MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003 LA REPUBBLICA 41 DIARIO di UN TEATRO DISTRUTTO E RIFATTO, MA È GIUSTO IMITARE L’ORIGINALE? ‘‘ ‘‘ Pierre Menard non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes. Jorge Luis Borges P LA FENICE L’ossessionedicopiareilpassato REMO BODEI Uno scrittore visita, a lavori quasi finiti, il cantiere del Teatro La Fenice e racconta ciò che ha visto. Un filosofo riflette sulle scelte che hanno ispirato la ricostruzione. Entrambi si chiedono se sia lecito lasciarsi condizionare dal passato, al punto da rifare un glorioso edificio storico come se fosse l’esatta copia di quello che bruciò nell’incendio del 1996. La questione naturalmente non è nuova. Borges, con il suo racconto dedicato a Pierre Menard, ha fornito un tocco surreale e vertiginoso all’idea che un capolavoro - in questo caso il Don Chsciotte - possa essere riscritto esattamente come l’originale. Da Platone in poi si è discusso sulla legittimità che l’imitazione ha rispetto all’originale. L’autore del Timeo svaluta la copia. Aristotele la riabilita. Il dibattito proseguirà a lungo. Nel Novecento il tema, fino ad allora piuttosto accademico, si riveste di nuovi motivi. Coinvolge letterati, architetti, artisti come Warhol. È in questo contesto che vi proponiamo la storia del teatro che visse due volte. Terminati i lavori di ricostruzione, il teatro verrà inaugurato, con un concerto di Muti, nel mese di dicembre chi di un disco o la sua espressione nelle bande magnetiche di un nastro. In età moderna, la questione originale-copia cambia radicalmente perché diversa è la sensibilità con cui oggi si guarda ai temi dell’ontologia (della relazione tra pensiero/linguaggio e realtà) e dell’estetica. Ciò non toglie che una divisione molto netta sia rintracciabile proprio in ambito filosofico. Da un lato, vi è l’apologia, dell’autenticità (attraverso tesi condivise sia da Heidegger che da Sartre). Dall’altro l’idea che troviamo in Benjamin, per cui esiste un’aura, o una patina inimitabile nell’originale, che l’arte moderna, nell’ «epoca della sua riproducibilità tecnica», tende a cancellare. Nell’arte seriale, teorizzata e praticata da un Warhol, l’aura, se resta, perderà la sua unicità. Dunque niente più arte? No, perché può nascere un’arte anche come riproduzione allusiva di qualche originale. La Gioconda con i baffi è un modo di “ri- Uno scrittore visita il cantiere e racconta ciò che ha visto, un filosofo riflette sulle scelte che hanno ispirato il progetto JEAN BAUDRILLARD “ WALTER Benjamin diceva che ciò COPIA. che si perde nell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è la sua “aura”, questa singolare qualità del qui e dell’ora, la sua forma estetica: essa passa da un destino di seduzione a un destino di riproduzione e, in questo nuovo destino, assume una forma politica. L’originale è perduto, soltanto la nostalgia può restituirlo come “autentico”. La forma estrema di questo processo è quella dei mass-media contemporanei: in essi l’originale non ha mai luogo, le cose sono concepite fin dall’inizio in funzione della loro riproducibilità illimitata “ ossiamo ricostruire i grandi simboli del passato, erosi dal tempo, distrutti dall’incuria o dal dolo come se nulla fosse accaduto? Come se fra noi e loro ci fosse solo il desiderio di vederli rinascere com’erano e dov’erano? Il caso della Fenice è esemplare. C’è un indubbio bisogno di continuità. Ovvero di raccordarsi al passato quale esempio, modello, memoria. Questa attitudine di rispetto per la tradizione nasce relativamente presto. Più tardo è, invece, il rapporto che si intende stabilire fra ciò che è considerato autentico e l’originale. Fu grazie al dibattito medievale sui testi e sulle reliquie, cioè sul fatto se considerarli autentici o falsi, che il problema dell’originale fu esplicitamente impostato. In una chiave strettamente filosofica, la questione va ricondotta a Platone e Aristotele. Nel “Timeo” Platone svaluta la copia rispetto all’originale, all’idea cui ispirarsi. La ragione ai suoi occhi è chiara: l’originale si riferisce solo a se stesso, ha il carattere dell’unicità ed è un primum, mentre la copia è solo una riproduzione depotenziata dell’originale e presuppone l’originale stesso. Aristotele, nella “Poetica”, teorizza il concetto di mimesi in rapporto alla tragedia. La sua posizione non è così negativa come quella riscontrabile in Platone. Egli scorge nella mimesi un rapporto che non si riduce alla mera riproduzione passiva, oggi diremmo alla copia fotostatica. Al pari del mimo, l’opera della mimesi non consiste nel generare immagini multiple dell’originale, ma nell’alludervi in forma diversa. Si potrebbe dire, in termini moderni, che la mimesi ha il carattere dell’isomorfismo. Ossia, per chiarire con un esempio, intrattiene un rapporto analogo a quello di una canzone cantata con la sua trascrizione nel pentagramma, la sua incisione nei sol- creare” un originale. Veniamo al caso della Fenice. È noto che il teatro è risorto ben due volte dalle fiamme. Nata in forma neoclassica nel 1792, la Fenice fu ideata da Gianantonio Selva. Il primo incendio risale al 1836, il teatro fu ricostruito in forme più cariche. Con il secondo incendio, del 1996, si è acceso anche un dibattito che, a quanto pare, è destinato a durare a lungo. I fautori della conservazione ricordano ad esempio il caso milanese della Scala, che fu distrutta durante la seconda Guerra mondiale e poi ricostruita. Il rifacimento deve essere fedele all’originale, ritengono, perché è solo così che si possono intrecciare storie, ricordi, memorie, testimonianze che appartengono a quel luogo. In questo modo si crea un simulacro in cui la nostalgia e i fantasmi del passato riprendono corpo. Vi sono poi quelli contrari alla fedeltà ad oltranza all’originale. Portoghesi, ad esempio, diceva che ricostruire fedelmente un edificio equivale a sostituire una persona scomparsa con un pupazzo impagliato. I fautori dell’innovazione su un punto hanno ragione: nella copia manca l’elemento creativo. È come illudersi di rifare un quadro di Fontana praticando degli squarci sulla tela. Altro limite dei fedeli a oltranza all’originale sta nel loro anacronismo: la ricostruzione «dov’era com’era» non riflette le esigenze e i gusti del proprio tempo. In che misura, mi chiedo, ed è qui il vero contenzioso, conciliare la fedeltà al ricordo e all’identità di una città storica come Venezia con la capacità di innovare in maniera creativa ed esteticamente accettabile? Mi risulta che Aldo Rossi, autore del progetto per la ricostruzione della Fenice, abbia rifiutato il concetto di copia, ma abbia voluto riprendere l’immagine del teatro originale. Qual è però la distanza di tale immagine dalla copia? Gli esperti di restauro parlano di architettura stratificata quando gli interventi non sono così radicali come nel caso della Fenice. La mia opinione è che in una ricostruzione l’ideale sarebbe mettere insieme gli elementi di continuità storica con una innovazione che sia evidente e creativa., che porti il segno della discontinuità, del trauma subito. Occorre, entro certi limiti, accettare la storia con i suoi irreparabili eventi: è insensato immaginare di fermare il tempo riportando una cosa che è stata cancellata per incuria o per dolo al suo immutato e antico splendore. Le ferite devono lasciare la loro cicatrice: anche le opere d’arte devono portare i segni della storia, devono inglobare le cesure, le discontinuità, inserirle nella continuità. Perché è nella differenza, nell’elemento innovativo che sporge rispetto all’originale distrutto che si mantiene la memoria viva di una comunità. 42 LA REPUBBLICA MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003 1789 Si dà il via alla edificazione de La Fenice. Il progetto è di Giannantonio Selva, gli ornamenti di Francesco Fontanesi LE TAPPE PRINCIPALI 1807 La Fenice assume la funzione di teatro di Stato. Per accogliere Napoleone viene costruita una loggia provvisoria 1828 Ancora all’opera l’ornatista Giuseppe Borsato, fedele al gusto neoclassico Elemento cardine è il grande lampadario 1836 Un incendio distrugge La Fenice. Il fuoco, provocato da una stufa austriaca, dura tre giorni. Nel 1837 la ricostruzione UNO SCRITTORE RACCONTA IL PAZIENTE E QUASI MANIACALE RECUPERO DELLA SALA E DELLE DECORAZIONI (segue dalla prima pagina) agari per un attimo ti puoi sognare di chiamare un architetto giapponese e farti costruire qualcosa di avveniristico su un’isola artificiale in mezzo alla laguna. Ma poi è abbastanza ovvio che lasci perdere e cerchi solo di non fare troppi guasti. E la soluzione più logica è effettivamente rimettere tutto a posto come prima. Ha tutta l’aria di essere una soluzione di puro buon senso: mi ha affascinato scoprire come, invece, sia il lieto ingresso in una follia. Provo a spiegare. Cosa davvero significhi «Com’era, dov’era», l’ho capito solo quando mi hanno invitato a fare un giro nel cantiere della ricostruzione. Il teatro riapre il 14 dicembre, quindi lì dentro erano al rettilineo finale. Muri, impianti, perfino i colori, erano già a posto. Stavano dandosi da fare sulle decorazioni. Sorvolo sull’emozione di rientrare in quella sala come se nel frattempo non fosse successo nulla: strano loop dell’anima. E invece non sorvolo sul fatto che a un certo punto mi son trovato in una sala di quelle tipo foyer, quelle in cui poi tu passi distrattamente con un bicchiere in mano, durante l’intervallo, cercando uno specchio per controllare se la cravatta ti è andata di traverso. Lì trovo due artigiani al lavoro. Stanno facendo le decorazioni di stucco, sulle pareti. Ghirigori e animali. Uccelli, per la precisione. Li stanno rifacendo: com’erano, dov’erano. Voglio dire che se avevano il becco verso sinistra lo rifanno con il becco a sinistra. Se la zampa era un po’ sollevata, fanno la zampa sollevata. È importante chiarire che, stando alla realtà dei fatti, uno può andare a teatro per anni, in quel teatro, e quegli uccelli non li vedrà mai: non si accorge che esistono, sono decorazioni che non ti entrano mai nella retina e nella memoria. A meno che qualcuno non ti prenda il cranio e te lo spacchi sbattendolo proprio contro quegli uccelli, tu gli uccelli non li vedrai mai. Ma loro li rifanno uguali. Com’erano, dov’erano. Naturalmente finisci per chiederti come lo sanno, dov’erano e com’erano. Fotografie. Solo che, è ovvio, nessuno si era mai preso la briga di fotografare proprio gli uccelli, sarebbe stato come fare un ritratto a Marylin Monroe fotografandole un’unghia dei piedi laccata. Quindi le foto, quando va bene, riportano l’intera stanza, e tu, con la lente vai a cercare se quell’uccello, là, in quell’angolo, ha la zampa su o giù. E se la foto non c’è? Chiedere a chi era passato da lì è inutile. Uccelli? Quali uccelli? Allora puoi leggere ciò che l’incendio ha lasciato: un’ombra, un rimasuglio annerito, una scheggia. Quella mattina, quando son finito in quella stanza, lo stuccatore capo (un genio, nel suo) aveva appena finito di leggere detriti del genere, riuscendo a dedurre, da un’ombra lasciata dalle fiamme, che gli uccelli di quel pannello erano falchi, deduzione fatta a partire dalle dimensioni delle zampe, zampe robuste, da rapace. Non c’è foto, il fuoco s’è mangiato tutto, ma lui adesso è lì che fa un becco da falco, com’era e dov’era, perché un’ombra di una zampa gli ha svelato il segreto. Allora uno sarà portato a credere che quegli uccelli abbiano, in qualche modo, un valore artistico unico, che va salvato. Posso dire in tutta tranquillità che non è così. In sè e per sè quegli uccelli hanno il valore artistico degli inserti in radica che trovate sui cruscotti delle macchine. Decorazioni. E nemmeno geniali, o rivoluzionarie o in qualsiasi modo significative. Volete sapere tutta la verità? Gli uccelli bruciati con la Fenice erano già, a loro volta, delle copie. E’ una storia assurda, ma è vera. L’ultima volta che ricostruirono la Fenice, nel M I LIBRI JEAN BAUDRILLARD Lo scambio simbolico e la morte Feltrinelli 1984 La sparizione dell’arte Giancarlo Politi editore 1988 L’altro visto da sé edizioni Costa Nolan 1987 PLATONE Il Sofista, Tutte le Opere, Sansoni, 1988 Il politico, Tutte le Opere Sansoni 1988 Platone, La Repubblica Tutte le Opere 1988 WALTER BENJAMIN L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Einaudi 1966 GILLES DELEUZE Differenza e ripetizione Raffaello Cortina editore 1977 LACAN Lo stadio dello specchio come formazione della funzione dell’io in Scritti Einaudi 1974 OTTO RANK Il doppio Sugarco 1979 UMBERTO ECO Sugli specchi e altri saggi Bompiani 1985 STORIA DI UN TEATRO CHE VISSE DUE VOLTE ALESSANDRO BARICCO 1854, dopo l’ennesimo incendio, l’idea che ebbero fu di costruire un teatro settecentesco, cento anni dopo. Una cosa da Las Vegas. Presero un teatro settecentesco e lo copiarono. Per cui, a voler essere precisi, quella mattina, quell’artigiano, sotto i miei occhi, stava facendo la copia di un uccello che era una scopiazzatura di un uccello che, lui sì, era un originale, almeno 200 anni fa. E’ lì che ho sentito arrivare il profumo di follia. Quando mi son reso conto che più o meno la stessa storia degli uccelli valeva per le lampade, per le pitture, per gli specchi, per i pavimenti e per tutto, ho capito che stavo girando non in un teatro, ma in un racconto di Borges. Con cura maniacale, alcuni geniali umani spendevano un numero di ore spaventoso usando un sapere tecnico affinato per secoli, con l’unico scopo di raggiungere un obbiettivo apparentemente folle. Ce n’era abbastanza per indagare. Ed è lì che son finito al reparto dorature. La cose stanno così: se volete dorare qualcosa potete immergerlo in un bagno d’oro ed è quello che fanno a Las Vegas. Oppure volete farlo esattamente come lo facevano nel 1854: e allora quel che usate sono impalpabili fogli d’oro grandi come sottobirra: uno ad uno, per ore, li lasciate cadere sulla superficie che volete dorare. Provate a immaginare di dorare così la vostra vasca da bagno: un’eternità. Beh: quelli hanno dorato la Fenice. Allora ho pensato che quel gesto era davvero un gesto che volevo gustarmi tutto, dall’inizio alla fine. E ho chiesto: ma chi fa questi fogli d’oro? Una settimana dopo ero da Giusto Manetti. Giusto Manetti non c’è più ma era uno che nel 1820 si mise a fare oro in foglia. A Firenze. Dopo cinque generazioni sono ancora lì, con lo stesso cognome e un sapere affinato nel tempo fino alla perfezione. Praticamente se il gioco è quello di ridurre un lingotto d’oro a un fogliettino leggero come una zanzara, loro in quel gioco sono i migliori del pianeta. C’è un tedesco che non se la cava male, ma insomma, i migliori sono loro. Sono andato nei loro laboratori perché nelle miniere d’oro non sono riuscito ad andare: ma l’idea era di ricostruire una follia dall’inizio alla LA BIBBIA Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini su gli animali e su tutta la terra”. Così Iddio creò l’uomo a sua immagine Dal libro della Genesi WALTER BENJAMIN Il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, o meglio alle masse, è intenso quanto quello di superare l’irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità” fine. Come un viaggio. Pronti a partire? Dunque: la miniera purtroppo dovete solo immaginarvela. ma immaginatevela (Russia o Sudafrica). Poi trasferitevi dai Manetti, Firenze, Italy. Crogiuolo con dentro, a friggere, una lega di oro argento e rame: le proporzioni sono, ovviamente, risultato di decenni di esperimenti. Idem per i tempi di fusione e perfino per il tempo che ci deve mettere l’uomo a versare l’oro fuso nello stampo che lo aspetta. Versare. Raffreddare. Sfrigolio. Lingottino, spesso un centimetro, grande come una tavoletta di cioccolato. Lo fanno passare sotto un rullo. Il lingotto passa, una volta, due, dieci, e ogni volta perde un nulla in spessore e guadagna in lunghezza. Alla fine avete una striscia d’oro lunga metri e spessa come una carta di credito. La tagliano in tanti quadratini. Poi prendono ogni quadratino e iniziano a martellarlo: cinque colpi e poi lo giri, altri cinque colpi e poi lo giri, e via così. Adesso lo fa una macchina, ma quelli che la fanno funzionare sono gli stessi che ancora pochi anni fa lo facevano a mano. Cinque colpi e giri, cin- que colpi e giri, e così via. Ci vuole una pazienza bestiale, ma alla fine il quadratino diventa un quadrato grosso come un sottobirra. Soprattutto: è sottile come un nulla. Allora li controllano uno ad uno, li rifilano, buttano quelli venuti male, e quelli buoni li portano in una stanza dove quattro signore li prendono uno ad uno, con una pinza di legno, e li stendono su un foglietto di carta: sono così sottili che per distenderli bene le donne ci soffiano su: li toccassero con le mani rovinerebbero tutto. L’ultima signora confeziona i «libretti», cioè 25 fogli d’oro rilegati insieme. Sulla carta del pacchetto ci sono le solite medaglie da Esposizione Universale. E, scritto grande: Giusto Manetti, Firenze. Tempo pas- Quella che è andata a fuoco era una delle quattro, cinque sale più importanti del pianeta Ho visto due artigiani rifare con lo stucco gli uccelli uguali, così com’erano e dov’erano MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003 LA REPUBBLICA 43 1854 A Giambattista Meduna è affidata una nuova decorazione Per il restauro successivo bisogna aspettare il 1937 Le cose, gli arredi, i quadri sono muti traghettatori tra noi e il nostro passato Una volta bruciati, quell’aura è persa per sempre e rifarli non salva proprio niente Al centro, i due incendi che hanno distrutto il teatro nel 1836 e nel 1996 sato per convertire un lingotto in un foglietto: 10 ore, più 183 anni a fare la stessa cosa fino a non sbagliare più. Treno. Traghetto. Venezia. Fenice. State seguendo? Gente che ha studiato per anni quel gesto prende il libretto di fogli d’oro, lo apre, prende un foglietto, lo appoggia su un cuscino di pelle scamosciata, lo taglia in quadratini grandi come francobolli, li solleva con un pennello speciale e finalmente li applica ai mancorrenti di una ringhiera, dorandola. Guardate la ringhiera. Luccicante d’oro. Ecco, appunto: troppo luccicante. E’ chiaro che non luccicava così una doratura che aveva 150 anni, quel giorno prima di bruciare non luccicava così. «Com’era e dov’era»: quindi la opacizzano. A mano, con un’arte umile e sublime, raschiano via l’oro in alcuni punti, facendo venir fuori il bolo che c’è sotto, un collante rossastro. Poi spennellano altre colle che tolgono ulteriormente il luccichio. E allora, solo allora, dopo tutto questo viaggio, dopo il lavoro di tutti quegli occhi e mani e memorie, dopo tutto quel sapere salvato dall’oblio di un mondo a cui non serve più, allora, finalmente, avete ottenuto quello che volevate: un pezzo di ringhiera «com’era e dov’era». Mi spiace di averla fatta lunga, ma era necessario. Non basta guardare la ringhiere e pensare «Eh, chissà quanto tempo ci sarà voluto...» No. Bisogna ricostruire esattamente tutto quel tempo, e quel sapere, e quel gesto, per capire, davvero, cosa sta succedendo là dentro. Bisogna capire la ringhiera e poi, anche se è spaventoso, immaginare lo stesso processo per le lampade, i tessuti delle tappezzerie, i mosaici del pavimento, quelle due statuette là, i disegni del soffitto, gli uccelli di gesso, e via così, di decorazione in decorazione. Vertiginoso, no? Sommate tutto, e adesso sentite qui: quello è solo lo scrigno, i gioielli sono un’altra cosa. Tutto quell’immane lavoro è stato fatto solo per rendere elegante lo scrigno: i gioielli sono la musica, il canto, il suono degli strumenti: l’Opera. Gli uccelli di gesso sono l’unghia laccata di Marylin Monroe, e le dorature sono il la tazzina che aspetta il caffè, e i mosaici per terra sono le calze a rete che quella donna si toglierà quando vi amerà. Decorazioni, orpelli, belletti. Ma quando avete finito di farli, non è ancora successo niente. In certo senso avete prodotto il niente. Bella follìa, no? Non è Borges? Dopodiché ognuno può pensare cosa vuole. E decidere se tutto ciò è una follia o una cosa sublime. Posso dire cosa ne penso io? Quel che penso è che l’unico valore che avevano quegli uccelli e quelle ringhiere, prima di bruciare, era di essere là da un sacco di tempo. Ciò per cui erano preziosi erano i passi che li avevano sfiorati, le mani che vi si erano appoggiate, i suoni che ci erano scivolati sopra. Gli sguardi che non li avevano visti: perché in loro era impresso un mondo che non esiste più. Il loro valore era essere muti traghettatori tra noi e tutto quel passato, quel nostro passato. Una volta bruciati, quell’aura è persa per sempre. Capisco il dolore e l’istintiva reazione: ma rifarli non salva niente. E’ una cosa persa, e basta. Detto questo, ho visto qualcosa, in quel cantiere, che mi ha fatto PLATONE Il creatore d’immagini, l’imitatore, diciamo, non si intende punto della realtà, ma solo dell’apparenza… L’imitatore non ha se non una coscienza superficiale di ciò che imita Da “La Repubblica” PIERRE KLOSSOWSKI “A noi i simulacri! Dobbiamo essere gli impostori che abbelliscono l’umanità!”. Secondo Nietzsche la mistificazione non è il procedimento del potentato, essa è il fondo dell’esistenza… Da “Nietzsche e il circolo vizioso” 1996 La notte del 29 gennaio La Fenice viene distrutta da un secondo incendio Venezia perde uno dei suoi simboli pensare. Mi è venuto in mente Valéry. Lui aveva una sorta di lancinante nostalgia per il mondo artigiano. Diceva che nel» paziente operare» degli artigiani ritrovava la prodezza di cui era capace la natura quando produceva una perla, o un frutto: «opera preziosa di una lunga serie di cause l’una simile all’altra». E già ai suoi tempi, poteva dire:»L’uomo odierno non coltiva più ciò che non si può semplificare o abbreviare. Tutte quelle produzioni di una fatica industriosa e tenace sono scomparse, ed è finito il tempo in cui il tempo non contava». Ecco. In quel cantiere, mentre vedevo quelli là, assurdi, che passavano giornate a dorare — dio mio, dorare — l’impressione che ho avuto era che non stessero salvando delle decorazioni ma un modo di pensare il mondo. Stavano restaurando un tempo in cui il tempo non contava. In cui l’adeguazione dei mezzi ai fini era una volgarità. In cui l’ottimizzazione di un sistema produttivo era una nevrosi inutile e inelegante. Un’altro mondo, se capite cosa voglio dire. L’unico mondo in cui puoi pensare di spendere giorni a fare un falco che nessuno, mai vedrà. Avete presente le decorazioni in punta alle guglie di un duomo gotico? Cose per gli occhi di dio. E ho pensato che tutto sommato perfino la musica che daranno là dentro, non è poi molto differente dagli uccelli e dalle ringhiere. Pensate al tempo che c’è dietro a cinque minuti di Traviata. Quello che ha scelto il legno per gli strumenti, i macchinisti che manovrano le scene, quello che ha copiato la partitura di Verdi, quello che fa il suggeritore, quello che da sette generazioni fa costumi, e Violetta, naturalmente, e nella sua voce la sua maestra e la maestra della sua maestra, e così via, indietro per secoli. Che immane quantità di tempo, e sapere, e pazienza. Artigianato. La follia dell’artigianato. Così che quel teatro alla fine mi sembra un unico, compatto, meravigliosamente coerente ecosistema che, senza alcun pudore, ripropone una logica che non esiste più. E’ come un parco naturale, come l’ultima tana di una razza estinta. Che piaccia o no, noi stiamo a mollo in una civiltà che ha fatto dell’adeguazione dei mezzi ai fini il proprio idolo. La nostra religione è attuare sistemi in cui ogni parte scarica energia nel prodotto finale, senza perdere per strada niente. Pensate alla catena di montaggio, simbolo vecchiotto ma pur sempre esatto: nulla va sprecato, nè uomini nè cose, nè gesti nè bulloni, nè tempo nè spazio. La follia della Fenice — come tante altre, per carità — sembra stare lì a ricordare che c’era anche un’altra possibilità, decaduta, ma un tempo reale. Sistemi che impiegano un’enormità di energia e tempo per produrre risultati sorprendentemente piccoli. Anni per fare una ringhiera. Sistemi che fanno acqua da tutte le parti, che perdono energia per strada, e che arrivano al momento buono completamente scarichi. Follie, secondo la nostra logica attuale. Ma se ci pensi: erano sistemi che sprigionavano il Senso ai lati e non all’arrivo. Se ricostruisci la storia della ringhiera capisci che la ringhiera è davvero poco, ma il mondo che per strada si è prodotto dal gesto che la faceva, è immenso. Lo vedete il modello di sviluppo diverso? Il tubo che perde porta poca acqua al rubinetto, ma innaffia tutto intorno, e lì nascono fiori, e bellezza, o grano, e vita. Scusate la predica. Ma volevo cercare di spiegare. Per dire che quando entrerete là dentro, prima o poi, girate per bene e quando trovate gli uccelli di gesso, sul muro, fermatevi e guardateli. Non sono lì per farsi guardare, in verità, sono lì per non essere visti, ma voi guardateli lo stesso. Sono una follìa. E sono quel che resta di ciò che non siamo più. 2003 Sarà Riccardo Muti, domenica 14 dicembre, a inaugurare il nuovo teatro con l’orchestra e il coro della Fenice MARIO BOTTA Quando si copia la cultura è debole «Ricostruire un teatro o un edificio com’era e dov’era è il segno di una società debole e fragile, che non sa fare di meglio. Quando una comunità ha una grande forza, dei valori da proporre, non si rifugia nel passato. Forse questa è, come diceva Massimo Cacciari, l’arte del possibile. Oggi quel che passa il convento è questo, la ricostruzione del dov’era e com’era. Insomma un falso. A livello personale però ritengo che la nostra società meritasse qualcosa di meglio. Portare una testimonianza positiva del nostro tempo è ancora possibile, è possibile trovare dei valori che non siano riconducibili solo al passato. Il tema veneziano era particolarmente delicato perché l’incendio ha lasciato un vuoto nel centro storico. Nel passato ogni ricostruzione ha portato la sensibilità, la tecnologia, del proprio tempo. Certo, piuttosto che far male è meglio così. Al di là delle questioni contingenti però risulta ben chiaro il momento di fragilità della nostra cultura. Se fosse forte perché non dovrebbe costruire con la propria sensibilità e il proprio linguaggio? Per l’architetto è una sconfitta. La forza della Vecchia Europa è infatti la stratificazione. La nostra è una cultura ben diversa da quella orientale, che ricostruisce in copia, o da quella americana, che azzera. Anch’io sto lavorando in un teatro ma la Scala ha una storia ben diversa: è soggetta a un restauro conservativo. La parte nuova era già stata trasformata dopo la Seconda guerra mondiale e il nuovo nasce dall’abbattimento del cemento armato. Non è come a Venezia». ‘‘ ,, In ogni epoca si è costruito secondo la sensibilità del tempo PIER LUIGI CERVELLATI “Niente moderno nei centri storici” ono contrario all’intervento dell’architettura moderna dentro un centro storico. Il nuovo non può inserirsi nell’antico, che ha una sua identità definita, mentre invece dovrebbe esercitarsi fuori dei contesti storici, risanando le zone periferiche e le sue slabbrature. Preferisco il falso storico, se praticato con criteri filologici, con materiali e modi corretti: è opera di restauro, è ripristino, è restituzione di qualcosa che si è perduto. Ed è sempre meglio, se fatto bene, che rassegnarsi alla scomparsa definitiva di un edificio. Di aver compiuto un falso, un fac-simile, fummo accusati da Bruno Zevi nei primi anni Settanta, quando a Bologna risanammo una parte del centro storico, adottando i criteri fissati da Saverio Muratori, usando i mattoni e il legno e salvaguardando le tipologie edilizie che preesistevano. Ad avviso di Zevi l’intervento moderno nel contesto storico deve apparire e dev’essere volutamente dissonante. Abbiamo molti esempi di fallimentari interventi moderni nei centri storici. Il più criticato è, ovviamente, via della Conciliazione a Roma, che ha dissestato il disegno urbanistico berniniano. Anche Bernini intervenne sulle preesistenze edilizie per il colonnato: ma tanto intelligente e inventivo fu il suo progetto, quanto dissennato quello di Marcello Piacentini. Come dissennate sono tantissime altre manipolazioni compiute in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta». «S ‘‘ ,, Preferisco il falso se praticato filologicamente e con materiali corretti I FILM LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE Un poliziotto sofferente di vertigini, viene incaricato di sorvegliare la moglie di un amico con tendenze suicide: lei si uccide ma lui ne incontra una troppo simile alla scomparsa. Regia di Alfred Hitchcock 1958 FACE OFF Un agente, con un intervento chirurgico, assume le sembianze di un assassino che, al contempo, prende, grazie ad un’altra operazione, i suoi connotati. Regia di John Woo, 1997 DOPPIA PERSONALITA’ Lo psicologo Carter ha una personalità dissociata frutto degli esperimenti a cui lo ha sottoposto il padre quand’era piccolo. Regia di Brian De Palma, 1992 QUELL’OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO Lo sdoppiamento del personaggio femminile: una diciottenne reticente e una spogliarellista che però sono un’unica figura. Regia di Luis Buñuel, 1977 Fondatore Eugenio Scalfari ALVOHXEBbahaajA CRDFDEDQDG Anno 28 - Numero 249 31022 9 770390 107009 Direttore Ezio Mauro € 0,90 in Italia (con “Il partigiano Johnny” € 5,80) SEDE: 00185 ROMA, Piazza Indipendenza 11/b, tel. 06/49821, Fax 06/49822923. Spedizione abbonamento postale, articolo 2, comma 20/b, legge 662/96 - Roma. PREZZI DI VENDITA ALL’ESTERO: Austria € 1,85; Belgio € 1,85; Canada $ 1; Danimarca Kr. 15; Egitto Pt. 700; Finlandia € 2,00; Francia € 1,85; Germania € 1,85; Grecia € 1,60; Irlanda € 2,00; Lussemburgo € 1,85; Malta Cents 50; Monaco P. € 1,85; Norvegia Kr. 16; Olanda € 1,85; Portogallo € 1,20 (Isole mercoledì 22 ottobre 2003 € 1,40); Regno Unito Lst. 1,30; Rep. Ceca Kc 56; Slovenia Sit. 280; Spagna € 1,20 (Canarie € 1,40); Svezia Kr. 15; Svizzera Fr. 2,80; Svizzera Tic. Fr. 2,5 (con il Venerdì Fr. 2,80); Ungheria Ft. 300; U.S.A $ 1. Concessionaria di pubblicità: A. MANZONI & C. Milano - via Nervesa 21, tel. 02/574941 INTERNET www.repubblica.it A B Ancora un naufragio al largo della Tunisia, sei morti. Maroni: “Nuova strategia sui clandestini”. Prodi: servono quote comuni decise dalla Ue DIARIO Immigrati,allarmedallaLibia La Fenice che risorge copiando se stessa Centinaia pronti a venire in Italia. Ciampi: dobbiamo fare di più Scontro nel governo sulla Finanziaria Tremonti non convince la maggioranza ROMA — Sono centinaia, forse migliaia, i clandestini pronti a rischiare la vita sulle carrette del mare per raggiungere le coste italiane. Sono in attesa del loro turno in una località della Libia, agli ordini dei boss che gestiscono il racket degli esseri umani. È quanto emerge dai racconti dei sopravvissuti dell’ultima tragedia del mare, la morte di un centinaio di nordafricani, periti durante il viaggio dalle coste libiche all’Italia. Ieri una nuova tragedia. Una barca con a bordo una trentina di clandestini è affondata al largo delle coste tunisine, e sono già sei i morti e 22 i dispersi, mentre a Lampedusa c’è stato un nuovo sbarco di 17 nordafricani. Il presidente della Repubblica chiede: «L’Italia e l’Europa devono fare di più». Il ministro Maroni annuncia una «nuova strategia sui clandestini», mentre il presidente della Commissione europea Prodi dichiara: «Servono quote comuni decise dalla Ue». ALLE PAGINE 2, 3 e 4 L’INTERVISTA Il ministro degli Esteri Frattini: accordo di alto livello sulla Costituzione “Europa, ci giochiamo tutto” ‘‘ ‘‘ Vogliamo una vera intesa non un compromesso a qualsiasi costo La Difesa comune quando necessario sarà autonoma dalla Nato Puntiamo molto sull’estensione del voto a maggioranza Gli Usa dovrebbero sentirsi rassicurati E per novembre ho invitato Powell ,, ,, ANDREA BONANNI A PAGINA 7 Franco Frattini La Procura di Milano chiude il fascicolo sulle operazioni antidroga: peculato, abuso e spaccio “AssociazionecriminalenelRos” Giulio Tremonti ROMA — La Finanziaria avanza nel caos: la Casa delle libertà non ritira gli oltre mille emendamenti presentati e va al braccio di ferro con il ministro Tremonti, con il quale apre un nuovo fronte di scontro sulla Cassa Depositi e Prestiti. Si fa strada l’ipotesi di un maxiemendamento (che prevedrebbe un condono edilizio più severo) e del ricorso alla fiducia per sbloccare l’impasse. An intanto alza il tiro e studia un depotenziamento del ministero. Anche sulle pensioni nessuna schiarita: infuria la polemica dopo la decisione della Rai di non prevedere finestre informative sullo sciopero di venerdì. JERKOV e PETRINI ALLE PAGINE 8 e 9 Sotto inchiesta il comandante e altri venti ufficiali Rutelli: subito mozione unitaria. Ma Fassino dice no Sull’Iraq e Prodi lite Ds-Margherita Lettera al ministro Pisanu Giovanardi: “La Fiom ricatta le imprese” DE GENNARO A PAGINA 9 Fassino e Rutelli DE MARCHIS A PAGINA 10 Paralisi per i tagli ai bilanci. A Venezia niente fotocopie, problemi anche a Milano e a Bari Finiti i soldi dei tribunali Champions: pesante 3-0 a Mosca la Juve batte la Real Sociedad Il dopo Cuper dell’Inter comincia con una disfatta CROSETTI, GAMBA e PIVA ALLE PAGINE 51 e 52 MILANO – Non ci sono più soldi per i tribunali e la giustizia rischia la paralisi. A Venezia non si faranno più le fotocopie, ma l’emergenza si allarga anche altrove. A mettere in ginocchio i tribunali sono i tagli ai bilanci. Meno soldi, e di conseguenza forti ripercussioni sul funzionamento quotidiano della giustizia. La situazione è critica per le spese di cancelleria. I fornitori non fanno credito al ministero e in molti casi sono già state prese decisioni dolorose: a Venezia è finita la scorta di carta per le fotocopie per il 2003. A Bari è stato sospesa la stenotipia. A PAGINA 29 ALESSANDRO BARICCO CARLO BONINI MILANO – Questa è una storia nera di cui la Procura della Repubblica di Milano è venuta a capo dopo sette anni di indagini cui pochi desideravano mettere mano e che Repubblica è in grado di documentare. È la storia di un’associazione per delinquere che ha vestito e veste la divisa del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri. Di venti manovali in divisa, agli ordini di un ufficiale che, oggi, del Ros è il comandante. Il generale Giampaolo Ganzer. Dal 1991 al 1997, le routine operative della sezione antidroga del reparto investigativo di eccellenza dei carabinieri sono state declinate in un grumo di abusi, malaffare, illecito arricchimento personale, peculati, provocazioni, istigazioni, ricatti. SEGUE A PAGINA 14 Dopo la rivelazione dell’avvocato di Previti Sme, Castelli: “Imbarazzato dall’annuncio dell’indagine sui due pm” FEDRIZZI e MILELLA A PAGINA 11 TAHAR BEN JELLOUN AMORI STREGATI Una stampa della Fenice VREI da raccontare una follia. Non che ne manchino, di follie, di questi tempi. Ma questa ha una sua eleganza impareggiabile e inoltre sembra più istruttiva di altre. Se il mondo ammattisce, che almeno lo faccia con charme e in modo utile. Dunque. Com’è noto, il 29 gennaio del 1996 il teatro La Fenice, a Venezia, se ne sparì ingoiato da un incendio colossale. Fu un brutto colpo. Per chi ama l’Opera quella era una delle quattro, cinque sale più importanti del pianeta. E se ne era bruciata via come un cerino. Adesso sappiamo che fu un incendio doloso. La ditta di elettricisti che stava lavorando al nuovo sistema antincendio (pensa te) provocò l’incidente perché non era in grado di finire il lavoro entro una certa data e quello era un modo di rinviare la faccenda senza pagare una penale che li avrebbe rovinati. Va detto che probabilmente si immaginavano qualcosa di più piccolo, un incendietto circoscritto, una fiammatina. Gli andò male. Nessuno riuscì a fermarlo, e il teatro se ne andò in fumo, letteralmente. A Venezia reagirono con compostezza. «Dov’era, com’era», decretarono, dando per scontato che dal giorno dopo si sarebbero messi lì a ricostruire. «Dov’era, com’era» era uno slogan inventato anni prima in una circostanza analoga: nel 1902 era collassato il campanile di San Marco (senza l’aiuto di elettricisti, aveva fatto tutto da sé: non ne poteva più) e si era aperto un dibattito su che fare. Risultato: ricostruirlo identico a prima e nello stesso posto. In quel caso, come d’altronde anche in quello della Fenice, la cosa sapeva di buon senso, e di veneto pragmatismo. SEGUE A PAGINA 42 SERVIZI A PAGINA 41, 42 e 43 A CON REPUBBLICA Oggi in edicola “Il partigiano Johnny” Una nuova biografia dell’ex Beatle con la collaborazione di Yoko Ono Le immagini più belle della leggenda Lennon SERVIZI ALLE PAGINE 48 e 49 passione, amicizia, tradimento SECONDA EDIZIONE www.bompiani.rcslibri.it Il romanzo di Beppe Fenoglio a richiesta a soli 4,90 euro in più