MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003
LA REPUBBLICA 41
DIARIO
di
UN TEATRO DISTRUTTO E RIFATTO, MA È GIUSTO IMITARE L’ORIGINALE?
‘‘
‘‘
Pierre Menard non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò
mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes.
Jorge Luis Borges
P
LA
FENICE
L’ossessionedicopiareilpassato
REMO BODEI
Uno scrittore visita, a lavori quasi finiti, il cantiere del Teatro La Fenice e racconta ciò che ha visto. Un filosofo riflette sulle scelte che hanno ispirato la ricostruzione. Entrambi si chiedono se sia lecito lasciarsi condizionare dal passato, al punto da rifare un glorioso edificio storico come se fosse l’esatta copia di quello che bruciò nell’incendio del
1996. La questione naturalmente non è nuova. Borges, con il suo racconto dedicato a Pierre Menard, ha fornito un
tocco surreale e vertiginoso all’idea che un capolavoro - in questo caso il Don Chsciotte - possa essere riscritto esattamente come l’originale.
Da Platone in poi si è discusso sulla legittimità che l’imitazione ha rispetto all’originale. L’autore del Timeo svaluta la copia. Aristotele la riabilita. Il dibattito proseguirà a lungo. Nel Novecento il tema, fino ad allora piuttosto accademico, si riveste di nuovi motivi. Coinvolge letterati, architetti, artisti come Warhol. È in questo contesto che vi proponiamo la storia del teatro che visse due volte.
Terminati i lavori di
ricostruzione, il teatro verrà
inaugurato, con un concerto di
Muti, nel mese di dicembre
chi di un disco o la sua espressione nelle bande magnetiche di un
nastro.
In età moderna, la questione
originale-copia cambia radicalmente perché diversa è la sensibilità con cui oggi si guarda ai temi dell’ontologia (della relazione
tra pensiero/linguaggio e realtà)
e dell’estetica. Ciò non toglie che
una divisione molto netta sia rintracciabile proprio in ambito filosofico.
Da un lato, vi è l’apologia, dell’autenticità (attraverso tesi condivise sia da Heidegger che da
Sartre). Dall’altro l’idea che troviamo in Benjamin, per cui esiste
un’aura, o una patina inimitabile
nell’originale, che l’arte moderna, nell’ «epoca della sua riproducibilità tecnica», tende a cancellare. Nell’arte seriale, teorizzata e praticata da un Warhol,
l’aura, se resta, perderà la sua
unicità. Dunque niente più arte?
No, perché può nascere un’arte
anche come riproduzione allusiva di qualche originale. La Gioconda con i baffi è un modo di “ri-
Uno scrittore visita il cantiere e
racconta ciò che ha visto, un
filosofo riflette sulle scelte che
hanno ispirato il progetto
JEAN BAUDRILLARD
“
WALTER Benjamin diceva che ciò
COPIA. che
si perde nell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è la sua
“aura”, questa singolare qualità del qui e dell’ora, la sua forma estetica: essa passa da un destino di seduzione a un destino di riproduzione
e, in questo nuovo destino, assume una forma
politica. L’originale è perduto, soltanto la nostalgia può restituirlo come “autentico”. La forma estrema di questo processo è quella dei
mass-media contemporanei: in essi l’originale
non ha mai luogo, le cose sono concepite fin dall’inizio in funzione della loro riproducibilità illimitata
“
ossiamo ricostruire i grandi
simboli del passato, erosi
dal tempo, distrutti dall’incuria o dal dolo come se nulla fosse accaduto? Come se fra noi e loro ci fosse solo il desiderio di vederli rinascere com’erano e
dov’erano? Il caso della Fenice è
esemplare.
C’è un indubbio bisogno di
continuità. Ovvero di raccordarsi al passato quale esempio, modello, memoria. Questa attitudine di rispetto per la tradizione nasce relativamente presto. Più tardo è, invece, il rapporto che si intende stabilire fra ciò che è considerato autentico e l’originale. Fu
grazie al dibattito medievale sui
testi e sulle reliquie, cioè sul fatto
se considerarli autentici o falsi,
che il problema dell’originale fu
esplicitamente impostato.
In una chiave strettamente filosofica, la questione va ricondotta a Platone e Aristotele. Nel
“Timeo” Platone svaluta la copia
rispetto all’originale, all’idea cui
ispirarsi. La ragione ai suoi occhi
è chiara: l’originale si riferisce solo a se stesso, ha il carattere dell’unicità ed è un primum, mentre
la copia è solo una riproduzione
depotenziata dell’originale e
presuppone l’originale stesso.
Aristotele, nella “Poetica”, teorizza il concetto di mimesi in rapporto alla tragedia. La sua posizione non è così negativa come
quella riscontrabile in Platone.
Egli scorge nella mimesi un rapporto che non si riduce alla mera
riproduzione passiva, oggi diremmo alla copia fotostatica. Al
pari del mimo, l’opera della mimesi non consiste nel generare
immagini multiple dell’originale, ma nell’alludervi in forma diversa. Si potrebbe dire, in termini
moderni, che la mimesi ha il carattere dell’isomorfismo. Ossia,
per chiarire con un esempio, intrattiene un rapporto analogo a
quello di una canzone cantata
con la sua trascrizione nel pentagramma, la sua incisione nei sol-
creare” un originale.
Veniamo al caso della Fenice. È
noto che il teatro è risorto ben
due volte dalle fiamme. Nata in
forma neoclassica nel 1792, la Fenice fu ideata da Gianantonio
Selva. Il primo incendio risale al
1836, il teatro fu ricostruito in forme più cariche. Con il secondo
incendio, del 1996, si è acceso anche un dibattito che, a quanto pare, è destinato a durare a lungo.
I fautori della conservazione
ricordano ad esempio il caso milanese della Scala, che fu distrutta durante la seconda Guerra
mondiale e poi ricostruita. Il rifacimento deve essere fedele all’originale, ritengono, perché è solo
così che si possono intrecciare
storie, ricordi, memorie, testimonianze che appartengono a
quel luogo. In questo modo si
crea un simulacro in cui la nostalgia e i fantasmi del passato riprendono corpo.
Vi sono poi quelli contrari alla
fedeltà ad oltranza all’originale.
Portoghesi, ad esempio, diceva
che ricostruire fedelmente un
edificio equivale a sostituire una
persona scomparsa con un pupazzo impagliato. I fautori dell’innovazione su un punto hanno
ragione: nella copia manca l’elemento creativo. È come illudersi
di rifare un quadro di Fontana
praticando degli squarci sulla tela. Altro limite dei fedeli a oltranza all’originale sta nel loro anacronismo: la ricostruzione
«dov’era com’era» non riflette le
esigenze e i gusti del proprio tempo.
In che misura, mi chiedo, ed è
qui il vero contenzioso, conciliare la fedeltà al ricordo e all’identità di una città storica come Venezia con la capacità di innovare
in maniera creativa ed esteticamente accettabile? Mi risulta che
Aldo Rossi, autore del progetto
per la ricostruzione della Fenice,
abbia rifiutato il concetto di copia, ma abbia voluto riprendere
l’immagine del teatro originale.
Qual è però la distanza di tale immagine dalla copia?
Gli esperti di restauro parlano
di architettura stratificata quando gli interventi non sono così radicali come nel caso della Fenice.
La mia opinione è che in una ricostruzione l’ideale sarebbe
mettere insieme gli elementi di
continuità storica con una innovazione che sia evidente e creativa., che porti il segno della discontinuità, del trauma subito.
Occorre, entro certi limiti, accettare la storia con i suoi irreparabili eventi: è insensato immaginare di fermare il tempo riportando una cosa che è stata cancellata per incuria o per dolo al
suo immutato e antico splendore. Le ferite devono lasciare la loro cicatrice: anche le opere d’arte
devono portare i segni della storia, devono inglobare le cesure, le
discontinuità, inserirle nella
continuità. Perché è nella differenza, nell’elemento innovativo
che sporge rispetto all’originale
distrutto che si mantiene la memoria viva di una comunità.
42 LA REPUBBLICA
MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003
1789
Si dà il via alla edificazione
de La Fenice. Il progetto è
di Giannantonio Selva,
gli ornamenti di
Francesco Fontanesi
LE TAPPE
PRINCIPALI
1807
La Fenice assume la
funzione di teatro di Stato.
Per accogliere Napoleone
viene costruita una loggia
provvisoria
1828
Ancora all’opera l’ornatista
Giuseppe Borsato, fedele
al gusto neoclassico
Elemento cardine è
il grande lampadario
1836
Un incendio distrugge La
Fenice. Il fuoco, provocato
da una stufa austriaca,
dura tre giorni. Nel 1837
la ricostruzione
UNO SCRITTORE RACCONTA IL PAZIENTE E QUASI MANIACALE RECUPERO DELLA SALA E DELLE DECORAZIONI
(segue dalla prima pagina)
agari per un attimo ti puoi
sognare di chiamare un
architetto giapponese e
farti costruire qualcosa di avveniristico su un’isola artificiale in
mezzo alla laguna. Ma poi è abbastanza ovvio che lasci perdere e
cerchi solo di non fare troppi guasti. E la soluzione più logica è effettivamente rimettere tutto a posto
come prima. Ha tutta l’aria di essere una soluzione di puro buon
senso: mi ha affascinato scoprire
come, invece, sia il lieto ingresso in
una follia. Provo a spiegare.
Cosa davvero significhi
«Com’era, dov’era», l’ho capito solo quando mi hanno
invitato a fare un giro nel cantiere della
ricostruzione. Il
teatro riapre il 14 dicembre, quindi lì
dentro erano al rettilineo finale. Muri,
impianti, perfino i
colori, erano già a
posto. Stavano dandosi da fare sulle decorazioni. Sorvolo
sull’emozione di
rientrare in quella
sala come se nel
frattempo non fosse
successo nulla: strano loop dell’anima.
E invece non sorvolo sul fatto che a un
certo punto mi son
trovato in una sala
di quelle tipo foyer,
quelle in cui poi tu
passi distrattamente con un bicchiere
in mano, durante
l’intervallo, cercando uno specchio per
controllare se la cravatta ti è andata di
traverso. Lì trovo
due artigiani al lavoro. Stanno facendo le decorazioni di
stucco, sulle pareti.
Ghirigori e animali.
Uccelli, per la precisione. Li stanno rifacendo: com’erano, dov’erano. Voglio dire che se avevano il becco verso sinistra lo rifanno con il becco a sinistra. Se la
zampa era un po’ sollevata, fanno
la zampa sollevata. È importante
chiarire che, stando alla realtà dei
fatti, uno può andare a teatro per
anni, in quel teatro, e quegli uccelli non li vedrà mai: non si accorge
che esistono, sono decorazioni
che non ti entrano mai nella retina
e nella memoria. A meno che qualcuno non ti prenda il cranio e te lo
spacchi sbattendolo proprio contro quegli uccelli, tu gli uccelli non
li vedrai mai. Ma loro li rifanno
uguali. Com’erano, dov’erano.
Naturalmente finisci per chiederti come lo sanno, dov’erano e
com’erano. Fotografie. Solo che, è
ovvio, nessuno si era mai preso la
briga di fotografare proprio gli uccelli, sarebbe stato come fare un ritratto a Marylin Monroe fotografandole un’unghia dei piedi laccata. Quindi le foto, quando va bene,
riportano l’intera stanza, e tu, con
la lente vai a cercare se quell’uccello, là, in quell’angolo, ha la
zampa su o giù. E se la foto non c’è?
Chiedere a chi era passato da lì è
inutile. Uccelli? Quali uccelli? Allora puoi leggere ciò che l’incendio ha lasciato: un’ombra, un rimasuglio annerito, una scheggia.
Quella mattina, quando son finito
in quella stanza, lo stuccatore capo (un genio, nel suo) aveva appena finito di leggere detriti del genere, riuscendo a dedurre, da un’ombra lasciata dalle fiamme, che gli
uccelli di quel pannello erano falchi, deduzione fatta a partire dalle
dimensioni delle zampe, zampe
robuste, da rapace. Non c’è foto, il
fuoco s’è mangiato tutto, ma lui
adesso è lì che fa un becco da falco,
com’era e dov’era, perché un’ombra di una zampa gli ha svelato il
segreto.
Allora uno sarà portato a credere che quegli uccelli abbiano, in
qualche modo, un valore artistico
unico, che va salvato. Posso dire in
tutta tranquillità che non è così. In
sè e per sè quegli uccelli hanno il
valore artistico degli inserti in radica che trovate sui cruscotti delle
macchine. Decorazioni. E nemmeno geniali, o rivoluzionarie o in
qualsiasi modo significative. Volete sapere tutta la verità? Gli uccelli
bruciati con la Fenice erano già, a
loro volta, delle copie. E’ una storia
assurda, ma è vera. L’ultima volta
che ricostruirono la Fenice, nel
M
I LIBRI
JEAN
BAUDRILLARD
Lo scambio
simbolico
e la morte
Feltrinelli
1984
La sparizione
dell’arte
Giancarlo
Politi
editore
1988
L’altro
visto da sé
edizioni
Costa
Nolan
1987
PLATONE
Il Sofista,
Tutte le
Opere,
Sansoni,
1988
Il politico,
Tutte le
Opere
Sansoni
1988
Platone, La
Repubblica
Tutte le
Opere
1988
WALTER
BENJAMIN
L’opera
d’arte
nell’epoca
della sua
riproducibilità tecnica
Einaudi
1966
GILLES
DELEUZE
Differenza e
ripetizione
Raffaello
Cortina
editore
1977
LACAN
Lo stadio
dello
specchio
come
formazione
della
funzione
dell’io
in Scritti
Einaudi
1974
OTTO
RANK
Il doppio
Sugarco
1979
UMBERTO
ECO
Sugli specchi
e altri saggi
Bompiani
1985
STORIA DI UN TEATRO
CHE VISSE DUE VOLTE
ALESSANDRO BARICCO
1854, dopo l’ennesimo incendio,
l’idea che ebbero fu di costruire un
teatro settecentesco, cento anni
dopo. Una cosa da Las Vegas. Presero un teatro settecentesco e lo
copiarono. Per cui, a voler essere
precisi, quella mattina, quell’artigiano, sotto i miei occhi, stava facendo la copia di un uccello che
era una scopiazzatura di un uccello che, lui sì, era un originale, almeno 200 anni fa. E’ lì che ho sentito arrivare il profumo di follia.
Quando mi son reso conto che
più o meno la stessa storia degli
uccelli valeva per le lampade, per
le pitture, per gli specchi, per i pavimenti e per tutto, ho capito che
stavo girando non in un teatro, ma
in un racconto di Borges. Con cura
maniacale, alcuni geniali umani
spendevano un numero di ore
spaventoso usando un sapere tecnico affinato per secoli, con l’unico scopo di raggiungere un obbiettivo apparentemente folle. Ce n’era abbastanza per indagare. Ed è lì
che son finito al reparto dorature.
La cose stanno così: se volete
dorare qualcosa potete immergerlo in un bagno d’oro ed è quello che fanno a Las Vegas. Oppure
volete farlo esattamente come lo
facevano nel 1854: e allora quel
che usate sono impalpabili fogli
d’oro grandi come sottobirra: uno
ad uno, per ore, li lasciate cadere
sulla superficie che volete dorare.
Provate a immaginare di dorare
così la vostra vasca da bagno: un’eternità. Beh: quelli hanno dorato
la Fenice. Allora ho pensato che
quel gesto era davvero un gesto
che volevo gustarmi tutto, dall’inizio alla fine. E ho chiesto: ma chi fa
questi fogli d’oro? Una settimana
dopo ero da Giusto Manetti.
Giusto Manetti non c’è più ma
era uno che nel 1820 si mise a fare
oro in foglia. A Firenze. Dopo cinque generazioni sono ancora lì,
con lo stesso cognome e un sapere
affinato nel tempo fino alla perfezione. Praticamente se il gioco è
quello di ridurre un lingotto d’oro
a un fogliettino leggero come una
zanzara, loro in quel gioco sono i
migliori del pianeta. C’è un tedesco che non se la cava male, ma insomma, i migliori sono loro. Sono
andato nei loro laboratori perché
nelle miniere d’oro non sono riuscito ad andare: ma l’idea era di ricostruire una follia dall’inizio alla
LA BIBBIA
Poi Iddio disse: “Facciamo
l’uomo a nostra immagine,
secondo la nostra somiglianza:
domini su gli animali e su tutta
la terra”. Così Iddio creò
l’uomo a sua immagine
Dal libro
della Genesi
WALTER BENJAMIN
Il bisogno di avvicinare le cose
a se stessi, o meglio alle
masse, è intenso quanto quello
di superare l’irripetibile e
unico, in ogni situazione,
mediante la sua riproduzione
“L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità”
fine. Come un viaggio. Pronti a
partire? Dunque: la miniera purtroppo dovete solo immaginarvela. ma immaginatevela (Russia o
Sudafrica). Poi trasferitevi dai Manetti, Firenze, Italy. Crogiuolo con
dentro, a friggere, una lega di oro
argento e rame: le proporzioni sono, ovviamente, risultato di decenni di esperimenti. Idem per i
tempi di fusione e perfino per il
tempo che ci deve mettere l’uomo
a versare l’oro fuso nello stampo
che lo aspetta. Versare. Raffreddare. Sfrigolio. Lingottino, spesso un
centimetro, grande come una tavoletta di cioccolato. Lo fanno
passare sotto un rullo. Il lingotto
passa, una volta, due, dieci, e ogni
volta perde un nulla in spessore e
guadagna in lunghezza. Alla fine
avete una striscia d’oro lunga metri e spessa come una carta di credito. La tagliano in tanti quadratini. Poi prendono ogni quadratino
e iniziano a martellarlo: cinque
colpi e poi lo giri, altri cinque colpi
e poi lo giri, e via così. Adesso lo fa
una macchina, ma quelli che la
fanno funzionare sono gli stessi
che ancora pochi anni fa lo facevano a mano. Cinque colpi e giri, cin-
que colpi e giri, e così via. Ci vuole
una pazienza bestiale, ma alla fine
il quadratino diventa un quadrato
grosso come un sottobirra. Soprattutto: è sottile come un nulla.
Allora li controllano uno ad uno, li
rifilano, buttano quelli venuti
male, e quelli
buoni li portano
in una stanza
dove quattro signore li prendono uno ad uno,
con una pinza di
legno, e li stendono su un foglietto di carta:
sono così sottili
che per distenderli bene le
donne ci soffiano su: li toccassero con le mani
rovinerebbero
tutto. L’ultima
signora confeziona i «libretti»,
cioè 25 fogli d’oro rilegati insieme.
Sulla carta del pacchetto ci sono le
solite medaglie da Esposizione
Universale. E, scritto grande: Giusto Manetti, Firenze. Tempo pas-
Quella che è andata a
fuoco era una delle
quattro, cinque sale più
importanti del pianeta
Ho visto due artigiani
rifare con lo stucco gli
uccelli uguali, così
com’erano e dov’erano
MERCOLEDÌ 22 OTTOBRE 2003
LA REPUBBLICA 43
1854
A Giambattista Meduna
è affidata una nuova
decorazione
Per il restauro successivo
bisogna aspettare il 1937
Le cose, gli arredi,
i quadri sono muti
traghettatori tra noi
e il nostro passato
Una volta bruciati,
quell’aura è persa per
sempre e rifarli non
salva proprio niente
Al centro, i due incendi
che hanno distrutto il
teatro nel 1836 e nel 1996
sato per convertire un lingotto in
un foglietto: 10 ore, più 183 anni a
fare la stessa cosa fino a non sbagliare più.
Treno. Traghetto. Venezia. Fenice. State seguendo? Gente che
ha studiato per anni quel gesto
prende il libretto di fogli d’oro, lo
apre, prende un foglietto, lo appoggia su un cuscino di pelle scamosciata, lo taglia in quadratini
grandi come francobolli, li solleva
con un pennello speciale e finalmente li applica ai mancorrenti di
una ringhiera, dorandola. Guardate la ringhiera. Luccicante d’oro. Ecco, appunto: troppo luccicante. E’ chiaro che non luccicava
così una doratura che aveva 150
anni, quel giorno prima di bruciare non luccicava così. «Com’era e
dov’era»: quindi la opacizzano. A
mano, con un’arte umile e sublime, raschiano via l’oro in alcuni
punti, facendo venir fuori il bolo
che c’è sotto, un collante rossastro. Poi spennellano altre colle
che tolgono ulteriormente il luccichio. E allora, solo allora, dopo tutto questo viaggio, dopo il lavoro di
tutti quegli occhi e mani e memorie, dopo tutto quel sapere salvato
dall’oblio di un mondo a cui non
serve più, allora, finalmente, avete
ottenuto quello che volevate: un
pezzo di ringhiera «com’era e
dov’era».
Mi spiace di averla fatta lunga,
ma era necessario. Non basta
guardare la ringhiere e pensare
«Eh, chissà quanto tempo ci sarà
voluto...» No. Bisogna ricostruire
esattamente tutto quel tempo, e
quel sapere, e quel gesto, per capire, davvero, cosa sta succedendo
là dentro. Bisogna capire la ringhiera e poi, anche se è spaventoso, immaginare lo stesso processo
per le lampade, i tessuti delle tappezzerie, i mosaici del pavimento,
quelle due statuette là, i disegni del
soffitto, gli uccelli di gesso, e via
così, di decorazione in decorazione. Vertiginoso, no? Sommate tutto, e adesso sentite qui: quello è solo lo scrigno, i gioielli sono un’altra
cosa. Tutto quell’immane lavoro è
stato fatto solo per rendere elegante lo scrigno: i gioielli sono la
musica, il canto, il suono degli
strumenti: l’Opera. Gli uccelli di
gesso sono l’unghia laccata di
Marylin Monroe, e le dorature sono il la tazzina che aspetta il caffè,
e i mosaici per terra sono le calze a
rete che quella donna si toglierà
quando vi amerà. Decorazioni, orpelli, belletti. Ma quando avete finito di farli, non è ancora successo
niente. In certo senso avete prodotto il niente.
Bella follìa, no? Non è Borges?
Dopodiché ognuno può pensare cosa vuole. E decidere se tutto
ciò è una follia o una cosa sublime.
Posso dire cosa ne penso io? Quel
che penso è che l’unico valore che
avevano quegli uccelli e quelle ringhiere, prima di bruciare, era di essere là da un sacco di tempo. Ciò
per cui erano preziosi erano i passi che li avevano sfiorati, le mani
che vi si erano appoggiate, i suoni
che ci erano scivolati sopra. Gli
sguardi che non li avevano visti:
perché in loro era impresso un
mondo che non esiste più. Il loro
valore era essere muti traghettatori tra noi e tutto quel passato, quel
nostro passato. Una volta bruciati,
quell’aura è persa per sempre. Capisco il dolore e l’istintiva reazione: ma rifarli non salva niente. E’
una cosa persa, e basta.
Detto questo, ho visto qualcosa,
in quel cantiere, che mi ha fatto
PLATONE
Il creatore d’immagini,
l’imitatore, diciamo, non si
intende punto della realtà, ma solo
dell’apparenza… L’imitatore non
ha se non una coscienza
superficiale di ciò che imita
Da
“La Repubblica”
PIERRE KLOSSOWSKI
“A noi i simulacri! Dobbiamo
essere gli impostori che
abbelliscono l’umanità!”. Secondo
Nietzsche la mistificazione non è il
procedimento del potentato, essa è
il fondo dell’esistenza…
Da “Nietzsche
e il circolo vizioso”
1996
La notte del 29 gennaio La
Fenice viene distrutta da
un secondo incendio
Venezia perde uno
dei suoi simboli
pensare. Mi è venuto in mente
Valéry. Lui aveva una sorta di lancinante nostalgia per il mondo artigiano. Diceva che nel» paziente
operare» degli artigiani ritrovava
la prodezza di cui era capace la natura quando produceva una perla,
o un frutto: «opera preziosa di una
lunga serie di cause l’una simile all’altra». E già ai suoi tempi, poteva
dire:»L’uomo odierno non coltiva
più ciò che non si può semplificare o abbreviare. Tutte quelle produzioni di una fatica industriosa e
tenace sono scomparse, ed è finito
il tempo in cui il tempo non contava». Ecco. In quel cantiere, mentre
vedevo quelli là, assurdi, che passavano giornate a dorare — dio
mio, dorare — l’impressione che
ho avuto era che non
stessero salvando
delle decorazioni ma
un modo di pensare
il mondo. Stavano
restaurando un tempo in cui il tempo
non contava. In cui
l’adeguazione dei
mezzi ai fini era una
volgarità. In cui l’ottimizzazione di un
sistema produttivo
era una nevrosi inutile e inelegante.
Un’altro mondo, se
capite cosa voglio dire. L’unico mondo in
cui puoi pensare di
spendere giorni a fare un falco che nessuno, mai vedrà.
Avete presente le decorazioni in punta
alle guglie di un duomo gotico? Cose per
gli occhi di dio.
E ho pensato che
tutto sommato perfino la musica che daranno là dentro, non
è poi molto differente dagli uccelli e dalle
ringhiere. Pensate al
tempo che c’è dietro
a cinque minuti di
Traviata. Quello che
ha scelto il legno per
gli strumenti, i macchinisti che manovrano le scene, quello che ha copiato la
partitura di Verdi,
quello che fa il suggeritore, quello
che da sette generazioni fa costumi, e Violetta, naturalmente, e nella sua voce la sua maestra e la maestra della sua maestra, e così via,
indietro per secoli. Che immane
quantità di tempo, e sapere, e pazienza. Artigianato. La follia dell’artigianato. Così che quel teatro
alla fine mi sembra un unico, compatto, meravigliosamente coerente ecosistema che, senza alcun pudore, ripropone una logica che
non esiste più. E’ come un parco
naturale, come l’ultima tana di
una razza estinta.
Che piaccia o no, noi stiamo a
mollo in una civiltà che ha fatto
dell’adeguazione dei mezzi ai fini
il proprio idolo. La nostra religione
è attuare sistemi in cui ogni parte
scarica energia nel prodotto finale, senza perdere per strada niente. Pensate alla catena di montaggio, simbolo vecchiotto ma pur
sempre esatto: nulla va sprecato,
nè uomini nè cose, nè gesti nè bulloni, nè tempo nè spazio. La follia
della Fenice — come tante altre,
per carità — sembra stare lì a ricordare che c’era anche un’altra possibilità, decaduta, ma un tempo
reale. Sistemi che impiegano
un’enormità di energia e tempo
per produrre risultati sorprendentemente piccoli. Anni per fare una
ringhiera. Sistemi che fanno acqua da tutte le parti, che perdono
energia per strada, e che arrivano
al momento buono completamente scarichi. Follie, secondo la
nostra logica attuale. Ma se ci pensi: erano sistemi che sprigionavano il Senso ai lati e non all’arrivo.
Se ricostruisci la storia della ringhiera capisci che la ringhiera è
davvero poco, ma il mondo che
per strada si è prodotto dal gesto
che la faceva, è immenso. Lo vedete il modello di sviluppo diverso? Il
tubo che perde porta poca acqua
al rubinetto, ma innaffia tutto intorno, e lì nascono fiori, e bellezza,
o grano, e vita.
Scusate la predica. Ma volevo
cercare di spiegare. Per dire che
quando entrerete là dentro, prima
o poi, girate per bene e quando trovate gli uccelli di gesso, sul muro,
fermatevi e guardateli. Non sono lì
per farsi guardare, in verità, sono lì
per non essere visti, ma voi guardateli lo stesso. Sono una follìa. E
sono quel che resta di ciò che non
siamo più.
2003
Sarà Riccardo Muti,
domenica 14 dicembre,
a inaugurare il nuovo
teatro con l’orchestra e
il coro della Fenice
MARIO BOTTA
Quando si copia
la cultura è debole
«Ricostruire un teatro o un edificio com’era e dov’era è il segno di una società debole e fragile, che non sa fare di meglio.
Quando una comunità ha una grande forza, dei valori da proporre, non si rifugia nel
passato. Forse questa è, come diceva Massimo Cacciari, l’arte del possibile. Oggi
quel che passa il convento è questo, la ricostruzione del dov’era e com’era. Insomma un falso. A livello personale però ritengo che la nostra società meritasse
qualcosa di meglio. Portare una
testimonianza positiva del nostro
tempo è ancora
possibile, è possibile trovare dei valori che non siano
riconducibili solo
al passato. Il tema
veneziano era particolarmente delicato perché l’incendio ha lasciato
un vuoto nel centro
storico. Nel passato ogni ricostruzione ha portato la
sensibilità, la tecnologia, del proprio tempo. Certo,
piuttosto che far
male è meglio così. Al di là delle questioni
contingenti però risulta ben chiaro il momento di fragilità della nostra cultura. Se
fosse forte perché non dovrebbe costruire
con la propria sensibilità e il proprio linguaggio? Per l’architetto è una sconfitta.
La forza della Vecchia Europa è infatti la
stratificazione. La nostra è una cultura
ben diversa da quella orientale, che ricostruisce in copia, o da quella americana,
che azzera. Anch’io sto lavorando in un
teatro ma la Scala ha una storia ben diversa: è soggetta a un restauro conservativo.
La parte nuova era già stata trasformata
dopo la Seconda guerra mondiale e il nuovo nasce dall’abbattimento del cemento
armato. Non è come a Venezia».
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In ogni epoca
si è costruito
secondo
la sensibilità
del tempo
PIER LUIGI CERVELLATI
“Niente moderno
nei centri storici”
ono contrario all’intervento
dell’architettura moderna
dentro un centro storico. Il
nuovo non può inserirsi nell’antico, che
ha una sua identità definita, mentre invece dovrebbe esercitarsi fuori dei contesti storici, risanando le zone periferiche e le sue slabbrature. Preferisco il falso storico, se praticato con criteri filologici, con materiali e modi corretti: è
opera di restauro, è ripristino, è restituzione di qualcosa che si è perduto. Ed è
sempre meglio, se fatto bene, che rassegnarsi alla scomparsa definitiva di
un edificio. Di
aver compiuto un
falso, un fac-simile, fummo accusati da Bruno Zevi
nei primi anni
Settanta, quando
a Bologna risanammo una parte
del centro storico,
adottando i criteri
fissati da Saverio
Muratori, usando
i mattoni e il legno
e salvaguardando
le tipologie edilizie che preesistevano. Ad avviso di
Zevi l’intervento
moderno nel contesto storico deve
apparire e dev’essere volutamente dissonante.
Abbiamo molti esempi di fallimentari interventi moderni nei centri storici.
Il più criticato è, ovviamente, via della
Conciliazione a Roma, che ha dissestato il disegno urbanistico berniniano.
Anche Bernini intervenne sulle preesistenze edilizie per il colonnato: ma tanto intelligente e inventivo fu il suo progetto, quanto dissennato quello di Marcello Piacentini. Come dissennate sono
tantissime altre manipolazioni compiute in Italia negli anni Cinquanta e
Sessanta».
«S
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,,
Preferisco il
falso se praticato
filologicamente
e con materiali
corretti
I FILM
LA DONNA
CHE VISSE
DUE VOLTE
Un poliziotto
sofferente di
vertigini,
viene
incaricato di
sorvegliare la
moglie
di un amico
con tendenze
suicide:
lei si
uccide
ma lui ne
incontra una
troppo simile
alla
scomparsa.
Regia di Alfred
Hitchcock
1958
FACE OFF
Un agente,
con un
intervento
chirurgico,
assume le
sembianze di
un assassino
che, al
contempo,
prende, grazie
ad un’altra
operazione, i
suoi connotati.
Regia di John
Woo, 1997
DOPPIA
PERSONALITA’
Lo psicologo
Carter ha una
personalità
dissociata
frutto degli
esperimenti a
cui lo ha
sottoposto il
padre
quand’era
piccolo.
Regia di Brian
De Palma,
1992
QUELL’OSCURO
OGGETTO DEL
DESIDERIO
Lo
sdoppiamento
del
personaggio
femminile:
una
diciottenne
reticente
e una
spogliarellista
che però
sono
un’unica
figura.
Regia
di Luis Buñuel,
1977
Fondatore Eugenio Scalfari
ALVOHXEBbahaajA CRDFDEDQDG
Anno 28 - Numero 249
31022
9 770390 107009
Direttore Ezio Mauro
€ 0,90 in Italia (con “Il partigiano Johnny” € 5,80)
SEDE: 00185 ROMA, Piazza Indipendenza 11/b, tel. 06/49821, Fax
06/49822923. Spedizione abbonamento postale, articolo 2, comma 20/b,
legge 662/96 - Roma.
PREZZI DI VENDITA ALL’ESTERO: Austria € 1,85; Belgio € 1,85; Canada $ 1;
Danimarca Kr. 15; Egitto Pt. 700; Finlandia € 2,00; Francia € 1,85; Germania
€ 1,85; Grecia € 1,60; Irlanda € 2,00; Lussemburgo € 1,85; Malta Cents 50;
Monaco P. € 1,85; Norvegia Kr. 16; Olanda € 1,85; Portogallo € 1,20 (Isole
mercoledì 22 ottobre 2003
€ 1,40); Regno Unito Lst. 1,30; Rep. Ceca Kc 56; Slovenia Sit. 280; Spagna
€ 1,20 (Canarie € 1,40); Svezia Kr. 15; Svizzera Fr. 2,80; Svizzera Tic. Fr. 2,5
(con il Venerdì Fr. 2,80); Ungheria Ft. 300; U.S.A $ 1. Concessionaria
di pubblicità: A. MANZONI & C. Milano - via Nervesa 21, tel. 02/574941
INTERNET
www.repubblica.it
A B
Ancora un naufragio al largo della Tunisia, sei morti. Maroni: “Nuova strategia sui clandestini”. Prodi: servono quote comuni decise dalla Ue
DIARIO
Immigrati,allarmedallaLibia
La Fenice
che risorge
copiando
se stessa
Centinaia pronti a venire in Italia. Ciampi: dobbiamo fare di più
Scontro nel governo sulla Finanziaria
Tremonti
non convince
la maggioranza
ROMA — Sono centinaia, forse migliaia, i clandestini
pronti a rischiare la vita sulle
carrette del mare per raggiungere le coste italiane. Sono in
attesa del loro turno in una località della Libia, agli ordini
dei boss che gestiscono il
racket degli esseri umani. È
quanto emerge dai racconti
dei sopravvissuti dell’ultima
tragedia del mare, la morte di
un centinaio di nordafricani,
periti durante il viaggio dalle
coste libiche all’Italia. Ieri una
nuova tragedia. Una barca
con a bordo una trentina di
clandestini è affondata al largo delle coste tunisine, e sono
già sei i morti e 22 i dispersi,
mentre a Lampedusa c’è stato
un nuovo sbarco di 17 nordafricani. Il presidente della Repubblica chiede: «L’Italia e
l’Europa devono fare di più».
Il ministro Maroni annuncia
una «nuova strategia sui clandestini», mentre il presidente
della Commissione europea
Prodi dichiara: «Servono quote comuni decise dalla Ue».
ALLE PAGINE 2, 3 e 4
L’INTERVISTA
Il ministro degli Esteri Frattini: accordo di alto livello sulla Costituzione
“Europa, ci giochiamo tutto”
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Vogliamo
una vera intesa
non un compromesso
a qualsiasi costo
La Difesa comune
quando necessario
sarà autonoma
dalla Nato
Puntiamo molto
sull’estensione
del voto
a maggioranza
Gli Usa dovrebbero
sentirsi rassicurati
E per novembre
ho invitato Powell
,,
,,
ANDREA BONANNI
A PAGINA 7
Franco
Frattini
La Procura di Milano chiude il fascicolo sulle operazioni antidroga: peculato, abuso e spaccio
“AssociazionecriminalenelRos”
Giulio Tremonti
ROMA — La Finanziaria avanza nel
caos: la Casa delle libertà non ritira gli
oltre mille emendamenti presentati e
va al braccio di ferro con il ministro
Tremonti, con il quale apre un nuovo
fronte di scontro sulla Cassa Depositi e
Prestiti. Si fa strada l’ipotesi di un maxiemendamento (che prevedrebbe un
condono edilizio più severo) e del ricorso alla fiducia per sbloccare l’impasse. An intanto alza il tiro e studia un
depotenziamento del ministero. Anche sulle pensioni nessuna schiarita:
infuria la polemica dopo la decisione
della Rai di non prevedere finestre
informative sullo sciopero di venerdì.
JERKOV e PETRINI
ALLE PAGINE 8 e 9
Sotto inchiesta il comandante e altri venti ufficiali
Rutelli: subito mozione unitaria. Ma Fassino dice no
Sull’Iraq e Prodi
lite Ds-Margherita
Lettera al ministro Pisanu
Giovanardi: “La Fiom
ricatta le imprese”
DE GENNARO A PAGINA 9
Fassino e Rutelli
DE MARCHIS A PAGINA 10
Paralisi per i tagli ai bilanci. A Venezia niente fotocopie, problemi anche a Milano e a Bari
Finiti i soldi dei tribunali
Champions: pesante 3-0 a Mosca
la Juve batte la Real Sociedad
Il dopo Cuper
dell’Inter
comincia
con una disfatta
CROSETTI, GAMBA e PIVA
ALLE PAGINE 51 e 52
MILANO – Non ci sono più soldi
per i tribunali e la giustizia rischia la paralisi. A Venezia non
si faranno più le fotocopie, ma
l’emergenza si allarga anche altrove. A mettere in ginocchio i
tribunali sono i tagli ai bilanci.
Meno soldi, e di conseguenza
forti ripercussioni sul funzionamento quotidiano della giustizia. La situazione è critica
per le spese di cancelleria. I fornitori non fanno credito al ministero e in molti casi sono già
state prese decisioni dolorose:
a Venezia è finita la scorta di
carta per le fotocopie per il
2003. A Bari è stato sospesa la
stenotipia.
A PAGINA 29
ALESSANDRO BARICCO
CARLO BONINI
MILANO – Questa è una storia nera
di cui la Procura della Repubblica
di Milano è venuta a capo dopo sette anni di indagini cui pochi desideravano mettere mano e che Repubblica è in grado di documentare. È la storia di un’associazione
per delinquere che ha vestito e veste la divisa del Raggruppamento
operativo speciale dell’Arma dei
carabinieri. Di venti manovali in
divisa, agli ordini di un ufficiale
che, oggi, del Ros è il comandante.
Il generale Giampaolo Ganzer. Dal
1991 al 1997, le routine operative
della sezione antidroga del reparto
investigativo di eccellenza dei carabinieri sono state declinate in un
grumo di abusi, malaffare, illecito
arricchimento personale, peculati,
provocazioni, istigazioni, ricatti.
SEGUE A PAGINA 14
Dopo la rivelazione
dell’avvocato di Previti
Sme, Castelli:
“Imbarazzato
dall’annuncio
dell’indagine
sui due pm”
FEDRIZZI e MILELLA
A PAGINA 11
TAHAR BEN JELLOUN
AMORI STREGATI
Una stampa della Fenice
VREI da raccontare una
follia. Non che ne manchino, di follie, di questi
tempi. Ma questa ha una sua eleganza impareggiabile e inoltre
sembra più istruttiva di altre. Se
il mondo ammattisce, che almeno lo faccia con charme e in modo utile.
Dunque. Com’è noto, il 29
gennaio del 1996 il teatro La Fenice, a Venezia, se ne sparì ingoiato da un incendio colossale.
Fu un brutto colpo. Per chi ama
l’Opera quella era una delle
quattro, cinque sale più importanti del pianeta. E se ne era bruciata via come un cerino. Adesso
sappiamo che fu un incendio
doloso. La ditta di elettricisti che
stava lavorando al nuovo sistema antincendio (pensa te) provocò l’incidente perché non era
in grado di finire il lavoro entro
una certa data e quello era un
modo di rinviare la faccenda
senza pagare una penale che li
avrebbe rovinati. Va detto che
probabilmente si immaginavano qualcosa di più piccolo, un incendietto circoscritto, una fiammatina. Gli andò male. Nessuno
riuscì a fermarlo, e il teatro se ne
andò in fumo, letteralmente.
A Venezia reagirono con compostezza. «Dov’era, com’era»,
decretarono, dando per scontato che dal giorno dopo si sarebbero messi lì a ricostruire.
«Dov’era, com’era» era uno slogan inventato anni prima in una
circostanza analoga: nel 1902
era collassato il campanile di San
Marco (senza l’aiuto di elettricisti, aveva fatto tutto da sé: non ne
poteva più) e si era aperto un dibattito su che fare. Risultato: ricostruirlo identico a prima e nello stesso posto. In quel caso, come d’altronde anche in quello
della Fenice, la cosa sapeva di
buon senso, e di veneto pragmatismo.
SEGUE A PAGINA 42
SERVIZI A PAGINA 41, 42 e 43
A
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