ANTONIO CAMMELLI
DETTO IL PISTOIA
V. TESTI:
RACCOLTA ANTOLOGICA
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
159
****
*
Nella dedica a Isabella d'Este, il poeta rende partecipe la
propria mecenatessa del suo ragionamento: sebbene nel corso degli
anni si comprenda quanto caduca sia la vita umana, ognuno ne
intende manifestamente la fugacità solo quando giunge l'ora estrema.
Eppure, riflette il Pistoia, non vi è nessuno che sia tornato in Terra,
dopo quell’ultimo giorno, a riferire della mutata condizione, delle
pene o dei piaceri che l'anima sperimenta dopo lo scioglimento del
nodo che la trattiene legata alle cose terrene. Pur tuttavia è accaduto
che alcuni, secondo quanto cantano i poeti, per una grazia raramente
concessa dal Cielo, si siano recati da vivi nel regno dei morti. Un'egual
ventura è spettata al Nostro, che riferisce di voler dare conforto,
attraverso i propri versi, a quanti desiderano saperne di più del
mondo ultraterreno e nel contempo vuole riscattare la credenza antica
che la poesia sia solo mera fabula e sogno. Questo particolare accenno
al binomio fabula-somnium da parte del Pistoia testimonia della
formazione culturale di impronta neoplatonica del rimatore toscano.
Com'è noto, la riflessione sulle veraces historiae, contrapposte alle
fallaces fabulae o nugae e dunque sulla funzione ultima della poesia 1
fu particolarmente accesa in epoca medievale e, prendendo le mosse
dalla letteratura arturiana in latino (affrontata poi anche da autori
volgari anglo-normanni tra cui Maria di Francia, Denis Pyramus,
Wace),2 vide impegnati soprattutto quei filosofi neoplatonici della
1
Cfr. P. DEMATS, Fabula. Trois études de mythographie antique et
médiévale, Genève, Librairie Droz, coll. «Publications romaines et
françaises», 1973.
2
cfr. Le roman de Brut de Wace, par I. ARNOLD, Paris, Société des Anciens
Textes Français, 1938-1940:
Fist Artur la Roünde Table
9751
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
160
corte plantageneta (in primis Giovanni di Salisbury e Walter Map)
formatisi in Francia, presso la cosiddetta école de Chartres (allievi, tra
gli altri, di Guglielmo di Conches, Richard l'Evêque e Bernardo
Silvestre).3
Fu proprio attraverso i testi latini dei pensatori della scuola
chartriana che la riflessione pervenne al mondo fiorentino del
Magnifico, di Marsilio Ficino, di Pico, del Poliziano. La fabula venne
considerata, in ambiente neoplatonico, come uno strumento
espressivo per alludere in maniera velata, sotto integumentum, ad
alcune verità superiori. Se il Pistoia parla di velame de' sui figmenti4 è
perchè allude proprio alla nozione di integumentum: a quell'involucro
che racchiude il nucleo di verità che si cela nelle realtà che pur
dunt Bretun dient mainte fable
.............................
Tant unt li cunteur cunté
e li fableur tant fablé
pur lur cuntes enbeleter
que tut unt fait fable sembler
3
Per una contestualizzazione della riflessione filosofica sulla funzione della
fabula e del somnium in ambiente chartriano, mi permetto di rimandare al
terzo capitolo del mio libro, Maria di Francia: la Storia oltre l'enigma, il
Bagatto, Roma 2006.
4
L'idea secondo cui l'opera d'arte preesiste all'autore e richiede solo di essere
estratta dall’involucro (integumentum) che la racchiude, già presente nel
platonico Fedro (252d e 254b), pervenne al mondo medievale tramite
Dionigi Areopagita (Teologia Mistica, 1025b) e, attraverso la scuola
neoplatonica di Chartres, fu rielaborata poi in ambiente fiorentino alla fine
del Quattrocento e poi nel Cinquecento, basti pensare al noto sonetto di
Michelangelo Buonarroti: Non ha l'ottimo artista alcun concetto / c'un
marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva
/ la man che ubbidisce all'intelletto (Rime 151, vv. 1-4); cfr. Rime, a c. di M.
Residori, Milano 1988.
PARTE QUINTA
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161
visibili, non per questo sono di per sé conoscibili (i figmenti stanno a
indicare l'illusione, le immagini menzognere).
Nella costruzione del discorso attorno alla consolatio (sul
modello boeziano del soccorso agli afflitti, ma d'ispirazione e di tono
boccacciani, laddove nell'incipit del Decameron l'autore si ripromette
di consolare le vaghe donne) il poeta combina procedimenti
riconducibili al concetto di «interférence» individuato da Henri
Bergson nel suo saggio sulle tecniche del comico.5 L'interferenza di
significazioni indipendenti genera l'ambiguità ed ha dunque un effetto
parodico: «une situation est toujours comique quand elle appartient à
deux séries d'événements totalement indépendantes, et qu'elle peut
s'interpréter à la fois de deux manières différentes».6 Così, la
promessa fatta dal poeta alla Marchesa di svelarle, attraverso i suoi
sonetti, capitoli di una nuova commedia umana (persino troppo
umana, come appare evidente già dal primo sonetto) le più occulte
verità, va letta in chiave parodica. Il Pistoia riprende poi il concetto
oraziano che attribuisce all’arte, particolarmente a quella dei poeti, la
capacità di eternare l’uomo al di là della sua fisica deperibilità. Il
topos di assegnare all’attività dei poeti una tale funzione demiurgica si
riconosce senza soluzione di continuità in tutta la tradizione letteraria
occidentale: lo si ritrova nella Commedia (si ricordi a tal proposito
come vi si insista nel canto XVII del Paradiso) e anche nelle opere di
un poeta come il Petrarca, che rappresenta un momento nodale di
quella tradizione classicistica che prende le mosse proprio da Orazio,
poeta letto e tradotto dal Pistoia. Andrà ricordata allora in questo
contesto la riflessione del Calmeta S'egli è possibile essere buon poeta
5
H. Bergson, Le Rire, essai sur la signification du comique, Éditions Alcan,
1924; poi Paris, PUF, 1950, p. 67. Trad. it. a c. di A. Cervesato e C. Gallo, Il
riso, Laterza, Bari, 1916, 1987, p. 52.
6
Ivi.
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volgare senza aver lettere latine,7 in cui si tratta di uno degli aspetti
essenziali della poesia cortigiana, ovverosia la mancanza di
un'educazione umanistica dei poeti di corte (il Calmeta si riferisce
esplicitamente all'Aquilano) e dunque della necessità di quella
dottrina retorica che invece, evidentemente, non mancò al Pistoia.
Il Nostro è un poeta burlesco e già in questa dedica alla
Marchesa viene esplicitata tutta la natura del suo canzoniere, che
svela il senso profondo di una lirica dalle caratteristiche scherzose e
beffarde. Il poeta parrebbe sottintendere Io non Dante, io non Enea,
io non Paolo sono, e ciononostante anch’egli ha avuto il privilegio di
visitare, da vivo, il mondo delle ombre. L'oltretomba del Pistoia ha
poco dell'Aldilà cristiano ed è più simile all'Ade classico. Egli riferisce
di avervi visto gli Dei delle Tenebre, ribelli a Giove, di aver
sperimentato la separazione e il ricongiungimento dello spirito con il
corpo ed infine di essere tornato sulla Terra per descrivere, in forma
di sonetti per Isabella, le verità oltremondane. Un mondo, quello
visitato dallo Spirito, che nello svolgimento del canzoniere si rivelerà
essere, ovviamente, l’infimo mondo delle corti di quell’Italia fin de
siècle dilaniata e in guerra: il mondo della sofferenza, della povertà,
della malattia, trattate e affrontate dal Pistoia con sprezzante
sarcasmo. Il mondo di un poeta che, di lì a poco, sarebbe stato
sorpreso dalla morte, lasciando un toccante testamento poetico à la
Villon.
7
Cfr. V. CALMETA, Prose e Lettere edite e inedite a c. di C. Grayson,
Bologna, 1959, pp. XXII-XXIII.
****
*
ALLA ILLUSTRISSIMA SIGNORA
ISABELLA DA ESTE DA GONZAGA
MARCHESANA DE MANTUA
ANTONIO VINCI PISTOIA
La fragilità de l’umana vita, illustrissima ed eccellentissima Signora
mia, quantunque nel discorso de li anni si apprenda, pur in quel ultimo
giorno nel quale l’anima dalla corporale sua vaginaa si parte, ciascuno
apertamente cognosce. Però che dopo quello non si trova chi mai
tornasse di qua a testimonianza de la mutata sorte, de le pene, de li
piaceri de li luoghi o della vita che in quelli incogniti giri si viva, ni
quanta ansietà o dolcezza, dopo la soluzione di questo terrestre nodo,
si senta. Ed avenga che alquanti, secondo il fabuloso cantare de li
poeti, per grazia dal cielo rado concessa, siano al regno de le tacite
ombre vivi andati; nondimeno, perché, di là gionti, o di nostro
favoleggiare studiosamente si scordano o, nel mondo tornati, le
desiderate da li omini veritate, a li occhi umani ascose, sotto 'l velame
de' sui figmenti adombrando, quel nostro desío che nelle cose più
occulte più si accende, non che acquetino, più caldo rinovano. Onde a
questo appetito nostro, quasi compassionevole, acciò che eternamente
non stia in brama, ed alla antica poesia, già mera fabula e sogno
stimata, quasi soccorrendo, essendo io questi giorni adrieto nel regno
a
vagina] A2 sottolineato, forse per indicare la necessità di trovare un sinonimo.
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de l'Inferno disceso, dove il scettro di Plutone, la corona di Proserpina,
il iudizio di Minòs, e Prometeo e le Belide e li altri a Jove rubelli
visibilmente ho veduto, e la dissoluzione e reunione del corpo con
l'alma provato avendo, acciò la molta credenza e la poca ancor insieme
si sprezzi, quanto nel sutterraneo regno con li occhi ho visto, che
memorabile sia, per questo mio ancora tremante parlare chiarir
intendo, come, legendo, tua eccelsa Signoria potrà comprendere; alla
quale mi raccomando.
NOTE
Antonio Vinci Pistoia: sul nome adottato dal poeta, cfr.
Introduzione, p. 27, nota 68.
discorso de li anni: il , il ‘corso’ o ‘trascorrere’ degli anni; cfr.
Francesco di Bartolo da Buti, Commento sopra la Divina Commedia
di Dante Alighieri: «"seculo" significa lo discorso del tempo di cento
anni».
corporale sua vagina: perifrasi poetica per indicare il corpo
come semplice guaina, o contenitore dell’anima.
dopo quello: inteso ‘ultimo giorno’.
incogniti giri: visione dantesca dell’Aldilà, influenzata però
anche da reminiscenze dell'Ade classico.
soluzione: ‘scioglimento’.
terrestre nodo: immagine già dantesca, utilizzata poi in epoca
rinascimentale anche da Luigi Groto, nella tragedia Dalila (1572) atto
quinto, scena terza (vv. 4260-65: «Dunque ella è morta? / Io, lassa,
con questi occhi, / E con mio gran martire / L’ ho veduta morire. /
Deh fa, che quel, che à te mostrò la uista, / A` noi mostri l’ udito,
aprine il modo, / Com’ ella uscita è del terrestre nodo».
rado: ‘raramente’.
Onde...brama: il poeta, per compassione dei suoi simili, a
differenza di coloro che dimenticano di soccorrerli, e con piena
partecipazione nei confronti del legittimo desiderio degli uomini,
perché non resti insoddisfatta la brama di conoscenza, riferisce di
come egli sia disceso all’Inferno, dove ha visto Plutone, Proserpina,
Minosse, Prometeo e le Belidi e gli altri ribelli a Dio, ed ha
sperimentato l’allontanamento e il ricongiungimento dell’anima con il
corpo. Per porre fine alle poche e false credenze sull’Aldilà, e nel
contempo per ridare fede all'antica poesia a torto considerata
menzognera, intende spiegare, ancora in preda all’emozione, quanto
di eccezionale ha visto nel regno sotterraneo.
iudizio di Minòs: altra concezione dell’Aldilà mutuata da
Dante, Inf. XIII,1-108, dove, dopo il giudizio di Minosse, i dannati
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sono scagliati a caso, come semi, nella selva del settimo cerchio e
subito crescono come spinose piante selvatiche.
Belide: le 50 Danàidi, figlie di Danao, discendenti di Belo (da
cui Belidi), furono condannate da Zeus nel Tartaro ad affannarsi ad
empire una botte senza fondo per l'eternità, per aver ucciso i rispettivi
mariti durante la prima notte di nozze (si sposarono tutte insieme)
istigate dal padre che aveva saputo da un oracolo che sarebbe stato
detronizzato e ucciso dai cinquanta generi se fossero rimasti in vita;
nominate, nella stessa forma linguistica, anche dal Poliziano nella
Fabula di Orfeo (1494): «le Belide star con l'urna vota».
rubelli: ‘ribelli’, voce tipicamente fiorentina, utilizzata tra gli
altri da Brunetto Latini, nel Tesoretto, 1453 : «e molto m' è rubello»;
da Guittone, nel Manuale, 13: «che lei piacca che suo, senza rubello»,
nella Cronica fiorentina, 31: «sopra il conte Ruggieri, il qual era
nimico rubello della Chiesa».
dissoluzione: ‘separazione dell'anima dal corpo’, cfr. ad es.
Domenico Cavalca, Dialogo di santo Gregorio volgarizzato a c. di C.
Baudi di Vesme, Torino, Stamperia Reale, 1851: «Lo quale anche
parlando della dissoluzione della sua anima da lo corpo».
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
167
****
*
SONETTI PROEMIALI
I
ENIGMA
Nel codice A, alla Dedica seguono un Dialogo tra lo Spirito del
poeta e Caronte, e due sonetti in forma di "enigma"; il primo, non
tràdito da nessun altro manoscritto, contiene, nella prima quartina,
un rinnovato omaggio del volume a Isabella d’Este e riprende
l’argomento del Dialogo, con la rappresentazione dell’anima del
Pistoia tornata sulla terra dopo il viaggio oltremondano.
«Già sarei giunto alla fine», confessa l'autore «ma sono
trattenuto contro il mio volere da un'onorificenza che possiedo con
estremo dolore, che fa sì che se vado [all’altro mondo], pare che io ne
sia venuto. Quindi farò ricorso alla forza residua, poiché il mio debole
spirito conserva dell’uomo vivo il corpo marcato dalla malattia solo al
fine di portare a termine il mio compito».
In questi versi si fondono in modo mirabile finzione poetica e
realtà biografica del Pistoia che, in un tentativo di sublimazione di
quest’ultima, avverte di essere ormai prossimo alla fine, e pur
nondimeno mantiene uno sguardo lucido e beffardo sul mondo e su se
stesso: egli, infatti, non ha ancora portato a termine l’opera promessa
alla Marchesa e sa che non gli è concesso di morire prima di averla
terminata. Bisogna però sgombrare il campo dalle illazioni pseudopsicologiche avanzate dalla critica positivista del Pércopo nei
confronti del Pistoia poète maudit e sottolineare la forte letterarietà
dei suoi componimenti tesi verso particolari modulazioni ed effetti di
stile attraverso l'interferenza dei registri, palese perché effettuata
sull'asse sintagmatico dell'espressione linguistica: nella seconda
quartina, giocata tutta sull’ambiguità (funzione-pivot del sonetto: da
qui la definizione di enigma) viene ripreso, con amara ironia,
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
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l’argomento trattato anche nel sonetto Madonna, ancor son vivo e’
non è ciancia, ovverosia l’elezione a ‘baron di Francia’, una dignità,
ossia un titolo onorifico conferitogli dall’aver contratto il cosiddetto
morbo gallico. Il sonetto Madonna, ancor son vivo risale al
settembre-ottobre del 1499. Questo sonetto proemiale pare quindi
esser stato scritto dopo quella data, in un momento prossimo ormai
alla morte del Poeta, attorno al 1501.
[Codice Ambrosiano H. 223 inf., f. 15r]
ENIGMAa
Madonna, poi che dal regno di Pluto
ritornò il spirto alla terrestre spoglia,
benché osservar quel ch'io prometto soglia,
pur vo' ubidir quanto in precetto ho avuto.
E già sarei al fin, ma son tenuto
da una dignità contra mia voglia,
la qual possedo con sì estrema doglia,
che fa, s'io vo, che'l par ch'io sia venuto.
Onde usarò quanto in me resta forza,
che sol per questo la mia debil vita
ritien di vivo la bollata scorza.
E se quel masso bel di marcasita,
che a partir di qua spesso mi sforza,
per me non si tramuti in calamita,
forsi verde e fiorita
arai da me, prima che maggio nasca,
rinchiusa fra due asse, ogni mia frasca.
b
5
10
15
Sonetto caudato; schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE, la coda è costituita da un settenario
in rima col verso precedente e due endecasillabi a rima baciata. Se non altrimenti indicato
(come nel caso della sonettessa, ossia un sonetto a più code), questo è il metro della maggior
parte dei sonetti burleschi qui riprodotti.
a
Titolo inserito in un secondo momento da A2.
Inizialmente scritto con una B- iniziale, per influenza del verso successivo (errore tipico di
chi sta effettuando una trascrizione), poi corretta in R- dallo stesso copista.
b
PARTE QUINTA
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NOTE
1. Madonna: Isabella d’Este Gonzaga, dedicataria del
canzoniere del pistoiese.
2. ritornò il spirto: nella finzione poetica, l’anima del Pistoia
ha compiuto un viaggio oltremondano ed è poi tornata all’interno
della sua veste (spoglia) terrena.
3. benché: con valore causale ‘dacché’, in relazione con pur del
verso 4; quindi: ‘dacché io sono solito mantenere fede agli impegni,
farò quel che mi è stato ordinato’
4. in precetto: sottintende dalla stessa Marchesa, che l’ha
incaricato di raccogliere tutti i suoi sonetti.
5. al fin: ‘alla fine dell’opera’.
6. dignità: ‘onorificenza’, quella di baron di Franza cui allude
sia nelle sue lettere (cfr. Introduzione, p. 83 e sgg.), sia nel son. IX (v.
20). Cfr., per lo stesso uso del vocabolo nel senso di "titolo onorifico"
la Sommetta ad amaestramento di componere volgarmente lettere
(Irene Hijmans-Tromp, La Sommetta falsamente attribuita a
Brunetto Latini, in «Cultura Neolatina», LIX 1999, fasc. 3-4, pp. 177243: 202): «posto a ciascuno suo titulo vel dignità». Si tratta della
sifilide secondaria, come si deduce anche dai versi seguenti, allusivi
proprio allo stadio della malattia in cui versava nel 1501 il Pistoia, che
si manifestava con eruzione cutanea generalizzata costituita da
elementi eritematosi e papulosi disseminati, che comparivano a
gittate successive (perciò al v. 11 il Poeta parla di bollata scorza).
Contemporaneamente all’eritematosi, si avevano manifestazioni della
mucosa orale e genitale caratterizzata da erosioni superficiali,
ricoperte da essudato grigiastro (cui si riferisce in maniera allusiva al
verso successivo). I problemi agli organi interni si manifestavano
anche anni dopo la comparsa dei primi sintomi. A questo punto la
sifilide entrava nel terzo stadio, anche se i danni neurologici potevano
manifestarsi già dal secondo stadio (causando la cosiddetta sifilide
neurale). In questa fase l’individuo perdeva la capacità di controllare i
movimenti muscolari, poteva avere delle paralisi, confusione mentale,
cecità graduale (come avvenne al poeta) e sviluppo di demenza. Il
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Raccolta antologica
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danno poteva, come di fatto accadde al Pistoia, e qualche anno prima
a un suo figliolo, portare alla morte.
8. che fa ... venuto: ‘se pure vado all’altro mondo, pare che io
ne sia tornato’ (riferito evidentemente alle proprie condizioni di
salute); ma è manifesto il doppio senso osceno.
11. bollata scorza: ‘corpo ricoperto di papule’. La metafora
della scorza per indicare il corpo è neoplatonica, cfr. Michelangelo,
Rime, 152, v. 8 «cruda e dura scorza».
12. masso ...marcasita: ‘marcasite’, minerale di bisolfuro di
ferro; qui allude al masso a lui destinato all’Inferno, sul quale, stando
al Dialogo introduttivo, lo Spirito del Pistoia starà «acciò che, a cui
vorrà di lui notizia, in questo loco, facilmente la si possi dare,
vedendolo in quella eminentia». Sempre secondo il Dialogo,
un’iscrizione in rima vieta agli altri spiriti di occupare quel masso
durante la residenza terrena del Pistoia:
Nïuno ardisca aver qua seggio o loco,
finché dal mondo un’ombra a questo nido
non venghi, scòrta da faceto gioco.
E quando ella fia qua, senza altro grido
fugan l’ombra del loco le triste ombre,
né a cento passi qua s’accosti o sieda
spirito che’l suo errore ad altri adombre.
Nell'Antichità, la marcasita era spesso confusa (per il suo
colore e la sua composizione) con l'oro e per questo veniva detta "oro
degli stolti"; ritengo sia per tale motivo che il Pistoia se la destina
ironicamente, dopo la morte, più che per la parafonia con il termine
marchesana (riferito all'estense, che non mi pare potesse sentirsi
lusingata dall'esser posta agli Inferi in qualità di masso), come
interpretò invece il Pércopo.
13. sforza: dal lat. med. sfortiare con esempio datato 1363. In
testi tosc. e toscanizzati, sforzare a + inf. vale ‘costringere a’.
17. frasca: ‘ramoscello fronzuto’, nel gergo burlesco vale però
per ‘ciancia’, ‘ragionamento inconcludente’, qui dunque è da
intendersi nel senso di ‘componimento poetico di poco conto’. Anche
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
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il Sermini ricorre alla metafora dell'insalata (composta da varie erbe)
per le sue novelle, in questo sonetto però si nota una leggera ironia,
data dai possibili doppi sensi della sfera bucolica e floreale.
Naturalmente il Pistoia, attraverso la metafora della frasca, fa anche
professione di humilitas.
II
ENIGMA
Il componimento è tràdito sia da A, che da F (in cui figura
all’inizio della raccolta); edito per la prima volta dal canonico Pietro
Volpini,1 che lo trasse da F e vi aggiunse il titolo Sonetto proemiale
alle rime di Antonio Cammelli, venne pubblicato in seguito da CF,
senza commento alcuno.
Si tratta di un sonetto sul proprio canzoniere (da intendersi
nella generica accezione di "raccolta poetica"): se il testo che precede
si era concluso con il proposito di portare a termine, entro la
primavera, il lavoro di revisione e ordinamento dei componimenti
lirici da offrire a Isabella d’Este, questo si apre sullo stesso argomento.
Il Pistoia sceglie la metafora del giardino per rappresentare il proprio
libro. A testimonianza dell'ambiguità della metafora floreale, si legga
il componimento di Francesco di Vannozzo (poeta e musico versatile e
vivacissimo e autore di alcuni dei più antichi esempi di poesia
dialettale in pavano e in veneziano), Rime (ed. critica a c. di R.
MANETTI, 1994):
Con ciò sia cosa che quel laureato
poeta antico, nell'arte gentile,
abbia battuto tanto el suo fugile
ch'el sïa per lo mondo publicato,
e poi, per tema de cader di stato,
c'altri non colga la rosa d'aprile,
m'abbia dipinto con suo falso stile
e la suo colpa sopra me voltato,
pregar vi voi, missier Lario Centone,
che 'l vostro amico voi facciate acorto
1
Per nozze Avv. Pellegrino Ducceschi e Leonilda Masi, Pistoia, XXII Luglio
MDCCCLXX, Livorno, Meucci, [s.n.]
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
174
de non usar col sordo buserone.
Un giardino poetico, quello del Pistoia (sul modello del
Poliziano, Rime, C ii), il cui argomento centrale è per il poeta,
chiaramente, il Moro (v. 6), cui spetta lo scettro tra i Signori d’Italia;
ma accanto allo Sforza il Pistoia pone, evocativamente attraverso la
palma (uno degli elementi dello stemma del Correggio), anche il suo
primo mecenate e amato cugino di Isabella: Niccolò Postumo. Ogni
arbusto ed erba, come il rosmarino, l’amaro assenzio e la salvia, sono
piantate per simboleggiare qualche personaggio, avverte il poeta, e se
qualcuno crede che gli sia stata destinata l’ortica (i sonetti caustici),
allora non si accosti al libro delle rime! Per non fare troppo fatica, che
si colga la rosa (i sonetti che appaiono più semplici), evitandone le
spine (i doppi sensi e le allusioni) e si scelga l’erba più consona ai
propri gusti.
Nella cauda, il Pistoia ricorda che nella sua raccolta di sonetti
ce n’è davvero per tutti (v. 15) e se qualcuno credesse di riconoscervi
dei plagi (v. 16. del suo grano), lo denunci pure, ma ritragga l’indice
accusatore.
[Codice Ambrosiano H. 223 inf., f. 15v]
II
ENIGMAa
Nel tempob che '1 cervel regna in verdura,
e il miglior pasto ha '1c falcon peregrino,
Seminod, pianto, incalmo un mio giardino,
cinto intorno di frasche, e non di mura.
Piàntol de’e frutti che pô dar natura:
nel mezzo il moro alla palma vicino,
salvia ci metto, assenziof e rosmarino,
poi, sotto il lauro, un fonte d'aqua pura.
A nome di qualcuno ogni erba pianto:
chi crede che per lui sia quag l'ortica,
lascila stare, o s' armi ben d'un guanto.
Colgah la rosa ognuni per men fatica ;
e poi, lasciata la spina da canto,
l'erba che pare al gusto suo più amica.
Qui serà d'ogni spica;
pur s’alcun ci vedesse del suo grano,
a
5
10
15
Come per il son. precedente, il titolo è stato inserito in un secondo momento da A2.
Nel tempo] F ‘el tempo’
c
ha’l] A, P1, F ‘al’
d
semino] tutti i codici hanno ‘termino’; adotto la variante ‘semino’, che mi pare abbia più
senso in questo contesto.
e
de’] A, P1 ‘di’
f
assenzio] ‘assentio’; CF ‘ascenzio’
g
qua] F ‘qui’
h
Colga] CF e P1 preferiscono mantenere ‘Tolga’.
i
ognun] F ‘ognom’
b
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
176
dîami una accusa e tenghi a sé la mano.
NOTE
1. cervel: da intendersi con doppia valenza, sia come semplice
diminutivo di ‘cervo’, sia dal lat. cerebellum, ovvero ‘cervello’.
regna in verdura: indica il periodo dell'anno in cui il cervo è il
re incontrastato delle selve, ma ad un secondo livello di
interpretazione (sempre soggiacente alla lirica del Pistoia), leggerei:
‘nel tempo in cui il mio cervello ha il dominio delle frasche poetiche’,
ossia ‘durante il tempo (concessomi), nel quale ancora sono in grado
di intendere (prima che la malattia mi porti alla pazzia)’; concetto in
evidente relazione con i sonetti precedenti e con il Dialogo
introduttivo.
2. falcon: si presta a un'interpretazione in chiave equivoca, in
quanto il falcone, nella letteratura burlesca, è simbolo fallico.
3. incalmo: da IN + CALAMUS, ‘innestare a stelo’, che differisce
dall’inoculare, per il tipo di supporto utilizzato, il calamo, appunto.
6. il moro: altro nome del ‘gelso’, ma qui chiara allusione a
Ludovico Sforza, cui il Poeta, nel suo ideale giardino, accosta la palma,
in quanto simbolo di gloria, ma anche quale elemento dello stemma di
Niccolò Postumo da Correggio.
7. assenzio: erba delle composite di sapore amarissimo, a volte
tossica: allude ai sonetti più velenosi.
15 ogni spica: ‘ogni genere poetico’.
16. grano: ‘farina del proprio sacco’.
III
ENIGMA
Tràdito da A e da F.
Sonetto burlesco sulla ragione per cui il Pistoia compone
poche poesie d’amore: un giorno, sul far dell’alba (momento topico,
che qui rappresenta l'inizio del suo poetare), il Nostro era salito sul
Parnaso, dove aveva visto le nove Muse tessere fiori e intrecciare
ghirlande (ossia comporre versi). Aveva visto anche il dio della luce,
Apollo, protettore e ispiratore degli artisti, con l’alloro in fronte, nel
momento in cui nasce il giorno (vv. 5-6) e il dio lega i cavalli al cocchio
del Sole, riuscendo a mantenere il carro sulla via lungo la quale
Fetonte non fu in grado di condurlo.
Il poeta ironizza sul fatto che in questo quadretto elegiaco, egli
era riuscito già a cogliere due ramoscelli (aveva dunque avuto
un’ispirazione poetica ed aveva composto due opere), quando
improvvisamente qualcuno lo aveva messo in guardia e lo aveva
indotto a scappare dal Parnaso, facendolo ripiegare sul Citerone,
monte sacro a Dioniso e alle baccanti, sede di riti orgiastici. Questa è
la ragione per la quale, scrive il Pistoia, se egli canta d’amore, ne canta
poco (dacché è riuscito a coglier poche fronde sul Parnaso),
dileggiando chi trae ispirazione da questo sentimento (dunque i
petrarchisti); piuttosto egli preferisce comporre sonetti giocosi (v. 18:
cose da gioco) che facciano divertire chi li legge.
Sonettessa; schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
178
[Codice Ambrosiano H. 223 inf., f. 16r]
III
All'aurora, ne andai sopra d'un monte,
dov' io vidi fanciulle insieme elette,
a tesser fiori e interzara girlandetteb,
nove ne numerai d'intorno un fonte.
Apollo vidi col suo lauro in fronte,
nell'ora che i cavalli al carro mette,
e asceso susoc quel co’d le saette,
tenne la via che mal vide Fetonte.
Io avevae tolto già due frondif in mano,
quando un mi disse; - Sora, compagnone,
che non ti veda il can dell'ortolano !
Partîmi, e volsi al monte Citerone,
e, ne 1'andarvi, vidi da lontano
un che segno mi fe’g con un bastone.
Questah è sol la cagione
che s'io canto d'amor, ne canto poco,
sbeffando ogni uomi che da lui toglie foco.
Faccio cose da gioco,
ché a chi legendo la lor fine tocca,
se gli trarebbe i denti for di bocca.
a
tesser ...girlandette] A2, P1 ‘coglier f.’, ‘tesser g.’
girlandette] A2 ‘ghirlandette’: alla g è sovrapposta un’h
c
suso] A2 ‘su’
d
co’] ‘cum’
e
avea] nel codice ‘hauea’ è corretto da A2 in ‘haueua’.
f
frondi] corretto da A2 in ‘fronde’
g
segno mi fe’] A2 ‘mi minaciò’
h
Questa] A ‘Questo’
i
ogni uom] F ‘ognun’
b
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
179
NOTE
1. All'aurora: indica l'inizio del suo poetare.
monte: il Parnaso, sede terrena del dio Apollo e delle Muse.
3. tesser ... interzar: i due verbi, presenti in entrambi i codici,
alludono all’azione del comporre versi, per questo la correzione di A2
in coglier fiori e tesser ghirlandette, accettata e riprodotta da P1, mi
pare una banalizzazione da parte di chi non colse la raffinatezza
poetica.
4. fonte: sottintende la fonte Castalia, che secondo la mitologia
si trovava sul Parnaso ed era ispiratrice della Poesia.
8. Fetonte: Fetonte era figlio di Apollo e di Climene: ottenne da
Apollo il permesso di guidare per una volta il carro del sole nel cielo,
quasi a conferma dell’amore paterno. A causa della sua inesperienza,
però, non riuscì a controllare i bizzosi destrieri che trainavano la
quadriga dorata e, uscendo dal cammino consueto, rischiò di
incendiare la terra e provocò una bruciatura nel cielo, che nella Via
Lattea mostra ancora la cicatrice. Giove, allora, fulminò Fetonte che
precipitò nel fiume Eridano (il Po). Cfr. Ovidio, Metamorfosi I, 174 e
II 47-324 .
10. Sora: da ‘sorare’, ‘levarsi in volo’, dal lat. EXAURARE,
composto da EX + AURA (vento), da cui si ha anche il provenzale
eisauriar, esorar e il francese s’essorer.
12. Citerone: monte sacro a Dioniso e alle baccanti, qui a
simboleggiare, giocando anche sul nome, la poesia burlesca e triviale.
Si legga Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante (14-18):
vicino a Tebe, dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato / Citerone
per la frequenzia del canto della cetera, / il quale in quello faceva
Orfeo. E sono quegli sacrifici / ancora chiamati «orfichi», ne' quali
esso Orfeo fu poi / morto ed isbranato.
17. sbeffando ... foco: ‘facendomi beffe di chi s’accende
d’amore’.
19. lor fine tocca: ‘giunge a leggere i sonetti sino alla fine’,
perché è nella cauda che si raggiunge l'apice dell'ironia.
20. se gli ... bocca: ‘gli si potrebbero cavare tutti i denti di
bocca, tanto se la ride di gusto’.
IV
Tràdito solo da A.
È preceduto dal sonetto A Dio ti lascio, o bel paese tosco.a
Dedicato all’accoglienza riservatagli dal Correggio e da sua moglie
Cassandra dopo la sua partenza da Pistoia.
Un giorno, narra il poeta, Cupido lo ferì con il suo dardo
dorato, quando, superato il fiume Secchia, che si trova nel Modenese,
gli apparve la Lombardia e una stringa d’oro gli serrò il cuore. Egli
stava ripensando al tempo trascorso vanamente, imprecando contro
coloro i quali gli avevano causato offesa, allorché udì una dolce voce
dire: “La fortuna si presenta una volta sola, così come una volta sola si
muore. Io sono la Gloria, io sono la tua salvezza e sono stato inviato
qui per te dal Cielo, come consolazione alle fatiche che hai sostenuto!”
Fu così che si ritrovò tra due palme (compare nuovamente il simbolo
araldico del Correggio, già nel secondo "enigma", v. 6), seduto su di
un trono, ringraziando il Cielo, che lo aveva destinato a un così nobile
Signore, rendendolo dimentico del male sofferto in passato, facendolo
resuscitare, in tal modo, dalla morte!
Già una volta, dunque, prima della discesa nell'Ade, il poeta
era tornato in vita (con evidente doppio senso osceno dell'ultimo
verso), grazie al sostegno di un amato mecenate.
a
Riportato nell’Introduzione e dunque non riprodotto nuovamente qui.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
181
[Codice Ambrosiano H. 223 inf., f. 16v]
IV
Col suo stral d'oro un dì ferrime Amore,
quando la Lombardia mi fu palese:
passata Secchia ch'èb nel Modenese,
una correggia d'orc mi strinse il core.
Pensando al tempo mio invano e 1'ore,
bestimiando ciascun che mai mi offese,
quando un dolce parlar per me se intese:
- Una volta è ventura, una si more.
Io son la Gloria, io la tua salute;
e qui dal Ciel a te mandato io sono,
merito alle fatiche ch' hài perdute! Trovâmi in fra due palme sopra un trono,
laudando il Ciel e sue laude compiute,
ch' a sì divo Signor mi fece dono,
Mettendo in abbandono
quel mal che nel passato mi fu pòrto,
cosi ritornò vivo un corpo morto!
b
c
ch’è] A1 ‘che’, poi corretto in ‘ch’è’
or] ‘oro’
5
10
15
NOTE
1. ferrime: ‘mi ferì’, con postposizione del pronome personale.
Per ferrì cfr. il Roman de Palamedés (pt. 1, p. 148), a c. di A.
LIMENTANI, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962:
«E incontenente alsa la mano e poi la chiuse e menòla d'alto per
forsa e ferrì sì fortemente lo gigante in su la testa, che disarmata l'avea, che lli
iscoscese tutta la testa sì, che le cervella e amburo li occhi li fece volare fuore
de la testa».
4. correggia: ‘cintura’, ‘cinghia’, propriamente striscia di cuoio
indossata intorno alla vita, a scopo ornamentale o per sorreggere o far
aderire gli indumenti, e usata anche per riporvi oggetti; qui sta a
simboleggiare la moglie del Correggio, Cassandra Colleoni, sorta di
midons rinascimentale del Pistoia.
6. bestimiando: in senso assoluto, ‘imprecando’.
8. Una ... ventura: ‘la fortuna si presenta una volta sola, così
come una sola volta si muore’.
9. salute: ‘salvezza’.
11. merito: ‘premio’, ‘ ricompensa’. Cfr. Decameron, n. 19. 22:
«Io non feci mai cosa, per la quale, io dal mio marito, debbia così fatto
merito ricevere».
12. due palme: allusione allo stemma araldico adottato dal
Correggio dopo il matrimonio con Cassandra Colleoni, alla cui
sommità figurano alcuni rami di palma.
15. mettendo ... abbandono: francesismo da à bandon; cfr.
Voc. Crusca (1612) «Posto avverbialmente, vale ‘senza cura’, e ‘senza
custodia’, ma s' accompagna co' verbi lasciare, e mettere, che in lat. si
direbbe DESERERE».
****
*
SONETTI LUBRICI
I
ENIGMA
Tràdito da A, F, P, S.
Secondo il codice S (fol. 70v), il sonetto venne indirizzato dal
Pistoia «Al signor Hieronimo Tuttavilla, dove se lamenta di amore». Il
Tuttavilla era figlio naturale del cardinale francese Guillaume
d’Estouteville e compagno di scorribande di Franceschetto,a figlio
naturale (e riconosciuto legalmente) di papa Innocenzo VIII.
Girolamo († 1495), era Signore di Frascati, Nemi e Genzano,
aggregato al patriziato napoletano per il Seggio di Porto; fu al servizio
del Re Ferdinando II di Napoli che lo creò conte di Sarno, nel 1495, a
seguito di una vittoria contro i francesi invasori. Nel 1483 aveva
sposato Ippolita Orsini, figlia di Napoleone, Conte di Tagliacozzo,
signore di Vicovaro e Bracciano, Patrizio Veneto, e di Claudia Colonna
dei Signori di Montefortino. Nel 1484, Girolamo era stato fatto
prigioniero a tradimento da Antonello Savelli. Oltre che uomo d’armi,
fu letterato,b scambiò sonetti epistolari con Gasparo Visconti e Iacopo
Sanseverino. Qui è evidente che il Pistoia ne sta parodiando un
componimento, di cui con ogni probabilità riprende le rime. Al
a
Cfr. G. L. WILLIAMS, Papal Genealogy, The Families and Descendants of
the Popes, Jefferson, North Carolina, McFarland, reprint 2004, p. 57.
b
Cfr. F. GABOTTO, Girolamo Tuttavilla uom d'arme e di lettere del sec.
XV. Notizie sparse e documenti, «Archivio Storico» (XIV), 1890.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
184
Tuttavilla aveva dedicato dei versi anche Giano Anysio (1456 c. 1540).
Sebbene in letteratura vi sia un vasto gruppo di testi
contenenti metafore relative al campo delle armi e del combattimento
impiegate per indicare l'aspetto aggressivo insito nel rapporto
sessuale (a quelle registrate da Boggione-Casalengo nel loro citato
Dizionario, si aggiungano i testi di Cecco Nuccoli, Lellio 'n armo e
Ben ve mostra fornito el vostro conto di Nerio Moscoli), l'immediato
modello di questo sonetto, tutto giocato sui doppi sensi osceni della
pugna amoris e disseminato di elementi lessicali maliziosamente
allusivi, mi pare essere Una bestiola ho vista molto fera di Rustico
Filippi, testo la cui grivoiserie è stata colta solo di recente da S.
Buzzetti Gallarati (nell'edizione edita da Carocci, cit., p. 122). In
particolare, mi paiono indicativi il v. 2 del sonetto di Rustico, in cui la
bestiola viene presentata «armata forte d'una nuova guerra» e
l'iperbole finale: «de' suo' nimici assai mi maraviglio/ sed e' non
muoion sol di pensagione», il cui effetto comico è ripreso dal Pistoia,
nei vv. 10-11.
Il lettore potrebbe, nella prima quartina, esser tratto in
inganno dalla definizione di veril animale (v. 2) che designa in realtà
il sesso femminile; ma i versi 9-11 chiariscono l’aequivocatio che mi
pare giocata, appunto, sul fatto che in molti testi comici delle origini e
poi anche nella Nencia di Lorenzo (str. xv, vv. 118-120) o in Masuccio
(Novellino, 13, 15), il termine bestiuola allude al membro virile.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
185
[Codice Ambrosiano H. 223 inf., f. 17r]
I
ENIGMAc
Nel foltissimo bosco del Frignano
un viril animale è di tal prova
che quanto più il nimico irato trovad,
tanto è più volentier seco alle mano.
Apre la bocca e giù lo ingolla sanoe
e quanto è grande più, più gliene giova
ch'a pugnar co’ magior, magior rinova
fama, se'l n'ha vittoria, il capitanof.
O quanti ne serian morti dolenti,
se lo animalg, quando è in magior furore
avesse in bocca per difesa i denti!h
Ma perch’egli non gli ha, niun ne morei:
pur sono i colpi suoi tanto repenti
che ciascun lascia ‘n un punto il vigore.
Lo avversario vien fore
prima ogn'om piantoj l'aspri colpi sui
si restonk come morti tutti dui.
Di questi sempre fui,
che per seguir d'amor le sue dottrine,
rido il principio mio, piangendo inl fine.
c
Titolo inserito in un secondo momento da A2.
che ... trova] S ‘che quanto irato più il nimico trova’
e
Apre ... sano] S ‘Apre ... e lui inghiotisse sano’
f
capitano]’ capitanio’, corretto dal copista stesso
g
animal] l’ultima -e- è espunta
h
per ... denti] P1 ‘per sua diffesa in bocca avesse i denti!’
i
Ma ... niun ne more] S ‘alcun non more’: F ‘Ma perché lui, nessun ne muore’
j
pianto] S ‘pianti’
k
si reston] P ‘rimangon’
d
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
Sonettessa; schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF
l
in fine] S ‘al fine’; P ‘il fine’
186
NOTE
1. bosco: «metaf. per ‘vello pubico’» (Toscan).
Frignano: nell'Appennino modenese; il valore metaforico
sfrutta la parafonia con “frigna”, che è già nel Pataffio («la frigna
spacciommi»), recentemente attribuito a Franco Sacchetti.1 Lo si
ritrova anche in Burchiello, Sonetti, CXXVII, vv. 15-17: «tornisi per
Frignano/ presso a Monte Ritondo, e da Compiobbi/ Che ritti fa
tornar, chinati e gobbi».
2. viril animal: ‘bestia possente’, qui l’aggettivo non sta per
‘maschile’, ma, come dal Voc. Crusca (1612): «Per metaf. ‘valoroso’, ‘di
gran forza’».
prova: ‘valore’, ‘forza provata’; per l'espressione avere o essere
di prova per ‘cimentarsi’, cfr. La prima Deca di Tito Livio,
volgarizzamento del buon secolo, a c. di C. DALMAZZO, t. 2, Torino,
Stamperia Reale, 1845-46, com'egli aveva di prova in guerreggiare.
3. alle mano: «diciamo anche per ‘azzuffarsi’. Lat. AD MANUS
VENIRE».,Voc. Crusca (1612).
5. sano: ‘intero’.
6-8: metafora della battaglia amorosa. ‘Quanto più è grande
(sottinteso il nimico), più ne trae profitto, come un capitano che
uscendo vittorioso da un combattimento con un degno avversario
(magior, 7), rinnova la propria fama’.
13. repenti: ‘rapidi’, ‘veloci’.
20. piangendo in fine: evidente doppio senso con cui il poeta
allude tanto ai petrarchisti, quanto oscenamente all’eiaculazione.
1
Cfr. F. DELLA CORTE, Proposta di attribuzione del Pataffio a Franco
Sacchetti, in «Filologia e Critica» 28 (2003), pp. 41-69.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
188
II
Tràdito da A, F, P.
Come il precedente, anche questo sonetto, che potremmo
definire dei “toponimi parlanti” (in un’ideale geografia corporea,
ampiamente modulata nei canti carnascialeschi2 e nella poesia
burchiellesca in genere), è giocato sull’ambiguità: viene prima
tracciata la geografia della selva nella quale avviene la battaglia
amorosa di cui sono descritte le consuete modalità; nella seconda
terzina si allude ai rapporti venerei contro natura, alle secrezioni
prodotte nell’una e nell’altra “miniera” e al rischio di contrarre la
sifilide per reiterate pratiche sodomitiche.
2
Cfr. Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Rinascimento, a c. di R.
Bruscagli, 2 voll., Roma, Salerno Editrice, 1986.
II
Nel bosco ombroso de Monteficale,
Conigliana se ritrova alla collina
il qual conb Monteritondo confina
alla distanza d'un piccol canale.
In questa silva vive uno animale
che, quando a lui un altro s'avvicina,
lo piglia,c come il lupo la gallina,
e quantod più maggior, men gli fa male.
Per bocca questo tolto, se lo mena:
tenutol quanto il vuol, poi for lo lassa
piangendo, tutto tronco nella schena.
Alcun per Monteritondo ne passa;
par questo loco de più dolce vena:
ne l'un si smagra e ne l'altro s'ingrassa.
Qui robba assai è 'n cassa:e
ciascun de questif hanno la sua minera,
nasce solfo nell'un, nell'altro cera.
Or chi de la matera
sulfurea prima troppo s'empieg i panni,
si fa baron di Franza per cent'anni!
5
10
15
20
Sonettessa; schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF
a
Coniglian] P Culignan
con] assente nel codice A
c
piglia] P ‘ngolla
d
quanto] P1 aggiunge la voce verbale ‘è’; intervento che però causa problemi di metrica
e
è in cassa] A s'incassa
f
questi] F loro
g
empie] S se n’enbratta
b
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
190
NOTE
1. bosco: cfr. nota 1 del son. precedente
Montificale: Monteficalle. Chiara allusione oscena, più volte
utilizzata dai poeti burleschi, tanto che il nome di questo villaggio
venne “moralizzato” nell’Ottocento, divenendo Montefioralle. Il borgo
si trovava sulla cosiddetta «via del guardingo di Passignano» che
collegava trasversalmente tre valli meridionali del contado fiorentino:
della Greve, della Pesa e dell’Elsa. Qui indica il cosiddetto Mons
Veneris. Il toponimo è di coniazione boccaccesca e associa l'idea della
natura femminile come rilievo, monte, e l'uso metaforico di fica per
indicare la vulva.
2. Coniglian: Conegliano. Inteso come ‘luogo dove si coniglia’,
o ‘si fornica’: nella geografia corporea del sonetto, indica il sesso
femminile; viene sfruttata anche l'affinità fonica con conno (<
CUNNUS).
3. Monteritondo: nel Grossetano, qui, come nel Burchiello
(Sonetti, CXXVII, vv. 15-17: «tornisi per Frignano/ presso a Monte
Ritondo, e da Compiobbi), allude al ‘deretano’.
15. 'n cassa: allusione alle feci.
17. solfo ... cera: ‘escrementi’ e ‘secrezione vaginale’.
20. baron di Franza: ‘sifilitico’.
III
Tràdito da A, P.
Testo à double entendre (per usare un'espressione di Jean
Toscan). Gli oggetti e le operazioni cui si fa riferimento sono, a un
secondo livello di senso, oggetti e operazioni scopertamente grivois,
riferiti alla deflorazione.
Quel fraticel che schiuma la pignatta
drento a Bologna questa notte è vostro;
non siate pigra a disserrargli 'l chiostro
perché gli è gran pericul della gatta.
Lasciatel pure entrar senza che 'l batta,
che 'l si cognosce ben da un paternostro;
tenetel drittoa pur com'io vi mostro
in modo che fra voi non si combatta.
Il santo fraticel ha un suo costume
d'entrar col capo inanzi e non si cura,
perché gli è cieco, che s'accenda 'l lume.
E mal serìa per voi se stessi dura:
ch' el nonb rompe sì presto al corso un fiume,
come il farebbec lui la serratura.
Non abbiate paura,
ch'a chiunque umano gli è, lui è fidele,
e tutto quel ch' el mangia, sputa in mèle.
Or non siate crudele
a vestir questo nudo poverello
che gli uomini sa far senza coltello.
Sonettessa; schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF
a
dritto] P ritto
ch’el ... rompe] P che non rompe
c
come il farebbe] P come farebbe
b
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
192
NOTE
1. fraticel: ‘pene’ (si pensi alle molte occorrenze del termine in
senso osceno nella letteratura burlesca, come fra Mazza o fra
Cazzocchio).
schiuma: la prima accezione è da intendersi in senso trans.
‘togliere la schiuma’, ma l'Autore gioca sul traslato, da leggersi dunque
qui come intransitivo, che vale per ‘raggiungere l'orgasmo’; cfr.
Sermini, Novelle, 20 [388]: «Tanto batteva e scardazzava quella lana
che, a uno tempo il ramaiuolo e la mescola accordandosi,
delicatamente le due pignatte si schiumarono a uno tratto».
la pignatta: ‘pentola’, qui sta per ‘sesso femminile’, come pure
la serie dei termini che seguono.
2. Bologna: ‘vagina’.
3. chiostro: propr. ‘luogo chiuso e angusto’, in senso figur.
designa il grembo femminile nella condizione di verginità (il virginal
chiostro, cui allude il Petrarca, CCCLXVI, 68).
4. gatta: la metafora sopravvive ancor oggi nel genovese ed ha
corrispettivi nel francese popolare chatte e nell'inglese pussy. Dunque
l'A. sta alludendo al fatto che se la pulzella è lenta nel disserrare il suo
chiostro, ci saranno più probabilità che provi dolore (pericul della
gatta); il consiglio è ancor più esplicito ai vv. 12-14.
6. paternostro: per l'uso ironico in contesto osceno (con
allusione all'atto sessuale), cfr. Decameron, II 2, e VII 3: «Il
compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di
quattro n'aveva insegnati alla fanticella».
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
193
IV
La descriptio amoris in chiave parodica si fa tradizionalmente
risalire all'Orcagna al quale si ispirò il Burchiello stesso, di cui si
trascrive qui il son. CXCIII, dell'ed. Zaccarello:
Molti poeti han già descritto Amore:
fanciul<lo> nudo, coll’arco, pharetrato,
con una peza bianca di bucato
avolta agli occhi, e l’alia ha di colore.
Così Omero, così Nason maggiore,
Virgilio e tutti gli altri han ciò mostrato:
ma come tutti quanti abbino errato
mostrar lo ’ntende l’Orcagna pittore.
Sed egli è cieco, come fa gl’inganni?
Sed egli è nudo, chi gli scalda il casso?
S’e’ porta l’arco, tiralo un fanciullo?
S’egli è sì tenero, ove son tant’anni?
E s’egli ha l’ali, come va sì basso?
Così le lor ragioni tutte l’annullo.
Ma Amore è un trastullo
che porta in campo nero la fava rossa
e cava cannamele delle dure ossa.
5
10
15
Il Pistoia non fa che rielaborare dunque un topos della poesia
burlesca: quello della rappresentazione fallica in forma antropomorfa,
già in Orazio, Satire, I, 2, 68-71 (ed. Richlin, 1992, pp. 116 sgg.), che si
diparte da Boccaccio (Ninfale fiesolano, str. ccxliv; Decameron, viii,
vii, 67), per essere ripreso da Sacchetti, Sercambi, Bandello ed essere
ampiamente modulato da poeti quali il Tedaldi (Amore è giovinetto e
figurato / ignudo ed orbo, co' feroci artigli), il Poliziano, i toscani dei
canti carnascialeschi e Lorenzo il Magnifico, sino ad approdare infine,
nel Novecento, a Moravia e Malerba.
IV
Che cos' è Amore? È un fanciullin da gioco,
senza occhi, senza naso e senza orecchi.
Ch'il vede alla fenestra, s'apparecchi
di star l'estate e 'l verno sempre al foco.
L'Amor va ignudo e stima i panni poco,
così nei tempi freddi come ai secchi
ha piacer di giocar, ma non con vecchi.
Riposa volontier a tempo e a loco.
Il padre, fabbro, ha la sua fabbrichetta,
e tempra al figliuol de' verettoni,a
po' il lascia volar via senza biretta.
Tutto 'l dì se riposa pei cantoni:
uccella volentier alla civetta,
ma non piglia altri uccei che civettoni.
Son varie opinïoni,
se 'l vede o no, ma i' trovo in un tratto
che Amore è cieco e vol esser menato.
S' egli entra in alcun lato,
pon sempre duo sonagli in su la porta,
che, in fin ch' el torna fuor, gli fan da scorta.
a
al ... verettoni] A il figliol di berettoni
5
10
15
20
NOTE
4. star l'estate e 'l verno sempre al foco:‘ ardere di passione in
ogni stagione’.
9. il padre, fabro: alcuni autori classici, tra cui Seneca,
consideravano Cupido figlio di Venere e di Vulcano.
10. verettoni: il codice A ha berettoni, forse un intenzionale
gioco verbale su verrettone, ossia dardo che veniva lanciato con una
balestra; ma la beretta, in senso fig., nella poesia burlesca indica il
prepuzio (cfr. Doni, Novelle, 8: «si cavi la beretta e faccia onore a me e
alla sposa»).
13. uccella volentier alla civetta: propr. ‘caccia e cattura vivi gli
uccelli, facendo uso di una civetta per attirare i volatili’, ma il doppio
senso erotico è palese e si connette alla diffusissima metafora
dell'uccello per indicare il pene.
14. civettoni: è solitamente definita civetta una donna dal fare
lezioso, ma il vocabolo è sovente attestato anche in relazione a
soggetti maschili per indicare ‘persone sciocche e vanesie’.
17. cieco: cfr. v. 11 del sonetto precedente.
menato: propriamente ‘condotto’, ma nella poesia del
Quattrocento il verbo, usato in senso assoluto, ha costantemente
significato osceno.
19. sonagli: l'uso equivoco del termine scelto a indicare
allusivamente gli attributi maschili, per tradizione a guardia della
'barra', è dovuto, oltre che alla forma dei sonagli, al fatto che questi
venivano attaccati agli uccelli da caccia (più precisamente agli
sparvieri), per poterli individuare più facilmente. Per un uso malizioso
dello stesso vocabolo, cfr. il son. Tapina, ahimé, in Sonetti anonimi
del Vat. Lat. 3793, ed. critica a cura di P. GRESTI, Firenze, Acc. della
Crusca, 1992, p. 143:
Tapina, ahimè, ch'amava uno sparvero!
Amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo bene m'era manero,
e dunque troppo pascer no 'l dovia.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
196
Or è montato e salito sì altero
asai più alto che far non solia,
ed è asiso dentro a uno verzero:
un'altra donna lo tene in balia.
Isparvero mio, ch'io t'avea nodrito,
sonaglio d'oro ti facea portare
perché dell'uc[c]ellar fosse più ardito:
or se' salito sì come lo mare,
ed ha' rotti li geti e se' fug[g]ito,
quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare.
Cfr. inoltre Antonio Pucci, Delle proprietà di Mercato Vecchio, in
Rimatori del Trecento, a c.di G. CORSI, Torino, Utet, 1969, p. 87; I’ ho
vedute già di molte piazze, vv. 172-74:
Con l'aste in man, forniti di sonagli,
armeggian per la terra, ognun sí gaio
ch'ogni altro par che di suo fatto abagli.
****
*
SONETTI POLITICI
Dialoghi con il principe Djem
I
1490
Tràdito da A, B, F, Ma3, Pa, O.
Questo è il più famoso dei componimenti politici del Nostro,
appartenente alla serie dei Dialoghi con il principe Djem. Pare che il
Pistoia abbia iniziato a scrivere i suoi sonetti politici durante il
soggiorno romano del 1490: il luogo e la data della redazione di
questo si rilevano da una didascalia presente nel codice 54 della Bibl.
Oliveriana di Pesaro: Cum Antonius Pistoriensis Rome a magni
fratre Teucri iis de rebus quereretur, fertur hoc respondisse rythmo:
die quarta maij 1490, così volgarizzata dal Gatti, in Strenna
piacentina1: «Ritrovandose a parlare Antonio da Pistoia cum el
fratello del Turcho et domandandolo delle potentie de Italia, rispose
in dialogo ut infra».
La struttura dialogata (tipica anche delle tenzoni fittizie) è
propria della poesia burlesca e affonda le radici nella letteratura
francese medievale. Sulle origini del sonetto dialogato si sono espressi
tanto Biadene nel 1888, quanto Stiefel nel 1913 che hanno indicato la
dipendenza dei testi italiani dalla cobla tensonada occitanica. Va
ricordato, però, quale fonte di ispirazione, anche il modello del
monologue dialogué, nel quale un giullare recitava le parti di due
interlocutori.
1
Cfr. Strenna piacentina, XVIII, 1892, p. 38.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
198
L’antefatto storico di questo componimento è noto (cfr.
Introduzione): alla morte del sultano dell’Impero ottomano Maometto
II, sopraggiunta nel 1481, i figli Bajazet II e Djem (detto anche Gem o
Zizim) si erano contesi il trono dando inizio a una guerra fratricida.
Ricevuto a Roma nel marzo del 1489, con tutti gli onori riservati a un
sovrano, Djem ottenne dal papa un appartamento in Vaticano, dove
venne tenuto sotto stretta sorveglianza. Grazie al conseguimento della
custodia del principe turco, Innocenzo VIII poteva posizionare il suo
pezzo migliore sulla scacchiera della politica internazionale e
perseguire così il suo progetto di crociata contro gli ottomani: scrisse
ai sovrani europei che qualora il principe suo prigioniero fosse
riuscito a diventare sultano in luogo del fratello, avrebbe ritirato le
truppe da Costantinopoli. Il progetto di Innocenzo VIII mise in
allarme il sultano Bayezid, il quale, in un primo momento, tentò di
uccidere sia il papa che Djem tramite un sicario, Cristoforo de
Castrano, detto Magrino, che avvelenò l’acqua della fontana del
Belvedere, in Vaticano. Ma quando il piano criminoso fu sventato e,
nel maggio del 1490, il Magrino venne decapitato (alla sua esecuzione
allude il poeta al v. 2), Bayezid offrì in dono al papa (oltre a una
cospicua somma di denaro), una presunta santa reliquia, in cambio
dell’assicurazione che Djem non sarebbe più stato rilasciato.
La situazione politica italiana nel 1490 era piuttosto tranquilla,
i Signori desideravano tutti la pace, come ricorda il Guicciardini:
«Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i
medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace,
si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di
Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della
republica fiorentina, per difensione de' loro stati; la quale, cominciata
molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata
nell'anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
199
potentati d'Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine
principalmente di non lasciare diventare piú potenti i viniziani».2
La parte iniziale del sonetto è tutta elaborata attorno a
metafore di giochi (quello della zara per Innocenzo VIII, quello della
civetta per re Ferdinando).
2
Cfr. F. GUICCIARDINI, Storia d'Italia, a cura di Silvana Seidel Menchi,
saggio introduttivo di Felix Gilbert, Torino, Giulio Einaudi editore, 1971, pp.
56-59.
I
- Che faa San Marco?- Guardab ove lampeggiac,
-Il Papa?-Tra’ di diece e fa vendetta.
- Il re Ferranted? - Giuoca alla civetta.
- Il gran Bisson che fa? - Che fa? Volteggia,
- Che fa Marzocco? – Sott'acqua vagheggia
- L'Aquila bianca? Un baston d'oro aspetta.
- La Lupa?-Trema, e la Pantiera ha stretta.
- Genoa che fa? -All'usato vaneggia,
- Che fa la Sega? - Mangia da ogni lato.
- Dimmi che fa or Marte? Ove s'annida?
- Sta su nel ciel con Vener disarmato.
- Italia u' dormee? - In mezzo a Crasso e Mida.
- Fra' magnanimi cor chi è il chiamato?
- Un Moro solo, e non altri si grida.
- Quel Moro in chi se fida?
- In due man che tien chiuse. - E che vi serra?
- Pace nell'una e nell'altra guerra.
- Donque costui è in terra
un novo Augusto? Anzi, un Cesar più degno,
ed è fra Giove e lui diviso il regno.
Risposta per le rime di Francesco Campanato, in M3, fol. 73v:
El fa che’ l vede el tutto e si pompeggia,
el Padre Santo all’ombra sua si quieta,
e Fertinando sta, vede e sospeta;
el gran Bisson al verde si paoneggia.
a
Che fa] Pa Chi el fa
Guarda] il verbo manca in A
c
Guarda ... lampeggia] Ma3 Varda ove e la mezza
d
Ferrante] F Ferrando
e
dorme] F jace
b
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
Firenze far non pol più che la vegia,
l’Aquila bianca vive cussì lieta,
Lupa e Pantiera el mal suo si dileta,
Genoa, come el Ciel vol, s’apparegia.
La Siega crida, manza e perde el fiato,
Marte suo’ forze in altri regni strida
e disarma, con Vener non se ha dato.
Se Italia dorme, Marco vegia e crida,
con suo’ partiti, lo Lione al lato,
e non che Moro alcun sia duce e guida.
Né che in alcun se fida,
se non quanto cognosce e vede in terra,
amando pace, sempre mantien guerra,
e con suo’ forze serra
e apre, quando il par ch’el Ciel fa segno,
e tra Jove e costor partito è il regno.
201
NOTE
1. San Marco = Venezia
ove lampeggia = ‘dove c’è ancora guerra’: si riferisce
all’Impero Turco-Ottomano e all’annessione di Cipro (ceduta da
Caterina Cornaro) da parte di Venezia, annessione riconosciuta dal
sultano d'Egitto proprio nel 1490.
2. Tra’ di diece = «gioca di numero alto» (Cappelli). «Allude
forse al congresso tenuto a Roma per la crociata contro il Turco»
(Pércopo). A parer mio, il Pistoia sta immortalando papa Innocenzo
nell’atto di giocare alla zara (ossia ai dadi: in arabo dado è zahar). Si
noti che in questo gioco (che si faceva gettando su un tavoliere tre
dadi e consisteva nell’indovinare in anticipo i numeri risultanti delle
loro possibili combinazioni), il 10 aveva maggiori possibilità di uscire.
Quei numeri, al disotto di 7 e al di sopra del 14, come il 3, il 4, il 17 e il
18, che potevano nascere da una sola anziché da più combinazioni,
erano considerati nulli.
Quindi chi, al gioco della zara, puntava sul dieci ed effettuava poi
realmente un tiro da dieci (tra’ di diece) aveva gioco facile. Va
sottolineato inoltre come, sin dal Medioevo vi fu una lunga serie di
editti che proibivano al clero di giocare d’azzardo (ricordo qui l’editto
scaturito dal Concilio di Trevi, e quello del Concilio di Worcester). Mi
pare evidente che, fuor di metafora, il gioco d’azzardo cui il Pistoia
allude è quello che Innocenzo VIII sta giocando con il sultano Bayezid
e grazie al quale guadagnerà una forte somma (per l’esattezza 40.000
ducati annui).
fa vendetta = si riferisce alla decapitazione pubblica di
Cristoforo di Castrano, detto il Magrino.
3. re Ferrante = Ferdinando d’Aragona, re di Napoli.
Osteggiato da Innocenzo VIII già dal momento dell’elezione del
pontefice, nel 1484, quando, durante la cosiddetta "guerra di Ferrara",
il papa aveva favorito i veneziani in Puglia affinché espugnassero
Gallipoli; mentre nel 1485, il papa aveva sostenuto la congiura del
Baroni contro Ferdinando. L’atteggiamento politico, nel 1490, del re è
così descritto dal Guicciardini: «E nondimeno Ferdinando, avendo
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
203
piú innanzi agli occhi l'utilità presente che l'antica inclinazione o la
indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si
alterasse; o perché, avendo provato pochi anni prima, con gravissimo
pericolo, l'odio contro a sé de' baroni e de' popoli suoi, e sapendo
l'affezione che per la memoria delle cose passate molti de' sudditi
avevano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie
italiane non dessino occasione a' franzesi di assaltare il reame di
Napoli; o perché, per fare contrapeso alla potenza de' viniziani,
formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria l'unione
sua con gli altri, e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze».a
Giuoca alla civetta = ‘cerca di schivare i colpi’. «Giuoco della
civetta, dicesi una sorta di giuoco di pegno. Giocare a civetta, fare il
giuoco così detto, dove l’uno cerca di percuotere l’altro» (Fanfani).
4. Bisson = Milano: il simbolo araldico dei Visconti era infatti
un drago dalla forma di serpente che stringe tra le fauci un bambino
in fasce o un giovanetto.
5. Marzocco: l'antico emblema di Firenze.
Sott’acqua: si riferisce forse ai forti temporali che si erano
abbattuti su Firenze nel 1490, tanto che una leggenda fiorentina
racconta di come, il 26 febbraio di quell’anno, in occasione di un
violento nubifragio, la statua della Madonna della SS.ma Annunziata
fu sentita lamentarsi e fu vista piangere.
vagheggia: ‘si occupa di futilità’ e non di politica. Si noti che il
Trionfo di Bacco e Arianna del Magnifico è proprio del 1490.
6. Aquila bianca: Ferrara; nello stemma estense erano
rappresentate infatti un’aquila bianca e dei gigli.
Baston d’oro: simbolo della luogotenenza del re di Francia, che
Ercole I sperava di ottenere e che effettivamente ebbe sei anni più
tardi.
7. Lupa: Siena. La lupa che allatta i gemelli è lo stesso
emblema della città di Roma. Secondo un’antica leggenda, infatti,
Siena fu fondata dai figli di Remo, Senio e Aschio, che lasciarono
a
Cfr. F. GUICCIARDINI, Storia d'Italia, cit.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
204
Roma portando via la statua della lupa, rubata nel tempio di Apollo, e
si stabilirono sulle colline toscane; Senio cavalcava un cavallo bianco e
Aschio un cavallo nero: due colori divenuti simbolo della città.
Pantiera = simbolo storico della città di Lucca.
9. Sega = Bologna, dal simbolo araldico dei Bentivoglio.
10. Marte: il Dio della guerra che, per il Poeta, nella situazione
di stallo dell’Italia del 1490, se ne sta disarmato accanto a Venere.
12. Crasso ... Mida: simboli di corruzione e avidità; binomio
sfruttato anche dal Sacchetti, nelle Rime, XIV, v. 33: «voglie de l'oro,
ch'ebbe Crasso e Mida»; dall’Aretino nell’Opera Nova, son. 62, vv. 12: «Terrestre inferno ove sol Iuda regna,/ e Crasso e Mida possiede
oggi il tucto», Marco Licinio Divite Crasso fu potente per danaro, ma
privo di programma e di ideali politici, ruppe l'equilibrio del
triumvirato aprendo la via alla guerra civile. Mida è il mitologico re
della Frigia, che secondo una leggenda ebbe da Dioniso il potere di
trasformare tutto quello che toccava in oro.
15-20: Il Pistoia ritiene che il destino dell’Italia, nel 1490,
dipenda dal Moro che è al culmine della propria potenza e Milano è il
centro di un rinnovamento artistico e culturale patrocinato dallo
Sforza. Proprio dal 1490 in poi, importanti trasformazioni
architettoniche vennero realizzate, ad esempio, in Santa Maria delle
Grazie, per volere di Ludovico, che aveva deciso di fare della chiesa il
mausoleo della sua famiglia. Il Moro richiama alla sua corte i migliori
artisti: a Bramante affida l'incarico di costruire la nuova tribuna
destinata a sostituire il presbiterio solariano, a Leonardo
commissiona l'Ultima Cena mentre Cristoforo Solari deve scolpire il
coperchio del sepolcro di Ludovico e della moglie Beatrice da
collocare al centro del coro. Il Pistoia aveva dunque ben donde di
ritenere che il “regno” fosse spartito, allora, tra Giove e Ludovico.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
205
II
Tràdito da A e da F.
Nella finzione poetica, il Pistoia e Djem discutono di quali
cortigiani abbiano maggiore potere presso i Signori italiani; ne risulta
che sono più accetti coloro i quali sono più ipocriti e sanno simulare
meglio, attraverso l'arte della retorica. Tutti ambiscono solo ed
esclusivamente ad accumulare ricchezze; mentre i poveri sono
costretti a ricorrere agli usurai. Si noti che nel Medioevo qualsiasi
forma di pagamento di interessi su somme di denaro date e ricevute in
prestito, fu considerata usuraia, e pertanto, condannata dalla Chiesa
come peccaminosa e vietata dalle leggi dello Stato come reato; quanto
alla possibilità di esercitare l’usura nei confronti dello straniero,
questo avveniva da parte ebraica nei confronti dei cristiani, ma non
nel senso inverso, poiché i cristiani non consideravano gli ebrei come
stranieri. (Interessante come il Pistoia alluda ai tassi d’interesse
praticati dagli usurai, ironizzando sul fatto che poteva esser
considerato buono un tasso del 50%).
II
- Chi ha fra i grandi in Italia balía?
- Color che sanno simular parole!
- Ma questo simular che parte vôle?
Saper il giustoa è quel ch'uom più desía!
- Qui più che 'l ver si compra la bugia.
Se'l dice: “Il tempo é chiaro” ; e tu: “Gli è sole”
Se unb dice: “A me dispiace”; e tu: “Mi dôle”.
Se'l dice: “Egli è da far”; tu: “Fatto sia!”
- È qui più giusto modo a star contento?
- Nessun ce n'è, se non aver denari,
de questi li ammalati hanno talento. - Donque i poveri son senza riparic?
- Non son, se voglion dar trenta per cento
col pegno, e a cinquanta non son cari. - Dimmi, siati voi chiari
che la divina legge ild voglia o il testo?
- D'ogn'altra cosa parla che di questo!
a
giusto] A e P1 gusto
Se un] F S’un
c
ripari] F repari
d
il] assente in A
b
5
10
15
NOTE
1. balìa: ‘podestà’, ‘autorità’ Voc. Crusca (1612); Bocc. canz. 6.
«Presa mi desti, ed hammi in sua balía»; qui ‘capacità di esercitare un
determinato carisma’.
3. che parte vôle?: ‘in che percentuale è importante?’
4. il giusto: adotto da variante presente in F, di cui il Pèrcopo
pare stupirsi (cfr. P1, p. 413, n.), scegliendo invece gusto, presente in
A. Secondo la punteggiatura moderna inserita dall’editore napoletano,
la frase sarebbe pronunciata dal Pistoia, mentre a parer mio è il Djem
a parlare e a notare che ognuno dovrebbe desiderare di conoscere solo
quanto risponde a verità, quindi quanto è giusto nel senso di
‘corretto’.
III
Tràdito da A, F, E,B, M3.
La vita di Roma, così il Pistoia stesso intitola questo sonetto,
riportandone il primo verso nel Dialogo introduttivo al canzoniere,
dove dice di averlo diretto a Plutone insieme con altri componimenti.
In M3 è rubricato De condicione urbis Rome ed erroneamente posto
tra quei componimenti del Pistoia scritti in occasione della discesa di
Carlo VIII; in A figura quale terzo dialogo col Djem ed è in relazione
con quello successivo. In entrambi si parla delle perversioni della
curia, presso la quale vi sono traffici di simonia e di indulgenze, si
bestemmia il nome di Dio, vi sono incesti e sodomia. L'unico estraneo
a tanti vizi è, a detta del poeta, Ludovico il Moro, predestinato al
Paradiso.
III
- A Roma che si vende?a - Le parole.
- Del verob e della fé? - C'è carestia.
- Che mercati gli sonc? - De simonia.
- Che vita gli si fad? - Com’uom la volee.
- Che se blastema quif? - Chi formò il sole.
- Che vizi v'ènnog? - Incestih e sodomia.
- Dove si fa justizia? - In beccaria.
- Della ragion? - Son serrate le scole.
- U' vanno i benefizi? - Fra' denari.
- Bisognavi altro? - Poca conscienzia.
- Che altro ? - Amici bon, ma qua son rari.
- Vendevisi altro?-Sì.-Che?-La indolgenzia.
- Il vostro dio perdona a questi avari?
- Sì, se confesson ogni lor fallenzia.
- Vôi altro? - Penitenzia.
- Altro?-Restituzion di fama e d'oro:
la nostra legge poi perdona a loro.
- È di questi il tuo Moro?
- Non: ché antivisto Dio il suo iusto stato
lo elesse prima in ciel che fusse nato.
a
A Roma] B che si vende qua a Roma?
del vero] F del clero
c
gli son] A2 vi son
d
gli si fa] F vi si fa; E se gli fa; B si ci fa
e
Com’uom la vole] A2 P1 Com’l’huom vole
f
qui] A2 P1 più
g
v'ènno] A2 P1 sonvi
h
Incesti] E luxuria; B ci è istupri
b
5
10
15
20
NOTE
5. blastema: ‘bestemmia’. Il termine testimonia di un processo
intermedio: il lat. «blasphemare» ha subìto prima la riduzione del
nesso ph in p → « blaspemare » → poi il passaggio all'occlusiva
dentale «blastemare». Blastemare era l’antonimo di «aestimare».
9. benefizi: ‘offerte votive’, ‘elemosine’, cfr. Fazio degli Uberti,
Il Dittamondo e le Rime, a c. di G. Corsi, vol. II, Bari, Laterza, 1952:
«Con pace, dico, e con buona concordia, / con limosine e santi
sacrifici, / con laude e benefici, / con sostener digiuni e penitenza».
IV
Tràdito da A e B.
Ancora sulla corruzione della Chiesa e sulla lungimiranza di
Djem, il quale prevede che la propria prigionia non avrà mai fine. Nel
confronto tra la legge di Roma e quella turca, i più giusti si rivelano i
turchi che, a detta del Pistoia, non si lasciano corrompere per denaro.
L'ammirazione del poeta per il principe straniero fu talmente grande
che egli giunse persino a fargli dire che il papa non volle farlo
battezzare (v. 16), sebbene non risulti che Djem abbia mai rinnegato la
propria fede. Il sonetto si conclude, come il precedente, con una lode
(fuori contesto) del Moro.
IV
- La tua cattività arrà mai fine?
- No. - Perché no? - Perchè la fé si vizia.
Il suspetto m’ha dato alla avarizia
di Roma, e in Roma son le mie confine.
- Ben sei tu datoa alle cose divine,
al divin culto, alla santa millizia?
- Se santi son dove non è iustizia,
gli capon grassi il sanno e le galline.
- Tu vorai biasimar la nostra legge?
- Salvo chi dice questo, anzi, mi gustab,
ma no’ in quel modo che fra voi si regge.
- La tua è meglio? - No, ma a più giusta
man fa guidare il Turco la sua gregge.
Tristo a collui che per dinar la frusta.
Voi siati gente ingiusta:
chi può non vuol ch’io vadi a batteggiarmi.
- Cristo, i dinari son oggi le tue armi!
- Potess’io liberarmi,
poi che la fé si baratta a tesoro,
beato a me, s’el papa fusse un Moro.
a
b
Ben ... dato] B Ben ti sei dato
Salvo ... gusta] B Salva che dir quello anci me gusta
5
10
15
20
NOTE
3-4. suspetto ... avarizia: ‘la diffidenza m'ha consegnato all'avarizia di
Roma e a Roma sono confinato’.
5. dato: ‘dedito’.
16. batteggiare: < *baptidiare siamo in presenza di una delle
pochissime occorrenze di questa forma nella poesia italiana del
Quattrocento, per influsso probabilmente del senese.
V
Tràdito solo da A.
Il turco domanda se vi siano altre nuove, al che il poeta replica
che si chiacchiera in continuazione; segue uno spassoso scambio di
battute che permette al poeta di scattare un'istantanea sulla situazione
politica europea alla fine del 1491: Il papa? - Non si loda e non
sprezza. - Marco? - Se ne sta in piazza, dentro a Venezia. - Il re
Ferrante? - Giudica i suoi con la bilancia della giustizia. - La biscia? Tiene la sua lancia sotto a un Moro . - Marzocco? - Al solito. - Ercole?
- Sta solo a pregare Iddio. Massimiliano ha perduto sua moglie. - Chi
gliel'ha tolta? - Il re di Francia. - Hai altre novità? - L'Ungheria sta
così. - Resta altro da dire? - Sì, è nato l'Anticristo! - Ah, ah! - Ridi? Sì, perché è una bugia. Voi fate continuamente paura al vostro Cristo,
che ogni giorno perde la sovranità su di voi. - Babbeo, Lui ha già
previsto tutto. - Credimi, io ho sempre visto Cristo dileggiato solo dai
cristiani con tante dicerie e vane profezie. Ringraziate il Cielo, poiché
il giusto castigo per le vostre azioni infami venne a mancare il giorno
in cui morì mio padre!
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
212
V
- Son nate ancor novelle? - Ognor si cianza.
- Il papa? - Non si lauda e non si spregia.
- Marco? - Sta in piazza, dentro da Vinegia.
- Il re Ferrante? - I suoi giusta in bilanza.
- La Biscia? - Sotto un Mor tien la sua lanza.
- Marzocco? - All’uso. - Ercule? - Sol Dio pregia.
Perduto ha Massimian la moglie regia.
- Chi diavol gliel’ha tolta? - Il re di Franza.
- Più nove hai tu? - Così sta l’Ongaria.
- Resta a dir più? - Sì, gli è nato Anticristo.
- Ah, ah! - Tu ridi? - Sì, ché gli è bugia.
Voi fate ognor paura al vostro Cristo,
ch'ogni dì perderà la signoria.
- Babion! Ché quel che sia, lui l'ha previsto.
- Credi ch'i' ho sempre visto
a tante vostre frasche e sogni vani
Cristo sol dileggiato da' Cristiani.
Levàti al ciel le mani,
ché la vendetta a vostre opere ladre
mancò quel dì che si morì mio padre.
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
213
NOTE
2. il papa: Innocenzo VIII.
spegia: il codice ha preggia, che non mi pare abbia senso in
questo contesto.
4. Ferrante ... bilanza: punisce i baroni che hanno partecipato
alla congiura contro di lui.
7. moglie regia: Anna di Bretagna, promessa sposa di
Massimiliano d'Austria (vedovo di Maria di Borgogna); figlia di
Francesco II, duca di Bretagna e di Margherita di Foix, principessa di
Navarra, in seguito alla sconfitta dell'esercito bretone a St. Aubin-duCormier ad opera del Re di Francia Carlo VIII, fu obbligata da
quest'ultimo a sposarlo, per potere annettere per via ereditaria la
Bretagna. Anna e Massimiliano I d'Asburgo avevano celebrato il loro
fidanzamento nel 1490, al fine di creare una lega anti-francese, ma il
re di Francia rispose occupando la Bretagna e minacciando il
massacro della popolazione. Anna dovette arrendersi e nel 1491 si
celebrarono le sue nozze con Carlo nel Castello di Langeais. Al fine di
assicurarsi il controllo sulla regione, Carlo VIII pretese una clausola
sul contratto di matrimonio, che prevedeva che in caso di morte senza
eredi del re di Francia, Anna, pur mantenendo il titolo di duchessa di
Bretagna, sarebbe stata costretta a sposare il nuovo re francese. In
effetti, morto Carlo VIII senza eredi nel 1498, Anna fu costretta a
sposare il suo successore, Luigi XII, dal quale ebbe una figlia, Claudia
di Francia, futura moglie di Francesco I.
9. Ongaria: dopo la morte di Mattia Corvino, il 6 aprile del
1490, in Ungheria vi erano state lotte sanguinose per la successione,
sino a quando, il 7 novembre dell'anno successivo non ascese al trono
Ladislao II della casata polacca degli Jagelloni.
19-20: vendetta ... mio padre: Maometto II aveva infatti
progettato di innalzare la mezzaluna turca su San Pietro, come già
aveva fatto sulla chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli ed aveva
iniziato la conquista dell'Italia da Otranto, ma il 3 maggio del 1481,
con grande sollievo della città di Roma (dove l'avvenimento venne
celebrato con macabri riti di esultanza), il sultano turco morì.
6-11 agosto 1492
Durante il conclave dopo la morte di Innocenzo VIII
VI
Tràdito da A e B.
Il 25 luglio del 1492 moriva Papa Innocenzo VIII, al secolo
Giovanni Battista Cybo. Gran libertino da giovane, padre di numerosi
figli, il papa, come testimoniò lo stesso Pistoia in svariati sonetti (288,
378, 386, 389, 392, 435) aveva attinto a piene mani alle già magre
casse pontificie, per arricchire scandalosamente la propria famiglia. Il
poeta si attendeva l'elezione di un Papa che riportasse dignità e
decoro, oltre ad una buona dose di spiritualità, all'interno della Chiesa
di Roma; un Papa forte e, allo stesso tempo, dotato di grande
moralità, religiosità e spiritualità.
Durante i giorni del conclave, dal 6 all'11 di agosto, per Roma
circolarono i più svariati nomi; ogni nobilastro parteggiò per il
proprio candidato e sperò di trarre qualche beneficio dall'elezione del
nuovo papa, ironizza il Pistoia (v. 11); ma in molti sapevano che a
deciderne il nome sarebbe stato Ascanio Sforza (1455-1505), fratello
di Ludovico il Moro.
Infatti, nella notte tra il 10 e l'11 agosto, il Sacro Collegio, per
volere dello Sforza, elevò al Soglio pontificio il Cardinal Rodrigo Borja
y Borja (che italianizzò il proprio cognome in Borgia, come già aveva
fatto suo zio, papa Callisto III), che fu incoronato in San Pietro il 26
agosto successivo con il nome di Alessandro VI.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
215
VI
- Il papa è fatto! - Parla il vulgo e mente.
Io dico a quei ch'han robba e non pensieri.
Quel pover calzolar, sarto e barbieri
ascolta e tace e a chi serà pon mente.
- Lo Aleriaa è fatto! - dice un suo parente.
- San Piero in Vincul!- dice un suo scudieri.
Dice un di Spagna: - Il vice Cancellieri!
Questi da Reggio dicon: - San Clemente!
Il Recanati alcun chiamano, o Siena,
Napoli ancor si nomina o Lisbona:
ciascun s'ingrassa a suo modo la cena.
Chi Santa Maria Importico ragiona;
chi dice: - Ascanio a suo modo la mena,
che, di cui lui vorrà, fiab la corona.
Pensa, popul, che a nona
Cristo morì e morirno i profeti,
poi al Padre restôr tutti i secreti.
Lasciatel fare a' preti
e non dite più: - Il fia il tuo e 'l mio!Perché quel che serà è in mente a Dio.
a
b
Lo Aleria] B Lalerio
fia] P1 sia
5
10
15
20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
216
NOTE
5. Aleria: Ardicino della Porta (1426-1434), creato cardinale da
Innocenzo VIII, era Vescovo di Aleria in Corsica; apparteneva alla
fazione di Ascanio Sforza. Il vescovo di Modena scrisse alla Duchessa
di Ferrara: «A questo pontificato molti concorono e per lo primo lo
Aleria» (Pastor III, 253).
6. San Piero in Vincul: Giuliano della Rovere, il favorito di
Carlo VIII e di Ferrante I: «In secretis se parla anche de San Pedro in
Vincula» (Pastor, ivi). Il della Rovere sarà effettivamente fatto papa il
31 ottobre del 1503, col nome di Giulio II. Nato ad Albisola nel 1445,
nipote di Sisto IV, studiò tra i Francescani di Perugia, poi ebbe dallo
zio il vescovado di Avignone e di ben sette altre sedi e infine il
cardinalato con il titolo di San Pietro in Vincoli (1471).
7. vice Cancellieri: Rodrigo Borja y Borja, che venne eletto
grazie alle promesse di uffici e denari ai cardinali (cfr. Pastor, III, 25556).
8. San Clemente: Domenico della Rovere (1482-1501),
cardinale di San Clemente e nipote, come Giuliano, del Pontefice Sisto
IV: «Et anche se parla molto et tuttavia de San Clemente» (Pastor III,
257).
9. il Recanati: Girolamo Basso della Rovere (1492-1503).
Siena: Francesco Piccolomini, arcivescovo di Siena, nipote di
Enea Silvio Piccolomini (che era stato papa Pio II dal 1458 al 1464).
10. Napoli: Oliviero Carafa (1430-1511), fu prima canonico e
poi arcivescovo di Napoli (dal 18 novembre 1458 al 20 settembre
1484) e presidente del Regio Consiglio nel 1465: nello stesso anno fu
creato cardinale-presbitero del titolo dei Santi Marcellino e Piero da
Eugenio IV, nel concistoro del 18 settembre.
12. Santa Maria Importico: Gian Battista Zeno (o anche Zen),
cfr. G. SORANZO, Giovan Battista Zeno, nipote di Paolo II, cardinale
di S.Maria in Portico (1468-1501), in «Rivista di storia della Chiesa in
Italia», 16 (1962), pp. 43-56.
13-14: era noto a tutti che durante il conclave il cardinale
Borgia tramò intrighi e promise un largo compenso al proprio rivale,
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
217
il cardinale Ascanio Sforza, se questi lo avesse aiutato a divenire capo
della Chiesa di Roma (Cfr. M. PELLEGRINI, Ascanio Maria Sforza, un
cardinale del Rinascimento, Roma, Istituto Storico Italiano per il
Medioevo, 2002).
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
218
VII
Tràdito da A, T e B.
L'11 agosto 1492, il cardinale Rodrigo Borgia venne eletto
papa; il Pistoia ironizza sul fatto che egli (nel sonetto precedente), pur
senza essere un profeta, ne aveva già predetto la nomina. Si sapeva,
infatti, che Ascanio Sforza, nonostante fosse legato da una promessa
al cardinale Giuliano della Rovere (v. 4), era stato corrotto dal Borgia,
dopo un incontro tenutosi nella sagrestia di San Pietro il 4 agosto,
affinché il milanese e i cardinali suoi amici dessero allo spagnolo il
loro voto. Non appena eletto, il Borgia si affrettò a provvedere ad
onorare gli impegni contratti nel corso del Conclave.
Interessante il confronto con il sonetto anonimo, Dialogo de la
Creazion de papa Alexandro Vice Cancelliero, edito tra i Sonetti
ferraresi del '400 in una raccolta di poeti cortigiani a c. di M. Milani,
nel GSLI, 1973.
Che se dixe a Ferrara, o barba Piero?
I dixen che l'è fatto el papa novo.
Com ha–l nome? E' 'l cerco ma no 'l trovo,
che m'è stà tolto da un altro pensiero.
Remissiè un poco pel [vostro] carniero
della memoria. E' movo e sl 'l removo,
ma no 'l trovo. Tasi ch'a' 'l discrovo:
l'è un nome che va in vitio e in candeliero.
El gh'è manco ben nome, al sol de diè!
Nievò, tu non lo intiendi e s'hai del duro,
ma te 'l dischiararò, s'tu me vien driè.
N'anden più oltra, apozon–se a sto muro.
E' son contento. El vitio, fiol miè,
vol dir che tutti i papi en fatti al scuro:
colù è più siguroch'à più danari,
e 'l candelier s'asmorza
quando una degnità se dà per forza.
VII
Or oltre, ecco che ‘l papa è incoronato,
io lo pronosticai e non son santo,
che Ascanio dar pô e tôr a Pietro il manto,
se ben il fusse in Vincula legato.
Ben sapea lui di cui saria 'l papato,
ché avea in man la mitra e 'l scettro accanto,
e iustamente a lui dar puossi il vanto
che fra due sesti va Roma e 'l ducato.
Ma prima che 'l sapessi il concistoro,
in camera del papa, per Milano,
littere scrisse, e fe' sapere al Moro:
- Nostro, gli disse, è l'imperio romano,
ché a chi t'è parso e' toccòa il manto d'oro,
qui sotto scritto di sua propria mano.
Non volse il Mor che 'nvano
del divin culto la sua sedia grande
giacessi più fra le rustiche ghiande.
Di quest'opre admirande
fa qui il novo Ottavian come a lui piace,
sotto il cui imperio vive 'l mondo 'n pace.
a
e' toccò] P1 è tocco
NOTE
4. in vincula legato: il Pistoia gioca sul termine vincula, inteso
sia come ‘impegno’ preso dallo Sforza con il della Rovere, sia come
soprannome dello stesso, il quale era cardinale di San Pietro in
Vincoli.
8. due sesti: il papa Alessandro VI a Roma e Gian Galeazzo
Maria Sforza, sesto duca di Milano.
17. rustiche ghiande: si riferisce al fatto che papa Innocenzo
VIII non era nobile, ma figlio di un uomo di rango senatoriale.
19. novo Ottavian: Ludovico il Moro.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
221
VIII
Dopo il 29 agosto 1492
Tràdito da A, T, B e M3.
È il famoso dialogo tra un ferrarese e un veneziano riguardo
l'inizio dei lavori per la cosiddetta addizione erculea. La versione
presente in M3 mi pare rispecchiare meglio le intenzioni del Pistoia
che fece attenzione a dare anche un colorito linguistico al dialogo,
completamente perso in A.
- Oh, il duca nostro fa i gran cavamenti!
- San Marco il nota ben, ma guarda e taze.
- Che fa? Che dice? È in pie'? Sta? Va? - No, zase,
rinova l'ali e mette in punto i denti.
- Credi tu che i soldati sien contenti?
- Ea tu? - Non io - Che fia? - Quel ch'al Mor piace.
- Che vuole il Mor? - Che vuole? Il mondo in pace.
- Tu che ne credi? - Io non credo altramenti.
- Ma sia zo che vol si San Marco se azufab,
tal non si lodarà ch'or se ne loda,
noi vederem qualche crudel barufa!
- Che sii,c che se ' Bisson un dì si snoda,
tristo a colui ch'arrà mossa la zuffad!
Tutta la sua virtù sta nella coda.
Il non par che tu m'oda,
non sai tu ben ch'il Moro in ogni loco
porta sempre la legna, l'acqua e 'l foco?
5
10
15
Si adotta, per tutto il sonetto, la versione di M3, sicuramente più vicina alle intenzioni
dell'Autore anche per quel che concerne l'ironia linguistica, che stava particolarmente a cuore
al Pistoia; segnalando le varianti di A.
a
E tu] A O tu.
b
Ma ... azzuffa] A Ma ascolta me, se san Marco se acciuffa.
c
Ca sii] A, P1 Che sì.
d
zuffa] A ciuffa
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
222
Risposte al sonetto di sfida del Pistoia
Dello Strazzòla
San Marco ode, vede, sofre e taze
e lassa far, a chi vol, cavamenti
vero è ch'el tien le grinfe im pronto e i denti
contra a chi, a fargli nolgia, è pertinaze.
Altri zercano guerra e lui sol paze,
a lui molto dispiace i tradimenti,
e sempre i passi soi son tardi e lenti,
e quel che piaze a' boni, a lui ancor piaze.
Ma sia come se sia: chi zerca zuffa
non so se si lodrà, come si loda
e se l'andrà come l'altra baruffa,
ché se l'avvien che per ira el si roda,
tristo a chi sarà sta causa di azuffa
perché de capo ancor venerà coda.
Io voglio che tu m'oda,
ché chi è cagion talor de azender il foco,
riman scotato e perditor dil gioco.
Alia responsio (adespota)
Se' l Duca a cosse nove ha i spirti intinti,
confiso forsi d'un sperar fallaze,
el gran leon a sua preda rapaze
moverà presto i passi tardi e lenti.
Nel stato loro dovriam esser contenti,
chi cerca in l'altre mese meter faze,
e guardassi ch' el foco non disfaze
le proprie biade, se si muta i venti.
El leon tarda e, lacessito, buffa,
né si dileti alcun cometer froda
ché già non ride ognun che fazi truffa.
Nel tempo aprico se 'l bisson si snoda,
meglio farà, che per altrui s'azufa
e poi la coda da sdegno se roda.
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
223
Odi parola soda:
nessun, per sperar d'acqua, accendi il foco,
perché, veemente acceso, giova poco.
Responsio alia
Oficio è sempre de' signor prudenti
a quel pô intravenir, con cor audaze
proveder sempre o di guerra o di paze
e a lor stati star zilosi e atenti.
Tenga la lingua ciascun dentro ai denti,
et lassa far al Duca quel li piaze,
ché saltar non vorrà da sedia in braze
per far contra San Marco cavamenti.
Perché el sa ben che quando il lion buffa
ripar non giova a suo possanza soda
e tristo è quel che prende con lui zuffa.
Ma perché ogni creato alfin se snoda,
vol la sua terra per ogni baruffa,
di preparata sepultura goda.
Or nota questa coda,
ché avendo di San Marco intorno il foco
l'acqua del Moro aito li diè poco.
Di Giorgio Sommariva
- San Marco poco stima i cavamenti,
- Perché? - Perché la guerra za non piaze
ad alcun che abbi sodi i sentimenti.
Se i bon soldati fecer i lor giurmenti,
Marte li sveglia, nemico di paze,
ma il divo Marco e 'l Moro, a cui li piaze,
sederà tutti i bellici andamenti.
San Marco mai sotto acqua non si atuffa,
anzi sta ritto con la testa e coda,
né mai contra rason quelle rabuffa;
ma se fia alcun sì stolto ch 'el si annoda
alle sue griffe, co' la torta buffa,
5
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
girar più ch' el Bisson vedrà so' roda.
Né voglio che alcun goda
se 'l Moro aver ben dize l'acqua e 'l foco,
perché 'l tempio di Giano è in altro loco.
Alia responsio
Il lione alato, ch'ha suo' passi lenti,
sol col fier sguardo e paventosa faze,
renova la paura ne le suo' caze
ad ogni fera che se representi.
Ma tu che ora minazi e sì paventi,
vedrai un gran foco far de piccol faze,
scaldar lontan, inanzi che con suo' faze
due volte sgombre Apol, se non te penti.
E se ben pensassi al mio dir presente,
anzi che regger, vorrebbi esser retto,
che viver sempre sospettosamente.
Non val il bon voler col cieco effetto,
né li uom mostrarse sempre equivalente,
né ancora tutto dir quel si ha nel petto.
Ma questo si è il difetto
di la malvagia e macra lupa,
cui non sazia mai tesor, né ben d'altrui.
224
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
225
NOTE
1. duca nostro: Ercole I.
cavamenti: ‘scavi’.
3. zase: ‘giace’, ovverosia ‘resta’ (in risposta alla domanda
precedente).
4. ali ... denti: l'allusione è ovviamente al leone, solitamente
rappresentato ai piedi di San Marco, simbolo di Venezia.
9. azufa: ‘azzuffa’; ossia ‘se Venezia viene attaccata
militarmente’.
11. barufa: ‘disputa’.
13. zuffa: ‘battaglia’.
17. legna ... foco: solo il Moro può decidere se metter fine alla
guerra o fomentarla.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
226
Sulla spedizione francese di Carlo VIII in Italia
1494
IX
Tràdito da A, T e B.
Il sonetto parrebbe scritto dopo l'aprile del 1494, quando
Alfonso II di Napoli chiese aiuto a Bajazet II, contro Carlo VIII: l'Italia
infatti è, secondo le parole del Pistoia, posta in fren da la paura (v. 1)
dell'imminente arrivo dei Francesi. Non contento di essersi assicurato
l'appoggio di Alessandro VI, re Alfonso tentò di suscitare contro Carlo
VIII le armi di Bajazet, al quale fece sapere che il re di Francia voleva
impadronirsi del reame di Napoli per muover poi alla conquista
dell'impero d'Oriente. Ma il sultano turco, che era di indole pacifica,
invece di mandare in Italia i seimila pedoni e i seimila cavalli chiesti
dal re, si limitò a concentrare un piccolo esercito a Valona come
misura precauzionale (vv. 10-11).
Si noti come, nel codice B, il sonetto sia indirizzato al Moro,
mentre in A (dunque molti anni dopo la redazione dello stesso, nel
momento in cui il poeta mise insieme il canzoniere in forma
definitiva, quando ormai il Moro aveva deluso totalmente ogni
aspettativa del Cammelli) il personaggio dello Sforza, "nume tutelare"
dell'Italia minacciata, è sostituito dal Duca di Ferrara. Pareva che con
l'avvento di Alessandro VI al papato non dovesse più essere turbata la
pace né ci fosse più il pericolo della rottura degli equilibri politici;
invece già nel 1492 nacquero fra i vari stati diffidenze pericolose e si
produssero nuove alleanze (vv. 9-17). Appena eletto Alessandro VI, il
Moro, che più d'ogni altro per l'ubicazione del ducato di Milano
temeva una discesa del re di Francia, per mostrare al Pontefice che fra
le potenze firmatarie della pace di Bagnolo regnava sempre un
perfetto accordo, propose che gli ambasciatori del re di Napoli, di
Firenze, di Venezia e di Milano si presentassero tutti insieme, per un
omaggio al Santo Padre. Ma Piero de' Medici volendo presentarsi con
una propria ambasciata in cui avrebbe fatto sfoggio delle ricchezze
fiorentine, consigliò Ferdinando di Napoli di non accettare la
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
227
proposta dello Sforza. Il rifiuto del re di Napoli insospettì Ludovico il
Moro, il quale era convinto che Ferdinando si volesse segretamente
alleare con Firenze per abbatterlo. Tentò allora, per mezzo del fratello
cardinale, di creare una frattura tra Roma e Napoli, e poichè in quel
tempo Virginio Orsini, parente di Piero e condottiero dell'Aragonese,
aveva comperato da Franceschetto Cibo i feudi di Anguillara e di
Cerveteri, il cardinale Sforza, dimostrando al Pontefice che quella
compera veniva ad assicurare il passaggio tra il Napoletano e la
Toscana, riuscendo dannosa alla sicurezza dello stato ecclesiastico, lo
persuase a non ritenerla valida, il che scatenò ovviamente le ire degli
Orsini (v. 9). L'Italia, scrive dunque il Pistoia, è resa impotente dalla
paura, poiché a Sud vi sono i Turchi e al Nord i Francesi a minacciarla
(vv. 2-3), tanto che il Paese non può più sentirsi al sicuro; e giacché
accade che chi possiede un tesoro, sovente non ne ha sufficiente cura
(v. 5), oggi chi temette l'Italia, la umilia. Il Papa, sotto l'assedio degli
Orsini, spera nel soccorso dei Turchi, ma se l'offesa è certa, l'aiuto è
quantomai in forse (vv. 9-11). "A causa vostra, pigri italiani", conclude
il poeta, "Roma potrebbe persino perdere il Pontefice, se non fosse
che, fortunatamente, il Moro è assistito da Domineddio" (vv. 15-17).
1494
IX
La Italia è posta in fren da la paüra,
chè da un canto il gran Turco la caccia,
da l'altro il re de' Galli la minaccia,
tal che lei viver più non pô sicuraa.
E perché chi ha 'l tesor, questo non cura,
chi già temè di lei, le sputa in faccia:
Marte de' fatti suoi più non se impaccia
che solea già tenerla in tanta cura!
Il gran Pastor ha l'assedio dagli orsi,
sperando sempre il soccorso de' cani,
l'offesa è certa, e 'l soccorso sta in forsi.
Peregrinan le chiavi in cento mani,
chi ne stracciab con graffi e chi con morsi,
qual sia il suo re, ben non sanno i Romani.
Per voi, pigri Italiani,
perderìa Roma 'l papa e 'l suo vangelo
se non che il Moroc ha posto un braccio in cielo.
a
viver più non pô sicura] B non più po' mai
straccia] B stracciò
c
che il Moro] A che Ercule
b
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
229
NOTE
9. il gran Pastore ... orsi: Alessandro VI è in lotta con gli
Orsini.
10. cani: i Turchi di Bajazet, che sarebbero dovuti giungere in
soccorso.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
230
X
Tràdito da A, T e B.
I Francesi sono in Italia ed è bene, sostiene il Pistoia, render
loro omaggio e onorare anche gli Sforzeschi (v. 6): il gioco ormai è
nelle mani del Moro (v. 11) e bisogna avere fiducia in lui e stare dalla
sua parte.
Il poeta si rivolge ai neghittosi italiani, suggerendo loro di
tacere e lasciar fare il Moro: già al Pistoia pare di verdere il signore di
Milano trionfare, grazie all'aiuto della Sorte. Secondo il Pistoia,
Ludovico sta a sedere in grembo alla Fortuna (v. 13), ed ha visto tanto
e ha tanto udito, che riuscirà a ribaltare la situazione, col minimo
sforzo. "Io voglio che mi si oda esprimere il mio desiderio", continua il
poeta (v.18) "contro coloro che non sono d'accordo con me: poiché il
Cielo vuole che io lo dica e detto sia!" (vv. 19-20).
Il 2 ottobre del 1494, Carlo VIII con le sue truppe valicò il
Monginevro ed entrò a Susa, dove gli venne incontro il marchese
Ludovico di Saluzzo, che lo accompagnò a Torino, dove fu accolto con
grandi onori dalla duchessa Bianca di Savoia, e, poichè gli mancavano
denari, ricevette in prestito dalla duchessa le sue gioie che impegnò
ricavandone dodicimila ducati. Uguale somma il re francese ricavò
impegnando i gioielli della marchesa del Monferrato quando, dopo
pochi giorni, da Torino si recò a Casale. Il 9 settembre i Francesi
entrarono ad Asti, dominio degli Orléans, dove vennero ad ossequiarli
Ludovico il Moro, la moglie, i figli e il suocero Ercole I di Ferrara con
un largo seguito di belle donne milanesi.
Trascorsero alcuni giorni di grandi feste, poi il re si ammalò e
dovette fermarsi a Casale per circa un mese. Guarito, si recò poi a
Pavia. Nel castello di questa città, viveva quasi in prigionia, con la
moglie e i figli, il duca Gian Galeazzo, allora infermo. Il re proibì ai
suoi cortigiani di entrare nel castello, ma andò a far visita al duca, del
quale era cugino perché figlio di una sorella di sua madre. Il sovrano
francese provò pietà dell'infelice duca, tuttavia cercò di dissimularla
per non dispiacere a Ludovico il Moro, che era presente. Da Pavia
Carlo VIII passò a Piacenza, sempre accompagnato da Ludovico. In
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
231
questa città o, come altri affermano, a Parma, giunse la notizia che
Gian Galeazzo era in fin di vita.
Il Moro, il quale fin dal 5 settembre aveva ricevuto da
Massimiliano l' investitura del ducato, tornò a Milano. Il nipote morì
il 20 ottobre e il giorno dopo egli si proclamò duca; quindi si affrettò a
raggiungere di nuovo l'esercito francese.
Dall'Emilia Carlo VIII avrebbe potuto scendere in Romagna,
sicuro di esser sostenuto dal duca di Ferrara e da Caterina Sforza,
vedova di Girolamo Riario, che all'ultimo momento si era schierata a
favore dei Francesi. Ma c'era pur sempre l'esercito di Ferdinando e
una sconfitta sarebbe stata disastrosa alle armate francesi nel caso in
cui lo Sforza, capace di un tradimento, fosse passato dalla parte del
vincitore tagliando la ritirata ai vinti. Carlo aveva interesse a scendere
in Toscana, dove Lucca e Siena si erano schierate con lui, inoltre la
vicinanza della flotta gli poteva essere utilissima. Oltretutto sperava di
trarre a sé Piero de' Medici, il quale non solo non aveva protetto il
confine, ma teneva un contegno incerto. Per queste ragioni Carlo VIII
scelse la via che da Parma conduce nella Lunigiana e passando per
Fornovo e Pontremoli, si diresse verso Sarzana. La prima terra
fiorentina che l'esercito francese incontrò fu Fivizzano che fu assalita
ed espugnata; i soldati della guarnigione massacrati e fu fatta strage
degli abitanti. Nello stesso tempo l'avanguardia di Carlo, guidata da
Gilbert de Montpensier sorprendeva una schiera di Fiorentini, che si
recava a rinforzare il presidio e la difesa di Sarzana, e la sopprimeva.
Queste prime imprese degli invasori gettarono nel panico tutta l'Italia.
X
Lingue tacete: il re di Franza è qui!
Più non sia alcun ch'el suo venire ignori;
spiegato 'l confalon e posto fôri,
sta 'l Gallo per far l'ovo de dì in dì.
Marte e Nettuno onorar qui e lì
convien, com' i Franzosi e com' i Mori,
chi è 'n gioco e non vôl, non vi dimori,a
ch' el non si appellaria bon monami.
L'impresa è grande, ed è l'assunto tolto
molto maggiore, a voi tocca a tacere
e lasciar far a quel che ha negro il volto,
il qual già per virtù, mel par vedere
da la Fortuna nel suo grembo accolto,
invitto trionfare e possedere.
Lui sta a sedere,
e ha tanto veduto e tanto udito
ch'el fa voltare il mondo, alzando il dito.
Io voglio essere udito
dir, contra a chi non vuol, la voglia mia:
ché 'l Ciel vuol ch'io lo dica e detto sia.
a
chi ... dimori] P1 chi è in gioco e non vuol, non vi dimoro
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
233
NOTE
3. confalon: forma desonorizzata per ‘gonfalone’, ‘stendardo’
(di norma, un vessillo rettangolare appeso per il lato minore ad
un'asta orizzontale a sua volta incrociata con una verticale).
6. Mori: gli Sforzeschi di Ludovico il Moro.
8. bon monami: ironico, per ‘mon bon ami’; dunque chiunque
non renda atto di sottomissione ai Francesi, rischia la vita ed è bene
che lasci l'Italia.
9. assunto tolto: ‘impegno preso’.
14. invitto: > INVICTUS, vittorioso.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
234
XI
Tràdito da A, T e F.
Di fronte alla rapida e incontrastata avanzata di Carlo VIII, il
Pontefice andava di giorno in giorno perdendo coraggio e non sapeva
a qual partito appigliarsi. Abituato a una politica tortuosa, pur
mantenendosi amico del re di Napoli cercò di negoziare con i Francesi
e mandò a Firenze il cardinale Piccolomini (arcivescovo di Siena, che
già abbiamo visto apparire nel son. Il papa è fatto); ma Carlo non
volle neppure riceverlo. Come ambasciatori presso il papa, Carlo
mandò a Roma Ludovico di Tremouille, i cardinali Ascanio Sforza,
Federico da Sanseverino e Prospero Colonna, mentre, lasciata Siena il
4 dicembre, si dirigeva verso Viterbo. Nello stesso tempo il duca
Ferdinando di Calabria, reduce dalla Romagna, entrava con il suo
esercito a Roma e si mostrava disposto a opporre resistenza ai
Francesi, in soccorso del Papa.
Incoraggiato dall'arrivo del principe napoletano, il 9 dicembre
il Pontefice fece arrestare Prospero Colonna e i cardinali Sforza,
Sanseverino, Lunate, Estouteville e li fece chiudere in Castel
Sant'Angelo. Intanto Carlo VIII entrava a Viterbo senza incontrarvi
resistenza e di là avanzava nella Campagna romana. Virginio Orsini
concesse al sovrano francese libero passaggio attraverso i propri feudi
e lo fornì di vettovaglie. Così Carlo riuscì, aiutato anche dai Colonna, a
percorrere liberamente il territorio, mandare ad Ostia cinquecento
lancieri, occupare Civitavecchia e Corneto, trovare ospitalità a
Bracciano presso gli Orsini.
Dopo questi ultimi successi dei Francesi, il Papa tornò a
scoraggiarsi. Temeva sopratutto la presenza del cardinale Giuliano
Della Rovere, suo accanito nemico, schieratosi con il re. Vinto da
questi timori, Alessandro VI prima mandò da Carlo il cardinal
Sanseverino, poi accolse gli ambasciatori del re, Stefano di Vesc e
Giovanni dei Gannay e, avuta promessa che Carlo VIII avrebbe
rispettato l'autorità papale e le immunità della Chiesa, se fosse stato
ricevuto amichevolmente, acconsentì alle richieste del sovrano, tanto
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
235
più che questi dichiarava di voler soltanto libero il passo verso il
Napoletano.
Alessandro VI, che già vedeva vicino un accomodamento con il
re di Francia, convinse Ferdinando a partire il 25 dicembre con le sue
soldatesche e il 29 (v. 4) di quello stesso mese Carlo VIII fece il suo
solenne ingresso a Roma per la porta di Santa Maria del Popolo.
L'avanguardia era costituita dalle soldatesche svizzere e
tedesche, precedute dagli stendardi, pittoreschi nei loro costumi,
armate parte di lancia e spada o di lunghe alabarde, parte di
archibugi. Veniva poi un corpo di cinquemila balestrieri di
Guascogna, seguiti da duemila cinquecento corazzieri a cavallo
accompagnati da altrettanti paggi e da un numero doppio di scudieri.
Dietro di loro galoppavano cinquemila cavalieri dai manti di seta e
dalle lucide armature, poi quattrocento arcieri, di cui cento, di
nazionalità scozzese, facevano ala al re, che cavalcava tra Ascanio
Sforza e Giuliano della Rovere ed era immediatamente seguito dai
cardinali Colonna e Savelli, da Prospero e Fabrizio Colonna, dai
capitani e da duecento cavalieri francesi. Chiudevano l' interminabile
colonna, che sfilò dalle tre pomeridiane fino a sera inoltrata, le
artiglierie: trentasei cannoni di bronzo, lunghi otto piedi e del peso di
seimila libbre ciascuno, le colubrine lunghe dodici piedi e infine i
falconetti.
Carlo VIII andò ad alloggiare nel palazzo di San Marco (v. 2), il
Pontefice rimase in Vaticano, ma alcuni giorni dopo essendo
scoppiate risse tra i soldati francesi e i romani, Alessandro VI,
passando attraverso i sotterranei vaticani (vv. 7-8), andò a chiudersi
in Castel Sant'Angelo. Le trattative tra il re e il Papa però
continuarono e il 15 gennaio del 1495 si venne ad un accordo
definitivo.
Secondo i patti, Carlo VIII rinunciava all'idea di convocare un
concilio e prometteva al Pontefice amicizia e rispetto; Alessandro VI
doveva consegnare sino alla fine della guerra le fortezze di
Civitavecchia, Terracina e Spoleto, accordare libertà di transito
all'esercito francese e dare in ostaggio per quattro mesi il figlio Cesare.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
236
Concluso l'accordo, il Pontefice ritornò in Vaticano dove ammise il
sovrano al bacio dei piedi.
Dicembre 1494-Gennaio 1495
XI
Il re di Francia è in Roma. - In Roma! e dove?
- Dentro in san Marco con la sua brigata.
Correa in decembre, quando fu la intrata,
novanta quattro a giorni vintinove.
- E donde hai tu per vere queste nove?
- Dal duca nostro per la cavalcata;
che'l papa la sua stanza ha abbandonata:
dal castel di santo Angiel non si move.
Il Gallo raspa in Roma, e sta in fra dui,
s'el debbe il patre santo visitare
o se'l pastor diè pur venire a lui
Da ora il re vi doverebbe andare
per ubidienza, che i cristian son sui:
il re è pur devoto e debel fare.
Il non se vol fidare,
che in questi tempi non si serva fede:
poi l'invidia percuote an che ben siede,
Tal consiglio procede
da Ludovico mio che tutto glosa,
sì ch'io non so com'andarà la cosa.
Di Cristo la sua sposa
per la discordia si lacera e fragne,
e'l Gallo canta il mal ch'Alfonso piagne.
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
238
NOTE
2. san Marco: oggi più noto come Palazzo Venezia; fu il primo
grande palazzo rinascimentale costruito a Roma. Insieme al
Palazzetto Venezia e all'antica chiesa di San Marco forma il grande
complesso architettonico in piazza Venezia.
3. Correa ... vintinove: ossia ‘era il 29 dicembre del 1494’.
6. cavalcata: ambasciata giunta tramite un corriere a cavallo.
7. sua stanza: in Vaticano (cfr. Pastor, III, 302: «per l'andito
sotterraneo era passato dal Vaticano a Castel Sant'Angelo»).
9. sta in fra dui: ‘in dubbio’.
23. Gallo canta ... Alfonso piagne: il sovrano francese trionfa
per l'essere agevolmente giunto a Roma, mentre il re di Napoli è in
pena per l'avanzata delle truppe nemiche.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
239
XII
Tràdito da A, T e F.
Nel 1498, la rivalità fra Firenze e Venezia si è trasformata in
guerra aperta. La città di Pisa – liberatasi nel 1494 dall'autorità
fiorentina – è sostenuta da Venezia e i fiorentini avviano una lunga e
sanguinosa campagna bellica per sconfiggere i veneziani e riprendere
il controllo della città; il potere di Firenze è messo in discussione
all’interno del territorio che geograficamente le appartiene; in più i
veneziani dimostrano di volere accerchiare Firenze portando i propri
attacchi anche da est; per fare questo utilizzano i valichi appenninici
che dalla Romagna portano nell’alta valle del Tevere e in Casentino.
Ma piuttosto che cadere nelle mani dei fiorentini, i pisani hanno
giurato di darsi la morte e bruciare nelle loro stesse case (vv. 1-3). Il
poeta allude poi a Librafratta sotto assedio (v. 13), che venne occupata
il 3 ottobre del 1498 (cfr. Guicciardini, Storia d'Italia, IV, II, 345);
Vicopisano, invece, al momento della redazione del sonetto, era già
tornato ai fiorentini; se Pisa perderà la guerra con Firenze, nota il
Pistoia, allora anche Lucca avrà da temere.
1498-1499
XII
All'oglio santo è Pisa e ha giurato
più tosto che a Marzocco andare in mano
di darse in carne e in ossa al dio Vulcano:
così di casa in casa sta parato.
Tutto il popul di lei è disperato,
biastema Francia, san Marco e Milano;
non più stimando vita alcun pisano,
a Pluto il loro spirto hanno donato.
Più de Vicopisan non è rimedio:
perso è; né Marco gli pò dare aiuto,
perché i nemici gli dan troppo tedio.
Ogni cosa del suo quasi è perduto,
e Librafatta si sta con assedio;
in bocca al lupo lo agnello è venuto.
Senza sonar leuto,
canti pur Lucca questo motto verde :
- Trista la barba mia se Pisa perde! –
5
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
241
NOTE
1. oglio santo: ‘estrema unzione’, ‘in punto di morte’.
9. Vicopisan: per soli quattro anni, dal 1494 al 1498, il paese fu
sotto il controllo di Pisa, altrimenti fu sempre sotto Firenze, che dopo
la riconquista, lo rese sede del Vicariato del Valdarno Inferiore.
17. Trista la barba mia: l'imprecazione "per la barba" è
antichissima, in area romanza è documentata già in epoca medievale,
cfr. Chanson de Roland, v. 48: "par la barbe ki al piz me ventelet"; v.
1719: "Par ceste meie barbe"; Voyage de Charlemagne (a c. di C.
Rossi, Edizioni dell'Orso, 2005), v. 660: "Par ma blanche barbe!".
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
242
XIII
Tràdito da A, T e F.
Sonetto scritto alla fine del 1498, in cui si allude
all'opposizione fatta dal Moro ai veneziani che avrebbero voluto
impadronirsi di Pisa.
II re degli animali, alato mostro,
guarda dall'adriatica finestra
se a man sinistra vede o da man destra
da dir di quel d'altrui : - Questo xe nostro.
Ad un manda dinari, a un altro inchiostro,
per far col cacioa in man la sua minestra;
ma l'angue ognor fra' piei se gli incapestra
dicendoli: - Misèr, quel non xe vostro.
Questo la terra con la mente squadra
d'ognora a punto, qual buon geometra,
per troncar l'arco a questa bestia ladra.
Di là dai monti i soi nemici arretra;
tutta l'Insubria a suo modo rinquadra:
e la Liguria or l'endura or l'envetra.
Petro tien su la petra,
Federico e Marzocco il seguon sempre
guidandosi col fil delle sue tempre.
E' par ch'el se distempre
il cor d'ogni pisan, perché, infelici,
san Marco gli ha lasciati 'n fra nemici.
Mai non cognosce amici
san Marco, se non quando si fa magno
con chi con poca spesa ha gran guadagno.
a
cacio] si adotta qui la variante di F; mentre in A appare cazzo.
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20
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
243
NOTE
1. Il re ... mostro: il leone alato di San Marco.
2. Questo ... nostro: si noti la parodia linguistica del Pistoia,
che dipinge i veneziani affacciati sul mare, che cercano di vedere se
possono impossessarsi di città sull'Adriatico che appartengono ad
altri.
5. inchiostro: ‘lettere per siglare nuovi accordi’.
6. col cacio in man: la variante oscena del termine, in A, è
assolutamente fuori contesto, perché tramite la metafora del cacio
sulla minestra, il Pistoia allude al fatto che Venezia sta escogitando
ogni mezzo, anche illecito, per appropriarsi di nuovi territori.
7. l'Angue: il Biscione simbolo visconteo di Milano e dunque
del Moro.
fra' pie' ... incapestra: ‘avviluppa nel capestro’ (Voc. Crusca), il
termine si riferiva, con accezione negativa, in modo particolare ai
cavalli che rimanevano con le zampe impigliate nella cavezza.
14. endura ... envetra: allude al trattato di Vercelli, che
permetteva al Moro di occupare Genova come feudatario del re di
Francia. Entrambi i verbi qui si riferiscono all'azione di ‘temprare’,
‘fortificare’ la Liguria (per il primo, il Voc. Crusca riporta la nota: «Nel
significato proprio diciamo più comunemente Indurire»; il significato
del secondo è: «dare una mano di vernice detta vetrina per rendere
un oggetto impermeabile e lucido come vetro»).
****
*
XIV
FROTTOLA
Sebbene il testo della lettera in forma di frottola non figuri nel
codice Ambrosiano, si è scelto di porlo a quest’altezza, tra i
componimenti politici del Pistoia, poiché vi passano in rassegna
signori e personaggi influenti della vita cortigiana del tempo. Com'è
noto, nella seconda metà del Quattrocento, dal Veneto e dalle corti di
Milano, di Ferrara, di Modena e soprattutto di Mantova si diffuse, per
particolare merito di Isabella d'Este1 che «si adoperò per fare della
lingua italiana un veicolo con cui diffondere la musica»,2 la cosiddetta
frottola: l'equivalente della canzone carnascialesca fiorentina, che
divenne, presto, un genere destinato esclusivamente all’aristocrazia, i
cui maggiori rappresentanti furono Bartolomeo Tromboncino e
Marchetto Cara.
Il pretesto per il quale il Pistoia scrisse questa frottola è
occasionale: il 14 settembre del 1499 si attendeva a Ferrara la visita di
Isabella; il componimento termina infatti (vv. 142-143) con la
menzione della data: uno M. sta provisto / quattro C. nove e nove;
eppure, dagli accenni alla situazione politica italiana (v. 83 sgg.), è
evidente che esso risale a un momento successivo alla discesa di Luigi
XII di Francia in Lombardia.
1
Cfr. W. PRIZER, Isabella d'Este and Lucrezia Borgia as Patrons of Music:
the frottola at Mantua and Ferrara, in «Journal of the American
Musiclogical Society», 38 (1985), pp. 1-33.
2
A. H. DOM, G. ABRAHAM, Le forme della frottola, in Ars nova e
Umanesimo, Feltrinelli, Milano 1964, p. 437
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
245
Il Poeta sperava, come sempre, in un aiuto economico da parte
della Marchesa di Mantova, che però, nel settembre del ’99, all’ultimo,
deluse quanti l’aspettavano, declinando l’invito. Il Pistoia le fece
pervenire allora questo componimento molto di maniera, che ha il
carattere evidente dell’improvvisazione, ben sapendo che Isabella
aveva una grande passione per la musica, per l'essere stata allieva di
Johannes Martini ed essere cresciuta in una città come Ferrara, dove
la musica era coltivata al massimo grado (annoverando la cappella
ducale compositori del calibro del già citato Johannes Martini, di
Josquin Desprez, di Jacob Obrecht e di Antoine Brumel).
Di norma, la frottola è un’ottava di ottonari, musicata a tre o a
quattro voci, la cui parte superiore spicca monodicamente, mentre le
rimanenti, ridotte a un contrappunto di nota contro nota, consuonano
verticalmente sì da poter essere suonate sul liuto per un
accompagnamento strumentale. Questa del Pistoia, di cui non ci è
giunta la notazione musicale, si apre con due ottonari, a rima baciata,
cui segue una filza di strofe di due settenari sdruccioli a rima baciata,
sino al v. 13 che è un ottonario, ancora settenari sino al v. 30 e così via
in un’alternanza piuttosto disordinata di settenari e ottonari (il poeta
stesso, pessimo copista di se stesso, ha dimenticato di trascrivere
qualche verso, che pure doveva essere presente nell’originale, dal
momento che vi sono alcune rime che rimangono in sospeso). Si è
scelto di conservare le ipermetrie ed ipometrie di alcuni versi. Al di là
del rispetto dell'unico autografo del Pistoia, si tratta qui di un
componimento che, essendo pensato per un’esecuzione musicale,
poteva anche non seguire strettamente le norme metriche,
adattandosi, con artifici esecutivi, alla melodia (è dunque probabile
che, se mai fatto eseguire da Isabella, grazie alla musica non si siano
notate le lacune testuali).
Nella finzione poetica, l’occasione dell’arrivo della Marchesa è
un momento di gaudio per tutti, tanto che i fanciulli la cantano per la
via (vv. 6-9) e i parenti dell’estense, di cui viene dato un lungo elenco,
l’attendono trepidanti, primo tra tutti Ercole suo padre (vv.10-45) e
altri personaggi di corte di cui s’è persa memoria (vv. 34 e 38); il
Poeta non fa che dichiararsi fedele e devoto (vv. 61-68): schiavo
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
246
volontario di Isabella, desidera solo che la signora lo protegga e lo
abbia caro. La difficoltà esegetica, soprattutto per quel che concerne
l’identificazione di alcuni personaggi qui citati, ha fatto desistere gli
unici editori della frottola, Cappelli e Ferrari, dal tentarne un
commento: molti nomi, tra l’altro, sono modificati per esigenze di
rima, con evidenti fini ironici che la destinataria del componimento
dovette certamente apprezzare. Si è tentato egualmente, nel
commento, di individuare i singoli personaggi citati.
La conquista francese ebbe inizio solo un mese dopo
l’occasione per la quale fu scritta questa frottola, in cui, infatti, il
Poeta esprime tutta la sua preoccupazione per la condizione dello
stato estense. Dal momento che nei vv. 108-111 (e tanti ferri tingere /
in pochi dì vedrannosi / per quei che beffe fannosi / de' miseri in
esilio) pare di poter leggere una chiara allusione all’esilio del Moro, il
quale all’arrivo dei Francesi era fuggito nel Tirolo presso l’imperatore
Massimiliano d’Asburgo, e dato che lo Sforza ricomparve in
Lombardia nel gennaio del 1500, con l’ausilio di truppe di mercenari
svizzeri, riuscendo a respingere oltre il Ticino i deboli presidi militari
lasciati da Luigi XII in Lombardia al comando di Gian Giacomo
Trivulzio, è possibile affermare con un certo margine di sicurezza che
la data di composizione della frottola si situi dopo il 6 ottobre del 1499
e prima del gennaio del 1500. Per il Nostro, ogni pretesto è buono per
cercare protezione, e infatti alla fine del componimento tenta di farsi
raccomandare da Isabella al marchese Francesco Gonzaga e al
cardinale Ippolito d’Este.
XIV
FROTTOLA
Madonna mia illustrissima,
o quanto era carissima,
che molto più che cara,
la venuta aa Ferrara
della tua signoria
che andando per la via
la cantavano i putti.
Donne e omini tutti
ciascun piacer n'ha mostro:
Ercole patre vostro,
e'l fratel tuo Alfonso;
grato fu il bel responso
al zio messer Sigismondo;
quanto ne era jocondo
messer Julio da Esto;
o Dio, come era desto
a quel, messer Alberto!
d'ogni gaudio coperto
era messer Rainaldo;
e di letizia caldo
[era] messer Scipione;
e gran consolazione
n'avea monsignor d’Ari;
li tui amici cari
n'eron tutti contenti:
li consorti e parenti,
Ercole tuo cugino
e quel da Camerino;
a
a] ad
5
10
15
20
25
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
e così il signor Borso
facendoti un trascorso
di questa compagnia;
e mastro Zaccaria,
quel da' Carrib, el Castello,
e'l prete suo fratello
laudando lo equinozio;
e'l tuo siscalco sozio,
come servo perfetto
Taruffo e'l Pasqualetto
aspettando il tuo volo
...............................
con ogni studio e cura;
così Bonaventura;
da poi il duca di Sora;
lui ti aspettava ancora
Anton Maria Guarnieri.
Or non mi far mestieri
di più voler seguire,
ché mi potresti dire
ch'io non vô ordinato
e ch'io metto da lato
chi dovrebbe ire in prima.
Dànne colpa alla rima
che a scriver mi sforzava.
E questo è ch'io sognava
quando guidavo il ballo,
e di poi cantò il gallo.
Destato vidi il sole
............................
e te insieme con lui
della qual sempre fui
schiavo non comperato,
ché mi t'hai guadagnato:
cosi vender mi puoi:
b
da’ Carri] CF da carri
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35
40
45
50
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248
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
fa' dì me quel che voi,
o di giocarmi o vendere,
puòmmi a tua voglia spendere
in carne o in insalate.
O Idio, quante fiate
mi auguro che tu m’ami!
e tu sola mi chiami
e la voglia non esce:
dunque s'el me ne incresce
esamina tu stessa.
Troppo è longa la messa
che leger ti bisogna;
e ancora è vergogna
a dar prolissa epistola:
io serrerò la listola
per finir questa pratica.
La lettera è lunatica;
non ne pigliare scandalo.
Altro non resta in bandalo
a dir se non che Italia
aspetta il re di Galia
con una gran penuria;
la Insubria, la Liguria
ne porterano il carico;
ché a Milan serà scarico
il mortal furor gallico;
Venezia li drà il valico
che vuole il tutto tangere;
vedrem Marzoco piangere
e Pisa di lui ridere:
vedrai il Papa dividere
dalli signori italici,
cappellic croci e calici
nella Spagna reponere;
vederassi deponere
c
cappelli] capelli
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
molti ch'hanno grande essere:
ché quel che'l Ciel sa tessere
nol vede occhio mortifero;
perché l'odio è pestifero
de' cori offesi e calidi.
O quanti visi palidi
saranno ancor di porpora!
ché quando l'ira scorpora
nel viso el sa dipingere:
e tanti ferri tingere
in pochi dì vedrannosi
per quei che beffe fannosi
de' miseri in esilio. _
La patria di Vergilio
questo mal non aspettisi;
e ancor non promettesi
questo all'armento d’Ercole;
tanto n'ha dolce el fercole
la divina republica!
Or più non ti comunica
del suo secreto, Antonio.
Non chiamar testimonio
Quando voi questa leggere,
ché'l sono alcun che reggere
non porrian questa favola.
Pur la vivanda è in tavola,
a me non possa nuocere
né lo anegar né'l cuocere;
vada altrove il pericolo.
Resta a dire uno articolo
a questo servo indegno:
che al tuo consorte degno
raccomandil, volendo.
E digli ch'io mi rendo
a lui insieme con gli anni;
e al signor Giovanni
di' ch'io son servitore;
ma prima a Monsignore
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
fa' che tu mi rassembre.
Ferrariæe, di settembre,
el dì di santa Croce:
corre il tempo veloce
dal dì che nacque Cristo
uno M. sta provisto
quattro C. nove e nove:
quando fa le sue prove
papa Alessandro sesto;
vedesi manifesto
Massimilian regnante;
e così il re prestante;
e Aloisi in Francia:
a Napoli in bilancia
vi regna Federico:
a Milan Lodovico:
a Ferrara Ercol giace;
Francesco quarto in pace
marchese sopra a Manto.
Or ch'io fermi il mio canto,
la lingua mi comanda.
S'io posso in questa banda
cosa che piaccia a te
adomandala a me
ch'io non ti sarò tardi.
Cristo di mal ti guardi
per lo adiutorio suo.
Servo Pistoia tuo.
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
252
NOTE
3. che: da intendersi come abbreviazione di anche, ‘ancora’,
con valore avverbiale.
11. Alfonso: (1476-1534). Terzo figlio di Ercole I, ma destinato
alla successione in quanto primo maschio, nato dopo Isabella (1474) e
Beatrice (1475); compensò una scarsa educazione umanistica (il che
non gli impedì di coltivare la pittura, l'architettura e la musica,
proteggendo personalità di spicco come l'Ariosto e Tiziano) con una
spiccata predisposizione per le attività tecnico-pratiche, in specie
l'artiglieria: che gli fu quanto mai utile nelle tormentate vicende
belliche in cui si trovò coinvolto. La sua giovinezza fu segnata dagli
equilibrismi politici del padre, che fin dal 1477 lo aveva promesso alla
figlia di Galeazzo Maria Sforza, Anna (il matrimonio fu poi celebrato
nel 1491), e al momento della spedizione italiana di Carlo VIII inviato
presso il nuovo signore di Milano, Ludovico il Moro, alla testa di un
contingente di cinquecento uomini (poi impegnati contro i francesi
nella vittoriosa battaglia di Fornovo di Taro, del luglio 1495). Entrati i
francesi a Milano, nel 1499, accompagnò il padre a rendere omaggio al
re Luigi XII (cui il Pistoia accenna al v. 84). Nel 1501 Alfonso fu fatto
convolare a nuove nozze con Lucrezia Borgia, figlia del papa
Alessandro VI, nel tentativo di mettere al riparo il ducato
dall'aggressivo espansionismo della famiglia Borgia. Il matrimonio
venne celebrato per procura a Roma il 30 dicembre di quell'anno; la
sposa (alle sue terze nozze) arrivò a Ferrara i primi giorni del gennaio
successivo e già nel corso del 1502 divenne l'amante del cognato
Francesco Gonzaga. Durante il 1504 Alfonso fu impegnato in un lungo
viaggio attraverso le principali corti estere. Nel 1508 Lucrezia gli diede
il primogenito Ercole II (poi duca) e, l'anno dopo, Ippolito (cardinale,
a sua volta, come lo zio).
13. Sigismondo: (1433-1507). Fratello di Ercole I; marchese di
San Martino in Rio, signore di Castellarano e di Campogalliano. Fu
capitano di ventura, ma anche uomo colto e raffinato: si deve a lui la
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
253
costruzione del famoso Palazzo dei Diamanti, a Ferrara, costruito da
Biagio Rossetti a partire dal 1493.
15. Julio da Esto: (1479-1520). Figlio naturale del duca Ercole I
e dunque fratellastro di Isabella; arciprete del duomo di Ferrara. Qui è
ritratto in un momento di relativa pace familiare. Fu protagonista di
fosche vicende d'armi e di congiure all'alba del Cinquecento. Pochi
mesi dopo la morte di Ercole I, si scatenano infatti le gelosie e i
rancori tra i quattro figli maschi del duca: Alfonso, Ippolito (futuro
Cardinale), Giulio, nato al di fuori del matrimonio, e Ferrante. Il
tentativo di uccidere Alfonso venne smascherato e i congiurati
condannati alla decapitazione su pubblica piazza. Ma all'ultimo
momento Alfonso graziò i fratelli Ferrante e Giulio, concedendo loro il
carcere a vita. Ippolito, con estrema ferocia, ordinò allora di sfigurare
Giulio (il quale, fra l’altro, gli era stato preferito dalla sua amante),
facendolo accecare. Della vicenda scrisse l’Ariosto, nel canto III
dell’Orlando Furioso, riportando la versione ufficiale dei fatti, che
avvalorava l’ipotesi che Giulio e Ferrante fossero stati indotti alla
congiura dai complici Boschetti e de Roberti. Si veda, a riguardo, C.
DIONISOTTI, Documenti letterari d’una congiura estense, in «Civiltà
moderna», IX (1937), pp. 327-340; e R. BACCHELLI, La congiura di
Don Giulio d’Este, Mondadori, Milano 1958. L’episodio della congiura
mostra chiaramente come la crisi delle solidarietà familiari che
travagliava un po’ tutti i consortati di matrice feudale della Penisola
non esentava neppure la Casa ducale. Così, quella stessa logica
dinastica che aveva portato gli Estensi a costruire un dominio di
respiro regionale, imponendosi sulle istanze municipalistiche dei
sudditi, finiva ora con smorzarne la capacità di contrastare il richiamo
di quella straordinaria concentrazione di potere, ricchezze,
opportunità che era la curia di Roma, ormai sempre più chiaramente
centro egemonico della politica e della cultura italiana.
17. messer Alberto: fratello di Ercole I e quindi, come
Sigismondo, zio di Isabella. Aveva avuto da Ercole il palazzo di
Schifanoia, con 17000 lire marchesane di entrate nel Polesine e le
tenute di Montesanto, di Casaglia e di Sassuolo. Venne a più riprese
sospettato da Ercole di tramare alle sue spalle.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
254
19. messer Rainaldo: intende Rinaldo d’Este (1435-1503), il
quale, appena tredicenne, fu il primo abate di Pomposa, all’epoca
della frottola già cardinale.
21. messer Scipione: figlio di Meliaduse d’Este, vescovo di
Pomposa e Ferrara.
27. Ercole tuo cugino: figlio di Sigismondo (vd. v. 13).
28. quel da Camerino: si riferisce probabilmente a uno dei due
figli di Camilla d’Este, figlia illegittima di Niccolò e quindi sorella di
sangue di Ercole I, la quale aveva sposato Rodolfo IV da Varano di
Camerino.
29. Borso: non intende, evidentemente, al duca di Modena e
Reggio, fratello di Ercole I, poiché costui era morto nel 1471, ma al
figlio di Alberto d’Este, dunque cugino di Isabella.
32. mastro Zacaria: probabilmente si riferisce a Zaccaria
Zambotto, medico e cortigiano estense, che compare anche, come
gran mangiatore, anche in tre suoi sonetti (che vanno sotto i numeri
175-178), oltre ad essere ricordato nel Diario Ferrarese (218, 291 e
376) come «medico, fiolo di Zoanne di Zacharia speciale, cavaliero»,
philosophiae et medicinae doctor nello studio di Ferrara nel 1473 «de’
più carissimi di Ercole I».
33. quel da’ Carri: CF trascrivono ‘quel da carri’; ma giacché
nella missiva manoscritta della frottola, raramente nomi e cognomi
vengono scritti con la maiuscola iniziale, credo che il Pistoia si
riferisca qui a un esponente della famiglia ferrarese dai Carri, a cui il
Duca aveva concesso alcuni feudi, nonostante l’estrazione cittadina
dei suoi appartenenti, il più noto dei quali, all’epoca della redazione
della frottola, era Cristoforo (cfr. Catastri, reg. MN, p. 165).
Castello: anche in questo caso mi pare trattarsi di un cognome,
quello di Francesco e Girolamo Castello, detti anche Castelli, padre e
figlio, docenti allo Studio e medici ducali, amici dei Trotti e divenuti
talmente influenti da poter mettere parola in delicati processi
criminali a vantaggio di parenti e protetti (Cfr. Diario Ferrarese, p.
265, dove Francesco viene definito «magiore maistro che hozi habia
apreso de sì il duca, licet sia udiato universaliter da tuto il populo de
Ferrara per esserli contro in ogni cossa»).
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
255
36. siscalco sozio: potrebbe trattarsi di Girolamo Andreasi,
patrizio di Mantova, siniscalco, ossia maestro di stalla della marchesa
Isabella.
38. Taruffo: l’unico personaggio di tal nome alla corte estense
in quest’epoca è Bernardino, detto Rizzo, Taruffo, cortigiano.
Pasqualetto: forse intende Pasquale Testi?
42. Bonaventura: mi pare si tratti dell’umanista Bonaventura
Pistofilo, segretario del duca Alfonso d’Este, autore dell’Oplomachia e
del Torneo. Si conservano alcune lettere alla duchessa Eleonora e un
Carteggio con il duca. Fu destinatario della VII Satira dell'Ariosto,
scritta in Garfagnana nella primavera del 1524.
43. duca di Sora: Sigismondo Cantelmo, marito della dama di
corte di Isabella, Margherita Maroscelli, nobile ferrarese. Il Cantelmo
fu il secondo Duca d’Alvito, secondo Duca di Sora, Conte di Popoli dal
1453 al 1461, anno in cui fuggì a Ferrara; fu al servizio del Duca di
Ferrara nella guerra contro Venezia.
45. Anton Maria Guarnieri: fattore generale estense.
Funzionario della Camera ducale nel 1462, poi in successione
“salinaro” di Modena, massaro della stessa città e infine fattore
generale, nel corso dell’ultimo trentennio del secolo Antonio Maria
tenne un catastro (conservato presso la BCA, Nuove accessioni, ms
21) in cui fece trascrivere tutte le transazioni commerciali da lui
concluse in quanto privato: in esso sono registrati non meno di 60 atti
di compravendita di lotti fondiari poi affittati a terzi in uso o a livello,
o altrimenti permutati. Di umili origini, facendo leva sulla propria
intraprendenza («homo picolo e de puocho aspecto, [ma] de
inzegno», lo definiva il cronista Hondedio di Vitale, Cfr. Hondedio, c.
23v.), sul favore ducale, sui rapporti intessuti a corte, Antonio Maria
aveva evidentemente reinvestito una parte cospicua dei profitti di
officiale nel mercato della terra, su cui ormai alla fine del
Quattrocento – le sue stesse vicende lo dimostrano – si innestavano
non tanto rapporti vassallatico-beneficiari, quanto ben più concreti
scambi di ricchezza mobile. Il suo non era un caso isolato, come
emerge da una lista degli uomini più ricchi di Ferrara trascritta da
Ugo Caleffini nella propria cronaca nel 1497.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
256
59. e te insieme con lui: in realtà, Isabella non si recò a Ferrara
il 14 settembre del 1499.
74. la messa: ironico, per designare la sua stessa
composizione.
79. listola: “lista”, storpiatura del poeta per esigenze di rima.
82. in bandalo: ‘bandolo’, altro termine alterato per rimare
con scandalo del verso precedente: vale ‘alla fine della lista’, giacché il
bandolo è il capo della matassa.
83-84. Italia / aspetta il re di Galia: allude all’arrivo di Luigi
XII, detto “le Père du Peuple”, il quale, rifacendosi ai diritti ereditati
dalla propria nonna, Valentina Visconti, nel 1499-1500 intraprese una
spedizione in Italia, preceduta da un abile gioco diplomatico che gli
aveva procurato l'aiuto di Venezia (cui il Poeta allude al v. 90), degli
Svizzeri (ai quali aveva promesso ingrandimenti territoriali) e del
papa (v. 94), al cui figlio, Cesare Borgia, aveva concesso il Ducato di
Valentinois e la mano di Carlotta d'Albret; la spedizione giunse con
facilità alla conquista del Ducato di Milano (1500). Meno fortunata fu
la conquista di Napoli, preparata dal Trattato di Granada, che
prevedeva una spartizione delle conquiste tra Francia e Spagna (cui si
allude ai vv. 96-97) e garantita dalla neutralità (ottenuta per via
diplomatica) di Venezia e del papa.
98-99. vederassi deponere / molti ch'hanno grande essere:
dopo la conquista del potere da parte dei Francesi, saranno in
molti ad essere deposti.
103. cori: si registra il mancato dittongamento: ‘cuori’.
111. miseri in esilio: chiara allusione al Moro, in esilio
volontario nel Tirolo.
112. patria di Vergilio: Mantova.
116. fercole: ‘fercolo’, storpiato per esigenze di rima; si tratta
del piano portatile su cui si recavano nei trionfi le spoglie nemiche.
122-123: ché'l sono alcun che reggere / non porrian questa
favola: ‘vi sono alcune persone che non potrebbero sopportare questa
storia’, a causa delle sue implicazioni politiche.
130. consorte degno: Francesco Gonzaga, marito di Isabella.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
257
136-137. Monsignore / mi rassembre: ‘ricordami a
Monsignore’.
145: Alessandro sesto: Rodrigo Borgia, fu Papa dal 1492 al
1503. Nipote di Callisto III, al secolo Alonso de Borja, fu da questi
elevato alla porpora a 25 anni e volle italianizzare il suo nome in
Borgia, così come aveva fatto in precedenza lo zio. Successivamente
ricoprì l'incarico di Vicecancelliere della Chiesa romana. Gli storici
sono unanimi nel ritenere che la scandalosa condotta di vita del
Borgia, caratterizzata da un esasperato erotismo e da una continua
ricerca del piacere fisico, debba essere attribuita ad una forma
patologica della sua psiche: fu un dissoluto e un libertino impenitente
e come tale si comportò da laico, da Cardinale e da Papa, senza
preoccuparsi di celare la sua scandalosa condotta (atteggiamento cui
alludono i vv. 144-146). Dei molti figli avuti nel corso degli anni, due
in particolare, nati da Vannozza Cattanei, conquistarono il suo cuore e
le sue attenzioni, e su di essi riversò per tutta la vita un morboso
affetto, oltre che le ricchezze saccheggiate alla Santa Romana Chiesa:
Cesare e Lucrezia.
147. Massimilian regnante: Massimiliano I d’Asburgo,
imperatore del Sacro Romano Impero, figlio di Federico III,
imperatore, e di Eleonora del Portogallo. Sposò nel 1477 Maria di
Borgogna, figlia ed erede di Carlo il Temerario, da cui ebbe Filippo il
Bello e Margherita. Questo matrimonio gli procurò l’eredità dei
domini borgognoni, ma anche una lunga rivalità con la monarchia
francese (fu infatti in guerra con il re di Francia Luigi XI che, alla
morte di Carlo il Temerario aveva occupato la Borgogna e la Franca
Contea, regioni che egli riuscirà a riconquistare nel 1493, con il
trattato di Senlis). Nel 1486 fu eletto e incoronato re dei Romani; nel
1489 estese il suo dominio su parte delle Fiandre; nel 1490 conquistò
il Tirolo. Poté così riunire nelle sue mani tutti i domini asburgici,
riconquistando anche Vienna, che il re d’Ungheria Mattia Corvino
aveva occupato nel corso di una campagna contro Federico III. Nel
1494 sposò Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro, con cui si
unì in alleanza (1495), assieme a papa Alessandro VI, al re di Napoli
Ferdinando il Cattolico e a Venezia, contro il re di Francia Carlo VIII,
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
258
che era disceso in Italia l’anno prima. Coinvolto in una guerra
sfortunata contro i cantoni svizzeri (1499), che si distaccarono
definitivamente dall’Impero, mosse contro Venezia, unitasi nello
stesso anno alla Francia con la lega di Blois contro Ludovico il Moro,
ma non poté impedire l’occupazione del Milanese da parte dei
Francesi, la cui sovranità sul ducato fu da lui riconosciuta con la pace
di Trento (1501).
148. re prestante: Filippo il Bello d’Asburgo, figlio di
Massimiliano, di cui sopra e marito di Giovanna di Castiglia, detta la
Pazza.
149. Aloisi: Luigi XII.
150-151: a Napoli ... Federico: Federico d’Aragona, re di
Napoli. In mancanza di eredi diretti, a Ferrante II, successe al trono lo
zio Federico, fratello di Ferrante I, gia' maturo negli anni, uomo di
carattere mite e gentile, ma decisamente poco portato agli intrighi di
governo e alle fatiche della guerra, per questo il Pistoia ironicamente
scrive che egli regna ‘in bilancia’, ricorrendo ad equilibrismi politici.
152. Lodovico: lo Sforza, detto il Moro.
153. Ercol: Ercole I, padre di Isabella.
154. Francesco: il Gonzaga, marito di Isabella.
158. banda: ‘luogo’, ‘parte del mondo’
161. non ti sarò tardi: ‘prontamente esaudirò ogni tuo
desiderio’.
163. adiutorio: ‘aiuto’; cfr. Ciampolo di Meo Ugurgieri,
L’Eneide di Virgilio volgarizzata nel buon secolo della lingua, a c. di
A. GOTTI, Firenze, Le Monnier, 1858 (vv. 24-25) acciò che d'ogni
parte / vengano in adiutorio.
1452
****
*
SONETTI CONTRO PIU' PERSONE
I.
CONTRO PANFILO SASSO
Come già accennato nell’Introduzione, l’antefatto alla disputa
con il modenese Panfilo Sasso fu prettamente politico: durante gli
anni immediatamente precedenti la spedizione italiana di Carlo VIII
di Francia, la politica del Moro si era mossa a tutto campo tra la
ricerca di protezione presso il re francese contro le mire
espansionistiche di quello napoletano e, di converso, presso
l'imperatore d'Austria, Massimiliano I, per contenere lo spazio di
manovra del Valois, senza disdegnare la stipulazione di accordi con il
Papato e la Repubblica di Venezia. In un primo momento prevalse la
linea filofrancese, per quanto lo Sforza ricevesse dall'imperatore la
tanto sollecitata investitura ducale proprio il giorno dopo che Carlo
VIII ebbe passato le Alpi (2 settembre 1494). Ma appena qualche
mese dopo, preoccupato per la facile avanzata dei Francesi, il Moro
aveva aderito alla lega dei principi italiani (marzo 1495), tra i quali
avrà poi l'ambizione di porsi - tornatosene Carlo VIII in Francia e
scomparso altresì il Magnifico - quale nuovo arbitro nel difficile gioco
di continue alleanze e opposizioni che diede il tono alla politica
dell'epoca. Quando però, nel 1498, il duca di Orléans, cugino del re di
Francia, succedette a quest’ultimo con il nome di Luigi XII, le pretese
da questi già avanzate sul ducato di Milano ai tempi della campagna
d'Italia diventarono ipso facto realtà, e il nuovo sovrano si
autoproclamò duca esautorando lo Sforza, il quale tentò di opporgli
Massimiliano I (che dal 1493 fu anche suo genero), ma vanamente,
poiché, anzi, l'imperatore si accordò con i Francesi, e anche Venezia allettata dai consistenti vantaggi territoriali che le prometteva Luigi
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
260
XII - si coalizzò con la Francia,1 così come aveva già fatto il Papato. A
quel punto al Moro non era rimasto che l'appoggio - quasi soltanto
nominale - del re di Napoli. Rapidamente si passò alle armi: il 15
luglio l'esercito francese, comandato dal mercenario milanese
Giangiacomo Trivulzio, penetrò nel ducato dai suoi confini
occidentali, attaccando varie città e fortezze; da quelli orientali
avanzarono in agosto le milizie veneziane.
Il 31 del mese, Ludovico il Moro abdicò in favore di Isabella
d'Aragona, vedova di Gian Galeazzo, e il 2 settembre fuggì da Milano
alla volta di Innsbruck, presso l'imperatore. Tenterà, qualche mese
dopo, di recuperare il ducato confidando in un esercito di mercenari
borgognoni e svizzeri, con i quali riuscirà sì a entrare a Milano, il 5
febbraio 1500, ma non ad affrontare le forze di Francia e Venezia in
una battaglia campale. Travestito egli stesso da mercenario svizzero,
verrà quindi catturato dai Francesi, a Novara, l'8 aprile, e spedito
prigioniero nel castello di Loches (nella regione dell'Indre), dove si
spegnerà otto anni dopo.
La fuga del Moro aveva dunque spinto il Sasso a pubblicare, a
Bologna, un libretto che offese molto tutti i filo-sforzeschi tra cui era
anche il Calmeta, il quale scrisse anch’egli, in quella stessa occasione,
una dura invettiva contro il poeta modenese.
L’edizione bolognese del Sasso si conserva oggi presso la
Biblioteca Estense: dopo un capitolo in volgare per Onofrio Avogario,
preceduto da cinque distici latini, contiene i sonetti contro il Moro,
ognuno accompagnato dalla versione latina in distici.
L’opera venne ripubblicata incompleta (senza gli epigrammi
latini) col titolo Capituli e Soneti di Miser Pamphilo Saxo Poeta
laureato de le divisione e guerre de Italia e del Moro e del Re di
Franza. Il Pistoia non pose la controversia con il Sasso su un piano
politico, ma la degradò sino all’improperio e all’insulto personale:
Stato son già dui anni genuflesso / a rider la pacìa de un tuo libretto
/ trassi de la materia tal suggetto, / che proprio la condusse in casa
1
Nacque la Lega di Blois, il 25 marzo 1499.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
261
al cesso. Ispirandosi poi al sonetto del Franco, O zucca mia, tracciò
un impietoso ritratto del suo antagonista politico: Capo da
punteggiar con un trivello / testa da darla al beccar per un soldo /
occhi da dargli in man del manigoldo / naso da darlo al cul per un
pennello.
CONTRO PANFILO SASSO
I
Oggi è comparso nel paese nostro,
Sasso, un cagnottoa de le tue montagne
che aveva in braccio un cesto di lasagne
smerdaciate da te tutte d’inchiostro.
Qua su ci fu mirabilmente mostro
tutto il dispetto che fe’ Palla a Ragne,
d’onde intendemo che la mosca piagne
quando è pigliata in l’artificio vostro
Equiperato fusti ad una arpia
che mostra in faccia umanitate avere,
poi stercorizza e se ne fugge via
Cognoscemoti l’asin del missere
che quanto più gli fa’ di cortesia
non altro po’ che calci e peti avere.
Non si scrive il tacere
ché l’orrida tua lingua un giorno spero
di vedertela in cul per un cristero.
Note al testo
6. Palla a Ragne: si riferisce al mito della fanciulla lidia
Aracne, che aveva osato sfidare Atena in una gara di tessitura ed era
stata punita dalla dea, cfr. Ovido, Metamorfosi, VI, 1 sgg.
12-14: l'Asin del missere: paragona il Sasso all'asino del
dialogo pontaniano De ingratitudine qui Asinius inscribitur, che
risponde alle cure del proprio padrone con calci e morsi.
a
cagnotto] A2, P1 cagnetto
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
263
16-17: immagine fosca già in Burchiello, Son., CXIV, v. 17:
«[lingua] che confitta ti sia tra le morice».
II.
CONTRO BERNARDO BELLINCIONI
Tràdito da A e T.
Quello qui riprodotto è il primo sonetto della corona in
vituperio di Bernardo Bellincioni (per i motivi che scatenarono il
risentimento del Pistoia nei confronti del conterraneo, cfr.
Introduzione, 1.1.7.). Il sonetto è tutto giocato sull'idiozia
dell'antagonista cui, nella cauda, viene rivolto l'insulto di testa vuota.
Bernardo, orsù, che fai? Esci di buca!
O tu ti chiami in colpa e rendi vintoa?
Perch'io t'ho già col capo in giù dipinto
dove si scarca quel che si manduca.
Altroe t'ho disegnatob al più di Luca,
come colui che ste' nel labirinto:
un mostro qui da la natura finto
vergogna di Marzocco innanzi al Duca.
Obbrobrio e vituperio di te stesso;
noi non dobbiam saper la tua natura:
ché Arno ti trovò lavando un cesso.
Quando ad alcun detrai, abbi ben cura
di batter l'ali e di guardarti spesso,
ch'altri che te non ti farà paura.
Innell'agricoltura
vi trovai, quando volse Prïapo
farti un gigante, e' cominciò dal capo.
a
b
o tu ... vinto] T o tu ti rendi in colpa e chiami vinto
disegnato] T designato
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
265
Note al testo
4. scarca ... manduca: ‘latrina’.
5. altroe: mi pare alluda al son. 120, in cui raccomanda il
Bellincioni, per la sua "buaggine" a San Bovo (già Cecco Angiolieri
aveva dato del bue a Dante in Dante Alleghier, s'i' so' buon
begolardo).
al pie' di Luca: San Luca è solitamente rappresentato con
accanto un bue/toro nero alato dalle corna rosse, secondo
l'iconografia descritta in Ezechiele e nell'Apocalisse.
6. colui ... labirinto: il Minotauro.
13. batter l'ali: il Pistoia ha sin qui raffigurato il Bellincioni
come un mostruoso bue alato.
15. Innell'agricoltura: sta facendo ricorso all'espediente del
trattato ritrovato.
16-17: Prïapo: personificazione della fecondità maschile;
com'è noto, veniva collegato alle orge dionisiache e rappresentato in
un corpo deforme, con organi genitali esuberanti: nel trattato
d'agricoltura cui allude al verso precedente, il Pistoia ironizza sulla
deficienza del suo antagonista dicendo di aver letto che Priapo,
volendo plasmare il Bellincioni, iniziò col dotarlo di una gran testa
(vuota).
III.
Tràdito da A e T.
La rivalità con il Bellincioni, apostrofato come schiuma d'Arno
(v. 19) viene posta qui su un piano campanilistico dal Nostro che
conclude dicendo al rivale fiorentino che imparerà a sue spese quanto
costa parlar male d'un pistorese!
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
III.
Sempre tu gratti il corpo alle cicale,
né pensi che chi gratta, acquista rogna,
ma sai tu ben quel che far ti bisogna?
Fermar la lingua e metterla nel sale.
Dubbio, essendo tu in corpo a carnevale,
che un dì la broda ti farà vergogna,
fuggi in malora tua questa carogna,
ché i corbi non ti fesson qualche male.
Chi te impaniasse intorno le bacchette
e ficcaseti in culo un bastone
faresti più pregion che le civette.
Se fussi stato al tempo de Sansone,
di te bastava a far le sue vendette
un osso della spalla o del groppone.
Che gentil paragone
per li scultori, a formarti di gesso
in qualche chiasso o nel canton d'un cesso!
Or via, il piange adesso,
impara, schiuma d'Arno, alle tue spese
quel che costa a dir mal d'un pistorese!
266
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
267
Note al testo
1. gratti ... cicale: per farle cantare; cfr. Luigi Pulci, Sonetti
contro Matteo Franco, in Opere minori, a c. di P. Orvieto, Mursia,
Milano, [1986] son. XI, v. 1: Io ho tanto grattato le cicale. Si intenda
dunque: ‘tu hai fatto tanto per farmi parlar male di te’.
2. chi gratta acquista rogna: detto popolare; qui da intendersi
come: ‘adesso paga le conseguenze dell'avermi stuzzicato’.
5-6 a carnevale...vergogna: da leggersi secondo due livelli di
interpretazione: a Carnevale si fanno e ricevono scherzi, ma
l'espressione mi pare da intendersi anche in senso etimologico, da
CARNEM LEVARE, letteralmente "eliminare (dalla dieta) la carne":
regola medievale imposta dalle autorità ecclesiastiche; dunque la
metafora potrebbe essere intesa: ‘il Bellincioni è ridotto fisicamente
talmente male, per quanto poco mangia (come se, a causa della sua
povertà fosse sempre a dieta), che prima o poi il suo cervello vanesio
(broda) gli giocherà un brutto tiro’.
9. impaniasse ... bacchette: il riferimento è alla caccia col
palmone, detto anche fantoccio, un congegno per uccellagione a
panie, il quale riproduceva un tronco d'albero, i cui rami erano grosse
verghe posticce coperte di paniuzze (bacchette) e sporgenti a raggiera
dalla sua cima, quali posatoi per gli uccelli richiamati.
10. bastone: in gergo tecnico era quella parte del fantoccio
detta antenna, ovvero l'asta squadrata che s'inalzava sulla cassa del
fantoccio.
IV.
Contro il bolognese Giovanbattista Refrigerio, allievo dello
Spagnuoli e cancelliere nella città natale sino al 1482, quando divenne
segretario di Roberto Sanseverino, capitano dei Veneziani, cui dedicò
un Triumpho. Il Pistoia attribuì al Refrigerio la disgrazia del
Sanseverino che venne catturato durante la battaglia di Calliano
sull'Adige, contro Sigismondo Arciduca d'Austria, il 10 agosto del
1487.
Io vidi a Refrigier compor sonetti
su per le frasche, al vento, in un diserto,
e descrivere i fatti di Ruberto,
nel tempo che se empievano i sacchetti.
Come l'estrema forza de' Marchetti
fece il Po di legname andar coperto
e poi soggionse: "Io vidi il cielo aperto
Marte a caval con un mazzo di getti".
E così scrisse: "Il secondo Anniballe
morì felice fra i nimici suoi,
fatto di sangue il fiume e la gran valle".
Ma una voce gli rispose poi:
"Fortuna mi mostrò le enfiate spalle
poi ch'io mi volsi nei consigli tuoi".
Tacque e leggendo, noia
lo trovammo da te finito il giorno,
descritto in ciel con mille frappe intorno.
a
leggendo, noi] Pércopo inserisce la virgola dopo il noi, alterando il senso del verso.
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
269
Note ai testi
3. Ruberto: il Sanseverino, principe di Salerno dal 1460 e tra i
più eroici capitani di ventura del Quattrocento.
4. empievano i sacchetti: durante la guerra ferrarese (1482),
quando i Veneziani (detti ironicamente Marchetti dal nome del santo
evangelista patrono della città) guidati dal Sanseverino occuparono il
Po con la loro flotta; cfr. Diario ferrarese, p. 257 sgg.
7. Io vidi: nella finzione poetica è il Refrigerio a parlare,
dicendo che aveva visto Marte a cavallo circondato da uccelli
predatori (l'allusione è agli ultimi versi del Triumpho in cui il
Sanseverino è collocato in cielo fra coloro che seguirno il bellicoso
orror da Marte).
9. secondo Anniballe: il Sanseverino, che parla poi in prima
persona ai vv. 13-14, accusando il Refrigerio di essere causa della sua
sventura.
17. frappe: notazione naturalmente ironica, che nella prima
accezione indica le balze nelle vesti raffinate, derivate dalla moda
francese dei jabeaux; in senso figurat. dunque un ‘vano ornamento’ e
nel traslato ‘ciance’ o ‘parole vane’.
V.
CONTRO CESARE BORGIA, IL VALENTINO
Nato a Roma tra il 1474 e il 1475, secondo dei quattro illegittimi
che Rodrigo Borgia aveva avuto dalla sua amante Vanozza de'
Cattanei, Cesare era cresciuto tra i fasti della corte papalina. Il 17
agosto del 1498 aveva deposto la porpora cardinalizia (ricevuta già
all'età di sette anni) ed era tornato allo stato laico. Nel suo passato
ecclesiastico c'era già l'assassinio del fratello maggiore Giovanni: un
delitto perfetto compiuto nel 1497 da Cesare, per eliminare un
rivale nella scalata al potere. Lo stesso 17 agosto 1498, aveva ricevuto
dall'ambasciatore del re di Francia Luigi XII, alleato con il papa
contro Ludovico il Moro, l'investitura a duca del Valentinois, da cui gli
venne il titolo di "Valentino". Borgia padre e figlio avrebbero favorito
Luigi XII, nella conquista di Milano e di Napoli, mentre il re francese
avrebbe aiutato Cesare, nell'imminente lotta contro i signorotti
romagnoli. Proprio a questo periodo della vita politica del Valentino
allude il Pistoia: nel settembre del 1499, l'occupazione del ducato
milanese da parte francese era cosa fatta, e il 6 ottobre Luigi XII entrò
in Milano, insieme al "cugino" acquisito, Cesare Borgia. Nominato dal
sovrano francese luogotenente, Cesare ebbe trecento lanceri e
quattromila svizzeri, con cui mosse la spedizione contro Romagna e
Marche. Fin dall'ottobre del 1499, il Papa, con il pretesto che non
avevano pagato il censo dovuto, aveva dichiarato con varie bolle
papali decaduti dai loro feudi i vassalli di Rimini, Pesaro, Faenza,
Imola e Forlì, Urbino e Camerino. Imola e Forlì erano le città più
ambite dal Valentino, appartenevano a Caterina Sforza vedova di due
mariti, il secondo dei quali, Giovanni de' Medici, morto da pochi
giorni, quando Cesare l'attaccò; le città furono conquistate e Caterina
venne condotta "ospite" a Roma in castel S. Angelo. L'impresa in
Romagna di Cesare si concluse anticipatamente, il re di Francia
richiamò gli svizzeri e volle dare il colpo di grazia a Ludovico il Moro,
e il Valentino con l'esercito dimezzato fu costretto a tornare a Roma
dove il padre papa gli attribuì un trionfo degno di "Cesare".
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
271
Nel sonetto, il sarcasmo è dato dall'interferenza di registri, generata
dall'opposizione tonale tra le affermazioni poste in posizione
privilegiata di incipit (che, decontestualizzate, risulterebbero solenni)
e la seguente negazione, secondo un pattern consacrato in area
romanza da Guglielmo IX nel suo Vers de dreit nen. Di recente,
Giuseppe Tavani (Tra Galizia e Provenza, saggi sulla poesia
medievale galego-portoghese, Carocci, Roma, 2002, p. 105) ha
osservato, in alcune cantigas galego-portoghesi, un procedimento
formalmente simile e parallelo a questo messo in atto dal Pistoia: nei
primi versi i testi si presentano come propri di un certo genere
cortese, per poi mutare bruscamente di valenza.
V.
Il duca Valentin, vedutoa i danni
ch'hanno già molti fatto al divin culto,
ne la sua prima età, per questo insulto
'n un punto ha fatto quel che val mill'anni.
A chi ha tolto gli scettri, a chi gli scanni,
né mai stato è tra suoi nimici occulto,
qual in essilio ha sperso e qual sepulto:
alcun non sii che 'l divin culto inganni!
Dato il Ciel gli ha la grazia e l'armi Marte
per difender la sposa del Signore,
ch'era squartata in più di cento parte.
O tu che del ben d'altri sei raptore
da la iustizia, dopo un tempo, guârte,
ché a chi nol pensa, giunge il punitore.
Chi ebbe il frutto e 'l fiore
di quel che mangiò mai con gran sinestro,
ha reso il conto e pagato il maëstro.
a
veduto] A2 veduti
5
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15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
272
Note al testo
1-4: ovviamente il Pistoia sta facendo del sarcasmo nel dire che il
gonfaloniere di Roma, Cesare Borgia, sta esiliando e imprigionando
coloro che hanno recato offesa alla Chiesa.
5-7: Caterina Sforza fu imprigionata a Roma, dopo una strenue
resistenza, documentata dallo stesso Pistoia (in una corona di sei
sonetti, 506-512); Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e Giovanni
Sforza, signore di Pesaro, furono costretti a fuggire; Astorre Manfredi,
signore di Faenza, di soli diciotto anni, venne imprigionato e lasciato
morire a Castel S. Angelo.
12-14: pensi, il Valentino, che la stessa giustizia di cui egli s'è
servito per sbaragliare i signori di Marche e Romagna, vicari della
Chiesa, non tarderà ad arrivare anche per lui.
15-17. Chi ebbe ... maëstro: allude qui al Moro, che dopo essersi
goduto il ducato che spettava al proprio nipote, ha fatto una fine poco
gloriosa, prigioniero di Luigi XII.
****
*
D'ARGOMENTO VARIO
I.
Sulle cattive cene
Quello qui riprodotto è certamente tra i più noti sonetti del
Pistoia, scritto probabilmente a Mantova, nel 1499. Il componimento
rielabora il topos della fame e della miseria trattate - sin dal famoso
carme XIII di Catullo, Cenabis bene, mi Fabulle, apud me - con
sarcastico sprezzo (uno dei maestri del genere, in ambito italiano, fu
Cecco Angiolieri)1. Nel contesto di un’analisi più generale, Franco
Suitner aveva sottolineato come nella poesia giocosa e satirica del
periodo dei comuni vi fosse, insolitamente, assai poco spazio per il
cibo;2 va notato che, per quanto riguarda il Quattrocento, mancano
sostanzialmente studi mirati a rilevare la presenza del cibo nei testi in
versi (se si escludono gli interventi sul Morgante); è comunque un
dato di fatto che i poeti del Quattrocento insistano comicamente sulle
caratteristiche negative del cibo (la pessima carne di scarsa
digeribilità, il pane ammuffito, il vino che sa di trementina).
È il Burchiello a inaugurare il gusto per la descrizione della
cena o del pranzo andati a male, con i versi Qua si cucina in pentola
di rame, / che’ a mangià la minestra è un dolore; / non vi dico la
1
Cfr. F. ALFIAN, ‘I’ son sì magro che quasi traluco’: Inspiration and
Indebtedness among Cecco Angiolieri, Meo Dei Tolomei and Il Burchiello,
in «Italian Quarterly», 35, 1998, pp. 5-28 e P. CAMPORESI, Il paese della
fame, Milano, Garzanti, 2000, in part. pp. 139-205. In particolare si veda P.
ORVIETO – L. BRESTOLINI, La poesia comico-realistica dalle origini al
Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, pp. 127-42.
2
F. SUITNER, La poesia satirica e giocosa nell’età dei comuni, cit., p. 107.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
274
carne d’un colore / proprio di mane ch’usin filare stame; Apro la
bocca secondo e bocconi / e s’io non posso aver del pesce grosso, / i’
mangio del minuto che ha men osso / toccando mona menta co’
bastoni; La descrizione della magra cena si trova ancora in Sabato
Tessa ci fu mona Sera e Achi con Bachi e Cachi di brigata.3 cui farà
eco il Franco:
No’ andammo ier, Lorenzo, a un convito
con un repubblicon largo in cintura,
di notte, a lungi, stracchi, e con ventura,
piacer da farne al Magnolin rinvito.
Timido aceto avemmo et olio ardito,
insalata, anzi sciocca, passa e dura;
pan che facea salnitro per le mura,
vin vecchio, tondo, quadro e rimbambito.
Battezzaron pippion due colombelle
che bolliron dell’ore ben diciotto,
poi furon per fuggir dalle scodelle;
missimi in bocca l’alie del più cotto,
ch’a mesticar parean proprio bandelle:
isfondolati, voti e aperti sotto.4
Allo stesso genere appartengono anche il sonetto del Pulci
Cenando anch’io con uno a queste sere,5 quello di Jacopo Paganelli Io
3
BURCHIELLO, Sonetti, CCII, e CCXXII. Il resoconto della cena trascorsa,
con l’elenco delle vivande consumate, ha in Orazio, Satirae, II, 8, uno tra i
più celebri antecedenti.
4
M. FRANCO, No’ andammo ier, Lorenzo, a un convito, vv. 1-14, in L.
PULCI-M. FRANCO, Il “Libro dei Sonetti”, a c. di G. DOLCI, MilanoGenova-Roma-Napoli 1933., XCII, pp. 86-87.
5
Ivi, cit., CXLII, p. 122. Un accenno ad una cena grottesca anche nel sonetto
Io seggo a mensa qua con certe dame, in ivi, CXXXVI, pp. 117-18. Cfr.
anche E. VERGA, Saggio di studi su Bernardo Bellincioni poeta cortigiano di
Lodovico il Moro, Milano, Cooperativa Editrice Italiana, 1892, pp. 114-16.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
275
son nel fondo della magna altezza,6 alcuni versi del Bellincioni,7 fino
al capitolo di Giacomo Cataldini di Cagli del 1483 e al sonetto pseudoburchiellesco Volete voi conoscere compagnoni, nei quali sono
elencati i miseri cibi consumati in pessime condizioni di alloggio.8 Il
tema è sviluppato dal Pistoia in sette sonetti: Abbiam fatto senza occa
l’Ognisanti (son. 19), Non mi chiamati più, ch’ho disinato (20),
Signor, il tuo suscalco, oggi fa un giorno (21), Quel desinar ch’io ebbi
fu perfetto (22), il sonetto qui riprodotto, che è il ventireesimo della
raccolta ambrosiana, Cenando, Fidel mio, ersira in corte, e ancora
Cosmico, io cena’ er con Gianfrancesco (29), Io allogiai ersira a l’oste
a Siena (31).
Cibi e vivande sono offerti, attraverso sonetti missivi, come nel
caso di quello del Bellincioni Io ti mando dui pomi; e’ son granati,9
cui fece volutamente eco il Nostro, con i due Io ti mando, madonna,
un cestellino (son. 249) e Questi son fichi, ch’io ti mando in dono
(son. 250)10. Più spesso, dall’offerta di cibo si passa alla richiesta.
6
Cfr. F. FLAMINI, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi
del Magnifico, Pisa, Nistri, 1891, p. 546.
7
BELLINCIONI, Le rime, cit., parte II, XC, vv. 9-14, p. 96. «Tocchian
dell’altre tue zanzaverate: / Quegli uccellin con l’uova nel tocchetto / Li
parvon proprio a masticar granate. / Per discrezion intendo, un certo letto /
L’anguille vi sarebbono infreddate / Acciughe in gelatina per dispetto».
8
Cfr. G. VITALETTI, Per il tema del «malo alloggio», in «Giornale storico
della letteratura italiana», LXXXIII (1924), pp. 376-80 e Sonetti del
Burchiello del Bellincioni e d'altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra
[ma Lucca o Livorno, s. e.], 1757, p. 208. Cfr. anche il sonetto del «malo
alloggio» di Bellincioni Questo, Signor, ti fo in una osteria, nel quale parla
anche di pessimo pane (in Le rime, cit., parte II, CXXXVIII, pp. 143-44).
9
BELLINCIONI, Le rime, cit., parte I, CLXX, p. 230.
10
Si veda anche il sonetto Compar voi mi lasciasti a battezzare, nel quale tra
le altre questioni si parla di formaggio da donare (in Sonetti del Burchiello
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
276
Sempre il Bellincioni, nel sonetto El tuo cornigeron, non
cornacchione chiede a Gaspare Visconti un’oca per Ognissanti, e in Se
mai impetroron grazie i miei sonetti11 un’oca a messer Bergonzio
Botta, e ancora nel sonetto O Fiesole con Piero è ’l Bellincione richiede
del cibo a Lucrezia Tornabuoni per la villa dei Medici a Careggi (agli,
cipolle ed insalata) e in I’ fo delle pensate di fanello, inviato a
Giovanni di Tommaso Ridolfi, chiede dell'insalata;12 analogamente il
Pistoia chiede le vivande per una cena in Mandara’mi il giubon del
mio somieri e Mandara’mi un piatel di gelatina (sonn. 341 e 342).
Come ha rilevato di recente Giuseppe Crimi, nel contributo dal
titolo Per una retorica del cibo nella poesia comico-realistica fra Tre
e Quattrocento: «il cibo entra a far parte della poesia comicorealistica in maniera più insistente e con un uso più disinvolto nel
Quattrocento; se alcuni topoi hanno origine nella tradizione classica e
mediolatina (sono necessari scavi ancora in questa direzione), altri,
come quello delle cattive cene, sembrano nati in seno alla letteratura
del Bellincioni e di altri poeti fiorentini alla burchiellesca, cit., p. 210),
quello di M. FRANCO Luigi, ancor non vengon que’ nocciuioli in cui si
parla dell’invio di alcuni oggetti tra cui anche cibarie e la risposta di Pulci
Com’io ti dissi, i’ ti mandai e’ nocciuoli (in PULCI – FRANCO, Il “Libro
dei Sonetti”, cit., LXXV-LXXVI, pp. 73-74). Tommaso Baldinotti invia
alcuni frutti e un cesto di pere (Mandovi certe frutte del giardino e Mandoti
per presente apportatore, in T. BALDINOTTI, Rime volgari, cit., pp.
XXXIV e 51-52). Nel sonetto Natura ci ha produtte al piacer vostro, le pere,
inviate come dono, espongono le proprie qualità (ivi, p. XXXI), e in modo
del tutto simile è composto quello di Gasparo Visconti Nespoli siamo, fructi
de i bei rami (in Rime, a c. di A. CUTOLO, Bologna, per i tipi dell’Antiquaria
Palmaverde, 1952, p. 105).
11
BELLINCIONI, Le rime, cit., parte II, V, pp. 6-7. Su questo sonetto si
vedano, per il rapporto cibo-anfibologie, i vv. 5-6: Noi ti ristorerem poi con
sonetti: / Se non v’è oca, a noi dona ocazzo. / Come poveri, abbián nel mio
palazzo / Agli e cipolle, e anche due porretti. Cfr. ivi, parte II, VI, p. 8.
12
Ivi, LXXXIII, pp. 88-89.Ivi, CXLIX, p. 205. La risposta E tuoi pensier son
pur di strano uccello.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
277
trecentesca e perfezionati in quella quattrocentesca. Nella seconda
metà del Quattrocento, per quanto riguarda la componente realistica,
assistiamo ad una tendenza generale verso una forte letterarietà.
D'ARGOMENTO VARIO
I.
Sulle cattive cene
Cenando, Fidel mio, ersira in corte,
me apparecchior Serafino e Galasso
una tovaglia lavata col grasso,
che mostrava la mensa per le porte.
Quelle vivande che mi furon pòrte,
de l’insalata mal condita lasso,
il pan piloso, duro quanto un sasso,
filava il vin per la paura forte.
La matre di Boetio avolta a un osso
mi apresentorno, che del brodo puro
avèa la cimatura ancora indosso.
Dando coi denti su quel coio duro,
l’un era faticato e l’altro scosso1,
col culo su lo scanno e i piedi al muro.
Alor dissi: “Io non curo
di questa imbandigion mangiar più troppa,
ch’io non son uso a pettinar istoppa”.
Dipoi voltai la groppa
e dissi: “Chi in corte è destinato,
s’el non mor santo, el si mor disperato!”
1
5
10
15
20
scosso] adotto la variante di C, M, St2 e M2, contro A in cui appare rosso; St2 ha l'un dente è
affaticato, l'altro scosso.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
279
Note al testo
1. Fidel: buffone dei Gonzaga, forse è lo stesso Fidele a cui il
Bibbiena, nel citato sonetto (cfr. Introduzione) sulla morte
dell'Aquilano, faceva lasciare in eredità dal Ciminelli le bestemmie e il
mal dire.
ersira: avv. di uso frequente in testi settentrionali, mentre in
testi toscani si ha più sovente ersera (cfr. Rainaldo e Lesengrino
versione di Oxford, in Poeti del Duecento, a c. di G. CONTINI, MilanoNapoli, Ricciardi, 1960, t. I, pp. 815-41, p. 835, v. 603 sgg.: Se vo a
partire lo formento, / e' avrò mal partimento: / ché lla cavra avea
ersira / del formento molto grand ira, / che 'l tignïa pur per mi / e la
paia dava a si).
2. Serafino e Galasso: Pércopo, così come Luzio e Renier, in
Buffoni, cit. p. 37, danno entrambi i personaggi quali buffoni della
corte mantovana; si noti, però, che gli studiosi ricavano le indicazioni
proprio dai sonetti del Nostro. Mi risulta che Galasso de' Galassi fosse
in realtà pittore e non escluderei che Serafino sia l'Aquilano.
3. una tovaglia lavata col grasso: fuor di metafora, ‘unta’.
4. che mostrava la mensa per le porte: attraverso le porte (i
buchi) nella tovaglia, si poteva vedere la tavola.
7. pan piloso: ‘pane ammuffito’; il pane è l'oggetto più spesso
citato per esprimere la fame o la condizione misera del poeta, come
nel caso del Bellincioni E Magi fo s’i’ veggo un pane intero2 o di
Matteo Franco I’ ho mangiato tanto pan col conio.3
9. matre di Boezio: ‘la madre del bue’, dunque, gli fu offerta
carne di vacca.
2
3
BELLINCIONI, Le rime, cit., parte II, XCII, v. 10, p. 98.
L. PULCI – M. FRANCO, Il “Libro dei Sonetti”, a cura di G. Dolci,
Milano-Genova-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri, 1933, LX, p.
62.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
280
13. l’un era faticato e l’altro scosso: ‘un dente era affaticato e
l'altro dondolava’.
17. pettinar istoppa: sottinteso ‘coi denti’.
II.
Parodia del Credo
Le comiche professioni di fede erano un vero e proprio genere
letterario, assai diffuso nel XV secolo, basti pensare al Morgante,
(canto XVIII, ottave 112-147). In questa del Pistoia non si avverte
alcuna nota di blasfemia; pare anzi una sorta di enigma e le code
velenose sotto tutte rivolte contro l'ipocrisia di chi si professa buon
cristiano, ma non compie alcun atto caritatevole.
Io credo in quel a chi ‘l toccò die’ fè,
che lo negò tre volte un pescatore,
poi fu venduto dal suo spenditore,
videlo un cieco e poi chiamò mercè.
Credo la vita sua unita in tre,
come ni disse il cugin suo scrittore
e gli tre cancellier del suo dolore,
ne la stagion che ‘l sol pianse il suo re.
Credo ‘n un figlio, padre alla sua madre,
credo ‘n un spirto (non quel del Sosena),
credo che tal sia il figlio, quale è il padre.
Credo ne l’ortolan di Maddalena,
e che ‘l gran conduttier co' le sue squadre
andasse con un ladro in cielo a cena;
e credo intiera e piena
la santa Chiesa e’ suoi santi più chiari;
non a’ fatti, per parte o per denari,
ipocriti e avari,
che rubbati l’agnello a’ poveretti,
poi per l’amor de Dio date i zampetti!
5
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PARTE QUINTA
Raccolta antologica
281
Note al testo
1. quei: Gesù.
chi ‘l toccò: Tommaso
2. un pescatore: Pietro.
3. spenditore: ‘traditore’, Giuda.
6. ni: ‘ci’.
6-7: il cugin suo... gli tre cancellier: San Giovanni e gli
Evangelisti.
10. Sosena: l'astrologo Cario Sosena di Ferrara, citato anche dall’
Ariosto (Satira VII, 94-95: Chi avesse avuto lo spirito di Carlo
Sosena allora, avria a Lorenzo forse detto, quando sentì duca
chiamarlo; et avria detto al duca di Namorse, al cardinal de’ Rossi
et al Bibiena a cui meglio era esser rimaso a Torse, e detto a
Contessina e a Madalena, ala nora, alla socera, et a tutta quella
famiglia d’allegrezza piena). Sosteneva di avere presso di sé uno
spirito in grado di pronosticare la morte altrui.
14. co' un ladro: ‘col buon ladrone’.
17. a’ fatti ... ipocriti e avarii: a chi è divenuto ipocrita e avaro.
19. rubbati: ‘rubate’.
20. i zampetti: ‘gli scarti’.
III.
Sulla bellezza muliebre
Sonetto parodico, dalla struttura assai simile a quello dedicato al
Valentino: al gioco formale con i registri stilistici è affidata dal poeta,
sul piano significativo, una funzione analoga a quella definita dai
critici letterari come "interferenza evenemenziale". Il poeta sfrutta la
collisione e l'oscillazione tra reale e fittizio, vero e falso, in un uso
dinamico dei significanti.
La parodia con intento antipetrarchesco è assai simile a quella
del celebre sonetto del Berni In lode della sua donna.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
Le Fiorentine fra l’altre toscane
più belle son che quante là ne sieno:
queste hanno il capo biondo, il viso e ‘l seno
bianco vermiglio, e d’avorio le mane.
Un guardo pien d’amor, son tutte umane,
un parlar da far dolce ogni veneno,
atte qual dame4 son, né più né meno:
non sol pur lor, ma insino alle villane.
Forse ch’esse hanno il viso unto o imbrattato
o di belletto o di biacca o d’albume,
ma par di marmo il più pur lavorato.
Alcun mi dice ch’io non vedo lume
perch’esse hanno unto il viso e smerdacciato
tutto di zolfo, e le treccie d’allume;
quando vanno a ’l fiume5
chi vede loro il petto, il viso e ’l mento
paion vesciche secche senza vento.
Ora, dunque, io mi pento
se nel principio io dissi bene, idèst
perchè chi pecca e emenda salvus est.
4
5
dame] T, P daini
al fiume] T, P, P1 alle piume
282
5
10
15
20
Note al testo
2. là: in Toscana.
4. bianco vermiglio: bianco rosato, dunque un incarnato
fresco
5. sguardo ... umane: scimmiotta gli stilnovisti, nella
descrizione della donna angelicata.
15. nel codice si legge a 'l fiume, ma alcuni codici e il Pércopo
stesso, leggono alle piume, interpretando l'espressione come ‘a letto’.
IV.
Testamento poetico
[Su questo sonetto cfr. Introduzione, p. 82 sgg.]
Ecco la Morte: i miei sonetti al foco!
Gli altri versi d’amor sian posti in sale;
pur, se gli è alcun faceto e alcun morale,
stiano, per fugir ozio, fermi in gioco.
Perché del viver mio resta ancor poco,
d’ogni opra mia si faccia un carnevale:
ché, quando un pezzo l’omo ha fatto male,
è pur bon ravvedersi a tempo e a loco.
Lascio il Correggioa mio, ch’è la mia musa,
per quei che in tumul mi daran libello:
ottimo ostacul contro a chi m’accusa.
E lascio Gian Francesco Gianninello,
Geronimo da Casi a far mia scusa,
e, a Mantua, Paris col dir raro e bello.
A Correggio un fratello:
Lelio Manfredi, contro a questi cani,
che la farà con versi e con le mani.
a
Correggio] A Corregigio
5
10
15
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
284
Nota al testo
9. Correggio mio: Niccolò da Correggio, primo mecenate del
poeta (cfr. Introduzione).
12. Gianninello: Giovanfrancesco Gianninello, allievo del
Pistoia.
13. Geronimo da Casi: il poeta Girolamo Casio, autore, tra
l'altro, dell'epitaffio per il Bramante, intrattenne rapporti con vari
artisti della corte sforzesca e venne ritratto dal Boltraffi nella
cosiddetta Pala Casio del Louvre e fu coronato poeta da Clemente VII
nel 1523.
14. Paris: Paride da Ceresara (1466-1532), letterato della corte
mantovana, fu anche l'ideatore del programma iconografico della
psicomachia del Perugino collocata nello studiolo di Isabella d'Este
nel 1505.
16. Lelio Manfredi: umanista ferrarese, traduttore del Tirant lo
Blanc di Joanot Martorell; su di lui cfr. C. ZILLI, Notizia di Lelio
Manfredi, letterato di corte, in «Studi e problemi di critica testuale»,
XXII (1983), pp. 39-54.
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
285
*
[Su questo testo cfr. Introduzione, p. 139 sgg.]
LA DISPERATA
La nuda terra s'ha già messo il manto
tenero e verde e ciascun cor s'allegra
ed io, pur, do principio al mio gran pianto.
3
Gli arbori piaglian fronde, io vesta negra,
ogni animal rinova la sua spoglia,
la mia, squarciata ognor, men si fa intègra.
6
Cresce il canto agli uccelli, a me la doglia,
cercan lor dove sian più verdi fronde,
ed io quel legno, ove non nasce foglia.
9
Cantan per festa, il mio riso s'asconde;
volando verso il ciel lascian la terra,
io vo cercando tenebre profonde.
12
Il mondo è in pace, io sol rimango in guerra,
il sol più luce e più rende splendore,
a me par notte ed esser giù sotterra.
15
Or comincian gli amanti il novo amore,
or si dona principio al canto e al gioco:
lasso, che ognora in me cresce il dolore!
18
Gli altri scaldansi al sole, io adiaccio al foco,
gli altri braman vivendo esser felici,
io, ad ogni passo, più la morte invoco.
21
Gli altri cercan compagni, gli altri amici,
ed io d'alcun trovar mi doglio e lagno,
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
286
bramando quei che mi son più nemici.
24
Qual tortora ne vo senza compagno,
piangendo sempre in sui tronchi più vecchi,
né bevo mai in chiaro rivo o stagno.
27
Guffi, cornici sonanmi alle orecchi,
e vo qual vespertil se non la notte:
chi non sa che sia morte, in me si specchi!
30
Gli animali se riposan per le grotte,
qual sotto frasche, qual in ramo o stecco,
io piango mie speranze al tutto rotte.
33
Ciascuna piaggia è verde, ed io son secco;
s'io piango o grido, alcun non mi conforta;
riformando il dolor, mi rispond' Ecco.
36
Chiamo il guardian della tartarea porta,
qual mandi il suo nocchier alla mia riva,
che mi conduca fra la gente morta.
39
Gli altri braman l'insegna dell'oliva,
ed io guerra mortal, per tutto mossa,
il fin di me, come ogni anima viva.
42
Gli altri braman regal palacci, io terra fossa.
Gli altri trovan il mar di latte e mele,
io di uman sangue tutta l'acqua rossa.
45
Gli altri braman pietade, io 'l ciel crudele,
gli altri il tempo tranquillo, io ria fortuna,
onde gonfiar e dirupar le vele1.
48
Gli altri veder vorebbeno in ciascuna
parte benigno il cielo e firmamento,
ed io che 'l ciel cascasse, e sole e luna.
51
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
287
Gli altri veder vorian ciascun contento,
ed io ogn'um morir d'ira e di rabbia,
e in caos ritornar ogni elemento.
54
Vorrei veder il foco sulla sabbia,
fulgurar poi dove abitan le genti,
stridi, pianti, lamenti, aprir de labbia.
57
E che Eolo lasciasse tutti i venti,
sì che cadesse a terra ogni edifficio;
e, invece degli uccei, volar serpenti.
60
E che ogn'uom fusse un Sisifo ed un Ticio,
e, morto, rinascesse allora allora,
e ritornasse a magior precipitio.
63
Ogni furia infernal venesse fora,
l'Ydre, l'Arpie e, per maggior ruina,
Cerber, che i corpi uman apre e divora.
66
Non si vedesse più sera o matina,
ma oscurità di nebbia e fumo nero,
il sole nascesse là, dove declina.
69
Ciascun ver l'altro ognor fusse più fiero,
né si curasse più di paradiso,
e che in ciel fusse di Pluton l'impero.
72
Il padre dal figliuol fusse conquiso,
il fratel dal fratel morto per morte,
e l'un dall'altro a tradimento ucciso.
75
E mai non si cridasse altro che morte,
ed io nel fin diventassi un Meleägro,
o che la pena mia fusse più forte.
78
Uno afamato Erisitone e magro,
o fusse d'Isïon al dur partito,
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
288
vivendo sol di pianto, acerbo ed agro.
81
Un Tantalo di sete e di appetito,
o qual misero Phetonte fulminato,
o nel fondo di Lete seppelito.
84
O ch'io fusse in quel modo ruïnato,
come fu co' compagni suoi Lucìfero,
o ver qual Ateön dai cani stracciato.
87
Che ogni augurio a me fusse mortifero,
tutti in me coniurati li animali,
ed ogni cibo mio fusse pestifero.
90
E se possibil è, tutti i gran mali
sopra di me piovessero e Vulcano
sol per mia morte fabricasse strali.
93
Phalàr via più che mai tornasse strano,
una nova Medusa, un Brïareo,
un crudo Gaio, un Massentio inumano.
96
Neron tornasse, il fiero Capaneo,
Silla, pien di nequizia, e seco Mario,
co' i denti al capo mi fusse ognor Tideo.
99
O mondo cieco, o mondo falso e vario,
o Amor senza pietà, o Amor fallace,
a me sì aspro, a me tanto contrario!
102
Or ch'io speravo aver con teco pace,
privo m'hai d'ogni ben, d'ogni diletto,
e grido e piango, e tutto il mondo tace.
105
Quale ingiuria maggior, o qual dispetto
far mi potevi più: tolta collei
che sino al ciel levava il mio intelletto.
108
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
289
O iniustizia de tutti li dei
ad consentir al gran martìr ch'io porto,
duri in soccorso a tanti affanni miei.
111
Come può mai parlar un che sia morto,
come pô mai veder un che non vede,
come a un ch' ha ragion, mai se fa torto?
114
Deh, perché 'l ciel almen non mi concede
ch'io mi possa mutar in forme nove,
per gir a quella che'l mio cor possede?
117
Ogn'uom in grembo a sua donna non piove,
ogn'uom non pô cangiarsi in cigno o in toro,
ogn'uom esser non può Pluto nè Jove.
120
Ché, s'io potesse anch'io, come fan loro,
mutar l'aspetto, l'abito, il costume,
forse potria dar fine al mio martoro.
123
Perché non ho di Dedalo le piume,
ché mai non fu sì presto uccel volante,
quale io saria in seguir mio perso lume.
126
Potessen, come l'ale, andar le piante,
che già aperta avrei quella Tarpea
che m'ha renchiuse quelle luce sante.
129
Ove sei Circe, ove sei tu, Medea?
Venite e, per gran forza d'arte maga,
tornate a luce mia celeste dea.
132
Questa è colei che'l cor m'arde e impiaga:
altro Apollo, o Esculapio, altro Avicena
non mi potria sanar la mortal piaga.
135
Lei fu principio a sì dolente pena,
lei sola esser pô fine e sol rimedio
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
290
al crudel colpo ch'a morte ognor mi mena.
138
Questo è quel mal che m'ha posto l'assedio,
che a lassar vita ognor più mi ricorda,
e trovar qualche fin per manco tedio.
141
So ben ch'io chiamo aiuto da una sorda,
essa non sa, ni vede il mal ch'io provo,
e certo i' son che omai di me si scorda.
144
Ella è rinchiusa, e io solo mi trovo,
piangendo la mia sorte, aspra e molesta,
e moro e nel morir poi mi rinovo.
147
Altra via di salir al ciel ci resta
che i labirinti: e' sono fatti per mostri
e per spietate fiere, use a foresta.
150
Ancor fuor delle tombe e fuor de' chiostri
e senza abito novo e veste oscure,
se pô dir laude, psalmi e paternostri.
153
Le pregion son per ladri e l'alte mure,
le catene a' leoni, agli orsi, a' cani,
non per bianche colombe, umili e pure.
156
Non se richiede agli spirti umani
se non verdi giardin, rose e vïole,
e fonti e fiumi, e non lochi aspri e strani.
159
Non se richiede nubbe inanzi al sole,
né che bellezza sia rinchiusa e spenta
in loco ove abitar Amor non suole.
162
O anima gentil che mi tormenta,
odi il mio pianto, odi il dolore amaro,
odi un che per tua causa si lamenta.
165
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
291
Odi collui che non vede il sol chïaro,
odi collui che la vita rifiuta,
odi collui cui il morir gli è caro.
168
Tu mi sei fatta sorda, cieca e muta:
io parlo al vento, agli ussi, alle fenestre,
ma ciascun di me ride, non mi aiuta.
171
Tigri, leöni, e voi, fiere silvestre,
vaghe di sangue uman, presto venite
a sbranar queste membra mie terrestre.
174
O imperator della cità di Dite,
non tardar più, ch'io sono al punto extremo,
per dar fine una volta a tanta lite.
177
Tômi per carta e fàme un don supremo:
l'anima regni teco, il corpo lasso
a' lupi: or Morte vien, ch'io non ti temo.
180
Apri, Cerbero, omai a questo passo
tutt' e tre bocche, e giù vivo m'ingolla,
ché volontier nel tuo gran ventre passo.
183
E tu, Amor, che in meggio la medolla
il foco m'accendesti, omai ti sfama,
e della morte mia or ti satolla.
186
Ogni amante che segue simil trama,
exempio prenda qui del mio languire:
io vi son specchio agli occhi, io vi son fama.
189
Questo vi basti, senza più altro dire:
felice è quel ch' impara a l'altrui spese,
come vui che vedete il mio morire.
192
A lei perdòno quanto mai m'offese.
Anima, passa fuor di tanti affanni!
PARTE QUINTA
Raccolta antologica
Mia morte a tutto il mondo sia palese,
ché un sol exempio schiva molti danni.
292
195
Note al testo
4. vesta negra: cfr. v. 4 del ventesimo sonetto della corona
tebaldeana per il Bendedei ("veste bruna").
19. Gli altri scaldansi al sole, io adiaccio al foco: l'immagine è
petrarchesca, ma può esser stata suggerita anche dal Saviozzo,
LXXVII 64 sgg. ("triema nel foco e dentro al ghiaccio suda / l'alma
mia afflitta")
29. vespertil: il motivo del pipistrello è piuttosto in voga
presso i poeti cortigiani, che lo utilizzano in funzione retorica di
comparante dell'amante: si pensi al son 104 dell'Aquilano (Quando il
carro del sol nel mar s'asconde, v. 14: ch'io vo qual vespertil dì e notte
errando), o anche al Cornazzano (son. 86, vv. 1-4) e a Filenio Gallo
(Canzone a Lilia, str. 113, vv. 7-8).
37. Chiamo il guardian de la tartarea porta: in Rvf CCCLVII
6
58. E che Eolo lasciasse tutti i venti: cfr. v. 80 della Disperata
del Tebaldeo.
61. Sisifo-Ticio: Nel IV libro delle Metamorfosi, Ovidio narra
la terribile punizione di Sisifo nell'Ade: il dannato è costretto per
l'eternità a sospingere, in cima ad un monte, un masso che poi
rotolerà di nuovo a valle (di qui il v. 63 e ritornasse a magior
precipitio). Sisifo appartiene alla triade canonica dei dannati (Tizio,
Tantalo e Sisifo), nota già ad Omero (Odissea, XI 576 sgg.). Il mito è
stato variamente interpretato: secondo Fedro le fatiche di Sisifo sono
equiparabili alle miserie umane, entrambe infatti sono senza fine.
Secondo Lucrezio e secondo il Mitografo Vaticano II, il mito va
interpretato invece come una ricerca faticosa del potere che non si
ottiene mai completamente e quando lo si raggiunge, in breve lo si
perde. La tradizione letteraria del mito di Tizio (Tityos) è
sostanzialmente univoca. Le fonti concordano sia sul motivo della
punizione del gigante (tentò di violare Latona madre di Apollo e
Diana), sia sulla punizione stessa: uno o più avvoltoi rodono il fegato
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Raccolta antologica
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o il cuore di Tizio (differenza quest’ultima che può semplicemente
essere dovuta alla traduzione delle fonti latine in epoca
rinascimentale; in latino iecur significa infatti fegato ma poiché
quest’ultimo era considerato la sede dei sentimenti può essere
tradotto anche come cuore).
67. Non si vedesse più sera o matina: cfr. v. 72 della
Disperata del Tebaldeo e Saviozzo LXXVI 16-17
77. Meleagro: al momento della nascita, era stato destinato
dalle Parche a vivere quanto un tizzone gettato fra le fiamme.
Atlea, la madre, tuttavia, per prolungare la vita del figlio sottrasse il
tizzone alle dee, lo spense e lo nascose. Quando, poi, Meleagro uccise
in una contesa i fratelli della madre, questa riprese il tizzone e lo
gettò nel fuoco: la vita di Meleagro riprese, così, a consumarsi. Dante
lo prese a paragone del dimagrimento delle anime dei Golosi nella
sesta Cornice del Purgatorio. (cfr. Pg. XXV 22-23).
79.-80. Erisitone-Isïon: Erisittone, figlio del re di Tessaglia,
devastò un bosco sacro a Demetra. Per punire la sua empietà la dea lo
condannò ad una fame inesauribile, che ben presto lo portò a
divorare tutti i beni della propria famiglia ed alla fine anche se stesso.
Cfr. Pg. XXIII 26. Issione per i suoi empi misfatti venne incatenato
da Ermes a una ruota infuocata che rotolava incessantemente nel
cielo.
82. Tantalo: Ammesso alla mensa degli dèi, Tantalo, per
contraccambiare l'ospitalità invitò le divinità ad un banchetto nella
sua capitale Sipilo, dove per onorare gli ospiti osò imbandire quanto
di più caro aveva: il figlio Pelope tagliato a pezzi e fatto bollire. Il
gesto fu interpretato con l'intenzione di mettere a prova l'onniscenza
degli dèi e non con l'intenzione di onorare gli dèi con quanto aveva di
più prezioso, ma ad ogni modo sia l'una che l'altra intenzione
risultava essere una nefandezza, la prima perché metteva in dubbio le
qualità degli dèi, la seconda per il sacrificio umano che gli dèi olimpi
avevano ripudiato e sostituito con sacrifici di animali. Tantalo venne
relegato nel Tartaro dove, tormentato dalla fame e dalla sete, legato
ad un albero da frutto, immerso nell'acqua di una palude non riesce a
berla perché appena si avvicina l'acqua si ritrae e ogni volta che cerca
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di raccogliere un frutto i rami si allontanano ed inoltre un enorme
masso incombe sul suo capo minacciandolo di schiacciargli il cranio a
ogni momento, facendolo così vivere in una condizione di perenne
terrore. Per la storia si veda Omero, Odissea XI, 582 sgg.; Pindaro,
Olimpiche I, 36 sgg.; Euripide, Oreste 4 sgg.
83. Phetonte: Fetonte ottenne da Apollo il permesso di
guidare per una volta il carro del sole nel cielo, quasi a conferma del
suo amore paterno; A causa della sua inesperienza, però, Fetonte non
riuscì a trattenere la foga dei cavalli e, uscendo dal cammino
consueto, rischiò di incendiare la terra e provocò una bruciatura nel
cielo. Giove fulminò Fetonte che precipitò nel fiume Eridano (il Po),
da qui il v. 84. Cfr. Ov. Met. I, 174 e II 47-324 e If. XVII, 107; Pg. IV,
72; Pg. XXIX,118; Pd. XVII,1; Pd. XXXI,125. Si leggano però anche i
vv. 67-72 della Disperata tebaldeana.
87. Ateön: Il mito racconta che Atteone, durante una delle sue
partite di caccia, avesse sorpreso Artemide nuda mentre si bagnava,
nella valle di Gargafia. Per punizione la dea lo trasformò in un cervo e
in questa forma fu divorato dai cinquanta cani della sua muta, sulle
pendici del monte Citerone. Il mito di Atteone, in particolare nella
versione tramandata Ov. Met. III, 173-255, conobbe una grande
fortuna nella pittura e nella decorazione monumentale
rinascimentale. Cfr. Saviozzo, LXXVII 8.
94. Phalàr: Falaride è, insieme agli altri personaggi citati nei
versi seguenti, scelto come esempio di crudeltà: Tiranno di Akragas,
torturava i prigionieri e i suoi nemici dentro un toro di bronzo che,
opportunamente riscaldato, trasformava in muggiti le grida di dolore
dei malcapitati.
95. Brïareo: uno dei formidabili Titani, figlio di Gea e di
Urano era rappresentato con cento braccia, tutte armate di lance e di
scudi e con cinquanta teste, dalle cui bocche vomitava torrenti di
fiamme e di fumo.
96.Gaio-Massentio: Gaio Cesare Germanico, soprannominato
Caligola, deve la sua fama di uomo crudele a Svetonio. Mentre la
crudeltà di Massenzio, persecutore dei primi cristiani, divenne
proverbiale .
PARTE QUINTA
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97. Capaneo: La fonte diretta per la sfacciata presunzione di
Capaneo è Stazio con la Thebaide, in cui si narra che, dopo aver
combattuto con valore sulle mura di Tebe, Capaneo, sicuro della sua
invincibilità, arrivò a sfidare Giove. Fulminato per la sua
presunzione, morì lanciando al cielo feroci bestemmie, vinto, ma non
piegato dal potere divino. Dante fa di Capaneo la perfetta
personificazione del bestemmiatore, incapace di riconoscerne la
superiorità divina (If. XI, 51).
98. Silla...Mario: Negli anni 88-78 a. C., Lucio Cornelio Silla e
Mario Aquilio, nemici tra loro, si macchiarono di crimini efferati.
99. Tideo: Figlio di Eneo, re di Calidone, e del dio Ares, aveva
ucciso il fratello durante una partita di caccia ed era fuggito ad Argo.
Durante una battaglia, alle porte di Tebe, uccise l'eroe avversario
Melanippo e, pur ferito a morte, si avventò sul suo corpo e ne divorò
il cervello. Tideo è ricordato, sempre da Stazio, in Theb. 8, 751 sgg.,
oltre che da Saviozzo, XXI 33 e all'episodio di Tideo fa riferimento
anche il Tebaldeo, nella Disperata 88.
100-105. O mondo cieco-con teco pace: il motivo trova
riscontro in vari luoghi petrarcheschi: cfr. Rvf CCCXX 9-11 e LXXIII
16-18
116. mutar in forme nove: cfr. Saviozzo, LXXVII 50.
119-120.: cangiarsi in cigno o in toro-Jove: citazione del mito
classico, secondo il quale Giove si mutò in un bianco toro per rapire
Europa e in un cigno per sedurre Leda.
128. Tarpea: secondo la tradizione, la porta della rupe
Tarpea, a Roma, dove si custodiva il pubblico erario, venne
manomessa da Cesare, per quanto essa fosse difesa dall'onesto
tribuno romano Cecilio Metello. Cfr. Pg. IX, 137, ma soprattutto
Niccolò da Correggio, XIX 10-12 ("Sbandito ho dal mio cor la voglia
rea,/e chiuse sun le adamantine porte,/dure da disserar qual la
Tarpea").
130. Ove sei Circe, ove sei tu, Medea?: invocazione a
personaggi mitologici che conoscevano l'arte della magia, seguita
poco più avanti dall'enumerazione di medici dell'antichità (vv. 134).
132. mia celeste dea: in clausola in Rvf CCCXXXVII 8.
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158. rose e vïole: cfr. Tebaldeo, Disperata 162; accostamento
tradizionale di fiori che simboleggiano la primavera, cfr. Rvf CCVII
46.
160. nubbe inanzi al sole: il paragone tra il sole e la donna
viene riproposto al v. 166; cfr., a titolo meramente esemplificativo,
Rvf CXCXIV 8 e CCCXXVI 10 .
162. loco ove abitar Amor non suole: i conventi.
178. per carta: è il famigerato patto col diavolo.
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