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FRANCIS POULENC
DIALOGUES DES CARMÉLITES
RICCARDO MUTI
TEATRO ALLA SCALA
www.musicom.it
DIALOGUES DES CARMÉLITES
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1957, DA MILANO A PARIGI
IL PANORAMA CULTURALE FRANCESE AL TEMPO DELLA COMPOSIZIONE DE LES DIALOGUES DES CARMÉLITES,
CON UN ACCENNO ALLA CULTURA MUSICALE MILANESE.
Mario Marcarini
1. Milano accoglie il nuovo in musica e Poulenc.
Il 26 gennaio del 1957, quando il pubblico del Teatro alla Scala ebbe l’occasione di assistere alla prima
rappresentazione assoluta de Les Dialogues des Carmélites avvertì subito la sensazione (come si evince
dall’ampia eco della stampa coeva) di trovarsi di fronte ad un capo d’opera totalmente estraneo alla
cultura italiana, un lavoro che – a discapito della traduzione nel nostro idioma che fatalmente moderava
l’impatto prorompente e drammatico del testo di Bernanos – si connotava immediatamente come il
prodotto originale di una personalità forte, capace di filtrare attraverso la propria estetica un modo di
operare saldamente radicato nel profondo solco della temperie culturale francese. In effetti Francis
Poulenc metteva in scena uno spettacolo inconsueto per il melomane italiano, nutrito da una nobile
tradizione che, prendendo piede dall’ultimo Verdi di Otello e Falstaff per passare al Puccini di Turandot
fino a Pietro Mascagni, Ottorino Respighi, Alfredo Catalani e Francesco Cilea aveva vissuto e viveva in una
situazione di continuità con l’Ottocento. Fatte salve alcune eccezioni la situazione aveva generato una
sorta di volontaria e splendida chiusura (sebbene non del tutto ermetica) nei confronti delle altre scuole
nazionali, a discapito soprattutto della musica sinfonica e cameristica.
2. Milano ricostruisce (anche la cultura musicale italiana).
La Milano musicale della Prima metà del Novecento a onor del vero si mostrava pronta a recepire le novità
provenienti in primo luogo dall’area di lingua tedesca, ma d’altro canto teneva ben alto il vessillo
nazionale facendosi promotrice della messa in scena di alcuni dei titoli più importanti nel panorama
operistico mondiale, auspice la fervente attività che aveva nel Conservatorio, nel Teatro alla Scala e nella
Casa Ricordi la punta di diamante di un sistema produttivo ottimale fatto di numerosi teatri e di luoghi
deputati all’esecuzione musicale quali il Teatro Lirico, il Carcano, il Dal Verme, la Scala, la Piccola Scala,
il Puccini e numerose altre oggi distrutte, inagibili o semplicemente trasformate in sale cinematografiche
o in grandi magazzini. La scelta era quindi consapevole, ed era il frutto naturale di un patto tacito
stipulato da secoli nei confronti dello spettatore. Il meccanismo delicato e fragile su cui si basa il
melodramma (compositore – messa in scena – pubblico) era in buona sostanza mantenuto (diversamente
accadeva nel resto d’Europa) anche dopo il Secondo conflitto mondiale, ed anzi rappresentò proprio uno
dei simboli della rinascita culturale e morale non solo milanese ma dell’intera Italia, che idealmente si
riunì attorno alla Scala ricostruita ed al direttore italiano per antonomasia (Arturo Toscanini) nel
celeberrimo concerto dell’ 11 maggio 1946 trasmesso dalla radio e di cui oggi, proprio grazie all’apporto
mediatico, si conserva la preziosa testimonianza sonora. La composizione e l’allestimento di melodrammi
nel dopoguerra trovano nel mezzo radiofonico, nella già florida industria discografica e nella neonata
televisione potenti e nuovi alleati che riescono a mantenere vivo l’affetto per un tipo di cultura che
sapeva e voleva raggiungere vaste fasce di pubblico: si registrano opere complete, fruibili su long playing
sempre più godibili grazie all’avvento della stereofonia, come l’Aida incisa da Renata Tebaldi ed Herbert
von Karajan per la Decca (1957), ed appaiono i primi film operistici, come il Barbiere di Siviglia girato per
la Rai con la direzione di Carlo Maria Giulini (1954). Sono gli anni Cinquanta, un periodo dorato per il
melodramma in cui i cantanti diventano divi dalla popolarità paragonabile a quella delle stelle di
Hollywood, ed in cui il Teatro alla Scala è centro di interesse non solo per le nuove produzioni, ma forse
soprattutto per le memorabili “prime” (a cui partecipa il gotha dell’imprenditoria, della moda e della
finanza) e per i conflitti – più presunti che reali – fra le divine rivali Maria Callas e Renata Tebaldi, o per le
storie d’amore di Anna Moffo, Franco Corelli e Mario del Monaco. Le nuove produzioni appositamente
concepite per il Teatro alla Scala (spesso sotto l’influenza di Casa Ricordi) abbondano ancora negli anni
Cinquanta e Sessanta. La presenza più significativa e di marca cosmopolita è quella di Ildebrando Pizzetti
(L’Oro, 1947 e Assassinio nella Cattedrale, 1958). La sua poetica viene tuttavia sottovalutata e la sua
estetica troppo all’avanguardia per i tempi attende ancora oggi di essere pienamente riabilitata. Flavio
Testi (l’autore della versione italiana dei Dialoghi delle Carmelitane) compone per la Piccola Scala
L’Albergo dei poveri (1956). Nomi oggi dimenticati sono quelli del torinese Lodovico Rocca, del cremonese
Guido Ragni, del romano Mario Peragallo, del livornese Salvatore Orlando, dell’argentino Juan Jose Castro,
dei milanesi Gino Negri, Virgilio Mortari e Felice Lattuada: tutti compositori accomunati dall’aver prodotto
uno o più titoli per il “tempio della lirica” negli anni Cinquanta, accanto a musicisti ancora oggi rinomati
ed affermati quali Goffredo Petrassi (Il Cordovano, 1959) Gianfrancesco Malipiero (L’allegra brigata,
1950), Carl Orff (Trionfo di Afrodite, 1953), Nino Rota (La notte di un nevrastenico, 1960), Darius Milhaud
(David, 1955), Giorgio Federico Ghedini (L’ipocrita felice, 1956) e Luciano Chailly (Una domanda di
matrimonio, 1957).
3. Profumo francese.
Non mancano come si vede aperture consapevoli ai nuovi linguaggi e persino alle avanguardie, ma quando
si arriva al gennaio del 1957 si avverte di trovarsi in presenza di innovazioni ben più significative.
Nell’opera di Poulenc si possono ravvisare alcuni elementi di assoluta originalità riconducibili ad
altrettanti aspetti che caratterizzano la temperie culturale francese coeva. Innanzitutto Les Dialogues des
Carmélites si qualificano – per dirla alla tedesca - come una “Literaturoper”, ossia sono un melodramma
il cui testo non è un vero e proprio libretto studiato per essere posto in musica, bensì una creazione
originale nata per fungere da copione cinematografico e divenuta dopo la morte di Bernanos un dramma in
prosa allestito centinaia di volte negli anni Cinquanta nei paesi francofoni, dove il teatro rappresentava
(con le debite differenze) ciò che il melodramma significava per l’Italia, ossia la forma d’arte e di
intrattenimento più vicina al grande pubblico prima dell’affermazione definitiva del cinema e
dell’esplosione del fenomeno televisivo. Non a caso l’antecedente più significativo di “Literaturoper” in
Europa è francese, e si deve a Claude Debussy, che già nel 1902 aveva presentato – non senza scalpore – la
sua intonazione del dramma in prosa di Maeterlink Pelléas et Mélisande (1892). Tutta francese è anche
l’aura, un taglio innegabilmente cinematografico, che fa il suo ingresso dalla porta principale del teatro
d’opera - come mai prima era accaduto – nella struttura a “quadri” e “interludi” in cui sono suddivisi i tre
atti, come inquadrature che si aprono improvvise sui protagonisti. Il clima cinematografico ricompare poi
nelle scarne indicazioni didascaliche con cui il musicista impone l’organizzazione dello spazio scenico: un
rigore spoglio che è quasi un richiamo a certa architettura della maturità di Le Corbusier. Sotto l’aspetto
musicale, nonostante l’eclettismo dell’ispirazione (Poulenc si dichiara debitore di Monteverdi, Verdi e
Moussorgsky, e in questo senso una dipendenza dallo Stravinsky parigino è innegabile) il clima che si
respira nei Dialogues è frutto innanzitutto della conoscenza e dell’assimilazione del linguaggio di Claude
Debussy, compositore per cui la “musica è per l’inesprimibile. Deve uscire dall’ombra ed essere discreta”.
Un’ulteriore legame francese è rappresentato ovviamente dal testo di Bernanos, autore che sarà fonte di
ispirazione per un’intera generazione di scrittori cattolici francesi.
Osserveremo in forma di breve rassegna le ragioni per cui nel 1957 gli aspetti presi finora in
considerazione possono essere ricondotti ad atteggiamenti peculiari della situazione francese, non
limitandoci a prendere in esame le arti figurative, il teatro, la letteratura, la stampa e la musica, ma
allargando lo sguardo – per quanto ci sarà concesso dallo spazio a nostra disposizione – al cinema, ai
media, alla moda, alla pubblicità, alle scienze ed a tutti quei fenomeni che in un mondo che inizia via via
a farsi sempre più “globale” meritano di entrare a far parte del grande contenitore denominato “Cultura”.
4. La Francia ricostruisce – Il contributo delle scienze e della ricerca.
Come un macigno pesano sulla Francia i bilanci della Seconda Guerra mondiale: i cittadini che mancano
all’appello dopo la liberazione sono seicentomila (duecentomila soldati e ben quattrocentomila civili).
Circa la metà di loro aveva trovato la morte nei campi di prigionia nazisti. Non si tratta di cifre
imponenti, se paragonate a quelle che riguardano la Germania e l’Unione Sovietica, ma il numero diviene
importante se calato nella particolare situazione di un paese che aveva conosciuto l’invasione e
l’occupazione diretta di una buona parte del territorio nazionale e le cui risorse, dopo l’armistiziocapestro firmato da Pétain in seguito all’ingresso dei tedeschi a Parigi (14 giugno 1940), erano destinate
quasi totalmente al mantenimento dell’impressionante macchina da guerra nazista. La ricostruzione è
inizialmente macchinosa, ardua soprattutto sul piano delle istituzioni: il generale De Gaulle, eroe della
resistenza e simbolo stesso della liberazione deve affrontare una situazione interna in cui l’avanzata della
sinistra si scontra con la feroce opposizione dei conservatori, ed in cui il suo stesso peso politico personale
non trova piena e completa legittimazione sia all’estero che all’interno del paese. Il suo governo
provvisorio (1945-1946) porta al potere – ed è un caso più unico che raro nel panorama moderno – anche
un uomo di cultura: il romanziere ed esteta André Malraux (eroe della resistenza conosciuto con il nome in
codice di Colonnello Berger) a cui viene affidato il dicastero delle comunicazioni. Quarta Repubblica è il
nome con cui si suole riconoscere la forma di organizzazione statale che la Francia si diede dopo la
Seconda Guerra Mondiale. Il periodo è convenzionalmente indicato a partire dal 13 ottobre 1946, quando
fu approvata la nuova costituzione. La Quarta Repubblica, orfana di De Gaulle che non condivideva la
forma di governo che la nazione si era attribuita e che quindi aveva annunciato il suo ritiro definitivo dalla
vita politica (ci sarà però un trionfale ritorno nel 1958) dovette affrontare i problemi impellenti della
ricostruzione e delle sempre più forti istanze di indipendenza dei vasti possedimenti coloniali facendo i
conti con una bassa crescita demografica e con la carenza di forza lavoro. Gli obiettivi furono perseguiti
con vigore, e non tutti raggiunti: la forma di governo parlamentare si rivelò troppo debole, come
dimostrano i ben ventidue governi che in dodici anni (1946-1958) si succedono cadono anche in pochissimi
mesi. La crescita economica decollò comunque (e grazie soprattutto agli aiuti statunitensi del “Piano
Marshall”) ma la Francia cominciò ad entrare in conflitto (anche armato) con le colonie: nel volgere di
pochi anni dovette rinunciare a tutti i possedimenti in Indovina, mentre all’orizzonte si profilava la
richiesta d'indipendenza dell'Algeria. Il periodo, che coincide con gli anni di gestazione e di composizione
de “Les Dialogues des Carmélites” da parte di Bernanos e di Poulenc, si conclude il 5 ottobre 1958, grazie
all'apporto decisivo ancora una volta di Charles de Gaulle, che –rientrato nell’agone politico dopo il
volontario esilio - difende l’approvazione di una nuova costituzione atta a trasformare la Francia in una
repubblica semipresidenziale, ponendo le basi della nazione che è arrivata fino ai nostri giorni
segnalandosi per l’impulso dato al progresso culturale e scientifico ed all’Europa unita di oggi. (In questa
“nuova” Francia André Malraux torna al governo occupando questa volta la poltrona di ministro della
Cultura). Vengono riorganizzate in un breve lasso di tempo antiche istituzioni statali culturali e di ricerca
(come l’Istituto Pasteur o la Scuola Politecnica), che forniscono un appoggio essenziale alla ricostruzione,
al miglioramento delle condizioni di vita ed al futuro sviluppo tecnologico. Dal 1948 aveva preso effettiva
consistenza il Centre National de la Ricerche scientifique, a cui segue la fondazione del Comitato per
l’energia atomica. Le università favoriscono la ricerca sui nuovi tipi di energia, ed in pochi anni la Francia
diventa la quarta potenza mondiale in fatto di energia nucleare. La medicina compie progressi notevoli, e
dal 1950 i biologi Monod e Jacob intraprendono ricerche sul Dna che per la loro importanza saranno
coronate (molti anni dopo) con uno dei numerosi premi Nobel conseguiti dai ricercatori francesi nella
seconda metà del secolo. Fondamentali nel 1954 l’introduzione della vaccinazione antipoliomielitica per
merito di Lépine e nel 1957 i primi riusciti tentativi di trapianti di midollo osseo ad opera di Mathé. La
scienza inizia a farsi anche interprete dell’arte, del linguaggio, soprattutto attraverso la sociologia e la
psicologia, e non sarà difficile notare una vera e propria compenetrazione fra campi solo apparentemente
così lontani. Proprio Les Dialogues des Carmélites – ad esempio – contengono in sé un’analisi psicologica
così dettagliata del sentimento della paura e delle sue manifestazioni impensabile per un musicista
dell’Ottocento. L’arte è accresciuta dagli studi scientifici nella misura in cui questi forniscono alla
filosofia ed alla speculazione motivi di riflessione e fondamentali punti fermi. La genialità del creatore
d’arte, che risiede nell’interpretare e nel percepire e nel trasferire operando gli stimoli del proprio tempo
(in musica come sulla tela come nell’elevazione di un ponte) vede moltiplicare nei progressi della scienza
le possibilità di indagare l’animo umano: con il rischio di perdersi, ma con la consapevolezza di poter
osare, e di poter esplorare l’inesplorato.
5. Il teatro di prosa e la Scuola di Avignone.
Nella Francia che ricostruisce il teatro di prosa gioca un ruolo fondamentale nella rinascita culturale del
paese. Al pari del teatro musicale in Italia, appare come il fenomeno più significativo, ossia quello capace
di avvicinare opera e pubblico. Già a partire dalla fine degli anni Quaranta attorno al teatro la Francia
costruisce il nucleo dell’organizzazione culturale futura: lo stato si fa carico della macchina teatrale,
rendendola “servizio pubblico” grazie soprattutto all’intervento del Ministro Pierre Bourdan e del suo
braccio destro Jeanne Laurent. L’impulso e il finanziamento statale favoriscono lo sviluppo di numerose
realtà locali, nel segno di un proficuo decentramento capace di far fiorire le piccole realtà locali e di
compiere un percorso che, per la prima volta nella storia della Francia moderna, fa muovere idee e
cultura dalla periferia a Parigi e non viceversa. Nasce la Francia dei festival, ed è una nazione che si
ritrova attorno alla propria lingua ed alla propria tradizione letteraria più antica ed illustre, quella dei
Racine, dei Corneille e dei Moliére, alla quale si affianca il nuovo. Ciò che più importa sottolineare è che
ovunque le manifestazioni festivaliere hanno restituito ai francesi una delle tradizioni più care, mettendo
in scena una quantità di materia drammatica praticamente impensabile per ogni altra realtà nazionale
coeva. Milioni di spettatori hanno potuto prendere idealmente possesso degli spazi che si andavano
organizzando sfruttando i teatri antichi ed i centri storici, fornendo stimoli anche per la costruzione di
nuovi luoghi teatrali, soprattutto all’aria aperta. In questo campo particolarmente significativa appare
l’opera dell’ideatore e promotore di festival Jean Deschamps e dell’architetto Claude Perset, ai quali si
deve l’edificazione del superbo Teatro del Mare di Sète. Fra i festival una menzione del tutto particolare e
speciale merita quello di Avignone, frutto soprattutto della tenacia e della lungimiranza del suo
animatore, Jean Vilar. La riuscita della sua opera sta non solo nel fatto di avere restituito per primo alla
Francia il culto dei classici nazionali e stranieri (Shakespeare in testa): Avignone (dalla magnifica cornice
del Palazzo dei Papi) ha saputo interpretare il bisogno di teatro del pubblico francese, aprendo la strada
con il suo esempio alla proliferazione rapidissima di spazi teatrali in tutta la nazione. Ciò che mancava ad
Avignone (fatte salve alcune eccezioni) erano gli autori contemporanei, ma la massiccia fondazione di
compagnie generò quell’aspettativa di nuove opere da cui scaturirono alcuni dei testi più significativi di
tutto il Novecento o che fece rivalutare il lavoro postumo di letterati del calibro di un Claudel. Accanto
agli autori che avevano iniziato la loro carriera prima della guerra (Cocteau, Puget, Mauriac, Neveux…) si
affermano alcuni giganti che meritano almeno un breve accenno: Henry de Montherlant, che alterna il
romanzo alla drammaturgia mantenendo il suo stile intenso e tragico (La Reine morte, 1942, Malatesta,
1950), ma soprattutto Jean-Paul Sartre ed Albert Camus. Il primo ha la capacità di portare sul
palcoscenico le conquiste della filosofia contemporanea (Il Diavolo e il buon Dio, 1951, I sequestrati di
Altona, 1959) servendosi di un linguaggio razionale e tradizionale, mentre il secondo ha dato forma
all’espressione dell’assurdo, dell’estraneità degli uomini gli uni per gli altri in capolavori (Caligola, 1944,
Stato d’assedio, 1948) che hanno lambito il 1960, anno della sua scomparsa, dopo aver aperto la strada
nel decennio precedente alle esperienze di Jean Genet, campione di invenzione linguistica e capace di
produrre un rutilante e barocco universo teatrale in bilico fra tragico e buffonesco (Le mal court, 1974,
La Fête noire, 1949, Cavalier seul, 1955). Il nuovo, l’insolito, di pari passo con il surrealismo delle arti
visive avanza in teatro dal 1950, anno de La cantatrice calva di Eugène Ionesco, una vera deflagrazione
con il suo linguaggio ossessivo che prosegue con Les Chaises (1952), Il rinoceronte (1959), Il re muore
(1962), La fame e la sete (1966) fino a toccare gli anni Settanta. Sempre nel 1950 si afferma Arthur
Adamov, con il suo stile scevro da ogni lirismo, tutto votato all’azione teatrale in cui l’autore denuncia
l’alienazione dell’uomo ad opera del capitalismo (Le Ping-pong, 1955 e Paolo Paoli, 1957). Ed infine
Beckett, con Aspettando Godot (1953) e Finale di partita, rappresentato per la prima volta proprio
nell’anno dei Dialoghi scaligeri. Di lui dirà il drammaturgo statunitense Albee: “Il teatro dopo Beckett non
può più essere quello di prima”. In virtù di uno stile che disintegra il linguaggio, che annuncia la
disgregazione umana nella pietrificazione del mondo Beckett apre prospettive di cui tutta la
drammaturgia moderna deve tener conto. Chiudiamo la troppo breve rassegna sul teatro francese nel
dopoguerra ritornando a Bernanos ed alla “pièce” tratta dalla sua sceneggiatura cinematografica: alla luce
di quanto detto finora e dei nomi (solo quelli maggiori) presi in considerazione risulterà forse più agevole
comprendere come potesse parere naturale che un testo di così forte impatto drammatico ottenesse più di
cinquecento repliche nel volgere di pochi anni: un numero spropositato per qualunque altra realtà
contemporanea, ma non per quella francese.
6. La letteratura e la filosofia.
Nel 1957 Albert Camus, insignito del premio Nobel per la letteratura, conferma la persistenza di una
generazione di grandi scrittori capaci di imporre innovazioni forti, e di disgregare – senza negarla come
ideale punto di partenza – la tradizionale e tanto vantata unità della letteratura francese dell’Ottocento.
Paradossalmente la continuità con un passato aureo si manifesta proprio nella rottura degli schemi classici
(come già si visto nella sezione dedicata al teatro, arte che nella Francia antica era considerata ben più
nobile di quella del romanzo o della novella). Su questa linea si muove nel dopoguerra un plotone di
“mostri sacri”, a cominciare da Claudel, il cui Journal vede la luce solo nel 1969. Con Vents (1946), Amers
(1957) e Chronique (1960) Saint-John Perse interrompe un lungo silenzio, ed anche la sua opera è
giustamente premiata con il Nobel nel 1960. L’influenza di André Gide (morto nel 1951) si manifesta
soprattutto attraverso il suo Journal, dato alle stampe negli ultimi anni di vita assieme a Thésée (1946).
Onnipresente e proteiforme, Jean Cocteau continua la sua attività di poeta, drammaturgo, romanziere,
librettista, sceneggiatore, regista e pittore: di questi anni ricordiamo le poesie Le chiffre sept (1952) e
Clair-obscur (1954). Colette muore nel 1954, ed è la prima donna ad ottenere un funerale di stato nella
storia della Repubblica di Francia, con grande scandalo per il mondo cattolico, che mai aveva apprezzato i
suoi cinquanta romanzi (fra i quali va ricordato almeno Gigi, 1945) e soprattutto il suo stile di vita
libertino e scandaloso perfino per la permissiva Parigi della Belle-Epoque. Scrittori più giovani, che
potremmo descrivere come di “seconda generazione”, sorpresi dalla guerra devono fare i conti con
un’esperienza che si riflette in maniera determinante nella loro estetica. Jean Giono ha saputo rinnovarsi
con Le Hussard sur le toit (1951), e Céline ha ritrovato una vena che la guerra pareva aver inaridito. Il
conflitto mondiale provoca un rinnovamento talmente profondo e radicale per Aragon tale da farlo parere
un altro scrittore, più profondo, intenso, grave e coerente già a partire da Aurélien (1944) ed in misura
forse maggiore nella prosecuzione del ciclo di Elsa (Elsa, 1954, Le Fou d’Elsa, 1963). La memoria, lo
scorrere del tempo diventano il fondamento di alcune opere romanzesche capitali per la comprensione
della maturità di Aragon quali La Semaine Sante (1958) e La Mise à mort (1965). Cronologicamente la
parabola umana di Georges Bernanos non appartiene al periodo qui indagato, ma la sua estetica ed il
successo delle opere estreme e di quelle postume influenza tutto il mondo della cultura cattolica
contemporanea. I Dialogues des Carmélites è il suo lavoro estremo ed ottiene, come già abbiamo visto, un
successo postumo deflagrante: la stessa tragica e tormentata intensità del dramma delle sedici martiri è
dato ritrovare in Monsieur Oine (1946), La France contre les robots (1947) e Le Chemin de la croix des
âmes (1948). Particolare, viste anche le peculiarità della sua biografia divisa fra arte e impegno civile, è
la posizione di André Malraux, al centro della politica francese in qualità di ministro della cultura e
fautore dell’abbandono del genere romanzesco in favore di una sorprendente ed originale opera di
estetica visionaria esplicitata con Esquisse d’une psicologie du cinéma (1947) e con i celebri trittici
Psicologye de l’art, les Voix du silence (1951) seguito da Le Musée immaginaire de la sculpture mondiale
(1952-1954). Gli ultimi anni di vita dello scrittore segnano un ritorno di temi angosciosi e assillanti –
memori di Bernanos – della malattia e della morte (Lazare, 1974). Notevole influenza sul pensiero
filosofico moderno hanno avuto le note teorie esistenzialiste di Jean-Paul Sartre, autore il cui eclettismo,
al pari di Cocteau, ha interessato quasi ogni genere letterario, al di fuori della poesia. Le sue idee hanno
trovato piena espressione in L’Etre et le Néant (1943) ed il suo influsso si esteso alla critica, alla
narrativa ed al giornalismo (fu direttore di Temps modernes). Come Sartre, anche Simone de Beauvoir ha
saputo coniugare romanzo e filosofia (passando dall’esistenzialismo al marxismo) : il suo Les Mandarins
(1954) porta con sé una lucida visione della figura dell’intellettuale dopo la Liberazione, descrivendo ed
analizzando in anticipo sui tempi anche la condizione femminile. Albert Camus fa pendere l’ago della
bilancia della sua arte verso la poesia e la narrativa, benché non manchino nella sua parabola compositiva
slanci verso la filosofia. Fra le sue opere da ricordare il notissimo La peste (1947) e La chute (1957). Il suo
linguaggio è classico, intenso, modernissimo e solare. In opposizione all’esistenzialismo, o comunque
lontani dalle sue tematiche, troviamo un manipolo di scrittori fra cui per l’intensità dell’ispirazione
meritano di essere citati almeno lo stile classico e misurato del romanziere e saggista Jean Dutourd
(Doucin, 1955, Les horreurs de l’amour, 1963) e la vena più intensa e drammatica di Roger Vailland (La
Loi, 1957). Completamente fuori dagli schemi anche come narratore, Jean Genet è paragonato non a torto
a De Sade, e diviene il cantore dell’illegalità, dell’assurdo, della rivolta (Haute surveillance, 1948, Diario
d’un ladro, 1949). In quest’ottica va visto anche il celeberrimo Histoire d’O (1954) firmato da Pauline
Réage, opera capace di dare impulso ad un filone – quello della letteratura erotica – destinato in Francia a
dare altri frutti degni di nota fino ai nostri giorni. Per un gioco crudele del destino dal 1945 (morte di
Valéry), alcuni fra i più grandi poeti francesi scompaiono dalla scena: Artaud (1948), Eluard (1952),
Claudel (1955). Alcuni di loro sono stati poeti della Resistenza, e la storia è stata per loro motivo di
slancio e di vigore, oggetti che lasciano ora il posto a ricerche sempre più originali e spesso radicali sul
linguaggio (Breton, Saint-John Perse o ad un filone di poesia più schiettamente comunicativa (Prévert,
Vian). Anche per la filosofia la ricerca sul linguaggio si fa fondamentale, anche perché molti filosofi del
periodo sono allo stesso tempo narratori e poeti. Le tre tematiche fondamentali attorno a cui ruota la
filosofia francese postbellica sono il già citato pensiero esistenzialista, la dottrina marxista e la corrente
cattolica. Il primo ruota attorno alle teorie di Sartre, di Simone de Beauvoir e a Merleau-Ponty, la
seconda, spesso apertamente antiesistenzialista, è capitanata da Henri Lefebvre, mentre fra i pensatori
più forti e significativi della corrente cattolica sono da ricordare almeno Gabriel Marcel e Simone Weil,
per chiudere il sipario su una rassegna troppo breve che meriterebbe maggior approfondimento qui non
concesso dall’esiguità dello spazio a nostra disposizione.
7. Il cinema e la televisione, la stampa e la pubblicità.
Nei Dialogues des Carmélites il taglio cinematografico – come si è già accennato – appare netto e marcato.
Il libretto adattato da Poulenc (gli interventi del musicista sono quasi esclusivamente delle soppressioni e
degli spostamenti di porzioni di testo, visibili soprattutto nella prima parte) era destinato al cinema, ma
anche nelle didascalie e nel suggerire l’impostazione dello spazio scenico il musicista tradisce una
concezione memore di certo linguaggio cinematografico coevo. E non c’è da stupirsene: l’industria del
cinema in Francia aveva già da tempo superato il mezzo secolo di storia, e si trovava in un momento di
grande fortuna, anche se nel volgere di pochi ani avrebbe dovuto cedere posizioni alla neonata
televisione. Dal 1957 al 1967 in particolare si può parlare di vera e propria crisi, poiché il pubblico
pagante diminuisce quasi del cinquanta per cento, ma fino all’anno dei Dialogues è quasi una marcia
trionfale, con l’avvento di alcune delle firme più prestigiose del panorama europeo. Nemmeno durante la
guerra l’industria del cinema si era fermata, ed aveva anzi prodotto un capolavoro assoluto come Les
Enfants du Paradis (1945). Nel 1947 il pubblico tributò un enorme consenso a Le Diable au corps di Claude
Autant-Lara, e l’epoca fu segnata dal ritorno a Parigi di René Clair, con Le silence est d’or (1947) seguito
da Les Belles de nuit (1952). Nel 1957 muore Max Ophuls, mentre prosegue la carriera di Jean Renoir (The
Golden Coach, 1952, FrenchCancan, 1954, Eléna et les hommes, 1956, Le testament du docteur Cordelier,
1959). Negli anni vicini alla creazione dei Dialogues si assiste alla nascita di un nuovo stile cinematografico
propriamente francese e fortemente propugnato da un gruppo di artisti che si raggruppò attorno ai Cahiers
du Cinéma e che vide riuniti François Truffaut, Claude Chabrol e Jean-Luc Godard. Proprio quest’ultimo si
pone alla testa della nouvelle vague per la varietà delle tematiche messe in gioco e per la
sperimentazione di ardite tecniche di ripresa.
Questa brevissima panoramica sul cinema francese (un altro saggio del presente volume tratterà
argomenti molto vicini) deve chiudersi con un accenno ad importanti letterati che collaborarono al cinema
in prima persona (come Cocteau) o che furono fatti oggetto dell’interesse di originali registi: è il caso di
La Bergère et le Ramoneur (1952), un magnifico cartone animato su testo di J.Prévert. Fuori dal lasso di
tempo che qui si analizza, ma di grande attinenza con la musica di Poulenc, l’opera di Georges Bernanos
fu indagata con attenzione da Bresson, capace di creare capolavori di composta bellezza fatti di solenni
immagini in bianco e nero da Journal d’un curé de campagne (1951) a Mouchette (1967).
Come abbiamo avuto modo di constatare proprio il 1957 segna una tappa importante per l’affermazione
del nuovo mezzo di comunicazione, quello televisivo, che trionfa nelle preferenze del pubblico francese
anche nei confronti di quello radiofonico. La televisione nella Francia degli anni Cinquanta svolge un ruolo
sensibilmente diverso rispetto a quello esercitato nel nostro paese: oltralpe l’unità linguistica era già da
tempo raggiunta, e la televisione si può già proporre come modello di diffusione culturale: ciò avviene
grazie alla programmazione di opere liriche, di serate dedicate al teatro, ed alla produzione di numerosi
documentari. Certamente l’innovazione maggiore in cui la televisione esprime tutto il suo potenziale è il
campo dell’informazione: ogni uomo ha dagli anni Cinquanta la sensazione di trovarsi in casa propria un
mondo visibile e raggiungibile. Non a caso i politici più abili (come De Gaulle in occasione delle guerre
coloniali) sanno cogliere appieno le potenzialità di un mezzo che grazie alla forza suggestiva
dell’”immagine parlante” riesce non solo ad informare, ma anche ad indottrinare e a muovere le
coscienze. Si calcola che la televisione abbia il potere di raggiungere ed informare circa trenta milioni di
francesi negli anni Cinquanta, contro i dieci milioni della carta stampata, che vede diminuire il suo
potere, comunque solido e forte. Rimane in quest’ultimo campo un predominio parigino, anche se gli
ottanta quotidiani che vi si stampavano nel 1914 si riducono sensibilmente di numero (oggi sono una
decina) e ridimensionano le tirature. Un incremento si registra invece per i quotidiani di provincia, più
attenti alle piccole realtà locali. In definitiva la Francia continua a leggere i quotidiani,attirata anche
dalla possibilità di maggiore approfondimento offerte dalla pagina scritta. Il costume e la moda,
unitamente al miglioramento delle condizioni economiche generali, favoriscono altresì il proliferare di
centinaia di riviste, dai rotocalchi interamente devoluti alla celebrazione dello stile di vita francese e del
pettegolezzo fino alle testate specializzate in poesia (dalla fine della guerra ad oggi ne sono state fondate
più di duecentocinquanta), letteratura e filosofia. Gli intellettuali più impegnati hanno sottolineato come
molti di questi giornali si riducessero (il fenomeno è tuttora nel pieno del suo manifestarsi) ad assumere
l’aspetto di cartelloni pubblicitari in miniatura, ad imitazione di quelli – enormi – che con crescente
invadenza affollavano i muri delle città: la pubblicità sa farsi in questo periodo strumento docile del
commercio e dell’industria nel favorire l’aumento dei consumi attraverso la creazione di desideri: per
dirla con Georges Duby “la pubblicità non è solo una funzione economica: al di là dell’elemento culturale
che può rientrare nel consumo propriamente detto, vi è consumo di immagini, di “idee”, di stimolanti;
supplenza dell’immagine, informazione psicologica, persino piacere estetico. Il carattere dominante e in
via di accentuazione della pubblicità è la sua erotizzazione, persino per quanto attiene a ciò che
sembrerebbe remotissimo dall’erotismo: estasi delle massaie che abbracciano il tanto sognato
frigorifero”. Esordisce il periodo degli slogan, e delle pubblicità che assomigliano ad opere letterarie
(spesso malamente saccheggiate) o a quadri di un museo d’arte contemporanea.
8. La musica e la danza.
Una pur breve panoramica sulla musica in Francia negli anni Cinquanta (altri saggi del presente volume se
ne occupano ben più approfonditamente ) non può evitare di riferire del solco sempre più profondo che
anche in questo paese si apre fra pubblico e compositori. Le istituzioni concertistiche registrano affluenze
massicce di spettatori solo per quanto attiene al repertorio tradizionale, anche grazie all’apporto della
radio e della televisione, che unitamente alla stampa moltiplicano le opportunità di accesso alla musica
colta, riservando spazio anche alle avanguardie che proseguono le ricerche inaugurate negli anni
precedenti alla guerra. Non esiste un filone univoco, ed è assai difficile tentare raggruppamenti o cercare
di definire orientamenti precisi. Di certo i passi fatti prima del 1940 hanno registrato progressi nel campo
della cosiddetta “musica concreta” passando per l’elettronica. Fanno parte di questo credo, che prosegue
negli anni Cinquanta, la messa al bando di nozioni cardinali come la notazione o la stessa figura
dell’interprete. Il processo compositivo consiste nel creare il materiale registrando rumori, note casuali
emesse dagli strumenti o suoni generati dai nastri magnetici, che vengono quindi selezionati ed
assemblati. La ricerca sulla “musica concreta” vengono incoraggiate in Francia soprattutto negli studi
della Radiodiffusion, sotto la guida di Pierre Schaeffer. Il suo assistente Pierre Henry ne ha proseguito la
ricerca con i più moderni mezzi messi a disposizione dell’elettronica. Per alcuni teorici la musica deve
tendere un ponte ideale verso la matematica, generando se stessa attraverso pure combinazioni di suoni,
mentre altri cercano di muoversi oscillando fra il desiderio sperimentale e la volontà di tornare al sistema
tonale che soprattutto la scuola tedesca di Primo Novecento aveva minato violentemente. Si assiste quindi
al declino dell’”ondata” seriale e si torna parzialmente alla ricerca di un filo (quello della tradizione, del
confronto con il pubblico e con il giudizio della critica) che potrebbe essere stato spezzato
definitivamente. La riconquista (oggi compiuta con un notevole successo) principia dalle ricerche di Pierre
Boulez, che proprio negli anni Cinquanta propone un rinnovamento della musica seriale promuovendo
nella sua concezione artistica un ideale connubio fra scienze esatte e musica che tutt’oggi prosegue
nell’attività dell’IRCAM da lui fondato. Sul versante di una musica più tradizionale niente scuole o”ismi”
negli anni Cinquanta – come si diceva - ma solo forti personalità. Sarebbe sbagliato definire con il nome di
corrente o movimento il sodalizio artistico che fa capo al “Gruppo dei Sei”, perché i suoi membri non
hanno mai voluto darsi un orientamento da seguire: convivono nella consapevolezza di enormi differenze,
ed il loro fare artistico non ha mai avuto lo scopo di perseguire obiettivi predeterminati. Il Gruppo
sopravvive alla guerra: il primo a mancare è Arthur Honegger, che muore prematuramente nel 1955, non
senza aver lasciato un patrimonio prezioso (soprattutto nella Symphonie n.3, Liturgique, 1945-1946) per
quanto attiene ai progressi del versante orchestrale. Non meno determinante appare il contributo di
Darius Milhaud, aperto alle suggestioni più disparate (dal jazz alla musica sudamericana) ma decisamente
orientato verso un linguaggio modernissimo soprattutto nel versante operistico (abbiamo visto come nel
1955 scriva proprio per la Scala David). Del raffinato e prezioso eclettismo di Francis Poulenc qui
taceremo, se non per ricordare l’importanza della sua musica spirituale (Litanies à la Vierge Noire, 1936,
Stabat Mater, 1951, Gloria, 1959) che diviene un esempio per le nuove generazioni. Ispirandosi al “Gruppo
dei Sei”operano Henri Saguet ed in una certa misura André Jolivet (soprattutto per la ricerca sui timbri).
L’amore per lo studio di forme nuove non pregiudica la freschezza dell’ispirazione in Henri Dutilleux. Fra i
pionieri che riescono a mantenere sempre aperto il confronto ed il dialogo con il pubblico senza porre in
secondo piano la metamorfosi dei linguaggi tradizionali giganteggia Olivier Messiaen, compositore intenso,
fecondo, capace di gettare un vero e proprio ponte verso i nostri giorni con le sue indagini che portano in
musica le ricerche sui fenomeni della natura (Catalogue d’oiseaux, 1956-1958) o le più attente indagini
filosofiche e psicologiche (il monumentale melodramma Saint-François d’Assise, 1975-1983), senza
trascurare il versante sinfonico (Turangalila-Symphonie, 1946-1948).
Un piccolo accenno sulla danza, ambito in cui la tradizione accademica pare riprendere il sopravvento
dopo l’ondata rivoluzionaria e deflagrante di Diaghilev, che aveva saputo concentrare attorno a sé ed ai
suoi danzatori un irripetibile cenacolo di personalità di ogni ambito (musica, pittura, letteratura,
scenografia, sartoria). Il vuoto apparentemente incolmabile da lui lasciato viene tuttavia riempito da forti
personalità che proprio dall’ambito accademico in cui consumano la propria formazione trovano nuovi
stimoli per rinnovare il linguaggio della propria arte. Negli anni Cinquanta emerge la personalità di Janine
Charat, ma soprattutto si fanno strada Roland Petit e Maurice Bejart: per merito di quest’ultimo la danza
in Francia torna ad essere uno spettacolo fruibile, non più elitario. Le sue coreografie sprigionano grande
energia, il movimento è spesso ispirato alla danza rituale orientale, quasi a ricordare che il ballo è
originariamente un atto religioso, un immaginario e magico gioco cosmico in cui l’uomo ricrea lo spazio ed
il tempo, come aveva ricordato nei suoi mirabili scritti Paul Valéry.
9. Pittura, scultura, architettura.
La continuità con il passato più nobile ed evocativo è garantita per la cultura francese del dopoguerra
dalla longevità di alcuni fra i grandissimi del Novecento e di sempre: primo su tutti il proteiforme Pablo
Picasso, persistenza oltretutto “trasversale” poiché non si può contare arte, dottrina, “ismo” o disciplina
che non abbia dovuto fare i conti con un gigante di tale portata. Picasso non si limita a garantire la
continuità con un passato artistico ed estetico che egli stesso ha contribuito a creare, talora ad inventare.
L’artista spagnolo appare come lo specchio più fedele di un secolo che ha portato la storia dell’arte ad
assistere alla rappresentazione di figura e di anti-figura, alla distruzione delle forme ed all’iperrealismo:
le contraddizioni, le aspirazioni e perfino le mistificazioni di un’arte che sa farsi anche parte attiva e
politicamente impegnata nella narrazione della storia trovano in Picasso un interprete unico ed
insuperabile. Ma la Francia continua ad essere il centro propulsivo dell’arte mondiale anche grazie ad
altre eccezionali “presenze”: prima fra tutte quella di Georges Braque, che raggiunge i vertici della
propria poetica con i Billards (a partire dal 1945). Nelle sue inquietanti nature morte si assiste alla morte
dell’oggetto ed alla comparsa del suo spettro, ma non è tutto. Braque è anche un finissimo teorico,
capace di definire se stesso con imbarazzante semplicità: “Io non sono un pittore rivoluzionario”. “Prendo
le mosse dall’informale, e formo”. Ed ecco la ri-nascita della forma pura nella decorazione del soffitto del
Louvre (1952-1953). Nel 1963, alla sua scomparsa, Malraux dichiarerà: “E’morto un uomo che era parte
dell’onore della Francia”. Nello stesso anno della sua dipartita termina anche la parabola umana di
Jacques Villon, la cui lezione viene tuttavia perpetuata dagli aderenti al gruppo della “Sezione Aurea” da
lui fondato molti anni prima alla ricerca di un’ideale e melodioso rigore in cui la matematica forniva la
“chiave” della bellezza, del ritmo, della poesia. Fra i “patriarchi” alla ricerca della poesia e della
riconquista dello spazio il Matisse della Jeune Anglaise (1947), de Le silence habité des maisons (1947) e
del Grand Intérieur rouge (1948) è un esempio folgorante di feconda longevità, perpetuata nella
decorazione della Cappella di Vence (1951) e nel Souvenir d’Oceanie (1953). Anche Rouault è morto
ottantasettenne approfondendo la propria arte nel rinnovamento della tavolozza e della matericità della
sua pittura, vicina al mosaico, alla vetrata (Paysage biblique, 1935), nel segno di un affettuoso
avvicinamento alla fede che è il tratto commovente anche dell’ultima fase della maturità di Chagall, che
si concretizzerà a ridosso degli anni Settanta con le centotre “Illustrazioni della Bibbia”. Nel frattempo
l’artista russo aveva fissato la sua dimora a Parigi, pur proseguendo una carriera internazionale. La grande
decorazione del soffitto del teatro dell’Opéra è ancora oggi uno dei suoi lavori più noti, e fu portato a
termine nel 1964.Mirò abbandona la Francia per la Spagna nel 1940 a causa dell’invasione nazista, ma
torna a Parigi proprio nell’anno dei Dialogues per realizzare le grandi decorazioni murali (in ceramica) per
il Palazzo dell’Unesco. La sua avventura estetica proseguirà nella terra natale, e per questo la sua
presenza viene solo accennata in questa sede, se non altro per sottolineare la sua influenza sul panorama
francese, che proseguirà per tutta la sua lunga carriera internazionale. Una breve rassegna sulla pittura in
Francia negli anni Cinquanta, che non potrà che risultare lacunosa ed incompleta non può prescindere
comunque dalla segnalazione della presenza di alcune personalità capitali per lo sviluppo delle poetiche
dell’informale, primo fra tutti Jean Dubuffet, artista poliedrico e di difficile collocazione per la vastità
degli interessi, come dimostra la fondazione del movimento Art brut (1947) accanto ad intellettuali quali
Paulhan, Drouin e Breton. Impossibile inquadrare in uno schema o in una corrente anche Marcel Duchamp,
che rifiutava la patente di fondatore del Dadaismo e che ufficialmente si era ritirato dall’attività artistica,
ma segretamente lavorava dal 1946 al 1966 ad un’opera (Etant donnés) di cui si avrà notizia solo dopo la
sua morte. In scultura la rivoluzione cubista di Picasso è ancora viva e palpitante, e i maggiori artisti
sentono la necessità di definire la loro estetica superando il dibattito fra figurativo o astratto e
concentrandosi sulle specificità della scultura stessa, ossia sull’analisi dei problemi di rapporti di spazio,
di volume e di materiale. La presenza di Picasso si fa poi “reale” da quando lo spagnolo si dedica con
continuità a questa disciplina,ossia a partire dal 1950, dapprima come ceramista, ma anche dedicandosi al
bronzo (La chèvre, 1950). In Francia comunque gli scultori sono “figli” del cubismo anche nel momento in
cui – paradossalmente – lo negano, come Laurens, che procede nei suoi lavori solo per linee curve. Lipchitz
se ne distacca decisamente, definendo le sue opere nel ricordo dell’arabesco (la presenza di Alexander
Calder è una costante nel panorama parigino), elaborando un’originale idea di “scultura trasparente”.
Zadkine, a partire dagli anni Quaranta, aveva già cominciato ad alleggerire, a giocare con pieni e vuoti,
come dimostra il suo capolavoro, che è anche il segno massimo della scultura francese contemporanea, il
monumento commemorativo della distruzione di Rotterdam (1948-1951). Si assiste, di pari passo, anche ad
una tendenza che porta alcuni esponenti della generazione più giovane, quella che inizia ad operare negli
anni Cinquanta, a riappropriarsi della cultura figurativa (da citare almeno Lucile Passavant), memore della
lezione che Rodin continuava ad impartire dall’alto delle architetture parigine: proprio i restauri del
dopoguerra riaprono prospettive all’architettura, o almeno a quella definita come “nuova” o
“internazionale”, che molto difficilmente era riuscita a trasferire i progetti dalla carta alla pietra (o al
cemento) fino al termine del conflitto mondiale, se non negli Stati Uniti. Due opposte tendenze si
delineano in Francia: la linea sintetica (ferro, acciaio), memore della Bauhaus trova in Jean Prouvé il
teorizzatore della nuova linea industriale, mentre dall’altra parte ed in aperta opposizione il filone
analitico registra un violento ritorno all’estetica (cemento), e trova nella maturità di Le Corbusier il suo
paladino, da Ronchamp al convento di Sainte-Marie de La Tourette, dove viene a realizzarsi un
affascinante connubio di architettura e scultura, come dimostrerà negli anni Sessanta un grande pittore
come Dubuffet, che si dedicherà a progettare case “a misura d’uomo”. L’epoca magica dell’arte che si
fonde con l’architettura terminerà però ben presto, lasciando purtroppo il campo agli anni Settanta ed
alle mostruose case-torri, in cui sia la misura che l’uomo saranno fatalmente emarginati.
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