Incontro con padre Benedetto Nivakoff
21 Ottobre 2012 - ore 9.30
Teatro Civico di Norcia
Marco Sermarini: Allora... ben trovati a tutti, siamo
arrivati al momento un po’ più centrale - anche se io
poi considero la Messa il momento più centrale perché
capiremo molte più cose, probabilmente, ma questa è
una mia considerazione - il momento centrale di questi
due giorni. Come vedete, siamo di tante realtà, veniamo
da tanti posti ma condividiamo tutti il desiderio di una
vita felice, di una vita vera. Allora siamo venuti qui a
Norcia perché pensiamo che questo nostro ideale di
vita felice coincida con lo stesso ideale di vita felice dei
monaci, dei nostri amici monaci di Norcia. Abbiamo
pensato di venire qui perché qui c’è un punto in cui
questo desiderio non è ridotto ma qui abbiamo degli
amici che non si accontentano di una seconda scelta ma
che tirano dritti verso la prima scelta, anzi la Primissima
Scelta cioè Gesù Cristo, dimostrandoci come questo
sia possibile oggi nel XXI secolo, dimostrandoci come
si possa essere all’altezza dei propri più veri desideri
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senza essere figli del nostro tempo o almeno vivere
questo tempo non scontatamente e inghiottendo
qualunque cosa, ma ricercando incessantemente la
felicità. Vi abbiamo dato ieri sera - e poi comunque
se qualcuno ancora non ce l’ha (lo dico soprattutto
a quelli che sono arrivati questa mattina e quindi i
nostri sambenedettesi e anche altri che ho visto... gli
amici di Forlì che sono arrivati solo oggi) - vi abbiamo
fatto un piccolo regalo, questo opuscoletto che è la
conferenza che ha tenuto Padre Cassian Folsom, il
priore del nostro… del monastero qui di Norcia, mi è
scappato “nostro” ma... ecco, è normale, non è volontà
di possesso, è che mi sento “già loro”, insomma, come
dice il nostro amico Tiozzo sempre. Quest’estate
siamo partiti un po’ da lì, noi di San Benedetto e
tutti quelli che sono capitati lì in quei giorni durante
la festa del nostro caro beato Pier Giorgio Frassati.
Padre Cassian ci ha parlato dell’educazione secondo
il carisma monastico, in particolare il carisma di San
Benedetto da Norcia; noi vorremmo ripartire da lì, ma
fare un passo ulteriore proprio in questa ottica del non
accontentarsi. Io nella premessa, nella prefazione a
questo libretto che vi invito a leggere, dicevo che loro
vanno dritti alla meta, alla questione perché il loro
motto non è tanto “ora et labora” come il novantanove
percento delle persone pensa, ma forse la frase più
significativa della bellissima Regola è “nihil amori
Christi praeponere” cioè nulla anteporre all’amore
di Cristo. Io penso che questo sia un ideale da tenere
desto sempre, non “quando ci ricordiamo”, sempre,
tutti i giorni della nostra vita, anche in famiglia, anche
a casa, anche quando si gioca, anche a scuola, anche
quando si lavora - perché diversamente come dice il
mio amico Chesterton, “si cade in un pandemonio di
seconde scelte e in un tumulto di ripieghi” o viceversa
un tumulto di seconde scelte e un pandemonio di
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ripieghi. Nessuno di noi vorrebbe avere una vita che
è un ripiego. Tutti vogliamo una vita per quella che è,
bella, interessante e siamo venuti qui, è un posto un
po’ strano perché siamo alla periferia di tutto ed è… per
arrivarci... eh! Ci vo’! Noi di San Benedetto siamo i più
vicini, però - come dire? - era già la periferia del mondo
ai tempi di San Benedetto da Norcia, pensare che
Nostro Signore avrebbe potuto suscitare un uomo da
qui non era tanto prevedibile, eppure Nostro Signore si
è servito di un uomo di Norcia per cambiare l’identità
del mondo, se vogliamo.
Ma il problema non era questo, il problema
era che ciascuno di noi, che chiunque incontrava San
Benedetto potesse cambiare la sua vita. Questo è il
punto. Il punto è questo: non accontentarsi. I monaci
non fanno vacanze in hotel a quattro o cinque stelle,
fanno tutti i giorni le stesse cose eppure fanno una vita
molto avventurosa. Quest’avventura è descritta bene
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nella loro Regola e poi, come dicevamo ieri sera per chi
stava a cena vicino a noi: la Regola è bella anche da
vedere oltre che da leggere. E allora abbiamo pensato
bene di chiamare il nostro amico Padre Benedetto,
che ha accettato volentieri di parlare a noi di come
vivono, del lavoro in particolare; ieri siamo partiti dalla
questione della birra perché sembra un particolare
fare sapone o fare birra, potrebbe anche essere un
particolare, però in ogni cosa, in ogni particolare c’è
da essere fedeli all’ideale. E allora lui ci racconterà
questo: come vivono loro, cosa fanno, perché loro
vivono il lavoro in questo modo, che sono questioni
estremamente pratiche ritornando poi alle origini. Ci
sarà spazio anche per fare delle domande e... niente,
basta, ho detto… va bene.
Padre Benedict Nivakoff: Buon giorno, ho qualche
sorpresa da dire perché il mio testo che ho scritto
io è stato corretto dal nostro monaco italiano Fra
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Massimiliano e tante volte quando lui corregge il testo
mette anche delle sorprese... e normalmente riesco
prima della conferenza a trovarle però ho il testo fresco
dal computer e quindi vediamo che cosa esce fuori... Io
mi prendo la responsabilità, la colpa di tutto, però se
c’è qualcosa che suona strano è perché non abbiamo le
stesse idee su tutto.
Ora et la... birra!
“Ora et labora” ha detto Marco, arriveremo a
questa frase cominciamo con il titolo della conferenza
“ora et la birra”! Questo “ora et la birra” è una battuta
scherzosa del nostro Don Ignazio per spiegare che
il nostro lavoro è diventato ormai la birra. Questa
battuta è vera, però, per tanti motivi. Da un monastero
nel quale il mio lavoro più complicata era imparare la
cucina italiana per bene (che devo dire non era e non è
ancora facilissimo...), siamo arrivati al monastero che
ha deciso di costruire in un vecchio garage una fabbrica
per produrre la birra con tutti gli attrezzi, utensili
e strumenti, mille litri di birra a settimana o tremila
bottiglie piccole che possono uscire da questa quantità
di mille litri. Abbiamo dovuto creare un network di
clienti e - forse la cosa più difficile - stiamo cercando
di capire come dare forma alle nostre molteplici idee
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sul business monastico. Ogni monaco aveva una
propria idea su questa attività: fra Francesco, che tutti
dicono che deve stare sull’etichetta... Perché è uno un
po’ grosso, con la barba, faccia da texano; dicono: “tu
devi stare sull’etichetta!”. Fra Francesco si occupava
più del sapore della birra, il birraio; Don Ignazio si
preoccupava del look, della presentazione; Don Evagrio
si preoccupava della gestione, dei metodi di produzione
e dei ritmi di imbottigliamento, fino al sottoscritto che,
oltre a cercare i fondi, ha ascoltato tutti i monaci per
capire come esprimere meglio la filosofia della birra e
come far diventare il progetto del birrificio non solo un
business di profitto per il monastero ma uno strumento
di santificazione e crescita umana per i monaci.
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Il lavoro di costruzione è durato otto
mesi e siamo riusciti ad aprire il birrificio il 15
agosto di quest’anno, quindi siamo al secondo mese,
l’”anniversario” era sei giorni fa all’inizio dell’attività,
e siamo ancora in piedi... Vi racconto questo per farvi
capire che abbiamo proprio poca esperienza. Ciò che
vi dirò non è frutto di un lavoro di decenni, di anni
come capo di un’azienda... Comincio adesso il mio
dodicesimo anno come monaco. Dividerò il discorso
quindi in due parti: in primis cercherò di farvi un
riassunto della Regola benedettina e della tradizione
monastica sul lavoro per farvi capire il nostro punto di
partenza; poi vi racconterò come tali principi abbiano
trovato attuazione nel nostro birrificio. Cercherò di
evidenziare gli aspetti che possono essere d’aiuto a
seguire Cristo. Come ha detto Marco, noi abbiamo grazie a Dio e alla Sua Provvidenza - creato un rapporto
d’amicizia già da quasi due - tre anni e io dico spesso a
lui che la Regola benedettina in origine era una regola
per i laici, i monaci iniziali erano laici, laici cristiani
normali, neanche sacerdoti che volevano vivere la vita
spirituale in modo intenso. Quindi oltre ad alcune
sfumature nella Regola, alcune cose un po’ particolari
- parecchie cose - si possono applicare alla vita laica
normale.
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Come vi ho detto anche in altre occasioni,
il famoso detto “ora et labora” San Benedetto non lo ha
mai pronunciato quindi ero grato di ascoltare Marco
dire che la frase più importante è “nulla anteporre
all’amore di Cristo”. La storia nel dettaglio di questa
frase - “ora et labora” - non la conosco. Molte persone
vedono in quest’espressione una sintesi dell’equilibrata
vita per la quale San Benedetto è celebre. Viene spesso
detto che San Benedetto sia un santo che cercava una via
di mezzo tra l’ascetismo del deserto (troppo orientale,
troppo duro per un monaco italiano del quinto secolo) e
una vita monastica tiepida, apatica, poco impegnativa.
In poche parole era un uomo del centro, questa è un
po’ l’idea che alcuni hanno di San Benedetto, né di
sinistra, né di destra. Non sono convinto che questo sia
vero o che egli abbia mai ragionato in questi termini.
“Ora et labora” è spesso menzionata come un esempio
della sua centralità: né troppo lavoro, né troppa
preghiera. Ma leggendo bene la Regola tale filosofia
non si trova. Anzi, lo spirito di preghiera intesse così
tanto la vita quotidiana di un monaco che dovrebbe
imparare più i vari tipi di preghiera che la distinzione
tra momenti di preghiera e momenti di lavoro. Meglio
dire “ora et ora” che “ora et labora”. Ciononostante,
San Benedetto capisce che l’impegno della preghiera
continua non sarà possibile a tutti e offre il lavoro
come valida alternativa. “Se un monaco è troppo pigro
o poco dedito e non vuole leggere, gli si dia un po’ di
lavoro manuale” dice il Santo “così non disturba gli
altri”. Addirittura San Benedetto chiede che alcuni
monaci, che si chiamano “circulatores”, vadano in giro
per il monastero per verificare che i monaci preghino,
leggano... E se uno di questi trova un monaco che non
riesce a leggere, a questi deve essere dato qualcosa da
fare. Nel suo capitolo sul lavoro San Benedetto dice che
l’ozio è nemico dell’anima e che ci dovrebbero essere
momenti in cui i monaci non preghino con la stessa
intensità. E quindi li posso usare per la lettura sacra o il
lavoro manuale. Quindi il lavoro manuale viene messo
sullo stesso piano, sullo stesso orizzonte della lettura
sacra. E tutti e due hanno uguale importanza rispetto
al lavoro principale del monaco che è l’opus Dei, la
preghiera. Che più che cose distinte, fanno tutte parte
del lavoro principale che è l’opus Dei, la preghiera.
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Allora
arriviamo
all’altro
lato
della
moneta. Se tutto il lavoro è un tipo di preghiera, tutte
le preghiere sono un tipo di lavoro, per questo si chiama
“opus Dei”. Il monaco non ha un weekend. Per tanti
anni quando telefonavo a casa e parlavo con mio padre,
con papà, egli mi chiedeva che cosa avrei fatto il sabato
e la domenica. Ho risposto sempre che la domenica
avevo fatto sempre le stesse cose degli altri giorni della
settimana. Ciò che cambiava era solo che la domenica
le preghiere sono più lunghe ed egli è rimasto sempre
stupito. Leggendo la Regola qualcuno potrebbe notare
che si tratta di un libro sul lavoro. Come pregare, cioè
cosa devo fare per pregare; come convertirsi, cioè
come devo lavorare per purificare la mia anima per
poi pregare meglio... O come gestire la casa, cioè che
cosa dobbiamo fare per gestire la casa in armonia con
la nostra missione individuale. E allora si vede che il
lavoro per i monaci è la vita. È molto simile cioè a ciò
che si dovrebbe fare nelle vostre famiglie. La famiglia,
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la creazione dei figli,
la loro educazione,
la loro crescita e il
lavoro della famiglia,
questa è la loro vita,
la vostra vita. Ma
mentre ai tempi di
San Benedetto e anche
recentemente il lavoro
“economico” sarebbe
stato vicinissimo alla
casa della famiglia,
sia come agricoltura,
sia come un negozio,
oggi o mamma o
papa o tutti e due
devono andare fuori
casa per lavorare. Ed
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è questa la nuova realtà che ha cambiato la famiglia a
seguito della rivoluzione industriale, come Leone XIII
e tanti altri hanno potuto notare. Ricordiamo che San
Benedetto stesso è nato qui a Norcia nella casa dove
il papà lavorava. Per alcuni questa è la prima visita,
quando arriveremo alla Basilica vedremo una basilica
del XII secolo (la parte superiore) ma se scendete giù
in cripta vedrete una basilica romana del I secolo. E
il papà di Benedetto era governatore di Norcia e lui
abitava proprio accanto alla basilica, come se avesse
abitato in Comune. Quindi San Benedetto è cresciuto
nell’ambiente di lavoro del padre. Il lavoro non era
una cosa separata, formava parte della sua vocazione,
della vocazione del padre, formava parte della famiglia,
parte della vita di San Benedetto, anche se non erano
agricoltori. Spesso pensiamo che quest’idea della
famiglia in cui il lavoro che è dentro la casa appartenga
solo ad una famiglia agricola ma non è così. Anche ai
tempi dei romani il negozio spesso era accanto alla
casa e formava parte della vita. Uno dei motivi quindi
per cui il monastero di oggi è così diverso dalla società
contemporanea è proprio per questo lavoro in casa.
Ogni tanto quando parlo di nuovo con mio padre dei
problemi con i monaci (sì, ci sono anche problemi!),
paragono qualche situazione al suo lavoro. Lui era capo
di una caserma di trecento poliziotti. È vero, aveva
ragione. Cioè, c’era un monaco che si comportava
magari in modo non ottimale, io raccontavo questo a
mio padre e lui mi diceva: “sì, c’è anche uno in caserma
che si comporta male, mi assomiglia molto a questo”,
e ci siamo messi d’accordo; io gli ho dato qualche
consiglio, lui mi ha dato qualche consiglio molto
saggio. Ma ciò che papà non ha mai capito è che lui non
doveva dormire sotto lo stesso tetto con quel poliziotto
che non si comporta bene, non doveva vederlo ogni
mattina al Mattutino, a colazione, a pranzo, cena... e
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così via, ad ogni preghiera, ad ogni momento di lavoro.
Cioè vivere insieme con persone che sono in qualche
modo difficili non è facile. Ogni sera lui torna a casa e
non deve pensare più a quel bugiardo. Il fatto che tutto
il lavoro del monastero si trovi all’interno dell’edificio
ci costringe a far diventare tutta la vita monastica un
lavoro.
Quando pensavamo di aprire il birrificio,
addirittura abbiamo anche ragionato se creare il
birrificio in zona industriale: e c’era qualche opinione
in monastero a favore di questo perché noi siamo al
centro storico ed è difficilissimo far arrivare i mezzi qui,
un camion di venti metri, diciotto metri... mi chiama
dicendo: “Guarda, ho qui le vostre trenta pedane di
bottiglie. Come vengo al monastero?” e io gli devo
spiegare: “Guarda, devi prendere il corso centrale
dopo aver chiesto ai carabinieri per un permesso,
devi spostare tutti i tavoli dei bar e poi passare
davanti ala statua di San Benedetto in piazza e stai
davanti al monastero”. E si spaventa, questo povero
autista! Però, nonostante tutte le difficoltà nell’avere
creato il birrificio al centro, nel monastero, nel centro
storico, ci permette di vivere il birrificio come parte
della nostra vita. E quindi il lavoro è parte della nostra
vita continuamente: c’è la preghiera continua, ma c’è
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anche il lavoro continuo. Questo lavoro continuo, come
la preghiera, potrebbe sembrare terrificante, noioso,
qualche volta lo è. Tutti i padri monastici parlano del
demonio di mezzogiorno, come un demonio che vuole
farti abbandonare la vita monastica, perché troppo dura,
un po’ monotona. Ed è per questo che San Benedetto
nel capitolo XLVIII sul lavoro non parla solo del lavoro
manuale ma parla degli orari di preghiera, parla della
siesta pomeridiana dopo pranzo - è molto importante!
-, parla della Quaresima, parla degli infermi che devono
anche loro avere lavoro - anche gli infermi, i giovani,
tutti in monastero devono avere del lavoro, anche se
deve essere secondo Benedetto più leggero e diverso. La
vita come ce la descrive San Benedetto non può essere
tagliata a pezzi, tenendo questo buttando quello, “mi
piace questo, non mi piace quest’altro”, come è stato
fatto spesso nei monasteri dopo il Concilio. Se si perde
l’insieme, si perde tutto.
Quando il Santo dice “l’ozio è nemico dell’anima”,
ha capito ciò che diceva. Una delle spiegazioni spesso
trovate nei Padri del Deserto, nei Padri della Chiesa per
i problemi anche sessuali, per i vizi che troviamo sia
nei monasteri di oggi, sia nei monasteri medioevali, sia
nei monasteri antichi, sia nel sacerdozio e addirittura
dappertutto, si trovano questi problemi quando non c’è
da fare. Quando c’è un gruppo di uomini celibi che non
hanno abbastanza lavoro e non hanno una possibilità
di creare, spesso le tendenze - magari se ci sono - non
eterosessuali sorgono, escono perché c’è mancanza di
cose da fare. Questo fatto è reso noto da tanti monaci
nei secoli. San Benedetto sta accennando a questo.
Parla un attimo di questo problema con sfumature:
dice che i monaci non devono dormire tutti giovani
insieme, ma ci deve essere un anziano nel dormitorio
per controllarli e ci deve essere una candela accesa
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durante la notte. In altre regole di monaci si dice che i
monaci non devono camminare mano nella mano e che
non devono guardare troppo in faccia. Le regole antiche
si preoccupavano, erano coscienti delle tendenze, delle
tentazioni dell’umanità e hanno cercato di risolverle
in modo molto concreto: date a queste persone
qualcosa da fare. Forse sembra una spiegazione un po’
superficiale o troppo semplice, ma è comprensibile: se
non c’è niente da fare, non c’è niente da pregare, c’è
un vuoto. E il vuoto si riempie facilmente con i vizi.
Il lavoro spinge la persona a crescere per un’unica
strada: la sofferenza. Se non soffriamo, non cresciamo,
come tutti noi sappiamo. Il lavoro per un monaco non
è un contorno di spinaci, che potrebbe esserci o no: è
la pasta, è la birra - molto importante, non può non
esserci..!
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Riassumendo un po’ e seguendo sempre
le orme di Padre Cassian che vi ha presentato una
conferenza sull’educazione, ricordiamo che San
Benedetto chiama il monastero prima di tutto “una
scuola per il servizio del
Signore”. In una buona
scuola - so che anche
voi avete la scuola - sia
studenti sia insegnanti
hanno da fare, hanno
da lavorare. Se gli
studenti lavorano ma gli
insegnanti non lavorano,
c’è un problema e
anche viceversa. Tutti
devono lavorare. Se gli
insegnanti pensano: “io
qua so tutto, non mi devo
impegnare a imparare niente”, gli studenti si rendono
conto che queste non sono persone serie e non gli
danno rispetto. In una buona scuola però non solo si
studia matematica per tutta la giornata: c’è letteratura,
c’è l’arte, c’è musica, c’è anche la ginnastica. Noi non
siamo dei robot, non possiamo lavorare con la stessa
intensità sempre. San Benedetto riassume quindi tutto
lo spirito del lavoro quando tratta degli artigiani del
monastero: “ut in omnia glorificetur Deo”, “che Dio
sia glorificato in tutto”, per dire che se tutta la giornata
del monaco, tutta la vita del monaco è un lavoro, o
meglio: se una preghiera è anche un lavoro, tu non puoi
pregare nello stesso modo sempre. Non puoi avere una
contemplazione ventiquattro ore su ventiquattro - come
pensano alcuni dei nostri novizi che arrivano freschi
freschi dal mondo: “mi metto in chiostro, sarò qui così,
sarà tutto bello”; cioè, non funziona così. Possiamo
pregare in modo intenso ma il corpo è debole, non può
resistere a tutto. Ci vogliono diversi tipi di preghiera:
preghiera più intensa, preghiera più leggera. E per San
Benedetto il lavoro è un tipo di quella preghiera, non
è un staccarsi dalla preghiera ma è un pregare in un
modo diverso.
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Un’ultima
parola
da
aggiungere
sull’economia di Benedetto e sullo spirito di
povertà. Il Santo prevede tramite il capitolo sugli
artigiani che il monastero avrà uomini capaci di produrre
oggetti che saranno apprezzati e richiesti dal mondo.
Dice che però i monaci devono evitare qualsiasi odore
di commercio. I loro prezzi devono essere più bassi di
quelli del mondo e se il monaco che crea l’oggetto in
questione si insuperbisce deve essere dimesso dal suo
incarico ma non è contro l’idea che i monaci lavorando
trovino i soldi. L’idea della povertà per i monaci è molto
diversa da quella francescana. Il monastero può essere
ricco o povero ma niente del monastero è proprietà di
uno solo, ogni cosa appartiene a tutti. Nessun monaco
può dire: “quello è il mio computer, quello è il mio
iPhone”. Per questo ho apprezzato molto ciò che ha
detto Marco: “nostro monastero”; infatti io dico a
ogni muratore, ogni idraulico, ogni falegname, ognuno
che viene al monastero per lavorare che il monastero
è loro, appartiene anche a loro - anche perché voglio
che tornino presto a riparare le cose... Voglio farvi
capire che il monastero non appartiene a noi ma è stato
dato a noi e noi lo gestiamo, cerchiamo di migliorare
tutto, di farlo crescere, di farlo sempre diventare più
bello, in armonia con la missione di far diventare
tutto una presenza della gloria di Dio, ma non è mio.
Quindi l’idea di San Benedetto sulla povertà è che non
possiamo dire che qualcosa è mio. Ma ciononostante
riconosce che l’appartenenza alla proprietà trasferisce
ai monaci una certa stabilità. Questo è un principio
che è stato sottolineato più volte da Leone XIII, Pio
XII e anche Giovanni Paolo II, l’importanza che casa
tua appartenga a te stesso e che ogni famiglia abbia la
capacità economica di comprare, di avere una casa sua.
E Benedetto fa un ragionamento: come può un monaco
promettere tutta la sua vita in quel posto? San Benedetto
chiede questo: che io prometto la mia vita a Norcia. Il
monastero può essere venduto, cambiato, distrutto succede anche questo. Però, per dire, lui vuole radicare
nella vita monastica un senso del terreno, un senso
del posto. I monaci non girano da un monastero ad un
altro. Diciamo tranne alcune eccezioni, quando ci sono
problemi. Però normalmente questi problemi - come
nel matrimonio - vanno risolti sul posto, è la sofferenza
o la gioia del monaco di risolvere le sua difficoltà, di
vivere la sua vita spirituale in quello stesso posto in cui
lui è entrato in monastero.
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Il monastero deve essere come una
famiglia per i bambini, un posto dove i monaci
si sentono tranquilli. Se i bambini non si sentono
tranquilli a casa, se non sentono che è casa loro, non
riusciranno a crescere. È quella tranquillità che gli
permette di lavorare, di coltivare il campo della loro
santità. Benedetto non era fissato sulla povertà in sé,
ha capito che le cose, case, beni non sono cattivi ma
vanno santificati come la vita. Prima di morire San
Benedetto ebbe una visione della distruzione totale
di Montecassino - come sapete è stato fatto tre volte,
tre volte è stato distrutto completamente. E non
era contento, ci è rimasto molto male. Amava quel
monastero che aveva costruito. Ma nella visione ha visto
che nessuno dei suoi monaci sarebbe morto e questo gli
ha dato conforto. Quindi ha capito le cose principali: i
suoi monaci. Però ciò nonostante era rimasto male per
la distruzione del monastero. Non aveva un’idea del
monastero come se fosse un niente. Se viene distrutto
o se non viene distrutto “che me ne frega”. No, questa
non era l’idea di San Benedetto.
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Sono queste le mie riflessioni sul lavoro dei miei
anni nel monastero prima di iniziare il birrificio.
Sono le mie riflessioni sullo spirito del lavoro che San
Benedetto vuole coltivare, inculcare nei suoi monaci,
nei suoi monasteri. San Benedetto nella sua Regola non è la Summa Theologica, non è che lui divide la vita
del monaco in tre parti, poi per trenta questioni, poi tre
articoli ecc…: è una mescolanza di tanti insegnamenti
di tanti monaci precedenti che lui mette insieme in una
sintesi. Quindi io ho cercato anche di riportare una
sintesi... un pochettino più sintetica della sua visione
totale del lavoro. Che il lavoro non è un alternativa,
non è un break della preghiera ma un’espressione della
preghiera. Che le cose nel monastero per San Benedetto
sono importanti, vanno coltivate, vanno migliorate,
vanno apprezzate, che i monaci devono e possono avere
delle cose per la loro stabilità nel monastero, un aiuto
al monastero che non gli impedisce di arrivare alla sua
meta. La meta del monastero è grosso modo di aiutare i
monaci ad arrivare in Paradiso, molto semplice. Però come sappiamo - di strade per arrivare in Paradiso ce ne
sono tante. Bene, queste sono le mie riflessioni. Forse
un po’ naif, un pochino incerte. Prima del birrificio
tutto questo era in un libro, la Regola. Non è che non
lavoravamo, però il lavoro era molto semplice. Il lavoro
in Basilica: confessare la gente, accogliere i pellegrini,
la cucina, il piccolo giardino, il negozio. Cose serie, non
che i monaci siano stati lì a riposare tutta la giornata,
anzi, c’era poco tempo per riposare. Però erano lavori
poco concreti.
Adesso passo alla parte più pratica, e forse
più interessante, se non siete già troppo addormentati:
il nuovo lavoro dell’aprire il birrificio. Fino adesso tutto
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era teoria. Ma come si possono vivere questi principi?
Sono solo belle idee o si possono mettere in concreto?
Rispondo agli argomenti che sono usciti dalla riflessione
sulla Regola stessa.
I tre temi: prima l’ozio.
Uno dei primi vizi che abbiamo incontrato nel
progetto di aprire il birrificio era in noi stessi
l’ozio, cioè la pigrizia. Anche se ci piace molto la Messa
antica, siamo monaci moderni, la nostra generazione
soffre molto di una “malattia del diritto”, che ho cercato
e cerco ancora di sradicare, che dice che “il mondo mi
deve dare, i laici mi devono dare, i benefattori ci devono
dare”, non so se è la parola giusta, in inglese si dice
“entitlement”, nel senso che loro mi devono dare non
perché ho lavorato ma perché è giusto così. Addirittura
nessuno deve darci niente. Questo è uno dei primi
principi che abbiamo dovuto imparare. Forse è un bene
per un benefattore un atto di carità, che gli conviene
di regalare, dare, offrire ma non è la stessa cosa di un
diritto per me. Molti di noi sono americani, abbiamo
una comunità di quindici monaci nella quale dieci sono
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americani e due indonesiani, un brasiliano, un inglese
e un italiano (quello che mi ha corretto la conferenza!).
Però siamo americani e non abbiamo la stessa la
rete di assistenza sociale che ha un italiano. Nelle
nostre scuole si deve pagare, c’è un sistema di scuole
pubbliche però al livello di università si deve pagare e
comunque la maggioranza delle scuole universitarie
sono a pagamento a cifre abbastanza alte. Non abbiamo
un’assistenza - fino a tempi recenti - sociale e quella
sanitaria. E comunque questo atteggiamento per cui ho
il diritto di ricevere già c’è. Vedo che sta crescendo anche
negli americani. È un atteggiamento secondo il nostro
parere velenoso, non perché l’accettare delle cose dagli
altri ti fa male anche se viene dallo Stato, ma perché
pensando di avere un diritto ad un bene, di avere ciò
che non è mio toglie vita alla fantasia, alla creatività.
Diventiamo sterili, ignoranti. Da questo atteggiamento
“di diritto” l’unico modo di uscirne è l’umiliazione. Cioè
di obbligare qualcuno a darti qualcosa che alla fine non
ti dà e diventi umiliato. Ero io uno di quelli che doveva
chiedere ai benefattori principalmente americani i
soldi per il birrificio. L’ultimo anno ho dovuto fare un
viaggio in America quasi una volta al mese, ogni volta
concentrandomi su una famiglia che ci conosce e che
ci vuol bene andando da loro per spiegargli il progetto
e chiedergli un aiuto finanziario. Per gli americani il
progetto è affascinante. C’è già una cultura di filantropia
molto sviluppata, però c’è anche una cultura di business
imprenditoriale. Quindi quando tu vedi in America
un ragazzo di venti anni che vuole incominciare un
azienda, tu vuoi aiutarlo. Questo è un po’ lo spirito.
Ricordiamo di questo, Mark Zuckerberg, l’inventore di
Facebook, lui ha vent’anni, lui non è che è l’unico, ce
ne sono tanti. È abbastanza tipico, questo fatto. Quindi
sono andato da questi americani a chiedere l’aiuto e si
sono affascinati molto. Ma io - parlo di me stesso - ero
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anche un pochino esagerato nell’idea del progetto del
birrificio: “che bello, diventerà il più famoso birrificio
del mondo, avremo una fama incredibile, sarà una
birra straordinaria!”. E in uno dei miei primi viaggi
sono andato da un benefattore che ci aveva già aiutato
con i soldi, diciamo che ne ha abbastanza. Però io esagerando un po’ nella richiesta, pensando: “Guarda,
ora faccio più veloce. Invece di chiedergli x, gli chiedo
il doppio, finisco la ricerca dei soldi e siamo a posto!”
- quindi gli ho chiesto il doppio... ed è andata male!
Era molto gentile e ci ha dato meno di quanto avevo
previsto di chiedere. Io ho raddoppiato la cifra e lui mi
ha dato meno della metà. Per dire che era una buona
umiliazione. Mi ha aiutato e ha fatto diventare mia la
guerra contro il senso del diritto. Lo vedo in me stesso,
lo vedo nei nostri monaci che qualcuno ci “deve” dare.
Questo si vede anche nella Chiesa in generale e non è
un atteggiamento bello. Però quell’umiliazione mi ha
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riportato molto a terra.
Dall’altra parte del problema del diritto
(“qualcuno mi deve dare”), c’è il problema della
responsabilità. Vogliamo avere tutti i vantaggi, beni,
bellezze, potere, responsabilità, senza la responsabilità
stessa. Questo è un atteggiamento che noi monaci,
uomini di oggi, portiamo in monastero. Responsabilità
significa sacrificarsi per un bene, per un confratello o
per il progetto del birrificio nel nostro caso. Sacrificare
me stesso. Il voler tenere la preghiera al centro della
vita può facilmente, ed è stato fatto, diventare una scusa
per non prendere responsabilità sul progetto. “Non
posso andare in birrificio, non posso lavorare perché
ormai devo fare le mie preghiere, la mia devozione”. Io
purtroppo ho poca pazienza per questo atteggiamento.
C’è molta confusione tra la pietà vera e un certo tipo
di vanagloria, io costruisco una bella immagine di
me stesso a cui io sono molto devoto e quella ha più
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precedenza rispetto ai fatti concreti della realtà; più
che una vita spirituale, questo è uno spiritualismo e
sostituisce le tue idee alla realtà. I nostri giovani sono
innamorati del potere di reggere ma dall’altra parte
sono così paurosi che a volte preferiscono essere una
persona che non gestisce niente piuttosto che una
persona che decide le cose. C’è una dinamica, c’è una
confusione tra due verbi in latino che si trovano anche in
una preghiera che noi recitiamo ogni mattina: regnare
e gubernare. Tanti di noi vogliono regnare ma nessuno
vuole governare. Regnare significa: io comando, e
da questo comando io riesco ad avere il rispetto. “Mi
rispettano perché comando”, bellissimo, però non
è la stessa cosa di governare. Quando uno governa,
l’autorità viene data gratuitamente perché la persona
rispetta e dà rispetto alla persona. Guadagna l’autorità
in qualche modo, non è che comanda l’autorità. E per
noi monaci questa è una cosa che stiamo imparando.
La vita monastica è molto gerarchica e l’abate ha tanto
potere, autorità. E questo senso della gerarchia può
dare l’idea ad un monaco che: “guarda, l’importante è
che ho il titolo e posso comandare tutti e siamo tutti a
posto”, e non funziona. Se tu non guadagni il rispetto
degli altri monaci, non hai niente. Magari tu li comandi
perché hai un titolo però loro vanno al peggio, cioè
loro si viziano e anche tu ti vizi perché hai un idea di
te stesso che non è vera e stai insegnando ai monaci
il modo di guadagnare il rispetto con il comando. E
anche questa dinamica l’abbiamo dovuta combattere
e la stiamo ancora combattendo. E lo vedo anche in
me stesso, per esempio quando Marco mi viene a dire:
“guarda, padre Benedetto, tu hai sbagliato”, come
voglio rispondere: “non è vero. Io sono il vicepriore,
io sono il direttore del birrificio, non è possibile”!
Allora, queste non sono risposte. Perché il fatto che ho
questo titolo, questo compito, non risponde per niente
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all’accusa, all’osservazione che io ho sbagliato. Finché
io riesco a dire con tranquillità: “ah, bene, quindi
fammi capire cosa ho fatto così cerco di cambiarmi,
cerco di risolvere” o qualche volta “sì, fammi capire,
così possiamo discutere” o “fammi capire, non sono
sicuro che tu hai ragione, forse dobbiamo capirci
un po’ meglio”, va discussa la cosa. Finché io riesco
a parlare con una persona che è più in basso di me,
inferiore, come uno che mi è pari non avrò autorità e
per me ci sarà sempre la tentazione in quei momenti
e dire: “guarda, comando io, decido io”; certo, devo
prendere una decisione tante volte però senza anche
discussione, senza anche armonia tra i pareri. Però
quelli vengono rispettati, vengono ascoltati in modo
molto migliore se vedono dietro un’apertura al fatto
che io posso sbagliare. Accettare il fatto che possiamo
sbagliare non è facile. Per risolvere questa dinamica
della responsabilità, del volere la responsabilità ma
non volerla, “lo voglio ma non lo voglio”, perché per
avere la responsabilità tu devi aprirti, devi diventare
vulnerabile a queste accuse, al fatto che tu forse hai
sbagliato. Questa è la vera responsabilità, la vera
autorità , il vero governo. E se un monaco vuole
regnare senza voler governare siamo sempre nei guai.
Però per affrontare questa difficoltà purtroppo l’unica
cosa che possiamo fare è provare. Io ho dovuto provare
con alcuni monaci che dicevano che non erano pronti,
dicevano che non volevano, o dicevano che volevano e
io ero convinto che non dovevano avere responsabilità.
Io ti do questo e vediamo che succede. Questo per me
è stato uno dei principi del birrificio, del progetto del
birrificio: è più importante la crescita spirituale di ogni
monaco che lavora nel birrificio che il risultato finale.
Bellissimo. Se noi riusciamo ad avere un business di
miliardi o milioni di dollari ogni anno, ma se i nostri
monaci sono viziati, stiamo messi male, non è una
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bella cosa. Però se i nostri monaci diventano santi e il
birrificio non ha successo, almeno i nostri monaci sono
diventati maturi, uomini, santi. Questo è stata sempre
la priorità nell’aprire il birrificio: la crescita nella santità
di ognuno.
Per non parlare di bottiglie rotte, mura distrutte
erroneamente, mobili comprati inutili, tanti sbagli che
sul momento ci fanno arrabbiare, ma con il tempo ci
fanno ridere. Mi è stato consigliato di non commettere
mai lo stesso errore due volte, “non scommettere la
fattoria”, in inglese si dice “bet the farm”, significa
che io metto tutto in quella vicenda come quando vado
al casinò e metto la casa perché sono così convinto di
vincere tutto, e che succede? Che non vinco e poi siamo
fuori casa! Mai scommettere la fattoria, mai giocare al
casinò la casa.
Però questo porta dei grandi rischi.
Significa questo: abbiamo buttato birra perché non è
andata bene, cioè abbiamo sbagliato in tante cose. Nel
dare una responsabilità vuol dire che tu devi accettare
tanti eventuali problemi. E ne abbiamo avuti tanti.
Abbiamo buttato un sacco di birra, non era buona. E
dobbiamo pagare sia il materiale, sia le tasse perché in
Italia non si paga su ciò che vendi ma su ciò che produci
e su ciò che vendi. E quindi abbiamo dovuto pagare
per la birra che abbiamo messo nello scarico. Bene.
Etichette con gradazioni di alcool non giuste, clienti
offesi perché se c’è uno che non è in grado di fare un
certo discorso con un cliente esce fuori un problema.
Mai fare cose che potrebbero dannare
tutto il business: purtroppo queste sono successe
tutte... Perché? Perché un monaco giovane commette
spesso l’errore più volte, anche quattro, cinque, sei,
sette volte prima di capire il problema e tu puoi andare
da lui tre o quattro volte a rimproverarlo, ma non
cambia niente finché loro non capiscono che: “ah, ho
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Secondo, la preghiera.
sbagliato!” e se faccio diversamente la prossima volta
non sbaglio più, finché questo non succede non cambia
nulla, tu puoi andare anche tre o quattro volte ma più
tu vai a correggerlo, a volte specialmente se qualcuno
non è ben sicuro di sé, peggiora e prende più paura e
diventa più timido e quella timidezza non lo aiuta a
correggersi.
E questo “scommettere la fattoria”
purtroppo c’è, anche perché ci sono alcune decisioni
che potrebbero compromettere tutto il business: per
esempio, tu devi fare un’intervista con un giornalista e
tu dici: “eh, guarda, sì, noi abbiamo aperto la cantina
per avere una Mercedes o un BMW e una casa al mare,
vorremmo andare più spesso in montagna con il
nostro 4x4”... e... questo è un esempio un po’ esagerato,
ma tu sei finito e puoi anche fare tanti sbagli del genere
che mettono in pericolo tutta l’attività, e quindi questi
sono alcuni dei rischi (questo è l’ozio).
Sono uno che tende a pensare che se mi metto
sono abbastanza dietro ad un progetto, è solo una
questione di tempo e tutto andrà bene; ma come
una mamma, un papà non può regolare tutto il buon
comportamento dei figli, neanche io potevo cambiare
tante cose. Ricordo un venerdì sera, tardi per noi, alle
nove, io stavo al birrificio confortando un monaco
che non stava tanto bene, rassicurandolo che almeno
avevamo portato un po’ della nostra birra da vendere
il giorno seguente, già pronta per la consegna ai
ristoranti, ed io gli dicevo: “stai tranquillo, almeno
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È facilissimo dire che tutto il lavoro è una
preghiera, ma nel farlo è molto più complicato.
Tutti questi sbagli, per esempio, tutti i nostri errori
sono stati grandi momenti di stress, di ansia per me
stesso.
passo per passo andiamo avanti”. Tutto era pronto,
il monaco inizia a stare meglio, cinque minuti dopo
all’improvviso arriva un altro monaco che dice che
l’etichetta che avevamo messo sulle bottiglie era
sbagliata, bottiglie già pronte per la consegna. Avevamo
messo la gradazione di sei gradi per una birra che è di
dieci gradi... adesso è divertente ma a quell’ora non lo
era! Qui c’era da prendere una decisione: riprendere
indietro tutte le bottiglie e passare tutta la notte a
riscrivere con il pennarello dieci invece di sei. Ma io
ho detto: pazienza, mandiamo! Fino adesso nessuno è
morto! Speriamo non succeda! Un altro esempio: due
settimane dopo l’apertura del birrificio tre persone,
brave persone, ci hanno chiamato al telefono per dirci
che aprendo la bottiglia che cosa hanno trovato? Non
birra ma acqua! Abbiamo erroneamente scambiato tre
bottiglie di prova, piene d’acqua, con quelle di birra.
La mia paura è che ce ne fossero più di tre, ma fino
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adesso... solo tre chiamate..! La sfida per noi o almeno
per me nella preghiera è di accettare tutti questi vicende
con tranquillità pur sempre migliorando. E’ ancora
una sfida per me e sono pronto ad ascoltare i vostri
consigli per come fare meglio. Devo cercare di non
far dipendere la mia pace interiore in base al risultato
finale del progetto. Questi risultati sono nelle mani
di Dio, non nelle mie mani. La preghiera in sostanza
è stare insieme con Dio in perfetta armonia e amore;
la serietà della preghiera non si giudica bene quando
tutto procede come voglio, ma quando tutto succede al
contrario di come volevo.
Uno dei più grandi problemi degli uomini
di Chiesa è che non sperimentano mai o quasi
mai queste difficoltà, non ci sono prove veramente
di resistenza economica, molti di quelli che professano
povertà sanno in qualche modo che la Chiesa andrà
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ad aiutarli, certamente anche noi in qualche maniera.
Ma San Benedetto ha detto che i monaci sono veri
monaci quando lavorano con le loro mani; non credo
che quest’affermazione faccia credere in una falsa
mascolinità, che dice che siamo veri uomini quando
facciamo ginnastica, ma la realizzazione che quando
un monaco deve lavorare per vivere; la sua preghiera
diventa molto più seria, purificata, basata su un mondo
di realtà e non di fantasia.
Bene, ultima cosa, il denaro.
Come si concilia il principio di San Benedetto con le
leggi di supply and demand, di domanda e offerta?
Come vivere serenamente immerso in un mercato come
quello della birra, che si sta ingrandendo giorno per
giorno? Stiamo ancora cercando di capire le risposte a
queste domande.
Non c’è un tema più delicato per la cultura
italiana, mi sono reso conto. Come svolgere
un’attività che ha naturalmente lo scopo di aiutarci
a guadagnare abbastanza per vivere, senza dare
l’impressione che stiamo cercando di avere un’attività
che ci dà da guadagnare per vivere? Come rispettare
il principio articolato da San Benedetto per il quale i
prodotti monastici devono costare meno. non più di
altri prodotti? In un mondo superindustrializzato da
una parte, dove si producono migliaia e migliaia di
cose per avere un prezzo più basso, e dall’altra come
riusciamo a fare la birra in un mondo dove queste cose
sono apprezzate solo se hanno un prezzo maggiore? È
stato statisticamente provato che per la maggioranza
delle persone un prodotto con un prezzo più alto è più
valorizzato e come conseguenza viene visto meglio.
Come vi avevo già accennato ieri sera, ad
esempio noi abbiamo deciso di non andare ovunque
con la birra, di non commercializzare la birra con
concessionari intermedi, e di invitare tutti - come voi a venire a Norcia per prendere la birra e per conoscerci.
Sia nella targhetta della bottiglia sia nel nostro sito web
abbiamo scelto un minimalismo: sempre meglio dire
di meno che di più. Il nostro mondo è pieno di donne
nude, mi capite un attimino? Anche se noi siamo monaci
non possiamo non notare che ogni gelato che viene
pubblicato per essere venduto, viene pubblicizzato con
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una persona nuda.
Ma in realtà ciò che
attrae l’uomo non è la
nudità ma il mistero:
una volta tolto il
mistero,
sparisce
anche la gioia, quindi
anche nella birra
abbiamo cercato di
concentrarci
non
sul dire tutto, non
sul rendere ovvio
tutto ma sul riserbo,
sul tenere la birra
come un prodotto
riservato, mettendo
sull’etichetta molto
poco. Non abbiamo
detto: “guarda, questa birra, ti farà ricordare la tua
prima cena quando stavi lì sotto quell’albero”. No,
abbiamo parlato brevemente della filosofia della birra e
della sua qualità, abbiamo cercato di dire sempre meno
per evitare questo stile di commercio. Ma tante delle
nostre decisioni vengono da un motto, da un detto, da
una frase che ci piace molto dire in modo scherzoso
dentro il monastero: “Ex necessitate virtus”, cioè
dalla necessità viene la virtù, la cosa spontaneamente
migliore, o cerchiamo di sfruttare ciò che le conseguenze,
le circostanze ci portano. Una di queste circostanze è
che la conferenza non sono riuscito a finirla di scrivere,
perché alle nove e mezzo quando sono arrivato sono
dovuto venire qua. Però in conclusione la Regola di
San Benedetto illustra, ci dà un’idea del lavoro molto
positiva, forma parte della vocazione cristiana, e forma
parte della vocazione monastica. Noi stiamo cercando
di vivere questo spirito di lavoro serio, cristiano nella
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nostra nuova attività dell’apertura del nostro birrificio,
non abbiamo imparato ancora tutto, ogni giorno
sbagliamo e ogni giorno impariamo nuove cose. Ma
non mi sono mai sentito vicino ai nostri amici laici che
sono a capo dell’azienda, con coloro che hanno molte
responsabilità sulle loro spalle, come adesso, dopo aver
iniziato a percorre questa strada. Ci fa apprezzare di più
i momenti di difficoltà, ci aiuta sempre più a superare
i momenti di paura, come la sera o la notte nel letto
quando pensi: “come farai domani a pagare quella
persona quando verrà a chiederti i soldi e invece a me
l’entrata di quella vendita della birra non è ancora
arrivata?”. Noi riusciamo a capire più che mai la realtà
umana del lavoro, della vita, dell’economia, cioè cose
che non possiamo pretendere che non esistano, ma
esistono e non sono cattive. Infatti questo è il punto che
vorremo cercare di condividere: volendo si può anche
santificare tutte queste croci. Bene, mi fermo qui... non
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so se ci sono domande... (applausi).
Marco Sermarini: Grazie, padre Benedetto! Adesso
se qualcuno ha da porre qualche domanda, abbiamo
qualche minuto per farlo, quindi se qualcuno ha da fare
qualche domande, viene qua...
Domanda (Carlo Tellarini, Ferrara): Mi
colpisce - di quello che dice padre Benedetto - il
fatto che la realizzazione dell’amore a Cristo invera
l’umano, tanto che tutti questi problemi della birra
mi sembrano una grande circostanza dentro la quale
uno sperimenta quanto più vera l’ipotesi che Cristo
domini la circostanza stessa. Cioè entri in merito a
quanti soldi si vende la birra, a chi si vende, come
ci si corregge tra monaci quando si sbaglia e che per
regnare bisogna anche prendersi le responsabilità di
governare, è dentro questo che l’uomo sperimenta
la felicità con cui tu, Marco, ci hai introdotto questa
testimonianza. Qualcuno a volte pensa alla felicità
come qualcosa di dritto, come la superstrada, mentre
qui mi sembra che la felicità sia il gusto... di tutte le
cose storte! E’ una cosa che spesso - quella storta - ci
blocca un po’ nel quotidiano, sembra che la cosa storta
sia un’obiezione all’esserci. Ma invece questa storia che
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tu, padre Benedetto, ci hai introdotto con la tua, con la
vostra esperienza, ci fa capire bene che la cosa “storta”
ha una possibilità di essere percepita come la strada
attraverso la quale Qualcun Altro lavora. Mi sembrava
interessante rimettere al centro la prima promessa di
Marco come introduzione.
Padre Benedetto Nivakoff: Io sono d’accordo
perché le circostanze, le curve non possiamo evitarle,
sono fatti. Papa Benedetto XVI... credo - non so - tre
mesi fa... a lui sono state chieste alcune domande
tipiche, una domanda che tutti noi ci chiediamo:
l’esistenza del male, del cattivo nel mondo non è un
segno della mancanza di Dio, che Dio non esiste? E il
Papa rispose con tante cose ma tra queste disse: non
possiamo negare l’esistenza delle cose cattive. E tu hai
una scelta, come rispondi, accetti la loro esistenza e
sfrutti al meglio le cose che succedono o le rifiuti non
accettando il fatto che fanno parte di una Provvidenza
vera; cioè dobbiamo vedere tutte queste cose come
opportunità, è più facile a dire che - quando arriva il
momento - a farlo.
lezione che in venti anni non ho mai avuto e l’ho avuta
gratis, le altre volte a pagamento, perciò ti ringrazio
per la lezione sul lavoro che ci hai fatto (anche perché
la realtà di un birrificio... può cambiare qualcosa ma i
problemi ci sono sempre). La cosa che mi ha colpito...
sto imparando ad essere in Italia, in Italia ci sono le
tasse... però in Italia c’è una questione che vorrei che
tu spiegassi meglio: è tutto un diritto, nulla un dovere.
Quando tu parlavi di diritto, che uno pretende di avere
un diritto, il diritto al lavoro, il diritto allo studio… però
è poco sentito il dovere. Vorrei che ti ci spiegassi questa
pretesa del diritto. Ti ringrazio.
Domanda (Fabio Valocchia, Monte San
Savino): Posso? Io ringrazio perché ci hai dato una
Padre Benedetto Nivakoff: Noi abbiamo visto in
monastero che il tema che si lega ai tanti problemi di
questo argomento del diritto è un problema che viene
dalla famiglia, è un probelma che viene dal padre, il
padre nella famiglia ha il ruolo di instillare il senso
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del lavoro, della responsabilità maggiore... anche la
madre, però in un modo diverso; tutti e due i genitori
devono far capire al figlio che lui è apprezzato in sé
per quello che è senza dover fare qualcosa per avere
il loro amore, e purtroppo tanti figli, tanti bambini
escono di casa senza l’idea che sono amati non per
quello che sono ma per quello che fanno. E quando uno
cresce senza l’idea del valore stesso, vero, onesto, deve
sempre cercare un’affermazione del proprio valore, e
queste affermazioni possono venire in tanti modi, ma
il problema, il nocciolo è che esce fuori un narcisismo
forte, cioè che io sono il centro del mondo. Perché
siccome il figlio in qualche modo non ha capito che ha
un valore in sé, non ha mai capito che è amabile per
ciò che è, perché è una creatura di Dio, perché ha un
anima, perché è amato da Dio... se questo figlio non lo
capisce dai suoi genitori, vuole capire questo, desidera
capire questo ed in qualche modo sente l’ingiustizia di
non essere stato trattato con quell’amore e lui insiste
su quell’amore nel senso: insiste molto su quel diritto.
“E loro mi devono, mi devono questo e quell’altro”...
- ehm, scusate, mai guardare i messaggini mentre
parli... (risata) non so se c’è Ciccio, ma dal monastero
mi chiedono sedie in chiesa... ah, già è andato... perché in qualche modo non ha mai sentito di avere
questo amore. Se non sentono mai dai genitori questo
valore in se stesso, insistono nella loro vita, nel lavoro,
nelle circostanze che trovano ad avere questi diritti.
Secondo me il problema nasce proprio da bambino, più
sentiamo il valore di noi stessi senza affermazioni false,
meno dobbiamo insistere su cose che non sono proprio
nostri diritti; e più sentiamo il valore, più vorremo
dare, offrire. Io ho qualcosa da offrire.
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Domanda (Enrico Tiozzo Bon, Ferrara): Come vi
aiutate, come vi educate a vivere in questa posizione?
Come riuscite a vivere così?
Padre Benedetto Nivakoff: Una delle grazie
della vita monastica è che noi abbiamo sulle spalle
millecinquecento anni, quasi duemila anni di storia
di monaci che come noi hanno vissuto questa vita;
c’è una saggezza comune, un tesoro a cui possiamo
attingere per capire come risolvere tanti problemi
e tante situazioni. Non sono sempre chiare, c’è una
chiara ed unica risposta, adesso inizio a diventare un
po’ monotono su questo tema, non vedo altre uscite
tranne la sofferenza, la quale mi sembra una chiave
per la crescita, e come noi agiamo nel confronto
della sofferenza lì decidiamo tutto, e se cerchiamo di
nascondere la sofferenza, se cerchiamo di evitarla, di
far finta che è un’altra cosa, ogni volta dobbiamo stare
attenti, ogni volta che vediamo che stiamo evitando
una sofferenza di qualsiasi tipo dobbiamo fermarci
e cercare di riconoscere qual è la situazione. Tanti
monaci mi vengono a dire: “mi sentono male”, che non
stanno molto bene, “non importa, non sto bene”, non
sapendo il perché, non sapendolo bene; allora prima
iniziavo a domandare sempre il perché e non sapevano
cosa rispondere; allora chiedevo:
- Quando hai smesso di stare bene?
- Non lo so.
- Ma dai, prova,
- Allora, sì, una settimana fa stavo bene ma adesso
no...
- Allora cosa è successo da lunedì scorso fino a questo
lunedì..?
- No, niente, tutto normale...
- Lunedì..?
- Bene...
- “Martedì..?”
- Bene...
- Mercoledì..?
- Bene...
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- Giovedì..?
- Non tanto bene...
- Ah, ok, cosa è successo giovedì..?
- Ah, giovedì niente...
- Ma cosa è successo durante la giornata..?
- Ah, sì, siamo andati in cucina, siamo andati a fare
la spesa, poi ho preparato il pranzo, poi ho avuto una
piccola discussione con un altro monaco su ciò che ho
fatto per pranzo ma niente di che e poi... tutto qua...
- Cosa è successo durante questa discussione..?
- Ah, sì, mi ha detto che non gli è piaciuto molto ciò
che ho fatto per pranzo e poi che non so niente della
cucina italiana e... non sono bravo...
Ah, allora... da lì è uscita questa difficoltà,
ma il monaco ha cercato di dire che non c’era. Però
i padri, gli amici, tutti quelli che ti stanno vicino
devono chiedere, non devono aver paura di farlo. Io
preferisco sempre rischiare a chiedere troppo che a
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chiedere troppo poco; alcuni che si sono confessati da
me sanno che se mi dicono: “Guarda... impurità”, “Ah,
prostitute...” “Quante volte è successo? Dieci, venti,
trenta?” cerco sempre di arrivare alla cosa più grande
e poi la persona dice: “No, no, solo dieci volte, non era
grave!”. E ci siamo capiti bene e non c’è problema;
ma se tu dici: “Spero che tu non abbia fatto quello”,
certamente non ti diranno niente. Bene, dobbiamo aver
il coraggio di chiedere, non c’è niente di strano, non c’è
niente di particolare, queste sono cose normali, ma se
noi non abbiamo il coraggio di chiedere, sicuramente
non avranno il coraggio di rispondere e con questa
mancanza di coraggio diventiamo molto vulnerabili. E
se io vado a confortare un monaco e dico: “Guarda, ti
sei comportato un po’ male”, io lo so che appena dico
questo al monaco, lui farà uscire le pistole, sarà pronto
per combattere, quindi io devo ragionare, devo trovare
il modo di far diventare la correzione un obiettivo
bello, un obiettivo di grazia, un premio. Ma questo si
impara solo con gli sbagli: “Non dovevo dirlo in quel
modo perché ho fatto degli sbagli”, cerchiamo sempre
di dare la colpa a noi stessi, non agli altri quando le
cose vanno male.
Marco Sermarini: Abbiamo un regalo...
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Padre
Benedetto
Nivakoff: questo ci piace
sempre...
Stefano Bondi, Forlì:
C’è un nostro amico che è
un artista, doveva venire
ma non ha potuto, si
chiama Franco Vignazia,
è un pittore, quando
gli abbiamo detto che
venivamo qua e gli ho
proposto di venire con
noi, gli abbiamo detto
cosa facevamo, l’incontro
di oggi, il tema (gliel’ho
accennato un po’ al
telefono...), lui ha detto:
“No, no, allora faccio proprio una cosa dedicata” e ha
fatto questo disegno... Mi ha dato il lavoro finito ieri,
è ancora fresco e praticamente quello lì rappresenta
San Benedetto e sotto la sua benedizione la Famiglia
Benedettina e poi la famiglia normale dei poveretti, ha
proprio usato la parola “dei poveri cristi”; e questo è per
voi, e poi c’è anche quest’altro... Noi veniamo da Forlì...
Questa qui è la Madonna del Fuoco che è la protettrice
della nostra città, questo era un disegno che lui aveva
già in casa però per l’occasione ha voluto lasciare anche
questo come ricordo di questo incontro e dietro c’è la
spiegazione di tutta la cosa (applausi).
Rachele Biaggi, Macerata: Il mio però è incartato…
il soggetto che ho scelto è un’Annunciazione, è in chiave
moderna e contemporanea e l’ho scelta per due motivi:
uno perché è un soggetto a me molto caro, perché mi
aiuta a vivere la vita nel lavoro; e poi perché pensando
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a voi, a quello che era la giornata di oggi a me ha proprio
mosso la gratuità, l’idea di San Benedetto che è quello
che tiene i piedi il mondo (applausi).
Finito nel mese di Febbraio 2013
pro manuscripto
progetto grafico di Marco Consorti e Marco Sermarini
si ringrazia il Monastero di Norcia per le foto tratte dal loro sito
e dal sito della Birra Nursia
http://osbnorcia.org - http://birranursia.com
http://www.apssantacaterina.org/
http://icapitanicoraggiosi.blogspot.com/
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Ora et la... birra!