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penale - parte generale
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Facoltà : Giurisprudenza
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Introduzione
ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO PENALE MODERNO
Le matrici politico-culturali del diritto penale moderno risalgono all’illuminismo moderno che ha
elaborato un insieme di principi fondamentali a tutt’oggi validi e inseriti in una prospettiva di
razionalità punitiva tendente a bilanciare repressione e garanzia dei diritti individuali.
L’ambito dei fatti punibili era reso incerto dalla mancanza di codificazione e dalla persistente
confusione tra “crimine” e “peccato”, per cui la giustizia penale fungeva anche da braccio secolare
della religione e del potere ecclesiastico. Ancora più fosco era il quadro delle sanzioni punitive,
caratterizzato da arbitrio, crudeltà ed esasperata spettacolarità. Il processo infine era dominato da
principi del più rigido modello inquisitorio: segretezza, scrittura e pressoché assoluta preponderanza
dell’organo d’accusa.
Le premesse culturali per il superamento di questo diritto penale irrazionale e caotico cominciano
con il “giusnaturalismo laico” che si preoccupò di superare le concezioni teocratiche allora
dominanti e i quali esponenti più importanti erano Grozio, Pufendorf, Thomasius e Locke, e che
apriva la strada ad un processo di secolarizzazione e laicizzazione dello Stato.
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Come detto il processo di modernizzazione del diritto penale è giunto a maturazione nell’ambito del
pensiero illuministico i cui maggiori esponenti sono Montesquieu, Voltaire, Feuerbach, Beccaria.
La comune premessa di partenza è costituita dalla preoccupazione di razionalizzare il sistema
penale per renderlo uno strumento utile a prevenire effettivamente i reati, per combattere l’arbitrio
giudiziario, per mitigare le pene evitando ingiustificati eccessi di sofferenza agli stessi condannati.
Cesare Beccaria nel suo libro “Dei delitti e delle pene” propone le grandi linee di riforma per un
riordino delle disposizioni penali: legge come unica fonte autoritativa del diritto, ruolo del giudice
ridimensionato a mera funzione applicativa della norma giuridica. La nuova codificazione deve
ridurre al minimo le figure dei reati; le pene devono essere commisurate al danno commesso e non
all’intenzione di chi lo commette. La struttura portante della riforma auspicata da Beccaria è così
auspicabile:
- Principio di legalità dei delitti e delle pene: è diritto di tutti i cittadini conoscere in
precedenza ciò che è vietato e ciò che è consentito dalla legge, le pene devono essere
stabilite chiaramente e tassativamente dalla legge e devono essere inflitte con rapidità e
ineluttabilità.
- Proporzione tra entità della pena e gravità del danno sociale cagionato: a pena deve essere
retributiva cioè colpire il reo in misura proporzionata al male commesso.
- Stretta necessità della pena: la pena deve essere una disutilità che funziona perché percepita
dagli individui come motivo negativo, e ha finalità preventiva.
- Parziale abolizione della pena di morte: la pena di morte esula dai limiti contrattualistici che
il cittadino concede alla società (nel contratto sociale i consociati avevano rinunciato solo ad
una quota delle proprie libertà, mentre se c’è applicazione della pena di morte i consociati
avrebbero dovuto rinunciare a tutte le libertà); tuttavia per non essere accusato di moti
rivoluzionari il Beccaria sottolinea che la pena di morte deve essere mantenuta per crimini di
eccezionale gravità che turbano la sicurezza dello Stato.
- Concezione utilitaristica del diritto penale: il diritto penale ha funzione di difesa sociale e
deve intervenire solo quel minimo necessario per prevenire aggressioni alla sovranità e alla
società.
Agli illuministi non resta che affondare la loro riflessione nelle due concezioni che caratterizzano la
filosofia politico-giuridica dell’epoca: il contrattualismo e l’utilitarismo. Secondo il primo le
istituzioni statali traggono la loro legittimazione da un accordo liberamente stipulato tra i privati
finalizzato alla salvaguardia dei diritti naturali di ciascun singolo individuo (qui per la prima volta
c’è la nozione di contratto: la classe egemone è la nobiltà, ma se si è capaci di porre in essere un
contratto si è liberi e se il contratto non viene rispettato la borghesia si arroga il potere di attuare la
Rivoluzione). Vediamo quindi che assume una fondamentale importanza il principio di legalità
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posto a garanzia della libertà individuale: “-le sole leggi possono decretare le pene sui delittiBeccaria”; è evidente la stretta connessione che si viene a creare tra la predeterminazione legale dei
delitti e delle pene, la certezza del diritto e la salvaguardia delle aspettative individuali di ciascuno.
Per quanto riguarda l’attività interpretativa i giudici dovrebbero essere “semplici bocche della
legge” e Beccaria pretende di bandire il ricorso alla ratio legis come canone interpretativo. Per
identificare i fatti punibili ricorriamo al “danno sociale” cioè meritano di essere punite solo le
azioni che arrecano un concreto pregiudizio a diritti altrui.
Sul terreno sanzionatorio c’è l’esigenza di razionalizzare e di umanizzare! L’ispirazione
contrattualistica impone di bandire il terrorismo punitivo e si profila “l’extrema ratio” di tutela dove
la pena è irrinunciabile nella misura in cui è utile e necessaria alla prevenzione della criminalità, ma
deve anche essere proporzionata alla gravità del delitto.
I relativi principi di fondo riuscirono ad attirare l’attenzione di alcuni sovrani illuminati che
decisero di assumerli come criteri guida di importanti riforme legislative in materia penale. In Italia
la riforma Leopoldina del 1786 tradusse in realtà normativa i principi illuministici della mitigazione
delle pene e del rapporto di proporzione tra delitto e sanzione procedendo ad una tipizzazione delle
figure di reato e modificando la disciplina del processo, eliminando la tortura e abolendo le prove
privilegiate. Tuttavia l’illuminismo penale ha incontrato degli ostacoli man mano che si andava
espandendo la reazione anti-illuminista del primo ottocento: il codice napoleonico del 1810 fu
proprio il compromesso tra la filosofia illuministica e la svolta autoritaria imposta da Napoleone
che sfociarono in un codice “regredito” (estensione dei casi di applicabilità della pena di morte,
reintroduzione di pene infamanti, equiparazione tra tentativo e consumazione, irrigidimento della
disciplina penale dei delitti contro lo Stato).
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La nascita della moderna scienza del diritto penale italiano viene fatta risalire alla scuola classica
della seconda metà dell’800 che aveva come esponente il Carrara. Nella scuola classica c’è la
considerazione del reato come “ente giuridico”, cioè l’illecito penale viene scientificamente
studiato come ente concettuale che assume rilevanza sub specie juris e non come fenomeno
empirico, naturalistico o sociale. Il reato è un’azione umana che scaturisce dalla libera volontà di un
soggetto moralmente responsabile o pienamente imputabile, quindi ciascun uomo sarebbe capace di
autodeterminazione responsabile perchè dotato di “libero arbitrio”(visione antropologica
dell’uomo). C’è irrilevanza di ogni valutazione inerente alla personalità del reo e ci fa trasparire
l’idea che il diritto penale giudica fatti e non uomini. Lo scopo della pena non è la retribuzione
morale ma il ristabilimento dell’ordine esterno turbato dal delitto.
Nell’ultimo trentennio del XIX° sec. in Italia è sorto un originale movimento di pensiero: la
scuola positiva rappresentata da Lombroso, Ferri e Garofalo. Muta completamente la prospettiva
con la quale si guarda al reato diventato ora fenomeno naturale, bio-psicologico e sociale cioè
azione reale di un uomo concreto esposto all’influenza di fattori fisici, antropologici e sociali che lo
spingerebbero ad annullare la libertà di volere. L’uomo delinquente è un soggetto socialmente
pericoloso perché incline, per cause antropologiche o sociali, a commettere azioni che danneggiano
la collettività. Qui il diritto penale tende a trasformarsi in uno strumento di “profilassi sociale” e
l’attenzione si sposta sulla personalità del reo e sulla classificazione tipologica delle varie specie di
uomo delinquente. Lombroso vede il criminale come un ammalato, un primitivo, un pazzo;
Garofalo da importanza alle anomalie fisiche del delinquente; Ferri pone l’accento sui fattori sociali
e sul contesto sociale in cui vive il delinquente.
Come ben si può capire la cultura penalistica di fine ottocento fu caratterizzata da un’aspra
polemica tra classici e positivisti e da questo scontro emersero posizioni mediane: la scuola
eclettica, un pensiero di tendenza socialista. Secondo Rocco la scienza del diritto si deve limitare a
studiare il delitto e la pena sotto il lato puramente giuridico, come fatti giuridici di cui l’uno è la
causa e l’altro l’effetto o conseguenza giuridica. ; il giurista deve studiare le norme penali vigenti
valide in quanto emanate dallo Stato.
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Oggi c’è l’elaborazione di una teoria generale dell’illecito penale orientata in senso costituzionale
dove troviamo come parte fondamentale la teoria costituzionale dei beni giuridici penalmente
rilevanti.
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PARTE PRIMA
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DIRITTO PENALE E LEGGE PENALE
Capitolo I
CARATTERISTICHE E FUNZIONI DEL DIRITTO PENALE
Il diritto penale è quella parte di diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato. Dal punto di
vista formale si definisce REATO ogni fatto umano alla cui realizzazione la legge riconnette
sanzioni penali. Sono sanzioni penali la pena e la misura di sicurezza che hanno come obiettivo
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difendere la società dal delitto e di risocializzare il delinquente. Quindi sono leggi penali quelle che
riconnettono sanzioni penali alla commissione di determinati fatti.
Il reato ruota attorno a 3 principi cardine:
- principio di materialità: non può esserci reato se la volontà criminosa non si materializza
in un comportamento esterno;
- principio di necessaria lesività od offensività: è necessario che tale comportamento leda o
ponga in pericolo beni giuridici;
- principio di colpevolezza: un fatto materialmente lesivo di beni giuridici può essere
penalmente attribuito all’autore soltanto a condizione che gli si possa muovere un
rimprovero per averlo commesso.
La più spiccata attitudine preventive che le sanzioni penali esercitano ha duplice forma:
- all’inizio la minaccia della sanzione penale tende a distogliere i consociati dal commettere
reati;
- poi la concreta inflizione della pena mira ad impedire che il singolo autore del reato torni a
delinquere.
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La sanzione penale tradizionale, la pena, si caratterizza per la sua afflittività cioè colpisce il
condannato senza eliminare o compensare le conseguenze dell’illecito e senza perseguire risultati
utili a breve termine. La sanzione penale si distingue dalle altre perché:
- incide sul bene fondamentale della libertà personale;
- non si esaurisce nella sua applicazione, ma lascia residuare una serie di effetti penali della
condanna.
Si è ritenuto possibile dedurre i caratteri essenziali del reato dalle stesse norme costituzionali,
elaborandone anche di nuovi come il principio di “necessaria lesività” del fatto-reato, cioè di porre
in pericolo beni significativi.
La Costituzione riconosce tutta una serie di fondamentali diritti di libertà (di pensiero, parola,
stampa ecc.) quindi al legislatore è fatto divieto di incriminare fatti costituenti l’esercizio di questi
diritti (costituzionali). Se la Costituzione afferma l’esistenza di un determinato diritto senza alcuna
specifica disciplina, il divieto di incriminazione opera solo per i fatti costituenti l’eventuale
esercizio del diritto, a meno che tale esercizio non comporti in via eccezionale la lesione di beni
giuridici costituzionalmente rilevanti.
Il diritto penale può offrire tutela solo a beni giuridici superiori e deve essere limitato
esclusivamente alla protezione dei valori fondamentali presenti nella Cost.? Una risposta
affermativa è stata fornita da quanti hanno fatto leva sull’art. 13 Cost. che riconosce il valore
preminente della libertà personale, e quindi la norma appena indicata imporrebbe di limitare
l’adozione della pena a salvaguardia dei soli interessi riconosciuti dalla Cost. Tuttavia non bisogna
cadere nell’errore di escludere dalla tutela penale quei beni che trovano nella Cost. solo un
riconoscimento implicito, nel senso che la lesione di beni di rango costituzionale deve essere idonea
a mettere in pericolo quelli impliciti.
La tesi che porta a definire il reato come fatto offensivo di un bene avente rilievo costituzionale non
è stata integralmente accolta ne dalla Corte Cost. ne dalla dottrina prevalente. La Sent. 364/88 ha
affermato la necessità che il diritto penale sia l’extrema ratio di tutela della società, e che sia
costituito da norme non eccessive o numerose rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate,
dirette alla tutela di valori costituzionali.
Circa la struttura e i caratteri che deve possedere l’illecito penale: la Cost. impone chiaramente una
costruzione dell’illecito penale in chiave oggettiva che quindi può essere certamente realizzata
facendo leva anche soltanto sull’azione, e non necessariamente sul risultato della condotta.
Il diritto penale deve assicurare le condizioni essenziali di convivenza predisponendo la sanzione
più drastica a difesa dei beni giuridici cioè dei beni socialmente rilevanti considerati, in ragione
della loro importanza, meritevoli di protezione giuridico-penale. Decisiva rimane la capacità
selettiva del legislatore al momento di procedere alle concrete scelte di tutela. Nei tempi recenti
l’elaborazione teorica ha posto l’accento sul carattere dinamico degli oggetti della tutela penale: il
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bene giuridico nel diritto penale non equivale solo ad una cosa o ad un interesse dotato di valore in
se stesso, la definizione migliore è quella di unità di funzione cioè quell’interesse o
quell’accorpamento di interessi idonei a realizzare un determinato scopo utile per il sistema
sociale o per una sua parte. Tutto ciò evidenzia come il sistema dei delitti e delle pene tende a
tutelare e proteggere quei beni e interessi per garantire una pacifica convivenza.
La paternità del concetto di bene giuridico si fa risalire al giurista tedesco Birnbaum, che
considerava il reato come violazione di un diritto soggettivo, concezione non idonea a spiegare la
punizione di fatti lesivi di beni di particolare rango (moralità pubblica ecc.). La preoccupazione di
coniare una teoria del bene giuridico che limitasse la potestà punitiva dello Stato, emerge con
particolare forza alla fine dell’800 nell’opera di Franz v. Liszt il quale propone un concetto
materiale di bene giuridico basato su interessi che preesistono alla valutazione del legislatore e che
quindi possono garantire la corrispondenza tra realtà sociale e disciplina normativa. In Italia
troviamo Arturo Rocco che sostiene che la determinazione del bene giuridico non può prescindere
dalle valutazioni normative già compiute dal legislatore, per cui il concetto di bene finisce col
coincidere con l’oggetto di tutela di una norma penale già emanata. La concezione metodologica
della dottrina tedesca degli anni ’30 sostiene che il concetto di bene giuridico si riduce ad una
formula abbreviatrice del più ampio concetto di scopo della norma penale che è possibile
individuare solo attraverso un’attenta attività interpretativa, si viene ad identificare il bene oggetto
di protezione con la ratio legis. L’esigenza di criteri che impedissero l’arbitrio del legislatore ha
indotto la dottrina ad assumere la Costituzione come criterio di riferimento nella scelta di ciò che
può legittimamente assurgere a reato: teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico. Tale
approccio muovo da una rilettura di norme della Cost. dedicate espressamente alla materia penale:
- art. 25 I°co. Cost.: affida interamente al Parlamento o al Governo il potere di legiferare in
materia penale;
- art. 27 I°co. Cost.: carattere personale della responsabilità penale che riduce la possibilità
di utilizzo della tutela penale in settori in cui risulta più funzionale il ricorso ad altre forme
di tutela;
- art. 27 III°co. Cost.: funzione rieducativa della pena che limita l’area dell’illecito penale ai
soli fatti che ledono valori che possono essere meta del processo di rieducazione del
condannato.
La tutela penale è estensibile anche ai beni che trovano nella Costituzione un riconoscimento
implicito senza l’obbligo di creare fattispecie penali finalizzate alla loro salvaguardia.
Il fatto di riconoscere un bene meritevole di tutela non basta a giustificare la creazione di una
fattispecie penale per la sua salvaguardia. Si parla di carattere sussidiario del diritto penale per
esprimere l’idea che il ricorso alla pena è giustificato quando risulta conforme allo scopo cioè
l’idea dello strumento penale come extrema ratio. Così inteso il principio di sussidiarietà è una
specificazione del più generale principio di proporzione cioè di un principio logico che ammette il
ricorso a misure restrittive dei diritti dei singoli solo nei casi di stretta necessità. Un ulteriore
criterio di criminalizzazione è costituito dal principio della meritevolezza della pena cioè la
sanzione penale deve essere applicata non in presenza di un qualsiasi attacco ad un bene degno di
tutela ma nei soli casi in cui l’aggressione raggiunge un livello di gravità intollerabile.
Il diritto penale ha carattere frammentario e tale principio opera in 3 livelli:
- alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di protezione non contro ogni aggressione
ma soltanto contro specifiche forme di aggressioni;
- la sfera di ciò che rileva penalmente è molto più limitato rispetto alla sfera di ciò che è
qualificato come antigiuridico nell’intero ordinamento;
- l’area del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è moralmente riprovevole.
La frammentarietà della tutela contrasterebbe con l’esigenza di reprimere tutti i comportamenti
capaci di ledere il bene protetto, anche se non formalmente tipizzati, si è rimediato a ciò con delle
interpretazioni estensive delle fattispecie incriminatici, tuttavia ciò porta a perdere di vista il fatto
che le scelte legislative di criminalizzazione sono frutto di bilanciamento e mediazioni.
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L’orientamento di Binding attribuisce al diritto penale un funzione accessoria e sanzionatorio cioè
di rafforzare con la propria sanzione i precetti e le sanzioni degli altri rami del diritto (tesi respinta).
Abbiamo detto che la sanzione penale deve essere l’extrema ratio a cui si ricorre una volta esauriti
tutti gli strumenti di tutela, quindi il diritto penale non può precedere ma soltanto intervenire
successivamente agli altri settori dell’ordinamento. E’ sbagliato identificare l’accessorietà nella
subordinazione del diritto penale ad altre branche di diritto.
Il codice penale è costituito da una parte generale che ricomprende la disciplina dei criteri, oggettivi
e soggettivi, di imputazioni del fatto delittuoso al suo autore, della conseguenze giuridiche del reato
e di ogni altro elemento condizionante la punibilità. La parte speciale contiene il catalogo delle
fattispecie che descrivono i singoli comportamenti illeciti.
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Il codice penale vigente, il c.d. codice Rocco, pur se emanato in epoca fascista non è permeato
dell’ideologia propri del regime, se non lievemente nella parte speciale e nei settori esposti al
mutare delle concezioni politiche. Per la restante parte lo si può inserire nella tradizione penalistica
liberale.
Il testo originario del ’30 ha subito numerose potature ed innesti:
- D.D.L. 228/44 sono state reintrodotte: la scriminante della reazione legittima del cittadino
agli atti arbitrari del pubblico ufficiale; l’exceptio veritatis; le attenuanti generiche.
- D.D.L. 222/44 è stata abolita la pena di morte.
- Legge 127/58 è stata riformata la disciplina penale della responsabilità per i reati commessi
mezzo stampa.
- Leggi 317/67 e 706/75 di depenalizzazione delle contravvenzioni punite con la sola pena
dell’ammenda e previste nella maggior parte dei casi da leggi speciali.
- Legge 689/81 ha abrogato le due precedenti e ha introdotto un sistema di principi che
costituisce la parte generale sia dell’illecito depenalizzato sia dell’illecito originariamente
amministrativo + ha esteso la depenalizzazione degli illeciti puniti con la sola pena della
multa.
- Novella del 1974
- Riforma dell’ordinamento penitenziario e introduzioni della sanzioni alternative.
Capitolo II
LA FUNZIONE DI GARANZIA DELLA LEGGE PENALE
Il principio di legalità ha una genesi politica infatti deriva dal contratto sociale e si giustifica con
l’esigenza di vincolare l’esercizio di ogni potere dello Stato alla legge. La traduzione del
fondamento politico del principio di legalità avviene in termini giuridico-penale con la massima
latina “nulla poena sine lege” del Feuerbach: la minaccia della pena deve essere un deterrente
psicologico nel distogliere dal commettere reati, quindi i cittadini devono conoscere prima quali
sono i fatti la cui realizzazione comporta la sanzione. Il principio di legalità ha trovato
riconoscimento espresso nell’art. 25 II° co. Cost. e nell’art. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art. 25 II°co. Cost. dispone che
“nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso” a sua volta l’art. 1 del C.P. statuisce che “nessuno può essere punito per un
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fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, ne con pene che non siano
fa essa stabilite”: la disposizione costituzionale non può non avere un contenuto significativo
corrispondente a quello della disposizione codicistica! Il principio di legalità ha come destinatari
il legislatore e il giudice e si articola in quattro sotto-principi: riserva di legge; tassatività o
sufficiente determinatezza della fattispecie penale; divieto di analogia in materia penale;
irretroattività della legge penale.
1) Il PRINCIPIO DI RISERVA DI LEGGE esprime il divieto di punire un determinato fatto
in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato (sottrae la competenza in
materia penale al potere esecutivo in quanto solo il potere legislativo può meglio salvaguardare il
bene della libertà personale); ecco perché la riserva di legge deve essere intesa come ASSOLUTA
cioè il legislatore non può attribuire il potere normativo penale ad una fonte di grado inferiore.
Tuttavia le scelte di fondo relative all’incriminazione rimangono monopolio del legislatore mentre
rimane affidata alla fonte normativa secondaria la possibilità di specificare dal p.d.v. tecnico il
contenuto di elementi di fattispecie già delineati in sede legislativa.
Art. 25 II°co. Cost. e art. 1 C.P. : il monopolio delle fonti nella predeterminazione normativa
dell’illecito appartiene al potere legislativo (parlamento). Nel C.P. il principio di riserva di legge,
prima del ’48, era una semplice autolimitazione del legislatore ordinario, sempre superata; oggi
appartiene alla Cost. e la costituzionalizzazione di un principio di legge ordinario è un vincolo non
solo per il giudice ma anche per il legislatore, inoltre c’è il controllo della Corte Cost.
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Ratio e oggetto della riserva: tutto parte dalla critica fatta dall’illuminismo alla frammentarietà e
alla varietà delle fonti, c’era anche la necessità di ricondurre il fondamento del diritto penale alla
legge come espressione dell’unità organica del popolo sovrano, infatti il significato di riserva di
legge risiede nell’iter formativo della legge e nelle caratteristiche dell’organo che la emana. Tutto
ciò si pone come una garanzia per il cittadino e il Parlamento è il simbolo della rappresentanza
popolare mentre la legge prevede nella sua formazione un confronto democratico fra tutte le forme
politiche.
Il costituente ha ribadito il principio “nulla crime, nulla poena sine lege poenali”, c’è quindi un no
all’esecutivo e un CARATTERE ASSOLUTO DELLA RISERVA chè è strettamente collegato
alla ratio di tutela della libertà personale.
La riserva di legge prevede:
- che tutte le materie riservate al legislatore escludono la competenza integrativa di altre fonti;
- una materia riservata prevede che il legislatore e solo lui si occupi della disciplina di questa
(no delega);
Esiste però:
- una riserva di legge in senso formale: atti normativi che conseguono al procedimento di
formazione della camere ex art. 70-74 Cost.;
- una riserva di legge in senso sostanziale: norme provenienti da atti normativi del governo
(Dec. Legge e Dec. Legislativi).
Ci si chiede quindi l’art. 25 parla di riserva di legge in senso formale o sostanziale?!
Il costituente fa riferimento alla riserva di legge in senso formale, perché in quel momento si ha
voglia di rottura con il passato cioè quando l’esecutivo era troppo forte, quindi si cerca la
preminenza del legislativo sull’esecutivo che quindi ha limitata ingerenza in ambito legislativo.
Diversamente la Corte Cost. e la prassi parlamentare ritengono l’art. 25 Cost. una riserva di legge in
senso materiale perché pensano sia impossibile un lavoro legislativamente coerente, quindi è
necessario l’ingresso di altre fonti diverse.
Decreto legislativo: art. 76 Cost. c’è legge delega del Parlamento che fissa principi e criteri
direttivi, oggetti definiti e tempi limitati. Il Parl. ha il compito di scegliere le pene criminali e i beni
da proteggere e il procedimento di formazione del Dec. Legislativo non altera lo spirito della riserva
di legge perché le minoranze possono farsi sentire in sede di discussione delle leggi di delegazione
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ed è sottoposto al controllo di costituzionalità (conformità/difformità) rispetto ai principi e criteri
direttivi e alla Cost., queste due motivazioni hanno portato la prassi parlamentare e la Corte Cost. a
dare ingresso a questo strumento in materia penale. Resta inteso che una concezione rigida della
riserva di legge porterebbe all’esclusione di questa forma.
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Decreto legge: art. 77 Cost. l’intervento del Parl. è postumo, si utilizza per casi di necessità ed
urgenza quindi è impensabile che si possa ricorrere al complicato iter legislativo.
Gli elementi pro decreto legge sono:
- c’è un intervento del potere legislativo, entro 60gg. il decreto deve essere convertito in legge
altrimenti decade ex tunc (sin dall’inizio);
- c’è possibilità di intervento della Corte Cost.;
- è uno strumento pericoloso e delicato per il Governo perché in caso di mancata ratifica si
genera scandalo, il governo si assume una responsabilità di tipo politico.
Gli elementi contro il decreto legge sono:
- se contiene norme liberticide chi garantisce gli effetti della sua immediata applicabilità?!
L’intervento postumo del legislatore non risolve la possibilità che la lesione che l’intervento
può procurare sia irreversibile;
- se la norma è troppo liberticida può essere portata dinanzi alla Corte Cost., ma
l’applicazione della norma viene sospesa solo per il processo in cui è stata sollevata la
questione;
- se il Parl. non ratifica c’è decadenza ex tunc, ma fino al ’96 c’era la possibilità di riproporre
il decreto modificando solo degli elementi marginali, ritirandolo prima della scadenza del
sessantesimo gg., questa era una prassi scandalosa e illegittima e la Corte Cost. con Sent.
decise che il decreto può essere reiterato solo se sopravvengono diverse e nuove situazioni
di necessità e urgenza.
Oggi il Decreto legge è ammissibile secondo la prassi, ma solo per determinati argomenti (dice la
dottrina maggioritaria).
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Decreti governativi in tempo di guerra: art. 78 Cost. in stato di guerra le Camere demandano al
Governo i poteri necessari per fronteggiare l’emergenza bellica, si discute se questa delega riguardi
anche la materia penale: il testo lo nega, la dottrina maggioritaria lo afferma ricordando però che la
delega in questo caso è diversa da quella dell’art. 77 Cost (no criteri e principi generali, no tempi
ristretti, la delega viene meno al finire della guerra). E’ totalmente impedito la possibilità ai
comandanti di grandi unità di emanare bandi militari di natura penale.
DIVIETO DI LEGGI PENALI REGIONALI: ci si chiede se le Regioni possono creare norme
penali di tutela di beni che ricadono in materie di loro competenza concorrente o esclusiva. Fino
all’entrata in funzione della Corte Cost. la dottrina riteneva che ciò fosse possibile: le Regioni
dovevano poter punire in materia penale l’inosservanza dei loro precetti, che non sarebbe stata
punita diversamente (limite sulla materia penale: era cmq preclusa la possibilità di modificare la
struttura del sistema penale statale esistente!). Dal ’56 in poi c’è un divieto di intervento delle
Regioni in materia penale. Con la Sent. del ’57 sul principio di eguaglianza (situazioni uguali
devono venir disciplinate in maniera uguale; situazioni diverse in maniera diversa) c’è discordanza
con la dottrina maggioritaria perché spesso è utile avere normative diverse per territori diversi!.
Tuttavia il significato della riserva di legge fa ritenere che il potere legislativo in materia penale
appartenga allo Stato in forza proprio del legame che c’è tra cittadino e Parl. e che non può esserci a
livello regionale perché il Consiglio non rappresenta la totalità della popolazione. La Corte Cost.
con la Sent. 487/88 fa un collegamento tra il I° e il II° co. dell’art. 25 Cost. dove il termine “legge”
come è stato usato indica la legge statale in entrambi i commi e da una ragione politicocostituzionale all’impossibilità per le regioni di legiferare in materia penale: solo chi ha una visione
a tutto tondo del problema criminale può godere della potestà normativa in materia penale.
Le Regioni possono punire l’inosservanza dei loro precetti con sanzioni amministrativa: legge
689/81: c’è rapporto di specialità tra norme penali e sanzioni amministrative (la norma speciale
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