Incontro con padre Benedetto Nivakoff 21 Ottobre 2012 - ore 9.30 Teatro Civico di Norcia Marco Sermarini: Allora... ben trovati a tutti, siamo arrivati al momento un po’ più centrale - anche se io poi considero la Messa il momento più centrale perché capiremo molte più cose, probabilmente, ma questa è una mia considerazione - il momento centrale di questi due giorni. Come vedete, siamo di tante realtà, veniamo da tanti posti ma condividiamo tutti il desiderio di una vita felice, di una vita vera. Allora siamo venuti qui a Norcia perché pensiamo che questo nostro ideale di vita felice coincida con lo stesso ideale di vita felice dei monaci, dei nostri amici monaci di Norcia. Abbiamo pensato di venire qui perché qui c’è un punto in cui questo desiderio non è ridotto ma qui abbiamo degli amici che non si accontentano di una seconda scelta ma che tirano dritti verso la prima scelta, anzi la Primissima Scelta cioè Gesù Cristo, dimostrandoci come questo sia possibile oggi nel XXI secolo, dimostrandoci come si possa essere all’altezza dei propri più veri desideri 5 senza essere figli del nostro tempo o almeno vivere questo tempo non scontatamente e inghiottendo qualunque cosa, ma ricercando incessantemente la felicità. Vi abbiamo dato ieri sera - e poi comunque se qualcuno ancora non ce l’ha (lo dico soprattutto a quelli che sono arrivati questa mattina e quindi i nostri sambenedettesi e anche altri che ho visto... gli amici di Forlì che sono arrivati solo oggi) - vi abbiamo fatto un piccolo regalo, questo opuscoletto che è la conferenza che ha tenuto Padre Cassian Folsom, il priore del nostro… del monastero qui di Norcia, mi è scappato “nostro” ma... ecco, è normale, non è volontà di possesso, è che mi sento “già loro”, insomma, come dice il nostro amico Tiozzo sempre. Quest’estate siamo partiti un po’ da lì, noi di San Benedetto e tutti quelli che sono capitati lì in quei giorni durante la festa del nostro caro beato Pier Giorgio Frassati. Padre Cassian ci ha parlato dell’educazione secondo il carisma monastico, in particolare il carisma di San Benedetto da Norcia; noi vorremmo ripartire da lì, ma fare un passo ulteriore proprio in questa ottica del non accontentarsi. Io nella premessa, nella prefazione a questo libretto che vi invito a leggere, dicevo che loro vanno dritti alla meta, alla questione perché il loro motto non è tanto “ora et labora” come il novantanove percento delle persone pensa, ma forse la frase più significativa della bellissima Regola è “nihil amori Christi praeponere” cioè nulla anteporre all’amore di Cristo. Io penso che questo sia un ideale da tenere desto sempre, non “quando ci ricordiamo”, sempre, tutti i giorni della nostra vita, anche in famiglia, anche a casa, anche quando si gioca, anche a scuola, anche quando si lavora - perché diversamente come dice il mio amico Chesterton, “si cade in un pandemonio di seconde scelte e in un tumulto di ripieghi” o viceversa un tumulto di seconde scelte e un pandemonio di 6 7 ripieghi. Nessuno di noi vorrebbe avere una vita che è un ripiego. Tutti vogliamo una vita per quella che è, bella, interessante e siamo venuti qui, è un posto un po’ strano perché siamo alla periferia di tutto ed è… per arrivarci... eh! Ci vo’! Noi di San Benedetto siamo i più vicini, però - come dire? - era già la periferia del mondo ai tempi di San Benedetto da Norcia, pensare che Nostro Signore avrebbe potuto suscitare un uomo da qui non era tanto prevedibile, eppure Nostro Signore si è servito di un uomo di Norcia per cambiare l’identità del mondo, se vogliamo. Ma il problema non era questo, il problema era che ciascuno di noi, che chiunque incontrava San Benedetto potesse cambiare la sua vita. Questo è il punto. Il punto è questo: non accontentarsi. I monaci non fanno vacanze in hotel a quattro o cinque stelle, fanno tutti i giorni le stesse cose eppure fanno una vita molto avventurosa. Quest’avventura è descritta bene 8 nella loro Regola e poi, come dicevamo ieri sera per chi stava a cena vicino a noi: la Regola è bella anche da vedere oltre che da leggere. E allora abbiamo pensato bene di chiamare il nostro amico Padre Benedetto, che ha accettato volentieri di parlare a noi di come vivono, del lavoro in particolare; ieri siamo partiti dalla questione della birra perché sembra un particolare fare sapone o fare birra, potrebbe anche essere un particolare, però in ogni cosa, in ogni particolare c’è da essere fedeli all’ideale. E allora lui ci racconterà questo: come vivono loro, cosa fanno, perché loro vivono il lavoro in questo modo, che sono questioni estremamente pratiche ritornando poi alle origini. Ci sarà spazio anche per fare delle domande e... niente, basta, ho detto… va bene. Padre Benedict Nivakoff: Buon giorno, ho qualche sorpresa da dire perché il mio testo che ho scritto io è stato corretto dal nostro monaco italiano Fra 10 Massimiliano e tante volte quando lui corregge il testo mette anche delle sorprese... e normalmente riesco prima della conferenza a trovarle però ho il testo fresco dal computer e quindi vediamo che cosa esce fuori... Io mi prendo la responsabilità, la colpa di tutto, però se c’è qualcosa che suona strano è perché non abbiamo le stesse idee su tutto. Ora et la... birra! “Ora et labora” ha detto Marco, arriveremo a questa frase cominciamo con il titolo della conferenza “ora et la birra”! Questo “ora et la birra” è una battuta scherzosa del nostro Don Ignazio per spiegare che il nostro lavoro è diventato ormai la birra. Questa battuta è vera, però, per tanti motivi. Da un monastero nel quale il mio lavoro più complicata era imparare la cucina italiana per bene (che devo dire non era e non è ancora facilissimo...), siamo arrivati al monastero che ha deciso di costruire in un vecchio garage una fabbrica per produrre la birra con tutti gli attrezzi, utensili e strumenti, mille litri di birra a settimana o tremila bottiglie piccole che possono uscire da questa quantità di mille litri. Abbiamo dovuto creare un network di clienti e - forse la cosa più difficile - stiamo cercando di capire come dare forma alle nostre molteplici idee 12 sul business monastico. Ogni monaco aveva una propria idea su questa attività: fra Francesco, che tutti dicono che deve stare sull’etichetta... Perché è uno un po’ grosso, con la barba, faccia da texano; dicono: “tu devi stare sull’etichetta!”. Fra Francesco si occupava più del sapore della birra, il birraio; Don Ignazio si preoccupava del look, della presentazione; Don Evagrio si preoccupava della gestione, dei metodi di produzione e dei ritmi di imbottigliamento, fino al sottoscritto che, oltre a cercare i fondi, ha ascoltato tutti i monaci per capire come esprimere meglio la filosofia della birra e come far diventare il progetto del birrificio non solo un business di profitto per il monastero ma uno strumento di santificazione e crescita umana per i monaci. 13 Il lavoro di costruzione è durato otto mesi e siamo riusciti ad aprire il birrificio il 15 agosto di quest’anno, quindi siamo al secondo mese, l’”anniversario” era sei giorni fa all’inizio dell’attività, e siamo ancora in piedi... Vi racconto questo per farvi capire che abbiamo proprio poca esperienza. Ciò che vi dirò non è frutto di un lavoro di decenni, di anni come capo di un’azienda... Comincio adesso il mio dodicesimo anno come monaco. Dividerò il discorso quindi in due parti: in primis cercherò di farvi un riassunto della Regola benedettina e della tradizione monastica sul lavoro per farvi capire il nostro punto di partenza; poi vi racconterò come tali principi abbiano trovato attuazione nel nostro birrificio. Cercherò di evidenziare gli aspetti che possono essere d’aiuto a seguire Cristo. Come ha detto Marco, noi abbiamo grazie a Dio e alla Sua Provvidenza - creato un rapporto d’amicizia già da quasi due - tre anni e io dico spesso a lui che la Regola benedettina in origine era una regola per i laici, i monaci iniziali erano laici, laici cristiani normali, neanche sacerdoti che volevano vivere la vita spirituale in modo intenso. Quindi oltre ad alcune sfumature nella Regola, alcune cose un po’ particolari - parecchie cose - si possono applicare alla vita laica normale. 16 17 Come vi ho detto anche in altre occasioni, il famoso detto “ora et labora” San Benedetto non lo ha mai pronunciato quindi ero grato di ascoltare Marco dire che la frase più importante è “nulla anteporre all’amore di Cristo”. La storia nel dettaglio di questa frase - “ora et labora” - non la conosco. Molte persone vedono in quest’espressione una sintesi dell’equilibrata vita per la quale San Benedetto è celebre. Viene spesso detto che San Benedetto sia un santo che cercava una via di mezzo tra l’ascetismo del deserto (troppo orientale, troppo duro per un monaco italiano del quinto secolo) e una vita monastica tiepida, apatica, poco impegnativa. In poche parole era un uomo del centro, questa è un po’ l’idea che alcuni hanno di San Benedetto, né di sinistra, né di destra. Non sono convinto che questo sia vero o che egli abbia mai ragionato in questi termini. “Ora et labora” è spesso menzionata come un esempio della sua centralità: né troppo lavoro, né troppa preghiera. Ma leggendo bene la Regola tale filosofia non si trova. Anzi, lo spirito di preghiera intesse così tanto la vita quotidiana di un monaco che dovrebbe imparare più i vari tipi di preghiera che la distinzione tra momenti di preghiera e momenti di lavoro. Meglio dire “ora et ora” che “ora et labora”. Ciononostante, San Benedetto capisce che l’impegno della preghiera continua non sarà possibile a tutti e offre il lavoro come valida alternativa. “Se un monaco è troppo pigro o poco dedito e non vuole leggere, gli si dia un po’ di lavoro manuale” dice il Santo “così non disturba gli altri”. Addirittura San Benedetto chiede che alcuni monaci, che si chiamano “circulatores”, vadano in giro per il monastero per verificare che i monaci preghino, leggano... E se uno di questi trova un monaco che non riesce a leggere, a questi deve essere dato qualcosa da fare. Nel suo capitolo sul lavoro San Benedetto dice che l’ozio è nemico dell’anima e che ci dovrebbero essere momenti in cui i monaci non preghino con la stessa intensità. E quindi li posso usare per la lettura sacra o il lavoro manuale. Quindi il lavoro manuale viene messo sullo stesso piano, sullo stesso orizzonte della lettura sacra. E tutti e due hanno uguale importanza rispetto al lavoro principale del monaco che è l’opus Dei, la preghiera. Che più che cose distinte, fanno tutte parte del lavoro principale che è l’opus Dei, la preghiera. 18 19 Allora arriviamo all’altro lato della moneta. Se tutto il lavoro è un tipo di preghiera, tutte le preghiere sono un tipo di lavoro, per questo si chiama “opus Dei”. Il monaco non ha un weekend. Per tanti anni quando telefonavo a casa e parlavo con mio padre, con papà, egli mi chiedeva che cosa avrei fatto il sabato e la domenica. Ho risposto sempre che la domenica avevo fatto sempre le stesse cose degli altri giorni della settimana. Ciò che cambiava era solo che la domenica le preghiere sono più lunghe ed egli è rimasto sempre stupito. Leggendo la Regola qualcuno potrebbe notare che si tratta di un libro sul lavoro. Come pregare, cioè cosa devo fare per pregare; come convertirsi, cioè come devo lavorare per purificare la mia anima per poi pregare meglio... O come gestire la casa, cioè che cosa dobbiamo fare per gestire la casa in armonia con la nostra missione individuale. E allora si vede che il lavoro per i monaci è la vita. È molto simile cioè a ciò che si dovrebbe fare nelle vostre famiglie. La famiglia, 20 la creazione dei figli, la loro educazione, la loro crescita e il lavoro della famiglia, questa è la loro vita, la vostra vita. Ma mentre ai tempi di San Benedetto e anche recentemente il lavoro “economico” sarebbe stato vicinissimo alla casa della famiglia, sia come agricoltura, sia come un negozio, oggi o mamma o papa o tutti e due devono andare fuori casa per lavorare. Ed 21 è questa la nuova realtà che ha cambiato la famiglia a seguito della rivoluzione industriale, come Leone XIII e tanti altri hanno potuto notare. Ricordiamo che San Benedetto stesso è nato qui a Norcia nella casa dove il papà lavorava. Per alcuni questa è la prima visita, quando arriveremo alla Basilica vedremo una basilica del XII secolo (la parte superiore) ma se scendete giù in cripta vedrete una basilica romana del I secolo. E il papà di Benedetto era governatore di Norcia e lui abitava proprio accanto alla basilica, come se avesse abitato in Comune. Quindi San Benedetto è cresciuto nell’ambiente di lavoro del padre. Il lavoro non era una cosa separata, formava parte della sua vocazione, della vocazione del padre, formava parte della famiglia, parte della vita di San Benedetto, anche se non erano agricoltori. Spesso pensiamo che quest’idea della famiglia in cui il lavoro che è dentro la casa appartenga solo ad una famiglia agricola ma non è così. Anche ai tempi dei romani il negozio spesso era accanto alla casa e formava parte della vita. Uno dei motivi quindi per cui il monastero di oggi è così diverso dalla società contemporanea è proprio per questo lavoro in casa. Ogni tanto quando parlo di nuovo con mio padre dei problemi con i monaci (sì, ci sono anche problemi!), paragono qualche situazione al suo lavoro. Lui era capo di una caserma di trecento poliziotti. È vero, aveva ragione. Cioè, c’era un monaco che si comportava magari in modo non ottimale, io raccontavo questo a mio padre e lui mi diceva: “sì, c’è anche uno in caserma che si comporta male, mi assomiglia molto a questo”, e ci siamo messi d’accordo; io gli ho dato qualche consiglio, lui mi ha dato qualche consiglio molto saggio. Ma ciò che papà non ha mai capito è che lui non doveva dormire sotto lo stesso tetto con quel poliziotto che non si comporta bene, non doveva vederlo ogni mattina al Mattutino, a colazione, a pranzo, cena... e 22 23 così via, ad ogni preghiera, ad ogni momento di lavoro. Cioè vivere insieme con persone che sono in qualche modo difficili non è facile. Ogni sera lui torna a casa e non deve pensare più a quel bugiardo. Il fatto che tutto il lavoro del monastero si trovi all’interno dell’edificio ci costringe a far diventare tutta la vita monastica un lavoro. Quando pensavamo di aprire il birrificio, addirittura abbiamo anche ragionato se creare il birrificio in zona industriale: e c’era qualche opinione in monastero a favore di questo perché noi siamo al centro storico ed è difficilissimo far arrivare i mezzi qui, un camion di venti metri, diciotto metri... mi chiama dicendo: “Guarda, ho qui le vostre trenta pedane di bottiglie. Come vengo al monastero?” e io gli devo spiegare: “Guarda, devi prendere il corso centrale dopo aver chiesto ai carabinieri per un permesso, devi spostare tutti i tavoli dei bar e poi passare davanti ala statua di San Benedetto in piazza e stai davanti al monastero”. E si spaventa, questo povero autista! Però, nonostante tutte le difficoltà nell’avere creato il birrificio al centro, nel monastero, nel centro storico, ci permette di vivere il birrificio come parte della nostra vita. E quindi il lavoro è parte della nostra vita continuamente: c’è la preghiera continua, ma c’è 25 anche il lavoro continuo. Questo lavoro continuo, come la preghiera, potrebbe sembrare terrificante, noioso, qualche volta lo è. Tutti i padri monastici parlano del demonio di mezzogiorno, come un demonio che vuole farti abbandonare la vita monastica, perché troppo dura, un po’ monotona. Ed è per questo che San Benedetto nel capitolo XLVIII sul lavoro non parla solo del lavoro manuale ma parla degli orari di preghiera, parla della siesta pomeridiana dopo pranzo - è molto importante! -, parla della Quaresima, parla degli infermi che devono anche loro avere lavoro - anche gli infermi, i giovani, tutti in monastero devono avere del lavoro, anche se deve essere secondo Benedetto più leggero e diverso. La vita come ce la descrive San Benedetto non può essere tagliata a pezzi, tenendo questo buttando quello, “mi piace questo, non mi piace quest’altro”, come è stato fatto spesso nei monasteri dopo il Concilio. Se si perde l’insieme, si perde tutto. Quando il Santo dice “l’ozio è nemico dell’anima”, ha capito ciò che diceva. Una delle spiegazioni spesso trovate nei Padri del Deserto, nei Padri della Chiesa per i problemi anche sessuali, per i vizi che troviamo sia nei monasteri di oggi, sia nei monasteri medioevali, sia nei monasteri antichi, sia nel sacerdozio e addirittura dappertutto, si trovano questi problemi quando non c’è da fare. Quando c’è un gruppo di uomini celibi che non hanno abbastanza lavoro e non hanno una possibilità di creare, spesso le tendenze - magari se ci sono - non eterosessuali sorgono, escono perché c’è mancanza di cose da fare. Questo fatto è reso noto da tanti monaci nei secoli. San Benedetto sta accennando a questo. Parla un attimo di questo problema con sfumature: dice che i monaci non devono dormire tutti giovani insieme, ma ci deve essere un anziano nel dormitorio per controllarli e ci deve essere una candela accesa 26 27 durante la notte. In altre regole di monaci si dice che i monaci non devono camminare mano nella mano e che non devono guardare troppo in faccia. Le regole antiche si preoccupavano, erano coscienti delle tendenze, delle tentazioni dell’umanità e hanno cercato di risolverle in modo molto concreto: date a queste persone qualcosa da fare. Forse sembra una spiegazione un po’ superficiale o troppo semplice, ma è comprensibile: se non c’è niente da fare, non c’è niente da pregare, c’è un vuoto. E il vuoto si riempie facilmente con i vizi. Il lavoro spinge la persona a crescere per un’unica strada: la sofferenza. Se non soffriamo, non cresciamo, come tutti noi sappiamo. Il lavoro per un monaco non è un contorno di spinaci, che potrebbe esserci o no: è la pasta, è la birra - molto importante, non può non esserci..! 28 Riassumendo un po’ e seguendo sempre le orme di Padre Cassian che vi ha presentato una conferenza sull’educazione, ricordiamo che San Benedetto chiama il monastero prima di tutto “una scuola per il servizio del Signore”. In una buona scuola - so che anche voi avete la scuola - sia studenti sia insegnanti hanno da fare, hanno da lavorare. Se gli studenti lavorano ma gli insegnanti non lavorano, c’è un problema e anche viceversa. Tutti devono lavorare. Se gli insegnanti pensano: “io qua so tutto, non mi devo impegnare a imparare niente”, gli studenti si rendono conto che queste non sono persone serie e non gli danno rispetto. In una buona scuola però non solo si studia matematica per tutta la giornata: c’è letteratura, c’è l’arte, c’è musica, c’è anche la ginnastica. Noi non siamo dei robot, non possiamo lavorare con la stessa intensità sempre. San Benedetto riassume quindi tutto lo spirito del lavoro quando tratta degli artigiani del monastero: “ut in omnia glorificetur Deo”, “che Dio sia glorificato in tutto”, per dire che se tutta la giornata del monaco, tutta la vita del monaco è un lavoro, o meglio: se una preghiera è anche un lavoro, tu non puoi pregare nello stesso modo sempre. Non puoi avere una contemplazione ventiquattro ore su ventiquattro - come pensano alcuni dei nostri novizi che arrivano freschi freschi dal mondo: “mi metto in chiostro, sarò qui così, sarà tutto bello”; cioè, non funziona così. Possiamo pregare in modo intenso ma il corpo è debole, non può resistere a tutto. Ci vogliono diversi tipi di preghiera: preghiera più intensa, preghiera più leggera. E per San Benedetto il lavoro è un tipo di quella preghiera, non è un staccarsi dalla preghiera ma è un pregare in un modo diverso. 30 31 Un’ultima parola da aggiungere sull’economia di Benedetto e sullo spirito di povertà. Il Santo prevede tramite il capitolo sugli artigiani che il monastero avrà uomini capaci di produrre oggetti che saranno apprezzati e richiesti dal mondo. Dice che però i monaci devono evitare qualsiasi odore di commercio. I loro prezzi devono essere più bassi di quelli del mondo e se il monaco che crea l’oggetto in questione si insuperbisce deve essere dimesso dal suo incarico ma non è contro l’idea che i monaci lavorando trovino i soldi. L’idea della povertà per i monaci è molto diversa da quella francescana. Il monastero può essere ricco o povero ma niente del monastero è proprietà di uno solo, ogni cosa appartiene a tutti. Nessun monaco può dire: “quello è il mio computer, quello è il mio iPhone”. Per questo ho apprezzato molto ciò che ha detto Marco: “nostro monastero”; infatti io dico a ogni muratore, ogni idraulico, ogni falegname, ognuno che viene al monastero per lavorare che il monastero è loro, appartiene anche a loro - anche perché voglio che tornino presto a riparare le cose... Voglio farvi capire che il monastero non appartiene a noi ma è stato dato a noi e noi lo gestiamo, cerchiamo di migliorare tutto, di farlo crescere, di farlo sempre diventare più bello, in armonia con la missione di far diventare tutto una presenza della gloria di Dio, ma non è mio. Quindi l’idea di San Benedetto sulla povertà è che non possiamo dire che qualcosa è mio. Ma ciononostante riconosce che l’appartenenza alla proprietà trasferisce ai monaci una certa stabilità. Questo è un principio che è stato sottolineato più volte da Leone XIII, Pio XII e anche Giovanni Paolo II, l’importanza che casa tua appartenga a te stesso e che ogni famiglia abbia la capacità economica di comprare, di avere una casa sua. E Benedetto fa un ragionamento: come può un monaco promettere tutta la sua vita in quel posto? San Benedetto chiede questo: che io prometto la mia vita a Norcia. Il monastero può essere venduto, cambiato, distrutto succede anche questo. Però, per dire, lui vuole radicare nella vita monastica un senso del terreno, un senso del posto. I monaci non girano da un monastero ad un altro. Diciamo tranne alcune eccezioni, quando ci sono problemi. Però normalmente questi problemi - come nel matrimonio - vanno risolti sul posto, è la sofferenza o la gioia del monaco di risolvere le sua difficoltà, di vivere la sua vita spirituale in quello stesso posto in cui lui è entrato in monastero. 32 33 Il monastero deve essere come una famiglia per i bambini, un posto dove i monaci si sentono tranquilli. Se i bambini non si sentono tranquilli a casa, se non sentono che è casa loro, non riusciranno a crescere. È quella tranquillità che gli permette di lavorare, di coltivare il campo della loro santità. Benedetto non era fissato sulla povertà in sé, ha capito che le cose, case, beni non sono cattivi ma vanno santificati come la vita. Prima di morire San Benedetto ebbe una visione della distruzione totale di Montecassino - come sapete è stato fatto tre volte, tre volte è stato distrutto completamente. E non era contento, ci è rimasto molto male. Amava quel monastero che aveva costruito. Ma nella visione ha visto che nessuno dei suoi monaci sarebbe morto e questo gli ha dato conforto. Quindi ha capito le cose principali: i suoi monaci. Però ciò nonostante era rimasto male per la distruzione del monastero. Non aveva un’idea del monastero come se fosse un niente. Se viene distrutto o se non viene distrutto “che me ne frega”. No, questa non era l’idea di San Benedetto. 36 37 Sono queste le mie riflessioni sul lavoro dei miei anni nel monastero prima di iniziare il birrificio. Sono le mie riflessioni sullo spirito del lavoro che San Benedetto vuole coltivare, inculcare nei suoi monaci, nei suoi monasteri. San Benedetto nella sua Regola non è la Summa Theologica, non è che lui divide la vita del monaco in tre parti, poi per trenta questioni, poi tre articoli ecc…: è una mescolanza di tanti insegnamenti di tanti monaci precedenti che lui mette insieme in una sintesi. Quindi io ho cercato anche di riportare una sintesi... un pochettino più sintetica della sua visione totale del lavoro. Che il lavoro non è un alternativa, non è un break della preghiera ma un’espressione della preghiera. Che le cose nel monastero per San Benedetto sono importanti, vanno coltivate, vanno migliorate, vanno apprezzate, che i monaci devono e possono avere delle cose per la loro stabilità nel monastero, un aiuto al monastero che non gli impedisce di arrivare alla sua meta. La meta del monastero è grosso modo di aiutare i monaci ad arrivare in Paradiso, molto semplice. Però come sappiamo - di strade per arrivare in Paradiso ce ne sono tante. Bene, queste sono le mie riflessioni. Forse un po’ naif, un pochino incerte. Prima del birrificio tutto questo era in un libro, la Regola. Non è che non lavoravamo, però il lavoro era molto semplice. Il lavoro in Basilica: confessare la gente, accogliere i pellegrini, la cucina, il piccolo giardino, il negozio. Cose serie, non che i monaci siano stati lì a riposare tutta la giornata, anzi, c’era poco tempo per riposare. Però erano lavori poco concreti. Adesso passo alla parte più pratica, e forse più interessante, se non siete già troppo addormentati: il nuovo lavoro dell’aprire il birrificio. Fino adesso tutto 38 era teoria. Ma come si possono vivere questi principi? Sono solo belle idee o si possono mettere in concreto? Rispondo agli argomenti che sono usciti dalla riflessione sulla Regola stessa. I tre temi: prima l’ozio. Uno dei primi vizi che abbiamo incontrato nel progetto di aprire il birrificio era in noi stessi l’ozio, cioè la pigrizia. Anche se ci piace molto la Messa antica, siamo monaci moderni, la nostra generazione soffre molto di una “malattia del diritto”, che ho cercato e cerco ancora di sradicare, che dice che “il mondo mi deve dare, i laici mi devono dare, i benefattori ci devono dare”, non so se è la parola giusta, in inglese si dice “entitlement”, nel senso che loro mi devono dare non perché ho lavorato ma perché è giusto così. Addirittura nessuno deve darci niente. Questo è uno dei primi principi che abbiamo dovuto imparare. Forse è un bene per un benefattore un atto di carità, che gli conviene di regalare, dare, offrire ma non è la stessa cosa di un diritto per me. Molti di noi sono americani, abbiamo una comunità di quindici monaci nella quale dieci sono 40 americani e due indonesiani, un brasiliano, un inglese e un italiano (quello che mi ha corretto la conferenza!). Però siamo americani e non abbiamo la stessa la rete di assistenza sociale che ha un italiano. Nelle nostre scuole si deve pagare, c’è un sistema di scuole pubbliche però al livello di università si deve pagare e comunque la maggioranza delle scuole universitarie sono a pagamento a cifre abbastanza alte. Non abbiamo un’assistenza - fino a tempi recenti - sociale e quella sanitaria. E comunque questo atteggiamento per cui ho il diritto di ricevere già c’è. Vedo che sta crescendo anche negli americani. È un atteggiamento secondo il nostro parere velenoso, non perché l’accettare delle cose dagli altri ti fa male anche se viene dallo Stato, ma perché pensando di avere un diritto ad un bene, di avere ciò che non è mio toglie vita alla fantasia, alla creatività. Diventiamo sterili, ignoranti. Da questo atteggiamento “di diritto” l’unico modo di uscirne è l’umiliazione. Cioè di obbligare qualcuno a darti qualcosa che alla fine non ti dà e diventi umiliato. Ero io uno di quelli che doveva chiedere ai benefattori principalmente americani i soldi per il birrificio. L’ultimo anno ho dovuto fare un viaggio in America quasi una volta al mese, ogni volta concentrandomi su una famiglia che ci conosce e che ci vuol bene andando da loro per spiegargli il progetto e chiedergli un aiuto finanziario. Per gli americani il progetto è affascinante. C’è già una cultura di filantropia molto sviluppata, però c’è anche una cultura di business imprenditoriale. Quindi quando tu vedi in America un ragazzo di venti anni che vuole incominciare un azienda, tu vuoi aiutarlo. Questo è un po’ lo spirito. Ricordiamo di questo, Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, lui ha vent’anni, lui non è che è l’unico, ce ne sono tanti. È abbastanza tipico, questo fatto. Quindi sono andato da questi americani a chiedere l’aiuto e si sono affascinati molto. Ma io - parlo di me stesso - ero 42 43 anche un pochino esagerato nell’idea del progetto del birrificio: “che bello, diventerà il più famoso birrificio del mondo, avremo una fama incredibile, sarà una birra straordinaria!”. E in uno dei miei primi viaggi sono andato da un benefattore che ci aveva già aiutato con i soldi, diciamo che ne ha abbastanza. Però io esagerando un po’ nella richiesta, pensando: “Guarda, ora faccio più veloce. Invece di chiedergli x, gli chiedo il doppio, finisco la ricerca dei soldi e siamo a posto!” - quindi gli ho chiesto il doppio... ed è andata male! Era molto gentile e ci ha dato meno di quanto avevo previsto di chiedere. Io ho raddoppiato la cifra e lui mi ha dato meno della metà. Per dire che era una buona umiliazione. Mi ha aiutato e ha fatto diventare mia la guerra contro il senso del diritto. Lo vedo in me stesso, lo vedo nei nostri monaci che qualcuno ci “deve” dare. Questo si vede anche nella Chiesa in generale e non è un atteggiamento bello. Però quell’umiliazione mi ha 44 riportato molto a terra. Dall’altra parte del problema del diritto (“qualcuno mi deve dare”), c’è il problema della responsabilità. Vogliamo avere tutti i vantaggi, beni, bellezze, potere, responsabilità, senza la responsabilità stessa. Questo è un atteggiamento che noi monaci, uomini di oggi, portiamo in monastero. Responsabilità significa sacrificarsi per un bene, per un confratello o per il progetto del birrificio nel nostro caso. Sacrificare me stesso. Il voler tenere la preghiera al centro della vita può facilmente, ed è stato fatto, diventare una scusa per non prendere responsabilità sul progetto. “Non posso andare in birrificio, non posso lavorare perché ormai devo fare le mie preghiere, la mia devozione”. Io purtroppo ho poca pazienza per questo atteggiamento. C’è molta confusione tra la pietà vera e un certo tipo di vanagloria, io costruisco una bella immagine di me stesso a cui io sono molto devoto e quella ha più 45 precedenza rispetto ai fatti concreti della realtà; più che una vita spirituale, questo è uno spiritualismo e sostituisce le tue idee alla realtà. I nostri giovani sono innamorati del potere di reggere ma dall’altra parte sono così paurosi che a volte preferiscono essere una persona che non gestisce niente piuttosto che una persona che decide le cose. C’è una dinamica, c’è una confusione tra due verbi in latino che si trovano anche in una preghiera che noi recitiamo ogni mattina: regnare e gubernare. Tanti di noi vogliono regnare ma nessuno vuole governare. Regnare significa: io comando, e da questo comando io riesco ad avere il rispetto. “Mi rispettano perché comando”, bellissimo, però non è la stessa cosa di governare. Quando uno governa, l’autorità viene data gratuitamente perché la persona rispetta e dà rispetto alla persona. Guadagna l’autorità in qualche modo, non è che comanda l’autorità. E per noi monaci questa è una cosa che stiamo imparando. La vita monastica è molto gerarchica e l’abate ha tanto potere, autorità. E questo senso della gerarchia può dare l’idea ad un monaco che: “guarda, l’importante è che ho il titolo e posso comandare tutti e siamo tutti a posto”, e non funziona. Se tu non guadagni il rispetto degli altri monaci, non hai niente. Magari tu li comandi perché hai un titolo però loro vanno al peggio, cioè loro si viziano e anche tu ti vizi perché hai un idea di te stesso che non è vera e stai insegnando ai monaci il modo di guadagnare il rispetto con il comando. E anche questa dinamica l’abbiamo dovuta combattere e la stiamo ancora combattendo. E lo vedo anche in me stesso, per esempio quando Marco mi viene a dire: “guarda, padre Benedetto, tu hai sbagliato”, come voglio rispondere: “non è vero. Io sono il vicepriore, io sono il direttore del birrificio, non è possibile”! Allora, queste non sono risposte. Perché il fatto che ho questo titolo, questo compito, non risponde per niente 46 47 all’accusa, all’osservazione che io ho sbagliato. Finché io riesco a dire con tranquillità: “ah, bene, quindi fammi capire cosa ho fatto così cerco di cambiarmi, cerco di risolvere” o qualche volta “sì, fammi capire, così possiamo discutere” o “fammi capire, non sono sicuro che tu hai ragione, forse dobbiamo capirci un po’ meglio”, va discussa la cosa. Finché io riesco a parlare con una persona che è più in basso di me, inferiore, come uno che mi è pari non avrò autorità e per me ci sarà sempre la tentazione in quei momenti e dire: “guarda, comando io, decido io”; certo, devo prendere una decisione tante volte però senza anche discussione, senza anche armonia tra i pareri. Però quelli vengono rispettati, vengono ascoltati in modo molto migliore se vedono dietro un’apertura al fatto che io posso sbagliare. Accettare il fatto che possiamo sbagliare non è facile. Per risolvere questa dinamica della responsabilità, del volere la responsabilità ma non volerla, “lo voglio ma non lo voglio”, perché per avere la responsabilità tu devi aprirti, devi diventare vulnerabile a queste accuse, al fatto che tu forse hai sbagliato. Questa è la vera responsabilità, la vera autorità , il vero governo. E se un monaco vuole regnare senza voler governare siamo sempre nei guai. Però per affrontare questa difficoltà purtroppo l’unica cosa che possiamo fare è provare. Io ho dovuto provare con alcuni monaci che dicevano che non erano pronti, dicevano che non volevano, o dicevano che volevano e io ero convinto che non dovevano avere responsabilità. Io ti do questo e vediamo che succede. Questo per me è stato uno dei principi del birrificio, del progetto del birrificio: è più importante la crescita spirituale di ogni monaco che lavora nel birrificio che il risultato finale. Bellissimo. Se noi riusciamo ad avere un business di miliardi o milioni di dollari ogni anno, ma se i nostri monaci sono viziati, stiamo messi male, non è una 48 49 bella cosa. Però se i nostri monaci diventano santi e il birrificio non ha successo, almeno i nostri monaci sono diventati maturi, uomini, santi. Questo è stata sempre la priorità nell’aprire il birrificio: la crescita nella santità di ognuno. Per non parlare di bottiglie rotte, mura distrutte erroneamente, mobili comprati inutili, tanti sbagli che sul momento ci fanno arrabbiare, ma con il tempo ci fanno ridere. Mi è stato consigliato di non commettere mai lo stesso errore due volte, “non scommettere la fattoria”, in inglese si dice “bet the farm”, significa che io metto tutto in quella vicenda come quando vado al casinò e metto la casa perché sono così convinto di vincere tutto, e che succede? Che non vinco e poi siamo fuori casa! Mai scommettere la fattoria, mai giocare al casinò la casa. Però questo porta dei grandi rischi. Significa questo: abbiamo buttato birra perché non è andata bene, cioè abbiamo sbagliato in tante cose. Nel dare una responsabilità vuol dire che tu devi accettare tanti eventuali problemi. E ne abbiamo avuti tanti. Abbiamo buttato un sacco di birra, non era buona. E dobbiamo pagare sia il materiale, sia le tasse perché in Italia non si paga su ciò che vendi ma su ciò che produci e su ciò che vendi. E quindi abbiamo dovuto pagare per la birra che abbiamo messo nello scarico. Bene. Etichette con gradazioni di alcool non giuste, clienti offesi perché se c’è uno che non è in grado di fare un certo discorso con un cliente esce fuori un problema. Mai fare cose che potrebbero dannare tutto il business: purtroppo queste sono successe tutte... Perché? Perché un monaco giovane commette spesso l’errore più volte, anche quattro, cinque, sei, sette volte prima di capire il problema e tu puoi andare da lui tre o quattro volte a rimproverarlo, ma non cambia niente finché loro non capiscono che: “ah, ho 52 53 Secondo, la preghiera. sbagliato!” e se faccio diversamente la prossima volta non sbaglio più, finché questo non succede non cambia nulla, tu puoi andare anche tre o quattro volte ma più tu vai a correggerlo, a volte specialmente se qualcuno non è ben sicuro di sé, peggiora e prende più paura e diventa più timido e quella timidezza non lo aiuta a correggersi. E questo “scommettere la fattoria” purtroppo c’è, anche perché ci sono alcune decisioni che potrebbero compromettere tutto il business: per esempio, tu devi fare un’intervista con un giornalista e tu dici: “eh, guarda, sì, noi abbiamo aperto la cantina per avere una Mercedes o un BMW e una casa al mare, vorremmo andare più spesso in montagna con il nostro 4x4”... e... questo è un esempio un po’ esagerato, ma tu sei finito e puoi anche fare tanti sbagli del genere che mettono in pericolo tutta l’attività, e quindi questi sono alcuni dei rischi (questo è l’ozio). Sono uno che tende a pensare che se mi metto sono abbastanza dietro ad un progetto, è solo una questione di tempo e tutto andrà bene; ma come una mamma, un papà non può regolare tutto il buon comportamento dei figli, neanche io potevo cambiare tante cose. Ricordo un venerdì sera, tardi per noi, alle nove, io stavo al birrificio confortando un monaco che non stava tanto bene, rassicurandolo che almeno avevamo portato un po’ della nostra birra da vendere il giorno seguente, già pronta per la consegna ai ristoranti, ed io gli dicevo: “stai tranquillo, almeno 54 55 È facilissimo dire che tutto il lavoro è una preghiera, ma nel farlo è molto più complicato. Tutti questi sbagli, per esempio, tutti i nostri errori sono stati grandi momenti di stress, di ansia per me stesso. passo per passo andiamo avanti”. Tutto era pronto, il monaco inizia a stare meglio, cinque minuti dopo all’improvviso arriva un altro monaco che dice che l’etichetta che avevamo messo sulle bottiglie era sbagliata, bottiglie già pronte per la consegna. Avevamo messo la gradazione di sei gradi per una birra che è di dieci gradi... adesso è divertente ma a quell’ora non lo era! Qui c’era da prendere una decisione: riprendere indietro tutte le bottiglie e passare tutta la notte a riscrivere con il pennarello dieci invece di sei. Ma io ho detto: pazienza, mandiamo! Fino adesso nessuno è morto! Speriamo non succeda! Un altro esempio: due settimane dopo l’apertura del birrificio tre persone, brave persone, ci hanno chiamato al telefono per dirci che aprendo la bottiglia che cosa hanno trovato? Non birra ma acqua! Abbiamo erroneamente scambiato tre bottiglie di prova, piene d’acqua, con quelle di birra. La mia paura è che ce ne fossero più di tre, ma fino 57 adesso... solo tre chiamate..! La sfida per noi o almeno per me nella preghiera è di accettare tutti questi vicende con tranquillità pur sempre migliorando. E’ ancora una sfida per me e sono pronto ad ascoltare i vostri consigli per come fare meglio. Devo cercare di non far dipendere la mia pace interiore in base al risultato finale del progetto. Questi risultati sono nelle mani di Dio, non nelle mie mani. La preghiera in sostanza è stare insieme con Dio in perfetta armonia e amore; la serietà della preghiera non si giudica bene quando tutto procede come voglio, ma quando tutto succede al contrario di come volevo. Uno dei più grandi problemi degli uomini di Chiesa è che non sperimentano mai o quasi mai queste difficoltà, non ci sono prove veramente di resistenza economica, molti di quelli che professano povertà sanno in qualche modo che la Chiesa andrà 58 ad aiutarli, certamente anche noi in qualche maniera. Ma San Benedetto ha detto che i monaci sono veri monaci quando lavorano con le loro mani; non credo che quest’affermazione faccia credere in una falsa mascolinità, che dice che siamo veri uomini quando facciamo ginnastica, ma la realizzazione che quando un monaco deve lavorare per vivere; la sua preghiera diventa molto più seria, purificata, basata su un mondo di realtà e non di fantasia. Bene, ultima cosa, il denaro. Come si concilia il principio di San Benedetto con le leggi di supply and demand, di domanda e offerta? Come vivere serenamente immerso in un mercato come quello della birra, che si sta ingrandendo giorno per giorno? Stiamo ancora cercando di capire le risposte a queste domande. Non c’è un tema più delicato per la cultura italiana, mi sono reso conto. Come svolgere un’attività che ha naturalmente lo scopo di aiutarci a guadagnare abbastanza per vivere, senza dare l’impressione che stiamo cercando di avere un’attività che ci dà da guadagnare per vivere? Come rispettare il principio articolato da San Benedetto per il quale i prodotti monastici devono costare meno. non più di altri prodotti? In un mondo superindustrializzato da una parte, dove si producono migliaia e migliaia di cose per avere un prezzo più basso, e dall’altra come riusciamo a fare la birra in un mondo dove queste cose sono apprezzate solo se hanno un prezzo maggiore? È stato statisticamente provato che per la maggioranza delle persone un prodotto con un prezzo più alto è più valorizzato e come conseguenza viene visto meglio. Come vi avevo già accennato ieri sera, ad esempio noi abbiamo deciso di non andare ovunque con la birra, di non commercializzare la birra con concessionari intermedi, e di invitare tutti - come voi a venire a Norcia per prendere la birra e per conoscerci. Sia nella targhetta della bottiglia sia nel nostro sito web abbiamo scelto un minimalismo: sempre meglio dire di meno che di più. Il nostro mondo è pieno di donne nude, mi capite un attimino? Anche se noi siamo monaci non possiamo non notare che ogni gelato che viene pubblicato per essere venduto, viene pubblicizzato con 60 61 una persona nuda. Ma in realtà ciò che attrae l’uomo non è la nudità ma il mistero: una volta tolto il mistero, sparisce anche la gioia, quindi anche nella birra abbiamo cercato di concentrarci non sul dire tutto, non sul rendere ovvio tutto ma sul riserbo, sul tenere la birra come un prodotto riservato, mettendo sull’etichetta molto poco. Non abbiamo detto: “guarda, questa birra, ti farà ricordare la tua prima cena quando stavi lì sotto quell’albero”. No, abbiamo parlato brevemente della filosofia della birra e della sua qualità, abbiamo cercato di dire sempre meno per evitare questo stile di commercio. Ma tante delle nostre decisioni vengono da un motto, da un detto, da una frase che ci piace molto dire in modo scherzoso dentro il monastero: “Ex necessitate virtus”, cioè dalla necessità viene la virtù, la cosa spontaneamente migliore, o cerchiamo di sfruttare ciò che le conseguenze, le circostanze ci portano. Una di queste circostanze è che la conferenza non sono riuscito a finirla di scrivere, perché alle nove e mezzo quando sono arrivato sono dovuto venire qua. Però in conclusione la Regola di San Benedetto illustra, ci dà un’idea del lavoro molto positiva, forma parte della vocazione cristiana, e forma parte della vocazione monastica. Noi stiamo cercando di vivere questo spirito di lavoro serio, cristiano nella 63 nostra nuova attività dell’apertura del nostro birrificio, non abbiamo imparato ancora tutto, ogni giorno sbagliamo e ogni giorno impariamo nuove cose. Ma non mi sono mai sentito vicino ai nostri amici laici che sono a capo dell’azienda, con coloro che hanno molte responsabilità sulle loro spalle, come adesso, dopo aver iniziato a percorre questa strada. Ci fa apprezzare di più i momenti di difficoltà, ci aiuta sempre più a superare i momenti di paura, come la sera o la notte nel letto quando pensi: “come farai domani a pagare quella persona quando verrà a chiederti i soldi e invece a me l’entrata di quella vendita della birra non è ancora arrivata?”. Noi riusciamo a capire più che mai la realtà umana del lavoro, della vita, dell’economia, cioè cose che non possiamo pretendere che non esistano, ma esistono e non sono cattive. Infatti questo è il punto che vorremo cercare di condividere: volendo si può anche santificare tutte queste croci. Bene, mi fermo qui... non 64 so se ci sono domande... (applausi). Marco Sermarini: Grazie, padre Benedetto! Adesso se qualcuno ha da porre qualche domanda, abbiamo qualche minuto per farlo, quindi se qualcuno ha da fare qualche domande, viene qua... Domanda (Carlo Tellarini, Ferrara): Mi colpisce - di quello che dice padre Benedetto - il fatto che la realizzazione dell’amore a Cristo invera l’umano, tanto che tutti questi problemi della birra mi sembrano una grande circostanza dentro la quale uno sperimenta quanto più vera l’ipotesi che Cristo domini la circostanza stessa. Cioè entri in merito a quanti soldi si vende la birra, a chi si vende, come ci si corregge tra monaci quando si sbaglia e che per regnare bisogna anche prendersi le responsabilità di governare, è dentro questo che l’uomo sperimenta la felicità con cui tu, Marco, ci hai introdotto questa testimonianza. Qualcuno a volte pensa alla felicità come qualcosa di dritto, come la superstrada, mentre qui mi sembra che la felicità sia il gusto... di tutte le cose storte! E’ una cosa che spesso - quella storta - ci blocca un po’ nel quotidiano, sembra che la cosa storta sia un’obiezione all’esserci. Ma invece questa storia che 66 tu, padre Benedetto, ci hai introdotto con la tua, con la vostra esperienza, ci fa capire bene che la cosa “storta” ha una possibilità di essere percepita come la strada attraverso la quale Qualcun Altro lavora. Mi sembrava interessante rimettere al centro la prima promessa di Marco come introduzione. Padre Benedetto Nivakoff: Io sono d’accordo perché le circostanze, le curve non possiamo evitarle, sono fatti. Papa Benedetto XVI... credo - non so - tre mesi fa... a lui sono state chieste alcune domande tipiche, una domanda che tutti noi ci chiediamo: l’esistenza del male, del cattivo nel mondo non è un segno della mancanza di Dio, che Dio non esiste? E il Papa rispose con tante cose ma tra queste disse: non possiamo negare l’esistenza delle cose cattive. E tu hai una scelta, come rispondi, accetti la loro esistenza e sfrutti al meglio le cose che succedono o le rifiuti non accettando il fatto che fanno parte di una Provvidenza vera; cioè dobbiamo vedere tutte queste cose come opportunità, è più facile a dire che - quando arriva il momento - a farlo. lezione che in venti anni non ho mai avuto e l’ho avuta gratis, le altre volte a pagamento, perciò ti ringrazio per la lezione sul lavoro che ci hai fatto (anche perché la realtà di un birrificio... può cambiare qualcosa ma i problemi ci sono sempre). La cosa che mi ha colpito... sto imparando ad essere in Italia, in Italia ci sono le tasse... però in Italia c’è una questione che vorrei che tu spiegassi meglio: è tutto un diritto, nulla un dovere. Quando tu parlavi di diritto, che uno pretende di avere un diritto, il diritto al lavoro, il diritto allo studio… però è poco sentito il dovere. Vorrei che ti ci spiegassi questa pretesa del diritto. Ti ringrazio. Domanda (Fabio Valocchia, Monte San Savino): Posso? Io ringrazio perché ci hai dato una Padre Benedetto Nivakoff: Noi abbiamo visto in monastero che il tema che si lega ai tanti problemi di questo argomento del diritto è un problema che viene dalla famiglia, è un probelma che viene dal padre, il padre nella famiglia ha il ruolo di instillare il senso 68 69 del lavoro, della responsabilità maggiore... anche la madre, però in un modo diverso; tutti e due i genitori devono far capire al figlio che lui è apprezzato in sé per quello che è senza dover fare qualcosa per avere il loro amore, e purtroppo tanti figli, tanti bambini escono di casa senza l’idea che sono amati non per quello che sono ma per quello che fanno. E quando uno cresce senza l’idea del valore stesso, vero, onesto, deve sempre cercare un’affermazione del proprio valore, e queste affermazioni possono venire in tanti modi, ma il problema, il nocciolo è che esce fuori un narcisismo forte, cioè che io sono il centro del mondo. Perché siccome il figlio in qualche modo non ha capito che ha un valore in sé, non ha mai capito che è amabile per ciò che è, perché è una creatura di Dio, perché ha un anima, perché è amato da Dio... se questo figlio non lo capisce dai suoi genitori, vuole capire questo, desidera capire questo ed in qualche modo sente l’ingiustizia di non essere stato trattato con quell’amore e lui insiste su quell’amore nel senso: insiste molto su quel diritto. “E loro mi devono, mi devono questo e quell’altro”... - ehm, scusate, mai guardare i messaggini mentre parli... (risata) non so se c’è Ciccio, ma dal monastero mi chiedono sedie in chiesa... ah, già è andato... perché in qualche modo non ha mai sentito di avere questo amore. Se non sentono mai dai genitori questo valore in se stesso, insistono nella loro vita, nel lavoro, nelle circostanze che trovano ad avere questi diritti. Secondo me il problema nasce proprio da bambino, più sentiamo il valore di noi stessi senza affermazioni false, meno dobbiamo insistere su cose che non sono proprio nostri diritti; e più sentiamo il valore, più vorremo dare, offrire. Io ho qualcosa da offrire. 70 71 Domanda (Enrico Tiozzo Bon, Ferrara): Come vi aiutate, come vi educate a vivere in questa posizione? Come riuscite a vivere così? Padre Benedetto Nivakoff: Una delle grazie della vita monastica è che noi abbiamo sulle spalle millecinquecento anni, quasi duemila anni di storia di monaci che come noi hanno vissuto questa vita; c’è una saggezza comune, un tesoro a cui possiamo attingere per capire come risolvere tanti problemi e tante situazioni. Non sono sempre chiare, c’è una chiara ed unica risposta, adesso inizio a diventare un po’ monotono su questo tema, non vedo altre uscite tranne la sofferenza, la quale mi sembra una chiave per la crescita, e come noi agiamo nel confronto della sofferenza lì decidiamo tutto, e se cerchiamo di nascondere la sofferenza, se cerchiamo di evitarla, di far finta che è un’altra cosa, ogni volta dobbiamo stare attenti, ogni volta che vediamo che stiamo evitando una sofferenza di qualsiasi tipo dobbiamo fermarci e cercare di riconoscere qual è la situazione. Tanti monaci mi vengono a dire: “mi sentono male”, che non stanno molto bene, “non importa, non sto bene”, non sapendo il perché, non sapendolo bene; allora prima iniziavo a domandare sempre il perché e non sapevano cosa rispondere; allora chiedevo: - Quando hai smesso di stare bene? - Non lo so. - Ma dai, prova, - Allora, sì, una settimana fa stavo bene ma adesso no... - Allora cosa è successo da lunedì scorso fino a questo lunedì..? - No, niente, tutto normale... - Lunedì..? - Bene... - “Martedì..?” - Bene... - Mercoledì..? - Bene... 72 73 - Giovedì..? - Non tanto bene... - Ah, ok, cosa è successo giovedì..? - Ah, giovedì niente... - Ma cosa è successo durante la giornata..? - Ah, sì, siamo andati in cucina, siamo andati a fare la spesa, poi ho preparato il pranzo, poi ho avuto una piccola discussione con un altro monaco su ciò che ho fatto per pranzo ma niente di che e poi... tutto qua... - Cosa è successo durante questa discussione..? - Ah, sì, mi ha detto che non gli è piaciuto molto ciò che ho fatto per pranzo e poi che non so niente della cucina italiana e... non sono bravo... Ah, allora... da lì è uscita questa difficoltà, ma il monaco ha cercato di dire che non c’era. Però i padri, gli amici, tutti quelli che ti stanno vicino devono chiedere, non devono aver paura di farlo. Io preferisco sempre rischiare a chiedere troppo che a 74 chiedere troppo poco; alcuni che si sono confessati da me sanno che se mi dicono: “Guarda... impurità”, “Ah, prostitute...” “Quante volte è successo? Dieci, venti, trenta?” cerco sempre di arrivare alla cosa più grande e poi la persona dice: “No, no, solo dieci volte, non era grave!”. E ci siamo capiti bene e non c’è problema; ma se tu dici: “Spero che tu non abbia fatto quello”, certamente non ti diranno niente. Bene, dobbiamo aver il coraggio di chiedere, non c’è niente di strano, non c’è niente di particolare, queste sono cose normali, ma se noi non abbiamo il coraggio di chiedere, sicuramente non avranno il coraggio di rispondere e con questa mancanza di coraggio diventiamo molto vulnerabili. E se io vado a confortare un monaco e dico: “Guarda, ti sei comportato un po’ male”, io lo so che appena dico questo al monaco, lui farà uscire le pistole, sarà pronto per combattere, quindi io devo ragionare, devo trovare il modo di far diventare la correzione un obiettivo bello, un obiettivo di grazia, un premio. Ma questo si impara solo con gli sbagli: “Non dovevo dirlo in quel modo perché ho fatto degli sbagli”, cerchiamo sempre di dare la colpa a noi stessi, non agli altri quando le cose vanno male. Marco Sermarini: Abbiamo un regalo... 76 Padre Benedetto Nivakoff: questo ci piace sempre... Stefano Bondi, Forlì: C’è un nostro amico che è un artista, doveva venire ma non ha potuto, si chiama Franco Vignazia, è un pittore, quando gli abbiamo detto che venivamo qua e gli ho proposto di venire con noi, gli abbiamo detto cosa facevamo, l’incontro di oggi, il tema (gliel’ho accennato un po’ al telefono...), lui ha detto: “No, no, allora faccio proprio una cosa dedicata” e ha fatto questo disegno... Mi ha dato il lavoro finito ieri, è ancora fresco e praticamente quello lì rappresenta San Benedetto e sotto la sua benedizione la Famiglia Benedettina e poi la famiglia normale dei poveretti, ha proprio usato la parola “dei poveri cristi”; e questo è per voi, e poi c’è anche quest’altro... Noi veniamo da Forlì... Questa qui è la Madonna del Fuoco che è la protettrice della nostra città, questo era un disegno che lui aveva già in casa però per l’occasione ha voluto lasciare anche questo come ricordo di questo incontro e dietro c’è la spiegazione di tutta la cosa (applausi). Rachele Biaggi, Macerata: Il mio però è incartato… il soggetto che ho scelto è un’Annunciazione, è in chiave moderna e contemporanea e l’ho scelta per due motivi: uno perché è un soggetto a me molto caro, perché mi aiuta a vivere la vita nel lavoro; e poi perché pensando 79 a voi, a quello che era la giornata di oggi a me ha proprio mosso la gratuità, l’idea di San Benedetto che è quello che tiene i piedi il mondo (applausi). Finito nel mese di Febbraio 2013 pro manuscripto progetto grafico di Marco Consorti e Marco Sermarini si ringrazia il Monastero di Norcia per le foto tratte dal loro sito e dal sito della Birra Nursia http://osbnorcia.org - http://birranursia.com http://www.apssantacaterina.org/ http://icapitanicoraggiosi.blogspot.com/