RECENSIONI E LIBRI RICEVUTI
LA 45 (1995) 533-662
RECENSIONI
God, Language, and Scripture (L. D. Chrupcała)
537
The Art of Biblical History (L. D. Chrupcała)
539
Text-Linguistics and Biblical Hebrew
(A. Niccacci)
543
Creation Account in the Ancient Near East
and in the Bible (E. Cortese)
580
Biblia Hebraica transcripta (M. Pazzini)
584
Profeti e Apocalittici (E. Cortese)
586
I Profeti (E. Cortese)
586
Weigl M.
Zefanja und das ‘Israel der Armen’ (E. Cortese)
590
Deiana G.
Il giorno dell’espiazione (E. Cortese)
595
Theologische Ethik des Alten Testament
(E. Cortese)
599
Textual Criticism of the Hebrew Bible
(M. Pazzini)
604
Der Tempelkult in Kanaan und Israel
(E. Cortese)
607
La tenda e il bastone (G. C. Bottini)
611
La casa della sapienza (G. C. Bottini)
611
Fredriksen P.
De Jésus aux Christs (L. D. Chrupcała)
617
Sesboüé B.
Pédagogie du Christ (L. D. Chrupcała)
620
Brown R.
Le chiese degli Apostoli (A. M. Buscemi)
621
Carrón J.
Jesús, el Mesías manifestado (G. Bissoli)
625
Silva M.
Long V. Ph.
Dawson D. A.
Clifford R. J.
Richter W.
Marconcini B.
et al.
Spreafico A.
Otto E.
Tov E.
Zwickel W.
Bosetti E.
Niccacci A.
536
RECENSIONI
Muñoz A. S.
El Mesías y la Hija de Sión (G. Bissoli)
625
Sinossi paolina (A. M. Buscemi)
630
Carbone S.
Rizzi G.
Le Scritture ai tempi di Gesù (G. C. Bottini)
633
Carbone S.
Rizzi G.
Il libro di Osea (G. C. Bottini)
633
Carbone S.
Rizzi G.
Il libro di Amos (G. C. Bottini)
633
The First Theologians (M. C. Paczkowski)
641
La croyance des Esséniens en la vie future
(M. Pazzini)
644
L’interprétation de la Bible dans l’Église
(L. D. Chrupcała)
645
Cent’anni di esegesi. I. L’Antico Testamento
(E. Cortese)
650
Cent’anni di esegesi. II. Il Nuovo Testamento
(L. D. Chrupcała)
651
Introducción al estudio de los Padres
(M. C. Paczkowski)
652
The Joseph of Tiberias Episode in Epiphanius
(M. C. Paczkowski)
654
L’Odegitria della cattedrale
(M. C. Paczkowski)
657
Pitta A.
Gillespie Th.
Puech É.
Commission
Biblique
Pontificale
Vesco J. L.
MurphyO’Connor J.
Contreras E.
Peña R.
Goranson S. C.
Bux N.
SILVA
GOD, LANGUAGE, AND SCRIPTURE
537
Silva Moisés, God, Language, and Scripture. Reading the Bible in the Light of
General Linguistics (Foundations of Contemporary Interpretation 4), Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan) 1990, X-160 pp.
La linguistica generale è una disciplina scientifica che si occupa del fenomeno linguistico in quanto tale. L’attenzione non viene rivolta, quindi, principalmente su una lingua concreta, di cui si studia la grammatica e la produzione
letteraria, ma sul linguaggio in genere. “Nella sua sapienza Dio ci parla nella
Bibbia attraverso le lingue umane (ebraico, aramaico e greco). Se noi ignoriamo il carattere umano della lingua, probabilmente fraintenderemo la Scrittura.
Tutte le lingue, ad esempio, fanno un abbondante uso dell’immaginario. Dimenticate questo fatto e sarete costretti a concludere che Davide non era una
persona ma un agnello (‘Il Signore è il mio pastore’). Ma non ogni elemento
della lingua si rende così immediatamente evidente. Ed è lì appunto dove rientra la linguistica” (p. 17). Con queste frasi che abbiamo estratto dall’Introduzione, Moisés Silva annuncia l’importanza della problematica che intende illustrare nel suo libro. Questo, in primo luogo, vuol essere una guida all’uso
dei linguaggi biblici. Un secondo fine è pure di carattere didattico: iniziare il
lettore, soprattutto quello meno esperto, ad apprezzare le ricchezze del linguaggio biblico, facendogli vedere nel contempo quanto spesso questo linguaggio
viene compreso male.
Nella prima parte, intitolata “Prospettive bibliche sul linguaggio” (pp.
19-40), si cerca di rispondere alla domanda su cosa la Bibbia stessa ha da
dirci a proposito del linguaggio. Risulta più di quanto ci si potrebbe aspettare. Il linguaggio è connesso con la storia della creazione: Dio crea attraverso la parola e crea l’uomo “a sua immagine”, ossia lo rende capace di
esercitare il dominio su tutto il creato mediante un potente attributo – intrinseco dell’essere e dell’attività divina – che rappresenta appunto il linguaggio. La comparsa del peccato influisce con il suo nefasto influsso sul linguaggio umano. La confusione delle lingue, avvenuta in seguito alla distruzione della torre di Babele, più che un’incapacità di comprendere le lingue straniere, riflette uno screzio prodottosi nel seno dell’umanità. La caduta
dell’uomo ha provocato infatti una distruzione, seppure non totale, dell’immagine divina: l’uomo parlando esercita tuttora il dominio, ma questo è
profanato e soggetto ad un continuo agire del Male. La parola con la quale
Dio ha creato il mondo deve ora trasformarsi in uno strumento di salvezza,
la Parola di Dio che svolge il ruolo di giudice e ri-creatore del mondo, che
assicura la permanenza del messaggio divino all’umanità (la Scrittura) e che
si incarna, diventando una presenza personale nel compimento della redenzione (Gesù di Nazaret).
La seconda parte tratta dello “Studio scientifico del linguaggio” (pp. 4158). La linguistica moderna, sia per la sua relativa novità, sia per la sua impronta interdisciplinare non è esente da controversie. Nello studio del linguag-
538
RECENSIONI
gio è necessario, pertanto, seguire alcuni principi fondamentali. La “descrizione sincronica” serve per determinare il funzionamento del linguaggio in
un concreto, ben definito, periodo cronologico; la sincronia, quindi, è ben più
importante della diacronia che si occupa invece dell’evoluzione del linguaggio. Un altro principio afferma che i fatti linguistici non possono essere analizzati come entità individuali, ma in quanto facenti parte di un “sistema strutturato”. Dalla sviluppata struttura grammaticale di una lingua (ad es. il greco
o il latino) non si può tuttavia concludere che quest’ultima sia l’espressione
massima del pensiero umano, ma semplicemente che la grammatica e la letteratura sono il risultato dell’uso da parte delle grandi menti a cui si deve il
pieno potenziale di una lingua. Non si può dimenticare poi il legame tra la
linguistica e le altre scienze: umanistiche, naturali, sociali. Nessuno, comunque, di questi campi deve rivendicare dei diritti assoluti sullo studio del linguaggio; infatti, i rapporti interdisciplinari non possono impedire alla disciplina linguistica di avere il diritto ad una totale indipendenza.
La terza parte dello studio porta il titolo “La dimensione storica” (pp. 5975). E’ vero che la linguistica moderna s’interessa principalmente dell’approccio sincronico, ma non ritiene neppure irrilevanti le considerazioni di natura
storica (diacronica). Una più ampia conoscenza della preistoria del linguaggio
e del suo sviluppo storico, aiutano a risolvere diversi problemi, anche nello studio della Bibbia. Grazie al metodo comparativo siamo in grado di stabilire l’appartenenza di una lingua ad una determinanta famiglia linguistica. In secondo
luogo, occorre tracciare l’evoluzione della lingua nella sua fisionomia esterna
(gli aspetti socio-culturali) ed interna (i cambiamenti linguistici); questi principi vengono applicati dall’A. per tracciare le caratteristiche di tre lingue
bibliche: ebraico, aramaico e greco.
Nelle due parti successive si procede ad una “Descrizione dei linguaggi
biblici” (pp. 77-128). L’esame delle lingue bibliche viene focalizzato in base
alle quattro unità del linguaggio: la fonologia (suoni), la lessicografia (parole),
la sintassi (frasi e proposizioni) e il discorso analitico (paragrafi e ampie unità
narrative). Per le ultime tre si fa un’ulteriore suddivisione in questioni della
“forma” (la morfologia in senso largo) e del “significato” (la semantica). Un
continuo ricorso ai più svariati esempi biblici aiuta, in questo esame, ad illustrare meglio la problematica trattata.
Nell’“Epilogo – Passando oltre” (pp. 129-139), seppure in modo sommario, l’A. dedica alcune pagine ai problemi della critica testuale e della traduzione. Entrambi svolgono un grande ruolo nel dare accesso al testo biblico.
Il volume è completato da un’Appendice (pp. 141-145), da una succinta
proposta bibliografica per l’approfondimento (p. 147) e dagli Indici (pp. 149160).
Lo studio di M. Silva, grazie alla sua chiarezza espositiva unita ad una seria base scientifica, può trasformarsi in un valido e prezioso sussidio per quanti intendono “tuffarsi” nel linguaggio della S. Scrittura.
LONG
THE ART OF BIBLICAL HISTORY
539
Termino questa presentazione con le parole di sollecitazione e di augurio
espresse dall’A. “Lo sforzo speso nell’interpretazione della Bibbia non può finire con la nostra personale soddisfazione. Studiamo per diventare, a nostra volta,
insegnanti (cf. Eb 5,12). Riceviamo, per poter donare. Un serio studio del linguaggio umano ci aiuta a comprendere la Parola divina. Potessimo servirci fedelmente di questo linguaggio per comunicare agli altri il messaggio di grazia” (p. 139).
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
Long V. Philips, The Art of Biblical History (Foundations of Contemporary
Interpretation 5), Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan)
1994, 247 pp., $ 17.99
“Scopo del presente volume è offrire i principi d’interpretazione circa il carattere storico della Bibbia e della storiografia biblica (la storia-scritta)”. Con queste parole Ph. Long descrive nella Prefazione (p. 13) l’intento principale della
sua opera. L’investigazione verte sui campi fondamentali della ricerca scientifica riguardante la natura storica della S. Scrittura, cercando di rispondere ad
una serie di domande che, non solo oggi, vengono poste dai lettori della Bibbia. Nel tentativo di chiarire le varie problematiche e di trovare le soluzioni
alle questioni discusse, l’A. attinge ai migliori risultati dell’indagine biblica,
ma non disdegna neppure i validi apporti della ricerca storica fatta dagli studiosi di altre discipline. Talvolta, la documentazione sembra troppo “abbondante”, per non dire pedante (soprattutto per quanto concerne un continuo ricorso a più o meno lunghe citazioni dirette), ma questo può essere anche indice
della serietà con cui la materia sottoposta allo studio esige di essere trattata.
Il volume comprende un’Introduzione (pp. 17-26) seguita da sei capitoli
che studiano le questioni fondamentali riguardanti il carattere storico della Bibbia e della fede cristiana.
I. “Storia e genere(i) della Bibbia: la Bibbia è un libro storico?” (pp. 2757). La Bibbia non è un libro storico, nel senso di un libro di testo. La storia,
cioè, non rappresenta la natura essenziale della Bibbia. Ugualmente inammissibili sono le classificazioni parziali che vedono in essa un libro di teologia,
di scienza o di letteratura. “Libro religioso” oppure “Parola di Dio” sono tra
le definizioni che vengono generalmente accettate da tutti. La difficoltà di
definire in maniera univoca la Bibbia, e quindi anche in quanto libro storico,
deriva dal fatto che in realtà non vi si tratta di un genere solo, ma di una
molteplicità di generi letterari (la Bibbia si presenta così come una raccolta
di vari generi o un macro-genere). Ne segue allora che, pur riconoscendo alla
Bibbia il “valore di verità” (truth value), la “pretesa di verità” (truth claim)
contenuta in questo o in quel testo biblico esige di essere dimostrata in base
alle caratteristiche specifiche di questo o di quel testo. Utile in tale impresa
540
RECENSIONI
è la conoscenza dei generi letterari extra-biblici, antichi e moderni, sempre
comunque tenendo presente la grande “diversità” della Bibbia. Per questo
motivo la critica dei generi e delle forme, che si fonda essenzialmente sul
metodo comparativo, deve cercare di sfuggire ai vari rischi, tra cui emerge
anzitutto quello di far dire al testo biblico quale deve essere o meno il suo
contenuto. Solo stabilendo un giusto valore letterario del testo, sarà possibile
procedere anche verso una sua giusta interpretazione, compreso il discorso
relativo al valore storico.
II. “Storia e romanzo: che cos’è la storia?” (pp. 58-87). Anche se in apparenza sembra che tra i due concetti di storia (history) e di romanzo (fiction) ci sia
una dicotomia, tuttavia tutti e due – dopo essere giunti ad un’adeguata definizione che li protegga da malintesi – possono venir impiegati nella discussione sulla
storiografia biblica. L’importante è liberare i concetti dalla confusione in cui sono
caduti in seguito alla loro ambiguità. Il termine “storia” va inteso in due sensi
distinti: la storia-come-evento (il passato in quanto tale) e la storia-come-racconto (l’interpretazione verbale del passato). Anche il termine “romanzo” si colora
di un doppio significato: un “romanzo storicizzato” (il genere letterario) e una
“storia romanzata” (l’arte o l’abilità letteraria). Il romanzesco nella storia significa per molti una menzogna nel cuore della storia-scritta, mentre per altri coincide con l’opposto della storia. In realtà però, facendo una distinzione tra la forma e la funzione del romanzo, possiamo usare questo concetto per quelle narrazioni che non sono mai avvenute e ciononostante vengono ritenute vere; un altro
caso costituiscono le cosiddette narrazioni storiche che pretendono di raccontare
quello che realmente è accaduto.
L’A. precisa ulteriormente questa idea, ricorrendo al concetto dell’“arte rappresentativa verbale” (verbal representational art). Come una pittura (l’arte visiva) non è in senso letterale una riproduzione perfetta della realtà, così neppure
un racconto (l’arte verbale) può realmente narrare l’evento del passato, benché
lo faccia in un modo fittizio. “Gli storici, come gli artisti della rappresentazione
verbale, si trovano nella stessa posizione degli artisti della rappresentazione visiva” (p. 70). Anche nella storiografia, pertanto, appaiono dei procedimenti letterari che sono necessari per una riuscita descrizione della realtà: la selettività
dei dati, un’angolatura particolare che dipende dagli intenti specifici dell’autore
di ordine storico, teologico o estetico, la semplificazione di fatti-eventi, l’attenzione ai dettagli più suggestivi. Qualunque narrazione storica, compresa quella
che si propone di essere la più oggettiva possibile, richiede un tocco di romanzesco o, per usare un termine meno ambiguo, di arte creativa. “La storiografia
comporta uno sforzo creativo, sebbene limitato, per dipingere ed interpretare gli
eventi significativi del passato o le sequenze di eventi” (p. 87).
III. “Storia e verità: è importante la storicità?” (pp. 88-119). Mentre il cristianesimo tradizionale ritiene che la storicità, perlomeno di alcuni eventi centrali, è necessaria per la fede, in molte discussioni teologiche moderne si è fatta forte la tendenza di sconfessare la rilevanza della storia in favore, ad es., di
LONG
THE ART OF BIBLICAL HISTORY
541
una verità artistica o filosofica. La Bibbia non potrebbe essere una grande parabola e, nello stesso tempo, insegnarci le verità riguardanti Dio? La domanda
è puramente teorica, dal momento che la Bibbia mostra la pretesa di raccontare la verità e non solo di avere il valore di verità. La storiografia biblica differisce da quella moderna negli intenti e nelle modalità rappresentative, ma difficilmente si potrà negare il fatto che molti racconti biblici riflettano un passato
reale. “Ogni forma di discorso presenta la sua propria pretesa di verità, e il
valore di verità dei diversi discorsi va valutato in linea con la sua pretesa di
verità, ossia stabilendo che cosa ognuno di essi intende comunicare o realizzare” (p. 92).
E’ vero che la fede non crea gli eventi della storia salvifica, come pure non
richiede che tali eventi vengano comprovati nella loro “fattualità”, tuttavia è
altrettanto vero che “senza la storicità degli eventi centrali della storia biblica,
la vera fede biblica non potrebbe sopravvivere. […] la caduta della storicità
porterebbe inevitabilmente con sé l’abbattimento della fede cristiana” (pp.
98.99).
L’illuminismo del XVIII e XIX sec. ha sferrato un forte attacco alla
storicità della Bibbia. Diversi studiosi, tra cui H.S. Reimarus e D.F. Strauss,
per nominare i più significativi, hanno tentato di demolire la storia biblica –
con i loro criteri volti a smascherare la sua presunta non-storicità – cercando
di sostituirla con una ricostruzione teologica della fede cristiana. La reazione
ortodossa non sempre è riuscita a far fronte adeguatamente a questa tendenza.
Per evitare il rischio di cadere in uno dei due estremi, che rispettivamente favoriscono l’importanza dell’evento storico oppure l’interpretazione verbale
dell’evento del passato, si deve sottolineare la contemporanea rilevanza di entrambi: il carattere referenziale del racconto biblico (la storia) è infatti inseparabile dalla sua interpretazione artistica.
IV. “Storia e scienza moderna: perché gli studiosi non sono d’accordo?”
(pp. 120-168). In questo capitolo l’A. cerca di motivare il disaccordo scientifico riguardo al valore storico degli scritti biblici. La lettura storica della Bibbia
e la connessa divergenza nelle conclusioni, dipendono in primo luogo dai diversi modelli di realtà adottati dagli studiosi e, secondariamente, da una preferenza data ad un determinato procedimento metodologico. Risulta che alcuni
rappresentanti del metodo storico-critico escludono sistematicamente e con insistenza la possibilità di un diretto intervento divino nella storia (una tendenza
anti-teologica); alcuni di quelli che seguono gli approcci socio-scientifici e archeologici sottovalutano invece l’importanza delle fonti scritte (una tendenza
anti-letteraria); mentre alcuni approcci di tipo letterario sembrano ignorare il
valore di referimento dei testi (una tendenza anti-storica). Adottare uno di questi approcci metodologici conduce inevitabilmente ad un pericolo di ricostruire la storia biblica in maniera difettosa, ovvero ad una discordanza radicale nei
risultati scientifici, frutto di diversi approcci. Come sempre, anche nell’interpretazione biblica occorre quindi mantenere un giusto equilibrio evitando le
542
RECENSIONI
posizioni unilaterali. Ognuno degli approcci analizzati, se propriamente elaborato ed incorporato in una simbiosi metodologica, può svolgere una funzione
molto utile nella lettura storica della Bibbia.
V. “Storia ed ermeneutica: come, allora, dobbiamo leggere la Bibbia ‘storicamente’?” (pp. 169-200). L’analisi svolta nei quattro capitoli precedenti giunge ora ad un punto positivo, in cui cioè l’A. intende presentare un’ermeneutica
storica della Bibbia. Un primo passo preparatorio da compiere è quello di considerare i modelli della realtà e il significato delle credenze antecedenti che hanno
influenzato l’autore biblico. Il secondo passo presenta una struttura bipartita di
accostamento al testo sacro: ascoltare con attenzione e competenza il testo per
determinare la sua pretesa di verità (con l’aiuto di varie discipline esegetiche) e
sottoporre alla prova il valore di verità di qualunque pretesa. Nel primo caso sarà
richiesta all’interprete biblico un’attitudine aperta e l’attenzione al contesto,
mentre nel secondo si cercherà di provare il carattere della testimonianza biblica
mediante un esame di consistenza interna (stabilire se la narrazione è coerente
in sé) ed esterna (verificare l’impatto delle prove esterne sul valore della narrazione). Il terzo passo è costituito dalla presentazione da parte dello storico degli
argomenti per giustificare una concreta ricostruzione storica. Questa operazione
rassomiglia molto all’opera del giudice, chiamato a pronunciare, dopo un attento esame dei testimoni, il verdetto finale.
VI. “Un ampio esempio: l’ascesa di Saul al trono” (pp. 201-224). In quest’ultimo capitolo dello studio, Long offre un saggio dell’analisi storica del testo biblico. L’approccio programmatico presentato nel capitolo precedente viene ora messo in pratica per ricostruire e argomentare la storicità di 1Sam 9-11.
L’A. si serve del ben noto schema di S. Toulmin e giunge alle conclusioni seguenti: dato che la Bibbia presenta una coerenza interna e che il racconto unificato sull’ascesa di Saul al trono dovrebbe essere visto con tutta probabilità
come un racconto storico, quindi, probabilmente – basandosi sul fatto che la
Bibbia dice la verità e possiede lo status di parola di Dio – il Saul storico divenne re fondamentalmente così come è descritto nel testo, anche se alcuni dati
dell’esposizione risultano inesatti e sorge un’evidenza contraria sufficiente per
discreditare la dimostrazione.
Il volume termina con un epilogo in cui l’A. raccoglie brevemente i risultati
dell’indagine; segue una bibliografia commentata (molto utile) a scopo di approfondimento e infine gli indici: degli autori e delle opere citate, dei passi biblici e
dei temi.
Non saprei mostrare i punti deboli dell’opera, al di là, forse, di quella già
menzionata all’inizio: meticolosità che sa di eccessiva diligenza e crea qualche disturbo nella lettura (soprattutto ai meno addetti ai lavori). Però, non mi è
difficile menzionarne alcuni pregi. A mio avviso, meritano attenzione: l’originale disposizione del lavoro che analizza i temi-chiave della ricerca storica sulla S. Scrittura, il tentativo di presentare gli scritti storici della Bibbia come una
sorta di “arte rappresentativa” e le esemplificazioni delle questioni che man
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
543
mano vengono studiate, fatte con l’ausilio dei vari testi biblici (alla fine di ogni
capitolo se ne trova un esempio). Ugualmente meritevoli sono le conclusioni,
sia di ciascun capitolo che dell’opera stessa; per chi dovesse perdersi nei meandri dell’investigazione, sarà utile (non voglio dire sufficiente) attingere alla
lineare presentazione dei risultati emersi dall’indagine. Sottolineo questo punto perché non sempre si trovano studi che riescono con tanta chiarezza a sintetizzare il percorso fatto e, dato che l’opera di Long vuole essere anche un sussidio per gli studenti della Bibbia, credo che questo aspetto didattico sia degno
di essere adeguatamente apprezzato.
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
Dawson David Allan, Text-Linguistics and Biblical Hebrew (Journal for the
Study of the Old Testament. Supplement Series 177), Sheffield Academic
Press, Sheffield 1994, 242 pp., £ 37.50
Dawson’s volume is a doctoral dissertation under Professor John Gibson at the
Edinburgh University, Scotland, in 1993. I find no better way of presenting its
aim and scope than quoting extensively from the Summary at the end of the book.
In this study, I have examined five current influential works on the text-linguistic
description of Classical Hebrew, a theoretical base and a methodology for such description was presented, and several texts were worked according to this theoretical model. My
goals have been to underline the need in such undertakings for good theory and methodology, and for clear and direct communication of findings.
To this end, in the first two chapters, I surveyed Niccacci’s Syntax, Eskhult’s Studies,
Andersen’s Sentence, Khan’s Studies, and Longacre’s Joseph. Each of these contributes
to our growing understanding of test-level features in Classical Hebrew. Each of them
also fails to achieve our ideal standards of theoretical–methodological integrity and clarity of presentation. It is claimed (1) that the Hebrew language can be described elegantly
and helpfully at the level of ‘text’, and (2) that this cannot be accomplished if the researcher’s theoretical starting point does not allow for the possibility of a variety of text-types,
or if the write-up does not explain itself so that linguistically astute, but not linguistically
trained, hebraists can both trace the procedures and comprehend the results.
Of the five works examined, it was claimed that Joseph offered the greatest steps
forward in the description of the language—that is, its description of text-types by a matrix
with three distinctive parameters, and the description of each text-type in terms of its
own specific scale of clause-type distribution (which Longacre terms ‘clines’); and since
Longacre does not offer much theoretical explanation, the third chapter attempted this
task. Since space was limited, it was decided that attention should be given primarily to
that portion of theoretical basis which would permit the reader quickest access to the
most significant contributions of Joseph; this has meant that we worked toward an understanding of certain basic features of ‘tagmemics’ which are particularly important for an
understanding of the matrix and the clines.
This presentation of the theoretical base also entailed discussing methodological
principles, and in the end led to the proposal of some working hypotheses with which we
could give the theoretical base a ‘road-test’.
544
RECENSIONI
This road-test consisted in asking of several texts whether text-types and main-line
forms did in fact appear to be linked, and whether the patterns created by the alternations
between main-line and off-line forms coincided with other features to reveal the internal
structure of the texts. In addition, we looked at ‘Reported Speech’ to determine, if possible, whether this kind of text had the same text-type and cline characteristics as nonReported Speech. The final analysis attempted to step away from self-conscious
theoretical explanation and to apply the theory and methodology, more freely, to a single
unified text (pp. 209-210; italics in the original).
After this lucid presentation of the study as a whole, I allow myself to comment on certain points of the exposition. In the introduction D. rightly warns
against bad customs widespread among linguists and grammarians, such as
inventing new terminology, and not clearly stating one’s own presuppositions,
theoretical perspective and methodology. He also insists on the importance of
the so-called ‘language universals,’ or the general tendencies of human
language. I would note that no matter how important the language universals
are, they can never replace sound, synchronic description of each language in
particular. I think more than one reader would concur with voicing the danger
of too great an attention on language universals and too little analysis of particular languages in contemporary linguistic literature.
Dawson avoids using the term ‘discourse’ and uses instead ‘text.’ In his words,
a text (or a ‘discourse’) is a unit of speech, whose constituents are paragraphs, and
other, shorter, units; texts exhibit consistent tendencies in internal development, which
features can be described linguistically (p. 21).
I would have never suspected that an ‘innocent’ term like ‘discourse’ might
cause so many misunderstandings until I became familiar with ‘discourse analysis,’ the USA counterpart of the European text-linguistics. This happened in
1993 during my stay in Dallas to attend a Seminar on discourse analysis and
Biblical Hebrew held at the Summer Institute of Linguistics (SIL).1 Although
D. did his research under Professor Gibson, he is a pupil of Professor R.E.
Longacre, who is the mentor at the SIL. During my exposition, the topic ‘discourse’ will come up several times.
§1 Syntax. Dawson raises several critical remarks against my Syntax. In his
opinion, it uses the term ‘discourse’ in an improper way without distinguishing the different text-types as is done in the SIL circles. In order to understand
this remark, one needs to know that while I distinguish ‘discourse,’ in the sense
of direct speech, from historical narrative, D. (following Longacre) posits only
one genre, ‘discourse,’ and four text-types – ‘Narrative Discourse,’ ‘Narrative
Prediction Discourse,’ ‘Hortatory Discourse,’ and ‘Expository Discourse’
(pp. 115-116). Now, I have observed elsewhere that the so-called ‘top-down
1. The proceedings of this Seminar have been published: R.D. Bergen (ed.), Biblical
Hebrew and Discourse Linguistics, Summer Institute of Linguistics 1994.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
545
methodology’ practiced in the SIL circles is unfit for Biblical Hebrew for two
reasons.2 First, this approach makes it difficult, maybe even impossible, to perceive a coherent, overall system in Biblical Hebrew verb. Second, since Biblical Hebrew is a dead language and no competent speaker is available, we
need to learn it moving from the bottom up, that is, from the smallest unit, the
sentence,3 to the paragraph, and finally to the text. A basic precondition is to
describe the Hebrew verbal system and try to understand the function(s) of
each form in a text-linguistic perspective since one cannot rely on traditional
grammars. Indeed, one cannot base a text-linguistic analysis of the Bible on
the theory of the traditional (both old and modern) grammars that are bound to
the sentence and do not consider the relationships of the verb forms to one another in the text. A major deficiency of D.’s study is, in my opinion, that he
relied heavily on the SIL approach without trying to develop a syntax capable
of supporting a sound ‘discourse analysis.’
§1a Sentence and Text. A second critical remark is that Syntax remains bound
to the sentence. On the one hand, I have already pointed out the necessity of starting from a sound analysis of the sentence because this is the base upon which
the verbal system rests. Time and again, I have tried to show the coherence of
the Biblical Hebrew verbal system from the sentence level up to the paragraph
and the text levels.4 On the other hand, D. may have overlooked the import of
Syntax, especially Chapters 5 and 6, for text-linguistic analysis of the texts. I have
shown this in the analysis of complete texts from Joshua, Judges, Samuel and
Chronicles in Lettura sintattica.5 In this book (not mentioned by D.), first a ‘syntactic commentary’ of each sentence is given and then a ‘macrosyntax’ of the text
– its beginning, development, and end.6 Admittedly, this is not the kind of analysis
done by D., yet it does go beyond the limit of the sentence. My analysis is only
based on the functions of the verbal forms established with text-linguistic
criteria. It is, therefore, limited and does not exclude per se the kind of analysis
done by D.
2. See my paper, “On the Hebrew Verbal System,” in: Bergen (ed.), Biblical Hebrew, 117137.
3. Dawson objects against the (translator’s) use of ‘sentence’ instead of ‘clause’ in: A.
Niccacci, The Syntax of the Verb in Classical Hebrew Prose, Sheffield 1990; see
p. 38. However, according to the sources available to me ‘sentence’ and ‘clause’ can be
used alternatively.
4. My last attempt is, “Finite Verb in the Second Position of the Sentence. Coherence of
the Hebrew Verbal System” (to be published in ZAW). See also: “Essential Hebrew Syntax”,
in: E. Talstra ed., Narrative and Comment. Contributions presented to Wolfgang Schneider,
Amsterdam [1995], 111-125.
5. Lettura sintattica della prosa ebraico-biblica. Principi e applicazioni, Jerusalem 1991.
6. See also my paper, “Analysis on Biblical Narrative,” published in: Bergen (ed.), Biblical
Hebrew, 175-197.
546
RECENSIONI
§1b H. Weinrich. A further critical remark is that the present writer “is not
rigorously thorough in his application of linguistic principles, and permits himself both short-cuts and inconsistencies” (p. 31). This may be true, yet I have
some justifications. First, my decision of prefacing as little theory as I could
(three and a half pages: Syntax, pp. 19-22) was a reaction to a tendency towards long theoretical discussion and small (if any) analysis of texts. Something more about theory, presuppositions and methodology is found in Ch. 9
as a short introduction to a summary on the use of the Hebrew tenses in
prose. Second, I thought I could permit myself being very short because I
adopted a well-defined model, that of H. Weinrich, Tempus.7 It is rather surprising that D. does not even mention this fact. For him, the only text-linguistic theory is the one developed by Longacre. While the whole Ch. 3 of his
study is devoted to explaining the ‘Tagmemic Model’ in order to clarify
Longacre’s theory, the name of Weinrich is not even mentioned.8
§1c Qatal in ‘Discourse’. Dawson rightly perceives an inconsistency in Syntax, p. 43 as he writes:
Niccacci says of the ‘report QATAL’ that it ‘never heads a sentence’ as well as that
it ‘is a form with first position in the clause’. These two statements cannot be reconciled
with each other, and do not describe the data (p. 33).
Yes, this is one of the rather numerous errors crept into the English translation of my work, and for that I owe the reader my apology.9 Yet from a careful
reading one notes that something is wrong in the following sentence: “the ‘report’ QATAL never heads a sentence but can be preceded by a particle …” (Syntax, p. 43; italics added). It is clear that the phrase “but can be preceded by …”
needs a different antecedent than “never.” In fact, the Italian original reads as
follows: “il ‘QATAL di resoconto’ non occupa sempre la prima posizione della
frase, ma può essere preceduto da una particella …” Besides, a look at the examples quoted in Syntax §23 shows that in five cases we have an x-qatal (i.e. qatal
in second place) and in four cases qatal (i.e. initial qatal). To the other point –
i.e. that the data are not described in that way – I shall come back later since this
is one of the major points of D.’s research.
§1d Rules. Another D.’s remark on Syntax concerns “a certain tendency toward overstatement of ‘rules’ in syntax” (pp. 32-33). This remark is not surprising because D. – and the SIL circles as well – do not see any rule or system in the
use of the Hebrew verb. Rather, they look for regularities in the patterns of texttypes in the texts. Now, if this search for linguistic patterns is useful, syntactical
7. H. Weinrich, Tempus. Besprochene und erzählte Welt, Stuttgart 1964; 4th ed. 1985.
8. About Dawson’s six-line (or even shorter!) description of my (i.e. Weinrich’s) text-
linguistic theory in p. 29, note that the three categories mentioned there are not at all
‘mutually exclusive’; on the contrary, they all are to be applied in analysis of texts.
9. Unfortunately I was not given the possibility of checking the text before the printing.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
547
analysis is a prerequisite, as noted above. And, as far as I know, syntax is built
up by adopting working hypotheses and refining them until they becomes rules;
this happens when the hypotheses are confirmed by sufficient data.
§1e Syntax and Semantics. Dawson comments on the role of semantics in
the present writer’s syntactic description:
On the other hand, while he acknowledges that semantics must play a role even in
macro-syntactic description, he restricts his semantic analysis to grammatical forms. He
overlooks the fact that, for example, hyh never represents a ‘full’ event, by virtue of its
inherent, ‘stative’, meaning, and thus can never be a foregrounded narrative verb. His explanation of the distribution of this verb is fairly convoluted, and could have been simplified with the recognition of the stative nature of hyh (p. 34).
This is an aggregate of unproved allegations. First, one would like to
know what is exactly meant by “a ‘full’ event.” If this means an ‘action,’ one
can observe that several main-line wayyiqtol forms do not indicate any action. Second, who decided that a static information cannot be foregrounded. Foreground is not identical with action as well as background is
not identical with state. It is the writer, and no one else, who decides what is
foreground and background, and he signals his decision by means of the verb
forms used. This seems to me a correct relationship between syntax and semantics – that is, the second is subservient to the first, not vice versa. In
other words, syntax is to be established by morphology and analysis of the
sentence (position of the verb in the sentence is a decisive factor), and only
subsequently by semantics.
As for the verb hyh, D.’s analysis is only semantic (see also his note 61,
p. 34). The present writer has illustrated the syntactical status of the verb in Syntax §§28-36 and more fully in a special paper on the subject,10 as well as in
Lettura sintattica §24. There are two uses of hyh: one where it is a ‘full verb,’
the other where it has a ‘macrosyntactic function.’ hyh is a full verb when it is
followed by the subject; it has a macrosyntactic function when it is followed not
by its subject but by a ‘circumstance’ (be it a prepositional phrase, an adverb, or
a casus pendens). In both its uses, hyh is a verb in its own merit. In the yhiy“w" form,
it is a wayyiqtol as any other such verb form.
Again, I need to quote D. extensively:
One of the difficulties Niccacci runs into here is due to his apparently not having
examined larger units for structural similarities. This sort of investigation would have
shown that ‘interruptions’ to the main narrative are marked as more or less significant on
the basis of (1) how far removed the interruption is from the normal semantic, temporal,
and aspectual (etc.) qualities of the main-line of the text, and (2) how many non mainline clause-types occur in tandem. This second factor is significant for the evaluation of
hyh forms—if Niccacci were to have worked from the assumption that Classical Hebrew
is a ‘bag-of-tricks’ language, the idea that yhyw clauses are among the possible options in
10. “Sullo stato sintattico del verbo häyâ,” LA 40 (1990) 9-23.
548
RECENSIONI
the bag of trick available for a specific task, and he would not have to claim a distinction
between yhyw as a ‘full form of the verb’ and yhyw as a macro-syntactic marker, since yhyw
as a ‘full form’ could still function as a macro-syntactic marker. Comparison of several
large units of text would lead as well to the realization that narrative units can be broken
down into smaller units without endangering the integrity of the whole, and he would not
need to insist that yhyw is always a marker of continuity. (In my reading of the data, yhyw
seems almost without exception to function as a paragraph-break marker, and as such is
often a marker of discontinuity.) (pp. 34-35; italics in the original)
One point of agreement between us is that wayyiqtol is a verb form expressing continuity while qatal indicates interruption in a narrative. D. maintains,
however, that yhiy“w" is no normal wayyiqtol. The criterion is semantic, nothing
more. In addition to the objections raised above in this section concerning the
stative nature of hyh, one would like to understand under what criteria are we to
decide “how far removed the interruption is from the normal semantic, temporal, and aspectual (etc.) qualities of the main-line of the text” (note the appearance of ‘semantic’ in the first place and the absence of ‘syntactic’). More
verifiable criteria than personal choice are necessary to be convincing. Moreover,
the ‘bag-of-tricks’ may be a picturesque expression, but in order to be an acceptable explanation, the contents of that ‘bag’ are to be verified syntactically – a
grammarian is not a juggler.
§1f Historical versus Oral Narrative. Another objection raised against Syntax
is the distinction between ‘narrative proper’ and ‘narrative discourse’ (pp. 3536). Here again we find an unfortunate use of the same phrase for different
things. Not accepting my – as well as M. Eskhult’s, and basically H. Weinrich’s
– distinction of direct speech and narrative as the two basic genres of the prose,
D. employs the term ‘narrative discourse’ in quite a different meaning (see beginning of §1 above). For me it only means ‘oral narrative’ as opposed to ‘historical narrative.’ I shall again discuss this point later.
§1g Word Order. A further objection concerns the importance of word order
in Hebrew syntax although D. accepts it in principle (as the SIL circles do). He
writes:
Here, I am largely in favour of Niccacci’s conclusion: that the emphasis of the clause
is determined by what has first position in it (excluding conjunctions such as -w and yk);
however, I feel he takes this too far (p. 37).
I agree that -w does not occupy a place in the clause, as well as do not the
negations aløw“ and la'w“, but yKi does, as well as ˆ['m'l], rv,a} etc., because they are
subordinating conjunctions.11
11. I hope to be able to draw a list of subordinating conjunctions and non-subordinating
particles in the near future. For the moment, see my book review of: W. Groß - H. Irsigler
- T. Seidl (ed.), Text, Methode und Grammatik. Wolfgang Richter zum 65. Geburtstag, St.
Ottilien 1991, in: LA 44 (1994) 667-692, esp. §3.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
549
After a long quotation from Syntax, pp. 28-29, D. objects to the idea that
placing the verb in the second place of the sentence means demoting it from its
normal role of predicate, or new information, to the role of subject, or given
information. He writes:
This opposition of subject and predicate seems overstated. In truth, all the information in a ‘sentence’ (by which he here means ‘clause’)—not just the predicate—is vital
to the meaning of the sentence, and though one element may have greater importance,
this is only on a sliding scale; to label one element ‘subject’ and another ‘predicate’ in
this fashion is to put into black and white that which should be described in terms of
greys (p. 38).
I doubt that grammatical analysis is a question of ‘greys’ instead of ‘black and
white.’ Of course, every element in a sentence is ‘vital’ from the semantic and
pragmatic point of view, but not from the grammatical and syntactical point of
view simply because there are cases where the subject does not appear at all. A
couple of examples of this kind are quoted in Syntax, p. 27: Judg. 1:2 and 6:29
versus 20:18 and 15:6, respectively. Other examples are found in a more recent
paper.12 In it, one also finds a better description of the ‘phrase coupée’ (in English, ‘cleft sentence’) than the one given by D. on p. 39, by R. Huddleston (pp. 910) and T. Givón (p. 25), and also a description of comparable structures in Greek
and in other languages by H.J. Polotsky (pp. 13-14) and H.B. Rosén (p. 26).
A further remark on the topic of word order according to the present writer
reads as follows:
He is also not accurate in his assessment of ‘modern linguists’; it is incorrect to
say that they believe the noun phrase to be ‘first in the sentence’. Perhaps this is true
of those who do not engage in linguistics as a description of data (though I cannot
imagine what other sort of linguistics would exhibit any integrity); it is certainly not
true of linguists whose goal is to describe ‘what is there’ (p. 38).
The passage of Syntax, pp. 28-29, referred to above simply means that while
in many modern languages the subject, or ‘noun-phrase,’ occupies the first place
in the sentence (see J. Lyons cited in Syntax, note 17, p. 199) – this is true of
English, French, German, Italian and other languages –, in Biblical Hebrew, as
well as in other ancient Semitic languages, the first place is taken by the predicate, or ‘verb-phrase.’13
§2. Joseph and Tagmemics. As D. puts it,
[Longacre’s Joseph] represents the most significant advancement in Hebrew
textlinguistics seen to date; it contains much of near-revolutionary value to the student of
Classical Hebrew syntax (p. 56).
12. “Marked Syntactical Structures in Biblical Greek in Comparison with Biblical Hebrew,”
LA 43 (1993) 9-69.
13. See my paper, “The Stele of Mesha and the Bible. Verbal System and Narrativity,” Or
63 (1994) 226-248, esp. §6.
550
RECENSIONI
Dawson follows the lead of this book whole-heartedly; just to better explain
the theoretical base of this book he writes an introduction to the Tagmemic
Model, which is especially destined to linguistically untrained Hebraists; from
this book he derives his own methodology of text analysis (see Ch. 3).
Part Two of Joseph describes the surface structure of Classical Hebrew
(pp. 61ff.). Now, while its methodology is a considerable improvement upon
traditional grammar based on the sentence, it posits too many types of texts. It
is able to discover some regularities in the use of verb forms in specific texttypes but not to perceive any system of the Hebrew verb (see §1d
above). Hopefully, things shall become clearer in the course of my discussion.
One of the major contributions of this theory is a basic distinction between
‘on-the-line’ and ‘off-the-line’ clauses; this corresponds to what I call ‘verb forms
of the main line’ and ‘verb forms of the secondary line of communication.’ Apart
from this important area of agreement, there are several areas of disagreement,
beginning with the nature of verb hyh, as already indicated (§1e). Another area
of disagreement concerns a basic distinction between verb clause and noun clause,
that is the corner-stone of my description of the Hebrew verbal system. In this
description, wayyiqtol is a main-line verb form and qatal an off-line verb form
in historical narrative precisely because the first constitutes a verb clause
(wayyiqtol takes the initial position in the clause) while the second constitutes a
noun clause (qatal takes the second position). Because, as D. notes, Joseph explicitly rejects any major difference between verb and noun clause, one may ask
on what basis are we to distinguish between main-line and off-line verb forms.
This subject entails an important point of disagreement also because qatal
is considered a off-line verb form per se, while in my opinion it is such in historical narrative only; in direct speech it can be a main-line verb form in the
axis of the past (see §4c below).
The quest for verifiable criteria becomes acute when one considers the ‘verbal rank scheme’ for Narrative History presented on p. 63. Although for D. “this
is one of the most immediately accessible – and revolutionary – contribution of
the book,” still I have some problems with it. I have already spelled out my agreement (and reservations) to positing ‘Band 1: Storyline’ for the ‘Preterite,’ i.e.
wayyiqtol, and ‘Band 2: Backgrounded Actions’ for ‘Perfect,’ i.e. qatal. Since
this ‘verbal rank scheme’ represents different degrees of departure from the
storyline, I am surprised to see that the hNEhi constructions are classified as ‘Band
3: Backgrounded Actions.’ In fact, hNEhi is a particle typical of direct speech conveying visual information in the most lively possible way (it is connected, explicitly or implicitly, with a verb of seeing). As such it conveys description, which
is not foreground in historical narrative, yet it can hardly be considered a thirddegree departure from the storyline (see e.g. Ruth 4.1.3).14
14. Consult my paper, “Syntactic Analysis of Ruth” in the present volume.
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TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
551
I have already voiced my objections to considering the clauses with hyh
automatically off-line (§1e above); it is even said to be ‘Band 4: Setting’ together with the simple nominal (verbless) clause (p. 63). I also have reservations against seeing the negation of a verb clause as off-line per se, even ‘Band
5’ (p. 63). The reason is that in Hebrew the only way of negating wayyiqtol is
using aløw“ + qatal; on the other hand, qatal is negated with alø + qatal, and xqatal (i.e. a second position qatal) with x + alø + qatal. As a consequence aløw“
+ qatal is not a qatal but a negated wayyiqtol; syntactically, it is on exactly the
same level with wayyiqtol. What justification is there, then, to classify it as
‘Band 5’? The only criterion that one can imagine is personal interpretation,
certainly not syntax of the Hebrew verb.
Interpretation is also the criterion to identify paragraphs. In fact, D. quotes
with approval the following definition:
Any group of sentences that go together by virtue of cohesion and/or coherence can
be shown to have the structure of an (embedded) paragraph of a recognizable type (p. 64).
A paragraph is a unit of the text composed of foreground clauses and related
background clauses. I consider the background clauses, that are nominal in
nature (i.e. verbless or having a finite verb in the second place), to be syntactically dependent on the foreground clause(s) although they are not dependent
grammatically – i.e. not governed by subordinating conjunctions like yKi, ˆ['m'l],
rv,a} etc. Indeed, background cannot exist in the text without its foreground on
which it relies. Note that my definition of a paragraph is purely syntactic (i.e.
based on the function of the verb forms used). It does not exclude a semantic
definition of a paragraph but the latter should take note of the first and base
itself on it.
In sum, we have to understand the function of each type of clause in relationship to the others. In this way an acceptable ‘verbal rank scheme’ can be
established.
As already observed, an introduction to Tagmemics is presented in Ch. 3 in
order to help the reader better understand Joseph. A second goal of this presentation is to explain ‘Embedding.’ I must confess that I had a hard time with
this concept until the end of the book. Thus, I prefer quoting what is most
important for its understanding:
A shorthand term for both ‘recursive’ exponence and ‘back-looping’ exponence is
‘embedding’. One could say that ‘a growing distrust of their frequent prevaricating’ is
a Noun Phrase in which the Modifier of the Noun Phrase ‘a growing distrust’ is expounded
recursively by another Noun Phrase—‘of their frequent prevaricating’. This specifies
the exact relationship of the filler to the slot. In this volume, as is done in many others,
I will sacrifice some of this precision, and will bypass explicit statement of the nature of
this exponence (except where an explicit statement is necessary); the result is that I will
describe the above phrase as a ‘Noun Phrase that contains an embedded Noun Phrase’. In
this inquiry I will refer to ‘a Narrative text embedded in an Expository text’, ‘a Predictive
paragraph embedded in a Narrative History speech formula’, and so on. The concept of
552
RECENSIONI
embedding is the most important to my later discussion of those which have been described so far; the material preceding this has served primarily as background so that this
feature may be the more readily understood. (…)
This concept of ‘embedding’ is a considerable help in elucidating the grammatical
role of Reported Speech in, say, Narrative History, since it highlights the
interconnectedness between Reported Speech and the framework that supports it. This
is essential for the integrity of the framework, and also permits us to examine Reported
Speech as individual, fully self-contained, units, which also happen to function as part of
something else. The benefit of this is that we are able to ask questions of individual
Reported Speech texts, and compare them selectively (for example, to other units of the
same text-type), so as to gain a greater understanding of the features of distinctive texttypes. Likewise, we gain insights into the nature of Reported Speech as a grammatical/
syntactic mechanism by approaching it in this way. I will, as I have intimated above,
return to this in fuller detail in Chapter 5 (pp. 92-93; italics in the original).
After reading the rest of the book, one cannot avoid the suspicion that the
whole concept of embedding has been formulated to resolve a problem posed
by the theory of the four text-types – ‘Narrative History,’ ‘Narrative Prediction,’
‘Hortatory,’ and ‘Expository’ (pp. 115-116), all belonging to the category of
‘discourse.’ The problem is the presence of qatal at the beginning of a Narrative History in Reported Speech, that is, what D. calls ‘Narrative History embedded in Reported Speech,’ and myself ‘narrative discourse,’ or ‘oral narrative’
(I must apologize for the confusing terminology!). Now, according to D.’s
‘Narrative History Cline’ (p. 115), qatal (‘Perfect’) is classified as ‘Band 2:
Backgrounded Actions,’ but even common-sense analysis shows that this is not
the case in certain passages (see examination of texts below, §§5ff.). Precisely
for this problem, I think, embedding is envisaged. I will come back to this
subject later in my exposition in order to discuss this solution (§9f below).
The already-mentioned four text-types are defined according to a matrix
consisting of ‘four broad categories – NARRATIVE, PROCEDURAL, BEHAVIOURAL and EXPOSITORY’ (p. 95). Besides the binary opposition ‘+ Agent
Orientation’ versus ‘– Agent Orientation,’ a third parameter needs to be applied
called ‘Projection.’ The eight ensuing categories are then described (pp. 97100). Finally, D. comes to the internal structure of the text-level units.
This structure is marked by features that can be collected into two loose groups: the
first includes those features which tend to extend throughout the length of the text—they
are roughly similar to the ‘warp’ in woven cloth; the second includes those features which
tend to break up those in the first category—they are comparable to the ‘weft’ in woven
cloth. As with woven cloth, it is the working together of these features that results in a
completed product (p. 100).
Among the ‘longitudinal’ features D. examines ‘Main-Line’ versus ‘Off-Line,’
on the one hand, and ‘Foreground’ versus ‘Background,’ on the other. The distinction he establishes between the two pairs requires some attention.
The opposition between main-line and off-line is a syntactic question; the opposition
‘foreground’ versus ‘background’ is similar, but it is more a ‘notional’ distinction—in
some ways, it is a deep structure distinction that is encoded by a surface structure oppo-
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
553
sition of mainline clauses versus off-line clauses. Foreground material is that which moves
the story/exhortation/instruction/etc. toward its essential goal (whether that be the highlighting and resolution of a peak event, or some other text-type-appropriate
goal). Background material is that which does not significantly advance the story/
etc. Both ‘off-line’ and ‘background’ material can be categorized in terms of ‘distance
from the main-line’ or ‘degree of backgrounding’; the more unlike the main-line clausetype can be shown to be (in terms of tense–aspect–mood values, for example), the further
off-line it can be said to be. This is the principle behind Longacre’s clines (p. 102).
What we read here is really interesting;15 yet, I am unable to understand the
above distinction. The opposition ‘main-line’ versus ‘off-line’ is said to be
syntactic, but it is not clear what is meant by syntax. The other opposition ‘foreground’ versus ‘background’ is said to be ‘notional,’ or maybe deep-structure;
it consists in the opposition between ‘what moves the main line further’ and
‘what does not.’ Moreover, different ‘degrees of backgrounding’ are established
according to the degrees of ‘distance from the main-line.’ Again, according to
which criteria are we to measure the ‘advancing capability’ of a verb form and
its ‘distance from the main-line’? Semantics is this answer, and nothing else. I
do not have anything against semantics but it must be subservient, not contrary,
to a sound syntax of the verb (see §1e).
As a further element in the analysis D. mentions ‘plot,’ which is a literary
term. D. explains that this ‘wandering outside our own domain’ “merely underlines the interdependency of these various ways of approaching texts”
(p. 104). He then goes on to list seven elements of the surface structure in a
typical Narrative History text (and in other text-types in some way), and nine
corresponding elements of the deep structure. Following Longacre, he explains
that “these deep- and surface-structure features give to the text a ‘profile’”
(p. 106). He also explains the overlapping and interleaving of these
features. One may feel uneasy with this description. One wished, first, that the
different levels of analysis – syntactic, text-linguistic and literary – might be
kept distinct, and, second, that they might be interrelated and ordered in a progression from lower to higher levels. There is a danger of escaping from the
problems encountered on the syntactic level to a solution on a higher level or on
the deep structure. I always feel uncomfortable with the practice of resorting to
a deep-structure explanation at the expense of the surface structure. The only
verifiable structure of the text is the surface structure.
§3. Methodology. Coming to his own methodology, D. looks for a suitable
working hypothesis. He writes:
15. One should mention that the notion of ‘foreground’ versus ‘background’ has been also
advanced by German scholars like W. Schneider and W. Groß; see complete references in
Syntax, p. 15. There is an unfortunate lack of communication between English-speaking and
German-speaking grammarians; e.g., see the bibliography given in: Groß - Irsigler - Seidl
(ed.), Text.
554
RECENSIONI
I have enumerated several factors above which influence the choice of question(s) we
will ask of the data. The question must also be formulated in such a way to lead us to a
productive answer. ‘Do verbs have a macro-syntactic significance?’ would be next to
useless as working hypothesis; we need a starting point that will result in a concrete
observation about the language. ‘Does the distribution of verbs with hyh in non-Reported
Speech’ sections of Narrative History, in comparison with other clause-types, indicate
possible macro-syntactic significance?’ is a much more functional hypothesis (p. 110;
italics in the original).
And in note 88 he observes:
In fact, this is a kind of sub-hypothesis, since it would be correlative to other questions we must ask at the same time. Perhaps the ‘umbrella’ hypothesis might be: ‘Do
suspected clause-level macro-syntactic devices for non-Reported Speech of Narrative
History converge to frame a complete picture of the constituent structure of the
text?’. Were we to be strictly legalistic about this, hypotheses could not be framed as
questions, but would have to take the form of ‘if–then’ sentences. This last scruple is
perhaps helpful on occasion, but I tend to bypass it, since the question form accomplishes
the task sufficiently well, and without any great ambiguity (p. 110).
Despite D.’s honest intention (only announced, though) of disproving his
working hypothesis as a means of substantiating it (p. 111), I feel lost. We are
told that asking about a macro-syntactic significance of the verb forms would
be an almost useless working hypothesis. (Needless to say, I believe just the
opposite – the verb forms are the main starting point for syntactic and macrosyntactic analysis; see §1e above.) This raises two questions: are we talking the
same language?, and, are we talking about syntax at all? One suspects that behind
all this there is a specific presupposition: that macro-syntax is not syntax in the
normal sense – i.e. describing the functions of the verb forms in the text – but
only identifying the text-types and controlling the ‘profile’ of the text, thus bypassing the plain, syntactic research. Only one who has no confidence in syntactic analysis can make such statements. On the other hand, what D. presents
as a ‘more functional’ working hypothesis does not seem to be formulated in
such a way as to be faithful to his own ‘hobby-horse’: ‘good theory–good
methodology–good communication’ (p. 216). It is difficult to appreciate the
linguistic importance of the distribution of hyh in the different clause-types, so
that it would be justified to adopt it as a working hypothesis. Besides, as far as
one can see, this is not the main working hypothesis in the examination of texts
in Ch. 4 and 5 (see also next paragraph).
As for his theoretical starting point, D. writes:
We have looked at Longacre’s matrix of ‘notional’ text-types, and I have cited his
‘verb rank clines’ of main-line and off-line forms as being particularly productive for
Classical Hebrew; we have also looked at constituent structure of texts as something that
may be marked by off-line features. I will therefore take as my starting point these theoretical concepts, and examine the data to see whether they are, in fact, viable for describing our language. I have also dealt bluntly with Niccacci and Eskhult, in terms of their
treatment of ‘discourse’ (i.e. ‘Reported Speech’), and have suggested that their analyses
are deficient because they do not deal well with this feature of the text (p. 114).
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
555
On pp. 115-116, D. lists the ‘verb-rank clines for the four text-types,’ taken
from Joseph with only minor changes in terminology. Since I have already
commented on the ‘Narrative History Cline’ (see §2 above), I only need to make
a remark on ‘Band 2: Backgrounded Actions’ of the same. A distinction is made
there between ‘2.1 Perfect [i.e. qatal]’ and ‘2.2. Noun + Perfect (with noun in
focus),’ i.e. x-qatal. This statement is true and false at the same time because it
does not envisage the basic distinction between historical narrative, on the one
hand, and direct speech, on the other. Actually, qatal is an initial verb form in
direct speech, but not in historical narrative where it is a second place verb
form, i.e. x-qatal; and x-qatal has the function of putting ‘the noun [i.e. ‘x’ element] in focus’ mostly in direct speech, very rarely in historical narrative.16
As for the ‘Narrative Prediction Cline’ (p. 115), I agree that the main-line
is indicated by ‘wc + Suffix,’ i.e. weqatal; one should note, however, that no
direct speech (or ‘Reported Speech’) of any kind begins with weqatal. In other
words, weqatal does express the main-line, it also appears in a chain of the same
kind of verb forms, but it does not start the main-line; the main-line is started
mostly by a verbless clause (or ‘simple nominal clause’ in my terminology) or
by an indicative x-yiqtol (i.e. non-initial yiqtol; see §4c below). Thus, x-yiqtol
at the beginning of a direct speech is a main-line form exactly as weqatal, and
therefore one should object against classifying ‘Prefix’ (i.e. yiqtol) simply as
‘Band 2: Backgrounded Predictions.’
The objections raised against the analysis of the hNEhi clauses in the ‘Narrative History Cline’ (§2 above) are even more relevant to the ‘Narrative Prediction Cline,’ because hNEhi is a particle of direct speech, and ‘Narrative Prediction
Cline’ is direct speech. It seems impossible, therefore, to classify the hNEhi clauses
as ‘Band 3: Backgrounded Activities.’ The reason for this classification is presumably the fact that the main-line form is weqatal and therefore all the rest is
considered off-line. This is inappropriate, however, because direct speech easily shifts from the future (characterizing the ‘Narrative Prediction text-type’) to
the present (characterizing, among others, the hNEhi clauses) and to the past (characterizing the oral narrative; see §4c below).
In the ‘Narrative Prediction Cline’ (p. 115), a number of constructions are
classified as ‘Band 4: Setting’ that do not belong together syntactically. As noted
above (§2), there is no justification in regarding the forms of verb hyh as ‘Setting’ per se; rather, hyh is to be considered according to its grammatical forms
and respective function(s) as any other verb. As for the ‘nominal clause (verbless),’ it can express setting but it can also be a main-line construction with present
reference. The same applies to the ‘existential clause with yëå’ that is both a mainline construction with present reference (as in ‘Band 1’ of the ‘Expository Cline,’
p. 116) and a circumstantial construction expressing setting.
16. I would refer to Syntax §6 for direct speech, and §48 for historical narrative.
556
RECENSIONI
‘Band 1: Primary line of Exhortation’ in the ‘Hortatory Cline’ correctly includes all the volitive forms (p. 116). However, one should object to classifying
the negative construction la' + ‘Jussive / Prefix’ (i.e. yiqtol) as ‘Band 2: Secondary Line of Exhortation’ since this is precisely the way of negating the volitive
forms. As observed on the ‘Narrative History Cline’ (§2), the positive verb forms
and their negative counterparts have the same syntactic status. The other item in
Band 2, called ‘Modal Prefix,’ is the indicative yiqtol (appearing as xyiqtol). Now, there is no justification in classifying this ‘modal’ yiqtol as Band 2
and weqatal (or ‘wc + Suffix’) as ‘Band 3: Results / Consequences (Motivation).’
Finally, in the ‘Expository Cline’ (p. 116), only ‘Band 1: Primary Line of
Exposition’ is clearly defined; it comprises ‘Nominal clause (verbless)’ and
‘Existential clauses (with ˆyae or vyE).’The rest remains vague.
In sum, the four ‘Clines’ are too theoretical and much too rigid. Real texts
are variable, and ‘pure’ text-types are rarely found because direct speech easily
shifts from future to past and to present reference.17 As a result, the ‘Clines’ are
often inapplicable without making violence to the texts. This shall become clear
later in the discussion of the texts examined by D. (§5ff. below).
What has been said means that one would do well to forget the text-types
as the starting point of syntactic analysis. Other models of text-linguistics do
exist. Once a sound text-linguistic syntax has been established, text-types can
be investigated on a firmer basis.
In p. 119, D. explains his ‘charting methodology,’ that is, the way he arranges the clauses of a text according to the ‘text-types clines.’ It is not easy to
understand his theoretical explanation, especially concerning subordinated and
non-subordinated material in Reported Speech. If one looks at the different
charts and the two Appendixes at the end of the book, the result is frankly
confusing. In fact, D. distinguishes ‘subordinated Reported Speech’ (i.e. clauses
that are governed by subordinating conjunctions such as yKi, ˆ['m'l], rv,a} etc.) from
normal, ‘non-subordinated Reported Speech’ (pp. 156; 176). On this basis, he
establishes four columns: ‘A: un-subordinated narration’; ‘B: subordinated
narration’; ‘C: un-subordinated rep’d speech’; ‘D: subordinated rep’d
speech.’ Soon after, the four columns become two: ‘Narration’ comprising A
and B, and ‘Reported Speech’ comprising C and D, although it seems that B is
also Reported Speech. However, the columns are three in the charts on pp. 128
and 133 and they are marked by the symbols ‘ML,’ ‘OL,’ and ‘Sub’ whose
meaning is explained in p. 127 as ‘main-line non-subordinated clauses,’ ‘offline non-subordinated clauses,’ and ‘subordinated clauses,’ respectively. Reported Speech is not examined there but is indicated with a ‘—’ sign. In the
examination of the Reported Speech material in Jephthah and Ruth (Ch. 5),
17. This is recognized by Dawson himself; see his remark no. 2 in p. 207, and my discussion
in §10 below.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
557
again three columns are used; however, they are not the same as those on pp. 128
and 133, since the first (from right to left) is for the Speech formula, the second
for the un-subordinated Reported Speech, the third for the subordinated Reported Speech. Finally, in the Appendixes also three columns are used but again
different: the first is for the un-subordinated narration, comprising both mainline and off-line clauses; the second for the subordinated Reported Speech, and
the third for the un-subordinated Reported Speech. The least that one can say
is that this ‘charting methodology’ is not particularly helpful to the reader.
§4 Verbal System in ‘Discourse’. Before coming to the examination of the texts,
I wish to comment on two remarks done by D.: first, qatal at the beginning of a
Narrative History in a Reported Speech can be a ‘stage-setting form’ as in Narrative History outside Reported Speech; second, my Syntax did not develop a
suitable description of Reported Speech (see pp. 36 and 32, respectively).
§4a Beginning of Oral Narrative. In the present writer’s view, the beginning
of an oral narrative (or ‘Narrative History in Reported Speech’ in D.’s terms) is
different from that of a historical narrative (or ‘Narrative History outside Reported
Speech’). At the beginning of an oral narrative, qatal (i.e. clause-initial qatal) or
x-qatal (i.e. second-place qatal) is a main-line form, whereas x-qatal at the beginning of a historical narrative is off-line form expressing ‘antecedent information,’ or the ‘setting’ of a story. Although it might appear minor, this controversy
is in fact major because it constitutes D.’s main argument against distinguishing
historical narrative from direct speech as the two genres of the prose; it is also
the principal contribution of his research. Actually, this controversy entails the
problem of the syntax of direct speech in general.
The position of the present writer is not an a priori but a conclusion of several facts. First, there are clear cases where nominal clauses (i.e. with a finite verb
in the second place or without any such verb) in historical narrative indicate the
setting of a story (Syntax §§16-19), while I know of no such cases in oral
narrative. Second, there are clear cases where (clause-initial) qatal, or x-qatal, in
an oral narrative contrasts wayyiqtol in historical narrative for the same fact – first
narrated, then reported orally – and both constitute the main line of communication (Syntax §§22-23). Third, an oral narrative frequently uses wayyiqtol forms
in the first and second person; a suitable example is the first speech of Moses in
Deuteronomy with rm'aøw: ‘I said’ (Deut. 1:9), wWn[}T'w" ‘you answered’ (1:14), jQ'a,w" ‘I
took’ (1:15), hW<x'a}w: ‘I commanded’ (1:16; 1:18), [S'NIw" ‘we departed’ and abøN:w" ‘and
we came’ (1:19), rm'aøw: ‘I said’ (1:20), ˆWbr“qTiw" ‘you draw near’ (1:22) etc., whereas
first and second person wayyiqtol is totally absent in historical narrative. Fourth,
an oral narrative begins with qatal or x-qatal, never with wayyiqtol – e.g. Moses’
speeches in Deuteronomy begin with x-qatal (Deut. 1:6; 5:2) – whereas wayyiqtol
is frequently found at the beginning of a historical narrative, even at the beginning
of books – e.g. 1 Sam 1:1. These are facts, not allegations, and deserve proper
consideration. Until these facts are disproven, I adhere to my opinion.
558
RECENSIONI
§4b Discourse and Narrative. At this point, the verbal system in ‘discourse,’ or Reported Speech, needs to be expounded. The distinction between
‘discourse’ (Besprechung) and ‘narrative’ (Erzählung) has been proven to be
basic in the Neo-Latin languages, which have complete, separate sets of verb
forms for the two genres of the prose. In W. Schneider’s and M. Eskhult’s
opinion as well as mine, among others, this distinction is also basic for Biblical Hebrew with one difference: the latter does not have complete, separate sets
of verb forms for the two genres.18
Of the four text-types admitted by D., my category of ‘discourse’ comprises
the Procedural, the Behavioural, and the Expository; it does not comprise the
Narrative. These three categories use basically the same verb forms but with different frequency. No verb forms are exclusively found in any of them although,
of course, weqatal predominates in Procedural/Predictive, the volitive (‘command’) forms in Behavioural/Hortatory, and the verbless clause in Expository
text-type. Conversely, these three categories, taken together, do show distinctive,
exclusive verb forms against historical narrative. This opposition is significant
with respect to the verb forms used in the texts. As a consequence, it is not correct to subsume the four text-types under the same umbrella of ‘discourse.’ A
suitable umbrella for all the four text-types is ‘communication,’ or ‘communication process.’ In sum, two genres are justified in terms of text-linguistic syntax:
direct speech and historical narrative; the four text-types may be justified in terms
of higher, literary analysis.
§4c Verbal System in Direct Speech. Direct speech is much more complex
than historical narrative. The reason is that while the latter only uses the axis
of the past, the first uses all the three axes available – past, present and future
– as the main line of communication (Syntax §§52-53). As a consequence,
historical narrative has one verb form only for the main line, i.e. wayyiqtol,
while the other verb forms and constructions are used for the secondary line
(‘off line’). Direct speech, on the contrary, has a larger choice of verb forms
for the main line of communication according to the three temporal axes:
- in the axis of the present – simple nominal (verbless) clause;
- in the axis of the past – (clause-initial) qatal, or x-qatal, and wayyiqtol as
continuation form;
- in the axis of the future – indicative x-yiqtol as the initial verb form, and
weqatal as continuation form; volitive forms (imperative, cohortative/jussive
yiqtol, and weyiqtol).
The following are the verb forms used in the secondary line of communication:
- in the axis of the present – simple nominal (verbless) clause, volitive forms
in the second place (e.g. jussive x-yiqtol);
18. See my paper, “On the Hebrew Verbal System,” Tables 1-3.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
559
- in the axis of the past – x-qatal (not clause-initial qatal!);
- in the axis of the future – x-yiqtol (not weqatal!).
§4d Volitive versus Non-volitive Forms. With this classification of the verb
forms used in direct speech, all kinds of ‘discursive’ material (i.e. excluding
historical narrative) can be analyzed. Problems do remain in specific cases
especially with the volitive forms. However, I think that the ‘volitional material’ can be analyzed with sufficient confidence by applying the following pattern of volitive forms versus non-volitive forms.19
Volitive forms
(x-) yiqtol
weyiqtol
imperative (or other volitive
forms) → weyiqtol
= ‘do this → in order that
you may …’
versus
versus
versus
versus
Non-volitive forms
x-yiqtol
weqatal
imperative (or other volitive forms)
→ weqatal
= ‘do this → and as a consequence
you will be able to …’
§4e Mixed Genres. Not all the verb forms used are distinctive and exclusive
of one of the genres of the prose – direct speech and historical narrative. In contrast with Neo-Latin languages, Biblical Hebrew shows mixed genres: historical
narrative with ‘discursive’ forms, on the one hand, and direct speech with ‘narrative’ forms, on the other. A historical narrative with much discursive forms can
be called ‘narrative with comment’ (Syntax §83, with 1 Kgs 6 as a typical example),20 and a direct speech with much narrative forms ‘narrative discourse’ (Syntax §§74-76, with Judg. 11:1-28 as a typical example).
These mixed genres show a repeated use of forms that are not distinctive of
the basic genre, as simple nominal (verbless) clause, yiqtol and weqatal in historical narrative, on the one hand, and wayyiqtol in direct speech, on the other. It
is important to note that non-distinctive forms are used differently from their basic
genres. In fact, simple nominal (verbless) clause is a main-line construction in
direct speech while it is off-line (circumstantial) in historical narrative; similarly,
yiqtol and weqatal are main-line forms in direct speech (in the axis of the future)
while they are off-line in historical narrative (they are descriptive or express
duration, habit, in this case); and wayyiqtol begins historical narrative while it is
a continuation form in direct speech (in the axis of the past).21
19. See Syntax §§61-65; and my paper, “A Neglected Point of Hebrew Syntax: Yiqtol and
Position in the Sentence,” LA 37 (1987) 7-19, §1.
20. ‘Narrative with comment’ (in Italian: ‘narrazione commentativa’) is a better designation
than ‘comment in the guise of narrative’ as in the English translation; see Syntax, p. 14.
21. A summary on the use of the verb forms is found in Syntax, Ch. 9.
560
RECENSIONI
It seems that this description of the verbal system in ‘discourse’ cannot be
said to be confused; it is complex and describes the situation in a flexible and
coherent way. The main cause of problems is the poverty of verb forms in
Hebrew. As already mentioned, Neo-Latin languages possess distinctive and
exclusive sets of verb forms and do not show mixed genres.
§5 Examination of Texts – Judges 2. After what has been said, nobody will
expect from D. much syntactic analysis in normal sense; he rather presents
a ‘text-linguistic analysis’ based on the text-types. After a general literary
examination of each text (beginning and end), the clauses are counted; then,
the clauses are described according to the designations used in the four
‘Clines’ presented in pp. 115-116, and the text-types are determined on the
basis of the percentage of the clauses attested; the ‘profile’ of the text is
finally investigated and ‘peaks’ are detected with the help of the off-line
forms.
The first text examined is Judges 2 (p. 124).22 Here I will comment on
certain points of D.’s analysis.
Clause ‘2.18.1’ is said to be ‘Ellipsis’; it is represented as ‘[…]’ on p. 222,
but no explanation is given. This clause is found inside a very interesting (and
intriguing) passage that merits a careful syntactic analysis – Judg. 2:17-19. For
a quick comparison, D.’s numbers identifying each clause are shown in the first
column.23
12.17.1
Even to their judges did they not listen
12.17.2
but they fornicated after other gods
12.17.3
and bowed down to them;
12.17.4
they soon turned aside from the way
12.17.5
in which their fathers had walked
by obeying the commandments of the Lord;
12.17.6
they did not do so.
24
12.18.1-2
And when the Lord had raised up
judges for them,
12.18.3
the Lord used to be with the judge,
W[mev; alø µh,˝yfep]voAla, µg"˝w“
µyrIjea} µyhiløa‘ yrEj}a' Wnz: yKi
µh,˝l; Wwj}T'v]YI˝w"
Ër<D<˝h'Aˆmi rhem' Wrs…
µ˝t…/ba} Wkl]h; rv,a}
hw:hy“AtwOx]mi ["mov]˝li
ˆk´ Wc[…Aalø
hw:hy“ µyqiheAyki˝w“
µyfip]vo µh,˝l;
fpeVo˝h'Aµ[i hw:hy“ hy:h;˝w“
22. The text ‘in Columnar Format’ is found in Appendix 1, pp. 220-222. This text has been
also examined by the present writer in Lettura sintattica §15.
23. The first number indicates the chapter, the second the verse, and the third the
clause. Each line is one sentence. Some clauses are divided into parts because of their
length.
24. As already noted, clause 2.18.1 (‘Ellipsis’) is simply non-existent.
DAWSON
12.18.4
12.18.5
12.19.1
12.19.2
12.19.3
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
561
dY"˝mi µ˝[;yvi/h˝w“
of their enemies all the life of the judge;
fp´/V˝h' ym´y“ lKo µh,˝ybey“ao
for the Lord used to be moved to pity
hw:hy“ µj´N:yIAyKi
by their groaning because of
ynEP]˝mi µ˝t;q;a}N"˝mi
those who afflicted and oppressed them.
µh≤˝yqej}do˝w“ µh,˝yxej}lø
But it used to happen that when the judge died,
fpe/V˝h' t/m˝B] hy:h;˝w“
they used to turn back
Wbvuy:
and behaved worse than their fathers
µ˝t;/ba}˝m´ Wtyjiv]hi˝w“
by going after other gods
µyrIjea} µyhiløa‘ yrEj}aæ tk,l,˝l;
to serve them and to bow down to them;
µh≤˝l; twOj}T'v]hi˝l]˝W µ˝d:b][;˝l]
they did not drop any of their practices
µh,˝ylel]['Mæ˝mi WlyPihi alø
or their stubborn ways.
hv…Q;˝h' µ˝K…r“D"˝mi˝W
and he used to save them from the hand
All the verb forms are off-line. The wayyiqtol in 2.17.3 is not main-line, but
continuation, off-line form because it continues a subordinate qatal clause (Syntax §146:2). This phenomenon, correctly noted by D., is not as surprising as
the following comment might make us to think:
It is 2.17.3 which is the most intriguing—here we have an occurrence of a mainline Narrative clause assigned to a subordinated section. Though this may seem alarmingly out of keeping with my proposed assignment of wc + Prefix forms [i.e.
wayyiqtol] to the main line, this clause is clearly to be considered a continuation of
the previous clause, which in itself is subordinated (p. 130; the rest of the comment
may be dispensed with).
More important is to observe the function of weqatal – a form of direct
speech – in historical narrative. As mentioned above (§4e), it conveys a description, or a custom; I have rendered this aspectual value, that is lacking in
English, by a paraphrase, ‘used to.’ The difference in function from direct
speech in the axis of the future, or ‘Narrative Prediction’ in D.’s terms
(p. 115), where weqatal expresses simple future, is unmistakable. Indeed,
direct speech and historical narrative are significant for the syntax of the
verb. On the contrary, none of the four ‘Clines’ adopted by D. are able to
handle this text.
As signs of this unease with weqatal in historical narrative a couple of
unfortunate remarks by D. may be mentioned. The first concerns 2.17.4 (in
his terms, ‘Asyndetic Suffix clause’) and 2.19.2 (‘Suffix clause with -w
copula’).
In this, and in the preceding category, we have two examples of what Niccacci says
cannot happen (‘The QATAL which has first position in the sentence is distinct from a
second position QATAL. The first kind occurs in discourse [my ‘Reported Speech’] but
never in narrative’ [Syntax, p. 30]). My analysis will have less difficulty explaining this
feature (note 7, p. 125).
562
RECENSIONI
One would observe that, while 2.17.4 is a ‘nude’ qatal, 2.19.2 is a weqatal (i.e.
the ‘inverted’ verb form) – not waw ‘copula’ + qatal,25 because it plays the same
function as the other weqatal forms of the passage (2.18.3-4; 2.19.1 first verb)
and as yiqtol in 2.19.1 (second verb).26 Both qatal and weqatal are off-line forms
in historical narrative, the difference being one of aspect, i.e. repeated versus
single action. The ‘nude’ qatal in 2.17.4 is explained as coordinated to 2.17.2,
and thus contrasting 2.17.1, which is a waw-x-qatal clause; therefore, it is really
a non-initial verb form. The same is true of Wc[…Aalø in 2.17.5, a negated qatal.27
Therefore, what is affirmed in Syntax, p. 30, is not invalidated.
The second unfortunate remark concerns 2.18.4:
On the other hand, I would propose that the material in the longer section, flanking
as it does the single main-line clause ‘and he saved them from the hand of their enemies
all the days of the judge’ (2.18.4), serves to identify the peak event in the section (p. 129).
25. Usually, two functions of weqatal are listed by grammarians: the inverted, or consecuti-
ve form, and the non-inverted, or non-consecutive, form. The first is the one described
above (§4e); it represents the future tense in direct speech and has aspectual value in
historical narrative (custom, repetition, or description). The second is found in historical
narrative with the function of expressing a single action in the past, a phenomenon not fully
explained as yet; see Syntax §158 (ii), pp. 183-186. In his paper, “Weqatal Forms in
Biblical Hebrew Prose: A Discourse-modular Approach,” in: Bergen (ed.), Biblical Hebrew,
50-98, R.E. Longacre proposed a different approach: “The purpose of this paper is to
employ a discourse-modular approach in which (1) the consecution of tenses as such is
reduced to a place of lesser importance; (2) the role of weqatal forms as backbone structures
in predictive, procedural, and instructional discourse is recognized as primary; (3) most of
GKC’s examples of weqatal as frequentative in narrative are explained as embedded
procedural discourse; and (4) most of GKC’s residues in narrative are explained not as consecutive forms but rather as constituting a marker of pivotal/climatic events.” Being the
initiator of the theory of the four text-types adopted by Dawson, Longacre finds it difficult
to explain the function of weqatal in historical narrative. Therefore, he tries two ways: first,
frequentative weqatal in narrative is explained as ‘embedded procedural discourse’; second,
non-frequentative weqatal is taken as a marker of ‘pivotal/climatic events.’ Thus, he bypasses syntax by resorting to higher literary analysis of the ‘profile’ of text. Note how he
plays down the syntactic functions of the verb forms — what he calls ‘the consecution of
tenses.’ Pace Longacre, I have strong reservations against this methodology; see e.g. §2
above (by the end).
26. This yiqtol Wbvuy: constitutes a clause by itself although I did not attribute a special
number to it following Dawson. In fact, this yiqtol is the apodosis of a ‘double sentence’
(called ‘the two-element syntactic construction’ in Syntax, Ch. 8); the protasis is the
prepositional phrase fpe/V˝h' t/m˝B] — same protasis and apodosis are found in Exod. 40:36;
see Syntax §102. The verb form hy:h;˝w“ added in front of the double sentence has a macrosyntactic function: it makes the double sentence verbal and expresses the aspect of custom,
or repetition, characteristic of weqatal in historical narrative. On the macro-syntactic
function of hyh consult Syntax §§28-36; Lettura sintattica §§4.3; 24. Note that in the
secondary line of communication, aspect (i.e. repetition, contemporaneity, anteriority) is
significant for the choice of the verb forms, while in the main line the verb forms are tenses,
and aspect plays no role. See Syntax §133; Lettura sintattica §6.2.
27. See Lettura sintattica, pp. 135-136.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
563
Strangely enough, 2.18.4 is considered ‘the single main-line clause’ of the
passage while it is a weqatal, not a wayyiqtol.28
Other comments of detail can be added. For D., the closing clause in Judg.
2:23, [æv¨/hy“Ady"˝B] µ˝n:t;n“ alø˝w“ “and he did not deliver them in the hand of Joshua” is
‘“a momentous negation” clause’ (p. 125). Syntactically, aløw“ + qatal negates a
wayyiqtol and is coordinated to the preceding clause having a wayyiqtol. This
is the only fact; the rest is speculation.
Dawson illustrates the interplay of main-line, off-line and subordinated forms
in the text with a musical imagery (pp. 127-128). In my system, the main-line
and off-line forms are significant with regard to the flow of the communication
process; they indicate connections and interruptions, respectively. They also
give different relief to the text by alternating foreground and background (in the
sense of H. Weinrich’s Reliefgebung). Without off-line forms the text would be
uniform, poor on information and boring. By using foreground and background
the author organizes information in a meaningful way as to influence the
reader. It is important, therefore, to note and respect the syntactic texture of the
text in order to appreciate the author’s strategy of communication.29
§6. Leviticus 14. Lev. 14, that presents a long series of instructions concerning the ritual cleansing of a leper, is a good example of ‘Narrative Prediction,’ or ‘Procedural’ text. According to the ‘Cline’ of this text-type (p. 115),
weqatal is the main-line form, the rest is off-line in different degrees. This
cline, however, appears to be not flexible enough even to handle a uniform,
strictly ‘Procedural’ text such as Lev. 14. The presence of four simple nominal (verbless) clauses in a total of 81 (p. 134) is enough for D. to posit a different, ‘Expository’ text-type. However, it is only natural that ‘14.2.1’ and
‘14.32.1’ are introduction and conclusion, respectively, and that the two coordinated ‘if’ clauses 14.21.1-2 (hardly ‘existential clauses’ as D. calls them,
p. 132) introduce an alternative situation to which appropriate instructions are
attached – a normal ‘casuistic instruction.’ In brief, the text shifts from the
axis of the present (title, case, symptoms) to the axis of the future (what to do).
Such a text, which shows strings of weqatal forms and describes ‘what to
do,’ can indeed be called ‘Procedural,’ or more generally instructional. On the
contrary, this label is forced in other cases where we have sparse weqatal forms
and/or not a proper procedure or instruction. Indeed, not every weqatal or string
of weqatal is ‘procedural’; besides, no text-type can be taken too rigidly. The
following examination will make clearer my point.
28. In the same paragraph in p. 129, as in the chart of the previous page and elsewhere, a
clause ‘14.5’ is mentioned that does not appear in the text of the Appendix (p. 221);
therefore I was unable to locate it.
29. See on this Lettura sintattica §7.5; and also “Analysis of Biblical Narrative,” and “The
Stele of Mesha and the Bible.”
564
RECENSIONI
A section of Lev. 14 is examined here in order to show how the verbal system proposed in §4 above functions in a concrete text.
14.2.1
14.2.2
14.3.1
14.3.2
14.3.3
14.4.1
14.4.2
14.5.1
14.5.2
14.6.1
14.6.2
14.7.1
14.7.2
14.7.3
14.8.1
14.8.2
14.8.3
14.8.4
14.8.5
14.8.6
14.9.1
[r:xoM]˝h' tr"/T hy<h]Ti tazO
in the day of his cleansing.
/˝tr:h’f; µ/y˝B]
He shall be brought to the priest;
ˆh´Ko˝h'Ala, ab…Wh˝w“
the priest shall go out of the camp;
hn<j}M'˝læ ≈Wj˝miAla, ˆheKo˝h' ax;y:˝w“
the priest shall look at him
ˆheKo˝h' ha;r:˝w“
and behold, the leprous disease has been cured
t['r"X;˝h'A[g"n< aP;r“nI hNEhi˝w“
from the leper,
[æWrX;˝h'Aˆmi
then the priest shall command
ˆheKo˝h' hW:xi˝w“
and shall take for him who is to be cleansed two
µyrIP’xiAyT´v] rh´F'Mi˝l' jqæl;˝w“
living clean birds and cedarwood
zr<a, ≈[´˝w“ t/rhof] t/Yj'
and scarlet stuff and hyssop;
bzOae˝w“ t['læ/t ynIv]˝W
then the priest shall command
ˆheKo˝h' hW:xi˝w“
and shall kill one of the birds
tj;a,˝h; r/PXi˝h'Ata, fjæv;˝w“
in an earthen vessel over running water,
µyYIj' µyImæAl[' cr<j≤AyliK]Ala,
while he shall take the living bird
H˝t;ao jQæyI hY:j'˝hæ rPoXi˝h'Ata,
together with the cedarwood
zr<a≤˝h; ≈[´Ata,˝w“
and the scarlet stuff and the hyssop,
bzOae˝h;Ata,˝w“ t['læ/T˝h' ynIv]Ata,˝w“
and shall dip them and the living bird
hY:j'˝h' rPoXi˝h' ta´˝w“ µ˝t;/a lb'f;˝w“
in the blood of the bird that was killed
hf;juV]˝h' rPoXi˝h' µd"˝B]
over the running water;
µyYIj'˝h' µyIMæ˝h' l[æ
he shall sprinkle it seven times upon him
rh´F'Mi˝h' l[æ hZ:hi˝w“
who is to be cleansed of leprosy;
µymi[;P] [b'v, t['r"X;˝h'Aˆmi
then he shall pronounce him clean,
/˝rh}fi˝w“
and shall let the living bird go
hY:j'˝hæ rPoXi˝h'Ata, jLævi˝w“
into the open field;
hd<C;˝h' ynEP]Al['
the one who is to be cleansed shall wash his clothes, w˝yd:g:B]Ata, rheF'Mi˝h' sB,ki˝w“
shave off all his hair,
/˝r[;c]AlK;Ata, jLægI˝w“
and bathe himself in water,
µyIM'˝B' ≈jær:˝w“
and he shall be clean.
rhef;˝w“
Only after that he shall come into the camp,
hn<j}M'˝hæAla, a/by: rj'a'˝w“
but shall dwell outside his tent seven days; µymiy: t['b]vi /˝lh’a;˝l] ≈Wj˝mi bv'y:˝w“
then on the seventh day
y[iybiV]˝h' µ/Y˝b' hy:h;˝w“
This shall be the law of the leper
DAWSON
14.9.2
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
he shall shave all his hair – his head,
his beard and his eyebrows –
14.9.3
literally all his hair shall he shave;
14.9.4
he shall wash his clothes,
14.9.5
and bathe his body in water,
14.9.6
and he shall be clean.
565
/˝varoAta, /˝r[;c]AlK;Ata, jLæg"y“
w˝yn:y[e tBoG" tae˝w“ /˝nq;z“Ata,˝w“
j"L´g"y“ /˝r[;c]AlK;Ata,˝w“
w˝yd:g:B]Ata, sB≤ki˝w“
µyIMæ˝B' /˝rc;B]Ata, ≈jær:˝w“
rh´f;˝w“
14.2.1 is an indicative waw-x-yiqtol construction beginning the main line in
the future axis (§4c). This line continues with a chain of weqatal. Note that
(waw-) x-yiqtol30 is the main-line form found at the beginning of direct speech
in the axis of the future, while weqatal is the continuation form. The chain of
weqatal is not interrupted unless a change in the level of communication is to be
brought about.31 This is the case in 14.6.1,32 14.8.5 and 14.9.3 (the case of 14.9.2
is different; see next paragraph). As a consequence, a (waw-) x-yiqtol in the
course of a direct speech is a off-line verb form. Its function is to show that the
following information does not stand on the same text-linguistic level with the
one with weqatal; in other words, it conveys background information to the
preceding foreground weqatal. Now, in 14.6.1 the reason for using waw-x-yiqtol
instead of weqatal is to convey the fate of the second bird in comparison with
the fate of the first one – not as an item separate from, and successive to, it. In
14.8.5 waw-x-yiqtol has the function of stressing the ‘x’ element (‘only after
that’); similarly in 14.9.3 (‘literally all his hair’), after that the preceding apposition phrase (‘his head, his beard and his eyebrows’) specified the first instruction having the same content (‘he shall shave all his hair’).
In 14.9.2 yiqtol is the apodosis, and the preceding prepositional phrase (‘on
the seventh day’) is the protasis. As in Judg. 2:19 (§5 above), hy:h;˝w“ introduces
a ‘double sentence’ and, being a weqatal form, places it in the main line of
communication in the future axis. There is no reason for analyzing the apodosis
30. Waw is an optional element in this construction; it has no syntactic significance. What
is significant is the position of the finite verb in the sentence. The same applies to (waw-)
x-qatal. Consult Syntax §113.
31. The result is a tense shift from foreground weqatal to background waw-x-yiqtol, a tense
shift parallel to the one from foreground wayyiqtol to background waw-x-qatal; the first is
characteristic of direct speech, the second of historical narrative; see Syntax §11. On the
various reasons for breaking the narrative chain of wayyiqtol consult Syntax §§39-49; by
and large, they also apply to the discursive chain of weqatal.
32. The accusative pronoun H˝t;ao might be considered a ‘resumptive pronoun’ and the
preceding hY:j'˝hæ rPoXi˝h'Ata, a casus pendens; see Syntax §124, and Lettura sintattica §4.6 on
the criteria to identify a casus pendens. However, it seems preferable to think that H˝t;ao is
expressed, though not needed, in order to add a second object; literally, “he shall take the
living bird — it and the cedarwood” etc.
566
RECENSIONI
(yiqtol) as an off-line form (see D.’s chart, p. 133) except for an undisputed
fidelity to the theoretical ‘Narrative Prediction Cline’ of p. 115.33 Because of a
similar fidelity, the hNEhi clause in 14.3.3 (‘the priest shall look at him, and behold, the leprous disease has been cured’) is classified as off-line form (see
chart, p.133).
On the interplay between main-line and off-line forms D. writes as follows:
[The wc + Suffix forms, i.e. weqatal] tend to occur in strings. Where these strings are
broken by non-subordinated off-line clauses, we can propose paragraph divisions, for
example: 14.3.3 (…), 14.6.1 (…); or peak moments in the text, as in the following sequence 14.8.5 [etc. until 14.9.6]. The proposal that these ‘off-line’ clauses mark the peak
events of the episode offers a reasonable explanation for the fact that the first shaving of
hair is described with wc + Suffix (… 14.8.1 [in fact, 14.8.2]), while the second is encoded with the off-line ‘direct object + Prefix’ clause (14.9.3). (…)
The off-line clauses used to mark paragraph division tend to occur singly; those which
mark peak sections tend to occur in collections, and form clusters around single mainline clauses, or short strings thereof.
This profile is so similar in nature to that of the Judges 2, Narrative History, text that
it is difficult to understand how the existence of a Procedural/Instructional text-type has
been overlooked by contemporary text-linguists (pp. 134-135; italics in the original).
It is not easy to make sense of these statements. One wonders how the hNEhi
clause in 14.3.3 can be a paragraph division, and whether the division is to be
put before or after it. As a matter of fact, the hNEhi clause is strictly connected to
the preceding verb of ‘seeing,’ on the one hand; on the other hand, the clause
following it serves to instruct the priest in the case just described (i.e. in case
the leper has been cured). Similarly, the off-line clause in 14.6.1 is connected
to the previous clause as background to foreground. As a result, it seems impossible to see 14.3.3 and 14.6.1 as paragraph divisions.
Second, the distinction between off-line clauses marking paragraph division, that occur singly, and those marking peak sections, that occur in collections, is a principle hard to verify. Here, for instance, of the eight clauses
contained in 14.8.5-14.9.6, only the first contains an off-line form (waw-xyiqtol), while yiqtol in 14.9.2 is apodosis, as already mentioned. Moreover,
among the eight clauses, one is with verb hyh, that is otherwise taken as a paragraph division marker by D.
Third, it is difficult see how the ‘profile’ of Leviticus 14 is ‘so similar’ to
that of Judges 2. Here as in other similar occasions, D. makes ‘text-linguistic’
statements without further explanations so that it is easy to miss his point. One
gets the impression that his observations are rather at random and ad hoc; they
contain more description than evaluation.
§7. Leviticus 6-7. There is not much to learn from the very sketchy examination
of Lev. 6-7 (less than two pages). As D. notes,
33. In the apodosis yiqtol, weqatal and x-yiqtol exchange freely in the axis of the future;
see Syntax §113; Lettura sintattica §§4.2-4.4.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
567
The material is set into a Narrative History framework, where it is recounted that
Moses was commanded by God to command the people (and here we have the Hortatory
text-type, which uses command forms, and wc + Suffix clauses for the main line) to do
certain things. Each of these units is introduced by a verbless clause beginning with taz
(p. 136).
It is surprising to read that the Hortatory text-type uses ‘command forms,
and wc + Suffix clauses for the main line.’ First, the only ‘command forms’ are
the three imperative (6:2; 6:18; 7:23); second, the ‘wc + Suffix clause,’ i.e.
weqatal, is not a main-line form but ‘Band 3: Results / Consequences (Motivation)’ according to the ‘Hortatory Cline’ on p. 116.
The structure of Lev. 6-7 can be outlined as follows:
(1) ‘The Lord spoke to Moses saying’
(2) ‘Command to (Aharon and his sons; or to the Israelites) saying’
(3) ‘This is the law of the (holocaust; offering etc.)…’
(4) Instruction; main section.
Wayyiqtol is used in (1), imperative in (2) and simple nominal (verbless)
clause in (3). The instruction (4) begins with indicative x-yiqtol,34 continues
with weqatal for the main line and x-yiqtol for the secondary line (expressing
background information, or putting emphasis on an ‘x’ element of the
sentence). Sometimes, (3) is missing. Even without doing a complete examination of Lev. 6-7, one can say that it behaves according to normal syntax. The
same applies to other ritual material in Leviticus.
§8. Parallel Pericopes from Exodus. Parallel texts are normally informative because they are favorite occasions to learn the potentialities of a language in expressing the same thing with different constructions.35 This is particularly true
of the parallel pericopes from Exod. 25-30 and 35-40. They are called by D. ‘first
account’ and ‘second account,’ respectively, but Ch. 25-31 are instruction by God
and Ch. 35-40 execution of the same works by the Israelites. What is informative is the repetition of the same text first as instruction, afterwards as
execution. These texts clearly show the syntactic structures characteristic of direct speech (instruction) and of historical narrative (execution).
In his examination of these chapters, D. is interested, as usual, in identifying
the text-types, boundaries in the text, peaks etc., while syntactic analysis is done
34. With infinitive absolute in 6:7; consult GK §113 cc, gg.
35. Parallel texts of the Bible are conveniently arranged in synoptic columns in a useful
book by A. Bendavid, Parallels in the Bible, Jerusalem 1972. Besides these texts from
Exodus, partially studied in Syntax §§58-59, parallel accounts in 2 Samuel 5-7 and 1
Chronicles 11ff. are fully examined in Lettura sintattica §§21-23. Note that in the table of
Syntax, p. 88, one should read ‘Instruction’ instead of ‘Command’ in the first column,
because weqatal is a non-volitive form; therefore, it does not convey commands but
instructions. As mentioned above (§4d), the volitive counterpart of weqatal is weyiqtol.
568
RECENSIONI
by percentage. I will only make some remarks on syntax. With regard to Exod.
36 he writes:
There is a significant break in the pericope between vv. 13 and 14, which is marked by
the pericope’s only wc + Prefix clause with hyh (36.13.3—dja ˆkvmh yhyw); this clause is
followed by a clear topic shift (from the curtains of linen to the curtains of goats’ hair), and
can therefore be said clearly to mark a paragraph boundary. This is consistent with the function of such hyh clauses in other Narrative History texts (cf. Judg. 2) (pp. 139-140).
If we look at the parallel passages 36:13-14 and 26:6-7, we find the following correspondence of verb forms for the same items:
Execution, wayyiqtol
(Exod. 36:13) ‘and thus the
sanctuary became one thing,’
with yhiy“w"
(36:14) ‘and he made,’ c['Y"w"
versus
versus
versus
Instruction, weqatal
(26:6) ‘and thus the sanctuary will
become one thing,’
with hy:h;w“
(26:7) ‘and you shall make,’ t;yci[;w“
Both wayyiqtol (execution) and weqatal (instruction) are a link of a long
chain of identical verb forms. Syntactically, nothing marks a ‘paragraph
boundary.’ Only the items change, and this happens even where no form of hyh
appears in the text. The function of hyh as a ‘paragraph boundary’ depends,
then, on a given semantic conviction, which I do not share but I cannot
disprove. In any case, semantics cannot overrule syntax (see §1e above).
Before leaving the subject, I wish to mention the main correspondences
between the verb forms of the instruction and those of the execution as shown
in Syntax §§58-60:
- weqatal in the instruction becomes wayyiqtol in the execution for a single
action;
- weqatal and x-yiqtol in the instruction are preserved in the execution for a
repeated action or description;
- initial indicative x-yiqtol also becomes wayyiqtol;
- ‘emphatic’ x-yiqtol (emphasizing the ‘x’ element) becomes ‘emphatic’ xqatal (with the same function);
- simple nominal (verbless) clauses remain unchanged, but their temporal value
changes: present tense in the instruction, and imperfect in the execution.
These correspondences fit well into the verbal system outlined above
(§4). First, wayyiqtol is characteristic of historical narrative and weqatal of direct speech; both appear in strings. Second, x-yiqtol and x-qatal are emphatic,
or marked, constructions with an opposition of tenses: future in direct speech and
past in historical narrative, respectively. Third, simple nominal (verbless) clauses
are used in both genres but with a different temporal values: present in direct
speech and imperfect (i.e. ‘present in the past’) in historical narrative, respectively.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
569
On Exod. 38:9-20 // 27:9-19 D. writes as follows.
The exceptional feature of this pericope is that these [‘wc + the appropriate conjugation’ clause, i.e. wayyiqtol and weqatal] are the only clauses with finite verbs; all others
are verbless clauses. (…)36 These texts are clearly neither Narrative History (or Procedural/Lab Report) nor Procedural/Instructional; following clues from their semantic content and their macro-structure, we are lead to conclude that we have here another instance
of an embedded Expository text (…) (p. 150).
These remarks reflect a confused idea of the structure of the texts. This
structure is very simple:
- (1) ‘You shall do (this and this),’ in the instruction; and ‘He did (this and
this),’ in the execution;
- (2) Description of the thing to be done, in the instruction, or done, in the
execution.
In (1), weqatal is mostly used in the instruction, wayyiqtol in the
execution. The description in (2) is done by x-yiqtol clauses or by simple nominal
(verbless) clauses. Both constructions have a future temporal value in the instruction – x-yiqtol in itself, the simple nominal (verbless) clause for the fact of appearing in a future context indicated by weqatal. In the execution, x-yiqtol becomes
x-qatal – except when a frequentative meaning is implied; in this case, x-yiqtol remains unchanged, and so does the simple nominal (verbless) clause; however, their
temporal value changes: future in direct speech, past in historical narrative.
A consequence of this is that Exod. 38:9-20 // 27:9-19 do not show any
exceptional features at all. Another consequence is that none of D.’s text-types
applies here simply because none of them explains all the elements of the
text. The rigidity of the text-types approach is again visible, as well as the need
for distinguishing direct speech (instruction) from historical narrative
(execution). In fact, in order to handle these two genres together, D. had envisaged a strange text-type called ‘Procedural/Lab Report’ (pp. 146-147). However, he is forced to dismiss this genre here because the percentage of
characteristic verb forms (weqatal and wayyiqtol) is minimal, and the percentage is a basic criterion for him. D. finally decides to identify Exod. 38:9-20 /
/ 27:9-19 as ‘embedded Expository text.’ One wonders who will believe him.
Before drawing his conclusions, D. makes some methodological reflections
that merit attention:
Our data here present no conclusive evidence with regard either to the text-type identification of this ‘Historical’ texts or to the question of whether the two text-types under
discussion [i.e. ‘Narrative History text-type’ and ‘Procedural/Lab Report text-type’] are
differentiated in the surface structure of Classical Hebrew. (…)
We may proceed in spite of this insecurity, however, to gain as much ground as we
can at this early stage in our description, for little in the way of further text-linguistic
36. I skip a passage on the participles of this pericope because it hardly adds anything to
our knowledge.
570
RECENSIONI
description in this volume will be hindered by the relative insecurity of these particular
observations (p. 149).
The need for a larger data-base is frequently voiced by D. In itself, this claim
is certainly correct. The problem is that without good criteria the examination
of more data will not help, and percentage is not a good criterion, nor are the
four text-types. As the reader has recognized by now, the kind of analysis done
by D. is basically a description of Biblical texts from the perspective of the texttypes. It is only logical that this kind of examination is not complete until all
the texts are examined. Faced with problems for lack of syntactic criteria, from
time to time D. professes a kind of ‘eschatological’ hope that more texts will,
eventually, produce more conclusive results (see also §10 below).
A text-linguistic analysis based on syntax can, on the contrary, produce firm
results even if not all the Biblical texts are examined. In fact, it looks at the
function of the verb forms in themselves and in relationship to one another in
the framework of a comprehensive verbal system. Such functions are the same
in all the possible texts and do not depend at all on the identification of the
different text-types. For this reason, already in the first draft of Sintassi in 1986
I dared to affirm that while a scrutiny of a wider selection of texts might contribute further refinements, I did not envisage major modifications. Curiously
enough, D. who criticizes this statement (p. 39), expresses something similar
himself as he writes,
Owing to the small amount of data currently reviewed, I offer these [conclusions] as
a tentative working hypothesis, although I do not believe they will require much alteration as more data are processed (note 56, pp. 150-151; italics added).
§9. Jephthah. The intention of D.’s examination of this narrative is clearly stated
in the following quotation:
My main purpose, as I turn to the Jephthah story, is to underline a principle which
will be received with skepticism by some hebraists, and which, therefore, will require
more thorough explanation. The principle is this: Features that are characteristic of specific text-types will be found in material of that text-type, whether in Reported Speech
sections or not.
To this end we will look to the non-subordinated narrative, and compare it to five
Reported Speech sections of the Jephthah story. Here I will be confronting directly
Niccacci’s thoughts on this passage, for he comes to very different conclusions from my
own (p. 154).
The subject under discussion is what I called the ‘narrative discourse,’ or
‘oral narrative’ (§4a above). Its difference from historical narrative is
double. On the one hand, oral narrative is done from the perspective of the
speaker and uses, besides the third, also the first and the second person, while
historical narrative is done by a third party, the historian, and uses the third
person only. On the other hand, the beginning of the main line of communication is marked by a different verb forms: (clause-initial) qatal or x-qatal in oral
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
571
narrative, wayyiqtol in historical narrative; however, in the course of the narrative the two genres use the same verb forms: wayyiqtol for the main line, and
waw-x-qatal for the secondary line (expressing antecedent, or background
information). This similarity is due to the fact that Biblical Hebrew, unlike NeoLatin languages, does not possess a complete set of distinctive verb forms for
the two genres.
Dawson is uncompromisingly opposed to this idea because, of course, the
distinction of direct speech and historical narrative undermines the basis of his
theory. The whole Ch. 5 of his dissertation is a hard itinerary through Reported
Speech sections with this intention in mind.
§9a Judg. 11:4-5. The analysis of the Jephthah story (Judg. 10:6-12:7) is
done in two stages; first, the historical narrative outside the Reported Speech
is investigated, then the direct speech. The historical narrative is outlined in a
very sketchy way. Moreover, from the ‘macrosyntactic clues (with minimal
reference to other [e.g. semantic] clues)’ presented on p. 157, it is not always
clear which clauses are referred to as ‘off-line clauses at the beginning of a
section’ or ‘at the end of a section’ (p. 158). D. operates with the criteria we
have already discussed, e.g. the negated verb forms and the hyh clauses are
considered off-line constructions indicating the boundaries of the different
sections. I do not need to repeat my reservations about the syntactic status of
both the negated verb forms (§3 above) and the hyh clauses (§1e above).
It is instructing to observe the function of two yhyw forms in Judg. 11:4-5.
11.4.1
It happened after a certain time
11.4.2
that the Ammonites started war against Israel.
11.5.1
And when the Ammonites had started war
against Israel,
11.5.2
the elders of Gilead went to bring
Jephthah from the land of Tob.
µymiY:˝mi yhiy“˝w"
la´r:c]yIAµ[i ˆ/M['AynEb] Wmj}L;YI˝w"
ˆ/M['AynEb] Wmj}l]nIArv,a}˝K' yhiy“˝w"
laer:c]yIAµ[i
tj'qæ˝l; d[;l]gI ynEq]zI Wkl]YE˝w"
b/f ≈r<a≤˝me jT…p]yIAta,
Both yhiy“˝w" forms are ‘macrosyntactic markers’ because they introduce a double sentence composed of protasis and apodosis (§1e above). In 11:4, ‘after a
certain time’ (a prepositional phrase) is the protasis, and ‘the Ammonites started
war’ (a wayyiqtol clause) is the apodosis; in 11:5, the protasis is ‘when the
Ammonites had started war’ (a subordinated rv,a}˝K' + qatal clause), and the
apodosis ‘the elders of Gilead went’ (again a wayyiqtol clause). Note that both
these patterns of double sentence are also attested without a preceding yhiy“˝w";37 for
the first pattern, i.e. prepositional phrase (protasis) – wayyiqtol (apodosis) see
Syntax §103, and for the second pattern, i.e. rv,a}˝K' (or another subordinating
37. Other cases of µymiY:˝mi
yhiy“˝w" are Josh. 23:1 and Judg. 15:1; cf. 2 Chron. 21:19. Initial µymiY:˝mi
(without yhiy“˝w") is found in Judg. 11:40; cf. 1 Chron. 17:10.
572
RECENSIONI
conjunction) + qatal (protasis) – wayyiqtol (apodosis) see Syntax §§98 and
101. This fact means that yhiy“˝w" is not part of the sentence grammatically. It has
a syntactic function, however: it makes the double sentence verbal. It also has
a ‘macrosyntactic’ function: it makes the double sentence a main-line construction because of the very fact of being a wayyiqtol.
This syntactic analysis is, on the one hand, an indirect proof against the
function of hyh as a ‘paragraph boundary’; in fact, for this function a nominal
sentence would be used without any form of hyh.38 On the other hand, from a
semantic point of view alone, it is hard to convince anybody that, e.g., yhiy“˝w" in
11.5.1 is an off-line form as it picks up the news of the war given in 11.4.2.
Dawson’s analysis goes on only interested in paragraph boundaries, and real
syntactic problems remain untouched (e.g. 11:29). On p. 158, his conclusion
concerning the pattern of the text-type is unverifiable for lack of precision. He
writes:
These clauses have a distribution similar to those we looked at in Judges 2; that is,
those which occur singly appear to indicate minor paragraph breaks; those that occur in
larger blocks appear to indicate a major break, or a peak in the episode (p. 158).
In addition to the lack of syntactic criteria,39 the lack of precise comparison
of the texts involved is frustrating because similarities are claimed rather than
demonstrated.40
§9b ‘Narrative History in Reported Speech’. From p. 164 on, D. examines
the ‘Narrative History in Reported Speech’ in greater detail. This topic constitutes a major casus belli that is mentioned several times, but the suspense about
the solution intended by D. remains high until the very end. Upon comparing
the more important passages, D.’s stand appears to vacillate a bit. He writes:
38. Nominal clauses, both simple (verbless) and with a finite verb in the second place, are
devices interrupting the main line of communication in historical narrative; they are also
used in the closure of a text (see Ruth 1:22-23 and 4:18-22 examined in: “Syntactic Analysis
of Ruth”).
39. This is also apparent in the way Dawson expresses himself, e.g.: ‘It is not inconceivable’; ‘I would suggest’; ‘some conclusions can be ventured’;‘I would like to make
another tentative observation’; ‘I am tempted to propose,’ and the like. One may wonder
whether this is only a sign of commendable humility in expounding his own ideas. A
similar remark on off-line clauses marking paragraph division or peak was made during the
examination of Lev. 14 (p. 134); even there, the remark is flawed by incorrect syntactic
analysis (see my comment in §6 above).
40. In a rare case of a precise reference, we find an unfortunate parallel. On p. 162 Dawson
writes: “we have seen that single main-line clauses flanked by off-line clauses tend to stand
out as the peak clause of a unit;” and in note 19 he adds: “For example, at Judg. 2.18.4; we
have seen similar features in other text-types as well, in our examinations of Leviticus and
Exodus texts; see Ch. 4 above.” Now, while the reference to Ch. 4 is vague, the one to the
passage from Judges is precise but inaccurate because, as observed above (§5), the clause
2.18.4 is a weqatal, that is a off-line, not a main-line, form.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
573
I found that, yes, what Niccacci calls ‘narrative discourse’ is indeed distinctive, but
that this is traceable to factors related to the embedding of a unit or Reported speech in
the Speech Formula clause, rather than it being a distinctive type of text in its own right. In
this case, I had distrusted Niccacci’s observations, while they were accurate, and yet
found a different explanation which, I believe, describes the data more accurately and
elegantly than his (p. 121; italics in the original).
The most significant point here is that there is nothing out of the ordinary about this
Narrative History text. It opens, as do many Narrative History texts, with the same stagesetting device of a hyh clause; its boundaries are marked by the same sort of features as
we have noted in other Narrative History texts. This begins to call into doubt the conclusions voiced by Niccacci on Judges 11: that somehow ‘narrative discourse’ has a different shape to it from narrative proper (p. 166; italics in the original).
Dawson’s solution is finally given at p. 175; but before discussing it, I wish
to comment on his examination of the texts. In his view, the ‘Narrative History
text’ in Judg. 12:2-3 “opens, as do many Narrative History texts, with the stagesetting device of a hyh clause” (p. 166). In a footnote 26 he adds:
We will see the same device employed in the book of Ruth on more than one
occasion. Logic as well gives us a rationale for such a function and device: do we not say
that a story has to ‘start somewhere?’ We expect a story to start with some kind of anchor
into space and time—this kind of anchor is provided by such things as Verbless, and hyh
clauses—and if such a setting slot were filled by an embedded text of more than one
clause in length, we would expect it to be an Expository one, which has as its main line
just such clauses (note 26, p. 166).
One would remark, first, that simple nominal (verbless) and hyh clauses are
not interchangeable because, as R. Bartelmus has shown,41 verb forms of hyh
occur to express a reference to the past (wayyiqtol, qatal) and to the future (yiqtol,
weqatal), while for a reference to the present, hyh does not appear but the simple
nominal (verbless) clause is used instead. Second, since D. makes no distinction between different verb forms of hyh, we can ask: is there any difference
between qatal in Judg. 12:2 and wayyiqtol in Ruth 1:1-2? Third, the ‘stagesetting’ clauses studied in Syntax §§16-19 (and attested in real texts, not merely
‘expected’) contain, besides the simple nominal (verbless) clauses that D. would
‘expect’ in an Expository text-type, also waw-x-qatal, waw-x-yiqtol, and weqatal
of any root (not only hyh). This means that the ‘stage-setting clauses’ (called
‘antecedent’ constructions in Syntax) simply convey, in the secondary line of
communication, the setting of the following story, and this does not correspond
to the Expository text-type described by D. Fourth, there are examples of
(clause-initial) qatal or x-qatal at the beginning of an oral narrative, corresponding to wayyiqtol in historical narrative, both used for the same event, first narrated by the historian, then reported orally.42
41. See bibliography and discussion in my paper, “Sullo stato sintattico del verbo häyâ.”
42. See §4a above, and the examination of Ruth 3:15 versus 3:17 and 4:13 versus 4:17 in:
“Syntactic Analysis of Ruth.” In Syntax §§22-23 about twenty such cases are listed.
574
RECENSIONI
On this basis, I feel justified to affirm that Judg. 12:2 and, say, Job 1:1 show
clauses that are superficially identical but syntactically different.
Judg. 12:2 I and my people had a great feud
with the Ammonites.
Job 1:1
Now, there was a man in the land of Uz.
y˝Mi['˝w“ ynIa} ytiyyIh; byrI vyai
daom] ˆ/M['AynEb]˝W
≈W[A≈r<a≤˝b] hy:h; vyai
Indeed, the function of the two texts is different. In Judg. 12:2, Jephthah is
informing orally on the war against the Ammonites described in the previous
chapter, and therefore a stage-setting function of qatal is excluded; on the contrary, this function is clear in Job 1:1, which provides antecedent information
before the beginning of the story.43 The two texts are, therefore, not comparable. Qatal at the beginning of an oral narrative is main-line form.
§9c Judg. 10:10
10.10.1
10.10.2
10.10.3
10.10.4
rmoa˝le hw:hy“Ala, laer:c]yI ynEB] Wq[}z“YI˝w"
‘We have sinned against you,
˽l; Wnaf;j;
precisely because we have forsaken our God
Wn˝yheløa‘Ata, Wnb]z"[; yki˝w“
and have served the Baals.’
µyli[;B]˝h'Ata, dbo[}N"˝w"
The Israelites cried to the Lord, saying,
Dawson comments as follows:
10.10.3-4 is an embedded Narrative History text, filling the Direct Object slot in the
speech formula. The second clause in this embedded text begins with a wc + Prefix form
[i.e. wayyiqtol], but the first begins wit yk, which must be clause-initial; so the verb form
in this first clause (and therefore the clause-type) must accommodate it—this is the only
reason we need to seek for the Suffix clause replacing a wc + Prefix clause (p. 167; italics
in the original).
In note 29 he adds:
We are, of course, speaking of non-entities; there is no ‘wc + Prefix clause’, and
therefore we can only posit that it ‘would otherwise have been there’. It is clear, however, that if it ‘wanted’ to be there, it nevertheless could not be there, owing to the restrictions placed on the clause by the subordinating conjunction (p. 167).
Dawson first affirms, then disproves his affirmation. The result is that one
is left without a solution. On the one hand, D. argues as if the initial qatal
(10.10.2) was not there; on the other hand, he labels the clauses 10.10.3-4 as
Narrative History text because they contain a wayyiqtol. It seems clear that,
first, D.’s theory is incapable of handling this text; second, the quest for texttypes is misplaced here. With a rigid theory of text-types, and without a clear
syntax of the clause, any text-linguistic analysis is impossible.
43. The antecedent information extends throughout vv. 1-5 and develops into a short narra-
tive; see Syntax §90.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
575
In my system, the analysis of Judg. 10:10 is simple. Clause 10.10.2 contains an initial, main-line qatal in direct speech; 10.10.3 is a subordinated clause
with a causal function, and 10.10.4 is a continuation wayyiqtol having the same
function as the causal clause, i.e. it is not a main-line wayyiqtol (see Judg. 2.17.3
examined in §5 above). By comparing other, almost identical passages, e.g. 1
Sam. 12:10 and Num. 21:17, it is clear that the waw in yKiw“ (10.10.3) is
epexegetical or emphatic; therefore, I have translated it with ‘precisely.’ Another
clause-initial Wnaf…j; is found in Judg. 10:15.
§9d Judg. 10:11-14
10.11.1
10.11.2
10.12.1
10.12.2
10.12.3
10.13.1
10.13.2
10.13.3
10.14.1
10.14.2
10.14.3
10.14.4
la´r:c]yI ynEB]Ala, hw:hy“ rm,aYo˝w"
‘Is it not that when the Egyptians,
µyIr"x]Mi˝mi alø˝h}
the Amorites, the Ammonites
ˆ/M[' ynEB]Aˆmi˝W yrImoa‘˝h…Aˆmi˝W
and the Philistines, on the one hand,
µyTiv]liP]Aˆmi˝W
and the Sidonians, the Amalekites
qlem;[}˝w" µynI/dyxi˝w“
and the Maonites, on the other, oppressed you,
µk,˝t]a, Wxj}l; ˆ/[m;˝W
and you cried to me,
y˝l'ae Wq[}x]Ti˝w"
I saved you from their hand?
µ˝d:Y:˝mi µk,˝t]a, h[;yvi/a˝w:
You, on your part, have forsaken me
y˝ti/a µT≤b]z"[} µT,a'˝w“
and served other gods;
µyrIjea} µyhiløa‘ Wdb]['T'˝w"
therefore I will save you no more.
µk≤˝t]a, ["yvi/h˝l] πysi/aAalø ˆk´˝l;
Go
Wkl]
and cry to the gods
µyhiløa‘˝h…Ala, Wq[}z"˝w“
whom you have chosen;
µ˝B; µT≤r“j'B] rv,a}
let them save you in the time of your distress.’ µk,˝t]r"x; t[´˝B] µk≤˝l; W[yvi/y hM;h´
The Lord said to the Israelites,
I doubt that D.’s analysis of this ‘rather complex’ text (p. 168) has anything
to recommend itself. He writes:
YHWH’s response begins with a question (an elliptical one, at that). (…)
This Narrative History text is introduced by a Suffix clause (providing, along with
the rhetorical question preceding it, a setting for the text that follows), and a second episode
of it is signalled by another of the same [i.e. 10.13.1]. This text presents us with no
surprises (pp. 168; 169).
A different analysis recommends itself. Units 10.11.2 and 10.12.1 are one
sentence type x-qatal introduced by alø˝h}. The names of the peoples in 10.11.210.12.1 are linked according to the following pattern: -w … ˆmi ‘from … to’;44
44. The pattern -w … ˆmi ‘from … to’ is equivalent to d['w“ … ˆmi; see Josh. 23:4; 2 Sam. 5:9; 2
Kgs 10:33 etc.
576
RECENSIONI
therefore, I translated, ‘on the one hand … on the other.’ Since the sentence is
complete without it, the particle alø˝h} has no grammatical function but does have
a pragmatic, or illocutory, function. The sentence is double, composed of an xqatal (10.11.2-10.12.1) and a continuation wayyiqtol (10.12.2) as the protasis,
and of wayyiqtol as the apodosis (10.12.3).45 The following clause (10.13.1) is
a waw-x-qatal with the function of indicating a contrast with the preceding one,46
i.e. the response of the people is in contrast with God’s salvation. This off-line
waw-x-qatal clause is followed by another continuation wayyiqtol (10.13.2). Because it comes after volitive clauses (10.14.1-2, two coordinated imperative
forms), the x-yiqtol clause in 10.14.4 is also volitive (jussive),47 and the ‘x’
element in front of the yiqtol bears emphasis as the speech situation shows very
clearly: ‘I will save you no more … let them save you.’
§9e Judg. 11:7
11.7.1
But Jephthah said to the elders of Gilead,
11.7.2
‘Did you not hate me,
11.7.3
and drive me out of my father’s house?
11.7.4
Why then have you come to me now
11.7.5
when you are in distress?’
d[;l]gI ynEq]zI˝l] jT;p]yI rm,aYo˝w"
y˝ti/a µt≤anEc] µT,a' alø˝h}
y˝bia; tyB´˝mi ynI˝Wvr“g:T]˝w"
hT;[' y˝l'ae µt≤aB; ["WDm'˝W
µk,˝l; rx' rv,a}˝K'
After a strange remark where, in his words, he ‘toys’ with the rhetorical
question and compares it to the infinitive absolute (sic), D. concludes that 11.7.2
is “in any case a simple statement of a past event” (p. 171); however, according
to his theory, qatal is ‘Band 2: Backgrounded actions’ (p. 115). A few lines
later in the same page D. betrays his hesitation between theory and common
sense as he writes:
Thus, I consider 11.7.2 to be a Narrative History clause, turned inside out to express
annoyance, or superiority, or some other such nuance. It serves the purpose of introducing
the historical setting (and first event) of a brief Narrative History text (p. 171; italics added).
In my understanding, to say that the same qatal introduces ‘the historical
setting’ and also ‘first event’ is self-contradictory; D. is probably trying to solve
the contrast between theory (‘historical setting’) and common sense (‘first event’)
concerning the function of qatal in oral narrative.
45. For an x-qatal clause functioning as protasis see Syntax §105. The apodosis shows, in
the axis of the past, wayyiqtol, qatal or x-qatal without any difference; in the axis of the
future, we find weqatal, yiqtol or x-yiqtol, also without any difference; and for the axis of
the present, the simple nominal (verbless) clause. See Syntax §113; Lettura sintattica §4.2.
46. This ‘tense shift’ type wayyiqtol → waw-x-qatal is characteristic of historical
narrative. As already noted, the oral narrative uses the same verb forms as the historical
narrative except for the beginning (§§4; 9 beginning).
47. See Syntax §64:3; “A Neglected Point” §1.3.1.
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
577
§9f Judg. 11:15-27. Judg. 11:15-27 is the longest text examined by D.; it is
also studied in Syntax §§75-76. After a rather sketchy analysis D. comes to a
conclusion where at last he explains his solution against mine. He repeats his
conviction that there is no difference between ‘Narrative History in non-Reported
Speech,’ or historical narrative, and ‘Narrative History in Reported Speech,’ or
oral narrative. Yet, a little difference at least must be present because he writes:
What little evidence Niccacci cites in favor of his proposal is more elegantly explained by two, somewhat overlapping, principles (pp. 174-175).
His first principle is something we both agree upon: a Narrative History text
frequently begins with a ‘stage-setting section,’ i.e. what I called ‘antecedent
information.’ D. continues:
Second, even where a text might conceivably employ a clause-initial, main-line for
Narrative History, wc + Prefix clause [i.e. wayyiqtol], this does not happen. The language prefers to underscore the relationship between the embedded Reported Speech
material, and the speech formula into which it is embedded as Direct Object.
This may sound very like what Niccacci has proposed; it is, in fact, radically
different. Niccacci proposes that ‘narrative discourse’ is a different ‘type of narrative’;
I propose that Narrative History texts are formulated according to the same principles
whether in Reported Speech or in non-Reported Speech—there is no ‘different type of
narrative’ for Reported Speech. Material in Reported Speech is, however, subject to
restrictions with regard to its initial clause—in order to call attention to the fact of its
being embedded—as if to say ‘this is not actually the beginning of the clause; rather, it
is the Direct Object of another clause’ (p. 175; italics in the original).
Some comments are in order. First, I noted several times in this paper an
incertitude in D.’s analysis of qatal in direct speech; it is said to be ‘a stagesetting device,’ on the one hand, and ‘a simple statement of a past event,’ on the
other. Second, if a Narrative History in Reported Speech is embedded as Direct
Object of the speech formula – that is, I suppose: ‘He said that…(Narrative
History)’ –, how is it possible to analyze this supposedly ‘that-clause’ as a
‘stage-setting device’? Third, having stated the principle, “Features that are
characteristic of specific text-types will be found in material of that text-type,
whether in Reported Speech sections or not” (p. 154), D. now concedes that this
is not true in at least one aspect, since qatal replaces wayyiqtol in the first clause
of a Narrative History text.
§10. Conclusion. Dawson presents a summary and conclusions after his examination of Jephthah and Ruth,48 and then a general summary, conclusions and
implications of his dissertation. He lists three hindering factors with regard to
the examination of Reported Speech material, the main point under discussion:
48. Due to space problems, I publish separately my discussion on Ruth; see “Syntactic
Analysis of Ruth” earlier in the present volume. There I comment more fully on the
phenomenon of embedding as envisaged by Dawson; see end of the previous section.
578
RECENSIONI
1. Although I have, throughout this volume, cited the need to test our conclusions
against further data, here the need is the greater; in short, the data-sample has been too
small to make any but the most obvious, and the most tentative observations, for a variety
of reasons. Nonetheless, here more than elsewhere we need to process more texts.
2. The first of these reasons for needing a larger data-base is that text-types within
Reported Speech material shift rapidly, and it is not common to find long stretches of
material in a single text-type. Broadening our data-base would bring to us more texts of
a greater length, which are a better starting point for research than shorter ones.
3. It is clear that subordination (which is more common in Reported Speech than in
non-Reported Speech), specifically, and embedding, more generally—by reason of their
cohesion with other units within their context—both limit the kinds of clauses that can
occur at the outset of any text unit in such a section. This immediately means that we
have a greater number of clauses than we would like whose surface-structure signals as
to text-type have been obscured by such permutations (p. 207).
One would observe, first, that the largest data-base possible cannot solve the
problems unless one is equipped with sound criteria of analysis; quantity will
never be a substitute for quality. Second, one may wonder why did D. not choose
texts with ‘long stretches of material in a single text-type,’ such as Lev. 14 and
Exod. 25-31 which he studied in only a very sketchy form; or as Deuteronomy,
instead of engaging in the examination of Ruth. On the other hand, if it proves
difficult to find texts suitable for the theory of the text-types, the theory itself might
be in need of revision. Reported Speech ‘shifts rapidly’ not only in the texts D.
has examined but also elsewhere. As a matter of fact, D.’s theory proved to be too
rigid in the definition of the text-types; as a result, it seemed inadequate to handle
Reported Speech material. There is also a need for a better syntactic basis; see my
remarks on the ‘Clines’ of the text-types established in pp. 115-116 (§3 above).
Let us discuss D.’s understanding of subordination and embedding. I go back
here to a point raised at the end of §9f above. After having used the two terms
almost interchangeably, D. seems to understand subordination as specific and
embedding as general phenomenon (see remark no. 3 quoted above). This point
is never fully explained and some ambiguity remains as to what are the grammatical consequences of embedding as compared to subordination. In other
words, one would like to know whether embedding involves a grammatical
change in the texts. In the following statement, D. is more specific:
[The Narrative History texts in Reported Speech] were found to conform significantly
to patterns we had seen in earlier Narrative History material [i.e. Jephthah and Ruth],
with one slight exception: the first clause in the embedded Narrative History material
never took a wc + Prefix form [i.e. wayyiqtol]. However, rather than following Niccacci’s
lead in defining this as a different type of Narrative, I propose that the first clause in any
Reported Speech unit always indicates its status as an element in the (speech introduction) clause in which it is embedded, and therefore it is never, in terms of surface structure, clause initial (p. 214).
First, the assumption of a grammatical change in the first clause of a direct
speech because of embedding – that is, because it is an Object clause of the
speech introduction – is totally speculative. The only verifiable case of embed-
DAWSON
TEXT-LINGUISTICS AND BIBLICAL HEBREW
579
ding is ‘indirect speech’ (oratio obliqua). Second, if qatal is a ‘stage-setting
device’ as supposed by D. a number of times, then embedding is unnecessary,
even out of the question; because as D. maintains, this qatal is also found in
‘non-embedded Narrative History texts.’ On the contrary, if qatal is a substitute for main-line wayyiqtol because of the embedding, then it cannot be at the
same time a ‘stage-setting device,’ which is an off-line form.
Among the ‘encouraging results’ of his investigation, D. explicitly mentions
Ruth 2:15-16. He writes as follows:
One of my working hypotheses was that the constituent structure of a text would be
marked by divergences from the main-line form in all text-types, and that the ‘off-line
marking of constituent structure will be confirmed by other types of marking
devices’. Where the text has been ample enough to examine both main-line and off-line
clauses in a single text-type, we have seen this hypothesis substantiated: Ruth 2.15.216.4 is a good example of this, where syntactically marked divisions are confirmed by a
shift in topical focus (p. 207).
This is a rather cryptic allusion to the analysis of the passage presented in
p. 196. However, my analysis diverges considerably from that of D. because
we evaluate differently the function of the verb forms involved.49 Similarly,
other two ‘encouraging results’ in pp. 207-208 are in need of revision if the
remarks made here merit some credit.
In the last section of Ch. 6, ‘Implications for Progress,’ D. indicates several
points for future research. Of course, he intends to continue with the text-types
and their verb-rank clines. I have already commented on the strong point as
well as weakness of this methodology; it constitutes an advancement with regard to traditional, clause-bound grammar, but it is too rigidly defined and lacks
a solid syntactic base. Happily enough, D. is aware of the necessity of being
open to new ideas. As he writes,
Much new material is coming out, which has the potential of changing radically the
way Hebrew is taught and studied. This will require careful monitoring, of course; much
can seem helpful that is not. The most important measure of a description is how well
it deals with all the language, especially the difficult data (p. 217; italics in the original).
This is correct except maybe for the last sentence. Since every language has
its anomalies, one cannot start with these, but rather with well-attested phenomena and regularities.
Another good point raised by D. is the need of a text-linguistic description
of syntax in poetry. On Watson’s Classical Hebrew Poetry D. writes that it
“includes little real syntax” (p. 217). This may be true; however, one can ask
what is syntax, and what is text linguistics for D. Something may gleaned from
the following words where D. spells out his expectations from a thorough examination of the book of Ruth:
49. See my paper: “Syntactic Analysis of Ruth,” comment on 2:15-16.
580
RECENSIONI
In a different vein, a more thorough examination of the book of Ruth than I have been
able to present in this work would allow us to trace the themes and purposes of the book,
as reflected in the peak marking, topic continuity and shifts, participant reference, and
the deployment of tension-maintaining devices in the text (p. 218).
Dawson goes on to envisage a possible contribution of text linguistics to
text-critical discussions; but he does not explain how this could happen. Finally,
he affirms the advantage of text linguistics in the following terms:
(…) learning (and therefore teaching) any language is greatly simplified if its forms
are systematized—all the more so if it is a dead language. If the system of text-types
were presented to students (I do not mean the theoretical parameters, but rather the simple existence of these text-types), and their associated main-line forms, then this much,
in one stroke, would give the learner a handle to begin sorting through the various distributions and functions of the Hebrew verb (p. 218; italics in the original).
As the reader knows well at this point, we agree on the general outlook, that
is, giving priority to the text; we disagree on the necessity of text-types. In my
opinion, a ‘bottom-up methodology’ is a necessary starting point. From a sound
syntax of the verb forms, their functions and relationships at successive ascending levels – sentence, paragraph, and text – it is possible to make a good analysis of the texts. On this basis, I think, a sound theory of text-types can be built
in order to proceed to a higher literary analysis of the texts. Hopefully, dialogue will continue.
Alviero Niccacci, ofm
Clifford Richard J., Creation Account in the Ancient Near East and in the
Bible (The Catholic Biblical Quarterly. Monograph Series 26), Washington
1994, XIII-217 pp., $ 9.00
L’A., nella stessa collana, aveva già curato, con J.J. Collins, Creation in the
Biblical Tradition (1992). Il lavoro che presentiamo ha una breve introduzione
(o cap. I: pp. 1-10) e conclusione (pp. 198-203) e due parti. Nella prima si studiano le cosmogonie dell’Antico Oriente, di cui diciamo subito che non daremo il lungo elenco, e nella seconda i testi biblici analoghi dell’AT.
L’A. inizia con i testi mesopotamici, cui dedica due capitoli: uno a quelli
sumerici (cap. II: pp. 13-53) e l’altro a quelli accadici (cap. III: pp. 54-98).
Facendo notare che le cosmogonie dell’Antico Oriente sono arrivate anche in
Canaan (tra gli Ittiti, a Ugarit, perfino a Megiddo e in una biblioteca scoperta
recentemente a Emar, nella Siria orientale), l’A. passa in rassegna documenti
sumerici del terzo millennio e dell’inizio del secondo: a) liste di divinità da
cui si può ricostruire una loro genealogia, b) testi narrativi di Nippur, con i
relativi motivi “cosmici” che, cioè, abbracciano cielo e terra, c) quelli di Eridu,
con i loro motivi “ctonici”, dove si considera solo la creazione della terra, ed
infine d) un testo a sé stante, di Assur.
CLIFFORD
CREATION ACCOUNT IN THE ANCIENT NEAR EAST
581
La tradizione di Nippur immagina un periodo precedente la creazione, con
le prime divinità (An e Ki) che, nell’accoppiamento primordiale, abbozzano
l’opera, e poi il loro figlio Enlil compie il vero atto creativo. Gli uomini “emergono” come piante dalla terra, inseminata dal cielo. Nella tradizione di Eridu
la creazione è opera di Enki, dio dell’acqua e della sapienza. Mediante l’acqua
degli inferi, egli impregna sessualmente la terra, attraverso fiumi e canali, originando la vita vegetale, animale ed umana. L’uomo sembra “formato” dalla
terra con qualcosa in più: l’acqua divina. In una seconda tappa dio crea la civiltà umana, la società, la cultura. Troviamo già qui la figura di Gilgamesh,
come pure una storia del diluvio che divide in due fasi la vita dell’umanità
sulla terra. Comune alle due tradizioni è l’idea della sorte di ogni uomo e il
piano dell’universo, prestabiliti fin dall’inizio dal creatore.
I documenti accadici presi in considerazione vanno dal sec. XVIII alla fine
del primo millennio a.C. Sono: a) alcune cosmogonie minori, in gran parte messe come introduzione a testi rituali, c) un documento particolare di Dunnu, città
di ubicazione incerta, scritto in tardo babilonese e pubblicato nel 1965, b) ma
soprattutto i due famosi poemi Atrahasis (sec. XVII) e Enuma elish (tardo I millennio).
Mentre i testi del primo gruppo mostrano come il primordiale gesto creativo
sia considerato in connessione con la situazione attuale, per es. del malato oggetto del rito, ed anche in quello di Dunnu la creazione sfocia nella situazione attuale della città, i due grandi poemi “antologici” considerano gli eventi primordiali
più in se stessi, in un’ottica quasi filosofica e teologica, ma sempre in quanto
connessi con la realtà e la vita dei destinatari del poema. Atrahasis, dove gli dèi
sono Anu, Enlil ed Ea, si concentra sulla razza umana, sulla sua dignità (gli dèi
ne hanno bisogno) e la sua mortalità. Enuma elish esalta Marduk, legittimando la
sua regalità sugli dèi e sugli uomini (contro Tiamat). Nella letteratura accadica,
che sembra meno grossolana di quella sumerica, sopravvive la creazione
sumerica dell’uomo intesa come “formazione” dalla terra, ma al posto di altri
elementi (l’acqua primordiale) vi si infonde sangue di divinità uccise.
Nel cap. IV (pp. 99-116) si studia la creazione nella letteratura egiziana,
prima descrivendo gli elementi comuni delle cosmogonie (fase preliminare, dio
creatore, il monte primordiale, modi della manifestazione del creatore e processo creativo); poi le differenti tradizioni (di Heliopolis, di Menfis e di
Hermopolis), negando infine l’influenza egiziana sui testi biblici, eccetto che
per il Sal 104.
I testi cananei (cap. V: pp. 117-133) sono presi soprattutto da Ugarit e poco
dal materiale fenicio-punico. C’è infine una lunga disquisizione sulle cosmogonie riportate da Filone di Biblos (50-150 d.C.), che a sua volta è conosciuto
attraverso Eusebio (260-340). Nella letteratura ugaritica il dio creatore è El
insieme con Ashera, ma di Ugarit non conosciamo narrazioni cosmogoniche.
Conosciamo solo i miti di Baal, in lotta col mare e la morte, ma si tratta di
gesta posteriori alla creazione.
582
RECENSIONI
Nella II parte, quella biblica, si dedica una dozzina di pagine (137-150,
cap. VI) a Gen 1-11, negando l’influsso diretto delle cosmogonie extrabibliche
su Gen 1, attribuito al Codice sacerdotale, ma inteso come redazione dei documenti precedenti. Invece su Gen 2-11, non separato nei distinti documenti ma
considerato nella sua redazione sacerdotale unitaria, si afferma tale influsso
particolarmente da parte dell’Enuma-elish.
Nel cap. VII (pp. 151-162) si studiano solamente due generi di salmi: le
lamentazioni collettive e gli inni. Dal primo gruppetto contenente, secondo
l’A., il tema della creazione (44; 74; 77; 80; 83; 89), egli si ferma ad analizzare solo il primo e l’ultimo. Dal secondo gruppo, segnala 66,5-7; 105; 111; 114;
135; 136; 149; tra quelli di Jahweh re, 93 e 96, ed infine 114. Ma quanto vi sia
presente veramente il motivo della creazione lo vedremo nella discussione finale. Ad essa rimandiamo anche per il problema della creazione nel secondo
Is, cui l’A. dedica il cap. VIII (pp. 163-176). L’ultimo capitolo (pp. 177-197) è
dedicato solo ad alcuni passi di Prov (3,16-26 e 8) e a Giobbe. L’elenco delle
abbreviazioni è alle pp. XI-XIII. Dopo la bibliografia (pp. 204-207) il libro è
corredato di utili indici: delle opere antiche citate (pp. 209ss), degli Autori (pp.
212-15) e dei temi (pp. 216s). Il primo sopperisce alle lacune dell’indice (p.
V), che avremmo voluto più dettagliato.
Come dice lo stesso Clifford nella prefazione, più che di un’opera completa
e di uno studio sistematico, si tratta d’una cernita soggettiva di testi, sia per quelli dell’Antico Oriente sia per quelli biblici. Ha il pregio di offrire una sintesi, aggiornata ed equilibrata, per quanto personale, su un problema complesso, su cui
non è facile orientarsi, essendo i dati del problema sparsi in tante ricerche ed analisi. Una sintesi, valida una ventina di anni fa, la troviamo già nel commentario
al Genesi di E. Testa, della vecchia Marietti (1969, pp. 31-45).
Si noti che il problema non è solo quello di definire gli influssi dell’antica
letteratura medio-orientale sulla Bibbia, fosse anche solo sul punto particolare
della creazione. Intanto è difficile definire cos’è la creazione e il mito. Clifford
ci prova nel primo capitolo, ma la sua vera definizione di creazione finisce per
darla nella conclusione (pp. 198s). Ed è proprio lì che nasce il problema.
Nell’introduzione, dopo aver criticato l’opera di G.F. Brandon, Creation
Legends of the ANE, del 1963, indubbiamente da aggiornare, si oppone a C.
Westermann e alla sua scuola, non tanto perché, specialmente nel grosso
commentario (Biblischer Kommentar) al Genesi, nello studio del tema della
creazione si avvale anche di cosmologie e miti relativamente recenti, che non
possono aver influenzato i racconti di Gen 1-11, ma soprattutto perché distingue tra la creazione dell’individuo e quella del mondo (p. 6). Il problema però
è ben più complesso. Si tratta dello scontro tra due scuole, una delle quali fa
capo a von Rad, mentre l’altra potremmo definirla nordamericana (Cross?).
Precisiamo alcune cose. Anzitutto von Rad non negava affatto che il tema
della creazione portava il pio israelita ad applicarne la lezione alla sua vita:
dalla creazione iniziale si passava allo stesso creato attualmente esistente di cui
CLIFFORD
CREATION ACCOUNT IN THE ANCIENT NEAR EAST
583
l’individuo o Israele è al centro. Il passaggio è più diretto ed esplicito in salmi
come il 104, dove la contemplazione della natura è fatta direttamente, senza
pensare all’atto creativo iniziale, oppure come il 139, che ci fa ripiegare su noi
stessi e sulla formazione dell’individuo sin dal seno della madre. In qualche
modo anche tutti questi sono passaggi dalla creazione/natura alla storia. In secondo luogo l’aggiunta della considerazione del creato nel Pentateuco (Gen 111) per von Rad non era affatto tardiva; era del Jahwista, da lui datato al sec.
X, comunque debba essere giudicata la sua teoria dell’antichità del “credo storico”. Da questa sistemazione dei temi teologici biblici, infine, sgorgava la tesi
che Israele si caratterizza rispetto a quelle culture contemporanee o precedenti
per la sua concezione della storia, della storia della salvezza, sviluppata prima
e indipendentemente dalle considerazioni sulla creazione/natura.
Ai tempi della prima impostazione teologica del pensiero di von Rad (ancora prima della guerra!) non era ancora a disposizione tutto quel materiale
delle culture antiche medio-orientali, da cui Clifford ha pescato. Forse è per
influsso di questo comparativismo che la tesi di von Rad è poi stata modificata
da Westermann, colla distinzione tra storia dell’individuo e storia della natura,
da Clifford giustamente criticata. Sta di fatto che, ora, si rischia di esagerare
dall’altra parte. Così succede che si catalogano come allusioni alla creazione o
cosmogonici brani dei salmi (44,2ss; 77,16-21; 89,2-5) o del Deutero-Isaia, che
vogliono solo descrivere i fatti storici dell’esodo, quello di Mosè o quello nuovo della fine dell’esilio. In questi ed altri salmi o poemi gli autori fanno, sì,
uso di testi cosmogonici delle letterature parallele, ma per descrivere fatti della storia d’Israele.
L’A. si sforza di annullare la differenza tra cosmogonia e storia, dicendo
che le antiche cosmogonie pagane sboccano sempre ad un santuario o ad una
città, col suo re, in funzione delle quali quelle sono narrate, e proponendo una
illusoria divisione tra testi “soprastorici” (al posto di “mitici”) e testi “storici”
(p. 153). Ma se non si mantiene la distinzione di von Rad, tra natura e storia,
qualsiasi contemplazione della natura diventa narrazione storica e qualsiasi allusione alla storia diventa cosmologica e mitologica. Qui confessiamo che, per
noi, la concezione ebraica e cristiana della storia della salvezza del popolo di
Dio va rigorosamente difesa, nell’attuale confusione teologica. Va rigorosamente distinta anche dalla storia salvifica personale, che pure, assieme al creato e alla storia di tutti gli altri popoli, con quella è collegata.
Teilhard de Chardin e, prima di lui, Giovanni Duns Scoto e la scuola
francescana insegnano che il Verbo di Dio è il modello della creazione: Dio si
sarebbe incarnato ugualmente, anche se non ci fosse stato bisogno della redenzione. Paolo e Giovanni ci dicono che Gesù Cristo, incarnatosi nella storia, è
colui per il quale e in vista del quale tutto è stato creato. Ma questo non deve
far confondere le due prospettive, quella della storia e quella della natura. Specialmente se si mantengono debitamente distinte, la prima illumina la seconda, che, comunque, è ad essa complementare.
584
RECENSIONI
Quanto al Deutero-Isaia, ammettiamo che la connessione tra creazione e
storia è particolarmente stretta (l’A. fa bene a seguire Stuhlmüller). E si potrebbe pensare che ciò sia una reazione ai miti cosmogonici, celebrati a Babilonia e agli esuli certamente noti. Avremmo, allora, una reazione dell’ortodossia israelitica, che si rifà alla sua dottrina della creazione e la contrappone ai
miti nel prospettare la futura salvezza agli esuli.
Dopo questa critica di fondo e questa discussione, facciamo ancora qualche riserva sul lavoro di Clifford. Prima di tutto sul confronto tra i documenti
antichi, che metodologicamente non dovrebbe essere fatto prima della presentazione dei testi biblici (per es. a p. 81; ed anche a p. 201). Così pure sarebbe
stato opportuno presentare testi propriamente sapienziali della letteratura antica medio-orientale per il confronto con la parallela letteratura biblica nell’uso
delle cosmogonie. Sembra, poi, esserci contraddizione tra l’affermazione che
l’era prediluviana è (sempre) aurea (pp. 146s) e quella della corruzione che
provoca il diluvio (per es. p. 46). Infine dovrebbe essere una confusione del
tipografo Enki al posto di Enlil di Nippur, a p. 200.
Chi legge questo libro, nonostante le critiche da noi fatte, sente un dovere
di gratitudine verso l’A., perché da lui viene messo di fronte ad un problema
biblico importante, con un’esposizione stimolante, che fa intravedere prospettive appassionanti per la ricerca biblica.
Enzo Cortese
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, BHt, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf der sie gründet (Münchener
Universitätsschriften. Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.116), EOS Verlag, St. Ottilien 1991-93. Genesis (ATS 33.1) VIII-485 pp. (1991)
DM 58; Exodus, Leviticus (ATS 33.2) VI-629 pp. (1991) DM 68; Numeri,
Deuteronomium (ATS 33.3) VI-701 pp. (1991) DM 78; Josua, Richter (ATS
33.4) VI-428 pp. (1991) DM 48; 1 und 2 Samuel (ATS 33.5) VI-585 pp. (1991)
DM 63; 1 und 2 Könige (ATS 33.6) VI-569 pp. (1991) DM 63; Jesaja (ATS
33.7) VI-433 pp. (1991) DM 48; Jeremia (ATS 33.8) VI-497 pp. (1991) DM
58; Ezechiel (ATS 33.9) VI-433 pp. (1991) DM 48; Kleine Propheten (ATS
33.10) VI-357 pp. (1991) DM 43; Psalmen (ATS 33.11) VI-589 pp. (1993) DM
78; Ijob, Sprüche (ATS 33.12) VI-389 pp. (1993) DM 48; Megilloth (ATS
33.13) VI-253 pp. (1993) DM 34; Daniel, Ezra, Nehemia (ATS 33.14) VI-341
pp. (1993) DM 42; 1 und 2 Chronik (ATS 33.15) VI-491 pp. (1993) DM 68;
Sirach (ATS 33.16) IV-140 pp. (1993) DM 24,80
Un lavoro enorme portato avanti con coerenza e in breve tempo da una équipe
ben affiatata e ben organizzata (J.P. Floß, W. Groß, H. Irsigler, T. Seidl, S.Ö.
Steingrimsson, G. Vanoni, H.H. Witzenrath, W. Eckardt, L. Edzard, C. Dyck-
RICHTER
BIBLIA HEBRAICA TRANSCRIPTA
585
hoff, B. Maier, C. Riepl). Non si tratta di una semplice trascrizione del testo
ebraico traslitterato in caratteri latini, come si potrebbe pensare a prima vista,
ma di qualcosa di molto più interessante e complesso. Per capire quanto lavoro e pazienza stiano dietro a quest’opera occorre consultare il volume dello
stesso Richter, Transliteration und Transkription. Objekt- und metasprachliche
Metazeichensysteme zur Wiedergabe hebräischer Texte (ATS 19) 1983. Lì l’A.
presenta e discute vari tipi di trascrizione (la “trascrizione” è l’oggetto della
questione). Si tratta di una trascrizione “pregnante” che tiene conto dell’ortografia, della fonetica, della fonologia e della morfologia (e sintassi). Richter
presenta esempi dei vari tipi di trascrizione di alcuni testi antichi: iscrizione di
Siloe (tunnel di Ezechia), testi di Qumran (ad es. Sl 121,1-8 e Is 49,22-26; 50,1),
un testo dalla Secunda di Origene (Sl 30 [29],1-13), vari testi dal codice di
Aleppo (fra cui 1Re 1,1-5) e testi trasmessi secondo le tradizioni palestinese e
babilonese. Così, ad es., l’iscrizione di Siloe viene trascritta varie volte, prima
tenendo conto del sistema ortografico, poi della struttura fonologica, infine di
quella morfologica (e sintattica). Manca, ovviamente, la trascrizione fonetica
(il testo non è vocalizzato). Dunque non è un’impresa da liquidare in due parole, ma merita di essere presa in considerazione.
Tutta l’opera è disposta su due facciate (fa eccezione l’ultimo volume dedicato a Ben Sira, edizione curata da Z. Ben Óayyim per conto dell’Accademia della lingua ebraica e del Museo del libro, Gerusalemme 1973, in cui il
testo compare solo in traslitterazione e trascrizione). Nella facciata di destra
compare il testo in caratteri ebraici, preso dalla BHS, con vocali e accenti biblici diviso in unità sintattiche logiche, seguito da analisi sintattica di tutto il
testo frase per frase. Vengono individuate e analizzate tutte le frasi di cui è
composta la Bibbia ebraica. La facciata di sinistra contiene la traslitterazione
in caratteri latini e la trascrizione di tutte le singole unità (parole e frasi) e la
ripetizione dell’analisi sintattica per chi legge il testo ebraico in trascrizione.
La trascrizione cerca di rendere ogni singola parola nella sua forma antica (ma
quanto antica?) tentando di rendere conto di tutti gli elementi, anche di quelli
invisibili all’occhio umano, in modo che sia possibile, conoscendo le regole
secondo cui il testo è stato trascritto, passare dal testo traslitterato in caratteri
latini a quello ebraico masoretico (cosa non sempre facile e possibile).
Alcuni criteri per la trascrizione e l’analisi: è una trascrizione che tiene
conto della storia della lingua ebraica e della semitistica comparata. L’ebraico
trascritto è presentato in una forma più antica (ma quanto più antica?) rispetto
a quella riscontrabile nella vocalizzazione dei masoreti, quando la sua vicinanza ad altre lingue semitiche (soprattutto cananaiche) doveva essere notevole.
Così, ad esempio, tutti i raddoppiamenti vengono rappresentati graficamente
nella trascrizione tenendo conto della radice della parola e del modello nominale, anche se tali raddoppiamenti non sono graficamente visibili nel testo
ebraico. Dunque la trascrizione può servire anche per approfondire lo studio
della grammatica biblica (una grammatica per progrediti, ovviamente). Anche
586
RECENSIONI
le vocali brevi e lunghe, compresi gli shewa mobili, vengono trascritte. C’è un
segno particolare anche per le vocali difficili da riconoscere. Nel campo dell’ortografia si tiene conto della scriptio plena / defectiva delle vocali lunghe,
della geminazione secondaria, o del dagesh facente funzione del mappiq (per
ogni situazione c’è un segno). C’è un segno anche per indicare la lettera alef
dopo vocale, non pronunciata e/o non scritta. Mancano invece segni per indicare la vocale anaptitica segol (non viene trascritto melek bensì malk) e il pata˙
furtivum la cui presenza ubbidisce a criteri fonetici.
Per quanto riguarda la prosodia: si segnalano le forme pausali dell’ultima
parola del versetto e non viene elisa nella trascrizione la consonante alef originalmente all’inizio di parola, quando viene a trovarsi fra 2 vocali (ad es. l] +
µyhlaÖ che diventa µyhlale) e non viene pronunciata. I nomi propri vengono trascritti in carateri latini maiuscoli senza vocali. Questo aiuta la loro individuazione nella colonna di sinistra.
Sono importanti i segni marginali per l’analisi della parola, della frase e
del testo. Per quanto riguarda la parola, i segni: parentesi tonda, quadra corsiva
e quadra normale possono indicare la restituzione, restauro, ricostruzione di
parte del testo o di un’indizio linguistico. Per quanto riguarda la frase, come
abbiamo accennato sopra, ogni frase della Bibbia è stata segnata con numeri e
lettere che spiegano in maniera sintetica (a mo’ di sigla) il tipo di frase. Ad es.
la sigla 1a significa “prima frase del versetto”, la sigla 3bP significa “Casus
Pendens nella frase b” e così via fino a situazioni più complesse. Il terzo tipo
di segni è riservato alle varianti testuali, come il Ketib e Qere, oppure alle varianti prese da altri codici, ecc.
Ci pare, e questo sembra essere anche il parere di Richter, che la parte più
importante / la novità consista in ciò che riguarda la frase. Ad esempio la divisione del testo in piccole unità numerate permette, attraverso l’uso del computer, di avere a disposizione subito delle liste / concordanze di determinati tipi
di frasi. L’apporto dato dall’uso del computer è la cosa nuova e utile. Quando
avremo a disposizione questo testo su dischetti potremo sperimentare in prima
persona l’utilità e provare i vantaggi di queste sigle a prima vista così astruse.
Questo metodo si è già imposto ad un gruppo di ricercatori dell’Università di München. E’ la proposta di una scuola degna di essere presa in considerazione. Sarà accettata ampiamente? Dipenderà in gran parte dall’uso pratico
che se ne potrà fare.
Massimo Pazzini, ofm
Marconcini Benito (e collaboratori), Profeti e Apocalittici (Logos 3. Corso di
studi Biblici), Leuman LDC, Torino 1995, 459 pp., L. 55.000
Spreafico Ambrogio, I Profeti. Introduzione e saggi di lettura (Lettura pastorale della Bibbia 27), EDB, Bologna 1993, 139 pp., L. 16.000
MARCONCINI ET AL.
PROFETI E APOCALITTICI
587
Presentiamo assieme i due libri perché hanno lo stesso argomento e l’autore
del secondo è anche collaboratore del primo, ma soprattutto perché la discussione finale, tra amici, la facciamo partendo da entrambi.
Logos vuol rinnovare e sostituire la precedente introduzione alla Bibbia
“Il messaggio della salvezza”. In quest’ultimo, il volume sui profeti era spropositatamente lungo (più di mille pagine) in rapporto agli altri e la sola introduzione al profetismo occupava più di 200 pagine; il materiale non vi era
ben separato. Il volume di Logos, invece, è meno della metà e l’introduzione generale è ridotta a meno di un quarto (pp. 29-53). Inoltre l’esegesi dei
brani scelti è separata dall’introduzione ai singoli libri e messa in una seconda sezione (pp. 251-389), seguita da una terza su temi di teologia biblica
profetica.
Nella prima sezione, i libri profetici sono suddivisi cronologicamente in
quattro parti: profeti preesilici, attorno all’esilio, dopo l’esilio e apocalittici. Le
due parti centrali sono di G. Boggio e le due estreme di Marconcini.
La seconda sezione, quella dei saggi esegetici, è suddivisa solo in tre parti: 1)
per testi del solo Isaia (Marconcini: Is 6; 7,10-17 e i canti del Servo), 2) per Ger,
Ez e Dan, dove ai commenti di Boggio (Ger 3,1-4,4 e 7,1-15) ) se ne aggiungono
due di L. Monari (su Ez 1 e Dan 7) e infine 3) su profeti minori, dove i commenti
sono di A. Spreafico (su brani tratti da Am 2 e Sof 5) e Boggio (Gioele 3,1-5).
Nella terza sezione, la prima parte presenta temi generali: la giustizia
(Spreafico) e la politica (Monari), e temi particolari, tutti di Marconcini: culto
e giustizia in Is, l’uomo nuovo (Ger ed Ez), Dio creatore (Dt-Is).
Oltre al pregio della relativa brevità e della migliore disposizione del materiale, già ricordati, e dell’ottima veste tipografica, il volume ha anche quello
notevole di fornire una buona bibliografia, soprattutto italiana, visti i suoi
destinatari, e di essere abbastanza aggiornato sui problemi discussi nella
bibliografia internazionale. Personalmente troviamo particolarmente valida la
parte apocalittica nella prima sezione.
Segnaliamo solo un errore a p. 223: Treves (e non Trever), precisando che
la nostra non è stata, comunque, una lettura sistematica e meticolosa. Ci sembra che la menzione del testo di Deir Alla (p. 32), che pure costituisce un aggiornamento sulla questione del profetismo, vada ulteriormente aggiornata in
favore di una datazione più antica dei reperti (J. Hoftijzer - G. van der Kooij,
The Balaam Text From Deir ‘Alla Re-evaluated, Leiden 1991). Inoltre sarebbe
meglio usare il termine “riletture”, non come si fa talvolta, almeno nella seconda sezione, per testi profetici ripresi in altri libri posteriori, ma solo nel
senso tecnico, di rielaborazione posteriore del testo stesso. Certo, non sempre
c’è omogeneità in un’opera a più mani.
Avremmo anche desiderato qualche pagina sulla storia della redazione del
complesso dei libri profetici, magari con una presa di posizione sulle ipotesi attuali (per es. quella di O.H. Steck, Der Abschluss der Prophetie im AT: ein Versuch
zur Frage der Vorgeschichte des Kanons, Neukirchen 1991). Soprattutto sareb-
588
RECENSIONI
be necessaria una maggiore attenzione all’escatologia e al messianismo, ma su
questo argomento vogliamo discutere alla fine con i nostri amici.
Il libro di Spreafico non ha la pretesa di essere un’introduzione sistematica. Nella prima parte (Aspetti generali) con una serie di spunti presi
da varie pagine bibliche (anche da 1Re, per Elia) si vuol presentare la figura del profeta in generale: i suoi detti o discorsi e le visioni, la partecipazione alla vita e alla storia del suo popolo, la differenza dai falsi profeti,
le sofferenze, l’intercessione, l’istanza di conversione, la speranza profetica,
l’accettazione e il rifiuto del profeta. Nella seconda parte (Saggi di lettura)
si sceglie un brano dai libri di Am, Os, Is (due brani), Mi, Sof, Ger, Ez,
Dt-Is. Nella seconda parte si vede la mano dell’esperto di letteratura profetica e la bibliografia è quasi inesistente. Nella prima parte questa non è
molto abbondante, ma ci sarebbe voluto un elenco bibliografico, per facilitare l’eventuale consultazione.
Come errore tipografico segnaliamo quello della linea 3 a p. 91. A p. 104
la parte finale del v. 12 andrebbe messa con il v. successivo, dove i verbi vanno tradotti al plurale, secondo il TM. E, per capire l’argomentazione della pagina successiva, bisognerebbe tradurre non “discendenza d’Israele”, ma “resto”. Sempre lì e a p. 108 cambieremmo l’espressione “parlerà menzogna”.
Ma il punto che vogliamo discutere più a lungo è una lacuna, di cui le
opere recensite non sono propriamente colpevoli: riguarda l’escatologia e il
messianismo, che in esse è come soffocato. La colpa è degli esegeti in genere.
Da tempo regna incontrastata l’opinione che i testi profetici non contengono
un messaggio escatologico se non a partire dall’esilio e quelli messianici sono
ancora più tardivi. Perciò si sospetta dell’autenticità dei brani dei grandi profeti scrittori, soprattutto di Isaia, che nella tradizione sono stati caratterizzati
per questo loro messaggio di speranza. Non è questo il luogo per vedere come
questa opinione scettica si è fatta strada nel mondo dell’esegesi: cf. E. Cortese, “Le sventure annunciate dai profeti preesilici e l’Escatologia dell’AT”,
Theol (Milano) 1 (1977) 91-107; “Escatologia del AT y Teología de la Liberación”, RevBi (Buenos Ayres) 51 (1989) 129-141.
Sta di fatto che, nell’esegesi di Is 7,10-17, coronata da cenni a 9,4ss e 11,19, dopo aver portato avanti il discorso in maniera ottima, lo si conclude (p.
270) in maniera soffocata, per usare ancora questo termine. E le successive
indicazioni per uno studio sul messianismo (pp. 271ss) seguono la pista di
Cazelles, il cui libro del 1978 (dell’81 è la traduzione) è già frenato dalle opinioni scettiche allora in vigore e la cui ipotesi viene ulteriormente soffocata
dalle ulteriori indicazioni bibliografiche dello stesso Marconcini (p. 273). Eppure su nessuno di questi testi, che noi ci ostiniamo a chiamare messianici,
vengono sollevati dubbi di autenticità nelle pagine esegetiche che esaminiamo.
Anche Spreafico, nel suo libro, difende l’autenticità di Is 11,1-9 (pp. 8594). Egli, nella prima parte, sente anche il bisogno di mettere un capitolo sull’argomento, il VII: “Non tutto è perduto. Dio può ancora salvare” (pp. 51-60).
SPREAFICO
I PROFETI
589
Ma nella parte esegetica il valore messianico di Is 11 ci sembra, ripetiamo la
parola, soffocato e nell’altra parte sembra significativo che i profeti preesilici
su cui poggia l’argomentazione circa la salvezza escatologica (pp. 51-60) siano Ger, Ez, Os, Ab, mentre Is è ignorato.
E quando l’A. si occupa dei poemi del Servo sofferente (pp. 43s) egli si
limita all’ipotesi del senso collettivo. D’altra parte, nel primo libro (pp. 373382 e nel suo commentario a Sofonia del 1991, non citato a p. 111!) egli difende l’autenticità di Sof 3,14-20, senza dare sufficientemente risalto, secondo
noi, al significato escatologico del passo, mentre Marconcini difende il significato personale dei poemi del Servo (pp. 275-295), ma il discorso non viene
portato pienamente a termine.
Così rimane sbiadita (o coperta da un velo, come per i nostri fratelli ebrei?
2Cor 3,12-16) quella “parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione: è come una lucerna che brilla in un luogo tenebroso” (2Pt 1,19).
Tra molti esegeti, anche e forse soprattutto neotestamentaristi, che non
hanno voglia di rimettere in discussione certi pregiudizi e rivedere certi falsi
punti di partenza, è diffusa l’idea che il senso cristiano dei testi messianici l’abbia inventato il NT e in quelli non ci sia affatto.
L’esegesi moderna dei libri profetici, che talvolta trova la maniera di rendere le pagine profetiche addirittura “tenebrose”, ha avuto il pregio di far ricordare che il messaggio profetico non è solo quello messianico. Errore, questo, ancora attuale nella liturgia, dove praticamente i testi da leggere sono
esclusivamente quelli della speranza. Ma non andiamo all’eccesso opposto:
quello di dire che di testi messianici e consolanti non ce n’è nessuno!
Nei nostri articoli citati sottolineiamo i pregi della concezione dell’escatologia di G. von Rad (contrapposta a quella di G. Fohrer), alla cui Teologia
dell’AT (vol. II) molti oggi dovrebbero tornare (o, forse, dovrebbero finalmente studiarla). Egli dimostra che l’escatologia, quella negativa (castigo escatologico) ma anche quella positiva (speranze al di là del castigo), non nasce affatto dopo l’esilio. Certo, non è quella visione diretta di Cristo che l’esegesi
antica attribuiva ai profeti, ma è, comunque, un’attesa dell’attuazione delle promesse fatte a Davide di un suo grande discendente e di una Gerusalemme grandiosa; un’attesa che nella preghiera dei salmi è tenuta quotidianamente viva e
non nasce solo nel periodo oscuro dell’esilio e del postesilio, quando il re ormai è sparito e manca il supporto della speranza davidico-sionica.
Nel postesilio, anzi, si perde spesso la speranza del re. E’ lì che nasce l’interpretazione collettiva del Servo sofferente, sovrappostasi all’altra, e quella
del figlio dell’uomo di Dan 7. E’ lì che ci si concentra sullo splendore di Sion
(nel Secondo e Terzo Is), passando dal quadro (il messia), lasciato vuoto, alla
cornice (la sua città). Ma è anche lì che matura l’idea della salvezza messianica
ottenuta attraverso la morte del re [W.H. Schmidt, “Die Ohnmacht des Messias.
Zur Überlieferungsgeschichte der messianischen Weissagungen im AT”, KuD
15 (1969) 18-34; ora in U. Struppe (a cura di), Studien zum Messiasbild im AT,
590
RECENSIONI
Stuttgart 1989], passaggio, questo, che non si può capire se non si ammette
che il messianismo c’è già molto prima dell’esilio.
Quanto al messianismo preesilico, oggi si comincia a capire che il messaggio della profezia di Natan, anch’esso, non nasce solo nell’esilio e che la prima
stesura dell’Opera deuteronomistica, la quale fa leva su di essa, è del tempo di
Giosia [in “2 Sam 7 e 1 Cron 17: prospettive attuali dell’esegesi”, Ant 69 (1994)
141-155. Ricordiamo anche l’acuta interpretazione dei famosi condizionamenti
deuteronomistici della profezia di Natan ad opera di Nelson, contro N. Lohfink.
Si veda anche “Sal 72: che Messia? Per quali poveri?”, LA 41 (1991) 41-60].
Ci scusiamo per queste autocitazioni. Hanno lo scopo di fornire degli
spunti, per quella discussione tra amici di cui parlavamo all’inizio e per incoraggiare coloro che in Italia sono i nuovi specialisti sulla letteratura profetica a
portare avanti il discorso senza paura e con un coraggio almeno pari a quello
di chi, meno competente di loro, ha condotto la nostra esegesi sui profeti nell’attuale oscuro tunnel.
Enzo Cortese
Weigl Michael, Zefanja und das ‘Israel der Armen’ (Österreichische Biblische
Studien 13), Österreichisches Katholisches Bibelwerk, Klosterneuburg 1994,
329 pp.
E’ la rielaborazione di una tesi di laurea difesa a Vienna nel 1991, sotto la guida
di G. Braulik. Rispetto a quella è stata aggiunta la sezione riguardante Sof 1,7.1011.14-16, cioè il tema del giorno di Jahweh, per un complesso di oltre cinquanta
pagine. Fortunatamente è stata abbreviata l’analisi sincronica, uno studio grammaticale e sintattico molto pedante, che può interessare chi ha studiato queste cose
con libri vecchi e vuol sapere come si chiamano oggi i termini “soggetto”, “predicato”, “complemento” (l’A. segue la Grammatica “metaforica” di H. Schweizer)
e che allunga enormemente la prima parte (pp. 5-229), rispetto alla seconda (pp.
230-254), sulla composizione generale e alla terza sulla “Opzione (divina!) per i
poveri” (pp. 255-284), che è il tema vero e proprio dello studio.
In esso vengono tralasciati, inoltre, gli oracoli contro le nazioni (Sof 2,410 e 12-15) e, perché tardiva, la pericope finale (3,16-20); vengono anche tralasciati 1,8a.12a.
Nell’introduzione l’A., tra il metodo della vivisezione diacronica moderna
e quello della semplificazione sincronica strutturalistica, sceglie una terza via:
considera quasi tutto il testo autentico e ben strutturato, seguendo la recente
posizione di N. Lohfink1.
1. “Zefanja und das Israel der Armen”, BiKi 39 (1984) 100-108 = “Zephaniah and the
Church of the Poor”, TDig 32 (1985) 113-118.
WEIGL
ZEFANJA UND DAS ‘ISRAEL DER ARMEN’
591
Nell’analisi, suddivide il testo in molte brevi pericopi, presentando prima
testo originale e traduzione, poi la critica testuale e letteraria, con giustificazione della propria delimitazione del brano, quindi la struttura ed infine l’analisi
sincronica e diacronica. Nell’analisi sincronica studia qual’è la “predicazione”,
gli “attanti”, la “illocuzione”, la “determinazione semantico/pragmatica”, le caratteristiche delle “parole pragmatiche”. Nell’analisi diacronica l’A. studia i passi
simili nel resto della letteratura biblica, sforzandosi con essi, in particolare, di
difendere la datazione antica del testo di Sofonia.
Prima di discutere il lavoro presentiamo i risultati, che W., come s’è detto,
espone nella seconda e terza parte: nella seconda, soprattutto la suddivisione
dei tre capitoli di Sof come segue: 1,2-18a; 2,1-3,5; 3,6-15, e, nella terza, la
tesi che i poveri d’Israele, intesi nel senso letterale e non spiritualizzato, e i
gentili sono coloro che Dio ha scelto per continuare la storia della salvezza,
che altrimenti i ricchi d’Israele avrebbero fatto naufragare.
Alla fine del libro viene ripresentato tutto il testo ebraico di Sofonia, comprese le parti tardive, per lo più non analizzate, suddiviso nelle singole
pericopi, a loro volta disposte separando i singoli elementi di ogni frase. Cosa
che sarebbe stata ancor più pregevole se si fosse ripetuta anche la traduzione
data nella parte analitica dall’A., tanto più che solo in essa, e non nell’ebraico,
vengono segnalate, mettendole tra parentesi, le poche frasi ritenute tardive. E
queste, oltre alla pericope finale, sono solo piccole frasi in 1,3s.10.17s;
3,5.8.10, per lo più non molto rilevanti ai fini della tesi di fondo.
Infine il libro è corredato di una spiegazione delle abbreviazioni e sigle, di
un’ampia bibliografia (suddivisa in: fonti, commentari e monografie o articoli) e d’un minuzioso elenco delle citazioni bibliche, elenco, dove, tra i
commentari, manca quello di A. Spreafico (Genova 1991) che, essendo il più
recente ed uno dei più ampi, meriterebbe di essere consultato.
Come s’è già detto, questa tesi è preceduta da una presentazione della composizione del libro di Sofonia che merita apprezzamento, contro l’opinione che
anche questo libro profetico sia strutturato secondo lo schema comune: 1) oracoli contro Giuda, 2) oracoli contro le nazioni, 3) oracoli di salvezza per Israele.
Come mostra il primo dei tre schemi, che illustrano chiaramente la struttura
delle rispettive parti di Sof, la cornice generale (1,2-3 e 17-18a) annuncia il castigo di tutti i popoli, tema che, all’interno, è sviluppato da quello del giorno di
Jahweh, in alternanza con quello del castigo a Giuda. Dunque la prima parte non
ha solo oracoli contro Giuda, ma sembra parli del castigo universale.
La rassegna degli autori che discutono la divisione di Sof, del resto, mostra che ormai quella vecchia non è più accettata2.
Un altro pregio del lavoro è soprattutto quello di aver messo in evidenza
come tema centrale e genuino di Sofonia quello dei poveri, pregio che va attri2. Con il citato studio di Lohfink, Weigl segnala particolarmente quello di M.A. Sweeney,
“A Form-critical Reassessment of the Book of Zephaniah”, CBQ 53 (1991) 388-408.
592
RECENSIONI
buito prima di tutto a Lohfink, di cui l’A. segue le tracce. Ma qui deve cominciare la discussione, che sarà severa non per il gusto della critica ostile, ma
nell’intento di portare avanti una ricerca molto importante ed appassionante.
Affrontiamo subito il problema centrale. Ci siamo imbattuti in alcune contraddizioni che ci aiutano ad impostarlo ed affrontarlo e che presenteremo un
po’ paradossalmente. Da una parte si dice che i poveri (≈rahAµ[) sono la gente
di campagna, mentre i gerosolimitani sono i ricchi condannati al castigo inevitabile (pp. 112.119s.281); dall’altra si sente il bisogno di precisare che Gerusalemme non è condannata completamente (pp. 53.262). Da una parte si riconosce che per l’AT la ricchezza non è un male, o, per lo meno, non è sempre e
totalmente da condannare (p. 257) e dall’altra, nel messaggio di Sofonia, non
verrebbe data nessuna possibilità di conversione e di salvezza ai ricchi (per es.
p. 261).
Pensiamo che la contraddizione si potrebbe superare, se si ammettesse la
differenza tra yn[ e wn[ che sosteniamo da parecchio tempo in articoli sui Salmi
dei poveri3. Non si deve essere così radicali nel difendere la differenza di significati, da escludere assolutamente che un povero possa essere anche umile
e viceversa, ma neanche semplificare le cose e identificare i due termini ebraici in questione.
Di fatto nella prima pericope sull’argomento (Sof 2,1ss) abbiamo µw[ (2,3:
≈rahAywn[) e nella seconda (3,12s) abbiamo yn[ (3,12: ldw yn[), che, nell’intento
di chi ha scritto il testo, dovran pure avere qualche differenza di significato,
altrimenti ci sarebbe lo stesso vocabolo. Tanto più che nel primo caso, nello
stesso 2,3, incontriamo il sostantivo astratto con la stessa radice: hwn[, che l’A.
correntemente dovrebbe tradurre “povertà”. Al posto di “cercate la povertà”,
traduce però “Selbsbescheidung” (p. 99; si veda anche 104.115 e 269), facendo finta di niente, mentre µywn[ lo traduce “poveri”.
Da questa errata identificazione nascono altre incongruenze; per es. a p.
112, nella rassegna dei passi dell’AT su ≈rahAywn[, l’A. non separa quelli che
hanno ≈rahAyyn[ (Giob 24,4 e Am 8,4) da quelli che hanno ≈rahAywn[ (oltre a
Sof 2,3, c’è Sal 76,10 e, incerto, Is 11,4). Così pure, a p. 208, nell’elenco dei
testi dove si trovano assieme yn[ e ld, l’A. non fa molta distinzione tra yn[ e
wn[. Per la verità lì ricorda che Is 11,4 e Am 2,7 hanno wn[, il che confermerebbe la sua tesi dell’identificazione dei due vocaboli, ma ignora che nel primo
caso i LXX hanno ptwco/ß. Quanto ad Am 2,7, se l’A. avesse dato uno sguardo alla masora avrebbe visto che si sente il bisogno di precisare che questo e
Is 29,19 sono gli unici casi in cui wn[ si avvicina al significato di povero! E’
vero che ogni tanto nel testo masoretico biblico le due parole si confondono.
Ma questo non è dovuto al fatto che i significati sono identici, bensì al fatto
3. Citiamo solo lo studio di partenza: E. Cortese, “Poveri e umili nei Salmi”, RiB 35
(1987) 299-293; o meglio: “Pobres y humildes en los Salmos: No confundir las cartas”,
Teol (Buenos Ayres) 24 (1987) 95-106.
WEIGL
ZEFANJA UND DAS ‘ISRAEL DER ARMEN’
593
che, nella varie tappe della storia della formazione del testo (e della recita del
Salmo) si preferisce dare un senso (“povero”) o l’altro (“umile”) alla parola4.
Quanto a Sof, se si mantenessero significati distinti alle due parole, probabilmente si avrebbe per i ricchi non cattivi la possibilità di salvezza di cui si
parlava, un miglior equilibrio nel problema della valutazione della ricchezza
secondo l’AT ed anche una miglior comprensione di tutto il suo libro. In Sof
2,1ss, infatti, il profeta esorta ad essere umili per sfuggire al castigo, e perciò i
ricchi che ascoltassero l’invito potrebbero raggiungere la salvezza. Questa, di
fatto, sarà soprattutto per i poveri (3,12).
Perché chi gode di una ricchezza onesta, che per l’AT costituisce un ideale, non può sperare di avvicinarsi a Dio (pp. 112.114)? Perché si dovrebbe
escludere dal messaggio di Sofonia l’esortazione a sfuggire al castigo (p. 116)?
I gentili, cui nel messaggio primitivo (o forse redazionale) è annunciata la salvezza (Sof 2,11), non sono necessariamente poveri. Perché lo devono essere
assolutamente tutti i salvati d’Israele?
A questo punto, però, bisogna discutere l’altro testo: Sof 3,12s, perché lì i
salvati sono effettivamente i veri poveri, nella nostra ipotesi, e si rischia di
cadere nei due scogli opposti, come Scilla e Cariddi, cioè di dire che in entrambi i passi si tratta di veri poveri, come vuole l’A., o che si tratta sempre di
umili, come vorrebbero la scuola francese (Gelin) e quella interpretazione pietistica ed ecclesiastica, che egli giustamente condanna. Veniamo a Sof 3,12s.
Come si può dunque mantenere, e solo al secondo testo, Sof 3,12, il significato di povero vero? Sofonia esprime qui semplicemente l’esigenza che i poveri
non debbano subire lo stesso castigo di quelli che l’hanno meritato, proprio
opprimendo loro. Per essi la storia della salvezza deve assolutamente mantenere le sue promesse.
Questa idea, cui l’A. non bada, non è una novità del solo Sofonia ed è nella logica del messaggio di tutti i profeti. Per la stessa ragione per cui essi proclamano il castigo agli oppressori, esigono che gli oppressi non abbiano a subirlo. Certo, di fronte alla distruzione di Samaria o di Gerusalemme, l’istanza
non sembra rispettata; anche i poveri sono castigati. Tuttavia troviamo già
l’idea della salvezza per i poveri, prima di Sofonia, in Is 14,30.32 (il castigo
assiro colpisce i Filistei, ma non può colpire i poveri d’Israele) e 29,19; poi in
49,13 e ancora in 25,4 e 25,6. Può darsi che nei testi isaiani tardivi tutto il popolo venga detto povero, perché soffre in esilio e merita questa qualificazione.
Ma anche nel postesilio ci sono dei testi che distinguono, all’interno dello stesso popolo, oppressori ricchi e oppressi poveri.
Agli inizi dell’esilio, in Ger 39,10; 52,15 e soprattutto 40,7 si esprime la stessa
idea. Il fatto che i Babilonesi abbiano deportato la classe dirigente e lasciato,
invece, sotto la guida di Godolia gente povera (≈rah tldm!, corrispondente a 2Re
24,14 e 25,12), sembra voler notare che quell’istanza è stata rispettata.
4. Contro S. Gilligham, “The Poor in the Psalms”, ExpT 100 (1988/89) 18.6.
594
RECENSIONI
Questa è la critica fondamentale che facciamo al lavoro di Weigl, partendo dalla nostra ipotesi che mantiene la distinzione tra yn[ e wn[. Proseguiamo
ora nel formulare altre riserve su punti particolari del suo studio.
Abbiamo espresso apprezzamento sulla nuova divisione dei tre capitoli di
Sof e sul primo dei tre schemi forniti dall’A. Ma per quanto riguarda le parti
2ª e 3ª e i relativi schemi (pp. 250.253) abbiamo delle perplessità.
E’ proprio sicuro che 2,11, la conversione dei pagani, sia messaggio genuino di Sofonia? Non potrebbe essere stato messo in quella posizione centrale
da un redattore tardivo? Si apre qui la questione della data dell’universalismo
nel pensiero biblico e, se l’A. avesse letto il commentario di Spreafico, avrebbe trovato un argomento, a proposito di 3,9 (allusione al racconto della torre
di Babele), che gli sarebbe servito a difendere la sua tesi della genuinità dell’idea universalistica.
Quanto alla terza parte, sembra strano che il punto centrale dello schema
sia 3,11 (verso la fine del versetto): la rimozione dei colpevoli. Sembrano
molto più importanti 3,12-15, la salvezza per i poveri e la rinuncia al castigo
totale. Questo fa pensare che, invece di due parti (la seconda e la terza) se ne
debba ipotizzare una sola (con Sweeny) e lo schema sia un altro. Esso forse
non è riuscito bene al redattore, perché aveva a che fare con la serie degli oracoli contro i gentili, di Sof 2. Anche qui Spreafico potrebbe aiutare nella discussione, perché dimostra che sono autentici anche alcuni degli ultimi versetti (3,14-17), lasciati fuori nella struttura difesa dall’A.
E qui vien fuori un’altra critica di fondo. Lo stesso Weigl parla di “redazione finale” del libro di Sofonia (p. 246). Ma quando la mettiamo? Il fatto
che egli abbia scomposto i tre capitoli in tante piccole unità indipendenti (troppe soprattutto nel 3º!), fa pensare che ritenga tardiva tale redazione, tanto più
se di essa facessero parte anche i brani che lui stesso ritiene tardivi.
Anche per la prima parte, incorniciata da 1,2s e 17s e composta da minacce di castigo per Giuda, alternate (tre volte!) con il tema del giorno di Jahweh
e non si dice nulla sulla storia della formazione e redazione.
Ora se 2,11, messaggio sulla conversione dei gentili, così centrale nello schema del libro, fosse tardivo, salta tutta la presentazione del messaggio genuino del
profeta, pur rimanendo essa valida per quello formulato, alla fine, dai redattori.
Effettivamente una visuale così universalistica non sembra ancora del tempo di
Sofonia e, comunque, per sostenere la tesi contraria, ci sarebbe voluto una dimostrazione ben più ampia e convincente delle pp. 127-134 dedicate alla relativa analisi. Tradurre poi hnp (Pi) con “convertire” invece di “far tornare indietro”
i popoli ostili, per metterlo in connessione con 2,11 (p. 224) è una forzatura. Un
tale significato il testo può averlo assunto, semmai, al tempo della redazione finale, ma prima e normalmente il verbo significa che i nemici saranno respinti.
Non è nostra intenzione negare la tesi del libro di Weigl, ma far vedere
più accuratamente come, attraverso la storia della formazione di Sof, si è arrivati a formularla.
DEIANA
IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE
595
Pensiamo che di questa idea universalistica qualcosa sia genuino del profeta: per es. l’istanza o la profezia che tutti i popoli verranno a riconoscere Gerusalemme e il suo Dio. Ma la trasformazione di questa idea in quella della
conversione dei pagani e la sua combinazione con quella del castigo universale dovrebbe essere il risultato di una storia della formazione e redazione di Sof,
che ancora deve essere messa in luce.
Dopo queste critiche di valore su tesi e metodo, ricordiamo ancora gli errori che genericamente chiamiamo tipografici: a p. 5 (“begündet”); 19 (µynk invece di µynhk); 85 (“Hiskika-Legenden”); 101 (nota 9: “Ssefanja”); 109 (“Es
überwiegen nomen”, invece di “nomina”?); 164 (linea 4ª: Sof “3,8g”, invece
di “3,18g’); 168 (hylyl[ invece di hlyl[); 179 (la parentesi del v. 10 andrebbe
tutta sulla stessa linea) ed infine alcuni punti vocalici masoretici a p. 285 (1,8b)
e 290 (3,11a e 15b). Inoltre i rimandi ad altre parti del libro son fatti senza
dare la pagina, ma solo le varie sezioni, che a volte comprendono parecchie
pagine, per cui l’indicazione è troppo generica. L’errore tipografico più grosso
e, ahimè!, frequentissimo è dovuto alla stampa con computer delle frasi ebraiche, quando si deve andare a capo: i vocaboli delle frasi trascritte sono sistematicamente rovesciati (chi ha corretto le bozze?). Da ultimo notiamo che i
caratteri, almeno quelli delle note, dovrebbero essere più grossi.
Nonostante la critica severa, riteniamo importante il lavoro di Weigl. Esso
ci permette di apprezzare il magnifico libretto di Sofonia, di mettere in chiaro
il problema della ricchezza e della povertà di oggi, di confermare alla luce
dell’AT il messaggio severo di Gesù contro l’amore alle ricchezze di fronte alla
miseria che ci circonda… e di constatare come la tendenza di noi ricchi o benestanti ad attutire questo messaggio fosse già in atto nell’AT, tra coloro che
sostituivano volentieri yn[ con wn[!
La miglior sentenza con cui si sarebbe potuto concludere questa ricerca è
proprio quella evangelica: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel
regno dei cieli” (Mt 19,23).
Enzo Cortese
Deiana Giovanni, Il giorno dell’espiazione. Il kippur nella tradizione biblica (ABI
Supplementi alla Rivista Biblica 30), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, pp.
L. 28.000
Questo studio su Lev 16, la festa dell’espiazione, dopo l’Introduzione, consta
di tre capitoli e tre excursus finali. Il cap. I è il più lungo e fondamentale. Vuol
essere una traduzione accurata di Lev 16, fatta comparando il testo masoretico
con Versioni, Targumim ed altri testi antichi. Nel II cap. si traducono passi paralleli: Lev 23,26-32; Num 29,7-11; Es 30,10. Nel III cap. si confrontano
sinotticamente gli elementi comuni di Lev 16 con Lev 9 e 4; e poi quelli di
Lev 23,27-32 con Num 29,7-11.
596
RECENSIONI
Gli excursus sono: su capro espiatorio e capro emissario, sull’identità di
Azazel e sulla teologia del Kippur. Ogni tanto si leggono lungo il cammino
delle conclusioni: una dopo il cap. II; una sintesi finale dopo il cap. III e una
dopo il secondo excursus. L’opera è preceduta da un lungo elenco di abbreviazioni, contenente anche numerose opere consultate, e conclusa dalla bibliografia e dall’indice delle citazioni, bibliche e degli autori.
Il pensiero dell’A., che dà per scontata una storia di differenti redazioni e
brani di epoche distinte in Lev 16, senza descriverla con la necessaria critica
letteraria, lo riportiamo da un’ennesima conclusione, messa a p. 176, prima
della seconda delle tre ricordate:
“1) Azazel, di cui alla luce del materiale fornitoci da Qumran e specialmente dal Rotolo del Tempio, è necessario correggere la grafia tramandataci
dal TM (‘z’zl) in ‘zz’l, potrebbe nascondere un originario culto del dio Azizo,
divinità molto diffusa tra le popolazioni arabe del periodo ellenistico e già
attestata nell’epigrafia fenicio-punica e persino nei testi di Ebla.
2) Tale divinità è l’ipostasi della stella Venere, il cui culto aveva un duplice aspetto, maschile e femminile, quest’ultimo radicato nella tradizione
cultuale del popolo ebraico sotto il nome di Astarte.
3) Probabilmente durante il periodo ellenistico venne ripreso sia il culto della stella Venere sotto l’aspetto maschile (Azizo) che quello femminile (al-‘Uzza);
mi sembra che il testo del Talmud babilonese citato dia adito a tale deduzione.
4) La reazione all’ellenismo, iniziata già nel corso del III sec. a.C. e culminata con la rivolta dei Maccabei e la successiva purificazione del tempio,
abbia (sic!) portato alla demonizzazione di tali divinità pagane; tuttavia, per la
loro popolarità, il loro culto non fu totalmente eliminato: Azizo divenne un
angelo decaduto e, come Lucifero, contribuirà a formare un aspetto della personalità del diavolo nel cristianesimo”.
Qui il cenno ad Ebla potrebbe far pensare che l’A. ipotizzi un’origine
molto antica del culto descritto in Lev 16 o per lo meno del nome Azazel. Ma
fin dall’inizio del lavoro egli dichiara: “la presenza del nome in Lv 16 suppone che quest’ultimo sia stato composto quando, almeno per la parte del rito
relativo al capro emissario, la figura dell’angelo decaduto Azazel era non solo
già delineata attraverso il testo del Libro dei Vigilanti ma resa popolare, visto
che rimane come parte essenziale di un rito in cui il popolo è coinvolto direttamente. Inoltre il modo con cui viene ricordato il nome in Lv 16 suppone trattarsi di un personaggio ben conosciuto nell’ambiente cultuale. Di conseguenza
bisogna supporre che tale rito sia stato formato quando detto libro era non solo
ultimato (III sec. a.C.), ma addirittura largamente diffuso. Ma una parte di Lv
16 (vv. 10b.20-22) in cui si cerca di sostituire il nome di Azazel con ‘deserto’
suppone un tentativo di purificazione del rito, che probabilmente è da collocarsi nel periodo immediatamente prima dei Maccabei o durante la rivolta di
questi ultimi, quando si cerca di eliminare dal culto del tempio gli elementi
sincretistici introdotti dall’influenza ellenistica (IV-III sec. a.C.)” (pp. 50-51).
DEIANA
IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE
597
Dato, e non concesso, che il nome Azazel sia una traccia del sincretismo
del culto primitivo e tenendo conto che, nell’ipotesi di Deiana, di sincretismo
ce ne doveva essere molto di più in Lev 16, dovremmo dedurne che l’opera di
revisione sia stata ben più ampia di quella indicata (vv. 10b.20-22) e che gran
parte del capitolo andrebbe datato, quindi, nella prima parte del sec. II.
Queste idee dell’amico Deiana, sparse per tutto il libro, sono state coltivate a lungo, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, e pubblicate in articoli citati nel lavoro. Noi non le condividiamo e non le comprendiamo; oralmente e per iscritto non abbiamo certo incoraggiato l’A. Ma, come si vede,
esse hanno trovato i loro Mentori sia nella elaborazione e sia nella pubblicazione; loro le capiranno.
Segnaliamo alcuni errori: a p. 46 la citazione di Gn 1,7 è sbagliata; a p.
55, linea 11 manca il verbo dopo “il quale”; a p. 71, linea 3 pensiamo che si
debba mettere “uccisione” al posto di “espiazione”; a p. 130, linea 9 “i.l” per
“il”; a p. 143 nella penultima linea prima della citazione ci vorrebbe “del rotolo” invece che “di Lv 16”. Soprattutto manca nell’indice degli autori (pp. 197s)
una lunga serie di nomi, a partire da Ventris: quasi una quarantina. Infine, accanto all’indice delle citazioni bibliche, sarebbe stato necessario quello della
letteratura intertestamentaria e giudaica, così frequentata dall’A. È vero che
alcuni nomi (per es. Giuseppe Flavio o Giovanni Lido) figurano nell’elenco
degli autori moderni, ma i rotoli di Qumran o altra importante letteratura no.
Tutto sommato il lavoro è accurato. In particolare, quanto alla traduzione,
saremmo più inclini ad apprezzarne l’accuratezza, se l’A. stesso, nel riproporne
alcuni versetti in seguito (cap. III), nel confronto sinottico, non ne desse spesso una diversa (si confrontino i vv. di Lev 16 ripetuti alle pp. 121ss; 127s; 130s
con i corrispondenti dati del cap. I).
A noi però interessa soprattutto la sostanza, cioè le idee sulla composizione, datazione e teologia di Lev 16. Perciò facciamo appello alle ultime voci
autorevoli, che difendono un’antichità ben maggiore di Lev 16: ci riferiamo
specialmente al commentario al Lev di Milgrom (vol. I), del 1991, citato ma
non seguito nel lavoro di Deiana, a B. Janowski (“Azazel-Biblisches Gegenstück zum ägyptischen Seth”, in Die hebräische Bibel und ihre zweifache
Nachgeschichte, Fs. Rendtorff, Neukirchen 1990, 97-110), non preso in considerazione (l’A. cita un altro lavoro di Janowski, del 1993, in collaborazione
con Wilhelm, ma senza prenderlo troppo sul serio quanto all’antichità delle tradizioni sul capro emissario).
Quanto alla teologia dell’espiazione, l’A. vi dedica solo il terzo excursus,
facendo delle distinzioni che sono discutibili per motivi opposti. La prima circa il significato dell’imposizione delle mani sul capro emissario: per gli uni
indicherebbe la trasmissione dei peccati e porterebbe alla teoria dell’espiazione vicaria, che implicherebbe la morte sacrificale della vittima offerta; per gli
altri indicherebbe la comunione dell’offerente con la vittima e non si baserebbe sulla morte ma solo sul valore espiatorio del sangue dell’animale (p. 182).
598
RECENSIONI
È davvero una distinzione adeguata? Nel nostro commentario al Lev (Casale,
Marietti 1982), nel primo dei cinque capitoli finali, dedichiamo alcune pagine
alla teologia dell’espiazione sacerdotale, inclusa l’espiazione vicaria (pp. 146149), facendo notare, tra l’altro, che il sacrificio non è espiazione vicaria: col
sacrificio si paga di persona. L’espiazione è vicaria quando uno paga per gli
altri; è vicaria quella del Servo di Jahweh e del suo sangue per noi.
Riguardo alla distinzione tra il TM e i LXX nella traduzione di Lev 17,11s,
circa il sangue che, rispettivamente, espia “mediante la vita” o “al posto dell’anima”, non siamo proprio del tutto convinti che solo nel secondo caso “l’offerta della vittima sostituisce quella dell’offerente” (p. 183) e, comunque, questo tema richiede una discussione più ampia di quella di Deiana; su di esso,
dopo le pagine dedicatevi nel nostro commentario, intendiamo tornare con uno
studio specifico, che programmiamo per LA 1996.
Tornando alla questione di fondo del lavoro di Deiana, crediamo opportuno far presente la nostra posizione. Nel nostro sfortunato commentario al Levitico (ritirato presto dal commercio) a p. 76, sosteniamo che Lev 16 è più unitario di quel che si pensi e ne datiamo la redazione finale al tempo di Esdra,
da noi messo all’inizio del sec. IV, e non contemporaneo di Neemia, che entra
in azione attorno al 450 a.C. Le fasi della formazione di questo documento, la
cui forma primitiva (Pg) nasce, per noi, in esilio, le descriviamo in un altro dei
capitoli finali, in appendice al commentario (pp. 170-174). Ivi manifestiamo
delle perplessità su ulteriori ritocchi redazionali. Le perplessità sono legate a
una datazione dell’Opera Cronistica, molto vicina ai rituali del Lev, che allora
ritenevamo piuttosto tardiva (250 a.C.) e che ci faceva ritenere molto tardivi
quei ritocchi redazionali. Ma ora, dopo il commentario alle Cronache di S.
Japhet (Londra 1993), che data il libro attorno al 350, siamo molto più decisi
nel sostenere per Lev 16 e tutto il sistema sacerdotale dell’espiazione una
datazione molto più antica di quella proposta da Deiana.
Il nostro commentario e le relative proposte di datazione non hanno avuto
fortuna. Ma la nostra opinione è incoraggiata da autorevoli opere recenti. Oltre al citato J. Milgrom, segnaliamo ora I. Knohl, The Sanctuary of Silence.
The Priestly Torah and the Holiness School, Minneapolis 1995. Per essi il
Documento sacerdotale è addirittura preesilico e anteriore al Deuteronomio e
la legge di Santità (Lev 17-26) è esilica, con redazione finale, tutt’al più al tempo dei Persiani. Qualcuno potrà sorridere, ma, dopo tutto, sono questi i veri
specialisti della letteratura sacerdotale ed è con essi, semmai, che ci si deve
confrontare.
La moda dei biblisti, almeno quella delle cerchie (romane) che contano,
porta a concentrarsi solo su lavori che sostengono la datazione più tardiva possibile di Lev 16, mentre ai lavori che lo dicono più antico, come il nostro
commentario, non si dedica nessuna attenzione. Ma di queste cose Deiana non
è assolutamente colpevole.
Enzo Cortese
OTTO
THEOLOGISCHE ETHIK DES ALTEN TESTAMENT
599
Otto Eckart, Theologische Ethik des Alten Testament (Theologische Wissenschaft 3,2), Kohlhammer, Stuttgart - Berlin - Köln 1994, 288 pp.
Fino a ieri un’etica dell’AT partiva e si basava sul concetto di alleanza. E questa veniva concepita come un’istituzione antica, religioso-cultuale. Nel contesto di tale istituzione Israele acquisiva la sua identità. Le leggi gli venivano
date, rinnovate, modificate nel corso dei secoli attraverso questa istituzione ed
erano perciò per loro natura religiose. Basti menzionare la Teologia dell’AT di
Eichrodt. Ma oggi l’istituzione dell’alleanza tra Dio e Israele è ritenuta da molti
una cosa tardiva, dell’epoca esilica o deuteronomista.
L’anfizionia è ormai considerata una favola. Essa fino a ieri era la struttura attraverso la quale le tribù, appena stabilitesi nella terra, si unirono pian piano tra loro in incontri in cui la dimensione religioso-cultuale era fondamentale. Questa era la culla del Jahwismo, cioè della religione che caratterizzò
Israele, anche se questa religione si riteneva provenuta dall’Est, importata in
Palestina dalle “tribù di Rachele”. Nel contesto dell’anfizionia si riformularono
i racconti dell’antica storia delle singole tribù e vennero “pan-israelitizzati”,
cioè divennero patrimonio di un passato concepito come storia comune. Nei
racconti del Sinai era facile, così, inserire già in epoca antica il tema dell’alleanza e della legge, data da Dio per mezzo di Mosè.
Sono poi arrivati dalla critica letteraria i dubbi sulla genuinità dell’ambientazione della legge al Sinai. E, in più, oggi molti negano anche la datazione
classica di questi racconti del Sinai, il cui strato più antico fino a ieri era attribuito ad un Documento J, del sec. X, ed E, del sec. IX. Oggi molti pensano
che Israele sia nato per lenta evoluzione dalla stessa popolazione cananea e che
il vero Jahwismo biblico sia una caratteristica comparsa tardivamente: solo a
partire dall’esilio. Come si concepisce, allora, la storia della legge in Israele,
nell’ottica nuova, oggi alla moda? Non è un puro caso che siano comparse recentemente due opere voluminose ed importanti, che tentano di rispondere alle
nuove esigenze. La prima, in ordine di tempo, è quella di F. Crüsemann, Die
Tora. Theologie und Sozialgeschichte des atl. Gesetzes, München 1992. Ad
essa faremo talvolta riferimento nel corso della discussione. La seconda è
l’opera che intendiamo appunto presentare.
Il lavoro di Otto fa parte d’una serie di testi che, per spiegarci, dovremmo
chiamare manuali per studenti di una facoltà di Teologia protestante. Questo è
il volume sull’etica, come spiega il primo capitolo, introduttivo (pp. 9-17). Ma,
per il valore dei contenuti, esso interessa molto a chi, sorvolando sull’introduzione, si dedica semplicemente allo studio dell’AT e in particolare al tema delle sue leggi. Il volume ha il vantaggio di contenere, o condensati o sviluppati,
tanti lavori specifici dell’A. sull’argomento, studi che si trovano sparpagliati
in differenti riviste o libri.
Nel cap. II si passa subito allo studio del Codice dell’Alleanza (Es 21ss.),
cui l’A. si era preparato soprattutto con due specifici volumi, citati rispettiva-
600
RECENSIONI
mente nella bibliografia speciale e generale della stessa sezione: uno sul Codice
stesso, del 1988, e l’altro sul confronto con il Codice antico-babilonese di
Eshnunna, del 1989. Il cap. II, sul Codice dell’alleanza, è lo studio più lungo (pp.
18-116) e forse più importante, almeno dal punto di vista dell’informazione, per
chi non è specialista sull’argomento. Dopo una panoramica aggiornata sullo stato delle ricerche (II.1), si studia il diritto casuistico (II.2) ed apodittico (II.3).
Inoltre si approfondisce il tema del diritto matrimoniale (II.4) e si trattano gli
aspetti della solidarietà (II.5), della serietà dei processi (II.6), della tutela dei
deboli (II.7). Segue un aggiornato studio della questione del taglione (II.8). Ma
le pagine forse più interessanti e problematiche sono dedicate all’aspetto teologico: come, cioè, in Israele, nasce la legge morale da questo diritto (II.9, pp. 81111). Tale nascita sembrerebbe coincidere soprattutto con la crisi della comparsa
della grande povertà prodotta dal sistema, che potremmo chiamare capitalistico,
introdotto dalla monarchia.
Il capitolo si conclude con un collegamento ed un’applicazione all’economia moderna dei principi studiati nel Codice dell’Alleanza (II.10).
Nello studio della legge dell’AT è interessante ed utile dare anche uno
sguardo alla letteratura sapienziale. E’ quanto l’A. fa, in parte, nel cap. III (pp.
117-174); diciamo in parte, perché l’esame della letteratura sapienziale tardiva
d’Israele (Siracide) vien fatto dopo, alla fine del cap. successivo. Ma qui, nel
cap. III, si premette opportunamente una buona panoramica sulla sapienza egiziana, seguendo le tappe dei grandi periodi di quell’impero (III.1), e su quella
della Mesopotamia (III.2).
La Sapienza israelitica è divisa cronologicamente e contenutisticamente in
preesilica, “induttiva” (III.3.1), in quanto scoperta nell’osservazione della realtà,
e postesilica, “deduttiva” (III.3.2), in quanto dedotta (o discussa) partendo dalla
concezione sapienziale classica su Dio remuneratore. Nella prima sezione si trattano le antiche raccolte del libro dei Prov (Prov da 10 in poi) e nella seconda Prov
1-9, Giob e Qoh (o Eccle). Da segnalare che i due ultimi libri non sboccano, secondo Otto, in quello scetticismo radicale che molti pensano.
Nel cap. IV (pp. 175-263) c’è tutto il resto. Contrapposta all’etica ricavata
nel cap. precedente dalla natura, ad opera della sapienza, viene trattata quella
nata nella storia, a partire dall’esilio (!). Essa si trova anzitutto nel Codice
Deuteronomico (IV.1.1-3) e nel decalogo di Deut 5 (IV.1.4), il quale è ritenuto
genuino solo qui e non in Es 20, cioè nei precedenti racconti sinaitici. Codice
nella forma completa e decalogo non si hanno prima dell’esilio.
Questa etica si trova poi nella letteratura sacerdotale (IV.2), ritenuta
postesilica, senza distinzione tra strato primitivo e strati posteriori, in particolare nella teologia dell’espiazione (IV.2.1s) e nel posteriore Codice di Santità
di Lev 17-26 (IV.4). Come abbiamo già fatto rilevare, Otto ritiene che la legislazione (Codice di Alleanza e previo decalogo di Es 20) sia stata inserita nella storia del Sinai solo dalla redazione tardiva che unì Tetrateuco e Opera
deuteronomistica (IV.2.3).
OTTO
THEOLOGISCHE ETHIK DES ALTEN TESTAMENT
601
L’ultimo punto di questo lungo ed eterogeneo capitolo tratta dell’Ecclesiastico o Siracide (IV.3), tappa finale della sapienza. E’ lì che si opera la fusione
e riconciliazione tra le due ottiche, quella sapienziale e universale e quella storica e specificamente israelitica della legge.
Così son passate in rassegna quasi tutte le parti dell’AT. Mancano un po’ i
profeti: solo i preesilici sono trattati brevemente in II.9.5; alcuni salmi vengono presi in considerazione alla fine di II.9.1 (Sal 8) e in II.9.2 (Sal 15; 24; 93).
Quanto all’apocalittica, si considera Dan nel cap. V (pp. 264-269), che è la
conclusione del lavoro.
Seguono gli indici: delle citazioni bibliche e di quelle dell’antica letteratura, egiziana e babilonese ed uno, prezioso, secondo tematiche e contenuti.
I temi o punti principali che sono emersi dalla ricerca l’A. li enumera nella conclusione: storia delle codificazioni delle leggi (“Normensysteme’) dell’AT, loro trasformazione religiosa (“Begründung und Legitimation”) e problema dell’opposizione tra osservanza della legge e riuscita nella vita.
Trattare tutti gli argomenti studiati dall’A., qui è impossibile. Basta scorrere l’indice dell’opera per vedere quanti sono e quanto sono interessanti. Nella discussione lasceremo un po’ da parte l’ultimo punto, che riguarda più la
letteratura sapienziale. Ma apprezziamo l’aver dato anche uno sguardo a questo settore biblico, cosa che, invece, non ha fatto Crüsemann. Dopo il lavoro
di Gerstenberger, Wesen und Herkunft des apodiktischen Rechts, del 1965, era
quasi obbligatorio farlo; Gerstenberger, a ragione o a torto, ha creato l’opinione che l’origine delle leggi tipiche d’Israele vada ricercata non negli incontri
religioso-cultuali dell’anfizionia, ma nell’ambiente laico e sapienziale del clan.
A noi interessa di più occuparci degli altri due punti, dove, tra l’altro si ammira meglio la competenza specifica di Otto.
I pregi che vogliamo segnalare sono molti. Anzitutto quello di saper risalire sino alle lontane origini d’Israele e delle sue leggi nell’esame del Codice
dell’Alleanza; poi quello di tener molto presenti i Codici legislativi dell’Antico Oriente, due cose alle quali Crüsemann ha rinunciato, per i motivi già ricordati all’inizio. Da questi due pregi ne deriva un terzo: il considerare attentamente non solo le leggi, ma la loro sistemazione e la struttura loro data nei
tre rispettivi codici biblici.
Lo studio è corredato di abbondante ed aggiornata bibliografia, premessa
ad ogni capitolo e alle principali sue suddivisioni, ed è frutto di lunghe ed accurate ricerche, previe o parallele. Per il Codice dell’Alleanza abbiamo già ricordato le principali. Per il Codice Deuteronomico è in arrivo Rechtsreformen
in Juda und Assyrien. Studien zum Deuteronomium und zum mittelassyrischen
Kodex, nella serie di Leiden (Brill): Studia et Documenta ad Jura Orientis
Antiqui Pertinentia. Per il Codice di Santità, oltre ad alcuni articoli indicati
nella bibliografia di IV.2.1 e 2.4 e oltre ad un’ottima analisi nel nostro libro, è
in cantiere addirittura un commentario al libro del Levitico. Senza dire dei
numerosi articoli dell’A. sull’argomento.
602
RECENSIONI
Ma veniamo, ora, anche alla critica e alla discussione. Non stiamo a dire
dei limiti e delle omissioni di altra letteratura biblica o intertestamentaria. Sarebbe impossibile in un solo volume esaminare tutti i testi biblici ed extrabiblici che hanno a che fare con la legge e la morale. Ricordiamo, per es.,
Maccabei, Tobia o la parte di Daniele che per noi cattolici è deuterocanonica,
con la sua storia di Susanna. Forse qualcosa in più si doveva, comunque, dire
sui rituali e soprattutto su Lev 1-7 e 11-15 e sulla loro caratteristica lotta all’“impurità” rituale e al peccato.
Si è già capito fin dall’inizio, poi, che non riteniamo accettabile la tesi che la
legge sia stata inserita nei racconti predeuteronomistici del Sinai solo da una redazione tardo-postesilica. In ciò preferiamo Crüsemann, per quanto sia anche lui
piuttosto titubante sulla questione. Con Crüsemann riteniamo pure che il Codice
Deuteronomico sia preesilico e non esilico. La datazione esilica porta Otto a datare genericamente il Codice sacerdotale in epoca troppo tardiva, ancor posteriormente il Codice di Santità, ignorando completamente gli studi recenti sulla letteratura sacerdotale e la sua datazione, in particolare quello ormai classico di A.
Hurwitz, A Linguistic Study of the Relation between the Priestly Source and the
Book of Ezechiel. A New Approach to an Old Problem, Paris 1982.
Anche per la bibliografia forse è preferibile Crüsemann che mette il suo lunghissimo elenco tutto alla fine. Quello di spezzettarla e distribuirla nelle singole
sezioni ha il vantaggio di far capire meglio il contenuto delle opere citate, ma
implica ripetizioni, dato che un’opera può essere citata per più argomenti, e soprattutto provoca l’inconveniente dei rimandi ad altre parti. Per ragioni di spazio
Otto dà inoltre citazioni troppo brevi, per lo più senza dire la città dove l’opera è
stampata. Segnaliamo, qui, inoltre l’omissione dell’opera di H.P. Mathys, Liebe
deinen Nächsten wie dich selbst. Untersuchungen zum atl. Gebot des Nächstenliebe, Freiburg Schw. 1986, nella bibliografia di p. 243, opera che pure viene citata a p. 247. Così pure, facciamo osservare che l’opera di A. Schenker, Versöhnung und Wiederstand, 1990, non si trova, come è detto a p. 74, in I.2, ma in
II.2, a p. 25.
A parte questi dettagli, c’è però un problema più importante che vorremmo qui discutere e che abbiamo ventilato fin dall’inizio. Secondo Otto le leggi
dell’AT ricevono il loro timbro religioso tipico, jahwistico, solo tardivamente.
Certo, va riconosciuto all’A. lo sforzo di superare l’impasse attuale dell’esegesi, che sembra non saper risalire oltre l’esilio nella datazione del Jahwismo
genuino. Otto vede il marchio dell’etica jahwista non semplicemente nell’attenzione per il povero, ma nel fatto che questa attenzione è voluta da un Dio
che tiene ormai assieme i clan in una comunità più ampia (II.9; specialmente
pp. 88ss). Ciò presupporrebbe la teologia regale gerosolimitana (p. 85), che lui
mostra citando i ricordati Salmi 8, 5, 24…
Questa etica jahwista sarebbe ulteriormente affinata grazie ai profeti
preesilici che difendono i poveri nella crisi economico-sociale provocata lentamente dalla monarchia.
OTTO
THEOLOGISCHE ETHIK DES ALTEN TESTAMENT
603
Ma la crisi della monarchia ha proprio portato allo sfascio di quella società tribale da cui è nata la legge d’Israele. Sembra perciò discutibile che la trasformazione jahwistica della legge avvenga proprio ad opera di istituzioni
monarchico-gerosolimitane, di quella monarchia che è la causa del crollo della
società da cui nascono le leggi. A priori si dovrebbe dire che lo stato
monarchico doveva cancellare le leggi e non cercare di salvarle. La comunità
cui Dio dà coesione, destinataria delle leggi, non è lo stato monarchico, ma
qualcosa di anteriore. Aveva ragione M. Noth – di cui ricordiamo il troppo dimenticato Die Gesetze im Pentateuch, del 1940 (e poi in Gesamm. St., 1960) –
a dire che le leggi d’Israele non vengono dalla monarchia, ma sono anteriori e
vengono da un “Israele” premonarchico. E noi precisiamo che sono anteriori
anche nella loro caratteristica jahwista, religiosa.
Purtroppo combattendo esageratamente la teoria dell’anfizionia, si è buttato via tutto: colle fasce, anche il bambino, come si dice. Adesso siamo ridotti
all’impossibilità di immaginare degli incontri tra le tribù che abbiano pian piano portato alla formazione d’Israele, prima della monarchia. Eppure ci sono
testi che dicono che le tribù si riunivano. Basti citare Giud 5. Come facevano
a riunirsi per una battaglia, se non c’era qualcosa in comune e se questo qualcosa in comune non era soprattutto un culto, una forza religiosa, un credo comune, per usare le parole di von Rad? Sembra che oggi molti esegeti siano
tutt’al più disposti ad ammettere che le tribù si radunavano solo per motivi
profani. A discutere di politica, di filosofia o di sport, forse?
La scoperta di tante figurine della “pietà privata” negli scavi archeologici
spinge molti a ritenere che il Jahwismo sia nato più tardi. Ma tale dato archeologico deve semplicemente aiutare a correggere un’immagine troppo semplificata del primitivo jahwismo comune delle tribù, non a negarlo.
A questo proposito è significativo l’esame delle scoperte archeologiche dei
templi di Palestina fatto da W. Zwickel, Der Tempelkult in Kanaan und Israel,
Tübingen 1994 (si veda la recensione in questo stesso volume). Egli conclude
che praticamente nessun tempio del tardo bronzo è rimasto in uso nell’epoca
del ferro e nella civiltà delle tribù improvvisamente spuntate in Israele, se non
nella zona filistea e a Bet-Shean (p. 341). Non che queste popolazioni nuove,
che le scoperte archeologiche di I. Finkelstein mostrano essere in totale
discontinuità nei confronti della precedente civiltà cananea (si veda in From
Nomadism to Monarchy. Archaeological and Historical Aspects of Early Israel,
edd. I. Finkelstein - N. Na’aman, Jerusalem 1994), fossero atee o s’incontrassero solo per parlare di filosofia o di politica. Avevano le loro “bamoth”, dove
incontrarsi. E’ lì che il jahwismo iniziale, per quanto rudimentale, si è imposto
e diffuso ed è lì che sono nate le leggi, religiose e jahwiste fin dall’inizio. Non
si deve dimenticare che anche nella forma primitiva delle leggi del Codice dell’Alleanza, per la soluzione del caso giuridico, è frequente il ricorso a Dio o il
pellegrinaggio al suo luogo di culto (Es 21,6.13; 22,7s.10), e si parla di sacrifici e di offerte (22,19.28s)! E questo luogo di culto non è affatto il tempio di
604
RECENSIONI
Gerusalemme. Si tratta di diversi luoghi sacri, in una fase molto anteriore alla
centralizzazione del culto.
E, soprattutto, pensiamo che nella legislazione antica d’Israele si debbano
ancora distinguere due tipi di leggi: casuistica ed apodittica. Quella casuistica
è originariamente destinata ai giudici; non tocca al privato dare esecuzione alle
pene stabilite per le varie trasgressioni. Quella apodittica, invece, è destinata
direttamente al popolo; non è ai giudici che si ricorda che non bisogna presentarsi a Dio a mani vuote o che non si deve uccidere. A. Alt aveva fatto notare
che è la legislazione apodittica quella che caratterizza Israele. Ma anche a lui
è toccata la sorte di Noth. Invece di limitarsi a correggere certi errori della sua
teoria e migliorarla, la si è buttata. E così si è finito per dire o che la legislazione apodittica è laica e nient’affatto jahwistica o che essa è un elemento aggiunto tardivamente. Bisogna invece ritenere che, alle origini, si proclamasse
ad Israele, nel suo antico culto, non un codice destinato ai giudici, ma la legislazione di tipo apodittico. Solo tali leggi, e in primo luogo i comandamenti,
erano originariamente ambientate nel culto primitivo.
Il decalogo, dunque, contrariamente a quanto pensa Otto, non è il risultato
finale di tutta la storia della legislazione israelitica, nato solo nell’esilio e inserito nei fatti del Sinai solo dopo.
Per queste ragioni, che qui non possiamo sviluppare oltre, ci sembra che lo
sforzo di E. Otto per una ricostruzione della storia della legge israelitica, pur
essendo oggi, forse, quello meglio riuscito, debba tuttavia essere completato.
Enzo Cortese
Tov Emanuel, Textual Criticism of the Hebrew Bible, Fortress Press, Minneapolis - Van Gorcum - Assen - Maastricht 1992, XL-456 pp., $ 40.00
“Ogni persona provvista di buon senso non deve aspettarsi da trattati di critica
testuale niente a cui non possa pervenire con la personale ricerca… Ciò che un
trattato sull’argomento può offrire è un risparmio di tempo e fatica presentando immediatamente risultati (e considerazioni) ai quali in ogni caso si sarebbe
arrivati da soli prima o poi”. Queste parole, con le quali Tov introduce il suo
volume, danno il senso di quest’opera.
Dopo l’introduzione, nella quale vengono riportati un’ampia e appropriata
bibliografia e l’indice generale, seguono 9 capitoli. Ne prendiamo in esame alcuni.
Il cap. I (pp. 1-20) è un’introduzione in cui l’A. introduce il lettore ai problemi più generali, come la necessità della critica testuale per sapere interpretare con spirito critico i problemi, la disposizione del testo biblico, la numerazione e divisione in versetti, le differenze di consonanti, vocali e accenti, gli errori
nelle diverse edizioni della Bibbia, i problemi legati alla trasmissione del testo.
La seconda parte di questo capitolo tratta propriamente della critica testuale: dal
TOV
TEXTUAL CRITICISM OF THE HEBREW BIBLE
605
concetto di critica testuale si passa ad una breve storia dello studio critico del testo
biblico e alla definizione dei termini tecnici usati in questa scienza.
Il cap. II (pp. 21-154) è, insieme al cap. IV, il capo centrale dell’opera. Dopo
aver introdotto la distinzione fra Testo Masoretico e Testo Proto-Masoretico (l’esistenza del TPM deve essere ipotizzata a causa della grande diversità dei testimoni del TM), vengono presentate le differenze principali che sono di diversi tipi:
note della masora, sistemi di vocalizzazione, differenze nel testo consonantico,
ecc. L’evoluzione del testo consonantico della Bibbia ebraica può essere ricondotta
a tre principali momenti: a) dal momento della nascita fin verso l’anno 70 (distruzione del secondo tempio). In questo primo periodo della durata di quasi
1000 anni il testo consonantico non ha subito cambiamenti di rilievo (p. 30).
b) Nel secondo periodo, che va dal 70 all’ottavo secolo, i manoscritti hanno una
serie di varianti piuttosto limitata. c) Nel terzo periodo che va dall’ottavo secolo
alla fine del Medioevo il testo consonantico diventa standardizzato grazie anche
all’aggiunta di vocalizzazione, accenti e note della masora necessitanti di una
base consonantica fissata (p. 35).
L’A. passa poi a descrivere i diversi tipi di vocalizzazione: tiberiense, palestinese e babilonese (il tutto illustrato da tavole inserite nel testo) a cui seguono
elementi paratestuali (la masora parva). Seguono altri interessanti paragrafi dedicati agli accenti biblici, alla masora magna e parva e al loro oggetto e alle
diverse edizioni del TM. Quest’ultimo tema viene ripreso e approfondito nel cap.
IX dedicato alle edizioni critiche della Bibbia ebraica.
Gli ultimi due argomenti del capitolo riguardano il Testo Samaritano
(Pentateuco) e la sua relazione con i testi pre-samaritani e, infine, i testi biblici
provenienti da Qumran. Particolare attenzione merita l’approccio ai testi di
Qumran, campo in cui l’A. è specialista. Dopo aver presentato una lista sintetica
delle copie dei testi biblici trovati a Qumran, Tov spiega le caratteristiche ortografiche e morfologiche di questi testi e altre caratteristiche minori.
L’ultima parte del capitolo (pp. 121-154) è dedicata alle antiche versioni
della Bibbia. Lo spazio maggiore viene riservato alla LXX e alle sue revisioni
(recensioni), data la sua antichità (e data la specializzazione dell’A.), a cui seguono i Targumim, la Peshitta e la Volgata. L’A. mostra l’utilità delle antiche
versioni (in particolare la LXX) nella ricostruzione del testo ebraico tradotto.
Il cap. IV (pp. 199-285) tratta della copiatura e trasmissione del testo
biblico. Si spazia dagli elementi più semplici, come materiale e dimensione
dei fogli su cui si scriveva, al modo di scrivere, divisione del testo, sticometria, procedure scribali nello scrivere e correggere i loro Mss, qualche nozione di paleografia e un paragrafo sull’ortografia corredato da diversi esempi. L’ultima parte del capitolo, dedicata alla trasmissione del testo, è la parte
più interessante. Qui affiora l’esperienza del docente nella materia.
Il cap. VI (pp. 293-311) è un capitolo di sintesi in cui l’A. tenta di dare una
sua interpretazione e valutazione delle varianti testuali. Più che stabilire o ripetere una serie di regole / criteri, Tov si mantiene sul generale: offre criteri esterni
606
RECENSIONI
ed interni e li discute. Non vi sono regole assolute come, ad es., una preferenza
incondizionata per il TM, o il numero dei testimoni (manuscripta ponderantur,
non numerantur), o la loro antichità e frequenza (la critica testuale non procede
secondo la regola democratica della maggioranza), oppure la difficoltà di certi
testi (lectio difficilior potior). In definitiva vi sono solo letture preferibili ad altre
letture, ogni scelta rimane soggettiva e la scelta più giusta è frutto di arte più che
risultato dell’applicazione di regole.
Il cap. VII (pp. 313-349) tratta della critica letteraria e del suo rapporto con
la critica testuale. La prima si occupa dello stadio della crescita del testo biblico
fino a un punto ritenuto definitivo per quanto concerne il contenuto. La seconda
prende in esame la ricopiatura e la trasmissione testuale delle composizioni definitive. Dopo aver posto alcune premesse di ordine pratico, Tov discute in 13
paragrafi altrettanti esempi di diversi strati letterari individuabili e ricostruibili
dal confronto fra il TM e le versioni antiche. I primi quattro esercizi, riguardanti
rispettivamente gli strati letterari di Geremia, Giosuè, Ezechiele e 1Sam 16-18,
mostrano chiaramente il modo di procedere di Tov. Anche chi non fosse d’accordo con l’A. dovrà riconoscere la sua chiarezza espositiva e il suo ordinato modo
di procedere. Le ultime pagine del capitolo sono dedicate alla problematica interpretazione / valutazione (sia testuale che letteraria) dell’evidenza. L’A. raccomanda la prudenza nell’interpretare i dati ottenuti dal confronto anche se, dopo
tale analisi, sarà opportuno trarre qualche conseguenza. In altre parole, è più
facile mostrare le differenze di carattere letterario che valutarle.
Il cap. VIII (pp. 351-369) tratta degli emendamenti congetturali del testo. La
frase citata dall’A. all’inizio del capitolo: “nessuna parte della teoria della critica
testuale ha sofferto di maggior incomprensione che l’emendamento congetturale”,
sembra esprimere bene il suo punto di vista al riguardo. Ciononostante l’A. riporta in maniera oggettiva i pareri degli studiosi nei confronti dei vari tipi di emendamenti (di carattere contestuale, linguistico, metrico); vi sono proposte accettate
dalla maggioranza degli studiosi (ad es. le parole in Amos 6,12; Ez 3,12; Is 11,15),
mentre altre sono molto più discusse. Tov si mostra abbastanza critico (a ragione)
verso gli emendamenti linguistico-grammaticali, la maggioranza dei quali non
sono necessari. E’ abbastanza scettico anche verso gli emendamenti dovuti a ragioni metriche. Non possiamo che condividere il suo pirronismo al riguardo.
L’ultimo capitolo (pp. 371-378) tratta delle edizioni critiche del testo della
Bibbia ebraica. Viene ripreso e sviluppato un tema già trattato alle pp. 77-79.
Abbiamo, fino ad oggi, solo due edizioni critiche della Bibbia ebraica, cioè la
BH e la BHS da un lato e la Bibbia dell’Università ebraica di Gerusalemme
dall’altro. La prima (o le prime) è l’unica edizione critica completa, mentre la
seconda, voluta in particolare dal compianto prof. Goshen Gottstein, è in fase di
stallo. Tov spiega brevemente le caratteristiche e gli intenti di ogni opera.
Seguono 30 tavole che riproducono manoscritti ed edizioni del testo biblico.
Infine tre indici: delle fonti antiche bibliche e non bibliche (pp. 411-434), degli
autori (pp. 435-442) e degli argomenti trattati (pp. 433-456).
ZWICKEL
DER TEMPELKULT IN KANAAN UND ISRAEL
607
Dobbiamo essere grati all’A. per l’immenso lavoro svolto e per la miniera di
informazioni che ci propone in sintesi chiara e precisa. Il lavoro di Tov è una
sintesi ordinata e un’altrettanto ordinata introduzione al metodo storico-critico.
La bibliografia riportata all’inizio dei singoli capitoli o paragrafi permette e stimola l’approfondimento personale. Insomma, si tratta di un libro da raccomandare a docenti e studenti.
Mi pare che la parte più riuscita dell’opera siano i capitoli in cui Tov riporta
i dati. Le disquisizioni di natura filosofica, ad es. sulla validità dei criteri su cui si
basa la critica testuale, sono (almeno per me) meno interessanti.
Massimo Pazzini, ofm
Zwickel Wolfgang, Der Tempelkult in Kanaan und Israel. Studien zur Kultgeschichte Palästinas von der Mittelbronzezeit bis zum Untergang Judas
(Forschungen zum AT 10), J.C.B. Mohr, Tübingen 1994, XVI-424 pp.
Dopo quattro anni dalla pubblicazione in OBO 97 (1990) a Friburgo svizzera
della tesi di laurea, discussa a Kiel nel 1988, l’A., oltre ad articoli, già numerosi, e all’edizione di una raccolta di studi sul sacrificio olocausto, in onore
del suo maestro M. Metzger, presenta questo voluminoso e bel lavoro come
abilitazione, presso la stessa università tedesca. Esso ricalca il metodo seguito
nella tesi, allargando il campo della ricerca. Là si trattava di studiare gli
incensieri, nell’archeologia e nella Bibbia, qui gli oggetti di culto, specialmente in riferimento al sacrificio.
L’A., quindi, pur dedicandosi allo studio della Bibbia e del suo culto, ha
acquisito una notevole competenza anche in archeologia e la sua capacità di
tener lo sguardo rivolto su entrambi questi settori, Bibbia e archeologia, è ricca di prospettive per le ricerche future sulla storia del culto israelitico.
Come dice il sottotitolo, i dati archeologici presi in considerazione sono solo
quelli dei periodi che vanno dal Bronzo Medio al Ferro II, fino alla distruzione
di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, con particolare attenzione al momento
del passaggio dall’ultimo Bronzo al Ferro I, cioè all’epoca in cui compaiono
quelle popolazioni tra cui emergerà il popolo d’Israele. Il Bronzo Medio è scelto come punto di partenza, perché ai suoi inizi si nota un grosso cambio epocale
(p. 6).
Dopo l’introduzione, Zwickel chiarisce i termini della questione, discutendo i criteri per distinguere tra tempio, cappella e spazio sacro di abitazioni private, in maniera che, di fronte alla rassegna dei dati archeologici, non si finisca col fare la confusione che oggi va di moda, parlando solo di “pietà privata”.
Egli presenta pure lo stato delle ricerche, le quali, anche a causa di quella confusione (e della mentalità secolare o secolaristica di alcuni autori), oggi sono
piuttosto stagnanti.
608
RECENSIONI
Praticamente il lavoro si divide in due parti, anche se la seconda, quella
biblica che abbiamo nel cap. VII, non è chiaramente distinta.
La parte archeologica ha quattro capitoli, da III a VI, uno per ogni epoca,
essendo quella del Ferro suddivisa in due. In ognuno si passano in rassegna
prima i ritrovamenti che sono solo apparentemente cultuali, poi quelli discutibili ed infine quelli sicuri; infine si dà un primo bilancio dell’esame fatto. Per
leggere questa prima parte del lavoro è raccomandabile munirsi d’una cartina
d’Israele con le coordinate, visto che il libro, peraltro fornito di una cinquantina di disegni dei siti archeologici, purtroppo non ce l’ha.
Il periodo del Bronzo Medio è studiato nel cap. III (pp. 17-74). Tra i siti
sicuri ci sono quelli di Megiddo, Sichem e dintorni, Gezer, Ascalon…, ma
molti sono scavi vecchi, fatti, per di più, con criteri che non permettono quelle
deduzioni che si richiederebbero oggi. Nei centri grandi ci sono templi di notevoli proporzioni, influenzati dal modello siriano e talvolta da quello babilonese. Il fedele è tenuto distante dalla divinità. L’importanza dei banchi di
depositi delle offerte e dei podii (per le statue) sembra piuttosto ridotta rispetto all’epoca del Bronzo Antico. Al posto del podio prende piede la nicchia. Ma
la caratteristica principale dei luoghi di culto di questo periodo sono le steli
(maßßebot) e le figurine femminili nude, indizio del culto della fertilità. Il culto dei templi è spesso al servizio delle autorità civili e dei nobili, come risulta
dagli ex voto scoperti.
Il Tardo Bronzo (cap. IV, pp. 75-203) è quello che ci offre il maggior numero di reperti (26, contro i 18 dell’epoca precedente), soprattutto a Megiddo,
Lakish, Hazor, Bet Shean. Gli scavi, fatti per lo più secondo tecniche più moderne, forniscono dati migliori. Si impone una forma unica di tempio, dentro la
città, e quindi ancor più strettamente legato alle autorità politiche; scarsi i luoghi sacri in campagna. Si mantiene la distanza tra il fedele e la divinità e il punto più sacro è tentuto più nascosto ai profani. Specialmente ad Hazor compaiono strutture che poi troviamo nel tempio salomonico. Invece della nicchia risalta
l’altare ed abbondano in numero e misura i banchi per il deposito delle offerte.
Rispetto alle figurine femminili aumentano quelle delle divinità maschili e diminuiscono di molto le maßßebot (ci sono solo a Sichem). Nei siti si trovarono
strumenti musicali, segno di riti accompagnati dal canto e dalla danza, cosa che
continua nell’epoca successiva. Una parte essenziale di tali riti era costituita da
pasti sacri che non sempre presuppongono l’uccisione sacrificale di animali. Dai
reperti si deduce anche la presenza degli aruspici, la cottura dei pani per il culto,
il bruciamento sacrificale di certe parti dell’animale mangiato nel pasto sacro, le
libazioni ecc. Nell’insieme si nota continuità rispetto al culto dell’epoca precedente ed uno sviluppo del (sacrificio con) pasto comunitario e delle libazioni.
Rarissimi diventano improvvisamente i templi nell’epoca studiata nel cap.
V, il Ferro I, a partire dal sec. XII (pp. 204-239), nonostante che vi si noti una
grande moltiplicazione di insediamenti, soprattutto sugli altopiani della Palestina centrale e settentrionale.
ZWICKEL
DER TEMPELKULT IN KANAAN UND ISRAEL
609
Da ricordare subito che Zwickel combatte l’opinione di Zertal e di altri
sulle strutture scoperte recentemente sopra il monte Ebal. Per l’A. non si tratta
di altare; non è dunque “l’altare di Giosuè”!
Troviamo un centro cultuale di campagna ad una certa distanza da Sichem,
il cosiddetto sito del vitello, perché se ne scoprì un interessante modello di
bronzo. Ma di templi come quelli dell’epoca precedente ne troviamo solo nella zona filistea: Ekron, Ashdod e il non identificato Tell Qasile. In questi continua la tradizionale struttura del tempio e del relativo culto. Il che conferma
lo stupore di fronte all’improvvisa rottura operata dai nuovi arrivati nei confronti della religione dell’epoca precedente. Costoro compiono i loro riti in
“alti luoghi” (bamot) in aperta campagna.
Nel cap. VI (pp. 240-284) si presentano i dati archeologici cultuali del Ferro II, dal sec. IX in poi. Tra le costruzioni sicuramente identificate come templi
c’è praticamente solo quella di Arad, il cui strato più antico risale al sec. IX.
La costruzione oggi famosa di Kuntillat ‘Ajrud (e di Der ‘Alla, p. 283) non è
un tempio. In questo periodo il culto in città sembra svolgersi piuttosto in case
private, dove la vecchia religione cananea ha trovato modo di sopravvivere (si
veda anche a p. 316). E’ in quel periodo che si sviluppa la pietà privata. Dove
ci sono templi, torna a farsi sentire l’influsso babilonese. Nell’unico tempio
israelitico conosciuto, quello di Arad, sito di cui manca ancora la pubblicazione completa, le due colonne dell’ingresso, simili a Jachin e Boaz di Gerusalemme, hanno probabilmente a che fare coi culti della fertilità. Scompare il
banco delle offerte e la prassi relativa, rimpiazzata dai sacrifici (di animali),
che fanno diventare centro della vita cultuale l’altare. Forse compare la prassi
delle purificazioni (una conca scoperta a Tell Arad).
Si trovano altari anche in case di privati, se non altro per l’uccisione degli
animali. Le maßßebot scompaiono a partire dal 750. A giudicare dai reperti di
Arad, anche altre installazioni cultuali da quel periodo vengono ridotte.
Nell cap. VII (pp. 285-339) comincia la seconda parte, quella dell’esame dei
testi biblici sulla prassi rituale d’Israele. Data la grande quantità di riferimenti al
culto, si scelgono i testi principali, in ordine cronologico. Testi del periodo
premonarchico si trovano in Giud 6, 1Sam 2 e 9 ed Es 20,24-26. Quelli del sec.
X (Documento Jahwista compreso) attestano la prassi di feste agricole (annuali)
con pasto sacrificale comune, in 1Sam 16 e 20; 1Re 8,2, come pure Es 10,9 (e
5,3; 8,21-25); Giud 9,27; 2Sam 15,7s. Ancora poco attestata è la prassi del sacrificio olocausto (1Sam 10,8; 13,7b-15a; Gen 8,20-22). 2Sam 23,16 ci parla di
libazioni. 1Re 1,50-53; 2,28s; 12,33-13,5; 1Sam 21,5 di altari ben costruiti e
1Sam 14,31-35 di altari improvvisati. Altari costruiscono anche Abramo (Gen
12,7s; 13,4.18), Mosè (Es 17,15), e già Noè (Gen 8,20), ma non ci sarebbe un
altare per l’olocausto neanche nel primitivo tempio di Salomone (1Re 6ss.)!
Zwickel raccoglie testimonianze bibliche antiche anche per altri oggetti cultuali
(Efod, Urim e Tummim, Terafim, Pani sacri ecc.) ed in Es 12,21ss segnala la più
antica menzione della Pasqua. Dai testi del sec. IX ricava ulteriori tracce del sa-
610
RECENSIONI
crificio annuale (1Sam 1ss), l’eco del culto di Baal (2Re 10,18-28 e 1Re 18,2140) e la prassi delle offerte in denaro per il tempio (2Re 12,10).
A questo punto Zwickel tratta i più antichi calendari delle feste (Es 23 e
34), fornendo una attendibile ricostruzione del loro sviluppo, a partire dall’antichissimo sacrificio annuale.
Sarebbe lungo fornire anche solo le citazioni dei testi del sec. VIII, inclusi
i testi profetici, sui vari sacrifici, le offerte, gli altari, la prassi degli oracoli, e
di quelli elohisti o jehowisti dell’epoca seguente.
Dopo un excursus sulla (improbabile) riforma di Ezechia (pp. 316ss),
Zwickel affronta lo studio dei testi del sec. VII, dove il Deut fa la parte del
leone (pp. 318-337) e il resto è ridotto praticamente a due facciate. In effetti, o
negativamente, per il culto condannato, o positivamente, per quello comandato, il Deuteronomio per gli scopi dell’A. è una miniera. Prima (pp. 320-328)
vengono studiate molte pericopi (12; 14,22-29; 15,19-23; 16,1-8.9-12.13ss.
16s.21s e 17,1; 18,1-8; 26,1-4.12-15; 27,4-8…). Segnaliamo che, tra gli autori
più recenti ivi citati e seguiti su Deut 12, il lavoro di Renger manca nella
bibliografia finale. Poi si dà una visione sintetica per contenuti: sul clima delle
feste, gli elenchi e la terminologia dei sacrifici, olocausto e di comunione, le
decime, le altre offerte obbligatorie e votive, specialmente i primogeniti. Non
c’è nel Deut l’altare dell’incenso e, naturalmente sono bandite maßßebâ e
’asherâ. Urim e Tummim sono menzionati solo in Deut 33,8. La sintesi termina esaminando il calendario deuteronomico delle feste. Dai pochi altri testi del
sec. VII Zwickel ricava ancora qualche elemento cultuale: per es. il carro dell’arca (1Sam 6,14), i sacrifici estemporanei, fatti lontano dal luogo di culto
(1Re 19,19ss e Num 22), ma i testi non ci sembrano qui al posto giusto, perché sono probabilmente più antichi. Si accenna, in particolare, a qualche rimprovero di Geremia (6,20 e 7,21s) sui sacrifici, alle contaminazioni cultuali di
Manasse (2Re 21,50) e alla Pasqua di Giosia (23,12.15), il cui tentativo di riforma non sortì effetto duraturo.
Siccome l’A. è cosciente di non poter dare una trattazione completa dei
testi biblici aventi riferimento al culto, mette poi una pregevole appendice, in
cui offre un elenco più completo della terminologia cultuale, dove le citazioni
sono catalogate secondo i vari periodi e documenti letterari e una seconda,
complementare, dove si ragruppano nelle varie epoche i termini prima esaminati in ordine alfabetico.
Le conclusioni (cap. VIII, pp. 340-344) non è necessario riferirle, anche
perché le abbiamo, praticamente, date alla fine di ogni capitolo. In fondo si
riducono a due: aver fornito dati archeologici che si illustrano vicendevolmente con quelli biblici per una accettabile e seria ricostruzione della storia del
culto ed aver mostrato la rottura nella prassi cultuale operata con l’arrivo della
popolazione da cui nasce Israele.
Un’ampia bibliografia (pp. 376-415), l’elenco delle citazioni bibliche e delle
poche extrabibliche ed un opportuno elenco di temi e contenuti chiudono il lavoro.
BOSETTI
LA TENDA E IL BASTONE
611
Non si tratta, ovviamente di un’opera definitiva e completa, anche perché
le future scoperte archeologiche spingeranno continuamente ad aggiornarla.
Noi non sapremmo segnalare lacune e ci sembra che il quadro generale, sia
archeologico che biblico, difficilmente subirà gravi modifiche.
Il libro, perciò, dovrebbe diventare uno strumento indispensabile per chi
vuole studiare la storia del culto israelitico.
Enzo Cortese
Bosetti Elena, La tenda e il bastone. Figure e simboli della pastorale biblica
(Narrare la Bibbia 1), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, 160 pp.,
L. 22.000
Niccacci Alviero, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza biblica
(Narrare la Bibbia 2), San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 186 pp., L. 24.000
Presento insieme queste due monografie con le quali inizia una nuova serie,
di cui in terza pagina di copertina si annunciano natura, obiettivi e destinatari.
“La collana raccoglie volumi agili che si propongono di comunicare, di narrare, di riattualizzare il testo biblico” e si rivolge principalmente a “studenti
di teologia, operatori pastorali, sacerdoti e laici”. Un’altra caratteristica non
priva di originalità è costituita dal corredo di appropriate illustrazioni che arricchiscono e completano il discorso, abbinando felicemente simbologia e citazioni bibliche. Analoga funzione complementare hanno i testi dei Maestri
di Israele abbondamente citati nel loro contesto e opportunamente rapportati
al discorso che viene fatto nel volume. La nascita di una nuova collana riservata ai biblisti italiani non può non rallegrare, sia perché indica la premura
“ecclesiale” di studiosi che cercano di rendere accessibili a un vasto pubblico
i frutti dei loro studi specialistici, sia perché purtroppo con frequenza gli
editori italiani piuttosto che incoraggiare e stimolare gli autori, ripiegano sulle
traduzioni di opere straniere, di cui francamente spesso non si riesce a vedere lo scopo e la necessità.
(1) Il primo volume si deve a Elena Bosetti, docente presso l’Università
Gregoriana di Roma, che lo ha scritto con una duplice sensibilità per il tema:
quella, per così dire affettiva, che le proviene dall’appartenenza a una congregazione religiosa che porta il titolo di Gesù Buon Pastore e quella, professionale,
che le hanno procurato i suoi studi. La Bosetti infatti si è specializzata in teologia
biblica con una ricerca su Il Pastore. Cristo e la Chiesa nella prima lettera di
Pietro, Bologna 1990. Anche la sua simpatia per le figure femminili traspira sensibilmente nelle insistenti sottolineature delle dimensioni “pastorali” di Rachele,
Miriam e Abigail.
Il titolo con il binomio “La tenda e il bastone”, preso nel suo valore storico e
simbolico, costituisce il “filo narrativo” seguito dall’A. per selezionare, presenta-
612
RECENSIONI
re e attualizzare figure, simboli e testi dell’universo pastorale biblico. Dopo una
rapida introduzione alla simbolica pastorale, di cui si mostrano le radici antiche e
profonde nelle letterature del Vicino Oriente Antico, al lettore si offre un itinerario
storico e teologico all’insegna della pastoralità biblica. Gli si fanno innanzi come
in una ideale galleria tre coppie di ritratti: Giacobbe e Rachele, Mosè e Miriam,
David e Abigail. Il titolo di questa parte “Pastorale al maschile e al femminile”, che
occupa un buon terzo del volume, rivela l’ottica molto particolare con cui queste
figure sono contemplate e che l’A. esprime ripetutamente in termini di “reciprocità”, di “complementarità”, di “una ‘leadership’ al maschile e al femminile”.
Al termine di ogni schizzo il lettore è ricondotto alla realtà ecclesiale con
sobrie e personali attualizzazioni. In tal senso Giacobbe e Rachele ricordano incessantemente la “funzione pastorale dei padri e delle madri”, Mosè e Miriam
sono riproposti “come ispirazione per quanti, in modi diversi, sono chiamati a
collaborare per la formazione umana, civile e religiosa del popolo di Dio”, David
e Abigail insieme ricordano che “il potere va sempre congiunto alla moderazione
e alla magnanimità” e che ogni forma di governo deve ispirarsi a uno stile autenticamente pastorale.
Figure e simboli pastorali percorrono nella Bibbia non solo i racconti, ma
esse fioriscono anche sulla bocca dei profeti, nelle invocazioni degli oranti e
nelle riflessioni dei sapienti. Un’accurata spigolatura di testi permette all’A. di
mostrare quanto viva e feconda sia rimasta la memoria del tempo in cui Dio si è
rivelato pastore che libera e salva Israele. Né si è trattato di una semplice permanenza. I profeti hanno arricchito la metafora pastorale per mezzo di risonanze e
nuove evocazioni. Presso di loro l’immagine si intreccia con il tema del resto,
della preferenza divina per i poveri e gli oppressi, con la denuncia della condotta
dei cattivi pastori.
Non meno di una dozzina di salmi accennano a Dio come pastore o a Israele
come gregge del Signore e il Sal 23 ha addirittura meritato il titolo di canto al
Buon Pastore. Per i Sapienti vengono ricordate la terminologia pastorale e dell’amore del Cantico dei Cantici, la simbologia del pastore che il Siracide usa per
spiegare la misericordia universale del Signore verso le sue creature e l’affermazione di Qoelet secondo il quale Dio è pastore degli uomini perché ha dato loro i
detti dei saggi.
Il discorso “narrativo” fatto dall’A. si ferma alle soglie del NT quando figure e simboli si sono caricati di significati convergenti e complementari. In questo
senso basta ricordare un testo del Documento di Damasco, che avrebbe ben figurato tra i testi giudaici antichi: “E questa è la regola per l’ispettore dell’accampamento. Istruirà i molti nelle opere di Dio, insegnerà ad essi le sue meravigliose
gesta e narrerà davanti a loro gli eventi eterni con franchezza. Verso di loro sarà
comprensivo come un padre verso i suoi figli e ‘ricondurrà’ tutti i dispersi come
un pastore il suo gregge” (CD XIII,7-9; tr. L. Moraldi).
L’A. si ripromette di completare questa “teologia biblica pastorale” dell’AT
con un secondo volume dedicato al NT e alla tradizione cristiana. Tuttavia l’iti-
NICCACCI
LA CASA DELLA SAPIENZA
613
nerario già percorso vuole contribuire all’apertura di nuove prospettive per il
rinnovamento della pastorale nella Chiesa stimolando “donne e uomini” e la comunità a confrontarsi con gli aspetti permanenti delle figure e dei simboli pastorali della Bibbia. Tale confronto aiuterà a tenere nel dovuto conto la “dimensione
laicale” della pastorale biblica, affinerà sempre più l’esercizio del ministero pastorale, farà crescere la saggezza pastorale.
Anche se, data la natura del volume, non si dà spazio ai problemi storicoletterari posti talvolta dai libri e testi biblici esaminati, essi tuttavia sono sempre
tenuti presenti e non raramente accennati con sobrietà. L’opera renderà certamente un utile servizio al pubblico cui è destinato e aiuterà molti a comprendere
e gustare non poche pagine della Scrittura.
(2) Autore della seconda monografia è Alviero Niccacci, professore di lingua ebraica e di esegesi anticotestamentaria nello SBF. Il volume riflette in misura determinante i suoi studi precedenti sui libri sapienziali e le posizioni che
egli ha espresso in articoli già pubblicati sia sulla teologia sapienziale in genere,
sia su aspetti storico-letterari particolari di singoli libri e testi.
La monografia ha un tono elevato e impegna il lettore in analisi dettagliate e
in sintesi molto dense. Il tenore del libro e soprattutto il lavoro personale dell’A.
sui testi lo dispensa da rinvii a opere e autori, fatta nobile eccezione per G. von
Rad (La sapienza in Israele), ma chi è introdotto, sia pure limitatamente ai libri
biblici sapienziali, troverà che egli dialoga di continuo e criticamente con gli
altri studiosi. L’A. non si concede sconti nell’affrontare seriamente i problemi
storico-letterari dei testi che tratta, e tanto meno accetta luoghi comuni, divenuti
principi assiomatici, in esegesi e teologia dei libri sapienziali. Il volume risulta
chiaramente una “introduzione speciale” ai libri sapienziali e alla loro teologia e
contribuisce notevolmente con apporti originali allo studio della Sapienza biblica. Sono certo che anche professori e studenti di Sacra Scrittura lo accosteranno
con frutto.
Il sottotitolo della monografia potrebbe dare l’impressione di un’opera non
organica, ma non è così almeno per due ragioni, una intrinseca e l’altra metodologica. Le “voci”, di cui l’A. si è messo – e mette il lettore – in ascolto, e i
“volti”, i cui tratti egli disegna, convergono, non secondariamente o artificialmente, ma per un dinamismo interiore verso “Gesù di Nazaret Maestro di sapienza e Sapienza incarnata, voce e volto del Dio invisibile, mediatore perfetto
tra Creatore e creatura, armonia compiuta dell’universo, l’unico in grado di riconciliare cielo e terra essendo Dio creatore e redentore e insieme creatura e
Figlio obbediente” (p. 179). Quanto alla metodologia, non solo l’A. non ha trascurato nessun aspetto essenziale per la comprensione della tematica, offrendo
indicazioni sui generi letterari, sulla datazione, sull’ambiente e i rapporti (specialmente con la letteratura sapienziale dell’Egitto, sulla quale egli ha una speciale competenza), sulla composizione e sulle idee teologiche dei libri, ma si è
dato premura di collegare e richiamare sistematicamente il discorso sulle singole
parti. Non è facile qui riassumere il ricco contenuto della monografia. Ma nel-
614
RECENSIONI
l’intento di far cogliere al lettore qualcosa della ricchezza e originalità della monografia sottolineo alcuni aspetti che mi sono apparsi nuovi e rilevanti.
Il libro si apre con un “Invito alla Sapienza” dove l’A. espone Pro 9,1-18 che
mette dinanzi al ritratto di Signora Sapienza e all’icona di Donna Stoltezza, le
quali invitano lo stesso genere di persone ma in direzioni opposte. Il capitolo
successivo, intitolato “La via dell’esperienza”, consente all’A. di presentare, con
l’aiuto di testi desunti dal libro dei Proverbi, alcuni concetti generali da tenere
presenti nello studio dei “detti” e delle “istruzioni”, due generi letterari tipici
della sapienza biblica e extrabiblica. Il “detto”, frutto diretto dell’osservazione
della realtà, esprime l’insegnamento in forma concisa e efficace. L’“istruzione”
risale al maestro di sapienza, risente dell’ambiente della scuola per i giovani e ha
uno scopo più direttamente parenetico o didattico.
Nel capitolo terzo l’A. presenta “la voce del maestro”, eco dell’insegnamento dei genitori, della tribù e degli antichi saggi, trasmettitore e creatore insieme
di sapienza. Si tratta di uno studio molto approfondito, anche attraverso il confronto con il celebre “insegnamento di Amenemope”, di Pro 22,17-24,22 definito “libretto di formazione personale e professionale”. Qui l’A. precisa alcune
caratteristiche fondamentali della Sapienza biblica: vuole indicare un ideale di
vita; è contrassegnata da apertura verso l’esterno; inculca una formazione fortemente sociale, è attenta all’uomo prima e fuori di ogni determinazione di razza
lingua luogo, è un bene da comprare e trovare, ha il suo “inizio / compendio” nel
timore di Dio.
Quanto al dibattito esegetico-teologico sulla sapienza biblica l’A. contesta
subito e ripetutamente la distinzione o addirittura opposizione tra una cosiddetta
sapienza religiosa e un’altra profana e la conseguente cronologia (i detti profani
sono i più antichi) che si pretende di ricavarne. “La sapienza biblica è un forte
movimento religioso, autonomo nell’ambito dell’Antico Testamento ma non estraneo ad esso. Un movimento che non si fonda sulla rivelazione storica, o storia
della salvezza, ma sull’esperienza del credente israelita che va alla ricerca del
senso delle cose e quindi dell’ordine stabilito da Dio creatore e del come orientare la propria vita in conformità ad esso. Un movimento che pone al centro l’individuo, non il popolo eletto in quanto tale, non però l’individuo isolato ma inserito vitalmente nella comunità” (p. 23).
Radicale dissenso l’A. esprime anche verso un’altra posizione degli studiosi
divenuta luogo comune che contrappone da una parte Giobbe e Qoelet – sarebbero due scritti tardivi, critici dell’antica sapienza e pessimisti fino a rasentare la
bestemmia – e dall’altra il libro dei Proverbi che invece rappresenterebbe la sapienza antica di stampo dogmatico e staccato dalla realtà quotidiana. Di Giobbe
l’A. offre una trattazione completa con delle puntualizzazioni nuove sulla
datazione, sul genere letterario, sul piano letterario e teologico del libro. Giobbe
non è un grido di rivolta del dolore innocente. Il suo problema non è la sofferenza del giusto e neppure la dottrina della retribuzione, ma il dramma dell’uomo
dinanzi al suo Creatore. “Dall’incontro con Dio Giobbe riceve ciò che né la dot-
NICCACCI
LA CASA DELLA SAPIENZA
615
trina tradizionale degli amici né la sana teologia di Eliu erano capaci di dargli.
Non impara nulla di nuovo, ma ritrova la preghiera e la lode che aveva perduto
nel corso delle dispute a causa dell’amarezza crescente della polemica con i tre
amici, e alla fine riesce a convivere con la sofferenza propria e altrui… Il Signore dell’universo certo ricompensa e castiga secondo le azioni, ma anche sottopone alla sofferenza e alla prova per scopi sapienti che lui solo conosce. Egli mira
in primo luogo a rivelare, non a castigare e neppure a purificare. Intende rivelare
la debolezza della creatura e in particolare la propria grandezza, perché l’uomo
accetti il suo stato nel mondo e impari a lodarlo” (pp. 83-84).
L’A. non elude nemmeno i problemi posti dal libro di Qoelet, dinanzi ai
quali spesso gli studiosi ricorrono a scappatoie (aggiunte, reinterpretazioni). Anche qui l’attaccamento al testo e al principio che esso non può non avere un
senso compiuto in se stesso porta l’A. ad approfondimenti illuminanti. Di fronte
all’inutilità della fatica umana, che porta l’uomo sull’orlo della disperazione, e
dinanzi alla conclusione paradossale, nella quale sapienza e stoltezza confinano
pericolosamente, per cui l’uomo non riesce a possedere interamente la prima e
ad evitare del tutto la seconda, Qoelet giunge alla conclusione che la saggezza
consiste nel tenere insieme gli opposti. “La tensione degli opposti tenuti insieme, senza rifiutare né l’uno né l’altro, emerge varie volte dal libro e in fondo
costituisce la sua trama di base” (p. 91). Dinanzi poi al dolore e all’angoscia, che
accompagnano l’esercizio di un tale equilibrio, il saggio Qoelet propone un’ultima soluzione: godere della gioia quando Dio la concede e riflettere in silenzio
quando egli manda la sofferenza. Questa soluzione non ha nulla in comune con
l’edonismo o l’opportunismo, ma è proposta di sapiente equidistanza nello sforzo di cogliere il momento dalla mano di Dio. “Questa sapienza di Qoelet scaturisce da un senso fortissimo di Dio e della sua libertà sovrana, e da un senso fortissimo dell’uomo da lui dipendente in tutto, a lui aperto, che di lui vive e gioisce e
anche soffre e muore. Nient’altro ha valore nel mondo” (p. 106).
Del Cantico dei Cantici l’A. difende la legittimità sia dell’interpretazione
letterale che di quella allegorica mostrandone la convergenza a un livello più
alto e profondo. “Il suo scopo è mostrare che l’amore degli adolescenti è per
ogni uomo forma speciale di rivelazione. Rivelazione di Dio Amore e forza della
vita presente nel mondo… Amore erotico e amore spirituale nelle sue varie specie non sono forme inconciliabili ma manifestazioni rivelatrici dell’unico Amore
per gli uomini” (p. 180). Grazie al Cantico apprendiamo che tra sapienza e amore vi è una convergenza significativa e importante. “Sono due realtà divine seminate nel mondo, due veri tesori tra molti altri falsi, due rivelazioni che interpellano l’uomo tramite le creature” (p. 132).
Indico semplicemente alcuni altri testi principali che l’A. rilegge lungo l’ideale itinerario alla ricerca della Sapienza biblica, elusiva e presente, divina e umana, diffusa nelle creature, personificata: Gb 28 (inno alla sapienza e poema superbo sulla ricerca dell’uomo), Pro 8 (poema alla sapienza), Sir 1,1-10 e c. 24
(inni alla sapienza che ha la sua radice in Dio e ha posto la sua tenda in
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RECENSIONI
Giacobbe), Bar 3,9-4,4 (discorso penitenziale) e Sap (vari testi su Sapienza e
Dio e Sapienza e creato). Ma accanto a questi testi fondamentali molti altri ne
vengono chiamati a raccolta per chiarire, completare e giustificare commento e
interpretazione.
Il viaggio, dopo un sobrio accenno al “mito gnostico della sapienza”, rintracciabile in 1Enoc 42; 4Esdra 5,10-12 e 2Baruc 48,33.36, e agli apocrifi, che
completano la traiettoria della sapienza personificata e contribuiscono a
“umanizzare” la sua figura, approda ai testi del NT dai quali si ha il ritratto evangelico antichissimo di “Gesù Maestro di sapienza e Sapienza in persona”. I testi
passati in rassegna e accompagnati da un rapido commento sono: Lc 7,31-35 e
Mt 11,16-19; Lc 10,21-22 e Mt 11,25-27; Lc 11,29-32 e Mt 12,39-42; Lc 11,4951 e Mt 23,34-36; Lc 13,34-35 e Mt 23,37-39. Se si accetta che questi testi facciano parte della fonte (Q) comune di Lc e Mt, ne segue che la cristologia
sapienziale che da essi si ricava è la più antica interpretazione del mistero di
Gesù Cristo. Seguono poi fugaci accenni alla traiettoria della Sapienza nel Vangelo di Giovanni e negli scritti paolini e all’applicazione ecclesiastica dei titoli di
“Donna sapiente” e “Sede della Sapienza” a Maria, Madre di Gesù, a riprova
della permanenza e fecondità inesauribile del tema teologico.
Nel capitolo conclusivo l’A. ritorna con forza e persuasione sulla visione
unitaria che egli vede sprigionarsi dall’ascolto fedele delle molteplici voci e dalla contemplazione assidua dei differenti volti della Sapienza biblica. Solo qualche citazione: “Collocando come in un mosaico i vari elementi che i testi ci offrono è possibile tracciare un quadro coerente. La sapienza, prima di essere
qualcosa che l’uomo trae dall’uso delle creature, è rivelazione delle creature stesse,
le quali formano come un organismo vivente, una persona, Signora Sapienza,
che si rivela; e, dietro di lei, è Dio stesso che si rivela… La sapienza è, in forma
eminente, armonia, collegamento cosmico. E’ legame verticale che unisce il Creatore alle creature; infatti, come opera di Dio e sua compagna nella creazione, è
mediatrice tra Dio e l’uomo, scende sulla terra ed è versata in ogni creatura. E’
anche legame orizzontale che unisce le creature tra loro, le vivifica e stabilisce
rapporti” (pp. 159-160). Ribadisce inoltre l’attualità del messaggio della Sapienza biblica da cui deriva anche un’etica del timore di Dio che impegna tutte le
facoltà dell’uomo e della donna nella somma libertà e nella somma dipendenza,
nella somma creatività e nella somma remissività, nella somma grandezza e nella somma piccolezza.
Mi sia permesso di esprimere un rammarico che riguarda ambedue i volumi.
Ho sentito molto la mancanza di indici. L’indice generale che vi si trova è poco
più di un sommario e non dà ragione della ricchezza delle rispettive monografie.
Senza per questo imprimere al volume un aspetto esigente o cattedratico si poteva almeno aggiungere l’indice delle citazioni bibliche, che avrebbe reso al lettore un servizio prezioso.
Giovanni Claudio Bottini, ofm
FREDRIKSEN
DE JÉSUS AUX CHRISTS
617
Fredriksen Paula, De Jésus aux Christs. Les origines des représentations de
Jésus dans le Nouveau Testament (Jésus depuis Jésus), Les Éditions du Cerf,
Paris 1992, 345 pp., 165 FF
Il libro di P. Fredriksen si inserisce in un lungo filone di ricerca storica sulle origini del cristianesimo e sulla figura di Gesù Cristo, che ha avuto il suo punto di
partenza agli inizi del nostro secolo. Schweitzer, Bultmann, Bornkamm, Vermes,
Brandon, Barrett, Davies, Harvey, Hengel e Sanders sono soltanto alcuni fra i più
noti studiosi che hanno contribuito (o lo fanno tuttora) ad illuminare lo scenario
storico del NT. Questo proposito è stato assunto di recente anche da P. Fredriksen,
storica del cristianesimo antico dell’università di Boston.
Il suo studio è composto di dieci capitoli divisi in tre parti tematiche o cicli.
Il primo, descrittivo, intitolato “Il mondo del Nuovo Testamento” presenta le
varie immagini di Gesù contenute negli scritti neotestamentari (nell’ordine cronologico di redazione inverso: Giovanni, Luca, Matteo, Marco, Paolo) e storicamente sorte nell’ampio contesto della cultura e della religiosità ellenistica. Il secondo ciclo, “Il mondo del giudaismo”, è di carattere storico e riesamina le
immagini evangeliche di Gesù alla luce del suo contesto vitale, collocandole cioè
nel quadro del mondo giudaico, delle principali idee teologiche del popolo d’Israele e della complessità socio-politico-religiosa del giudaismo contemporaneo all’evento Gesù Cristo. Nel terzo ed ultimo ciclo, esplicativo, chiamato con un
nome significativo “I Cristi delle Chiese”, viene data una ricostruzione della “preistoria” cristiana: lo sviluppo delle tradizioni relative a Gesù nel lasso di tempo
situato tra la sua risurrezione e la stesura degli scritti neotestamentari. Alla fine
del volume si trova un glossario e due liste di bibliografie: la prima, commentata
e distribuita secondo le tematiche (molto utile), e la seconda, alfabetica.
L’impostazione del lavoro è interessante e la lettura non comporta grande
fatica. Lo si deve anche al fatto che il testo non viene appesantito da numerose
note, abituali nei lavori del genere, ridotte soltanto a quelle essenziali. Prima di
esprimere la mia impressione sul contenuto dell’opera che presentiamo, vorrei
puntualizzare qualche aspetto relativo all’ambito in cui essa si muove.
E’ noto che la ricerca moderna sul Gesù “storico” si è orientata su tre filoni
principali: le fonti letterarie canoniche, la letteratura apocrifa, il contesto socioculturale [per una sintetica presentazione si può vedere J.-P. Michaud, “Un état
de la recherche sur le Jésus de l’histoire”, ÉglT 26 (1995) 143-163]. A dispetto
del dispendio di energie, spesso gli autori giungono a risultati negativi e deludenti, specie quando le pretese sono alte e le conclusioni ampie e nette. In realtà
la questione è più complessa e richiede approcci complementari, prudenza nelle
analisi e nelle conclusioni. L’A. della monografia che presentiamo utilizza il primo e il terzo filone di ricerca, ossia tiene in massima considerazione i testi del
NT e ricorre ad una ricostruzione dell’ambiente socio-culturale del tempo di Gesù.
L’unione dei dati biblici con un ricostruito contesto storico diventa una piattaforma di lettura per riesaminare le immagini bibliche di Gesù. P. Fredriksen manife-
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RECENSIONI
sta la speranza – e qui non possiamo non ammirare la sua modestia scientifica –
che “attraverso questa lettura critica dei vangeli, può darsi che ci sarà dato di
percepire i tratti di Gesù della storia. Naturalmente i nostri metodi, per quanto
prudenti, critici e coscienti dei loro limiti, e le nostre modeste pretese negli sforzi
per ritrovarlo, questo ‘Gesù storico’ non è che un’immagine o meglio un insieme
coerente di deduzioni a partire dalla conoscenza storica” (p. 8). Queste parole di
riserbo trovano un riscontro lungo tutta la ricerca. Le conclusioni sulle ragioni
storiche e i malintesi del passato che contribuirono alla nascita di varie immagini
teologiche di Cristo nel NT non vengono proposte con la pretesa di offrire una
certezza apodittica, ma quasi sempre sono accompagnate da riserve e caute affermazioni, aperte quindi ad un ulteriore approfondimento.
Gli scritti che costituiscono oggi il NT sono di natura teologico-storica; vuol
dire che trasmettono un messaggio di fede radicato su un solido fondamento storico. La storia – dal momento che il Figlio di Dio si è fatto uomo – rappresenta
un punto di partenza imprescindibile, sia ieri, per poter stendere una relazione
circa la vita e il messaggio di Gesù Cristo, sia oggi, per una seria investigazione
sulla figura di Gesù di Nazaret. Per questo motivo, i testi del NT esigono di
essere guardati e investigati anche come documenti storici. E’ un’impresa
senz’altro non semplice e la difficoltà risiede principalmente nel fatto che, negli
scritti neotestamentari, la storia si trova sempre legata con la teologia. Basta aprire
il NT per rendersi subito conto che tutto ruota intorno alla persona di Gesù, ma
questa persona è presentata con tratti che, se non in palese contrasto tra di loro,
sono perlomeno di carattere differenziato. “Quante penne, tanti Cristi”, è un’impressione quasi comune ai lettori superficiali del NT, oppure usando un linguaggio più preciso, possiamo vedervi una gamma di immagini teologiche di Cristo
unita alla varietà di dati storici riguardanti Gesù di Nazaret. Sarebbe però insensato concluderne che siamo di fronte ad una mistificazione storica a scopo religioso, come pure risulterebbe scorretto un giudizio inverso, che cioè tutto il NT
in blocco vada ritenuto come un documento storico nel senso moderno del termine. Consapevoli di numerose difficoltà, è tuttavia giusto e doveroso intraprendere un’indagine sul fondatore del cristianesimo e ciò non solo nell’ambito del
biblista-teologo, ma anche in quello proprio dello storico. Certamente, questo
tentativo di raggiungere la storia “vera” sarà proficuo ed efficace nella misura in
cui la serietà scientifica, libera da pregiudizi, verrà affiancata dall’onestà professionale. Solo così si avranno dei frutti a vantaggio di tutti e soprattutto a beneficio della Verità.
I timori e le reticenze da parte della Chiesa, legittima custode del deposito
di fede cristiana, sono comprensibili, tenuto conto di certe conclusioni distorte
che hanno preteso di essere “storiche”. Queste deviazioni non devono però sbarrare la strada ad un’indagine storica seria sui testi neotestamentari e sulla persona di Gesù Cristo. A ragione la Fredriksen scrive alla fine del suo studio: “La
Chiesa, nel proclamare la sua fede in Gesù come oggetto unico della rivelazione divina, è obbligata per ciò stesso ad occuparsi della storia. E fare la storia
FREDRIKSEN
DE JÉSUS AUX CHRISTS
619
significa intraprendere, con tanto di dati, di simpatia e mediante un’investigazione per quanto possibile realista, la ricostruzione del contesto religioso, sociale, politico e culturale in cui Gesù di Nazaret visse e morì. Tutto ciò porta,
inoltre, a rinunciare ad una lettura semplicistica dei racconti che confermano
una identità, anche se questi si trovano nei vangeli. Una tale lettura non può
che indurre ad una falsa storia. E la storia falsa porta la Chiesa ad una teologia
falsa […] Se, per la Chiesa, la storia è importante, la storia non alterata è la più
importante di tutto” (p. 312).
Non possiamo che sottoscrivere queste parole. E’ vero che la storia è importante per la fede, tuttavia va anche ricordato che l’ultima non si riduce alla
prima. Analoga osservazione facciamo riguardo agli scritti neotestamentari. E’
vero che essi sono l’espressione di fede delle prime comunità cristiane, ma è
altrettanto vero che nel contempo sono frutto e riflesso di concreti eventi storici.
Lo sforzo di raggiungere una storia “non alterata” è degno di lode e va certamente stimolato; questo desiderio non deve neppure frenare, né tantomeno arrestare, la certezza oggettiva di non poter mai raggiungere pienamente l’obiettivo prefisso. D’accordo su questo punto, mi viene spontanea la domanda se le
moderne ricerche storiche sulla persona di Gesù Cristo, le ricerche che non possono partire in primo luogo che da una fonte storica privilegiata come quella
degli scritti neotestamentari, si siano definitivamente liberate da un pregiudizio
di fondo che oppone la storia alla fede e, di conseguenza, il “Gesù della storia”
al “Cristo della fede”. Il “Gesù del NT” non è sempre lo stesso e medesimo
personaggio che la fede dei suoi seguaci ha fatto uscire dal passato storico al
nostro presente? E questo “uscire” deve essere necessariamente visto come risultato di una fede, per lo più influenzata ulteriormente dall’ambiente socioculturale, e non invece come conseguenza diretta di quelli eventi storici che
proprio, tramite la mediazione della fede, hanno assunto un volto, altrimenti
irraggiungibile?
Le domande potrebbero ancora moltiplicarsi. Le perplessità espresse da
me in questa forma non intendono colpire direttamente l’opera della Fredriksen; quest’ultima ne è stata soltanto l’occasione. Lo studio merita un’attenzione per la sua originalità espositiva, il modo con cui affronta la problematica e l’equilibrio nei giudizi. Anche se il suo intento non è principalmente quello di ricostruire una “storia di Gesù”, quanto piuttosto quello di ricercare le ragioni di ordine storico (socio-politico-culturale) della nascita di
diverse immagini di Cristo negli scritti neotestamentari, mi sembra tuttavia
che apporti note nuove nell’ormai lunga discussione sul problema del Gesù
storico. Per coloro che intendono affrontare questo argomento, insieme alla
questione della diversità di immagini bibliche di Cristo, il presente saggio
storico può risultare molto utile, come un tentativo di risposta, come un elemento di dialogo, o come un punto di partenza per ulteriori indagini.
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
620
RECENSIONI
Sesboüé Bernard, Pédagogie du Christ. Éléments de christologie fondamentale (Théologies), Les Éditions du Cerf, Paris 1994, 237 pp., 120 FF
Padre Bernard Sesboüé s.j., professore di teologia dogmatica e patristica al
Centre Sèvres di Parigi, non ha bisogno di presentazione. E’ conosciuto da un
ampio pubblico grazie alle sue numerose pubblicazioni, libri e articoli. La sua
competenza nel campo teologico gli è valsa l’onore di diventare membro della
Commissione Teologica Internazionale. Il nuovo libro è un saggio che affronta
alcuni temi della “cristologia fondamentale” o della “giustificazione della
cristologia”; si tratta degli elementi della cristologia che stanno alla base del
discorso di fede in Cristo. Dedicato principalmente alle persone esperte, agli
studenti di teologia in primo luogo, il libro si rivela utile anche ai catechisti,
chiamati a presentare il mistero di Cristo a coloro che sono in cammino di fede
o verso la fede. A volte i complessi e problematici dati teologici hanno richiesto all’A. un procedimento tecnico ad essi proporzionato, che non va tuttavia a
scapito della semplicità e della comprensibilità dell’esposizione. Anzi, come
dimostra lo stile ormai abituale di Sesboüé, persino le tematiche più astruse
possono essere rivestite di un abito di linguaggio chiaro e accessibile.
Il titolo dell’opera ne rivela già un’intenzione di percorso. I grandi cambiamenti dell’epoca moderna esigono che la fede cristiana non solo venga proposta,
ma che anche se ne faciliti l’accesso. In tale processo non c’è altra via migliore
che quella di seguire la “pedagogia della rivelazione” o, meglio ancora, la “pedagogia rivelata” da Gesù. Attraverso la realtà della sua umanità assunta, mediante
le parole e le azioni, fino all’evento della morte-risurrezione, Gesù di Nazaret ha
progressivamente rivelato ai suoi discepoli il mistero della sua identità umanodivina. E’ stato, quindi, a partire dalla figura di Gesù-uomo che si è giunti alla
piena rivelazione della persona di Gesù-Cristo-Figlio di Dio. Anche oggi, l’annuncio della fede cristologica deve ripercorrere lo stesso movimento teofanico
prendendo quale riferimento di base l’esemplare pedagogia di Cristo.
Il libro comprende due parti. Nella prima, intitolata “L’accesso alla cristologia”, viene descritta la genesi della fede in Gesù dei suoi discepoli. La
condivisione della vita comune con Gesù diventa per i discepoli un preliminare necessario per comprendere alla luce della risurrezione il mistero del Figlio
di Dio incarnato. La Pasqua è il vero punto di partenza della fede in Cristo e,
nello stesso tempo, l’inizio dell’annuncio cristologico. Per poterlo fare, i testimoni di Cristo compiono una rilettura retrospettiva del ministero pre-pasquale
di Gesù e arrivano quindi alla sua origine in Dio (“un mouvement d’avant en
arrière”: ossia il progresso nella comprensione della figura del Cristo risorto è
dovuto alla lettura retrospettiva della vicenda umana di Gesù fino alla sua esistenza originaria in Dio). La fine trova così un fondamento storico nell’inizio
e viceversa l’inizio riceve la sua piena spiegazione teologica nella fine. Per
questo motivo l’annuncio cristologico del NT è composto da una varietà di
cristologie che, per motivi di comodo, vengono distinte globalmente in due tipi
BROWN
LE CHIESE DEGLI APOSTOLI
621
dialettici: la cristologia ascendente (“dal basso”, primitiva o arcaica, “salitaesaltazione”, prima nell’ordine della manifestazione) e la cristologia discendente (“dall’alto”, tardiva o sviluppata, “discesa-umiliazione”, prima nell’ordine della realizzazione). I due tipi sono strettamente legati fra di loro e si
richiamano a vicenda. Tale movimento complementare della cristologia del NT
– di cui a p. 76 viene dato uno schema grafico – si ritrova presso i Padri, successivamente viene infranto nel Medioevo a favore di una cristologia discendente e, nei tempi recenti, ricompare di nuovo nell’esegesi e nella teologia sistematica.
Stabilito un fondamento di partenza, che a mio parere è la parte più suggestiva del libro, la seconda parte, intitolata “La storia e la fede”, si occupa dei temi
più controversi della cristologia fondamentale: la risurrezione di Cristo, la scienza e la coscienza del Gesù pre-pasquale, i miracoli e la concezione verginale di
Gesù. Per comprendere pienamente la valenza teologica di questi misteri
cristologici è necessario però, come a ragione ha fatto l’A., ristabilire un giusto
equilibrio tra la storia e la fede. Il percorso storico (pp. 81-106) dimostra che non
sempre tra le due c’è stato un rapporto di semplice unità; in pratica a partire dal
XVII sec. si assiste ad una rottura che, a seconda delle spinte esterne, ha prodotto
un’alternanza tra la storia e la fede, in cui l’una o l’altra si vedevano uscire vincenti. Tuttavia, l’opposizione tra il “Gesù della storia” e il “Cristo della fede” è
un antagonismo falso che conduce ad un vicolo cieco. “Il moderno cerchio
ermeneutico della cristologia deve mettere all’opera il dato primitivo: l’annuncio di Gesù di Nazaret come Cristo e Signore è una testimonianza di fede resa ad
un evento. Questo vuol dire che la fede ci rinvia alla storia… Ma, reciprocamente, la storia ci rinvia alla fede: l’evento di Gesù di Nazaret non ha alcun senso se
non in riferimento alla fede: fede in Dio, fede in Gesù, fede dei testimoni” (p.
104; i corsivi sono miei).
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
Brown Raymond, Le chiese degli Apostoli. Indagine esegetica sulle origini
dell’ecclesiologia, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1992, 189 pp.,
L. 30.000
“La sostanza di questo libro è stata presentata nelle Sprunt Lectures, un ciclo di
conferenze pubbliche tenute allo Union Theological Seminary (Richmond,
Virginia)” (p. 7). Inoltre, stando alle intenzioni dell’A., esso “deve essere considerato in connessione ad altre due sue opere: La comunità del discepolo prediletto e Antiochia e Roma” (p. 10). In quanto al contenuto, “questo terzo libro
esplora le comunità cristiane dal punto di vista della loro diversa comprensione
di ciò che era importante per sopravvivere e crescere dopo la morte degli apostoli. I tre libri rappresentano diversi approcci all’esistenza della Chiesa nel pe-
622
RECENSIONI
riodo neotestamentario; tutti e tre intendono parlare alle chiese odierne per essere una forma di correzione, di sfida e di incoraggiamento. Per quel che mi riguarda
questo è il compito dell’esegesi: non soltanto determinare quale era la situazione del Nuovo Testamento, ma anche chiedersi che cosa significhi” (p. 10). Proprio per questo, ogni capitolo presenta due parti: una ricostruzione schematica
che caratterizza sette diverse “chiese particolari” emergenti dalla testimonianza
del NT e un’attualizzazione pastorale che mette a fuoco “forze e debolezze” di
queste “chiese” al fine di evitare oggi errori del passato e stabilire una migliore
comprensione ecumenica tra le varie “chiese del presente”.
In base a ciò, l’A., nel cap. I (pp. 13-34), dopo aver esaminato diversi approcci
al problema ecclesiologico, afferma: “Esaminerò un certo numero di diverse situazioni ecclesiali che si riflettono nelle opere sub-apostoliche del Nuovo Testamento (cioè le opere scritte negli ultimi trent’anni del primo secolo), soffermandomi sull’elemento più importante che ha reso capace ciascuna chiesa di sopravvivere dopo che la sua guida apostolica era uscita di scena” (p. 20). Il termine sub-apostolico, per il Brown, non va riferito più al cosiddetto “periodo dei Padri
apostolici” (Clemente, Ignazio, Ireneo, Policarpo), ma piuttosto a quel “tempo
intermedio” che va dalla morte dell’ultimo apostolo (circa verso l’anno 67) alla
fine del I sec. Pertanto, bisogna ben distinguere tra “periodo apostolico” (fino al
67 circa), “periodo sub-apostolico” (fino al I sec.), in cui furono redatti la maggior parte degli scritti del NT, e “periodo post-apostolico” (dal I sec. in poi). Oltre
a tale precisazione, il Brown tiene a mettere in evidenza due momenti metodologici della sua ricerca: 1) “Quando tentiamo di usare queste (del NT) testimonianze per ricostruire le situazioni della comunità nel periodo sub-apostolico, sorge un serio problema metodologico di accertare se i pensieri espressi siano peculiari all’autore o siano veramente condivisi da una comunità”; 2) “Un altro problema metodologico richiede cautela nel valutare il livello parziale in cui gli scritti
ritraggono le prospettive della comunità” (p. 33).
L’opera, poi, si snoda attraverso la presentazione (caratterizzazione e
attualizzazione) di “sette testimonianze ecclesiali” del NT: cap. II: L’eredità
paolina nelle lettere pastorali: l’importanza della struttura ecclesiale (pp. 35-54);
cap. III: L’eredità paolina in Colossesi/Efesini: la Chiesa come corpo di Cristo
da amare (pp. 55-72); cap. IV: L’eredità paolina in Luca/Atti: la Chiesa e lo Spirito (pp. 73-89); cap. V: L’eredità petrina in 1 Pietro: la Chiesa come popolo di
Dio (pp. 91-101); cap. VI: L’eredità del discepolo prediletto nel Quarto Vangelo:
una comunità di uomini uniti a Gesù da un legame personale (pp. 103-124); cap.
VII: L’eredità del discepolo prediletto e le epistole di Giovanni: una comunità di
persone guidate dallo Spirito Paraclito (pp. 125-152); segue una breve conclusione e l’indice generale.
Un giudizio critico su quest’opera di Brown credo che debba avere il suo
punto di partenza da ciò che egli scrive all’inizio della Conclusione (p. 181): “In
questo libro non ho trattato dei differenti modelli di chiesa che vengono offerti
dal Nuovo Testamento, perché nessuno degli autori biblici qui discussi intende-
BROWN
LE CHIESE DEGLI APOSTOLI
623
va offrire un quadro complessivo di ciò che la chiesa dovrebbe essere”. In altre
parole, questo libro parla di “modi di sopravvivenza” delle comunità cristiane nel
“periodo sub-apostolico” e non di “chiese” e tanto meno di “Chiesa”, in quanto
per il Brown non “c’è alcuna testimonianza in queste opere che faccia emergere
una coerente o uniforme ecclesiologia” (p. 181). È un libro sulle “chiese” senza
un concetto di “Chiesa”. E l’A. lo dimostra chiaramente, quando a cuor leggero
può scrivere: “Sarebbero collegate ad Efeso le lettere ai Colossesi ed agli Efesini,
ed il IV Vangelo, opere di ecclesiologia debole, nel senso che pongono poca enfasi
sulla struttura della chiesa, ma di alta cristologia, in quanto associano Cristo con
la creazione” (p. 20), per poi contraddirsi apertamente: “Avendo descritto la forte ecclesiologia di Colossesi/Efesini, mi volgo adesso al modo in cui essa si
correla alla sopravvivenza delle chiese che l’apostolo Paolo ha lasciato dietro di
sé alla sua morte” (p. 62). Qualcuno può pensare che sia una “svista”. No! Tutto
è calcolato: il metodo del Brown è essenzialmente “selezionatore” di “campioni
socio-religiosi” che mettano in luce i diversi orientamenti ecclesiali che delle
figure carismatiche della Chiesa primitiva hanno impresso alla loro comunità.
Solo in tal modo, egli può stabilire la rilevanza positiva come risposta ad una
specifica domanda (p. 33). E la “domanda” di Brown non è di natura “esegetica”,
come sembra dichiarare nel sottotitolo della sua opera, ma di natura “socio-religiosa”. Tale indebita identificazione non è superata neppure quando l’A. dichiara che “il compito dell’esegesi non è soltanto quello di determinare quale era la
situazione del Nuovo Testamento, ma anche quello di chiedersi che cosa esso
significhi” (p. 10). In base a tali orientamenti, mi sembra che risulti poco rilevante la distinzione tra “periodo sub-apostolico” e “periodo post-apostolico”, in
quanto non si tratta di un principio-base, ma semplicemente di un’ulteriore “selezione” del materiale ecclesiologico all’interno del NT.
Più determinante sarebbe stato il raffronto tra il “periodo apostolico” e quello “sub-apostolico”, ma il metodo selezionatore del Brown ha scansato il problema, in quanto l’unico possibile raffronto poteva avvenire tra le cosiddette “lettere autentiche” di Paolo e gli scritti “sub-apostolici” di tradizione paolina. La
tradizione giovannea non sembra aver lasciato tracce significative. In tal senso,
mi sembra che l’opera di Brown soffra di uno squilibrio metodologico: ci parla
di “scritti sub-apostolici di tradizione paolina” senza farci conoscere gli “orientamenti paolini” in materia di ecclesiologia. È vero che qua e là l’A. si sbilancia
in qualche affermazione, ma niente di sistematico. Così, per esempio, può affermare: “L’ecclesiologia del corpo mistico di Colossesi/Efesini dà al Cristo una
chiara centralità, ma ironicamente il Cristo, che è la testa del corpo, rimane senza
volto. Questo accade perché l’ecclesiologia di Colossesi/Efesini fa parte dell’eredità paolina e nelle sue lettere Paolo (che non conosceva Gesù secondo la carne)
non dà le coordinate della personalità di Gesù” (p. 118). Il Brown è cosciente di
aver detto qualcosa di “improprio”, tant’è vero che sente il bisogno di una correzione critica: “Si può discutere su ciò che Paolo intendesse di preciso quando
disse: «L’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14); tuttavia è chiaro che Paolo non
624
RECENSIONI
soltanto credeva in Cristo, ma anche lo amava. (Il volto di Cristo può non emergere dall’epistolario paolino, ma Gesù aveva un volto per Paolo)”. Anche qui,
non si deve pensare al “caso”, alla “svista”, ma al “metodo selezionatore”. Difatti,
l’A. confessa candidamente che tutta la sua ammirazione va “per le prospettive
giovannee sulla relazione tra i cristiani e Gesù. L’ecclesiologia giovannea è la
più attraente ed entusiasmante del Nuovo Testamento” (p. 152). Ma non sono
sicuro se gli studiosi della “letteratura giovannea” siano molto entusiasti
dell’ecclesiologia giovannea descritta da Brown, tutta centrata su un rapporto
individualista tra il cristiano e il Cristo. Personalmente, credo che su questo punto il “metodo” tocchi il fondo della “non-intelligenza” del messaggio ecclesiologico giovanneo. E non solo giovanneo. Qualunque siano le caratteristiche
ecclesiologiche che emergono dai diversi scritti neotestamentari, io credo che
esse trovino la loro giustificazione ultima nel “volto di Cristo”, senza il quale né
la Chiesa né le chiese possono sussistere. Lo dimostra ampiamente Paolo, per il
quale un vero rapporto ecclesiale, “l’essere uno in Cristo” (Gal 3,28), può esistere soltanto se “il mio vivere è Cristo” (Fil 1,21) e “se Cristo vive in me e io vivo
nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”
(Gal 3,20). E per Paolo il volto di Cristo è il volto del “crocifisso” (Gal 3,1). Ciò
dimostra che il metodo “socio-religioso” e “selezionatore di campioni”, adottato
da Brown, non è sufficiente, neppure per descrivere i semplici “comportamenti
di sopravvivenza” delle “chiese” del NT.
Qualche recensore ha definito questo libro un “piccolo capolavoro”, in quanto
Brown all’abilità esegetica sa unire un formidabile intuito pastorale ed ecumenico
nelle sue valutazioni delle “forze e debolezze” dei diversi “orientamenti ecclesiali di sopravvivenza”. Può darsi! Personalmente trovo che le sue valutazioni sia esegetiche che pastorali - soffrano di eccessivo schematismo, siano poco originali e spesso rispecchiano una situazione ecclesiale molto ristretta: quella del
cattolicesimo americano. Così: “Se mi è consentito prendere la Chiesa cattolica
come esempio, il periodo anteriore al Vaticano II fu caratterizzato da un generale
silenzio sulle colpe, specialmente quelle degli ecclesiastici e dei religiosi, una
colpa di cui, sono sicuro, nessuno ci accuserebbe oggi. Adesso sembra come se
la prima pagina di un giornale fosse l’unico foro competente per trattare le difficoltà interne del cattolicesimo!” (p. 66). Una simile affermazione non credo che
si adatti molto bene ad un contesto diverso da quello americano, in quanto in
Europa, e in Italia in particolare, la critica alla “santità della Chiesa” è stata mossa da sempre e apertamente dall’interno e dall’esterno della Chiesa: dalla bonaria satira di un Boccaccio come dalla forte denuncia di un Savonarola, dalle
irriverenti osservazioni di Voltaire come dalle accuse sofferte di un Giordano
Bruno, dal “lacerante proclama” di un Lutero come dalla rispettosa e credente
presa di posizione di Rosmini nelle “Cinque piaghe della Chiesa”. Ed ho citato
solo la “punta culmine” di tale critica. Quindi, generalizzare un atteggiamento
probabilmente solo “americano” non mi sembra un buon approccio critico al
problema. In quanto al resto di questa presentazione delle “forze e debolezze”,
CARRÓN
JESÚS, EL MESÍAS MANIFESTADO
625
mi sembra che, oltre a soffrire di eccessiva schematizzazione, ha tutto il sapore
di quella “retorica ecumenistica” che cerca di far presa più con le parole che con
vere soluzioni dei problemi. In ciò il libro di Brown rispecchia perfettamente la
sua genesi: si tratta infatti di un insieme di “conferenze” e non di un libro sistematico, di una “proclamazione” che attraverso l’arte del dire cerca di far presa
sull’ascoltatore (o lettore) e in cui l’A. ci ripropone più o meno aggiornate le sue
ipotesi altrove espresse (cf. le sue note).
Alfio Marcello Buscemi, ofm
Carrón Julián, Jesús, el Mesías manifestado. Tradición literaria y trasfondo
judío de Hch 3,19-26 (Studia Semitica Novi Testamenti 2), Editorial Ciudad
Nueva - Fundación San Justino, Madrid 1993, 361 pp.
Muñoz Alfonso Simón, El Mesías y la Hija de Sión. Teología de la Redención
en Lc 2,29-35 (Studia Semitica Novi Testamenti 3), Editorial Ciudad Nueva Fundación San Justino, Madrid 1994, 361 pp.
1. Presentiamo insieme due lavori della collana Studia Semitica Novi Testamenti,
che si propone di pubblicare “studi filologici che non si limitano alla pura filologia,
ma che cercano di portare luce su passi difficili del Nuovo Testameno per i quali
la tradizione esegetica attuale non trova facile soluzione. Perciò terranno conto –
e in certa misura utilizzeranno i vari metodi che la scienza ha loro applicato –
[…] e hanno scelto come filo conduttore di questi studi il substrato semitico del
greco neotestamentario”. L’interesse al sostrato semitico non costituisce un nuovo metodo, ma è “un dato che permette di spiegare certi passi e può aiutare a
comprenderne la storia”.
Il volume del Carrón prende come testo di analisi At 3,19-26. Esso costituisce la parte finale del secondo discorso di Pietro (At 3,12-26) ed è senza dubbio
un testo che presenta difficoltà di interpretazione, specialmente nei vv. 19-21. Il
nostro Autore cita sopra tutte le opere di altri studiosi, quella di A. Barbi, Il Cristo celeste presente nella chiesa. Tradizione e redazione in Atti 3,19-21, Roma
1979, alla quale abbiamo dedicato una recensione in questa stessa rivista (cf. LA
29 [1979] 361-363). Come dice bene il titolo di Barbi, i versetti presentano il
Cristo nella sua attuale situazione di risorto e intronizzato in cielo in attesa della
parusia. È l’opinione che il nostro Carrón chiama comune. Egli dedica il cap. I
all’esposizione delle difficoltà che presenta il testo di Atti e le varie soluzioni
offerte dai critici per appianarle. Essi ritengono che si tratti di un passo apocalittico,
addirittura di un testo riferito a Elia e poi in Atti applicato a Gesù esaltato in cielo
e che tornerà alla parusia. Quindi i vv. 19-21 formano un inciso e, se fosse tralasciato, il discorso acquisterebbe chiarezza. Secondo Carrón, più che risolvere le
difficoltà, questa opinione non fa che aumentare i problemi non solo dei due
difficili versetti, ma di tutto il contesto.
626
RECENSIONI
Carrón non si limita ai vv. 19-21, ma studia il tratto del discorso dal v. 19 al
v. 26, cioè l’intera finale del discorso petrino. Non parte dai contenuti, ma dai
dati del testo, in quanto l’analisi letteraria e linguistica precede ogni interpretazione. Non possiamo seguire nelle particolarità la sua dimostrazione, ma notiamo come egli dedica uno studio particolare ad ogni elemento, trattandolo indipendentemente dagli altri. Le particelle grammaticali, le espressioni, le costruzioni
così chiarite dovrebbero prevenire il pericolo di circolo vizioso in cui spesso
cadono coloro che pongono ipotesi poi non dimostrate o poggiano il ragionamento su basi non sicure.
Secondo lui nel v. 20 ad o¢pwß a‡n può corrispondere un yD aramaico con valore causale. Quindi le espressioni “tempi di refrigerio” (kairoi« ajnayu/xewß) (v.
20) e “tempi del compimento” (cro/noi ajpokatasta¿sewß) (v. 21) non vengono
applicati al futuro, ma al passato, cioè al tempo della vicenda terrena di Gesù. La
congiunzione kai«, che sta nel bel mezzo del v. 20, crea nella frase una “unione
violenta”, ponendo una coordinazione tipica del semitico, quando per noi va meglio la subordinazione. La congiunzione ha qui valore causale o esplicativo ed
equivale a “poiché, quindi, dato che”. La traduzione dei vv. 19-21 suona allora
così: “Pentitevi, dunque, e cambiate vita, affinché siano cancellati i vostri peccati, perché sono arrivati i tempi di refrigerio da parte di Dio, in quanto ha inviato il
Cristo che teneva pronto, Gesù, che il cielo doveva conservare fino al tempo del
compimento di tutto quanto Dio aveva detto per bocca dei suoi santi profeti” (cf.
p. 126 e 173). In questo modo scompare la strana motivazione che i Giudei dovrebbero convertirsi in vista della venuta finale di Gesù, per mantenere la motivazione solita di Luca che fonda la conversione sull’opera terrena compiuta dal
Salvatore (cf. vv. 13-16). Inoltre il v. 21 non tratta della dimora di Gesù in cielo
dopo la risurrezione, ma di quella celeste, precedente la sua apparizione terrena.
Quest’ultima avvenne “nel compimento del tempo” e realizzò il disegno preparato da Dio.
Coerentemente alla sua metodologia l’A. riporta passi paralleli per provare
il senso del termine ajpokata/stasiß (compimento). Non possiamo seguire tutta
la sua dimostrazione. Con la sua interpretazione Carrón ritiene risolto anche il
problema del verbo ajposte÷llw (inviare), che in tutto il NT è riferito alla vicenda
terrena di Gesù e mai alla parusia. Non solo, ma rispetta anche la funzione della
lunga citazione del profeta come Mosè (vv. 22-23), che come tutte le prove
scritturistiche si riferisce a quanto già avvenuto e non già a cose future.
Infine Carrón come conclusione scrive che non solo arriva ad una lettura
coerente del testo, ma che i suoi risultati portano conseguenze sia per l’importante questione della composizione dei discorsi in Atti sia della teologia di Luca.
Se tanto forte è l’influsso della lingua aramaica in questi versi, si deduce che
Luca deve aver usato documenti greci tradotti maldestramente dall’aramaico. Il
fenomeno vale anche per il vangelo dell’infanzia, specialmente nei cantici del
Benedictus e Magnificat che conservano espressioni tanto simili al tratto studiato di Atti. Non solo la lingua ci riporta all’ambiente primitivo palestinese della
CARRÓN
JESÚS, EL MESÍAS MANIFESTADO
627
comunità cristiana, ma anche il contenuto, compresa l’idea di Gesù visto quale
discendenza promessa ad Abramo. La teologia di Luca si mostra più tradizionale
di quanto si poteva supporre e deriva da una comunità che con gioia scopriva che
in Gesù si erano compiute le Scritture.
Il tentativo ci rende perplessi non tanto per il ricorso all’aramaico al fine di
ottenere una migliore comprensione del greco, quanto ad esempio l’incongruenza
di dover prendere il presente dei√ (v. 21) come fosse un imperfetto, supponendo
una sottostante cattiva traduzione del futuro ebraico o dell’infinito con l (p. 170).
Se ammettiamo che Luca ha usato anche fonti scritte, non basta imputare ad una
di esse il fatto di essere cattiva traduzione dall’aramaico, perché non si spiega
come l’autore neotestamentario l’abbia ritenuta valida e coerente con il suo pensiero. Ora il discorso petrino entra nel complesso del miracolo con la susseguente meraviglia dei presenti e l’attività missionaria degli apostoli. Luca sottolinea
che mentre il Cristo glorioso è assunto in cielo, agisce per mezzo della comunità
che tende verso il tempo della “restaurazione di tutte le cose” (At 3,21; cf. 1,6: “è
questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”). Rimane quindi la difficoltà dell’interpretazione di questo difficile brano, ma siamo certi che quest’opera porta un contributo al dibattito fra gli esegeti.
2. Il volume del Muñoz studia Lc 2,29-35, comprendendo anche il contesto Lc
2,22-28. Il Nunc dimittis (Lc 2,29-32) è il cantico della speranza compiuta, innalzato dal vecchio Simeone che contempla la “presentazione” del bambino al
tempio. Si tratta infatti di presentazione, dato che Luca usa l’espressione “della
loro purificazione” (lectio difficilior) come mero dato cronologico. Muñoz ricorre all’influsso aramaico per tradurre il participio prosdeco/menoß con la forma
finita (v. 25) e pri«n (h£) a·n, cui corrisponderebbe l’aramaico yDI d[', con una
particella temporale che rendiamo in italiano con “finché” (v. 26). Anche l’espressione fw◊ß eijß ajpoka¿luyiß ejqnw◊n (“luce per la rivelazione delle genti”) riceve
una migliore traduzione vedendo sotto ei˙ß un semitico l] che precede il complemento diretto e ajpoka/luyiß come traduzione di un infinito passivo che meglio
vien reso con l’espressione “rivelazione fatta alle genti”. L’uso aramaico può
spiegare anche la perifrastica con verbo singolare e participio plurale nel v. 33.
In breve egli riconosce alla pericope una forte coesione interna in perfetta sintonia
con tutta l’opera lucana.
Tre grosse difficoltà egli trova nella profezia di Simeone e sono costituite
dal termine ajna/stasiß (v. 34a), dall’immagine della spada (v. 35a) quale conseguenza della manifestazione contenuta in v. 35b. Il testo ha come centro di
interesse Maria, perché il v. 34 inizia con la benedizione di Simeone ad entrambi
i genitori (eujlo/gesen aujtou/ß), ma la profezia è rivolta esplicitamente alla sola
madre. La difficoltà di interpretazione che presenta l’espressione di v. 35a ha
suggerito a molti critici che si tratti di una parentesi, nonostante che il greco
leghi il discorso con le particelle kai\… de/. Muñoz dedica un lungo Excursus
(pp. 413-421) alla storia dell’introduzione di questa parentesi nella profezia di
628
RECENSIONI
Simeone partendo dal sec. XVI. Possiamo dire che tutta la sua trattazione mira a
difendere una lettura unitaria del testo, escludendo tale cesura.
Nel cap. II studia la metafora espressa dai termini ptw/siß e ajna/stasiß, rese
nelle traduzioni con “caduta e risurrezione”. Si tratta di esperienze riferite alle
stesse persone o a due gruppi differenti? La prima ipotesi è da escludere. Luca usa
26 volte (17 + 9) il sostantivo o il verbo della stessa radice, sempre in senso negativo. A differenza dei paralleli Mc 14,35 e Mt 26,39 evita di usarlo per Gesù nel
Getsemani, ma l’adopera per descrivere la caduta di Satana. Perciò qui si deve
intendere come caduta nella perdizione–condanna per quanti in Israele rigettano
il Messia. In parallelismo antitetico va preso l’altro termine, che si riferisce a
quelli che accolgono Gesù. Il Messia è il segno contraddetto, che per gli uni è
occasione di caduta, per gli altri di salvezza. Troviamo un caso analogo in Ger
6,16, dove il profeta indica la strada buona per arrivare alla pace, ma il pubblico
preferisce di non prenderla e allora gli cade addosso la sventura; così in Ger 23,12
il sentiero sdrucciolevole percorso non può avere come risultato che le tenebre e
la sventura. Luca stesso parla di tempo della visita in senso positivo (Lc 1,68.78)
come anche negativo, in quanto non avendo riconosciuto il tempo della visita,
Gerusalemme cadrà inevitabilmente nella rovina della guerra (19,42-44).
L’A. rileva che dal sec. XVI apparve negli editori la tentazione di porre tra
parentesi la dibattuta frase della spada (v. 35a). Molti riconoscono nella spada
una metafora per il dolore, ma egli osserva che il verbo die/rcomai non vuol dire
“perforare, penetrare”, bensì “attraversare un luogo”. A proposito cita Ez 14,17
dove ricorre lo stesso verbo riguardo alla spada che percorre e devasta la regione. La corrispondenza verbale tra la LXX e il passo di Luca è ammessa anche da
altri autori, ma per noi la situazione del testo di Ezechiele e quella del terzo
vangelo è molto differente. Nel primo si tratta di un oracolo di sventura contro
Israele infedele: il giudizio di Dio condanna il paese peccatore e lo colpisce con
fame, bestie feroci, spada e peste; nel secondo Maria appare a Simeone come la
personificazione di Israele fedele, come “la Figlia di Sion”.
Il v. 35b ha contenuto chiaramente negativo. La maggior parte di Israele, di
fatto, rientra nella categoria di coloro che hanno quei dialogismoi÷, nel NT sempre intesi in senso negativo in quanto indicano cattive intenzioni. Nonostante i
tentativi di validi esegeti anche recenti per chiarire il senso della frase, essa si
mantiene enigmatica e le referenze bibliche addotte sono incapaci di spiegarla.
Muñoz esamina la proposizione retta da o¢pwß a‡n, di solito presa come finale, ma da lui resa come temporale. Il senso della frase dice che ad un dato momento i pensieri occulti del cuore saranno visibili esternamente, mutandosi in
azione. Ritornando al v. 34a dove ei˙ß sta al posto di un l] semitico che introduce
il predicato, non abbiamo senso finale, perché il destino del bambino non è di
perdere, ma di salvare. A proposito l’A. richiama il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41-44): la caduta di molti non dipende dalla sua volontà. Grammaticalmente, osserva citando il grammatico Humbert, o¢pwß – che può essere finale
– a volte non si distingue che imperfettamente dall’idea di consecuzione. Il no-
MUÑOZ
EL MESÍAS Y LA HIJA DE SIÓN
629
stro A. propone una nuova lettura, non di valore finale ma temporale. Sotto vi
scorge un yDi / ydiK] aramaico che può avere non meno di sette significati, compreso quello temporale. Allora il v. 35b non implica la causa, ma il momento della
caduta, cioè l’ora degli avversari che rifiutano il Messia (v. 34b) (pp. 368.372).
L’oracolo di Simeone contiene un paradosso: la spada che i capi giudei metteranno in movimento contro Gesù “passerà per” Maria, però il colpo mortale sarà
inferto contro loro stessi, che così cadranno (p. 383). La spada è nello stesso
tempo arrivo dei tempi escatologici e causerà in Israele “desolazione” (Lc 21,20):
essa produrrà la caduta dei discendenti di Israele che non sono Israele e nello
stesso tempo si produrrà “la redenzione” dei discepoli di Gesù (Lc 21,28). La
metafora riferita a Maria può illuminarsi col passo di Ez 14,17, dove il verbo
ebraico rbæ[; è reso con die÷rcomai, passare attraverso. Israele della promessa,
coloro che sono fedeli all’alleanza sono personificati da Maria (cf. Lc
1,26.38.45.48), la madre del Signore (Lc 1,43; 2,34). L’anziano Simeone annuncia per tutti la prova, che per una parte di Israele è di caduta; per l’altra egli
conferma il “mantenimento fedele” dell’alleanza, ajna/stasiß (ebr.: hm;WqT]). Maria
incarna in sé l’ “Israele di Dio”: sono in lei inseparabili la sua missione nell’opera della salvezza e la sua propria realtà più profondamente personale (p. 398). Il
testo tanto controverso viene reso in questo modo (p. 391):
a)
b)
a')
b')
“… e disse a Maria, sua madre: ecco, questi sarà
caduta e mantenimento di molti (= tutti) in Israele,
e bandiera combattuta,
e una spada passerà attraverso di te [figlia di Sion, Israele]
quando si manifesteranno i pensieri [malvagi] di molti cuori”.
È in questo Israele di Dio che si innestano i gentili che diventano discepoli
di Gesù. Allora abbiamo in nuce quello che per Rm 11,25-26 è il mistero di
Israele, la cui incredulità offre ai gentili il tempo di essere innestati sull’albero
buono di olivo, mentre i rami infruttuosi vengono recisi (Rm 11,20.22). Con
analoga applicazione At 3,23 proclama che quanti non ascoltano il secondo Mosè
decadono dall’appartenenza al popolo di Dio (p. 316). In questo modo il pensiero di Luca si mostra coerente, quando proclama Gesù “gloria di Israele” e “luce
delle nazioni” (2,32).
Per concludere notiamo che anche le moderne versioni liturgiche ricorrono a
spostamenti di frase oppure ad incisi nel tentativo di rendere chiaro il testo. La
lettura che ci offre il Muñoz rende comprensibile il testo. Veramente nella lunga
esposizione del Muñoz non è facile seguirne il ragionamento, dato che spesso interrompe il discorso, portando avanti l’intreccio dei vari problemi. Questa fatica
non dispensa dalla lettura dell’opera quanti si interessano della teologia di Luca e
quanti devono esporre questo passo difficile, molte volte frainteso con un indebito passaggio al vangelo di Giovanni che ci presenta Maria sotto la croce di Gesù.
Giovanni Bissoli, ofm
630
RECENSIONI
Pitta Antonio, Sinossi paolina. Le lettere di san Paolo in una nuova traduzione ordinate per temi (Universo Teologia 31), Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo 1994, 318 pp., L. 35.000
L’impianto dell’opera è semplice: Introduzione (pp. 7-12) e Sinossi (pp. 21-315),
cui si aggiungono la Prefazione di R. Penna (p. 5), un elenco di Sigle e abbreviazioni (pp. 13-14), il Prospetto sinottico dell’epistolario paolino (pp. 15-20) e l’Indice (pp. 317-318). Nell’introduzione, l’A. in primo luogo sottolinea la liceità di
stendere una “sinossi paolina”: “I vangeli sembrano aver talmente monopolizzato
il termine «sinossi» da poterlo utilizzare come semplice loro variazione lessicale...
Senza negare la validità di tale appropriazione terminologica, si hanno studi di tipo
sinottico anche per altri testi della Bibbia, come quello di Eissfeldt dedicato alle
fonti dell’esateuco, oppure quello di Vannutelli e di Bendavid sui temi storici dell’Antico Testamento” (p. 7). E in realtà, come precisa Penna, vi sono almeno “tre
buone ragioni” per stendere una “sinossi paolina”: la varietà di autori che hanno
composto il corpus paulinum; la diversità delle forme letterarie all’interno di tale
corpus; il “sempre ricorrente messaggio cristiano” (p. 5). Di fatto, l’impresa è stata tentata per la prima volta da G.M. Heyder, Paulus. Das Wort an die Welt. Eine
Synopse der Briefe des Apostels, Olten - Freiburg i. Br. 1957, che nella sua stesura
originale somiglia più ad una “concordanza” che ad una “sinossi”, mentre I.
Fransen - P. Goidts nell’edizione francese: Paul de Tarse. Synopse des Épîtres,
Paris 1962, gli diedero la forma di “sinossi”. Qualche anno più tardi il tentativo è
stato ripetuto da F.O. Francis - J.P. Sampley, Pauline Parallels, Philadelphia 1984.
Precedentemente a quest’ultimo tentativo D. von Allmen, nel suo articolo “Pour
une synopse paulinienne”, Bib 57 (1976) 74-104, aveva enunciato dei “criteri per
un’elaborazione di una sinossi paolina” (pp. 84-90): visione simultanea dei testi
paralleli; sguardo «contestuale» dei paralleli; identificazione del corpus paulinum;
apparato critico; commento esplicativo delle tavole sinottiche.
In dialettica critica con i suggerimenti di von Allmen, l’A. delinea una sua
breve metodologia. In primo luogo, cerca di stabilire: Quali lettere in sinossi?
“Una sinossi paolina deve necessariamente procedere per tredici colonne, quante sono le lettere attribuite a Paolo, che un metodo sinottico, senza arrogarsi il
diritto di essere l’unico né il migliore, permette di convalidare o di rigettare” (p.
9). In concreto: bisogna tener conto delle cosiddette “7 lettere autentiche”, delle
“lettere ecclesiologiche” (Col, Ef), delle “lettere pastorali” (1Tm, Tt, 2Tm) e
della 2Tes. Secondo problema: Quale ordine tipografico? “Nella presente sinossi
si seguirà il duplice criterio «cronologico-letterario», in forma evolutiva.
Innanzitutto si inizierà dalle lettere più antiche e ritenute generalmente come
paoline per passare poi a quelle successive e considerate spesso come deutero- e
postpaoline. Tuttavia, l’utilizzazione del solo criterio cronologico si presenta debole... Per questo, la criteriologia delle maggiori o minori connessioni letterarie
permette di uscire dalle sabbie mobili della cronologia delle lettere. In questa
sinossi, connessioni letterarie e cronologia paolina sono intimamente legate” (p.
PITTA
SINOSSI PAOLINA
631
9). Terzo problema: Quale materiale sinottico? “Lo scopo di questa sinossi non
è quello di sostituirsi a delle concordanze tematiche, ma quello di offrire le categorie portanti dell’argomentazione paolina... Da questo dipende la scelta per una
sinossi paolina che non proceda tanto per temi, più o meno accattivanti, quanto
soprattutto per generi letterari, argomentativi ed epistolari, che permettano di
verificare processi letterari attendibili” (p. 10).
In base a tali criteri, la “sinossi paolina” del Pitta si snoda in 24 sezioni,
“suddivisibili nella seguente ramificazione: Epistolografia: prescritti, postscritti,
ringraziamenti o esordi, apusia-parusia epistolare. Fonti: citazioni dirette dell’Antico Testamento, citazioni dei detti di Gesù e di autori extrabiblici. Generi argomentativi: escatologia apocalittica, argomentazione midrashica, argomentazione
diatribica, innologia e dossologia, codice domestico, codice ecclesiale, paraclesi
conclusiva, catalogo delle difficoltà, catalogo dei vizi e delle virtù. Metaforologia:
motivo agonistico, motivo dell’edificio, motivo della natura, motivo cultuale,
maternità/paternità, somatologia. Narrativa: autobiografia, oppositori, colletta” (p.
10). È chiaro che la presente catalogazione non intende essere né esaustiva né rigida, anzi nelle intenzioni dell’A. è aperta a possibili sviluppi futuri.
Senza dubbio, mi unisco al plauso di Penna: “Di certo non si è trattato di
un lavoro semplice e bisogna perciò dare atto a Pitta non solo del suo coraggio, ma anche di una serietà di impegno degna di plauso”. Ma non mi sento di
condividere la sua valutazione globale dell’opera: “Crediamo che la sua fatica,
pur pionieristica, abbia prodotto un’eccellente risultato” (p. 5). Basterebbe un
solo sguardo a questa “sinossi” per restare ampiamente perplessi sul risultato.
Così, è vero che Pitta ha discusso il problema dell’“ordine tipografico”, ma
tutto si riduce a stabilire se bisogna seguire un “ordine cronologico”, un “ordine letterario” o un “ordine di maggiori o minori connessioni”. Purtroppo non
mi sembra che abbia saputo dare alla “sinossi” una “veste tipografica” accettabile. In tal senso, l’elemento più visibile nella “sinossi” è il vuoto. Si contano:
15 pagine vuote con i soli titoli di lettere, 16 pagine vuote per motivi tipografici, 65 pagine con una sola colonna, circa 41 mezze pagine. Tutto ciò da solo
rappresenta metà dell’opera. Non me ne voglia male l’A., ma voglio soltanto
mettere in rilievo che una buona “sinossi” richiede anche “un’organizzazione
tipografica” adeguata, traduzione grafica delle proprie scelte metodologiche.
Su ciò il von Allmen, nonostante la sua visione alquanto utopistica, ha dato
delle esemplificazioni migliori di quelle messe in atto da Pitta. Così, per esempio, sono pochi i casi in cui tutte le 13 lettere siano coinvolte nella sinossi:
prescritti e postscritti, mentre per lo più si ha un numero molto limitato di paralleli. Allora, perché moltiplicare le pagine bianche? perché non scegliere un
criterio tipografico diverso, che metta meglio in evidenza il dato sinottico dei
paralleli e renda forse più proficua la suddivisione in “livelli”?
Certamente, la scelta metodologica di stabilire dei “livelli” all’interno delle
“ramificazioni sinottiche” può dare l’impressione di una maggiore organicità a
questa “sinossi”. Purtroppo, non è così. Infatti, essa:
632
RECENSIONI
1) accresce gli spazi vuoti. Nell’intenzione dell’A. probabilmente c’è il desiderio di distinguere tra i vari gruppi di paralleli di una stessa ramificazione. Ma per
far ciò, egli ha scelto di porre una griglia comune per tutti i livelli della “ramificazione interessata”. In tal modo, gli spazi vuoti si moltiplicano necessariamente.
2) determina dispersione tra i paralleli, impedendo una percezione sinottica.
Di questo fenomeno si registrano molti casi. Ne prendo in considerazione alcuni:
la ramificazione 4. Oppositori di Paolo, per Pitta ha 8 “livelli”, che si possono
rintracciare in 11 lettere paoline, che formano automaticamente la griglia della
“sinossi”. Il risultato è il seguente: il primo livello è rappresentato da sole tre
lettere: 1Tes, 2Tes, Col, che vengono poste in “sinossi” all’interno della griglia
stabilita, determinando un eccesso di spazio vuoto e una difficoltà di lettura
sinottica evidente tra 1Tes 2,13-16 e 2Tes 1,3-12 poste a p. 50 e Col 2,6-7 posta a
p. 51. Ciò si poteva evitare, ponendo in una sola pagina i tre testi paralleli ed
eliminando drasticamente la menzione inutile delle altre lettere. Il criterio di Pitta
si dimostra ancora più inadeguato nelle pagine che seguono: così, nelle pp. 5253, il secondo livello non solo non ha un parallelo sinottico, ma determina insieme al primo e al terzo livello una pagina completamente vuota; e la cosa si ripete
nelle pp. 54-55 e in parte nelle pp. 56-57. La dispersione è ancora più evidente
nella “ramificazione sinottica” 5. Citazioni dirette dall’Antico Testamento, dove
la divisione in “livelli” (rappresentati dai diversi libri dell’AT), se si escludono
pochi casi, non solo moltiplica gli spazi vuoti, ma fa scadere questa “sinossi” ad
una “concordanza” dispersa qua e là tra p. 72 e p. 98. Confesso di non conoscere
l’opera di Pierini-Berardi, ma se l’A. si serve dei loro risultati, allora bisogna
dire che non c’è proprio bisogno di stabilire tale “ramificazione sinottica”. Anche perché – e Pitta ne è cosciente (cf. p. 70) – le citazioni dell’AT in Paolo fanno
parte essenziale delle sue argomentazioni midrashiche e quindi il parallelismo
sinottico tra i vari testi biblici lo si può stabilire all’interno di tali argomentazioni.
3) isola i testi, andando così contro la tecnica essenziale di una “sinossi” e
non mettendo in risalto le differenze e somiglianze diacroniche tra un testo e
un altro. Oltre all’esempio già ricordato di 2Tes 2,1-4 (pp. 52-53) e ad altri
che si possono rintracciare lungo tutta la “sinossi”, voglio ricordare in particolar modo quello della “ramificazione sinottica” 10. Innologia e dossologia,
in cui l’A. distingue a proposito degli inni tre “livelli”: inni cristologici, inni
teologici, inno all’amore. Ora tale distinzione, a mio parere, non doveva essere previa, ma doveva sorgere proprio dalla comparazione sinottica. Ma il procedimento dell’A. non solo ci priva dal poter determinare da noi le differenze,
ma dal gustare anche le somiglianze tra gli inni teologici e gli inni cristologici.
Inoltre, la sua distinzione in “livelli” ha creato un caso evidente di isolamento
dell’“inno all’amore” di 1Cor 12,31b-13,13, determinando ben quattro pagine
con una sola colonna (pp. 150-153). Inoltre, io credo che 1Cor 12,31b-13,13,
per quanto qualche autore lo consideri un “inno”, sia solo una “prosa ritmata”
che potrebbe trovare paralleli nel testo di Rom 12,9-19, anch’esso alquanto
ritmato, e di Rom 13,8-13.
CARBONE - RIZZI
LE SCRITTURE AI TEMPI DI GESÙ
633
Ho letto con interesse le introduzioni alle 24 “ramificazioni” stabilite dall’A.
e ritengo che siano molto utili per una comprensione più profonda dei procedimenti esegetico-teologici dell’epistolario paolino. Ma ritengo che non debbano
essere concepite come giustificazioni per stabilire la suddivisione in “livelli”, ma
come delle osservazioni critiche che aiutano il lettore ad una comprensione più
profonda dei “parallelismi sinottici” stabiliti. Ciò comporta che la giustificazione critica delle 24 “ramificazioni” non va fatta lungo la sinossi, ma nell’introduzione generale all’opera, precisamente all’interno del problema: Quale materiale sinottico? A mio parere, infatti, non si può imporre al lettore una divisione senza
darne una giustificazione esauriente e senza avvertirlo che il metodo usato prevede anche delle suddivisioni in “livelli” delle 24 “ramificazioni sinottiche”. Tale
procedimento, oltre a dare una base metodologica più sicura, darebbe all’A. la
possibilità di allargare le sue osservazioni critiche e mettere più in evidenza le
“diacronie” dei testi, come d’altra parte suggerisce anche il von Allmen.
Non discuto la scelta di Pitta circa il problema: Quali lettere in sinossi?
Personalmente propendo verso la soluzione adottata dagli autori Francis Sampley: 10 lettere, anche perché 2Tes, Col, Ef, per quanto contestate, non lo
sono certamente quanto le Pastorali, le quali ormai dalla stragrande maggioranza degli autori sono considerate “non-autentiche”. Se Pitta, invece, insiste
nel dire che esse hanno fatto parte del corpus paulinum, allora bisogna includere anche Ebrei, in quanto anch’essa ha fatto parte del corpus paulinum, è
certamente di “scuola paolina” e mostra molti punti in comune anche con
l’epistolario paolino autentico.
Mi scusi l’A. la “parresia” con cui ho espresso le mie osservazioni, ma volevano essere solo un contributo a quegli “approfondimenti” che egli ha in vista (p.
10). Anzi, mi auguro che l’A. non si fermi solo ad una “sinossi paolina” di tipo
divulgativo, ma si impegni anche in una “sinossi paolina” di tipo scientifico,
soprattutto sul testo greco. Se ne sente il bisogno!
Alfio Marcello Buscemi, ofm
Carbone Sandro - Rizzi Giovanni, Le Scritture ai tempi di Gesù. Introduzione
alla LXX e alle antiche versioni aramaiche (Testi e commenti - Sez. “La Parola e
la sua tradizione” 1), Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, 154 pp., L. 18.000
Carbone Sandro - Rizzi Giovanni, Il libro di Osea secondo il testo ebraico
Masoretico, secondo la traduzione greca detta dei Settanta, secondo la parafrasi aramaica del Targum (Testi e commenti A2- Sez. “La Parola e la sua tradizione” 1), Edizioni Dehoniane, Bologna 1993, 295 pp., L. 44.000
Carbone Sandro - Rizzi Giovanni, Il libro di Amos. Lettura ebraica, greca e
aramaica (Testi e commenti A2- Sez. “La Parola e la sua tradizione” 2), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, 176 pp., L. 27.000
634
RECENSIONI
Due giovani biblisti, formati a Gerusalemme nel nostro Studium, si sono accinti
a una generosa impresa: “rendere accessibile alle comunità cristiane impegnate nella lettura della Bibbia, ai sacerdoti, ai religiosi e religiose, agli studenti
dei vari istituti di teologia dei seminari e nei vari istituti una traduzione della
Settanta e dei Targumim, che resterebbero altrimenti ignorati ancora per lungo, troppo tempo” (Le Scritture, 11).
Questo l’intento programmatico, che si legge nella monografia introduttiva,
la prima delle opere qui presentate. I due autori hanno precisato ancora meglio
le prospettive del loro lavoro in un articolo elaborato e apparso in RivBiblIt 43
(1995) 363-379 dopo la pubblicazione dei tre volumi. Anche se per chi scrive è
stato il contrario, mi sembra utile raccomandare la lettura di quest’ultimo contributo prima di affrontare i singoli volumi. Essi scrivono “Vorremmo dare quindi
la possibilità di comprendere che nella comunità ebraica, sia di lingua aramaica
sia di lingua greca, nel I secolo prima e dopo la nostra era, il testo biblico in parte
ancora fluttuante era stato tramandato e fissato sulla base di una tradizione vivente la quale, scegliendo tra le varianti (TE = Testo Ebraico e poi TM = Testo
Masoretico) e specialmente traducendo (LXX = Settanta e Tg = Targum), aveva
in parte trasformato e reso più attuale il testo, introducendovi del nuovo, in armonia con lo sviluppo delle idee religiose e con le esigenze di situazioni nuove
rispetto a quelle in cui era nato il testo originale” (RivBiblIt 43, 1995, 363). Il
corsivo è mio e vuole sottolineare l’aspetto che, credo, risulterà più nuovo per la
maggioranza dei destinatari di questa impresa forse abituati a una concezione del
testo biblico fisso, immutato e immutabile fin dall’inizio.
Se a quanto detto dagli autori si aggiunge la costatazione di Mons. Galbiati – uno degli autorevoli presentatori dei volumi, assieme a R. Le Déaut e
a G. Ravasi – si ha un altro elemento essenziale per comprendere la natura e
l’importanza dell’iniziativa, per ora limitata ai Profeti Minori. Scrive l’illustre studioso: “Essendo dimostrato che il Targum, anche se messo in scritto
dopo l’inizio del Cristianesimo, esisteva già in forma orale ed era usato nella
liturgia sinagogale per l’istruzione del popolo accanto alla lettura in ebraico,
essendo anche dimostrato che nelle sinagoghe di lingua greca, ad Alessandria
ma anche a Gerusalemme, si leggeva solo la versione greca, ne deriva il fatto che nell’ambiente dove è nato il Cristianesimo, nell’ambiente di Gesù e
poi degli scritti del Nuovo Testamento, esistevano almeno tre forme non del
tutto equivalenti del testo biblico, immerso, per così dire, nella tradizione
vivente” (E. Galbiati, “Presentazione”, in Il libro di Osea, 7-8).
1. Opportunamente la nuova serie si apre con un volume di introduzione,
che porta il titolo Le Scritture ai tempi di Gesù. Dopo quanto si è detto si capisce l’intenzionalità del plurale “[Sacre] Scritture”. La monografia costituisce
una introduzione alla traduzione greca dei Settanta (pp. 23-77) e alle antiche
versioni aramaiche o Targumim (pp. 79-126).
Si tratta chiaramente di una introduzione limitata alle cose fondamentali e
finalizzata alla serie cui fa da volume di apertura. Della traduzione dei Settanta
CARBONE - RIZZI
LE SCRITTURE AI TEMPI DI GESÙ
635
viene trattata l’origine, la formazione, l’influsso e le caratteristiche. Della letteratura targumica, dopo brevi cenni generali sono passati in rassegna i Targumim
del Pentateuco, dei Profeti e degli Agiografi. In due capitoli sono illustrati scopi e metodi del Targum e si offrono alcuni esempi concreti, attraverso testi campione, di immersione nel mondo della letteratura giudaica antica (la prova di
Abramo e il sacrificio di Isacco; l’albero della vita; il pozzo di Miriam).
Gli autori tornano insistentemente su alcune convinzioni fondamentali che
hanno ispirato l’impianto del loro lavoro e lo sorreggono: la versione dei Settanta è più di una semplice versione, perché è testimone del testo dell’AT e la
sua importanza per la fede e la cultura cristiana è incalcolabile; i Settanta e il
Targum sono un grande “monumento” di interpretazione giudaica delle Sacre
Scritture di lingua ebraica: traduzione greca e parafrasi aramaiche costituiscono
un anello insostituibile di congiunzione tra mondo biblico dell’AT, giudaismo
antico e cristianesimo delle origini; i Settanta e i Targumim testimoniano in concreto tutti i metodi di lettura e interpretazione dell’esegesi giudaica (tecniche di
traduzione e tendenze midrashiche) usati nella sinagoga e nella scuola.
Attorno a questo corpo centrale gli autori hanno raccolto non poche altre
informazioni sui metodi esegetici in voga nella sinagoga e nella scuola (beth
midrash) al tempo di Gesù e degli autori neotestamentari, sul concetto di ispirazione, sulle tappe della formazione del TM, sui problemi linguistici e di
datazione, sulla relazione tra midrash e Targum, sul rapporto tra questa letteratura e il NT.
Trattandosi di un manuale introduttivo, il volume andrà collaudato dall’uso
nella scuola e fuori e potrà certamente essere migliorato nelle successive edizioni. In questa prospettiva faccio qualche osservazione e suggerisco alcune correzioni, anche di minore rilievo. Si sente la mancanza di un dizionarietto terminologico. Uno sforzo in tal senso, secondo me, risulterebbe estremamente utile
a chi muove i primi passi nel mondo della letteratura giudaica antica e gioverebbe in ogni caso a una maggiore precisione nell’uso di termini e concetti.
A p. 11 probabilmente manca l’articolo dinanzi a “profeti minori”. A p. 13,
n. 2 si parla della Geniza del Cairo, ma il termine viene spiegato alla p. 21, n.
7. A p. 15, trattando dei metodi esegetici, si accenna alla datazione delle tradizioni targumiche attraverso il confronto con altre opere ben datate del
giudaismo antico, quali Filone e Giuseppe Flavio ma non si nominano neppure gli scritti di Qumran (stessa osservazione per p. 93). Penso che il paragrafo
andrebbe completato e più ampiamente sviluppato con la menzione esplicita
dei criteri comunemente accettati per la datazione. A p. 34, n. 40 forse è più
appropriato parlare di “grotta delle Lettere in Na˙al Óever” anziché di “cava
delle Lettere in Na˙al Óever”. A p. 81 credo che “traduzione halakica” sia da
leggere “tradizione halakica”. A p. 124 forse è più corretto invertire gli attuali
termini di paragone tra la roccia percossa da Mosè e il fianco di Cristo trafitto
dalla lancia. La bibliografia ha bisogno di un controllo più attento: non vi è
sempre uniformità nell’indicazione delle collane; a Arnaldez è attribuito un ti-
636
RECENSIONI
tolo (Constitution…) che non si trova nel volume citato; sotto il nome di
Bonsirven è finito un titolo bibliografico (“Les mécanismes…”) che in realtà
appartiene a Bogaert (pp. 131-132); il titolo Jellicoe… è ripetuto alla fine dei
nomi inizianti con la lettera elle; in nomi e titoli di lingua spagnola molto spesso mancano gli accenti.
Alcune correzioni: p. 28, n. 4 dovrebbero per dovrebbe; p. 33 Jellocoe per
Jellicoe; p. 45 prosh/luto per prosh/lutoß, plerow per plhro/w; p. 47, n. 95
Sapienziali per gli “Scritti”; p. 49 nota 5 per nota 8 (lo stesso a p. 55 n. 19); p.
51, n. 10 cap. II per cap. III; p. 61 n. 36 Ecco per ecco; p. 86, n. 6 Speber per
Sperber; p. 129 issu per iussu; p. 131 Genesius per Gesenius; p. 134 1Coe per
1Cor; virgolette di citazione rovesciate: pp. 45-47, 54, 61, 95, 108, 122-125.
2. Come primo traguardo della grossa iniziativa Carbone - Rizzi si sono
proposti di pubblicare i Profeti Minori, perché si tratta di un complesso significativo insieme non troppo esteso né troppo limitato. Alla monografia introduttiva hanno già fatto seguito i primi due volumi dedicati rispettivamente a
Osea e Amos.
Il primo volume reca nel frontespizio (non sulla copertina) un titolo un po’
macchinoso – giustamente semplificato in quello dedicato a Amos – forse dovuto al desiderio di essere fin troppo chiari: Il libro di Osea secondo il testo
ebraico Masoretico, secondo la traduzione greca detta dei Settanta, secondo
la parafrasi aramaica del Targum. La struttura del volume è semplice.
Dopo le consuete rubriche (Abbreviazioni e Bibliografia) si trova una brevissima Introduzione generale (pp. 23-24 dove sono riportate alcune considerazioni che compaiono già nel volume introduttivo. Ugualmente molto breve è
la Introduzione alla traduzione del TM del libro di Osea (pp. 27-28). Contiene
alcune avvertenze e precisazioni sul testo ebraico masoretico che viene tradotto e sul tipo di traduzione.
Seguono poi due notevoli introduzioni alla versione dei LXX (pp. 31-46) e
al Targum (pp. 49-71). Sarebbe molto difficile riferire qui le molteplici e
minuziose osservazioni che gli autori fanno in queste due introduzioni, le quali presuppongono il confronto sinottico diretto, e forse ancora più arduo sarebbe per il lettore della presente rassegna seguire tali osservazioni. Per questo, al
fine di dare un’idea della ricchezza, dell’interesse e della complessità mi limito a descrivere sinteticamente il loro contenuto.
Punto di riferimento oggettivo e necessario resta il TM di Osea. Anzitutto
gli autori affrontano il problema delle differenze tra TMOs e LXXOs che possono dipendere dal fatto che l’interprete greco traduceva da un Testo Ebraico
diverso dal TM (p. 31: “in numerosi punti”). Quindi, poiché il testo dei LXX è
una “traduzione che interpreta”, gli autori facendo il confronto mostrano le
differenze che si possono far risalire alle tecniche di traduzione (modifiche per
esigenze di traduzione, procedimenti stilistici e equivalenti culturali) e quelle
che dipendono dalle tendenze midrashiche dalle quali risulta una “esegesi trasformante in atto” (p. 36). Concretamente il midrash halakah è presente in
CARBONE - RIZZI
IL LIBRO DI OSEA
637
LXXOs in riferimento a questi temi specifici: idolatria, coscienza del peccato,
purità rituale, condotta sessuale, condizione giuridica della diaspora. La lettura midrashica di tipo haggadico non è meno presente in LXXOs. Carbone Rizzi ne individuano quattro temi principali: Dio e il suo popolo, l’esilio e la
dispersione del popolo, la diaspora e le concezioni escatologiche riguardanti la
riunione dei figli di Israele, la guerra escatologica, la liberazione dalla morte,
la pace e la prosperità escatologica, il mistero e la vocazione d’Israele.
Nella Introduzione al Targum del libro di Osea gli autori notano anzitutto
che la parafrasi targumica rispetto al TM colpisce per la sua ampiezza e per l’articolazione dei temi che affronta (cf. p. 49). Il Targum è “una traduzione che
spiega” e che cerca di non lasciare nulla di oscuro, perciò rispetto a LXXOs è
“meno sobrio, meno preoccupato di riprodurre materialmente il testo ebraico
originale” (p. 51). Carbone - Rizzi ritengono che TgOs ha di fronte un testo
ebraico del tutto simile a quello che poi sarà vocalizzato dai masoreti (cf. p. 51).
Nel confronto TMOs e TgOs essi distinguono tra fenomeni particolari e tecnici, ricorrenti o più occasionali e fenomeni dipendenti dalla attività derashica.
Tra i primi vanno annoverate le divergenze testuali e sticometriche, la soluzione
di oscurità e incertezze del TM, gli adattamenti della toponomastica, alcune questioni connesse con la traduzione dei tempi e dei modi dei verbi in aramaico.
Appartengono invece alla seconda serie di fenomeni o caratteristiche da una parte
la glossa (“inserzione propria del targumista senza che vi sia un appiglio letterale o letterario nel TM: si tratta di una vera e propria aggiunta, con vari scopi”, p.
54) e dall’altra la parafrasi propriamente detta e le letture midrashiche. Per le
glosse si possono individuare: glosse esplicative, glosse secondo il midrash
halakah, glosse secondo il midrash haggadah.
Quanto alla parafrasi si nota che essa resta aderente al testo e “tende a esporre
il testo originale cambiando qualche parola, usando termini specifici, introducendo esplicitazioni sintattiche, allargando più o meno sensibilmente le immagini o
le similitudini” (p. 54 e 57). “Le letture midrashiche… sono molto più libere,
anche se mai totalmente sciolte, dalla lettera del testo, per attingere al patrimonio della tradizione nell’interpretarlo. Il midrash halakah evidenzia il contenuto
morale e giuridico del testo, mentre il midrash haggadah mette in luce l’interpretazione spirituale, storica, edificante, messianica, escatologica, comunitaria,
ecc.” (p. 54 e 57ss). Sotto la parafrasi propriamente detta gli autori classificano
alcune tecniche (ricorso al plurale, “Israele” per tutto il popolo di Dio, attenuazione o accentuazione di un testo biblico, ampliamento delle immagini e riduzione a similitudine) e alcuni contenuti (differente contestualizzazione come
attualizzazione del testo, contenuti halakici e contenuti haggadici).
Sotto le letture midrashiche essi classificano: la traduzione del tetragramma sacro, il midrash halakah (alcune formulazioni generali, il peccato, il timore di Dio, la Legge e le opere, gli aspetti concreti della vita morale, il perdono del Signore e la giustizia futura), il midrash haggadah (la sventura, il
memoriale salvifico dell’esodo e l’amore di Dio per “i padri”, la salvezza).
638
RECENSIONI
A queste robuste introduzioni seguono, disposte in sinossi, la traduzione
del TM (ed. K. Elliger in BHS), dei LXX (ed. J. Ziegler), del Tg (ed. A.
Sperber) e le note di commento. La traduzione è volutamente e sempre molto
letterale per permettere di fare un confronto corretto e stringente fra i tre testi.
Talvolta il testo tradotto risulta un po’ duro, ma ritengo sia valido il principio
che quando il calco non distorce la lingua, favorisce la formazione di un linguaggio speciale e quindi più propriamente caratterizzato. In calce alla traduzione e a seguire si trovano tre fasce di note rispondenti a tre testi.
Per il TM la traduzione italiana è costantemente confrontata con quella di
H.W. Wolff e vengono segnalate le modifiche apportate al TM, le interpretazioni filologiche divergenti e la diversità possibile nella resa dei tempi del verbo ebraico in poesia.
Nella fascia riservata a LXXOs sono messe in evidenza le differenze rispetto al TM cercando di individuarne le ragioni specifiche nei singoli casi.
Qui vengono discussi anche casi controversi del TM. In quella dedicata al
TgOs le note cercano di spiegare le ragioni di interpretazioni e ampliamenti
rispetto al TM. Chi avrà letto attentamente le introduzioni ritroverà qui in dettaglio e con maggiore ricchezza di particolari quanto nelle introduzioni specifiche ai tre testi si trova raccolto, classificato e esposto.
Alla traduzione sinottica segue un breve capitolo conclusivo dove si istituisce un confronto sulle caratteristiche proprie di LXXOs e TgOs. Tale confronto viene fatto sulle tecniche di traduzione e sulle tecniche di interpretazione. Carbone - Rizzi ritengono che attraverso questa metodologia si possa
“giungere certamente a delineare un quadro teologico abbastanza ampio dell’interpretazione del libro di Osea nella tradizione giudaica almeno tra il II sec.
a.C. e il II sec. d.C.” (p. 280).
Chiudono il volume alcuni indici: dei passi biblici del TM e dei LXX, dei
passi dei Targumim e della letteratura rabbinica (esteso a Qumran, Filone, Giuseppe Flavio e agli Apocrifi del NT). Quest’ultimo è di scarsa utilità perché si
limita a dare solo il titolo del libro, senza alcuna specificazione ulteriore. Questa osservazione va estesa pure al volume già presentato e a quello che segnalerò in seguito.
Gli autori esprimono in anticipo “viva gratitudine ai critici e agli studiosi
che [ci] vorranno segnalare errori, inesattezze, integrazioni, ecc.” (p. 23-24).
In questa ottica aggiungo qualche osservazione e suggerisco alcune correzioni, anche in vista di ulteriori edizioni che sinceramente auguro all’opera. Ho
trovato arduo seguire le varie introduzioni per vari motivi e non solo per la
materia in sé. L’inserimento continuo di rinvii all’interno del testo e non in nota
affatica non poco la lettura. Sembra che gli stessi autori lo abbiano già avvertito perché nel volume su Amos hanno proceduto in questa direzione.
Nell’attuale disposizione grafica non si riescono a vedere i diversi livelli delle
suddivisioni. Questa per me è stata una difficoltà maggiore, solo in parte compensata dal fatto che alla fine di ciascuna divisione vengono annunciate quelle
CARBONE - RIZZI
IL LIBRO DI AMOS
639
successive. Questo limite è aggravato dal fatto che nel libro non si trova un indice generale che permetta di vedere l’articolazione complessiva e completa del
volume. Ritengo sia necessario chiarire bene questo non solo con una diversa
disposizione grafica, ma anche con apposite lettere, numeri e, se necessario, paragrafi. Mi permetto di suggerire una rilettura più rigorosa da parte degli autori
in modo da evitare ripetizioni non necessarie. Mi rendo conto che non è facile
evitare delle ripetizioni quando si passa dalle introduzioni ai commenti nelle note
e nella conclusione, tuttavia man mano che il metodo e la terminologia si affinerà forse ciò sarà possibile. Credo convenga fare qualche sacrificio per migliorare questi aspetti, tenuto conto del vasto pubblico che l’opera vuole raggiungere.
Bisogna aggiungere nella bibliografia i dati completi di Galbiati - Aletti,
Atlante e di Manns, Symbole (p. 265 non ripreso nell’indice degli autori) citati
solo in forma abbreviata. A p. 76, n. 10 penso che PER sia da leggere PRE.
Nella colonna del Tg a p. 144 il n. 22 del v. va corretto in 21.
3. Il volume dedicato al libro del profeta Amos ripete ovviamente la struttura di quello che lo ha preceduto. Gli autori non vi hanno premesso neppure una
introduzione ma hanno preferito limitarsi a una brevissima prefazione dove riportano quasi alla lettera quanto si legge nei volumi precedenti (cf. Le Scritture,
p. 9 e 11; Libro di Osea, p. 23). Tuttavia sono visibili già alcuni miglioramenti.
Nelle introduzioni sono state introdotte sistematicamente le note di rinvio
ai tre testi, anche se ridotte alle cose più essenziali. Ciò permette di leggere in
maniera più scorrevole il testo. Anche qui, come nel volume su Osea, si trova
un imponente lavoro di classificazione e presentazione del materiale specifico
dei tre testi.
Per TMAm (pp. 23-26) gli autori fanno osservare che anche questa “lettura” non è priva di segnali interpretativi e glosse. Tuttavia il testo in sé presenta
meno asperità rispetto a Osea.
Per LXXAm (pp. 29-41) Carbone - Rizzi ripetono anzitutto la costatazione
che esso è “esegesi in atto”, poi indicano le numerose divergenze testuali rispetto al TMAm, di cui alcune possono rivelare un TE diverso e migliore del
TM. Quindi passano ad elencare tutta una serie di procedimenti abbastanza frequenti e riconducibili alle seguenti ragioni: stile e vocabolario, nuove
contestualizzazioni (per es. spostamento del punto di osservazione da quello
preesilico di Amos a quello postesilico del giudaismo), attività di glossatura
(quantitativamente non rilevante) con presenza di halakah e haggadah, letture
midrashiche (presenza rilevante anche se non nella misura di quelle di Osea)
di impianto haggadico proteso a illustrare il tema bipolare della salvezza e del
giudizio su Israele e sui pagani.
Per TgAm (pp. 45-58) si rileva anzitutto una maggiore sobrietà e concisione nell’attività derashica della parafrasi rispetto al Targum di Osea. I problemi testuali sono di vario tipo, ma non numerosi. Non pochi casi, in cui il
Tg si allontana dal TM, si possono considerare come traduzioni attraverso
“l’equivalente culturale”. Inoltre la distinzione tra i vari fenomeni letterari che
640
RECENSIONI
gli autori avevano potuto fare per TgOs non la ritengono agibile per TgAm.
Essi distinguono glosse esplicative rispetto a TMAm e glosse con sviluppo
halakico e haggadico e poi classificano il materiale proveniente dalla parafrasi
e quello più propriamente midrashico sotto la “teologia”, il midrash halakah
(formulazioni generali e varie, ingiustizie e sovvertimento della giustizia, il
culto), il midrash haggadah (la parola, la profezia e il ministero di Amos, la
sventura, la tipologia dell’esodo, l’elezione di Israele e il perdono divino, le
prospettive escatologiche).
La sinossi con traduzione di TMAm (ed. K. Elliger in BHS), di LXXAm
(ed. J. Ziegler), del TgAM (ed. A. Sperber) con le relative fasce di note occupa la parte centrale e principale del volume (pp. 59-157). Una differenza rispetto al volume dedicato a Osea gli autori l’hanno apportata riguardo al modo
di trattare TMAm. Sia l’introduzione che l’apparato critico filologico-testuale
sono maggiormente sviluppati.
Come per i volumi precedenti avanzo qualche suggerimento e segnalo degli errori. Confesso di aver fatto pure qui una grossa fatica a individuare le
divisioni principali e minori nelle introduzioni a LXXAm e TgAM. Come si
diceva per il precedente volume, è importante che gli autori introducano espedienti grafici e di altro genere per mostrare chiaramente le articolazioni. Non
si vede poi perché non vi sia un indice generale, della cui utilità, credo, nessuno possa dubitare. A p. 13 si legge Genesius per Gesenius, a pp. 16-17 ouevres
per oeuvres; mancano gli accenti in nomi e titoli in spagnolo.
L’interesse e la fecondità a diversi livelli del confronto che gli autori istituiscono tra i due libri profetici fa intravvedere la mole di osservazioni e la
possibilità di conclusioni che permetterà la realizzazione del disegno complessivo. Fin da ora essi mettono a disposizione non solo di un vasto pubblico di
amanti e devoti delle Sacre Scritture, ma anche di ricercatori e studenti, una
quantità notevolissima di materiale su cui fare verifiche e approfondimenti.
I lettori sono avvertiti che il viaggio cui sono invitati da Carbone - Rizzi
non è una facile passeggiata, ma riserva sorprese e soddisfazioni. R. Le Déaut
nella Prefazione al primo volume della serie scrive: “Chi avrà il coraggio e la
pazienza perseverante di superare le difficoltà iniziali a comprendere le inevitabili ‘crisi’ scientifiche e spirituali connesse alla scoperta del mondo del
giudaismo, ai suoi metodi interpretativi e al suo linguaggio, scoprirà un tesoro
inesauribile da cui non vorrà più separarsi, di essenziale attualità e ricco di
sorprese” (Le Scritture, 9).
I due giovani e coraggiosi autori possono dirsi paghi della loro fatica se come c’è da augurarsi - essa aiuterà “le comunità italiane a familiarizzarsi con
l’idea che la parola di Dio si è storicamente rivelata in una viva tradizione, nel
corso della quale le successive edizioni del testo ebraico, delle traduzioni greche e i targumim aramaici hanno dato contributi diversi, ma insostituibili
nell’evidenziarne i contenuti e nel disvelarne il mistero” (Il libro di Osea, 27).
Giovanni Claudio Bottini, ofm
GILLESPIE
THE FIRST THEOLOGIANS
641
Gillespie Thomas W., The First Theologians. A Study in Early Christian
Prophecy, William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids (Michigan) 1994, XIV-286 pp., $ 24.99
Il volume è una revisione della tesi dottorale dell’A. fatta a distanza di più di
vent’anni dalla sua elaborazione. Sicuramente valeva la pena ritornare sull’argomento che tratta il “carisma profetico” nel NT. L’A., un ministro della Chiesa presbiteriana negli USA, ha analizzato un fenomeno che non appartiene solo
al passato ma entra a far parte del complesso delle esperienze di Dio e della
percezione della realtà da parte di popoli e di loro singoli gruppi (cf. Foreword
di M. Welker).
Il piano dell’opera è nitido: dopo l’introduzione seguono sei capitoli che
analizzano i testi paolini. Ad eccezione del cap. I (1Tess 5,20 e Rm 12,6), gli altri
capitoli sono consacrati alla lettura della 1Cor: 12,1-3 (cap. II); 12,4-31a (cap.
III); 14,1-10 (cap. IV); 2,6-16 (cap. V) e 15,1-51 (cap. VI). La conclusione presenta brevemente i risultati raggiunti.
L’introduzione, abbastanza estesa (pp. 1-32), espone lo stato della ricerca
sull’argomento. Il Gillespie riporta le considerazioni di vari studiosi e dalla lettura successiva si apprende che egli deve molto alla loro riflessione. In primo
luogo l’A. sottolinea che l’interesse per il fenomeno profetico nella Chiesa antica fu suscitato dalla scoperta e della pubblicazione della Didaché. Sulla scia di
Harnack, il Gillespie si occupa dei predicatori itineranti, e fra essi dei “profeti”.
Essi appaiono come prescelti da Dio e perciò sua “voce” (pp. 2-4). Peccato che
l’A. si fermi qui e tralasci altre testimonianze, le quali dimostrano che la Chiesa
del I sec. ha goduto di un particolare carisma di apostoli e di profeti. Il Gillespie
si interessa piuttosto delle questioni esegetiche sviluppate da R. Bultmann e E.
Käsemann, che egli cerca poi di valutare e mettere nel contesto della ricerca
condotta da altri studiosi. Emergono da questo quadro le posizioni di D. Aune
che ha studiato il fenomeno del profetismo nel vasto panorama storico e culturale. L’argomento cruciale è quello del significato della diakrisis e diakrinein, ridotto piuttosto a quello di interpretare la rivelazione, che poteva presentare anche lati oscuri. Il nostro A. è più incline ad accettare la tesi di Müller, per il quale
la profezia è un discorso chiaro ed univoco, le cui forme sono l’ammonizione,
l’edificazione, i dati kerygmatici, ecc. Lo stesso favore si nota per le affermazioni di Hill che vede in S. Paolo il paladino del carisma profetico. Nello stesso
tempo l’Apostolo cerca di purificare il dono dello Spirito dalle intemperanze e di
dare ad esso un orientamento di insegnamento pastorale e morale.
J.D.G. Dunn ha sottolineato che il processo del diakri÷nein doveva comprendere anche il momento della valutazione. Il Gillespie analizza, infine, la posizione di Dautzenberg che ha sostenuto, con ricchezza di argomentazioni, l’esistenza di una netta distinzione tra la profezia e il kerygma (pp. 28-31). Si profila
così la linea seguita dall’A.: la profezia indica il carisma di una parola ispirata e
illuminante. Il cap. I si occupa della relazione tra la profezia e la predicazione del
642
RECENSIONI
Vangelo. In sostanza non si tratta soltanto dell’analisi di 1Tess 5,20 e Rm 12,6,
come preannuncia il sottotitolo, ma delle due pericopi: 1Tess 5,19-22 e Rm 12,3-8.
A giudizio del Gillespie l’atteggiamento diffidente e minimalistico dei tessalonicesi nei confronti dei carismi va integrato con la descrizione presentata in
Rm. Secondo l’A., si deve considerare che per S. Paolo la profezia era una delle
forme della proclamazione del Vangelo, facendo conoscere la volontà di Dio in
ordine al mondo e al singolo credente (cf. G. Friedrich, “profh/thß ktl.”, GLNT
11, 634).
Seguendo il metodo dell’analisi esegetica, l’A. cerca di individuare e esporre i problemi più importanti, pertinenti al fenomeno del profetismo, che sono
evidenti nell’opera paolina. L’analisi appare molto ricca nella sua concisione e
segue con molta accuratezza e penetrazione la storia dei principali vocaboli nonché delle nozioni che vi sono connesse. Così ben tre capitoli si occupano della
testimonianza più celebre sulla manifestazione dei carismi, e in particolare della
profezia, di 1Cor 12-14. Il Gillespie scorge il nesso tra la profezia e la confessione di fede (cap. II), analizza il fenomeno profetico alla luce dello “Spirito” (cap.
III) e il parlare in lingue (cap. IV). Le riflessioni paoline sono considerate, sulla
scia di Aune, “le più importanti fonti della nostra conoscenza riguardante la profezia cristiana del I secolo” (p. 65).
Il cap. II si occupa di 1Cor 12,1-3. L’argomento principale dell’esposizione paolina va al di là della situazione contingente di Corinto, che richiedeva un suo intervento diretto, e si snoda in un discorso teologico più ampio.
Le disposizioni per l’ordinata conduzione delle assemblee in cui si manifesta il dono della profezia sono di primaria importanza e qui Paolo è certamente
erede della prassi normale delle Chiese giudeo-cristiane della Palestina. Le riflessioni di questa parte della trattazione del Gillespie si intrecciano con l’analisi
di 1Cor 12,4-31a, fatta nel cap. III. L’A. ritiene che in questa pericope Paolo
cominci a situare l’autentica profezia nel largo contesto della diversità di azioni
dello Spirito e dimostra che per l’Apostolo la molteplicità dei carismi è una ricchezza da accogliere e valorizzare.
Il cap. IV permette di entrare nel cuore delle regole paoline sull’uso dei
carismi, di quello della profezia e glossolalia in particolare. S. Paolo dedica tutto
il cap. 14 della 1Cor a fare l’elogio della glossolalia ed insieme purificarlo da
intemperanze e usi non appropriati. L’Apostolo contrappone la profezia alla
glossolalia, in polemica con la sopravvalutazione di questa presso la comunità di
Corinto. A giudizio del Gillespie, questo atteggiamento dei corinzi è dovuto all’alta considerazione che i fenomeni estatici avevano nel mondo ellenistico. L’A.
rileva bene che per l’Apostolo si tratta in fondo di uno dei tanti doni dello Spirito
che opera nella Chiesa, edificando, esortando e incoraggiando i fedeli. In questa
maniera si perfeziona ogni comunità cristiana.
Nella tradizione testimoniata da Paolo la profezia implica la comunicazione
di misteri divini che sono stati rivelati al profeta, elementi di una “sapienza”
rivelata o “gnosi” delle cose nascoste. L’A. consacra a questa problematica il
GILLESPIE
THE FIRST THEOLOGIANS
643
cap. IV che mette al centro dell’attenzione 1Cor 2,6-16. La pericope analizzata
conclude l’attacco paolino contro un certo tipo “della sapienza di parole” (p.
166). L’argomento della 1Cor 1,18-2,5 si esprime nelle antitesi: sapienza/follia e
potenza/debolezza, sapienza/potenza e follia/debolezza. La sapienza che fa riferimento al Cristo crocifisso è distinta da qualunque sapienza di tipo puramente
umano, ossia “sapienza verbale”, come quella attribuita da Paolo ai corinzi. Le
considerazioni sulla rivelazione del Vangelo e sul Vangelo profetico di S. Paolo
intendono offrire alcuni spunti per giustificare il ruolo della continua costruzione della Chiesa tramite la proclamazione del Vangelo e l’interpretazione dell’opera redentiva di Cristo. Però per l’A. un posto eminente spetta alla “rivelazione”, perché “nella sapienza apocalittica si trova l’origine della teologia
cristiana” (l’opinione di Niederwimmer riportata a p. 197).
Nel cap. V il carisma profetico è collegato con il kerygma. La riflessione si
basa su 1Cor 15,1-51 e cerca di vedere in questa pericope l’esempio della
“predicazione profetica”.
I pregi dell’opera del Gillespie non sono pochi. Attraverso l’analisi da lui
condotta si può costatare che la diffusione del carisma tra i membri delle comunità cristiane ha provocato la specificazione del ruolo dei “profeti” e la loro sottomissione alle norme pratiche e disciplinari.
Nello studio abbonda l’analisi grammaticale e lessicale dei testi scritturistici.
Essa però viene fatta in un modo “discorsivo”, che talvolta appesantisce in modo
eccessivo la trattazione. Molto illuminanti sono le conclusioni alla fine di ogni
capitolo.
Tra le imperfezioni formali rileviamo soltanto che l’intestazione del cap. IV
(“Prophecy and Tongues”) nella sua forma (“Prophecy and the Gospel”) sembra
poco appropriata. Nell’ampia bibliografia si nota la palese assenza dei titoli in
lingue neolatine.
L’A. solleva, anche se di passaggio, la questione del profetismo femminile (p.
67, nota 9). Sicuramente il fenomeno non è da escludere, ma neppure da cercare
dove esso non sia accertato. Benché il carisma fosse comune a uomini e donne, a
queste tuttavia l’Apostolo ne vieta l’esercizio nelle assemblee (cf. 1Cor 14,34).
Pur considerando che il passaggio dal concetto neotestamentario del carisma
profetico allo sviluppo successivo è fluido e graduale, si può ammettere che la descrizione del fenomeno, come appare in S. Paolo e negli scritti dei Padri Apostolici (Didache, Pastore di Erma), non è differente da quella che risulta dalle fonti successive. Ne è testimone Ireneo: “Noi abbiamo inteso molti fratelli nella Chiesa che
avevano dei carismi profetici, parlavano mediante lo spirito in ogni lingua, manifestavano i segreti dei cuori per l’utilità (comune)” (Adv. Haer. V,6,1: SC 153, 7475). Non di rado si sostiene che “il montanismo fu l’ultimo grande bagliore del
profetismo nella Chiesa” (Friedrich, “profh/thß”, 652). La reazione antimontanista non era però anti-carismatica, ma dimostrò una comune tendenza a non lasciare tutto alla spontaneità o agli entusiasmi apocalittici. Tuttavia, il carisma
profetico persiste nella “grande Chiesa” anche successivamente. Un luogo privile-
644
RECENSIONI
giato della sua presenza è la vita monastica. Ogni monaco, in qualche maniera, poteva ritenersi successore o seguace dei profeti biblici. Nell’agiografia monastica si
incontra perciò questo carisma in modo particolarmente vitale, dato che le eminenti figure del monachesimo venivano chiamate “profeti”. Nella tradizione orientale
questo appellativo viene unito al nome dei grandi direttori spirituali.
Dire che qui si è lontani dal NT è affermare una cosa ovvia. Però la storia
della Chiesa rivela che il carisma di coloro che “parlavano nel nome di Dio” è
utilizzato nella difesa della fede, chiamato in causa nella vita interna delle comunità e nella formazione spirituale. Questo percorso invita a non assolutizzare
nessuna delle forme di manifestazione dello Spirito che “ha parlato per mezzo
dei profeti”, ma cercare quelle che aiutano nell’oggi a condurre una vita “secondo lo Spirito”.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
Puech Émile, La croyance des Esséniens en la vie future: immortalité,
résurrection, vie éternelle? Histoire d’une croyance dans le Judaïsme ancien.
I. La Résurrection des mort et le contexte scripturaire; II. Les données
qumraniennes et classiques, Paris 1993, XVIII-956 pp., 560 FF
Due tomi per un totale di quasi 1000 pagine! Il primo volume di carattere sintetico-teologico tratta dei dati biblici che affrontano l’argomento e cerca di arrivare
ad una conclusione generale che permetta di dare un punto di partenza per il
secondo volume di carattere storico-epigrafico, i dati riguardanti Qumran per
l’appunto.
Il primo tomo è una sintesi dei dati ricavabili dalla S. Scrittura, dai libri
apocrifi e dal contesto religioso giudaico. Nella parte dedicata ai dati scritturistici
l’A. riporta e commenta brevemente i brani scritturistici che hanno una qualche
relazione con la vita futura sia quelli più vaghi, come ad es. Os 6,1-3 e Ez 37,114, sia quelli più pertinenti, come 2 Maccabei. Il senso di questo capitolo è che
“la fede nella risurrezione dei giusti si va precisando e affinando a partire dal
terzo secolo a. C. in certe correnti del giudaismo” (p. 98). Nella letteratura apocrifa
il contorno del problema assume toni più chiari. Si passa da una visione spirituale della vita futura ad una visione più concreta (= risurrezione della carne, soprattutto in 1 Henoch), per esprimerci con termini teologici presi dal cristianesimo: esistenza di una vita dopo la morte, esistenza di un oltretomba molto simile
al purgatorio, a volte comune per giusti ed empi, a cui segue il paradiso o l’inferno (ma la beatitudine o la sofferenza dell’oltretomba cominciano già prima del
giudizio), risurrezione dei soli giusti (questo tema è abbastanza chiaro), giudizio
giusto di Dio, riunione di anima e corpo per il giudizio… Alla fine di questo
capitolo ci sono alcune interessanti pagine (182-199) dedicate alle iscrizioni e ai
monumenti funerari dove viene affrontato anche il problema dei giudeo-cristiani. Peccato che l’A., che mostra di avere idee ben chiare al riguardo, non abbia
COMM. BIBL PONT.
L’INTERPRÉTATION DE LA BIBLE DANS L’ÉGLISE
645
approfondito ulteriormente il suo punto di vista. Il terzo capitolo è dedicato all’atteggiamento dei partiti religiosi ebraici (sadducei e farisei) e del NT verso la
vita futura, a cui seguono 2 brevi excursus sui samaritani e sui Padri apostolici.
Segue una conclusione dettagliata a tutto il volume, prima una sintesi analitica
dei vari testi / problemi presi in esame (pp. 303-316), poi una sintesi teologica
(anche se l’opera non si prefigge questo scopo) in cui l’A. mostra come l’idea
della vita futura si sia sviluppata nella mente del pio israelita (pp. 316-323). Il
genere comune a tutta questa prima parte è la sintesi, anche se non mancano
tratti di analisi. L’A. segue alcune linee-guida (ad es. Cavallin e Nickelsburg),
autori che hanno affrontato il problema prima di lui. Ci meraviglia la mancanza
in bibliografia del volume Risorgeremo, ma come? Risurrezione dei corpi, degli
spiriti o dell’uomo? Per un contributo allo studio della speculazione apocalittica
in epoca greco-romana: II sec. a. C. - II sec. d. C. di Cesare Marcheselli-Casale
(Bologna 1988) che tratta dello stesso argomento.
Il II volume, dedicato a Qumran, si trasforma in un’antologia di epigrafia,
paleografia e storia. L’A. studia vari testi, alcuni dei quali inediti, per vedere in
che relazione stiano con i dati raccolti nel I volume. Viene ripercorso nei testi di
Qumran tutto il cammino già affrontato nel primo volume con i testi biblici e
apocrifi. La conclusione generale è che la fede degli Esseni nella vita futura non
si fermava all’affermazione dell’immortalità dell’anima, ma professava la risurrezione della carne (dei soli esseni giusti ovviamente), non un semplice ritorno
alla vita precedente, ma una risurrezione gloriosa che comportava una nuova
creazione dell’uomo (come in certi testi di S. Paolo).
Dopo la sintesi teologica del primo volume sarebbe bastato, forse, riportare
quei pochi testi che potevano comportare un contributo diretto alla comprensione
del problema. Invece viene ripercorso tutto il cammino con la conseguenza di appesantire non poco lo svolgimento della composizione. Infatti, i testi qumranici che
trattano esplicitamente della vita futura sono relativamente pochi e i dati più espliciti sembrano venire dall’esterno della comunità. Inoltre la ricostruzione di testi
molto frammentari ha valore relativo come le teorie che potrebbero basarsi su tali
ricostruzioni. Non possiamo che raccomandare molta prudenza nella ricostruzione delle epigrafi. E’ meglio un testo mutilo che una ricostruzione azzardata.
Quest’opera è una miniera dove, chi voglia approfondire un qualche aspetto
riguardante la vita e la fede della comunità, potrà trovare numerosi e utili spunti
per approfondire la sua ricerca.
Massimo Pazzini, ofm
Commission Biblique Pontificale, L’interprétation de la Bible dans l’Église,
Les Éditions du Cerf, Paris 1994, XXIII-129 pp., 45 FF
Non è stato casuale che il nuovo documento della Pontificia Commissione Biblica sull’interpretazione della Bibbia abbia visto la luce in concomitanza con
646
RECENSIONI
due date importanti: il centenario dell’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (18.11.1893) e il cinquantenario dell’enciclica Divino afflante Spiritu
di Pio XII (30.9.1943). Infatti, i due scritti pontifici, entrambi consacrati alle
questioni bibliche, segnarono le tappe cruciali dell’evoluzione delle scienze
bibliche nel campo dell’esegesi cattolica. Con un proprio contributo, il documento della Commissione Biblica ha voluto proseguire in questa linea.
L’introduzione del volume che presentiamo, redatta dal P. Jean-Luc Vesco
o.p., membro della Pontificia Commissione Biblica, avvia alla lettura del documento, facendone vedere gli antecedenti storici e descrivendo brevemente il
suo contenuto.
Il documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (il testo è riportato alle pp. 23-119) si prefigge, come scopo primario, di rispondere ai bisogni
del tempo e di chiarire una situazione nel campo esegetico diventata assai confusa, indicando nel contempo le vie che “conviene intraprendere al fine di arrivare ad una interpretazione della Bibbia che sia tanto fedele quanto possibile
al suo carattere umano-divino” (p. 26; questa e le successive traduzioni dei testi
sono mie). Non si ha la pretesa di esaminare tutte le questioni bibliche, ma
unicamente i metodi esegetici in grado di contribuire alla migliore conoscenza
del testo sacro.
Il contenuto del documento è ormai abbastanza noto per cui, dopo averne
brevemente ricordato le linee fondamentali (per un ampio commento rinvio a
J.A. Fitzmyer, The Biblical Commission’s Document “The Interpretation of the
Bible in the Church”. Text and Commentary, Roma 1995), mi soffermerò su
qualche aspetto per metterne in evidenza l’importanza.
Nella I parte, “Metodi e approcci per l’interpretazione”, viene fatta una breve
descrizione di vari metodi scientifici (il metodo storico-critico; i metodi letterari:
analisi retorica, narrativa, semiotica) e approcci interpretativi (basati sulla tradizione; scienze umane: sociologia, antropologia culturale, psicologia e psicoanalisi; legati al contesto: liberazionista, femminista). La presentazione di ciascun metodo è accompagnata dalle indicazioni sulle loro possibilità e i loro limiti.
La II parte si occupa di alcune “Questioni d’ermeneutica” biblica. In primo luogo, si prende in esame l’incidenza che esercita la contemporanea ermeneutica filosofica sull’interpretazione dei testi biblici. In secondo luogo, vengono dati alcuni principi generali sui tre sensi tradizionali della S. Scrittura:
letterale, spirituale, pieno.
La III parte è intitolata “Dimensioni caratteristiche dell’interpretazione cattolica”. Qui viene messo in evidenza il carattere proprio dell’esegesi cattolica,
la quale si ispira e segue l’interpretazione del testo sacro fatta dalla tradizione
biblica e da quella ecclesiale. In seguito ci si sofferma sull’opera e sui compiti
dell’esegeta cattolico ed infine sui rapporti che legano la scienza biblica con le
altre discipline teologiche.
Nella IV ed ultima parte, “Interpretazione della Bibbia nella vita della
Chiesa”, viene mostrato l’impatto dell’interpretazione biblica sulla vita eccle-
COMM. BIBL PONT.
L’INTERPRÉTATION DE LA BIBLE DANS L’ÉGLISE
647
siale. L’analisi scientifica non è fine a se stessa, ma è chiamata ad incarnare il
messaggio biblico in forme pratiche di attualizzazione, inculturazione e nei
diversi impieghi del testo ispirato (la liturgia, la “lectio divina”, il ministero
pastorale, l’ecumenismo).
Il documento termina con una “Conclusione” in cui si sottolinea la funzione indispensabile svolta dall’esegesi biblica e il ruolo primario, benché non
esclusivo, del metodo storico-critico. L’approccio diacronico, favorito nel documento, non vuol dire comunque una pretesa di monopolio; la coscienza dei
propri limiti deve spingere i fautori del metodo storico-critico a procedere anche alle ricerche sincroniche sul testo sacro.
Nel solenne discorso (riportato alle pp. 3-16 del volume), pronunciato in
occasione della pubblicazione del documento (23.4.1993), Giovanni Paolo II
si è soffermato anzitutto sul contenuto e sui valori delle due encicliche papali.
Al di là del loro valore intrinseco, le nuove prospettive e i vari cambiamenti di
situazione hanno richiesto – rileva il Pontefice – di riprendere e approfondire
le problematiche del passato e soprattutto quelle attuali. A giudizio del Papa,
nel documento della Pontificia Commissione Biblica “quello che colpisce a
prima vista è l’apertura di spirito nella quale esso è concepito. I metodi, gli
approcci e le letture praticate oggi nell’esegesi vengono esaminati e, nonostante alcune riserve – a volte gravi – che è necessario esprimere, viene ammessa
la presenza, in quasi ognuno di essi, di elementi validi per un’interpretazione
integrale del testo biblico. […] Un altro tratto caratteristico di questa sintesi è
il suo equilibrio e la sua moderazione. Nell’interpretazione della Bibbia, essa
è capace di armonizzare la diacronia e la sincronia, riconoscendo che le due si
completano a vicenda e sono indispensabili per far uscire tutta la verità del
testo e per soddisfare alle legittime esigenze del lettore moderno” (nn. 13.14).
Le caratteristiche sottolineate dal Papa, ossia l’apertura ai nuovi orizzonti
e l’equilibrio di valutazione, sono confacenti non soltanto al documento in questione, ma anche alle parole dell’allocuzione pontificia in cui le incoraggianti
espressioni positive superano di gran lunga quelle di un comprensivo riserbo
sulla presunta impeccabilità dei metodi biblici di studio, non escluso il metodo
storico-critico. Tra il discorso papale e il documento esiste una perfetta sintonia
di lettera e di spirito. Questa impressione è condivisa anche dai critici che hanno riservato al documento un’accoglienza eminentemente positiva, valga per
tutti ad es. J. Kremer, “Die Interpretation der Bibel in der Kirche: Marginalien
zum neuesten Dokument der Päpstlichen Bibelkommission”, Stimmen der Zeit
213 (1994) 151-166.
Rispetto alle due encicliche precedenti e agli interventi di un passato non
molto lontano della Pontificia Commissione Biblica, il nuovo documento si distingue, quanto al contenuto, per l’assenza di una prospettiva apologetico-polemica e quindi puramente difensiva, e quanto allo stile, per la rinuncia al tono
impositivo. I tempi sono ormai cambiati e la protezione dell’interpretazione
cattolica della Bibbia non deve necessariamente basarsi sulle direttive di stu-
648
RECENSIONI
dio e di ricerca imposte in forma apodittica dal Magistero della Chiesa. Va ricordato che i documenti della Commissione Biblica godevano fino a poco tempo fa della stessa autorità dei decreti dottrinali delle congregazioni romane.
Commentando questo significativo cambio di tendenza, H.-J. Klauck paragona la nuova condotta del Magistero nei confronti della scienza biblica alla restituzione della libertà agli schiavi ebrei, richiesta nell’anno giubilare [cf. “Alle
Jubeljahre. Zum neuen Dokument der Päpstlichen Bibelkommission”,
Biblische Zeitschrift 39 (1995) 1-27 qui 1]. Se, quindi, l’enciclica Providentissimus Deus ha iniziato un nuovo periodo quanto all’atteggiamento della
Chiesa verso la Bibbia, altrettanto possiamo dire dell’ultimo documento. Dopo
il Vaticano II (Lumen gentium) e la riscoperta dell’ecclesiologia di comunione,
i rapporti tra esegesi scientifica e Magistero sono mutati profondamente, liberati da sospetti e pregiudizi. Per uno sguardo sull’evoluzione storica del rapporto esegesi/Magistero sarà utile vedere le relazioni di M. Gilbert e A.
Vanhoye, raccolte in P. Laghi – M. Gilbert – A. Vanhoye, Chiesa e Sacra Scrittura. Un secolo di magistero ecclesiastico e studi biblici, Roma 1994. Oggi il
Magistero preferisce affidarsi nella materia biblica alla competenza e all’autorevolezza di un gruppo internazionale di esperti nell’esercizio del suo compito
di custodire l’integrità della Parola di Dio. Non è un caso che l’attuale Pontefice, pur così abituato a ricorrere alle encicliche per dirimere numerose questioni della vita ecclesiale, abbia preferito di usufruire, nelle questioni bibliche,
del contributo di esperti studiosi e ha preso atto del dibattito in corso e anzi lo
ha incoraggiato. E’ un chiaro segno di apertura e di comunione ecclesiale, un
“cambiamento di rotta” [così L. Ruppert, “Neue Impulse aus Rom für die
Bibelauslegung. Zum neuesten Dokument der Päpstlichen Bibelkommission”,
Bibel und Kirche 49 (1994) 202-213 qui 203: “Kursänderung”], ma anche un
riconoscimento reso ai biblisti per il continuo sforzo versato da essi nell’interpretazione della Scrittura.
Riconoscere questa novità significa tuttavia, per gli studiosi della Bibbia,
una maggiore presa di coscienza e di corresponsabilità che grava sul loro operato. Nel discorso pronunciato in occasione della presentazione del documento,
Giovanni Paolo II ricorda l’importanza di due aspetti che nello studio biblico
non devono essere mai trascurati. Si tratta di cose già note, e almeno in parte
contenute nelle due encicliche bibliche antecedenti, ma il richiamo papale vuole ridare ad esse forza e significato. Il primo aspetto riguarda l’analogia della
Scrittura con il mistero dell’Incarnazione. La Scrittura segue da vicino la legge
dell’Incarnazione in cui il divino e l’umano formano un unico mistero, distinto
ed inseparabile. Di conseguenza, la ricerca biblica non deve ridursi ad un’esegesi fondamentalista di tipo spirituale-mistico che sfigura il testo biblico e
spoglia pericolosamente la Rivelazione della sua dimensione incarnazionisticostorica, ma è chiamata anche a scrutare il volto materiale della Parola, con l’aiuto del metodo storico-critico e di altri approcci descritti nel documento della
Commissione Biblica [cf. il commento di F. Raurell, “El método histórico-
COMM. BIBL PONT.
L’INTERPRÉTATION DE LA BIBLE DANS L’ÉGLISE
649
crítico frente a las lecturas fundamentalistas e integristas de la Bíblia”,
Laurentianum 35 (1994) 273-318]. D’altra parte sarebbe nociva una ricerca che
si limitasse unicamente al volto umano dei testi biblici, dimenticando la finalità
primaria della Parola di Dio: la crescita nella fede e nell’amore di Dio. “La Chiesa di Cristo – scrive Giovanni Paolo II – prende sul serio il realismo dell’Incarnazione e per questo motivo attribuisce una grande importanza allo studio storico-critico della Bibbia. […] E’ senz’altro necessario che l’esegeta stesso
percepisca nei testi la parola divina, ma ciò non gli sarà possibile realizzare senza che il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da un fervore spirituale. Privata di questo sostegno, la ricerca esegetica rimane incompleta; perde di vista la
sua finalità principale e si confina nei compiti secondari” (nn. 7.9).
Un altro aspetto ricordato dal Pontefice riguarda la funzione ecclesiale del
biblista. La fedeltà alla Chiesa esprime ed assicura una giusta orientazione
dell’esegesi cattolica. In concreto, ciò vuol dire svolgere un umile servizio con
e a beneficio della Chiesa. “L’esegeta cattolico non deve nutrire un’illusione
individualistica che porta a credere che, al di fuori della comunità dei credenti,
si può comprendere meglio i testi biblici. E’ vero proprio il contrario, dal momento che questi testi non sono stati consegnati ai singoli studiosi … ma alla
comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per nutrire la fede e guidare la
vita della carità” (n. 10; cf. pp. 11-12). In secondo luogo, la natura ecclesiale
del biblista richiede da lui il rispetto e la filiale sottomissione alla Chiesa, in
quanto legittima custode e sicuro garante della Parola di Dio e della sua interpretazione. “Essere fedeli alla Chiesa significa, in effetti, situarsi decisamente
nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, assicurato da una speciale assistenza dello Spirito Santo, ha riconosciuto gli scritti
canonici come parola indirizzata da Dio al suo popolo e non ha mai smesso di
meditarli e scoprire in essi le insondabili ricchezze” (n. 10; cf. p. 12).
I due aspetti, ricordati dal Papa, sono fondamentali e non stupisce pertanto che anche il documento della Pontificia Commissione Biblica dedichi, esattamente nella III e nella IV parte, un ampio spazio a questi punti nodali su cui
si regge e da cui dipende il pieno successo dell’esegesi biblica.
Alla fine di questa presentazione, non sarà superfluo fare ancora una piccola osservazione sulla natura del documento biblico. Dicevamo sopra che
negli ultimi tempi l’atteggiamento della Chiesa, quanto al modo d’indicare ai
cattolici un giusto comportamento nel dirimere questioni bibliche, ha subito un
notevole cambiamento, di cui il presente documento è una chiara dimostrazione. Qual è allora il valore del documento, se esso non ha più – come una volta
– la forma di un decreto della Chiesa? Se, in via di principio, esso non esige
un assenso interiore né una sottomissione esterna, il suo valore va ridotto unicamente al carattere informativo? Il cardinale J. Ratzinger, nella prefazione al
documento, precisa che la Pontificia Commissione Biblica (creata da Leone
XIII il 30.10.1902) non è più un organo magisteriale composto di cardinali
(con il Motu proprio Sedula cura del 1971 Paolo VI ha cambiato la sua com-
650
RECENSIONI
posizione e le sue funzioni), bensì una commissione di consulenza formata da
qualificati specialisti in scienze bibliche, chiamati a prendere una posizione sui
problemi essenziali dell’interpretazione della S. Scrittura e che in quest’opera
sanno di poter contare sulla fiducia da parte del Magistero. L’insistenza nel
voler sottolineare questo fatto sembra intenzionale. Invero, anche se il documento non va considerato come “magisteriale” nel senso stretto del termine,
tuttavia l’autorevole avallo del Magistero, visibile già nella persona del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede in qualità di presidente
della Commissione stessa, gli conferisce una tale forza da poter richiedere,
soprattutto dagli esegeti e dagli insegnanti cattolici, più che una mera attenzione. E’ una precisazione, ci sembra, tutt’altro che marginale.
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
Vesco Jean Luc (a cura di), Cent’anni di esegesi. I. L’Antico Testamento.
L’École Biblique di Gerusalemme (ABI. Supplementi alla Rivista Biblica 25),
Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, 211 pp., L. 26.000
I due volumi, uno per l’AT e uno per il NT, coi quali l’École biblique ha voluto commemorare i suoi primi cent’anni di vita, sono usciti nell’edizione originale nel 1990. Questa traduzione italiana è presentata da G. Ghiberti, allora
Presidente dell’Associazione Biblica Italiana e, naturalmente, dal curatore. Il I
vol., che qui presentiamo, è diviso in quattro parti: L’ambiente biblico, La storia, I libri dell’AT e l’Intertestamento. Per il II vol. si veda più avanti.
Nella prima parte abbiamo quattro capitoli: sulla Geografia (pp. 15-24: J.
Murphy-O’Connor), l’Etnografia (pp. 25-33: J.M. de Tarragon), l’Assiriologia
(pp. 35-41: R.J. Tournay) e la Filologia semitica (pp. 43-50: J.M. de Tarragon).
La Storia è divisa in due capitoli: Prima (pp. 53-66: J.M. de Tarragon) e
Dopo l’esilio (pp. 67-80: É. Nodet).
Tre sono i capitoli per l’AT: il VII è dedicato al Pentateuco (pp. 83-116: J.
Loza); l’VIII ai Profeti (pp. 117-147: F.J. Gonçalves) e il IX ai libri poetici e
sapienziali (pp. 149-186: R.J. Tournay, ma per Sap: G.J. Norton).
Tre brevi capitoli son dedicati all’Intertestamento: il X al Giudaismo (pp.
189-91: di Murphy-O’Connor, Norton e Puech), l’XI a Qumran (pp. 193-203: É.
Puech) e l’ultimo a Giuseppe Flavio (pp. 205-207: É. Nodet). L’indice (pp. 209211) chiude il volume.
Il libro si legge con interesse, perché non è solo un riassunto dell’attività
scientifica della famosa scuola biblica domenicana di Gerusalemme, specialmente
del pioniere iniziale, padre Lagrange, ma anche un aggiornamento sui principali
problemi biblici attuali.
Sarebbe stato opportuno un indice degli autori. Inoltre i capitoli non sono sempre uniformi. Nelle pp. 71-80 sull’epoca postesilica, per es., sembrano mescolati il
MURPHY-O’CONNOR
CENT’ANNI DI ESEGESI
651
pensiero di Lagrange e quello dell’autore del capitolo. Il cap. X è troppo lacunoso.
E, purtroppo, manca la rassegna sui profeti “anteriori”, cioè sui libri Gios-Re.
La traduzione è buona. Gli errori che facciamo presenti sono, a volte, anche
nell’originale: a p. 41, nel testo e in nota Vuk e non Vink; p. 112, l.4/5 “parenesi”
e non “parentisi”.
Altri sono propri della traduzione : p. 50 Baruch Levine è un autore solo; a p.
160 si deve tradurre “rinviare a dopo…” non “rifiutare”. Segnaliamo anche qualche errore propriamente tipografico, come a p. 167, nota 54, o a p. 181, per la
trascrizione di parole egiziane. L’inconveniente più grave nasce a p. 110, dove
nel testo italiano viene inserita una nota, la 98, che fa spostare la successiva
numerazione delle altre, che, per di più, alla fine, risultano sbagliate: infatti, le
opere citate alle note 122 e 124s sono di Loza e non di Vesco.
Enzo Cortese
Murphy-O’Connor Jérôme (a cura di), Cent’anni di esegesi. II. Il Nuovo Testamento. L’École Biblique di Gerusalemme (ABI. Supplementi alla Rivista
Biblica 26), Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, 233 pp., L. 28.000
Anche il pubblico italiano, grazie a questa traduzione che esce a distanza di
due anni dall’originale francese, può prendere ora più ampia conoscenza
dell’École Biblique et Archéologique Française de Jérusalem ed ammirare i
grandi meriti di questo rinomato centro di studi biblici nei cent’anni della sua
esistenza (1890-1990). Un secolo di storia che meritava non solo di essere celebrato ma, giustamente, anche descritto.
Il volume è dedicato alle ricerche riguardanti il Nuovo Testamento e segue da vicino quello precedente relativo all’Antico Testamento. L’evoluzione
della Scuola Biblica nel campo neotestamentario viene presentata negli otto
capitoli del libro. Il primo, a modo di introduzione, traccia uno schizzo degli
umili inizi della Scuola, mentre l’ultimo cerca di evidenziare in che cosa consiste il carattere proprio dell’École. Nei rimanenti capitoli vengono messi in
luce i momenti principali della Scuola Biblica legati alle diverse figure di illustri professori: M.-J. Lagrange, P. Benoit, M.-É. Boismard, J. MurphyO’Connor, F.-P. Dreyfus, B.T. Viviano, J. Taylor. La parte finale del libro contiene le bibliografie degli autori citati; le loro pubblicazioni (limitate al NT)
sono disposte in ordine cronologico e comprendono le liste di libri, articoli e
una scelta di recensioni.
Raccogliere in un unico volume cent’anni di esegesi neotestamentaria della
Scuola Biblica di Gerusalemme non è stato certamente un compito facile. A maggior ragione, quindi, merita plauso il lavoro svolto dal curatore dell’opera,
Murphy-O’Connor che non si è limitato a riunire insieme le schede biobibliografiche dei grandi maestri, ma a partire dai loro ritratti ha saputo descrive-
652
RECENSIONI
re con competente equilibrio il periodo cruciale degli studi biblici condotti nell’ambito cattolico.
La presentazione dei singoli autori si concentra sull’influsso che questi hanno avuto nei determinati campi della ricerca biblica. I loro studi vengono sintetizzati con concisione e chiarezza, ma anche – ed è la cosa più interessante –
collocati in un preciso contesto storico e, legato ad esso, clima scientifico. Ciò
permette al lettore di prendere familiarità con le varie problematiche, tipo l’ispirazione della Sacra Scrittura, l’approccio storico-critico al testo sacro, il cristianesimo primitivo, i manoscritti di Qumran. Oggi questi temi sono entrati ormai a
pieno titolo nell’esegesi cattolica, ma perché ciò avvenisse, ci è voluto – soprattutto nel periodo antecedente al concilio Vaticano II – coraggio, pazienza e umiltà scientifica. In questa opera i docenti della Scuola Biblica di Gerusalemme
hanno contribuito in maniera considerevole. Non rimane che sperare che i prossimi cent’anni di questo stimato centro di ricerche bibliche portino dei frutti altrettanto abbondanti.
Lesław Daniel Chrupcała, ofm
Contreras Enrique - Peña Roberto, Introducción al estudio de los Padres.
Periodo pre-niceno, Editorial Monasterio Trapense de Azul, Azul (B) 1991,
XXX-325 pp.
Il volume non pretende in alcun modo – secondo le parole del prof. L. Glinka –
di sostituire i manuali di patrologia che sono diventati ormai dei classici: Altaner
e Quasten. Non si può negare però che la Introducción al estudio de los Padres
risulta una comoda guida allo studio dei Padri. Gli autori hanno inteso offrire
una lettura dei Padri fatta “con il cuore” e acuire l’appetito dei lettori, suscitando il desiderio di una maggiore conoscenza della letteratura patristica. Il tutto
è condensato in 325 pagine.
Si tratta di un’opera che renderà grande servizio agli studenti di teologia di
lingua spagnola, ma anche a chiunque abbia bisogno di avere sottomano una
trattazione sintetica e pienamente affidabile su personaggi, fatti, basi culturali e
linee di riflessione teologica dell’età patristica. L’opera tiene conto dei manuali
di patrologia disponibili e di molti sussidi. Probabilmente per questo motivo, chi
non è digiuno di studi patristici troverà l’esposizione ripetitiva e avrà impressione del “già visto e letto”. Questi lettori sapranno però apprezzare gli scorci sulla
letteratura patristica che offrono i brani delle opere dei singoli Padri riportati per
esteso a titolo illustrativo e di compendio. Inoltre, offrendo le nozioni di base, gli
AA. segnalano i principali stimoli che la teologia di oggi può ricevere dallo studio dei Padri.
L’importanza dello studio dei primi scrittori e teologi della Chiesa è presentata attraverso i documenti della Chiesa. Tale studio “serve per una migliore
CONTRERAS - PEÑA
INTRODUCCIÓN AL ESTUDIO DE LOS PADRES
653
maturazione intellettuale e spirituale degli studenti di teologia, affinché possano
diventare pastori di anime adeguatamente preparati” (Congregazione per l’Educazione cattolica, Lo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale.
Istruzione, Bologna 1990, 3). Appare chiaro che la riflessione teologica non ha
mai perso di vista il valore del Padri della Chiesa. La teologia del passato li
poneva tra le autorità (auctoritates), accanto alla Bibbia e al magistero della Chiesa. Però anche oggi, quando si nota il “ritorno” alle fonti, che ha caratterizzato
l’opera dei teologi più illustri, si è indotti a guardare con molta attenzione ai
Padri. Essi non sono considerati solo come le fonti di frammentarie conferme di
determinate tesi, ma sono percepiti come un “fermento” per la riflessione teologica di tutti i tempi.
Rendendosi conto che il quadro in cui si muove lo studio dell’antica letteratura cristiana è ampio e complesso, i nostri due AA. non esitano a corredare la
loro trattazione con materiale illustrativo: schemi grafici, tabelle e sinossi
cronologiche.
I nove capitoli offrono una trattazione assai rapida del periodo patristico
preniceno. Essi sono preceduti dall’introduzione che fa una panoramica sulla
vita della Chiesa del periodo preniceno. Di carattere introduttivo è anche il cap. I
che si ferma sul concetto del “Padre della Chiesa”, patrologia, patristica e letteratura cristiana antica. Nel cap. II vengono presentati i primi scritti cristiani (Padri Apostolici) e si passa in rassegna la produzione patristica del II secolo (cap.
III). Il cap. IV presenta gli “scritti” minori di vario genere, come apocrifi, poesia
e epigrafia cristiana, agiografia e le Costituzioni Apostoliche. Analizzando il complesso delle dottrine gnostiche, la trattazione si sofferma sulla figura emblematica
di Ireneo in cui si fondono in maniera particolare i compiti di teologo e di difensore della retta fede (cap. V). La trattazione successiva aiuta ad accostarsi alle
grandi figure dei Padri alessandrini, Origene in particolare (cap. VI). Altri Padri
e scrittori ecclesiastici sono raggruppati per aree geografico-culturali: Siria, Palestina, Asia Minore (cap. VII), Roma (cap. VIII) e Africa (cap. IX). Particolare
rilievo viene dato al pensiero dei Padri più significativi.
Il volume è completato dalla bibliografia che dà preferenza ai titoli in lingua
spagnola.
Nonostante incontestabili pregi, nel volume si notano alcune mancanze: vi
si costatano con facilità alcune “stranezze metodologiche”. A quanto pare, nella
bibliografia, il de Aldama risulta “privilegiato”: i suoi nomi sono riportati per
esteso e non abbreviati come quelli di tutti gli altri autori. E’ difficile abituarsi
al sistema di riportare le note: alcune sono messe a pie’ di pagina, altre invece
nel corpo del testo tra le parentesi. Il lettore si trova disorientato e infastidito.
Per la comodità dei lettori e il bene degli studenti che consulteranno l’opera in
questione, sarebbe stato più opportuno seguire un criterio uniforme, logico e più
comune.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
654
RECENSIONI
Goranson Stephen Craft, The Joseph of Tiberias Episode in Epiphanius:
Studies in Jewish and Christian Relations, University Microfilms International,
Ann Arbor (Michigan) 1992, 203 pp.
Lo studio di S.C. Goranson, pur essendo una dissertazione di laurea non è la
prima opera dell’A. che ha al suo attivo altre pubblicazioni. Difatti si scorge
subito la sua esperienza nell’impostazione delle questioni e nella documentazione scientifica. L’indole dell’opera è tipica delle tesi di dottorato; nulla è trascurato: stato di ricerca sull’argomento, specificazione dell’oggetto, suddivisione della materia, bibliografia ricca e aggiornata. Dalle affermazioni dell’A.
apprendiamo che la sua ricerca non è sorta a caso. Il Panarion 30, in passato
ha attirato l’attenzione degli studiosi: si tratta infatti di un documento sul
giudeo-cristianesimo palestinese nel IV sec.
Oltre a questo fatto, l’A. stesso afferma che la persona di Giuseppe di
Tiberiade lo ha interessato per una serie di ragioni. Dagli scavi di Sefforis, a
cui egli ha preso parte in passato, risulta che non si è sicuri sulla data esatta
dell’arrivo dei cristiani in quella località. L’altro interrogativo è se la prima
chiesa scoperta a Sefforis fu opera di Giuseppe. Inoltre, non ci sono molti dati
non equivoci sull’insediamento dei giudeo-cristiani a Sefforis (p. 7). Tuttavia
lo studioso, attraverso la relazione di Epifanio nel Panarion, esamina il grande
tema delle relazioni giudeo-cristiane in Palestina del IV sec. A questi problemi
aggiunge la questione degli esseni che Epifanio annovera tra gli “eretici
samaritani e giudei” (pp. 7-8).
L’A. non si affida soltanto ai dati tramandati dalle fonti letterarie dirette,
ma li legge, insieme ad altri documenti dell’antichità cristiana, con acume rifacendosi alle testimonianze archeologiche. Questa inquadratura è per lui una
scelta metodologica cosciente e applicata con coerenza.
Il piano dell’opera conferma che sul campo della ricerca concernente il
“conte” di Tiberiade Goranson spazia con sicura autorevolezza in settori diversi e distanti. Dopo il capitolo di carattere introduttivo, egli esamina varie
questioni legate con Giuseppe di Tiberiade sottoponendo a rigorosa verifica le
notizie tramandate dalle fonti storico-letterarie e le ipotesi. Nell’introduzione
Goranson fa un rapido ma denso esame dello “status quaestionis” sulle relazioni ebraico-cristiane in Galilea al IV sec.; passa poi ad una panoramica sulla
figura di Giuseppe di Tiberiade e le prospettive che offre la ricerca su questo
personaggio. Infine si occupa dei problemi e dell’opportunità di usare Epifanio
come fonte.
Il secondo capitolo ci avvicina alla relazione su Giuseppe di Tiberiade del
Panarion con l’ambiente storico dell’opera. L’opera di Epifanio, come rivela
il titolo stesso (Panarion: “Cassetta dei medicinali”), si propone come antidoto contro il veleno delle eresie. Più interessanti in questo complesso sono le
informazioni, addotte anche di prima mano, e i testi degli autori precedenti che
egli riporta. Si può intuire quindi il valore di questa opera monumentale, che
GORANSON
THE JOSEPH OF TIBERIAS EPISODE IN EPIPHANIUS
655
purtroppo non ha avuto molta fortuna in edizioni e traduzioni. Finora non esiste un’edizione critica dell’intera opera, ma solo edizioni parziali. Lo stesso
vale per le traduzioni, tranne in russo (p. 48). L’A. si sofferma sull’edizione
critica annunciata da Nautin che, a suo giudizio, contribuirà a risolvere non
pochi problemi.
Sullo sfondo della polemica antiereticale Epifanio delinea i tratti di Giuseppe, descrivendolo come convertito e promotore della “retta fede” (antiariana). I
confronti cronologici permettono a Goranson di ritenere che la storia di Giuseppe narrata da Epifanio non è inventata di sana pianta. E’ doveroso riconoscere i
modelli letterari presenti nella descrizione epifaniana del “conte” di Tiberiade,
ma l’incontro tra questi due personaggi è molto plausibile.
Il cap. terzo, il più esteso, si occupa del problema di Giuseppe quale costruttore di chiese. L’esposizione comincia con la questione della presenza cristiana nelle città di Galilea: per Epifanio, come per gli scrittori del III e IV
sec., i cristiani erano di stirpe gentile. Tra di essi non venivano annoverati
nazareni o ebioniti, i quali si ritenevano obbligati ad osservare le prescrizioni
della legge mosaica e si imponevano la separazione dalle comunità cristiane di
origine non ebraica. L’A. si occupa delle testimonianze riguardanti i “minim”,
gli “ebioniti” e i “nazareni”. La relazione di Epifanio, che enumera nazareni e
ebioniti fra le 80 altre sette, si ricollega alla presenza dei “minim” menzionati
dalle fonti ebraiche. Goranson tralascia le testimonianze di Eusebio di Cesarea
che nella Storia Ecclesiastica enfatizza la presenza dei giudeo-cristiani, ma sottolinea che la costruzione delle basiliche costantiniane ha avuto una grande ripercussione sulle sorti della Chiesa palestinese.
Le considerazioni basate sulle scoperte archeologiche non sono molte, perché, come fa notare l’A., dal materiale trovato negli scavi non è possibile giudicare inequivocabilmente quale popolazione occupasse il sito. Neppure dagli elementi decorativi ritrovati si può fare la distinzione tra segni giudaici e cristiani.
A proposito del tentativo di Giuseppe di costruire una chiesa nel luogo
dell’“Hadrianeum” a Tiberiade, Goranson si ricollega alle considerazioni già
attestate e conclude che il “conte” non è riuscito nel suo intento. Epifanio però
tace su questo “fallimento” del protagonista del suo racconto.
Parlando di Nazaret, l’A. mette in luce la presenza della comunità cristiana di ceppo giudaico. L’analisi delle testimonianze archeologiche non suscita
problemi e Goranson si avvale dei risultati di scavi che hanno messo in evidenza, nel luogo di Annunciazione, una prima fase costruttiva con grotte cultuali, un battistero e “martyrium” e una seconda con la chiesa di tipo sinagogale. La questione della presunta sepoltura di Giuseppe di Tiberiade a Nazaret
e della sua opera rimangono problemi aperti.
Più problematica è la fondazione di una chiesa attribuita a Giuseppe a
Cafarnao. Le intricate questioni vengono risolte localizzando la chiesa del “conte”, a Tabga, per controbilanciare il peso della “domus-ecclesia” di Cafarnao. L’A.
sostiene anche l’opinione che bisogna forse cercare la chiesa costruita da Giu-
656
RECENSIONI
seppe in un’altra zona della “città di Gesù”. Per Goranson quest’ultima supposizione è una “logica opzione” (p. 116).
I nuovi scavi a Sefforis hanno permesso di dare un rinnovato indirizzo alla
storia della diffusione del cristianesimo in Galilea. Dalla descrizione di Epifanio
si apprende che Giuseppe completò la costruzione delle chiese a Sefforis
(Diocesarea) e in alcuni altri luoghi. Goranson vede in questa relazione epifaniana
segni che il conte di Tiberiade incontrò qui delle ostilità alla sua opera, come nella
sua città natale.
Le soluzioni dell’A. sono da ritenere nell’insieme plausibili, almeno allo stato
attuale delle conoscenze in materia.
Negli altri due capitoli (4 e 5) l’A. discute la questione di identificazione del
“conte” di Tiberiade con gli altri personaggi oppure con l’autore del Hypomnêstikon.
Tra le possibili identificazioni del “conte” di Tiberiade abbiamo un certo
Rabbi Giuseppe menzionato nel Talmud Babilonese. Le tracce di una possibile
identificazione sono più chiare a proposito di un certo Giusto di Sefforis,
soprannominato “il sarto”. Pur non potendo attestare con certezza che sia lo stesso
Giuseppe, l’A. cita un’iscrizione danneggiata di Sefforis dove appare il nome di
un certo Ioustos agoranomos, concludendo che si tratta di una somiglianza negli
incarichi dei due personaggi. Un’altra ipotesi di identificazione viene offerta dal
Koch che presenta la figura di Yose (o Jose) da Ma Jon menzionato dal Talmud
Palestinese. Goranson rileva però che tutta la faccenda si addice meglio alla questione dell’autorità dei “patriarchi” ebrei (nasi’) che non all’identificazione del
“conte” di Tiberiade. In seguito, l’A. analizza, senza condividerla, l’identificazione della sepoltura di Giuseppe a Tabga proposta da Pixner. Le ultime considerazioni riguardano poi l’identità di Giuseppe, chiamato “Christianus”, al quale viene attribuito l’Hypomnêstikon. Goranson fa dei paragoni molti illuminanti
tra alcune eresie descritte dall’Hypomnêstikon e quelle riportate nell’opera di
Epifanio; ritiene molto probabile che l’autore dell’Hypomnêstikon sia da identificare con Giuseppe, con cui si è incontrato Epifanio di Salamina.
Goranson conclude che l’intento di Giuseppe di costruire le chiese non ebbe
molto successo; nonostante ciò, le vicende di questo personaggio sono entrate
autorevolmente a far parte della storia cristiana della Galilea.
In appendice viene riportata la traduzione inglese di Panarion 30,3,6-13,1
eseguita da F. Williams. Lo studio è corredato dalla ricca e aggiornata bibliografia
che andrebbe divisa, almeno in “fonti” e “studi”. Sono da rilevare alcuni errori
tipografici, soprattutto nelle trascrizioni in diverse lingue (pp. 114, 137, 175, 178).
In conclusione, la monografia di Goranson è uno studio stimolante, non solo
per le argomentazioni – valide e vagliate – ma soprattutto per il ricco materiale
utile per chi si occupa delle testimonianze storiche, archeologiche e letterarie
concernenti la storia del giudeo-cristianesimo e dei Luoghi Santi, inquadrato in
una visione critica e scientifica rinnovata. Per questi motivi è auspicabile la pubblicazione dell’opera di Goranson nella forma di un libro, magari più curato e più
BUX
L’ODEGITRIA DELLA CATTEDRALE
657
accessibile agli studiosi. Mancano gli indici che senza dubbio accrescerebbero
il valore dell’opera. Dalla pubblicazione della monografia sono passati ormai 4
anni. La bibliografia, quindi, richiederebbe qualche aggiornamento. Vogliamo segnalare il contributo di F. Manns, “Joseph de Tibériade, un judéo-chrétien du
quatrième siècle”, in G.C. Bottini - L. Di Segni - E. Alliata (edd.), Christian
Archaeology in the Holy Land. New Discoveries. Essays in Honour of Virgilio
C. Corbo, Jerusalem 1990, 553-559. Il detto contributo studia il contesto letterario di Panarion 30,4-12, la struttura del testo e le sue fonti. Le notizie tramandate da Epifanio vengono paragonate con quelle degli altri autori cristiani e giudei.
Invece per completare e attualizzare la sintesi sulla Chiesa “ex-circumcisione”,
l’A. dovrebbe tener conto dell’articolo di C. Dauphin, “De l’Église de la
circoncision à l’Église de la gentilité. Sur une nouvelle voie hors de l’impasse”,
LA 43 (1993) 223-242, che mette a punto le recenti ricerche archeologico-storiche sui giudeo-cristiani.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
Bux Nicola (a cura di), L’Odegitria della cattedrale. Storia, arte, culto (Per la
storia della Chiesa di Bari, Studi e materiali 11), Edipuglia, Bari 1995, 161 pp.,
ill., L. 20.000
Basta guardare le vetrine delle librerie religiose in Europa per rendersi conto
che da un po’ di tempo c’è abbondanza di studi sulle immagini sacre. Il primato
spetta alle icone. Purtroppo la quantità non va sempre di pari passo con la qualità. Nella maggioranza dei casi non si tratta di impegnativi studi iconografici o
di storia dell’arte, ma di volumetti a carattere piuttosto spirituale e devozionale,
per i quali l’argomento “immagine sacra” o “icona” è solo un’attrattiva. Non
mancano però gli studi di altro tipo: ben documentati, che fanno tesoro della
storia materiale e formale, con una lettura iconografica ben fondata. L’attrattiva, in questi casi, consiste in una curata veste tipografica, e abbondanza di materiale illustrativo, perché i volumi di questo genere sono piuttosto poco digeribili
per la grande cerchia dei lettori comuni. L’opera curata da N. Bux è da annoverare in quest’ultima categoria. Il volume, presentato da S. Palese e introdotto
dallo stesso N. Bux, raccoglie contributi di vari specialisti, frutto di un seminario di studio; esso tratta nel modo più completo possibile, e perciò sotto diversi
aspetti, l’immagine del dipinto su tavola dell’“Odegitria”, venerata nella cripta
della cattedrale di Bari e recentemente restaurata (1992/94).
Si tratta di un’immagine della Vergine del tutto particolare a motivo del suo
culto e dei molteplici legami con la storia del popolo e della diocesi dove la sua
devozione è molto diffusa. Apprendiamo che la terra di Bari non è solo “dominio
di San Nicola”, ma cattedrali, varie chiese e parrocchie, cappelle, altari e luoghi
di culto in genere, sono dedicati a Maria con i titoli più vari.
658
RECENSIONI
Sicuramente il compito di descrivere l’importanza di detta icona nella vita
della Chiesa particolare non era facile. Richiedeva di sottolineare non solo l’importanza data all’“Odegitria” come immagine di culto ma anche, e soprattutto, il
valore di essa nel complesso della storia dell’arte. Per comprendere queste complesse vicende e la stessa storia dell’immagine mariana barese, è necessario il
contributo della teologia. Don Bux lo fa notare già nell’introduzione che apre il
libro.
I primi contributi dell’opera che presentiamo sono rivolti a chiarire l’origine storica, le vicende artistiche e culturali della Madonna di Bari. Pina Belli
d’Elia presenta una ipotesi sull’origine della icona mariana: il dipinto attuale è
una replica di un’icona bizantina altomedievale. L’ipotesi avanzata dalla studiosa è documentata dai riferimenti alla storia dell’arte e dell’immagine della
Vergine di Bari. Gli interessi storici dei lettori saranno sicuramente appagati
dalle esposizioni di Clara Gelao e dall’appendice documentaria di Emma
Lobalsamo. Nonostante ciò, la storia presentata è intessuta di “poche certezze… per lo più in negativo” ed è fatta “di domande destinate a rimanere senza
risposta” (p. 35).
La sintesi delle intricate vicende del dipinto è completata dalla breve descrizione di Fabrizio Voma e Maria Lucia Strada, che prende in considerazione vari
ritocchi e restauri dell’immagine: da quelli settecenteschi e ottocenteschi a quello del 1932 e, infine, all’ultimo attuato negli anni 1992-1994. L’appendice documentaria curata da Gaetano Barracane completa questa esposizione. Le suddette
considerazioni, nel loro insieme, ricostruiscono frammenti di storia passata. Non
mancano neppure quelli della “storia più recente che sfugge ai libri e ai documenti” (p. 67).
La Madonna di Bari ebbe la sua epopea ai limiti del leggendario. Ne è testimonianza la Translationis historia che ricorda la storia dell’icona dell’Odegitria.
Delle fonti letterarie riguardanti la leggenda dell’immagine si occupano Giovanni Pinto e Rosa Lupoli. Il primo apre la via agli studi critici sulla questione. Più
specificamente, la sua ricerca intende riaffermare, “attraverso l’esame della
Translationis historia…, il carattere «apocrifo» del documento (= come pura invenzione) e nel contempo dimostrare che l’icona della Madonna di Costantinopoli,
venerata nella cattedrale barese… non ha nulla a che vedere con l’Odegitria di
Bisanzio” (pp. 74-75). L’intento, del tutto riuscito, non contesta e non intacca
però la linfa della devozione mariana del popolo della terra di Bari. La Lupoli
avvicina il lettore alla intricata questione del “confezionamento” del documento
conosciuto come la Translationis historia. L’A. mostra chiaramente l’origine cinquecentesca della leggenda e il suo successivo ricupero settecentesco. Queste
tappe vanno giudicate come “una svolta importante nella storia culturale della
città” di Bari e del ricupero e valorizzazione delle tradizioni religiose più antiche. Nell’esposizione di Francesco Quarto viene dimostrato in modo convincente che nel Cinquecento esisteva il fenomeno dell’“importazione” del culto alla
Madonna di Costantinopoli e la diffusione della devozione sotto varie forme.
BUX
L’ODEGITRIA DELLA CATTEDRALE
659
Segue un’appendice che riporta un breve tratto di un documento quale testimonianza sulla devozione alla Madonna di Costantinopoli. Esso ricorda che “non
sono le tavole o le tele… ma solo la nostra viva fede che per mezzo delle Immagini di Maria antiche o recenti, ci ottiene dalla potentissima intercessione di Maria… li favori e le grazie” (p. 113). L’affermazione non ha perso niente della sua
attualità pastorale.
L’ipotesi dell’esistenza di un’antichissima immagine mariana e del suo culto
è confermata dall’esame di alcuni sigilli in cera apposti alle pergamene medievali conservati nell’Archivio della Basilica di S. Nicola. Lo studio dei sigilli è stato
condotto con competenza da Gerardo Cioffari che offre anche una rassegna biografica dei vescovi baresi dal 1078 al 1225.
L’ultimo contributo riguarda la liturgia dell’Odegitria nel calendario barese,
vista nel contesto di culto locale e teologia bizantina. Poche pagine riassumono
bene che il culto mariano in terra di Bari è una costante che ha acquistato la sua
originalità in un equilibrio tra la teologia orientale e la devozione popolare. Tutto
questo sfocia nelle linee teologiche e spirituali del “proprio” per la celebrazione
liturgica della Madonna Odegitria.
Per facilitare la consultazione, l’opera è stata corredata da un indice dei nomi
di persona e di luogo.
Il libro è invitante non solo per le immagini riprodotte, ma anche per gli
stimoli a far rivivere la memoria storica, culturale e spirituale delle comunità
cristiane locali. Sono preziosissime le ipotesi sulla storia e il cambiamento del
tipo iconografico nella copia dell’immagine venerata. Le peculiarità iconografiche
fanno di questa raffigurazione barese un tipo a sé stante, che esula dall’ambito
delle Madonne Odegitrie classiche. Le indagini presentate nel volume offrono
già un quadro dettagliato e documentato che è un buon punto di partenza per
ulteriori approfondimenti. Benché l’opera sia ricca di particolari, messi in rilievo
con dovuta chiarezza, alcuni punti richiederebbero un’analisi più accurata, come,
ad esempio, le possibili cause del cambio di tipo iconografico: dall’immagine
della Madonna con Bambino alla Vergine Orante sui sigilli dei vescovi baresi a
partire dal vescovo Rainaldo. E’ dovuto forse alla provenienza monastica di questo pastore della Chiesa barese? La Madonna assunse una marcata connotazione
di “palladio”, difesa e protezione della città e della sua popolazione. La rappresentazione della Vergine Orante induce però a pensare che quell’immagine di
Maria sia essenzialmente una figura di intercessione.
La Madonna di Bari offre un’occasione di riflessione e di dialogo, ma anche
di confronto critico e di studio per coloro che sono interessati alle discipline di
carattere storico, artistico ed iconografico. Ci auguriamo che la pubblicazione
barese ispiri studi e ricerche analoghe per altre icone mariane bizantine o di ispirazione orientale che impreziosiscono santuari e chiese di Italia e un po’ di tutta
l’Europa.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
660
RECENSIONI
LIBRI RICEVUTI
Baudoz Jean-François, Le miettes de la table. Étude synoptique et socioreligieuse de Mt 15,21-28 et de Mc 7,24-30 (Études Bibliques, N. S. 27),
Éditions J. Gabalda et Cie, Paris 1995, 452 pp., 340 FF
Bux Nicola (a cura di), L’Odegitria della cattedrale. Storia, arte, culto (Per la
storia della Chiesa di Bari. Studi e materiali 11), Edipuglia, Bari 1995, 165 pp.,
L. 20.000
Congar Yves, Église et Papauté (Cogitatio fidei 184), Les Éditions du Cerf,
Paris 1994, 318 pp.
Corsani Bruno e collab., Guida allo studio del greco del Nuovo Testamento, 2
ed., Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1994, 427 pp.
Dawson David Allen, Text-Linguistics and Biblical Hebrew (Journal for the
Study of the Old Testament. Supplement Series 177), Sheffield Academic
Press, Sheffield 1994, 242 pp., £ 37.50 (cloth)
Deiana Giovanni, Il giorno dell’espiazione. Il kippur nella tradizione biblica
(ABI. Supplementi alla Rivista Biblica 30), Edizioni Dehoniane, Bologna
1995, 218 pp., L. 28.000
Fusco Vittorio, La casa sulla roccia. Temi spirituali di Matteo (Spiritualità
biblica), Edizioni Qiqajon, Magnano 1994, L. 20.000
Geva Hillel (ed.), Ancient Jerusalem Revealed, Israel Exploration Society,
Jerusalem 1994, XVI-336 pp., ills, 8 pls., $ 40.00
Gillespie Thomas W., The First Theologians. A Study in Early Christian
Prophecy, William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, Michigan 1994, XIV-286 pp.
Grelot Pierre, Réponse à Eugen Drewermann (Théologies Apologique), Les
Éditions du Cerf, Paris 1994, 222 pp., 100 FF
Gruenler Royce Gordon, Meaning and Understanding. The Philosophical Framework for Biblical Interpretation (Foundations of Contemporary Interpretation 2),
Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan) 1991, XVII-223 pp.
LIBRI RICEVUTI
661
Heil John Paul, Blood and Water. The Death and Resurrection of Jesus in John
18-21 (The Catholic Biblical Quarterly. Monograph Series 27), The Catholic
Biblical Association of America, Washington DC 1995, XI-196 pp., $ 9.00
Jiménez F. Bonhomme Manuel, Ese Jesús de ayer hoy y siempre, Kiosko,
Cuernavaca 1995, 272 pp.
Kahl Jochem, Das System der ägyptischen Hieroglyphenschrift in der 0.-3.
Dynastie (Göttinger Orientforschungen. IV. Reihe: Ägypten 29), Harrassowitz
Verlag, Wiesbaden 1994, XIII-1051 pp., DM 248
Lioi Francesco S. (a cura di), Una vita per la Bibbia. Atti del Convegno di studi “Personalità e opera di p. Angelo Lancellotti” (Collana di studi su Oppido
Lucano 5), Banca di Credito Cooperativo, Oppido Lucano 1995, 48 pp.
Longmann Tremper III, Literary Approaches to Biblical Interpretation
(Foundations of Contemporary Interpretation 3), Zondervan Publishing House,
Grand Rapids (Michigan) 1987, XI-164 pp.
Marconcini Benito e Collaboratori, Profeti e apocalittici (Logos. Corso di Studi Biblici 3), Editrice Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1995, 459 pp., L. 55.000
Marín Heredia Francisco, Torrente. Temas Bíblicos (Publicaciones Instituto
Teológico Franciscano. Serie Mayor 13), Editorial Espigas, Murcia 1994, 261
pp.
Muller Richard A., The Study of Theology. From Biblical Intepretation to
Contemporary Formulation (Foundations of Contemporary Interpretation 7),
Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan) 1991, XVII-237 pp.
Munro Irmtraut, Die Totenbuch-Handschriften der 18. Dinastie im Ägyptischen Museum Cairo. Mit einem Beitrag von Wolfgang Helck. Textband Tafelband (Ägyptologische Abhandlungen 54), Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1994, XIV-247 pp. + 4 tav con foto a colori e 80 tav. con foto in bianconero - 160 tavole, DM 448
Murphy-O’Connor Jérôme, Cent’anni di esegesi. II: Il Nuovo Testamento.
L’École Biblique di Gerusalemme (ABI. Supplementi alla Rivista Biblica 26),
Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, 233 pp., L. 28.000
Norelli Enrico, L’Ascensione di Isaia. Studi su un apocrifo al crocevia dei cristianesimi (CISEC Origini. Nuova serie 1), Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1994, 359 pp., L. 42.000
662
LIBRI
RICEVUTI
RECENSIONI
Otto Eckart, Theologische Ethik des Alten Testaments (Theologische Wissenschaft 3,2) Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart - Berlin - Köln 1994, 288 pp.
Passoni Dell’Acqua Anna, Il testo del Nuovo Testamento. Introduzione alla
critica testuale (Percorsi e traguardi biblici), Editrice Elle Di Ci, Leumann
1994, 238 pp., L. 26.000
Pitta Antonio, Sinossi paolina. Le lettere di san Paolo in una nuova traduzione ordinate per temi, San Paolo, Torino 1994, 318 pp., L. 35.000
Poythress Vern S,, Science and Hermeneutics (Foundations of Contemporary
Interpretation 6), Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan)
1988, IX-184 pp.
Ritter Thomas, Das Verbalsystem der königlichen und privaten Inschriften.
XVIII. Dynastie bis einschließlich Amenophis III. (Göttinger Orientforschungen. IV. Reihe: Ägypten 30), Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1995, 389 pp.,
DM 78
Sesboüé Bernard, Pédagogie du Christ. Élements de christologie fondamentale (Théologies), Les Éditions du Cerf, Paris 1994, 237 pp., 120 FF
Silva Moisés, God, Language and Scripture. Reading the Bible in the Light of
General Linguistics (Foundations of Contemporary Interpretation 4), Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan) 1990, X-160 pp.
Silva Moisés, Has the Church Misread the Bible? The History of Interpretation
in the Light of Current Issues (Foundations of Contemporary Interpretation 1),
Zondervan Publishing House, Grand Rapids (Michigan) 1987, VIII-136 pp.
Vesco Jean-Luc, Cent’anni di esegesi. I: L’Antico Testamento. L’École Biblique di Gerusalemme (ABI. Supplementi alla Rivista Biblica 25), Edizioni
Dehoniane, Bologna 1992, 211 pp., L. 26.000
Young Ian, Diversity in Pre-Exilic Hebrew (Forschungen zum Alten Testament
5), J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1993, XV-256 pp., DM 158
Zwickel Wolfgang, Der Tempelkult in Kanaan und Israel. Studien zur Kultgeschichte Palästinas von der Mittelbronzezeit bis zum Untergang Judas
(Forschungen zum AT 10), J.C.B. Mohr, Tübingen 1994, XVI-424 pp.
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