Domenica
il fatto
I detective della nuova tubercolosi
La
di
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
MARIO CALABRESI e DARIA GALATERIA
il reportage
Repubblica
I segreti del Taj Mahal, pianto di pietra
FEDERICO RAMPINI
Benvenuti a Brescia,
la nuova capitale
dell’Italia futura,
dove un bambino
su tre nasce
da genitori immigrati
La città
FOTO EDEN
Babele
la storia
GABRIELE ROMAGNOLI
P
BRESCIA
arafrasando la Bibbia (Genesi 11, 1-9): «Tutta la città
aveva una sola lingua e le stesse parole. Dissero: costruiamoci una torre e facciamoci un nome, per non
disperderci su tutta la terra. Ma il Signore disse: ecco,
essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è
l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare
non sarà possibile. Confondiamo dunque la loro lingua, perché
non si comprendano più l’uno con l’altro. Emigrando dall’oriente uomini capitarono nella città, che si chiamò Babele». O
Brescia.
Dalle targhette sui campanelli delle abitazioni di un edificio in
Via delle Battaglie: Palaganas, Ajubaladi, Saharom, Rare Jewei
(Bangladesh), Abdal Mohammed, Agal Ibrahim, Shafiquul, Topaktas.
A quel punto, fermo in mezzo alla strada, guardando il portone, ascoltando le voci di due egiziani fermi all’incrocio («Essaiek?» «Amdulilleh»), di un cingalese al telefono di una residua
cabina, di Radio Padania Libera (97mhz) che combatteva con la
colonna sonora di un musical di Bollywood in dvd, il sibilo di una
cinese alla collega barista, la preghiera in pijin english di un cameriere nigeriano yoruba e l’esclamazione di un’anziana autoctona entrando dall’ultima parrucchiera, afflitta dal caldo: «Se
mùr! Se crepa!», ho capito di essere davvero arrivato a Babele.
Il viaggio era cominciato a tavolino. La meta da individuare era
il luogo d’Italia che oltre un decennio di immigrazione aveva
maggiormente rivoluzionato. E frammentato. Non una Chinatown o un qualunque altro aggregato omogeneo. Un pianeta arcobaleno, la somma di tutte le origini, l’avverato incubo (o sogno, o destino, dipende dai punti di vista) multietnico, che prende il posto della realtà nazionale, spazza via la polvere dell’identità e lascia sulla strada... che cosa? Questo era da verificare. Dove? A Brescia, secondo le indicazioni dell’Istat.
Dai loro dati: l’88% della popolazione straniera risiede nel
Centro-Nord, ben un quarto in Lombardia, con un’incidenza
del 7% cento sul totale dei residenti. Nella provincia di Brescia
questa quota sale al 9,4% e supera il 13% quando si considera il
comune.
L’insediamento più antico è stato di comunità dal Senegal, Filippine, Ghana e Algeria. Ora i residenti stranieri nella Provincia
sono oltre centomila in rappresentanza di 151 Paesi, dagli oltre
quindicimila marocchini al cambogiano triste e solitario, ma
non «finàl», giacché essi si riproducono e un nato su tre non è italiano. Con queste premesse sono entrato a Brescia in una mattina d’estate in cui «se mùr, se crepa» alla ricerca del microcosmo,
del simbolo, del marchio di Babele.
(segue nelle pagine successive)
con i dati di un’inedita elaborazione ISTAT
Il Tour de France a pane e acqua
GIANNI MURA e PAOLO RUMIZ
cultura
Goldblatt, poeta del bianco e nero
ANDRÉ BRINK
la lettura
Gli amabili spettri di Conrad e Benet
JAVIER MARÍAS
spettacoli
America, il paese trita-auto
SIEGMUND GINZBERG
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
la copertina
54%
la percentuale
di stranieri sposati
Erano il 40%
nel 1992
15,4%
i matrimoni misti
a Brescia
In Lombardia
sono il 12,6%
21,5%
FOTO FRANCESCO GIUSTI
i matrimoni
tra stranieri
o misti
a Brescia
COPERTINA
In copertina,
campanelli
nel vecchio centro
di Brescia
In questi vicoli - come certifica l’Istat - convivono 151 etnie,
più di un abitante su otto è straniero, un neonato su tre
viene da famiglie di immigrati. La città-babele,
il melting pot dell’Italia futura sta proprio qui,
all’ombra della storica, duecentesca Torre della Pallata
Tutte le lingue di Little Brescia
GABRIELE ROMAGNOLI
(segue dalla copertina)
o attraversato periferie
in tutto simili, anche per
popolazione, al resto
d’Italia, quartieri di un
futuro mai avverato
(Brescia Due) e sono arrivato al centro, dove mi è apparsa la
traccia del traguardo. Se cerchi Babele,
devi trovare la Torre. Ecco la Torre della Pallata, altezza trentuno metri, eretta nel Tredicesimo secolo. Ai suoi piedi una fontana del 1596 con due bocche a rappresentare altrettanti fiumi.
Di lato: un phone center di prossima
apertura, colonne romane e Money
Gram, antiche pietre e vaglia per la
Moldova.
Sono ai confini della Contrada del
H
Carmine, cuore del centro storico di
Brescia, strade che portano i nomi di
Garibaldi e dei Mille, o quelli più antichi di Rua Sovera e Rua Confettera, negozi che parlano un’altra lingua.
Dalle insegne di alcuni esercizi commerciali nelle vie del quartiere: Halal
meat, World travels (we speak italian,
english, urdu, punjabi, esperanto),
Bangla Shop, Emporio Hua Li, Madina
Trading, Desent Hair Studio, Nuovi arrivi (in tricolore) Negozio Italiano,
Vendesi attività, Vendesi attività, Vendesi attività.
I negozi e i palazzi raccontano la storia della contrada. E un po’ lo fa anche
Mario Labolani, presidente della circoscrizione, pantaloni rossi e bicicletta elettrica, candidato per Alleanza Nazionale, eletto a maggioranza assoluta
e «imbattibile anche la prossima volta,
qui votano tutti per me». Se non che
«tutti» sono sempre meno. Tutti sono
pochi. Ufficialmente gli stranieri nella
contrada sarebbero il 34%. Con gli irregolari la cifra raddoppia e si intuisce a
vista d’occhio. C’era una volta il centro
storico di una città lombarda, vecchie
case piene di storia e muffe, in mano
quasi esclusivamente a tre famiglie
(Boscain, Morosini, Tinti).
Cominciarono ad affittare i locali,
spazi sempre più piccoli a prezzi sempre più alti. Li potevano pagare i clandestini e i disperati. Magari i fuorilegge. Vennero i senegalesi, vennero gli albanesi, poi i cinesi, i pakistani. Stretti
tra loro e gli uni accanto agli altri. Questa è la caratteristica unica, forse al
mondo, della Babele del Carmine: percorri una strada e fai il giro del pianeta.
Altrove, perfino nelle metropoli d’America, i cinesi si prendono un intero
quartiere, i sudamericani stanno tra
loro, possibilmente al di là di un fiume,
i coreani si radunano attorno a quello
che ritengono il simbolo di maggiore
potenza della città.
Al Carmine, per non avere briciole,
hanno diviso la torta e la mangiano allo stesso tavolo. I cinesi si sono presi i
bar, i bengalesi i negozi di frutta e verdura, i pakistani i phone center, gli albanesi la prostituzione, i nordafricani
(capeggiati dal carismatico Stampella,
lesto di mano più che di gamba) il traffico di stupefacenti.
È cambiato tutto e ancor più cambierà. Al Carmine, se vedi un cane o un
gatto è di un italiano, se vedi un bambino è di uno straniero. La scuola all’ora della ricreazione sembra una pubblicità di Benetton. Chi non vuole mischiarsi va a studiare dalle dorotee. I
più restii all’Onu dell’apprendimento
sono i cinesi, secchioni e disciplinati
per natura, che considerano palle al
piede il resto del mondo e spesso emigrano verso banchi di altri quartieri
meno frammentati.
Al Carmine, se vedi un negozio merceologicamente superato (Coppe, targhe, incisioni Benedini, Caccia e Pesca
La Rossana) è italiano, tutto il resto,
quel che si compra e si vende davvero
ogni giorno, il cibo, le stoffe, le schede
telefoniche, è straniero e sottocosto.
L’abbigliamento per neonati è cinese.
Le onoranze funebri (Curati, o Cùrati,
dal 1935, italiano). C’è un ristorante indiano (Taj Mahal) che serve menù italiano a mezzogiorno e ci sono due lumbard che vendono abbigliamento etnico su un banco in piazza. Chi ha passato l’attività è stato pagato in contanti,
parte in nero, ha sorriso e adesso critica l’immigrazione selvaggia seduto
per ore a un tavolino con il conto in
10,4%
gli studenti
stranieri sul totale
degli alunni
In Italia sono il 4,8
12,3%
gli studenti
stranieri
nella scuola
primaria a Brescia
17.814
gli studenti
stranieri
nella provincia
di Brescia
CITOFONI
A sinistra
e in alto a destra,
il melting pot
dei citofoni
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
2,97
i figli per donna
straniera
in provincia contro
l’1,2 delle italiane
35,1%
i nati a Brescia
con almeno
un genitore
straniero nel 2005
20%
i minorenni
sul totale
degli stranieri
a Brescia
COPPIE
banca a fare da scudo. Se vuole installare il condizionatore («Se mùr! Se crepa!») chiama Hafeez Tahir, «the best
electrician» del quartiere.
Dalle scritte sui muri del Carmine:
«Quieres cafe mi vida? Sirvetelo», «Ika
tangy», «Palestina rossa», «I shin den
shin», «Morte al fascio».
Il cambiamento lo vedi, lo ascolti, lo
puoi perfino annusare. All’ora dei pasti salgono odori multietnici, speziati e
forti. Al mercato locale le vendite di cipolle sono più che decuplicate. Un
africano cucina nel suo take away dove
sono esposti un menù internazionale e
l’invito «Vieni, qui trovi Little Senegal a
Brescia». Penso che la definizione sia
imprecisa. La Babele del Carmine non
è la somma di Little Senegal, Chinatown e Rabat Due.
È, piuttosto, Little Brescia, quel che
resta dal tempo in cui «tutta la città ave-
FOTO EDEN
A sinistra
e sotto, coppie
di immigrati
nei parchi cittadini
Città campione
Multietnica
Prolifica
L’88% della popolazione
straniera in Italia risiede
nel Centro-nord, un quarto
in Lombardia, il 7%
sul totale dei residenti
Nella provincia di Brescia
questa percentuale sale
al 9,4% e supera il 13%
nel Comune
Gli stranieri residenti
in provincia sono oltre
110mila suddivisi in 151
etnie. I più numerosi sono
i marocchini (oltre 15mila)
seguiti da albanesi
(14mila), pakistani
e indiani (oltre ottomila),
romeni (oltre settemila)
A livello nazionale i nati
di cittadinanza straniera
sono il 9,4% del totale
dei nati residenti
nel 2005. In Lombardia
superano il 15%
e nel comune di Brescia
la percentuale raddoppia
arrivando al 31,3%
va una sola lingua e le stesse parole».
Poi ha cominciato a costruire la Torre,
ma nessuno se ne è messo a guardia.
Gli uomini emigrati da Oriente sono
entrati portando le loro lingue, i costumi e gli ingredienti per il pasto, accolti
con un sospetto che l’avidità dissipava. Pagavano il pedaggio, dunque
avanti. Quando la distrazione e il tornaconto hanno lasciato il posto alla
constatazione tardo sbigottita, Rua
Sovera era già una terra di mezzo e nel
Carmine la babele di voci si levava da
quaranta phone center. C’erano un
barbiere per arabi e una parrucchiera
per africane, un alimentari cinese e
uno pakistano, con un’offerta così variegata e sottocosto, una clientela così
precisa e limitata da rendere legittimo
il sospetto che a garantire la sopravvivenza fossero anche altri commerci, a
cominciare da quelli dei permessi di
FONTE ISTAT
Tutti i dati che certificano
come, sia rispetto al comune
che alla provincia, Brescia
sia la città-babele, ovvero
la città statisticamente
più multietnica d’Italia,
dati utilizzati
per l’inchiesta di copertina
e riportati in queste pagine,
sono stati elaborati
appositamente
per la Repubblica
dal Servizio statistiche
demografiche dell’Istat
soggiorno, garantiti da assunzioni di
facciata in un qualunque esercizio
commerciale.
Dalla sezione annunci economici,
rubrica incontri, del quotidiano Brescia Oggi: «Cinese, ottima massaggiatrice», «Marocchina calda riceve»,
«Thailandese cortese, non te ne pentirai», «Argentina bionda, gentilezza e
relax», «Trans brasiliana, anche a domicilio», «Russa, tacchi alti e calze nere, condizionatore», «Giovane bulgara, come tu mi vuoi».
Adesso si corre ai ripari: una legge regionale ha limitato il numero dei phone center, si impongono restauri negli
appartamenti e si controllano gli affitti, ma la legge di natura è implacabile,
nel giro di dieci anni l’ultimo italiano
lascerà, per scelta o per decesso, la
contrada al cui ingresso, ironicamente, esiste e resiste un negozio chiamato
«Medinitali». È una maledizione o una
benedizione? Il testo della Genesi ha
diverse interpretazioni.
Una sostiene che la «cittadella universale» che si stava erigendo, con al
centro la torre, simboleggiava la cancellazione della diversità delle lingue,
delle culture, della gente. Dio sarebbe
intervenuto per impedire agli uomini
di distruggere una parte essenziale
dell’umanità: la diversità, che sarebbe
addirittura sacra. Secondo questa teoria quello della torre di Babele è un racconto satirico, è una satira dell’impero, che condanna l’uniformità, esalta
la diversità e ci dice che è voluta da Dio,
appartiene al nostro patrimonio e non
si può cancellare. Qui siamo, cittadini
di una contrada globale, tra tonnellate
di cipolle, carne halal, massaggi relax,
scarpe da cinque euro, preghiere in
tutte le lingue del mondo. E così sia.
97.388
i permessi
di soggiorno
in provincia
al gennaio 2006
50,8%
gli stranieri in età
attiva (18-39 anni)
contro il 29%
degli italiani
FOTO STEVE PREZANT/CORBIS
42.480
gli stranieri
che lavorano
nel comune
di Brescia
BABELE
In queste pagine,
quattro quadri
della torre
di Babele
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il fatto
Pandemie
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
È una malattia antica, resa leggendaria
dai libri dei nostri nonni. Sembrava sconfitta
dai farmaci del Novecento ma in anni recenti,
nella distrazione di governi e Big Pharma,
è tornata a uccidere. Fino a quando, pochi
giorni fa, è spuntato il “malato perfetto”
Nel laboratorio-sentinella
della nuova tubercolosi
MARIO CALABRESI
S
NEWARK
uccesse nel 1990, quando la tubercolosi,
ormai quasi scomparsa, incontrò una
pandemia nuovissima, apparsa a
Manhattan meno di dieci anni prima.
Una delle malattie più antiche della storia dell’uomo, presente da quindicimila anni, rintracciabile
perfino nelle mummie egiziane, trovò l’habitat ideale per risorgere: i corpi debilitati dall’aids. Ma si presentò con una sorpresa: non era più solo la malattia
scatenata da quel micobatterio scoperto da un oscuro medico tedesco, Robert Kock, nel 1882 e curata
con farmaci messi a punto negli anni Quaranta, aveva un volto nuovo e sconosciuto, aveva fatto il salto
di qualità, era diventata più forte e resistente ai vecchi antibiotici.
Il primo caso apparve in un carcere a nord di New
York. Sarebbe rimasto isolato, ma il «peggior scenario possibile» doveva avverarsi.
L’uomo uscì per curarsi e la sorte volle che nell’ospedale in cui
arrivò il reparto dei malati di tbc
e quello di chi aveva l’aids conclamato fossero contigui. Fu
un gioco da ragazzi e tra le due
malattie si celebrò un matrimonio perfetto. La tbc è vigliacca, capace di dormire per anni
nei corpi sani per presentarsi
non appena riconosce i primi
sintomi di debolezza: vecchiaia, alcolismo, malnutrizione, droga. Niente di meglio di
una malattia che distrugge il sistema immunitario come
l’aids, quello è l’habitat ideale e
allora la combinazione diventa
esplosiva.
L’epidemia a New York fu
terribile: in quarantatré mesi,
dal gennaio 1990 all’agosto ‘93,
i casi furono oltre dodicimila.
La città corse ai ripari, spese un
miliardo di dollari per fronteggiare l’emergenza, riaprì i laboratori chiusi nell’era reaganiana, stanziò fondi in una
lotta contro il tempo e di fronte al vecchio ospedale
Bellevue, lo storico sanatorio di New York, nacque
un centro d’avanguardia dove raccogliere i migliori
medici e microbiologi per fermare l’epidemia e attrezzarsi per il futuro.
Il simbolo di quello sforzo oggi si è trasferito in New
Jersey, a Newark, attratto da una politica intelligente di finanziamenti alla ricerca: è un edificio nuovissimo che si raggiunge in venti minuti di treno da
Manhattan. Qui c’è la sede del TB Center, il centro
che studia la tubercolosi del Public Health Research
Institute. Nove laboratori d’avanguardia, ognuno ha
grandi stanze BL3, spazi di bio-sicurezza di terzo livello, a pressione negativa — l’aria è filtrata ed entra
ma non esce — ci si accede solo con la tuta, la mascherina e gli occhiali, qui si studiano i micobatteri
della tubercolosi. Ce lo racconta Marilà Gennaro,
medico italiano con specializzazione a Londra che fa
ricerca da più di vent’anni negli Stati Uniti. Dirige
uno dei gruppi che studia le risposte immunitarie e
nuovi metodi di diagnosi.
Sullo stesso piano, un ambiente impressionante
per gli spazi, la luce e le tecnologie d’avanguardia, lavora Barry Kreiswirth, microbiologo. Sul suo tavolo
un mattone con incisa una scritta, «Non sputate sul
pavimento», viene da un sanatorio degli anni Venti,
intorno i poster della prima metà del secolo scorso
con i bambini malati che dicono: «Non baciatemi».
Lui è un investigatore. È quello che prende le impronte digitali ai batteri della tbc, li scopre, li traccia,
li archivia e così li può seguire, può ricostruire percorsi dei contagi, per cercare di rompere la serie.
Ha scoperto il colpevole delle morti: «Ci volle oltre
un mese, mentre eravamo nel bel mezzo dell’epidemia. Lo isolammo, capimmo che era simile al ceppo
Beijing che si trova in Asia e nell’Europa dell’Est ma
questo era diverso da tutti gli altri. Era nato qui. Era il
ventitreesimo, lo chiamammo «W»: i batteri hanno le
lettere dell’alfabeto come gli uragani, qualcuno dice
che la scegliemmo perché significava «wicked», malvagio, ma la verità è che era la prima lettera disponibile. Identificammo 357 pazienti con il W, in gran parte sieropositivi, morirono quasi tutti, il novanta per
cento, fu terribile ma questo fermò l’epidemia».
Oggi i valori sono tornati a scendere ma ci sono ancora un migliaio di casi di tbc l’anno a New York e il
ceppo W circola per l’America. Ogni tanto salta fuori da qualche parte, è successo centosessanta volte
da allora. Una ventina erano persone che a quel tempo lavoravano negli ospedali. Pochi giorni fa è accaduto nella Carolina del Nord: un malato, uno strano
ceppo, dall’ospedale si rivolgono al centro di
Newark, gli mandano una mail con l’identikit, a vederlo stampato su carta sembra un codice a barre co-
A Newark, New Jersey,
sorge il TB Center
dove i migliori ricercatori
studiano nuovi metodi
di diagnosi e nuovi farmaci
Il caso Andrew Speaker,
giovane avvocato bianco,
tipico americano medio,
aggredito dalla tbc,
ha riaperto il rubinetto
dei finanziamenti
IERI E OGGI
Dall’alto, la corsia
di un antico
ospedale per malati
di tubercolosi
Una visita
per la prevenzione
della tbc
in una scuola
americana nel 1938
Uno scienziato
del TB Center
di Newark,
nel New Jersey,
indossa abiti
e mascherina
protettivi
prima di entrare
nei laboratori
dove si svolge
la ricerca di punta
negli Stati Uniti
contro le nuove
forme di tbc
multi resistente
me quelli dei prodotti del supermercato. Lo inseriscono nella banca dati dove ci sono 22.493 micobatteri schedati, il verdetto è W: «Chiedetegli subito se è
mai vissuto a New York», la risposta arriva quasi subito: «Sì, nella prima metà degli anni Novanta».
Già ventidue volte è stato trovato lontano da
Manhattan: il W viaggia nei corpi di chi cambia casa,
lavoro, amici. Un giorno a sorpresa si presenta, insieme a un tumore, al deperimento dovuto ad un diabete non curato, alla droga, all’alcolismo, a un forte
stress; è accaduto a Miami, Las Vegas, Atlanta e perfino a Parigi. «Andrà avanti per generazioni. Ogni volta — conclude Barry — spieghiamo come provare a
curarlo, con quale cocktail di farmaci, perché, se diagnosticato in tempo, la metà dei pazienti sopravvive.
Isoliamo il paziente, facciamo ricerche sui familiari
per prevenire il diffondersi del contagio».
Gli Stati Uniti da soli investono più soldi nella ricerca sulla tbc di tutti gli altri paesi del mondo messi
assieme. Ma non basta. Nel mondo la situazione si fa
più pesante: c’è un morto ogni quindici secondi, che
nell’intero 2005 porta alla cifra totale di due milioni
di decessi. Il numero dei casi è arrivato a nove milio-
ni. «E pensare che era in un declino che sembrava irreversibile, poi l’aids — spiega Marilà Gennaro — ha
rotto un equilibrio e quello che è successo a New York
si è replicato in modo identico in Sud Africa. La malattia ritorna in auge sfruttando le devastazioni dell’aids e, grazie alle trascuratezze delle cure, fa il salto
di qualità, diventa “multi drug resistant”. Prendere
novanta pillole alla settimana, nella fase intensiva,
per poi continuare sei mesi, un anno, è pesante e faticoso, molti abbandonano la cure, senza controlli,
dopo poche settimane non appena hanno la sensazione di stare meglio. Così si selezionano i batteri più
resistenti agli antibiotici, i mutanti spontanei».
«Nei paesi dell’Europa dell’Est che erano sotto
l’Urss — continua Marilà Gennaro — con il crollo del
sistema sanitario sono esplosi i ceppi resistenti ai farmaci. Quasi mezzo milione dei nuovi malati ogni anno nel mondo è di questo tipo. Intanto la tbc corre e
ha fatto il nuovo salto, il terzo: ora è anche “extensively drug resistant”, è la tubercolosi estrema che resiste anche ai farmaci di seconda linea. Si prova a curarla con farmaci sempre più costosi e tossici. In Sud
Africa ha avuto una fiammata all’inizio dell’anno
con una mortalità pressoché totale: la sopravvivenza media dal giorno della diagnosi è sedici giorni.
Una malattia che era terribile ma affrontabile con
farmaci poco costosi e relativamente tossici sta diventando, nelle sue forme estreme, incurabile. Stiamo tornando a scenari di possibile mortalità precedenti alla terapia antibiotica».
Bisogna aumentare la ricerca, ma i soldi non bastano, quando in Occidente si deve dare priorità a
una malattia per assegnare i fondi di ricerca si sceglie
qualcosa che è più vicino a noi, dal cancro al diabete.
Non si punta su malattie che colpiscono i poveri, i
malati di aids africani e, negli Stati Uniti, i neri, gli
ispanici e gli immigrati. Bisogna cercare nuove medicine, l’ultima è del 1963, sono più di quarant’anni
che non si mettono a punto terapie antibiotiche aggiornate, che siano capaci di abbreviare le terapie. E
si devono trovare metodi per fare diagnosi precoci,
prima che i malati diventino contagiosi. Ma costa
troppo alle case farmaceutiche, è uno sforzo eccessivo in termini di tempi e investimenti in ricerca per
dare vita a una medicina che non sarà mai remunerativa, perché utilizzata soprattutto dai più poveri
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Quel male letterario
“quasi una grazia”
DARIA GALATERIA
ra il 1928; per diventare scrittore, George Orwell sentì
«profondamente» che doveva abbandonare i privilegi, e condividere la vita degli emarginati. Impegnò i
cappotti al Monte di pietà, e visse al gelo tra i barboni, che
non lo estromisero — come lui temeva — per il suo accento di Eton. I polmoni erano già in disordine; una tempesta
di nevischio affrontata in camicia degenerò in polmonite e
peggio. Imparò però che a Londra le cimici erano più numerose nei quartieri del sud che in quelli alti; nei dormitori le lenzuola puzzavano maledettamente, e nella notte poteva capitare che un ubriaco venisse a vomitare vicino ai
letti, che distavano un metro (e allora costavano nove pence; la distanza di un metro e mezzo si pagava uno scellino);
insomma si fece tutta l’esperienza che diventò nel 1933
Senza soldi a Parigi e a Londra, e via via tutti i capolavori —
fino a 1984, che gli lasciavano battere a macchina, nell’ultimo sanatorio, per qualche ora al giorno.
Nel 1918 il creatore dell’hard boiled Dashiell Hammett
aveva contratto in guerra una malattia di petto; questo gli
fu di grande aiuto nel lavoro. Era investigatore privato alla
Pinkerton Detective Agency di Baltimora, e nei pedinamenti, settantadue chili per due metri di altezza, non passava inosservato. Ora pesava cinquantasette chili, e lo
chiamavano Slim; ma quando stava bene gli affidavano
compiti turbolenti. In un pedinamento
spuntò un complice che lo
colpì alla testa con un
mattone, ma lui si rifiutò di stare in ospedale; in sanatorio andava,
perché flirtava con le infermiere — una la sposò;
c’era un degente che
quando stava in forze
usciva con uno sfollagente
a fare rapine, e poi si rinfilava nel letto.
«Ma non è morto?», si
stupì nel 1937 lo sceneggiatore Budd Schulberg, sentendo che Scott Fitzegerald
(che era stato in effetti ricoverato per tbc a Tryon nel
North Carolina e poi a Ashville) era stato assunto dalla
Metro-Goldwin-Mayer di
Hollywood — ma era la crisi
del ‘29 che aveva sepolto
l’età del jazz e la sua mitica
coppia con Zelda.
«Il nostro è un tempo che
persegue consapevolmente
la salute, ma in effetti crede
solo nella realtà della malattia», scrive Susan Sontag;
«Nietzsche, Dostoevskij,
Kafka, Rimbaud hanno autorità su di noi precisamente a causa della loro aria malsana». La superiorità dell’artista è, come la tbc insidiosa, un segreto che rende
emaciati. I residenti del sanatorio nella Montagna incantata si avvoltolano con
cronometrici gesti dentro le
loro coperte come fossero
crisalidi e, al riparo dal monCAMPAGNE DI MASSA do, si espongono sulle loro
Qui sopra, un poster del 1917 «eccellenti sedie a sdraio
della Croce Rossa per la lotta nella fredda umidità del prialla tubercolosi. In alto, raggi X mo autunno». «Avevo subia un bambino nella campagna to intuito che lei fosse, senza
anti-tbc (Usa, anni Quaranta) saperlo, uno dei nostri», dice il medico a Hans Castorp,
venuto a trovare un cugino, e poi impaniato per anni in
quel confortevole mondo rarefatto. Thomas Mann trasfigura il sanatorio di Davos nei Grigioni in un nodo di metafore, della borghesia estenuata, del tempo piatto della ripetizione, del rifiuto. «Ma certo che hai conosciuto René
Crevel», gli diceva la moglie, irritata che Mann fosse così distratto sugli amici dei figli; dimenticava che il loro Klaus era
andato a trovarlo in sanatorio? Crevel, un incrocio tra un
arcangelo imbronciato e un marinaio, a un certo punto si
era ucciso, in odio al realismo socialista — infatti era affiliato al surrealismo.
«Anche la sua magrezza era una grazia», dice Dumas figlio della Signora delle camelie. Il Romanticismo a suo
tempo aveva condannato le donne alla virtù, e le cocottes
alla tisi. Nel Novecento i nostri poeti crepuscolari muoiono di consunzione; e subito comincia con Palazzeschi la
derisione («Cloffete, cloppete», si lagna la Fontana malata; «la tisi l’uccide. / Dio santo, / Quel suo eterno tossire /
mi fa morire»). Il primo giallo di Sciascia rovescia la tbc in
male sociale: nel Giorno della civetta il medico delle carceri vuole levare dalle infermerie i mafiosi, e metterci detenuti comuni tisici — impossibile.
E l’insetto — segnalato dal respiro — delle Metamorfosi
(si chiede Pietro Citati in Kafka) non sarà un malato incurabile visto da congiunti insofferenti? «Guarirà», disse nel
1921 il giovane amico Janouch a Kafka, che andava al sanatorio dei Monti Tatra. Kafka usava i gesti come frasi suppletive; si portò l’indice al petto. Poi disse: «Il futuro è già
con me». Nei successivi ricoveri, Dora, diciannove anni, si
innamorò di lui, che andava verso «il porto profondo» scrivendo anche quando da un po’ non mangiava più; e ripensava a suo padre, fonte di tutte le sue debolezze, con una
sorta di remissività («Abbiamo bevuto la birra insieme, tanti e tanti anni fa, quando papà mi portava a nuotare»). Indicava a Dora, senza parole, i letti che ogni giorno si vuotavano; e con tutto il suo sovrumano controllo, fu visto per la prima volta piangere — per lo sforzo di correggere le bozze.
La moglie Fanny nel 1885 aveva invece dovuto accumulare i tavoli attorno alla poltrona di Stevenson per evitare
che, nel dettare l’incantevole Principe Otto, si estenuasse
come al solito a passeggiare eccitato. Interminabile con i
suoi cinquanta chili di peso, i lunghi capelli e i baffi biondi
spioventi, Stevenson vagava, squassato dalla tosse, tra sanatori e i mari del sud alla ricerca dell’immortalità e della
guarigione; la prima era arrivata con L’isola del tesoro; la seconda con Wailima, la grande casa di legno delle Samoa,
con le sedie Chippendale arrivate dall’Inghilterra; gli indigeni e i servitori, con i lava lavatagliati a forma di kilt, ascoltavano estasiati i racconti di “Tusitala”. Erano stati sistemati nelle librerie anche i libri, e Stevenson, a larghe pennellate, ne verniciava i dorsi, per proteggerli dal caldo umido che era — temporaneamente — la sua buona salute.
FOTO ROBERT CLARK/NATIONAL GEOGRAPHIC
E
del pianeta. Così bisogna puntare sui centri di ricerca finanziati con il denaro pubblico. Bill e Melinda
Gates invece stanno sponsorizzando la ricerca di un
vaccino, prima di loro c’erano solo fondi statali anche in questo campo. Da mesi i laboratori di tutto il
mondo e l’Organizzazione mondiale della sanità
lanciano l’allarme, ma sono poco ascoltati.
Poi arriva il “colpo di fortuna”: si chiama Andrew
Speaker. Bianco, giovane, occhi azzurrissimi, avvocato, classe media, con una moglie, Sarah, dai capelli lunghi biondi e con il classico filo di perle al collo. È
l’incarnazione dell’americano tipo. Si scopre che ha
la tubercolosi nella sua forma peggiore, quella estremamente resistente. Scatta l’allarme perché ha viaggiato tra l’Europa e gli Usa, passando per Roma, indisturbato. Viene messo in quarantena. Televisioni,
giornali e siti internet si riempiono delle sue foto. La
moglie gli si avvicina coperta da una mascherina con
il becco da paperino. La tbc entra nelle case americane all’ora di cena, diventa dibattito da ufficio, da treno di pendolari. Occupa le paure dei cittadini. Conquista prepotentemente un posto di rilievo nell’agenda dell’informazione e della politica. E segna una
DETECTIVE
Barry Kreiswirth,
microbiologo,
dirige il TB Center
di Newark:
è uno scienziato
“detective”
che studia i ceppi
della tbc
per scoprirne
le “impronte
digitali”, schedarli
e ricostruirne
il percorso
In questa foto,
mostra la lastra
di un polmone
attaccato
dalla tbc “multi
drug resistant”
sconfitta dei meccanismi di controllo antiterrorismo: Andrew è entrato serenamente in macchina dal
Canada, anche se il suo volto era stato segnalato e l’Fbi aveva diramato l’ordine di bloccarlo senza esitazioni. E se fosse stato un terrorista con un’arma biologica? L’imbarazzo delle autorità è stato terribile.
Prima si pensa che Speaker abbia preso la tbc da
un parente che lavora al Center for Disease Control,
il quartier generale delle emergenze mediche e della
prevenzione a stelle e strisce. Invece quel ceppo non
esiste nei laboratori di Atlanta, sembra possa venire
dal Vietnam o dal Perù, dove lui ha fatto volontariato. Ora Andrew è a Denver e per salvarlo gli dovranno asportare la parte di polmone attaccata dal microbatterio.
E subito arrivano i nuovi fondi, la tbc è tornata a fare paura, il Congresso approva stanziamenti straordinari e si fanno avanti anche i privati per rispondere alle apprensioni dell’intera America. Nei corridoi
del laboratorio di Newark, al tramonto, dietro le vetrate a tutta parete, risuona una battuta: «È il caso
perfetto, un regalo, un vero colpo di fortuna, neanche ce lo fossimo inventato».
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
il reportage
Tra harem e templi
Viaggio alla scoperta del Taj Mahal, uno dei capolavori
dell’arte mondiale sull’altopiano indiano del Deccan. Fu edificato
nel Diciassettesimo secolo dall’imperatore Moghul Shah Jahan
come tomba per la sua favorita, Mumtaz Mahal. Quando
lei non sopravvisse al parto l’uomo più potente del mondo crollò
Il marmo scavato dalle lacrime
P
FEDERICO RAMPINI
AGRA
er il poeta indiano Rabindranath
Tagore la sua forma era «una lacrima sul volto del Tempo». Rudyard
Kipling lo definì «il cancello d’avorio sotto il quale passano i sogni». È stato visto
anche come un simbolo erotico, per il cupolone immacolato che evoca un seno femminile
gonfio di latte. Si può essere irritati dalla sua
troppa fama, dall’onnipresenza nelle cartoline e riprese televisive e riproduzioni per turisti. Il romanziere Salman Rushdie per anni si
rifiutò di guardarlo, ma dopo la sua prima visita dovette arrendersi: «Il mio scetticismo cadde a pezzi. D’autorità cancellò all’istante milioni di imitazioni. Con il suo splendore riempì
una volta per tutte il posto che nella mia mente era occupato dalle riproduzioni. Ecco perché, alla fine, il Taj Mahal deve essere visto; per
ricordarci che il mondo è reale, che il suono è
più vero dell’eco, che l’originale è più potente
dell’immagine riflessa allo specchio. La bellezza è ancora capace, in quest’epoca saturata
di immagini, di trascendere le imitazioni. E il
Taj Mahal è, ben oltre il potere delle parole per
descriverlo, una cosa adorabile, forse la più
adorabile di tutte le cose».
Il Taj Mahal è uno dei capolavori dell’arte
mondiale, immediatamente riconoscibile per
centinaia di milioni di persone, l’icona dell’India per eccellenza. Lo status di meraviglia universale non è l’unica dimensione del suo fasci-
no. Nella seduzione che esercita il mausoleo di
Agra entrano ingredienti che mancano perfino a San Pietro, al Partenone e alla Piramide di
Cheope. Il Taj è un luogo che parla della morte
e dell’aldilà ma anche di una struggente storia
d’amore, è la gigantesca e sublime tomba edificata da un vedovo inconsolabile per ricordare in eterno la moglie. È una fusione di influenze artistiche che spaziano dalla Persia all’Estremo Oriente, così perfetta da alimentare
per secoli un “giallo” tuttora
irrisolto sul misterioso architetto che lo progettò. È infine il
frutto dell’èra più felice della
storia indiana, monumento
all’armonia tra la religione
braminica e l’Islam. La leggiadra eleganza delle sue forme,
il candore abbagliante della
pietra che cambia riflessi a
ogni ora del giorno, la ricchezza dei giardini, la fine tragica
dell’imperatore che lo fece costruire, e poi le velenose gelosie tra occidentali, musulmani e indù sulla paternità culturale di questo tesoro: per queste ragioni il Taj
suscita estasi e controversie da secoli. Ancora
quest’anno ha ispirato due nuove ricostruzioni: Taj Mahal, Passion and Genius at the Heart
of the Moghul Empire degli storici oxfordiani
Diana e Michael Preston; The Complete Taj
Mahal di Ebba Koch, la più autorevole esperta
mondiale di storia dell’architettura indiana
nell’èra Moghul.
Il Taj viene concepito durante la sofferenza
di un parto mortale. È una serata torrida, nel
giugno 1631, sull’altopiano del Deccan nell’India centrale. Mumtaz Mahal, “la Scelta del
Palazzo”, cioè la preferita dell’harem, a trentotto anni sta agonizzando negli spasimi della
sua quattordicesima gravidanza. Al capezzale
c’è il marito Shah Jahan, quinto imperatore
nella dinastia islamica dei Gran Moghul fondata da Babur. Alla moglie morente lui promette di non sposarsi mai più,
e di edificarle un mausoleo funebre che sarà la testimonianza perenne del loro amore. Per
due anni, prostrato dal dolore
che gli imbianca di colpo tutti
i capelli, Shah Jahan pensa solo all’amata che non c’è più.
Dedica tutte le sue energie a
mantenere la promessa, mobilita per la costruzione del
Taj le ricchezze del suo regno,
il know-how tecnologico, i talenti artistici di tre continenti.
Il risultato è un exploit eccezionale: dodicimila tonnellate di pietre e marmi trasportati da grandi distanze; un edificio la cui circonferenza supera
la basilica di San Pietro e la piazza del Bernini
messe assieme; la perfezione delle forme raggiunta grazie a complessi calcoli matematici;
l’eresia del marmo bianco che nella tradizione
islamica era riservato alle tombe dei santi; la
profusione di pietre rare incastonate nei muri;
le pregevoli decorazioni affidate al più grande
Al capezzale della moglie
promise di non sposarsi
mai più, e di edificarle
un mausoleo funebre
come testimonianza
perenne del loro amore
calligrafo persiano dell’epoca, Amanat Khan.
«Costruito da giganti, rifinito da cesellatori di
gioielli», secondo la definizione di un vescovo
anglicano, il Taj è così bello che fin dall’inizio
gli europei cercano di appropriarsene il merito. Il viaggiatore francese François Bernier nelle sue cronache dall’India del Seicento si dice
convinto che i decoratori abbiano copiato dalla Firenze dei Medici la tecnica della pietra dura incastonata nel marmo. In realtà gli indiani
padroneggiano quella tecnica secoli prima del
Rinascimento italiano.
Anche il mistero dell’architetto anonimo eccita le fantasie eurocentriche. «Secondo il sacerdote portoghese Sebastien Manrique che
visitò Agra nel 1640 — scrivono Diana e Michael Preston — l’architetto era un veneziano
di nome Geronimo Veroneo, giunto in India su
una nave portoghese. Per secoli lo sciovinismo
europeo diede grande credibilità a questa leggenda. C’era la convinzione razzista che un
non-europeo non poteva aver disegnato un
edificio di così rara bellezza. Ma l’affermazione di Manrique non ha fondamento. L’influenza europea sull’architettura Moghul era
molto limitata. Se un europeo fosse stato l’architetto avrebbe incorporato nell’edificio almeno qualche segno della sua tradizione. Non
ce n’è traccia». La risposta all’enigma dell’anonimato è semplice. Con ogni probabilità
molti architetti contribuiscono al progetto, e
comunque l’ultima parola e un’influenza decisiva spetta proprio all’imperatore Shah
Jahan, uomo di cultura e appassionato conoscitore di architettura.
‘‘
È l’incarnazione
di tutto ciò che è puro,
santo e infelice
È il cancello d’avorio
sotto il quale
passano i sogni
Rudyard Kipling
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
‘‘
Il Taj Mahal è,
ben oltre il potere
delle parole per descriverlo,
una cosa adorabile,
forse la più adorabile
di tutte le cose
FOTO CORBIS
Salman Rushdie
L’invidia europea per questo capolavoro e i
nostri complessi di superiorità sono rivelatori
di un’ignoranza sull’India di quel tempo. Con
cento milioni di abitanti nel Diciassettesimo
secolo i Moghul amministrano la più vasta potenza musulmana mai esistita, cinque volte
più grande dell’Impero ottomano. La loro storia spiega perché il baricentro dell’Islam nato
in Arabia slitta progressivamente sempre più a
Oriente. Se ancora oggi ci sono più musulmani a est dell’Afghanistan che a ovest, lo si deve
al successo dei Moghul nel subcontinente indiano. La loro India è una potenza ricca e sviluppata. La capitale imperiale di Agra è detta la
Venezia indiana per il lusso e la profusione
d’arte, ma le sue dimensioni eclissano qualsiasi città europea dell’epoca. Con settecentocinquantamila abitanti è due volte più grande
di Londra, supera di molto sia Parigi che Costantinopoli, le maggiori metropoli europee
del Seicento. Un’esibizione dell’opulenza indiana di quell’epoca è la cerimonia annua del
compleanno imperiale: il sovrano viene “pesato” su una bilancia prima in argento, poi in
oro, poi in gioielli. I metalli rari e le pietre preziose equivalenti al peso regale vengono distribuiti in beneficenza. Mentre l’Europa è terrorizzata dalle guerre di religione e dall’Inquisizione, sotto i Moghul si afferma una versione
dell’Islam aperta e tollerante, in convivenza
armoniosa con l’induismo e il cristianesimo.
La storia di colei che è sepolta nel Taj, Mumtaz Mahal, sfida gli stereotipi sul ruolo della
donna nella società islamica. Gli imperatori
Moghul praticano la poligamia ma questo non
raggiungere l’orgasmo, come la polvere di
zenzero mista a pepe nero e miele. Altri afrodisiaci venivano spalmati sul pene dell’uomo
due ore prima dell’amplesso, per garantire alla donna sensazioni più intense».
La disperazione in cui Shah Jahan piomba
alla morte della Mahal non si spiega solo per la
fine di un’intesa fisica così perfetta. Tutti i resoconti dell’epoca descrivono tra l’imperatore e Mumtaz un rapporto di fiducia, di vera
amicizia, di complicità intellettuale: un amore paritetico,
esclusivo, quasi monogamico perché mette in ombra tutte le altre mogli e concubine.
La morte precoce della favorita, oltre che alle numerose
gravidanze, va attribuita all’insolita abitudine di Mumtaz di viaggiare sempre a fianco del sovrano nelle defatiganti campagne militari.
Quasi a sottolineare il rapporto di parità con la moglie,
Shah Jahan accarezza il progetto di far costruire per la
propria morte un gemello del Taj Mahal, identico ma tutto di colore nero, per esservi sepolto a fianco del mausoleo di Mumtaz. Un cantiere mai iniziato: il figlio Aurangzeb farà morire Shah Jahan in carcere e lo seppellirà nello
stesso Taj Mahal.
In quattro secoli di esistenza il Taj ha attraversato tutte le tensioni e le contraddizioni della storia indiana. I nazionalisti indù hanno vo-
impedisce una certa libertà di costumi negli
harem delle loro mogli. La morbosa curiosità
dei visitatori occidentali è eccitata dalle descrizioni dei falli d’oro e d’argento che circolano nei serragli, dalle descrizioni esplicite degli
amplessi imperiali, dall’uso dilagante di afrodisiaci. L’harem è anche un centro di potere
economico dove le donne amministrano fiorenti attività imprenditoriali. «Le donne di corte — scrivono i Preston — erano ricche, istruite e abili nell’usare le loro relazioni. Attivando reti di intermediari dirigevano commerci con il mondo intero,
erano armatrici di navi mercantili, esportavano prodotti
indiani in Arabia e oltre». Il
potere di Mumtaz sull’imperatore deriva in parte, secondo i due storici inglesi, dalle
sue arti erotiche. «Perfino dopo sedici anni di matrimonio
e tanti figli Mumtaz esercitava chiaramente un’attrazione sessuale unica su Shah
Jahan. A trent’anni suonati,
aveva un’età in cui molte mogli e concubine
erano considerate troppo vecchie per il sesso,
la sua bellezza invece resisteva. Alla vagina,
detta madan-mandir (tempio dell’amore),
applicava delicatamente pomate di canfora
miste a miele, fiori di loto schiacciati nel latte,
bucce di melograno macinate. Anche il bisogno della donna di provare piacere era riconosciuto, delle miscele afrodisiache l’aiutavano a
Per due anni, prostrato
dal dolore che gli
imbiancò di colpo
i capelli, il sovrano
dedicò ogni sua energia
a mantenere la promessa
luto rivendicarne la genesi, inventando una
leggenda: Shah Jahan non avrebbe costruito il
mausoleo ma lo avrebbe ricavato modificando
un pre-esistente tempio di Shiva costruito dal
rajah di Jaipur. I musulmani più fanatici dopo
l’Indipendenza nel 1947 tentarono di sequestrare il Taj per riservarlo solo alla memoria dei
morti di religione islamica. Dovette intervenire la Corte suprema per sottrarlo alla legge della sharia e lasciarlo aperto ai visitatori di ogni fede. Nel 1965, durante la guerra col Pakistan, è
stato a lungo incappucciato con un’immensa
rete nera per nasconderlo ai raid aerei e sottrarlo ai bombardamenti.
Le ultime aggressioni sono quelle dell’inquinamento e del turismo. Per salvare i suoi marmi candidi dalla corrosione dell’anidride solforosa il governo ha dovuto chiudere duecentocinquanta piccole fabbriche locali, costringendo centomila operai alla disoccupazione
(«Tutta Agra diventerà una tomba per proteggere il Taj», fu il commento di un sindacalista).
La siccità e la desertificazione inaridiscono il
corso del fiume Jumna che lambisce la cinta del
mausoleo, l’erosione fa già inclinare le torri dei
minareti. Perfino il fiato dei turisti è una minaccia: tre milioni di visitatori all’anno producono una umidità pericolosa per la conservazione dei dipinti all’interno del mausoleo. Eppure resiste, in uno stato di salute stupefacente, per ricordare che in India i miracoli sono
possibili. Il più importante è di quattro secoli fa,
un gioiello dell’arte di tutti i tempi nato dall’amore fra un uomo e una donna, e dall’incantevole unione tra la civiltà indiana e l’Islam.
‘‘
Il mondo si divide
tra quelli
che hanno visto
il Taj Mahal
e quelli che non
l’hanno visto
Bill Clinton
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
la storia
Sport nella bufera
Si chiama Guillaume Prébois, è un giornalista francese
di trentacinque anni che ha deciso di correre “in purezza”
un ante-Tour destinato a trasformarsi in anti-Tour:
farà, il giorno prima e sotto controllo medico,
tutte le tappe della corsa più dura e più bella del mondo
per dimostrare che il doping non è stato sconfitto
PAOLO RUMIZ
COLLE DELLA LOMBARDA
3.547 chilometri
Il Tour 2007, edizione numero 94,
va dal 7 al 29 luglio e si articola in venti tappe
per una lunghezza totale di 3.547 km. Undici
le frazioni di pianura, sei di alta montagna,
una di media montagna, due a cronometro
23.441 metri
Il Tour 2007 prevede 400,7 chilometri di salita
per un totale di 23.441 metri di dislivello:
quasi tre volte l’altezza dell’Everest
La percentuale media di tutte le salite inserite
nelle venti tappe è del 5,5
40,780 km all’ora
Negli ultimi vent’anni, sia pure a onde,
la velocità media dei vincitori del Tour
ha continuato a crescere: dai 37,020 km
del 1986 ai 40,780 del 2006 passando
per il record, i 41,650 del 2005
FOTO BRUNO MURIALDO - CARPEDIEM
reddo, vento di Nordest, cielo blu
sul Piemonte. Alle 11.06 un uomo
solo sbuca dai tornanti, alto sul
sellino, in perfetto silenzio, in
mezzo alle Alpi spruzzate di neve. Punta sul
Colle della Lombarda, quota 2351. «Un uomo
solo al comando» avrebbero detto di Coppi,
ma quello che vedo salire verso la Francia è un
uomo solo e basta. Un uomo magro e biondo
che zigzaga tra le marmotte e i nevai, leggero
come un deltaplano in una corrente ascensionale. Non è un campione, non ha sponsor
né auto di grandi marche al seguito. Il solitario tra le pietraie è un uomo normale — o forse un matto completo — che si prepara a scalare la “montagna” più dura di tutte, alta tre
volte l’Everest. Il Tour de France.
Sul passo c’è gente intabarrata che
aspetta. La voce s’è già sparsa che c’è un
parigino di trentacinque anni che farà la
“gran corsa” all’antica: senza squadra e
senza chimica. «A’ l’eau claire», dicono i
francesi. All’acqua chiara, in purezza come i ruscelli. In Valle Stura, a Demonte, l’olimpionica Stefania Belmondo, fondista e
grande testimonial dello sport pulito, è già
corsa a dirgli «in bocca al lupo» e a spiegargli che i momenti di crisi, quando arrivano,
sembrano interminabili, ma poi passano
in fretta, basta tener duro. E ora anch’io
son qui, che aspetto Guillaume Prébois,
seduto sul mio paracarro d’ordinanza come se aspettassi Bartali, il cuore che batte
forte per la leggenda che torna.
Giornalista sportivo, collaboratore di Le
Monde, paladino dell’antidoping e presenza talvolta scomoda nei “Processi alla
tappa” del Giro d’Italia, Guillaume un giorno ha detto basta e, dopo l’ennesimo scandalo e le ultime “confessioni” dei grandi
del ciclismo, s’è organizzato il suo Tour parallelo, per guardare in faccia la fatica. Voleva vedere cosa succede, durante la corsa
più dura del mondo, dentro il corpo di un
uomo che rifiuta gli additivi. Per questo s’è
allenato tremila chilometri al mese, e ora a
luglio farà lo stesso percorso dei professionisti, controllato a vista da un’équipe di
medici, seguito giorno per giorno da Le
Monde e Radio France Internationale.
Tutto avverrà — questa l’unica differenza
col Tour vero e proprio — con un giorno
d’anticipo sulle tappe, in una corsa solitaria,
dunque infinitamente più dura, che sarà
condivisa dall’inizio alla fine da un’unica
persona: un ciclista veneto, Fabio Biasiolo,
specialista di lunghe distanze. Uno che fa tirate pazzesche, come la corsa no stop (senza
quasi dormire) tra i due mari d’America. Ma
già attorno a questo Forrest Gump della corsa pulita si sta formando un plotone di gregari, un codazzo di gente che ha risposto all’appello — diffuso via internet — per formare, tappa per tappa, una libera corsa alternativa. Una sfida che farà notizia, nei giorni in
cui tutta la Francia è au bord des routes.
Ma voilà, eccolo che arriva in silenzio, buca l’aria fina del passo, rallenta sulla ghiaia,
smonta per infilare la giacca a vento e farsi
un panino al prosciutto e ricotta prima della discesa. Dal fondovalle ha impiegato
un’ora appena, millecinquecento metri in
souplesse. Si toglie il casco, e per un attimo
non lo riconosco, sembra un’altra persona.
Ha lo sguardo blu più luminoso, il viso affilato che mostra cinque anni di meno. Gli
chiedo se ha cambiato occhiali. «Mais non»,
risponde con un lampo di soddisfazione.
«Me lo chiedono in tanti, ma è solo che ho
cambiato pelle. Mangio diversamente, e ho
imparato a usare il mio corpo».
Sembrava un cavaliere dell’impossibile
solo un anno fa, al momento della decisione
più pazza della sua vita. Monsieur Prébois
cercava sponsor e riceveva in cambio pacche di compatimento. Oggi tutto gli dà ragione. I ciclisti vuotano il sacco. Ha cominciato Ivan Basso, vincitore del Giro 2006. Poi
l’irlandese Floyd Landis, maglia gialla dello
stesso anno. Poi il danese Bjarne Riis, vincitore del Tour 1996. Anche una decina di professionisti tedeschi ha scelto di parlare, e
tutti dicono la stessa cosa: senza eritropoietina e altre diavolerie non ce la fai. Roba che
trasforma un asino in un purosangue.
Eppure, nonostante gli scandali, tutto
continua come nulla fosse accaduto, come
se Pantani non fosse morto come un cane;
come se, in assenza di fatica, l’epica della
gara esistesse ancora. Le medie continuano ad aumentare, e nonostante questo i
vincitori sembrano meno stanchi dei gior-
4.000-5.500 calorie
Durante un Tour un ciclista consuma in media,
nelle tappe di alta montagna, 4.000-5.500
calorie al giorno. In assenza di doping, i valori
ematici (ematocrito, emoglobina) calano
mediamente di circa il 10 per cento
nalisti che li intervistano. Coppi si accasciava a fine tappa, loro scendono dal sellino freschi come rose. L’allenatore di calcio Zdenek Zeman, altro solitario grillo
parlante, a Prébois l’ha detto chiaro un
giorno: facile capire chi si dopa, basta
guardare chi vince. Ma ormai il treno non
si può più fermare, è diventato uno schiacciasassi che inghiotte tutto. Distacchi
abissali e uomini soli al comando.
«Non sono affatto certo di farcela — confessa il francese alla vigilia della sua “mission impossible” — ma mi impegno a tirare a morte per tagliare il mio striscione sugli Champs Elisées. Sarà dura pedalare
duecento chilometri al giorno per tre settimane, venendo probabilmente ignorato
dalla stampa sportiva. Ma so che una certa
Francia e una certa Italia sono con me. Alcuni verranno in bici; come al Tour delle
origini, che era a iscrizione libera. E so che
alla fine, per la prima volta, i medici potranno leggere un corpo umano dopo un simile sforzo. Appurare se davvero, come accade tra i professionisti, il livello di globuli
rossi resterà invariato, o piuttosto, come
sono convinto io, è destinato a scendere».
Si tuffa in discesa, non vuol parlare di cose che gli fanno male. Ma c’è chi ricorda i
torti che ha subito. Quando nel 2004 i Nas
fecero irruzione nelle case dei corridori più
forti del Giro e lui osò dire a un “Processo
alla tappa” che quegli uomini non sarebbero potuti andare al Tour perché il nuovo
corso pulito del ciclismo francese l’avrebbe impedito, venne dileggiato e messo alla
berlina. «Chi sei tu per giudicare l’Italia»,
gli dissero molti colleghi in diretta. Poi, a
microfoni spenti, manager e direttori
sportivi vennero a minacciarlo, consigliandogli di cambiar aria, e così il Forrest
Gump del ciclismo non mise più piede al
Giro. Solo la stampa non sportiva espresse
voci in difesa, come il critico tv Aldo Grasso che scrisse, rivolto ai commentatori tv:
chiedete scusa a quel francese. Ed ancora
la stampa non sportiva, sempre lei, l’unica
a fargli da sponsor in questa scommessa.
La sera lo ritrovo in Valle Stura, nella remota frazione Perdioni, mentre spazzola
montagne di tagliatelle, bistecche, patate e
dolci alla locanda “La Randoulina”. Con lui,
il padre Jean-Claude, che suona Brassens alla chitarra e lo segue a trenta all’ora in automobile da mesi. Ride: «Il mio segreto? Correre tanto, mangiare tanto, dormire tanto.
Stop. Ho rivoluzionato i pasti: niente salumi
e formaggi; niente panna, burro e latte;
niente roba gasata. Nella borraccia solo
miele, polline, pappa reale, sciroppo di mirtillo e un mix di silicio che è la mia unica scorta di minerali. Sto infinitamente meglio di
un anno fa. La vita è una, e nutrirsi bene è un
atto dovuto nei confronti del corpo. Infliggergli della chimica non è solo una punizione. È anche un atto di sfiducia nei confronti
di una macchina meravigliosa».
Racconta della straordinaria équipe —
mezza italiana — che gli si è stretta intorno. Oltre al ciclista Fabio Biasiolo, un allegrone che lo “tira” anche moralmente, ci
sono Claudio e Luigi, uomini della Guardia
di Finanza innamorati dello sport a pedali, che hanno lavorato sul doping e ora guideranno il camper al seguito, preparando
i pasti e tenendo in efficienza la bici di gara. Poi Didier Rubio, dietologo della nazionale francese di rugby. Marco Caon, un fisioterapista padovano incaricato dei massaggi e dei rifornimenti. Infine Dorian Lecamp, medico dell’ospedale universitario
di Tolosa, partner scientifico del servizio
medico-sportivo di Francia, diretto dal
professor Daniel Rivière. Il tutto con l’imprimatur dell’Agenzia francese antidoping, che effettuerà su di lui, a sorpresa, i
test-campione dei professionisti.
Apre il computer, riversa dal sensore di
bordo i dati dell’allenamento. «Al Tour
chiunque potrà leggere cosa succede nel
mio corpo. I dati saranno on line sul sito
www. lautretour. com. Pressione, frequenza, ematocrito, calorie bruciate, potenza media, velocità, esami del sangue
prima e dopo la tappa». Fuori il cielo s’è richiuso, un temporale arriva dal Colle della
Maddalena, la valle crepita di tuoni. «Preparare un Tour senza una squadra, dimenticati da tutti, è un’impresa. Sei solo, a faticare per nove mesi, la gara è lontanissima,
ti senti un pazzo, e sai che tutto può andare in fumo in un attimo. Basta una caduta».
Si frega le mani, ora piove a secchi. «Ma ora
sento che arriverò in fondo. Sto bene, sono
tranquillo. La Francia è dalla mia parte, so
che non farò questo Tour da solo».
FOTO KEISTONE - EYDEA
Il Tour de France
a pane e acqua chiara
F
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
CICLISMO EROICO
Qui accanto,
foto d’epoca
del ciclismo eroico:
la catena dotata
di cambio fu permessa
al Tour solo nel 1937
Nelle altre foto,
Guillaume Prébois
in azione
I campioni, i tifosi
e il sogno di volare
GIANNI MURA
lla fine del suo Tour Guillaume Prébois sarà un principe azzurro
molto concupito, perché i giornali continuano a svolazzare ma non
è vero che i francesi s’incazzano come nella canzone di Paolo Conte. Anzi, i francesi ammirano chi si lancia in un’impresa fuori dal comune.
E quindi il Tour resta la Grande Boucle (con le iniziali maiuscole anche
quando se ne discorre), con le sue piccole storie, le sue grandi imprese, i
suoi miti che non erano sfuggiti a un cacciatore di miti come Roland
Barthes, da noi suiveurs regolarmente citato il giorno del Mont Ventoux.
Guillaume lo conosco da anni, ha un nome da capitano di ventura, che
suona campestre anche in italiano — Guglielmo Pratobosco — e in più è
alto, magro, biondo e con gli occhi azzurri. Ha già scritto un libro sulle sue
pedalate lungo il Danubio, né bello né blu, e un altro certamente uscirà da
questo Tour atipico: corso il giorno prima, chilometro su chilometro
uguale a quello dei professionisti, giù dalle discese e su per le salite. Saranno diverse, a volte, le temperature, ma non è questo il punto. Il punto
è dimostrare che si può correre il Tour senza fare ricorso a quel che Mario
Fossati ha chiamato «la farmacia del diavolo», ossia l’aiuto della chimica,
in una parola il doping. Vecchio cavallo di battaglia di Guillaume e del
giornale che lo sostiene e sponsorizza (Le Monde, scusate se è poco). L’idea in sé non è nuovissima. Anni fa Eric Fattorino, giornalista-scrittore di
radici italiane, si lanciò nella stessa impresa, che è poi il sogno di tanti, da
Alfonso Gatto a Francesco Guidolin al sindaco di Pordenone, e il titolo d’una raccolta di scritti ciclistici di Gatto: Sognando di volare (lui che nemmeno sapeva stare in equilibrio sulle due ruote). Fare come i giganti della
strada, seguirli o precederli visto che con loro non si può stare in gruppo,
altra categoria.
È un sogno antico e non solo maschile. Negli anni Trenta i coloristi annotarono che per una ventina di km, i primi di una tappa che partiva da
Aix, in Provenza, le ospiti di una casa chiusa avevano pedalato in fondo al
gruppo. Sulle salite di tutti i ventuno Tour che ho seguito fin qui ho visto
la fauna più svariata: cicloamatori di ogni età, da otto a ottant’anni, zainetto in spalla e baguette di traverso sul portapacchi, e anche molte donne. In genere si scelgono le tappe di montagna, prendendo nota dei tempi, cercando di battere se stessi. Si può fare anche una settimana o un mese dopo che ci passa il Tour, ma non c’è l’aria del Tour, sudore, griglia e patate fritte, il riverbero dell’epicità del Tour e della fatica che costa anche a
chi non pedala. Perché se vuoi conquistare una buona lochescion (direbbero, diranno) sul Tourmalet o sul Galibier devi muoverti il giorno prima,
quello di corsa il traffico è bloccato. E arrangiarti in tenda, o su un camper. E magari starci anche dopo il passaggio della tappa, perché si creano
ingorghi paurosi. Il popolo degli appiedati incoraggia quello dei ciclisti
per diletto, allez bonhomme, vas-y la belle, una spinta non si nega a nessuno. Una volta in cima ci si fa fotografare. I poliziotti più zelanti (e ce ne
sono) forti della circolare che permette il transito solo ai mezzi autorizzati e con l’autorizzazione bene in vista, infieriscono su questi poveracci facendoli scendere di sella per continuare a piedi. I poveracci obbediscono fino alla prima curva, poi risalgono in sella e ridiscendono al
poliziotto seguente. È un po’ una comica, ma anche una seccatura.
Questo scrivo per dare l’idea di cosa succede prima della corsa vera:
una serie di corse e rincorse. L’idea di cimentarsi in una tappa di pianura fa meno gola, si va più forte, c’è meno gente, c’è meno gusto. Guillaume non sarà fermato e diventerà un eroe.
Jean-Marie Leblanc, il gran capo del Tour che è da poco andato in
pensione, dava questa definizione, facendo nomi e cognomi. «Hinault è un campione, Poli è un eroe». Eros Poli, un gregario, tra l’altro più passista che scalatore, aveva vinto la tappa del Ventoux, che
mai e poi mai avrebbe immaginato di vincere. Un uovo fuori dalla
cavagna. L’issarsi, sia pure per un giorno, a una dimensione superiore, forse neanche sognata.
Guillaume non avrà una squadra ai suoi ordini, nel senso dei gregari, ma una squadra di amici, medici, dietisti. E un padre che suona Brassens alla chitarra è il tocco in più. Probabile che la piccola
carovana s’ingrossi per strada, in questo ante-Tour che ha pure i
connotati dell’anti-Tour, col suo richiamo a un’etica della fatica,
col suo grido d’allarme contro il doping che imperversa e contro
l’ipocrisia di chi guarda dall’altra parte. Anche questa del doping non è una novità, purtroppo. Nel ‘24 i fratelli Pélissier dissero al giornalista Albert Londres: «Noi andiamo a dinamite». E
gli mostrarono boccettine piene di una polvere bianca che
chiamavano la neige, la neve, ed era cocaina. Due anni dopo
un tale Mariani fece quattrini in Francia vendendo «le vin Mariani, le vin de l’athlète» che era poi un vinaccio da due soldi
che conteneva foglie di coca in macerazione. Non interesserà granché, ma chissà cosa c’era nella pozione magica del
druido per Astérix e Obélix. Robetta, comunque, a fronte
del «pot belge» così in voga una ventina d’anni fa. Un cocktail di anfetamina, caffeina, eroina, coca e corticoidi.
Noi che viaggiamo a pastis e vino rosso, ma anche a litri
d’acqua naturale, penseremo a Guillaume senza vederlo
mai se non forse a Parigi. Le stesse strade, ma ognuno per
la sua strada, lui la tartaruga e noi il pie’ veloce Achille.
Da un punto di vista gastronomico un Tour che parte
da Londra e poi sconfina in Belgio non mi provoca brividi particolari, lì si gioca per limitare i danni. Tanto
vale saperlo prima, poi magari succede come a Eros
Poli sul Ventoux, ma è meglio non farci troppo conto. A occhio, si comincia a ragionare verso l’11 luglio, dalle parti di Chablis, la solita pollastra a
Bourg-en-Bresse, attenti e arroccati in Savoia,
saltare Marsiglia perché c’è troppa confusione e
comunque le migliori bouillabaisse si mangiano a Parigi. Possibili sorprese nella zona Castres-Albi, a Orthez vediamo se hanno tenuto
in carta l’insalata di manzo bollito, patate
(con la buccia) e scalogni e poi di corsa a Parigi. Dove il Tour si ricompatta per separarsi. E dove Guillaume entrerà da vincitore (se non cade prima, se regge la fatica). E dimagrito. Sarà interessante vedere lo spazio che strada facendo gli
dedicheranno i giornali, Le Monde a
parte. Molto su quelli provinciali e
regionali, immagino, poco o
nulla su quelli nazionali. Ma
questo è un altro discorso.
A
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
Da oltre trent’anni questo maestro del fotogiornalismo
documenta la storia del Sudafrica, durante
e dopo l’apartheid. In occasione della sua prima mostra
italiana e della pubblicazione del suo libro, abbiamo chiesto a un grande
scrittore di quel paese di raccontarci l’uomo che riesce a catturare
in un dettaglio apparentemente inutile l’essenza stessa della nostra umanità
David
Goldblatt
Il poeta del bianco e nero
ANDRÉ BRINK
essuno lo scambierebbe per una valigia ammaccata,
abbandonata da un viaggiatore stanco alla fine di un
lungo viaggio in treno. Ma ben pochi, a prima vista, riconoscerebbero in lui uno dei maggiori fotografi del
mondo. Eppure in David Goldblatt queste due immagini convergono. E il segno rivelatore sta nell’intensità
di quei suoi occhi di un azzurro profondo, a un tempo saggi e ammiccanti, testimoni di una lunga vita ma anche di una giovinezza irrefrenabile, pronta al divertimento e all’avventura.
Ho incontrato David per la prima volta vent’anni fa in Sudafrica; mi
aveva chiesto di posare per un ritratto ed è venuto a casa mia, a
Grahamstown. Di quell’incontro, uno dei dettagli più vividi impressi nella mia memoria è la sua vecchia Leica sbeccucciata, tenuta insieme con un elastico — o almeno, così credevo di ricordare. Ma mi
sbagliavo, come mi assicurò lui stesso qualche anno fa, in occasione
di un incontro più recente a Cape Town. Indubbiamente le sue due
Leica, al pari degli altri apparecchi fotografici che si trascina appresso, portano i segni di una lunga vita e di un uso intenso, ma non tanto da dover essere tenute insieme con l’elastico. E a pensarci bene mi
sono reso conto che doveva aver ragione lui, dato che probabilmente gli sarebbe più facile sacrificare una parte del suo corpo asciutto e
nervoso, piuttosto che una delle sue fotocamere. Quando ne parla o
le maneggia lo fa con abilità e competenza, con rispetto e con cura,
direi anzi con vero amore. Perché oltre a essere gli strumenti del suo
quotidiano e duro lavoro, sono anche una sorta di estensione del suo
essere, la conferma della sua esistenza corporea nello spazio e nel
tempo, i custodi di quella profonda visione interiore che porta con sé,
e che infonde nelle sue immagini quotidiane il senso di quanto vi è in
esse di solitamente nascosto o sottaciuto, della loro vita segreta.
Se è vero che uno scrittore, come disse a suo tempo Calvino, può dire quello che dice solo in virtù di quanto da sempre è rimasto non detto, ciò è anche più vero nel caso del fotografo David Goldblatt. In Sudafrica il suo recente libro Some Afrikaner Revisited è stato oggetto,
all’indomani della sua pubblicazione, di violente critiche, e accusato
di voler diffamare la storia e la moralità degli afrikaner; mentre oggi
proprio chi lo ha più duramente attaccato ne riconosce il valore e addirittura gli rende omaggio per aver affrontato quel tema con un senso di verità implacabile unito a una comprensione profonda, che mai
prima d’ora aveva trovato espressione su una pellicola fotografica. Riprendendo il concetto di Calvino, ciascuna di quelle immagini rappresenta una vita vissuta due volte: la prima è quella esposta e rivelata senza sconti né camuffamenti, impietosamente, seppure con
compassione profonda; mentre l’altra è la vita interiore, dietro l’immagine e al di là di essa, percepibile solo con l’immaginazione, col
senso profondo di un’umanità condivisa, della vulnerabilità e mortalità che ci accomuna tutti.
Certo, mai nessun fotografo prima di Goldblatt ha saputo catturare la vita, i paesaggi e i popoli del Sudafrica con tanta profondità. Come il mio caro amico Naas ha scritto sulla copia di un altro libro di
Goldblatt di cui mi ha fatto omaggio, On the Mines («Nelle miniere»),
la sua opera «svela la bellezza nascosta del mondo, e ci fa vedere gli
oggetti più familiari come se familiari non fossero».
All’ultima mostra del fotografo, dal titolo Some Afrikaner Revisited,
mi hanno particolarmente colpito le numerose foto scattate anni fa a
Gamkas Kloof, una remota valle di montagna chiamata anche The
Hell (L’inferno): una regione quasi inaccessibile, che ho scelto come
punto di riferimento per il mio romanzo La valle del diavolo; e tra queste, la straordinaria immagine di una ragazza nella piena, innocente
fioritura della sua pubescenza, la stessa foto scelta per la copertina del
recente album che accompagna la mostra. E mi ha commosso sentire David parlarmi di questa ragazza, Ella Marais, e della sorella Bettie,
per raccontarmi le tragiche vicende che hanno vissuto nei quarant’anni trascorsi dall’epoca di quelle prime fotografie. Il modo in
cui si è interessato alla loro sorte nel corso di tutti questi anni è un
N
LA MOSTRA
David Goldblatt inaugura la sua prima
grande retrospettiva mercoledì 27 giugno
a Forma, Centro Internazionale di Fotografia,
Milano, piazza Tito Lucrezio Caro 1
David Goldblatt. Fotografie
rimarrà aperta fino al 26 agosto
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David Goldblatt. Fotografie,
con un’introduzione di Martin Parr
e testi di Rory Bester e Alex Dodd,
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Formato: 28 per 26 centimetri, 255 pagine,
155 fotografie a colori e bianco e nero,
60 euro. In tutte le librerie
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DALL’AUTORE DI
LA CHIMICA DELLA MORTE
UNA NUOVA INDAGINE
PER DAVID HUNTER
esempio della sua profonda umanità: per lui quelli che inquadra nel
suo obiettivo non sono mai solo volti da fotografare, gente incontrata di sfuggita e subito dimenticata, ma persone, protagoniste di una
storia, ciascuna con la sua intera biografia. È come se nel momento
dello scatto il fotografo l’avesse riassunta nel suo insieme: il prima e
il dopo di quell’attimo decisivo — gli sviluppi che hanno portato fin lì,
e tutto ciò che da quel momento ha preso il suo corso.
Allo stesso modo, ogni singola fotografia di un libro o di una mostra
di David Goldblatt non riguarda solo un dato individuo o un ristretto
gruppo di individui, ma porta il segno di tutta un’epoca, di una società
col suo ethos e i suoi valori, le ramificazioni dei suoi rapporti sociali,
culturali e morali. È questa la chiave del senso di responsabilità morale di David Goldblatt: come se in qualche modo si facesse carico, a
ogni sua fotografia, di vigilare sul soggetto, sulle sue possibilità; come
se si sentisse responsabile delle persone che incontra attraverso il suo
obiettivo, e della sorte cui vanno incontro.
Ecco perché l’immagine della valigia dimenticata che ho evocato
all’inizio di questo breve saggio conserva tutta la sua forza: non è solo un bagaglio qualsiasi, ma l’inventario di un viaggio, il sommario di
tutta una vita. Così nelle sue brevi contemplazioni — il minatore nero che emerge al sole dal buio del sottosuolo, duro e risplendente a un
tempo; o il viso di un bambino che guarda il mondo con meraviglia; o
la famiglia vestita a festa sulla via della chiesa, il picnic di un gruppetto su un prato, due giovani sposi il giorno delle nozze, una coppia di
anziani curvi sotto il peso degli anni, che sembrano cedere il passo all’ombra incombente della morte; o ancora le rocce affioranti da una
pianura brulla flagellata dal sole, o un fiore in anticipo sulla primavera — c’è sempre un senso di meraviglia davanti all’insondabile mistero dell’universo.
Per questo, a prima vista i soggetti scelti da Goldblatt sembrano così «ordinari» (come la valigia abbandonata sullo scaffale), così banali
e nient’affatto degni di nota. Ma è proprio attraverso l’atto di osservarli, di «prenderne nota», di isolarli dal contesto e dalle circostanze
quotidiane che Goldblatt li pone al centro della sua attenzione concentrata e totale, quasi purificandoli, liberandoli dall’accidentale e
dal superfluo per rivelarli nella loro essenza.
Per gran parte della sua vita Goldblatt ha lavorato sul bianco e nero. Ho sempre pensato che rispetto alla fotografia a colori, la differenza sia parallela a quella che esiste in letteratura tra prosa e poesia.
Nella poesia l’intero patrimonio delle risorse di una lingua è ricondotto all’essenziale, permettendo a ogni singola parola, isolata dai
suoi appigli sintattici, di emergere in tutta la sua pienezza. Analogamente, un’immagine spogliata del colore può essere plasmata nella
purezza della luce e dell’ombra e rivelare, attraverso l’esiguità stessa
delle risorse, tutto il peso e il valore di quelle luci e ombre, costringendoci a un modo nuovo di vedere il mondo, letteralmente «in una
luce diversa». È questa la visione dell’uomo che Platone fa emergere
dalla caverna, quando vede il mondo per la prima volta. Il colore vi si
«aggiunge» solo in un secondo tempo. Forse per questo Goldblatt ha
evitato per tanto tempo la fotografia a colori. Per lui il colore era
«un’aggiunta», qualcosa che non faceva parte integrante del suo
mondo. Solo negli ultimi anni la disponibilità di mezzi più malleabili e versatili lo ha indotto ad appropriarsi della capacità di manipolare l’intera gamma dei colori con la stessa creatività, per far danzare
con lo stesso virtuosismo ogni loro sfumatura.
Eppure devo confessare che per me, sia che si tratti di un paesaggio
o di un ambiente urbano, di un viso o di una figura umana, di una mano escoriata o di un sorriso innocente, della limpidezza dell’infanzia
o della contusa saggezza della vecchiaia, il volto del vero poeta del
bianco e nero, capace di sfrondare tutto il superfluo da un’immagine
per rivelare l’essenza stessa dell’umanità e il posto che occupa in questo mondo inospitale, resterà sempre quello toccante e vero, ironico
e schivo, asciutto ed essenziale del fotografo David Goldblatt.
Traduzione di Elisabetta Horvat
www.bompiani.eu
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
DONNA ELEGANTE
DONNE DURANTE UNA PAUSA PRANZO
DONNA CHE FUMA
Joubert Park, Johannesburg, 1975
Pieter Roos Park, 1975
Johannesburg, 1975
DONNA CON BUCO ALL’ORECCHIO
DONNA CHE RACCOGLIE MOLLUSCHI
UOMO CON COLLANE
Joubert Park, Johannesburg, 1975
Port St Johns, Transkei, 1975
Joubert Park, Johannesburg, 1975
DONNA CHE SI RIPOSA
COPPIA AL GIARDINO BOTANICO
BAMBINAIA
De Villiers Street Park, Johannesburg, 1975
The Wilds, Johannesburg, 1975
Joubert Park, Johannesburg, 1975
NONNA E NIPOTE
UOMO CHE DORME
DONNA SUL SUO LETTO
Transkei, 1975
Joubert Park, Johannesburg, 1975
Yeoville, Johannesburg, 1983
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
la lettura
Contatti con l’aldilà
Un grande scrittore spagnolo ritrova in un vecchio libro la storia
del bizzarro triangolo spiritista tra l’autore di “Cuore di tenebra”,
la sua giovane vedova e Arthur Conan Doyle. E la confronta
con una vicenda simile che lo vede protagonista insieme a una medium
portoricana e al suo defunto maestro di letteratura e di vita
Gli amabili fantasmi
di Conrad e Benet
JAVIER MARÍAS
o spirito molestato di Conrad
Qualche mese fa ho ricevuto da una libreria antiquaria un libretto del 1932,
pubblicato dalla Mark Twain Society
e scritto dalla vedova di Joseph Conrad. Il grande scrittore si era sposato
con lei in età avanzata, a trentotto anni, quando
Jessie ne aveva appena compiuti ventitré. Questo
(e la barba che sfoggiava) spiega senza dubbio
perché, durante la luna di miele sulla costa francese, un giovane ospite dell’albergo in cui alloggiavano — e che nella sala da pranzo, con un grosso tavolo comune su cui mangiavano tutti i clienti dell’hotel, aveva proprio il posto accanto alla
sposina — un giorno avesse manifestato eccessive attenzioni per la ragazza, suscitando la diffidenza dello scrittore e mettendo a disagio la sposa.
Finché, alla fine, il francese non decise
di rivolgersi a Conrad, e dopo avergli fatto un inchino, gli domandò: «Signore,
potrebbe concedermi l’onore di corteggiare sua figlia?». Fu la prima volta
che Jessie Conrad dovette dissuadere
suo marito dal battersi a duello lì, seduta stante. Dai due libri che scrisse
su di lui dopo la sua morte si vede che
la vedova di Conrad era una donna
giudiziosa e dotata di senso dell’umorismo, e che lo aveva amato
molto. In questo libretto raro,
la donna spiega che nutriva
una grandissima ammirazione per Conan Doyle, un
po’ guastata, però, dal fatto
che il creatore di Sherlock
Holmes si fosse messo, nel
1929, a importunarla per via
epistolare. (È risaputo,
ahimè, che quel grandissimo
scrittore, negli ultimi anni della sua vita — morì
nel 1930 — si dedicò all’occultismo e allo spiritismo, trasformandosi conseguentemente in un
gran rompiscatole.) Senza che ci fossero mai stati contatti in precedenza, Conan Doyle le scrisse
per comunicarle che era sicuro che il suo defunto
marito (Conrad era morto nel 1924) desiderava
entrare in contatto con lei, e aggiungeva che per i
morti un’impresa simile risultava piuttosto complessa se non potevano contare sull’aiuto dei vivi,
perché anche loro, come noi, erano soggetti a delle leggi.
Tramite una medium, assicurava il creatore di
Sherlock Holmes nella sua lettera, Conrad aveva
manifestato il desiderio che lui portasse a termine al suo posto un libro «di storia francese» che era
rimasto incompiuto. Secondo Jessie, sir Arthur
era assai male informato: un tema simile, così vago, non avrebbe mai stimolato l’interesse di Conrad, e soprattutto non avrebbe mai chiesto a nessuno, nemmeno a un insigne collega, di portare a
termine in vece sua una sua opera.
L
La vedova di Conrad aggiungeva che anche altre tre persone avevano cercato, in seguito, di trasmetterle «messaggi» di suo marito, che lei si era
categoricamente rifiutata di ricevere. Inoltre, il
segretario di lord Northcliffe, lo stimato editore
britannico scomparso nel 1922, aveva reso noto
che l’autore di Cuore di tenebra stava aiutando il
suo capo in un compito giornalistico, e che i due
uomini indossavano abiti di flanella grigia e farfallini rossi. «Mio marito, per sua fortuna», commenta Jessie, «era dotato di sufficiente vanità personale da non avventurarsi a copiare lo stile di abbigliamento di sua signoria, quantomeno in simili dettagli!». E una nipote dello scrittore americano Stephen Crane, morto nel 1900, dichiarò che
suo zio e Conrad si erano incontrati in mezzo all’Atlantico poco dopo la sua dipartita.
Il massimo che Jessie conceda, riguardo a simili «fenomeni», è che a volte, sola nella sua camera,
passa molte ore con la mente concentrata sul
ricordo di suo marito, con lo sguardo fisso
sulla sua poltrona preferita. E che durante quegli istanti di intensa concentrazione, le capita di vedere la sagoma di
lui disegnarsi sulla poltrona. «Quella
postura così familiare, quei tratti ben
conosciuti, le mani serrate, sì, erano
esattamente quelli che ricordo tanto
vividamente. Questa visione è durata
qualche secondo. Non si potrebbe
spiegare, né cercherò di farlo, salvo
che questa manifestazione era per
me sola».
Niente di particolare, direi
io, i ricordi a volte possono esserlo estremamente. E al termine della breve opera conclude, giudiziosamente:
«Vorrei essere lasciata in pace
con la mia convinzione originaria, che quelli che amiamo e
abbiamo perduto riposano in
pace, senza che alcuna legge li disturbi, e senza che
debbano soffrire per il dolore e l’inquietudine di
noi che ancora soggiorniamo nella terra dei vivi».
E lo spirito inverosimile di Benet
Pochi giorni dopo aver ricevuto il libretto della
vedova di Conrad, mi arrivò una lettera da Porto
Rico, speditami da un’amabile lettrice e professoressa con cui mi ero incontrato qualche mese prima a Madrid. La signora, molto educata e sensata, affermava di non essere religiosa, semmai razionalista e piuttosto scettica, ma nonostante
questo ammetteva di provare un certo interesse,
negli ultimi anni, «per le tematiche spirituali». Per
questo motivo si incontrava una volta al mese con
una psicologa cubana «che a quanto sembra possiede facoltà spirituali». Apparentemente, la professoressa le aveva parlato del nostro incontro, e
la psicologa, a quel punto, chiuse gli occhi e sembrò sperimentare una sorta di trance, e disse che
una persona a cui io avevo voluto molto bene si
trovava lì, che lo spirito si chiamava Benet e che
sosteneva di manifestarsi per poter entrare in
contatto con me.
Si riferiva senza dubbio a Juan Benet, un mio
“Io credo - scriveva
Jessie Conrad - che
quelli che amiamo
e abbiamo perduto
riposano in pace
senza soffrire per noi”
vecchio amico e uno degli scrittori spagnoli più
stimati di tutto il Novecento. La psicologa aggiunse che vedeva Benet «che tirava i capelli a un
giovane capellone, e che quel giovane era lei. Ha
detto che Benet faceva questa cosa quando la vedeva triste o pessimista». (Non credo sia superfluo sottolineare che tra il 1970 e il 1974, nei primi
anni in cui frequentavo Juan Benet, sfoggiavo una
folta chioma, all’apache, per così dire, come attestano diverse mie foto.)
Visto che continuavo a rimuginare su questa
cosa, la mia interlocutrice epistolare decise di
parlare con una sua amica, psicologa anche lei, e
anche lei, a quanto sembra, dotata di «facoltà spirituali». Questa le disse che Benet si manifestava
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
ILLUSTRAZIONI DI GIPI
L’AUTORE
Javier Marías risiede a Madrid, in Spagna. È uno scrittore
acclamato a livello internazionale. Ha pubblicato dieci
romanzi, due raccolte di racconti e numerosi saggi
Le sue opere sono state tradotte in 34 lingue, con vendite
che sfiorano i 4,5 milioni di copie in tutto il mondo
La sua pubblicazione più recente è Il tuo volto domani
Marías tiene una rubrica settimanale
sul quotidiano El País, dove è stato pubblicato
originariamente questo articolo
e sollecitava la sua intercessione per aiutare il mio
«spirito incarnato». Aggiunse che «Benet era un
saggio e sembrava avere un gran senso dell’umorismo, perché eseguiva una genuflessione prima
di andarsene».
La professoressa rimase attonita, e al successivo appuntamento con la psicologa, si sentì dire
che Benet si trovava là e desiderava che io sapessi
che lui si era manifestato e che voleva aiutarmi.
Aggiunse che era morto con gran dolore, perché
lasciava me, una persona che tanto aveva amato
e che era importantissima per la sua vita.
La mia interlocutrice mi chiedeva nuovamente
scusa («Nonostante tutto, le spedisco questa lettera confidando che lei sappia che cosa devo fa-
“Se mi raccontano
che un morto
che conoscevo bene
mi ronza intorno,
esigo che parli come
parlava da vivo”
re») e mi salutava, senza dare successivamente vita a niente che ricordasse neanche lontanamente
l’insistenza quasi sfacciata del grande sir Arthur
Conan Doyle nei confronti dell’afflitta Jessie Conrad. Lo scorso 5 gennaio sono passati quattordici
anni esatti dalla morte di Juan Benet, un uomo da
cui ho imparato molte cose, non soltanto in campo letterario, e con il quale ho mantenuto un’amicizia lunga più di vent’anni. Come scrittore,
curiosamente, sono stati soprattutto i suoi detrattori a impedirgli di finire nel dimenticatoio. In
tutto questo tempo, molti colleghi suoi e miei
hanno continuato e continuano a inveire contro
di lui. Dal momento che idiozia e insolenza spesso vanno a braccetto, la maggioranza di questi de-
trattori sono scrittori semplicemente ridicoli.
La sua ombra, evidentemente, deve crear loro
un bel po’ di complessi. I suoi testi sono ostici e
non potrei biasimare chi non senta il coraggio di
cimentarcisi. Ma visto che ottusi e ottocenteschi
sbraitano, continuino ad andare per la loro strada, e sarà questo il suo «contatto». Quello che non
credo è che il suo spirito vada a manifestarsi a Porto Rico presso una delle psicologhe del luogo. Come l’assennata vedova di Conrad, sono del parere che quelli che amiamo e abbiamo perduto riposano in pace, senza che alcuna legge li disturbi». Riesco a immaginarmi Benet che si genuflette per gioco, ma non riesco assolutamente a immaginarmi un Benet che dice simili pacchianerie,
o, tanto meno, che confessa quanto io sia stato
importante nella sua vita: come ho risposto alla
mia interlocutrice, lui fu importante nella mia vita, ma io non lo fui, in alcun modo, nella sua.
Non credo nelle apparizioni né nei messaggi
dall’oltretomba (salvo che nei racconti dell’orrore e nei sogni, che sono solo questo, però, bei sogni e racconti). Ma se mi vengono a raccontare la
storia che un morto che conoscevo bene mi sta
ronzando intorno, la prima cosa che esigo è che
questo morto continui a parlare come parlava da
vivo, senza propinarci inverosimili solennità che
mai sarebbero comparse sulle sue labbra. Per favore: è proprio il minimo.
Traduzione di Fabio Galimberti
© 2007 Javier Marías
Distribuito dal The New York Times Syndicate
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
L’ultimo Tarantino, “Grindhouse”, è il punto d’arrivo di un filone
cinematografico made in Usa in cui ci si insegue, ci si sfida, si amoreggia,
si fanno acrobazie, ci si salva o ci si danna, insomma si sopravvive o si muore
sempre a bordo di automobili. Un film che fa il verso ai B-Movie ma che dà l’opportunità
di ricostruire - da James Dean a Steve McQueen, da “Duel” a “Thelma e Louise” lo specialissimo rapporto che lega l’America alle sue “macchine infernali”
SIEGMUND GINZBERG
on saprei dire se gli androidi sognino pecore
elettriche, come si chiedeva il titolo del romanzo di Philip K. Dick da cui
venne tratto Blade Runner. Ma so esattamente cosa sogna l’America: sognano automobili, un gigantesco autoscontro, un luna park
con emozioni non stop al volante da
una costa all’altra degli Stati uniti, forse da un polo all’altro del pianeta. Sono andato al cinema a vedere
Grindhouse, e ho avuto una specie di
illuminazione: il film di Quentin Tarantino mi ha ricordato, con qualche pugno allo stomaco, ma anche con parecchio humour,
qualcosa che in fin dei conti
avevo sempre saputo, ma forse
non mi veniva con tanta evidenza.
Donne e motori, certo non è una
passione solo americana. Ce l’ha nel
sangue tutto l’Occidente, così come il
Giappone può avere nel sangue i samurai e la Cina le arti marziali. Ma è in
America che ha raggiunto vette inarrivabili. Sono di una generazione che
andava al cinema da prima ancora che
ci fosse la tv. Ho sempre prediletto i
film d’azione. Da bambino mi colpiva,
mi pare anzi mi infastidiva un po’ che
non ci fosse film, di qualsiasi genere, in
cui non ci fosse una storia d’amore, o
almeno una scena di bacio. Molto più
tardi, negli anni in cui vivevo in America, mi colpì che non ci fosse film
americano in cui non ci fossero scene
di inseguimento con automobili, di
scontri di automobili, di delitti in cui
c’entra l’auto, di acrobazie in automobile, in cui insomma non fosse co-protagonista l’automobile. Con l’eccezione dei soli western, in cui l’automobile si chiama però cavallo. Si amoreggia
in auto, si soffre e si gode in auto, si gioca con l’auto, ci si salva con l’auto, ci si
danna in auto, si ammazza in auto
e con l’auto.
In auto avevamo incontrato
sullo schermo la “generazione maledetta”, appreso del
gioco tra gang su chi sterza prima dello scontro frontale, e in un
incidete d’auto era morto James
Dean, il protagonista di Rebel whitout a cause. Era stata la Mustang
Gto a immortalare Steve McQueen in
Bullitt, più che viceversa. Erano auto a
due ruote le moto di Easy Rider. Ogni
film un modello. Le Aston Martin per
James Bond, l’Alfa spider per Dustin
Hoffman ne Il laureato, una Thunderbird convertibile per Thelma e Louise.
Un classico taxi newyorchese per Taxi
Driver, il cinegenico modello panciuto con cui si continuarono a girare film
per decenni, anche per molto tempo
dopo che di quei modelli non ne circolavano più per le strade di New York.
Ogni generazione americana ha
avuto i modelli in cui identificarsi, con
cui giocare all’autoscontro e all’inseguimento ad alta velocità. In genere,
come conviene ad una nazione altamente patriottica fino al midollo (nel
mondo moderno sono rimasti oramai
solo due grandi “patriottismi” viscerali, con convinzione di massa, quello
americano e quello cinese, quelli europei, per fortuna o per disgrazia
non ci sono più, o sono una pallida
ombra del nazionalismo Usa e cinese), su modelli made in Usa,
ma qualche volta, nei momenti
in cui l’America aveva i blues, su
modelli d’importazione. Ronin, di
John Frankenheimer, con Robert De
Niro e alcune delle migliori scene di
inseguimenti e scontri automobilistici degli ultimi anni, aveva praticamente lanciato la Audi. Nei film americani si sono visti talvolta nei ruoli
principali Mercedes, Bmw, un famoso maggiolino Vw, e virtuose Mini
Morris, ma mai un’auto giapponese,
SULLO SCHERMO/1
N
IL LAUREATO
Il Duetto Alfa Romeo rosso conquista
Hollywood grazie a Dustin Hoffman nei panni
di Benjamin Braddock nel film Il laureato
di Mike Nichols. L’anno è il 1967, corse in auto
al ritmo di Mrs Robinson di Simon & Garfunkel
BULLITT
Steve McQueen, che le auto le amava
alla follia anche nella vita privata, è Bullitt
nel film del 1968 diretto da Peter Yates
Una caccia a killer e mafiosi per le strade
di San Francisco a bordo di una Ford Mustang
Il sesso, la morte
e i film trita-auto
American
TAXI DRIVER
Per calarsi nel personaggio di Travis Bickle,
Robert DeNiro, con la solita furia maniacale,
ha guidato un taxi per un mese. È il 1976,
il simbolo giallo di New York è protagonista
nel capolavoro di Martin Scorsese
Cars
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
‘‘
‘‘
‘‘
- La Cadi, dov’è
la Cadi?
- L’ho data via
per
un microfono
- Per un
microfono!?
Hai dato via la Cadi
per un microfono?
Bene, hai fatto bene
Era nuova di zecca,
aveva l’odore
delle macchine
nuove
Che è poi
il miglior
profumo
del mondo,
a parte quello
di donna
Lisa: Papà, abbiamo
fatto una cosa terribile!
Homer: Avete
sfasciato la macchina?
Bart: No!
Homer: Avete
resuscitato i morti?
Lisa: Sì!
Homer: Ma la macchina
sta bene? Lisa: Ahah.
Homer: Allora tutto ok
John Belushi e Dan Aykroyd
THE BLUES BROTHERS (1998)
George LeBay
CHRISTINE (1983)
The Simpsons
LA PAURA FA NOVANTA III (1992)
una Mitsubishi o una Toyota.
Anche noi abbiamo avuto auto mitiche, che rappresentavano un’intera
epoca, la Topolino, la Seicento, la Cinquecento, la decappottabile del Sorpasso, guidata da Vittorio Gassman,
una metafora degli anni ruggenti e insieme insipidi del miracolo economico, rivista in tv qualche sera fa. Ma, andiamo, chi farebbe oggi un film con
protagonista un nuovo modello Fiat?
Le nazioni hanno momenti di calo, come le marche e i modelli d’auto. Sono
una Mustang modificata e una mitica
Dodge Challenger, bellezze degli anni
Sessanta, ma in realtà senza tempo,
simboli dell’America al meglio, le auto
star in quest’ultimo film di Tarantino,
che in qualche modo riassume ironicamente un intero mondo di passione
per il car chase e il car crash. Passione
piena, senza limiti, irrefrenabile, come sanno esserlo solo le passioni infantili.
Grindhouse è un titolo che fa venire
in mente il tritatutto, tritacarne. È, ho
letto da qualche parte, il modo in cui
venivano chiamati i cinema decaduti,
dove ti offrivano con lo stesso biglietto due film al posto di uno. In effetti così si intitola l’accoppiata del film di Tarantino, che si intitola Deathproof, a
prova di morte, e di quello del suo amico Robert Rodriguez, che si intitola
Planet Terror. Io mi sono sentito defraudato, perché, a differenza che in
America, dove l’accoppiata viene
proiettata insieme, un film dopo l’altro, nelle sale italiane con lo stesso titolo vi fanno vedere un film solo.
Ma non è di questo che volevo raccontarvi. Ho letto che Grindhouse farebbe il verso ai film “di serie B”, quelli dozzinali che non andranno mai nei
cinema d’essai, così come Pulp Fiction
lo faceva alla letteratura popolare all’ingrosso, da fumetto. A parte che non
bisognerebbe mai sottovalutare la
“serie B” (ricordo male, o anche Totò e
gli spaghetti western di Sergio Leone
venivano considerati di serie B rispetto ai “film d’autore”?), mi sono fatto l’idea che faccia il verso ad uno dei cardini del modo di essere, della cultura
americani. Come è impossibile immaginare il Far West senza cavalli, e il
grande decollo industriale Usa della
seconda metà dell’Ottocento senza le
ferrovie transcontinentali, è inimmaginabile l’American way of life senza
automobile. Chissà perché dicono
«american as the apple pie». Dovrebbero dire «american as the automobile». Che il vecchio Henry Ford abbia
inventato modello T e catena di montaggio proprio per costruire automobili può essere una coincidenza (era
anche un antisemita pazzesco, da dar
lezioni a Hitler, ma non per questo l’America è divenuta nazista).
Non può essere solo coincidenza,
invece, che dagli anni Venti e Trenta in
poi l’automobile sia diventata non solo simbolo di libertà, di movimento
nei grandi spazi, ma un vero e proprio “modo di vivere”. «Status
symbol, icona religiosa, feticcio
erotico, insomma quasi un oggetto “non di questo mondo”,
sempre più voluttuoso e carnoso,
quasi fosse sull’orlo dell’orgasmo», è il
modo in cui ne scrisse Lewis
Mumford. Era uno che già agli inizi degli anni Sessanta aveva intuito molte
cose. Compresa l’idea dell’automobile americana che evoca eros e thanatos, sesso e morte, piacere e dolore. Arrivò a definirla addirittura come «result of a secret collaboration between
the beautician and the mortician»,
frutto maledetto di una sorta di patto
segreto di collaborazione tra salone di
bellezza e pompe funebri.
Erano gli anni in cui le auto americane erano tutte cromature, curve
inutili e siliconate, pacchianerie di stile, gadget, senza alcuna o pochissima
considerazione per la sicurezza. Venivano reputate bare su ruote. Ralph Nader era diventato famoso, aveva lanciato una lunga e fruttuosa carriera di
contestazione con un libro di denuncia dell’industria dell’auto Usa, in particolare del modello Corvair della
Chevrolet: Unsafe at Any Speed, pericolosa a qualsiasi velocità è il titolo del
bestseller. Non è più così, nei decenni
successivi costruttori di auto americani si sarebbero dati molto da fare per la
sicurezza. Ora i loro modelli non dovrebbero più fondarsi per la sicurezza
di guidatore e passeggeri solo sul prin-
SULLO SCHERMO/2
THELMA & LOUISE
Due donne in fuga dal loro passato
e da un’accusa di omicidio. Susan Sarandon
e Geena Davis dirette da Ridley Scott (1991)
attraversano gli Stati Uniti su una Thunderbird
decapottabile del 1966
CARS
La giovane auto Saetta McQueen, astro
nascente delle corse, giunge in una piccola
città di provincia abitata da auto semplici
che hanno capito che la vita non è solo
correre. È la magia Disney/Pixar del 2006
FOTO WEBPHOTO
GRINDHOUSE
L’ultima adrenalinica e a tratti splatter fatica
di Quentin Tarantino. Ragazze, corse in auto,
omicidi in stile B-Movie anni Settanta
Le auto sono una Dodge Charger del 1969
e una Dodge Cahllenger del 1970
cipio del carro armato (il peso e la
quantità di acciaio impiegato).
Ma allora, perché il boom imperterrito degli Sport Utility Vehicle? Solo
perché più comodi e perché la benzina costa ancora così poco? Certo ci sono gli airbag, ci sono limiti di velocità
più severi che in Europa, in teoria al
guidatore non sarebbe consentito
nemmeno un bicchiere di vino o birra
ai pasti. Eppure, ogni anno continuano a morire in incidenti stradali più
americani di quanti ne siano morti
nella guerra di Corea e in quella in
Vietnam, dieci, venti, trenta volte
quanti ne sono morti sotto le Torri gemelle o nelle guerre in Afghanistan e Iraq insieme.
La prima vittima si era avuta a New York, una tranquilla
sera di fine estate, il 13 (non
11) settembre 1899, quando un
broker di Wall Street, Henry H.
Bliss, fu falciato da un tassì mentre
scendeva dal tram che allora percorreva l’8th avenue. Da allora, nel secolo e
passa successivo, si calcola che solo i
pedoni travolti dalle auto siano stati in
America quasi tre milioni. Le vittime
in scontri tra veicoli, ovviamente molti di più. Più di quelli ammazzati con la
pistola o il coltello, incomparabilmente più delle vittime delle bombe o
del terrorismo. Secondo alcune stime,
gli incidenti stradali sarebbero già oggi la principale causa dell’aumento dei
decessi non correlati a malattie trasmissibili, insomma un killer che tallona cancro e malattie cardiache.
Nel film di Tarantino, l’arma del serial killer è un’automobile da stuntman, modificata e rinforzata in modo
da garantire la sopravvivenza del guidatore anche in caso di scontro frontale. Per questo la chiamano “deathproof”. Un’altra automobile è l’arma
con cui si difenderanno e lo puniranno le ragazze che avrebbero dovuto essere le sue nuove vittime prescelte.
L’auto è uno strumento di aggressione, ma anche di esibizione sessuale. La
compiacenza sul sangue, le mutilazioni e la carne trita è quella solita, fosse
tutto qui non varrebbe nemmeno la
pena di prender nota di una sorta di
Kill Bill 3 in cui la strage avviene a colpi di lamiere contorte anziché di spada da samurai o arma da fuoco. La novità non è nemmeno l’inseguimento e
l’autoscontro, anche se l’autore si
vanta di aver girato tutto alla vecchia
maniera, dal vero, e non con i soliti
trucchi fatti al computer. L’idea di
usare una vera stuntwoman australiana per il gioco del cavalcare sul cofano
un’auto lanciata a piena velocità è
buona, aggiunge molta adrenalina al
solito gioco dell’autoscontro, evoca
un po’ Europa in groppa al Toro, un
po’ la cavalcata di Lady Chatterley, un
po’ il supplizio di Mazzeppa nel poema di Byron.
Ma tutto questo non basterebbe a
dare senso ad un “B-Movie” dichiarato se non ci fosse anche questa faccenda del rapporto particolare tra l’America e le sue automobili. Senza contare
che in America l’auto è anche spettacolo, più che in qualsiasi altra parte del
mondo. Gli eventi sportivi organizzati
dal Nascar (National Association of
Stock Car Automobile Racing) hanno
oltre dieci milioni di spettatori diretti
ogni anno, settantacinque milioni di
fan che seguono regolarmente gli
eventi, centocinquanta milioni se si
contano anche quelli che vi assistono
anche saltuariamente sugli schermi
tv. Si stima che per seguito le corse
d’auto (auto modificate ma somiglianti a quelle che circolano sulle
strade, non da fantascienza come le
Formula 1) vengano giusto dietro il
football americano, ma prima del basket, del baseball e del wrestling, molto prima del calcio, che chiamano soccer e resta una raffinatezza all’europea
per pochi intenditori.
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
i sapori
Magri, belli, sani: tutto merito del latte cagliato che - acidissimo,
cremoso o corretto con zucchero, miele o muesli - consumato
quotidianamente assicura vitamine e fermenti al nostro organismo
La sua è una storia alimentare lunghissima che affonda le proprie
radici nell’antica India degli yogi. Ottomila anni fa l’avevano
Oltre il latte
battezzato “cibo degli dei”, oggi il consumo continua a crescere
La yogurtiera
Di forma rotonda o quadrata, la yogurtiera è un contenitore
con coperchio che scalda i vasetti contenuti, da sei a dieci,
per il tempo (da tre a sei ore) e ai gradi necessari (35-40°)
A partire da fermenti secchi (in vendita in farmacia)
o da uno yogurt (intero, non zuccherato, possibilmente
di pecora, a garanzia di un risultato cremoso) si miscela
a temperatura ambiente con latte lasciato sobbollire
per un quarto d’ora e fatto intiepidire (40°). Poi, riempiti
i vasetti, si accende la yogurtiera. Dopo lo spegnimento
automatico, lasciate riposare i vasetti in frigo
Intero
7,4%
l’aumento del consumo
nell’ultimo anno
Il latte di partenza
è intero, ovvero
con un contenuto
di grassi non inferiore
al 3%. Può essere
bianco – il più semplice
– con o senza
zucchero, addizionato
di frutta, aromi, muesli
È il più usato
nella preparazione
di torte, gelati e dolci
al cucchiaio
LICIA GRANELLO
agri, belli, sani, virtuosi: tutto merito del latte cagliato. Impossibile trovare un
altro alimento così carico di benemerenze. Bisognerebbe farci il bagno, nello
yogurt: corpo, viso, capelli ne guadagnerebbero assai. E mangiarlo con regolarità, per ritrovare, come un filo d’Arianna, tutti i fermenti smarriti per colpa
di diete sbagliate, stress incombenti, ambienti inquinati. Abbiamo faticato un
poco a farcelo piacere, perché il gusto acido non è tra i più praticati della nostra cucina. Ma alla fine, tra aggiustamenti, trucchi e un po’ di coscienza alimentare in più,
siamo riusciti ad adottarlo come un felice passe-partout della cucina estiva. In più, il faida-te è semplice, economico e allegro, l’inserimento nelle ricette variegato e curioso, i
margini di tolleranza digestiva ampi, l’appetibilità per grandi e piccini accertata.
Da quando, nei primi anni del secolo scorso, lo scienziato russo Ilya Metchnikoff, avviato uno studio sulla longevità del popolo bulgaro, venne folgorato dall’intuizione che lo yogurt fosse la causa di tanto buon invecchiare, la sua diffusione ha avuto un incremento esponenziale. Metchinikoff, battezzato “bulgaricus” il lattobacillo principale responsabile della fermentazione, ci scrisse un libro sopra, intitolato L’allungamento della vita, dove sosteneva che
lo yogurt consumato quotidianamente, grazie al suo apporto di batteri buoni, era da considerarsi una sorta di elisir di eterna giovinezza. Una scoperta che gli valse il premio Nobel.
Del resto, lo yogurt è citato come simbolo di alimentazione sana nei testi Ayurveda indiani datati ottomila anni fa. Allo stesso modo, molti secoli prima di Cristo gli
yogilo avevano battezzato «cibo degli dei». Un’eredità alimentare ben corposa, se è vero che gli indiani sono tuttora infaticabili consumatori di yogurt, che traducono in salse, condimenti e nei gustosi lassi, la bevanda nazionale indiana realizzata con yogurt, acqua (in quantità dimezzata), ghiaccio, spezie o frutta a piacere.
Il problema è che esiste yogurt e yogurt. Al supermercato, restiamo incantati e confusi davanti alle scaffalature dove, allineati con implacabile disciplina, centinaia di vasetti promettono mirabilie. Scelta difficilissima: abbassare il colesterolo e ridurre gli zuccheri, far pace con
l’intestino pigro o stroncare l’acne giovanile?
Nudo e crudo, lo yogurt è irreprensibilmente benefico: il lattosio, scisso dalla fermentazione in zuccheri più semplici (glucosio e galattosio), e i lipidi omogeneizzati risultano altamente digeribili, le proteine contengono tutti gli aminoacidi essenziali, le vitamine del gruppo B
proteggono fegato e intestino, l’acido lattico favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo, i lat-
M
Yogurt
Elisir di lunga vita
tobacilli favoriscono il ricambio della bile, incrementano la produzione di acido folico, migliorano la microflora intestinale.
Il resto, lo garantiscono gli optional, equamente divisi tra plusvalore semi-terapeutico e irresistibile golosità. Convinti di regalarci un francobollo di salute, spesso ingoiamo chimica travestita da cibo salutare, tra aromi e coloranti, zuccheri nascosti e frutta col contagocce, senza
nemmeno l’alibi dell’economicità: quattro-cinque euro al kg, quasi mai sapendo da dove arriva il latte.
La ribellione alla dittatura del vasetto industriale passa dalla yogurtiera, che garantisce ottimi yogurt fatti con tutti i vostri ingredienti preferiti, dal latte biologico al vero muesli integrale.
Se invece l’autoproduzione vi atterrisce, organizzate una gita a Vipiteno nelle settimane centrali di luglio, per partecipare all’Olimpiade dello yogurt, con degustazioni a occhi bendati, visita alle latterie sociali (comprese quelle di Merano e Bolzano) e cene dedicate. Verrete trasformati in veri Highlander del probiotico.
Da bere
La versione fluida
si ottiene grazie
a rottura del coagulo
e successivo
passaggio al setaccio
fine. Quasi sempre
l’appetibilità passa
da aromi e dolcificanti
Liquido ma diverso
il kefyr, di origine
caucasica, che oltre
ai fermenti vanta
la presenza di lieviti
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Borgo San Lorenzo (Fi)
Vipiteno (Bz)
itinerari
Antonio Palmieri
è l’appassionato
proprietario
di “Vannulo”,
caseificio-culto
all’ombra
dei templi
di Paestum. Il latte
lavorato (crudo
e biologico) proviene
dalle bufale allevate
in azienda. Mozzarella,
ricotta e yogurt da soli
valgono il viaggio
Presenzano (Ce)
Fascino medievale
e ospitalità a 360
gradi per l’antica
Vipitenum Sterzen
(terreno di Starzo)
Il paese - i tre quarti
dei suoi abitanti
sono di madre
lingua tedesca è inserito tra i borghi più belli d’Italia. La sua latteria
sociale è famosa per l’alta qualità di yogurt e burro
Intitolato alla pieve
di San Lorenzo,
è uno dei borghi
della conca
del Mugello,
alle spalle di Firenze
Campi e stalle gestiti
con sapienza
garantiscono
produzioni di alto livello, a cominciare da latte,
yogurt e formaggi con il marchio Mukki Mugello
Appoggiato a mezza
costa nell’alta valle
del Volturno, fa parte
di uno dei due poli
campani
dell’allevamento
di bufale. In scia
all’eterna lotta tra
Caserta e Salerno
per la supremazia della mozzarella, nei caseifici
si producono yogurt gustosi e cremosissimi
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
AQUILA NERA-SCHWARZER ADLER (con cucina)
Piazza Città 1
Tel. 0472-764064
Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa
LOCANDA DEGLI ARTISTI (con cucina)
Piazza Romagnoli 2, Tel. 055-8455359
Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa
In estate sempre aperto, menù da 30 euro
AGRITURISMO BOSCO FARNETO (con cucina)
Bosco Farneto
Tel. 0823-989506
Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
PRETZHOF
Località Tulve
Tel. 0472-764455
Chiuso lunedì e martedì, menù da 35 euro
COLLEFERTILE (con camere)
Località La Sughera
Frazione Arliano
Tel. 055-495201
LE DUE TORRI (con camere)
Via Venafrana Km 4700
Tel. 0823-989518
In estate sempre aperto, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
LATTERIA COOPERATIVA VIPITENO
Via Passo Giovo 108
Tel. 0472-764155
COOPERATIVA EMILIO SERENI
Via La Brocchi 27
Tel. 055-8459100
CASEIFICIO LA FENICE
Via Vadopiano 5, Presenzano
Tel. 0823-989318
2,2
Cremoso
La tecnica prevede
una maggior accuratezza
nel rimescolare,
omogenizzando
il composto
Più semplice
e golosa l’aggiunta
di panna (quasi sempre
senza percentuale
in etichetta)
La definizione “crema
di yogurt” evita i vincoli
normativi
i miliardi di vasetti
acquistati ogni anno
Scremato
Preparato con latte
la cui percentuale
di grassi non supera
l’1%. Esiste
anche in versione
parzialmente scremata,
con un contenuto
lipidico che varia
tra l’1,5% e il 2%
Può essere arricchito
come l’intero
e zuccherato
con dolcificanti
Alla frutta
Arricchito con frutti
singoli o miscelati
(anche con verdure)
a pezzetti, frullati,
spesso con aromi
Coloranti
e conservanti
supportano
o sostituiscono
la frutta. Il contenuto
medio varia intorno
al 10%, pari a pochi
grammi per vasetto
Probiotico
75
le calorie in un vasetto
di yogurt intero
La trovata dei pastori migranti
Allo streptococcus
termophilus
e al lactobacillus
bulgaricus, vengono
aggiunti altri fermenti
egualmente capaci
di svilupparsi
alla temperatura
del corpo e resistenti
agli acidi gastrici
Tra le loro funzioni:
proteggere l’intestino
e alzare le difese
CORRADO BARBERIS
o yogurt sta al formaggio come il chiaro di luna sta all’amore: avendo del chiaro di luna il frescore, la volatilità, l’opalescenza. Se non vi fossero altre ragioni, politiche, a consigliare l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, basterebbe
la paternità dello yogurt a perorare la causa.
Paternità culturale, come attesta l’etimo: da yogurmak, mescolare, impastare. Non necessariamente anche biologica. Tanto Plinio (XXVIII, 133) quanto Columella (XII, 8) ricordano il greco oxygala, latte acido insaporito di varie erbe antesignane dei
pezzetti di frutta spesso natanti nelle nostre confezioni. E in Sardegna — altra terra di pastori migranti come i turchi — abbiamo
tuttora, bovino ed ovino, su gioddu, la cui madre, come descrive
il Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati
di S. M. il Re di Sardegna, pubblicato a Torino nel 1824, era ottenuta facendo fermentare pane nel succo mammario, in attesa di
essere aggiunta ad una massa di latte bollito grazie all’immissione di ciottoli arroventati. Un vero trionfo del folclore, oggi semplificato.
Paternità culturale, ripetiamo. Infatti, se il prodotto appartiene ad una vena profonda della civiltà mediterranea — quasi una
sorta di carsismo gastronomico che qua e là affiora — non ci sono dubbi che a imporlo all’attenzione europea è stata la Turchia.
Allo stesso modo che, per il diritto naturale, il padre non è il donatore del seme ma l’individuo additato da giuste nozze, anche
lo yogurt vede nei turchi i padri additati da una giusta storia.
Perché, nell’immaginario di molti, lo yogurt nasce bulgaro
tanto che i suoi fermenti sono detti bulgarici? Perché la Bulgaria
è stata, fino alla seconda metà dell’Ottocento, una provincia turca. E perché, entrando in un supermercato, la più raffinata delle
confezioni esposte è quasi sicuramente greca? Perché svariati se-
L
Aromatizzato
Magro o intero,
si caratterizza
per la presenza
di cereali, nocciole,
caffè, vaniglia, malto,
cioccolato. Quasi
sempre, si tratta
di aromi di sintesi
La dicitura “naturali”
consente comunque
di replicare sostanze
naturali con metodi
chimici
coli di dominazione ottomana hanno consentito agli Elleni di acquisire tutti i segreti del mestiere. A distanza di quasi duecent’anni il regalo dell’arte yogurtina risolve (se non assolve) i
massacri di Scio immortalati nel quadro di Delacroix al tempo
della guerra per l’indipendenza.
Dopo un lungo periodo di gastronomico carsismo il prodotto
emerge all’attenzione europea nel 1542. Francesco I, galante Re
di Francia, era caduto in uno stato di prostrazione dal quale non
riuscivano a sollevarlo i medici abituali. Fu allora che il suo ambasciatore presso la Sublime Porta gli segnalò un medico ebreo
di Costantinopoli che faceva miracoli con latte di pecora rappreso in un certo modo. Fu fatto venire a Parigi, a piccole tappe, per
restare unito al suo gregge: che, guarito il re, fu invece abbattuto
dal rigore dell’inverno europeo.
Passarono altri tre secoli prima che Théophile Gautier, il delicato cesellatore di Smalti e cammei, decantasse le esposizioni a
vento aperto di questo latte cagliato nelle vie di Costantinopoli.
L’Oriente si fa moda. Finché, nel 1919, ecco sorgere a Barcellona
il primo stabilimento industriale, con un’etichetta ancora oggi
ben nota: Danone. Da allora la corsa allo yogurt, ormai bovino,
non conosce soste. Con una accelerazione davvero incalzante.
L’Ismea calcola che tra il 1999 e il 2006 i consumi italiani sono saliti da 352 a 497 migliaia di tonnellate, da 6,1 a 8,5 chilogrammi
pro capite. Con qualche conseguenza sulla nostra bilancia dei
pagamenti, le importazioni essendo cresciute dal 20 al 40 per
cento, nonostante i progressi dell’industria nazionale. Ma è uno
scotto da pagare volentieri, visto che lo yogurt, promuovendo lo
sviluppo della flora intestinale, fa delle nostre trippe i giardini
pensili della salute.
L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale
Compatto
Tipico della Grecia,
di consistenza quasi
soda, simile
a un formaggio fresco,
viene preparato come
quello fluido. Una volta
completata
la fermentazione, però,
si fa “sgrondare”
facendo colare il siero
dentro una garza
tenuta in frigo
per qualche ora
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Moda virtuale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
Erano poche centinaia nel 2002, quando questo aldilà digitale fu ideato
Oggi sono sette milioni e mezzo i residenti di Second Life, un altro
mondo dove la creatività è un must e che esprime uno stile spesso
eccessivo, impudico, carnevalesco. E adesso gli avatar made in Italy
per la prima volta si incontrano (dal vivo) a Pistoia per confrontarsi
Farò il replicante
ma cosa mi metto?
ALESSANDRA RETICO
ra vogliono guardarsi negli occhi, la doppia vita non basta. L’orgoglio avatar fa coming out, scende in piazza a Pistoia per il primo raduno dei residenti italiani (virtuali) su Second Life, il gioco online in 3D che definirlo così è ormai solo una prudente convenzione. Il 18 luglio nel parco dell’Aringhese di Montale ci saranno gli alter ego della terza dimensione con i loro corpi, visi, nomi; e un concerto di Freccia
Lane, alias Irene Grandi, che ha girato su SL il video del suo Brucia la città, attori-avatar arruolati dalla Ibridarte, l’isola-azienda creata della Pim che è anche il marchio dell’evento pistoiese. Mario Gerosa, giornalista di Architectural Digest, pioniere di mondi virtuali con Second
Life (Meltemi), prima guida-saggio sull’argomento, dice: «Conviene tenere conto dei social
network come SL, non sono solo un doppio ma un’alternativa concreta del fare e dell’essere».
Gli oltre 7,5 milioni di residenti di quell’aldilà digitale lo sanno bene che significa inventarsi
un’altra identità e poterci fare tutto. E che piacere sia
una vita priva di scopo, senza timbrare cartellini ma
anche senza ammazzare mostri e conquistare reami.
Al posto di doveri, molte opportunità: di creare, divertirsi, fare soldi (1,6 milioni i dollari scambiati in media
ogni giorno). E dire che erano poche centinaia gli utenti nel 2002 quando la Linden Lab di Philip Rosedale a
San Francisco si è inventata questa patria di replicanti, di altri, di rovesci. Tutto attorno inchieste, studi, e
una fitta manualistica perché andare dall’altra parte è
un’avventura complicata. Second Life, guida turistica
essenziale si chiama il vademecum degli inglesi Paul
Carr e Graham Pond (Il Saggiatore). Second Life, la guida ufficiale è il testo di riferimento di Repubblica-L’Espresso, scritto dai residenti di SL e dai tecnici della società madre californiana.
Orientarsi, per perdersi meglio: in questo altrove è necessario uno smarrimento consapevole, la più feconda
condizione creativa. Oltre la retorica tecnoutopica, SL è diventato l’universo parallelo non solo mimetico, ma anche
fortemente demiurgico. Una vita altra, soprattutto una vita espressiva. Tra le molte professioni degli
avatar, da animatore di night a organizzatore di matrimoni, da paesaggista a sviluppatore di abbracci,
da agente immobiliare a investigatore privato, non a caso abbondano i designer di oggetti e di moda.
Vestire, abbigliare, travestirsi: finalmente lì si può eccedere, esagerare, giocarsi un ruolo. Sessualità ambigue, soprattutto corpi e accessori impudicamente esorbitanti, spettacolari, carnevaleschi.
Nella varietà e diversità sociale di SL, la creatività è praticabile, l’utopia d’essere autori accessibile.
Qui la dittatura del brand è fragile, le grandi corporation tra cui Reebok, Toyota, American Apparel,
Ibm e altre che ormai da anni hanno aperto vetrine per pubblicità, non possiedono più appeal di un
qualsiasi Pirandello (cognome parecchio diffuso “in-world”) che apra bottega. Gli stili in circolo
spiegano il resto. Gerosa: «Il fetish va molto, perché è la metafora di qualcosa che manca, la pelle e
il latex simulano una sensualità che nel virtuale è sorda, priva di appigli sensibili».
C’è anche molta classicità, romanticismo e demodè, citazioni dai Sessanta e Settanta, ma sono le sottoculture a emergere, tutto l’immaginario pop del cinema e dei manga giapponesi, il selvaggio, il cyberpunk, il gotico, il vampiresco, l’estetica dei videogame. Le molte riviste specializzate come Second Style e i blog dei creativi come quello di Ginny Talamasca (Dazzle Haute
Couture), danno indirizzi: per qualcosa di sobrio, Shiryu Musashi o Rebel Hope Design, street style da Form di Zabitan Assia, molto trendy Nocturnal Threads di Kaia Ennui (alias Calan Ree), jeans a vita bassa e ali (perché in SL
si vola, ovvio) nella boutique di Toni Barrett a Butterfly Island, il draculesco da Mistress Midnight, stilista assai in voga almeno come Aimee Weber (Alyssa LaRoche). Secondi corpi e seconde pelli. Non solo il sogno americano rivisitato in digitale, ma il riflesso luccicante
della vita, la tentazione del doppio di sempre.
O
Gli stilisti e gli atelier
che vestono
le “seconde pelli”
amano le sottoculture
e dunque dominano
il pop, il cyberpunk,
i manga, il selvaggio,
il gotico-vampiresco
I LOOK
PSICHEDELICO
Suggestioni anni
Settanta nei pantaloni
a zampa d’elefante,
nei top optical
e nelle stampe a fiori
e psichedeliche
delle collezioni
di Vitamin Ci,
disegnate
dall’avatar
Ciera Bergman
Cultura pop
molto in voga su SL
NEOROMANTICO
CITAZIONISTA
MANGA
Si ispira
alla Russia
di Anna Karenina
il mantello nero
di Ookami Ningen,
rintracciabile
nella boutique
Dark Eden Plaza,
Indigo. Vestito
neoromantico
firmato House
of Zen Hinode
Shima
Un po’ Parigi anni
Trenta, un po’
Katharine Hamnett:
incrocio di stili
e citazioni sono
frequenti
nei designer di SL
A destra: modello
di Meekal
e AliciaKay Kilara,
si trova da A Touch
of Ireland Hatchet,
Cove
Fumetti, manga,
bambole, gadget:
gli avatar di SL
amano vestirsi
come i personaggi
dei comics giapponesi
Qui, una creazione
del marchio Tweet,
che risponde
al nome dell’avatar
Sumire Mochi
La linea è pensata
per teenager e donne
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
7,5 milioni
1,6 milioni
50mila
75%
Sono circa 7,5 milioni i residenti
in Second Life: in due mesi
più di 1,7 milioni i nuovi iscritti
Si calcola che siano
circa 50mila i residenti italiani
nel mondo virtuale in 3D
LA GUIDA
Con la Repubblica e L’Espresso
la guida ufficiale di Second Life,
scritta dai residenti e dai tecnici
della Linden Lab, proprietaria
del gioco in 3D. Tradotto per la prima
volta in italiano, il manuale orienta
nel mondo online con le risposte
e i consigli pratici per costruire
il proprio personaggio, l’avatar,
per esplorare un universo in continua
espansione e per realizzare veri
profitti con il lavoro dei propri sogni
Il volume conta 360 pagine a colori,
si compone di 13 capitoli tematici
divisi in tre parti e di 4 appendici:
prezzo 7,10 euro
Nel giro di 24 ore su SL vengono
scambiati in attività commerciali
oltre 1,6 milioni di dollari Usa
Circa il 75% dei residenti
ha acquistato almeno un oggetto,
mentre il 25% ha un negozio
Quel sogno di un Altrove
motore delle nostre vite
UMBERTO GALIMBERTI
ognare un’altra vita rispetto a quella che ci capita di vivere è, tra i sogni dell’uomo,
quello più antico. Senza questo sogno forse non sarebbero nati i miti dove nelle vicende degli dèi ci si rappresenta la vita che si vorrebbe vivere, le religioni che promettono una vita eterna al di là di quella che trascorriamo sulla Terra, la letteratura dove storie fantastiche ci trasportano in mondi altri rispetto a quello in cui siamo
costretti a vivere, la musica che ci porta fuori dallo spazio e dal tempo abituali per
immergerci in assonanze e dissonanze sconosciute al nostro trascorrere quotidiano.
Senza il sogno di un’altra vita non avremmo immaginato alcuna utopia dove possa aver luogo quello che al momento non ha luogo, alcuna rivoluzione che, rispetto all’esistente, promette «nuovi cieli e nuove terre» e, se non proprio, almeno altre condizioni di vita, alcun progresso scientifico promosso dal sogno di ridurre la fatica del lavoro e la crudeltà del dolore,
quando non addirittura quello di procrastinare la morte. Senza il sogno di un’altra vita, davvero, ma proprio davvero, non riusciremmo a vivere. Tale è infatti la condizione umana, il suo
tratto specifico, la sua peculiarità, la sua bellezza.
Su questo sogno primordiale, in cui probabilmente è da rintracciare l’essenza dell’uomo,
le religioni hanno costruito il concetto di “trascendenza”, una sorta di oltrepassamento dell’esistenza, in vista di altri scenari possibili e futuri. Dal canto suo la psicoanalisi, sempre a partire da questo sogno, ha costruito il concetto di “inconscio”, dove il desiderio di un altrove, rispetto alla monotonia del quotidiano, irrompe per creare scenari alternativi che, quando non
si realizzano, diventano sofferenze nevrotiche.
Quando il sogno di un’altra vita oltrepassa i limiti del desiderio e dell’immaginazione e più
non si accontenta degli scenari dispiegati dai miti e dalle religioni, né di quelli più modesti dischiusi dalle visioni utopiche o dalle istanze rivoluzionarie, allora può accadere che ci si congedi dalla realtà per inoltrarsi in quei percorsi, ora bui ora folgoranti, che siamo soliti chiamare “follia”. Un tentativo estremo per continuare a vivere quando la realtà non ci offre più le condizioni e, senza il sogno di un assoluto altrove, altro non ci resterebbe che il suicidio.
Una realizzazione di questo bisogno tipico dell’uomo — che nasce in un mondo “dato”
al solo scopo di ri-nascere in un mondo da lui “creato”, perché solo nelle nostre creazioni
reperiamo un senso che sia davvero “nostro” — oggi ce lo concede la frequentazione del virtuale, dove ciascuno di noi può identificarsi nel mito di se stesso, nella storia che vorrebbe
e che non può vivere nella realtà, negli amori che gli sono impediti, in spazi che non ha mai
frequentato, abitando case o castelli, spiagge o deserti che ha solo sognato, indossando abiti che non sono sul mercato, ma che ciascuno, vestendoli, sente di essere finalmente se stesso. Forse tante terapie psicoanalitiche potrebbero accorciare i loro tempi alla scoperta dell’inconscio, se ogni paziente portasse al suo analista un dischetto in cui descrive la sua “Second Life” e se l’analista avesse l’accortezza di non ricondurre subito l’immaginazione del
paziente alla realtà. Perché senza sogni la vita è invivibile, e i sogni forse non vanno solo interpretati ma anche realizzati, a meno che non si voglia rinunciare totalmente al proprio sé
profondo, dimenticando l’invito di Nietzsche: «Diventa ciò che sei».
Naturalmente più solerte e più attento degli psicoanalisti è il mercato che studia il “Second Life Style” per consentire ad architetti, designer e creatori di moda di alimentare la loro creatività consunta e in via di estinzione e di andare incontro ai desideri segreti, ma in Second Life manifesti, di personalità creative a cui il “sano realismo” che regola la nostra cultura non concede di esprimersi se non nel virtuale.
Ma il virtuale anticipa il reale come l’alchimia ha anticipato la chimica, il sogno leonardesco di volare l’aeronautica, l’immaginazione atomistica di Democrito la fisica quantistica, la chimica l’interpretazione goethiana dell’amore a partire dalle “affinità elettive”. A
questo punto potremmo pensare che il reale è solo il residuato del virtuale, il passato dell’immaginazione, ciò che resiste all’ideazione e a quella proiezione futura senza la quale
l’uomo sarebbe già scomparso in quella noia profonda e letale dove già stava scomparendo Dio, quando, come ci ricorda Kierkegaard, reagendo all’immenso vuoto che lo circondava, con un gesto di immaginazione, creò il mondo. Forse fu proprio ispirandosi a questo
gesto che l’uomo divenne immagine e somiglianza di Dio.
Ma la Second Life, oltre ad essere un inno alla magia del sogno, è anche un sintomo dell’intollerabilità della vita a cui siamo costretti. Una vita dove ciascuno di noi ha dimenticato il proprio nome perché è riconoscibile solo dalla sua funzione, a sua volta regolata dalle
maglie strette e dalle regole ferree dell’apparato di appartenenza. C’è solo da augurarsi che
la promessa di una seconda vita virtuale non rimanga solo un’evasione, ma diventi spunto
per una progressiva modificazione del reale, senza che un’anticipata rassegnazione lasci
tutto irrimediabilmente così com’è. Sarebbe la fine della vicenda umana in quel che ha di
più creativo e ideativo.
S
NEOGOTICO
STREET STYLE
Dalla strada
proprio come avviene
nel mondo reale,
arrivano le ispirazioni
per lo street o urban
style, che punta
alla comodità
e fa tendenza. A destra,
modello di Sassafras
Designs, negozio
su Mo Island
dell’avatar Cha
Trimble
Il neogotico
è una delle
tendenze
più diffuse
in SL e mischia
suggestioni
cinematografiche,
delle serie
televisive
e dei videogame
Una delle firme
più note è 7
Deadly Sins,
marchio
che risponde
ai nomi
dei partner
Lilmiss & Loki
Corsetti
e merletti,
ha invece
un’estetica
vampiresca:
rosso e nero
i colori preferiti
NEOPUNK
FETISH
Videogiochi, Matrix
e Il Quinto Elemento
Prevalgono nero, cinghie,
fibbie, pelle, stivali, borchie:
il neopunk è una delle mode
meglio rappresentate in SL
Nella foto, un modello
del marchio Canimal. Punk
e stile vittoriano
nelle firme Taliah Talamasca
e Hyasinth Tiramisu,
mentre l’intera isola Nexus
Prime è cyberpunk
Latex, pelle,
collari, piercing,
tatuaggi. Il fetish
è tra le cifre
più evidenti
nel mondo virtuale
Nella foto accanto,
una creazione
della X3D Apparel
Molti i marchi
di moda,
come Draconic
Lioncourt e Kyrrah
Abattoir
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 GIUGNO 2007
l’incontro
Il marito e gli amici perduti
troppo presto, due figli amatissimi,
una straordinaria carriera
messa da parte e poi riagguantata
Il suo racconto è sempre in bilico
tra memoria e futuro
ma oggi questa
passionale popstar
che ha saputo
ricominciare da capo
parla solo di speranza
“Aiutiamo i nostri ragazzi
a non aver paura,
a combattere, combattere, combattere
per costruirsi un avvenire
dove la vita possa essere esaltata”
Poeti rock
Patti Smith
l cospetto di Patti Smith si
avverte il silenzioso fragore della storia. Storia rock
s’intende, ma ricca di riverberi, come una drammaturgia dell’esistenza scritta sotto l’urgenza delle canzoni. Il suo volto scabro, non ritoccato, altamente espressivo, perfino rude, fino a
che il sorriso non addolcisce gli occhi spiritati, è l’emblema di questo incontaminato rispetto per la figura della donna.
Senza trucchi. Come senza trucchi è la
sua arte, una lama affilata da affondare
nel parco emotivo che le si distende davanti quando canta, che siano teatri, palasport, o lo sgangherato, enorme, loft
dove suona a Copenhagen, nella surreale enclave di Christiania, anzi la libera
città di Christiania, il quartiere fondato
nel 1974 e ancora oggi gestito con inconfondibile filosofia comunitaria di
stampo hippy. «Sì, ho voluto suonare
proprio qui, perché bisogna sostenere
questo posto. La gente ne ha bisogno». E
quando canta, come un esordiente in un
club fumoso, fronteggia il pubblico,
guarda negli occhi gli spettatori, uno per
uno, trasmette lampi chiari di rabbiosa
beatitudine, urla: «Voi siete il futuro!».
«Ho sempre voluto comunicare direttamente con la gente» spiega, «Sono consapevole della loro presenza, la gente
vuole essere riconosciuta, e voglio che la
gente sappia che sono lì per loro, voglio
vederli, sentirli». Propone canzoni d’altri
tempi, tra cui quelle che ha scelto per il
suo recente album di cover, Twelve,
un’occasione per riflettere sul passato.
«Alcune le ho scelte perché era una missione, come Are you experienced, volevo a
ogni costo aprire il disco con un pezzo di
Jimi Hendrix». Il suo modo di raccontarsi
è sempre in bilico tra memoria e futuro.
Le persone perse, le persone ritrovate, il
figlio Jason, ventiquattrenne, che ora è in
tour con lei, e che lei protegge come una
no tutti, tutti i giorni, anche qui girando
per le strade ho visto una grande statua
con King Frederick, e ho subito pensato al
mio Fred, ogni giorno mi manca questa
gente, non solo per l’amore che avevo per
loro, ma per il lavoro che abbiamo fatto
insieme. Potrei dire che la mia vita è più
povera, ma provo anche ad apprezzare
quello che ho avuto, la mia vita è più ricca
grazie al fatto che Fred mi ha dato due stupendi figli, ho incontrato nuovi amici,
nuovi musicisti come Michael Stipe o
Flea (dei Red Hot Chilli Peppers), ho amici meravigliosi, viaggio, e viaggiare rende
la mia vita più ricca, amo arrivare nei paesi, la gente mi dà energia, spero che ci ispiriamo a vicenda, mi manca la mia gente
ma loro sono sempre con me, preferisco
pensare che cammino con loro in un diverso modo».
Metaforicamente, ma anche alla lettera, è una vera viaggiatrice, nel senso che
porta con sé poche cose, essenziali, ma
cosa esattamente? «Parto sempre con un
libro che voglio leggere, poi diventano
tanti perché la gente mi regala spesso libri, questa volta ho portato un libro di
poesie di William Blake. Porto sempre un
Mi hanno detto:
facciamo una t-shirt
per l’11 settembre
Ho risposto: no,
facciamone una
sul 10 settembre,
per ricordare
chi eravamo prima
FOTO GAMMA
A
COPENHAGEN
leonessa col suo cucciolo, come se fosse
la sua proiezione nel domani. «Hendrix,
l’ho incontrato una volta, poco prima che
morisse» racconta. «Era allo studio Electric Ladyland, c’era un party, stava per
partire per l’isola di Wight, io ero troppo
timida per entrare nello studio e stavo
sulle scale, lui uscì fuori, mi sorrise, mi
raccontò i suoi sogni, le sue speranze, il
rock’n’roll come linguaggio universale,
voleva sviluppare un movimento pacifista dentro le strutture del rock, e poi morì,
così cercai di pensare a lui, onorarlo, e io
registrai lì il mio primo singolo, Hey Joe,
che avevo imparato da lui».
Oggi Patti Smith ha sessant’anni. Col
tempo ha acquisito una sorprendente e
luminosa serenità. A vederla sul palco è
una belva scatenata, un furore ininterrotto, come se davvero fosse in missione per
conto di cause superiori. La mattina dopo nel bar dell’elegante albergo in cui risiede è tranquilla, calma, attenta a ogni
parola che dice, è seduta in un angolo,
con un blocco notes in mano, un tè da sorseggiare, sembra un’intellettuale d’altri
tempi in cerca di sottili empatie, con un
borsalino nero a tese larghe saldamente
infilato sulla testa: «Lo amo, quello che
avevo mi è volato via mentre ero in viaggio, ero molto triste per questo e quelli
della Borsalino me ne hanno mandato
subito uno nuovo, ne sono molto riconoscente perché il cappello è come un mio
amico». Ha vicino a sé un libro, di Edgar
Allan Poe, lo apre a caso e come una monellesca sciamana legge la prima frase
che trova: «Permettiti di sognare». Poi mi
guarda come dire: vedi? La vita è una meravigliosa catena di casualità.
Fa di tutto per sembrare normale:
«Non sono una celebrità, non sono una
popstar, voglio una vita normale, camminare per le strade, e voglio anche che la
gente sappia che non sono inaccessibile,
sto sul palco ma questo non fa automaticamente di me una persona migliore, è il
mio lavoro, tutti insieme creiamo la notte e ogni concerto è diverso, anche nello
stesso luogo la sera seguente sarà diverso,
c’è sempre qualcosa che deve essere appreso, qualcosa che deve essere scambiato, ogni notte è nuova anche per me,
una notte può essere molto politica,
un’altra omosessuale, una anarchica, o
solo divertente».
Eppure la sua normalità è frutto di una
vita votata all’arte, a fianco dei personaggi più fantasiosi e eretici espressi dalla
cultura americana, una vita travagliata,
lontana dai compromessi, funestata da
perdite gravi. In pochi anni, dopo che nel
1979 aveva annunciato un clamoroso ritiro dalle scene, all’apice del successo, ha
perso il marito Fred Sonic Smith, bassista
del ruggente gruppo Mc5, poi il fratello
Tod, l’amico di sempre Robert Mapplethorpe. Poi sono scomparsi i suoi amici poeti, Gregory Corso, Allen Ginsberg.
Non è troppo subire così tante perdite?
Anche su questo mostra una insospettabile serenità, eppure si capisce che superare il lutto deve essere stata un’esperienza liberatoria ma devastante. «Mi manca-
notebook, un paio di penne, una foto di
mia figlia, una piccola medaglia di Giovanna D’Arco, qualche t-shirt, dei calzini,
porto anche la mia vecchia macchina fotografica, ce l’ho dal 1963, mi piace viaggiare leggera, spesso do via le mie cose, la
gente me ne dà, a volte sembra una carovana di zingari, scambio le cose con quelli che incontro».
E non si ferma mai, sembra che la sua
testa sia ingombra di progetti come un
cantiere in costruzione: «Ho molto lavoro
da fare fuori dai concerti, voglio lavorare
con altri artisti, come l’italiano Marco Turelli, ci sono molte fondazioni e musei che
mi chiedono cose, e poi soprattutto voglio
scrivere un’opera, una piccola opera, non
come quelle di Verdi o Puccini, ma comunque un’opera, poi voglio finire il documentario a cui abbiamo lavorato per
dieci anni, col mio amico Steven Sebring.
Credo che sarà al festival del cinema di Roma, si intitola Dream of life, è sui dieci anni passati dopo che mio marito è morto,
con i figli che crescono, mi segue in viaggio, visitando la tomba di Rimbaud o
quella di Gregory Corso a Roma, è la mia
ripartenza nella vita, e poi sto finendo un
libro su Robert Mapplethorpe».
Di tanto in tanto quando parla il volto si
illumina, sembra colta da visioni, qualcosa di simile a quello che avviene in concerto quando sembra rapita da un effettotrance. «Capita con canzoni speciali. Una
di queste è Smells like teen spirit dei Nirvana. È molto emozionante per molte ragioni, la prima è che ammiravo molto i
Nirvana e ho molto sofferto per la morte
di Cobain, ma più di questo le liriche della canzone le sento molto personali, come
se le avessi scritte io stessa, parlano del
conflitto di essere un artista che lavora
con la gente con una certa forma di idealismo, essendo allo stesso tempo cinici,
sentire quello che la gente ama e desidera, ma qualche volta odiandoti. Tutti gli
artisti passano attraverso questo, prima
illuminazioni, e poi dubbi su se stessi. Lui
deve aver provato questo così intensamente da togliersi la vita, ma anche io sento le stesse cose, capisco la canzone, sono
i sentimenti che mi hanno fatto abbandonare il palcoscenico nel 1979. Io ho perseguito la vita, l’amore, la maternità, sentivo la responsabilità, sentivo di aver fatto
tutto quello che sapevo di dover fare, e tutto quello che potevo fare finché avessi imparato altre cose, era diventare più ricca e
famosa, ma io non ho mai adottato il rock
per diventare ricca e famosa, l’ho fatto per
servire la gente, e ho pensato nel 1979 di
non aver più niente da dare, piuttosto dovevo imparare a diventare una madre,
avere bambini, un marito, una vita difficile diventare una vedova, ricominciare da
capo. Ora ho molte più cose da spartire,
ho più empatia con la gente».
Ma da quando ha ricominciato, ricucendo pazientemente gli scopi, il senso
stesso del suo mestiere, il mondo è cambiato, e di parecchio. «Quando ho cominciato c’era più ottimismo, la guerra
del Vietnam era finita, c’erano state conquiste nei diritti civili, il movimento delle
donne, il mio primo disco era anche la celebrazione di essere giovani, di esserci,
con nuove idee e la voglia di cambiare il
mondo, ora la gente è demoralizzata, non
c’è niente che possano fare, perché i governi e l’economia sono troppo potenti,
c’è sempre più gente esageratamente ricca che prende decisioni per gli altri. Mi
stupisce come la gente possa dimenticare, lascia che l’amministrazione Bush invada l’Iraq senz’altro scopo se non destabilizzare il Medio oriente. Qualcuno mi
ha detto: vorrei fare una maglietta per ricordare l’11 settembre, io ho risposto no,
devi farne una per ricordare il 10 settembre, per ricordare chi eravamo prima. Gli
artisti devono fare la loro parte, riavviare
una rivoluzione spirituale, non bisogna
mollare, non importa se si è capiti o meno, bisogna fare il proprio lavoro con la
stessa passione, la mia missione è fare un
buon lavoro, bisogna combattere, combattere, combattere, e magari perdere,
ma ricordare alla gente che può sempre
combattere. Dobbiamo aiutare i nostri figli a non avere paura. Ricordo che quando ero piccola, dopo la Seconda guerra
mondiale, mio padre mi spiegò che cos’era la bomba, io avevo cinque o sei anni, e cercavo di capire: abbiamo una
bomba capace di uccidere migliaia di
persone? Era spaventoso, mi rendeva
molto triste. Poi pensai, no, questa è la
mia vita, e non posso viverla nella paura,
devo godere la vita che ci è stata data, devo esplorarla, dare il mio contributo. Bush ha capitalizzato la paura della gente,
ma noi dobbiamo cacciare la paura fuori
dell’atmosfera, ho visto cose brutte, cose
tristi, ho visto le peggiori cose, ho perso
mia marito, ma devo essere grata di esser
stata con lui per un certo periodo. C’è una
cosa che ho imparato da Allen Ginsberg,
mi chiamò quando morì mio marito, mi
disse: lascia andare e continua la celebrazione della vita. È così, ogni giorno penso
che sono sveglia, ho un altro giorno da vivere, un altro cielo da guardare, un altro
libro da leggere, un altro sorriso, un altro
uomo che mi prenderà per mano».
‘‘
GINO CASTALDO
Repubblica Nazionale
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