n.0 2 The Godfather Friedrich Dürrenmatt di JACOPO CIRILLO F riedrich Dürrenmatt, famoso per i suoi Fisici, ha scritto molti racconti nella sua vita. Alcuni sono di 10 righe, altri di 60 pagine. I più intelligenti, i più memorabili, sono quelli corti. Corti ad un livello per cui stiamo a contare le parole, più che le pagine di troppo. Un banchiere fallito arriva per sbaglio in una cittadina sperduta in Svizzera, chiama un taxi e il tassista lo lascia in mezzo a una piazza con una bomba innescata in mano. E scappa via. Il racconto è aperto, nel senso che non finisce. E questa sua germinalità, così opposta agli sbrodolamenti di un Tolkien, per esempio, lo rende incredibilmente affascinante. Da un lato perché usa l’inferenza, cioè quel meccanismo per cui il testo ti fa intendere certe cose senza dirle. Presentando il protagonista come un banchiere fallito, si capisce immediatamente che non ha soldi per pagarsi l’albergo, anche se non c’è scritto da nessuna parte. Tutti hanno capito che il tassista è un attentatore, anche se Dürrenmatt si guarda bene dal giudicarlo. Dall’altro lato, è affascinante perché procede per abduzione, cioè fa ragionare su ipotesi probabili di effetti derivanti da una certa causa. Ipotesi probabili, non logicamente conseguenti. Permette a ogni lettore di finirsi il racconto da solo. Perché il povero banchiere butterà la bomba da qualche parte. E ciò che verrà distrutto potrebbe anche non essere il bersaglio del terrorista. Però il terrorista avrebbe dovuto prevedere questa casualità. Se l’avesse fatto apposta allora? E il banchiere, poi, si sentirà in colpa? In fondo si è salvato la vita. Non è lui il vero attentatore, fatto sta che comunque ha buttato lui la bomba e ha “scelto” lui l’obbiettivo. Che fare? Andare alla polizia? Ci crederanno? E come pagare l’albergo? E se lo arrestassero per morosità e lui, alle strette, confessasse? In poche righe è racchiuso un intero mondo di possibilità, mondo che nel lusso delle tante pagine è precluso perché già raccontato. Ma la letteratura si fonda sul non-detto, sulla cooperazione con il lettore. Sulla lettura creativa. 3 Sommario Versus Il Labirinto La citazione del mese Recensione/1 Recensione/2 Letterature Involontarie L'Intervista L'angolo del cinematografo Recensione/3 Recensione/4 Charlie VS Proust Iperboloser Graffetta Recensione/5 5 6 7 8 9 10 12 13 14 15 15 17 18 18 Recensione/6 Pillole di Scienza I ferri del mestiere Recensione/7 Recensione/8 Chi ero? La posta dei lettori Graphic Novel Recensione/9 Recensione/10 Recensione/11 Felinomachia How i met your cat Contributi da Editoriale 19 20 21 22 22 23 24 26 27 27 28 29 31 33 Le idee buone sono sempre brevi. E innumerevoli. Ogni libro, reale o inesistente, le porta con sé. L’impegno di queste pagine, e di quelle future, sarà di parlare di libri attraverso le loro idee: brevi, diagonali, alla svelta. Sarà di non entrare in nessun libro ma circolare in tutti. Non diluiremo intelligenze in sbrodolamenti, non nasconderemo ingegni con sinossi. J orge Luis Borges ha scritto un libro, Finzioni, che dà il titolo a questa rivista. Finzioni parla di biblioteche impossibili, personaggi straordinari e libri mai scritti. Lo fa bene. E lo fa alla svelta. Consideriamo i libri come oggetti culturali costantemente in relazione tra loro in un sistema interdefinito di libri e di discorsi attorno a essi, da cui acquistano valore e identità. Per questo vogliamo essere lettori, non scrittori. Crediamo che la lettura sia un atto creativo e, semplicemente, la trascriviamo. Borges pensava che una buona idea richiedesse uno spazio minimo per essere articolata e uno spazio infinito per le sue ramificazioni. Per questo ha recensito libri immaginari, lamentando che“delirio faticoso e avvilente [fosse] quello del compilatore di grossi libri, del dispiegatore in cinquecento pagine d’un concetto la cui perfetta esposizione orale [si] capirebbe in pochi minuti! Meglio fingere che questi libri esistano già e presentarne un riassunto”. “Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte; il mio orgoglio sta in quelle che ho lette”. Jorge Luis Borges e tutta la redazione. 4 L e braci di Sandor Marai (Adelphi 1998, 172 pagine, 10 euro) è piaciuto a tutti. Ed è facile capire il perché. Due vecchi amici, tanto diversi all’apparenza quanto uniti nello spirito, cresciuti insieme imparando l’uno dall’altro la virilità, la sensibilità e lo stare al mondo, si rincontrano nel castello del primo dopo quarantun anni di lontananza; entrambi hanno vissuto così a lungo solo per questo momento. Si erano conosciuti da fanciulli, in un collegio per giovani ufficiali ed erano diventati subito inseparabili: dopo una ventennale amicizia, in un giorno terribile, uno dei due, inspiegabilmente sparisce, lasciando dietro di sé dubbi, rimorsi e rabbia, salvo tornare improvvisamente così tanti anni dopo per il confronto. Per soffiare sulle sopite braci. Nell’austera sala da pranzo del castello reso grande dalla sua imponenza, dai suoi enormi saloni vuoti e dall’eco che risuona nelle cantine, i due amici si riuniscono, ricordano insieme tutti i particolari dell’ultimo loro incontro, proprio in quella stanza di cui ricordano tutti i particolari, e iniziano un dialogo che dura praticamente tutto il libro. Dialogo vibrante di passione, arricchito da perle di saggezza e mature consapevolezze sulla vita di due vecchi giunti al lumicino con una dignità d’altri tempi. Henrik, nobile schiatta e fedele soldato, è sempre rimasto fedele all’esercito e adesso, dopo la morte della moglie, conduce una vita ritirata e dignitosa, mentre Konrad, di umili origini e di sensibilità artistica, ha vissuto ai Tropici dopo la sua fuga e per tutta la sua assenza, tra rimorsi, rimpianti e umili lavori. Ora, è risaputo che scrivere dialoghi realistici sia una delle cose più difficili del mestiere, perché bisogna bilanciare l’incoerenza e la sconclusionatezza delle interazioni quotidiane con l’esposizione piana e organica propria di un libro. Sandor Marai rende perfettamente questo delicato bilanciamento: Henrik ce l’ha con il suo amico perché lo ha abbandonato all’improvviso, perché durante l’ultima battuta di caccia insieme ha avuto terribili e fondati sospetti, perché non ha saputo amare la sua defunta moglie abbastanza, anche per colpa di Konrad. Una rabbia che sale insieme alla tensione, battuta dopo battuta, in un vertiginoso monologo nel quale Henrik dimostra di possedere un rigore verbale e una ferrea capacità logica (senza contare la prestanza fisica nel parlare quasi tre ore) che chiaramente lo pongono a simulacro dell’autore, la cui vita futura rassomiglierà sinistramente a quella del suo personaggio. Forse questa è l’unica cosa più incredibile del giusto successo del libro. Versus Le Braci di JACOPO CIRILLO L e braci di Sandor Marai (Adelphi 1998, 172 pagine, 10 euro) è piaciuto a tutti. E non riesco a capire perché. Due vecchi amici e commilitoni, uno ricco e l’altro povero, uno virile e l’altro sensibile, uno inserito e l’altro disadattato e altre dicotomie dello stesso grado di banalità, si rincontrano nel castello del primo dopo quarantun anni di lontananza, apparentemente senza una buona ragione. Si erano conosciuti da fanciulli, in un collegio per giovani ufficiali ed erano diventati subito inseparabili; dopo una ventennale amicizia, un bel giorno, quello povero ma sensibile sparisce, salvo ritornare anta anni 5 dopo per il confronto. Per soffiare sulle sopite braci. Nell’austera sala da pranzo del castello più stereotipato di Ungheria, della quale entrambi ricordano tutti i particolari del loro ultimo incontro (yawn), inizia un dialogo che dura praticamente tutto il libro. Dialogo ammorbato di retorica, punteggiato da banalità sulla vita e l’amicizia maschile e diluito con lunghissime digressioni di ogni tipo, continuamente ripetute senza neanche curarsi di usare termini equipollenti a ogni reiterazione. Henrik, nobile schiatta e fedele soldato, è rimasto nell’esercito e adesso, dopo la morte della moglie, conduce una vita ritirata e dignitosa, da vero austroungarico, mentre Konrad, umili origini e velleità d’artista, ha vissuto ai Tropici dopo la sua fuga e per tutta la sua assenza, tra rimorsi, rimpianti e umili lavori. Ora, è risaputo che scrivere dialoghi realistici sia una delle cose più difficili del mestiere, perché bisogna bilanciare l’incoerenza e la sconclusionatezza delle interazioni quotidiane con l’esposizione piana e organica propria di un libro. Se si trascrivesse una vera conversazione sentita per strada o al bar, questa sarebbe illeggibile. Sandor Marai però, che immagino uomo noiosissimo, fa parlare il suo personaggio come un attore che recita una piéce un po’ troppo pretenziosa per il teatro popolare in cui si sta esibendo. Leggendo un dialogo si sincronizza quasi perfettamente il tempo reale di lettura con il tempo finzionale del discorso, di modo che se impiego tre ore a leggere la loro conversazione, in un mondo possibile in cui si è veramente svolta sarà durata all’incirca lo stesso tempo. Il vecchio e sclerotico generale Henrik (ce l’ha col suo amico di una vita praticamente senza nessun motivo o prova concreta se non la • senilità galoppante) dimostra allora di possedere il rigore verbale, la ferrea capacità logica e la prestanza fisica necessarie per sostenere una conversazione di svariate ore senza un cedimento, un refuso, un colpo di tosse. Un bicchier d’acqua. Forse questa è l’unica cosa più incredibile dell’acclamato successo del libro. A possibile l’arrivo del viaggiatore al centro (un po’ l’inverso di tutto ciò che si trova fuori dal giardino stesso, ovvero la Parigi dei grandi boulevard di Haussman, costruiti nello stesso periodo e che portano nel minor tempo possibile a destinazione). In secondo luogo, l’arrivo al centro consiste in un’elevazione o, meglio, in un passaggio di grado. La spirale sale fino alla cima della collinetta e, una volta al centro, ecco il segreto del labirinto, o ciò che esso permette di guardare dal comodo chiosco che vi è stato costruito: il labirinto stesso. Calvino disse che non esiste labirinto per chi l’ha attraversato. Dall’alto l Jardin des Plantes, giardino botanico di Parigi, si trova un curioso tipo di labirinto. E’ facile notare lo spaesamento nei bimbi, che frequentano in massa il luogo. Non ci si perde nel labirinto del Jardin des Plantes. Si tratta di una spirale che dall’esterno porta al centro seguendo un unico tragitto e coprendo tutta la superficie disponibile. Si sviluppa su una piccola collina, la butte Coypeau, e il centro ne è il punto più alto. Un chiosco in metallo decora la sommità permettendo di MATTEO TRELEANI ai visitatori di osservare il giardino e il percorso che lo possediamo, ne vediamo la struthanno fatto. Datata 1786, tre anni tura e la mappa. Allo stesso modo, prima della rivoluzione, si dice sia Dedalo, l’ingegnoso architetto che addirittura la più antica struttura in Minosse getterà nella sua stessa metallo di Parigi. Quell’unico tragitopera dopo l’uccisione del Minotauto lascia perplesso chi lo visita, pronro, per uscire dal labirinto scopre la to a perdersi in un dedalo di siepi, al terza dimensione. Volando, con le ali punto che qualcuno ha ben pensato fatte di piume tenute insieme con la di scavare dei percorsi secondari, col cera, trova l’unico modo per uscire chiaro intento di rendere il cammino da un garbuglio inestricabile: scopre più complesso. la dimensione che lo trascende, effettuando un passaggio di livello che Un’innocua passeggiata al giardiconsente di osservare il sistema da no botanico insidia allora molti dubun’altra prospettiva. Vederlo, in una bi nella nostra concezione di quella parola, e dunque possederlo. Solo figura archetipica che è il labirinto. uscendo dal labirinto volando, DeAlmeno due caratteri si rivelano inudalo può, per la prima volta vedere suali. Contrariamente al pensiero nella sua globalità la struttura che lui comune, il tragitto è unicursale. Lo stesso aveva costruito. scopo pare quello di ritardare il più Si direbbe che per uscire dal labirinto sia necessario un cambio di prospettiva. Il mito ce ne offre svariate di queste intuizioni che qualche psicologo cognitivo chiamerebbe insight. Dal filo di Arianna alla conchiglia di Dedalo. Decisamente meno nota del filo, la storia della conchiglia è quella del concorso bandito da Minosse per ritrovare Dedalo (esiliato in Sicilia dopo la fuga dal labirinto). Il re indice un premio per chi riuscirà a far passare un filo attraverso una conchiglia. Dedalo, incapace di rifiutare la sfida, cosparge le estremità di miele e lega il filo a una formica che fa il resto (furbamente il mito sorvola sul come sia riuscito a legare il filo alla formica). Ecco un altro rimodellamento del punto di vista (e si noti l’assonanza tra i fili, il labirinto e la conchiglia). Anche la formica è un salto di dimensioni: dalla constatazione ovvia del non poter entrare nella conchiglia a quella di farci entrare qualcun altro. Così come il filo di Arianna ribalta l’idea, data per scontata, della perdita, con uno strumento che permette di non perdersi mai, tracciando il percorso dall’esterno. Naturalmente poi, l’idea del filo era di Dedalo. Sui labirinti Il labirinto del Jardin des Plantes e gli insight di Dedalo 6 Il tragitto unicursale e l’insight sottendono la medesima idea, quella del passaggio complesso da uno stato all’altro. Il pensiero del labirinto non è mai diretto, avviene per associazioni indebite e salti di grado. Ma quando si tratta coi labirinti non si deve ragionare in termini di strumenti per risolvere problemi. E non si creda troppo facilmente che un insight basti per uscire dalla sua complicazione. E’ l’eroe di James Joyce, dall’inequivocabile nome di Stephan Dedalus, a ricordarci che il labirinto si ricostituisce senza fine: l’uscita da esso dà su un altro labirinto. U con altri concatenamenti, in rapporto con altri corpi senza organi. Non si domanderà mai quel che un libro vuole dire, significato o significante, non si cercherà niente da capire in un libro. Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare, perfino delle contrade a venire. n libro non ha né oggetto né soggetto, è fatto di materie diversamente formate, di date e di velocità molto differenti. In un libro, come in ogni cosa, ci sono linee di articolazione o di segmentarità, strati, territorialità; ma anche linee di fuga, movimenti di deterritorializzazione e di destratificazione. Non c’è differenza tra ciò di cui un libro parla e la maniera in cui è fatto. Il libro non ha più nemmeno oggetto. In quanto concatenamento, è se stesso solamente in connessione Gilles Deleuze e Felix Guattari. Millepiani. 1980. La citazione del mese Comma 22 C omma 22 fa ridere. E non me lo aspettavo. E’ famoso per il suo titolo che si è catcresizzato, diventando un modo di dire: catch 22 (che io avrei tradotto più volentieri con inghippo 22). Un paradosso. “L'unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia; Chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo”. Questo comma è diventato nel tempo l’emblema dell’antimilitarismo e dell’assurdità dell’esercito degli Stati Uniti che bla bla bla. No, Comma 22 non è un libro. E’ un flusso. Un concatenamento continuo di avvenimenti insignificanti relati tra loro da costanti, designate da nomi propri. Ogni capitolo prende il titolo da un nome che, come diceva Deleuze, “designa qualcosa che è anzitutto dell’ordine dell’evento”. Comma 22 è un concatenamento di eventi, comici, ironici, terribili, senza inizio né fine. E senza senso. Potrebbe iniziare da pagina 50, potrebbe finire a pagina 50. Da qualsiasi punto si inizi a leggere, ci si troverà sempre in medias res. E’ circolare, esattamente come l’idea di Deleuze: il libro non ha oggetto né soggetto, è se stesso solamente in connessione con altri concatenamenti. di JACOPO CIRILLO Ogni personaggio possiede nominalmente un capitolo, si diceva, lo marchia con il proprio nome. Ogni personaggio, e sono talmente tanti che il soprannumero abolisce la loro importanza in quanto singoli, viene presentato nel suo capitolo, come se fosse davvero il suo, di sua proprietà. Come se possedesse un terreno. Questa cosa si capisce meglio nella traduzione italiana, grazie alle note del traduttore. Al soldato Hugry Joe corrisponde una precisazione a piè pagina che lo presenta come “press’a poco Joe Fame”; il capo White Halfoat è “letteralmente Mezzo grano d’avena bianca”. Ecco, solo che questi personaggi erano già comparsi nei capitoli precedenti e compariranno nei successivi (se mai abbia ancora senso parlare di ordine dei capitoli), senza ricevere l’onore di una nota a piè pagina. Questo significa due cose: ogni nome proprio esiste solo in quanto abitante di un territorio, seppur grafico (la presentazione del traduttore, extradiegetico, coincide con la loro esistenza fenomenologica); il libro non significa ma traccia, disegna delle cartine. Delle contrade rette da un nome, dunque da un evento, che le caratterizza e le conferisce senso nel sistema dei capitoli del libro. 7 L’ampiezza narrativa di ogni personaggio non è altro che la misurazione del suo territorio, le azioni non spiegano né dicono ma cartografano. Comma 22 è la metonimia del sistema dei libri deleuziano o, meglio, ne è il frattale. Il frattale è un oggetto geometrico autosimilare che si ripete nella sua struttura su scale differenti, dunque ogni sua parte è uguale al tutto (guardate un abete, o un cavolfiore). Comma 22 funziona come, secondo Deleuze, funzionano i libri in generale. Non ha inizio né fine e svuota di senso queste due nozioni perché è circolare; è fatto di materie diversamente formate, di date e velocità molto differenti perché i personaggi, dunque gli eventi, sono diversi tra loro per quantità e qualità e allo stesso momento esistono solo nelle loro interazioni; non ha niente a che vedere col significare, al contrario misura territori, quando addirittura non li crea. Recensione/1 Il Giovane Holden Viviana Lisanti I l giovane Holden è uno dei romanzi più incompresi e allo stesso tempo abusati di tutti i tempi. Gli holdeniani continuano ad essere vittime inconsce di quell’operazione commerciale che, confezionando Holden come ennesima icona della ribellione giovanile, ha fatto sì che il romanzo diventasse un best-seller in tutto il mondo. I detrattori del romanzo invece partono dall’assunto che la validità dell’opera di Salinger sussista solo in relazione alla portata rivoluzionaria che ebbe sulla società perbenista americana degli anni ‘50 e credono quindi che, ai giorni nostri, l’anticonformismo holdeniano sia ridicolo. Se ci si volesse limitare ad un’interpretazione “politica” del personaggio di Holden, il sedicente rivoluzionario che Salinger ci dipinge apparirebbe ben strano: cancella le scritte volgari dai muri pensando possano offendere la sensibilità dei bambini; si tira indietro con una prostituta; le bevute, più che praticarle le esibisce. Afferma che “certe cose dovrebbero restare come sono, dovreste metterle in una di quelle grandi bacheche di vetro e lasciarcele”, parole che suonano più come una difesa dello status quo che come un incitamento alla rivoluzione. D’altra parte, solo una lettura superficiale può negare l’importanza attuale del libro, fermandosi alla semplice constatazione che un ado- lescente degli anni ’50 esprimeva il proprio disagio in merito a valori che oggi sono totalmente superati. L’approccio all’opera deve quindi partire da basi diverse, esaltando l’aspetto del romanzo che in assoluto concorre a farne un capolavoro del novecento: il linguaggio. Aldilà dell’interesse filologico letterario che può costituire, essendo una trasposizione fedele del college-slang, il gergo usato tra i giovani newyorkesi negli anni ’50, l’idioma di Holden acquista senso in quanto esempio della forza espressiva della parola e del ruolo salvifico che può costituire per chi la pronuncia. L’autore ha creato un linguaggio che si dimostra coerente in ogni singola scelta lessicale e sintattica e che, più di qualsiasi descrizione dettagliata, concorre a fornire l’immagine vivida 8 di un personaggio indimenticabile. Un esempio su tutti è fornito dall’uso del termine “phony” (“fasullo” nella traduzione italiana), una delle parole che più ricorrono nel vocabolario di Holden. Phony sono tutti quei comportamenti che le persone sono tenute ad avere per mantenersi in buoni rapporti con gli altri: “Non faccio che dire piacere di averla conosciuta” a gente che non ho affatto piacere d’aver conosciuta.”. Phonies sono le persone che a teatro si mettono a parlare a voce alta della commedia alla quale hanno appena assistito“in modo da farsi sentire e fare apprezzare a cani e porci quanto erano geniali”; o ancora si sprecano in grandi cerimonie quando incontrano un conoscente per strada: “Avreste dovuto vedere come si salutarono. Da credere che non si vedessero da vent’anni”. Il disgusto verso certi atteggiamenti è interiorizzato a tal punto da Holden che finisce per essere trasposto nel suo modo di parlare. L’intercalare ossessivo con espressioni quali “if you want to know the truth”, “I know what I’m talking about”, “I’m not kidding”, “I really do”; la tendenza a riformulare i concetti con parole diverse ("She likes me a lot. I mean she’s quite fond of me."), o addirittura ripetendo la stessa frase due volte ("He was a very nervous guy- I mean a very nervous guy."), sono frutto della necessità impellente di prendere le distanze da una realtà “schifa” e convincere l’interlocutore della sincerità di quanto sta raccontando, per non essere percepito a propria volta come “phony”. Sembra evidente che, a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, il valore de “Il giovane Holden” vada misurato in altri termini perché, se l’adolescenza è stata spesso indagata nei romanzi e continuerà ad esserlo, solo Salinger è riuscito attraverso la sua scelta stilistica, a catturare in maniera autentica lo spirito di un adolescente. Recensione/2 Una Testa Mozzata Andrea Rinaldi C ’è una cosa da fare prima di recensire questo libro: rendere omaggio al suo traduttore, Massimo Bocchiola. Spesso si tende a dare per scontato o addirittura a ignorare il lavoro di trasformazione e di filtraggio occorso tra la storia che stiamo leggendo nell’edizione italiana e la storia in sé, come è nata nella sua lingua, con tutto il suo background di folklore e slang. Ecco, Bocchiola è stato egregio nel consegnarci la parlata del giovane protagonista scozzese di questo libro, ma la lode forse è superflua per una persona che da dodici anni ci consegna i romanzi di Irvine Welsh, Martin Amis, Jonathan Safran Foer, Nick Hornby, Paul Auster e Charles Bukowski. L’unica nota stonata, la mancanza di note a piè pagina. Quando Irvine Welsh parla di Burberry (descrive un ragazzo “che annega in un mare di Burberry”), usa una metonimia per indicare le gang giovanili scozzesi, che amano vestire con i capi di quel marchio, ma il lettore come fa a saperlo?* Veniamo alla storia. In Una testa mozzata Jason King, ex-fantino e giocatore di Subbuteo, e Jenny Cahill, figlia viziata di una ricca famiglia e appassionata di equitazione, sono due coetanei che vivono a Cowdenbeath, Fife Centrale, Scozia. Le loro giornate sono quelle di due tipici venticinquenni. Lui si barcamena tra il torneo del popolare calcio da tavolo, sussidi, “pinte di oro nero” (leggi Guinness) al Goth pub in compagnia degli amici, abbandoni a fantasie sessuali che al lettore più puritano lo faranno sembrare un pervertito bell’e buono. I capitoli di Jason sono sboccati, a volte poco comprensibili, ma sono i più spassosi, il suo slang ti porta all’immedesimazione, a condividere il suo scazzo, a ridere con lui come faresti con un amico, e insomma se proprio insisti sì dai a farti anche te “una latta” di birra. al potente regno dei Pitti (il re Giacomo I di Scozia lo apostrofò come “un mendicante ammantato d’oro”). Il titolo originale (Kingdom of Fife) allude proprio a questo. Forse Welsh ci dice che tutto il mondo è paese e che la più remota provincia non ha molto da invidiare al Fife. Ci vorrà proprio la “testa mozzata” che dà il nome all’edizione italiana per far fuggire i due ragazzi dalla palude del Fife verso sponde più soleggiate, in tutti i sensi. Non aggiungiamo altro per non rovinare la sorpresa al lettore, se non che ci siamo stancati di sentire Trainspotting agganciato sempre a Irvine Welsh. Dunque aspettiamo con ansia la prossima prova, la crime novel ambientata in Florida “Crime”, già uscita nel Regno Unito lo scorso settembre. Lei invece è annoiata, ascolta Marilyn Manson, l’insoddisfazione per la sua vita (ha rinunciato all’università per cavalcare, ma non è andata come doveva andare) la sballotta come un legno nella corrente da una seduta in palestra, a una cavalcata con il suo (azzoppato) Midnight, alle frivole chiacchiere con l’amica del cuore, ai litigi con il padre. Le pagine del libro sono istantanee dello squallore provinciale scozzese in cui i due ragazzi sono costretti a vivere. Intervallate da alcune situazioni comiche come solo Welsh sa creare, mischiando sesso e stramberie. Una su tutte: il travestimento da bambina a cui si sottopone Jason per scongiurare la sua eliminazione dal torneo di Subbuteo. Attraverso le loro riflessioni sentiamo la noia della pioggia insistente che ti bagna tutto, l’inutilità dell’apertura di un nuovo Costa Coffee, il nulla che spinge gang e giovani del luogo a passatempi efferati, come i combattimenti clandestini fra cani o alle rivalità con altre città, vantando qualità caratteriali appartenute a un fastoso passato che non c’è più. Il Fife è infatti la terza regione più popolosa della Scozia e appartenne 9 * la Burberry ha dovuto ripensare tutta la sua linea d’abbigliamento proprio perché i suoi capi si erano diffusi talmente tra i bulli delle downtown d’oltremanica da diventarne la “divisa ufficiale”. D i sott’al patibolo, ove l’odio e la festa fan grumo comune, è ‘l tracotare di letterature involontarie, ineguale ciarlanza d’arrotini che non si vuole nel letterario in cui pure s’attarda. E così la mia voce inceda: l’incompiuto vi sia d’oggetto, l’insaputo di regola. costa solo 20 dollari. Bottiglia compresa. Un imprecisato spedizioniere calerà da un furgoncino tutto nero e ci consegnerà il fantasma sull’uscio di casa. Firmeremo da qualche parte e saremo lasciati soli: noi, il fantasma in bottiglia, e una serie di documenti ufficiali che attestano l’autenticità che gli impedisce di essere autentico. Non può essere contemporaneamente nostro e autentico. Oppure può esserlo e, se così stanno le cose, abbiamo appena dato vita a un mondo nuovo, nel quale vige la regola del farsi fuori-dentro. Letterature involontarie Fantasmi in bottiglia di EDOARDO LUCATTI A difesa del fantasma, non possiamo levare armi. A difesa del fantasma, non possiamo prendere o perdere tempo, né suggerire vie di fuga. A difesa del fantasma - forse - non c’è proprio niente che si possa fare. La difesa del fantasma è impossibile, perché impossibile ne è l’offesa. Il fantasma non ha luogo, nei due sensi: non si da e non alberga. Le dimore in cui pare-apparire sono rese all’illocale di un’epifania che beffa la loro presenza, traversandone le pareti e gli anni. Il fantasma non entra nell’ambiente, e certamente non si preoccupa di uscirne; si limita a significarne, in assoluto, la vanità. Come salutare, dunque, questi spazzini di bottega, che il fantasma – addirittura – vorrebbero venderlo in pratiche bottiglie? Succede a St. Augustine, Florida, Stati Uniti. Da qui, un punto a caso sulla cartina geografica più brutta del Mondo, l’involontario letterato coemerge alla letterarietà dell’involontario. Il loro reciproco annidarsi, covarsi, e venire alla luce in questa garrula azienducola, la Roland-Deese Productions, il cui fantasma in offerta dell’ectoplasma. Verosimilmente, nella grassa e vischiosa penombra del salotto, passeranno diverse ore prima che una serie di gravi questioni inizino a cinger d’assedio le nostre meningi. Perché 20 dollari? Perché li ho pagati? Per avere un fantasma, si direbbe. Per disporre, cioè, di un essere – o, meglio, di un ek-sistere – il cui proprium risieda nell’attraversare ogni involucro. Ne disponiamo, tuttavia, a mezzo esclusivo di vitreo involucro, nel quale il fantasma medesimo si da per costretto. Lo paghiamo per disporne e, dunque, perché lì sia costretto, ma lo paghiamo anche in quanto fantasma e, dunque, perché lì non sia costretto. I nostri 20 dollari cominciano a litigare fra loro. A che titolo - di grazia – partecipano d’una stessa impresa? Forse in nome d’un ozioso paradosso? Oibò. Il fantasma in bottiglia sfida la nostra pazienza. Affinché sia autentico non può stare nell’involucro che ci permette di possederlo. Affinché lo si possieda deve stare nell’involucro 10 Ora, “farsi fuori” significa uccidersi, ma significa anche prodursi in un altrove ed è probabile, a un qualche livello, che l’una e l’altra accezione possano addirittura convergere: uccidersi è un prodursi nell’altrove più radicale; prodursi in un altrove è morire al proprio dentro. Ma cosa significa farsi fuori-dentro? Essere un fantasma in bottiglia. Esserlo nel senso di esisterlo. Esistere nel senso di ek-sistere: stare nell’uscir fuori, aprirsi dell’ “avvenire – direbbe Derrida – che risale all’imminenza di una nascita”. È il problema di Artaud. “L’ineluttabile non ha ancora cominciato ad esistere” e proprio per questo è ineluttabile: si profila ma non si sfila, non disperde la propria tensione. E così il fantasma: si profila al di là del vetro ma non se ne sfila e, nel suo essere – a un tempo – nostro e autentico, non disperde la propria tensione. La storia traccia i propri gesti, nuota sott’acqua e riemerge a distanza, uguale nella sua diversità. Ogni esodo, ogni uscita radicale, è in rapporto a un’internità irriducibile. L’esodo non è mai esterno a se stesso, e non conta che continui a farsi fuori, a fare il fuori di ogni situazione. Non cessa di eccedere i luoghi a cui accede - è vero - ma è proprio in questo stesso schema che non finisce mai di incedere, mai, per l’appunto, esterno a se stesso. E così il fantasma: dissipato dalla necessità impossibile di quell’ingresso, non fa che incedere nell’eccedere dell’accedere. I Ghostbusters, con la stolida villania dei loro sigilli, sono il colpo di coda di quella mediocrità che non sa rinunciare al suo piccolo safari. C’è un carcere, tratto nell’illocale, dentro il quale si continua a latitare. È San Vittore, il carcere di Santino Santini, imputato di rapina e omicidio aggravato, cui un giorno viene proposto di evadere. Laurie Anderson si accorda con il giudice e proietta Santino su un calco posto in fondo a una stanza buia della Fondazione Prada, sempre a Milano. Santino si schiude a una pradizzazione di San Vittore, correlativa d’una Sanvittorizzazione di Prada. Santino-sul-calco non parla, non vede, soprattutto non si muove, ma si concede a un discorso altrui che lo autentica nell’ovatta del distare: “Santino – racconta la Anderson – non ha la possibilità di parlare, e mi ricorda la comunicazione che c’è fra i bambini quando cercano l’attenzione dei genitori distratti, oppure conversazioni in cui a un certo punto del discorso ti rendi conto che l’altro non c’è o sei tu che non ci sei, che non comunichi niente.” Così il fantasma: evade da un involucro che non lo cede del tutto, sgrammaticandolo quel tanto da renderlo nostro e autentico, presenza che non c’è – traspiranza della trasparenza - o rispetto alla quale siamo noi a non esserci, a non esserle accordati. Conclude la Anderson: “Avete presente quelle notti in cui dormite ed è completamente buio e silenzioso e non sognate? La vera ragione è questa: in quelle notti siete andati via. Siete nel sogno di qualcun altro. Occupati nel sogno di qualcun altro.” Verbosometro Verbosometro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. 20 15 10 5 Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce - per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. 0 Farsi fuori-dentro. 20 dollari spesi bene. 11 L'Intervista a Gianluca Morozzi di ANDREA RINALDI D aniel è un rivenditore di dischi e fumetti rari, vive a Bologna con una fidanzata scrittrice di romanzi erotici, ma su Terra L., un mondo parallelo simile al nostro. Daniel in realtà è un supereroe di nome Leviatan che cambia poteri ogni dodici ore e che si ritrova a combattere contro David Bowie e Lou Reed, diventati folli criminali dopo che un certo Johnny Grey ha scritto tutte le canzoni più famose della storia della musica. Intanto sulla Terra, dove David Bowie e Lou Reed sono rispettate rockstar, un musicista in crisi di ispirazione ha pochi giorni per scrivere la canzone che rilancerà la sua band. Gianluca Morozzi torna in libreria con il suo nuovo romanzo, Colui che gli dei vogliono distruggere (Guanda), dove personaggi strampalati e situazioni surreali si moltiplicano questa volta in due mondi. Una storia ironica e che sposta i clichè dello scrittore bolognese nella fantascienza. «Io non volevo essere un romanziere classificabile – spiega – con Blackout ho esplorato il noir, con il secondo mi sono buttato su un altro genere, poi dopo aver scritto per un po’ cose simili ho voluto allargarmi alla fantasia, pensando a un supereroe vero ma nel contesto realistico di Bologna-. È stato difficile ma ce l’ho fatta, ora mi sento uno scrittore libero». Ci sono voluti due anni perché quest’ultima fatica di Morozzi vedesse la luce: «Dissi al mio editore “Jonatham Lethem farà sicuramente un romanzo sul supereroe e io lo voglio anticipare”. Poi con la stessa idea, e più o meno contemporaneamente, è uscito Marco Mancassola per Rizzoli… si vede che era nell’aria». Oggi certi exploit cinematografici hanno aiutato il mondo della graphic novel, dice Morozzi, visto che in Italia non godeva di molta considerazione. In Colui che gli dei vogliono uccidere tornano inoltre i personaggi di L’era del porco, come Kabra (è lui il musicista in difficoltà), il gruppo rock dei Despero, Elettra e l’edicolante Shater Hunder che si crede un supereroe. «Qui li presenterò di nuovo al lettore perché non voglio che il libro si trasformi in una saga a puntate, gli appassionati però riusciranno a cogliere alcune citazioni -. Ho ripescato Kabra perché non volevo descrivere il solito scrittore in crisi». La musica scandisce la narrazione anche in questo nuovo romanzo di Morozzi, tanto il reading bolognese di presentazione è stato accompagnato dalla 12 band della sua ragazza, gli Elymania, che ha riproposto la colonna sonora del libro con pezzi di Lou Reed, Bowie e gli Who. Colui che gli dei vogliono uccidere «è stato poi scelto come progetto degno di interesse alla Berlinale, speriamo in bene», confida lo scrittore, che ha ceduto i diritti de L’era del porco alla Indiana Film, mentre sui grandi schermi messicani a fine mese uscirà la trasposizione del romanzo Blackout, dove due ragazzi rimangono bloccati in ascensore con un serial killer. «Una ditta di ascensori aveva fatto causa alla produzione, dopo che il film era pronto per essere distribuito, ora pare che la cosa sia risolta, speriamo arrivi anche in Italia». L'angolo del cinematografo Quando manca la primavera La narrazione è scandita dal susseguirsi delle stagioni: ESTATE - fioriscono i sogni – AUTUNNO cadono le certezze – INVERNO - la solitudine rimane l’unica verità. di JACOPO SGROI REQUIEM FOR A DREAM un film di Darren Aronofsky B rooklin, un appartamento vecchio, sporco e ammuffito: la vedova Sara Goldfarb vive sola; a farle compagnia c’è un televisore sempre acceso, con il suo circo di imbonitori urlanti, con le risate e gli applausi preregistrati. Non c’è sogno o speranza nella vita di Sara fino al giorno in cui le viene comunicato di essere stata scelta per partecipare ad un talk show. In vista della partecipazione, Sara si imbottisce di anfetamine dimagranti per riuscire ad indossare il vestito rosso che, dal diploma del figlio Harry, non riesce più a mettere. La dipendenza dai farmaci la condurrà verso una condizione di delirio in cui il sogno si farà incubo. Harry è un tossicodipendente, vive di piccoli espedienti per sostituire lo squallore che lo circonda con piacevoli illusioni. Insieme all’amico Taylor, Harry riesce ad entrare in un giro di spaccio che gli permette di guadagnare soldi facili, ma presto i due capiscono di essere dei semplici burattini in mano ad un sistema più grande di loro pronto a fagocitarli e a vomitarli. Harry ama Marion, una giovane e bella designer, col sogno di aprire una sua boutique. L’amore che lei delirante. Queste scelte registiche rendono onore allo stile di scrittura di Hubert Selby Junior, privo di punteggiatura e di a capo: un tuffo nelle ossessioni del pensiero umano, in un continuo crescendo, senza tregua, senza sosta e senza respiro fino ad un inevitabile “nero”. nutre per Harry colma il vuoto lasciato da una famiglia, ricca e assente; questo però non le basta e, insieme al suo compagno, si lascia consumare da eccessi ed abusi. Marion sarà costretta a vendere il suo corpo per avere quella dose minima di illusioni necessaria a sopravvivere, ma non c’è più spazio per i sogni. Presentatosi agli spettatori poco più di dieci anni fa con il film Pi greco. Il teorema del delirio (1997), Darren Aronofsky sta finalmente ottenendo i meritati riconoscimenti di critica e di pubblico: The Wrestler (in uscita nelle sale il 6 marzo), ha vinto il Leone d’oro al Festival di Venezia 2008 e ora ha ottenuto 2 nomination ai premi Oscar. Il talento visivo di Aronofsky è già evidente nella sua opera seconda, Requiem for a Dream, del 2000 (edito in Dvd Dolmen Home Video www.emik.it) . Nella fase di scrittura Aronofsky ha chiamato al suo fianco l’autore del testo omonimo (Fazi, 2004), il romanziere americano Hubert Selby Junior [Ultima fermata a Brooklin (Feltrinelli, 2000)]. La solida sceneggiatura scaturita da questa collaborazione ha trovato soluzione in una trasposizione visiva trascinante: Aronofsky frammenta le inquadrature sullo schermo, sovrappone le immagini, accelera i movimenti, con un ritmo di montaggio frenetico, ossessivo e 13 Tutti i personaggi hanno in comune il sogno di una vita felice, una vita in cui la solitudine è bandita e in cui l’affermazione di sé arriva unicamente dall’amore che riempie i vuoti in cui si è immersi. Ma nessuno dei personaggi ha la forza di accettare il dolore che costituisce il quotidiano e nessuno ha il coraggio di combatterlo: le piccole speranze che nutrono le loro vite sono pura finzione che li conduce verso l’autodistruzione. All’inverno non farà seguito la primavera. Requiem for a dream di Darren Aronofsky (Usa 200) con Jared Leto, Jennifer Connelly,Ellen Burstyn Oh oh, Incitatus, oh oh Vecchio Senatore: Mi strofina il dito nel palmo della mano. Mi chiama bella mia. Mi tasta il sedere. Basta, deve morire. (Caligola, Atto II, Scena I) regista teatrale sarebbe un’idiozia: è tutto scritto lì, no? Certo, che è tutto scritto lì. Ma nessuno – nessuno – fa quello che è scritto lì. Con la stessa libertà con cui un regista cinematografico adatta un romanzo al grande schermo, un regista teatrale prende Recensione/3 Caligola Simone Rossi A h, l’influenza della tragedia nicciana sul Caligola di Camus. Ah, la coppia Dioniso-Demetra come archetipo della coppia Caligola-Drusilla. Ah, Hitler come incarnazione storica di Caligola. Ah, Caligola come tassello della Trilogia dell’Assurdo di Camus, insieme a Lo straniero e Sisifo. Ah, le tre versioni di Caligola. Ah, Carmelo Bene che fa Caligola. un testo e lo allestisce. La divaricazione tra quel che hai letto e quel che vedrai è spesso abissale. “Com’era il film?”. “Era meglio il libro”. Com’era lo spettacolo? Era meglio il testo. Questa rubrica, se fosse una rubrica, si chiamerebbe: Oh, Scena. Tratteremo i testi teatrali come se fossero libri e, no, non viceversa. Che cosa significa trattare i testi teatrali come se fossero libri? Ma soprattutto, stiamo ancora qua a farci domande sul significato delle pratiche intellettuali? Ammettetelo: non vi è mai successo di fare un commento simile dopo essere usciti da teatro. Eppure, ne avremmo tutto il diritto: un testo teatrale non presuppone la propria messa in scena, allo stesso modo in cui un romanzo non presuppone la propria riduzione cinematografica o una ricetta di cucina non presuppone la propria implementazione. Il testo teatrale sta su anche da solo: la tensione verso il fuori, verso il film che deve ancora essere girato (Pasolini), quella tensione lì, è propria di qualsiasi libro. Qualsiasi libro bello, almeno. Uno scrive una commedia, o una tragedia, o una tragicommedia. Un altro arriva e la mette in scena. A volte è la stessa persona: il vecchio Albert diresse personalmente un paio di allestimenti dell’opera (nel ’57 e nel ’58, se volete fare i fenomeni a Trivial Pursuit). Mettere in scena un testo teatrale, ecco: non è che in teatro è più facile perché ci sono già le battute scritte. Altrimenti fare il Il testo teatrale, dunque, come genere letterario. Volete raccontare una storia fatta solo di dialoghi? Se non andate mai a capo, avrete scritto Colline come elefanti bianchi di Hemingway (bene che vi vada). Se andate a capo, e riscrivete ogni volta il nome di chi parla, avrete scritto un testo teatrale. Scrivere dei buoni dialoghi è una faccenda complicata. Per questo è complicato scrivere Duepalle. 14 buoni testi teatrali: ci sono dialoghi dappertutto. Poi ci sono quelli che parlano da soli, e i dialoghi li fanno con lo specchio. Sono i matti. Caligola è matto, sua sorella era la sua amante e adesso è morta e lui è matto, completamente matto. “Ho deciso di essere logico. Vedrete quanto vi costerà la logica. Il potere ce l’ho io. Eliminerò chi mi contraddice, e anche le contraddizioni. Comincerò da te, se necessario”. “Da questo momento e per sempre la mia libertà è senza più limiti”. “Per un uomo che ama il potere, la concorrenza degli dei è seccante. Io l’ho eliminata. Ho dimostrato a questi dei effimeri che un uomo, se ci si mette, può esercitare senza nessuna pratica il loro ridicolo mestiere”. “Mi è venuto un bel pensiero, che vorrei dividere con voi. Il mio regno finora è stato troppo felice. Nessuna grande epidemia di peste, nessuna crudeltà religiosa, e nemmeno un colpo di stato – in breve, niente che possa farvi passare alla storia. E’ un po’ per questo, vedete, che cerco di controbilanciare la clemenza del destino. Voglio dire… non so se mi avete capito (con una risatina) insomma, sono io che faccio le veci della peste”. Con una risatina. Caligola non ha amici (figurarsi). Caligola ha spettatori. Atto Primo: Disperazione di Caligola. Atto secondo: Recita di Caligola. Atto terzo: Divinità di Caligola. Atto quarto: Morte di Caligola. Quattro atti, e mancano due cose: il quinto atto, e il cavallo. L’unico aneddoto che tutti sanno su Caligola è che una volta fece senatore il suo cavallo, per dimostrare ai senatori che chiunque poteva essere senatore: ti faccio ghirighiri sulla mano e ti tocco il culo, poi ti sostituisco con uno stallone. Camus non dice la parola cavallo, mai. Racconta molti altri aneddoti, tutti più divertenti. Il cavallo, se vi interessa, si chiamava Incitatus. Caligola, alla fine, muore. Recensione/4 Il libro nero Greta Travagliati "N on c’è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere. Lo scrivere. Sì, certo, tranne lo scrivere. L’unica consolazione che abbiamo.” Termina così Il libro nero di Orhan Pamuk. Tra i quartieri fatiscenti di una Istanbul a due anni dal colpo di stato, un avvocato, Galip, cerca la moglie scomparsa ed il fratello di questa a sua volta sparito, Celâl, noto rubricista accusato di lanciare messaggi criptici e sovversivi ai suoi lettori, sospetto seguace de l’ “hurufismo”, affascinante teoria secondo la quale i volti degli uomini non sarebbero che lettere, così come il mondo intero un nido di segni da decifrare. Ogni mattino una Istanbul sonnacchiosa si sveglia e legge le sue ru- briche sul Milliyet, cercando di capire attraverso frasi che descrivono la vita quotidiana di barbieri, creatori di manichini o librai, quale sia il proprio destino. Ogni mattina Galip si sveglia e deve capire cosa si nasconda dietro il suo mistero privato, dove sia finita la moglie Ruya. Per farlo comincia a “leggere” le cose che lo circondano come fossero indizi, alla pari degli investigatori dei gialli polizieschi che la moglie amava tanto; ma tale percorso finisce per svelargli una Istanbul sconosciuta, incantevole ed incantata, in cui ogni oggetto nasconde un segreto. Quale segreto? L’unica cosa chiara è che nulla è ormai chiaro, tutto raggiunge una complessità disorientante, l’intrigo della moglie si sovrappone a quello della città e Galip si ritrova perso in un mondo di simboli che hanno a loro volta perso il proprio mistero, restando per questo indecifrabili. Ed è questa la chiave del racconto. Tutto si infittisce perché ogni cosa sta perdendo il proprio mistero, lento travaglio di una città votata all’occidentalizzazione. Egli perde il suo posto, prende quello di Celâl, fondendosi col ritmo violento di una cultura complessa, di una città che, seppur vista mille volte, appare ora come appena conquistata. “Gli oggetti erano ormai gli inquietanti segni, per nulla familiari, di un mondo non più disposto a cedere facilmente i propri segreti”. Galip legge le lettere sul suo volto: non potrà mai essere se stesso. E questa è la condizione di ognuno di noi, nessuno potrà mai esserlo perché non vi è spazio se non per indizi, scoperte e, soprattutto, intrecci narrativi. Perché “il mondo non rivela facilmente i suoi segreti ma per penetrarli, questi segreti, è necessario comprendere prima di tutto il segreto delle lettere”. Iniziamo? Charlie VS Proust Prologo di CARLO ZUFFA P erchè? Non sono un fan della letteratura francese, neanche in accezione facebookiana (licenza poetica). Non ho quel background per cui questa lettura possa giustificare un percorso di formazione. Non ho nemmeno l'idea a cosa vada incontro affrontando quei sette volumi in brossura (più l'ottavo di commento all'opera che non so se tenerlo per ultimo come il dolce o usarlo come antipasto) che riposano da un paio d'anni sullo scaffale, figli di un avventato acquisto su IBS (pubblicità occulta). Perchè allora? Per vedere di nascosto l'effetto che fa? Perchè un istinto masochistico mi attanaglia? O perchè in fondo vantarsi al bar con gli amici di aver letto Alla ricerca del tempo perduto (più commento all'opera) fa un mucchio figo? Non saprei, fatto sta che queste sfide mi attraggono e quindi ora è arrivato il tuo turno, Marcel. • 15 Nei prossimi mesi (o anni) cercherò di venirne a capo e riporterò su questo mio diario improvvisato le impressioni di questa mia scalata al tuo K2 letterario. questa avventura e non sa come (e se) ne uscirà, trascrivendo ciò che riuscirà a snocciolare dal livello di lettura più infimo e presentarlo solo leggermente infiocchettato, in modo da poterlo discutere la sera con gli amici. Beninteso, saranno le affermazioni di chi tiene il Manuale delle Giovani Marmotte in bella vista nella sua libreria, perchè in questa rubrica non si parlerà del livello semiotico dell'opera, dell'Io multiplo, di felicità e di Tempo, ma di ciò che la casalinga di Voghera si troverebbe di fronte approciando la Recherche. Infatti un altro titolo papabile per questa rubrica era Proust visto la sera dal Bar Sport, ma era troppo lungo e incasinava l'impaginazione. Quindi, dopo una dovuta premessa, diamo il via a questo esperimento di lettura creativa. Il commento non avrà quindi la spocchia di usare accademismi, paroloni e corbellerie di cui neanch'io conosco il termine, ma di riportare gli umori di chi si imbarca in - In guardia, Marcel! Recensione/5 Neve Alberto Cocchi N eve è il romanzo d'esordio di Maxence Fermine. Neve è un romanzo, ma anche qualcosa di più: è un inno di amore per la scrittura. Un giovane e promettente poeta celebra, con le sue parole, la gelida e disperata bellezza della neve. Un anziano pittore dipinge ossessivamente il ricordo dell'amata fino a diventare cieco. Un'equilibrista si sente libera solo quando può sfidare se stessa sospesa nel vuoto. A unire questi personaggi è la ricerca della perfezione e, in un certo senso attraverso questa, della felicità. La neve, la carta... e una storia d'amore, per una donna e per l'arte della scrittura. Il racconto muove i suoi primi passi con circospezione, poi cresce e diventa di folgorante 16 bellezza. Neve contiene qualcosa, qualcosa che appartiene solo ad un certo tipo di letteratura, qualcosa che proietta il lettore verso un piano secondo, permettendogli di scorgere la bellezza nella semplicità. Infatti Fermine, come nell'arte della poesia haiku, che in pochi versi racchiude una sensazione molto forte provata dall'autore, riesce a concentrare in poche pagine (107) un flusso di emozioni e di sensazioni davvero impensabile. Neve fa parte della narrativa Bompiani ed è stato pubblicato nel 1999. Dopo questo, Fermine, che è nato a Grenoble nel 1968, ha pubblicato altri nove libri: l'ultimo, nel 2007, si intitola Le tombeau d'étoiles (Albin Michel). C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si alter- nano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, come In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser Lou Gerigh di JACOPO CIRILLO L ou Gherig è tristemente famoso per il morbo di Lou Gherig. Ma il morbo ha preso il suo nome sia perché lo ha affetto, sia perché Lou è stato uno dei più grandi giocatori di baseball, il più grande “prima base” della storia dello sport. E soprattutto detiene un record, una striscia di 2.130 partite consecutive in cui ha giocato titolare. E chi era la sua riserva? Un tale Wally Pipp che, a dispetto del nome, era un buon giocatore. Questa è la storia di Pipp e della sua aspirina. Il buon Wally era titolare inamovibile dei New York Yankees e aveva praticamente alle sue dipendenze questo ragazzino, Lou, la sua riserva, che faceva ciò che tutti i “rookies” nello sport sono costretti a fare: portargli la borsa, cedergli i soldi per la merenda e calarsi i pantaloni per celia. Pipp era un gran sbruffone e agli allenamenti, per fare il bello, batteva con la mano sinistra, con gli occhi chiusi, insomma non mostrava nessun senso critico verso la sua instabile posizione di giocatore titolare. Quando qualcuno gli faceva notare che sarebbe potuto essere scalzato, lui faceva la faccia di chi ha paura per finta e diceva Ooooh, e chi mi porterebbe via il posto? Il piccolo Lou? Ma se ha un nome da femmina ahahahhahaaa! La notte del 1 giugno 1925, famosa per una grande tempesta abbattutasi su New York, Pipp si chiuse in casa con alcuni amici e si prese una mo- 17 derata sbornia, tanto che il giorno dopo andò alla partita con un mal di testa fastidioso ma tranquillamente sopportabile. Il coach disse Allora Wally, vai in campo e lui, sprezzante, disse Coach, mandaci il ragazzino, io ho mal di testa. Vieni ragazzino, è il tuo turno. Pipp gli fece un simpatico sgambetto proprio mentre saliva le scale dello spogliatoio, irridendolo rumorosamente e Lou, tutto tremante, iniziò la sua prima partita tra i professionisti. Se la cavò bene visto che quella fu la prima di 2.130 consecutive che relegarono per sempre il povero Wally Pipp in panchina. Ed è per questo, e solo per questo, che pippa nello sport significa scarsone. "La vita dentro una parentesi graffa" parla di Graffetta, in pillole musicali. E' una lei, ha intorno ai 20 anni e mi sta terribilmente sulle palle. Le storie di Graffetta, in bilico fra incomprensibilità e maleducazione, parlano di musica attraverso la narrativa, e si sviluppano solo sulla base degli spunti musicali. Una band, un album, le idee, e Graffetta: "La vita dentro una parentesi graffa" diventa una microstoria a puntate delle band che mi piacciono raccontata sulla pelle di una antieroina del nostro tempo. modo diverso, anche un tappeto di violini che tiene note lunghe ha un carattere nebbioso, o nebuloso. Seppur più primaverile e profumato. In modo ancora diverso, anche il muro del suono di Phil Spector aveva alcune sembianze nebulosiche, sebbene più vicine all'afa d'agosto. Le nubi nebulose di Graffetta invece erano del tutto invernali - o tardoautunnali - e giocavano a distendersi su tutto ciò che trovavano a portata di mano: si sciolgono sulla strada provinciale così come sulle cime dei pini marittimi, sui tetti delle case ma anche sulle punte dei ' inverno era la stagiofili d'erba di ogni giardino. La ne preferita di Graffetta. nebbia, the fog. Allora GrafL'inverno copriva le sue ossa fetta prendeva la macchina e sporgenti, l'inverno mascherava guidava per non più di 500m di i paesaggi, l'inverno deformava raggio. Scopo: trovare un paegli umori. "In inverno la gente è saggio ben ricoperto nel raggio stitica, di emozioni, e dà la colpa di 500m. Scopo alla seconda: al brutto tempo", pensava Grafridisegnare i contorni del paefetta. E' per questo che riteneva saggio. Graffetta posteggiava la opportuno tenere in sordina la Trevis, alzava il riscaldamento sua preferenza per la stagione nell'abitacolo e attraverso il invernale per salvaguardarne la di LIVIA FAGNOCCHI vetro appannato osservava purezza. Un atteggiamento popallida e assorta come Montale sitivo verso l'inverno è social- ciò che si dava ai suoi occhi: mente controverso, così dicono. Nelle stagioni calde c'è il una grey anatomy, un'anatomia grigia e confusa, brevissole, c'è caldo, ci sono i fiori, le passeggiate all'aperto. Si è sime sorgenti di vita, scaglie di profili, tranci di oggetti accecati e storditi, si suda puzzo, le rose hanno le spine, le penzolanti. Graffetta iniziava a disegnare un paesaggio pesche mature sbrodolano, il cemento si scioglie in città. conforme alle sue immagini, dove si salta sulle pareti di mattone e ci si arrampica sulle nubi con casco luminoso, Graffetta amava il paesaggio alterato e camuffato, che scarponcini e piccone. fosse di pioggia violenta, che fosse di neve, che fosse di nebbia all'alba. Quest'ultima raggiungeva gli effetti più Fatto di pennarello e disegnato sul vetro, il paesaggio di deturpanti: la nebbia, the fog, 3 lettere come tre e come Graffetta nasceva sulla nebbia. Così, il paesaggio dei Neu Neu. Tuttavia la nebbia e i Neu sono a base 4, coprente, era fatto di chitarre e tastiere, emerse da un paesaggio ritripetitiva, monotona. Prova a stenderla con matterello opmico, profondo, torbido, e pure mantrico. pure anche a guardarla in orizzontale: è una calza grigia. In L Graffetta post 1 / "a grey anatomy" Recensione/6 L'Uomo dei Dadi Carlo Zuffa L 'altro giorno sono rimasto affascinato mentre guardando quel programma su MTV dove i teenager d'oltreoceano, con una certa indole nerd (o finta tale per motivi di copione), sono affranti dalla loro 18 vita sociale scialba ed emarginata, e per dimostrare agli amici una certa rilevanza all'interno del gruppo, si trasformano in fortissimi quarteback o assi del motocross nel giro di un paio di settimane, traviando l'ego delle prossime due generazioni di americani che li stanno guardando. Luke nella New York di quarant'anni fa non aveva questo problema. Anzi risolse i conflitti con il suo Io annichilendolo completamente. Affidò tutto ai dadi e decise qualsiasi aspetto della sua vita consultando una coppia di cubi verdi che • rotolando decidevano per lui il suo futuro. E Luke non c'era, c'era l'Uomo dei Dadi, una matrioska vuota riempita dalla aleatorietà delle opzioni che egli dava in pasto al Caso. caos. Un Fight Club che sostituisce il caso ai cazzotti. Prendano spunto gli autori di Mtv. Quando una semplice lancio ti fa scendere le scale e violentare la moglie del vicino, nonche collega, nonchè migliore amico, c'è qualcosa di grosso in ballo. Ci prese gusto a tal punto da diffondere il suo verbo fra i conoscenti, e la naturale conseguenza fu aprire i Centri del Dado, dove la gente imparava ad ammutolire il proprio Io per darsi alle più camaleontiche espressioni del Ma dimmi Luke, mentire agli altri è moralmente riprovevole, ma mentire a se stessi è profondamente sadico? Recensione/7 I Sotterranei Jacopo Donati C i sono libri che, per ragioni di mercato, rimangono nell’ombra di un’altra opera dello stesso autore. È il caso di I sotterranei di Jack Kerouac, libro meno conosciuto del più blasonato Sulla strada ma da molti ritenuto il capolavoro dell’icona della Beat Generation. Come molti suoi libri, anche questo è una storia autobiografica, la storia d’amore tra Leo Percepied (l’autore) e la bella Mardou Fox (Alene Lee), una ragazza di colore che strega a prima vista Kerouac. È un romanzo breve che si narra fu scritto in sole tre notti grazie alla benzedrina, subito dopo la fine della loro storia. Le ragioni della scarsa popolarità sono dovute ad uno stile particolare che in qualche modo rimanda allo stream of consciousness di James Joyce e Virginia Woolf. I sotterranei sono uno dei migliori esempi di quella che lo stesso Kerouac chiamava prosa spontanea: far sgorgare le parole senza porre alcun freno, in maniera automatica e genuina. Non c’è costruzione per conformare il pensiero alla lingua, né deve essere presente uno sforzo, da parte dell’autore, perché al lettore sembri un flusso di coscienza. Se lo scrittore lo compie, la spontaneità è già persa. Il risultato è che si fatica un po’ a trovare il giusto ritmo di lettura: spesso la punteggiatura è assente e quello che doveva essere un piccolo inciso stretto tra due virgole, finisce con il diventare un discorso più ampio che, conclusosi, cede nuovamente il passo alla storia. Ci si perde e ci si ritrova con una grande naturalezza e il pregio di questo libro è proprio il cullare delle frasi. Presto ci si accorge che più ci si sforza per dargli un’impalcatura logica, più si fatica a seguirlo: l’unica soluzione è continuare a leggere e far sì che il ritmo delle frasi – un ritmo assolutamente bop – si impossessi della mente e si sincronizzi con essa. Tutto, dopo, diventa naturale, quasi telepatico. La lettura, infatti, dovrebbe avvenire nello stesso modo in cui Kerouac suggeriva di scrivere, ovvero “«senza coscienza» in semitrance […] permettendo all’inconscio di 19 far entrare il proprio linguaggio non inibito interessante necessario”. È in questa maniera che Kerouac riesce a liberarsi del dolore di quell’amore finito male. Cosa ottiene in cambio il lettore? Le emozioni vere, i sentimenti reali che Kerouac patì per poi riversarli su carta. Alla fine del libro è presente una breve postfazione di Henry Miller, scritta appositamente per l’edizione italiana. Dipinge Kerouac come un violentatore della lingua moderna, un virtuoso che sa giocare con le parole e si prende gioco di ogni regola convenzionale. Uno scrittore che ha saputo cristallizzare la parlata come fosse una fotografia istantanea. In un’opera come I sotterranei è riuscito proprio a fare questo. Henry Miller non solo era amico di Kerouac. Entrambi condividevano la passione per raccontare la verità e ciò li portò più volte in tribunale. Non fece eccezione questo lavoro che fu accusato di essere un romanzo osceno e pornografico, un’opera non degna di essere letta né venduta. La sentenza che lo scagionò merita di essere citata (e lo è in quarta copertina) perché riesce a riassumere in poche parole tutti i pregi del romanzo, come “la bellezza lirica di alcune sue immagini, la forza e il ritmo del racconto, la ricerca accurata di richiami ed espressioni come elementi che consentono al collegio di pervenire alla conclusione che il romanzo è opera non pornografica e non oscena; è invece opera d’arte”. Fa più freddo un freezer a -15°C o l’acqua a 0°C? B eh, la risposta pare ovvia. Un po’ come chiedere se pesa di più un chilo di paglia o un chilo di piombo. Invece no, le cose non sono così semplici: il “freddo” che noi percepiamo non è esattamente la temperatura (che si misura in gradi centigradi) del mezzo (aria, acqua o qualsiasi altro corpo) con cui siamo in contatto, ma piuttosto la quantità di calore che scambiamo con tale mezzo per unità di tempo. Capiamoci meglio: se la temperatura esterna è di zero gradi ma l’aria è secca e ferma si tratta di un freddo sopportabile. Se c’è nebbia o soffia il vento, il freddo diventa intenso. Si parla quindi di temperatura percepi- prata dal Pakistano, calda. Che facciamo allora? Ne mettiamo una in freezer, a -5°C con aria secca e ferma o ne mettiamo una a mollo in acqua e ghiaccio, a 0°C, ma in un mezzo conduttore di calore? Nel primo caso per raffreddare saranno necessari 20, 30 minuti, con il rischio di dimenticarsi la birra e trovarla esplosa (perché esplode? Presto la risposta …), nel secondo caso in 5-6 minuti avremo una birra ghiacciata. Ancora meglio: un bagno di acqua salata e ghiaccio può arrivare a -4°C (le famose proprietà colligative), se teniamo l’acqua agitata scambierà ancora più calore, e in un paio di minuti la nostra birra sarà pronta per essere bevuta. Fredda. Provare per credere. (è un’operazione facile!) quanti atomi di sodio ci sono in una goccia di acqua minerale, si accorge che ce ne sono miliardi di miliardi. Qualcosa come 1020. E ora tocca fare i conti: una bottiglia di acqua povera di sodio ne contiene circa 18-25 mg. Una di acqua normale 50-100 mg. Un etto di prosciutto in media 2500 mg. Un italiano medio, normalmente, assimila dalla dieta dagli otto agli undici grammi di sodio al giorno. Respirando, si assimilano 2-3 grammi di sodio al giorno a causa del pulviscolo che entra nei polmoni. Il contributo di sodio assimilato dall’acqua, quindi, è equivalente a quello di un colpo di cerbottana durante il bombardamento di Dresda. Perché poi eliminare il sodio? Il sodio è presente nei fluidi all'esterno delle cellule e il suo equilibrio con il potassio (presente all'interno delle cellule) garantisce il buon funzionamento del sistema. Quando si perdono grosse quantità di sodio con il sudore e si ingeriscono, all'opposto, grandi quantità d'acqua pura o con pochissimo sodio si perde la sensazione della sete, sodio-dipendente, si riduce la possibilità di idratarsi e aumenta la produzione di urina per ridurre la diluizione del sodio. Per cui, paradossalmente, ci si disidrata pur bevendo parecchio. In casi gravi, ma rari, si può incorrere in una vera e propria "intossicazione d'acqua" chiamata iponatremia che si manifesta con giramenti di testa, cefalea, malessere, nausea e crampi. Pillole di scienza (per topi da biblioteca) di FABIO PARIS ta, che può essere più alta o più bassa della temperatura reale. Questo perché l’aria secca riesce a scambiare poco calore (per unità di tempo), mentre l’aria umida e l’aria in movimento ne scambiano molto di più. Ancora, quando cuociamo qualcosa in forno a 180°C e mettiamo la mano dentro sentiamo caldo, ma niente di che. Se tocchiamo il ferro ci ustioniamo all’istante. L’aria e il ferro sono alla stessa temperatura, ma l’aria scambia poco calore mentre il ferro, conduttore di calore, ci brucia all’istante. Ecco un trucco per tutti i topi da biblioteca che, tra un tomo ammuffito e l’altro, vogliono bersi una bella birra fresca ma l’hanno appena com- La particella di sodio. L’ignoranza che diventa spot. “C ’è nessuno” urla la “particella” di sodio che si sente sola. Mai pubblicità fu più ingannevole. Procediamo con ordine: innanzitutto la “particella” non può essere definita tale. Il sodio in acqua ci sta come ione, come atomo al massimo, se la parola ione non ci piace. Mai come particella. Tuttavia l’atomo che grida “c’è nessuno?” potrebbe essere associato al nucleare, quindi poco rassicurante, e lo ione… vabbè avete capito. Meglio parlare di particella. Che poi non è proprio da sola: se uno si prende la briga di contare 20 A questo punto, perché cercare un’acqua povera di sodio? E’ il solito insabbia-insabbia. I ferri del mestiere Quando un testo diventa un libro di AGNESE GUALDRINI U na delle cose più divertenti che mi capita da quando lavoro nel settore editoriale sono le domande degli amici o di chi non vedo da un sacco di tempo e devo aggiornarlo sulla mia vita degli ultimi tempi: “Sì sai, ora sto a Roma, lavoro in una casa editrice…facciamo libri”. L’immancabile risposta di chi mi sta di fronte è “Ah, che bello! Scrivi libri!”, “No, veramente no” “Ah, ho capito, fai la giornalista e scrivi le recensioni dei libri”… “Mah, no. Nemmeno”. Dopodichè, dopo aver pensato che magari lavoro in una tipografia o in una libreria, fanno di finta di avere capito e cercano di cambiare discorso (e del resto sono convinta che molte delle persone a me vicine tuttora non abbiano affatto ben chiaro che cosa io faccia veramente ogni giorno, qua a Roma). Effettivamente il lavoro in una casa editrice non lo si capisce davvero fino in fondo finché non ci si ritrova a farlo. Del resto io stessa, affascinata dalle saghe parigine di Sylvia Beach o dalla tempesta di idee che doveva animare le riunioni del mercoledì in Einaudi ai tempi di Pavese e Calvino, sono stata smentita dai fatti: quel sapore vagamente dandy e quell’aura che fa dell’editore un appassionato di libri che cerca di aumentare la presenza di bellezza nel mondo sono in realtà una carta da parati che fa solo da sfondo a cose, perdonatemi, assai più prosaiche. Già, perché la casa editrice è prima di tutto un’impresa: è fatta di uffici, settori, ognuno dei quali ha un proprio budget entro il quale deve rigorosamente cercare di rientrare. Perché il bravo editore ha il compito sì di fare buoni libri…ma facendo quadrare i conti. Ma cosa significa fare libri? In una casa editrice di saggistica come quella in cui lavoro io l’ufficio editoriale decide cosa pubblicare. Buonissima parte delle idee nascono dalle riunioni (del giovedì) in cui gli editor pensano ai temi che potrebbero interessare e agli autori che meglio potrebbero scriverne. Una piccola parte scaturisce dalle proposte degli autori stessi (sarebbe spassoso raccontarvi certe astrusità tra le centinaia di proposte che arrivano ogni giorno – ma magari la prossima volta), un’altra parte da testi stranieri i cui diritti di traduzione vengono acquistati, spesso perché si è vinta un’asta tra diversi editori italiani. Una volta arrivato il dattiloscritto definitivo (che arriva sempre immancabilmente in ritardo), il testo viene inserito nel programma editoriale (in ritardo) e si lavora per farlo diventare un libro (con l’ansia che comunque si è sempre in ritardo): si colloca in una collana, si pensa al titolo, si decide la copertina, si scrivono le bandelle e la quarta. Le riunioni per la scelta delle copertine sono le mie preferite. Per ogni titolo vengono proposte 6/7 copertine diverse (molto diverse) ed è bello vedere come la scelta di una piuttosto che un’altra stravolga realmente ciò che abbiamo tra le mani. Insomma, ciò che mi piace più di tutti è il momento in cui un testo diventa un certo libro, e non un altro. (Mi spiego: pensate a una copertina rossa fuoco con un’immagine grafica di due pistole nere la cui scia dei 21 proiettili si incrocia fino a formare un cuore. Sotto il titolo: Where have all the soldiers gone?. Ora pensate a una copertina bianca con una piccola immagine fotografica che ferma un istante di una manifestazione pacifista negli anni 70. Titolo: Guerra e pace nell’età post-eroica. Capite anche voi la differenza enorme tra i due libri…eppure sono esattamente lo stesso!) A questo punto, scelti titolo e collana, il testo passa al lavoro di redazione e viene presentato ai retailer che dovranno a loro volta convincere i librai ad appoggiarne sui propri scaffali un numero considerevole di copie. In concomitanza con l’uscita delle novità in libreria, l’ufficio stampa dovrà poi cercare di occupare il maggior numero di pagine della carta stampata con recensioni, anticipazioni o interviste. A questo punto il libro è pronto e sarà solo e soltanto il pubblico a decretarne il successo o l’insuccesso, la fortuna negli anni o una rapida fine nel dimenticatoio. Ogni libro rappresenta insomma una bella scommessa. Ce ne sono di più piccole o di più grandi. Si possono perdere, si possono vincere o si possono ricevere le più inattese sorprese. Questo è il lavoro editoriale, in questo aspetto sta il suo fascino e di qui nasce il suo rischio…ed è per questo che mi appassiona. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI C aro Bettoli, seguivo saltuariamente i suoi interventi su Caspita, apprezzandone l'onestà. Un parere. Ho letto recentemente l'ultima fatica letteraria di Ikarmeta La capra dormiva su un lato (ed. Frantumi) e l'ho trovato irritante. Punto il dito contro un libretto sull'inutile storia di un allevatore di ovini, Alejandro, solo coi suoi pensieri inconcludenti per un quarto di libro, per un altro quarto solo col gregge, dopodiché francobollato alla sua amata pecoraia redenta Anunciacion. Sullo sfondo, lo ammetto, l'avanzare in Cile dell'industrializzazione coatta e predona delle multinazionali dello yogurt ci offre qualche spunto di riflessione interessante. In particolare, è apprezzabile la veracità dimostrata dall'autore nella digressione dicotomica innocenza/artificio, simboleggiata dall'avversione di Alejandro per i new trends dei latticini. Ma non basta. Non mi interessa leggere di capre, se la prosa è sconnessa e non c'è circolarità. Non sento l'odore della campagna, tra le pagine: ciò che resta è un cappello di paglia e una storyline ridicola. Franco, Pavia C aro Franco, Ikarmeta si ispira neanche troppo velatamente ai maestri cileni del genere, Garis e Rodinga su tutti. A differenza di questi, però, Ikarmeta ha poche idee e tutte scadenti. Ikarmeta - in ultima analisi - ha una prosa che fa scappare i cani e Frantumi dovrebbe smettere di pubblicarlo. Solo una cosa di La capra dormiva su un lato salvo: la grottesca sbroccata di Alejandro, presentatosi agli uffici della multinazionale dei latticini Dan-2 per incontrare l'a.d. Ganjesi, sull'inutilità dello yogurt come prodotto in-sé. Siamo indubbiamente allo stadio etico kierkegaardiano, perché Alejandro fa una scelta che si lega a valori universali ben precisi, racchiusi qui nell'antiyogurtismo. Cito la grammatica creativa di Ikarmeta: "Arrivo negli uffici luccicanti e falsi come lo sguardo vaqquo dei dingos. Mi spingo all'interno del grande palazzo di vetro, e penso a Anunciacion. Vorrei lei qui con me mentre mi spingo. Incontro Ganjesi, è un uomo con mani che non hanno mai lavorato. Mi dice di produrre yogurt, e io esplodo. *Lo yogurt è per voi smidollati yanky gringos!* glielo urlo in faccia a lui. *Non è budino, non è gelato* continuo, *lo yogurt è per voi mani viscide, che vorreste essere persone che lo mangiano, ma che però vi fa schifo pure a voi!*. Poi esco fiero di me e degli insegnamenti di mio padre, che non ho conosciuto mai". A noi tutti verrebbe da sbattere un pugno sul tavolo e urlare "viva il βουκολικὰ", che in greco significa "cantico di bovari". A parte queste poche ispirate righe, dicevamo, il resto fa pietà. • B uongiorno Bettoli. Senta, sono un venticinquenne *bamboccione*, come diceva il ministro Sirchia qualche tempo fa, deluso dalla sinistra con barba e cane e pure da quella con basette e maglioncino di Zara. Ho deciso che il 22 pacifismo della bandiera arcobaleno non mi rappresenta più, e quindi invece che andare a lavorare gioco con videogames violenti e leggo Sun Tzu, che dà sfogo al mio desiderio di zuffa senza l'effetto indesiderato di prendermi uno schiaffazzo in faccia. Volevo renderla partecipe di questo mio cambiamento, mi sembra di crescere e di essere più onesto con me stesso ogni giorno che passa. Rodrigo, Genova C aro Rodrigo, era il ministro Padoa Schioppa. E la mia risposta potrebbe finire qui. Le voglio donare un po' di sapienza, invece, a mò di perle ai porci: ora come ora, se la potessi guardare in profondità negli occhi sentirei solo il freddo cosmico del vuoto interstellare. Lei non sa chi è Sun Tzu perché a pochi è concesso saperlo: IO sono una delle 6 persone che possono dire di conoscerlo sul serio. Un'altra di queste è David Lee Roth dei Van Halen, un'altra ancora - sembrerebbe - la moglie del Presidente brasiliano Lula, Lulù. Sun Tzu viveva nella Cina di 2500 anni fa, circa. Si narra capisse il latino solo da un orecchio, il destro, e per questo motivo quando un emissario del governo di Roma (all'epoca ancora *Romola*) camminava alla sua sinistra Sun Tzu doveva procedere all'indietro, in modo da accostare l'orecchio avvezzo al latino alla bocca del romolano. Ogni tanto slappava per terra, e tutti lo deridevano: "cammini come un gambero, Sunzi, ahr ahr!". Questa piccola particolarità, congiunta al fatto che sua moglie era larga come uno di quei frigoriferi che fanno il ghiaccio, lo rendevano benevolmente dileggiato dalla community scapigliata di Qi. L'arte della guerra è uno di quei libercoli che hanno letto anche i peracottai come lei, Rodrigo; la vera opera magna di Sun Tzu è piuttosto L'arte della guerra volume 2: l'arte della festa (edita in italiano da Kapioski fino al 1987, ora disponibile alla copisteria di porta Scagli a Modena), originariamente bollata come divertissement ma ormai sdoganata come i film di Bombolo. L'incipit è tuttora molto celebre e recita *si apriranno altre porte, si devasteranno altri party* (cit.). L'autore snocciola sentenze definitive e incontrovertibili sull'etica dei baccanali e da leggere in quest'ottica sono pure certe dichiarazioni della sua prima, e ingiustamente prevalente, opera: *se sei inattivo mostra movimento, se sei attivo mostrati immobile* fa riferimento alla legge del dancefloor, un'attitudine smooth ma acuta à la Shaggy; *chi è prudente ed aspetta con pazienza chi non lo è, sarà vittorioso* descrive la strategia vincente dell'attendista di fine serata, comprensivo e di bocca buona, che piglia su con la rete da strascico; *combatti con metodi ortodossi, vinci con metodi straordinari* ovviamente concerne il rimorchiare con semplicità e understatement, salvo poi sorprendere la conquista in un secondo momento. Il suggello dell'opera, lunga 24 rotoli di papiro in Times New Roman con carattere 12 (interlinea unemmezzo), è la seguente *quando ti muovi sii [sul *sii* c'è una scancellatura, Sun Tzu aveva usato il condizionale al posto del congiuntivo, ndr] rapido come il vento, maestoso come la foresta, avido come il fuoco, incrollabile come la montagna*: se la rapidità non è più requisito essenziale per l'assenza di pericoli contingenti quali quello di cuccarsi una freccia di balestra in una chiappa, gli altri lampi di luce sapiente sono più attuali che mai. • B ettoli, cosa amo di mio marito? E' sciocco e vanaglorioso, frivolo, legato a piccole cose stupide (potrei farne un elenco: il subbuteo, le casate reali, gli orologi a parete, la musica new age, il complottismo). Cosa amo, dicevo? Risponda! Forse sono matta. Rispondo io, conscia di poter dire con certezza solo ciò che di lui non amo: sicuramente i libri che compra. L'ultimo è sulle scelte alimentari responsabili e si chiama Se fossi un grosso pesce mangerei solo plancton (Ruspo editore). L'ha scritto, pensi, il comico toscano che nelle puntate di qualche anno fa di *meno Cabaret, più Cabernet* fingeva di piangere a dirotto appena il pubblico gli urlava "fallito!". Mi aiuti. Barbara, Casal Borsetti do il brano Fight fire with fire, il cui testo figura oggi nell'introduzione del volume seminale Scegli: o me, o patia (ed. Galoppo). Un ultimo accenno su quel burlone di Mitridate VI, grande re del Ponto, che diede inconsciamente il via a tutta questa scena. Mitridate (di origini ucraine, il vero nome era Dimitri Datev), fifone per natura e convinto di poter subire subitamente uno scherzo letale dei Proci, chiese al medico Crautea di sciogliere nel vodka red-bull - di cui andava ghiotto - qualche goccia di veleni assortiti ogni giorno, così, per diventarne immune. Poi arrivò Pompeo Magno, fratello di Milly d'Abbraccio, lo sconfisse in 3 set e Dimitri non riuscì ad ammazzarsi con nulla: ormai era diventato un vero e proprio sballone che reggeva tantissimo. Storia vera. L o molli. Dal verduresimo al pesciolismo, ormai è tutto un fiorire di derive alimentari arcane, cabalistiche, astruse. Dio ce ne scampi. Il peggio del peggio, e lei se n'è accorta, è rappresentato dal nucleo di "folgorati" delle nuove scuole mangereccistiche. L'autore del libro, il fallitissimo comico Polenta, oltre a non essere mai riuscito a farci ridere non ci convince neppure con le sue cialtronate sul desinare. Come scrivevo su Caspita qualche tempo fa, rimango fermo nell'idea che le tre peggio-cose del mondo siano la pena di morte, la censura e la soia. Mi permetta però di distinguere. Spesso si confonde l'insensismo alimentare con altre storie serie, come l'omeopatia. L'omeopatia è una figata. Il vecchio Hahnemann, canuto dottore prussiano, riteneva che su una personcina sana piccole dosi di una sostanza, veleno o droga finanche vairus (sic) proteggessero dalla malattia che generava gli stessi sintomi. Nel 1984 il batterista danese dei Metallica avrebbe formalizzato le blaterazioni di Hahnemann scriven- 23 scrivete a: [email protected] Recensione/8 Agnes Browne Sara Reali Q uanto spazio dedicate nella vostra vita all'amicizia? Quante energie spendete alla costruzione di un rapporto e al suo mantenimento nel corso degli anni? E soprattutto: quante volte ne vale veramente la pena? Ecco, una cosa che mi accade spesso è considerare un personaggio di un racconto, di un libro come un amico: una presenza che inizia e finisce con la lettura del volume che però nel tempo continuo a ricordare con piacere e in qualche modo mi accompagna nel corso della vita. Spesso si tratta di un'Anna Karenina o del caro Petit Prince, ma è altrettanto vero che se vi si consiglia un libro di un autore minore e il protagonista diventa vostro amico perchè in quel preciso momento le sue avventure vi coinvolgono particolarmente, inevitabilmente capite che ne vale la pena. Allora succede che, nei deliri di una laureanda, ci sia spazio per una lettura divertente, dai dialoghi freschi, incredibilmente efficace e genuina: Agnes Browne è diventata il mio idolo di donna. Nella Dublino proletaria e cattolicissima (con l'accezione Irlandese del termine che, Recensione/9 La guerra dei dieci anni Fabio Paris T utti noi abbiamo un’idea più o meno vaga di cosa sia successo in ex-Jugoslavia negli anni 90. Una guerra lunga, assurda e atroce, come tutte le guerre. Questa però ha qualcosa “in più” di tante guerre. Ha dei primati. Dopo la seconda guerra mondiale, dopo i “mai più” è qui che si è consumata nuovamente “la prima volta”, anzi, tante “prime volte”, come l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia, dopo c’è solo il mito con Troia. O gli orrori della pulizia etnica che prepotente ha cambiato la demografia della Krajina svuotandola prima dei Croati, poi dei Serbi. Ne La guerra dei dieci anni - Jugoslavia 1991-2001, di Alessandro Marzio Magno e altri autori, 11 24 credetemi, ha caratteristiche tutte sue) si susseguono le vicende di una donna forte e determinata che nella morte del marito ritrova slancio e respiro. Se poi consideriamo il contorno e il periodo storico, gli anni Sessanta, allora tutto diventa ancor più divertente: non si parla di Beatles, né di moda, tantomeno di Vietnam, solo del lavoro e delle emozioni quotidiane di una donna che adora le canzoni di Cliff Richard quanto i suoi sette figli. Piccole gioie e grandi sfide accompagnano questa eroina della porta accanto che non si lascia abbattere dagli schiaffi della vita, ma prosegue il suo percorso con verve e sincerità. L'educazione che non ha ricevuto permea le pagine in un incalzare di errori grammaticali e morfologici (suoi, ma anche di Marion, migliore amica di Agnes e comicità fatta persona) che ne dipingono un tratto talmente sincero che ricorda un dialogo con il nonno piuttosto che con un fruttivendolo ambulante. euro, 560 pagine, vengono raccontati i fatti, in maniera imparziale, denunciando le atrocità commesse da tutte le parti. Serbi, serbo-croati, croati e mussulmani di bosnia. Kosovari e macedoni. Tanti. Tanti conflitti, un tutti contro tutti che in un momento si è concretizzato in quattro conflitti contemporanei in cui cinque eserciti si combattevano. Se il nome Srebrenica evoca dei sinistri ricordi nessuno sa che accadde a Vukovar. Non vengono negate le responsabilità dei vari capi di governo Jugoslavi e dei principali attori internazionali. Corte biografie aiutano a delineare la psicologia degli uomini che questa guerra l’hanno creata e spinta oltre l’estremo. Milosevic, Tudjman, Izebtegovic e molti altri. Il libro è ben scritto e a tratti estremamente coinvolgente, ha però • una lettura a volte difficile per i tantissimi (difficili) nomi e tantissimi fatti accaduti che vanno intrecciandosi ed accavallandosi. Ma d’altronde non si può raccontare la complessità che in maniera complessa. Aiutano i vari indici tra cui il dramatis personae e la cronologia. Grossa mancanza, a cui chi volesse leggere deve assolutamente rimediare, è una dettagliata cartina geografica dei balcani meridionali, indispensabile per capire dove si sono concentrati i fatti. Dalle pagine del libro emerge anche una teoria sul perché di questa guerra, una guerra di civiltà, tra popolazione geograficamente mescolate ma spiritualmente divise, che sulla spinta di antichi odii e rancori e di un furente nazionalismo ha trasformato quella che un tempo veniva indicata come la terra della convivenza nel teatro del più crudele conflitto della storia europea del dopo nazismo. Recensione/10 No one belongs here more than you Livia Fagnocchi S ono in un terribile umore Miranda July, che in questo caso è un aggettivo. E' malinconia con il retrogusto dolce. E' affaticamento dall'ordinario. E' stupore per i lati BC-D-etc delle cose. E' rassegnazione ottimista. E' noncurante fiducia. E' ricerca degli interstizi fra le persone, le abitudini, i caratteri. Dove si annidano manie, pensieri audaci, stranezze, dove si nascondono, appunto, i lati B-C-D-etc delle apparenze. Tutte queste cose, Miranda, le racconta come fossero svegliarsi la mattina e fare pipì. Uscire di casa e correre al lavoro. Coricarsi e abbracciare il cuscino. Cose più ordinarie dell'ordinario. E infatti Miranda non racconta queste, ma racconta tutte le storie di cui sopra come se fossero queste. Le fiction italiane raccontano la A dei drammi quotidiani, perché il pubblico ama vedersi rappresentato dalle storie televisive. I racconti di Miranda July parlano delle trame irrisolte, inimmaginabili, perverse e geniali, ambientate negli stessi luoghi e con gli stessi protagonisti: i vicini di casa, la relazione con il migliore amico, l'adolescente omosessuale, il trasferimento da cit- tà a paese, le amiche morbose, e così via. Sono tutti figli di Cidrolin de I Fiori Blu, tridimensionali e genuini, scorretti e credibili. loro punto di vista è accettabile, comprensibile, divertente e infine epico. Ci dice qualcosa di noi che non sapevamo: No one belongs here Miranda July ha la dote di scrivere in maniera calligrafica, se si può dire. Scrive in prima persona, entra nell'universo psicologico e maniacale di ogni personaggio, tira fuori il lato più comico e surreale, lo sbatte su uno scenario riconoscibile e ce lo propone a 10 cm di distanza, come fosse un fotoromanzo che si sfoglia di fronte a noi. La sua scrittura è terribilmente vicina, la sua mano che scrive ha una calligrafia puntuale, i personaggi sono amichevoli, il more than you, è il titolo originale (Tu più di chiunque altro, la traduzione al pubblico italiano, che fa molto Moccia - e anche qui è aggettivo). 25 Miranda July è una scrittrice "confidenziale" (come direbbe Morgan a X-Factor), e ha una calligrafia spettacolare per descrivere l'obliquità dei lati B-C-D-etc che ci piacciono tanto. Quanto i Pavement. Graphic Novel Parola, immagine e immagin-azione di MARINA PIERRI I am going to look at the stars. They are so far away, and their light takes so long to reach us… All we ever see of stars are their old photographs. (Dr. Manhattan, “Watchman”) I fumetti hanno rubato alle novelle e le novelle si sono prese la loro buona rivincita. Così è nato l’ibrido. Uno di razza. La graphic novel. Che non è fumetto e non è novella, ma è qualcosa di più delle due cose messe assieme. Ci sono molte maniere di leggere un libro: c’è chi lo fa con distacco e chi vive con la storia, nella storia. Il primo si fa costruire dalla lettura; quando apre un libro è sempre nuovo, bianco come una pagina. Il secondo si riversa su ogni titolo e autore con tutto il peso della sua esperienza, o bagaglio personale. Il primo lettore si fa costruire dalla lettura, potremmo dire; il secondo la costruisce. Il primo è più veloce. Immagina poco, o lo fa senza eccessiva cognizione. Il secondo apre un sipario e, ogni volta, vede qualcosa di simile a una piéce teatrale, o a un film. Con un salto teorico certamente azzardato, perciò, permettetemi di immaginare che esista un lettore “verbale” e uno “analogico”: una persona-parola e una persona-immagine. Ipotizzando (in modo assai riduttivo) che esistano questi due profili con caratteristiche opposte e speculari, vorrei dire che la graphic novel, magnifico congegno, serve ugualmente entrambi perché è, per sua natura, doppia. È un libro-parola e un libro-immagine: cioè una parolaimmagine che si presenta non come sembrerebbe “ovvio”, su uno schermo, ma tra le pagine. È la terra di mezzo dove le proprietà dell’una e dell’altra cosa convivono. L’immagine, proprietà del cinema, è “chiusa” per eccellenza: la telecamera, o la macchina fotografica, è un agente discriminante. Quello che non viene ripreso o fotografato nell’immagine, virtualmente esiste ma non c’è di fatto. D’altro canto, la parola svolge una funzione opposta di “apertura”, ossia di evocazione di quello che non c’è, ma esiste. Jean Luc Godard usava le scritte in sovrimpressione sui fotogrammi precisamente per questo motivo. Era convinto del fascismo dell’immagine e voleva scardinare il fotogramma, aprire la presenza (l’immagine) con l’assenza (la parola). Tornando ai nostri due profili, allora possiamo dire che il primo, la persona-parola, sia un lettore “aperto”. E l’altro, la persona-immagine, sia un lettore “chiuso”. Naturalmente la lettura, reggendosi sulla virtualità della parola e su essa soltanto, è immagin-attiva. È ragionevole supporre che entrambi i nostri lettori immaginino e facendo questo agiscano (immagine + azione = immaginazione), ricostruendo porzioni di universi finzionali o meno in maniera meno definita e iper-definita. La graphic novel, come dicevamo, rappresenta un inconsueto prestadio del cinema e un ancora più inconsueto post-stadio dell’imma- 26 ginazione. I disegnatori immaginano i contesti, i personaggi descritti e i luoghi: tolgono l’incombenza di rappresentazione al lettore “aperto” e soddisfano il lettore “chiuso”. I testi, d’altro canto, contengono marche specifiche (i classici blob bianchi possono essere tratteggiati se si bisbiglia, o tremolanti se, come Rorscach in “Watchmen”, la parola è soffocata) che forzano le didascalie già immaginate a introdurre via via nuovi elementi, mettere in discussione i contorni delle cose mostrate, spezzare la natura totalitaria del disegno. Non solo. C’è un passo ulteriore e decisivo, assolutamente immagin-attivo: la trasformazione, commutazione, traduzione delle vignette nel mondo che conosciamo con i nostri sensi. Un’esperienza di lettura unica. Se esiste, perciò, un luogo dove l’attualità è ancora virtuale e la virtualità già attuale, quella è la graphic novel. Il fumetto ha rubato l’anima alla novella e la novella gli ha rubato il corpo. L aura. Laura è alta un metro e mezzo. Ha cinquantaquattro anni. Lavora in una fabbrica dove fanno il gelato: arriva il furgone, si prende il gelato e lo porta ai gelatai, i bambini mangiano il gelato, i gelatai finiscono il gelato, il furgone riparte e torna alla fabbrica dove lavora Laura, che intanto ha fatto altro gelato. Facile. Facile, e alla crema. gno per le femmine, e uno per i maschi. Si chiama Magdalene, il locale, ma tutti lo chiamiamo: la Maddalena, come l’evangelica puttanella. Angie esce dal bagno, mi fa un sorriso gentile e va a prendersi una birra senza passare dallo specchio. Entro in bagno. Sul muro c’è una fresca scritta rossa. Incomprensibile. Nel film Taxi Driver, Jodie Foster fa la parte della puttana. Quando incontra un cliente si accende una paglia, dà un tiro e mezzo e la appoggia sul posacenere. «Possiamo stare insieme finché dura la sigaretta», dice. Angie suona il pianoforte, ma dopo tre minuti si stufa. Allora smanetta un po’ con il computer, spinge il tasto Rec e si accende una paglia. Dà un tiro e mezzo, e la appoggia sul posacenere. Poi si siede al pianoforte, e suona. A caso. Muove le mani sui tasti finché dura la paglia, poi si inventa un finale, e spinge il tasto Stop. Il file mister buonanotte.wav finisce su un cd vergine, il cd si veste di plastica morbida e si tuffa nella borsa. Dimentica sempre le luci accese, Laura, e non si trattiene nel mangiare. Sulla gelataia da uno e cinquanta circola una strana voce: dicono che sappia strappare a metà un foglio di carta nel senso dello spessore. Chissà se è vero. Laura ha una figlia della mia età, si chiama Mariangela. Un nome che odia. Tutti la chiamano Angie, come la canzone dei Rolling Stones. Angie non sopporta i Rolling Stones. Questa è la storia di Angie. Anzi, la Storiaccia di Angie e Mister Buonanotte. Un po' sconclusionata. Ve la racconto come me l’hanno raccontata. Un mese prima Angie e Mister Buonanotte hanno fatto qualcosa di simile al sesso. Il giorno dopo Mister Buonanotte ha chiamato Angie, le ha fatto un Certo Discorsino e lei ha detto: «Ho capito, ho capito», ma in realtà non aveva capito niente. Aveva solo mal di pancia, e voglia di strappare fogli di carta, come sua madre. Dopo qualche settimana di vento inutile, la rubrica del cellulare di Mister Buonanotte torna a gironzolare dalle parti della lettera A, e parte il messaggio: OH, AVEVI RAGIONE. Quando arriva il messaggio di Mister Buonanotte, Angie si accende una paglia, dà un tiro e mezzo e la appoggia sul posacenere. Poi Angie diventa una specie di Jodie Foster, pensa al collo di Mister Buonanotte, e suona. Felinomachìa La storiaccia di Angie e Mister Buonanotte di SIMONE ROSSI Sputa una cicca nel water, ci fa la pipì sopra e poi tira l’acqua. Cicca è il chewing gum. Spesso uno dice cicca e pensa a una sigaretta, o a quel che ne rimane. Le sigarette da noi si chiamano paglie. Comunque Angie si sputa tra le gambe, la cicca fa plic sul bianco della liscia discesa del cesso e lei ci fa la pipì sopra, poi tira l’acqua. Si occupa della sua igiene come meglio crede e si tira su i pantaloni. Hanno bussato due volte, da quando abbiamo iniziato a parlare di gelati. CERTO CHE AVEVO RAGIONE. CI VEDIAMO ALLA MADDALENA, STASERA. – Hai suonato per me. Cazzo, grazie. – Cazzo, prego. – Cos’è, non devo dire le parolacce? – Puoi dire quello che ti pare. – Ce l’hai ancora con me? – Lasciamo stare. E comunque non ho suonato per te. – Ce l’hai ancora con me. – Lasciamo stare, ti va? Piuttosto: ce l’hai una paglia? – Una. Ce la smezziamo? – Vabbè, la scrocco. – Usciamo fuori. – Occupato, – dice Angie. Infila una mano nella borsa e tira fuori un pennarello rosso. Abituata alla puzza, si concede un sospiro. Poi leva il tappo al pennarello, appoggia la punta contro il muro del cesso e, con mano mancina, scrive. La prima delle due ragazze che hanno bussato è entrata nel bagno di fianco: era libero. La seconda ragazza sono io. Il locale ha un ba- Fuori dalla Maddalena, Angie mi scrocca una paglia e 27 raggiunge il suo amichetto. La pancia aperta sul cemento, tanto di quel sangue, dappertutto, e peli schiacciati, sporchi. Le zampe dietro non ci sono più. E la testa: sulla testa la ruota non è passata, e la testa ha gli occhi, gialli, azzurri, spalancati, in bocca si vedono i denti, gialli pure quelli, la bocca si apre, il gatto miagola. Il gatto miagola, lurido, rauco, con una gran voglia di morire. – Ma perché abbiamo fatto una cosa del genere? – Perché ci andava. – Già. Credi che lo rifaremo? – No. Non credo. – Però è stato bello. – Bello, e inutile. – Come il fumo. – Questo non vuol dire. – Come ti è venuta, la mia canzone? – Non mi tremavano le dita, neanche un po’. – Questo non vuol dire. – Ma questa faccia? Perché hai questa faccia, Mister Buonanotte? – Ma che storiaccia è? – dice Angie. – Sei tu che mi hai chiesto perché ho questa faccia: te lo sto dicendo. – E tu cos’hai fatto? – L’ho lasciato lì. – Come, l’hai lasciato lì? – Cosa dovevo fare, dargli il colpo di grazia? – Ma no. Che ne so. Spostarlo? – Non ce l’ho fatta. Non sapevo da dove prenderlo. – E l’hai lasciato lì. – L’ho lasciato lì. – Ma che storiaccia è? – Eh. – Suppongo che cose simili capitino in continuazione. – Come no, – dice Mister Buonanotte spegnendo la paglia. – Ma almeno uccidetelo, ‘sto povero gatto: va bene l’amore per gli animali, ma per un gatto mezzo morto è meglio morire del tutto, no? – Possiamo cambiare discorso? – Sì. Anche se mi sembra che quello che ci dovevamo dire ce lo siamo dette. Mister Buonanotte di nome fa Carlotta. È una femmina, e le piacciono le femmine. Soprattutto le piace Angie. Non ha capelli, quasi per niente. Sarebbe bionda, e riccia, ma ogni ventotto giorni si concia come la luna piena: specchietto, canotta, macchinetta. Bzzz. Succede spesso che la scambino per un ragazzo, non fateci caso. Un ragazzo magro di 15 anni. Mister Buonanotte è un soprannome nato al caldo, sotto un cielo di stoffa. Ma questi sono fatti loro. L’utilitaria di Mister Buonanotte è piccola, sporca e piena di benzina. È buio da un po’. Carlotta è sola, tiene il volante e tiene il tempo. Dieci metri più avanti c’è un’altra automobile, più grossa. Dentro sono in due. Uno guida, e parla. L’altro non guida, e non parla. Davanti all’automobile grossa c’è uno scooter, probabilmente. Sì, è uno scooter: senza freccia, lo scooter si butta a sinistra, ma non sta sorpassando nessuno. Nell’altra corsia non c’è un cane. Nella nostra c’è un gatto. Non c’è niente da ridere. Nella nostra corsia c’è un gatto. Il gatto attraversa la strada all’improvviso: è bianco, e sta per morire. Lo scooter si butta a sinistra, e lo schiva. Il tizio che non parlava urla, quell’altro sterza, ma il gatto finisce sotto. Carlotta inchioda. Lo specchietto retrovisore è vuoto, Carlotta accosta, per radio la gente continua a cantare e uno stupido gatto bianco si è appena fatto ammazzare. Carlotta spegne il motore, la radio si spegne da sola. Con una mano davanti alla bocca, Carlotta cammina verso il gatto. Angie sta zitta, sa che la sua amica non sarà più la sua amante ed è dispiaciuta per un gatto che non ha mai conosciuto. Tutt’intorno c’è il solito odore della Maddalena, la gente in fila per il bagno legge gli adesivi sui muri e i bidoni del vetro tintinnano di bottiglie vuote. Da lontano, da dove sono io, le due ragazze sembrano una ragazza e un ragazzo. Un ragazzo di 15 anni, magro. Mister Buonanotte si guarda il piede con cui ha appena spento la paglia e le viene un brivido di freddo. Torno dentro o torno a casa? Torno dentro o torno a casa? Torno a casa. Ancora silenzio, o chiacchiere inutili, che è pure peggio. – Oh, grazie per il cd. – Buonanotte, Mister Buonanotte. – Buonanotte, Angie. Avrei voluto fare a meno di raccontarvi la storiaccia, ma l’incosciente felino si è buttato nel mezzo. – Ma la macchina ha tirato dritto? – chiede Angie. Non che la cosa cambi le sorti del gatto. – Non che la cosa cambi le sorti del gatto, – dice Mister Buonanotte. Comunque, sì: hanno tirato dritto. – Il gatto, dice Mister Buonanotte, e lo dice con fatica, era mezzo morto. – Come, mezzo morto? Che schifo. – Come, che schifo? Mezzo morto, povera bestia, l’hanno preso di striscio. Ma l’hanno preso. Il gatto è rimasto per strada una settimana, poi una mattina non c’era più. Saranno passati i netturbini, come si diceva negli anni Ottanta. E poi stamattina pioveva. Sono capaci tutti a fare i fenomeni con i gatti morti, con il giubbottino arancione massima visibilità e i guanti. Soprattutto se il gatto è morto da una settimana. Il difficile è reagire quando la fine arriva di striscio. Ho cercato di spiegarlo a Angie, e a voi. Angie non ha capito niente. Voi? 28 How i met your cat metapostilla supersimpa a Felinomachìa di SIMONE ROSSI S eduta al pianoforte, una checca intonatissima strappa le mutande a tutta Mtv. Checca nel senso di palesemente effeminato, sai che ci frega a noi dei gusti sessuali di… Com’è che si chiama? Non lo conosce nessuno, qua dentro. In questa stanza, la checca canterina è un Carneade totale. Peggio: non se lo chiederà nessuno, chi era costui. Perché tanto, sai che ci frega a noi di… Confortevole, questo nichilismo. flaga Disco Pax, la canzone (Superchiome) si è innestata nel racconto e ha tranciato via le dicotomie maschio/femmina. Magdalene è il nome di un locale che non esiste, lo inventai dieci anni fa per ambientarci un racconto e mi piace ancora. Il foglio di carta strappato a metà nel senso dello spessore l’ho sognato una notte, la parola netturbini mi ha sempre fatto ridere, eccetera. Nessuno ha mai capito un tubo di Felinomachìa. Nemmeno Angie. Però a un centinaio di persone il racconto è piaciuto: mi sono trovato, una sera di metà novembre, a leggerlo in un teatro di Cuneo. Di fianco a me c’era un contrabbassista, tutto intorno Esor-Dire, un contest per giovani scrittori che mi vedeva tra i concorrenti essendo io un giovane scrittore, dicono. Ci ho vinto mille euro per acclamazione popolare, e la cosa ha stupito me per primo: il mio primo concorso, la mia prima vittoria. Incomprensibile. Se i testi si potessero spiegare con altri testi, se l’ermeneutica non avesse bisogno di tutte queste parole, una buona spiegazione a Felinomachìa sarebbe Mezzogiorno di Fuoco, il film. Un’ora e mezza per costruire l’attesa di un Duello Finale che si consuma in due secondi: e allora capisci che la potenza è lì, nei silenziosi movimenti di raccordo che tengono insieme le storie, altro che Gran Finale. Ma a farsi troppe esegesi si diventa ciechi. - Carneade chi?, chiede Omar. - Uno sconosciuto, dico io. - In che senso? chiede Laura. - I Promessi Sposi. “Carneade. Chi era costui?”, lo dice Don Abbondio a un certo punto. Vabbeh, la storiella è noiosissima. E’ un modo di dire, ragazzi: si dice Carneade per dire sconosciuto. - Ma allora perché non hai detto sconosciuto?, chiede Omar. - Eh, sai, sono uno scrittore, dico io. - Allora scrivimi questo, dice Omar. Invece di accompagnare la frase con un gesto osceno, Omar mi racconta Felinomachìa. Quantomeno, la scena dell’incidente: la macchina che stira il gatto e lui che non riesce a fare nulla. E’ successo veramente, è successo a lui: cose del genere capitano in continuazione. La storia, già disturbante di suo, mi è piovuta addosso surreale e inattesa in un mercoledì sera di ordinario divano, a farsi gocciolare il cervello dal naso a furia di cambiare canale e dirsi come va, eh, come va, come vuoi che vada, va. Nel mezzo delle chiacchiere più o meno interscambiabili si materializza la fotografia dell’incidente, come da un bagno d’acido. Troppo grande per stare dentro una bocca sola. Come quando non vedi un tuo amico da un po’, e lui ti dice che gli è morto il cane: ci rimani male, ma non puoi farci nulla, e poi non c’eri nemmeno troppo affezionato, a quel cane. Una mia amica parla alla radio. Ha, quindi, la voce giusta. Una volta ha letto il racconto davanti a un microfono, ci ha messo in mezzo un po’ di canzoni e ha spinto il tasto Rec. Il file felinomachia.mp3, se lo vuoi, puoi scrivere a [email protected]. Tutti hanno qualcosa da nascondere, eccezion fatta per il sottoscritto e la sua scimmia. Laura è davvero alta uno e cinquanta, fa davvero il gelato, solo che ha vent’anni. Però "la gelataia da uno e cinquanta" era una frase che avrei sempre voluto scrivere. Angie è il nome del mio ipod, del mio hard disk esterno e della protagonista di un’epopea familiare (tipo La casa degli spiriti) che scriverò quando diventerò femmina e sudamericana. Di nome fa Carlotta è una citazione degli Of- 29 Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha co-fondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. prattutto fotografica. È un avido lettore. Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l'organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di "Marcellino Pane e Vino". Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i C.O.B.R.A., i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Livia Fagnocchi è curiosa, entusiasta e dentro tante storie. Si ossessiona facilmente di canzoni, di mongolfiere, di take-away indiani, di zucca, di misteri, di treni. Cerca analogie, coincidenze, e stare bene. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l'abbonamento all'Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po' di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l'espressione *lobbista*. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Viviana Lisanti è laureanda in Scienze Storiche all’Università Statale di Milano. Sognando il giorno in cui potrà vivere della sua sola scrittura, per ora si mantiene improvvisandosi grafica nell’azienda di famiglia. Alberto Cocchi è laureando magistrale in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Modena-Reggio Emilia. Concentra i suoi studi sull'uso dell'immagine, so- 30 logna dove scrive per le pagine culturali del Riformista e dell'edizione locale del Corriere della Sera. Comincia a credere che Hemingway avesse ragione quando affermava che "la metà degli italiani scrive e l'altra metà non legge". Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico Come secondo lavoro, Simone Rossi scrive di musica, teatro e amenità varie per un noto quotidiano romagnolo. Il primo lavoro lo sta cercando. Nel frattempo, una volta, è stato in Etiopia. Il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Stonatuccio musicista da marciapiede, suona l'ukulele e ha un gatto di nome Chomsky. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l'inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell'800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Sara Reali, puoi trovarla in mezzo al pubblico di un concerto, dove tutti sono inevitabilmente molto più alti di lei, ma non le importa: adora emozionarsi per due accordi ed una voce calda quanto per un bel film visto in compagnia. Se non esce la sera, è perchè sta leggendo una storia appassionante e magari ride o tiene il fazzoletto a portata di mano. Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell'arte dell'insignificanza, ovvero del non voler dire nulla. Andrea Rinaldi è giornalista professionista e vive a Bo- n. 0 Marzo 2009 [email protected] www.finzionimagazine.it 31 www.finzionimagazine.it