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Quinto Marini
Docente di Letteratura Italiana
nella Facoltà di Lettere
dell’Università di Genova
“Viva Garibaldi!”
“Non finì a favore del popolo il sogno di Garibaldi,
non fu per il popolo l’unità d’Italia,
ma per i potenti che seppero cambiar bandiera
al momento giusto, seguire i nuovi tempi traducendo
il trasformismo romano in una prassi politica locale
basata su opportunistici e disinvolti adattamenti
alle proprie convenienze”.
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Il Tempietto
“Viva Garibaldi!”
Il mito tra letteratura e realtà*
Quinto Marini
1. Tra mito e leggenda
In una delle più belle poesie
“garibaldine” di Francesco
Dall’Ongaro, composta per l’impresa
dei Mille come una sacra
rappresentazione in cui si alternano
voci popolari (Garibaldi in Sicilia,
maggio 1860), le donne di Palermo
interpretano così il mito del «celeste
eroe», fiammeggiante, immortale,
vittorioso sempre:
e vidi i lampi che gli uscian dagli
occhi.
Ei non è fatto di tempra mortale,
e non c’è piombo che nel cor lo
tocchi[…]
Quando si move e ti fiammeggia
avanti,
sprona il cavallo e fa marciare i
fanti:
quando si ferma in mezzo all’aria
aperta,
suona l’attacco e la vittoria è certa.1
Al coro delle donne segue quello dei
soldati napoletani che implorano re
Franceschiello di portarli a combattere
contro Turchi e Zuavi, e persino contro
i diavoli, ma non contro Garibaldi,
«ch’ei non è fatto della nostra carne»
(«Noi gli tiriamo, e il colpo indietro
torna; / noi cadiam morti, e lui ci fa le
corna»): è il figlio di San Gennaro,
terribile e pietoso come «un santo
sotto forme umane: / prima ci vinse e
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poi ci diè del pane». I lazzari, a loro
volta, lo dicono «nato d’un demonio e
d’una santa, / in un momento che han
sentito amore: / gli è tutto il padre,
quando il ferro agguanta, / ma della
madre ha la dolcezza in core», e
pensano che sia protetto da Santa
Rosalia e da San Gennaro. Ma sono i
volontari garibaldini a chiudere il
canto precisando la vera e laica santità
del loro generale:
lasciate star li santi e li demoni;
ché Garibaldi de’ dimon non trema,
e sa che i santi non son tutti buoni.
La santa da cui nacque è Italia
bella,
la libertà d’Italia è la sua stella.
La stella che lo guida è Libertade,
chi per lei pugna vince anche se
cade!2
La composizione a più voci di questo
popolarissimo poeta veneto (ex prete,
fervente mazziniano, combattente a
Venezia nel ’48 e con Garibaldi nella
Repubblica Romana, esule fino al ’59
e poi sostenitore della soluzione
sabauda) valga per l’infinita congerie
di canti patriottici fioriti in pieno
Ottocento a creare e diffondere il mito
di Garibaldi, a cominciare dall’Inno di
Luigi Mercantini3.
Al mito e alla leggenda di Garibaldi e
delle sue camicie rosse contribuì lo
stesso Generale, che, fin dall’anno
della sconfitta di Aspromonte (1862)
cominciò a scrivere un Poema
autobiografico in ventinove canti e
dopo Mentana (1867) stese le sue
Memorie per poi passare ai “romanzi
storici”, non solo per nobili motivi di
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propaganda ideologica, ma anche «per
ritrarre un onesto lucro del suo
lavoro».4 Da Cantoni il volontario
(1870) a Clelia (1870), ai Mille (1874),
a Manlio (scritto nel 1876 e inedito
fino al 1982), Garibaldi raccontò storie
d’amore e di passione patriottica
vissute dentro i grandi avvenimenti
della Repubblica Romana,
dell’impresa dei Mille, di Mentana:
trame romanzesche sulla linea di
Guerrazzi e di Dumas continuamente
deviate a pamphlet politici e a
proclami ideologici (il distacco da
Mazzini, la prospettiva monarchica, il
governo della nuova Italia, l’ossessione
anticlericale e anticattolica che si
esprime con l’onnipresente figura del
prete malvagio o del gesuita stupratore
di innocenti fanciulle e orditore di
funesti intrighi politici), convulsa
produzione di un uomo di spada a
disagio con la penna (di Garibaldi
scrittore si salvano appena le Memorie,
soprattutto nella prima parte che narra
la giovinezza selvaggia tra le Pampas e
la guerriglia sudamericana)5 e, dopo
Aspromonte e Mentana, in forti
difficoltà a capire i nuovi tempi e
comunque a disagio come osservava
Guglielminetti col linguaggio politico
della cultura democratica del secondo
Ottocento.6
Più che gli scritti dello stesso
Garibaldi dobbiamo dunque leggere,
per studiare il suo mito, le opere su
Garibaldi e sulle sue imprese. E nel
campo della memorialistica abbiamo
una varia e vasta tipologia sociale e
intellettuale di autori, dai più umili,
quasi illetterati, ai più famosi (su tutti
Giuseppe Cesare Abba col suo Da
Quarto al Volturno), anche stranieri
(Alexandre Dumas).
2. Un prestigiatore ovadese
tra i Mille
Tra gli umili che hanno raccontato
l’impresa dei Mille, colpisce ad esempio
la figura di un ovadese giramondo e
prestigiatore, campione di biliardo col
soffio, Bartolomeo Marchelli detto
Bazàra, che, forse anche per sfuggire a
qualche guaio con la giustizia, si fa
arruolare per forza sostando notte e
giorno davanti al cancello di Villa
Spinola.7 Il diario del Marchelli, che
aveva fatto la seconda elementare, è un
esempio di scrittura popolare genuina e
immediata (frequenti gli errori di tempi,
le incertezze ortografiche, i salti di
soggetto, le sgrammaticature, gli «io ci
dico»), che ci fa subito entrare
nell’atmosfera trepidante e festosa, come
«un campo di fiera», dei Mille sul
Piemonte appena salpato agli ordini di
Garibaldi:
Come era bello nel vedere ad
abracciarsi a vicenda! Uno diceva:
Non ti ho più veduto dopo il
combattimento di San Fermo.
L’altro: Tu sei dei nostri. Come
stai? Ti rammenti alla difesa di
Roma, là sul bastione di S.
Pancrazio? […] In tutti i crocchi
si parlava di fatti d’armi. Altri si
pulivano i revolveri. In prima
classe sento che si suona il
pianoforte, discendo, vedo due
studenti pavesi che erano
suonando a due mani; altro
cantava canzoni patriottiche; altri
si misero a ballare. Poi tornai
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Il Tempietto
sopra e vedo Garibaldi sul ponte di
comando che dirigeva il vapore
sulla striscia che segnava il
Lombardo comandato da Bixio. Lo
fissai bene; era colla sua calotta in
testa spinta in dietro; quei occhi
tutto fuoco, dando ogni istante
colla tromba ordini al
macchinista. A poppa riconosco un
certo Bianchi di Piacenza che
suonava col suo flauto; altro lo
accompagnava con una stopenda
armonica. Per me, mi sembrava di
trovarmi in campo di fiera; tutti
allegri come se si andasse a una
festa da ballo8.
Efficacissima risulta poi la sua
semplicità nel descrivere nuovi luoghi
e città, come quando scopre Palermo
dalle alture,
Palermo sembra che si tocchi colle
mani; sparsa la città in una
pianura come un bigliardo; belle le
sue chiese, i molti campanili dei
tanti monasteri, il Palazzo Reale,
la Cattedrale, i legni da guerra
immensi fermi nel porto9,
o quando fa la cronaca di spostamenti
o manovre militari (siamo ancora sopra
Palermo, la notte prima dell’attacco):
Si discese nei sentieri che nemeno
le capre avrebbero potuto passarci e
nel massimo silenzio, saltando da
un fosso ad un altro con fatica e
pericolo, dandosi aiuto uno con
l’altro. Si arrivò alla pianura
sempre camminando fra i campi e
vigneti. Un silenzio regnava nella
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nostre file e con ordine ci siamo
trovati al Ponte dell’Ammiraglio,
che un drapello dei nostri sorprese
il primo corpo di guardia avanzato
di soldati nemici vicini ad un
molino e ne venne preso d’assalto e
messo in fuga10.
Ma accanto al fascino delle battaglie e
delle armi («Il sole che compariva dalle
alture; scintillavano le spade dei
ufficiali che stavano alla testa delle
colonne che si avanzavano su di
noi…»),11 Marchelli è anche pronto a
registrare le sofferenze dei nemici («In
quei tre giorni [della battaglia di
Palermo] certo quei poveri soldati non
avranno chiuso un occhio»)12 e gli
enormi disagi di un popolo, come
quando si trova davanti alla
disperazione di una madre di quattro
figli cui i borbonici hanno bruciato la
casa e ferito il marito:
La signora Marchioli era in uno
stato deplorevole, un piccolo bimbo
di pochi mesi e altri tre di circa 8,
9, 11 anni. Il mio cuore non
poteva rimanere indiferente di
vedere questa famiglia gettata a
terra in poco di paglia13.
Marchelli conduce la famiglia da
Garibaldi e poi in un convento, dove,
davanti alle reticenze di una monaca,
deve metter mano alla pistola per
ottenere un ricovero.
3. Una folla di memorialisti
garibaldini
Certo, Bartolomeo Marchelli è un
narratore minore e lo si è posto qui in
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apertura solo per testimoniare la
varietà socio-culturale dei garibaldini.
Alle loro gloriose imprese non
mancarono memorialisti d’eccezione e
le vecchie antologie di Giani Stuparich
o di Gaetano Mariani,14 annoverano,
dopo lo stesso Garibaldi (è lui ad
avviare nelle sue Memorie il romantico
mito di Anita, la «martire dell’amore»,
che altri continueranno
romanzescamente;15 ed è lui a
raccontarci in dettaglio le battaglie, ma
anche le amarezze: si vedano su tutte,
le pagine di Aspromonte)16, autori
come Giuseppe Cesare Abba, il
maggior cantore dell’impresa siciliana
che vedremo tra poco, o come
Giuseppe Bandi (ufficiale d’ordinanza
del Generale, nei suoi Mille ce lo
ritrae anche nei momenti intimi,
quando dorme, quando s’inerpica sui
monti di Genova per farsi un «bagno a
vapore», quando è di malumore,
quando mangia lesso, fagioli e frittata
di cipolle in una povera osteria di
Talamone, quando sospira sulle sorti
d’Italia e sui Savoia; sono sue le
pagine più intense sulla partenza da
Quarto)17, Giulio Adamoli (granatiere a
San Martino nel ’59 e poi con
Garibaldi in Sicilia, sull’Aspromonte,
in Trentino, a Mentana, per scrivere
Da San Martino a Mentana ed entrare
attivamente in politica), Ulisse
Barbieri (lo scapigliato drammaturgo
sociale e romanziere di Misteri e
Sotterranei, volontario sui monti del
Tirolo, soldataccio avventuroso e
trascurato, eppure pronto a slanci del
cuore), Anton Giulio Barrili
(un’istituzione garibaldina nella
Genova di secondo Ottocento), Achille
Bizzoni (del nobile gruppo pavese dei
fratelli Cairoli, soldato regolare e dal
’66 con Garibaldi, in Trentino, a
Mentana e poi nell’esercito dei Vosgi),
il livornese Eugenio Checchi (le sue
Memorie di un garibaldino, che
raccontano la guerra del ’66, piacquero
al Manzoni), il romano transteverino
Nino Costa (pittore macchiaiolo ante
litteram Telemaco Signorini gli
attribuisce responsabilità di fondatore
rivoluzionario del ’48 e combattente
per la Repubblica Romana e poi
ancora a Mentana e a Porta Pia, fino a
diventare consigliere comunale di
Roma liberata), Emilio Dandolo
(varesino, cattolico, eroe delle Cinque
Giornate di Milano e della difesa di
Roma, dove perse il fratello Enrico),
Giuseppe Guerzoni (mantovano,
cacciatore delle Alpi, ferito a S.
Fermo, uno dei garibaldini che a
Talamone seguirono Zambianchi per
distrarre i papalini, ma che riuscì ad
arrivare a Milazzo e poi divise la vita
tra impegni parlamentari, imprese
militari fu ad Aspromonte e a
Mentana e nel ’70 a Porta Pia e
scrittura: una monografia su Garibaldi
in due volumi e una Vita di Nino
Bixio), Alberto Mario (giornalista e
cospiratore, venuto a Genova dopo il
’48 e vissuto tra Padova, Bologna e
Milano, esule a Portsmouth, dove
sposò Jessie White, e poi negli Stati
Uniti, per tornare a far parte dei Mille
insieme all’infaticabile moglie e a
seguire Garibaldi anche in Francia),
Ettore Socci (pisano, classe 1846,
combattente a Mentana e poi in
Francia), Gioacchino Toma (salentino
di Galatina, fuggito a Napoli
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dall’orfanotrofio di Giovinazzo, che ci
descrive Garibaldi nei suoi Ricordi di
un orfano) e infine - ma la schiera
potrebbe anche esser più ampia - il
medico fiorentino Giovanni del Greco
che, sotto lo pseudonimo di Veritas,
scrive Ricordi di un garibaldino con
quadretti vivacizzati anche da inserti
dialettali (come quando le donne
siciliane, vedendolo ferito, gridano
«Meschinu!», «Povero figghiu mio!», o
come quel soldato di terza categoria
che ha lasciato a casa moglie e tre figli
e che s’infuria con un volontario
contento di attaccar battaglia: «Sestu
content adess, plandron d’un
volontari?») e che non evitano
struggimenti, come quello del giovane
ferito di Milazzo che a notte fonda
sospira: «Oh se la povera mamma
fosse davvero qui!»18.
4. Le “grand Dumas” in
crociera garibaldina
Un testimone d’eccezione dell’impresa
dei Mille fu Alexandre Dumas, amico
personale di Garibaldi che si era
infiammato col Conte di Montecristo e i
Tre moschettieri. A bordo di una sua
elegante goletta, l’Emma, e insieme a
una «poltroncella vestita da uomo, e
precisamente da ammiraglio […]
piccina e leziosa e piena di gestri»
come ci racconta il Bandi con
fastidio19 le grand Alexandre, facendo
scalo a Genova a fine maggio, era
venuto a sapere della spedizione dei
Mille e immediatamente aveva fatto
rotta per la Sicilia. Il 9 giugno
giungeva a Palermo già conquistata e
in festa, abbracciava affettuosamente
Garibaldi e si accasava
81
nell’appartamento del governatore a
Palazzo Reale. Il resoconto della sua
nuova avventura in Sicilia (c’era già
stato nel ’34 e aveva conosciuto il
banditismo e la corruzione), che
accoglie anche la cronaca retrospettiva
dei fatti avvenuti dallo sbarco a
Calatafimi alla presa di Palermo, è
tutto imperniato sulla celebrazione
dell’amico Generale, che egli esorta a
tener le distanze da Vittorio Emanuele,
a fondare una repubblica e a
mantenersi povero come ha vissuto.20
È la costruzione di un eroe da
feuilleton, un vendicatore e giustiziere
del popolo, come tanti protagonisti dei
suoi romanzi o di quelli di Victor Hugo
cui spesso si richiama. Dumas segue la
spedizione più con l’atteggiamento
dell’inviato speciale d’alto bordo che
del soldato e non v’è traccia, nel suo
diario, delle fatiche e dei pericoli della
spedizione, delle marce forzate, della
fame, delle notti all’addiaccio, delle
battaglie, degli assalti alla baionetta.
Col suo gruppetto di amici
accompagna allegramente la colonna
dei garibaldini su due calessi requisiti,
dorme in castelli o masserie, tiene i
contatti solo con gli uomini dello Stato
maggiore, Turr, Bixio, Sirtori, Carini,
La Masa (di cui fornisce un vivace
ritratto: «un guascone […] Nel sangue
siciliano c’è rimasto più dell’arabo che
del normanno»);21 è affascinato da
figure sinistre come quella del bandito
Santo Meli, che contribuisce a far
arrestare e che segue durante il
processo, ricevendo anche la vecchia
madre che viene a implorare aiuto
proprio a lui. Ma i grandi scontri
armati, come quello di Milazzo, Dumas
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li osserva dal mare, sulla sua goletta,
dove ospita poi il Generale per
festeggiare la vittoria sorseggiando
champagne nei calici dorati che si è
portato via da Palazzo Reale
(Garibaldi, come suo solito, beve
acqua). Sempre a bordo dell’Emma
costeggia la Sicilia avanti e indietro:
ritorna a Palermo per chiedere sussidi
e organizzare l’acquisto di fucili in
Francia, poi si sposta davanti a
Messina per assistere all’ultima
resistenza dei Borbonici del generale
Bosco. Passato sul Posillipo,
bastimento delle Messaggerie
Imperiali - l’Emma era stata speronata
da un vapore napoletano -, naviga
verso Marsilia per concludere l’affare
dei fucili. Una sosta a Napoli gli fa
toccare con mano la sua fama: due
agenti di polizia saliti a bordo, anziché
arrestarlo, lo venerano come un divo e
gli chiedono impazienti dell’arrivo di
Garibaldi. La città è tutta in fermento
e lo sarà ancor di più il 13 agosto,
quando, di ritorno dalla missione
marsigliese, riprende a costeggiare la
Campania e la Calabria: si sparge
addirittura la voce che Garibaldi sia a
bordo della sua goletta o che
comunque Dumas sappia dove si trovi
e quali siano i suoi piani. Sicchè,
quando l’Emma getta l’ancora nel
porto di Napoli, Liborio Romano
(ritratto in modo lusinghiero in ben
quattro pagine)22 viene addirittura a
consultare Dumas, che si propone
come intermediario tra il nuovo
governo napoletano e Garibaldi e che
di lì a poco riceve la visita
dell’accorato principe Luigi, finchè il
re in persona non gli ordina di lasciare
la rada. Dumas parte promettendo al re
che tra pochi giorni egli stesso gli
notificherà lo sfratto da Napoli. Per
intanto fa rotta su Messina a caricare
le armi giunte dalla Francia e quindi
ritorna a Napoli per celebrare la
vittoria insieme a Garibaldi e a Liborio
Romano: la nuova dimora di Dumas,
nominato direttore degli scavi di
Pompei, sarà a Palazzo Chiatamone
con regolare contratto d’affitto firmato
da Giuseppe Garibaldi.
Les garibaldiens è in fondo una sorta
di romanzo autobiografico
protagonista lo stesso Dumas che si
attribuisce meriti senz’altro eccessivi
nella conquista del Sud - ma è altresì
un documento di quello che fu
l’impresa dei Mille, dell’intreccio di
affari e politica, di nobili ideali e
interessi privati, di sogni e volgari
realtà, di eroismi e guasconate (Dumas
non era affatto apprezzato dalla
maggior parte dei garibaldini).
5. Giuseppe Cesare Abba e il
“romanzo” dei Mille
Certo, rispetto a questo dandy che segue
l’impresa dei Mille come se fosse in
crociera sulle coste del Sud, ci ispira
maggior simpatia il nostro Giuseppe
Cesare Abba che costruisce col suo Da
Quarto al Volturno un capolavoro
indiscusso, il migliore in assoluto nel
genere memorialistico garibaldino (con
buona pace di Luigi Russo che, dopo
averlo appassionatamente commentato
nel 1925, gli preferì in seguito I Mille
del Bandi per «il gusto di cronaca
realistica»)23.
Il mito del Generale e delle sue
camicie rosse è intatto e alto in queste
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Noterelle d’uno dei Mille, meditate e
cesellate per vent’anni sugli appunti
estemporanei annotati in un taccuino,
riesumato da Gino Bandini, e dopo un
primo enfatico poemetto in cinque
canti pubblicato a Pisa nel ’66.24
Quanto noi leggiamo è il frutto di una
lunga e spesso amara meditazione
condotta, anche alla luce delle
successive disillusioni politiche, sugli
avvenimenti vissuti in prima persona
combattendo a Calatafimi, a Palermo,
a Milazzo, al Volturno, da questo
giovane di Cairo Montenotte rimasto
volontario garibaldino per tutto il
tempo delle guerre (avrà una medaglia
d’argento a Bezzecca) e poi
modestamente dedito
all’amministrazione del suo borgo,
come consigliere comunale e sindaco,
professore d’italiano nelle scuole
superiori, senatore solo nel 1910, a
pochi mesi dalla morte, custode di
quella preziosa eredità risorgimentale
che il Paese andava via via
disperdendo.
Le Noterelle hanno la loro bellezza
proprio nell’intima tensione tra ideali e
realtà, tra il sogno quasi folle di quei
mille giovani affascinati dal grande
Generale e la crudeltà della guerra, i
maneggi della politica, la fragile
precarietà delle conquiste umane. Da
Parma, quando finalmente «le ciance
sono finite» e si passa all’azione, via
Voghera e Novi, su un treno che si
riempie di strani viaggiatori allegri ma
raccolti, e poi a Genova, dove ci si
sente quasi in famiglia pur tra tanti
estranei che parlano tutti i vernacoli
d’Italia e in un’osteria ci si trova a
recitare il ritornello della Spigolatrice
83
di Sapri sotto un quadro di Carlo
Pisacane («Eran trecento, eran giovani
e forti…»), fino alla partenza da
Quarto, al viaggio in nave, dove si
fraternizza coi nuovi compagni, si
ascoltano le storie dei veterani, si
conoscono i comandanti (efficace il
ritratto di Nino Bixio),25 al primo
approdo a Talamone.
E poi la rotta avventurosa a Sud, verso
«una terra che brucia in mezzo al
mare»26, e lo sbarco a Marsala sotto le
prime cannonate dei nemici, senza
capire quasi nulla di quanto sta
succedendo, di quello che esattamente
si sta facendo. E lo stupore per quello
«schioppo rugginoso» che gli hanno
dato e quel «cinturino che pare d’un
birro, una giberna, una baionetta e
venti cartucce»27.
12, 13, 14, 15, 16 maggio: si marcia a
tappe forzate in questa regione strana
e meravigliosa, dove «il sole pioveva
addosso liquefatto, per la interminabile
landa ondulata, dove l’erba nasce e
muore come nei cimiteri. E mai una
vena d’acqua, mai un rigagnolo, mai
all’orizzonte un profilo di villaggio»;
un vecchio pastore è quasi una figura
mitologica: «vestiva pelli di capra, e la
sua testa, fiera e quasi da selvaggio,
era coperta da un enorme berretto di
lana»28.
Garibaldi appare e scompare - camicia
rossa e calzoni grigi, un cappello di
foggia ungherese e al collo un
fazzoletto di seta - sul suo cavallo da
Gran Visir29. È una figura leggendaria
da re fiabesco («veduto da basso,
grandeggiava sul suo cavallo nel cielo;
in un cielo di gloria, da cui pioveva
una luce calda, che insieme al
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profumo della vallata ci inebriava»)30,
ma è anche un uomo come gli altri
quando, in un momento di sosta, «al
piè di un olivo, mangia anche lui pane
e cacio, affettandone con un suo
coltello, e discorrendo alla buona con
quelli che ha intorno» («Io lo guardo
commenta Abba - e ho il senso della
grandezza antica»)31.
Poi arrivano le grandi battaglie,
Calatafimi, Palermo, Milazzo…, tra la
confusione, gli spari, gli ordini dei
comandanti, gli assalti alla baionetta, i
lamenti dei feriti, il sudore, la polvere,
le siepi di fichi d’india che fanno da
riparo, i campi di grano dove ci si
abbandona esausti. Più avanti a
impressionare i garibaldini è il
paesaggio notturno del Monte Pellegrino
intorno a Palermo, con le sue rupi
maestose punteggiate di fuochi, e sotto i
boschi infiniti di mandorli.
A tratti si vive come in un mondo
irreale e prima delle battaglie ci si
scopre diversi nei volti selvaggi e
spettrali («L’alba spuntava, tutti si
aveva non so che di selvaggio nel
volto», «Stamane mi destai che tutti si
alzavano, e in quella luce crepuscolare
pareva la resurrezione dei morti»)32.
Il fascino dell’avventura, l’entusiasmo
per le vittorie, la gioia di essere nella
storia e di fare la storia, non
impediscono però ad Abba di vedere
la nuda realtà e il suo occhio si posa
spesso sugli orrori della guerra, sulla
gente spaventata e in fuga («Fuggivano
portando le masserizie, trascinando i
vecchi e i fanciulli, un pianto»)33. sui
morti, anche nemici: sul colle di
Calatafimi, alla tristezza per quei
trenta garibaldini caduti - giorni prima
erano «belli, confidenti, allegri» - si
unisce la pietà per i morti dell’esercito
borbonico, per giunta violati dalla
ferocia dei villani:
I Napoletani morti, che pietà a
vederli! Morti di baionetta molti;
quelli che giacevano sul ciglio del
colle quasi tutti erano stati colti
nel capo. Là un mostriciattolo, che
ai panni mi parve un villano di
queste parti, inferociva su d’uno di
quei morti. «Uccidete l’infame!»
urlò Bixio, e spronò su di lui colla
sciabola in alto34.
Camminando per Palermo in festa
appena dopo la conquista si può
inciampare nel braccio di un morto mal
seppellito e scoprire l’orrore di una fossa
comune («Oh si fa bene a coprirci la
faccia appena morti!»).35 E lasciando la
città per nuove conquiste chissà perché
ritorna in mente l’immagine di quel
soldato borbonico riverso davanti a
Porta Sant’Antonino, sotto i due grandi
pioppi che ora «tremolano fino
all’ultima foglia con un sussurro allegro
quasi consapevole»:
Passandovi sotto, pensai
raccapricciando a quel morto, a
quella povera montanara della
Calabria o dell’Abruzzo che si farà
sulla soglia della capanna, con
una paura confusa della guerra
che c’è pel mondo, dove forse crede
ancora di avere il suo figliuolo
soldato. E pensai anche ai principi
di Casa Borbone, che sino ad ora
non se n’è visto uno a cavar la
spada36.
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Il Tempietto
I morti, anche nemici, turbano la
coscienza di questo garibaldino, che in
un’«ora mesta», vigilia di una grande
battaglia, s’accende di dubbi parlando
di rivoluzione con un umile monaco: al
suo sogno di «unire l’Italia per farne
un grande e solo popolo», padre
Carmelo oppone «una guerra non
contro i Borboni, ma degli oppressi
contro gli oppressori grandi e piccoli,
che non sono soltanto a Corte, ma in
ogni città, in ogni villa»37. E quasi alla
fine dell’impresa, ormai da giorni nella
capitale partenopea, si chiede se
basterà Garibaldi, con quel suo cuore,
quella sua testa, quella sua faccia
barbuta che fa pensare a Mosè, a Gesù
Cristo, a Carlomagno, basterà a
liberare Napoli non solo dai Borboni,
ma anche da quella grande, immensa,
quasi fastosa miseria? Basterà alle
speranze di un’intero popolo?38
L’Italia è ancora tutta da farsi, e corre
lungo il libro di Abba la nostalgia per
il sogno vissuto e non avverato. Come
un amaro risveglio, peraltro già
presagito («Ho inteso che sono già
arrivati certi armeggioni a guastare. Ve
ne erano forse fin dai primi giorni
della capitolazione», annotava
lasciando Palermo)39, un’ombra
s’addensa sulla gloriosa impresa dei
Mille già da Teano, quando il re
d’Italia viene a prendersi il regno
conquistato da quei giovani e il freddo
volto del potere raggela ogni ideale:
Garibaldi appare «mesto» mentre
cavalca alla sinistra di Vittorio
Emanuele e il suo cavallo «sentiva
forse in groppa meno forte il leone, e
sbuffava e si lanciava di lato, come
avesse voluto portarlo nel deserto,
85
nelle Pampas, lontano da quel trionfo
di grandi»40.
Il giorno dopo il Generale non va a
colazione dal re, preferisce mangiare
pane e cacio coi suoi: Abba ce lo
descrive ancora «mesto, raccolto,
rassegnato»41. La tristezza lo segna
anche nell’ultimo saluto alle sue
camicie rosse, quando il re, atteso dai
garibaldini schierati, non si presenta e
arriva invece lui, insieme al suo stato
maggiore, col poncho e il cappello
ungherese calcato sulle ciglia come
quando è infuriato, sotto un cielo di
novembre che minaccia tempesta e un
vento gelido che annuncia «discordie
tremende». È sotto questo gelido vento
che si chiudono le Noterelle di
Giuseppe Cesare Abba, quasi sospese
nell’ansia che, come le foglie, non
vadano disperse le parole che ciascun
garibaldino porterà nella sua terra:
Questo vento ci piglierà tutti, ci
mulinerà un pezzo come foglie,
andremo a cadere ciascuno sulla
porta di casa nostra. Fossimo
come foglie davvero, ma di quelle
della Sibilla; portasse ciascuna
una parola: potessimo ancora
raccoglierci a formar qualcosa che
avesse senso, un dì; povera
carta!… rimani pur bianca…
Finiremo poi…42
6. Un garibaldino per la pelle:
Ippolito Nievo
A Palermo, tra i Mille, c’era anche
Ippolito Nievo (Abba ce ne fa un
ritratto romantico: «va solitario
sempre, guardando innanzi, lontano,
come volesse allargare a occhiate
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86
Il Tempietto
l’orizzonte»)43, che, dopo aver scritto il
romanzo più bello del nostro
Risorgimento, aveva voluto trasformare
in azione il sogno di quella nuova
Italia racchiusa nella lunga storia di
Carlo Altoviti (Le confessioni d’un
italiano, uscite postume nel 1867,
hanno una loro parte “garibaldina”
negli ultimi capitoli, col Giornale del
figlio Giulio che si è riscattato dal
traviamento fuggendo coi volontari
sulle Alpi e che nel giugno del ’49
partecipa alla difesa di Roma sul
Gianicolo attaccato dai Francesi,
guadagnandosi i gradi di capitano e
aiutante di campo di Garibaldi)44.
Da subito con Garibaldi e i suoi
Cacciatori delle Alpi, piuttosto che
nell’esercito regolare come i fratelli
Carlo e Alessandro, esule in patria con
l’armistizio di Villafranca, nel maggio
del ’60 Ippolito non esita a
raggiungere Genova di nascosto dai
suoi cari e ad imbarcarsi sul Lombardo
di Bixio. Ma dopo le prime battaglie,
Garibaldi gli chiede di fermarsi a
Palermo per reggere l’Intendenza
generale dell’esercito, e, mentre le
camicie rosse si coprono di gloria in
Sicilia e poi risalendo la penisola fino
al Volturno, il maggiore e poi
colonnello Nievo è inchiodato alla sua
scrivania a occuparsi di rifornimenti,
di acquisti, di pagamenti e di
postulanti d’ogni risma (arrivano anche
falsi combattenti a chiedere sussidi,
aiuti, un posto fisso, una pensione),
mentre cominciano i primi maneggi
del cavouriano La Farina per
screditare l’impresa dei Mille. Sicché,
dopo l’iniziale entusiasmo persino per
il «bel paese verde, spopolato, sereno
e miserabile» (la lettera è del 28
maggio 1860)45, l’incarico si fa sempre
più pesante e, oltre ai fastidi
dell’Intendenza, Nievo deve
fronteggiare gli effetti delle lotte di
partito, della sostituzione del
prodittatore Depretis (14 settembre),
dell’annessione al Piemonte con un
plebiscito-farsa (ottobre) e della
liquidazione politica dell’impresa dopo
il ritiro di Garibaldi a Caprera e lo
scioglimento dell’esercito garibaldino
(9-11 novembre).
La corrispondenza di Nievo con
familiari e amici dal 5 maggio 1860,
cioè dal suo imbarco coi Mille a
Quarto, fino al 23 febbraio 1861 (data
dell’ultima lettera prima del fatale
viaggio sull’Ercole la notte tra il 4 e 5
marzo) registra questa progressiva
depressione in cui gli affetti più cari
fanno da argine alla delusione politica
(Nievo ci ha lasciato anche un
Giornale della spedizione in Sicilia in
supplemento al “Pungolo” del giugno
1860, e un Resoconto
amministrativo)46.
Ci sono così lettere molto affettuose alla
madre, Adele Marin. Le chiede perdono
per la partenza segreta, ma «è una gran
disgrazia comune a tutti di guardar le
cose traverso il prisma della passione!»
(5 maggio)47; la informa del «miracolo
che ci ha portati a Palermo» in una
lettera del 28 maggio piena di baci e di
sospiri («Quante volte ti ho baciata col
pensiero!», «Addio Mamma mia,
amami, amami, amami»)48; le racconta
del nuovo incarico all’Intendenza e della
sua bella divisa garibaldina («due
spanne di blouse rossa e settanta
centimetri di scimitarra, ci fa gli uomini
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Il Tempietto
più contenti della terra»)49; avanza le
sue perplessità sui siciliani («sono
Veneziani più flosci, più falsi e senza
una gran dose di coraggio!), scherza
sulla propria modestia («Sai che per
rango potrei sottoscrivermi General di
Brigata e che per modestia e per sola
memoria di Calatafimi resto Capitano?
Hanno scoperto in me di gran talenti
amministrativi! Figurati!… Ma il non
rubare è una gran virtù in Sicilia ove
principe e imbroglione è tutt’uno»)50; dà
notizie del fratello Alessandro che si
trova nell’armata Cialdini; spera sempre
di partire per il campo, ma poi si
rassegna alla vita d’ufficio,
pesantissima: «Vi son giornate nelle
quali la mia vita è una serie non
interrotta di gridate e di strapazzate
dalla mattina alla sera. Lo Stato trovò in
me un Cerbero adattissimo pel suo
Tesoro […] Qui mi chiamano
l’Intendente antropofago» (14 ottobre)51.
Da novembre in poi, nonostante la
nomina a «Intendente di 1a Classe e
perciò Colonnello», racconta con
crescente amarezza l’andamento delle
cose in Sicilia: registra con scetticismo
la stessa visita di Vittorio Emanuele a
Palermo («Il Re è qui grandi fracassi
non so cosa pensare del domani»),
mentre sospira il suo ritorno a Fossato (5
dicembre)52.
Eppure, dopo il periodo di licenza
passato tra Milano e il Friuli, a gennaio
tornerà ancora al Sud per difendere
l’operato di Garibaldi dal fango diffuso
da parte del Ministero della Guerra
proprio sull’Amministrazione economica
dell’impresa dei Mille. La sua ultima
lettera alla madre è datata «Milano, 26
gennaio 1861», poco prima della
87
partenza, ed è piena di nostalgia per la
vacanza appena trascorsa («Quanto
volentieri avrei prolungato il mio
soggiorno con te! È proprio vero che la
mamma è la migliore delle Società, e
questa volta hai proprio ottenuto un
pieno»)53. Il filo degli affetti tra madre e
figlio resisterà a lungo anche dopo la
tragedia: fra le notizie incerte sul
naufragio, che sconvolgono il padre e i
fratelli, Adele Marin coltiva la tenace
speranza che il figlio sia ancora una
volta partito senza informarla per
qualche bella impresa, magari per
l’Albania, come nel ’49 quando era
fuggito in Toscana o nel ’60 con i Mille.
Le Lettere garibaldine di Nievo hanno
però un altro forte nucleo psicologicoaffettivo nelle venticinque lettere inviate
alla cugina Bice Melzi Gobio, con cui
corre più di una confidenza parentale. A
lei, ancor più che alla madre, Nievo
confessa i suoi sentimenti più profondi,
le angosce e le delusioni. Anche i
resoconti dell’impresa sono alquanto
realistici e ben lontani dalla retorica
patriottica dei giornali del Nord.
«Rivoluzione in Sicilia non ce n’è mai
stata», afferma perentorio, e a Palermo
la vittoria di quegli ottocento garibaldini
male armati e peggio vestiti,
abbandonati dai picciotti, è solo frutto di
un miracolo:
Che miracolo! - Ti giuro, Bice! Noi l’abbiamo veduto e ancora
esitiamo quasi a credere! I
Picciotti fuggivano d’ogni banda:
dentro pareva una città di morti:
non altra rivoluzione, che sul tardi
qualche scampanìo. E noi soli,
ottocento al più, sparsi in uno
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Il Tempietto
spazio grande quanto Milano,
occupati senz’ordine, senza
direzione (come ordinare e dirigere
il niente?) alla conquista d’una
città contro venticinquemila
uomini di truppa regolare, bella,
ben montata, che farebbe la delizia
del Ministro La Marmora!
Figurati che sorpresa per noi
straccioni! Io era vestito come
quando partii da Milano;
mostrava fuori dei calzoni quello
che comunemente non si osa
mostrar mai al pubblico, e portava
addosso uno schioppettone che
consumava quattro capsule per
tirare un colpo per compenso
aveva un pane infilato nella
baionetta, un bel fiore di aloè sul
cappello, e una magnifica coperta
da letto sulle spalle alla
Pollione54.
L’ironia stempera continuamente la
drammaticità e nel suo ruolo di Vice
Intendente generale gli sembra di
recitare la farsa di Arlecchino finto
principe, mentre si pavoneggia con la
sua «zimarra rossa che sembra un
Generale di Napoleone» e seduce le
suore che coccolano i garibaldini con
le creme al fico d’India (lettera del 24
giugno 1860)55.
Poi, col passare del tempo, prevale la
nostalgia dei luoghi ove Bice
soggiorna, di Bellagio e del lago, dove
si specchia una luna meno sfacciata di
quella siciliana, mentre crescono la
fatica e la noia dello scribacchino e
cresce l’invidia per quei compagni che
si stanno preparando al «gran salto»
sul continente (10 agosto 1860)56;
quindi l’impazienza aumenta, e la
calura estiva che continua ad ottobre
gli fa sognare le brume del Nord:
Ti confesso in verità che un po’
d’aria di Lombardia, e le nebbie di
Fossato e la frescura autunnale
del lago di Como mi gioverebbe
assai più del tepore balsamico di
Sicilia (9 ottobre 1860)57.
È un amore impossibile e lontano
quello per la cugina Bice, sposa e
madre, che si esprime in lunghissime
lettere e ben s’accorda alla situazione
di ondeggianti incertezze:
Qui si ondeggia in un mare
d’incertezze - le scrive il 2
novembre e quello che è sicuro di
ondeggiare ancora per un pezzo,
sono precisamente io. […] Sei
mesi, sei eterni mesi, che
diventeranno sette e più assai! O
patria mia, sei pur crudele a
punirmi dell’amarti in maniera sì
acerba! La Sicilia è una specie di
paradiso senza alberi, ove io mi
trovo perfettamente fuori del mio
centro terreno; non ho aria per i
miei polmoni, non ho immagini
pel mio spirito.58
Ma l’ansia di tornare non lo fa venir
meno al dovere di difendere Garibaldi
e quando a novembre la bella impresa
ha fine e i garibaldini sono sciolti, la
propaganda avversaria lo costringe ad
aumentare il lavoro per consegnare il
rendiconto dell’Intendenza in forma
ineccepibile. Un’amarissima lettera del
2 dicembre descrive il precipitare
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Il Tempietto
della situazione proprio mentre il re è
a Palermo («il solo galantuomo in una
turba di bricconi e di coccodrilli.
Povero diavolo! Mi fa compassione
quanto e più di noi. Se giungerà a far
l’Italia, non sarà certo merito di coloro
che gli stanno attorno»)59, e tra feste,
parate e gran balli svanisce il sogno
della nuova Italia di Garibaldi. Il
voltafaccia di tanta gentaglia lo
stomaca, ma lui è orgoglioso della sua
camicia rossa:
Qui si festeggia sempre. Al
Pretorio e al Palazzo Reale gran
lusso di polke e di seni scoperti. Io
son rimasto l’ultima camicia rossa
a Palermo: sarò guardato come un
selvaggio, ma non me la caverò a
tutti i costi. Ci dovrà metter le
mani il conte Cavour o S. Ecc. il
ministro Fanti60.
I toni si fanno drammatici: «Sono
affranto come una bestia da soma
troppo carica…», «Sono finito, sfinito,
sfinitissimo! Ti confesso che, se avessi
creduto d’imbarcarmi per questa
galera a Genova il 5 maggio, mi sarei
annegato»61. Una frase che suona
terribile se pensiamo alla morte di
Nievo e che si accorda all’amaro finale
delle Noterelle di Abba: entrambi
avevano intuito in quella liquidazione
di novembre la fine di un sogno.
7. La più bella pagina di
Anton Giulio Barilli
La riprova storica di questo
presentimento sarà ad Aspromonte, il
28 agosto 1862, dove il grido di «O
Roma o morte» verrà soffocato dagli
89
stessi bersaglieri dell’esercito italiano,
e sarà a Mentana, il 3 novembre 1867,
quando i micidiali chassepots francesi
abbatteranno centinaia di garibaldini e
lo stesso Garibaldi cercherà la morte62.
Ce lo ha descritto in questo gesto
disperato Anton Giulio Barrili, nelle
pagine in assoluto più belle di tutta
sua produzione letteraria:
Lo vedo ancora, fiammeggiante
cavaliere, nella luce sanguigna del
tramonto; ritto in sella, battendo a
colpi ripetuti il fianco del suo
cavallo alto e bianco, con una
striscia di cuoio, all’americana;
risoluto di arrestare, ad ogni costo,
un nemico che la fortuna aveva
fatto insolente. E percuotendo il
cavallo, scendeva dalla spianata,
gridando con voce vibrata:
Venite a morire con me! Venite a
morire con me! Avete paura di
venire a morire con me?63
La scena è grandiosa e solenne
(«L’uomo era solenne, e solenne il
momento») con quei reduci sfiniti che
si stringono attorno a Garibaldi a
baionette spianate per una «carica
della disperazione» e fanno arretrare il
nemico; ma poi subiscono di nuovo il
fuoco dei francesi nascosti dietro le
siepi. Altri garibaldini cadono; il
Generale vorrebbe proseguire, ma qui
lo ferma uno dei più vecchi e fidati
ufficiali, Stefano Canzio (ne ha sposato
la figlia Teresa, è stato con lui a
Caprera e sull’Aspromonte e lo seguirà
a Digione), afferrando le redini del suo
cavallo con un grido che racchiude
tutta la disperazione della nuova Italia:
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90
Il Tempietto
Per chi vuol farsi ammazzare,
Generale? Per chi?64
Mentana, con «Garibaldi che andava
alla morte» e «Roma perduta… e
perduto lui nelle file nemiche»,
quando per molti «la camicia rossa si
è stretta, appigliata alle carni»65, fu la
fine politica e militare di Garibaldi,
ma anche il momento culminante del
suo mito di eroe grande e sventurato.
Un mito che ha avuto una durata
lunghissima, entrando poi nel
Novecento con segni politici diversi,
addirittura opposti66, e che la nostra
narrativa in particolare (non ci
occuperemo qui del mito di Garibaldi
nei grandi poeti tra Otto e Novecento,
Carducci, Pascoli e D’Annunzio)67 ha
avuto da subito il merito di non
accogliere e coltivare passivamente,
ma di confrontare con la realtà storica
per evidenziare il progressivo divario
dagli ideali di quell’uomo. E non è un
caso che siano stati autori del Sud,
ossia della terra che più d’ogni altra in
Italia fu segnata dalla grande ventata
garibaldina, a produrre in proposito le
pagine più interessanti.
8. Giovanni Verga e l’onda
lunga del pessimismo politico
meridionale
Viene subito in mente Libertà, una delle
novelle politicamente più impegnate di
Giovanni Verga, che, ventenne all’arrivo
dei Mille, si arruolò nella Guardia
Nazionale e vi prestò servizio per quasi
quattro anni; proprio nel ’60 fondò il
settimanale politico “Roma degli
italiani” con un programma unitario e
antiregionalistico, e tra il ’61 e il ’63
collaboratore di altre riviste
filogaribaldine come “L’Italia
Contemporanea” e “La Nuova Europa”
pubblicò i romanzi storico-patriottici I
carbonari della montagna e Sulle
lagune (rimase inedito Amore e Patria,
del ’57). A un ventennio di distanza,
rivivendo nella novella “rusticana” i
tragici fatti accaduti a Bronte tra il 2 e
il 5 agosto 1860, quando i sogni di
libertà s’incarnarono in massacri
efferati di cui furono carnefici e poi
vittime dei poveri contadini, la
delusione e il pessimismo di Verga
(delusione e pessimismo maturati anche
in conseguenza dell’involuzione della
politica italiana: la novella è del
febbraio dell’82, in pieno trasformismo),
producono tutt’altra visione delle pagine
con cui il garibaldino Abba legittima
l’azione repressiva di Nino Bixio68. Che
cosa risponde la storia ai morti di
Bronte? E che cosa risponde soprattutto
al carbonaio che domanda stupito ai
carabinieri che lo ammanettano dopo il
processo:
Dove mi conducete? In galera?
O perché? Non mi è toccato
neppure un palmo di terra! Se
avevano detto che c’era la
libertà!…69
Non finì a favore del popolo il sogno di
Garibaldi, non fu per il popolo l’unità
d’Italia, ma per i potenti che seppero
cambiar bandiera al momento giusto,
seguire i nuovi tempi traducendo il
trasformismo romano in una prassi
politica locale basata su opportunistici
e disinvolti adattamenti alle proprie
convenienze.
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Il Tempietto
9. Consalvo VIII de Uzeda,
un “vicerè” trasformista
«Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare
gli affari nostri!», dice, deformando
volgarmente la nota frase del
D’Azeglio, il Duca d’Oragua, il primo
«liberalone» della famiglia degli Uzeda
nei Vicerè di Federico De Roberto
(1894)70, e traccia la linea del
comportamento politico che permetterà
a chi ha governato per secoli sotto gli
Spagnoli e i Borboni di continuare a
governare sotto il tricolore dei Savoia.
Al termine della Parte prima del
romanzo, quella che ha sullo sfondo i
fatti che da Villafranca («dove il gran
Cavurre ha fatto fagotto»)71 vanno
all’impresa dei Mille e al primo
Parlamento del nuovo Regno d’Italia
(18 febbraio 1861), l’ostilità
preconcetta verso il nuovo corso della
storia esercitata da quasi tutto il clan
(si pensi, in particolare, al perfido don
Blasco, che di fronte all’entusiasmo dei
confratelli per lo sbarco di Garibaldi,
grida: «Garibaldi? Chi è Garibaldi?
Non lo conosco»)72, si tramuta in
aperto favore e si fa una gran festa per
il neoeletto deputato D’Oragua e per il
suo protetto Benedetto Giulente, l’eroe
del Volturno, finalmente ammesso al
palazzo degli Uzeda. Tutti gridano
«Evviva Oracqua!», «Viva Garibaldi!»,
«Viva Vittorio Emanuele», «Viva
l’unità italiana», «Viva il ferito del
Volturno!»73, e il principe erede spiega
al suo riottoso figliuolo, Consalvo VIII,
l’immutabile teorema del potere:
Quando c’erano i Vicerè, i nostri
erano Vicerè; adesso che abbiamo
il Parlamento, lo zio è deputato!73
91
E ad uno ad uno - tranne la zia
Ferdinanda, l’arcigna custode degli
stemmi e dell’onore familiare - tutti gli
Uzeda si convertono al nuovo corso e
sono ben pronti a mescolare interessi
privati e politica: lo stesso don Blasco
investe in cartelle del governo e si
dispone a speculare sulle terre del
convento messe all’asta (alla notizia
della presa di Roma scenderà in
piazza a festeggiare col popolo)75 e il
Duca d’Oragua, dal Parlamento di
Torino, nell’agosto del 1862 si dà un
gran da fare perché Garibaldi,
ridisceso in Sicilia, venga arrestato e
comunque non passi lo Stretto e scrive
a Benedetto Giulente che usi ogni
mezzo per soffocare i nuovi moti
insurrezionali76. Gli affari hanno
bisogno di pace e non è più tempo di
rivoluzioni; l’intemperanza di
Garibaldi, con la sua smania di
arrivare a Roma, e le irrequietudini
del popolo non giovano agli appalti di
opere pubbliche (ferrovia, porto,
guardie forestali, ecc.), alle nuove
banche, alle speculazioni77.
I crescenti successi del Duca d’Oragua
e l’andamento delle cose d’Italia,
convertono infine anche l’ultimo e il
più reazionario rampollo dei Vicerè, il
principino Consalvo, che viaggiando
per l’Italia unita negli anni Settanta,
s’accorge di essere «don Consalvo de
Uzeda, VIII principe di Francalanza»
a Catania, appena «eccellenza» a
Napoli, ma soltanto «signore» a
Firenze e a Milano78. A Roma poi
scopre il nuovo potere dei parlamentari:
sono loro i nuovi principi79. E allora, da
conservatore e filoborbonico (era stato
inesorabile delatore di “complotti”
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Il Tempietto
liberal-patriottici tra gli educandi dei
Benedettini), si fa liberale e
democratico, sostiene che «l’ideale
della democrazia è aristocratico»80,
studia Smith e Spencer, legge Marx e
Proudhon, s’infarina di economia
politica, diritto costituzionale, scienza
dell’amministrazione, e diventa sindaco
a ventotto anni, organizzando una
macchina clientelare efficientissima, un
esercito di funzionari al suo servizio.
Poi, quando va al governo Depretis,
passa alla sinistra, inneggia a Mazzini e
a Garibaldi, e nelle grandi elezioni del
1882 si candida al Parlamento nelle
liste dei socialisti. Il suo meeting
elettorale nella palestra dell’exconvento benedettino è un capolavoro
di trasformismo, con la banda che
suona la marcia reale e l’inno di
Garibaldi, con trofei e bandiere di ogni
associazione e con i ritratti di tutti i
grandi che avevano fatto l’Italia,
opportunamente mescolati:
Umberto e Garibaldi; poi Mazzini e
Vittorio Emanuele; poi Margherita
e Cairoli; e così tutto in giro
Amedeo, Bixio, Cavour, Crispi,
Lamarmora, Rattazzi, Bertani,
Cialdini, la famiglia sabauda e la
garibaldina, la monarchia e la
repubblica, la Destra e la
Sinistra81.
Nel suo infinito discorso, che mette
insieme liberalismo e rivoluzione,
conservazione e progresso, centralismo
e democrazia, tradizioni e riforme, che
dice tutto e il contrario di tutto
(«Adesso che ha parlato, mi sapete
ripetere che ha detto?», osservano
alcuni «studenti canzonatori»)82, c’è
spazio anche per inventarsi un
commovente incontro con Garibaldi
durante l’impresa dei Mille ai tempi
della sua vita nel convento benedettino
e di descrivere «quel biondo
Arcangelo della libertà intento a
coltivare le rose del nostro giardino».
È la spudorata falsificazione di un
incontro narrato nel cap. VIII della
Prima parte tra il figlio del Generale,
Menotti, accampato con altri ufficiali
nella foresteria del convento, e
Giovannino Radalì, il cugino liberale
di Consalvo (il quale se ne stava
invece «in disparte, aggrottato come lo
zio don Blasco, con la coda tra le
gambe»); ma qui è interessante notare
la strumentale mistificazione di «quel
cuore vasto e generoso, dove la forza
leonina s’accoppiava alla gentilezza
soave… di quell’uomo che,
conquistato un regno, doveva, come
Cincinnato, ridursi a coltivare il sacro
scoglio, dove oggi aleggia il
magnanimo spirito di Lui, che fu a
ragione chiamato il Cavaliere
dell’umanità…»83.
Ma certamente il discorso più
importante è quello che Consalvo fa
alla zia Ferdinanda dopo la sua
“scandalosa” vittoria elettorale,
proprio in conclusione del romanzo:
La storia è una monotona
ripetizione; gli uomini sono stati,
sono e saranno sempre gli stessi. Le
condizioni esteriori mutano; certo,
tra la Sicilia di prima del
Sessanta, ancora quasi feudale, e
questa d’oggi pare ci sia un abisso;
ma la differenza è tutta esteriore.
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Il Tempietto
Il primo eletto col suffragio quasi
universale, non è né un popolano,
né un borghese, né un
democratico: sono io, perché mi
chiamo principe di Francalanza. Il
prestigio della nobiltà non è e non
può essere spento84.
10. Generazioni a confronto
nel «fango della Nuova Italia»
in un romanzo di Pirandello
Siamo alle origini di quell’onda lunga
del pessimismo politico siciliano che
condurrà al Gattopardo di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa (e per strade
diverse, cioè per l’ironia di Brancati,
ad alcune opere di Sciascia). Ma,
prima di arrivare a quell’importante
libro che a metà del ’900 costringerà
ancora a riflettere sul nostro
Risorgimento e sulla storia non affatto
conclusa dell’unità d’Italia,
incontriamo un altro autore siciliano
che radica il proprio pessimismo nella
delusione storica per il Risorgimento
mancato: Luigi Pirandello. Figlio di un
garibaldino che fu con i Mille nel ’60 e
ad Aspromonte nel ’62, e che aveva
sposato la sorella di un compagno
d’armi, Caterina Ricci Gramitto, il cui
padre era stato esiliato a Malta come
antiborbonico e liberale dopo il ’48
quindi cresciuto in un ambiente
familiare fortemente patriottico
Pirandello affidò a più di un
protagonista delle sue novelle la sua
risentita polemica sull’Italia
postunitaria: in Sole e ombra (1896)
l’ex garibaldino Ciunna vuole buttarsi
a mare con le medaglie del ’60 sul
petto85; in Notizie del mondo (1901) è
solo per non rischiare un malanno
93
facendo un piacere a «questi porci
d’Italia» che il deluso Momino non ha
gettato nel fiume le medaglie
garibaldine86; in Lontano (1902) don
Paranza s’accorge di esser stato una
bestia ad aver combattuto «per questa
cara patria», ma la sua disgrazia era
stata «quella d’aver avuto vent’anni al
Quarantotto […] trentadue al
Sessanta» (allora, a Milazzo, non aveva
neanche saputo approfittare di una
palla nel petto, «quel regalo di un
soldato borbonico misericordioso»)87;
ancora di medaglie parla l’omonima
novella del 1904, le sette medaglie del
’60 che il glorioso garibaldino
Sciaramè porta in corteo dietro la
bandiera del sodalizio dei Reduci, e
con la sua «camicia rossa scolorita, il
fazzoletto al collo, il cappello a cono
sprofondato fin sulla nuca […]
sembrava un povero cane sperduto»88.
E persino nel giovanile poemetto in
quartine d’ottonari, Pier Gudrò (1894),
Pirandello faceva rivivere l’infelice
storia tratta dal vero di un proscritto
del ’49, poi volontario tra i Mille ed
eroe del Volturno, Gaetano Navarra.
Prove letterarie, queste, che sono alla
radice del suo particolarissimo
romanzo storico, I vecchi e i giovani,
composto in piena crisi novecentesca
(1910-1913), che «rappresenta al vivo
il dramma doloroso dell’Italia
meridionale, e segnatamente della
Sicilia dopo il 1870. Due generazioni,
due ideali, due mondi vi si affrontano»
e «son persone e fatti studiati dal vero,
numerosissimi e svariatissimi,
quantunque tutto il romanzo sia chiuso
nel volger d’un anno, nel fortunoso
anno 1893, che con lo scandalo
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Il Tempietto
enorme della Banca Romana e la
rivolta dei Fasci in Sicilia segnò nella
storia nostra contemporanea quasi la
crisi di crescenza dell’Italia nostra»89.
Tra il vecchio mondo borbonico che
tramonta, rappresentato dai fratelli
Laurentano (don Ippolito, circondato
addirittura da una schiera di soldatacci
coi «calzoni rossi e cappotto turchino»
dell’esercito di Franceschiello, don
Cosimo, assorto nella contemplazione
filosofica, donna Caterina, l’esclusa,
fuggita con un rivoluzionario del ’48,
Stefano Auriti, poi garibaldino) e il
nuovo mondo mafioso, ben intrecciato
nei gangli del potere coi propri affari
(Flaminio Salvo, il vecchio boss, e
Ignazio Capolino, il politico
emergente), la spinta ideale di coloro
che hanno fatto il Risorgimento è via
via annientata. Roberto Auriti, il figlio
di Caterina Laurentano e dell’eroe di
Milazzo, garibaldino dei Mille già a
dodici anni e poi ad Aspromonte e a
Bezzecca, è uno «sconfitto» della
nuova politica: laureato in legge con
una borsa di studio governativa, a
Roma è trasformato in una sorta di
avvocato della mafia parlamentare
siciliana, incapponito nella noia di uno
squallido menage a tre (vive con una
maestra di canto e il marito, un extenore) e compromesso nello scandalo
della Banca Romana:
Si sentiva veramente sconfitto.
L’animo troppo teso negli sforzi
della prima gioventù, gli era
venuto meno a poco a poco, di
fronte alla nuova, laida guerra,
guerra di lucro, guerra per la
conquista indegna dei posti90.
Anche il grande Crispi, qui nei panni di
Francesco D’Atri, il garibaldino che
tanta parte aveva avuto nella liberazione
del Sud e che era stato chiamato a
governare l’Italia nel grave momento di
crisi, è colto nel suo dramma politico e
umano, alle prese non solo con la
vicenda della Banca Romana e con la
drastica decisione di mandare l’esercito
a reprimere la protesta dei solfarai
siciliani, ma anche col fallimento del
suo matrimonio, incapace di
“governare” la troppo giovane e inquieta
Giannetta.
Ma «dai cieli d’Italia in quei giorni
pioveva fango, ecco, e a palle di fango si
giocava; e il fango s’appiastrava da per
tutto», e «questi benedetti uomini della
Rivoluzione», che «nelle congiure, nelle
battaglie erano stati come nel loro
elemento; in pace, erano ora come pesci
fuor d’acqua»91. Il più vecchio e austero
di questi uomini della rivoluzione, già
combattente nel ’48 e poi con Garibaldi,
insieme a Stefano e Roberto Auriti, è
Mauro Mortara. Fedele al suo sogno di
un’Italia forte e unita, eroe incorruttibile
e fermo nel tempo, incapace di accettare
sia il fango di Roma, sia la ribellione
dei minatori contro lo Stato, riprende le
sue armi gloriose e va a farsi ammazzare
dagli stessi soldati di Crispi nel
tentativo paradossale e disperato di
aiutarli a fermare i rivoltosi, a salvare
l’Italia. Le quattro medaglie garibaldine
che i soldati osservano stupiti sul suo
petto insanguinato chiuderanno
emblematicamente il romanzo92.
11. «Il Gattopardo» e il
tramonto di un mito
Il romanzo più amaro e rappresentativo
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Il Tempietto
del Risorgimento tradito, che riprende
e aggiorna i fili di questa narrativa
siciliana - ma che, è bene
sottolinearlo, esce nel 1958, nella crisi
del neorealismo e dei miti resistenziali
garibaldini - è Il Gattopardo di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che si
apre proprio nei giorni dello sbarco dei
Mille. E stavolta il volontario che
scappa sui monti con i picciotti per
unirsi a Garibaldi è il rampollo di una
famiglia d’antica nobiltà siciliana
prossima al tracollo economico,
Tancredi Falconeri, nipote del principe
di Salina, don Fabrizio Corbera.
Il suo gioco è dichiarato sin dall’inizio
in una frase ormai abusata, ma forse
più complessa e ambigua dello slogan
di una prassi politica vulgata come
gattopardismo.
Garibaldi e le sue camicie rosse
possono addirittura servire a garantire il
potere e i beni di famiglia purchè la
rivoluzione sia tenuta sotto controllo e
serva a un epocale quanto necessario
cambio di guardia, sostituendo
darwinianamente agli esangui Borboni
napoletani i più vigorosi ed efficienti
Savoia piemontesi, alla vecchia
bandiera biancogigliata il vivace
tricolore. «Se non ci siamo anche noi,
dice Tancredi al suo zione quelli ti
combinano la repubblica. Se vogliamo
che tutto rimanga come è, bisogna che
tutto cambi»93, e queste parole che a
tutta prima sconvolgono anche un uomo
di mondo come il Gattopardo, ammirato
da tanta cinica disinvoltura, diventano
poi la più adeguata chiave di lettura di
tutti quei grandi avvenimenti, mentre lo
stesso Garibaldi, che con la sua fama di
rivoluzionario repubblicano spaventa e
95
mette in fuga mezza nobiltà siciliana (il
cugino Màlvica invita don Fabrizio a
mettersi in salvo sulle navi degli
inglesi), appare come un fantoccio nelle
mani del re Galantuomo:
Il nome di Garibaldi lo turbò un
poco. Quell’avventuriero tutto
capelli e barba era un mazziniano
puro. Avrebbe combinato dei guai.
«Ma se il Galantuomo lo ha fatto
venire quaggiù vuol dire che è
sicuro di lui. Lo imbriglieranno»94.
E Tancredi tornerà col tricolore, come
ha promesso, e con la sua gloriosa
ferita da combattimento; millanterà
confidenze di Garibaldi, di Rosolino
Pilo, di Crispi, racconterà eroiche
gesta e bravate garibaldine. Ma dopo
Teano sarà ben pronto a gettare alle
ortiche la camicia rossa per il
doppiopetto blu dei lancieri, ancorchè
degradato da capitano a tenente, fiero
di essere un ufficiale dell’esercito
regolare di «sua maestà il re di
Sardegna e d’Italia fra poco», e non
più un «rubagalline»95.
Il mito di Garibaldi rimane sullo
sfondo del Gattopardo, ma è il
“garibaldinismo” a tramontare, visto
come il frutto corrotto di una
strumentalizzazione politica di cui lo
stesso Garibaldi è vittima e vuole
liberarsi.
È questa la lettura gattopardiana di
Aspromonte, il secondo importante
fatto storico del romanzo e quello che
perentoriamente chiude l’equivoco
della rivoluzione garibaldina. Nella
famosa serata del ballo a Palazzo
Ponteleone (Parte sesta, novembre
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Il Tempietto
1862), entra in scena, «fra un tintinnìo
di pendagli, catenelle, speroni e
decorazioni, nella ben imbottita divisa
a doppiopetto, cappello piumato sotto
il braccio, sciabola ricurva poggiata
sul polso sinistro», il colonnello
Pallavicino, quello che coi suoi
bersaglieri aveva fermato Garibaldi
sull’altopiano calabrese il 29 agosto
1862. Assediato da belle signore che
vogliono sapere com’era il Generale
ferito, e cosa fece e cosa realmente
disse sotto quel grande castagno, il
colonnello lo descrive «bello e sereno
come un Arcangelo» (il mito dell’eroe
trionfa ancor più forte nella
sconfitta)96. Ma, fuori di ogni
mistificazione retorica, Aspromonte
rappresenta la salvezza di quel
«compromesso faticosamente raggiunto
fra vecchio e nuovo stato di cose»97, e
ben altra spiegazione politica è data in
separata sede dal colonnello a don
Fabrizio che gli rimprovera appunto di
«avere un po’ esagerato in baciamani,
scappellate e complimenti». Se non
avesse ordinato di sparare sarebbe
successo «un putiferio senza
precedenti nel quale sarebbe crollato
questo Regno d’Italia che si è formato
per miracolo, vale a dire non si
capisce come»; ma quella brevissima
sparatoria «ha giovato soprattutto a
Garibaldi, lo ha liberato da quella
congrega che gli si era attaccata
addosso, da tutti quegli individui tipo
Zambianchi che si servivano di lui per
chissà quali fini», di lui che in fondo
non era che «un bambino con barba e
rughe, ma un ragazzo lo stesso,
avventato e ingenuo» che bisognava
proteggere98.
Nel disilluso cinismo di quest’uomo
d’ordine, «umile servo» della nuova
Italia, anche il quadro della raggiunta
unità appare incrinato e si prospetta
un futuro pieno d’angosce, dove la
controrivoluzione dell’apparato statale
dovrà sempre vigilare sull’insorgere di
nuove camicie rosse o «di diverso
colore», perchè non si sa come andrà a
finire:
Mai siamo stati tanto divisi come
da quando siamo uniti. Torino non
vuol cessare di essere la capitale,
Milano trova la nostra
amministrazione inferiore a quella
austriaca, Firenze ha paura che le
portino via le opere d’arte, Napoli
piange per le industrie che perde, e
qui, in Sicilia sta covando qualche
grosso, irrazionale guaio… Per il
momento, per merito del vostro
umile servo, delle camicie rosse
non si parla più, ma se ne
riparlerà. Quando saranno
scomparse queste ne verranno altre
di diverso colore; e poi di nuovo
rosse. E come andrà a finire?99
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Il Tempietto
Note
* Rielaborazione della conferenza tenuta il
27 novembre 2007 nella Sala del Minor
Consiglio di Palazzo Ducale di Genova,
nell’ambito delle attività per il bicentenario
della nascita collaterali alla mostra
Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso,
Genova, Palazzo Ducale, 17 novembre
2007-2 marzo 2008. La conferenza ha
tenuto conto del percorso cronologico della
mostra, dai capolavori ottocenteschi alla
Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio di
Guttuso del 1955 (cfr. il catalogo a cura di
F. Mazzocca e A. Villari, con la
collaborazione di S. Regonelli, Firenze,
Giunti, 2007). Questo testo è stato
pubblicato nella «Rassegna della
letteratura italiana», CXII, 208, 1, pp. 1433 [si ringrazia la direzione per averne
concesso la ristampa].
1 Cfr. F. Dall’Ongaro, Garibaldi in Sicilia, in
Poeti minori dell’Ottocento, a cura di L.
Baldacci e G. Innamorati, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1963, to. II, pp. 1102-1104,
spec. p. 1102..
2 Ivi, p. 1104.
3 Per un quadro riassuntivo e relativa
bibliografia della poesia patriottica
ottocentesca, mi permetto di rinviare a Q.
Marini, I poeti della passione patria: A.
Poerio, P. Giannone, G. Mameli, L.
Mercantini, F. Dall’Ongaro e altri, in Storia
della Letteratura Italiana, diretta da E.
Malato, VII, Il primo Ottocento, Roma,
Salerno Editrice, 1998, pp. 860-867. Cfr.
inoltre il più recente volumetto Poeti del
Risorgimento, a cura di V. Marucci, Roma,
Salerno Editrice, 2001. Sono ovviamente
ancora utili le vecchie introduzioni alle
sezioni dei Poeti minori dell’Ottocento
curati da L. Baldacci, cit., pp. IX-XXV, da
E. Janni (Milano, Rizzoli, 1955, to. II), da
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G. Petronio (Torino, Utet, 1959, pp. 9-56),
da C. Muscetta (Poesia dell’Ottocento, a c.
di C. Muscetta e E. Sormani, Torino,
Einaudi, 1968, vol. I, pp. VII-XXVI).
G. Garibaldi, Prefazione ai miei romanzi
storici, in Id., Cantoni il volontario.
Romanzo storico, Prefazione di G.
Spadolini, Trento, Reverdito, 1988, p. 17.
Sulle opere letterarie di Garibaldi,
fondamentale il saggio di M.
Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, in La
letteratura ligure. L’Ottocento, Genova,
Costa & Nolan, 1990, pp. 215-231 (e
relativa bibliografia sull’argomento alle pp.
556-557).
Le Memorie di Garibaldi in una delle
redazioni anteriori alla definitiva del 1872,
a cura della Reale Commissione, Bologna,
L. Cappelli Editore, 1932, pp. 5-150 (la
prima scoperta della natura selvaggia delle
Pampas, con i suoi bellisisimi stalloni allo
stato brado, è nel cap. VII, pp. 16-17).
M. Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, cit.,
p. 217.
Cfr. B. Marchelli, Da Quarto a Palermo.
Memorie di uno dei Mille, a cura di E.
Costa e L. Morabito, Savona, Sabatelli,
1985, Nota biografica, pp. 15-27, e pp. 3941. L’episodio è raccontato con vivaci
colori anche da Giuseppe Bandi, che ben
conosceva quel «giocoliere di bussolotti»
(cfr. G. Bandi, I Mille, introduzione storica
e note di L. Russo, Messina-Firenze, G.
D’Anna, 1960, pp. 140-142).
Ivi, p. 45.
Ivi, p. 71.
Ibidem.
Ivi, p. 89.
Ivi, p. 73.
Ivi, p. 79.
A queste classiche antologie (Scrittori
garibaldini, a cura di G. Stuparich, Milano,
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Garzanti, 1948, Antologia di scrittori
garibaldini, a cura di G. Mariani, Bologna,
Cappelli, 1960) ne vanno senz’altro
aggiunte altre, come Pagine garibaldine, a
cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi,
1960, Scrittori garibaldini dell’Ottocento, a
cura di G. Trombatore, Torino, Einaudi,
1979 (già nei Memorialisti dell’Ottocento
della Ricciardi, 1953), Antologia di
scrittori garibaldini, a cura di P. Ruffilli,
Milano, Mondadori, 1996.
Al profilo di Anita scritto nel 1850 e
pubblicato in appendice alle Memorie di
Garibaldi in una delle redazioni anteriori
alla definitiva del 1872, cit., pp. 362-378,
vanno aggiunti i tanti passi in cui Anita è
protagonista e in particolare il racconto
dell’avventurosa fuga da Roma e della
morte alle Mandriole di Comacchio nel cap.
IX del Secondo periodo (ivi, pp. 200-210 e
nelle Memorie di Garibaldi nella redazione
definitiva del 1872, a cura della Reale
Commissione, Bologna, L. Cappelli Editore,
1932, pp. 297-312). Tra i profili
ottocenteschi di Anita spiccano quello del
Guerzoni, nel primo dei due volumi
dedicati a Garibaldi (Firenze, 1882) e
quello del Bandi in un libretto monografico
(Livorno, 1889). Molto suggestiva la sezione
della mostra dedicata alla “Fuga e morte di
Anita” con quadri noti, come quello di
Pietro Bouvier, ma anche meno noti, come
quelli di Giuseppe Sciuti e di Fabio Fabbi
(cfr. Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso,
cit., pp. 66-69 e pp. 157-159).
Cfr. Campagna di Aspromonte e Appendice
I, Aspromonte, in Memorie di Garibaldi
nella redazione definitiva del 1872, cit., pp.
491-499 e pp. 601-614.
G. Bandi, I Mille, cit., pp. 22-23, 47-53,
62-63.
Si è seguito l’ordine dell’Antologia di
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scrittori garibaldini di Gaetano Mariani,
cit., da cui sono tratte le ultime battute di
G. del Greco, Ricordi di un garibaldino, pp.
343-349.
G. Bandi, I Mille, cit., p. 199.
Il titolo originale del diario di Dumas era
Les garibaldiens. Rèvolution de Sicile et de
Naples (1861). Qui si è usata la traduzione
di Antonello Trombadori: A. Dumas, I
garibaldini, a cura di A. Trombadori, Roma,
Editori Riuniti, 19963. Lasciando Palermo
per liberare il resto del regno, Garibaldi
aveva chiesto a Dumas una dedica su una
fotografia e il romanziere francese scriveva:
«Mio caro generale, evitate i pugnali
napoletani, diventate capo d’una
repubblica, morite povero come avete
vissuto, e sarete più grande di Washington
e di Cincinnato» (ivi, p. 116). Nel 1862
Dumas raccolse i suoi resoconti su
Garibaldi in un unico corpus, ora anche in
ediz. italiana col titolo di Viva Garibaldi.
Un’odissea nel 1860, testo critico di C.
Schopp, a cura di G. Pécout e M. Botto,
Torino, Einaudi, 2004.
Ivi, p. 121.
Ivi, pp. 229-233.
Cfr. L. Russo, La letteratura garibaldina,
introduz. a G. Bandi, I Mille, cit., pp. 5-18,
spec. p. 5. Il Russo, che critica qui
l’«attitudine poetica e mistica» di Abba,
era tornato a scrivere su Abba e la
letteratura garibaldina in Scrittori-poeti e
scrittori-letterati, Bari, Laterza, 1945, pp.
203-341, anche in polemica con la severa
posizione presa da Benedetto Croce in un
saggio sulla Letteratura garibaldina uscito
sulla «Critica» del 1940 e poi nel vol. VI
della Letteratura della Nuova Italia, Bari,
Laterza, 1940 (su cui cfr. l’equilibrato
giudizio di S. Romagnoli, Le Noterelle
d’uno dei Mille, in Id., Manzoni e i suoi
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Il Tempietto
colleghi, Firenze, Sansoni Editore, 1984,
pp. 329-346).
24 G. Bandini, Come nacquero le ’Noterelle’
dell’Abba, in G.C. Abba, Maggio 1860.
Pagine di un ’Taccuino’ inedito, a cura di G.
Bandini, Milano, Mondadori, 1933, pp. 63150. Il poemetto Arrigo. Da Quarto al
Volturno. Cinque canti (Pisa, Nistri, 1866) fu
pubblicato «a malincuore, prima di partire
per la guerra del ’66 […] e soltanto perché
rimanesse qualcosa di me se fossi morto
nella vicina guerra». Su Abba, oltre alla
vecchia monografia di L. Cattanei, Giuseppe
Cesare Abba. Formazione di un
memorialista, Bologna, Cappelli, 1973, e il
profilo di E. Villa nel cap. Narrativa
postunitaria, in La letteratura ligure.
L’Ottocento, cit., pp. 310-324 (bibliografia a
p. 564), cfr. i volumi dell’Edizione
Nazionale, in particolare gli Scritti
garibaldini, vol. I, Brescia, Morcelliana,
1983, che contiene il Commentario sulla
rivoluzione di Sicilia (a cra di C. Scarpati), il
poema Arrigo. Da Quarto al Volturno (a cura
di L. Cattanei) e Da Quarto al Volturno.
Noterelle d’uno dei Mille (a cura di E. Elli).
Nel volume sono molto importanti le
introduzioni di L. Cattanei, Storia
dell’«Arrigo», pp. 3-38, e di C. Scarpati,
Storia delle «Noterelle», pp. 39-84.
25 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno.
Noterelle d’uno dei Mille, a cura di E. Elli,
in Id., Scritti garibaldini, vol. I, cit., p. 311:
«Mi si era fitto in mente che questo
capitano del Lombardo fosse un francese.
L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo
mostrano uomo che in sé ne ha per dieci. A
capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul
castello come schiacciasse un nemico.
L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa
far tutto da sé. Fosse in mezzo all’oceano,
abbandonato su questa nave, lui solo,
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basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia
come una sciabolata; se aggrotta le ciglia,
ognuno cerca di farsi piccino; visto di
fronte non si regge il suo sguardo. Eppure,
a tratti, gli si esprime in faccia una grande
bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo
Nino? Bixio! Ecco il nome che gli sta!
Almeno rende qualcosa come un guizzo di
folgore».
Ivi, p. 307.
Ivi, p. 317.
Ivi, p. 326-327.
Ivi, p. 326.
Ivi, p. 333.
Ivi, p. 326.
Ivi, pp. 355 e 365.
Ivi, p. 333.
Ivi, p. 337.
Ivi, p. 384.
Ivi, p. 392.
Ivi, pp. 351-352.
Ivi, p. 432: «Grande, immensa, varia da
perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio della
miseria. Non vidi mai sudiciume portato in
mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri
poveri; c’è qualcosa che dà al cervello
come a traversare un palude. La gente vi
brulica, bisogna farsi piccini per passare, e
si vien via assordati. Ma su tutte quelle
faccie si vede l’effusione di un’anima che si
è destata e aspetta… Chi sa cosa vogliono,
cosa sperano, chi sa?».
Ivi, p. 392.
Ivi, p. 453.
Ivi, p. 454.
Ivi, p. 457.
Ivi, p. 386. Il ritratto di Nievo apre la
giornata del 16 giugno, ma era già stato
anticipato in una fugace notizia l’8 maggio
(«ho inteso parlare d’un poeta gentile che
canterà le nostre battaglie. Si chiama
Ippolito Nievo», ivi, p. 314) e poi in una
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scena più ampia, su «una carrozza mezzo
sconquassata, che ci viene dietro menando
l’Intendenza» (ivi, p. 345).
I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, a
cura di S. Romagnoli, Venezia, Marsilio,
2000, pp. 893-897. Com’è noto, il
manoscritto del romanzo, finito nelle mani
di Erminia Fuà Fusinato, per la stampa fu
affidato alle cure del letterato garibaldino
Eugenio Checchi.
I. Nievo, Lettere garibaldine, a cura di A.
Ciceri, Torino, Einaudi, 1961, p. 10.
Queste lettere sono state recentemente
integrate da A. Nozzoli, Nievo 1860: sulle
lettere a Romeo Bozzetti, in Ippolito Nievo
tra letteratura e storia, Atti della Giornata
di Studi in memoria di S. Romagnoli,
Firenze, 14 novembre 2002, a cura di S.
Casini, E. Ghidetti e R. Turchi, Roma,
Bulzoni, 2004, pp. 59-74.
Cfr. i due documenti in Appendice a I.
Nievo, Lettere garibaldine, cit., pp. 147182.
Ivi, p. 4.
Ivi, p. 10.
Ivi, p. 22.
Ivi, p. 37.
Ivi, p. 75.
Ivi, p. 116.
Ivi, pp. 126-127.
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 20.
Ivi, p. 50.
Ivi, pp. 71-72.
Ivi, pp. 90- 91.
Ivi, p. 114.
Ivi, p. 115.
Ivi, pp. 115 e 114.
Le sconfitte di Aspromonte e di Mentana,
registrate nelle Memorie di Garibaldi nella
redazione definitiva del 1872, cit., pp. 491499, 541-552, 601-614, hanno costituito
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una delle più suggestive sezioni della
mostra, con quadri di potente drammaticità
di Gerolamo Induno (La discesa di
Aspromonte, 1863), Giuseppe de Nigris
(Les merveilles du chassepot, 1870),
Onorato Carlandi (Ritorno da Mentana,
1872) e Archimede Tanzi (Ritirata di
Mentana, 1884). Cfr. Le grandi sconfitte.
Aspromonte e Mentana, in Garibaldi. Il
mito. Da Lega a Guttuso, cit., pp. 106-121
e 207-212.
A. G. Barrili, Con Garibaldi alle porte di
Roma (1895), in Romanzi e racconti
dell’Ottocento italiano. Barrili, a cura di A.
Varaldo, Milano, Garzanti, 1947, pp. 611736, spec. p. 731. Il Barrili, che si poteva
gloriare di esser stato ferito a Mentana e di
aver fatto scudo col suo corpo al Generale,
aveva raccontato i fatti nel 1868 in ventun
puntate sul “Telegrafo del Mattino” con il
titolo Alla volta di Roma. Note di un
volontario, approntandone poi una ristampa
col nuovo titolo per il XXV anniversario di
Roma capitale (Milano, Treves, 1895). A
lavoro già in stampa è uscita una moderna
edizione a c. di F. De Nicola, note di V.
Gueglio, Sestri Levante, Gammarò Editori,
2007.
Ibidem.
A.G. Barrili, Commemorazione di Garibaldi
(15 giugno 1882), in Romanzi e racconti
dell’Ottocento italiano. Barrili, cit. pp. 753754.
Si pensi soltanto all’insediamento della
Commissione per l’Edizione Nazionale
degli scritti di Garibaldi voluta da Benito
Mussolini nel 1932, che raccomandava di
«dare degli scritti di Garibaldi, e non su
Garibaldi» (Cfr. Prefazione alle Memorie di
Garibaldi in una delle redazioni anteriori
alla definitiva del 1872, cit., pp. IX-XX,
spec. p. XX) e si pensi al mito di Garibaldi
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durante la Resistenza (le “Brigate
Garibaldi” legate prevalentemente al P.C.I)
e nel dopoguerra, per cui cfr. almeno il
classico C. Pavone, Una guerra civile.
Saggio storico sulla moralità della
Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri,
1991, con relativa bibliografia.
Cfr., anche per la bibliografia, le voci
Carducci Giosue, Pascoli Giovanni e
D’Annunzio Gabriele (la prima e la terza di
Mario Isnenghi, la seconda di chi scrive) in
corso di stampa nel Dizionario delle
interpretazioni di Garibaldi, a cura di L.
Rossi, Roma, Gangemi.
G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, cit., pp.
137-138.
G. Verga, Libertà, in Id., Tutte le novelle, a
cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori,
1981, vol. I, p. 325.
F. De Roberto, I Vicerè, in Id., Romanzi,
novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani,
Milano, Mondadori, 20042, p. 864.
Ivi, p. 649.
Ivi, p. 655.
Ivi, p. 696.
Ivi, p. 697.
Ivi, pp. 827-830 e pp. 888-891.
Ivi, p. 756.
Ivi, p. 849: «Questi [il Duca d’Oragua], che
ormai non andava più alla capitale,
consacrava tutto il suo tempo ai proprii
affari, badava alle cose di campagna,
migliorava le proprietà comperate dalla
manomorta, speculava sugli appalti, si
giovava del suo credito presso le
amministrazioni pubbliche per rifarsi di
quel che gli costava la rivoluzione».
Ivi, p. 918.
Ivi, pp. 920-921.
Ivi, p. 999: «L’ideale della democrazia è
aristocratico… Che cosa vuole infatti la
democrazia? Che tutti gli uomini siano
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eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nella
povertà e nella soggezione? Eguali nelle
dovizie, nella forza, nella potenza…».
Ivi, p. 1078.
Ivi, p. 1091.
Ivi, p.1083.
Ivi, p. 1100. Sul tema, oltre all’introduzione
di C. Madrignani (ivi, pp. ix-lxvii, spec. pp.
xxviii-xliv), cfr. l’intervento di A. Stussi, La
storia come monotona ripetizione nei
«Vicerè», in «Le donne, i cavalier, l’arme,
gli amori». Poema e romanzo: la narrativa
lunga in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia,
Marsilio, 2001, pp. 287-299.
L. Pirandello, Sole e ombra, in Id., Novelle
per una anno, a cura di M. Costanzo,
Milano, A. Mondadori, 1985, vol. I, t. I, pp.
491-506.
Id., Notizie del mondo, ivi, pp. 784-815,
spec. p. 786.
Id., Lontano, ivi, vol. I, t. II, pp. 921-973,
spec. p. 923.
Id., Le medaglie, ivi, vol. I, t. II, pp. 865839, spec. p. 886.
Da una lettera del 22 febbraio 1910
riprodotta tra i documenti inediti della lite
Carabba contro Pirandello nell’Appendice I
di L. Pirandello, Epistolario familiare
giovanile (1886-1898), a c. di E.
Providenti, Firenze, Le Monnier, 1986, pp.
81-82, spec. p. 81.
L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di
A. Nozzoli, Milano, Mondadori, 1992, p.86.
Ivi, pp. 272-273.
Ivi, p. 515: «Rimosso, quel cadavere
mostrò sul petto insanguinato quattro
medaglie. I tre, allora, rimasero a guardarsi
negli occhi, stupiti e sgomenti. Chi avevano
ucciso?».
G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in
Id., Opere, a cura di G. Lanza Tomasi,
Milano, Mondadori, 1995, p. 39.
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Il Tempietto
94 Ivi, p. 56.
95 Ivi, pp. 144-145. L’epiteto diffamante dei
garibaldini è messo in bocca al conte
Cavriaghi, compagno d’armi di Tancredi,
mentre giustifica a don Fabrizio il
passaggio a un «esercito vero»: «Mamma
mia che gentaglia! Uomini da colpi di
mano, buoni a sparacchiare, e basta!
Adesso siamo fra persone come si deve,
siamo ufficiali sul serio, insomma […] la
gente non ha più paura che rubiamo le
galline, ora».
96 Ivi, p. 204.
97 Ivi, pp. 202-203. È proprio dall’annuncio del
principe di Ponteleone sull’invitato d’onore
«colonnello Pallavicino, quello che si è
condotto così bene ad Aspromonte», che si
ricava una sottile riflessione politica:
«Questa frase del principe di Ponteleone
sembrava semplice ma non lo era. In
superficie era una constatazione priva di
senso politico tendente solo ad elogiare il
tatto, la delicatezza, la commozione, la
tenerezza quasi, con la quale una pallottola
era stata cacciata nel piede del Generale; ed
anche le scappellate, inginocchiamenti e
baciamani che la avevano accompagnata,
rivolti al ferito Eroe giacente sotto un
castagno del monte calabrese e che sorrideva
anche lui, di commozione e non già per
ironia come gli sarebbe stato lecito (perché
Garibaldi ahimè! era sprovvisto di
umorismo). In uno strato intermedio della
psiche principesca la frase aveva un
significato tecnico e intendeva elogiare il
colonnello per aver ben preso le proprie
disposizioni, schierato opportunamente i suoi
battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo
stesso avversario ciò che a Calatafimi era
tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In
fondo al cuore del Principe, poi, il
Colonnello si era “condotto bene” perché era
riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e
catturare Garibaldi e ciò facendo aveva
salvato il compromesso faticosamente
raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose».
98 Ivi, p. 219.
99 Ivi, pp. 220-221.
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Viva Garibaldi!