signore» a Firenze e a Milano78. A Roma poi scopre il nuovo potere dei parlamentari: sono loro i nuovi principi79. E allora, da conservatore e filoborbonico (era stato inesorabile delatore di “complotti” TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 92 92 Il Tempietto liberal-patriottici tra gli educandi dei Benedettini), si fa liberale e democratico, sostiene che «l’ideale della democrazia è aristocratico»80, studia Smith e Spencer, legge Marx e Proudhon, s’infarina di economia politica, diritto costituzionale, scienza dell’amministrazione, e diventa sindaco a ventotto anni, organizzando una macchina clientelare efficientissima, un esercito di funzionari al suo servizio. Poi, quando va al governo Depretis, passa alla sinistra, inneggia a Mazzini e a Garibaldi, e nelle grandi elezioni del 1882 si candida al Parlamento nelle liste dei socialisti. Il suo meeting elettorale nella palestra dell’exconvento benedettino è un capolavoro di trasformismo, con la banda che suona la marcia reale e l’inno di Garibaldi, con trofei e bandiere di ogni associazione e con i ritratti di tutti i grandi che avevano fatto l’Italia, opportunamente mescolati: Umberto e Garibaldi; poi Mazzini e Vittorio Emanuele; poi Margherita e Cairoli; e così tutto in giro Amedeo, Bixio, Cavour, Crispi, Lamarmora, Rattazzi, Bertani, Cialdini, la famiglia sabauda e la garibaldina, la monarchia e la repubblica, la Destra e la Sinistra81. Nel suo infinito discorso, che mette insieme liberalismo e rivoluzione, conservazione e progresso, centralismo e democrazia, tradizioni e riforme, che dice tutto e il contrario di tutto («Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che ha detto?», osservano alcuni «studenti canzonatori»)82, c’è spazio anche per inventarsi un commovente incontro con Garibaldi durante l’impresa dei Mille ai tempi della sua vita nel convento benedettino e di descrivere «quel biondo Arcangelo della libertà intento a coltivare le rose del nostro giardino». È la spudorata falsificazione di un incontro narrato nel cap. VIII della Prima parte tra il figlio del Generale, Menotti, accampato con altri ufficiali nella foresteria del convento, e Giovannino Radalì, il cugino liberale di Consalvo (il quale se ne stava invece «in disparte, aggrottato come lo zio don Blasco, con la coda tra le gambe»); ma qui è interessante notare la strumentale mistificazione di «quel cuore vasto e generoso, dove la forza leonina s’accoppiava alla gentilezza soave… di quell’uomo che, conquistato un regno, doveva, come Cincinnato, ridursi a coltivare il sacro scoglio, dove oggi aleggia il magnanimo spirito di Lui, che fu a ragione chiamato il Cavaliere dell’umanità…»83. Ma certamente il discorso più importante è quello che Consalvo fa alla zia Ferdinanda dopo la sua “scandalosa” vittoria elettorale, proprio in conclusione del romanzo: La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 93 Il Tempietto Il primo eletto col suffragio quasi universale, non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento84. 10. Generazioni a confronto nel «fango della Nuova Italia» in un romanzo di Pirandello Siamo alle origini di quell’onda lunga del pessimismo politico siciliano che condurrà al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (e per strade diverse, cioè per l’ironia di Brancati, ad alcune opere di Sciascia). Ma, prima di arrivare a quell’importante libro che a metà del ’900 costringerà ancora a riflettere sul nostro Risorgimento e sulla storia non affatto conclusa dell’unità d’Italia, incontriamo un altro autore siciliano che radica il proprio pessimismo nella delusione storica per il Risorgimento mancato: Luigi Pirandello. Figlio di un garibaldino che fu con i Mille nel ’60 e ad Aspromonte nel ’62, e che aveva sposato la sorella di un compagno d’armi, Caterina Ricci Gramitto, il cui padre era stato esiliato a Malta come antiborbonico e liberale dopo il ’48 quindi cresciuto in un ambiente familiare fortemente patriottico Pirandello affidò a più di un protagonista delle sue novelle la sua risentita polemica sull’Italia postunitaria: in Sole e ombra (1896) l’ex garibaldino Ciunna vuole buttarsi a mare con le medaglie del ’60 sul petto85; in Notizie del mondo (1901) è solo per non rischiare un malanno 93 facendo un piacere a «questi porci d’Italia» che il deluso Momino non ha gettato nel fiume le medaglie garibaldine86; in Lontano (1902) don Paranza s’accorge di esser stato una bestia ad aver combattuto «per questa cara patria», ma la sua disgrazia era stata «quella d’aver avuto vent’anni al Quarantotto […] trentadue al Sessanta» (allora, a Milazzo, non aveva neanche saputo approfittare di una palla nel petto, «quel regalo di un soldato borbonico misericordioso»)87; ancora di medaglie parla l’omonima novella del 1904, le sette medaglie del ’60 che il glorioso garibaldino Sciaramè porta in corteo dietro la bandiera del sodalizio dei Reduci, e con la sua «camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin sulla nuca […] sembrava un povero cane sperduto»88. E persino nel giovanile poemetto in quartine d’ottonari, Pier Gudrò (1894), Pirandello faceva rivivere l’infelice storia tratta dal vero di un proscritto del ’49, poi volontario tra i Mille ed eroe del Volturno, Gaetano Navarra. Prove letterarie, queste, che sono alla radice del suo particolarissimo romanzo storico, I vecchi e i giovani, composto in piena crisi novecentesca (1910-1913), che «rappresenta al vivo il dramma doloroso dell’Italia meridionale, e segnatamente della Sicilia dopo il 1870. Due generazioni, due ideali, due mondi vi si affrontano» e «son persone e fatti studiati dal vero, numerosissimi e svariatissimi, quantunque tutto il romanzo sia chiuso nel volger d’un anno, nel fortunoso anno 1893, che con lo scandalo TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 94 94 Il Tempietto enorme della Banca Romana e la rivolta dei Fasci in Sicilia segnò nella storia nostra contemporanea quasi la crisi di crescenza dell’Italia nostra»89. Tra il vecchio mondo borbonico che tramonta, rappresentato dai fratelli Laurentano (don Ippolito, circondato addirittura da una schiera di soldatacci coi «calzoni rossi e cappotto turchino» dell’esercito di Franceschiello, don Cosimo, assorto nella contemplazione filosofica, donna Caterina, l’esclusa, fuggita con un rivoluzionario del ’48, Stefano Auriti, poi garibaldino) e il nuovo mondo mafioso, ben intrecciato nei gangli del potere coi propri affari (Flaminio Salvo, il vecchio boss, e Ignazio Capolino, il politico emergente), la spinta ideale di coloro che hanno fatto il Risorgimento è via via annientata. Roberto Auriti, il figlio di Caterina Laurentano e dell’eroe di Milazzo, garibaldino dei Mille già a dodici anni e poi ad Aspromonte e a Bezzecca, è uno «sconfitto» della nuova politica: laureato in legge con una borsa di studio governativa, a Roma è trasformato in una sorta di avvocato della mafia parlamentare siciliana, incapponito nella noia di uno squallido menage a tre (vive con una maestra di canto e il marito, un extenore) e compromesso nello scandalo della Banca Romana: Si sentiva veramente sconfitto. L’animo troppo teso negli sforzi della prima gioventù, gli era venuto meno a poco a poco, di fronte alla nuova, laida guerra, guerra di lucro, guerra per la conquista indegna dei posti90. Anche il grande Crispi, qui nei panni di Francesco D’Atri, il garibaldino che tanta parte aveva avuto nella liberazione del Sud e che era stato chiamato a governare l’Italia nel grave momento di crisi, è colto nel suo dramma politico e umano, alle prese non solo con la vicenda della Banca Romana e con la drastica decisione di mandare l’esercito a reprimere la protesta dei solfarai siciliani, ma anche col fallimento del suo matrimonio, incapace di “governare” la troppo giovane e inquieta Giannetta. Ma «dai cieli d’Italia in quei giorni pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto», e «questi benedetti uomini della Rivoluzione», che «nelle congiure, nelle battaglie erano stati come nel loro elemento; in pace, erano ora come pesci fuor d’acqua»91. Il più vecchio e austero di questi uomini della rivoluzione, già combattente nel ’48 e poi con Garibaldi, insieme a Stefano e Roberto Auriti, è Mauro Mortara. Fedele al suo sogno di un’Italia forte e unita, eroe incorruttibile e fermo nel tempo, incapace di accettare sia il fango di Roma, sia la ribellione dei minatori contro lo Stato, riprende le sue armi gloriose e va a farsi ammazzare dagli stessi soldati di Crispi nel tentativo paradossale e disperato di aiutarli a fermare i rivoltosi, a salvare l’Italia. Le quattro medaglie garibaldine che i soldati osservano stupiti sul suo petto insanguinato chiuderanno emblematicamente il romanzo92. 11. «Il Gattopardo» e il tramonto di un mito Il romanzo più amaro e rappresentativo TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 95 Il Tempietto del Risorgimento tradito, che riprende e aggiorna i fili di questa narrativa siciliana - ma che, è bene sottolinearlo, esce nel 1958, nella crisi del neorealismo e dei miti resistenziali garibaldini - è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che si apre proprio nei giorni dello sbarco dei Mille. E stavolta il volontario che scappa sui monti con i picciotti per unirsi a Garibaldi è il rampollo di una famiglia d’antica nobiltà siciliana prossima al tracollo economico, Tancredi Falconeri, nipote del principe di Salina, don Fabrizio Corbera. Il suo gioco è dichiarato sin dall’inizio in una frase ormai abusata, ma forse più complessa e ambigua dello slogan di una prassi politica vulgata come gattopardismo. Garibaldi e le sue camicie rosse possono addirittura servire a garantire il potere e i beni di famiglia purchè la rivoluzione sia tenuta sotto controllo e serva a un epocale quanto necessario cambio di guardia, sostituendo darwinianamente agli esangui Borboni napoletani i più vigorosi ed efficienti Savoia piemontesi, alla vecchia bandiera biancogigliata il vivace tricolore. «Se non ci siamo anche noi, dice Tancredi al suo zione quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»93, e queste parole che a tutta prima sconvolgono anche un uomo di mondo come il Gattopardo, ammirato da tanta cinica disinvoltura, diventano poi la più adeguata chiave di lettura di tutti quei grandi avvenimenti, mentre lo stesso Garibaldi, che con la sua fama di rivoluzionario repubblicano spaventa e 95 mette in fuga mezza nobiltà siciliana (il cugino Màlvica invita don Fabrizio a mettersi in salvo sulle navi degli inglesi), appare come un fantoccio nelle mani del re Galantuomo: Il nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell’avventuriero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinato dei guai. «Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuol dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno»94. E Tancredi tornerà col tricolore, come ha promesso, e con la sua gloriosa ferita da combattimento; millanterà confidenze di Garibaldi, di Rosolino Pilo, di Crispi, racconterà eroiche gesta e bravate garibaldine. Ma dopo Teano sarà ben pronto a gettare alle ortiche la camicia rossa per il doppiopetto blu dei lancieri, ancorchè degradato da capitano a tenente, fiero di essere un ufficiale dell’esercito regolare di «sua maestà il re di Sardegna e d’Italia fra poco», e non più un «rubagalline»95. Il mito di Garibaldi rimane sullo sfondo del Gattopardo, ma è il “garibaldinismo” a tramontare, visto come il frutto corrotto di una strumentalizzazione politica di cui lo stesso Garibaldi è vittima e vuole liberarsi. È questa la lettura gattopardiana di Aspromonte, il secondo importante fatto storico del romanzo e quello che perentoriamente chiude l’equivoco della rivoluzione garibaldina. Nella famosa serata del ballo a Palazzo Ponteleone (Parte sesta, novembre TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 96 96 Il Tempietto 1862), entra in scena, «fra un tintinnìo di pendagli, catenelle, speroni e decorazioni, nella ben imbottita divisa a doppiopetto, cappello piumato sotto il braccio, sciabola ricurva poggiata sul polso sinistro», il colonnello Pallavicino, quello che coi suoi bersaglieri aveva fermato Garibaldi sull’altopiano calabrese il 29 agosto 1862. Assediato da belle signore che vogliono sapere com’era il Generale ferito, e cosa fece e cosa realmente disse sotto quel grande castagno, il colonnello lo descrive «bello e sereno come un Arcangelo» (il mito dell’eroe trionfa ancor più forte nella sconfitta)96. Ma, fuori di ogni mistificazione retorica, Aspromonte rappresenta la salvezza di quel «compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose»97, e ben altra spiegazione politica è data in separata sede dal colonnello a don Fabrizio che gli rimprovera appunto di «avere un po’ esagerato in baciamani, scappellate e complimenti». Se non avesse ordinato di sparare sarebbe successo «un putiferio senza precedenti nel quale sarebbe crollato questo Regno d’Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come»; ma quella brevissima sparatoria «ha giovato soprattutto a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini», di lui che in fondo non era che «un bambino con barba e rughe, ma un ragazzo lo stesso, avventato e ingenuo» che bisognava proteggere98. Nel disilluso cinismo di quest’uomo d’ordine, «umile servo» della nuova Italia, anche il quadro della raggiunta unità appare incrinato e si prospetta un futuro pieno d’angosce, dove la controrivoluzione dell’apparato statale dovrà sempre vigilare sull’insorgere di nuove camicie rosse o «di diverso colore», perchè non si sa come andrà a finire: Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuol cessare di essere la capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio… Per il momento, per merito del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse. E come andrà a finire?99 TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 97 Il Tempietto Note * Rielaborazione della conferenza tenuta il 27 novembre 2007 nella Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale di Genova, nell’ambito delle attività per il bicentenario della nascita collaterali alla mostra Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso, Genova, Palazzo Ducale, 17 novembre 2007-2 marzo 2008. La conferenza ha tenuto conto del percorso cronologico della mostra, dai capolavori ottocenteschi alla Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio di Guttuso del 1955 (cfr. il catalogo a cura di F. Mazzocca e A. Villari, con la collaborazione di S. Regonelli, Firenze, Giunti, 2007). Questo testo è stato pubblicato nella «Rassegna della letteratura italiana», CXII, 208, 1, pp. 1433 [si ringrazia la direzione per averne concesso la ristampa]. 1 Cfr. F. Dall’Ongaro, Garibaldi in Sicilia, in Poeti minori dell’Ottocento, a cura di L. Baldacci e G. Innamorati, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, to. II, pp. 1102-1104, spec. p. 1102.. 2 Ivi, p. 1104. 3 Per un quadro riassuntivo e relativa bibliografia della poesia patriottica ottocentesca, mi permetto di rinviare a Q. Marini, I poeti della passione patria: A. Poerio, P. Giannone, G. Mameli, L. Mercantini, F. Dall’Ongaro e altri, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Malato, VII, Il primo Ottocento, Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 860-867. Cfr. inoltre il più recente volumetto Poeti del Risorgimento, a cura di V. Marucci, Roma, Salerno Editrice, 2001. Sono ovviamente ancora utili le vecchie introduzioni alle sezioni dei Poeti minori dell’Ottocento curati da L. Baldacci, cit., pp. IX-XXV, da E. Janni (Milano, Rizzoli, 1955, to. II), da 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 97 G. Petronio (Torino, Utet, 1959, pp. 9-56), da C. Muscetta (Poesia dell’Ottocento, a c. di C. Muscetta e E. Sormani, Torino, Einaudi, 1968, vol. I, pp. VII-XXVI). G. Garibaldi, Prefazione ai miei romanzi storici, in Id., Cantoni il volontario. Romanzo storico, Prefazione di G. Spadolini, Trento, Reverdito, 1988, p. 17. Sulle opere letterarie di Garibaldi, fondamentale il saggio di M. Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, in La letteratura ligure. L’Ottocento, Genova, Costa & Nolan, 1990, pp. 215-231 (e relativa bibliografia sull’argomento alle pp. 556-557). Le Memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione, Bologna, L. Cappelli Editore, 1932, pp. 5-150 (la prima scoperta della natura selvaggia delle Pampas, con i suoi bellisisimi stalloni allo stato brado, è nel cap. VII, pp. 16-17). M. Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, cit., p. 217. Cfr. B. Marchelli, Da Quarto a Palermo. Memorie di uno dei Mille, a cura di E. Costa e L. Morabito, Savona, Sabatelli, 1985, Nota biografica, pp. 15-27, e pp. 3941. L’episodio è raccontato con vivaci colori anche da Giuseppe Bandi, che ben conosceva quel «giocoliere di bussolotti» (cfr. G. Bandi, I Mille, introduzione storica e note di L. Russo, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1960, pp. 140-142). Ivi, p. 45. Ivi, p. 71. Ibidem. Ivi, p. 89. Ivi, p. 73. Ivi, p. 79. A queste classiche antologie (Scrittori garibaldini, a cura di G. Stuparich, Milano, TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 98 98 15 16 17 18 Il Tempietto Garzanti, 1948, Antologia di scrittori garibaldini, a cura di G. Mariani, Bologna, Cappelli, 1960) ne vanno senz’altro aggiunte altre, come Pagine garibaldine, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi, 1960, Scrittori garibaldini dell’Ottocento, a cura di G. Trombatore, Torino, Einaudi, 1979 (già nei Memorialisti dell’Ottocento della Ricciardi, 1953), Antologia di scrittori garibaldini, a cura di P. Ruffilli, Milano, Mondadori, 1996. Al profilo di Anita scritto nel 1850 e pubblicato in appendice alle Memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, cit., pp. 362-378, vanno aggiunti i tanti passi in cui Anita è protagonista e in particolare il racconto dell’avventurosa fuga da Roma e della morte alle Mandriole di Comacchio nel cap. IX del Secondo periodo (ivi, pp. 200-210 e nelle Memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione, Bologna, L. Cappelli Editore, 1932, pp. 297-312). Tra i profili ottocenteschi di Anita spiccano quello del Guerzoni, nel primo dei due volumi dedicati a Garibaldi (Firenze, 1882) e quello del Bandi in un libretto monografico (Livorno, 1889). Molto suggestiva la sezione della mostra dedicata alla “Fuga e morte di Anita” con quadri noti, come quello di Pietro Bouvier, ma anche meno noti, come quelli di Giuseppe Sciuti e di Fabio Fabbi (cfr. Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso, cit., pp. 66-69 e pp. 157-159). Cfr. Campagna di Aspromonte e Appendice I, Aspromonte, in Memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, cit., pp. 491-499 e pp. 601-614. G. Bandi, I Mille, cit., pp. 22-23, 47-53, 62-63. Si è seguito l’ordine dell’Antologia di 19 20 21 22 23 scrittori garibaldini di Gaetano Mariani, cit., da cui sono tratte le ultime battute di G. del Greco, Ricordi di un garibaldino, pp. 343-349. G. Bandi, I Mille, cit., p. 199. Il titolo originale del diario di Dumas era Les garibaldiens. Rèvolution de Sicile et de Naples (1861). Qui si è usata la traduzione di Antonello Trombadori: A. Dumas, I garibaldini, a cura di A. Trombadori, Roma, Editori Riuniti, 19963. Lasciando Palermo per liberare il resto del regno, Garibaldi aveva chiesto a Dumas una dedica su una fotografia e il romanziere francese scriveva: «Mio caro generale, evitate i pugnali napoletani, diventate capo d’una repubblica, morite povero come avete vissuto, e sarete più grande di Washington e di Cincinnato» (ivi, p. 116). Nel 1862 Dumas raccolse i suoi resoconti su Garibaldi in un unico corpus, ora anche in ediz. italiana col titolo di Viva Garibaldi. Un’odissea nel 1860, testo critico di C. Schopp, a cura di G. Pécout e M. Botto, Torino, Einaudi, 2004. Ivi, p. 121. Ivi, pp. 229-233. Cfr. L. Russo, La letteratura garibaldina, introduz. a G. Bandi, I Mille, cit., pp. 5-18, spec. p. 5. Il Russo, che critica qui l’«attitudine poetica e mistica» di Abba, era tornato a scrivere su Abba e la letteratura garibaldina in Scrittori-poeti e scrittori-letterati, Bari, Laterza, 1945, pp. 203-341, anche in polemica con la severa posizione presa da Benedetto Croce in un saggio sulla Letteratura garibaldina uscito sulla «Critica» del 1940 e poi nel vol. VI della Letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1940 (su cui cfr. l’equilibrato giudizio di S. Romagnoli, Le Noterelle d’uno dei Mille, in Id., Manzoni e i suoi TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 99 Il Tempietto colleghi, Firenze, Sansoni Editore, 1984, pp. 329-346). 24 G. Bandini, Come nacquero le ’Noterelle’ dell’Abba, in G.C. Abba, Maggio 1860. Pagine di un ’Taccuino’ inedito, a cura di G. Bandini, Milano, Mondadori, 1933, pp. 63150. Il poemetto Arrigo. Da Quarto al Volturno. Cinque canti (Pisa, Nistri, 1866) fu pubblicato «a malincuore, prima di partire per la guerra del ’66 […] e soltanto perché rimanesse qualcosa di me se fossi morto nella vicina guerra». Su Abba, oltre alla vecchia monografia di L. Cattanei, Giuseppe Cesare Abba. Formazione di un memorialista, Bologna, Cappelli, 1973, e il profilo di E. Villa nel cap. Narrativa postunitaria, in La letteratura ligure. L’Ottocento, cit., pp. 310-324 (bibliografia a p. 564), cfr. i volumi dell’Edizione Nazionale, in particolare gli Scritti garibaldini, vol. I, Brescia, Morcelliana, 1983, che contiene il Commentario sulla rivoluzione di Sicilia (a cra di C. Scarpati), il poema Arrigo. Da Quarto al Volturno (a cura di L. Cattanei) e Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (a cura di E. Elli). Nel volume sono molto importanti le introduzioni di L. Cattanei, Storia dell’«Arrigo», pp. 3-38, e di C. Scarpati, Storia delle «Noterelle», pp. 39-84. 25 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, a cura di E. Elli, in Id., Scritti garibaldini, vol. I, cit., p. 311: «Mi si era fitto in mente che questo capitano del Lombardo fosse un francese. L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sé ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul castello come schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa far tutto da sé. Fosse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 99 basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia come una sciabolata; se aggrotta le ciglia, ognuno cerca di farsi piccino; visto di fronte non si regge il suo sguardo. Eppure, a tratti, gli si esprime in faccia una grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino? Bixio! Ecco il nome che gli sta! Almeno rende qualcosa come un guizzo di folgore». Ivi, p. 307. Ivi, p. 317. Ivi, p. 326-327. Ivi, p. 326. Ivi, p. 333. Ivi, p. 326. Ivi, pp. 355 e 365. Ivi, p. 333. Ivi, p. 337. Ivi, p. 384. Ivi, p. 392. Ivi, pp. 351-352. Ivi, p. 432: «Grande, immensa, varia da perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio della miseria. Non vidi mai sudiciume portato in mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri poveri; c’è qualcosa che dà al cervello come a traversare un palude. La gente vi brulica, bisogna farsi piccini per passare, e si vien via assordati. Ma su tutte quelle faccie si vede l’effusione di un’anima che si è destata e aspetta… Chi sa cosa vogliono, cosa sperano, chi sa?». Ivi, p. 392. Ivi, p. 453. Ivi, p. 454. Ivi, p. 457. Ivi, p. 386. Il ritratto di Nievo apre la giornata del 16 giugno, ma era già stato anticipato in una fugace notizia l’8 maggio («ho inteso parlare d’un poeta gentile che canterà le nostre battaglie. Si chiama Ippolito Nievo», ivi, p. 314) e poi in una TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 100 100 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 Il Tempietto scena più ampia, su «una carrozza mezzo sconquassata, che ci viene dietro menando l’Intendenza» (ivi, p. 345). I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, a cura di S. Romagnoli, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 893-897. Com’è noto, il manoscritto del romanzo, finito nelle mani di Erminia Fuà Fusinato, per la stampa fu affidato alle cure del letterato garibaldino Eugenio Checchi. I. Nievo, Lettere garibaldine, a cura di A. Ciceri, Torino, Einaudi, 1961, p. 10. Queste lettere sono state recentemente integrate da A. Nozzoli, Nievo 1860: sulle lettere a Romeo Bozzetti, in Ippolito Nievo tra letteratura e storia, Atti della Giornata di Studi in memoria di S. Romagnoli, Firenze, 14 novembre 2002, a cura di S. Casini, E. Ghidetti e R. Turchi, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 59-74. Cfr. i due documenti in Appendice a I. Nievo, Lettere garibaldine, cit., pp. 147182. Ivi, p. 4. Ivi, p. 10. Ivi, p. 22. Ivi, p. 37. Ivi, p. 75. Ivi, p. 116. Ivi, pp. 126-127. Ivi, p. 18. Ivi, p. 20. Ivi, p. 50. Ivi, pp. 71-72. Ivi, pp. 90- 91. Ivi, p. 114. Ivi, p. 115. Ivi, pp. 115 e 114. Le sconfitte di Aspromonte e di Mentana, registrate nelle Memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, cit., pp. 491499, 541-552, 601-614, hanno costituito 63 64 65 66 una delle più suggestive sezioni della mostra, con quadri di potente drammaticità di Gerolamo Induno (La discesa di Aspromonte, 1863), Giuseppe de Nigris (Les merveilles du chassepot, 1870), Onorato Carlandi (Ritorno da Mentana, 1872) e Archimede Tanzi (Ritirata di Mentana, 1884). Cfr. Le grandi sconfitte. Aspromonte e Mentana, in Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso, cit., pp. 106-121 e 207-212. A. G. Barrili, Con Garibaldi alle porte di Roma (1895), in Romanzi e racconti dell’Ottocento italiano. Barrili, a cura di A. Varaldo, Milano, Garzanti, 1947, pp. 611736, spec. p. 731. Il Barrili, che si poteva gloriare di esser stato ferito a Mentana e di aver fatto scudo col suo corpo al Generale, aveva raccontato i fatti nel 1868 in ventun puntate sul “Telegrafo del Mattino” con il titolo Alla volta di Roma. Note di un volontario, approntandone poi una ristampa col nuovo titolo per il XXV anniversario di Roma capitale (Milano, Treves, 1895). A lavoro già in stampa è uscita una moderna edizione a c. di F. De Nicola, note di V. Gueglio, Sestri Levante, Gammarò Editori, 2007. Ibidem. A.G. Barrili, Commemorazione di Garibaldi (15 giugno 1882), in Romanzi e racconti dell’Ottocento italiano. Barrili, cit. pp. 753754. Si pensi soltanto all’insediamento della Commissione per l’Edizione Nazionale degli scritti di Garibaldi voluta da Benito Mussolini nel 1932, che raccomandava di «dare degli scritti di Garibaldi, e non su Garibaldi» (Cfr. Prefazione alle Memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, cit., pp. IX-XX, spec. p. XX) e si pensi al mito di Garibaldi TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 101 Il Tempietto 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 durante la Resistenza (le “Brigate Garibaldi” legate prevalentemente al P.C.I) e nel dopoguerra, per cui cfr. almeno il classico C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, con relativa bibliografia. Cfr., anche per la bibliografia, le voci Carducci Giosue, Pascoli Giovanni e D’Annunzio Gabriele (la prima e la terza di Mario Isnenghi, la seconda di chi scrive) in corso di stampa nel Dizionario delle interpretazioni di Garibaldi, a cura di L. Rossi, Roma, Gangemi. G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, cit., pp. 137-138. G. Verga, Libertà, in Id., Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1981, vol. I, p. 325. F. De Roberto, I Vicerè, in Id., Romanzi, novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani, Milano, Mondadori, 20042, p. 864. Ivi, p. 649. Ivi, p. 655. Ivi, p. 696. Ivi, p. 697. Ivi, pp. 827-830 e pp. 888-891. Ivi, p. 756. Ivi, p. 849: «Questi [il Duca d’Oragua], che ormai non andava più alla capitale, consacrava tutto il suo tempo ai proprii affari, badava alle cose di campagna, migliorava le proprietà comperate dalla manomorta, speculava sugli appalti, si giovava del suo credito presso le amministrazioni pubbliche per rifarsi di quel che gli costava la rivoluzione». Ivi, p. 918. Ivi, pp. 920-921. Ivi, p. 999: «L’ideale della democrazia è aristocratico… Che cosa vuole infatti la democrazia? Che tutti gli uomini siano 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 101 eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nella povertà e nella soggezione? Eguali nelle dovizie, nella forza, nella potenza…». Ivi, p. 1078. Ivi, p. 1091. Ivi, p.1083. Ivi, p. 1100. Sul tema, oltre all’introduzione di C. Madrignani (ivi, pp. ix-lxvii, spec. pp. xxviii-xliv), cfr. l’intervento di A. Stussi, La storia come monotona ripetizione nei «Vicerè», in «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori». Poema e romanzo: la narrativa lunga in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 287-299. L. Pirandello, Sole e ombra, in Id., Novelle per una anno, a cura di M. Costanzo, Milano, A. Mondadori, 1985, vol. I, t. I, pp. 491-506. Id., Notizie del mondo, ivi, pp. 784-815, spec. p. 786. Id., Lontano, ivi, vol. I, t. II, pp. 921-973, spec. p. 923. Id., Le medaglie, ivi, vol. I, t. II, pp. 865839, spec. p. 886. Da una lettera del 22 febbraio 1910 riprodotta tra i documenti inediti della lite Carabba contro Pirandello nell’Appendice I di L. Pirandello, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a c. di E. Providenti, Firenze, Le Monnier, 1986, pp. 81-82, spec. p. 81. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di A. Nozzoli, Milano, Mondadori, 1992, p.86. Ivi, pp. 272-273. Ivi, p. 515: «Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro medaglie. I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti. Chi avevano ucciso?». G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Id., Opere, a cura di G. Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 1995, p. 39. TEMPIETTO 10_Layout 1 13/01/10 15:26 Pagina 102 102 Il Tempietto 94 Ivi, p. 56. 95 Ivi, pp. 144-145. L’epiteto diffamante dei garibaldini è messo in bocca al conte Cavriaghi, compagno d’armi di Tancredi, mentre giustifica a don Fabrizio il passaggio a un «esercito vero»: «Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni a sparacchiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve, siamo ufficiali sul serio, insomma […] la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora». 96 Ivi, p. 204. 97 Ivi, pp. 202-203. È proprio dall’annuncio del principe di Ponteleone sull’invitato d’onore «colonnello Pallavicino, quello che si è condotto così bene ad Aspromonte», che si ricava una sottile riflessione politica: «Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una constatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose». 98 Ivi, p. 219. 99 Ivi, pp. 220-221.