Il secolo d’oro della
pittura spagnola
di Alfonso E. Pérez Sánchez
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in La pittura in Europa. La pittura spagnola, vol. II,
Electa, Milano 1995
Storia dell’arte Einaudi
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Indice
Il primo naturalismo
Toledo
Valencia
Siviglia
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17
21
24
La generazione dei grandi maestri
Ribera
Francisco de Zurbarán
Alonso Cano
Velázquez
I pittori madrileni della generazione
di Velázquez
Il resto della Spagna
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31
36
43
47
I pittori del pieno barocco
La «scuola madrilena»
La pittura sivigliana
Nel resto della Spagna
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72
81
88
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63
Storia dell’arte Einaudi
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Il secolo d’oro della pittura spagnola
Il XVII secolo è senz’ombra di dubbio il Siglo de Oro
della pittura spagnola. Con il fenomeno dell’isolamento
culturale della Spagna dal resto d’Europa, con l’identificazione quasi eccessiva della nazione nella religione e
con lo sviluppo del naturalismo prima e del barocco poi
quali linguaggi dell’espressione plastica, la pittura spagnola raggiunge il suo apice in quanto a personalità e
indipendenza, assimilando, interpretando e personalizzando in modo inconfondibile i modelli e le tendenze
che, come sempre, provengono dall’Italia e dalle Fiandre. L’immagine ampiamente diffusa della «scuola spagnola», con i suoi limiti e le sue grandezze, risponde a
questo panorama di cui fanno parte i grandi nomi che
la Spagna ha dato alla storia universale dell’arte.
È naturale sottolineare il carattere fondamentalmente religioso della pittura spagnola del Seicento. La chiesa, ma soprattutto gli ordini religiosi, sono i committenti
quasi esclusivi degli artisti; la nobiltà invece dimostra un
maggior interesse per i pittori italiani e fiamminghi piuttosto che per quelli spagnoli. L’ambasciata a Roma, i
governi delle Fiandre, il ducato di Milano e il viceregno
di Napoli, che in seguito ostenteranno buona parte dei
«grandi» di Spagna, amano la pittura proveniente dai
due paesi ai cui pittori commissionavano le opere importanti che donavano tono e prestigio moderno ai loro
palazzi. Si conosce soltanto un importante nobile spagnolo che dedicò la propria attenzione ai pittori della sua
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
terra: il grande ammiraglio di Castiglia don Juan Gaspar
Enríquez de Cábrera che, come ricordano le fonti, aveva
predisposto un salone del suo palazzo per esporre opere
degli «eminenti spagnoli». Era prassi che la pittura profana per decorare i palazzi venisse commissionata nelle
Fiandre o in Italia, mentre ai pittori spagnoli si rivolgevano le fondazioni pie, cosa indirettamente molto utile
alla loro formazione perché, avendo rare occasioni di
viaggiare, potevano venire a conoscenza, grazie a queste nobili collezioni, delle realizzazioni e delle evoluzioni
della pittura europea, almeno per quegli aspetti di loro
interesse.
La situazione sociale spagnola si riflette nell’opera e
nello status dei pittori, riuniti in corporazioni a carattere artigianale, con botteghe familiari a struttura quasi
medievale e tra i quali non è difficile trovare ottimi
artisti analfabeti. La clientela borghese istruita è quasi
inesistente, ma soprattutto è raro riscontrare tra i possibili mecenati o tra i pittori il gusto per le lettere, la
familiarità con la mitologia appresa da fonti classiche
che, al di fuori della Spagna, rendeva possibile lo sviluppo delle «poesie» del mondo carracciesco, romano-bolognese o del classicismo di Poussin. Soltanto nei
circoli molto vicini al centro della monarchia e all’ambiente degli artisti di corte si riscontra l’uso della mitologia, sempre utilizzata in programmi iconografici fortemente allegorico-moralizzanti dettati da un teologo.
A lungo andare questi limiti si ripercuotono sulle abitudini e sui modi dei pittori spagnoli, soprattutto quando, in alcuni casi eccezionali, costoro sono obbligati ad
affrontare argomenti mitologici o eroici, cosí diversi dai
soliti temi religiosi, e si sentono fuori dal proprio
ambiente, non riuscendo a trovare i toni adatti.
Tranne nel caso dell’eccezionale figura di Velázquez,
nella pittura spagnola sono scarsi i temi pagani e i paesaggi, un genere indipendente, ampiamente utilizzato
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
nello stesso periodo in tutta Europa, ma raro in Spagna;
i pochi esistenti mancano di personalità e sono legati per
la maggior parte a modelli italiani e fiamminghi.
Contrariamente a quanto si può a volte credere osservando i magistrali esempi, sempre eccezioni, del giovane Velázquez o dell’anziano Murillo, in Spagna non
furono neppure coltivate le composizioni di genere e,
quindi, non esistendo una clientela borghese, soddisfatta e d’accordo con la realtà rappresentata, non era
concepibile uno sviluppo simile a quello avvenuto in
Olanda, nelle Fiandre o in alcune regioni francesi.
Il tanto ripetuto naturalismo spagnolo è in realtà piú
un mezzo che un fine. La realtà quotidiana, i personaggi di strada, la rappresentazione dei lavori e dei giorni
non sono per il pittore spagnolo elementi che meritino
di essere rappresentati in quanto tali, bensí prestano la
loro immagine, immediata e viva, ai racconti evangelici
o agiografici. Come Lope de Vega, che quando parla di
san Isidro ci descrive la vita quotidiana di Madrid con
una vivacità senza paragoni, cosí i pittori di Valencia,
Siviglia o Madrid iscrivono in una cornice di naturalismo ambientale la narrazione che la pia volontà dei committenti impone loro. Cosí facendo, riflettono la realtà
spagnola, anche se in un modo molto diverso dalla pittura di genere concepita da alcuni allievi di Caravaggio,
dai bamboccianti italiani, dal mondo olandese o anche
da alcuni settori della società fiamminga rappresentata
dai Teniers.
Come ha sottolineato Julián Gállego, molti elementi di
apparente realismo erano impregnati di un senso allegorico o emblematico che sfugge ai nostri occhi moderni, ma
che era di facile lettura agli uomini del XVII secolo.
Tra i generi profani, solo la natura morta ha avuto
ampio sviluppo in Spagna, arrivando a costituire un
capitolo importante nel panorama globale della pittura
secentesca europea. I bodegónes (nature morte), come di
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
solito venivano definite le opere con oggetti inanimati
(fiori, frutta, utensili di cucina, animali morti) accompagnati o meno da persone, hanno una personalità molto
particolare e rispondono a un concetto diverso da quello italiano, fiammingo, olandese o francese contemporanei. Una sensibilità umile e seria, profonda e impregnata di un sentimento religioso che ordina gli oggetti
in base a un valore trascendentale è ciò che si può definire nuovo e personale negli artisti spagnoli di questo
genere, la cui arte, spesso, soprattutto all’inizio del secolo, assume un carattere quasi religioso che a noi, meno
adusi al genere dei loro contemporanei asceti come fra
Luis de Granada o Teresa del Gesú, sfugge frequentemente. Non è un caso che alcune serie di nature morte
provengano da conventi di clausura o da sagrestie di cattedrali, dove ancora oggi sono custodite.
Anche il ritratto raggiunge in Spagna un notevole sviluppo, con aspetti un poco diversi da quelli di altre
scuole europee. Se nell’ambiente di corte la tradizione
del severo ritratto fiammingo del XVI secolo, fusa con
i superbi modelli veneziani e con la presenza di eccezionali esemplari di Rubens e Van Dyck, porta alla sintesi del serio e sobrio ritratto di Velázquez che Mazo,
Carreño e altri coltivano, arricchendolo, fino al sopravvento, nel Settecento, del ritratto «alla francese», in
altri ambienti minori o provinciali si sviluppa un genere di ritratto con un’oggettività intensa e un severo
garbo che prolunga fino al secolo avanzato quel tono di
grave contegno e alterigia un poco rigida che definiva,
agli occhi europei, il talento spagnolo. Se negli ambienti francesi non era raro l’utilizzo nel ritratto, soprattutto in quello femminile, di attributi mitologici per far trasparire, con delicatezza, le virtú della persona ritratta,
in Spagna è molto frequente il ritratto in foggia «divina», dove il personaggio effigiato ha gli attributi del suo
santo protettore.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Gli artisti spagnoli si espressero al meglio, anche nelle
epoche precedenti, nella pittura sacra. La quasi totalità
della produzione dei pittori spagnoli, sia a Madrid, dove
sono relativamente pochi gli artisti che ottengono incarichi a palazzo, sia nel resto della penisola è composta
da quadri da altare (sia negli scomparti dei retablo dell’inizio del secolo, che presentano ancora l’austera struttura ereditata dall’Escorial, sia nelle grandi tele da altare della seconda metà del secolo, in cui si giunge al culmine della scenografia barocca), cieli monastici, che
rivestono con un vivace senso narrativo le pareti dei
chiostri dei conventi, o piccoli quadri di devozione che
adornano sale e saloni.
La religiosità spagnola, appassionata e sincera, che
sfugge l’effusione sentimentale italiana, il freddo dogmatismo teologico francese e la magniloquente teatralità
fiamminga, riesce, fondandosi su un profondo amore per
la concretezza, a cristallizzare un tono tra il grezzo e il
profondo, semplicemente realista e a volte profondamente visionario, che è la caratteristica piú emozionante e notevole dell’arte spagnola.
Non si tratta soltanto, sebbene sia stata cosí riportata da una critica letteraria e ripetitiva nata durante il
Romanticismo, di un’arte composta da sofferenza e crudeltà, bensí è basata sull’immediatezza derivante dalla
realtà circostante che dona all’interpretazione del tema
religioso, secondo la Controriforma, un abito quotidiano di rigore e dolore, di austerità e sacrificio che non
fugge, quando serve, dalla serena tenerezza e dall’ottimismo gioioso della fede.
In generale si può percepire un’evidente differenza
tra la pittura spagnola della prima metà del XVII secolo, a carattere fortemente realista, con tratti provenienti
in buona parte dal naturalismo tenebrista italiano, dalle
forme e dai colori severi, e quella della seconda metà,
quando la vasta diffusione dei modelli fiamminghi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
rubensiani, grazie alla stampa e all’enorme quantità di
quadri che dai paesi fiamminghi giungevano nelle collezioni spagnole, dà un nuovo senso all’opulenza barocca,
dinamica e colorista, a ciò che si realizza in Spagna,
anche quando la realtà economica e politica non è proprio trionfale come invece potrebbero indurre a pensare le opere luminose degli ultimi anni del secolo.
In quest’ultimo periodo si diffonde inoltre il gusto
per le grandi decorazioni ad affresco, rare in genere
nella prima metà del secolo e concepite adesso con un
tono unitario, scenografico e musicale completamente
nuovo. La presenza di artisti italiani specializzati in
questo genere di decorazione murale è decisiva per l’arte spagnola del periodo.
Per quanto riguarda i centri artistici, la Spagna del
XVII secolo presenta tre nuclei ben definiti: la corte,
Valencia e l’Andalusia. La corte, stabilitasi a Madrid dai
tempi di Filippo II, diviene il principale centro e comprende una vicina scuola locale, quella di Toledo, che
vive un effimero momento di splendore nei primissini
anni del secolo. Il breve periodo in cui la corte si trasferisce a Valladolid non è sufficiente a creare un circolo di persone e di qualità; le opere di una certa importanza ivi realizzate sono in genere frutto di artisti giunti da Madrid.
Madrid, oltre alle esigenze di palazzo, costituisce di
per sé un ampio mercato, poiché per tutto il secolo vi si
costruiscono e si decorano moltissimi conventi e fondazioni pie nobiliari; risponde inoltre all’ampia richiesta
proveniente dalle due Castiglie, riceve ed educa, integrandoli nella grandissima «scuola madrilena», artisti di
diverse provenienze, da Burgos e dalle Asturie, fino ai
confini della Sierra Morena.
Valencia, che era già un centro artistico di particolare importanza nel XVI secolo, mantiene la sua egemonia e include nella propria orbita la Catalogna, che in
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
questo secolo aveva una scarsa personalità, e Murcia.
Diventa anche il centro della Bassa Aragona (Teruel) e
delle Baleari e la sua influenza si estende fino a Saragozza, che ha una modesta attività indipendente. L’Andalusia presenta un panorama un poco piú disperso, sebbene non vi siano dubbi che il centro irradiante sia Siviglia, lo scenario delle realizzazioni con maggior trascendenza e la culla degli artisti piú importanti. Granada,
Cordoba e, in grado inferiore, Malaga e Jaén svolgono
un ruolo altrettanto significativo. Logicamente, l’area
andalusa si estende un po’ a sud dell’Estremadura e si
proietta in modo notevole verso l’America grazie all’attivissimo commercio con le Indie, monopolio di Siviglia.
Le altre aree della penisola (la Galizia, il nord cantabrico-asturiano, i Paesi baschi-navarri ecc.) non offrono
alcun interesse o personalità locali e ricorrono all’ambito di corte quando si tratta di opere di una certa importanza. Il Portogallo, che fino al 1640 era unito alla Corona spagnola, presenta un panorama ancora piú modesto,
che inoltre non è stato finora studiato approfonditamente. Sembra distinguersi l’attività di alcuni ritrattisti che mantengono la tradizione del ritratto della fine
del XVI secolo. La pittura religiosa è di scarsa qualità
ed è significativo che, per incarichi di una certa importanza, si ricorra a pittori della corte madrilena (Carducho a Santo Domingo de Benfica).
Storia dell’arte Einaudi
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Il primo naturalismo
Il XVII secolo ha inizio quasi contemporaneamente
al regno di Filippo III (1598); quasi tutti gli artisti che
lavoravano in quel periodo si legano in qualche modo
all’Escorial, il grande monastero dove Filippo II aveva
tentato di dare forma a un’arte che servisse la Controriforma cattolica con un fervore e un rigore esemplari.
Perfettamente cosciente di ciò che quest’arte, dogmatica e pedagogica, doveva essere in confronto alle estasi
«capricciose», intellettualizzate o arbitrarie del Manierismo (di cui è una chiara espressione il rifiuto ad accettare El Greco in questo programma), Filippo II riuní,
nelle due ultime decadi del Cinquecento, un insieme di
pittori spagnoli e italiani che, adempiendo fedelmente
ai severi programmi della verosimiglianza, compostezza,
decoro e approssimazione alla realtà propugnati dalla
Controriforma, danno vita a uno stile di misurata realtà
e freddo equilibrio che, non appena si libera dalle rigidità ufficiali ed entra in contatto con la devozione popolare, produce il primo naturalismo tipico degli artisti del
Seicento.
Vale la pena insistere sul significato, in quanto precedente di questo naturalismo, dell’opera di Navarrete
el Mudo (morto nel 1579), con il suo interesse per gli
effetti notturni visti nell’opera dei Bassano, i suoi
modelli di umanità diretta, trattati con tecnica veneziana, o la sua propensione a introdurre elementi aneddo-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
tici nelle composizioni sacre che sembrano annunciare
il tono di intimità domestica che troveremo poi nella pittura secentesca da Zurbarán a Murillo.
Sebbene abbia goduto di minor prestigio, è ugualmente importante l’apporto di alcuni artisti italiani giunti in un secondo tempo all’Escorial: Federico Zuccari,
con la sua severa compostezza e i dettagli di viva realtà,
e Luca Cambiaso, con la luce dei notturni e la sua intima semplicità ottenuta con una grande economia di
mezzi e un gusto severo per i volumi puri; anche alcuni
espedienti retorici di Tibaldi verranno sfruttati e assimilati dagli artisti delle generazioni successive.
Non va neppure dimenticato che all’Escorial venivano raccolte numerose tele fiamminghe e italiane, soprattutto veneziane (Tiziano, i Bassano, i Campi), che offrivano sufficienti elementi per costruire quella rinnovata
pittura che si reclamava.
L’ultima generazione di artisti dell’Escorial, quella di
Miguel Barroso (morto nel 1590), Juan Gómez (morto
nel 1597) e Luis de Carvajal (morto nel 1607), ha attinto molto da questa lezione. Soprattutto Carvajal offre
alcune figure di santi di forza immediata, con un diretto legame alla realtà, che permettono di comprendere
meglio ciò che l’Escorial ha significato per la generazione di artisti nati tra il 1565 e il 1580.
Verso il 1600 (tralasciando El Greco che, per formazione, sensibilità e geniale isolamento, corrisponde a
un altro mondo concettuale, quello di un idealismo
manierista piú esaltato, già in regresso), la pittura spagnola piú intensa mostra un tono di misurata verità, un
gusto per la concretezza negli accessori e in alcune tipologie umane, nonché un interesse per gli intensi contrasti di luce e ombra che costituiscono un incipiente tenebrismo e che, in quegli anni, possono in qualche modo
essere attribuiti all’influenza caravaggesca, ma ancor di
piú alla familiarità, favorita dall’Escorial, con lo stile
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
veneziano dei Bassano, con la rustica immediatezza dei
Campi e la spoglia intimità di Cambiaso.
Soltanto verso il 1612-15 si inizia ad avere notizia
della presenza in Spagna di opere di Caravaggio o dei
suoi piú vicini seguaci che, logicamente, lasciano il segno
nell’attenta osservazione della realtà e della ricerca del
«rilievo» ottenuto con i piú accentuati contrasti di luce
e ombra.
A partire da questo momento, gli ingredienti dello
stile piú propriamente «spagnolo» sono già completamente maturi.
Nell’ambiente di corte, erede diretto dello sfarzo dell’Escorial, gli artisti figli o fratelli dei pittori che avevano
lavorato al monastero, molti di discendenza italiana,
incarnano questo primo naturalismo. I fratelli Carducho,
Bartolomé (1560 ca. - 1608) e Vicente (1578 ca. -1638),
entrambi fiorentini, sono forse i piú famosi. Il primo,
discepolo di Federico Zuccari, giunse all’Escorial nel
1585 con il suo maestro e , quando questi se ne andò,
rimase in Spagna; il suo stile, che risente molto dell’influenza delle opere dei suoi contemporanei e amici toscani, dei quali fu anche agente per le vendite in Spagna,
assimilò la severità di Zuccari e incorporò elementi della
tradizione veneziana con un’evidente propensione alla
concretezza, fatto eccezionale per l’epoca (Morte di San
Francesco, 1593, Museo di Lisbona). A volte dimostra
una notevole sensibilità al colore, studiato nei modelli
veneziani, con buoni esiti di raffinata qualità (Deposizione, 1595, Museo del Prado). Protetto dal duca di
Lerma, collabora a tutte le iniziative del magnate, ministro onnipotente di Filippo II, e gode di un prestigio e
una stima eccezionali per l’epoca.
Il fratello Vicente, artista prestigioso che si dedicò
anche alle lettere (Dialoghi della pittura, pubblicati nel
1633) è una figura di una certa importanza che esercitò
una specie di dittatura nell’ambiente di corte prima del-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
l’avvento di Velázquez. Si dedicò al genere profano al
servizio della Corona ed è soprattutto autore di alcuni
dei piú ampi e complessi cicli monastici dell’epoca (serie
delle Storie di san Bruno e dell’ordine della certosa nella
certosa di Paular, oggi dispersa, 1626-32; serie dei Fondatori trinitari, anch’essa dispersa, 1633-36) con notevoli
risultati di approssimazione alla realtà e con un nobile
tono misurato e severo, in cui è evidente lo sfruttamento della tecnica e del colore dei grandi veneziani. La
sua opera è vasta e comprende sia tele a carattere sacro,
con un’evidente intensità espressiva e un gusto per la
realtà immediata negli accessori e negli elementi ambientali, sia affreschi (palazzo del Pardo, distrutto; cappella
del Sacrario della cattedrale di Toledo, 1616) che presuppongono un perfetto adattamento dei modelli italiani all’austerità spagnola ancora impregnata del severo
spirito controriformista. Molto bella per i colori e l’eleganza della composizione è la Predicazione di san Giovanni Battista (1610, Madrid, Real Academia de San
Fernando). Nella decade degli anni Trenta, oltre alle
serie monastiche già menzionate, dipinge anche molte
tele per altare, solenni e un poco pesanti, ma piene di
fervida intensità (San Francesco d’Assisi davanti all’Immacolata, 1632, Museo di Budapest) e partecipa alla
decorazione del Salone dei Regni del palazzo del Buen
Retiro con tre tele raffiguranti delle battaglie, di concezione tradizionale, un poco retoriche e vuote se comparate con quelle che altri artisti, come Velázquez,
Maíno e Jusepe Leonardo, eseguiranno per lo stesso
ciclo. Spesso, assieme a Vicente Carducho, con il quale
suddivide gli incarichi sia di retablo sia di affreschi
(retablo del monastero di Guadalupe, 1618; decorazione della cappella del Sacrario della cattedrale di Toledo,
1616), lavora Eugenio Caxés o Cajés (1574-1634), nato
a Madrid (ma figlio di un pittore aretino giunto per lavorare all’Escorial), interessato agli effetti di luce e a mor-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
bidezze e deformazioni ancora manieriste, studiate in
Correggio, che a volte copiò, ma sempre con una squisita sensibilità di colore (Abbraccio alla porta dorata,
Madrid, Real Academia de San Fernando; Adorazione
dei Magi, Museo di Budapest). Loro contemporaneo è il
fiorentino Angelo Nardi (1584-1664), straordinariamente longevo, che rappresenta la fedeltà ai modelli di
Bassano fino a un’epoca molto tarda (tele delle Bernardas de Alcalà de Henares, 1620; Adorazione dei pastori,
1654, Madrid, collezione privata).
L’introduzione del caravaggismo autentico si deve
all’arrivo di artisti che a Roma avevano vissuto il grande
rinnovamento dei primi anni del secolo e alla divulgazione di copie delle opere piú famose del sommo maestro.
Nel 1605 si trova a Madrid Orazio Borgianni, pittore romano che dà un’interpretazione molto personale del
caravaggismo e che, una volta rientrato in Italia, si mantiene in contatto fino alla sua morte con i clienti spagnoli
inviando opere in Spagna (tele del convento di Portacoeli, Valladolid, 1614 ca.) che influirono sugli artisti
spagnoli, come il già citato Cajés. Nel 1613 vengono
poste nella cattedrale di Toledo tre importanti opere del
caravaggista veneziano Carlo Saraceni (morto nel 1624)
che saranno completate da Carducho e Cajés per integrarle nella decorazione globale della cappella della Vergine del tabernacolo, in via di realizzazione. Tra il 1617
e il 1618, Bartolomeo Cavarozzi, un altro caravaggista
di grande personalità, si trova a Madrid con il suo protettore, il nobile italiano Giovanni Battista Crescenzi,
anch’egli pittore e risoluto propulsore delle nuove correnti.
In quest’epoca, un pittore spagnolo, Juan Bautista
Maíno, di padre italiano, ma nato a Pastrana (Guadalajara), ha già dipinto opere dove è evidente la conoscenza diretta del rinnovamento italiano. Nato nel 1580,
Maíno si trasferí alcuni anni in Italia, dove studiò sia il
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
caravaggismo, soprattutto nell’aspetto chiaro di Gentileschi o Saraceni, sia il rigoroso classicismo del gruppo
di Annibale Carracci e Guido Reni.
Nel 1611 ritorna in Spagna dove dipinge le tele del
retablo delle Quattro Pasque in San Pedro Mártir a
Toledo (oggi al Museo del Prado e al Museo Balaguer di
Villanueva e Geltrú), dove sono già presenti tutte le
caratteristiche del nuovo stile: personaggi tratti direttamente dalla realtà quotidiana, volumi rotondi illuminati da un’intensa luce diretta, sensibilità ai dettagli e alle
tonalità chiare, come si può osservare nelle grandi tele
dell’Adorazione dei pastori e dell’Epifania, le sue opere
indubbiamente piú famose, e nei paesaggi in San Giovanni della predella (Museo del Prado), a ordinamento
classico, chiaramente ispirati ad Annibale Carracci.
Dopo aver preso i voti nell’ordine dei domenicani
mentre era intento a dipingere il retablo del convento
di Toledo, dove lasciò anche notevoli affreschi che
rimandano al mondo artistico di Guido Reni, Maíno
svolgerà un ruolo importante nella corte madrilena in
qualità di consigliere del giovane Filippo IV (a cui insegnò disegno) e si occuperà della decorazione del Salone
dei Regni al Buen Retiro (1634) assieme ai vecchi Carducho e Cajés, ai giovani astri nascenti del panorama
madrileno, Pereda, Leonardo e Castello, e ai sommi
Velázquez e Zurbarán. Per il Salone dipinse una delle
piú personali e «moderne» tele della serie: La riconquista di Bahia, che presenta una sorprendente chiarezza
luminosa.
Nei primi anni del secolo, altri artisti di una certa
importanza nell’ambito di corte sono il ritrattista Bartolomé González (1564 ca. - 1627), vincolato alla vecchia tradizione di Moro, Sánchez Coello, Pantoja de la
Cruz, che nelle sue tarde composizioni religiose (San
Giovanni Battista, Museo di Budapest, 1621 e Professione di fede del beato Orozco, Accademia di San Fer-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
nando, 1624) riprende il naturalismo caravaggesco, e di
due artisti di origine fiamminga: il longevo Felipe
Diricksen (1590-1679), capace ritrattista che si rifà alla
tradizione del ritratto di corte, e il magnifico pittore di
nature morte, Juan Van der Hamen (1596-1631). Quest’ultimo è autore di alcune tra le composizioni piú equilibrate, severe ed espressive della storia della natura
morta spagnola, come pure di alcune curiose tele a carattere allegorico-mitologico che testimoniano la conoscenza del mondo fiammingo contemporaneo interpretato in modo molto personale (Flora, Museo del Prado
e Vertumno e Pomona, Madrid, Banco de España). Nelle
composizioni religiose, entrambi gli artisti rendono
omaggio al severo tenebrismo di recente importazione.
Di Diricksen si ricordano le tele nella cappella di Monsén Rubín de Bracamonte ad Avila, mentre di Van der
Hamen le tele nel monastero de la Encarnación di
Madrid.
Toledo
Nei primi anni del secolo, nell’ambiente toledano,
legato all’Escorial a causa dell’immediata vicinanza e
della tradizione comune, si trovano alcuni artisti che
incarnano il nuovo stile. Non bisogna dimenticare che
fino al 1614 è ancora vivo e in piena attività El Greco
che, proprio negli ultimi anni della sua vita, porta a
livelli estremi, raggiungendo quasi il parossismo, le sue
complesse composizioni, mentre si moltiplicano le ripetizioni di studio di alcune delle sue opere sacre (vari san
Francesco, Apostoli, Veroniche) che costituiscono la
base del suo successo come creatore di immagini nel
senso stretto della parola. Assieme ai grandi quadri di
tensione compositiva, di esaltato manierismo, con forzate deformazioni anatomiche, magici ambiti spaziali
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
indefinibili e folgorazioni fosforescenti di colore puro
che annullano qualsiasi riferimento alla realtà, El Greco
moltiplica queste serie di figure a mezzo busto, esaltate, ma nelle quali l’immediatezza del formato, l’atteggiamento appassionato (a volte sembrano quasi dialogare con lo spettatore), gli accessori «verosimili» della stamigna e il cranio di san Francesco o lo zendado della
Veronica, li rendevano prossimi, comprensibili ed efficaci come oggetti di devozione.
Queste immagini saranno le uniche, convenientemente «umanizzate» e corporizzate, a costituire il lascito alla generazione naturalista. Negli ultimi anni del
XVI secolo, assieme a El Greco operano a Toledo alcuni artisti che in qualche modo si collegano direttamente a quelli presenti all’Escorial come il severo Blas de
Prado (morto nel 1599), che le fonti letterarie riportano quale fondatore del genere della natura morta e maestro di Sánchez Cotán, e il già citato Luis de Carvajal
(15341607) che nelle sue opere migliori esprime un’intensa verità umana. Quelli che meglio rappresentano i
nuovi tempi sono Sánchez Cotán, Tristán e Orrente.
Juan Sánchez Cotán (1561-1627) è forse la persona
piú singolare tra gli artisti toledani dell’epoca. Nato a
Orgaz, fu discepolo di Blas de Prado e divenne frate certosino nel 1602, anno in cui si allontanò dalla sua terra
per trasferirsi nella certosa di Granada dove lasciò la
maggior parte delle sue opere, tra cui le composizioni
sacre che denotano un evidente arcaicismo e si ispirano
a volte ai vecchi schemi del gotico fiammingo, fortemente segnato dal rigore geometrico e dall’asprezza
luminosa di Luca Cambiaso, di cui egli possedeva alcune opere al suo ingresso alla certosa. Ben rappresentano
il suo stile devozionale le opere nel convento di Santo
Domingo el Antiguo di Toledo (Cristo e la samaritana),
ma soprattutto le tele alla certosa di Granada con scene
della storia certosina. Tuttavia è nelle nature morte che
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
mostra una sorprendente profondità di osservazione dell’immediata realtà inanimata e un potere affascinante,
quasi magico. Infatti, le sue Nature morte, quasi tutte
eseguite prima dell’ingresso alla certosa, cioè prima del
1602, quindi con totale indipendenza dal caravaggismo,
costituiscono una delle punte piú alte della pittura spagnola del secolo e in esse si denotano le preoccupazioni
metafisiche neoplatoniche fino alla piú evidente trasposizione plastica dell’ossessione ascetica di trascendenza
dell’immediato (Madrid, Museo del Prado, Museo di
Granada, Museo di San Diego ecc.).
Luis Tristán (1585 ca. - 1624), discepolo del Greco
e collaboratore di suo figlio Jorge Emanuel, è un altro
artista notevole. Nella sua opera si ritrova lo stile del
maestro, soprattutto per ciò che riguarda la deformazione anatomica e alcuni schemi iconografici, nonché
un’evidente conoscenza della pittura dell’Escorial; ma
un viaggio in Italia, effettuato nei primi anni del Seicento, e il contatto con il crescente naturalismo lo convertono in uno dei piú decisi partigiani del nuovo tenebrismo; le sue figure di santi dalle caratteristiche rigorose e terragne trasformano completamente alcuni
modelli del maestro, mantenendone la tensione espressiva, ma rivestendoli di una piú diretta e cupa realtà. Le
sue opere piú importanti, oltre ad alcune interessanti
raffigurazioni di santi (San Francesco, Sant’Antonio
abate, San Pietro di Alcántara), in cui l’intensità drammatica utilizza molto bene gli effetti tenebristi, sono i
retablo di Yespes (Toledo) e di santa Clara di Toledo
dove sono presenti cenni delle composizioni del Greco
reinterpretate in chiave naturalista.
Si può considerare toledano anche Pedro Orrente
(1580-1645), proveniente da Murcia, che divide la propria attività tra la città natale, Toledo, e Valencia, ma
che lascia nella città imperiale la parte migliore della sua
opera. In gioventú si recò in Italia (tra il 1600 e il 1609),
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
a Venezia conobbe Leandro Bassano e vide certamente
delle opere caravaggesche. Al suo ritorno a Toledo stringe amicizia con Jorge Emanuel Theotocópuli, mentre a
Valencia rivaleggia con Ribalta. Il suo stile è chiaramente legato a Bassano, tant’è che viene chiamato il
«Bassano spagnolo». Alla maniera dei modelli veneziani, coltiva il quadro biblico o evangelico concepito come
scena di genere, con ampio sviluppo del paesaggio e un
marcata propensione per gli animali e i complementi
della natura morta, interessandosi a volte agli effetti notturni e dell’illuminazione artificiale (serie della vita di
Giacobbe, di Abramo o storie evangeliche). Nei quadri
con grandi figure (Santa Leocadia, cattedrale di Toledo,
1617 o Il martirio di Giacomo il Minore, Museo di Valencia) sono evidenti, assieme alla fedeltà alla scenografia
veneziana, una conoscenza degli effetti luminosi del
tenebrismo caravaggesco e un omaggio velato alla nobile bellezza dei bolognesi, che risplende soprattutto nel
bellissimo San Sebastiano (1616), custodito nella cattedrale di Valencia.
In quegli anni altri artisti di Toledo si dedicano alla
natura morta che Cotán ha portato all’apice. Alejandro
de Loarte (documentato tra il 1619 e il 1626), che nei
suoi quadri a soggetto religioso si rapporta umilmente
con Tristán, dipinge alcune nature morte di intensità e
veridicità sorprendenti, con una sobria gamma di colori (Venditrice di uccelli, 1626, collezione Duchessa di
Valencia; Natura morta di caccia, 1623, Collegio Santamarca).
A partire dal 1624, anno in cui muore Tristán, e dal
1639, anno in cui Orrente si stabilisce definitivamente
a Valencia, dove morirà, Toledo perde la qualifica di
centro artistico, rimanendo completamente sottomessa
a Madrid da dove giungeranno gli artisti che lavoreranno per la cattedrale o a opere di una certa importanza,
al di là della destinazione o del committente.
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Valencia
A Valencia il nuovo stile prende forma grazie a un
pittore catalano, educato in Castiglia, che nel 1599 si
stabilisce nella città del Guadalquivir: Francisco Ribalta. Fino all’avvento di Ribalta, la pittura valenciana è
ancora sotto i fiochi echi dello stile di Juan de Juanes,
che si era profondamente radicato nella devozione popolare. Discepoli e imitatori di Juanes proseguono fino a
un’epoca tarda: la figlia Margarita muore nel 1613, il
padre Borrás nel 1610, Cristóbal Lorens dipinge fino al
1626 e anche Ribalta alcune volte realizza, su richiesta
della clientela devota, copie o interpretazioni dei modelli di Juanes. La trasformazione era già presente nell’opera di Juan Zariñena (morto nel 1619), artista di un
certo valore, che equivale, nella Valencia controriformista del patriarca san Giovanni de Ribera, a ciò che gli
artisti dell’Escorial eseguono a corte.
Francisco Ribalta, nato a Solsona (Barcellona) nel
1565 e formatosi in Castiglia nell’ambito dell’Escorial,
nel 1582 è a Madrid dove firma la Crocefissione (che
risente dell’influenza dell’arte dell’Escorial), oggi all’Ermitage, e dove nel 1596 si sposa.
Si trasferisce poi a Valencia e dal suo arrivo (1599)
si lega all’arcivescovo-patriarca Juan de Ribera per il cui
collegio del Corpus Christi realizza alcuni lavori di notevole impegno. Nelle sue prime opere si avverte l’influenza di quanto osservato all’Escorial con tracce molto
dirette di Navarrete el Mudo, Sebastiano del Piombo o
Tiziano (retablo di Algemesí, 1603), ma negli anni il suo
stile va verso una direzione completamente realista.
È stata avanzata la possibilità che negli anni della
maturità abbia realizzato un viaggio in Italia che gli
permise di conoscere direttamente la grande rivoluzione caravaggesca. Anche se oggi, alla luce di alcuni documenti di recente pubblicazione, non sembra possibile
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
accettare questa ipotesi, è evidente che le sue ultime
opere, magistrali, tele dei Cappuccini di Valencia, 1620,
Museo del Prado (San Francesco e l’angelo), Museo di
Valencia (Cristo abbraccia san Francesco) e il retablo di
Portacoeli, oggi al Museo di Valencia, dimostrano una
piena sicurezza nel mostrare la luce diretta e la preferenza per i modelli concreti, anche brutti, visti nella
realtà che lo circonda, ma che riesce a dotare di evidente
gravità e nobiltà. La sua gamma di colori, molto calda,
con rossi intensi e incarnati molto scuri, diventerà, come
il suo stile di rude virilità, una caratteristica della scuola valenciana.
Le opere del retablo di Portacoeli, eseguite nel 1625
e oggi conservate nel Museo di Valencia (San Bruno, San
Paolo, San Giovanni Battista), sono superbi esempi della
sua alta capacità di caratterizzazione e della sua tecnica
che risente di sottigliezze veneziane, con una pasta di
colore fluido in successive stesure e trasparenze che in
San Bruno brillano in modo meraviglioso.
Nell’evoluzione dello stile di Ribalta riguardante gli
ultimi anni della sua vita è probabile che abbia svolto un
ruolo importante il figlio Juan, nato nel 1597, quindi
appartenente a un’altra generazione, quella di coloro
nati verso il 1600, epoca in cui si integrano tutti i grandi maestri del secondo terzo del secolo, ma morto giovanissimo lo stesso anno del padre, il 1628. L’opera di
entrambi è strettamente collegata, anche se sicuramente negli ultimi anni il peso del laboratorio di famiglia
dovette essere sostenuto da Juan.
Nelle poche opere firmate da Juan, dalla prima del
1615, I preparativi per la crocifissione al Museo di Valencia, dipinta ricordando quella eseguita dal padre quindici anni prima, fino alle opere che realizzò indubbiamente assieme al padre per il retablo di Portacoeli
(soprattutto San Pietro) si avverte un naturalismo piú
avanzato, maturo e cosciente, dalla pennellata meno
Storia dell’arte Einaudi
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impregnata della tradizione veneziana di Tiziano, che in
Juan si fa piú minuziosa e definitiva, e alcuni contatti
con il mondo bassanesco di Orrente, che aveva già avuto
modo di dimostrare il suo gusto e la sua tecnica a Valencia fin dal 1616. A lui si dovrà la maggior parte del maltrattato retablo di Andilla (Valencia) e le opere firmate
tra cui il magnifico San Gerolamo al Museo di Barcellona e l’imponente San Giovanni Evangelista al Museo del
Prado.
Nell’insieme di Andilla sono certamente intervenuti
anche altri artisti formatisi nel laboratorio dell’anziano
Ribalta. Notevole doveva essere Vicente Castelló, sposato con una figlia del maestro e artista di sensibilità
molto vicina agli scorci e alle tendenze ereditati dal
manierismo e a una tonalità cromatica di solito piú fredda (Discesa al Limbo, Augustinas de Segorbe, Castellón).
Ci sono noti i nomi di altri collaboratori e discepoli
che lavorarono a contatto con il laboratorio di Ribalta,
ma purtroppo, per le distruzioni causate dalla guerra
civile, è molto scarsa la produzione documentata che ne
permette l’individualizzazione. Bisogna citare, assieme
a Juan Bisquert (1590 ca. - 1646), che si stabilí a Teruel,
e a Pedro García Ferrer (1583-1660), che dopo aver
lavorato a Saragozza si trasferí in America lasciando
notevoli opere a Puebla de los Angeles (Messico), i nomi
di Gregorio Bauzá di Mallorca (1590 - dopo il 1645) e
del valenciano Abdón Castañeda (1580 ca. - 1629) legati in alcune occasioni ai Ribalta, come testimoniano i
documenti.
Dopo di loro troviamo Jacinto Jerónimo de Espinosa (1600-67), rappresentante del naturalismo valenciano
che sopravviverà, quasi senza modifiche, per tutto il
periodo immediatamente successivo.
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Siviglia
A Siviglia, il terzo nucleo artistico importante di questi anni, la trasformazione verso il naturalismo è rappresentata da tre artisti di valore molto diverso: Francisco Pacheco (1564-1644), Juan de las Roelas (1560 ca.
- 1625) e Francisco Herrera il Vecchio (1580/90 ca. dopo il 1657). Come a Valencia, la tradizione cinquecentesca sivigliana era molto forte, con una marcata
matrice di romanismo fiammingo dovuto all’intensa
comunicazione commerciale con le Fiandre e alla presenza in tutto il XVI secolo di alcuni pittori dei Paesi
Bassi di notevole calibro (Pedro de Campaña, Sturmio)
che lasciarono opere importanti e giunsero a creare una
scuola. Francisco Pacheco si formò in questa tradizione
e si suppone che viaggiò nelle Fiandre, anche se in realtà
si tratta di una lettura errata di una citazione di Van
Mander inclusa nel suo Arte della pittura. Uomo longevo, anche se non si sa con certezza se visse davvero fino
a novant’anni come si credette a lungo, ebbe l’occasione di conoscere tutte le novità che giungevano a Siviglia; curioso e attento non tralasciò di interessarsi a
esse. Uomo con una certa cultura letteraria, si tenne in
corrispondenza con Carducho e la pubblicazione postuma del suo Arte della pittura (1653), trattato teorico di
estetica ancora cinquecentesca, pieno di importanti notizie sull’ambiente artistico dell’epoca, ci informa sull’introduzione delle novità stilistiche. Buon maestro, nel
suo laboratorio passarono alcune delle figure piú significative della generazione successiva, soprattutto Velázquez, che sposò sua figlia, e Alonso Cano, che seppe condurre, senza alcun vincolo, nelle nuove correnti del naturalismo.
Come artista non oltrepassa la posizione di evidente
arcaicismo in stile fiammingo, con un disegno duro e un
colore crudo, anche se a volte introduce elementi reali-
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
sti, con una certa intimità familiare, che ben rispondono alle necessità iconografiche dell’ambiente controriformista descritte eccellentemente in molte pagine
della sua opera. A questo riguardo rappresentano dei
magnifici esempi due tele del 1616: il San Sebastiano,
dipinto per l’ospedale di Alcalá de Guadaira, rappresentato in un modo assolutamente nuovo, come un convalescente assistito nel suo letto dalle donne che, come
riporta la leggenda, ne curarono le ferite (il quadro è
andato purtroppo distrutto durante la guerra civile) e il
Cristo assistito dagli angeli appena entrato a far parte
della collezione del Museo Goya di Castres. Sono eccezionali la sua conoscenza e l’uso della mitologia nella
decorazione del soffitto del gabinetto del duca di Alcalá,
nella casa de Pilatos a Siviglia, sede di un cenacolo letterario che, modestamente, voleva imitare quelli italiani. Proprio i disegni preparatori di questo ciclo denunciano con chiarezza la sua conoscenza di Luca Cambiaso e dell’arte dell’Escorial. Di grande importanza è
anche la sua opera come ritrattista, oltre ad alcuni ritratti a olio; lasciò una serie di disegni a matita e sanguigna
a completamento del libro Verdaderos retratos de ilustres
y memorables varones concepito per essere pubblicato alla
maniera di alcuni illustri modelli italiani e fiamminghi,
ma che alla sua morte era ancora in forma di manoscritto
di cui una parte notevole è conservata al Museo Lázaro
Galdiano di Madrid.
Piú nuova sembra essere la personalità di Juan de las
Roelas, che equivale a ciò che eseguono Carducho a
Madrid e il primo Ribalta a Valencia. Educato in Italia,
dove fu senza dubbio fortemente attratto da Venezia,
trascorse alcuni anni a Valladolid (dal 1598 al 1602) e
nel 1603 si stabilisce a Siviglia da dove si reca a Madrid
nel 1616 con la speranza, fallita, di diventare pittore del
re. Di ritorno a Siviglia, ordinato sacerdote, muore come
canonico nella collegiata di Olivares nel 1625.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
La sua arte, dalle forme alquanto pesanti, dal colore
ricco e caldo di origine veneziana e con certi dettagli
delicati, interpretati con tecnica libera «a macchie», che
contrasta con le delicate finiture della tradizione fiamminga tipiche di Pacheco, risulta molto singolare nell’ambiente sivigliano. Le grandi tele per altare sono
ordinate su due piani, uno celeste con squarci di gloria
popolati da angeli musicisti, bambini o ragazzi, fluttuanti in un’atmosfera dorata tipica di Veronese che
anticipa i cicli di Murillo, e l’altro, terreno, che si rifà
al mondo veneziano, piú bassanesco che veronesiano,
dove si rappresentano alcuni episodi evangelici (Circoncisione, 1603, antica università di Siviglia) o agiografici
(Martirio di sant’Andrea, Museo di Siviglia; Comunione
di sant’Isidoro, 1613, Siviglia, chiesa del Santo) che insistono molto sugli aspetti del realismo quotidiano e dell’individualità dei personaggi. Tuttavia, sorprende abbastanza la quasi completa mancanza di interesse per gli
effetti dell’intenso chiaroscuro tenebrista. Le poche
volte che si può segnalare questa caratteristica nella sua
opera (Liberazione di san Pietro, 1612, Siviglia, San
Pedro) è certo che proviene da stimoli veneziani piú che
dalla conoscenza della corrente caravaggesca al cui severo e drammatico rigore resta sempre estraneo, anche
negli ultimi anni.
Herrera il Vecchio, sicuramente molto piú giovane,
anche se non conosciamo con certezza la sua data di
nascita, è un uomo e un artista con altre capacità. Di
carattere un po’ rude, difficile, duro con i discepoli e i
figli, che non riescono a sopportarlo e abbandonano la
casa paterna, la sua arte testimonia la sua rudezza, è
intensa e goffa. Arcaico nella composizione, dalla quale
non riesce a scacciare le tracce manieriste presenti nella
disposizione (Pentecoste, 1617, Toledo, Museo del
Greco), è a volte straordinariamente vivace nel rappresentare i volti dei personaggi, interpretati con una
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
tecnica molto personale, dalle pennellate grosse, aspre
e separate che diedero il via alle voci che dipingesse con
pennellesse e non con pennelli. Le sue opere principali, le scene della vita di san Bonaventura, dipinte nel
1626 per il collegio del Santo di Siviglia, assieme al giovane Zurbarán , oggi al Prado e al Louvre, sono composte da una galleria di ritratti di monaci di vibrante
intensità. Non è possibile segnalare in Herrera alcun
contatto con l’ambiente strettamente tenebrista e, sebbene molto trasformata dal suo genio violento e dal suo
personalissimo modo di fare, è evidente nelle sue opere
migliori la conoscenza dell’arte veneziana, soprattutto
nel modo in cui tratta i piani di luce e nella riduzione
del colore con armonie di tono. Esprimono perfettamente la sua personalità anche le grandi tele di San
Ermenegildo (1624) e di San Basilio (1639), entrambe
al Museo di Siviglia, o il San Giovanni Battista e i discepoli al Museo di Rouen.
Altri pittori sivigliani, o piú genericamente andalusi,
di questo periodo aggiungono ben poco a quanto già
indicato. Forse vale la pena ricordare i sivigliani Juan de
Uceda Castroverde (1570 ca. - 1631), appartenente alla
generazione di Pacheco, che nelle sue ultime opere assimila molto della tecnica di Roelas (La trinità della terra,
1623, Museo di Siviglia) e Francisco Varela (1580 ca. 1645) dalle tipologie di tono arcaicizzante e dal colore
intenso, ancora rapportato all’ultimo manierismo (L’ultima cena, 1622, Siviglia, San Bernardo) o Antonio
Mohedano, di Lucena (Cordoba, 1563-1626) che dipinse ad Antequera e di cui sappiamo, grazie a Pacheco che
lo conobbe bene, che oltre a dominare la tecnica dell’affresco, fu un grande pittore di nature morte, fiori e
«oggetti» inanimati. L’Annunciazione del retablo dell’antica università di Siviglia (1606 ca.) permette di giudicarne la qualità e l’importanza, come pure l’evidente
vincolo allo stile dell’Escorial nella tipologia, nella com-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
posizione e nella tavolozza, che anticipa curiosi accenti
quasi zurbariani.
Il modesto Juan del Castillo (1590 ca. -1657), tradizionalmente piú famoso, merita di essere menzionato
perché maestro di Murillo e per la sua relazione familiare con Alonso Cano. Il suo retablo di Montesión
(1634-35, Museo di Siviglia) è un’opera arcaicizzante,
dal disegno incisivo e dal colore acido, che dimostra
comunque una certa grazia popolare che trasmette,
anche se molto trasformata, al suo discepolo Murillo.
Vale inoltre la pena ricordare, in quegli anni, un artista
singolare, la cui presenza è documentata a Granada agli
inizi del secolo e che nella storia della natura morta spagnola rappresenta in Andalusia un ruolo analogo a quello di Sánchez Cotán in Castiglia: si tratta di Blas de
Ledesman, di cui si ha documentazione tra il 1603 e il
1611. La sua Natura morta con ciliegie, al Museo di
Atlanta, è un’opera di prodigiosa precisione, delicatezza e mistero.
Storia dell’arte Einaudi
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La generazione dei grandi maestri
La generazione di artisti nati tra il 1590 e il 1610 è
quella che produrrà le opere capitali della storia dell’arte spagnola. Questi pittori, la cui formazione può essere considerata chiusa verso il 1625-30, sono quelli che
invadono con la loro produzione il regno di Filippo IV,
che sarà cosí il fortunato «protettore» della vera «età
dell’Oro» della pittura spagnola. In realtà, per ragioni
puramente cronologiche, appartiene a questa grande
generazione qualche artista già menzionato come Juan
Ribalta, nato nel 1597, ma la cui morte prematura ha
portato a considerarlo tra i pittori del primo terzo del
secolo.
I grandi maestri di questa generazione presuppongono il superamento della timidezza, alquanto ambigua, di
coloro che diedero inizio allo stile, ma conservano sempre qualcosa della retorica controriformista. Senza alcun
dubbio sono già a conoscenza di ciò che il caravaggismo
aveva apportato in quanto lezione aperta verso la realtà
immediata, assumono senza riserva l’analisi della realtà
e quasi tutti, oltre a coltivare il tenebrismo come stile
di gioventú, si evolvono verso altre forme e curiosamente assumono, nella maturità, un certo classicismo
che preannuncia, nelle loro ultime opere, il cammino
verso il folgorante splendore plastico del pieno barocco,
con il suo dinamismo rapito e l’ottimismo trionfale. Si
ricordi che fuori dalla Spagna appartengono a questa
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
generazione privilegiata artisti importanti del barocco
secentesco come Poussin (1594), Van Dyck (1599), Bernini (1598), Algardi (1595), Pietro da Cortona (1596),
Andrea Sacchi (1599) e Rembrandt (1606).
Se gli artisti del regno di Filippo III si muovono,
come abbiamo visto, tra le coordinate dell’Escorial e dei
primi stimoli del naturalismo proveniente dall’Italia, i
pittori del regno di Filippo IV aprono i propri orizzonti a nuove prospettive, sia di provenienza italiana (che
adesso, superato il caravaggismo, si rivolgono alle forme
del classicismo luminoso dei bolognesi e al neovenezianesimo che sfocerà nel barocco romano) sia di stile fiammingo rubensiano che, nella seconda metà del secolo, si
convertirà nell’espressione definitiva. Gli artisti nati
alla soglia del 1600 assisteranno a questa trasformazione del gusto, a questa insensibile fusione di elementi stilistici disuguali. Quelli con l’immaginazione e la capacità
creativa piú fervide apportano la loro personalità all’evoluzione e, padroni di tutti i mezzi pittorici, superano
il conflitto e scoprono un linguaggio personale che
diverrà, nelle sue varianti e sfumature, il culmine dell’arte spagnola. Ribera, Zurbarán, Velázquez e Alonso
Cano, in maggior o minor misura, secondo il loro temperamento, rappresentano i punti piú alti di questa fortunata generazione. Altri artisti, meno dotati, vivono
forse la situazione di tensione in modo piú angoscioso e
non sono in grado di risolvere le apparenti contraddizioni. Espinosa, Juan Rizi, Pereda o Antonio del Castillo si aggrappano alle forme del naturalismo a loro note,
introducendo timidamente effetti di colore e movimento, non sempre ben assimilati.
Gli ultimi anni del regno di Filippo IV vedranno le
primizie di altri artisti piú giovani, nati tra il 1614 e il
1625, che abbracciano prontamente e in modo deciso il
nuovo stile che darà i frutti migliori nell’ultimo terzo del
secolo, già sotto il regno dell’ultimo Asburgo, Carlo II.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Nella Siviglia dei primi anni del secolo si formano tre
delle maggiori figure dell’epoca: Velázquez, Zurbarán e
Alonso Cano, ma il primo e l’ultimo vivranno la loro
evoluzione fuori dalla città del Guadalquivir; Ribera, il
piú anziano, si trasferirà in Italia dove dipingerà tutte
le sue opere.
Ribera
Nato a Játiva (Valencia) nel 1591, Jusepe de Ribera,
detto lo Spagnoletto, è cronologicamente il primo della
serie dei grandi maestri spagnoli. Si è presupposto che
a Valencia sia stato discepolo di Francisco Ribalta, da
cui derivò il naturalismo, facendo sí che venisse considerato pittore di «scuola valenciana». In realtà, viaggiatore in Italia almeno dal 1611, anno in cui risulta la
sua presenza a Parma, stabilitosi definitivamente a
Napoli dal 1616, se conobbe un Ribalta doveva trattarsi del Ribalta precedente il 1611, ancora molto legato
agli artisti dell’Escorial e distante dal fiero caravaggismo
presente nelle opere piú giovanili del presunto discepolo. L’importanza di Ribera sia come pittore sia per la sua
attività di incisore è eccezionale per tutta l’arte europea
e supera di molto i limiti della regione valenciana dove
d’altronde si conservano pochissime delle sue opere e
dove la sua influenza fu scarsa. La sua posizione speciale
di «straniero» a Napoli e la sua condizione di spagnolo
in una specie di esilio volontario ha reso difficili, fino a
una data recente, la sua esatta collocazione e uno studio
obiettivo. In realtà, Napoli era un viceregno spagnolo e,
nonostante egli non avesse mai piú fatto ritorno in Spagna, quando firmava un’opera ripeteva sempre la sua
condizione di hispanus, valentinus e, a volte, anche setabensis. Molte delle sue opere vennero dipinte per essere inviate direttamente in Spagna, soprattutto a corte,
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
dove furono immediatamente apprezzate e dove ebbero un ruolo importante per la diffusione del naturalismo
piú stretto. È quindi corretto considerarlo spagnolo, ma
allo stesso tempo, l’ambito in cui si muove, la sua diretta e vivace conoscenza dell’arte italiana, l’indubbia
realtà che i suoi discepoli e il circolo sottoposto alla sua
influenza diretta sono strettamente italiani, fino a giungere all’estremo che senza di lui sarebbe difficile parlare di «scuola napoletana», permettono con uguale diritto di considerarlo italiano. Se gli italiani credono di
vedere nella sua opera una certa crudeltà e rudezza
«totalmente iberica», dal punto di vista spagnolo si può
segnalare nella sua opera una serie di elementi (rigore nel
disegno classico e nell’invenzione, conoscenza e uso
della mitologia, perfino la sua maestria come incisore)
che sarebbe stato difficile individuare se l’artista fosse
rimasto in Spagna.
La sua produzione giovanile è fortemente segnata
dalla conoscenza e dallo studio dell’arte di Caravaggio,
che non conobbe personalmente, ma al cui stile e insegnamenti lo vincolano direttamente i suoi piú antichi
biografi. Del naturalismo caravaggesco Ribera dà un’interpretazione molto personale, esagerando a volte gli elementi di contrazione, rudezza o violenza, ma tratta la
materia pittorica in modo molto diverso dai caravaggisti italiani. Ribera incorpora una tecnica densa e pastosa, che comunica una certa sensualità e un gusto per la
materia certamente di origine veneziana. Il suo senso
della realtà e della qualità delle cose fa sí che gli basti
una pennellata per riuscire a rendere il rilievo delle
rughe della pelle o delle pieghe dei tessuti.
Nelle sue prime opere conservate (ciclo dei Sensi,
smembrato), dipinte a Roma verso il 1613-16, sembra
evidente il contatto con i caravaggisti di origine nordica, fiamminga e olandese, con i quali dovette mantenere stretti contatti. Una volta stabilitosi a Napoli dà corso
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
alla sua tecnica piú personale e caratteristica e, soprattutto nella maturità, introduce composizioni ed elementi
di colore dinamici e sensuali che in alcuni casi (Immacolata, 1635, Salamanca, convento di Monterrey) si possono considerare già pienamente barocchi.
Il suo insediamento a Napoli nel 1616 gli valse subito la protezione del viceré, duca di Osuna, per il quale
dipinge (1616-20) una serie di tele giovanili dal tono
molto tenebrista, dove è evidente la sua conoscenza dell’arte bolognese (Calvario, i santi Pietro, Bartolomeo,
Sebastiano e Gerolamo della collegiata di Osuna). Nei
viceré successivi, soprattutto nel conte di Monterrey
(1631-37) e nel duca di Medina de las Torres (1637- 44),
Ribera incontrò sempre protettori e mecenati che in
qualche modo lo imposero come pittore «ufficiale» e gli
permisero, in un ambiente cortigiano piú aperto di quello strettamente conventuale, la conoscenza e la coltivazione di una tematica mitologica, eccezionale in un artista spagnolo, e che egli seppe interpretare con personalità sia in chiave violenta (Apollo e Marsia, 1637, Museo
di Bruxelles; Tizio e Issione, 1632, Museo del Prado) sia
in un tono di ordinato equilibrio completamente classico (Teoxenia o Visita di Dioniso agli uomini, ispirato a un
antico rilievo e conosciuto solo grazie a una copia e a
frammenti dell’originale distrutto nel 1734) con sfumature di una certa rude ironia (Sileno ebbro, 1626, Museo
di Napoli).
Le componenti stilistiche di Ribera si possono definire senza alcuna difficoltà. Sebbene la base del suo
stile sia essenzialmente il caravaggismo, dal quale trae il
gusto per i modelli di diretta immediatezza, illuminati
con la violenza del tenebrismo piú rigoroso che emergono drammaticamente da fondi scuri e cupi, abbiamo
già accennato che, fin dai primi tempi, conosce e adotta alcuni elementi del classicismo bolognese. Riesce a
trasformare la volgarità dei suoi modelli, persone di
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
strada con un’evidente durezza, in apostoli o filosofi
antichi e ciò proviene dal repertorio naturalista piú
estremo. La sobria e solenne monumentalità che a volte
imprime loro, la maniera di sottolineare con grandi pietre da costruzione il carattere architettonico delle sue
composizioni, sapientemente studiate, l’evocazione, a
volte, di schemi raffaelleschi per le sue sobrie composizioni sacre e, in ultimo, la sua ossessione per il disegno,
in quanto base essenziale del lavoro di pittore, che lo
porta a preparare un libretto di incisioni da mostrare ai
suoi studenti, rispondono pienamente alla tradizione
del classicismo romano-bolognese.
Verso il 1630, negli stessi anni in cui si verifica il neovenezianesimo romano, l’arte di Ribera presenta una
notevole inflessione e introduce nelle sue composizioni,
finora quasi sempre tenebriste, un elemento di luminoso ottimismo, una predilezione per i cieli aperti in azzurri raggianti e nubi argentate sulle quali si stagliano le
forme monumentali dei suoi personaggi. La conoscenza
della pittura fiamminga (Van Dyck si trovava a Napoli
nel 1624 e i mercanti fiamminghi rendono possibile la
conoscenza delle opere di Rubens) aggiunge un elemento di dinamismo che sa incorporare con efficacia e personalità, producendo opere di spettacolarità rotonda,
come la citata Immacolata di Monterrey (1635), o fondendosi armoniosamente con la tradizione naturalista,
come nel Martirio di san Filippo (1639), custodito al
Museo del Prado.
La decade del 1630-40, soprattutto gli anni 1637-39,
sembra essere particolarmente felice per la produzione
di Ribera, che dipinge la maggior parte dei suoi capolavori, dalla grande Pietà (1637) della certosa di San Martino, che emana un’emozione molto umana, interpretata dal tenebrismo, ma resa con una tecnica piú fluida e
trasparente, fino ai grandi Paesaggi (1639) della collezione dei duchi di Alba, che sottolineano il suo interes-
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
se per un genere nuovo che avrà un’importanza decisiva nella futura evoluzione di altri artisti napoletani.
Nella decade successiva, 1640-50, Ribera venne colpito da una lunga e travagliata malattia che lo allontanò
dal lavoro; la collaborazione di un attivo laboratorio gli
permise di mantenere viva una produzione che ripete
modelli di fasi precedenti, ma che produce anche opere
notevoli per la chiara e vibrante luminosità (Patizambo,
1642, Louvre e Battesimo di Cristo, 1643, Museo di
Nancy) e di singolare complessità compositiva, imparentata con il mondo bolognese (Il miracolo di san Gennaro nel forno, cattedrale di Napoli) o che riprende, in
chiave moderna e piú solenne, elementi della grande
pittura veneziana del XVI secolo, alla maniera di Veronese. La grande Comunione degli apostoli della certosa di
San Martino, iniziata nel 1638 e terminata nel 1651, è
un superbo esempio del suo ultimo pittoricismo.
Questi elementi di evidente e pieno barocchismo non
cambiano del tutto il suo tenebrismo giovanile che persiste fino agli ultimi anni in quelle opere che, per il
tema o perché la tradizione lo aveva fissato, sembrano
richiederlo. Nelle opere dei suoi ultimi anni con queste
caratteristiche (Il miracolo di san Donato, 1652, Museo
di Amiens e Sant’Andrea, Museo del Prado), la luce produce nei corpi o nei tessuti illuminati che emergono dall’oscurità una specie di incandescenza di carattere quasi
rembrandtiano, ben diversa dai tersi e uniformi volumi
illuminati del primo caravaggismo.
A partire dal romanticismo, la personalità di Ribera, una delle piú forti e influenti dell’epoca, conosciuto e imitato in tutta Europa nel XVII secolo, ha subíto una specie di falsa interpretazione che ha voluto
vedere in lui (e le brillanti formulazioni letterarie di un
Byron e di un Gautier lo hanno enormemente favorito) un cupo pittore di sangue, crudeltà e mostri. Soltanto la critica piú recente sta iniziando a restituire il
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
suo posto a colui che senza dubbio può essere considerato uno dei piú personali, maturi e completi artisti nati
nella penisola iberica.
Francisco de Zurbarán
La personalità di Francisco de Zurbarán (1598-1664),
proveniente dall’Estremadura, educato a Siviglia, è completamente diversa da quella di Ribera. Di chiara modestia e timidezza, esce a malapena dal ristretto circolo
della clientela conventuale per cui realizza il meglio della
sua produzione. Nessuno come lui ha saputo rappresentare con maggior semplicità ed efficacia la fervente
passione e la familiarità con la parte meravigliosa della
vita monastica della Controriforma spagnola. La sua
straordinaria fama e il prestigio attuale sono una conseguenza di alcune qualità, o meglio limiti, che soltanto la
nostra abitudine a determinati aspetti dell’arte moderna ci permette di valutare adeguatamente; la semplicità
quasi impacciata per assenza di colti artifici e la capacità quasi ossessiva di riprodurre ciò che ha di fronte nel
modo piú semplice e diretto lo rendono un superbo pittore di nature morte, e il gusto per i volumi puri ed elementari evocano forme di alcuni settori dell’arte contemporanea provenienti dal postcubismo.
Nato a Fuente de Cantos (Badajoz) nel 1598, si sa che
si formò a Siviglia con il pittore Pedro Diaz de Villanueva, di cui non conosciamo le opere, conobbe sicuramente Pacheco e i suoi discepoli, soprattutto il giovane
Velázquez. Nel 1618 si stabilisce a Llerena (Badajoz)
dove lavora per una clientela modesta rappresentata da
chiese e conventi e dove si sposa due volte. Riceve un
importante incarico dai domenicani di Siviglia nel 1626,
anno in cui ha inizio il suo vincolo indissolubile con questa città, dove produrrà opere per le piú importanti
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
comunità monastiche sivigliane (ordine della Mercede,
certosini, francescani). Nel 1629 la municipalità della
città lo invita a stabilirvisi con casa e laboratorio, non
senza l’opposizione della locale corporazione dei pittori, capeggiata da Alonso Cano, che reclamava, senza
alcun esito, che il giovane pittore dell’Estremadura si
sottoponesse all’esame stabilito dalla corporazione sivigliana.
A questi primi anni della sua produzione risalgono il
superbo Cristo crocifisso (1627), ora al Museo di Chicago, proveniente dal convento dei domenicani come I
padri della chiesa, ora al Museo di Siviglia, i quadri che
illustrano la vita di san Pietro Nolasco, provenienti dalla
Merced (1629, Museo del Prado), l’insieme dei ritratti
di frati dell’ordine della Mercede dell’Accademia di San
Fernando e il meraviglioso Beato Serapione (1628, Museo
di Hartford). L’enorme tela dell’Apoteosi di san Tommaso d’Aquino (1631) del Museo di Siviglia è senza dubbio una delle sue composizioni piú solenni, sontuose e
complesse, dove il tenebrismo si fonde con il suo ricco
senso del colore e con un’eccezionale capacità di tradurre in pittura le qualità delle cose.
Nel 1634, sicuramente su iniziativa di Velázquez,
viene chiamato a Madrid per partecipare alla decorazione del Buen Retiro, dove dipinge, oltre alle tele con
battaglie di severa compostezza per il Salone dei Regni
(Aiuto a Cadice, Museo del Prado), alcuni quadri a soggetto mitologico di intenso tenebrismo (Le fatiche di
Ercole, oggi al Museo del Prado) che testimoniano la sua
scarsa capacità nel nudo e nella composizione profana,
ma interessanti per i paesaggi di fondo e la maestria nei
complementi della natura morta. Al suo ritorno, con il
titolo di «pittore del re», la sua maturità giunge al culmine nei due eccezionali cicli che costituiscono la parte
piú valida della sua produzione: quello della certosa di
Jerez (163739), oggi smembrato (Musei di Cadice e Gre-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
noble, Metropolitan Museum) e quello del monastero
geronimita di Guadalupe (1638-39), per fortuna conservato intatto in situ.
In questi cicli Zurbarán offre il ventaglio completo
delle sue capacità. Nelle grandi tele a tema evangelico
provenienti da Jerez, oggi a Grenoble, lo spazio è saturo di un’atmosfera di silenziosa devozione, mentre la
monumentalità dei personaggi e la prodigiosa maestria
dei dettagli lo rendono indimenticabile, anche se in essi
è evidente l’utilizzo di modelli provenienti dalle stampe.
Le figure dei venerabili certosini del Museo di Cadice, sempre provenienti da Jerez, offrono magnifiche
interpretazioni del misticismo ispanico, a iniziare dalla
realtà piú diretta.
L’insieme di Guadalupe sprigiona una prodigiosa e
intensissima panoplia della vita monastica, con un perfetto equilibrio, che raramente raggiungerà in seguito,
tra individualità dei volti, sempre veritieri, e il tono
lento, lirico e severo della narrazione.
In questi anni il suo laboratorio è il piú ricco e attivo di Siviglia; gli incarichi piovono e vive comodamente, anche se la fortuna familiare inizia a essergli avversa. Nel 1639 muore la seconda moglie e dieci anni dopo,
durante la terribile epidemia di peste del 1649, perde il
figlio e collaboratore Juan de Zurbarán. Nel frattempo
giungono a Siviglia ventate di novità e, dal 1645, la crescente personalità di Murillo gli toglie gli incarichi piú
importanti della città.
Nella decade del 1650, diminuita la clientela, sembra
che quasi tutta la sua attività si concentri su una serie
di dipinti per l’esportazione in America dove il suo stile
esercitava una vasta influenza, soprattutto in Messico.
A questi anni risalgono le serie, spesso ripetute in esemplari di qualità non sempre uniforme, dei santi fondatori degli ordini religiosi e delle sante vergini, ma anche
di personaggi dell’Antico Testamento (i figli di Gia-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
cobbe) nonché di storia profana (gli infanti di Lara, gli
imperatori romani). Dal 1658 fino alla morte (1664) lo
troviamo a Madrid con la terza moglie, vive modestamente e cerca di assimilare la nuova tecnica violenta e
di colore vaporoso che il nuovo gusto sta imprimendo,
senza però riuscirci completamente.
In questi ultimi anni della sua vita sembra dedicarsi
soprattutto a quadri di piccole dimensioni di devozione
privata, delicata e intima, come Sacre famiglie, Madonna con bambino e Immacolata Concezione, nonché alcuni temi della passione (Cristo alla colonna, Telo della
Veronica ecc.) e alcuni santi (San Francesco). Nel convento di San Diego, ad Alcalá de Henares, lascia il suo
ultimo apporto alla pittura monastica con le grandi tele
di San Bonaventura (Madrid, San Francesco il Grande)
e San Giacobbe della Marca (Museo del Prado) dove si
nota l’evoluzione del suo stile che tenta, senza rinunciare alla monumentale severità, di assimilare le apprensioni atmosferiche di Velázquez, senza però capirne del
tutto le supposizioni.
Zurbarán incarna in maniera magistrale i limiti della
Spagna dell’epoca, chiusa in se stessa, che ha come unico
punto di riferimento la religione, quasi fosse un orizzonte ossessivo. Uomo di scarsa preparazione, è spesso
goffo e impacciato nelle composizioni complesse, eseguite male, con errori di prospettiva, ma con paesaggi,
quando li adotta, di evidente bellezza, che comunque si
rifanno spesso a incisioni fiamminghe e completamente
slegati dalla figura principale, quasi fossero un lontano
fondale. I suoi principali esiti, quelli che hanno costituito la sua fama, si trovano nella sua portentosa capacità di affrontare le cose tranquille e umili della vita quotidiana. La sua maestria in questo rende le composizioni delle superbe nature morte dove gli oggetti, i vasi, i
frutti, i fiori o i tessuti che vestono i personaggi acquisiscono un’entità e un’evidenza affascinanti. Nelle rare
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
occasioni in cui dipinge delle nature morte, si tratta
assolutamente di capolavori di intensità e fascino senza
equivalenti se non in Sánchez Cotán. La sua Natura
morta con piatto di cedri, cesto di arance e tazza con rosa
(1633) della Norton Simon Foundation di Pasadena o le
identiche Nature morte con vasi del Museo del Prado e
del Museo di Barcellona fanno sí che gli oggetti piú volgari sembrino dotati di una prodigiosa e sottile intensità
misteriosa. È anche maestro nel riprodurre i volti, che
devono però essere estatici, esprimere una fede appassionata, la serenità dell’estasi, l’abbandono o la morte,
devono in qualche modo esprimere le sottigliezze intellettuali e psicologiche pretese dal classicismo italiano,
con la sua analisi degli effetti e delle passioni.
L’abbandono dell’umano nella divinità, ricercato dai
mistici, e la coesistenza giornaliera di realtà immediata
e di tensione all’assoluto, trova in lui un interprete eccezionale, anche se si avvertono i limiti della sua gamma
espressiva, quella di una pia eredità contadina secondo
la quale il mondo finisce tra i muri del convento. La sua
evidente genialità consiste proprio nel trascendere questo limite e tradurre la materia delle cose con una specie di magica luce interna che sublima il volgare e monumentalizza il quotidiano.
Oltre ai grandi cicli conventuali, la parte piú caratteristica della sua opera, Zurbarán ha lasciato una serie
significativa di opere devozionali, Cristi crocifissi,
Madonne con bambino, Immacolate Concezioni e figure di sante che spesso costituiscono delle serie a carattere quasi processionale da collocare sulle pareti di chiese e sagrestie.
L’evoluzione del suo stile parte da un tenebrismo
rigoroso dove si avverte indubbiamente l’impronta di
Ribera, conosciuto grazie alle tele di Osuna o alle opere
che studiò a Madrid. All’epoca, il suo Cristo crocifisso del
1627 (Museo di Chicago), eseguito per i domenicani di
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Siviglia, sorprese per l’energico contrasto luminoso e la
rotondità quasi scultorea. Le altre tele per i domenicani e quelle per le Mercedarie Calzate (1628-30, Museo
di Siviglia, del Prado e Accademia di San Fernando) presentano quello stesso tenebrismo, sebbene alquanto attenuato, con ombre trasparenti e colori intensi che conferiscono un’evidente sontuosità colorista alle composizioni. In lui il riberismo arriva all’estremo in alcune
opere della decade del 1630 (retablo di San Pietro nella
cattedrale di Siviglia, Gli apostoli del Museo di Lisbona, alcune tele di Jerez e Guadalupe). Nei volti della
serie dei frati della Mercede all’Accademia o nelle scene
dei geronimiti a Guadalupe si trova la maggior intensità
della sua produzione e del suo stile, che ha già assimilato quanto piú possibile dalla sua esperienza madrilena.
Negli ultimi anni, il modellato fortemente plastico
della sua produzione precedente cede il passo a un leggero sfumato dei contorni e a una certa morbidezza con
i quali pretende di assimilare, come abbiamo già detto,
qualcosa delle nuove forme ormai in voga. Il colore si
fa piú contenuto, quasi sommesso, e il tenebrismo tralascia le ombre per una penombra vellutata. Prova timidamente a incorporare anche qualcosa del dinamismo
nelle severe e chiuse silhouette delle sue Immacolate
Concezioni, ma in realtà, se comparate con la trasformazione dello stile di Ribera o dei suoi contemporanei
Velázquez o Cano, si avverte perfettamente fino a che
punto Zurbarán rimane sempre fedele al linguaggio
della sua gioventú, che in questi anni era ormai evidentemente arcaico.
Un problema nella cronologia di Zurbarán è rappresentato dalle stupende tele provenienti dalla certosa di
Siviglia de las Cuevas (Vergine dei Certosini, I Certosini
in refettorio e L’incontro tra san Bruno e papa Urbano II),
dipinti con colori chiari e luminosi tipici della sua fase
ultima, ma con una severità geometrica nella composi-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
zione e un’accentuazione dei volumi e delle ombre tipica dei primi anni. La mancanza di documenti rende
incerta la datazione di queste opere, considerate le
migliori della sua produzione.
Nonostante l’arretratezza del suo stile, è chiaro che
il risultato e l’adeguatezza delle formule adatte a servire una semplice clientela devota garantirono una relativa sopravvivenza ai suoi personaggi.
Vi sono sufficienti nomi di artisti direttamente o
indirettamente vincolati a Zurbarán che possono essere
considerati suoi discepoli.
Il suo laboratorio fu evidentemente molto vasto e,
nonostante siamo a conoscenza dei nomi di alcuni dei
pittori che vi collaborarono, non siamo riusciti a identificare chiaramente le loro personalità indipendenti. È
evidente tuttavia che molte opere «zurbaranesche» sono
attribuibili a questi artisti quasi sconosciuti.
I fratelli Polanco (Miguel e Francisco), Bernabé de
Ayala e Ignacio de Ries a Siviglia, Juan Luis Zambrano
e José de Sarabia a Cordoba sono direttamente in relazione con il maestro dell’Estremadura. In alcuni di essi
la conoscenza dell’opera degli artisti piú giovani, soprattutto di Murillo, modifica le loro tecniche verso una
maggior dolcezza, gli esseri umani, i severi schemi compositivi e l’intenso chiaroscuro sopravvivono per molto
tempo. È molto importante, per il significato storico e
per il livello qualitativo, il gruppo di pittori zurbaraneschi che opera in Messico, specialmente Sebastián de
Arteaga (1610-56), formato a Siviglia, e José Juárez
(1615/20 ca. - 1661/64 ca.), artisti di considerevole qualità che a volte non hanno nulla da invidiare al maestro
(I santi Giusto e Pastore di Juárez, Città del Messico,
Pinacoteca Virreinal).
Altri artisti minori, considerati a volte discepoli di
Zurbarán e ai quali si attribuiscono, quasi sempre senza
alcuna ragione, opere a carattere zurbaranesco, non
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
hanno una sufficiente definizione personale, soprattutto Bernabé de Ayala (1600 ca. - 1672) o i fratelli Miguel
e Francisco Polanco; del secondo, morto nel 1651, si
conserva nella cattedrale di Siviglia un’opera firmata
(San Giovanni Battista) che sembra corrispondere a una
successiva fase stilistica, con evidente conoscenza di
Murillo.
Alonso Cano
La personalità di Alonso Cano (1601-67), nato a Granada ed educato a Siviglia da Pacheco, è estremamente
nuova e curiosa nel panorama spagnolo. Uomo dalla
genialità violenta, inquieto e dominatore come un artista del Rinascimento, delle tre arti principali, scultura,
pittura e architettura, sembra essere (e alcuni dei suoi
disegni di nudi lo dimostrano) in magnifiche condizioni per esercitare la pittura mitologica o rappresentare la
nostalgia classica. Non è però cosí e le circostanze della
sua vita, non priva di episodi drammatici (la sua seconda moglie fu assassinata e si sospettò di Cano, che dovette superare un periodo tormentato prima di essere assolto), lo avvicinano alla clientela ecclesiastica, nonostante la sua presenza a corte gli avesse permesso di conoscere le collezioni reali.
La sua interpretazione del senso religioso differisce
considerevolmente da quella dei suoi contemporanei.
Cano, cosí violento e duro nella vita personale, diventa
l’unico artista completamente classico del Siglo de Oro
spagnolo. La ricerca della bellezza ideale, il gusto per l’equilibrio e per l’elegante moderazione, l’interesse per il
nudo e l’abitudine di disegnare in continuazione lo rendono fin dall’inizio diverso dal mondo strettamente
naturalista che lo circondò nell’infanzia e al quale rende
il suo personale tributo in alcune opere giovanili come
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
l’intenso San Francesco Borgia (1624) al Museo di Siviglia. Nelle sue opere giovanili dimostra anche un’evidente conoscenza dell’arte di Ribera, da cui trae suggerimenti espressivi e modelli (Via Crucis, Museo di Worcester).
I primi anni della sua attività professionale sono dedicati quasi esclusivamente alla scultura, nella quale si
denota che approfittò della severa dignità di Montañés
e si ha la prova della sua passione per la severa monumentalità classica. I suoi dipinti datati o databili intorno al 1635 (Visione di san Giovanni, Londra, Galleria
Wallace; Santa Ines, Museo di Berlino, distrutta nel
1945) mostrano che ha già completamente superato il
tenebrismo giovanile e offrono la misura del suo interesse per la bellezza idealizzata, per gli atteggiamenti di
sobria gravità e per i colori chiari e saggiamente armonicizzati.
Nel 1638, chiamato dal conte-duca di Olivares e per
sfuggire ai debiti e alle rivalità, si trasferisce da Siviglia
a Madrid, dove regna già Velázquez che non ha quasi
rivali a palazzo. A corte, la conoscenza della collezione
reale favorisce la sua dedizione e passione; la sua opera
di restauratore di quadri dopo l’incendio al Buen Retiro del 1640, gli mette tra le mani i capolavori della pittura veneziana di cui può studiare la tecnica e gli effetti. Forse furono la tecnica e il colore di Tiziano e Veronese che contribuirono maggiormente ad affermare il
suo gusto per i toni chiari e argentati e per le forme eleganti, abilmente dissolte nella luce, ma senza perdere
mai la sobria precisione dei volumi che la sua condizione di scultore lo aiutava a concretizzare.
Diverse opere eseguite per la corte e per i paesi vicini (retablo di Getafe, 1645) permettono di conoscere l’evoluzione del suo stile, che deve abbastanza anche a
Velázquez, di cui fu sicuramente testimone mentre eseguiva alcuni quadri.
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
In Cano si afferma il gusto per un’eleganza contenuta che scopriamo sia in temi che altri avevano inteso
come drammatici (i Cristi alla colonna, con luminosi nudi
apollinei, i Cristi crocifissi prossimi all’opera di Velázquez
per la severa gravità elegiaca), sia in altre composizioni
evangeliche di ottimismo piú logico come l’Annunciazione di Getafe o le varie versioni della Madonna con
bambino, la cui composizione richiama una stampa dureriana, che sa ammantare di una delicata e lirica malinconia, molto personale.
L’interesse per il nudo classico, solitamente circoscritto a episodi della passione, con un Cristo magnifico e con poco sangue a deturpare la bellezza delle sue
forme agili (Cristo alla colonna, Avila, Carmelitane, di
una pienezza quasi michelangiolesca) culmina in un
importante e quasi eccezionale quadro: la Discesa al
Limbo, al Museo di Los Angeles dove, assieme al nudo
di Cristo, dal tono sicuramente monumentale, c’è quello di Eva di spalle di una bellezza e singolarità tali che
obbliga a pensare alla Venere allo specchio di Velázquez.
Anche il tema cosí frequente in Spagna, quello dell’Immacolata, raggiunge nei suoi anni madrileni una
nuova formula diversa da quanto realizzato da Zurbarán
negli stessi anni o da quello che Ribera aveva consacrato nel 1635. Se quella del Museo di Vitoria, che presenta
una certa rotondità monumentale e un evidente dinamismo, ricorda ancora l’iconografia riberesca, le successive mostrano una tipologia che sarà personale: eretta, con le mani giunte, la testa leggermente inclinata e
la tunica e il mantello raccolti ai piedi, a creare cosí una
silhouette svelta, affusolata, accompagnata da gruppi
ridenti di cherubini in atteggiamento giocoso contro un
fondo diafano dai toni argentati e madreperlacei straordinariamente raffinati.
Dopo la morte violenta della moglie e varie vicissitudini che testimoniano il suo pessimo carattere, Cano
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
decise di entrare nel mondo ecclesiastico e, nel 1652,
chiede la posizione di canonico prebendario alla cattedrale di Granada. Gli viene concesso il titolo, anche se
il ritardo nell’imparare il latino e nel prendere i voti sfocerà in tensioni con il capitolo che avranno termine nel
1660 anno in cui, ordinato finalmente sacerdote, prende possesso del titolo e lavora in continuazione per la
cattedrale di Granada. A questo periodo granadino corrisponde la piú ambiziosa delle sue opere, il ciclo della
vita della Vergine per le nicchie della cappella maggiore della cattedrale, opere di grandi dimensioni dove la
sua maestria raggiunge l’apice nella composizione monumentale e negli effetti di grande e raffinato colorista. La
serie venne ultimata nel 1664. L’uso di ampi scenari
architettonici in alcuni casi, la presenza di figure a
mezzo busto in prima fila in altri e la ricchezza del colore rimandano a modelli veneziani, soprattutto del Veronese, che probabilmente conobbe e ammirò a Madrid e
che sa rendere suoi con grande maestria.
Uomo a quanto pare poco affezionato al lavoro continuativo, capriccioso e indipendente, Cano ha lasciato un insieme di opere di grande bellezza e personalità
che si distaccano da quanto comune all’epoca e presentano una segreta affinità con il miglior classicismo
italiano che, purtroppo, ha potuto conoscere solo grazie alle tele del Buen Retiro. La sua opera di disegnatore, abbondante e varia, mostra anche la ricca inventiva e la rara sicurezza del suo tocco. La sua influenza,
che a Granada fu decisiva per la formazione di una
scuola locale di una certa entità basata completamente
su suoi modelli e concetti, si è fatta sentire anche in
alcuni artisti madrileni della generazione successiva
come Sebastián de Herrera Barnuevo (1619-71), scultore e pittore di camera alla morte di Mazo e in alcuni
aspetti dell’opera di pittori ancora molto giovani come
Juan Antonio Escalante.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Velázquez
La principale figura di questa fortunata generazione
è indubbiamente Velázquez, il maggior pittore di tutta
la storia della pittura spagnola e quello che meglio incarna il passaggio dallo stretto realismo del primo terzo del
secolo al barocchismo dell’ultimo, mostrando inoltre i
piú equilibrati e severi risultati «classici» dell’intera arte
spagnola. Velázquez è anche l’esempio piú significativo
dei risultati di un’educazione e un ambiente adeguati
uniti a eccezionali doti naturali.
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez nacque a Siviglia nel 1599, figlio di un portoghese e di una sivigliana. Anni dopo si sforzò di provare la nobiltà della sua
ascendenza, ma è certo che la sua infanzia e le condizioni del suo apprendistato non differiscono da quelle di
altri artisti artigiani suoi contemporanei. Dopo essere
fugacemente passato dal laboratorio di Herrera il Vecchio, nel 1611 formalizza il contratto di apprendistato
con Francisco Pacheco da cui riceverà l’educazione di
pittore e dove intraprenderà i passi utili per la sua vita
futura. Durante le riunioni tenute dal suo maestro entra
in contatto con persone «inquiete» della vivace Siviglia:
prende familiarità con il crescente naturalismo che
Pacheco lascia sperimentare ai suoi discepoli e scopre
con certezza la letteratura dell’epoca, prova nostalgia per
l’umanesimo rinascimentale ben conosciuto a Siviglia e
che gli ha lasciato una certa familiarità con dei e dee dell’Olimpo pagano.
Non appena terminato l’apprendistato, Velázquez si
sposa con la figlia del suo maestro (1618) che già aveva
riconosciuto in lui doti speciali. Al giovane artista si prospettava la normale vita di un pittore dell’epoca, che
dipendeva completamente dalla clientela ecclesiastica:
pittura sacra, cicli monastici, ritratti di personaggi della
sua cerchia e nature morte in cui sperimentare l’amore
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
per la natura. Infatti, le prime opere di Velázquez
rispondono a queste caratteristiche, ma sorprende l’insistenza con cui esegue alcune nature morte con figure
alquanto eccezionali per il suo ambiente e che forse
rispondono al suo desiderio di impadronirsi di tutto ciò
che è naturale, come si può dedurre dall’opera di suo
suocero, Pacheco. Cosa insolita, conservò alcune delle
proprie nature morte piú interessanti (Acquaiolo di Siviglia, Due giovani mentre mangiano, entrambi al Wellington Museum. di Londra) e le portò con sé a Madrid,
sicuramente come prova della sua capacità per farsi
conoscere in un ambiente nuovo.
A quest’epoca sivigliana, oltre alle nature morte,
risalgono anche alcuni quadri a tema religioso concepiti come pittura di genere (Cristo in casa di Marta, Londra, National Gallery, e Cristo a Emmaus, detto La
mulatta, Dublino, National Gallery of Ireland, collezione Beit) che sorprendono perché relegano il soggetto
principale in secondo piano collocando in primo piano
le figure di servi e gli elementi della natura morta, nello
stile di alcuni manieristi fiamminghi. In queste tele e
nelle nature morte è evidente la conoscenza del naturalismo caravaggesco, con uno studio molto intenso e
attento della realtà che lo circonda e un’insistenza sull’illuminazione tenebrista. Oltre a queste opere, il giovane Velázquez dipinge quadri religiosi normali (Adorazione dei Magi, 1619, Museo del Prado; Immacolata e
san Giovanni Evangelista, Londra, National Gallery), che
presentano un identico gusto per i modelli del volgo e
l’illuminazione tenebrista, e ritratti con figure che emanano un’implacabile intensità di osservazione (La venerabile madre Jerónima de la Fuente, 1620, Museo del
Prado, collezione privata). Nel 1622, senza dubbio spinto dal suocero, effettua il suo primo viaggio a Madrid.
Il conte-duca di Olivares, ministro onnipotente dall’ascesa al trono di Filippo IV, protegge i sivigliani e Pache-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
co spera che il genero si stabilisca a palazzo. Questo
primo viaggio, non del tutto fortunato, gli permette di
stabilire i primi contatti. L’anno successivo, 1623, si trasferisce a corte dove gli vengono aperte le porte dell’Alcázar. I ritratti del giovane re, ritenuti straordinari,
del conte-duca e di altri sivigliani famosi gli garantiscono il successo e in poco tempo diventa il pittore favorito a corte, mettendo in disparte i vecchi maestri e scatenando, logicamente, invidie e ostilità. I ritratti del giovane sovrano Filippo IV e di suo fratello Carlo, in severi abiti neri alla moda spagnola, nel vuoto spazio definito soltanto da un leggero riferimento geometrico e
dal magistrale utilizzo della luce diretta, sottolineano il
cammino della liberazione dalle durezze tenebriste. Lo
studio dei quadri delle collezioni reali non fa altro che
potenziare la sua evoluzione. La sua ammirazione per
Venezia rende piú chiara la sua tavolozza e sciolto il pennello, lo studio dei ritratti di corte lo spinge a tralasciare l’iniziale tenebrismo e a porre fondi grigi nei suoi
ritratti ufficiali. Nel 1627, in risposta alle accuse che era
in grado soltanto di dipingere ritratti, realizza in competizione con altri pittori del re (Carducho, Cajés e
Nardi) una grande tela, purtroppo andata perduta, che
rappresenta l’Espulsione dei Mori. L’opera era nettamente superiore a quella degli altri e consacra la sua carriera a Palazzo, superando i rivali e ottenendo influenza e onori presso il re. Nel 1628, la presenza a Madrid
di Rubens, che a volte accompagnò e che vide sicuramente al lavoro, segnò profondamente la sua sensibilità
di uomo ambizioso e di artista, nonostante le profonde
differenze di temperamento e sensibilità che si manifestano con evidenza nei Beoni o Il trionfo di Bacco dipinto quello stesso anno. Si tratta di una tela a carattere
mitologico con un’interpretazione radicalmente diversa
dall’opulenta e sensuale maniera rubensiana. Velázquez
optò per un tono di assoluta volgarità e immediatezza
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
in cui il dio è un ragazzo picaresco mentre i suoi adoratori sono povera gente, quasi dei mendicanti. Indubbiamente, applica alla mitologia l’identico trattamento
che la Controriforma introdusse nella religione, cosa
che ripeterà in altre occasioni, rendendo piú vicino e
verosimile il fatto narrato. Tecnicamente nei Beoni vi
sono ancora tracce di tenebrismo nel rendere i volti e i
tessuti, ma il fondo chiaro e luminoso testimonia già il
suo stile.
Nel 1629 chiede il permesso di recarsi in Italia; per
questo viaggio, che arricchirà enormemente la sua sensibilità, riceve aiuti economici e facilitazioni di ogni
genere. Si tratta di un vero e proprio viaggio di studio
e Velázquez va direttamente ad assorbire la pittura veneziana del Cinquecento, vive l’esperienza del classicismo
romano-bolognese e la devozione neoveneta, cioè la piú
vivace attualità nelle città italiane dove il barocco è in
incubazione. Il suo amore per la misura e l’equilibrio
raggiunge adesso una formula quasi accademica in due
grandi tele dipinte a Roma: Fucina di Vulcano (Museo
del Prado) e Tunica di Giuseppe (monastero dell’Escorial)
nelle quali lo studio dei nudi e il trattamento dei rapporti spazio-luce sottolineano l’assimilazione di quanto
aveva visto in Italia. Il tenebrismo è scomparso, il colore si fa chiaro e raffinato in un’atmosfera di toni principalmente freddi e la pennellata si libera completamente da qualsiasi sottomissione al disegno.
A questo viaggio risalgono anche due delicati paesaggi della romana Villa Medici (Museo del Prado) che,
per libertà di tocco e lirismo, anticipano i canoni che
l’impressionismo introdurrà nel XIX secolo.
Al ritorno in Spagna, la sua personalità artistica è
maturata e ha trovato un modo molto personale di
espressione in cui anche l’esperienza italiana ha una sua
collocazione. Il magnifico e singolare quadro delle Tentazioni di san Tommaso d’Aquino (Museo diocesano di
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Orihuela) è direttamente legato ai quadri dipinti in Italia e annuncia, in alcuni dettagli, quella che sarà la futura evoluzione. Nella decade 1630-40, è intensamente
impegnato come pittore di corte. Per decorare il palazzo del Buen Retiro esegue una serie di ritratti equestri
della famiglia reale nei quali introduce magistralmente
lo scenario, luminoso e vibrante, della sierra di Guadarrama. La tela della Resa di Breda (Le lance), eseguito per il Salone dei Regni del Buen Retiro, nel quale
lavorano anche gli artisti della generazione precedente
(Carducho, Cajés, Maíno), Zurbarán e altri piú giovani
(Felix Castello, José Leonardo e Antonio de Pereda), è
forse l’apice di questa fase artistica, con bellissimi studi
all’aria aperta, dove il suo senso del chiarore e dell’ordine, fusi con un sottile studio di espressioni e atteggiamenti, danno come risultato un’immagine indimenticabile di ciò che doveva esserci di piú degno nelle tremende guerre delle Fiandre. Per la Torre de la Parada,
la palazzina di caccia per la quale Rubens dipinge la serie
mitologica, Velázquez realizza importanti ritratti degli
uomini della famiglia reale in abito da caccia, proprio
come esigeva l’ambiente. In essi, oltre al tono di serena
naturalezza senza enfasi, riesce a captare l’ambiente
luminoso della sierra madrilena e a dare vita ai cani da
caccia che acquisiscono una potente intensità individuale. Contemporaneamente, la sua incessante attività
di ritrattista lascia una serie di immagini indimenticabili
dell’ambiente di corte: dal conte-duca di Olivares, ritratto a cavallo con un impeto eroico che si rifà decisamente al barocco (Museo del Prado) ai nani e buffoni di
palazzo. Questi ultimi soprattutto costituiscono un settore molto interessante e notevole della sua produzione.
Velázquez, senza prescindere da nessuna delle tare o
miserie di questi poveri disgraziati, ha lasciato delle
immagini emozionanti per la loro profonda veridicità,
mostrando ciò che hanno di piú umano e trattandoli con
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la stessa severa dignità con cui ritrae i reali. È specialmente commovente la serie costituita da Juan Calabazas,
Don Sebastián de Mora, Don Diego de Acedo, il primo e
Francisco Lezcano, il bambino di Vallecas, una serie prodigiosa sia negli aspetti tecnici (la pennellata si è fatta
veloce e volatile, i contorni sono completamente scomparsi) sia in quelli psicologici. Le esperienze pittoriche
di quegli anni lo portano a semplificare sempre piú il
tocco e a intensificare gli effetti del suo modo di dipingere. Uno dei ritratti di buffone, Pablillos de Valladolid
(Museo del Prado) dimostra già, verso il 1639, un dominio assoluto della prospettiva aerea, ottenendo una perfetta definizione dello spazio e la padronanza della figura con un utilizzo particolare di luce e ombra, senza
alcun riferimento alle tradizionali formule geometriche.
A questo periodo (1630-40) risalgono anche una serie
di capolavori sia di arte sacra, eseguita episodicamente
e quasi sempre per incarico reale (Cristo crocifisso, famosissimo, con una severa dignità classica, dipinto per il
convento di San Plácido per incarico di Filippo IV e San
Paolo eremita con sant’Antonio, dipinto per il Buen Retiro, entrambi al Museo del Prado), sia mitologica (Marte,
Melipo, Esopo, sempre al Museo del Prado), interpretati con somma indipendenza e novità. Inoltre, come è
logico, continua la serie dei ritratti di reali che culmina
con quello di Filippo IV in abbigliamento militare (Frick
Collection, New York) dipinto a Fraga (Huesca) nel
1644 durante la campagna di Catalogna.
Tra il 1648 e il 1651, Velázquez, che ha fatto carriera
a Palazzo, torna per la seconda volta in Italia per acquistare opere d’arte per i saloni da poco rinnovati dell’Alcázar che Filippo IV vuole abbellire con elementi che
si accordino maggiormente con la nuova sensibilità decorativa dell’epoca, pensando anche di far giungere in
Spagna degli affreschi. In questo viaggio, che comprende una visita a Venezia, città favorita dal pittore, e una
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lunga permanenza a Roma, Velázquez ritrae il pontefice Innocenzo X in una magnifica tela (Roma, Galleria
Doria), che influenzò ampliamente il suc cessivo ritratto romano, e il proprio domestico, il pittore mulatto
Juan de Pareja (New York, Metropolitan Museum); in
queste due opere raggiunge l’apice il processo di libertà
del suo pennello che, rifacendosi ai veneziani, soprattutto al vecchio Tiziano, raggiunge cime sconosciute di
leggerezza nel tocco ed esattezza di visione. Al ritorno
in patria realizza le opere principali della sua produzione, le complesse composizioni in cui «l’ambiente», cioè
il totale conseguimento della prospettiva aerea, giunge
alla perfezione assoluta: le Filatrici dell’arazzeria di santa
Isabella, la Favola di Minerva e Aracne e Las Meninas.
Nella prima opera, a carattere mitologico, insiste nel suo
particolare modo di interpretare la favola come un fatto
quotidiano fino al paradosso che, fino a data recente,
un’opera cosí complessa venisse qualificata come quadro
di genere, un semplice interno di filatrici, avvolto in una
luce dorata, dove sorprende la sua ammirevole maestria
nel rendere il movimento della rocca. Las Meninas è un
capolavoro, un ritratto della famiglia reale dove, con un
delicatissimo sistema di riflessi e posizioni dei personaggi, si autoritrae mentre ritrae il re e la regina di
fronte alla figlia Margherita. Lo sguardo di Velázquez,
diretto allo spettatore, fissa in realtà la coppia reale,
posta fuori dal quadro, ma della quale vediamo il riflesso in uno specchio che centra la composizione, e l’infanta, a quell’epoca (1656) erede al trono, si erge protagonista visibile della composizione. In questo quadro
raggiunge forse l’apice del suo fantastico senso dello
spazio.
In quegli anni realizza anche quattro composizioni
mitologiche per uno dei saloni rinnovati di Palazzo. Tre
sono andate perdute e si conserva soltanto il Mercurio e
Argo del Museo del Prado, dove si avvertono ancora una
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volta il suo modo molto personale di trattare la favola
come fosse una realtà quotidiana e la sua conoscenza dei
modelli classici.
Dell’epoca dovrebbe essere anche la bellissima Venere allo specchio (Londra, National Gallery), ispirata a
Tiziano, ma con una delicatezza e una grazia personali.
Velázquez è un personaggio chiave della storia universale dell’arte e, per contrasto, la sua singolarità segnala i limiti dei pittori spagnoli. Se fosse rimasto a Siviglia, forse la sua carriera sarebbe stata quella di uno Zurbarán piú saggio. La sua posizione a corte, dove ottenne incarichi burocratici e amministrativi che culminarono con la nomina a Maresciallo d’alloggio maggiore e
la concessione dell’ordine di Santiago per espressa
volontà reale, contro il volere del Consiglio degli ordini che non reputava sufficienti le prove di nobiltà prodotte, gli permise una certa familiarità con le collezioni
reali e l’alta nobiltà senza confronti. La sua posizione gli
rese possibile viaggiare in Italia e lo esentò dalle pressioni dei clienti. Pittore del re, godeva della sua evidente
fiducia e la sua produzione è assolutamente eccezionale
nell’ambito spagnolo dell’epoca. Indubbiamente il suo
protettore reale seppe intravedere l’unicità di Velázquez che riunisce tutte le qualità che si richiedono al pittore puro. La sua maestria tecnica nel suggerire il volume, la forma e la sembianza, con una pennellata sciolta, non hanno equivalenti. La sua penetrazione psicologica nel ritratto mette a nudo la persona che gli sta di
fronte dandoci, senza le adulazioni e la fredda crudeltà
che altri ritrattisti, per esempio Goya, a volte mostrano, quanto vi è di piú profondo, intimo e personale
nella persona ritratta, sia questi un re o un ruffiano.
Nella composizione riassume la severa chiarezza del classicismo romano e, contemporaneamente, la compiacenza del transitorio e dello stupefacente, quasi con mistero, del barocchismo. Poco incline al movimento, lascia
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tuttavia nei suoi personaggi tranquilli l’impronta dell’ambiente che li circonda.
Come è facile supporre dalla sua eccezionale unicità,
Velázquez non ebbe veri discepoli e la presenza della sua
arte si può avvertire fuori dall’ambito di corte. Soltanto il genero, Juan Bautista del Mazo (1611 ca. - 1667),
riprende superficialmente qualcosa della sua sottile maestria nel ritratto, con una fattura sempre piú spoglia e
coltiva un genere di paesaggio descrittivo con piccole
figure di grande effetto e grazia (Panorama di Zaragoza,
Partita di caccia del Tabladillo, Museo del Prado) che
riprendono un che del magico intuito di Velázquez.
Il suo schiavo Juan de Pareja (1606 ca. -1670), che lo
accompagnò a Roma, dove ottenne la libertà, e che realizzò magistrali ritratti nello stile del maestro, diventa,
una volta morto Velázquez, un pittore religioso all’interno delle convenzioni abituali nell’ambiente madrileno degli artisti dell’epoca. La Vocazione di san Matteo
(1661, Madrid, Museo del Prado) è l’unica delle sue
composizioni che mantiene qualcosa della gravità e compostezza del maestro.
I pittori madrileni della generazione di Velázquez
Mentre Velázquez si trova all’Alcázar, quasi completamente slegato da altri lavori che non siano quelli
strettamente di palazzo, il panorama artistico madrileno assiste al cambio della guardia dei maestri della prima
generazione naturalista, sostituiti, nel fervore della
clientela religiosa, da artisti nati negli anni intorno al
1600, che vivono, come i grandi maestri già citati, ma
su piano piú modesto, a volte con armonia la stessa crisi
del naturalismo stretto e la lenta introduzione delle
novità scenografiche del pieno barocco.
Il secondo terzo del secolo, che coincide quasi esat-
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tamente con il regno di Filippo IV (morto nel 1665),
vive le tensioni tra una realtà che si sente inesorabilmente prossima al disastro e subisce le difficoltà economiche e i problemi di una politica sfortunata e le esigenze di luminosità e apparente splendore del nuovo
stile, che bisogna sostenere per moda e prestigio, ma che
si avvicina irrimediabilmente a un’insistenza, espressa o
segreta, nel tema dell’«apparire» e del «disinganno».
In una Madrid dove la popolazione attorno alla corte
è in aumento, dove si fondono e rinnovano, decorandoli,
conventi di tutti gli ordini, dove un mondo di nobili pretendenti a corte è in ebollizione, cercando il modo di
farsi notare con donazioni, cappelle e fondazioni, non
manca lavoro per i pittori, anche se i compensi non
sono alti e il prestigio sociale è scarso. Non mancano
nuovi stimoli e modelli: dal 1634-35, il Buen Retiro
ospita ricche collezioni di pittura italiana d’attualità.
Soprattutto Roma e Napoli, grazie alle gestioni del conte
di Monterrey e del duca di Medina de las Torres, vi sono
rappresentate in modo superbo e dal 1636-40 la Torre
de la Parada riceve le serie di tele mitologiche e decorative di Rubens e dei suoi discepoli che costituiscono
una magnifica novità.
L’alta nobiltà, per seguire in qualche modo il gusto e
il capriccio reali, forma collezioni facilmente accessibili
agli artisti, come si verifica a volte anche per le collezioni
di Palazzo. Vicente Carducho nei suoi Dialoghi della
pittura (1633) ha lasciato una viva visione del collezionismo di corte e della sua indubbia complessità già dagli
inizi. Anche alcuni personaggi appartenenti alla nobiltà
(l’ammiraglio di Castiglia) mostrano interesse per gli
artisti spagnoli, creando gabinetti per opere di «eminenti spagnoli», la cui singolarità ci conferma che in
generale si tratta di opere fiamminghe e italiane che
costituiscono l’orgoglio della nobiltà principale. Tutto
ciò favorisce un rinnovo stilistico e la formazione di una
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scuola con una certa personalità, senza alcun confronto
fuori dalla città e dalla corte. Per trovare negli altri centri artistici spagnoli la medesima vivacità e quegli stimoli
nella tecnica e, con alcuni limiti, nei soggetti bisogna
attendere la seconda metà del secolo, quando il nuovo
linguaggio è diventato ormai completamente accessibile e in certo modo popolare. Si ricordi come a Siviglia
sia Zurbarán che, quasi senza evoluzione, riempie assieme al suoi seguaci questo periodo fino agli anni Cinquanta e come a Valencia Espinosa perpetui le forme del
naturalismo piú stretto, senza avere quasi rivali.
Per orientarci, bisogna raggruppare a Madrid, attorno ai loro maestri, i pittori piú interessanti di questa
generazione. Sia Vicente Carducho (morto nel 1638) sia
Eugenio Cajés (morto nel 1634) hanno moltissimi discepoli che in questi anni acquisiscono una personalità indipendente. Un ruolo decisivo è svolto anche dai pittori
formati da un eccellente maestro, Pedro de las Cuevas
(morto nel 1644) di cui non si è conservato nulla, ma dal
cui laboratorio passano forse i piú validi artisti che troviamo a Madrid in questi anni. Vi si possono aggiungere anche alcuni altri artisti dei quali ignoriamo la formazione e i cultori di generi specifici come i bodegonisti.
Tra i tanti discepoli di Carducho troviamo Félix
Castello (1595-1651), Bartolomé Román (1590 ca. 1647), Francisco Collantes (morto nel 1656) e Francisco Rizi (1614-85), sebbene quest’ultimo possa e debba
essere considerato piú tra gli artisti dell’ultimo terzo del
secolo. Con Cajés si formarono Antonio Lanchares
(morto nel 1631), Luis Fernández (1594 ca. -1657 ca.)
e Antonio Puga (morto nel 1648) e dal suo laboratorio
passò anche José Leonardo (morto nel 1653) che si era
inizialmente formato con Cuevas. Con quest’ultimo
studiarono inoltre Antonio de Pereda (1611-78), Antonio Arias (1614 ca. - 1684), Francisco Camilo (1615 ca.
- 1673), Juan Montero de Rojas, il suddetto Leonardo
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
e Juan Carreño de Miranda (1614-84) che, come il suo
contemporaneo Francisco Rizi, dovrà essere considerato tra i pittori di Carlo II, paladini del nuovo stile
barocco.
Figure indipendenti di una certa qualità sono Juan de
la Corte (1597-1660), Pedro Núñez del Valle (1590 ca.
- 1649), Diego Polo (1610 ca. -1650) e fra Juan Rizi
(1600-81) che si dice fosse discepolo di Maíno, ma nulla
della sua produzione sembra provarlo. Alcuni di essi
ebbero modo di lavorare a corte. Castello, Leonardo e
Pereda entrarono in competizione con i vecchi maestri,
con Velázquez e Zurbarán, nella decorazione del Salone dei Regni del Buen Retiro. Arias, Camilo, Núñez e
Polo, assieme ad Alonso Cano e altri artisti, oggi sconosciuti, decorarono il Salone delle Commedie dell’Alcazar con un’interessante serie di figure sedute di sovrani di Castiglia, di pura invenzione i piú antichi e veri
ritratti a partire dai Re Cattolici. Collantes e Juan de la
Corte fornirono moltissime tele decorative, paesaggi e
prospettive per il Buen Retiro.
Tutti costituiscono la base della scuola madrilena, la
cui importanza e originalità è molto varia.
Buona parte di essi rimasero molto legati alla tradizione del primo naturalismo degli inizi del secolo, con
scarsi avanzamenti nella linea del dinamismo e del colore. Félix Castello e Bartolomé Román prolungarono gli
schemi compositivi di Carducho, con una certa pesantezza nel disegno e nella composizione, ma con notevoli esiti di colore (la Porziuncola di Castello, Madrid, San
Jerónimo; la Parabola dell’invitato a nozze di Román,
1628, Madrid, convento de la Encarnación). Antonio
Arias è piú personale e slegato dallo stile dei suoi compagni, grazie al disegno monumentale, alle pieghe angolose di corpi arrotondati, al colore chiaro e intenso e ai
volti di efficace individualismo. Qualcosa della sua personalità, severa e calma, ricorda da un lato il mondo di
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Maíno e dall’altro la gravità devota di Zurbarán (La
moneta di Cesare, 1646, Museo del Prado; Cristo flagellato raccoglie i suoi abiti, 1641, Madrid, convento de las
Carboneras). Pedro Núñez del Valle viaggiò in gioventú
a Roma dove divenne accademico di San Luca. La sua
conoscenza del mondo classicista bolognese e del naturalismo, attenuata da alcuni caravaggisti, lo collegano a
Maíno (Adorazione dei Magi, 1631, Museo del Prado).
Diego Polo, formatosi come discepolo di Cajés, è un artista morto prematuramente prima di compiere quarant’anni, che viene ben presto affascinato dal venezianesimo tizianesco e giunge a elaborare un proprio stile,
sontuoso, costruito su quello del Tiziano ormai anziano,
ottenendo risultati di sorprendente maestria che a volte
sono stati attribuiti al maestro veneziano (Martirio di
santo Stefano, Museo di Lille; Raccolta della manna,
Museo del Prado).
Fra Juan Rizi, José Leonardo e Antonio de Pereda
presentano una maggiore personalità e significato.
Fra Juan Andrés Rizi è figlio di un mediocre pittore
discepolo di Zuccari, giunto a lavorare all’Escorial, e fratello maggiore di quel Francisco che sarà una figura di
capitale importanza nella generazione successiva, ormai
piena mente barocca. Divenuto frate benedettino molto
giovane, Rizi giunge in Castiglia per svolgere un ruolo
analogo a quello di Zurbarán in Siviglia o di Espinosa a
Valencia. È un pittore di cicli monastici (limitati ai conventi del suo ordine: San Millán de la Cogolla, 1653;
San Martín di Madrid, oggi al Prado e nell’Accademia
di San Fernando; Silos ecc.) e di alcune tele di santi (cattedrale di Burgos) dai toni gravi, con una scarna gamma
di colori, con effetti di luce ancora tenebristi e con un
sobrio schema compositivo di stretta tradizione naturalista, ma dal punto di vista tecnico e già un artista del
barocco avanzato, dalla pennelata sciolta e spezzata che
invece di definire le superfici illuminate con la saggia e
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quasi geometrica precisione di Zurbarán, ottiene scintille luminose e comunica un diffuso tremore di origine
veneziana. Il notevole ritratto di Fra Alonso de San Vitores (Museo di Burgos) mostra, sia nella rappresentazione sia nella tecnica, un’inequivocabile influenza di
Velázquez; la tecnica rappresenta l’aspetto importante
della sua personalità. Uomo colto, teologo e matematico, scrisse il trattato, inedito, Pittura saggia, abbondantemente illustrato e di grande interesse per l’analisi degli
ordini architettonici tra i quali inserisce l’ordine salomonico, completamente barocco.
Nelle scarse opere conservate di José o Jusepe Leonardo, nato a Calatayud (Saragozza) nel 1601, artista
estremamente dotato che verso il 1648 impazzí, rovinando cosí una carriera promettente, si denota una rapida e vibrante evoluzione che va dalla fedeltà agli schemi di Cajés (retablo di Cebreros, 1625) a una conoscenza certa e meditata dell’arte di Velázquez e Van
Dyck. Le due tele che dipinge per il Salone dei Regni
del Buen Retiro (Presa di Bisac e Presa di Juliers, 1635)
evidenziano la maturità di uno stile sobriamente elegante nella composizione e doti di colorista che usa una
gamma chiara di toni argentati, chiaramente velazchiani. Il suo San Sebastiano del Prado è un nudo nobile,
severo ed equilibrato, che perde in perfezione classica
solo in confronto alle opere di Cano.
Antonio de Pereda (1611-78), nato a Valladolid ed
educato a Madrid con Pedro de las Cuevas, mostra doti
di pittore puro assolutamente ammirevoli. La protezione del nobile italiano Crescenzi, molto influente presso
Filippo IV, gli apre le porte di Palazzo e, a ventitré anni,
partecipa alle decorazioni del Salone dei Regni con una
bellissima tela (Aiuto a Genova, Museo del Prado) di
severa composizione, un po’ pesante, ma con una straordinaria ricchezza nel colore alla veneziana, in cui l’autore dimostra una notevole capacità di ritrattista. La
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morte del suo protettore, nemico del conteduca, gli precluse l’accesso a corte e dovette rivolgersi alla clientela
ecclesiastica. I suoi quadri d’altare mostrano, oltre a
una composizione di tipo convenzionale, un tanto rigida, una capacità di osservazione della realtà e un interesse per le qualità delle cose che denunciano in lui un
superbo pittore di nature morte. Le sue opere migliori
sono senza dubbio le meravigliose Nature morte (Musei
di Lisbona, San Pietroburgo e Mosca) e le sue Vanitas
(Musei di Vienna e Saragozza, Galleria degli Uffizi),
dove l’opulenza delle cose caduche (fiori, frutta, gioielli, bei tessuti, armi e attributi del potere o della saggezza) è sottomessa al trionfo di un teschio, impassibile di
fronte all’implacabile trascorrere del tempo segnato da
un orologio. La sua maestria tecnica nel tradurre la
materia, formata nella doppia osservazione del rigore
fiammingo e della sensualità veneziana, lo rendono un
maestro assoluto in un genere che, nella Spagna scissa
dal barocco, raggiunge le formule migliori. Come Zurbarán, negli ultimi anni della sua lunga vita tentò di
incorporare un po’ del dinamismo trionfante negli artisti piú giovani, senza però riuscirvi. Le sue opere migliori, oltre alle già citate Nature morte e Vanitas, sono i quadri con una o due figure, eseguiti negli anni centrali della
sua produzione, tra il 1640 e il 1660 (San Gerolamo, Cristo Salvatore o Uomo del dolore, la Maddalena, San Pietro, Giuditta), dove la forza dell’espressione e la perfezione dei dettagli creano un’intensità quasi ossessiva.
Anche Pereda lavorò per gli ordini religiosi, soprattutto per i carmelitani (Sant’Elia e San Eliseo, 1659,
Madrid, convento del Carmen) e i francescani (Porziuncola, 1664, Museo di Valladolid).
È probabile che nell’ambiente di corte si sviluppasse
un tipo di generi speciali, propizi per la decorazione dei
palazzi della nobiltà e delle case di una pletora di funzionari che pullulavano attorno alla casa reale.
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Come abbiamo notato, la natura morta trova in Pereda un esecutore straordinario, ma è affiancato da altri
artisti validi che nel secondo terzo del secolo realizzano
molte opere notevoli che, partendo dai severi schemi
dell’inizio del secolo, a disposizione orizzontale, quasi
un fregio, e con un’illuminazione tenebrista, incorporano qualcosa della disordinata opulenza della natura
morta fiamminga. Cosí citiamo l’ancora enigmatico Juan
Labrador, anzi Juan Fernández Labrador, la cui vita è
documentata tra il 1620 e il 1640, che all’epoca ebbe un
enorme prestigio e si pregiava di disprezzare la vita di
corte preferendo vivere in campagna, i quasi omonimi
Juan Bautista de Espinosa (1590 ca. - prima del 1641)
e Juan de Espinosa (documentato tra il 1640 e il 1676),
spesso confusi l’uno con l’altro, sebbene le notizie biografiche permettano di differenziarne le personalità;
Antonio Ponce (1608-62), imparentato con Van der
Hamen e sicuramente suo discepolo; Francisco Barrera
(documentato tra il 1625 e il 1640); Francisco Palacios
(1622 ca. -1652) o Francisco Burgos Mantilla (1610 ca.
-1672), discepolo di Velázquez, che, a giudicare dall’unica Natura morta conosciuta (1634, Università di Yale),
è un artista dalle qualità eccezionali ancora da scoprire.
Un caso singolare è quello del già citato Palacios, anch’egli discepolo di Velázquez e famoso per due meravigliose nature morte datate 1648 della collezione Harrach di
Vienna. A lui va imputato, come si è convincentemente proposto negli ultimi anni, il famoso Sogno del cavaliere alla Reale Accademia di San Fernando, che è sempre stato considerato un capolavoro di Pereda, ma che
difficilmente si inquadra nella produzione di questo
maestro, come si è recentemente definito. La menzione
di un quadro di tale soggetto e dimensioni si trova nella
dote matrimoniale di Palacios e permette di sostenere
l’attribuzione del famoso quadro a questo artista quasi
sconosciuto.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Tra gli altri generi «speciali» vanno citati i nobili paesaggi con minuscole figure di Francisco Collantes
(1599-1656), che ha doppiamente subito l’influsso delle
incisioni fiamminghe e della pittura napoletana, che fornisce anche l’ispirazione per le sue grandi figure a carattere molto riberesco (Sant’Onofrio, Museo del Prado) e
i quadri di battaglie e prospettive di Juan de la Corte
(1597-1660), un fiammingo stabilitosi molto giovane a
Madrid, dove la particolarità dei temi trattati, provenienti dalla storia classica (Ciclo di Troia) o moderna
(Storie di Carlo V) gli conferiscono una certa fama nei circoli nobiliari. Degno di nota è anche Francisco Gutierrez Cabello (1616 ca. - 1670 ca.), autore di spettacolari
prospettive architettoniche che servono a inquadrare
episodi biblici o evangelici composti da piccole figure.
Riferendosi a stampe fiamminghe o italiane mostra un
senso scenografico molto personale.
Come esempio quasi unico di quadro di genere nell’ambiente madrileno si possono citare alcune tele, attribuite senza alcun fondamento ad Antonio Puga, che illustrano scene di strada come l’Arrotino, la Taverna, la
Cena dei poveri ecc. con figure di medie dimensioni, un’illuminazione ancora tenebrista e una certa scarsa abilità
nella composizione. Queste opere sono un’eco spagnola
della pittura dei «bamboccianti» italiani e oggi permangono anonime sebbene lo sconosciuto autore sia una personalità di un certo pregio in cui a volte si possono intravedere riflessi del mondo fiammingo dell’epoca.
Il resto della Spagna
Abbiamo già indicato come, fuori da Madrid, a
Valencia domini il naturalismo stretto grazie a Jacinto
Jerónimo Espinosa (1600-67), fedele al tenebrismo per
tutta la sua vita. Figlio di un modesto pittore di Valla-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
dolid stabilitosi a Cocentaina (Alicante), inizia la sua
attività a Valencia nel 1623 circa con uno stile molto
vicino a quello dei Ribalta, che sicuramente conobbe e
frequentò. Alla loro morte sarà il padrone assoluto della
clientela monacale valenciana, lasciando opere che rappresentano un qualcosa di molto prossimo a ciò che Zurbarán fa a Siviglia in quegli stessi anni. Sono particolarmente significative le tele dedicate a san Luigi Beltrán
per la cappella del convento di Santo Domingo di Valencia, oggi nel Museo di questa città (dipinti tra il 1649 e
il 1653). La morte del santo in special modo evoca la
Morte di san Bonaventura di Zurbarán, somiglianza che
ha fatto anche pensare che Espinosa si fosse recato a
Siviglia, spiegando cosí la relazione. La sua passione per
i contrasti luminosi, i modelli immediati e una certa
rudezza quasi campagnola è alquanto arcaicizzante negli
anni 1650-67, quando dipinge le sue opere migliori
(Comunione della Maddalena, 1665; Apparizione di Cristo a sant’Ignazio, 1658; Serie della Merced, 1660-62,
tutti al Museo di Valencia) che non impediscono di
poter vedere in essi i cenni di una forte passione pia e
di una sincera emozione. Buon colorista dalle gamme
calde e sontuose, le sue tele hanno patito molto gli eccessi di una preparazione rossiccia troppo visibile che ha
contribuito al fatto che oggi, mal conservati, risultino
monotoni.
Un solo artista valenciano sembra interessante per
alcuni aspetti nuovi in cui fa irruzione un dinamismo
quasi violento. Si tratta di Esteban March (1610 ca. 1668), discepolo di Orrente, da cui prende il gusto per
il paesaggio bassanesco, noto soprattutto per le sue scene
di battaglia, di notevole qualità, di temi biblici, che a
volte si ispirano a stampe fiamminghe e dell’italiano
Antonio Tempesta, o a modelli napoletani, ma sempre
risolti con un’esecuzione vibrante e personale (Attraversamento del Mar Rosso, Museo del Prado, Giosué ferma
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
il sole, Museo di Valencia). Il figlio Miguel (1638-70),
morto giovane, si evidenziò soprattutto per le sue nature morte, opulente, che spesso incorporano paesaggi sul
fondo (Allegoria delle stagioni, Museo di Valencia). Nei
quadri d’altare si dimostra ancora tenebrista, anche se
con una tecnica energica, sciolta e alquanto secca (San
Rocco, Museo di Valencia) che si avverte anche in alcune rare composizioni a carattere allegorico, apparse di
recente sul mercato internazionale.
Come pittore di nature morte è importante anche la
figura di Tomás Hiepes (morto nel 1674) che rappresenta nel suo genere speciale il transito dal naturalismo
tenebrista stretto e arcaicizzante nella composizione a
un concetto piú aperto e mosso, che a volte incorpora
nelle sue composizioni, come faceva Miguel March, dei
paesaggi di fondo.
Formatosi a Valencia, ma stabilitosi a Murcia, dove
si mette alla testa di una specie di scuola locale, anche
Mateo Gilarte (1620 ca. -1675) rappresenta questa stessa fase stilistica, con echi di Espinosa e Orrente, e timide preoccupazioni per il movimento e il colore chiaro
(serie della Vita della Vergine, dispersa, proveniente dal
collegio gesuita di San Estebán, Murcia).
In Aragona, la figura chiave di questo periodo è quella del longevo Jusepe Martínez (1601-82), discreto artista che parte dal tenebrismo e, dopo un viaggio in Italia che gli permise di conoscere Ribera e Guido Reni,
incorpora alcune nuove esperienze di colore e movimento legate soprattutto al mondo spagnolo, senza perdere del tutto l’interesse per i dettagli realisti. Piú modesti, Juan Galván (1596-1658) o Francisco Jiménez Maza
(1588-1670); anch’essi viaggiano in Italia, senza nulla
aggiungere alla loro arte, ma va segnalato che il secondo utilizza efficacemente le composizioni di Rubens
conosciute grazie a incisioni (Adorazione dei Magi, 1645
circa, cattedrale di Teruel).
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
A Siviglia, dove verso il 1650 regna quasi senza rivali lo stile di Zurbarán, troviamo Sebastián de Llanos
Valdés (1610 ca. – 1675), l’artista che può servire da
ponte tra Zurbarán e Murillo in quanto conosce entrambi e da entrambi trae elementi, segnando con personalità il transito dal tenebrismo del primo al pieno barocco del secondo. Nei quadri della cattedrale di Siviglia
(San Giovanni Battista davanti al sinedrio e Vocazione di
san Matteo, 1668) dimostra un’evidente conoscenza dell’arte genovese. Meno interessante è Pablo Legot
(1598-1657), lussemburghese di nascita, a Siviglia almeno dal 1619, artista incostante che si avvalse sempre di
collaboratori e si mosse nella scia di Roelas e Herrera il
Vecchio, con alcuni rimandi a Zurbarán (Adorazione dei
Magi, 1642, cattedrale di Cadice) o di Ribera (San Geronimo, cattedrale di Siviglia).
Pittori di nature morte di un certo interesse sono, a
Siviglia, Pedro Comprobin (1605 ca. -1674) che utilizza gli schemi della natura morta di Zurbarán conferendo un dinamismo e un’elegante vivacità nuovi, e Pedro
Medina Valbuena, di cui si conosce ben poco, ma che
sembra dipendere sempre da Zurbarán.
Nel resto dell’Andalusia sono abbastanza interessanti alcuni gruppi locali come quello di Cordoba e Jaén. A
Cordoba, la figura piú significativa è Antonio del Castillo (1616-68), formatosi a Siviglia, sicuramente con Zurbarán o sotto la sua influenza. Il suo stile è il naturalismo tenebrista, a cui resta fedele per quasi tutta la sua
vita (Calvario, Museo di Cordoba; Adorazione dei pastori, New York, Hispanic Society), ma dimostra di conoscere anche le composizioni fiamminghe rubensiane,
senza dubbio grazie alle incisioni, e di avere un evidente interesse per il paesaggio aperto (Storie di Giuseppe,
Museo del Prado). La tradizione, riportata da Palomino, vuole che morisse di tristezza sapendosi incapace,
dopo un viaggio a Siviglia, di emulare Murillo, all’epo-
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
ca all’apice del suo splendore creativo; ciò mostra chiaramente, sia vera o no la leggenda, l’arretratezza del suo
stile in confronto alle novità degli anni Sessanta. Assieme a lui va citato José de Sarabia (1608-69), di famiglia
sivigliana, formatosi con Zurbarán e stabilitosi a Cordoba dal 1630 che, nell’opera migliore considerata sua
(Adorazione dei pastori, Museo di Cordoba) denota una
delicatezza e un’intensità pari a quelle del suo maestro.
Da Jaén si distacca Sebastián Martínez (1599-1667),
personalità curiosa, mal studiata, che dipinse a Madrid
e fu pittore di Filippo IV. Ciò che di lui si conosce
mostra un artista formatosi nel tenebrismo e vicino a
Castillo, ma conoscitore di Alonso Cano e preoccupato
di fornire nelle sue composizioni un tono di dinamismo
e vibrazione atmosferica in linea con i nuovi tempi. La
sua opera piú importante, il San Sebastiano della cattedrale di Jaén, ha una notevole tensione espressiva, decisamente già barocca.
A Malaga è importante la presenza di Miguel Manrique (morto nel 1647), nato nelle Fiandre da madre
fiamminga e padre spagnolo, senza dubbio formatosi
nel circolo di Rubens; introdusse in Andalusia la conoscenza diretta del grande artista fiammingo e il gusto per
le composizioni opulente che avranno un ruolo definitivo nella generazione successiva.
Storia dell’arte Einaudi
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I pittori del pieno barocco
L’ultimo terzo di secolo, che coincide con esattezza
matematica con il regno di Carlo II (1665-1700), rappresenta il trionfo delle forme del barocco pieno. In
realtà ciò presuppone, almeno per quanto riguarda gli
aspetti puramente esterni, il mettersi alla pari con quanto si realizza in Europa. Se molti degli artisti della
«grande generazione» spagnola (Zurbarán, Espinosa,
Pereda o Juan Rizi) vivono, come abbiamo visto, con un
considerevole ritardo rispetto all’evoluzione generale
della pittura europea, in queste ultime decadi del secolo gli artisti spagnoli sono al passo con il resto d’Europa. È significativo il fatto che nel 1658 giungano a
Madrid i decoratori bolognesi Agostino Mitelli e Michelangelo Colonna, che creano una scuola e che, nel 1692,
Luca Giordano, vetta indiscutibile del barocco decorativo italiano ed europeo, si stabilisca per dieci anni a
corte per chiudere il secolo in un clima di apoteosi.
Questo formale aggiornamento rappresenta necessariamente un paradosso. Se le forme gloriose del pieno
barocco sono servite in Italia a esaltare il trionfo di una
Chiesa consolidata dopo rischi e incertezze della Controriforma, e nella Francia di Versailles esprimono, con
quel caratteristico adattamento delle forme di un classicismo relativo, lo splendore reale di una monarchia
potente, in Spagna queste forme trionfali si mettono al
servizio di una situazione volta al disastro, di una
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
monarchia barcollante e di un’economia sull’orlo della
bancarotta. Pochi sovrani sono stati fisicamente meno
favorevoli all’esaltazione di un’apoteosi di Carlo II,
eppure tocca a lui proteggere, per esigenze di «apparire», uno dei periodi piú fastosamente trionfali, ma
superficialmente brillanti della storia artistica spagnola.
Forse è per ciò che questa pittura cosí luminosa e allegra, colma di un’apparente vivacità, coesiste, prestando
anche il suo splendore, con il tema delle vanitas; cosí si
è verificato anche in letteratura, con evidente anticipazione. Quevedo aveva avvertito meglio di altri il fasto,
l’inutile apparenza, il profondo dramma della situazione reale spagnola e il suo vuoto; adesso la pittura offre,
assieme a questa falsa opulenza esteriore, la presenza
dell’elemento negativo e drammatico, avvertendo l’inanità delle cose presenti. Se il tema della vanitas rerum è
tipico del pensiero morale del XVII secolo, sia nell’ambito cattolico sia in quello protestante, in Spagna l’esortazione si fa piú profonda e malinconica, ma piú
direttamente vivida. La situazione spagnola era giustamente il regno della vanità, il trionfo dell’apparenza
esteriore che nasconde solo polvere, ceneri e miseria.
L’arte di fine secolo, che muore in un enorme castello
di fuochi artificiali, con la luminosa presenza di Claudio Coello, Palomíno e Lucas Jordán, nasconde soltanto la putredine e la vacuità che Valdés Leal rende evidente, forse con maggior crudezza di altri artisti della
storia della pittura.
I componenti artistici ideali di quest’ultima fase della
pittura spagnola secentesca sono chiaramente definibili
e, quindi, sono gli stessi di tutto il barocco decorativo
europeo: da una parte la pittura veneziana del XVI secolo, con la maestosa sensualità di Tiziano, la spettacolare opulenza colorista di Veronese e il luminoso drammatismo di Tintoretto; dall’altra la dinamica teatralità,
abbondante e fertile, di Rubens e dei suoi discepoli
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
fiamminghi. Di tutto ciò, in Spagna, ma soprattutto a
Madrid, vi sono abbondanti e magistrali esempi.
L’interesse per Venezia era stato fondamentale per
l’evoluzione dei piú «moderni» artisti della generazione del 1600, si pensi a Velázquez e Cano. Il meglio dell’opera di Rubens era noto, oltre che per le incisioni
delle sue opere, ben presto diffuse, grazie a superbi
esemplari: gli arazzi con le allegorie eucaristiche del convento delle Descalzas Reales, dal 1630, e le prodigiose
serie mitologiche della Torre de la Parada dal 1640.
Come è logico, i primi a Madrid a conoscere queste
opere furono i pittori del re: saranno quindi gli artisti
che hanno accesso alla corte i primi a raccogliere l’eco
della potenza colorista, del senso dinamico, della composizione diagonale e dell’esaltazione delle forme del
grande artista fiammingo.
A Siviglia, l’altro centro creativo importante nella
Spagna dell’ultimo terzo del secolo, i capolavori veneziani e fiamminghi non erano cosí frequenti, anche se
era possibile ammirarne alcuni nelle case dei grandi; tuttavia la speciale situazione commerciale della città
aveva reso possibile che nelle chiese e nei conventi vi
fosse un’abbondanza di opere di artisti genovesi (Assereto, Ansaldo, Valerio Castello, i Ferrari, Strozzi) che,
come è noto, già verso il 1630-40 avevano creato un
particolare stile barocco in cui convergevano anche
quelle due componenti, combinate con una speciale
sensibilità verso il quotidiano che eserciterà un’influenza decisiva nella cristallizzazione dello stile personale di Murillo.
Un sivigliano, emigrato a Roma, il giovane Francisco
de Herrera il Vecchio, svolgerà un ruolo importante
nella trasformazione delle forme e nel fissare definitivamente il nuovo stile sia a Madrid sia a Siviglia. Al suo
ritorno dall’Italia introduce, con vigore e grazia molto
personali, la sua interpretazione dello stile cortonesco e
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
delle raffinatezze di colore e luce osservati nella Venezia secentesca di Maffei e Mazzoni.
La tecnica pittorica, la fattura e il tocco si fanno ora
completamente liberi e comportano alcune audacie di
origine veneziana, già viste in alcuni pittori delle generazioni precedenti. Si pensi alla violenza di Herrera il
Vecchio, alla libertà di alcuni dei discepoli di Cajés (Luis
Fernández, José Leonardo) o degli schizzi tizianeschi di
Diego Polo, per non evocare l’eccezionale leggerezza
della pennellata di Velázquez, dove l’intera lezione veneziana giunge all’apice.
In quanto ai generi, la pittura religiosa continua a
essere l’unico campo per i pittori. Proseguono i cicli
monastici, ma il quadro d’altare di grandi dimensioni
sostituisce quasi completamente il retablo ripartito della
prima meta del secolo. Grandi tele, concepite come un
fastoso spiegamento scenografico, fiancheggiate a volte
da colonne salomoniche che sembrano contagiarle con il
loro dinamismo elicoidale, riempiono ora le chiese. I
fondi architettonici con prospettive in fuga, eredità
remota del Veronese e prossima di Rubens, e gli effetti
luminosi di piani successivi e di controluce definiscono
queste tele teatrali di sicuro effetto.
Il ritratto, sebbene mantenga di solito un tono di
garbo severo e il gusto per i colori scuri, il nero e il bianco, che la moda impone nell’abbigliamento, include
anche elementi di movimento, accompagnamento e
gestualità derivanti da Van Dyck, rendendolo meno
rigido e piú proiettato verso lo spettatore.
In ugual modo, la natura morta diviene piú barocca e
presenta formule di una certa opulenza di chiara ispirazione fiamminga. Abbiamo già detto che il genere delle vanitas, culminato con Pereda, viene mantenuto e raggiunge
con Valdés Leal le sue espressioni piú malinconiche.
La pittura murale, che aveva avuto una scarsa tradizione nella Spagna della prima metà del secolo, ha ora
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
il suo massimo sviluppo grazie alle apportazioni italiane
di Mitelli e Colonna, che in soli quattro anni (1658-62)
crearono una vera e propria scuola. Purtroppo, la maggior parte delle decorazione ad affresco o a tempera di
cui abbiamo notizia, soprattutto di quelle a tema mitologico dipinte per l’Alcázar di Madrid e per alcune abitazioni di nobili, sono andate perdute. Quel poco che
rimane ci permette di conoscere come la quadratura e i
lucernai con voli di angeli, che trasformarono cupole o
soffitti in magnifici spazi a cielo aperto, ebbero uno sviluppo e una qualità pari a quelle italiane.
La «scuola madrilena»
Nel capitolo precedente abbiamo parlato di alcuni
artisti, strettamente contemporanei di Velázquez, che
lottano timidamente per incorporare il dinamismo
rubensiano. L’inizio del definitivo trionfo del nuovo
stile si deve, ancora durante il regno di Filippo IV, agli
artisti della generazione successiva, nati tra il 1614 e il
1630, che adottano un linguaggio artistico che resisterà
fino alla fine del secolo.
Svolgono un ruolo eccezionale nella pittura madrilena due artisti dalle vite parallele: Francisco Rizi
(1614-85) e Juan Carreño de Miranda (1614-85), legati
inoltre da vincoli di amicizia personale e che spesso
lavorano insieme.
Rizi, fratello minore del frate Juan Andrés, fu un
fedele discepolo di Carducho e sicuramente ereditò da
lui una certa regola nel disegno di tradizione toscana e
una gran capacità di lavoro e di organizzazione del laboratorio, quindi è senza dubbio uno dei piú fecondi artisti del suo tempo e nel suo studio si formarono molti
degli artisti della generazione successiva, ormai pienamente barocca. Fin dall’inizio sembra interessato a una
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
fattura rapida e abbozzata, al colore intenso e contrastato, come alla composizione dinamica, di scorcio e
profonda, di evidente richiamo rubensiano. Conserviamo sue opere del 1645 e già nel 1650 dipinge un’enorme tela d’altare per i cappuccini del Pardo (La Vergine
con san Filippo e san Francesco) che presenta, risolto, il
tipo di grande retablo unico di grande composizione,
con un paesaggio luminoso, pieno di movimento e colore, sul fondo anche quando la disposizione presenta una
simmetria classica. Le opere successive (Deposizione di
Cristo, 1652, Museo del Prado; Santa Leocadia, Madrid,
San Jerónimo; retablo di San Pietro, 1655, Madrid,
Fuente del Saz; Liberazione di san Pietro, Vallecas e
molti altri) mostrano il suo avanzamento nel barocchismo e a volte anche la sua evidente disattenzione e precipitazione che lo portano a fare vere e proprie abborracciature. Nelle tele minori brilla meglio la sua audacia
nel colore e nella pennellata, ottenendo a volte raffinatissime armonie di colori chiari (Annunciazione, Museo
del Prado). Le sue Immacolate sono le prime nell’ambiente madrileno a presentare il tono mosso e impetuoso che poi diverrà generale e che contrasta con la quiete delle Immacolate precedenti, incluse quelle di Cano.
Come pittore di affreschi, Rizi e Carreño sono i primi
a sfruttare la presenza di Mitelli e Colonna, diventando i loro migliori discepoli e sviluppando vaste decorazioni di finte architetture, quasi sempre tracciate da
Rizi, nelle quali si iscrivevano i personaggi di Carreño.
A questo genere corrispondono le decorazioni della chiesa di San Antonio de los Portugueses, Madrid, e del
Camarín del Sagrario della cattedrale di Toledo, entrambe di Carreño, e quelle della cappella del Milagro delle
Descalzas Reales di Madrid (1678), completamente di
Rizi.
Legato a Palazzo fin dal 1656 come «pittore del re»,
fu anche direttore delle macchine teatrali del teatro del
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Buen Retiro, realizzando audaci scenografie di cui si
conservano alcuni disegni. L’ascesa di Carreño, pare
protetto direttamente dalla regina governatrice, donna
Marianna d’Austria, lo allontanò dalla vita di Palazzo
nella decade 1670-80, giungendo a inviare alla regina,
nel 1673, un vero memoriale di lamentele. In quegli anni
trasferisce la sua attività verso i conventi castigliani, ma
negli ultimi anni di vita sembra riacquistare un certo
ruolo a corte. È sua una curiosa tela di grande valore
documentale che rappresenta l’Auto de Fé svoltosi nella
Plaza Mayor di Madrid nel 1683. Morí nel 1685 mentre stava approntando una grande tela per l’altare della
sagrestia dell’Escorial, che non poté realizzare e venne
terminata dal suo discepolo, Claudio Coello.
Juan Carreño de Miranda, nato nelle Asturie da una
famiglia nobile, studiò con Pedro de las Cuevas e con
Bartolomé Román. La sua attività ebbe inizio nelle chiese e nei conventi, ma la necessità di ultimare rapidamente le nuove decorazioni dell’Alcázar fece sí che, su
suggerimento di Velázquez, secondo Palomino, ci si
rivolgesse a lui. Vi lavorò assieme a Mitelli, Colonna e
al suo amico Francisco Rizi. Ottenne la nomina a «pittore del re» nel 1669, dopo la morte di Mazo, e nel
1671, alla morte di Herrera Barnuevo, divenne «pittore di camera», superando Rizi che, fino ad allora, era
stato suo compagno in tante attività e che da quel
momento sembra prendere le distanze dalle attività di
Palazzo e, come abbiamo detto, non proprio per sua
volontà. Le sue tele d’altare mostrano fin dall’inizio il
peso che, nel disegno e nella composizione, esercitano i
modelli fiamminghi di Rubens e Van Dyck e la sapienza nell’uso del colore e della tecnica, audace e libera
nella pennellata, chiaramente di origine veneziana. La
grande tela della Fondazione dell’ordine Trinitario, composta in base a uno schema di Rizi, come sappiamo da
un disegno conservato agli Uffizi, dipinta nel 1666 per
Storia dell’arte Einaudi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
i Trinitari di Pamplona e oggi al Louvre, è forse l’espressione dell’apice della produzione di questo genere.
La composizione di scorcio, con un elegante ordinamento di piani luminosi, le forme, definite da macchie
vibranti, e il colore, caldo e dorato, con sorprendenti
effetti di neri puri di controluce, aiutano a uniformare
uno dei capolavori della pittura spagnola di quegli anni.
Allo stesso modo, la grande Assunzione della Vergine, al
Museo di Poznan, mostra notevoli audacia e dinamismo;
e composta su uno schema rubensiano, ma trattata con
eccezionale maestria tecnica e un colore di raro splendore veneziano.
Il genere piú noto di Carreño è la sua opera di ritrattista. Dal 1669 svolge alla corte di Carlo II un ruolo
simile a quello che Velázquez svolse alla corte di Filippo IV. È lui che ci ha trasmesso l’immagine triste e severa del pallido e malaticcio Carlo II, riflettendo la sua fragile silhouette nei grandi specchi del salone di palazzo,
o quella della regina madre, donna Marianna, con gli
abiti di lutto, di aspetto monacale, in piedi o seduta
davanti a una scrivania. I ritratti d’apparato dello sfortunato monarca in armatura (Toledo, Museo del Greco)
o con il mantello dell’ordine del Tosone (Vienna, collezione Harrach) sono forse le piú rabbrividenti e terribili
immagini della dissoluzione della monarchia, con un
significato, ai nostri occhi, quasi simile a quelli che
vedremo nelle Postrimeriàs di Valdés Leal. Fuori dall’ambiente di Palazzo, il ritratto di Carreño incorpora
la vivacità e la retorica dei modelli di Van Dyck, come
quello del Duca di Pastrana, al Prado, con uno scenario
aperto, cavallo e paggi. Come pittore di affreschi abbiamo già menzionato alcuni suoi lavori svolti assieme a
Rizi, soprattutto quello della volta di San Antonio de los
Portugueses, la cui parte centrale, con le figure in volo
nello spazio, è quasi sicuramente di sua mano. Sono
purtroppo andati perduti gli affreschi a tema mitologi-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
co dipinti nell’Alcázar, che ci avrebbero fornito informazioni sulle sue capacità con i nudi.
Assieme a Rizi e Carreño, svolse un ruolo molto
importante nella trasformazione dello stile e nell’affermazione del barocchismo pieno la figura di Francisco
Herrera il Giovane (1627-85), sivigliano che, fuggendo
dal padre, il vecchio Herrera, passò in Italia, dove
conobbe Pietro da Cortona e visse l’esaltazione del
barocco decorativo romano. Di ritorno, nel 1654, passò
da Madrid dove la sua Apoteosi di sant’Ermenegildo, oggi
al Museo del Prado, dipinta per il retablo maggiore delle
Carmelitane, dovette sorprendere per il suo esaltato
dinamismo, per la composizione elicoidale, dove sembra
risuscitare la forma «a serpentina» del manierismo, e per
l’audacia dei toni chiari, con i quali crea arditi effetti di
controluce. A Siviglia, dove visse alcuni anni, svolse un
ruolo significativo grazie alle opere per la cattedrale
(Adorazione del Sacramento, 1656; San Francesco, 1657)
la cui eco raggiunse perfino Murillo, suo compagno e
rivale nell’Accademia sivigliana fondata in quegli anni,
e certamente anche Valdés Leal. Trascorse gli ultimi
anni della sua vita a Madrid, al servizio della corte, sia
come pittore (eseguí molti affreschi, andati perduti) sia
come architetto, ed ebbe l’incarico di maestro maggiore delle opere reali.
Dopo questi tre maestri, che si possono considerare
i creatori dello stile madrileno piú caratteristico, segue
una generazione di giovani artisti, loro discepoli, la maggior parte dei quali, forse i migliori, morí giovanissima,
alcuni addirittura prima dei loro maestri. Rappresentano la pienezza di uno stile luminoso e dinamico, pieno
di colore, a volte con un’eleganza quasi affettata, ma
sempre risolta, nonostante le evidenti leggerezze di disegno e superficialità di sentimento, con una maestria tecnica, una sicurezza nel tono e un’eleganza cromatica di
radice veneziana assolutamente singolari, che danno per-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
sonalità e carattere alla «scuola madrilena» barocca.
Alcuni artisti, di età simile a quella dei tre maestri
suddetti, pretendono considerazione, soprattutto Francisco Camilo (1615 ca. - 1673), discepolo di Pedro de las
Cuevas che, come Rizi e ancora prima dell’avvento di
Herrera il Giovane a Madrid, rappresenta un passo
avanti verso il pieno barocchismo, con le sue figure
allargate e instabili, di colore chiaro, dalla pennellata
nervosa e dalle forme fluide (Ascensione di Cristo, 1651,
Museo di Barcellona; San Carlo Borromeo e gli apostoli,
cattedrale di Salamanca). Sebbene si dedicasse a composizioni ampie e spettacolari, diede il meglio di sé nell’iconografia pia di delicata tenerezza (San Giuseppe con
il Bambino dormiente, Museo di Huesca). Anche Sebastián Herrera Barnuevo (1619-71), discepolo di Alonso
Cano e come lui pittore, scultore e architetto, realizzò
opere di qualità con forti richiami veneziani (Retablo
della Madonna di Guadalupe, 1653, Madrid, Descalzas
Reales). Anche Francisco de Solís (1620-84) è un artista degno di considerazione per il suo personale stile
nelle figure svelte, ordinate in ritmi curvi e fluenti, di
un’eleganza un poco ricercata (Visione di santa Maddalena de’ Pazzi, Valladolid, collegio de Ingleses; Fuga in
Egitto, Madrid, palazzo Reale). Uomo colto e di raffinata
educazione, sappiamo che scrisse alcune vite di artisti
spagnoli, purtroppo perdute.
Tra i piú giovani discepoli di Rizi troviamo Antolínez, Escalante e Claudio Coello, per citarne solo alcuni. Furono discepoli di Carreño Mateo Cerezo, Cabezalero, Ruiz de la Iglesia, Jiménez Donoso e molti
altri. Matía de Torres era legato a Herrera il Giovane. Una pleiade di personaggi minori sono attivi, con
minor o maggior fortuna, fino all’arrivo di Luca Giordano, nel 1692, che apporta un nuovo elemento allo
stile madrileno, proiettandolo nelle prime decadi del
nuovo secolo.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
José Antolínez (1635-75) è un grande ammiratore di
Venezia, soprattutto di Tiziano, e delle Fiandre; colorista di grande eleganza e abilità si dedica, oltre al genere sacro (le sue Immacolate, di una certa alterigia aristocratica, sono quanto di piú personale vi sia del genere nella Madrid dell’epoca), al ritratto e al quadro di
genere, cosa quasi eccezionale nel panorama artistico
madrileno di quegli anni (Il pittore povero, Pinacoteca di
Monaco di Baviera), nonché a temi mitologici inseriti in
paesaggi. Juan Antonio Escalante (1633-70), di Cordoba, è piú incline al modello veneziano di Veronese, Tintoretto e Bassano.
Nella serie di quadri a tema eucaristico per la Merced di Madrid (1667), attualmente suddivisi in vari
musei, sorprende la sua bravura nel colore chiaro e nei
suoi personaggi di atteggiamento veneziano. Per le composizioni fece a volte ampio uso di stampe fiamminghe,
fu influenzato anche da Cano, ma sempre con un personalissimo senso di eleganza che brilla soprattutto in
alcuni deliziosi quadri a soggetto sacro di piccole dimensioni e squisita raffinatezza cromatica.
Mateo Cerezo (1637-66), di Burgos, apprende dal
maestro Carreño la devozione per Tiziano e Van Dyck,
con una preferenza per le figure a mezzo busto di sontuosa qualità (Maddalena penitente, Ecce Homo) e per le
composizioni complesse, di tono fiammingo, risolte con
una malinconica eleganza molto personale. Eseguí anche
nature morte di altissima qualità che svelano di aver
definitivamente superato lo schema tenebrista della
prima metà del secolo (Nature morte, Museo di Città del
Messico, Natura morta di cucina, Museo del Prado). Juan
Martín Cabezalero (1633-73), manciego di Almadén, si
ispira ai modelli fiamminghi di Van Dyck con una
straordinaria personalità, un gusto per le superfici ampie
a colori pieni e con effetti luminosi molto personali che
la sua morte prematura gli impedirono di sviluppare.
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Sono estremamente significativi i quadri della Passione
di Cristo (1669) nella cappella di Cristo della Venerable
Orden Tercera di Madrid.
José Jiménez Donoso (1628-90), anch’egli proveniente dalla Mancia (Consuegro), studiò a Roma e al suo
ritorno collaborò, come vedremo, con Claudio Coello
con il cui stile ha molti punti in comune: la propensione per le prospettive e il dominio dell’affresco illusionista della tradizione di Colonna e Mitelli.
Tralasciando molti altri artisti, alcuni di una certa
qualità come Diego González de Vega, Sebastiàn
Muñoz, José Moreno, Alonso de Arco o F. Ignacio Ruiz
de la Iglesia, la figura piú significativa di tutta la scuola è senza dubbio Claudio Coello (1642-93) la cui morte
sembra chiudere il ciclo della grande pittura barocca
spagnola. Discepolo e collaboratore di Francisco Rizi,
ebbe anche contatti con Carreño, che lo introdusse a
Palazzo dove copiò con molta cura Tiziano, Rubens e
Van Dyck, secondo quanto tramandatoci dagli scritti di
Palomino, riuscendo a creare uno stile che verrà adottato da tutta la scuola. Grazie al suo straordinario senso
dello spazio e della prospettiva aerea, sembra essere in
un certo qual modo l’erede di alcuni aspetti dell’arte di
Velázquez (L’adorazione della sacra ostia, 1685, El Escorial), alla quale si rifanno anche i suoi scarsi ritratti di
notevole semplicità e considerevole profondità psicologica. Il fasto teatrale e scenografico dei suoi quadri d’altare proviene direttamente da Rubens, tramite il suo
maestro Rizi, con un eccezionale dominio della prospettiva architettonica e della gradazione degli effetti
luminosi (Annunciazione, 1668, convento di San Placido; Martirio di san Giovanni Evangelista, 1674, chiesa di
Torrejón; Apparizione della Madonna a san Domenico,
Accademia di San Fernando; Martirio di santo Stefano,
1693, Salamanca, San Esteban). Fu molto interessato
dalla concretezza e le sue composizioni sono superbi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
esempi di realtà, soprattutto nel ritrarre personaggi
secondari e dettagli della natura morta. In anni di velocità di esecuzione e poca preoccupazione per il disegno,
si nota la sua insistenza nell’esecuzione e la sua attenzione nei profili esatti e nell’esattezza rigorosa degli
scorci. Il suo senso del colore è delicato e sottile. Come
pittore di affreschi, a cui si dedicò in collaborazione con
Jiménez Donoso o Sebastián Muñoz, si rifà alla tradizione di Mitelli e Colonna con finte prospettive e figure librate nello spazio aperto (1683-85, chiesa della Mantería, Saragozza; sagrestia della cattedrale di Toledo;
casa Panadería, Madrid ecc.).
Come abbiamo già piú volte ripetuto, nel 1692, un
anno prima della morte di Coello, venne chiamato a
corte Luca Giordano che, fino al 1702, anno in cui se
ne andò, dipinse una gran quantità di opere, sia affreschi (El Escorial; sagrestia della cattedrale di Toledo;
pareti di San Antonio de los Portugueses; Casón del
Buen Retiro) sia una vasta serie di tele con soggetti
biblici, religiosi, mitologici e allegorici. La sua appassionata arte, vistosa, fatta di agitazione e movimento,
piena di audaci scorci, figure volanti e colori vibranti e
caldi, con pennellate libere e nervose, diede una consacrazione definitiva al barocchismo sviluppatosi in quel
secolo. Esercitò la sua influenza su quasi tutti i pittori
che ebbero occasione di conoscerlo a Madrid. Si può
considerare allievo suo e di Claudio Coello, Antonio
Palomino (1655-1726), di Bujalance (Cordoba), grande
affrescatore (chiese di San Juan e della Virgen de los
Desamparados a Valencia; sacrario delle certose di Granada e Paular) e autore inoltre della piú importante
opera teorica di tutta la bibliografia artistica spagnola,
il Museo pictórico y escala óptica (1715-24) in cui, oltre
a problemi di ordine teorico, presenta, nel terzo capitolo
(Parnaso español Pintoresco laureado) le vite di pittori e
scultori spagnoli, diventando, soprattutto per quanto
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
riguarda il XVII secolo, la fonte principale per conoscere
la storia dell’arte spagnola.
Per quanto riguarda gli altri generi pittorici, soprattutto la natura morta, unica a raggiungere sviluppo e
indipendenza, si ha a Madrid un’evoluzione simile a
quella segnalata per la pittura religiosa. Una crescente
opulenza nella disposizione che tende all’asimmetria e al
movimento e una notevole ricchezza nel colore sostituiscono definitivamente i severi ordinamenti della
prima metà del secolo. Abbiamo già citato le Vanitas di
Pereda e le Nature morte di cucina di Matteo Cerezo;
Andrés Deleito, documentato nel 1680 e legato alle
forme di Pereda, dipinge nature morte e vanitas con una
tecnica spoglia e luminosa. In questi generi, il pieno
barocco è indubbiamente meglio incarnato dai vistosi
fiori di Juan de Arellano (1614-76), ricchi di eleganza e
colore, che devono molto al fiammingo Seghers e all’italiano Mario Nuzzi, ma con una sensibilità personale,
e quelli di suo genero, Bartolomé Pérez (1634-93) che
dipinge corone e ghirlande di fiori attorno a immagini
sacre, alla maniera fiamminga.
Anche Gabriel de la Corte (1648-94), imparentato
con Juan de la Corte, noto per i suoi quadri raffiguranti battaglie, dipinse vasi di fiori e ghirlande nello stile
tipico del barocchismo avanzato.
La pittura sivigliana
A differenza di Madrid dove, fino alla maturità di
Claudio Coello, non vi è alcun artista che possa porsi in
testa e dove conosciamo molti pittori di valore equivalente, a Siviglia l’attività pittorica di questo periodo si
focalizza quasi totalmente su due personalità molto forti
e contrapposte: Murillo e Valdés Leal.
Bartolomé Esteban Murillo (1618-82) è uno dei piú
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
famosi artisti spagnoli, sebbene la sua fama e il suo valore abbiano subíto, nel secolo attuale, una certa eclisse
con l’accusa di eccessivo sentimentalismo, mentre contemporaneamente si sopravvalutavano la semplicità e
l’asperità di Zurbarán. Nel XVIII secolo e in buona
parte del XIX, Murillo fu il nome spagnolo piú considerato, posto alla pari, e forse anche superiore, a quello di Velázquez. Nel Seicento, grazie all’attiva colonia
di mercanti fiamminghi e genovesi presente a Siviglia,
le sue opere giunsero sul mercato internazionale e il suo
nome era famoso ed elogiato in tutta Europa.
Figlio di un modesto barbiere-cerusico, rimase orfano ben presto e venne educato dalla sorella maggiore; la
sua formazione pittorica si svolse con il mediocre Juan
del Castillo in ambiente sivigliano, che stava osservando il crescente prestigio di Zurbarán e l’arrivo delle
opere di Ribera, due pittori che fungeranno da punto di
riferimento obbligato per le prime opere conosciute di
Murillo nelle quali si avvertono accenni naturalisti e
forti contrasti luminosi di tono completamente tenebrista (serie dei francescani di Siviglia, 1645-46, dispersa
in vari musei), nonché una certa propensione ai luminosi
angeli in gloria, già visti in Roelas. Questo naturalismo
leggermente tenebrista si mantiene in alcune opere della
decade del Cinquanta, tra le quali si evidenziano alcune meravigliose immagini di Madonna con Bambino,
luminose e con forti contrasti, ma con un delicato senso
materno che si collega a quello dell’italiano Cavarozzi
(Vergine del Rosario, Firenze, Palazzo Pitti e Museo del
Prado; Sacra Famiglia dell’uccellino, Museo del Prado).
Nel 1656, il grande Sant’Antonio della cattedrale di Siviglia mostra già quello che sarà il suo stile principale, con
una notevole diminuzione della scala dei personaggi
principali, in contrasto con l’imponente massa di quelli
di Herrera e di Zurbarán, e un ampio sviluppo dello spazio ricolmo, nella parte superiore, di cherubini giocosi
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
tra le nuvole, con contrasti luminosi forse presi da Herrera il Giovane che, appena giunto a Siviglia, impressionò gli artisti locali.
Nel 1658, risulta che Murillo è a Madrid dove si recò
da Velazquez e probabilmente visitò le collezioni reali
che lasceranno un’impronta nella sua opera successiva
dove, assieme a evocazioni della pittura genovese, ben
conosciuta nelle chiese sivigliane, si possono segnalare
ricordi di Van Dyck e di alcuni effetti veneziani.
Nella fase centrale della sua opera la tecnica si fa
luminosa e diafana, la pennellata fluida e vaporosa, il
colore piú chiaro a ottenere perfezioni di estrema sottigliezza.
Importantissime per la sua evoluzione furono le opere
della chiesa di Santa Maria la Blanca (Sogno del patrizio
romano e Visita del patrizio a papa Liborio, Museo del
Prado, Immacolata, Museo del Louvre, La fede nell’eucaristia, Lord Farington, tutti del 1665), opere che presentano una meravigliosa intimità e una tecnica fluida
ed evanescente, e i retablo del convento dei capuccini
(tra il 1665 e il 1669), conservati quasi tutti nel Museo
di Siviglia, che raffigurano immagini di santi dal nobilissimo atteggiamento e con un’emozione tenera e molto
umana. La tela centrale di uno di questi retablo, smembrato (la Porziuncola), è conservata al Wallraft-Richartz
Museum di Colonia. Nelle opere dell’ospedale della
Carità (1670-74) raggiunge forse l’apice come pittore
religioso, padrone di tutti i suoi mezzi, ma soprattutto
attento all’aspetto vivace e aneddotico offerto dall’argomento, che sa trasmettere con grazia ed esattezza prodigiosi. La decorazione dell’ospedale, di perfetta coerenza concettuale, presentava, per mano di Murillo, le
opere di misericordia tramite episodi biblici o evangelici (Mosé fa scaturire l’acqua dalla roccia per dare da bere
agli assetati, la Moltiplicazione dei pani e dei pesci per
dare da mangiare agli affamati, entrambi in situ, il Ritor-
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
no del figliol prodigo per vestire gli ignudi, Abramo e gli
angeli per dare ristoro ai pellegrini, la Cura del paralitico per curare gli infermi, la Liberazione di Pietro per redimere i peccatori, dispersi in vari musei), il tutto posto
attorno al retablo scultoreo della Deposizione di Cristo
che esprime la funzione principale della fraternità: seppellire i morti.
Murillo è un superlativo interprete della sensibilità
religiosa dell’epoca, le sue Immacolate Concezioni, che
hanno mantenuto la loro efficacia devota fino ai nostri
giorni, rispondono a varie rappresentazioni devozionali con una straordinaria varietà di modelli e un’alta maestria tecnica. Quasi tutte sono permeate dal dinamismo
e trionfalismo introdotti da Ribera, anche se a volte
Murillo riesce a esprimere un certo raccoglimento e grazia infantili (Immacolata, detta di Aranjuez, Prado).
Forse sono la conoscenza del mondo infantile e il compiacimento (per cui a volte è stato accusato di tenerezza) nelle sue grazie e giochi, che meglio definiscono la
sua sensibilità. Oltre all’infinito repertorio di cherubini che riempiono le sue grandi composizioni, si sofferma in scene infantili di Gesú o san Giovanni, ci presenta
la Madonna bambina e racconta episodi dell’infanzia dei
santi come san Tommaso di Villanueva. Murillo è anche
eccezionale per l’attenzione che rivolge ai generi profani; sono noti il suo amore per i paesaggi, che costituiscono gli sfondi di molte sue composizioni, luminosi e
alquanto artificiosi nella disposizione dei personaggi,
ma dai colori molto belli e la sua maestria nel ritratto,
dove l’eleganza vandickiana acquisisce un tono di malinconica gravità tipicamente spagnola (Don Justino de
Neve, Londra, National Gallery; Nicolás Omazur,
Prado). La parte veramente eccezionale della sua produzione artistica è rappresentata dai quadri che raffigurano monelli, scene di strada piene di grazia e scaltrezza, di vivacità e tenerezza (tele alla Pinacoteca di
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
Monaco di Baviera e al Dulwich College di Londra)
nelle quali, sebbene tratti spesso di mendicanti, sfugge
l’espressione di dolore e miseria per presentare, soprattutto in quelli dipinti in data posteriore, il lato piacevole
della triste realtà dell’epoca. In queste tele, dipinte sicuramente per la clientela borghese di commercianti olandesi e fiamminghi (con i quali si sa che ebbe rapporti
amichevoli), cosí eccezionali nel panorama artistico spagnolo, bisogna vedere ciò che di piú avanzato, di piú
moderno presenta la sua arte, una vera anticipazione del
XVIII secolo. Non per niente queste furono le prime sue
opere a uscire dalla Spagna dove oggi non se ne conserva neppure una.
Juan Valdés Leal (1622-90), di padre portoghese e
madre sivigliana, è assolutamente diverso dal suo stretto contemporaneo e concorrente. Uomo di pessimo
carattere, vanitoso e violento, la sua personalità e la sua
arte incarnano una tipologia completamente diversa
dalla semplicità, delicatezza ed equilibrio di Murillo.
Nato a Siviglia, si trasferí bambino a Cordoba dove studiò con Antonio del Castillo, ma ben presto si interessò al nuovo stile dinamico e colorista che, nelle sue
mani, raggiungerà estremi di violenza quasi inusitati. Il
suo Sant’Andrea della chiesa di San Francesco a Cordoba (1649) ricorda ancora Castillo e riporta accenni tenebristi, ma i quadri dipinti per il convento di Santa Chiara di Carmona (una parte al Museo di Siviglia) e soprattutto il retablo del Carmen di Cordoba (1655-58), dipinto dopo aver conosciuto le novità dello stile di Herrera
il Giovane, mostrano uno stile maturo con tutte le virtú
e i difetti che gli sono propri. Appassionato e incostante, disdegna la bellezza e si interessa esclusivamente
all’espressione. I suoi angeli sono spesso incredibilmente brutti e sembra negato alla delicatezza e alla grazia,
ma la drammaticità e la contrazione sono i suoi risultati migliori. La sua fretta e disattenzione sono tremende
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
e ciò fa sí che, sentendosi un meraviglioso colorista,
disprezzi il disegno e commetta spesso errori che soltanto la bellezza del colore e lo sfarzo della materia pittorica riescono a perdonare. È sempre alla ricerca di soggetti violenti, con molto movimento, che risolve con
vortici di colore, non con l’uso di prospettive e scorci.
Per quanto riguarda questo aspetto, esprimono pienamente il meglio della sua arte le tele delle carmelitane
di Cordoba, già citate, e la serie dei gerolimiti di Buenavista (1657-60), parte al Museo di Siviglia e parte
dispersa. Le grandi tele compositive di questa serie (Le
tentazioni di san Gerolamo e soprattutto San Gerolamo
flagellato dagli angeli) rappresentano forse quanto di piú
libero e lirico ci sia nella sua produzione, e le figure dei
venerabili dell’ordine offrono il colore piú equilibrato,
sereno e bello della sua intera opera. I quadri piú conosciuti e famosi di Valdés Leal sono senza dubbio le tele
delle Postrimerías dell’ospedale della Carità di Siviglia,
che lo hanno reso il piú significativo equivalente plastico della letteratura ascetica del disinganno. Amico del
famoso don Juan de Mañara, autore del Discurso de la
Verdad, terribile trattato ascetico dove la morte viene
descritta con una realtà spaventevole, che Valdés Leal
illustra con quadri di implacabile crudeltà, dove il macabro acquisisce un’evidenza quasi fisica. Anche come pittore di nature morte ha lasciato superbi esemplari del
genere vanitas composti con toni di accumulo e ricchezza tipici dell’epoca e dipinti con quella stessa violenza e
leggerezza di pennellata adottate nelle sue composizioni di grandi dimensioni. È curioso segnalare che Valdés
Leal è uno dei rari artisti spagnoli che si dedicarono
all’incisione ad acquaforte, eseguita con uno stile nervoso e scorretto, ma espressivo come nelle tele.
Lo stile di Valdés Leal, con la sua forte carica espressiva e il vibrante trattamento di colore e pennellata,
costituisce forse l’apice della veta brava dell’arte spa-
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gnola, quell’immagine, non sempre accettabile, dell’arte spagnola come unicamente drammatica, intensa, perfino violenta che coesiste a volte con quella del realismo
oggettivo e del misticismo convenzionale.
I restanti pittori sivigliani della seconda metà del
secolo si muovono attorno a questi due grandi maestri
ed è inutile dire che lo stile di Murillo era di piú facile
e gradevole imitazione, quindi i suoi discepoli e seguaci formarono una legione, fino all’estremo che la scuola
di Siviglia di fine secolo si potrebbe denominare «scuola di Murillo», anche quando in alcuni artisti si intravede una certa inclinazione al drammatismo di Valdés
Leal e alla sua propensione a prospettive ricche e a luminosi effetti di contrasto. Vale la pena sottolineare, perché rivela l’interesse per l’insegnamento di entrambi i
maestri, che nel 1660 a Siviglia si stabilisce un’accademia per la formazione degli artisti, i cui primi presidenti
furono Murillo e Herrera il Giovane, al quale si deve
probabilmente l’idea, presa da precedenti italiani. Quando Herrera si trasferí definitivamente a Madrid, Valdés
Leal si proclamò presidente e il discreto Murillo si ritirò
e si dedicò a lezioni private che impartiva a casa «per
non scontrarsi con la superbia del suo carattere (di
Valdés Leal)». È evidente (possediamo i registri accademici) la vasta influenza esercitata dagli insegnamenti
di entrambi a Siviglia e lo sviluppo che l’accademia raggiunse, chiedendo inoltre, senza ottenerlo, un riconoscimento ufficiale dalla corte.
Pedro Núñez de Villavicencio (1644-1700), amico ed
esecutore testamentario di Murillo, eseguí alcune scene
con monelli dal carattere realista nel genere del suo maestro. Era un uomo con aspirazioni nobiliari, viaggiatore e diplomatico, venne in Italia e fu cavaliere di Malta;
a La Valletta conobbe Mattia Preti che ebbe su di lui
una considerevole influenza e dal quale copiò alcune
composizioni. Il fiammingo Cornelio Schut (morto nel
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
1686) assimilò lo stile di Murillo a tal punto che i suoi
disegni venivano confusi con quelli dell’artista spagnolo, sebbene come pittore fosse molto piú modesto. Altri
seguaci e discepoli del maestro (Meneses, Osorio, Esteban Marquéz, Juan Simón Gutierrez, Sebastián Gómez)
ripeterono i suoi modelli e schemi con risultati migliori
e peggiori e alcuni (Alonso Miguel de Tovar, Bernardo
Germán Llorente, Clemente de Torres) li prolungarono,
come vedremo, fino al ’700 inoltrato.
Piú personali, perché fondevano elementi dei due
sommi maestri e riuscirono a configurare una maniera
personale di interpretazione del paesaggio e delle prospettive architettoniche, sono Francisco Antolínez y
Sarabia (1644-1700) e Matías de Arteaga y Alfaro (morto nel 1704), entrambi maestri in tele a carattere evangelico di formato oblungo, che spesso costituiscono delle
serie, il primo con bei paesaggi di fondo e il secondo con
scenari architettonici in prospettiva; entrambi inseriscono figurine abbozzate e nervose che si rifanno piú a
Valdés Leal che a Murillo.
Il basco Ignacio de Iriarte (1620-85) si specializza nel
paesaggio, con il quale a volte è in rivalità con lo stesso Murillo. Negli ultimi anni del secolo va segnalata
anche la presenza di un interessante gruppo di pittori
di nature morte a trompe l’œil, genere di origine olandese, chiamato in Spagna trampantojo, nel quale si
distinguono Marcos Cabrera e José Carpio e che, già nel
XVIII secolo, adottò anche Germán Llorente, pittore
murillesco.
Nel resto della Spagna
Al di fuori di Madrid e Siviglia è impossibile trovare, nell’ultimo terzo del secolo, artisti con personalità e
qualità simili a quelli riscontrabili nelle due città, ma in
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
qualche modo e con un notevole calo di qualità, la trasformazione dello stile si fa sentire ovunque.
In Andalusia, fuori da Siviglia, il centro artistico con
maggiore personalità è Granada. L’impronta e la lezione di Cano furono determinanti per l’attività locale, che
giunse a costituire una «scuola» dotata di una certa personalità, sempre sulla scia di Cano, con il suo amore per
la delicatezza e la grazia e il garbato senso del colore.
Bisogna innanzitutto ricordare Pedro de Moya
(morto nel 1674) che passa per essere stato colui che ha
introdotto lo stile «moderno» a Granada, dopo aver
viaggiato nelle Fiandre. In realtà, le sue poche opere
certe conservate derivano da modelli di Cano (Santa
Maddalena de’ Pazzi, Museo di Granada). Pedro Atanasio Bocanegra (1638-89) e Juan de Sevilla (1643-95)
sono personalità di rilievo. Entrambi conoscono bene le
stampe fiamminghe che forniscono loro gli schemi compositivi e seguono i modelli umani di Cano, dalla bellezza idealizzata. Juan de Sevilla, il migliore, sembra
conoscere bene Murillo e anche gli artisti madrileni,
che assimila con evidente personalità.
Tra i molti mediocri seguaci di Cano, meritano di
essere segnalati José Risueño (1665-1731), anch’egli
scultore come il suo principale modello, che prolunga lo
stile fino al XVIII secolo molto inoltrato, approfittando delle composizioni vandickiane conosciute indubbiamente grazie alle stampe e interpretate con una certa
grazia minuziosa e delicata.
A Malaga, il diretto rubensianismo di Manrique si
prolunga nell’opera di Juan Niño de Guevara (1632-93)
che conobbe e studiò anche Cano, di cui fu allievo.
A Valencia, che si è mantenuta fedele al tenebrismo,
si avverte già una certa aria di trasformazione dopo il
passaggio del madrileno Jiménez Donoso che, nel
1650-60, dipinse nel convento della Merced le meravigliose tele con storie dell’ordine, oggi conservate nel
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Museo della città, il cui senso scenografico e il colore
allegro formarono un violento contrasto con le composizioni di tono naturalista che Jacinto Jerónimo de Espinosa dipingeva in quegli anni per lo stesso convento.
Anni dopo, il passaggio di Palomino, discepolo di
Claudio Coello e Luca Giordano, trasformerà ancor di
piú il panorama, ormai familiare con il movimento
barocco, già noto a corte da trenta o quarant’anni.
È interessante la personalità di Vicente Salvador
Gómez (1637 ca. - 1680), molto legato alla tradizione
naturalista di Espinosa, ma che in alcune opere (Liberazione di san Pietro, Città del Messico, Museo de San Carlos, collezione Mayer; Scacciata dei mercanti dal tempio,
Museo del Prado) introduce una certa mobilità e un
dinamismo luminoso e un gusto per le architetture di
fuga che rompono con lo stretto tenebrismo delle sue
prime opere e fanno pensare a un suo viaggio fuori città.
Salvador Gómez è anche un prolifico e personale disegnatore che preparò un «libro di testo» per insegnare
disegno, opera conservata incompleta. Vicente Giner,
valenciano che visse a Roma nel 1680, è notevole per le
sue tele con prospettive architettoniche dallo stile molto
italiano, simile a quello che Viviano Codazzi eseguiva
nella prima metà del secolo.
Juan Conchillos (1641-1711), discepolo di Esteban
March e amico di Palomino, che tra il 1697 e il 1702
lascia a Siviglia alcuni dei suoi capolavori, incarna il
nuovo stile con una certa asprezza. È importante la sua
opera di disegnatore, uno dei piú prolifici dell’intera arte
spagnola.
Senén Vila (1640-1707), nato a Valencia dove studiò,
rappresenta a Murcia il nuovo stile, sebbene sia pieno
di arcaicismi e si rifaccia troppo spesso alla falsariga
delle stampe di Rubens, come fanno in genere quasi
tutti i pittori provinciali di quegli anni.
In Aragona e Navarra, stilisticamente molto legate
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Alfonso E. Pérez Sánchez - Il secolo d’oro della pittura spagnola
alla Castiglia, la figura piú significativa è Vicente Verdusán (morto nel 1697), la cui formazione si rifà completamente alla scuola madrilena. Fu molto attivo a
Huesca, Saragozza, Tudela, Pamplona e Corella con
uno stile sbagliato, ma con una certa eleganza ricercata
e una notevole freschezza nel colore, analoga a quella di
artisti minori madrileni come Francisco de Solís.
Pablo Raviella (morto nel 1739) è una specie di
Valdés Leal aragonese, dalla pennellata straordinariamente veemente, nel cui stile estremo, continuato dal
figlio omonimo fino al XVIII secolo ben inoltrato, si è
voluto vedere un predecessore di Goya.
In Catalogna, sempre con un livello qualitativo che
non supera il discreto, si evidenziano i Juncosa, famiglia
di Tarragona di cui due membri, Joaquín (1631-1708) e
José (documentato tra il 1669 e il 1694) prendono i voti
e dipingono con uno stile dinamico e drammatico. Joaquín fu a Roma dove è probabile che venne a conoscenza
dello stile di Maratta, ma vi sono ben poche opere che
gli possono essere attribuite con certezza.
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