LA RIVISTA DEL GALILEI
Direttore responsabile
Leone Calambrogio
Redazione
Gabriella Chisari
Maria Grazia La Mastra
Gabriella Congiu Marchese
Maria Laura Inzirillo
Gloriana Orlando
Direttore di redazione
Maria Laura Inzirillo
Illustrazione di copertina
Fabio Manfrè
Loghi
Pilade Mazzola
Direzione e redazione
Liceo Scientifico “Galileo Galilei”
Via Vescovo Maurizio - Catania
www.liceoscientificogalilei.catania.it
[email protected]
Rivista semestrale
Anno 10 - N. 21 - Giugno 2012
Autorizzazione del Tribunale di Catania n.12 del 30/05/2002
IndIce
editoriale
(Gabriella Chisari)
5
Lettera aperta
(Rosaria Bettini)
11
Il transito di Venere
(Paolo Marco Ignaccolo)
15
Alavò o alavo’?
(Francesco Giuffrida)
25
I Florio: che passione
(Mariangela Testa)
33
Intrighi, intrecci e amori
(Gloriana Orlando)
51
Il Museo nazionale Marc chagall a nizza
(Laura Lombardo)
59
Scrittura industriale collettiva
(Fabio Manfrè)
65
La mia avventura a San Vittore
(Alessandro D’Avenia)
79
Ancora ci credo
(Maria Laura Inzirillo)
83
La letteratura tra emozione e bellezza
(Francesco Diego Tosto)
89
Leggere fa crescere
(Maria Laura Inzirillo)
95
Cavalleria rusticana dalla novella al musical
(Francesco Tringali)
101
Protagoniste, le donne
(Patrizia Finocchiaro)
115
editoriale
Gabriella Chisari
Internet, social network, multimedialità sono
espressione significativa
della nostra quotidianità,
figli della globalizzazione
e strumenti divenuti ormai
indispensabili. Non possiamo certamente demonizzarne l’uso, ma vogliamo puntualizzare alcune
problematiche ad essi collegate.
Internet ha fatto strada
velocemente e invasivamente tra le giovani generazioni, in una prima fase accostandosi parallelamente alle vie
tradizionali di apprendimento, poi sempre più sostituendosi e
sovrapponendosi a queste e conquistando, forse quasi totalmente,
quelli che oggi vengono detti i “nativi digitali” che crescono con
Internet e i vari iPad, iPhone e altri ritrovati dell’ultima tecnologia, ed hanno un livello di alfabetizzazione tecnologica sicuramente superiore al nostro. Questa differenza li fa sentire sempre
più uniti, perché appartenenti al gruppo di pari, aumentando
quella distanza “fisiologica” dal mondo degli adulti già naturalmente presente in questa fase della loro crescita. I nostri ragazzi
sono predisposti a nuovi modi di stare insieme agli altri, lavorare, relazionarsi al mondo circostante; si incontrano più spesso
nella “piazza virtuale” che nella “piazza reale”, dove fanno
nuove amicizie o scambiano opinioni, si confidano e si esprimono sino in fondo.
Sono pronti per un mondo futuro che ha regole e strumenti di
comunicazione diversi da quelli dei loro genitori. Sostanziale è
quindi la differenza tra le “vecchie” generazioni, con un loro substrato culturale e sociale che ha sopportato e sostenuto il cambia5
mento e l’invasione del digitale e dei cybernauti, che non conoscono l’alternativa a questa realtà, poiché vivono ininterrottamente con internet, per internet, dentro internet, su internet.
Questo è diventato uno spazio di confronto e partecipazione
sociale, dove i ragazzi incontrano altre persone, si uniscono in
gruppi, gestiscono rapporti, sperimentano nuove modalità di
comunicazione. A differenza degli spazi “reali” della loro quotidianità, qui i giovani sentono di potersi esprimere liberamente, da
protagonisti, riescono a soddisfare il loro bisogno di apparire,
mostrarsi, avere un pubblico di coetanei. In questo loro mondo virtuale vivono spesso anche le loro esperienze affettive, manifestano la loro curiosità esplorando e raccogliendo informazioni, si preparano al futuro, sperimentano altri valori e ruoli sociali.
Tuttavia l’uso smodato, talora sregolato, di internet sta determinando gravi conseguenze, avvertite in maniera sempre più diffusa anche nel mondo della scuola, attraverso la dipendenza dal
virtuale o sindrome IAD (Internet Addiction Disorder), la nuova
“droga”, dettata da un abuso pericoloso, che provoca forme
depressive negli adolescenti, dovute anche al calo, se non addirittura, all’assenza di quelle attività sociali e ricreative proprie e
naturali dell’età giovanile. Dai dati Eurispes emerge che il 37,7%
degli adolescenti italiani naviga da 2 a 4 ore e oltre al giorno.
Ancora di più (il 41,4%) sono quelli che passano lo stesso tempo
attaccati al cellulare: non solo per mandare sms, ma anche per connettersi a internet (il 59,2%). Il tutto senza conoscere bene le insidie della rete e con il rischio di diventare cyber-dipendenti. Dai
dati emerge ancora che il 42,5% dei ragazzi controlla continuamente la posta elettronica o Facebook (lo utilizza l’85,6%; il
30,8% ha pù di 500 amici). Il 49,9% perde la cognizione del tempo
quando è online, dimenticandosi di fare altre cose. Quasi uno su
cinque si sente irrequieto e nervoso se non può usare internet e il
17,2% ha cercato di diminuirne l’uso senza riuscirci.
Altissima è la percentuale di chi utilizza i social network: il 77%
dei ragazzi tra i 13 e i 16 anni e il 38% dei bambini tra i 9 e i 12 anni
ha registrato un profilo su un sito di questo tipo. E ancora il 22%
degli adolescenti dice di accedere al social network più di dieci
volte al giorno, e quelli che lo fanno con meno frequenza si limitano a due volte al giorno. Con i rischi consequenziali: bullismo o
meglio cyberbullismo, stalking, sexting, molestie sessuali coinvol6
gono sempre più adolescenti, all’insaputa di genitori a loro volta
ignari dei possibili guai in cui rischiano di cacciarsi i figli; tutti
gravi casi che la Polizia postale molto spesso riesce a smascherare.
La scuola ritiene questi strumenti indispensabili per la formazione globale dei giovani, perché essi servono a veicolare le varie
forme di sapere, a fare ricerca, a diffondere esperienze e contenuti, a dare soluzione a problemi, a sviluppare il saper fare e quindi
le competenze, a favorire la comunicazione anche scolastica e
didattica: molti docenti ormai veicolano lezioni, esercitazioni,
moduli didattici, mappe concettuali ai loro alunni attraverso facebook o la posta elettronica. Naturalmente, purché non vengano trascurate le interazioni didattiche tra docenti e discenti che si guardano negli occhi.
Occorre, quindi, indirizzare i ragazzi verso un utilizzo positivo
e costruttivo di queste tecnologie; e qui è necessaria una stretta
alleanza educativa tra scuola e famiglia; quest’ultima purtroppo è
spesso assente o lontana dai figli, poco attenta alle loro esigenze,
distratta e non sempre disponibile al dialogo. Scuola e famiglia
devono invece giocare insieme un ruolo strategico nel costruire
questa “alleanza sinergica” per la formazione dei giovani, come
l’ha definita il Ministro dell’Istruzione Profumo, rivolgendosi alle
Associazioni dei genitori.
Nel processo educativo la famiglia deve recuperare ancora quel
ruolo incisivo che sembra oggi aver perso, rendersi conto dei seri
pericoli che possono incontrare i figli. Essa non deve fare finta di
non vedere, ma deve aprire gli occhi ridiventando soggetto e protagonista della nostra società e collaborando strettamente con la
scuola per educare alla vita e alla vera libertà.
7
Lettera aperta
Il transito di Venere
Alavò o alavo’?
I Florio: che passione
Inrighi, intrecci e amori
Il Museo nazionale Marc chagall a nizza
Scrittura industriale collettiva
La mia avventura a San Vittore
Ancora ci credo
Lettera aperta
Cari ragazzi del ’78,
vi ho ritrovato in un abbraccio caloroso e vi ho riconosciuto
tutti, uno per uno: il discolo, il serio, l’intellettuale, il
riflessivo. Potrei chiamarvi per nome, ma farei torto ai
vostri compagni che mancano, loro malgrado.
Il tempo e la forza del vissuto come vi hanno cambiato!
Adesso, ricchi di conoscenze e di esperienze professionali,
siete tutti ben inseriti nel mondo del lavoro e mi parlate di
informatica, di giurisprudenza, di questioni sociali, di progetti lavorativi ed io vi ascolto attenta e tutta presa dai
vostri problemi. Le posizioni si sono ribaltate, siete voi i
grandi ed io, divenuta ragazzina, vi ascolto e non finisco di
ammirarvi e di contemplarvi, mentre tutti insieme parlate e
gesticolate intorno a me. Volete essere ascoltati tutti, avete
tutti qualcosa di importante da dirmi, affiorano dal passato
episodi, battute, atteggiamenti già dimenticati.
Il ruolo da voi svolto e la sicurezza di persone mature e
responsabili non mancano di lasciare trasparire i tratti della
vostra prima giovinezza, gli ardori, le ansie, le attitudini di
allora. Le due dimensioni temporali si accostano, restano
distinte e si tendono la mano. E vi meravigliate dei miei 42
anni di allora, che vi sembravano tanti, ma che avete già da
un po’ superati: come è relativo il giudizio rispetto al fluire
delle stagioni! Le mille e mille primavere dello spirito, cui
tendete, vi arrechino tutte le gioie possibili, soprattutto
11
quelle del cuore, che rendono sopportabili anche le prove più
difficili, attraverso le quali si cresce davvero.
“Siete felici?”: una domanda ardua, a cui avete risposto con l’onestà del vostro atteggiamento e con parole pronunciate fra sorpresa ed incertezza. Voi, a questo punto, mi
consentirete una digressione letteraria; sono sempre la vostra
prof. di italiano e, ahinoi, anche di latino, per quel che i
tempi e le tendenze comportano.
Eccola, la felicità, la parola-chiave del nostro gioioso
incontro! Noi la respiriamo a pieni polmoni ogni volta che
ci poniamo, a guisa di docili fibre, in armonia con l’universo e con i fratelli. L’incontro ineludibile con il dolore ci
fa sentire forte la tensione verso la purezza e l’innocenza,
di ungarettiana memoria. “Allegria di naufragi”, in un
forte ossimoro, ci indica il senso della precarietà ed il
timore dell’annullamento, riscattati dal Poeta con il
ricorso alla parola, riscoperta nell’autenticità e nudità
della sua accezione.
“E di Leopardi, il poeta del dolore cosmico, che ne pensate?” Attraverso il nulla eterno, dogmatico ed indimostrabile non meno dello spiritualismo, si apre uno spiraglio nell’esclamazione del poeta recanatese “E il naufragar m’è
dolce in questo mare” o nei tanti squarci idillici dei grandi
Canti. Tali riflessioni, però, sono destinate ad un inesorabile destino finale di annullamento o a un provvisorio
prevalere delle sensazioni, in un processo fantastico assai
piacevole, solo momentaneamente appagante.
12
Ma noi siamo inclini ad accogliere il messaggio manzoniano della provvida sventura, cioè della Provvidenza che,
in modi enigmatici ed imperscrutabili, permette, grazie alla
sofferenza individuale, il riscatto dal dolore. E ci sentiamo
consolati dall’insegnamento manzoniano, contenuto
nell’Addio ai monti: “Chi dava a voi tanta giocondità è per
tutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne una più certa e più grande”. E parimenti il Dio
che “atterra e suscita, che affanna e che consola” proclama
una nuova libertà e una umanità rinnovata, ci porta sul
livello straordinario delle conquiste spirituali e ci appaga
con la pace della coscienza, inespugnabile e salda alle
minacce ed alle lusinghe, “pace, che il mondo irride, ma che
rapir non può”.
La nostra affettuosa chiacchierata e la reminiscenza letteraria si concludono nello sfarzo di una sala da pranzo, in
cui, su una tavola imbandita, si dispiegano vivande gradevoli ed appetitose. Siamo veramente contenti, anche io lo
sono tanto e, nonostante tutto, a 75 anni, sono qui con voi
a testimoniare la gioia del nostro cuore.
Ciao, ragazzi di allora e di sempre, ad maiora! Siete
sempre nei miei ricordi più cari.
Rosaria Bettini
13
Il transito di Venere
Paolo Marco Ignaccolo
Foro Italico di Palermo, sul piazzale di passeggio del lungomare,
alle spalle della settecentesca, verdeggiante, antica e prestigiosa Villa
Giulia, un pullulare di persone si appresta a montare un imprecisato
numero di telescopi di ogni forma e grandezza; sono astronomi e ricercatori dell’Osservatorio Astronomico di Palermo ed astrofili di varie
associazioni culturali che sotto il cielo terso e limpido, alle 4:30 dello
splendido mattino del 6 giugno 2012, organizzano un’osservazione
pubblica. Ordinate a circa tre metri di distanza una dall’altra, le varie
postazioni coprono una lunghezza di almeno duecento metri.
È ancora buio ma gli occhi sono già puntati verso Est in attesa del
sorgere della nostra stella, per osservare l’evento atteso: il transito di
Venere davanti al Sole.
Man mano che il cielo regala colori, centinaia di osservatori di
tutte le età, si accostano alle postazioni. Ci siamo anche noi docenti
e studenti del Liceo Scientifico “Benedetto Croce” di Palermo, con
tanto entusiasmo e tanta passione per la scienza. Si fanno previsioni,
si chiedono delucidazioni agli esperti e nell’attesa che l’alba conceda la sua luce, la postazione dell’INAF (Istituto di Astrofisica) si collega via internet con l’osservatorio Keck che con i suoi telescopi
gemelli, a 4.150 metri di altezza sul Vulcano Manua Kea delle isole
Hawai, trasmette incessantemente quello che accade dall’altra parte
del pianeta dove il sole sta già donando il suo giorno ed il transito di
Venere è interamente visibile.
Ecco il primo raggio di sole. E tutti lì a guardare la realtà e non
un monitor con le immagini trasmesse dal Pacifico! Il sole sorge e
appare nella sua splendida luminosità ma ad occhio nudo nasconde il
passaggio di Venere e solo con i telescopi solari si può riscontrare la
verità attesa: un punto nero attraversa il disco solare!
È un continuo clic di macchine fotografiche che cercano di immortalare un momento storico ed irrepetibile nella vita di una persona, un
evento che riconduce alla stessa emozione di Galileo quando scoprì
*Docente di Matematica e Fisica del Liceo Scientifico “B. Croce” Palermo.
15
nel 1610 le fasi di Venere che come quelle lunari dimostravano la rotazione del pianeta attorno al sole, o alla stessa entusiasmante avventura
dell’inglese Jeremiah Horrocks che nel 1639 osservò e certificò, per
primo, il transito del pianeta Venere davanti al Sole, ritenendosi fortunato per aver potuto rilevare il fenomeno tra una nuvola e l’altra dell’impietoso cielo inglese. Horrocks ebbe a disposizione solo mezz’ora
per osservare l’evento, ma gli fu sufficiente per stimare le dimensioni
di Venere ed approssimare una distanza terra-sole.
Oggi ci riteniamo fortunati di poter assistere a questo raro evento,
almeno nel suo percorso terminale, cioè nell’ultima delle sei ore di
attraversamento di Venere del Sole.
Le emozioni si avvicendano, minuto per minuto si segue il suggestivo cammino di Venere sul disco solare, si tracciano le distanze dalle
macchie solari per verificarne la traiettoria, si guarda incuriositi come
il triangolo del sunspotter possa disegnare un disco così perfetto e con
un’immagine così reale.
Man mano che il sole segue il suo cammino, Venere traccia un
punto che pian piano va uscendo dal disco luminoso, e sembra che
voglia salutarci; è il tempo ancora per un ultimo clic, un’ultima foto
che imprime nel cuore la gioia per aver assistito ad un evento che ci
rivela una dimensione più grande del nostro orizzonte, un al di là
della “siepe” che persino la letteratura italiana ci ha appassionato a
scoprire e conoscere. Venere ci saluta e ci dà appuntamento al prossimo 11 dicembre 2117, ma prima di quel tempo ci manda il messaggero degli dei, è Mercurio che il prossimo 9 maggio 2016 passerà a salutarci davanti al sole.
16
Venere è davvero un pianeta curioso, unico del sistema solare
ad avere un nome femminile, ruota intorno al suo asse in senso
retrogrado con una lentissima rotazione pari a quasi 243 giorni terrestri, tale che al suo confronto la nostra terra sembra una trottola.
L’asse di rotazione ha un’inclinazione di 177 gradi, interpretata in
senso retrogrado, ovvero di soli 3 gradi rispetto alla perpendicolare al piano orbitale. Dal sole dista 108 milioni di chilometri, quando passa per il suo perielio e quasi 110 milioni di chilometri quando passa per l’afelio, vi ruota attorno con moto di rivoluzione di
quasi 225 giorni terrestri. Ciò vuol dire che Venere ha il suo giorno più lento del suo anno!
Il suo valore di luminosità è il più alto fra tutti i pianeti e ciò è
dovuto non solo alla vicinanza al sole, ma soprattutto alla sua atmosfera, che riflette poco meno dell’80% della luce solare che riceve.
L’atmosfera, ricca di anidride carbonica ed acido solforico, è attraversata da una spessa coltre di nubi che riflettono efficacemente la luce
solare. Il fitto manto nuvoloso, inoltre, genera un elevatissimo effetto
serra tale da mantenere Venere ad una temperatura di quasi 475° C e
se poi consideriamo che al suolo la pressione è di quasi 92 atmosfere
possiamo dedurre che il pianeta non è proprio l’ideale per viverci!
17
Terra e Venere, considerati pianeti gemelli per massa e dimensioni,
ruotano su orbite ellittiche di cui il sole è per entrambi posto su uno dei
fuochi. Le due orbite tuttavia non sono perfettamente planari ma inclinate di una angolo di 3,3944° e si incontrano in due punti nodali.
Quando Terra e Venere si allineano con il Sole si dice che essi
sono in congiunzione e il periodo tra due congiunzioni consecutive
è detto Periodo Sinodico. Si definisce congiunzione inferiore quella che interpone Venere tra Terra e Sole e congiunzione superiore
quella che interpone il Sole tra Terra e Venere. Per osservare il
transito di Venere davanti al sole è anzitutto necessario trovarsi in
una congiunzione inferiore.
Considerati i periodi di rivoluzione di Terra e Venere, TT
e TV, le velocità angolari di
rivoluzione dei due pianeti
saranno
18
Per la composizione relativa dei moti, un osservatore sulla Terra
vede Venere ruotare con una velocità angolare data dalla differenza:
Pertanto si considera la relazione:
Con i dati a disposizione: TT = 365,26 giorni; TV = 224,70 giorni,
si ottiene:
365,26·224,70
TSYN = —————— giorni = 583,91 giorni = 1,6 anni
365,26-224,70
E quindi i due pianeti sono allineati in congiunzione inferiore quasi
ogni anno e sette mesi, però il piano dell’orbita di Venere essendo
inclinato rispetto a quello della Terra fa sì che la congiunzione si
verifichi a volte ad una altezza superiore, a volte ad una inferiore
all’altezza corrispondente alla dimensione angolare del sole.
Per assistere ad un transito di Venere davanti al disco solare è
necessario che si possano verificare entrambe le condizioni, cioè
Venere in congiunzione inferiore con la Terra e con un’altezza inferiore a quella relativa alla dimensione angolare, ovvero all’altezza di
circa 193.000 Km, rispetto al segmento Terra-Sole, che rappresenta il
piano dell’eclittica.
19
Pertanto Venere deve trovarsi rispetto all’eclittica entro la minima
altezza utile a toccare l’estremo raggio che tocca il perimetro del Sole,
cioè in un grafico a Triangolo rettangolo (Venere - Terra - Proiezione
di Venere sull’Eclittica) con una ampiezza d’angolo
di 16¢ di
grado, perché deve essere equivalente all’angolo della dimensione
angolare del sole, ottenuta dal Triangolo rettangolo RTN (Raggio del
Sole - Terra - Nucleo del Sole) che ha una ampiezza di angolo in ,
a = (32/2)¢, essendo di 32¢ l’intera dimensione angolare del Sole.
Quindi una altezza h =
·arad = ·(16/60)°¥(p/180°) = 41,4¥106
km ¥ 0,004654 = 192.680 KM.
Tale altezza è inferiore a quella massima che Venere raggiunge
viaggiando sulla sua orbita, altezza che ha un valore di circa 6,41·106
Km e che si può calcolare dalla semplice regola trigonometrica ymax =
·sen (3,3944°) = 108,2·106Km·0,059207 = 6,41·106 Km.
L’altezza y che Venere può raggiungere rispetto al piano dell’eclittica si può analizzare considerando i triangoli rettangoli che
hanno per cateto la sezione dell’eclittica e per ipotenusa il raggio
R V dell’orbita di Venere e la componente DR del raggio ortogonale alla retta di intersezione delle orbite dei due pianeti:
20
Dalle proporzioni dei triangoli simili consideriamo la relazione:
y : ymax = DR : RV
Ovvero: y = ymax
di cui DR = RV senq ed essendo q = wVt
l’angolo che Venere descrive al trascorrere del tempo è:
y = ymaxsen(wVt)
Ovvero: y = ymaxsen
Con t = 0 Venere si considera nel punto H, punto nodale dell’orbita, quindi ad una altezza nulla, cioè con un passaggio centrale sul disco solare.
Con t = 583,9d che è il primo periodo sinodico, l’altezza risulta quasi 372000 Km, quindi fuori dal disco solare e nel successivo
risulta poco più di 606.000 Km. Come si è verificato nelle congiunzioni del gennaio 2006 e luglio 2007 in cui Venere risultava
esterna al disco solare.
Nel transito che abbiamo osservato il 6 giugno del 2012, Venere
si è trovata ad un’altezza dall’eclittica di circa 120.000 Km quindi
ben visibile dalla terra, ma per ritornare a vederla e fotografarla
sul Sole dovremo attendere altri 65 periodi sinodici, infatti l’11
dicembre del 2117 si troverà ad una altezza di circa 92.800 Km.
21
Nei due grafici, il primo pubblicato dalla NASA, riporta il tracciato del percorso di Venere rettilineo per la visione geocentrica,
cioè in coordinate geocentriche, il secondo la visione reale del
pianeta sul disco solare che, con emozione, abbiamo osservato il
mattino del 6 giugno 2012.
22
Alavò o alavo’?
Francesco Giuffrida
Alavò, alalò, laò, fa’ la vo, fa’ la ’o, avò… per un siciliano non possono sorgere equivoci: stiamo parlando di ninne nanne. E praticamente tutti i vocabolari siciliani concordano: sono tutte voci ed
espressioni con cui il popolo siciliano chiama le ninne nanne, l’invito al sonno, il sonno stesso dei neonati e dei bambini. Ma se provassimo a chiedere a una mamma perché la ninna nanna, al canto della
quale ha appena addormentato il suo bimbo, si chiama alavò, difficilmente avremmo una risposta. Cerchiamo allora di fare chiarezza e
trovare una spiegazione soddisfacente, un’ipotesi plausibile.
Il primo a occuparsi dell’etimologia di alavò sembrerebbe essere
stato il noto vocabolarista Michele Pasqualino nel suo Vocabolario
siciliano etimologico italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo
1785-1795. Il Pasqualino fa derivare il termine alavo’ - che lui trascrive come alaò - dal latino lallo, as, are: cantare la ninna nanna.
“Onde da lallo, quasi lallò e per sincope, allò, alaò”. Aggiunge che i
greci indicavano le nenie per addormentare i bambini come catabaykalifis, dal verbo bacalaò: da qui “forse alaò lasciata la prima sillaba”. Salvatore Giarrizzo, due secoli dopo, nel suo Dizionario etimologico siciliano, Herbita, Palermo 1989, registra il termine come
alavò, ma accetta la derivazione dal latino lallare.
25
Il Pitrè (Canti popolari siciliani, C. Clausen, Palermo 1891, vol.
II) cita il Pasqualino, nella nota 3 della pagina 1: “Intorno alle origini dell’a-la-vò, vò-vò, a-la-lò, alaò, laò, aò, oò, ò, voci usate in tutta
la Sicilia, piacemi qui riportare quel che ne dice il vocabolarista
Pasqualino”. E aggiunge di seguito quanto da noi riportato poco
sopra. Poi, sempre nella stessa nota, continua: “Però a questo mi
piace aggiungere quanto
sul proposito mi si fa
osservare da un valente
grecista. I Dorici che abitarono la parte meridionale della Sicilia chiamarono l’aurora Aòs invece
di Eòs; quindi le donne
nel canterellare ai bimbi,
per conciliare il sonno,
dicevano: dormi, figlio,
insino all’aurora”.
Se a qualcuno simili
congetture dovessero
apparire eccessivamente
farraginose o, peggio, in
qualche modo forzate,
non possiamo far altro che invitarlo a fare sue le parole che la professoressa Carmelina Naselli scrive a questo proposito (Saggio
sulle ninne-nanne siciliane, Prampolini, Catania 1948): “La ninnananna si indica quasi universalmente in Sicilia col termine vo’,
termine che, difficilmente spiegabile con le etimologie dotte proposte da qualche vecchio vocabolarista e da qualche studioso,
riesce invece assai chiaro ricondotto alla sua origine popolare,
data del resto come ovvia dal Guastella. Questi, accennando alla
cantilena o ritornello Vo’ e fa la vo’, che punteggia di pause il
canto della ninna-nanna, disse che essa è “abbreviazione di voga e
fa la voga, perché l’idea della cuna suscita spontaneamente quella
della nave”. E se riteniamo inutile insistere sui nomi del “vecchio
vocabolarista” e dello “studioso” crediamo invece giusto approfondire l’intuizione di Serafino Amabile Guastella; la citazione
della Naselli è tratta da Ninne nanne del Circondario di Modica,
Piccitto e Antoci, Ragusa 1887, pubblicazione che ci offre più di
uno spunto di riflessione. Alla pagina XII per esempio Guastella
26
cita in nota un indovinello (diffuso nei paesi degli Iblei) che qui di
seguito riproponiamo:
Aiu na varca vistuta di biancu,
ca camina senz’acqua e senza vientu:
l’armali ca sta fora va cantannu
l’armali ca sta dintra va ririennu.
Ho una barca vestita di bianco,/ che cammina senza acqua e senza
vento:/ l’animale che sta fuori canta/ l’animale che sta dentro ride.
Indovinello, è bene sottolinearlo, che ha innumerevoli varianti per
tutta la Sicilia, varianti provenienti sia da città e paesi di mare che da
città e paesi che col mare hanno poca dimestichezza; ecco, per esempio, lo stesso indovinello raccolto a Salaparuta, nella Valle del Bèlice
(Pitrè 1891, n. 879):
C’è na varcuzza ch’è fatta di tila,
cu ventu e senza ventu sempri mina,
la carni chi cc’è dintra chianci e riri
la carni ch’è di fora canta e sona.
C’è una barchetta che è fatta di tela,/ col vento o senza sempre è
sospinta,/ la carne che c’è dentro piange e ride/ la carne che è fuori
canta e suona.
La soluzione è sempre la stessa: la culla (anzi la naca), col relativo dondolio, col bimbo dentro che ride o piange e la mamma fuori
dalla culla che canta e suona. È bene qui precisare che parlando di
naca o culla ci riferiamo alla naca a vento, cioè ad una culla di stoffa, a forma appunto di barca o navicella, assicurata a due anelli
infissi nel muro per mezzo di uncini e corde che corrono lungo le
sponde. La naca è tenuta bene aperta da due forcelle di legno o
canna, ma anche da un semplice bastone, in qualche caso istoriato,
uno “alla testa” e uno “ai piedi”; può completare il tutto un cerchietto (circu) per adattarvi un velo o una qualche copertura. La
27
naca così costruita andava piazzata sopra il letto dove dormiva la
mamma che, con un laccio legato alla culla stessa, poteva “annacare” l’infante senza alzarsi dal letto.
Ovviamente quando la culla diventa di legno e viene sistemata per
terra, la forma, il movimento e, di conseguenza, le ninne nanne, le
alavo’ non cambiano. Cambiano lievemente quando il bambino è
tenuto in braccio: cambiano perché mutano, anche se di poco, i movimenti della madre; e viene potenziato il gesto della voga, il portare
le spalle in avanti per poi tornare indietro, senza scatti, dolcemente.
Ed ecco, a rafforzare l’idea della voga, i primi quattro versi di una
ninna nanna - anche questa con mille varianti e soprattutto prestata
ai giochi per i piccoli - raccolta a Patti (Vigo 1870/74, n. 2230):
Voca, voca marinaru
ca lu celu non è chiaru;
pri lu sonnu chi calò
fa la ninna e fa la vò.
Voga, voga marinaio/ perché il cielo non è chiaro;/ per il sonno che
è arrivato/ fai la ninna fai la vò.
28
E nelle ninne nanne, nelle alavo’ (a questo punto possiamo scriverlo sempre con l’apostrofo), ma anche nei canti d’amore del popolo
siciliano, il mare, le sirene, le onde, hanno un posto di rilievo.
Sfogliando l’opera di Guastella già citata troviamo:
A la vo’, figghia mia, figghia d’amari,
la naca ti cunzai supra lu mari.
Vo’ e fa la vo’…
A la vo’ figlia mia figlia d’amare,/ ti ho preparato la culla sul mare./
Vo’ e fa la vo’…
Supra lu mari e supra la marina,
vui siti ’na rusedda damaschina.
Sopra il mare e sopra la marina,/ voi siete una piccola rosa di
Damasco.
Figgia mia, figgia risiata,
comu lu vientu va e bbeni la naca.
Figlia mia figlia mia desiderata,/ come il vento va e viene la culla.
Figghia mia, facciuzza tunna,
’mmienzu lu mari m’abbattiti l’unna.
Figlia mia faccina rotonda,/ in mezzo al mare rompete l’onda.
Si’ picciridda, e si’ cosa d’amari
vui siti la varcuzza di lu mari.
Sei piccola e sei cosa da amare/ voi siete la barchetta del mare.
29
E zita ccu Gesuzzu l’hann’a ffari:
cci conza lu lituzzu supra mari.
E fidanzata con Gesù vi devono fare:/ gli prepara il letto sul mare.
E continuiamo citando solo le più incisive e poetiche; dai Canti
di Capizzi (Me) di Marianna Fascetto, Editrice Mediterranea,
Troina 1988:
Canciasti la sirena di lu mari,
ppi na ladiazza pinta di valòri.
Hai cambiato una sirena del mare,/ per una bruttona segnata dal
vaiolo.
Da Stornelli popolari siciliani di Giuseppe Bonafede, Premiato stabilimento tipografico G. Distefano, Ragusa, 1927:
Lu vientu a mmari
naca la varchitedda senza veli
ma lu figgiu la mamma l’à ’nnacari!
Il vento a mare/ dondola la barchetta senza vele/ ma il figlio è la
mamma che deve cullarlo!
Virdi ruviettu
l’unna marina annaca lu caìttu
ccussì, figgiu, vi nacu ni stu piettu.
Verde rovo/ l’onda marina fa dondolare la barca/ così, figlio, vi cullo
su questo petto.
30
Da I canti della tradizione popolare di Milena (Cl) di Arturo Petix, a
cura dell’amministrazione comunale di Milena, 1987:
Nti sta vanedda mi trùovu a passari
mi vùontu e viu… ’na Ninfa d’amuri…
in pìettu è l’unna e l’ucchiuzzi lu mari
la frunti è cielu e la faccu lu suli!
In questa stradina mi trovo a passare/ mi volto e vedo… una ninfa
d’amore…/ in petto ha l’onda e negli occhi il mare/ la fronte è il
cielo e la faccia il sole!
Da Canti della nostra terra di Salvatore Riggio Scaduto, Edizioni
Lussografica, Caltanissetta 1989, canti delle colline nissene:
Sirena di lu mari mmezzu l’urmi
dunni camini tu la terra sparmi;
Sirena del mare in mezzo alle onde/ dove cammini tu la terra adorni;
Potremmo continuare a lungo, spigolando tra le migliaia di canti
raccolti in Sicilia negli ultimi due secoli; ma ci fermiamo, perché
crediamo che gli esempi siano più che sufficienti per confermare la
plausibilità della spiegazione del termine alavo’ data da Serafino
Amabile Guastella. Anche se il primo riconoscimento “ufficiale” è
quello della professoressa Naselli, a quasi cinquant’anni dalla morte
del Barone di Chiaramonte Gulfi; e undici anni dopo anche Antonino
Uccello, il futuro fondatore della Casa-Museo di Palazzolo Acreide,
perfettamente funzionante a tutt’oggi, citerà la derivazione del termine alavo’ attribuendola correttamente al Guastella. Resta poco
spiegabile invece il silenzio del più grande raccoglitore di tradizioni
popolari siciliane, Giuseppe Pitrè: eppure la nota che abbiamo riportato appartiene a una pubblicazione del 1891, quattro anni dopo la
pubblicazione del libro di Guastella. E che Pitrè non conoscesse l’opera è assolutamente impensabile, avido com’era di apprendere tutto
quello che veniva prodotto nel campo di quella che allora lui stesso
31
aveva battezzato demopsicologia. E, in
ogni caso, tutti coloro che pubblicavano
un qualunque scritto riguardante le tradizioni popolari siciliane a Giuseppe Pitrè
inviavano copia, quando addirittura non
gli dedicavano l’opera prodotta. E il
barone Guastella non faceva certo eccezione. E allora? Un disaccordo che, per
rispetto, amicizia, non ha voluto sottolineare? O piccole invidie, per una fortunata o geniale intuizione di un “concorrente”, da cui nemmeno i grandi intellettuali sono immuni? Non
siamo in grado di rispondere a questa domanda.
Possiamo però chiudere con una ninna nanna che, grazie alla eccezionale interpretazione di Rosa Balistreri, è entrata nei cuori di tutti gli
amanti del nostro canto polare: raccolta e pubblicata da Corrado
Avolio (Canti popolari di Noto, Zammit, Noto 1875), è arrivata fino a
noi in svariate versioni, completa di melodia.
Avo’ l’amuri miu ti vogliu beni
l’ucchiuzzi di me’ figlia su’ sireni avo’
chi havi la figlia mia ca sempri cianci
voli fatta la naca ’mmenzu l’aranci avo’
specchiu di l’occhi mia facci d’aranciu
ca mancu ppi ’n tesoru iu ti canciu avo’
figlia di l’arma mia facciuzza bedda
la mamma t’havi a fari munachedda avo’
e munachedda di lu Sarvaturi
unni ci stannu i nobbili e i signuri avo’
ora s’addummiscìu la figlia mia
vardatimmilla vui Matri Maria.
Avo’ l’amore mio ti voglio bene/ gli occhietti di mia figlia sono sereni/ che ha la figlia mia che sempre piange/ vuole fatta la culla tra gli
aranci/ specchio degli occhi miei faccia d’arancia/ nemmeno per un
tesoro io ti cambio/ figlia dell’anima mia faccina bella/ la mamma ti
deve fare monachella/ e monachella del convento del Salvatore/ dove
stanno le figlie dei nobili e dei signori/ ora si è addormentata la figlia
mia/ pensateci voi Madre Maria.
32
I Florio: che passione!
Mariangela Testa
L’attrazione per la saga dei Florio nasce dalla passione per le
vicende umane di questa famiglia “eroica” che, nell’arco di un secolo, è diventata protagonista assoluta di un “lentissimo tempo siciliano” e delle più importanti iniziative industriali della storia dell’isola
tra Ottocento e Novecento. Palermo, Marsala, Favignana: capitali
economiche e località di fenomeni modaioli che i Florio hanno reso
magiche per sempre, offrono ancora oggi a visitatori, turisti e sensibili cultori della nostalgia itinerari di conoscenza che obbligano a
compiacersi di una terra - notoriamente trista tra le plaghe dell’ignoranza, dell’insolenza e dell’inerzia - che è stata in tempi tutto sommato recenti sì sfolgorante, elegante, colta, attiva.
Ripercorrere le tappe più significative della storia dei Florio
significa rendere conto di una parabola (durata circa 150 anni) che,
nel giro di quattro generazioni, li vede partire dalla condizione di
mercanti emigrati e poi decadere in un tramonto dorato e tragico, alla
maniera verghiana.
Le origini
La famiglia Florio, di origini calabresi, dopo il disastroso terremoto che nel 1783 aveva colpito la loro regione e forse per l’imperversare del banditismo, era partita in cerca di affari
alla volta di Palermo, che a quei tempi appariva città molto tranquilla, in cui si rifugia nel
1799 la corte dei Borbone e ove gli Inglesi
erano garantiti da Orazio Nelson e dalle decise azioni diplomatiche della madrepatria. Le
attività produttive erano ferme al livello artigianale; ancora oggi, le vie del centro città si
intitolano, infatti, alle attività che vi si svolgevano (candelai, bottai, cartari, chiavettieri,
materassai, credenzieri...).
Così Paolo, il “primo Florio”, commerciante dalla vocazione
marinara, insieme ai fratelli Giuseppina e Ignazio in società con il
33
marsalese Paolo Barbaro, aprì
nel 1800, nella piazzetta
Garraffello al mercato della
“Vucciria”, una bottega per la
vendita di droghe e chinino
(utilizzato per curare la malaria) continuando la stessa attività che la famiglia gestiva in
Calabria.
Il modesto negozio di spezie e prodotti coloniali amplierà il proprio raggio fin a diventare sostanzioso commercio import-export, e
nel giro di pochi anni Paolo vedrà allargare considerevolmente il suo
giro d’affari, tanto da lasciare una notevole eredità al figlio Vincenzo:
poi, grazie a lui, che diventerà uno dei più celebri capitani d’industria
dell’Ottocento per le sue doti e attività imprenditoriali, la famiglia si
imporrà come protagonista assoluta della vita economica dell’isola.
Scrive M. Taccari: Per le droghe e coloniali nessuno poteva battere
“Il Coccodrillo” (il coccodrillo impagliato funzionava da mascotte
della celebre drogheria) che ad un certo momento era divenuto il
massimo emporio europeo, in grado di reggere il confronto con i più
famosi del Regno Unito.
Gli eredi
Quando Paolo morì nel 1807, Vincenzo Florio, ancora in tenera
età, venne affidato allo zio Ignazio. Quest’ultimo intuì subito la
potenzialità delle tonnare e prese in affitto quella di San Nicola e
quella di Vergine Maria nei pressi di Palermo. Alla fine
dell’Ottocento in Sicilia esistevano circa 21 tonnare.
Tonnara Florio all’Arenella (Pa) ristrutturata da Carlo Giachery.
34
Nel 1828 Ignazio morì e lasciò al
nipote Vincenzo senior (1799-1868) una
grande fortuna, che egli ebbe la capacità
di ampliare e diversificare
Molteplici interessi e attività lo portarono alla ribalta economica dell’intera
penisola: lavorazione e produzione di
tabacco, produzione del Marsala e del
cognac, e poi coltivazione del cotone;
investimenti nel settore dei trasporti con
battelli a vapore che coprivano enormi collegamenti arrivando perfino in America.
Aprì infine a Palermo la fonderia Oretea.
Nel 1834, Vincenzo Florio, entrando in gara con i Woodhouse, gli
Ingham, i Withaker, gli Hopps e i Pyne, costituì a Marsala con
Raffaele Barbaro (erede del co-fondatore della bottega “Il coccodrillo”) una società commerciale per creare una
manifattura di vini invecchiati all’uso
“Madera”. In poco tempo diventò il principale
produttore di un vino che era ormai una moda
internazionale. L’attività intrapresa si rivelò
un ottimo affare e il prodotto si assicurò un
vasto mercato. Di riconoscimento in riconoscimento si impose sulle più raffinate tavole.
Sempre a Marsala tentò di impiantare anche
una filanda di cotone, che dopo alcuni anni
dovette essere chiusa poiché non era redditizia.
Il 25.5.1839 la società fu sciolta e Florio era rimasto l’unico titolare dell’impresa. Lo stabilimento, nonostante la politica protezionistica inglese e americana che frenava le esportazioni del vino, prosperava e così il “Marsala Florio S.O.M.”
acquistava rinomanza mondiale per merito
dell’eccellente qualità del prodotto, ma anche
dell’efficientissima organizzazione commerciale. Come afferma Massimo Albertini, studioso di storia di gastronomia, Vincenzo
Florio fece diventare il “Marsala” il simbolo
della “buona cena” e dell’ospitalità di tutte le
famiglie italiane, soppiantando il tradizionale
“Vermouth”. Nel 1853 la produzione sembra
35
abbia raggiunto quota 6900 botti annue, di cui 1600 della ditta
Florio, 1300 della ditta Woodhouse e 4000 della Ingham.
Il Marsala è vino dolce e zuccherino, la cui nascita si faceva risalire tra i secoli XVIII e XIX: liquoroso, fortemente alcolico (16-20
gradi), asciutto e dolce nello stesso tempo, di colore giallo dorato
intenso tendente all’arancione, ha un aromatico bouquet, in cui sono
fusi i profumi della zagara, della mandorla e della ginestra; possiede un sapore caldo, vellutato, pieno e rotondo.
Vincenzo non intuì le grandi potenzialità economiche che poteva
trarre dalle tonnare: il 5 ottobre 1841 prese in affitto dalla famiglia
Pallavicino la tonnara di Favignana con un contratto di 18 anni, ma
nonostante l’attività producesse ottimi profitti, nel 1859 rescisse il
contratto, facendo subentrare nell’affitto e nello sfruttamento delle
acque del mare di Favignana il genovese Giulio Drago, a cui si deve la
realizzazione del primo nucleo dello Stabilimento Florio ed importanti innovazioni nel settore della lavorazione del tonno.
Nella Sicilia pre-unitaria, la vocazione imprenditoriale mediterranea e anche la prospettiva di buoni utili, fecero sì che Vincenzo partecipasse alla creazione della compagnia di navigazione “Società dei
battelli a vapore siciliani”, insieme a numerosi altri esponenti dell’aristocrazia siciliana. La società assicurava il collegamento tra Napoli,
Palermo e Marsiglia e tra i diversi porti della Sicilia.
Nasceva frattanto l’Italia unitaria e l’esigenza di una rete di collegamenti adeguati alla nuova realtà portava Vincenzo Florio a costituire la “Società in Accomandita Piroscafi Postali” che godeva di una
convenzione in denaro con il governo. A coronamento delle imprese produttive non gli mancarono conferimenti di cariche istituzionali sia nel Regno di Napoli che nel Regno d’Italia. Riuscì ad entrare a
far parte, tra l’altro, del Consiglio Superiore della Banca Nazionale
36
del Regno, la più importante autorità economica del tempo. Alla
sua morte, avvenuta nel 1868, lasciò al figlio Ignazio (passato alla
storia come senior, perché non venisse confuso con l’altro Ignazio,
ben più noto discendente) un patrimonio valutato nell’astronomica
cifra di L. 300.000.000.
Iniziata così l’ascesa senza soste, il giovane Ignazio Florio,
dalle industrie conserviere
del tonno estese l’attività
fino alla produzione di
ceramiche, con la fondazione nel 1882 a Palermo,
della fabbrica di ceramica
“Florio” con il fine principale di produrre stoviglie da
utilizzare sulle navi da crociera della flotta di famiglia.
Lo stabilimento delle ceramiche Florio in Piazza Principe di
Camporeale quasi all’incrocio di via Dante presenta i suoi prodotti per la prima volta all’Esposizione Universale
Promotrice di Belle Arti di Palermo del
1900, nel 1902 all’Esposizione Agricola di
Palermo e alla Mostra della Città. Il marchio, non sempre presente, è costituto dal simbolo grafico del cavalluccio marino.
Dall’inizio del Novecento la fabbrica si avvale della collaborazione del grande architetto del Liberty italiano Ernesto Basile, del
pittore Ettore Maria Bergler, degli scultori Griffo e Antonio Ugo, del pittore e
decoratore Rocco Lentini. Nel 1910 viene
trasferita in via Serradifalco e vengono
aperti, sempre a Palermo, due negozi, in
piazza S. Giacomo e in piazza Giovanni
Meli, per la vendita al pubblico. Alla fine
degli anni Venti la “Florio”, già da tempo
rimasta improduttiva, venne assorbita
dalla “Richard-Ginori” ma l’operazione
si rivelò sbagliata e alcuni anni dopo la fabbrica ricomparve sotto il
nome di “S. A. Siciliana Ceramica”.
Intanto, il problema dei trasporti marittimi era cruciale all’epoca
e il potere politico favorirà nel 1877 l’acquisizione da parte della
37
“Società Piroscafi Postali”, a prezzi di bancarotta di tutto il materiale della “Trinacria”, altra grande compagnia di navigazione.
Con la “Navigazione Generale Italiana” Florio e Rubattino nata
nel 1881 dalla fusione della società
siciliana con una genovese, l’industria
Florio ottenne il monopolio dei collegamenti marittimi.
Nello stemma dei Florio, raffigurato
su una grande pescera della Manifattura
Davenport (circa 1858-59), la nave è il
Dispaccio (ex Manx Fairy).
Nel centro di Palermo, nella zona denominata “Cala” restano le vestigia
della “Fonderia Oretea”, moderna industria metallurgica che doveva essere
complementare alle esigenze della numerosa flotta Florio.
Ignazio senior fu uomo all’altezza del padre, inoltre
ebbe l’intelligenza e la lungimiranza di acquistare
nel 1874 le Egadi, ancor prima che scadesse il contratto d’affitto di Giulio Drago, insieme ai diritti di
terra e di mare, al prezzo di lire 2.700.000. Creava
industrie dotate però di moderni servizi per gli operai, costituiva un assistenziale Istituto per ciechi, iniziava la costruzione del futuro teatro Massimo.
Sposò la baronessa Giovanna D’Ondes, da cui ebbe
38
4 figli: Vincenzo (morto a meno di un anno dalla nascita), Ignazio
junior (il più celebre), Giulia e Vincenzo, destinato ad essere l’ultimo
esponente dei Florio (Vincenzo Florio Junior 1883-1959).
Con Ignazio Favignana e l’attività ittico-conserviera trovano un
posto preciso nella leggenda dei Florio. Fu di
questo periodo anche la
costruzione nell’isola
della medioevaleggiante Palazzina Florio del
1878 (commissionata
al famoso architetto
Damiani Almeyda lo
stesso del Teatro Massimo di Palermo), e dell’omonimo stabilimento-tonnara, che cambiarono il volto della selvatica isola. La
famiglia Florio diede un fortissimo impulso economico e culturale alle Isole Egadi e in particolare a Favignana che divenne la
“regina” delle tonnare.
Rientro dei barconi dopo la mattanza nello stabilimento di Favignana.
Il nome dei Florio si lega a quello delle isole Egadi il 5 ottobre 1841, quando i nobili Pallavicino e Rusconi diedero in gabella le antiche tonnare di Favignana e Formica alla ditta di
Vincenzo Florio, per un periodo di diciotto anni. Ma il legame
diventa indissolubile nel 1874 quando il figlio Ignazio senior
acquisterà interamente le isole Egadi dalla famiglia Pallavicino,
che a sua volta le aveva acquistate dal Demanio del Regno di
Sicilia il 16 di dicembre 1637.
Man mano che il raggio d’azione e il volume di affari della
famiglia Florio s’allargavano, diventava sempre più profonda la
39
loro impronta sul costume, sulla cultura e l’economia del tempo. La
sperimentazione e l’innovazione dei Florio portarono alla presentazione della pressa meccanica Baldi-Theis per la spremitura dell’uva della fonderia Oretea alla Esposizione Nazionale di Palermo
1891-92. In quest’ultima venivano orgogliosamente esposte le
meraviglie della tecnologia dell’epoca: Achille Gustavo Morelli di
Palermo presentava la sua macchina eliotermica automatica per la
produzione gratuita del freddo e del ghiaccio, adoperabile anche
come ordinario motore, antesignana del frigorifero.
I Florio insieme a parenti e amici all’ingresso della palazzina di Favignana.
Non mancava una lunga rassegna di macchine a vapore: le cucine
economiche a vapore prodotte da Giovanni Freni di Messina (nate
dall’esigenza di sfamare centinaia di senza tetto, vittime
di calamità naturali quali
alluvioni e terremoti), gli
ascensori idraulici della
Stigler di Milano (fino a 42
metri di altezza in circa venti
secondi grazie alla sola pressione dell’acqua), il chiosco
per la distribuzione automaCartolina pubblicitaria dell’epoca.
tica delle bibite del milanese Luigi Ermolli e anche vetrine Liberty, cancelli in ferro battuto,
720 dipinti e 301 sculture.
Nel 1891 Ignazio senior morì lasciando ai suoi figli un enorme
patrimonio: uno di essi era morto in tenera età; Giulia si sposò disinteressandosi al patrimonio familiare; solo Ignazio junior ne raccolse
l’eredità imprenditoriale e di promozione culturale, mentre Vincenzo
40
si dedicava pienamente allo sport, dando vita alla gara automobilistica Targa Florio, che si disputa ancora oggi, con qualche polemica
a causa della pericolosità, sulle Madonie.
Purtroppo il clima storico e politico in cui Ignazio si trovò ad operare non era favorevole, infatti gli affari dei Florio risentirono della
situazione politico-sociale della
Sicilia tra Ottocento e Novecento.
Ciononostante, egli intraprese alcune nuove attività e sul piano commerciale e finanziario compì diverse speculazioni con buon profitto,
come la costruzione dei cantieri
navali a Palermo (costituì diverse
società sia nel campo delle riparazioni navali e della siderurgia),
acquisì miniere di zolfo di
Caltanissetta (per lo sfruttamento
delle risorse minerarie delle isole
fondò la Anglo-Sicilian Sulphur
Company, grande società internazionale) e fece costruire per i malati di tubercolosi la splendida Villa
Igea (che poi fu trasformata in albergo). L’apogeo economico, d’immagine e di influenza era stato raggiunto, ma il maggior successo
Ignazio junior lo ebbe nella vita privata, sposando l’affascinante e carismatica donna Franca Notarbartolo di San Giuliano. Bellissima e
colta, seppe creare intorno a sé
un salotto internazionale di
mondanità, raffinatezza e cultura, che divenne il cuore pulsante
della società palermitana più
“in”. Ignazio e donna Franca
erano famosi per il lusso, per i
ricevimenti fatti in onore di personaggi illustri come Gabriele
D’Annunzio, il tenore Caruso,
lo Zar di Russia, il re d’Italia.
Purtroppo la splendida vita dei
coniugi Florio fu costellata di
disgrazie familiari come la morte dei loro figli. In questi momenti
dolorosi è a Favignana che donna Franca cerca rifugio e pace.
41
Nel 1897 Ignazio Junior inaugurava il Teatro Massimo di Palermo,
la cui costruzione era stata iniziata dal padre. Protagonismo e onori
Per oltre un secolo la dinastia dei Florio incarnò il sogno dell’industria siciliana di poter competere e addirittura superare l’imprenditoria settentrionale. I Florio, mecenati raffinati e ormai affermati,
fecero di Palermo una delle capitali del Liberty europeo: infatti, la
solidità dell’impero commerciale e la posizione di prestigio sociale,
la promozione di iniziative culturali e sportive li portò ben presto a
conquistare il jet-set e ad affermarsi nella migliore società palermitana. Fu per questo che foto in bianco e nero dell’epoca li ritraggono
nelle loro sontuose dimore insieme a regnanti e ad esponenti dell’aristocrazia internazionale.
Il protagonismo mondano dei Florio è legato agli ultimi anni del
loro tramonto dorato, quando forse furono consapevoli della loro progressiva uscita di scena dal mondo finanziario nazionale mentre svaniva il sogno di competere con la grande industria del nord.
La fama della famiglia di
bagnaresi emigrati al di là
dello stretto di Messina è
legata anche alla loro
influenza sulla storia dell’arte in Sicilia e, negli
ultimi anni del loro impero, ad una serie di iniziative nel campo dell’automobilismo (Targa Florio, che
fa conoscere all’Europa
intera i paesaggi aspri ma
dolci delle Madonie), della competizione aerea, delle gare nautiche e
del turismo.
Verso la fine dell’Ottocento il turismo era un
fenomeno d’élite e poche persone infatti, si potevano permettere di viaggiare e soggiornare in
alberghi di lusso. Per i fortunati viaggiatori, il personale alberghiero, al momento del ritiro dei bauli
o delle valigie, incollava sui bagagli etichette illustrate quasi sempre a colori.
42
Vincenzo Florio fu Presidente dell’Automobil Club di Sicilia sin
dal 1906: l’occasione della corsa automobilistica della Targa Florio
determinava un afflusso consistente di forestieri che, attratti dalle
nostre bellezze naturali ed artistiche, finivano con il soggiornare per
qualche settimana a Palermo ed in Sicilia.
La permanenza dei visitatori nei grandi alberghi ispirò Vincenzo
Florio ad istituire l’ente turistico della “Primavera siciliana”, con sede
presso l’Automobil Club, in via Catania n. 2
(Palazzo Florio), anticipando di un decennio il
primo Ufficio nazionale del turismo, fondato in
Italia nel 1919. Per le campagne promozionali
turistiche ogni anno si commissionavano grandi
tabelloni “a colori” a pittori siciliani (Aleardo
Terzi, Sabatino Mirabella) ed i bozzetti venivano utilizzati anche per la stampa di cartoline con
le didascalie in più lingue. Nel 1950 nacque il
moderno depliant informativo e viaggiare
divenne un fenomeno di massa che impose
bagagli più leggeri; via via si affermarono tanto l’uso delle suggestive etichette degli alberghi da incollare sulle valigie, quanto la
diffusione delle cartoline turistiche pubblicitarie.
Il Re d’Italia aveva offerto al commendatore Florio il titolo di
principe delle Egadi creato per l’occasione; ma questi gentilmente
rifiutò, orgoglioso delle proprie origini borghesi e sicuramente
soddisfatto dell’essere paradigma sociale in quanto a gusto, munificenza ed immagine per tanta aristocrazia italiana ed europea.
Vincenzo faceva parte del consiglio di
amministrazione della Banca Nazionale
e divenne presidente della Camera di
Commercio di Palermo; nel 1900 fondò
il quotidiano «l’Ora», sulle cui pagine
trovavano eco in una apposita rubrica le
gesta mondane della famiglia Florio,
anche se il giornale doveva - nelle intenzioni del suo fondatore - essere pure strumento di diffusione del programma
modernizzatore del Consorzio Agrario
Siciliano, un’organizzazione da lui promossa che associava i maggiori proprietari terrieri dell’isola.
43
donna Franca
Mentre Ignazio junior svolgeva la sua vita mondana e le relazioni di affari nei migliori salotti dell’aristocrazia europea e nelle le
corti reali, la moglie era
diventata amica di musicisti
(da Leoncavallo a Caruso), di
pittori e poeti: D’Annunzio,
dopo averla incontrata più
volte nei migliori salotti del
Paese, la omaggiava con l’appellativo “Donna Franca”; era
alta, snella e ondeggiante e
capace di ben figurare quando
riceveva ospiti come Vittorio
Emanuele di Savoia Aosta e il
Kaiser Guglielmo II.
L’imperatore d’Austria in
occasione di un viaggio a
Vienna le regalò una tromba
per auto, identica a quelle in
dotazione sulle sue auto, cosicché usandola per le vie della
capitale austriaca la popolazione deferiva verso di lei, scambiandola per l’imperatore. I
sintomi che si fanno sentire
della Grande Depressione
della fine dell’Ottocento che
immiserisce le campagne (soprattutto quelle meridionali), vengono
cancellati in una frenesia mondana che renderà celebre la coppia. In
questi anni la storia coincide con il mito.
Leonardo Sciascia ammette di aver sempre pensato di scrivere un
racconto sui Florio, magari su Donna Franca. Senza di lei la storia
della famiglia sarebbe stata una storia di vinti verghiani, di accumulazione solitaria e di dolorosa decadenza, di sommessa e inesorabile
fatalità.
Donna Franca, nata a Palermo nel 1873, terminò la propria esistenza con dignità, ma fra stenti e dolori, leniti dalle gioie che le dettero le adorate figlie ed i nipoti, avendo dovuto subire il declino
44
della famiglia e anche la tragedia della seconda guerra mondiale.
Morì nella Villa Salviati della figlia Igea, a Migliarino Pisano nel
1950. Aveva 77 anni. Con lei finisce l’età dei Florio.
La decadenza e la fine di un impero
Per molti storici le fortune dei Florio toccarono l’apice e più tardi
si dissolsero più per una causa geografica che per altre (complotto
governativo, cattiva gestione dell’impero e delle molteplici attività
industriali, eccessiva dispersione delle risorse, incapacità degli
eredi): infatti l’Italia post-unitaria si avviava a divenire un Paese
industriale in cui la coesistenza di due opposti poli di sviluppo non
era pensabile né più possibile.
Il fratello minore Vincenzo, sposatosi per la seconda volta, si
dava ad uno sfrenato attivismo mondano e sportivo. Vincenzo sarà
l’ultimo esponente di nome Florio e morirà in Francia nel 1959,
senza aver avuto figli.
Una serie di disgrazie personali, ai primi del Novecento, colpirono Ignazio Florio jr e donna Franca. La morte di tre figli in tenera
età nell’arco di due anni fiaccò lo spirito della famiglia e tolse la
speranza di un erede maschio.
Donna Franca con il marito,
Ignazio Florio jr (1869-1957),
e i primi due figli: Giovanna
(1893-1902) e Ignazio (18981903), detto Baby Boy, entrambi destinati a morire piccoli.
Raggiungeranno l’età adulta
Costanza Igea (1900 -1974) e
Giulia (1909-1989), nata molti
anni dopo, nella piena maturità
della madre.
45
Già da tempo era mutato il quadro economico del Meridione ed
internazionale, così come tramontava la Belle époque e si affacciavano le nubi delle future difficoltà. La famiglia Florio si trovò
dinanzi ad una realtà economica sempre più depressa e dovette
affrontare fallimenti e chiusure di attività e vendere parti sempre
più consistenti del patrimonio per affrontare l’oscuro periodo fra
le due guerre.
Il loro destino economico, al di là delle pur gravi vicende
familiari, era sicuramente già stato segnato da uno sviluppo economico che ha visto nel Meridione d’Italia il sommarsi delle difficoltà per favorire lo sviluppo industriale delle regioni settentrionali. Ma nel giudizio unanime i Florio sono stati i rappresentanti di una Sicilia industriosa, creatrice di ricchezza; moderna,
riscattata dall’immobilismo della cultura feudale, una Sicilia centro di cultura, dalla vocazione mediterranea ed europea al tempo
stesso. E forse è proprio per questo che i Florio hanno acquistato
la dimensione del mito.
La favola non ha un lieto fine: l’indebitamento cronico per lo stile
di vita lussuoso e l’incapacità di rinnovare le antiquate strategie
imprenditoriali, unitamente al concentramento dei fulcri economicofinanziari italiani nel nord del Paese, causarono il tracollo economico
di Casa Florio, ponendo fine a un impero che aveva rappresentato un
unicum nel panorama imprenditoriale meridionale. I motivi della
parabola discendente della fortuna dei Florio vanno ricercati nello
scenario venutosi a creare prima e dopo la prima guerra Mondiale, nel
quale tutti i commerci e le industrie incontrarono difficoltà generate
dalle pesanti tasse, dai fallimenti bancari e dagli scioperi degli operai.
Ben presto, per far fronte ai debiti, Ignazio junior fu costretto a vendere nel 1937 anche Favignana e la tonnara con tutti i diritti di terra e
di mare ai Parodi di Genova. Pur concludendosi così il legame dei
Florio con le Isole Egadi, l’eredità soprattutto umana e il bagaglio culturale lasciato da questa famiglia alle isole è di certo immenso e non
svanì con la loro vendita. Ignazio morì nel 1957 e il fratello Vincenzo
lo raggiunse due anni dopo. Con loro si estingueva il ramo maschile
di questa grande e potente famiglia.
Per saldare i debiti “con onore e dignità d’altri tempi”, gli ultimi
eredi vendettero tutto, anche i leggendari gioielli di Donna Franca
(come la collana di perle lunga 7 metri o la collana di corallo di tredici fili); conservarono solo la villa dell’Arenella, dove si rifugiavano nei momenti più difficili.
46
Villa Igea: un bel capitolo!
Nella parte bassa del parco di Villa Belmonte, oggi Salita
Belmonte, precisamente al n. 43, tra il 1899 e il 1900 fu costruito
quell’edificio conosciuto come Villa Igea: originariamente era stata
ideata come villa privata dell’ammiraglio inglese Cecil Domville e
costruita in stile neogotico-quattrocentesco siciliano sul litorale
palermitano dell’Acquasanta alla fine dell’Ottocento. La contrada
dell’Acquasanta si chiama così dall’omonima chiesa della Madonna,
che sorgeva nei pressi di una grotta da cui sgorgava una fonte di
acqua dalle proprietà terapeutiche.
Acquistatala, Ignazio Florio (che le darà il nome della figlia
Costanza Igea, la prima sopravvissuta dopo tre figli) ne volle una
profonda ristrutturazione che le desse un aspetto meno severo; al
progetto del 1899 lavorarono Ernesto Basile, architetto simbolo della
Belle époque palermitana, Vittorio Ducrot, uno dei maggiori esponenti della manifattura mobiliera italiana del periodo, e il Maestro
della pittura Liberty siciliana, Ettore De Maria Bergler.
Particolare della Sala Basile di Villa Igea.
Lo spirito imprenditoriale dei Florio la individuò come clinica per
le cure termali (il nome è quello di Igea, dea della salute) ma fu trasformata dopo soli quattro anni in un lussuosissimo albergo che ospitò lo zar di Russia e Costantino di Grecia, che vi morì. Con il declino dei Florio, in seguito venne utilizzata come ospedale, e poi finì
acquisita dal Banco di Sicilia e restituita fino ad oggi all’originaria
destinazione di albergo d’élite.
47
L’inaugurazione, datata 19 dicembre 1900, fu un evento mondano da antologia, che vide presenti gli inviati del «Figaro», del
«New York Times», del «Corriere della sera» e di numerose altre
testate, oltre ad una nutrita compagine dell’aristocrazia cosmopolita del tempo.
Di lì a poco divenne la tappa obbligata di divi e monarchi nelle
loro visite a Palermo, dai re d’Inghilterra a Greta Garbo, da Grace
Kelly a Maria Callas. I suoi
saloni ospitarono i leggendari
ricevimenti e le feste danzanti
di donna Franca e nel Salone
degli Specchi fu festeggiata la
nascita della sua terza figlia,
Costanza Igea.
Sempre nel 1899, Ignazio
fece edificare una palazzina
Liberty in contrada Olivuzza,
nel cuore di un bel quartiere
residenziale della Palermo di
oggi, villino che rappresenta un
vero capolavoro dello stile floreale siciliano di Basile. Qui,
nel territorio che un tempo
apparteneva all’ampio parco di
villa Butera venne realizzato questo
edificio ricco di portici, archi, scalinate
e torrette, in cui Franca Florio ricevette
il Kaiser Guglielmo II.
Nel 1907 un incendio doloso aveva
distrutto un’ala della villa; nel 1962
ancora un altro incendio devastò il
resto, compresi i preziosissimi arredi
progettati dal Basile nei minimi dettagli e prodotti dalla ditta Ducrot, i cui
stabilimenti sono diventati oggi i
Cantieri Culturali della Zisa, sede di
eventi artistici e culturali.
Il Liberty è uno dei fattori di pregio
artistico del territorio palermitano e
trapanese: alimentato e sponsorizzato
48
da una famiglia intraprendente e rispettabile, generosa e fiera, oggi
viene testimoniato da una ricchissima eredità di fotografie, vestigia
e monumenti: chi visita le “tappe della Belle époque dei Florio” o si
mette sulle tracce della loro storia attraverso le foto dell’epoca o
sorseggia il marsala dell’omonima cantina non resiste al fascino
avanguardistico e insieme retrò della famiglia Florio. Un sentimento di ammirazione e nostalgia colpisce e si realizza ogni volta la
convinzione che in altri tempi abbiano potuto convivere lungimiranza e onestà, pensiero illuminato e profitto, commercio e cultura,
imprenditoria e rispetto delle regole.
Altri tempi, ahimè…
Ignazio e Franca Florio con la piccola Igea nel 1906.
49
Intrighi, intrecci e amori
Verga Foianesi Rapisardi e le altre
Gloriana Orlando
Il 19 dicembre 1883 una
lettera va a finire nelle mani
sbagliate ed è la “catastrofe”. Destinataria era Giselda
Foianesi, mittente Giovanni
Verga. Perché la “catastrofe”? Perché Giselda era da
dodici anni sposata, infelicemente, con Mario Rapisardi,
e il Verga il migliore amico,
fino a quel giorno almeno,
del marito di lei. Rapisardi
le concede due ore di tempo
per preparare i bagagli e la
fa accompagnare alla stazione da un domestico. Giselda
vuole fare prima una fermata a casa di Giovanni. Per
informarlo? O per chiedere
ospitalità? Questo non lo
sapremo mai.
Lui non la riceve nemmeno, fermo sulla soglia le
dice che la cosa migliore da fare in quel momento è recarsi a Firenze
(città di origine della Foianesi, dove ci sono persone amiche che
potranno ospitarla - nella fattispecie la contessa Lara, amante del
Rapisardi e, stranamente, cara amica di Giselda da molti anni).
Verga invece resterà “a disposizione di lui”, per un duello, in realtà
quanto mai improbabile. Infatti Mario non l’avrebbe certo richiesto,
visto che, durante la cosiddetta “polemica con il Carducci” che un
paio di anni prima aveva sfiorato i limiti del grottesco, aveva categoricamente escluso la possibilità di un duello con la scusa della
salute cagionevole. Tutto sommato sarebbe comunque stato disdice51
vole se, cacciata dal marito, Giselda si fosse trasferita immediatamente a casa dell’amante, il quale poi si sarebbe trovato incastrato
in una situazione da cui non sarebbe stato facile liberarsi, lui che di
legami non ne aveva mai voluto sapere e riuscì sempre a destreggiarsi senza farsi mettere la “catena” (termine questo che ricorre più
volte nel suo immenso epistolario “d’amore”).
Comunque Giselda di certo non nutriva grandi aspettative, e soprattutto non gli serbò affatto rancore se già pochi giorni dopo trepidò con
lui nell’attesa dell’esito della prima di Cavalleria rusticana, a Firenze.
Maria Borgese, nel suo
Anime scompagnate (La
Nuova Antologia, Milano
1937) racconta tutta la vicenda “parteggiando” apertamente per l’amica, però di
questo episodio non c’è
riscontro negli epistolari. La
Borgese comunque fa di
tutto per difendere il comportamento di Giselda e per
descrivere la sua relazione con Verga con i toni dell’amore intenso e
sincero. (“In seguito lo scrittore sempreché poteva si recava dovunque
il suo impegno conduceva la Giselda” op. cit. pag. 396).
Ma a chiarirci in modo definitivo le idee su questa complessa relazione sarà la stessa protagonista in una lettera del 1941 indirizzata al
critico letterario Nino Cappellani, che aveva appena pubblicato una
corposa biografia del Verga. Con grande lucidità la Foianesi, ormai
novantenne, rievoca quegli anni: “[...] fu da quel giorno (estate del
1880 n.d.r.) che la nostra relazione intima (non tresca, brutta parola)
incominciò e durò fino alla morte del caro, indimenticabile amico, passando dalla passione ad una tenera e buona amicizia”.
Eppure il quel torno di tempo Giselda non fu la sola donna del
Verga. Negli stessi giorni della “catastrofe” provocata dalla sua lettera dal contenuto inequivocabile (che però lei non lesse mai, se non
nell’epistolario pubblicato dal Tomaselli, quasi trent’anni dopo) egli
scriveva a Paolina Greppi “Sapete che voi siete la sola persona, che
mi interessa e molto, a Milano”. Parole in fondo sincere, perché
Giselda cui scriveva “Tu sei la donna come l’avrei sognata io, l’amica, la sorella, l’amante, tutto. [...] Ti bacio sul viso, sugli occhi,
sulla bocca, così, così a lungo, prenditi l’anima mia”, Giselda, dice52
vamo, viveva a Catania. E anche Dina Sordevolo in quegli anni già
gravitava nella sua orbita.
Però il Verga fu un uomo, a suo modo, fedele alle “sue donne”, una
fedeltà “duratura” anche se più che altro epistolare. Infatti il suo legame con Giselda durò fino alla morte (più di 35 anni), quello con
Paolina pure (circa 40) e altrettanto durò, anno più anno meno quello
con Dina Sordevolo, la più coriacea, che perse la speranza di sposarlo
solo all’ultimo, quando nel 1920, lui ormai ottantenne, lei vent’anni di
meno, gli scrisse in occasione della nomina a senatore: “Spengo il
lume e buonanotte Senatori.” parafrasando il detto popolare “buonanotte suonatori” con cui si indica che ci si è messo l’animo in pace!
Del resto il buon Giovanni non ha mai fatto mistero con nessuna
delle sue donne del proprio atteggiamento “anti-uxorio” come lo definisce Gino Raya. A Paolina l’aveva scritto già nel 1883 che non aveva
alcuna intenzione di legarsi “Mi siete cara [...] ma amo pure la mia
libertà, la mia indipendenza assoluta, e la mia dignità. Per amor di Dio
non cambiate tutto questo in catena che diverrebbe odiosa ad entrambi”. E con Giselda, prima grande passione della sua vita mise subito le
cose in chiaro:“Non prenderò mai moglie, perché non sposerei una più
ricca di me, né sono io abbastanza ricco per sposare una povera; sarebbe per me una insopportabile mortificazione vedere mia moglie rimodernarsi un abito vecchio, non potendosene fare uno nuovo”. Stando
così le cose la lungimirante signora Foianesi provvide immediatamente ad indirizzare i sentimenti della figlia verso Mario Rapisardi, che
per altro si presentava come un partito migliore del suo più affascinante ma squattrinato amico, visto che
stava per diventare professore universitario (anche se poi fu la signora Teresa a dover brigare con
Dall’Ongaro perché ottenesse la
cattedra). E lo stesso Verga, per
tutto il viaggio da Firenze a Catania
in cui accompagnò le due donne,
non fece altro che magnificare le
doti dell’amico. Ma la prima
impressione che Giselda ebbe del
futuro marito non fu affatto gradevole. “Il Rapisardi era magrissimo,
macilento, con l’aria sofferente e
53
non piacque molto a Giselda che lo trovò piuttosto ridicolo, nonostante le molte parole spese dal Verga in suo favore. (Giulio Catteneo,
Verga, UTET, Torino 1963, pag. 100). Tuttavia la corte serrata del
poeta e le abili manovre della madre la convinsero a sposarlo, malgrado l’opposizione della famiglia di lui che osteggiò a tal punto le nozze
che i due giovani dovettero unirsi in matrimonio a Messina. L’ingresso
della sposina in casa Rapisardi fu salutato dalla suocera con queste
parole: “La vostra venuta in casa mia segna un giorno di lutto”. (Alfio
Tomaselli, Epistolario di Mario Rapisardi, Battiato Editore, Catania
1922, pag. XXII). E ci mise tutti i mezzi la vecchia suocera affinché
divenisse tale anche per la povera Giselda. Se la prima volta che incontrò Mario Giselda ne ebbe un’impressione negativa, la prima notte di
nozze fu addirittura un trauma, così ne riferisce Maria Borgese (op. cit.
pag. 178) “provò un senso di sgomento indicibile vedendo il marito
nell’intimità, magro, sparuto, con le spalle strettissime, (i vestiti erano
imbottiti dallo zio Giarretta), con tutti i caratteri dell’uomo molto
malato e debole”. Eppure non tutti concordano con il giudizio della
Borgese. Per Alfio Tomaselli (Epistolario di Mario Rapisardi, cit. pag.
XXVII) “il Rapisardi era di statura vantaggiosa; esile nella persona
ben proporzionata, si mantenne dritto elegantemente fino all’estremo.
Gli occhi aveva neri e grandi, addolciti da una spiritualità malinconica”. Ma non fu solo l’aspetto fisico del marito a rendere la vita matrimoniale di Giselda un inferno. Ben
presto Mario si rivelò, oltre che succube della madre, fedifrago e a
volte addirittura violento. Sempre
la Borgese riferisce un episodio in cui
egli colpì la moglie ripetute volte con
un frustino sulle braccia nude e sulla
schiena. Ed era cosa risaputa che egli
intratteneva relazioni con diverse
donne senza curarsi di lei. La più nota
fu la Contessa Lara (pseudonimo
della poetessa Evelina Cattèrmole,
che ben presto divenne anche amica
di Giselda), Maria Borgese afferma
che “la terza parte delle Ricordanze è
tutta per altre donne, sebbene scritta con la moglie vicina” (op. cit. pag.
297). È chiaro il suo punto di vista, amica della Foianesi ne raccoglie
le memorie nel suo Anime scompagnate, addolcendo di sicuro qualche
54
episodio e tacendone intenzionalmente altri, allo scopo dichiarato di
mettere in buona luce la figura di Giselda che in quel periodo era attaccata da tutte le parti. Dopo l’allontanamento della moglie Rapisardi si
legò definitivamente con Amelia Poniatowski, che gli rimase amorevolmente vicina fino alla morte, ne raccolse le lettere e le consegnò ad
Alfio Tomaselli divenuto quasi subito suo devoto marito, tanto da
dedicarle il famoso epistolario che senza la sua annosa quanto
“meticolosa” ricerca di materiali nella casa del Vate, non avrebbe
certo potuto vedere la luce.
Nel “partito” opposto, dunque, quello dei fautori sfegatati di
Rapisardi troviamo Alfio Tomaselli, curatore di un epistolario che
suscitò enorme scalpore. Egli non attese nemmeno che morisse l’ultimo grande protagonista dello scandalo che aveva infiammato gli animi
per lungo tempo. Rapisardi si era spento il 4 gennaio 1912 e Verga
morì il 27 gennaio 1922. Pochi giorni dopo l’uscita dell’Epistolario di
Mario Rapisardi. Strana casualità! In una lettera del 14 marzo Giselda
così scrive a Federico De Roberto cui aveva chiesto, nel presentimento della “catastrofe”, di deporre un fiore sulla sua salma (torna ancora
questo termine associato in qualche modo al suo rapporto con il Verga,
ma questa volta lei allude alla sua morte di cui ha il presentimento):
“Gentile amico, sono fuori di me! Leggo sulla rivista «Il Mondo» del
23 febbraio un articolo di Cesareo Un epistolario interessante. Pare
che il sig. Tomaselli abbia pubblicato l’epistolario di Rapisardi, me
viva, con lettere infami e che io ritengo apocrife, che gettano fango su me e
sull’amico nostro”. Eppure l’articolo
del Cesareo tentava di ridimensionare
la portata della “tresca” di cui parlava
il Tomaselli, tanto che quest’ultimo si
vide costretto ad affondare vieppiù la
lama affinché l’effetto che sicuramente voleva ottenere, non venisse ridotto.
Ancora dieci anni dopo con il
Commentario rapisardiano riprende
l’argomento, scadendo però nel più
bieco pettegolezzo da cortile. A pag.
64 riporta una lettera da lui inviata al
«Giornale di Sicilia», (anno LXII, n.
30, 4 febbraio 1922) per criticare la
corrispondenza Dall’Ongaro Verga
55
Rapisardi, pubblicata sul quotidiano alcuni giorni prima, in
cui il Dall’Ongaro così si esprimeva: “L’indole espansiva
della Foianesi, che trasferitasi a
Catania, serbò intatte le abitudini di cortesia e di grazia della
sua Toscana, fece credere che i
suoi rapporti col Verga non fossero soltanto amichevoli”.
Tomaselli attacca il Cesareo
che nel suo articolo ridimensionava la portata del “tradimento” con le parole “il Verga
avrà fatto male, ma col cuore
non si ragiona”. Egli invece sottolinea “è da notare il tradimento freddo continuo calcolato, diremmo anche sistematico. Il Verga tradisce
l’amico dandosi in braccio ai nemici di lui, e con loro fa causa comune, si mette sotto la loro protezione” (op. cit. pag. 124). Tomaselli,
infatti, arriva a sospettare intrighi e complotti ai danni del Rapisardi da
parte di tutti, e in particolare dell’amico, che insinua, si avvicinò alla
di lui moglie proprio nel periodo della “polemica” Rapisardi/Carducci:
“Ma come e perché l’antica amicizia tra la Giselda e il Verga si riattaccò in segreto per via epistolare
dodici anni dopo, giusto nel tempo
della polemica famosa?”.
Al di sopra delle parti sembra
invece Leonardo Sciascia quando
nel suo Pirandello e la Sicilia
(Adelphi, Milano 1996), riporta il
giudizio di Vitaliano Brancati che
trasforma i due protagonisti in
personaggi tipici della propria
visione della Sicilia “investita di
comica luce”. “Catania amava il
Rapisardi: il poeta che usciva col
parapioggia, che portava un fiero
cappello e una cravatta a fiocco;
non poteva amare Giovanni Verga
56
che vestiva come un qualsiasi galantuomo, non era distratto, non
faceva stramberie e parlava poco. [...] Tanto amava Rapisardi, il
popolo catanese, che quando seppe del tradimento della moglie, e il
terzo era per l’appunto Giovanni Verga, ad esprimere solidarietà per
il poeta tradito i catanesi gli portarono sotto casa una festosa fiaccolata: il che, per un popolo che solitamente disprezza e dileggia i cornuti, è una strabiliante prova d’affetto”. Ma quando si mette da parte
l’aspetto puramente biografico Sciascia non può non sottolineare la
grandezza dell’opera verghiana, figlia del Risorgimento e sua voce
significativa, al confronto della produzione di Rapisardi che, alla
resa dei conti della storia, si riduce “ad una breve antologia di idilli”
(pag.151 e segg.).
57
Marc Chagall, Io e il mio villaggio, 1911.
Il Museo nazionale Marc chagall a
n
i
z
z
a
Laura Lombardo
Il Museo nazionale
Marc Chagall a Nizza
rappresenta uno dei
rari luoghi dove l’arte,
il paesaggio, i colori e
la musica regalano ai
visitatori intense e
durevoli emozioni. La
ricerca artistica di una
vita, l’incontro con
intellettuali ed artisti
provenienti da ambiti
culturali diversi, il
legame con la religione ebraica, l’amore
per la prima moglie
Bella e la seconda
Vava, la sofferenza
per il massacro degli
ebrei, la cultura yiddish sono i temi sviluppati da sempre dal
pittore e rappresentano, attraverso il susseguirsi delle tele, il racconto di una vita vissuta intensamente che ha origine a Vitebsk in Bielorussia e si conclude a Vence, a pochi chilometri
da Nizza. Nel 1966 Chagall fa dono allo Stato francese del Messaggio
biblico, un corposo ciclo di diciassette grandi quadri di soggetto religioso evocanti la Genesi, l’Esodo, e il Cantico dei Cantici.
André Malraux, critico d’arte, allora ministro della cultura e soprattutto grande amico di Chagall, di fronte a questa preziosa donazione
dell’artista decise di far costruire un’area museale in cui conservare
59
questo insieme. La città di
Nizza offrì il terreno nella
verde e dolce collina di
Cimiez dove iniziarono subito i lavori di costruzione. Nel
1973 il museo nazionale
Message Biblique Marc
Chagall fu inaugurato.
L’artista e la moglie
Valentina Brodsky ampliarono la donazione con tutti gli
schizzi preparatori alla realizzazione del ciclo: i disegni
e le pitture ad olio, i guazzi,
le lastre di rame e le incisioni della Bibbia illustrate dal pittore, le sculture, le litografie, un arazzo, complessivamente più di trecento opere di soggetto biblico.
L’evento raro della realizzazione di un museo dedicato ad un artista vivente ebbe come riscontro una generosità costante da parte del
pittore, che, anche dopo l’inaugurazione, offrì altre opere fino alla
sua morte, nel 1985.
Chagall seguì puntualmente la costruzione del museo affidata
all’architetto André Hermant esecutore degli spazi interni espositivi,
sempre attento che la luce naturale avesse un ruolo di primo piano.
La sala concerti, voluta espressamente da Chagall, fu corredata da
vetrate nelle quali l’artista raccontò i sette giorni della Creazione del
mondo e lo scaturire della vita dalla luce divina. Infine fu realizzato
il giardino inteso come luogo di riposo e di raccoglimento, dove gli
ulivi, i carrubi e le essenze mediterranee ancora oggi contribuiscono
ad accrescere il fascino del luogo.
Fin dalla sua inaugurazione il museo ha suscitato un grande successo di pubblico e le sue collezioni si sono via via arricchite, al punto
da rappresentare, al momento, l’insieme di opere di Chagall più importante al mondo. L’originaria collezione del Messaggio biblico è stata
ulteriormente ampliata dall’istituzione francese, che ha voluto diffondere la conoscenza dell’opera del pittore attraverso mostre e prestiti in
Francia ed all’estero. Dal 2008, proprio per la sua ricchezza, il museo
ha cambiato il nome in Museo nazionale Marc Chagall.
Alcune sale sono destinate a soggetti estranei al tema religioso.
Meritevoli per la raffinatezza dei toni sono i quadri dedicati alla
60
prima moglie Bella, i doppi ritratti e le tele raffiguranti personaggi
del mondo del circo. Resistenza, e Risurrezione, sono invece i quadri
che rappresentano le violenze
della guerra e il dolore dell’artista per la sorte degli ebrei
rimasti in Europa. Liberazione
è un richiamo alla semplicità
della vita a Vitebsk e il ricordo
della civiltà yiddish che permane con dolcezza nell’animo del
pittore insieme alla consapevolezza della sua scomparsa.
Il Messaggio biblico, esposto
in permanenza nelle sale del
museo, rappresenta il cuore
della collezione ed è l’espressione più compiuta dell’arte di
Chagall dedicata al tema religioso, in un secolo, il XX, caratterizzato dalla perdita della fede.
“Fin dalla mia prima giovinezza, sono stato affascinato dalla
Bibbia. Mi è sempre sembrato
61
e ancora oggi mi sembra che sia la più grande fonte di poesia di ogni
tempo. Fin d’allora ho cercato quel riflesso nella vita e nell’Arte.
Fino da allora questo segreto ho cercato di trasmetterlo. Secondo le
mie forze, durante tutta la mia vita, sebbene abbia talvolta l’impressione di essere assolutamente un altro, di essere nato tra cielo e
terra, che il mondo sia per me un grande deserto, in cui la mia anima
vaga come una fiaccola, ho fatto questi quadri all’unisono con questo sogno lontano. Ho voluto lasciarli in questa Casa perché gli
uomini cerchino di trovarvi una certa pace, una certa spiritualità,
una religiosità, un senso della vita” (Discorso inaugurale pronunciato da Marc Chagall il 7 luglio 1973).
Nei quadri che rappresentano la Genesi e l’Esodo, Chagall in stretta interpretazione del testo biblico ha voluto rappresentare gli episodi
che privilegiano i rapporti tra l’uomo e Dio. Così in: Dio crea l’uomo,
il Sacrificio d’Isacco, Noè e l’arcobaleno, il Paradiso, Adamo ed Eva
cacciati dal Paradiso, La lotta di Giacobbe e l’angelo, Il sogno di
Giacobbe, l’Arca di Noè, la Percossione della roccia, l’artista affida il
suo messaggio alla forza del colore, corposo, brillante, intenso.
Ogni quadro è caratterizzato da una tonalità particolare, talvolta è
il rosso potente, simbolo di vitalità o il giallo intensamente luminoso
o i blu e i verdi profondi, che infondono vita e significato alle scene
bibliche rappresentate. In ogni tela, l’uso di questi colori si misura
62
con il bianco, che in Chagall segnala la presenza del divino. Dedicata
alla seconda moglie ,“Vava, mia gioia, mia allegria”, è la collezione
del Cantico dei Cantici che, in riferimento al noto racconto della
Bibbia, celebra nella libera interpretazione di Chagall, la storia d’amore di Davide e Betsabea. La sensualità, la felicità, l’intensità del
sentimento amoroso che unisce la coppia e la eleva al Creatore rappresentano la forza del messaggio di Chagall. Le diverse sfumature
del rosso e del rosa, le forme arrotondate sottolineano la sinuosità del
racconto che si evolve di tela in tela come in un sogno dove i personaggi, la danza, la musica, i fiori e i frutti simboli di discendenza, gli
alberi, le immagini dei luoghi cari all’artista, Gerusalemme, Vitebsk,
Vence, gli animali simboli del focolare sembrano volare dolcemente
in un’atmosfera in cui tutto ciò che appare reale si trasforma in simbolo. Volentieri si fa sosta in questa sala espositiva dove, su suggerimento dell’audioguida, si ascolta musica e si fa scivolare lo sguardo
da una tela all’altra fino a sentirsi coinvolti in questo canto d’amore
antico come la Bibbia ma miracolosamente attuale come sempre.
63
Intervista a Vanni Santoni
e Gregorio Magini
Fabio Manfrè
Chi non ha mai pensato, almeno una volta, di prendere carta e
penna (oggi forse solo computer, tablet, iPod etc, ma il discorso non
cambia) per scrivere un racconto breve o addirittura un romanzo?
La scena, nell’immaginario collettivo, è sempre la stessa: foglio
bianco, una camera che funge da studio, luci più o meno soffuse, il
silenzio totale o, magari, della musica che accompagni il “sacro”
momento della creazione. Lo scrittore, solitario seme dal quale prende
vita una storia, si cimenta nella stesura affidandosi a un’idea, un’immagine, una fotografia che conserva nella sua mente (lo diceva Ugo
Pirro durante i suoi corsi di sceneggiatura riferendosi al soggetto di un
film - n.d.r.). Ma quanto di vero c’è in questa visione dell’attività di
scrittore? Aggiungiamo, dell’atto dello scrivere in sé?
A giudicare dal proliferare di corsi di scrittura creativa ormai
proposti anche on line e dalle passate e recenti esperienze editoriali
di gruppi più o meno grandi di scrittori che hanno pubblicato racconti e romanzi (i collettivi Wu Ming, Kai Zen o Agaraff, tanto per
citarne qualcuno) sembrerebbe che qualcosa sia radicalmente cambiato nel modo di operare ma soprattutto nel modo di rapportarsi al
lettore che diventa non più elemento passivo del processo bensì egli
stesso attore del medesimo.
La scrittura “collettiva” (intesa in senso narrativo e da non confondere con quella “collaborativa”) ha una lunga storia alle spalle;
65
ne troviamo esempi già a partire dagli inizi del XX secolo con il
“gruppo dei dieci” futurista ma si potrebbero rintracciare episodi
relativi anche al secolo precedente.
L’evoluzione si è svolta poi nelle formule più svariate tra le quali,
la più diffusa, è stata quella della cosiddetta “scrittura a staffetta”.
Ma c’è dell’altro. Nel 2007 gli scrittori Gregorio Magini e Vanni
Santoni hanno fondato il SIC, un metodo scientifico di scrittura
collettiva per la stesura partecipata di racconti e romanzi da parte
di gruppi e masse, che ha finora prodotto otto racconti (compresi
tra le dodici e le venti mani) e, tra il 2009 e il 2011 di un grande (è
il caso di dirlo) romanzo a 228 mani. Avete letto bene; più di cento
scrittori all’opera.
Chi scrive ha preso parte a questo progetto, dando il suo modesto
contributo come scrittore, direttore di revisione e anche, in piccola
parte, come DA (direttore artistico n.d.r.). e, nell’arco dei due anni di
impegnativo lavoro, ha avuto modo di sperimentare l’efficacia e
soprattutto l’assoluta originalità del metodo che, come recita il motto
SIC, si basa sul principio secondo il quale tutti scrivono tutto.
Per capire meglio è il caso di dare la parola ai due “padri fondatori” SIC.
Vanni Santoni e Gregorio Magini, nella breve premessa a questa
intervista abbiamo cercato di dare ai nostri lettori alcune informazioni di base in merito al fenomeno della scrittura collettiva
nei suoi caratteri generali. dal vostro punto di vista che cosa rappresenta e perché sta avendo una così larga diffusione?
Oggi tutto ciò che concerne la cosiddetta “produzione di contenuto”,
va nella direzione della condivisione e della produzione collettiva.
Anche la letteratura, dunque, doveva provarci. Per quanto ci riguarda,
poi, l’idea di dedicarci a un progetto di scrittura collettiva è venuta
innanzi tutto dalla nostra concezione della letteratura come fatto sociale: ci siamo formati lavorando a una rivista autoprodotta, e quindi per
noi era normale cercare l’interazione tra autori. Da questa necessità, e
dalla nostra esperienza in altri ambiti di produzione collettiva di contenuto, nacque il primo embrione SIC.
Siamo tutti portati a immaginare la figura dello scrittore e l’attività stessa dello scrivere un qualsiasi testo come qualcosa di assolutamente personale, frutto dell’ingegno e della creatività di un
66
singolo autore che rappresenta l’unico artefice dei contenuti che
intende esprimere e, soprattutto, delle modalità con le quali gli
stessi si rendono manifesti. cosa cambia, in concreto, nel concetto generico di “autorialità” nell’ambito della scrittura collettiva?
Bisogna distinguere due aspetti dell’autorialità: l’autore come idea
dello scrittore e l’autore come idea del lettore.
Il primo è un marchio di legittimità: io scrittore scrivo così tanto e/o
così bene da aver conseguito la patente di parola, che è appunto il
titolo di autore. L’autore è uno scrittore con bonus: mentre la dimensione dello scrittore è la scrivania, l’autore si rivolge alla società, è
una voce nel dibattito della società civile. Questa proiezione all’esterno dell’autore è in contraddizione con la vocazione dello scrittore, che è quella di mantenere un rapporto di comunicazione con se
stesso e con i fantasmi dei lettori.
Il lettore, dal punto di vista del lettore, è qualcosa di più. Vale il
discorso dell’autore come autorità, ma subentra una questione più
connessa all’opera, che è l’idea dell’autore come principio ordinatore del testo. L’autore, per lo scrittore, è soprattutto quella figura
ideale che trasforma uno sciame di lettere in un discorso di senso
compiuto, di più, in una storia, ancora di più, in una storia che
vuole dire qualcosa e quello che vuole dire è importante.
Un’impresa collettiva si rapporta in modo diverso ai due aspetti. Il
primo cambia completamente senso, è sabotato. Chi lavora a un’opera collettiva non sa che cosa sta dicendo, non può quindi prendersene la responsabilità, quindi né colpa né merito. La sua voce si è persa
nella sintesi dell’opera collaborativa. Alla società civile arriva qualcosa scritto da cento persone, che è come dire, non si sa da chi.
L’opera è senza contesto, è indifesa. Ma, allo stesso modo, è indifesa la comunità che la riceve. Foucault sosteneva che l’autore non sia
in sostanza che il filtro della parola, il congegno di contenimento del
suo potere dirompente. L’opera collettiva, secondo questo punto di
vista, dirompe di più.
Diverso è il discorso del rapporto tra lettore e autore. Poiché per il
lettore l’autore è il principio ordinatore dell’opera, è secondo noi
necessario, in un’opera collettiva, riprodurne le caratteristiche. Il
lettore deve poter parlare con qualcuno. Se questa persona non esiste, deve essere simulata. L’importanza data alla coerenza del risultato finale nel metodo SIC ha proprio la funzione di riprodurre “in
vitro” le caratteristiche “naturali” dell’autore.
67
Le figure e l’attività dell’autore tradizionale e di quello collettivo possono risultare in conflitto tra loro?
L’autore tradizionale, chiaramente, viene fatto a pezzi dall’autore collettivo, perché è in grave inferiorità numerica. Lazzi a parte, se interpretiamo la domanda come “se la scrittura collettiva dovesse diffondersi, influenzerebbe anche il lavoro di chi scrive da solo?”, la risposta non può che essere positiva. In che modo? Difficile dirlo. Forse, il
valore dell’originalità, già messo a dura prova da una serie di esperienze artistiche del Novecento, scenderà ancor più nella considerazione degli scrittori. Oppure, al contrario, o anche allo stesso tempo, si
reagirà con la ricerca di un’originalità assoluta, scrivendo ciò che nessun altro potrebbe scrivere. Scenari interessanti, in ogni caso.
Quanto influiscono il mercato editoriale e le sue dinamiche nell’evoluzione del fenomeno della scrittura collettiva? esistono editori attenti a tale rivoluzione?
Il fatto che il romanzo SIC uscirà in libreria è la prova che questa
attenzione, almeno da parte di alcune realtà, esiste. Tuttavia, nel
corso di cinque anni di lavori abbiamo riscontrato maggiore attenzione da parte del mondo accademico - che infatti ci ha subito valorizzato chiamandoci a tenere svariate lezioni, workshop e “lectures”
- che da quello editoriale, che in Italia è tradizionalmente sospettoso
rispetto alle novità.
Scrittura Industriale collettiva; tale denominazione ha generato
non poche perplessità in chi si è avvicinato per la prima volta alla
vostra iniziativa; in particolare, il termine “industriale” ha fatto
storcere il naso a qualcuno. Spiegateci meglio il significato dell’acronimo SIc e soprattutto come nasce l’idea.
L’idea della SIC nasce innanzitutto dalla volontà di superare la scrittura
collettiva “a staffetta”, quella, per intenderci, dove ognuno scrive un
pezzetto e poi “passa la mano”, e dare vita invece a un metodo di scrittura veramente collettivo, che permettesse la produzione di opere
coerenti e la partecipazione di tutti gli scrittori a tutte le parti dell’opera.
L’inserimento del termine “Industriale” nel nome era innanzitutto
una provocazione verso gli oppositori “a priori” della scrittura collettiva, in particolare coloro che, rifiutandosi di vedere nella scrittu68
ra collettiva la possibilità di un’arte diversa dalla scrittura individuale, contestavano una sua presunta “spersonalizzazione” del gesto
artistico, ma in realtà essa rimanda anche all’effettiva divisione del
lavoro prevista dal metodo SIC.
Scriveva Michele Marcon (già autore SIC) su «Finzioni»: “Ma a pensarci bene l’aspetto più interessante della SIC non è tanto il fatto che
sia Collettiva, ma è il suo essere Industriale. Ovvero: tu che credi di
essere un (grande) autore chiuso nella tua stanzetta, e ti fai un sacco di
pippe mentali mentre scrivi un (grande) romanzo rivoluzionario che
probabilmente non leggerà mai nessuno (e che altrettanto probabilmente rimarrà un tentativo velleitario). Ecco, tu non sei più nessuno.
Tu non esisti più. Tu, stereotipo del (grande) autore, oggi sei un operaio che insieme ad altri operai deve collaborare per riuscire a realizzare un prodotto. Certo, questo prodotto non è mica un prodotto qualsiasi, ma è un’opera dell’intelletto - che dico - degli intelletti!”.
entriamo nel dettaglio: in che cosa consiste il metodo SIc, come
funziona e in cosa si differenzia dalle altre esperienze di scrittura collettiva?
I principi chiave del metodo SIC sono la divisione del lavoro, su cui
spicca la distinzione tra chi crea i materiali testuali - gli Scrittori - e
chi coordina e compone, ma non è autorizzato a scrivere una sola
parola - i Direttori Artistici) e la scomposizione della narrazione nei
suoi elementi costitutivi, tramite schede (personaggio, luogo, situazione, etc.) che solo successivamente vengono ricomposte. Ogni
scheda viene infatti compilata individualmente da tre o più Scrittori;
il DA ritira le schede individuali e le compone, dopo di che rimanda
la scheda definitiva agli Scrittori, che la leggono e la fanno propria.
Prima si realizzano le schede degli elementi strutturali, come ambientazione e personaggi, e successivamente si passa alle schede della stesura vera e propria.
Il processo di composizione è la principale invenzione del metodo
SIC: consiste nel prendere le parti migliori e più coerenti di ogni
scheda individuale e di comporle, appunto, tutte insieme, in modo da
ottenere una scheda cosiddetta “definitiva” di qualità superiore alle
singole individuali.
Chi volesse approfondire il metodo, può trovare un manuale dettagliato a questo indirizzo: http://www.scritturacollettiva.org/documentazione/manuale-di-scrittura-industriale-collettiva.
69
come avete rodato il metodo e quali sono stati gli esiti?
Il metodo è stato rodato tramite la realizzazione di racconti. Il primo,
Il Principe, è servito a rodare gli strumenti base - schede personaggio, schede luogo e schede stesura; col secondo, Un viaggio d’affari, oltre che approfondire detti strumenti, abbiamo testato il metodo
sui contenuti simbolici; col terzo, Alba di piombo, abbiamo lavorato
su una storia lunga e con un gran numero di personaggi e luoghi; col
quarto, Notturni per ipermercato, abbiamo testato il metodo senza il
lavoro dei suoi fondatori - anche la direzione artistica era affidata a
uno scrittore SIC reclutato attraverso il sito. Gli esiti possono essere
giudicati direttamente dai lettori dato che tutti i racconti - questi
quattro e gli altri quattro prodotti successivamente - sono reperibili e
leggibili sul nostro sito.
Veniamo all’ultima impresa: il GRAS. che cos’è e come nasce
l’idea?
Scrivere un romanzo a moltissime mani era uno degli obiettivi del
progetto SIC fin dall’inizio. Inizialmente dovevano essere 100 mani
(50 autori), poi, grazie alla visibilità ottenuta dal progetto sulla
stampa nazionale, siamo riusciti a raggiungere i cento scrittori e,
dunque, le famose 200 mani. I lavori sono cominciati nel febbraio
2009, mentre la scrittura è iniziata ufficialmente il 25 aprile 2009.
GRAS è l’acronimo di “Grande Romanzo Aperto SIC”, ed è il nome
di lavorazione che utilizzavamo ad opera in corso. Il libro, che sarà
un romanzo storico ambientato nell’Italia occupata dai tedeschi, si
intitolerà In territorio nemico.
come avete scelto il soggetto del romanzo? chi sono i protagonis
t
i
?
Volevamo che il Grande Romanzo, a differenza dei racconti scritti
fino a quel momento col metodo SIC, non si basasse su un’idea di
storia decisa da noi o da uno dei coordinatori, ma su un soggetto
originale stabilito collettivamente dai partecipanti. Abbiamo dunque chiesto agli scrittori di inviarci storie e aneddoti di fatti accaduti a loro parenti o conoscenti durante la Seconda Guerra
Mondiale in Italia. Potevano inviare quello che desideravano, l’importante era che si trattasse di storie tramandate per via orale.
70
L’iniziativa ha avuto successo e abbiamo ricevuto dagli iscritti oltre
200 pagine di materiali di ogni genere, con un’ampia distribuzione
geografica. Ovviamente partigiani, tedeschi, fascisti e alleati facevano la parte del leone ma c’era di tutto: storie di bombardamenti,
di salvataggi rocamboleschi, di viaggi disperati, di incontri fortuiti, di lavoro nelle fabbriche di armamenti, e poi francesi, gallesi,
marocchini, indiani, anarchici, monarchici, preti, massoni, anziani,
bambini, disabili, ragazze in fiore, energumeni… Sulla base di questi aneddoti abbiamo elaborato il soggetto: si tratta di un romanzo
storico che racconta le tre storie parallele di un ufficiale di marina
sbandato dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, che sceglierà di
unirsi alla Resistenza, di sua sorella, rimasta sola e in gravi difficoltà in una Milano bombardata, e del marito di lei, che trascorre
tutta la guerra imboscato in un solaio in campagna, dove perde progressivamente la ragione.
Perché un romanzo storico?
Riprendendo in parte quanto scritto nel nostro saggio Affinità elettive
quando, dopo due anni di sperimentazione, abbiamo deciso di portare
l’esperienza SIC verso il suo compimento, ovvero la scrittura di un
romanzo a duecento mani, la scelta di lavorare su un romanzo storico
è venuta naturale per una serie di ragioni:
1) Affinità metodologico-strutturali tra romanzo storico e testi scritti col metodo SIC. All’inizio dei lavori, fummo colpiti da un’analogia: dal momento che lavorare a un romanzo storico significa anche
lavorare con un sistema di fonti, si poteva dire, estremizzando, che
ogni romanzo storico è già, per definizione, “scrittura collettiva”. Il
metodo SIC, d’altra parte, si fonda sulla creazione di sistemi di fonti
(letterarie), infatti porta tutti gli scrittori sullo stesso vettore narrativo tramite un continuo rimando alle schede definitive. È creando
insieme i personaggi definitivi, e poi i luoghi, e poi le schede trattamento, che gli scrittori si allineano tra loro e trovano la necessaria
visione condivisa. Questo lavoro non è del resto soltanto un workflow “a scorrimento”: le schede rimangono, e durante il lavoro sulla
stesura gli scrittori sono tenuti a fare riferimento a quanto scritto
nelle schede personaggio, luogo e trattamento definitive. Le schede
dunque costituiscono il punto di riferimento principale degli scrittori. Di più: il loro complesso definisce il campo d’azione del romanzo, in un modo non dissimile da come la scelta di un determinato set
71
di fonti storiche definisce il campo d’azione di un romanzo storico.
2) La “resa” della scrittura collettiva nell’avventuroso e la resa dell’avventuroso nello storico. Durante il lavoro su Alba di piombo, il
quarto racconto SIC, quasi una boutade nel suo affrontare gli anni di
piombo con gli stilemi dell’action movie hollywoodiano, avevamo
notato come il lavoro collettivo, per il principio quantitativo di cui
sopra, capace di valorizzare l’idea migliore, il particolare più gustoso,
l’effetto più scenico, i comprimari più caratterizzati, in una continua
dialettica tra archetipo e variazione sul tema, si prestasse particolarmente alle narrazioni avventurose. Ci piace pensare che con la scrittura collettiva si avveri in letteratura l’affermazione semiseria che Eco
riservava a Casablanca, ovvero che “quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche” e “[...] proprio perché gli archetipi ci sono tutti [...] si può giocare sullo spettatore il fascino dell’intertestualità”. Partendo quindi dall’idea di scrivere
un romanzo avventuroso, il passo successivo è stato quello di renderlo anche storico. Il romanzo storico nasce del resto come romanzo
avventuroso, con l’Ivanhoe di Walter Scott, mentre tentare il “romanzo avventuroso di ambientazione contemporanea” ci avrebbe portati
inevitabilmente a sforare in altri generi come il reportage o la letteratura di viaggio, ipotesi inattuabili in termini di scrittura collettiva, a
meno che tutti gli autori non abbiano vissuto la medesima esperienza.
3) Il significato del romanzo storico per il lettore contemporaneo. È
sufficiente entrare in una libreria e dare un occhio alla sezione dedicata per capire che il romanzo storico (e in particolare, oggi, l’historical
thriller) è un’area in cui si concentra una quantità notevole della cosiddetta “narrativa popolare”, non poca della quale di impronta smaccatamente commerciale, ma, senza stare a fare liste della spesa, sarà evidente al lettore italiano che allo stesso tempo è un genere in cui si collocano anche svariati ottimi libri. Fedeli alla nostra dichiarazione d’intenti, uno dei punti della quale era “scrivere un buon romanzo, oggi”,
abbiamo rifiutato l’idea secondo cui non esisterebbe un territorio tra
letteratura “alta” e “bassa” e anzi deciso di sfruttare la doppia natura
del genere per scrivere un libro che fosse godibile per il lettore medio
senza rinunciare a contenuti complessi.
Al di là delle considerazioni di ordine pratico - non c’è bisogno di troppe spiegazioni per capire che un romanzo introspettivo scritto collettivamente sarebbe più rischioso di un romanzo storico - la scelta è scaturita anche dalla convinzione che il genere abbia un potenziale in
parte inesplorato, un pubblico vasto e interessato e una capacità di par72
lare al lettore di oggi anche superiore, sotto alcuni aspetti, a quella del
romanzo di ambientazione contemporanea. Scrivevamo nel marzo
2009, mentre il romanzo muoveva i primi passi: “Quando abbiamo
deciso di impegnarci nella scrittura di un romanzo collettivo così partecipato, ci siamo chiesti quale fosse il tema, il genere, il tipo di romanzo che meglio poteva giovarsi di cento cervelli al lavoro. Abbiamo
subito pensato al romanzo storico: la mole di documentazione storiografica che richiede, nonché la coralità della narrazione e la molteplicità dei punti di vista che ben gli si addicono, trovano certo più facile
conseguimento in molti, piuttosto che individualmente. Inoltre, un
romanzo storico è tipicamente ponderoso e non necessita, anzi quasi
rifugge, arditezze stilistiche.”
4) La necessità di un soggetto scritto dagli autori. Nel succitato, precedente tentativo di romanzo SIC, un lavoro a “sole” 12 mani, poi
accantonato ma comunque utile per testare i limiti del metodo, avevamo riscontrato la necessità di avere un soggetto chiaro da subito:
il processo di scrittura collettiva tendeva ad arenarsi o comunque a
trovarsi in difficoltà quando c’era da decidere in corso d’opera uno
snodo importante.
Questa necessità di un soggetto da cui partire andava però a scontrarsi con la nostra volontà di rendere collettiva l’intera filiera produttiva del romanzo. Lanciare un bando per proposte di soggetto agli
iscritti non avrebbe risolto il problema, dal momento che ne avremmo comunque dovuta scegliere una, ma con la scelta del romanzo
storico si è aperta una terza opzione, quella del bando per aneddoti.
All’inizio non ci rendevamo conto che vi avremmo trovato la soluzione del problema della “collettivizzazione” del soggetto: l’idea di
chiedere a tutti gli iscritti di inviare i propri aneddoti storici era nata
per trovare elementi originali da inserire nel romanzo; visto però il
periodo scelto, quello dell’occupazione tedesca e della Resistenza,
un momento della storia d’Italia riguardo al quale parole come storia
e memoria hanno una valenza particolarmente profonda, nonché l’ultimo periodo in cui lo “straordinario”, sia in senso positivo che negativo, ha attraversato la vita di tutti gli italiani, siamo stati letteralmente sommersi di aneddoti, alcuni dei quali di grande interesse, e
abbiamo capito che sarebbe stato possibile scrivere il soggetto interamente a partire da quelle storie.
Solo dopo aver raccolto gli aneddoti abbiamo recuperato la documentazione ufficiale: in pratica abbiamo temporaneamente anteposto
le nostre fonti a quelle ufficiali; il lavoro dei DA, e la natura stessa
73
del metodo, che di volta in volta seleziona i contenuti migliori, ha
permesso di scremare con facilità quanto presentava problematiche
di ordine storico, lasciando però ogni scrittore libero di immaginare
la propria “visione della storia”.
5) Letteratura resistenziale e romanzo di avventura. La scelta del periodo ha dato infine origine a una importante motivazione “di seconda
generazione”: in Italia, la letteratura resistenziale - ossia una letteratura
che parlasse del periodo della resistenza armata al nazifascismo - è stata
a lungo al centro di un dibattito sulla possibilità che venisse scritto un
libro (un romanzo) che potesse contemporaneamente descrivere la totalità di quel periodo storico, e cogliere lo “spirito” dell’epoca. Il giudizio comune è che questo libro non è mai stato scritto (con l’importante
eccezione dell’opinione di Calvino, che lo aveva individuato in Una
questione privata di Fenoglio), benché la letteratura resistenziale italiana sia un genere che conta migliaia di titoli, e veda l’impegno di molti
dei più importanti autori italiani del secondo dopoguerra (Vittorini, gli
stessi Calvino e Fenoglio, Eco, ecc). Questo fatto è stato non di rado
sentito come un “fallimento” per la letteratura italiana, specie in un’epoca in cui, fino ai primi anni Settanta, l’impegno letterario era vissuto
dai più come una declinazione della militanza culturale e politica dell’intellettuale a favore della costruzione di una società più “giusta”. In
particolare, è stato vissuto come penosa contraddizione il fatto che la
Resistenza abbia potuto dare luogo alla sintesi democratica della
Costituzione Italiana, mentre a livello letterario, nonostante siano state
prodotte molte valide opere, non si è vista alcuna sintesi paragonabile.
Oggi quel dibattito sembra molto lontano. Il periodo postmoderno, dai
più considerato chiuso, si frappone come una cesura irrimediabile che
rende impossibile considerare con ingenuità o fiducia concetti come
“verità storica” e “grande romanzo”. In ambito italiano, un effetto
indotto di questo è stata la relativa “inavvicinabilità letteraria” del
periodo della Resistenza, se non per storie più individuali e intimiste.
D’altro canto, l’ingresso della narrativa popolare nell’ambito della
letterarietà è osteggiato ormai solo da pochi nostalgici, anche grazie
agli strumenti di lettura della cultura popolare (e pop) messi a punto
in decenni di analisi e destrutturazione. Ciò permette l’emersione di
un fatto, a lungo ignorato, che oggi appare di assoluta evidenza,
ovvero che il periodo dell’occupazione tedesca e della Resistenza è
stato, ferma restando tutta la sua tragica portata, un periodo di grandi avventure: dunque, senza ambire a realizzare quella sintesi mancata anche dai grandi, crediamo che sia possibile almeno fare buon
74
uso del “potenziale avventuroso” del periodo, e che la molteplicità
dei punti di vista intrinseca alla scrittura collettiva possa aiutare a
inquadrare il periodo con “gli occhi della memoria”.
Parliamo del “cast”. Quanti sono i “SIc writers” (possiamo
chiamarli così?) coinvolti nel GRAS? come sono state distribuite le funzioni e i compiti nell’arco temporale?
I partecipanti al progetto sono circa 114. Diciamo “circa” perché allo
stato attuale non sono conteggiati alcuni revisori. Per ruoli, si dividono così: 2 direttori di produzione, 8 direttori artistici, 71 scrittori, 26
revisori, 14 traduttori (per i dialoghi in dialetto), 42 “aneddotisti” (cioè
partecipanti che hanno inviato aneddoti per la costruzione del soggetto). La somma non è 112 perché molti hanno avuto più ruoli. Non
hanno certo lavorato tutti a tempo pieno, perché i lavori sono stati dilazionati al ritmo di un calendario in cui ognuno poteva scegliere piuttosto liberamente la quantità e l’intensità del lavoro che intendeva
svolgere, ma siccome sono state prodotte quasi mille schede individuali (i mattoncini del Lego di un’opera SIC), possiamo affermare non
c’è stato giorno, negli anni di lavorazione, in cui qualcuno, da qualche
parte, non abbia messo mano a In territorio nemico.
come si fa a gestire più di cento scrittori?
Gli scrittori (per non parlare delle scrittrici) sono ingestibili. Scappano
da tutte le parti. Sono lunatici, egotici, ondivaghi, testardi, presuntuosi, confusi, ritardatari e inscrutabili. Oppure no. Infatti no. Tutto falso.
Tutti pregiudizi modellati sullo stereotipo facilone dello “scrittore artista”. Quelli con cui noi abbiamo lavorato per scrivere In territorio
nemico hanno dimostrato negli anni umiltà, dedizione e spirito di
sacrificio. Da parte nostra, abbiamo dovuto solo cercare di dare il buon
esempio, rispettando noi per primi le scadenze, valorizzando il lavoro
di tutti e mandando e-mail di consegne alle 5:45 del mattino. Fanno
un’impressione straordinaria: chi le legge la mattina alle 7:30 mentre
fa colazione tende a pensarci su fino alla pausa pranzo, e darti perciò
molto credito. Così la motivazione resta alta. La cura della motivazione è l’aspetto gestionale più importante.
A livello tecnico, sono stati necessari alcuni accorgimenti: i cinque
racconti scritti fino a quel momento con il metodo SIC avevano infatti avuto una media di 7-8 autori. Dopo aver valutato e scartato molte
75
ipotesi, come il ricorso a sottogruppi che lavorassero con un wiki,
abbiamo deciso di organizzare il lavoro attraverso un sistema di prenotazioni: ogni scheda del Grande Romanzo SIC ha avuto da 4 a 10
posti disponibili a seconda dell’importanza, con gli scrittori invitati
a prenotare, in ogni fase, un numero minimo e un numero massimo
di schede, in modo da avere una distribuzione ottimale del carico di
lavoro. Abbiamo quindi preparato un calendario delle consegne per
scaglionare il lavoro di composizione dei Direttori Artistici. Ogni
settimana rendevamo aperte alla prenotazione alcune schede; nel
frattempo ricevevamo dagli scrittori le individuali scritte la settimana precedente e le passavamo ai DA per la composizione. Una volta
composte, le schede definitive venivano inviate in mail a tutti gli
scrittori e pubblicate sul sito, in un archivio sempre accessibile agli
autori. L’organizzazione del lavoro è stata rigorosa ma lineare:
abbiamo scelto di usare come strumento principe la e-mail, il più
“primordiale” degli strumenti web, sia per una questione di accessibilità al progetto che per semplicità di archiviazione e gestione dei
materiali. Con questa catena di prenotazione, scrittura e composizione, in media ogni settimana sono state prodotte 4 schede definitive.
c’è stato un momento in cui avete pensato di non farcela a controllare un progetto così grande?
Non era un pensiero che potevamo permetterci. Il pensiero era continuamente in agguato, ma lo combattevamo con tutte le nostre forze,
perché un fallimento, dopo aver messo in moto una macchina così
enorme, sarebbe stato inaccettabile.
Dall’altro lato è pur vero che ci ha sostenuto la consapevolezza di aver
cominciato l’impresa ben preparati: la stesura del “grande romanzo” è
cominciata nel 2009, quando la SIC aveva già alle spalle due anni di
storia, nei quali avevamo scritto otto racconti, organizzato due
workshop di scrittura collettiva “live”, effettuato lezioni in varie università e anche abbozzato un primo romanzo, poi abortito. Insomma,
anche se andavamo verso l’ignoto, ci andavamo ben rodati.
che tipo di “taglio” è stato deciso/condiviso per trattare un episodio della storia italiana ancora oggi argomento di discussione
in termini di valutazioni, analisi critiche, revisionismi, e quant’altro?
76
Quale sarà il “taglio” finale di In territorio nemico lo potranno
dire solo i lettori, dal momento che questo romanzo è il frutto di
così tante variabili. Sicuramente in fase di progettazione avevamo
ben chiara una cosa: i lavori relativi al periodo della Resistenza
soffrivano di un eccesso di “ecumenismo”, dovuto alla (legittima)
necessità di difenderlo dagli attacchi dei revisionisti. Il nostro
obiettivo sarebbe allora dovuto essere quello di recuperare la portata narrativa di questo periodo. Basta pensarci in altri termini:
scontri a fuoco, conflitto ideologico, partiti clandestini, giovani
che fuggono in montagna, alleati che diventano occupanti, nemici
che diventano alleati, agguati, bombardamenti, fughe, rastrellamenti, missioni suicide...
Come accennavamo poco sopra, quello dell’occupazione tedesca in
Italia è stato un periodo drammatico ma anche un periodo di grandi
avventure, nel senso più narrativo del termine.
Tiriamo fuori un po’ di numeri; quante le schede e le pagine
complessivamente prodotte, le operazioni di revisione e di editing?
Considerando anche le schede aggiuntive che è stato necessario far
scrivere e comporre a integrazione dell’editing, siamo a circa 4000
pagine complessive di testo per 924 schede individuali (più 200 pagine di aneddoti e documenti originali), 6 versioni del soggetto, 24
schede personaggio definitive, 35 schede luogo definitive, 18 schede
trattamento definitive, 95 schede stesura definitive, 9 schedoni revisione e 5 ritiri di revisione.
Avete mai riscontrato un qualche episodio di “frustrazione” o
di disappunto da parte di scrittori che hanno visto escluse
dalle schede definitive intere parti del loro testo, che magari
consideravano valide?
No mai. Neanche all’epoca dei racconti SIC. Questo ci rende felici,
soprattutto perché significa che il metodo funziona. Del resto il fatto
che il DA non possa scrivere, ma solo scegliere, e che la composizione avvenga anonimamente - ovvero senza sapere chi ha scritto la
77
tal scheda individuale - è una bella garanzia di imparzialità, e del
fatto che i DA agiscano soltanto - o almeno provino ad agire - secondo un parametro qualitativo.
dal punto di vista qualitativo avete riscontrato, nei circa due
anni di lavoro, una crescita da parte degli autori o i dA hanno
dovuto faticare più del dovuto?
Sicuramente c’è stata crescita, specialmente da parte di quegli autori che erano su un livello più dilettantesco, da scrittori occasionali, e
ai quali dunque due anni di disciplina letteraria hanno giovato molto.
La fatica dei DA, comunque, rimane sempre alta, anzi, se per una
data scheda da comporre arrivano schede individuali tutte buone, il
lavoro del DA è anche maggiore in quanto ha meno cose che può cassare subito.
In territorio nemico verrà stampato? da chi e quando?
Sì, verrà pubblicato nella primavera del 2013 da minimum fax
Riguardo all’e-book, cosa ne pensate? Rappresenta il futuro
certo dell’editoria o la carta stampata continuerà a sopravvivere? Al Salone del libro di Torino, Sepulveda ha espresso un’opinione molto chiara a tal proposito.
Si affiancherà alla carta e crescerà molto, specialmente in settori
quali la manualistica e i testi scolastici, ma non soppianterà completamente il libro, che rimane comunque, per struttura ed efficacia,
un'ottima tecnologia. Sicuramente l’e-book di In territorio nemico
sarà un bel prodotto, perché potrà includere le schede, le note di
lavorazione e magari anche i lavori teorici elaborati intorno al
romanzo.
Un’ultima domanda; esistono esempi noti su scala mondiale di
romanzi scritti a duecento e più mani?
Possiamo affermare con discreta certezza che In territorio nemico
è il romanzo col maggior numero di autori mai pubblicato.
78
La mia avventura a San Vittore
Alessandro D’Avenia
Sono stato in prigione. In prigione ho conosciuto la libertà. Non
è l’inizio di un racconto, ma solo un pezzo di bruciante verità.
Sono stato invitato a incontrare i giovani detenuti del carcere di
San Vittore di Milano, quelli confinati nel Primo Raggio (Reparto
penale giovaniadulti). Le volontarie (Ilaria, che mi aveva cercato e
inseguito per un po’, e Daniela, del Gruppo Carcere Cuminetti), in
collaborazione con le educatrici dei ragazzi, avevano organizzato
un ciclo di incontri con scrittori.
Quando mi sono presentato davanti al carcere avevo paura.
Cosa avrei mai potuto dire a un gruppo di ragazzi tra i 18 e i 25,
condannati per reati di ogni tipo? Che cosa avevamo in comune
loro ed io? E poi magari erano anche pericolosi… Ad aumentare la
mia paura e il mio senso di inadeguatezza porte automatiche e ferrate si sono aperte troppo lentamente davanti a me. Dopo, i controlli: non puoi portare nulla dentro, neanche il cellulare. Avevo in
tasca un’aspirina dimenticata nel blister e mi hanno fatto lasciare
anche quella. Solo libri.
Potevo portare solo me e la mia anima là dentro. E magari qualche libro che volevo regalare ai ragazzi (sempre d’anima si tratta).
Superata l’occhiuta sequela di controlli e permessi, mi sono
ritrovato al centro del carcere, nell’atrio dal quale si dipartivano
tutti i raggi, una specie di ruota del destino, con opzioni tutte cieche. Era una stanza circolare dalla volta a cupola alta e screpolata,
per metà di un colore che un tempo doveva essere più luminoso e
marezzata di umidità. Al centro un altare con un crocifisso, per la
celebrazione della Messa domenicale. Su un lato, in una nicchia, la
statua di una Madonna o di un Cristo, non ricordo, dalla superficie
screpolata tanto da sembrar lebbrosa. La luce attutita entrava nei
corridoi di sbieco, quasi a forza, attraverso alti portoni di sbarre
che immettevano in ogni raggio. Tutti erano rintanati nelle loro
celle. Pochi metri quadrati per sei o otto persone. Solo i detenuti
tossicodipendenti possono stare in corridoio oltre l’ora d’aria. Per
il resto solo quelle quattro mura troppo strette anche per un riparo
di animali in campagna.
79
In quel momento ho capito. Non sappiamo di avere qualcosa finché non la perdiamo o finché non vediamo qualcuno che l’ha persa.
Mi era già capitato leggendo libri e facendo assistenza agli handicappati o ai senzatetto: avevo imparato che non posso dare per scontato di avere una mente che funziona, un corpo che si muove, mani
che scrivono… avevo imparato che non posso dare per scontato di
avere una casa e una cena tutte le sere. Ma una cosa non avevo mai
saputo di averla - non l’ho mai persa o non ho mai visto nessuno che
l’aveva persa a quel modo - perché è talmente incollata a me che non
la vedo mai, neanche allo specchio. La libertà.
In carcere ho saputo di essere libero. Ho saputo che io posso scegliere se alzarmi o no la mattina, posso scegliere se uscire o no, e
dove andare. Dove andare. Ho sentito la collocazione esatta della
libertà nel mio corpo. Si trova all’altezza del diaframma e si alza e
abbassa, assecondando o determinando il movimento respiratorio,
come sa chi deve fare una scelta da cui dipende la propria felicità e
trattiene il respiro o lo sputa fuori.
Poi però la paura mi ha abbandonato. Di che cosa potevo mai
avere paura? Io avevo tutto, anche se avevo dovuto lasciare tutto nell’armadietto di ferro. Io mi portavo tutto con me, dentro di me. Quel
tutto era la mia libertà.
Così sono entrato nel Primo Raggio e mi hanno accompagnato
nella “nuova” stanza-biblioteca con i libri accatastati e in via di catalogazione. Una stanza di pochi metri quadri con scaffali in ferro e
una ventina di ragazzi seduti o in piedi ad aspettarmi. Abbiamo parlato di loro e di me, delle loro vite e della mia. Forse loro avevano
più paura di me, temevano che io li giudicassi. Ma mentre parlavo e
li fissavo negli occhi qualcosa lentamente si è sciolto: il nodo della
paura o del giudizio. Non avevo niente di più di loro, non ero migliore di loro, i corpi che avevo di fronte potevano essere il mio, magari
con qualche tatuaggio in meno.
Mentre parlavo, Omar, occhi azzurri e da bambino, si è commosso. Qualcosa dentro di lui si liberava, così come stava accadendo a
me. Non era la superficiale emozione del momento, né una troppo
rapida e ingiustificata reazione pietistica. Era l’incontro di due storie
al crocevia delle loro scelte e del caso.
Omar alla fine dell’incontro ha chiesto alla sua educatrice di
incontrarmi a tu per tu per raccontarmi la sua storia. Non l’ha mai
fatto prima, se non per confessare davanti ai giudici. Così qualche
giorno dopo sono tornato in carcere per parlare solo con lui. Mi ha
80
raccontato la sua terribile e tortuosa vicenda. Quello stesso giorno
hanno inaugurato la biblioteca del Primo Raggio, che Omar, insieme
a Vito (detenuto nello stesso raggio anche se più anziano, e con il
volto di un padre che aiuta suo figlio a crescere), hanno costituito
catalogando più di 3000 volumi, frutto di raccolte e donazioni. Omar
mi ha raccontato che dopo un anno di carcere era disperato. La noia,
la rabbia, l’odio lo divoravano. Così ha afferrato un libro, anzi un
altro detenuto gliel’ha prestato. Da lì è cominciato tutto: “Leggendo
quelle pagine dimenticavo di avere intorno altre sette persone e
magari la televisione accesa in pochi metri quadrati. Leggendo quel
libro a poco a poco mi impadronivo nuovamente dei miei pensieri e
ritornavo in me. Che vita è questa?”. I libri ti ricordano cosa ti
manca o hai perso.
Da quel momento Omar non ha più smesso di leggere e ha coinvolto altri nella sua folle avventura di aprire la biblioteca del Primo
Raggio, inaugurata con un discorso pronunciato da Cristian, un altro
dei ragazzi detenuti e amico di Omar. Erano presenti tutti i detenuti
del raggio, di nazionalità diverse, ma tutti eleganti per l’occasione.
A seguire c’è stato il buffet, interamente preparato da quelli di loro
che in cella sono diventati anche ottimi cuochi.
Omar mi ha scritto una lettera a mano ed è iniziata una corrispondenza. Mi ha raccontato che i suoi libri preferiti sono quelli
della saga di re Artù. Odia Lancillotto per la sua mancanza di lealtà.
Ama Re Artù perché è un re rispettato da tutti, e non perché temuto,
ma perché amato dal popolo che lui ama. Omar ha sempre cercato il
rispetto nella violenza, nei soldi e nel potere, ma poi ha perso tutti
gli amici che stavano con lui per pura convenienza e ha capito che il
rispetto è un’altra cosa, passa più che dal dominare e controllare,
dall’amare e dal darsi. E così hanno sempre fatto sua nonna che lo
ha cresciuto e sua sorella con lui: le uniche che sono andate a trovarlo in prigione. E infatti Omar ama anche il personaggio di
Galaad, colui che va alla ricerca del santo Graal, perché è coraggioso, puro e innocente. Omar lo ama perché vorrebbe essere come lui.
E non dimenticherò mai quando mi ha detto, con gli occhi di un
bambino sincero, scoperto con il dito nel barattolo di marmellata:
“Io lo so di non essere cattivo”.
Lo dimostrano quei tremila libri con la loro fascetta e il catalogo
ben ordinato per autore e genere, con in copertina l’immagine realizzata da uno dei detenuti: due mani le cui manette si spezzano grazie ad un libro e sotto la scritta “Vuoi evadere? Leggi un libro…”.
81
Garzia Giurato, Ancora ci credo,
editrice La tecnica della scuola, catania 2012
Maria Laura Inzirillo
La mia storia, le mie esperienze, spero possano
essere un contributo per una riflessione più attenta e più approfondita. Per capire anche che i diritti delle donne, oggi dati per
scontati, sono il risultato di
lotte e di impegni di donne
di diverse generazioni e si
possono anche perdere.
Sincerità, entusiasmo,
passione, rigore, tenacia...
Questo e molto di più trasmette Grazia Giurato nel
suo raccontare autobiografico. Un vissuto che non si
esaurisce nel ricordo del
passato ma che alimenta e
rinnova l’entusiasmo nel e
per il presente sempre
ricco di impegno, iniziativa, inesausta forza e audacia. Da qui il titolo Ancora
ci credo: chi ha i valori
impressi nel DNA non è
capace di tirarsi indietro,
non si arrende mai, continua a combattere nonostante amarezze e delusioni.
83
E quella curiosità che spinge a leggere un libro, sfogliato per caso,
si trasforma a poco a poco in coinvolgimento emotivo, poi intellettuale, spirituale: è un’amica che si confida perché ha fiducia in chi è
capace di ascoltare e di comprendere le ragioni di certe scelte. E allora istintivamente ti chiedi: cosa mi unisce a questa donna? Niente in
particolare ma hai la sensazione di conoscerla da sempre. Impari a
stimarla per quello che è stata e per quello che è, ne apprezzi il coraggio nell’affrontare le difficili prove che la vita le ha riservato e ne
condividi sentimenti e passione.
Una storia di “gente comune”, ma con una protagonista d’eccezione, “nata femmina e diventata Donna” attraverso esperienze e scelte
esistenziali che si snodano dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso fino ai giorni nostri.
Catanese doc, nasce in “una casa grande per una famiglia numerosa”: mamma Angela, papà Placido, la sorella Anna, due sorelle “signorine” della mamma, lo zio Ciuzzu con moglie e figli, i nonni materni.
Il ricordo del padre, “compositore” di lettere in una tipografia, è custodito nella memoria sbiadita di una presenza troppo breve: disperso in
guerra, nella campagna di Russia, quando lei aveva solo cinque anni.
Il capofamiglia diventa lo zio Ciuzzu, bigliettaio dei bus della Sita, che
provvede alle necessità della famiglia sfollata a Nicolosi sino all’arrivo degli americani nel ’43. La mamma, una “bella donna con un bel
portamento”, fa la sarta, le due zie la aiutano e si occupano dei lavori
domestici, la nonna della spesa, per lei occasione di svago e di libertà
“controllata”.
Un’infanzia felice, poi tragicamente sconvolta e resa ancora più difficile dal carattere duro e distaccato della madre che non si rassegnerà
mai alla perdita del marito mantenendo il lutto per tutta la vita.
Tanto basta per farla diventare un’adolescente forte e volitiva,
intransigente, responsabile e con un forte senso del dovere da rispettare e far rispettare. A scuola, il “Turrisi Colonna”, è un’alunna seria e
coscienziosa: la sua aspirazione è fare la maestra ma poi ripiega sul
lavoro in banca. Siamo nel 1956, è la prima donna impiegata alla Cassa
di risparmio, un ambiente di soli maschi che si credono uomini perché
abituati a comandare in famiglia e trattano con diffidenza una ragazza
che ha la pretesa di rendersi indipendente. Ma incontra anche funzionari sensibili che l’aiutano a rompere il ghiaccio.
È un’esperienza positiva che le apre nuovi orizzonti sul mondo e
la fa misurare con un’umanità dalle molteplici sfaccettature. Il confronto con gli altri man mano si arricchisce con gli interessi che
84
impara ad assecondare sorretta da una fede cristiana prima esercitata
per spirito di obbedienza e poi coltivata e rinvigorita con l’impegno
pratico a favore delle più deboli, le donne.
La giovane dai grandi ideali di giustizia, di solidarietà, di eguaglianza, nel senso nobile del termine, che sin dall’adolescenza amava
conoscere e si accontentava di leggere, poichè non aveva altro, i fogli
di giornale che avvolgevano la spesa, divenuta adulta - si sposa con
Turi un medico, ha tre figli maschi - , impara ad affrontare e a superare le avversità con la forza e la passione tutta femminile e al femminile. Ed allora l’impegno nell’UDI, la militanza politica, le iniziative di
volontariato... diventano occasione per realizzare obiettivi cristianamente illuminati e quindi non condizionati da vincoli dottrinali e ideologici pregiudiziali.
Canta picciotta
Canta, picciotta Siciliana!
Iù ti misi l'ali:
ti libirai di lu sciallu niuru
pp’ ammustrari a tutti
st’ostia di suli
chi teni ’nta lu pettu.
La mpronta di li me’ pedi
scavau na fossa funna,
e aspetta chi tu la simini.
Abbudda la manu, picciotta!
Lu saccu è chinu,
li supirchiarii addivintaru
simenza nova,
ammustrici comi si cria la primavera!
Occhiu vivu picciotta!
Rriòrditi chi sutta ogni petra chi movi,
c'è un tràntulu d’omu chi mori,
abituatu ad arrivari primu
’nta la ’ntinna di la cuccagna.
Sempri svigghia picciotta!
Tèniti stritta li chiavi
di st’ebbica nova,
e scrivi la nostra storia!
Ida Giulia La Rosa
85
La letteratura tra emozione e bellezza
Cavalleria rusticana dalla novella al musical
Protagoniste, le donne
Leggere fa crescere
La letteratura tra emozione e bellezza
Sintesi di un convegno
Francesco Diego Tosto
In seguito alla pubblicazione dei tre volumi della collana La
letteratura e il sacro di Francesco Diego Tosto, editi dalla casa
editrice ESI di Napoli, 2009-2011, si è svolto presso l’Aula
Magna del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Catania, in data 12-13
aprile, il convegno dal titolo: Un percorso didattico come via
all’emozione e alla bellezza.
La Dirigente dell’Istituto, prof. Gabriella Chisari, promotrice
della due giorni, ha aperto la manifestazione, esprimendo soddisfazione per il coinvolgimento dei maggiori Licei di Catania e provincia intorno ad un tema di grande importanza culturale: l’insegnamento della letteratura nelle scuole. Sono inoltre intervenuti il dott.
Raffaele Zanoli, Dirigente U.S.P. di Catania, che ha dichiarato la propria ammirazione per la proficua iniziativa, il prof. don Leone
Calambrogio, che nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San
Luca” della stessa città, già da molti anni, ha istituito una cattedra di
“Letteratura religiosa” e il dott. Razza, vicepresidente della
Provincia, che insieme all’Istituto “San Luca” ha sostenuto il finanziamento della pubblicazione.
89
Coordinati dal sottoscritto, si sono succeduti vari interventi di
docenti e allievi, che hanno esaminato il panorama letterario religioso italiano dell’Otto-Novecento, a
partire da Foscolo e Leopardi fino
a giungere a Pasolini e ad
Umberto Eco. L’ultima sezione
del Convegno è stata dedicata agli
scrittori siciliani, come si dirà in
seguito. Tutti i partecipanti si sono
ritrovati concordi su alcuni principi essenziali, così sintetizzabili:
l’intimo nesso tra letteratura e sacro tende a liberare le opere di
scrittori e poeti dagli storicismi forzati e dai soffocanti contesti per
restituirle al loro compito primario, che si traduce in una ricerca di
senso e nella verifica delle ragioni spirituali dell’esistenza. La letteratura indaga l’oltre, ai confini tra realtà e mistero, valorizza il
peso della coscienza e dell’antropologia sulla storia, ritrovando
credenti e non credenti nella comune condivisione dello stupore,
della domanda e del riconoscimento della bellezza.
Il Convegno ha privilegiato un itinerario poetico, cercando di
mettere in risalto il valore della poesia nella sua funzione temporale
ed universale, civile e “religiosa”. Partendo dalla religiosità di
Foscolo (E. Di Natali, Le Grazie) e Leopardi (S. Borzì, Alla ricerca
90
del Dio nascosto) fino a
giungere a D’Annunzio (F.
Tringali, L’illusione dell’infinito), a Quasimodo (A. M.
Manenti, Fede e angoscia
esistenziale) e a Pasolini (A.
Sciacca, La nostalgia del
corpo), gli studiosi hanno
cercato di dimostrare come
la poesia, per la sua natura
questionante, cerca di sondare l’inviolabile, alle origini del sacro, abitando nella possibilità e
offrendo all’uomo un varco che possa condurre alla salvezza.
In questa direzione, alle cure di alcuni brillanti studenti sono stati
affidati scrittori e poeti di grande rilievo come Manzoni (T.
Caudullo e G. Colombrita Liceo “Galilei”), Pascoli (M.
Saitta - Liceo “Gulli e Pennisi”,
Acireale), Gozzano e Corazzini
(A. Scuderi e S. Balbo - Liceo
“Turrisi Colonna”), Ungaretti,
Montale, Saba, Luzi (S. Gulisano e A. Greco, Licei “Gulli e
Pennisi” e “M. Cutelli”).
La stessa ombra dell’infinito
in Carducci -come messo in
risalto dal coordinatore- o l’escatologia popolare presente nei versi
di Belli, e ancora l’inquieta ironia futurista (M. Roccasalva, Ironia
e “aeropoesia” in Marinetti) o la percezione del malessere esistenziale presente nei versi di Rebora, sono tutte testimonianze dell’impegno del poeta verso i temi radicali anche in tempi di erosione
delle certezze relazionali. Un itinerario, quindi, che si propone tra
scandalo e profezia, tra timore e speranza, tra inquietudine e pace,
come percorso dialettico verso un nuovo umanesimo, un nuovo
desiderio, una visione antropologica di una letteratura che rincorra
il senso della vita e trovi pace nella ricerca.
Tale orientamento del convegno ha coinvolto anche gli scrittori
in prosa, tra i quali meritano una segnalazione: Verga (A. Di
Silvestro, Linguaggi e figure del sacro), Pirandello (S. Piscione,
91
Religiosità e cristianesimo), Calvino (G. Orlando, Lo sgomento di
vivere e la ricerca di una via di uscita), Svevo (G. La Ferrera, e G.
Accetta, studenti del Liceo “Spedalieri”). Uno spazio rilevante è
stato riservato agli autori siciliani, protagonisti di un pensiero fondante nel panorama letterario italiano: De Roberto (G. Orlando,
Dalla beata Ximena a don Blasco), Tomasi di Lampedusa (A.
Barilla, studente del Liceo “Lombardo Radice”), Bufalino (E.
Piscione, Tra negazione e ricerca di Dio), Camilleri e Fava (B.
Nedu e L. Ranno, studenti del Liceo “Principe Umberto”). E ancora, durante la tavola rotonda, in conclusione della due giorni, molto
apprezzati sono stati gli interventi dei seguenti docenti: A. Bertino
(Liceo “Lombardo Radice”) su Brancati, S. Marino (Liceo
“Galilei”) su Bonaviri, C. Zisa e T. Bellofiore (Liceo “Turrisi
Colonna”) su Ungaretti e D’Annunzio, C. Emmi (Liceo “Capizzi” di
Bronte) su Sereni, G. Palazzolo (Liceo “San Giuseppe”) su Eco.
Oltre ai nomi suddetti, vanno segnalati, come referenti dei propri
Istituti, i professori: A. Mannino e G. Peligra (Liceo “Cutelli”), C.
Napoli e N. Palumbo (Liceo “Spedalieri”), M. G. La Spina (Liceo
“Galilei”), M. Di Guardo e M. Liberti (Liceo “Principe Umberto”),
D. Grassi (“Boggio Lera”), G. Ferlito, I.T.I. “Cannizzaro”).
92
L’interessata e proficua partecipazione al Convegno dà valore
al ruolo della letteratura come atto di intelligenza e di amore, che
si oppone all’oblio del sacro e si impone come anelito verso la
speranza di reinventare e dare un senso alla vita umana. Il
Convegno ha in tal modo inteso restituire al sapere umanistico
quella centralità che prima deteneva, di certo non meno decisiva
di quella scientifica. Se le “umane lettere” sembrano al giorno
d’oggi assopite, di contro esistono tanti uomini ancora disposti a
scommettere su una nuova stagione letteraria e poetica, fedele
all’illustre passato e persuasa di poter sempre infondere all’umanità un respiro generoso e vitale.
93
Leggere fa crescere
Maria Laura Inzirillo
“Il piacere della lettura”, iniziativa già consolidata, anche in quest’ultima edizione non ha deluso le aspettative. Quattro incontri tutti
da raccontare, poliedrici, ricchi di spunti per la riflessione immediata,
densi di ricordi per la memoria culturale. Eneide, Alienor, La «particella di Dio» e l’origine della massa, Verga, diversi nel genere, ma
tutti palpitanti di quella vitalità che solo la carta stampata possiede.
Condividere la lettura di opere non è mai fine a se stessa e rappresenta sempre e comunque un valore aggiunto da coltivare con
l’entusiasmo giovanile che anche i prof, più o meno giovani, sanno
manifestare e trasmettere con quel “pizzico” di esperienza consolidata che li rende interlocutori credibili e affascinanti, almeno così mi
piace sperare. Tra i nostri spettatori privilegiati, cioè gli studenti, c’è,
infatti, una buona percentuale in grado di apprezzare e gradire la presentazione di un libro, lo suggeriscono gli sguardi, l’attenzione, il
capo chino per prendere appunti.
Dunque gli studenti ascoltano. Certo qualcuno è sonnacchioso o
distratto da altro..., ma la maggior parte ha letto o è informata sull’argomento affrontato, alcuni suonano, recitano passi, intervengono con
disinvoltura e pertinenza e sollecitano risposte chiare e convincenti.
95
Andiamo ai dettagli.
L’adesione del nostro Liceo a “Il Maggio dei libri” si è inaugurata in collaborazione con le Biblioteche Riunite nelle splendide sale
della Ursino Recupero con un incontro dal titolo Enea e Didone tra
passione e dovere. Per avvicinare i giovani alla riscoperta dei classici le ideatrici, prof. Gloriana Orlando e dott. Rita Carbonaro hanno
coinvolto alcuni alunni del “Galilei” nella lettura di passi scelti dal
IV libro dell’Eneide di Virgilio con l’accompagnamento delle chitarre di Giulia Andriolo e Pietro Campolo. Gloriana Orlando, dopo una
breve introduzione dedicata alla differenza tra la metrica italiana e
quella latina, ha letto dei versi per far cogliere dal vivo le sonorità
dell’esametro dattilico. Quindi ha lasciato la parola agli studenti
Olga Basile, Santi Famà, Elisa Pappalardo, Maria Chiara Pappalardo,
Gianmarco Salemi, Carlo Trovato, che hanno dato voce all’infelice
vicenda dei due epici amanti coinvolgendo gli entusiasti coetanei
presenti in sala e facendosi apprezzare anche dal pubblico di adulti.
Un applaudito spettacolo di danze su coreografie della prof.
Antonella Nicosia, ha concluso la particolarità dell’evento.
Gli incontri con gli autori, sono stati organizzati in Aula magna e
destinati ad intere classi accompagnate dai loro docenti di materie
affini all’argomento trattato.
Ha esordito Gloriana Orlando con Alienor, romanzo storico
ambientato nell’età di Federico II, nel quale si snoda una vicenda di
96
amore, intrighi, odio e gelosie
che vedono protagoniste una
dama medievale e una studiosa di letteratura dei nostri
tempi, quasi a voler rivisitare
il passato con le aspettative del
presente nel quale si rivivono
emozioni, speranze, timori
senza tempo. L’autrice ha
coinvolto gli ascoltatori, invitati ad interagire esprimendo
spontaneamente le loro opinioni, intercalando sapientemente opportune delucidazioni con
proiezioni di immagini dei luoghi della storia, in questo caso il
Castello Ursino e le sale delle Biblioteche Riunite.
Un esempio significativo di come sia possibile intrattenersi “piacevolmente” senza distinzione di ruoli ma tutti coprotagonisti.
97
L’appuntamento dedicato a La «particella di Dio» e l’origine della massa,
saggio scientifico del prof. Paolo
Castorina docente di Fisica teorica presso l’Università di Catania, ha riservato
piacevoli sorprese per l’attenzione che
l’autore è riuscito a catalizzare intorno
ad un argomento di grande attualità ma
complesso, enigmatico e non pienamente condiviso. Prima del Big Bang
tutte le particelle sono a massa zero e
si muovono alla velocità della luce.
Dopo l’esplosione creativa l’Universo
inizia a raffreddarsi e le “particelle di
Dio” interagiscono con se stesse e con
le altre particelle generando la loro
massa e quella delle altre mediante il
processo di rottura spontanea della
simmetria di Gange. In tal modo il mondo ha incominciato a prendere forma.
Per i ragazzi, ma anche per i docenti presenti, è stata una preziosa opportunità in più per apprendere, resa affascinante dall’eloquio
del relatore, chiaro, puntuale ed esauriente.
98
Buon ultimo il prof. Andrea
Manganaro, docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Catania, il
quale ha presentato il suo saggio letterario Verga, che propone una interpretazione ad un pubblico di studenti e
docenti di Lettere, con il garbo e il
taglio critico del professionista serio e
con la passione dello studioso entusiasta delle sue ricerche e attento ad evitare interpretazioni stereotipate che
ingessano gli autori condannandoli a
comprensioni spesso fuorvianti e
riduttive. Il tutto impreziosito da un
caloroso benvenuto da parte del
Dirigente scolastico prof. Gabriella Chisari, da una introduzione
della prof. Gloriana Orlando sulla poetica di Verga con proiezione di
un Power Point, da stacchi musicali al pianoforte di Ilario Gerloni e
brani tratti da novelle e romanzi verghiani letti da alcuni studenti.
99
BUIO NELL’ANIMA
DARKNESS IN MY SOUL
Raccoglierò le schegge del cuore
le porterò con me nell’ultimo viaggio
Vano è il dolore senza il coraggio
di accettare che ho perso te
Bella e crudele io muoio dentro
ma tu non hai pietà di questo mio pianto
I’ll gather up all the pieces of my heart
And carry them with me when I depart
Despair is in vain without the courage
To accept that I have lost you
Beautiful yet cruel, inside I die
You have no mercy for me when I cry.
Ridammi l’amore che arde e consuma
ridammi i tuoi baci sotto la luna
ridammi il mio cuore ferito e umiliato
i dolcisogni che abbiamo accarezzato
Promesse di amore eterno
volano via e mi lasci l’inferno
Give me back my love which burns so bright
And your kisses under the moonlight
Give me back my wounded shamed heart
And the sweet dreams we caressed
Promises of a love eternal
Vanish, leaving me in a world infernal.
Buio nell’anima
buio negli occhi in testa e nel cuore
nelle parole che non dirò mai
perché tu già lo sai
che farò già lo sai
ma non mi fermerai
non puoi
non vuoi
Darkness in my soul
Darkness in my eyes, my mind and my heart
In the words I’ll never tell you
You’ll already know
Where I’ll go
You can’t stop me
You can’t
You won’t.
Finisce qui questa storia d’amore
finisce qui questo viaggio del cuore
Parto senza ritorno
non vedrò l’alba di un nuovo giorno
Here our roads must part
Here ends this journey of my heart
I’m leaving never to return
I’ll never see the dawn of a new morn.
Buio nell’anima
dentro di me solo vuoto e dolore
ma tu che mi uccidi mi rimpiangerai
capirai troppo tardi il tuo errore
negli occhi di un altro non troverai
l’amore che brucia nei miei
Darkness in my soul
only emptiness and pain inside
you will regret my untimely demise
it will be too late when you realize
you’ll never find a love like mine
burning in the eyes of another.
Nel buio porterò quest’ultimo sogno
Ti aspetterò sfidando l’eterno
e nell’ oscurità brillerà una luce
mi chiamerai sentirò la tua voce
ti rivedrò ed allora avrò pace
amore mio
forse non è un addio
In the darkness I’ll carry my last dream
Daring eternity I’ll be waiting
In the obscurity a light will shine
Calling out to me your voice so divine.
I’ll see you again and peace will be mine
Maybe my love
This is not farewell.
Traduzione di Caterina Carbone
Cavalleria rusticana dalla novella al music
a
l
Francesco Tringali
Il Laboratorio multidisciplinare è nato quasi per caso, due anni fa.
Il nostro liceo intendeva aderire all’“Etnafest 2010”, ma non era
ancora stata definita la sezione del festival a cui partecipare; inoltre
nel POF d’istituto un “Progetto Lettura” attendeva che fosse selezionata l’opera da leggere. Avevo appena finito le Lettere d’amore nel
frigo di Luciano Ligabue: la scoperta del poeta che si celava dietro il
cantante mi fece balenare l’idea di un musical in cui un breve testo
teatrale e una essenziale scenografia per immagini fungessero da
trait d’union tra le liriche e i brani musicali del rocker di Correggio.
Un unico laboratorio, due soli docenti (a collaborare con me, la prof.
Gabriella Falcidia), appena nove studenti; ma da parte di tutti un
grande entusiasmo, la voglia di mettersi in gioco in un’esperienza
nuova e coinvolgente, in cui la musica era la passione condivisa, il
denominatore comune, il fine e, al tempo stesso, lo strumento di un
percorso di riflessione sui valori della società contemporanea, che
vedeva i discenti non solo nel ruolo di fruitori, ma di protagonisti
dell’attività laboratoriale. E nella bella atmosfera del Coro di notte
del Monastero dei Benedettini attori, cantanti e musicisti seppero
101
emozionare e coinvolgere oltre cento spettatori.
L’appetito vien mangiando. L’anno scorso il progetto si è fatto più
complesso ed ambizioso: l’idea era quella di raccontare gli ultimi
quarant’anni di storia americana utilizzando come colonna sonora il
rock di Bruce Springsteen. Cinque laboratori (artistico-letterario,
musicale, storico, linguistico, di danza), ognuno con un docente
responsabile (rispettivamente io e i colleghi Nello Toscano, Maria
Laura Inzirillo, Cinzia Mascali e Antonella Nicosia); più di sessanta
ragazzi coinvolti; il teatro “Piscator” gremito nei suoi 250 posti e con
molti spettatori in piedi. Convinto l’applauso finale del pubblico, in
grado di apprezzare, al di là di qualche inevitabile imperfezione,
l’impegno profuso da insegnanti e alunni nel preparare uno spettacolo in cui alle canzoni (più numerose rispetto all’anno precedente e
tradotte in sovrimpressione), al testo teatrale (più ampio ed elaborato) e alla ricca scenografia per immagini (oltre 300 diapositive) si
aggiungevano coreografie originali. Ancora una volta i discenti sono
stati protagonisti del percorso didattico, motivati a partecipare alle
attività di laboratorio dalla consapevolezza che non si trattava solo di
imparare, ma di “fare”, di creare e rappresentare uno spettacolo che
fosse sintesi e confronto di esperienze diverse ed a cui ognuno di loro
sentiva di poter dare il proprio prezioso contributo, sulla base delle
proprie inclinazioni, capacità e competenze.
Ma veniamo a quest’anno.
L’asticella sale di nuovo. Stavolta ho
pensato di riscrivere un classico,
Cavalleria rusticana, già passato
attraverso generi diversi (novella e
dramma in Verga, opera lirica in
Mascagni) e da sottoporre all’ennesima metamorfosi, quella in moderno
musical. Il “laboratorio che non c’è”1
ha trovato finalmente una sua sede,
dotata di un minimo di attrezzature,
ed ha allargato ulteriormente il suo
raggio d’azione: confermati i docenti
e i laboratori dell’anno precedente,
con l’accorpamento di quello artistico
e di quello musicale, se ne aggiungono di nuovi (fotografico, delle
immagini, di recitazione, di scrittura creativa, affidati ai proff.
Salvatore Colletta, Fabio Manfrè, Patrizia Finocchiaro e Carmela
102
Motta) per un totale di otto, con la partecipazione di una novantina
di allievi. Ben 450 gli spettatori, nei due spettacoli tenuti il 17 maggio al “Piccolo Teatro”. Il buon livello qualitativo dello spettacolo,
sottolineato da quanti vi hanno assistito, è riflesso non solo delle abilità e dell’impegno dei protagonisti, ma anche dell’interazione continua da parte dei diversi laboratori, che hanno saputo fare gioco di
squadra, mettendo la propria specificità al servizio dell’obiettivo
c
o
m
u
n
e
.
La storia di Cavalleria
rusticana è sin troppo
nota, nel tragico triangolo
di passione e morte che ha
i suoi vertici in Alfio, Lola
e Turiddu, ma attrae in sé
anche
Santuzza.
Reinterpretarla è come
realizzare la cover di una
nota canzone: si rischia o
di rimanere troppo legati
all’originale, riproducendone una copia sbiadita e scontata, o di stravolgerla al punto da renderla irriconoscibile, “altra” rispetto alla fonte. Raccogliamo la sfida,
proponendoci di raccontare quello che Verga e Mascagni non hanno
detto, ovvero ciò che i protagonisti hanno davvero pensato e sentito
nella profondità delle loro menti e dei loro cuori; e tuttavia decidiamo di sottolineare sin dall’inizio il debito nei confronti del modello.
103
Partiamo perciò dall’epilogo, aprendo il musical con la scena
finale dell’opera.
Turiddu esanime tra le braccia di Santuzza disperata; Lola sconvolta dai sensi di colpa; Alfio immobile nella sua sdegnosa vendetta; il
coro popolare inorridito di fronte al dramma che si è consumato sulla
scena. Proiettate sullo sfondo, le fotografie dell’Etna in eruzione si
alternano all’iconografia d’autore del vulcano, legando a doppio filo i
fatti narrati e la terra che ne è stata testimone2. L’aria O Lola, ch’ai di
latti la cammisa, dal melodramma di Mascagni, ci trasporta con le sue
note e la coreografia delle ballerine di danza classica, all’origine della
vicenda, all’insanabile passione che lega indissolubilmente, al di là
della vita e della morte, Turiddu alla donna amata: “e s’iddu muoru e
vaju mparadisu/ si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu”3.
Dopo il prologo, la prima scena apre il lungo flash-back destinato
a ricostruire, nella nostra rielaborazione, tutto il corso degli eventi fino
alla catastrofe finale. Verga non ci dice nulla sul rapporto tra i due protagonisti prima della loro contesa: presumibilmente non si conoscevano, se Alfio è per Turiddu semplicemente “uno di Licodia”4, l’agiato
carrettiere che gli ha rubato Lola e al quale vorrebbe tirare una coltellata: a noi, invece, è piaciuto immaginarli legati da una stretta amici-
zia, frutto di un patto di sangue stretto nell’adolescenza a dispetto delle
differenze economiche e sociali.
A celebrare questo legame intervengono note e parole di una famosa canzone rock, Blood on blood dei Bon Jovi, eseguita, come tutte le
104
altre dello spettacolo, dagli allievi del laboratorio artistico-musicale: “I
can still remember/ when I was just a kid,/ when friends were friends
forever/ and what you said/ was what you did./ Well, it was me and
you, my friend/ we cut each other’s hands/ and held tight to a promise/
only brothers understand”5. E tuttavia, nelle parole di Alfio che chiudono la prima scena, si avverte che qualcosa, in questa amicizia, già
comincia ad incrinarsi e il ricco possidente si avvia a prendere le
distanze dal misero contadino. L’adolescenza cede il passo all’età
adulta e le barriere sociali ed economiche riprendono il sopravvento,
tanto più se ci si mette di mezzo una donna come Lola; quando
Turiddu le offre compagnia, suscita il laconico commento
dell’“amico”: “E solamente compagnia potresti farle! Non puoi permetterti altro, caro il mio fratello di sangue”6.
L’amore divampa nei
cuori di Lola e Turiddu, sulle
note di I was born to love you
dei Queen: “You are the one
for me/ I am the man for you./
You were made for me, /you’re my ecstasy./ If I was given
every opportunity/ I’d kill for
your love./ So take a chance
with me,/ let me romance
with you/ I’m caught in a
dream/ and my dream come
true./ It’s so hard to believe/
this is happening to me/ An
amazing feeling comin’
through”7. Ma viene il tempo
del congedo, della partenza
del giovane in cerca di fortuna. È l’occasione che Alfio
coglie al volo per tradire la
fiducia dell’amico e conquistare Lola, esercitando su di
lei il potente fascino della ricchezza: la roba è per Alfio, a differenza
di quanto avviene per Mazzarò e Gesualdo, non un fine ma un mezzo,
strumento di potere e di seduzione, che può consentirgli di ottenere
quello che vuole. Se il coro popolare cerca di indurlo a riflettere sulla
differenza che separa il possesso e l’acquisto di beni materiali dal con105
trollo esercitato su sentimenti e passioni, facendo propri i versi ed il
ritmo hip hop dei Two Fingerz di Cose che non puoi (“Non puoi comprare il tempo, puoi comprare un orologio/ puoi comprare un letto, ma
non puoi comprare il riposo/ puoi comprare la verità e vivere mentendo/ ma tornerà a galla e non puoi comprare il silenzio/ o meglio, puoi
comprare quello fuori ma non quello dentro/ l’incenso, non la tranquillità/ puoi comprare le lacrime, ma non il pentimento/ puoi comprare una donna, ma non l’amore che ti dà/ e tutto il resto è superficie
ed è lì che ti fermi/ ma gli organi vitali sono quelli interni/ e l’oro non
brilla quanto l’orgoglio negli occhi/ il valore reale non lo tocchi”),
Alfio si trincera dietro le sue certezze di uomo che ha giocato una partita, l’ha vinta e dunque, come cantano gli Abba, si impossessa dell’intera posta in palio senza alcuna pietà per chi soccombe: “I’ve played all my cards/ and that’s what you’ve done too/ nothing more to
say/ no more ace to play/ The winner takes it all/ the loser standing
small/ beside the victory/ that’s my destiny”(The winner takes it all)8.
Il ritorno a casa di Turiddu segna il punto di svolta nella vicenda:
le parole sarcastiche degli amici di un tempo lo feriscono e lo mettono
dinanzi alla dolorosa realtà, dissolvendo ogni residua illusione romantica, i sogni coltivati in tanti mesi di duro lavoro per raggranellare il
denaro sufficiente ad assicurargli un futuro accanto alla donna amata.
Too much love will kill you recita il titolo di una nota canzone dei
106
Queen; Turiddu ne apprende il profetico responso, che anticipa il tragico epilogo degli eventi: “Too much love will kill you/ just as sure as
none at all./ It’ll drain the power that’s in you,/ make you plead and
scream and crawl/ and the pain will make you crazy:/ you’re the victim of your crime./ Too much love will kill you every time./ Yes, too
much love will kill you,/ it’ll make your life a lie./ Yes, too much love
will kill you/ and you won’t understand why./ You ’d give your life,
you ’d sell your soul/ but here it comes again./ Too much love will kill
you/ in the end…/ in the end”9.
Disperato, Turiddu attende con ansia un confronto con colei che
ritiene ancora, aggrappandosi ad un filo di irragionevole speranza, la
sua donna; ma il colloquio con Lola dissipa ogni dubbio: la fanciulla
innamorata che aveva lasciato ad aspettarlo ha ceduto il posto ad una
material girl disposta a barattare il più profondo dei sentimenti con il
benessere garantito dalle ricchezze del consorte: “Va bene, smettiamola di fingere. Ho sposato Alfio, e allora? Cosa ti aspettavi? La fanciulla romantica che attende mesi e mesi il ritorno del principe azzurro?
Cosa potevi offrirmi tu? Una vita di stenti in una casa modesta! Ora io
faccio la signora e Alfio non mi fa mancare nulla”10. Riproposta con
una coreografia hip hop, la hit di Madonna finisce per riassumere il
senso della cinica metamorfosi di Lola: “Boys may come and boys
may go/ And that’s all right you see./ Experience has made me rich/
and now they’re after me,/ ’cause everybody’s/ living in a material
107
world/ And I am a material girl/ You know that we are living in a material world/ And I am a material girl”11.
Desideroso di ripagare Lola con la stessa moneta, Turiddu rivolge
le sue attenzioni a Santuzza, una fanciulla onesta e laboriosa, che ci è
piaciuto immaginare da tempo infatuata del giovane e speranzosa, una
volta accasatasi Lola, di poter coronare il suo amore. Pura ed ingenua,
Santuzza confida nella sincerità di Turiddu e si illude che possa condividere la profondità dei suoi sentimenti, espressi con la dolcezza che
anima Make you feel my love, cover di Adele da un successo di Bob
Dylan: “When the rain is blowing in your face,/ and the whole world
is on your case,/ I could offer you a warm embrace/ to make you feel
my love./ When the evening shadows and the stars appear,/ and there
is no one there to dry your tears,/ I could hold you for a million years/
to make you feel my love./ I know you haven’t made your mind up
yet,/ but I would never do you wrong./ I’ve known it from the moment
that we met,/ no doubt in my mind where you belong”12.
Ma il sogno d’amore di
Santuzza è destinato ad infrangersi nel più crudele dei modi:
venuta a conoscenza della
nuova relazione di Turiddu,
Lola, tormentata dalla gelosia,
ha un nuovo colloquio con il
giovane, a cui assiste sconvolta
anche Santuzza: in esso rinnega
il legame con Alfio, ben presto
naufragato a causa dell’insensibilità e del cinismo del consorte, che tratta la moglie come
una bella statuina da esibire in
pubblico, come una proprietà di
cui disporre a suo piacimento;
ricorda quindi a Turiddu il loro
passato di passione, spingendolo a rinunciare alla relazione
con Santuzza: egli rivela di
essersi legato a quest’ultima
solo per farle una ripicca.
Mentre Santuzza si allontana
disperata, i due innamorati
108
ricongiunti rievocano i loro baci di un tempo, mentre i ballerini del
Laboratorio di danza reinterpretano Kiss di Prince in chiave tango.
In Santuzza la disperazione cede ben presto il passo alla brama di
vendetta: eccola allora rivelare ad Alfio la tresca e poi difendere il
proprio orgoglio di donna ferita sulle note di Illegal di Shakira: “Who
would have thought/ That you could hurt me/ The way you’ve done
it?/ So deliberate, so determined/ And since you have been gone/ I
bite my nails for days and hours/ and question my own question on
and on/[…] You don’t even know the meaning of the words “I’m
sorry”/ You said you would love me until you die/ And as far as I
know you’re still alive, baby/ You don’t even know the meaning of
the words “I’m sorry”/ I’m starting to believe/it should be illegal to
deceive a woman’s heart”13.
Le vicende precipitano ormai verso il tragico epilogo. L’ultimo,
tempestoso colloquio tra Alfio e Lola li vede riversarsi contro reciproche accuse, all’insegna di un’incomunicabilità ormai assoluta: per
Alfio la moglie è “un affare sbagliato”, assimilabile a certe terre aride
che possiede e che per lui rappresentano un passivo; Lola sembra
capire solo ora che la fedeltà e l’obbedienza senza amore sono il prezzo da pagare per la gabbia dorata in cui è rinchiusa. Mentre Alfio si
allontana in cerca del rivale minacciando un’oscura vendetta, Lola si
rende conto drammaticamente che tutto è finito, che ha superato il
punto di non ritorno, che, comunque vada, non potrà essere la donna di
nessuno, nobody’s wife, per dirla con Anouk: “I’m sorry for the times
that I made you scream/ for the times that I killed your dreams/ for the
times that I made your whole world rumble/
for the times that I made you cry/ for the
times that I told you lies/ for the times that I
watched and let you stumble/ It’s too bad, but
that’s me/ what goes around comes around,
you’ll see/ that I can carry the burden of pain/
’cause it ain’t the first time that a man goes
insane/ (and) when I spread my wings to
embrace him for life/ (I’m) suckin’ out (his)
love, I’ll never be nobody’s wife”14.
Per Alfio e Turiddu è ormai arrivata l’ora
della resa dei conti: la sfida lanciata dal
primo è raccolta di buon grado dal rivale,
pronto ad uccidere l’amico di un tempo pur
di far sua definitivamente Lola. Ma un
109
biglietto dell’amata gli toglie ogni speranza, fiacca il suo vigore,
offusca la sua mente: qualunque sia l’esito del duello, Lola non
potrà amare un omicida. La donna lo esorta a fuggire, ma Turiddu
preferisce andare incontro al proprio destino, a una morte che ormai
non lo spaventa, perché nulla ha più significato quando si è spenta
l’unica luce della propria esistenza. Gli resta solo la speranza di
potersi ricongiungere a Lola nell’altra vita, trovando pace solo allora nella dimensione dell’eterno; messaggio affidato all’ultima strofa della canzone inedita Buio nell’anima: “Nel buio porterò quest’ultimo sogno:/ ti aspetterò, sfidando l’eterno./ E nell’ oscurità
brillerà una luce:/ mi chiamerai, sentirò la tua voce./ Ti rivedrò ed
allora avrò pace./ Amore mio, forse non è un addio”15.
L’alba della domenica di Pasqua rischiara i fichidindia della
Canziria, scenario del duello rusticano. È venuto il momento per
Alfio e Turiddu di tirare le somme della loro tragica esperienza, che,
indipendentemente dall’esito dello scontro, non può vedere vincitori. Il bilancio è affidato alle parole di Alfio: “Gli amici, i fratelli di
sangue non si tradiscono e noi lo abbiamo fatto… In fondo siamo
uguali, Turiddu… giochiamo con i sentimenti delle persone, subordiniamo ai nostri desideri e capricci la vita degli altri… siamo schiavi, io della ricchezza e del possesso, tu della passione, e non abbiamo saputo sottrarci a questo gioco prima di farci male e di farne ad
altri… ne siamo vittime e carnefici al tempo stesso. Ma ora il gioco
deve finire”16. Le note di Sunday bloody Sunday degli U2 divengono
110
allora l’ideale colonna sonora del duello a cui assiste, inorridita nel
suo silenzio, la gente del paese: “Wipe the tears from your eyes,/
Wipe your tears away,/ Wipe your tears away/ Wipe your tears away/
Wipe your blood shot eyes/ Sunday, bloody Sunday/ Sunday, bloody
Sunday”17. Troppo tardi irrompono sulla scena Lola e Santuzza, troppo tardi per impedire il tragico esito del duello: il colpo mortale è
stato inferto; Turiddu si è accasciato al suolo; Alfio, immobile, brandisce ancora l’arma del delitto. Si ricompone la scena del preludio.
In punto di morte, Turiddu esorta Santuzza, distrutta dai sensi di
colpa, a provare a rifarsi una vita, a confidare di nuovo nell’amore:
forse per lei, solo per lei, in cui sopravvive una certa purezza, è ancora possibile una redenzione. La notte di Arisa chiude allora il musical con parole di speranza: “Ma quando arriva la notte, la notte e
resto sola con me./ La testa parte e va in giro in cerca dei suoi per-
ché./ Né vincitori né vinti, si esce sconfitti a metà./ L’amore può
allontanarci, la vita poi continuerà/ …continuerà/ …continuerà”.
note
1. Così avevo definito il Laboratorio in un’articolo dell’anno scorso alludendo in particolare alla mancanza di una sede, problema adesso fortunatamente risolto, grazie alla disponibilità del Dirigente Scolastico. Cfr.
111
F. Tringali, Il laboratorio che non c’è. Storia di un musical, in “La rivista del Galilei”, IX, 19, maggio 2011, pp. 67-72.
2. Nel realizzare e montare la scenografia per immagini, che ha fatto da
sfondo costante dello spettacolo, mi sono avvalso della preziosa collaborazione del laboratorio fotografico e di quello delle immagini, che hanno fornito buona parte del materiale necessario. Utile, a tal proposito, anche il
lavoro svolto dal Laboratorio storico nell’approfondire i molteplici aspetti
della cultura siciliana.
3. G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci, Cavalleria rusticana. Libretto,
Sonzogno, Milano 1890, p. 7. Le coreografie sono state realizzate dal
Laboratorio di danza della prof. Nicosia. Ho avuto il piacere di dare il mio
piccolo contributo alle coreografie hip hop.
4. G. Verga, Cavalleria rusticana, in Tutte le novelle, Mondadori, Milano
1988, vol. 1, p. 179.
5 “Mi ricordo ancora/ quando ero solo un ragazzino,/ quando gli amici
erano amici per sempre/ e ciò che si diceva era ciò che si faceva./ Bene, eravamo io e te, amico mio,/ ci siamo feriti reciprocamente le mani/ con una
solenne promessa/ che solo i fratelli capiscono”. Nei testi delle canzoni, i
corsivi si riferiscono alle modifiche apportate all’originale per adattarlo alle
esigenze del testo teatrale, lavoro che ho curato personalmente, come quello relativo all’esecuzione vocale dei brani. Le scelte delle canzoni sono
state condivise con gli allievi. Le partiture sono state predisposte dal prof.
Toscano ed arrangiate con la collaborazione dei musicisti. Le traduzioni
sono state realizzate dal Laboratorio linguistico della prof. Mascali.
6. Si cita dal testo teatrale Cavalleria rusticana. Il musical, steso dal
Laboratorio di scrittura creativa della prof. Motta, successivamente da me
rivisto e quindi adattato alle esigenze della scena dal Laboratorio di recitazione della prof. Finocchiaro.
7. “Sei l’unica per me/ Sono l’uomo per te/ Sei fatta per me/ Sei la mia estasi/ Se mi venisse offerta ogni occasione/ ucciderei per amore tuo/ Così
dammi una possibilità/ fammi avere una storia con te/ Sono caduto in un
sogno/ e il mio sogno diventa realtà/ È così difficile credere/ che questo stia
succedendo a me/ Una straordinaria sensazione sta affiorando”.
8 “Ho giocato tutte le mie carte/ ed è quello che hai fatto anche tu./ Non c’è
più niente da dire/ non c’è più alcun asso da giocare./ Chi vince prende
tutto/ chi perde resta umiliato./ Con la vittoria al mio fianco/ questo è il mio
destino”.
9. Troppo amore ti ucciderà/ Come quando non ne hai affatto/ Prosciugherà
la forza che c’è in te/ Ti farà gridare, implorare e strisciare./ E il dolore ti
renderà pazzo./ Sei la vittima del tuo crimine./ Troppo amore ti ucciderà
ogni volta./ Troppo amore ti ucciderà./ Renderà la tua vita una finzione./ Sì,
troppo amore ti ucciderà./ E non riuscirai a capire il perché./ Daresti la tua
112
vita, venderesti la tua anima./ Ma sarà di nuovo così./ Troppo amore ti ucciderà./ Alla fine.../ Alla fine”.
10. Cavalleria rusticana. Il musical, scena V
11. “I ragazzi vanno e vengono/ e tutto questo mi va bene/ L’esperienza mi
ha reso ricca/ ed ora essi dipendono da me/ perché tutti stiamo vivendo in
un mondo materiale/ ed io sono una ragazza materiale./ Tu sai che stiamo
vivendo in un mondo materiale/ ed io sono una ragazza materiale”.
12. “Quando la pioggia scivola sul tuo viso/ e il mondo intero è nella tua
valigia/ ti potrei offrire un caldo abbraccio/ per farti sentire il mio amore./
Quando la sera sfuma e appaiono le stelle/ e non c’è nessuno ad asciugare
le tue lacrime/ potrei stringerti per un un tempo infinito/ per farti sentire il
mio amore./ So che non hai ancora preso una decisione/ ma non ti ho mai
voluto fare del male./ L’ho capito dal momento in cui ci siamo incontrati:/
non ho dubbi su quale sia il posto a cui appartieni”.
13. “ Chi avrebbe mai pensato/ Che tu avresti potuto ferirmi/ Nel modo in
cui l’ hai fatto?/ Così deciso, così determinato./ Da quando te ne sei andato/ Ho mangiato le mie unghie per giorni e ore/ E mi sono fatta domande
senza fine/ […] Tu non sai nemmeno il significato delle parole “mi dispiace”/ Avevi detto che mi avresti amato fino alla tua morte/ E per quanto ne
so, sei ancora vivo, mio caro/ Tu non sai nemmeno il significato delle parole “mi dispiace”/ Sto iniziando a credere che dovrebbe essere fuorilegge
ingannare il cuore di una donna”.
14 “Mi dispiace per le volte che ti ho fatto gridare/ Per le volte in cui ho
ucciso i tuoi sogni/ Per le volte in cui ho stravolto il tuo mondo/ Per le volte
che ti ho fatto piangere/ Per le volte in cui ti ho detto bugie/ Per le volte che
ho guardato e che ti ho portato a sbagliare/ È terribile,ma sono io/ Ciò che
si dà ritorna indietro, lo vedrai/ che posso portare il peso di un dolore/
Perché questa non è la prima volta che un uomo diventa pazzo/ E quando
piego le mie ali per abbracciarlo per sempre/ prosciugo il suo amore, perché io, io non sarò mai la moglie di nessuno”.
15. Il brano è il frutto del lavoro integrato dei docenti e degli alunni del
laboratorio artistico-musicale. Il testo è mio e il tema musicale è stato sviluppato, a partire da una mia proposta, dal collega Nello Toscano, che ha
steso la partitura e collaborato con i ragazzi all’arrangiamento del pezzo. Il
testo è stato successivamente tradotto dalla prof. Caterina Carbone con il
titolo Darkness in my soul e totalmente riarrangiato dagli alunni Lorenzo
Fragola e Federico Mòllica per la versione inglese.
16. Cavalleria rusticana. Il musical, scena XI.
17. “Asciuga le lacrime dai tuoi occhi./ Asciuga le tue lacrime./ Asciuga le
tue lacrime./ Asciuga via le tue lacrime./ Asciuga i tuoi occhi arrossati./
Domenica, maledetta domenica.
113
Protagoniste, le donne
Patrizia Finocchiaro
Maria Rosalia Inzerillo, Carolina Woëlfler, Rachele Cohen,
Mariella Lo Giudice: quattro donne lontane tra loro nel tempo e per
le esperienze vissute. La prima abita le pagine de La mennulara,
romanzo d’esordio di Simonetta Agnello Hornby; la seconda e la
terza intrecciano la propria esistenza con quella di uno dei più grandi poeti del Novecento: Umberto Saba; la quarta ha calcato le scene
teatrali fino all’ultimo giorno della sua vita troppo breve. Ciò che le
accomuna è il fatto che sono state scelte come argomento di studio
del Laboratorio letterario sul Novecento. Sono donne, si è detto,
quanto mai diverse tra loro: la forza granitica e un po’ arcigna della
Mennulara, la tormentata storia d’amore tra Umberto Saba e la sua
Lina e la sensibilità interpretativa di Mariella Lo Giudice hanno
offerto agli studenti partecipanti un quadro non esaustivo, certo, ma
sicuramente interessante e variegato, della presenza femminile nella
prosa, nella poesia e nel teatro.
La scelta del tema, però, è stata quasi obbligata: sull’onda dell’emozione suscitata dalla notizia della scomparsa di Mariella Lo
Giudice il 1° agosto 2011, non è stato possibile infatti evitare di ren115
dere omaggio ad una grande interprete del teatro italiano, una donna
coraggiosa che aveva scelto di non allontanarsi da Catania, sua città
natale, pur superando con il proprio talento i confini di un provincialismo un po’ chiuso dentro i quali altri rappresentanti del mondo culturale siciliano rimangono costretti.
La prof. Lombardo ed io abbiamo quindi cominciato a definire il
programma del Laboratorio partendo dal ricordo della Lo Giudice,
protagonista nel teatro.
Pensando a donne forti e
legate alla terra d’origine,
è emerso il nome di un
personaggio letterario che
proprio quest’anno ha
preso vita grazie alla
splendida, carnale interpretazione di Guia Jelo;
mi riferisco a Maria
Rosalia Inzerillo, detta la
Mennulara, criata in casa
Alfallipe nel paese di
Roccacolomba, una serva
con un cervello che
avrebbe fatto invidia a
molti manager rampanti
del nostro tempo, una
donna dalla volontà
inflessibile costretta però
a rinunciare alla propria
femminilità nel momento
in cui rifiuta il figlio che cresce dentro di lei. Tra le pagine del romanzo della Hornby e sul palco del Teatro Stabile di Catania si muovono,
insieme alla Mennulara - Mennù per i pochi che le vogliono bene -,
tanti altri personaggi che ci fanno conoscere una Sicilia, quella degli
anni ’60, in bilico tra una modernità che muove i primi passi e alcune
consuetudini arcaiche ancora radicate, come quella di considerare i
servi di famiglia come una proprietà non diversa da un asino o un
sacco di frumento, di cui si può disporre liberamente...
Durante la prima serie di lezioni la prof. Lombardo ha “indagato”
insieme ai ragazzi alla ricerca di indizi che chiarissero la personalità
della Mennulara, personaggio quanto mai ambiguo, scontroso e indi116
pendente, che si comporta come un uomo quando gira da sola per le
campagne a controllare la gestione delle proprietà dei suoi padroni e
che è oggetto di venerazione da parte di pochi e di malignità velenose da parte dei più. Qual è la vera Mennulara?
Alla fine del percorso didattico la sfida lanciata ai giovani partecipanti: riscrivere il finale del romanzo interpretando in modo originale e creativo la figura della Inzerillo e il suo rapporto con gli altri
personaggi, tra i quali spicca Orazio Alfallipe, debole e vanesio
capofamiglia nonché padre del bimbo mai nato di Mennù.
Il Laboratorio è proseguito con gli incontri dedicati alle figure
femminili nella poesia di Umberto Saba; partendo dal rapporto conflittuale del poeta con la madre, Rachele Cohen, una donna severa e
triste che riversa sul figlio le proprie frustrazioni provocando in lui
un perenne stato di scissione interiore, abbiamo cercato di comprendere la natura profonda del disagio che il poeta mostrava nel
rapporto con la moglie Lina e con le cosiddette “donne-fanciulle”
Paolina e Chiaretta, ma anche il legame intenso con la figlia
Linuccia. È emersa una personalità oscillante tra “principio di piacere” e “principio di realtà” che cerca nell’“onestà” della poesia un
momento chiarificatore delle proprie inquietudini attraverso uno
stile limpido e all’apparenza facile e quasi dimesso, snobbato da
molta critica ufficiale ma compreso profondamente da intellettuali
come Pier Paolo Pasolini, che definì infatti Saba “il poeta più difficile del Novecento”.
117
A seguire, l’omaggio a Mariella Lo Giudice. Certo, parlare di una
donna mancata da poco avrebbe potuto farci correre il rischio
di cadere nel patetico o di trasmettere agli studenti sentimenti di tristezza. Ma non era quello che la prof. Lombardo ed io
volevamo; semmai, puntavamo
a fornire un ritratto dell’attrice
vitale e gioioso che rispecchiasse la forza e la positività di questa grande interprete. Il modo
migliore per perseguire questo
obiettivo ci è sembrato quello
di far rivivere Mariella attraverso la testimonianza diretta delle
persone a lei vicine, a cominciare dai familiari. La sorella
dell’attrice, la signora Silvana
Lo Giudice, apprezzata coreografa, ha subito risposto al
nostro invito; nel corso di vari
colloqui in cui non è mancato
118
qualche momento di commozione, ci ha parlato di Mariella, della sua
carriera ma, soprattutto, del suo essere donna e madre prima ancora
che attrice, facendoci sentire vicine al dramma della sua precoce
scomparsa ma anche trasferendoci l’immagine di una donna determinata a continuare il proprio lavoro fino all’ultimo con un indomabile
e coraggioso attaccamento alla vita. E questo ritratto è stato poi offerto agli studenti arricchito dal contributo della prof. Antonella
Nicosia, che ha parlato della propria amicizia con le due sorelle risalente all’adolescenza, e del giornalista e critico teatrale Nello
Pappalardo, il quale ci ha fornito anche delle splendide fotografie
delle più importanti interpretazioni dell’attrice.
Il 17 marzo, infine, si è tenuto nell’Aula Magna del nostro Liceo
il convegno conclusivo delle attività del Laboratorio. Sono intervenuti personaggi di rilievo come il regista e Direttore artistico del
Teatro Stabile di Catania Giuseppe Dipasquale e l’attrice Guia Jelo,
protagonista femminile dell’adattamento teatrale de La mennulara.
Nel corso della mattinata si è creata un’atmosfera di grande emozione, soprattutto in particolari momenti: quando sullo schermo
sono passate le immagini più belle di Mariella Lo Giudice, i familiari presenti, gli amici, il direttore Dipasquale e il pubblico intervenuto non hanno nascosto (e perché avrebbero dovuto farlo?) la loro
commozione. Quando Guia Jelo, senza alcun preavviso, ha impu-
119
gnato il microfono per regalarci il monologo più intenso de La mennulara, ci siamo sentiti attratti dall’intensità dei suoi occhi neri e
mobilissimi e dalla sua voce un po’ roca. Quando il gruppo teatrale
“Il gioco del teatro” guidato dalle professoresse Gloriana Orlando e
Maria Luisa Nocerino ha portato in scena la performance Plurale
femminile, tutti hanno ammirato e applaudito la sensibilità con cui
attori e musicisti hanno dato voce e corpo a donne diverse tra loro
ma ugualmente significative: dalla madre di Peppino Impastato a
Peppa la Cannoniera alla Mennulara, tante donne protagoniste, ciascuna con la propria storia da raccontare e il proprio coraggio da
mostrare.
Quando, infine, sono stati assegnati i premi ai migliori lavori
(elaborati critici e testi creativi) prodotti dai ragazzi, abbiamo avuto
ancora una volta la conferma dell’importanza che assumono tutte le
attività che avvicinano i giovani alla cultura portandoli ad amare lo
studio e a coltivare la riflessione, soprattutto in un periodo opaco
come il nostro che ci auguriamo non diventi buio.
120
Scarica

Scarica il numero