A mia madre Conto solo le ore serene. Ogni riferimento a fatti storici, persone o luoghi reali è puramente funzionale alla vicenda narrata. Altri riferimenti a nomi, personaggi, posti e avvenimenti sono il frutto della fantasia dell'autore e ogni somiglianza a eventi attuali o luoghi o a persone, vive o morte, è assolutamente casuale. www.ragazzi.mondadori.it © 2009 Cassandra Clare LLC © 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l'edizione italiana Titolo dell'opera originale The Mortai Instruments. City of Glass Prima edizione agosto 2009 Stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento N.S.M., Cles (TN) Printed in Italy ISBN 978-88-04-59307-2 Anno 2010 - Ristampa 3 4 5 6 7 Lungo è il cammino e duro, che dall'inferno ci spinge alla luce. (JOHN MILTON, Il paradiso perduto, Libro II, w. 432-33) parte prima LE SCINTILLE VOLANO IN ALTO ... è l'uomo che genera pene, come le scintille volano in alto. (GIOBBE, 5:7) capitolo 1 IL PORTALE L' ondata di freddo della settimana precedente era passata e il sole brillava allegramente mentre Clary attraversava in fretta il giardino polveroso davanti alla casa di Luke, col cappuccio del giubbotto tirato su per impedire al vento di soffiarle i capelli in faccia. Faceva caldo, ma il vento che veniva dall'East River sapeva essere ancora feroce: portava con sé un lieve odore chimico, mescolato a quello di Brooklyn di asfalto e benzina e a un sentore di zucchero bruciato che veniva da una fabbrica abbandonata, in fondo alla via. Simon l'aspettava sulla veranda, buttato su una poltrona sfondata. Aveva il Nintendo DS in bilico sulle ginocchia fasciate dai jeans e con grande impegno lo stava tempestando di colpetti di stilo. — Punto! — esclamò quando Clary salì i gradini. — Sto distruggendo Mario Kart. Clary si abbassò il cappuccio, scrollò indietro i capelli e si frugò in tasca in cerca delle chiavi. — Dov'eri finito? È tutta la mattina che ti chiamo. Simon si alzò infilando il Nintendo nella borsa a tracolla. — Ero da Eric, per le prove con la band. Clary smise di armeggiare con la chiave nella toppa (si incastrava sempre) per lanciargli un'occhiata di traverso. — Le prove con la band? Vuoi dire che sei ancora... — Nella band? Perché non dovrei? — Si avvicinò. — Da' qua, faccio io. Clary non si mosse, mentre Simon girava la chiave con quel tanto di pressione che serviva a far scattare la vecchia serratura cocciuta. Le mani di Simon sfiorarono le sue: erano fresche, la pelle aveva la temperatura dell'aria. Clary rabbrividì appena. Avevano chiuso il loro tentativo di relazione romantica solo da una settimana, ma lei si sentiva ancora confusa, quando lo vedeva. — Grazie. — Riprese le chiavi senza guardarlo. Nel salotto faceva caldo. Clary appese il giubbotto a un gancio dell'ingresso e si diresse verso la camera dove dormiva, seguita da Simon. Aggrottò la fronte: la sua valigia era aperta sul letto come una conchiglia marina e c'erano vestiti e album da disegno sparsi ovunque. — Ma non devi restare a Idris solo un paio di giorni? — le chiese Simon, contemplando il disastro con un'aria di lieve sgomento. — Infatti, ma non riesco a decidere che cosa mettere in valigia. Gonne e veri vestiti praticamente non ne ho. E se non potrò mettermi i pantaloni? — Perché mai? È un altro paese, non un altro secolo. — Ma gli Shadowhunters sono così all'antica. E Isabelle mette sempre dei vestiti... — Clary s'interruppe e sospirò. — Lascia stare. Sto solo proiettando sul mio guardaroba tutta l'ansia che ho per mia mamma. Parliamo d'altro. Come sono andate le prove? L'avete trovato, il nome della band? — Le prove, bene. — Simon si sedette sulla scrivania con le gambe penzoloni. — Stiamo pensando a un nuovo motto. Qualcosa di ironico tipo "Ve le abbiamo suonate e ve le suoneremo ancora". — Hai detto a Eric e agli altri della band che... — Che sono un vampiro? No. Non è il genere di cose che si buttano lì in una chiacchierata. — Forse no, ma loro sono i tuoi amici. Dovrebbero saperlo. E poi, penseranno solo che ti faccia più divo del rock, come quel vampiro Lester. — Lestat — la corresse Simon. — Si chiama Vampire Lestat. Ma lui è finto. Comunque, non mi pare di averti vista correre da tutti i tuoi amici a dire che sei una Cacciatrice, una Shadowhunter. — Quali amici? Sei tu il mio unico amico. — Si buttò sul letto e guardò Simon. — E a te l'ho detto, no? — Perché non avevi scelta. — Simon la osservò piegando di lato la testa; la luce sul comodino creava sui suoi occhi riflessi argentati. — Mi mancherai, quando sarai via. — Anche tu — disse Clary. In realtà era tutta un formicolio di tensione e di aspettativa, e le era difficile concentrarsi. Sto per andare a Idris!, cantava la sua mente. Vedrò la patria degli Shadowhunters, la Città di Vetro. Salverò mia madre. E sarò con face. Gli occhi di Simon ebbero un guizzo, come se avesse sentito i suoi pensieri, ma il suo tono di voce rimase dolce. — Spiegami di nuovo perché proprio tu devi andare a Idris. Perché non se ne possono occupare Madeleine e Luke? — L'incantesimo che ha ridotto mia mamma in quelle condizioni è stato fatto da uno stregone, Ragnor Fell. Madeleine dice che dobbiamo ritrovarlo per farci dire come invertire l'incantesimo. Ma Ragnor Fell non ha mai visto Madeleine. Però conosceva mia mamma e, secondo Madeleine, si fiderà di me perché le assomiglio molto. E Luke non mi può accompagnare: potrebbe venire a Idris, ma a quanto pare non può entrare ad Alicante senza il permesso del Conclave, che non glielo concederebbe. Non dirgli niente, per favore, non è affatto contento di non poter venire con me. Se non conoscesse Madeleine dubito che mi avrebbe lasciato partire. — Ma ci saranno anche i Lightwood. E Jace. Ti aiuteranno loro. Jace ha detto che ti avrebbe aiutata, no? Insomma, non gli dispiace che tu vada con loro, giusto? — Certo che mi aiuterà — rispose Clary. — E non gli dispiace per niente. Per lui non c'è problema. Ma questa, Clary lo sapeva bene, era una bugia. Clary era andata dritta all'Istituto, dopo aver parlato con Madeleine all'ospedale. Jace era stato il primo al quale aveva rivelato il segreto di sua madre, prima ancora che a Luke. Lui l'aveva ascoltata, immobile, guardandola fisso e facendosi sempre più pallido: sembrava che Clary non gli stesse dicendo come si poteva fare per salvare sua madre, ma gli stesse prosciugando il sangue nelle vene con sadica lentezza. — Tu non vai da nessuna parte — le disse alla fine. — A costo di legarti e restare seduto sopra di te finché non ti sarà uscito questo grillo dalla testa, tu non andrai a Idris. Fu come uno schiaffo. Clary pensava che Jace sarebbe stato contento. Aveva fatto tutta la strada dall'ospedale all'Istituto di corsa, per dirglielo, e invece eccolo lì, in piedi sulla soglia, a fissarla cupo con un'aria da funerale. — Voi però ci andate — aveva replicato lei. — Sì, noi ci andiamo. Ci dobbiamo andare. Il Conclave ha richiamato a Idris tutti i suoi membri attivi per tenere un Consiglio generale e decidere cosa fare con Valentine. E dato che noi siamo gli ultimi ad averlo visto... Clary liquidò il discorso con un gesto della mano. — Quindi, se andate voi, perché non posso venirci anch'io? Quella domanda così diretta sembrò irritarlo ancora di più. — Perché là non saresti al sicuro. — Ah, qui invece sono al sicuro, vero? Ho rischiato di morire almeno una decina di volte, nell'ultimo mese, e sempre qui, a New York. — È perché Valentine si stava concentrando sui due Strumenti Mortali che erano qui. — Jace parlava a denti stretti. — Ora sposterà la sua attenzione su Idris, lo sappiamo tutti... — Non ne siamo sicuri per niente — intervenne Maryse Lightwood. Era rimasta nell'ombra del corridoio, dietro la porta, non vista da nessuno dei due. Fece un passo avanti, entrando nella luce dell'ingresso. La luce illuminò le rughe di stanchezza che le segnavano il viso. Suo marito Robert era stato contaminato dal veleno di un demone, nella battaglia della settimana prima, e da allora aveva avuto bisogno di assistenza continua. Clary poteva solo immaginare quanto Maryse potesse essere stanca. — E il Conclave vuole incontrare Clarissa. Lo sai anche tu, Jace. — Al diavolo il Conclave. — Jace! — lo rimproverò Maryse in tono molto genitoriale, tanto per cambiare. — Modera il linguaggio. — Il Conclave vuole un sacco di cose — si corresse Jace. — Non può averle tutte. Maryse gli lanciò un'occhiata, come se sapesse esattamente di cosa stava parlando Jace e non apprezzasse affatto. — Il Conclave ha spesso ragione, Jace. È abbastanza normale che vogliano parlare con Clary, dopo quello che ha passato. Quello che lei potrebbe dire... — Gli dirò io tutto quello che vorranno sapere — la interruppe Jace. Maryse sospirò e volse i suoi occhi azzurri a Clary. — Dunque tu vuoi venire a Idris, mi pare di capire. — Solo per un paio di giorni. Non vi creerò problemi — promise Clary con aria supplichevole, ignorando lo sguardo incandescente di Jace. — Giuro. — Il punto non è se ci creerai problemi o no ; il punto è se vorrai incontrare il Conclave. Loro vogliono parlare con te, ma se tu rifiuterai, dubito che avremmo l'autorizzazione a portarti con noi. — Non... — iniziò Jace — Incontrerò il Conclave — accettò Clary, anche se la sola idea le fece correre un brivido freddo lungo la schiena. Finora, l'unico emissario del Conclave che aveva conosciuto era l'Inquisitrice, e non poteva certo dire che fosse stata una piacevole compagnia. Maryse si sfregò le tempie con la punta delle dita. — Allora siamo a posto. — Lei, però, non sembrava per niente a posto: la sua voce era fragile e tesa come una corda di violino. — Jace, accompagna fuori Clary e poi vieni da me in biblioteca. Devo parlarti. La donna sparì nell'ombra da cui era apparsa, senza nemmeno una parola di saluto. Clary la seguì con lo sguardo, con l'impressione di aver preso una secchiata d'acqua gelata in faccia. Alec e Isabelle erano sinceramente affezionati alla madre, e Clary sapeva che non era una cattiva persona, ma non si poteva certo dire che fosse una donna affettuosa. La bocca di Jace era una linea dura. — Ma tu guarda cos'hai combinato. — Io devo andare a Idris, anche se tu non riesci a capire perché — replicò Clary. — Devo farlo per mia madre. — Maryse ha grande fiducia nel Conclave — commentò Jace. — Lei li crede perfetti, e io non posso dirle che non è vero, perché... — Si interruppe di colpo. — Perché è una cosa che direbbe Valentine. Si aspettava un'esplosione di rabbia, invece Jace disse solo: — Nessuno è perfetto. — Pigiò con l'indice il pulsante dell'ascensore. — Nemmeno il Conclave. Clary incrociò le braccia al petto. — Allora è questo il vero motivo per cui non vuoi che venga con voi? Perché non sarei al sicuro? Un guizzo di sorpresa balenò sul viso di Jace. — In che senso? Quale altro motivo dovrei avere? Clary mandò giù un nodo in gola. — Per esempio... — Per esempio, perché mi hai detto che non provi più niente per me e, sai, è una cosa molto imbarazzante, perché io invece provo ancora qualcosa per te. E scommetto che lo sai. — Per esempio perché non voglio che la mia sorellina mi segua dappertutto? — C'era una nota tagliente nella sua voce, mezza di scherno, mezza di qualcos'altro. L'ascensore arrivò sferragliando. Clary spinse il cancelletto ed entrò, voltandosi a guardare Jace. — Io non voglio andare a Idris perché ci sei tu. Voglio andarci per aiutare mia madre. Nostra madre. Io devo aiutarla, capisci? Se non lo faccio, potrebbe non svegliarsi mai più. Potresti almeno fare finta che ti importi qualcosa. Jace le mise le mani sulle spalle. Le punte delle dita le sfiorarono la pelle nuda vicino al colletto, provocandole inutili e irrefrenabili brividi in tutto il corpo. Jace aveva delle ombre scure sotto gli occhi, notò Clary senza volerlo, e le guance scavate. La maglia nera che indossava metteva in risalto le sue ciglia scure e la pelle chiara segnata dai lividi. Era uno studio sui contrasti, un soggetto da dipingere in bianco, nero e grigio, con qualche spruzzo d'oro qua e là, per gli occhi, ad esempio, per una traccia di... — Lascialo fare a me. — La voce di Jace era morbida, incalzante. — Posso aiutarla io, al posto tuo. Dimmi dove devo andare e a chi chiedere. Farò io quello che ti serve. — Madeleine ha detto allo stregone che ci andrò io. Lui si aspetta la figlia di Jocelyn, non suo figlio. Le mani di Jace si strinsero sulle sue spalle. — Allora dille che c'è stato un cambio di programma. Che ci vado io, non tu. Non tu. — Jace... — Farò qualsiasi cosa — insistette Jace. — Qualsiasi cosa vorrai, se mi prometti di restare qui. — Non posso. Jace la lasciò andare, come se Clary lo avesse spinto via. — E perché non puoi? — Perché — rispose Clary — è mia madre, Jace. — E anche la mia. — La sua voce era fredda. — Perché Madeleine non ci ha contattato tutt'e due? Perché solo tu? — Lo sai, il perché. — Perché per lei — concluse Jace, con una voce ancora più fredda — tu sei la figlia di Jocelyn, mentre io sarò sempre il figlio di Valentine. Jace richiuse con forza la porta dell'ascensore. Per un momento Clary lo guardò da dietro la grata di ferro, che gli ripartiva la faccia in rombi metallici. Da uno dei rombi, uno dei suoi occhi dorati la fissava, acceso nel profondo da una rabbia furiosa. — Jace... — iniziò Clary. Ma con un sobbalzo e uno sferragliare di ingranaggi l'ascensore si mise in moto, portandola giù, nel buio silenzio della cattedrale. — Terra chiama Clary. — Simon le agitò le mani davanti agli occhi. — Sei sveglia? — Sì, scusa. — Clary, seduta sul letto, raddrizzò la schiena e scrollò la testa per liberarla dalle ragnatele. Era stata quella l'ultima volta in cui aveva visto Jace. Quando più tardi l'aveva chiamato al telefono, lui non aveva risposto, e Clary aveva programmato il viaggio a Idris con i Lightwood usando Alec, riluttante e imbarazzato, come figura di riferimento. Povero Alec, incastrato tra Jace e sua madre, sempre a cercare di fare la cosa giusta. — Hai detto qualcosa? — Solo che Luke dev'essere rientrato — disse Simon saltando giù dalla scrivania nel momento in cui la porta della camera si apriva. — Infatti. — Ciao, Simon. — La voce di Luke era calma, forse un po' stanca. Indossava un giubbotto di jeans piuttosto liso, una camicia di flanella e un paio di vecchi pantaloni a coste che avevano visto tempi migliori circa dieci anni prima. Aveva gli occhiali sulla testa, tra i capelli castani che avevano più fili grigi di quanto Clary ricordasse. Aveva sotto il braccio una scatola quadrata, legata con un nastro verde. La porse a Clary. — Ti ho preso qualcosa per il viaggio. — Non dovevi! — protestò Clary. — Hai già fatto così tanto... — Ripensò ai vestiti che Luke le aveva comprato, dopo che tutto quello che aveva era stato distrutto. Le aveva persino regalato un telefonino nuovo e matite e colori per i suoi disegni, senza che ci fosse neanche bisogno di chiederli. Ora, quasi tutto ciò che Clary possedeva era un dono di Luke. E non approvi per niente quel che sto per fare. Quell'ultimo pensiero restò sospeso tra loro, inespresso. — Lo so, ma l'ho visto e ho pensato a te. — Le porse la scatola. L'oggetto che conteneva era avvolto in vari strati di carta velina. Clary la strappò e le sue mani si chiusero su un tessuto morbido come il pelo di un gattino. Trasalì: era un cappottino di velluto verde bottiglia, vecchio stile, con una fodera di seta dorata, i bottoni in ottone e un ampio cappuccio. Se l'appoggiò sulle gambe, carezzando con delicatezza il tessuto soffice. — Sembra una cosa che indosserebbe Isabelle — esclamò. — Un mantello da viaggio da vera Cacciatrice. — Esattamente. Vestita così, sarai più simile a loro — le disse Luke. — Quando sarai a Idris. Lei lo guardò. — E tu vuoi che somigli a loro? — Clary, tu sei una di loro. — Il suo sorriso era venato di tristezza. — E poi, sai anche tu come trattano i forestieri, da quelle parti. Qualsiasi cosa puoi fare per inserirti... Simon fece uno strano verso e Clary lo guardò con aria colpevole: si era quasi dimenticata che fosse lì. Simon guardò l'orologio. — Io devo andare. — Ma sei appena arrivato! — protestò lei. — Pensavo di stare un po' insieme, guardare un film, qualcosa... — Devi fare le valigie. — Simon le sorrise, luminoso come il sole dopo un temporale. Si sarebbe potuto credere che non avesse il minimo pensiero. — Passo a salutarti più tardi. — Ma dai! — protestò Clary. — Resta... — Non posso. — Il suo tono era categorico. — Mi vedo con Maia. — Ah, fantastico — commentò Clary. Maia, si disse, era simpatica. Era intelligente. Era carina. Era anche un lupo mannaro. Un lupo mannaro con una cotta per Simon. Ma forse era così che doveva essere. Forse era giusto che la nuova amica di Simon fosse una Nascosta. Dopotutto anche lui, adesso, era un Nascosto. In teoria, non avrebbe nemmeno potuto frequentare una Shadowhunter come Clary. — Allora è meglio che tu vada. — È meglio di sì. — Gli occhi scuri di Simon erano imperscrutabili, e questa era una novità: finora, Clary era sempre stata capace di leggere i pensieri di Simon. Si chiese se fosse un effetto collaterale del vampirismo o qualcosa di totalmente diverso. — Ciao — la salutò Simon. Si chinò come per baciarla sulla guancia, spostandole i capelli con la mano, ma si fermò e si ritrasse, con un'espressione incerta. Lei aggrottò la fronte, sorpresa, ma Simon se n'era già andato, passando accanto a Luke, ancora fermo sulla porta. La porta d'ingresso sbatté in lontananza. — Si comporta in modo così strano! — esclamò Clary stringendosi al petto il cappotto di velluto, come a cercare rassicurazione. — Secondo te, è per questa faccenda del vampirismo? — Non credo. — Luke sembrava leggermente divertito. — Diventare Nascosti non cambia ciò che si prova per le cose o per le persone. Dagli tempo: hai appena rotto con lui. — Non sono stata io. È stato lui a rompere con me. — Perché tu non eri innamorata. È una situazione complicata, ma mi pare che Simon la stia gestendo con molto tatto. Altri, alla sua età, metterebbero il broncio, o ti aspetterebbero per ore sotto la finestra con uno stereo portatile. — Luke, lo stereo portatile non ce l'ha più nessuno. Succedeva negli anni Ottanta. — Clary scese dal letto e s'infilò il cappotto. Lo abbottonò fino al colletto, godendosi la morbida sensazione del velluto. — Voglio solo che Simon torni alla normalità. — Si guardò allo specchio e fu piacevolmente sorpresa dall'immagine riflessa: il verde le metteva in risalto i capelli rossi e le illuminava gli occhi. Guardò Luke. — Che ne pensi? Luke era appoggiato allo stipite della porta, con le mani in tasca. Un'ombra passò sul suo viso mentre la guardava. — Tua madre aveva un cappotto così, quando aveva la tua età. — Non aggiunse altro. Clary chiuse le dita intorno ai polsini, affondandole nel velluto morbido. Sentirgli nominare sua madre, con quella tristezza nella voce, le fece venir voglia di piangere. — Dopo andiamo da lei, vero? — chiese. — Voglio salutarla, prima di partire, e voglio dirle... voglio dirle cos'ho intenzione di fare. Voglio dirle che guarirà. Luke annuì. — Sì, dopo andiamo in ospedale. E... Clary? — Sì? — Non avrebbe voluto guardarlo in faccia ma, con suo grande sollievo, quando lo guardò vide che la tristezza gli era sparita dagli occhi. Luke sorrise. — La normalità non è poi questa gran cosa. Simon guardò il foglietto che aveva in mano, poi la cattedrale, con gli occhi socchiusi per il sole del pomeriggio. L'Istituto si stagliava contro un cielo azzurro e lontano, un blocco di granito traforato da finestre a sesto acuto e circondato da un alto muro di cinta. Le facce grottesche dei gargoyle ghignavano dai cornicioni, come a sfidarlo ad avvicinarsi. Non assomigliava per niente a come gli era apparso la prima volta, dissimulato dietro l'illusorio aspetto di un rudere abbandonato. Con i Nascosti, gli inganni ottici non funzionavano. Tu qui non c'entri niente. Le parole erano dure, corrosive come l'acido; chissà se era la voce dei gargoyle o della sua mente. Questa è una chiesa e tu sei un dannato. — Basta — mormorò debolmente. — E poi, che m'importa delle chiese, io sono ebreo. C'era un cancello di ferro battuto, incastonato nel muro di cinta. Simon appoggiò la mano al saliscendi con una mezza idea che gli avrebbe bruciato la pelle, ma non successe niente. A quanto pareva, il cancello in sé non era particolarmente sacro. Simon lo aprì ed entrò. Era quasi a metà del vialetto di pietre crepate dal tempo che conduceva all'ingresso, quando poco lontano sentì delle voci familiari. Forse non proprio "poco lontano". Aveva quasi dimenticato quanto si era affinato il suo udito, come la vista peraltro, da quando si era trasformato. Le voci sembravano vicine, ma seguendo il vialetto che girava intorno all'Istituto vide che le persone erano a parecchia distanza, in fondo al prato. Qui l'erba era incolta e invadeva i vialetti che si diramavano verso quelli che un tempo erano roseti ordinatamente allineati. C'era persino una panchina di pietra, coperta da un intrico di erbacce. L'Istituto era stato una vera chiesa, prima che gli Shadowhunters se ne impossessassero. Vide subito Magnus, appoggiato a un muscoso muretto di pietra. Era difficile non vedere Magnus: aveva una maglietta bianca decorata a schizzi di colore e pantaloni arcobaleno di pelle. Risaltava come un'orchidea di serra fra gli Shadowhunters tutti in nero: Alec, pallido e visibilmente a disagio, Isabelle, coi lunghi capelli neri raccolti in trecce fissate da nastrini argentati, e, accanto a lei, un ragazzino che doveva essere Max, il fratello più piccolo. Poco lontano c'era la loro madre, Maryse, una versione poco più alta e più ossuta della figlia, con gli stessi capelli neri. Con lei c'era una donna che Simon non conosceva. In un primo momento pensò che fosse una vecchia, perché aveva i capelli quasi bianchi, ma quando si voltò a parlare con Maryse vide che, probabilmente, non arrivava ai quarant'anni. E poi c'era Jace, un po' in disparte, come se non facesse parte del gruppo. Era in tenuta nera da Cacciatore, come gli altri. Quando Simon si vestiva di nero, sembrava pronto per un funerale. Jace, invece, sembrava più duro, più pericoloso. E più biondo. Simon sentì subito la tensione accumularsi nelle spalle e si domandò se mai qualcosa - il tempo o l'oblio - avrebbe potuto diluire il risentimento che nutriva nei suoi confronti e che avrebbe preferito non provare. Ma quel rancore c'era: un macigno che gli pesava sul cuore che non batteva più. C'era qualcosa di strano, in quel gruppo di persone. Proprio allora Jace si voltò verso di lui, come se avesse percepito la sua presenza. Anche a quella distanza, Simon vide la sottile cicatrice bianca sulla sua gola, sopra il colletto. Il risentimento sfumò in qualcosa di diverso. Jace gli fece un lieve cenno con il capo. — Torno subito — disse a Maryse con un tono di voce che Simon non avrebbe mai usato con sua madre, da adulto ad adulto. Maryse acconsentì con un gesto distratto. — Non capisco perché ci voglia tanto tempo — stava dicendo a Magnus. — È normale? — Quello che non è normale è lo sconto che vi sto facendo. — Magnus batté il tacco dello stivale contro il muro. — Di solito mi faccio pagare il doppio. — È solo un portale temporaneo. Deve portarci solo fino a Idris. Poi dovrai richiuderlo. I patti sono questi. — Si rivolse alla donna al suo fianco. — Tu resterai qui a controllare che lo faccia, Madeleine. Madeleine. Allora era lei, l'amica di Jocelyn. Ma non c'era tempo di stare a guardare. Jace l'aveva preso per un braccio e lo stava trascinando dietro l'angolo della chiesa, dove gli altri non potevano vederli. Lì le erbacce erano ancor più alte e rigogliose e il sentiero era invaso dai rovi. Jace lo spinse dietro una grande quercia e finalmente mollò la presa, lanciando intorno occhiate sospettose, come a controllare che nessuno li avesse seguiti. — Okay, qui possiamo parlare. Sicuramente era un angolo tranquillo: il rumore del traffico della York Avenue era attutito dalla mole dell'Istituto. — Sei tu che mi hai chiesto di venire — precisò Simon. — Ho trovato il tuo messaggio sotto la finestra, stamattina, quando mi sono svegliato. Ma tu non usi mai il telefono come la gente normale? — Non se posso evitarlo, vampiro — rispose Jace. Studiava con aria assorta il volto di Simon, come se stesse leggendo le pagine di un libro. La sua espressione racchiudeva due emozioni contrastanti: un lieve stupore e quello che a Simon sembrò disappunto. — Allora è vero, tu puoi stare alla luce del sole. Nemmeno a mezzogiorno ti scotti la pelle. — Esatto — disse Simon. — Del resto lo sapevi, no? C'eri anche tu. — Non ci fu bisogno di precisare dove: lesse nel viso di Jace il ricordo del fiume, il pianale del pick-up, il sole che sorgeva sull'acqua, Clary che gridava. Un ricordo nitido e preciso, come per Simon. — Pensavo che fosse una cosa temporanea — disse Jace senza convinzione. — Se sento che sto per andare a fuoco, ti avverto. — Simon non aveva mai molta pazienza con Jace. — Senti, mi hai chiesto di venire fin qui solo per osservarmi come un microbo su un vetrino da laboratorio? La prossima volta ti mando una foto. — E io la metto in cornice e me la tengo sul comodino — replicò Jace, ma il suo sarcasmo non veniva dal cuore. — Ti ho fatto venire qui per una ragione. Anche se mi scoccia doverlo ammettere, vampiro, noi due abbiamo qualcosa in comune. — Capelli strabilianti? — suggerì Simon, ma anche lui non ci stava mettendo il cuore. Qualcosa nell'espressione di Jace lo stava mettendo a disagio. — Clary — rispose Jace. Simon fu colto alla sprovvista. — Clary? — Clary — ripetè Jace. — Hai presente? Piccolina, rossa, brutto carattere. — Non capisco come Clary possa essere qualcosa che abbiamo in comune — replicò Simon, pur capendolo benissimo. Non era una conversazione che desiderava fare con Jace, né ora né mai. Non c'era forse un codice virile non scritto che impediva discussioni del genere? Discussioni sui sentimenti? Evidentemente no. — Tutti e due ci teniamo a lei — dichiarò Jace, dandogli un'occhiata misurata. — Clary è importante sia per me sia per te. Giusto? — Tu mi stai chiedendo se ci tengo a Clary? — "Tenerci" era una parola piuttosto inadeguata. Si chiese se Jace si stesse prendendo gioco di lui, il che sarebbe stato insolitamente crudele, persino per Jace. Possibile che l'avesse fatto venire fin lì solo per prenderlo in giro perché con Clary non aveva funzionato, romanticamente parlando? Ad ogni modo Simon coltivava ancora la speranza, una minima speranza, che le cose potessero cambiare, che Jace e Clary cominciassero a provare l'uno per l'altra sentimenti più simili a quelli che solitamente esistono tra fratello e sorella... Incrociò lo sguardo intenso di Jace e sentì avvizzire anche quella piccola speranza. La sua espressione non era quella che hanno i fratelli quando parlano delle proprie sorelle. D'altro parte, era evidente che Jace non l'aveva fatto venire fin lì per prenderlo in giro: la pena che Simon sapeva di avere scritta in faccia a chiare lettere si rispecchiava identica negli occhi di Jace. — Non credere che mi piaccia farti domande del genere — scattò Jace. — Ma devo sapere che cosa saresti disposto a fare per Clary. Mentiresti per lei? — Mentire su cosa? Ma che diavolo sta succedendo? — Solo in quel momento Simon mise a fuoco la stranezza che aveva colto in quella riunione familiare nel prato. — Aspetta un secondo! — esclamò. — Voi state partendo per Idris adesso? Clary è convinta che partirete stasera. — Lo so — disse Jace. — E tu devi dire agli altri che ti manda Clary, per avvisare che lei non viene, che non vuole più andare a Idris. — C'era una sfumatura, nella voce di Jace, che Simon faticò a riconoscere, qualcosa di così imprevedibile, da parte sua, che era difficile da elaborare: Jace lo stava pregando. — A te crederanno. Tutti sanno quanto... quanto siete legati voi due. Simon scosse la testa. — Non ci posso credere. Ti comporti come se volessi farmi fare qualcosa per Clary, mentre in realtà vuoi solo farmi fare qualcosa per te. — Fece per andarsene. — Non se ne parla nemmeno. Jace lo afferrò per un braccio e lo fece girare verso di sé. — Lo sto facendo per Clary. Sto solo cercando di proteggerla. E pensavo che tu potessi aiutarmi. Simon guardò con intenzione la mano di Jace che gli stringeva il braccio. — Come posso proteggerla, se non mi dici da cosa? Jace non mollò la presa. — Non puoi semplicemente fidarti di me? — Tu non capisci quanto Clary ci tenga ad andare a Idris — replicò Simon. — Se devo impedirglielo, sarà meglio che mi trovi una buona ragione. Jace espirò lentamente, con riluttanza, e mollò la presa sul braccio di Simon. — Quello che Clary ha fatto sulla nave di Valentine — disse a voce bassa — con quella runa, la runa di apertura... Be', hai visto anche tu cosa è successo. — Ha distrutto la nave — concluse Simon. — Ha salvato la vita a tutti. — Abbassa la voce. — Jace si guardò intorno ansiosamente. — Non vorrai dirmi che nessun altro lo sa? — esclamò Simon, incredulo. — Lo so io. Lo sai tu. Lo sa Luke e lo sa Magnus. Nessun altro. — E che cosa pensano che sia successo? Che la nave sia spontaneamente andata in pezzi al momento giusto? — Agli altri ho detto che il Rituale della Trasformazione di Valentine aveva funzionato male. — Tu hai mentito al Conclave? — Simon non sapeva bene se esserne colpito o sgomento. — Sì, ho mentito al Conclave. Isabelle e Alec sanno che Clary ha una certa abilità nel creare nuove rune, perciò dubito di poterlo nascondere al Conclave o al nuovo Inquisitore. Ma se il Conclave scoprisse ciò che Clary sa fare veramente, se scoprisse che sa potenziare delle rune comuni e dotarle di un'incredibile forza distruttiva, la vorrebbe nel suo esercito, la vorrebbe come sua arma. E Clary non è pronta per questo. Non è stata addestrata per questo... — S'interruppe, vedendo Simon scuotere la testa. — Cosa... — Tu sei un Nephilim — disse Simon lentamente. — Tu dovresti volere ciò che è meglio per il Conclave, giusto? E se questo significa usare Clary... — Simon, vuoi davvero consegnarla al Conclave? Vuoi davvero metterla in prima linea contro Valentine e l'esercito di demoni che sta creando? — No — disse Simon. — No di certo. Ma io non sono uno di voi. Io non devo chiedermi chi viene prima, se Clary o la mia famiglia. Jace si coprì lentamente di un rossore intenso. — Non è così. Se fossi certo che Clary potrebbe aiutare il Conclave... ma non può. Si farà solo del male... — Ma anche se ne fossi certo — commentò Simon — tu non permetteresti al Conclave di averla per sé. — Cosa te lo fa pensare, vampiro? — Perché nessuno può averla, tranne te — rispose Simon. La faccia di Jace perse ogni traccia di colore. — Quindi, non vuoi aiutarmi — concluse, incredulo. — Non vuoi aiutare Clary. Simon esitò, ma prima che potesse replicare un rumore spezzò il silenzio: un grido acuto, straziante, terribile nella sua disperazione, reso ancor più spaventoso dal modo secco e improvviso con cui s'interruppe. Jace si voltò di scatto. — Che cos'è? Altre urla si levarono, insieme a un forte clangore che ferì l'udito di Simon. — È successo qualcosa... gli altri... Jace era già lontano, correva sul sentiero zigzagando tra le erbacce. Dopo un attimo di esitazione, Simon lo seguì. Aveva dimenticato quanto era diventato veloce nella corsa: lo raggiunse in un attimo e insieme svoltarono l'angolo della chiesa, precipitandosi nel prato. Davanti a loro c'era il caos. Una fitta foschia bianca copriva il prato e l'aria aveva un odore greve: quello pungente dell'ozono misto a un altro odore, sgradevole e dolciastro. Sagome scure sfrecciavano nella nebbia: Simon le vedeva a tratti, mentre sparivano e riapparivano tra gli spiragli della nebbia. Intravide Isabelle schioccare la frusta con le trecce che le volavano intorno al viso. La frusta disegnò un lampo dorato, uno squarcio letale tra la foschia. Stava cercando di arrestare l'avanzata di qualcosa di enorme e incombente: un demone, pensò Simon. Ma erano in pieno giorno! Era impossibile! Avvicinandosi, vide che la creatura era umanoide nella forma, ma ingobbita e contorta, in qualche modo sbagliata. Brandiva un'asse di legno e tirava colpi contro Isabelle quasi alla cieca. Poco più in là, oltre un varco nel muro di pietra, il traffico della York Avenue scorreva placidamente. Al di là dei confini dell'Istituto, il cielo era limpido. — Dimenticati — sussurrò Jace con il volto acceso, estraendo dalla cintura una spada angelica. — A decine. — Spinse da parte Simon quasi con durezza. — Resta qui, capito? Resta qui. Simon era come paralizzato. Jace si slanciò nella nebbia. La luce della spada che brandiva illuminava d'argento la foschia in cui correvano sagome scure. Simon, cui sembrava di guardare attraverso un vetro coperto da uno strato di ghiaccio, cercava disperatamente di capire che cosa stesse succedendo dall'altra parte. Isabelle era svanita. Alec con un braccio sanguinante colpì al petto un guerriero Dimenticato e lo guardò accartocciarsi a terra. Un altro si stagliò alle sue spalle, pronto all'attacco, ma ecco che Jace, con una spada in ciascuna mano, fece un balzo, sollevò le due spade e le calò con un brutale movimento a forbice. La testa del Dimenticato rotolò giù dal collo, schizzando sangue nero. Lo stomaco di Simon si contorse: il sangue aveva un odore amaro, venefico. Sentiva gli Shadowhunters chiamarsi tra loro nella foschia, mentre i Dimenticati agivano in assoluto silenzio. Di colpo la nebbia si diradò e Simon vide Magnus appiattito contro il muro dell'Istituto col panico negli occhi. Aveva le mani alzate e sui palmi sprizzavano lampi azzurri. Nella pietra del muro si aprì uno squarcio quadrato, nero, che non era esattamente vuoto e neppure nero: brillava come uno specchio in cui fossero intrappolate delle spire di fuoco. — Il Portale! — stava gridando. — Passate dal Portale! Molte cose accaddero simultaneamente. Maryse Lightwood si materializzò nella nebbia, con il piccolo Max in braccio. Si fermò, si girò per gridare qualcosa, poi corse verso il Portale e lo attraversò, svanendo nel muro. Alec la seguì, trascinando Isabelle con sé, la frusta insanguinata serpeggiante sull'erba. Mentre correvano verso il Portale, qualcosa si stagliò nella nebbia alle loro spalle: era un Dimenticato, armato di un coltello a due lame. Simon ritrovò la forza di agire. Scattò in avanti, gridando il nome di Isabelle, ma inciampò e cadde, piombando a terra con una violenza da togliere il respiro, se avesse avuto respiro. Si mise a sedere, girandosi per vedere su che cos'era inciampato. Era un corpo. Il corpo di una donna, la gola tagliata, gli occhi sbarrati e cerulei della morte. Il sangue le macchiava i capelli bianchi. Madeleine. -Simon, muoviti! — Era Jace. Gridava. Simon si girò e lo vide correre verso di lui nella nebbia, le spade angeliche insanguinate tra le mani. Poi alzò gli occhi. Il guerriero Dimenticato che un attimo prima inseguiva Isabelle ora incombeva su di lui, con la faccia sfregiata distorta in un ghigno fisso. Simon si buttò di lato, mentre il coltello a due lame calava su di lui. Nonostante i riflessi potenziati da vampiro, non fu abbastanza rapido. Un dolore straziante gli esplose dentro e tutto divenne nero. capitolo 2 LE TORRI ANTIDEMONI DI ALICANTE Non c'era magia che potesse creare altri parcheggi nelle strade di New York, pensava Clary mentre per la terza volta faceva con Luke il giro dell'isolato. Non c'era un buco dove lasciare il pick-up e in almeno metà della strada le auto erano in doppia fila. Alla fine Luke si fermò davanti a un idrante e mise in folle con un sospiro. — Va' avanti tu — le disse. — Digli che sei arrivata. Ti porto io la valigia. Clary annuì, ma esitò prima di aprire la portiera. L'ansia le chiudeva lo stomaco,- desiderò, anche questa volta, che Luke andasse con lei. — Ho sempre pensato che, per andare la prima volta oltreoceano, avrei avuto bisogno di un passaporto. Luke non sorrise. — So che sei nervosa — le disse. — Ma andrà tutto bene. I Lightwood avranno cura di te. Te l'ho detto soltanto un milione di volte, pensò Clary. Diede un buffetto alla spalla di Luke e saltò giù dal pick-up. — Ci vediamo dopo. Si avviò lungo il vialetto di pietre crepate dal tempo. Man mano che si avvicinava alle porte della chiesa, si affievolivano i rumori del traffico. Le ci vollero diversi secondi, stavolta, per spogliare l'Istituto dall'illusione ottica che lo nascondeva. Era come se un ulteriore strato di protezione fosse stato aggiunto alla vecchia cattedrale, come un nuovo strato di pittura. Grattarlo via con la mente fu duro, quasi doloroso. Finalmente sparì e Clary riuscì a vedere la chiesa com'era in realtà. Le alte porte di legno brillavano come lucidate di fresco. C'era uno strano odore nell'aria, come di bruciato e di ozono. Aggrottando la fronte, Clary chiuse la mano intorno alla maniglia. Il mio nome è Clary Morgenstern, sono una Nephilim e chiedo accesso all'Istituto. Le porte si spalancarono e Clary entrò. Si guardò intorno, battendo le palpebre: c'era qualcosa di diverso, all'interno della cattedrale, ma non riusciva a capire cosa. Lo capì nel momento in cui le porte si richiusero alle sue spalle, intrappolandola in una nera oscurità attenuata soltanto dalla flebile luce dell'alto rosone. Non era mai entrata nell'Istituto senza trovare decine di fiammelle accese negli elaborati candelabri che fiancheggiavano la navata, tra i banchi. Sfilò di tasca la stregaluce e la sollevò. Dalla pietra runica tra le sue dita si irradiarono brillanti raggi luminosi. Clary si avvicinò all'ascensore vicino all'altare spoglio, illuminando gli angoli polverosi della navata. Premette con impazienza il pulsante di chiamata. Non successe nulla. Dopo mezzo minuto lo premette ancora, e poi ancora. Appoggiò l'orecchio all'ascensore e ascoltò. Non un suono. L'Istituto era buio e muto come una bambola meccanica senza più carica. Col cuore che batteva forte, Clary corse a ritroso lungo la navata e spalancò i pesanti battenti. Si fermò sui gradini esterni, guardandosi freneticamente intorno. Sopra di lei, il cielo stava diventando color cobalto e l'odore di bruciato impregnava l'aria più di prima. C'era stato un incendio? Gli Shadowhunters avevano abbandonato l'Istituto? Eppure sembrava che non ci fosse nulla di danneggiato. — Non è stato un incendio. — La voce era morbida, vellutata, familiare. Una sagoma alta si materializzò dall'ombra, i capelli irti in una corona di punte disordinate. Aveva un completo in seta nera, con una luccicante camicia verde smeraldo e anelli dalle gemme sfavillanti alle dita sottili. Oltre agli stravaganti stivali e una generosa quantità di glitter. — Magnus? — sussurrò Clary. — So cosa stai pensando — disse Magnus. — Ma non c'è stato alcun incendio. Questa è puzza di nebbia infernale. È una specie di fumo magico demoniaco che muta gli effetti di certi tipi di magia. — Nebbia demoniaca? Allora c'è stato... — Un attacco contro l'Istituto. Sì. Nel primo pomeriggio. Dimenticati... Probabilmente qualche decina. — Jace — sussurrò Clary. — I Lightwood... — Il fumo infernale ha mutato la mia capacità di combattere efficacemente contro i Dimenticati. E anche quella dei Lightwood. Ho dovuto spedirli tutti a Idris, attraverso il Portale. — Ma stanno tutti bene? — Madeleine — rivelò Magnus. — Madeleine è stata uccisa. Mi dispiace, Clary. Clary si lasciò cadere sui gradini. Non conosceva bene Madeleine, ma quella donna era un tenue legame con sua madre, con la sua vera madre, la Cacciatrice dura e combattiva che Clary non aveva mai conosciuto. — Clary? — Luke stava arrivando dal sentiero nel buio che si infittiva, con la valigia di Clary. — Che sta succedendo? Clary rimase seduta abbracciandosi le ginocchia, mentre Magnus gli spiegava tutto. Sotto il dolore per Madeleine, Clary sentiva un senso di colpevole sollievo. Jace stava bene. I Lightwood stavano bene. Se lo ripeteva tra sé, in silenzio: Jace stava bene. — I Dimenticati — disse Luke. — Sono stati uccisi tutti? — Non tutti. — Magnus scosse la testa. — Quando ho fatto sparire i Lightwood, i Dimenticati si sono dispersi: non erano molto interessati a me. E quando ho chiuso il Portale, erano già tutti spariti. Clary sollevò la testa. — Il Portale è chiuso? Ma... tu puoi ancora mandarmi a Idris, giusto? — gli chiese. — Cioè, posso ancora attraversare il Portale e raggiungere i Lightwood? Luke e Magnus si scambiarono un'occhiata. Luke posò a terra la valigia. — Magnus? — la voce di Clary era alta e suonò stridula alle sue stesse orecchie. — Io devo andare. — Il Portale è chiuso, Clary... — Allora aprine un altro! — Non è così facile — replicò lo stregone. — Il Conclave sorveglia accuratamente qualsiasi ingresso magico ad Alicante. La capitale è un luogo sacro, per loro. È una specie di Vaticano, o di Città Proibita. Nessun Nascosto può entrare senza il loro permesso, e nessun mondano. — Ma io sono una Cacciatrice! — Appena appena — replicò Magnus. — E poi le torri impediscono di aprire Portali diretti sulla città. Per aprire un Portale vicino ad Alicante dovrei avere qualcuno che ti aspetta dall'altra parte. Se cercassi di mandarti di là per conto mio, sarebbe un'aperta violazione della Legge, e io non ho nessuna intenzione di rischiare tanto per te, biscottino, per quanto tu mi possa essere personalmente simpatica. Clary spostò lo sguardo dalla faccia desolata di Magnus a quella tesa di Luke. — Ma io devo assolutamente arrivare a Idris — ripetè. — Devo aiutare mia madre. Ci dev'essere un altro sistema per andarci, anche senza il Portale. — L'aeroporto più vicino è in un altro Stato — disse Luke. — E se riuscissimo a passare la frontiera, ed è un grosso "se", resterebbe da fare un viaggio via terra lungo e pericoloso attraverso i territori di ogni sorta di Nascosti. Potremmo impiegarci giorni, per arrivare. A Clary bruciavano gli occhi. Non voglio piangere, si disse. Non voglio. — Clary. — La voce di Luke era dolce. — Ci metteremo in contatto con i Lightwood. Ci assicureremo che trovino tutte le informazioni che servono per procurare l'antidoto a Jocelyn. Possono mettersi loro in contatto con Fell... Ma Clary scuoteva la testa. — Devo essere io — replicò. — Madeleine ha detto che Fell non avrebbe parlato con nessun altro. — Fell? Ragnor Fell? — fece eco Magnus. — Posso provare io a fargli arrivare un messaggio. Dirgli di aspettare Jace. Un po' di preoccupazione si dissolse dal viso di Luke. — Clary, hai sentito? Con l'aiuto di Magnus... Ma Clary non voleva sentire niente. Non voleva proprio saperne. Si era convinta di poter salvare sua madre e invece non poteva fare altro che starsene seduta accanto al suo letto d'ospedale, tenerle la mano inanimata e sperare che qualcun altro, da qualche parte, riuscisse a fare quello che lei non poteva più fare. Scese di corsa i gradini, spingendo via Luke quando cercò di fermarla. — Ho bisogno di stare da sola per un po'. — Clary... — Sentì Luke che la chiamava, ma scappò via, correndo dietro l'angolo della cattedrale. Seguì il sentiero di pietra fino al bivio e prese il viottolo che portava al giardinetto, sul lato orientale dell'Istituto, verso l'odore di bruciato e di cenere, e l'altro odore sottostante, denso e pungente: l'odore della magia demoniaca. C'era ancora foschia nel prato, brandelli di nebbia come batuffoli di nuvole rimasti impigliati qua e là, tra le spine di un roseto o sotto un sasso. Clary vide il luogo della battaglia, con la terra smossa,- vide una macchia rosso scuro, vicino a una delle panche di pietra, ma non volle soffermare lo sguardo. Clary girò la testa. E si fermò. Là, contro il muro della cattedrale, c'erano gli inconfondibili segni della magia runica: brillavano azzurri sulla pietra grigia, incandescenti e già sbiaditi. Formavano una sagoma squadrata, come un profilo di luce intorno a una porta socchiusa... Il Portale. Qualcosa dentro di lei sembrò contorcersi. Ricordò altri simboli, che brillavano pericolosamente sul liscio scafo di una nave. Ricordò le vibrazioni della nave che si spaccava, le acque nere dell'East River che la inondavano. Sono solo rune, pensò. Simboli. Posso disegnarli anch'io. Se mia madre sa intrappolare l'essenza della Coppa Mortale in un pezzo di carta, allora anch'io posso creare un Portale. I suoi piedi la portarono davanti al muro della cattedrale, la sua mano cercò in tasca lo stilo. Imponendosi di non tremare, Clary avvicinò lo stilo alla pietra. Chiuse gli occhi e, nel buio sotto le palpebre, cominciò a disegnare con la mente ricurve linee di luce. Linee che le parlavano di soglie, dell'essere portata dall'aria mulinante, di viaggio, di luoghi lontani. L'insieme delle linee formò una runa, aggraziata come un volo d'uccello. Clary non sapeva se quella runa esistesse già o se l'avesse inventata lei, ma ora esisteva, ed era come se fosse sempre esistita. Portale. Cominciò a disegnare, e i segni balzavano via dallo stilo in linee nere di carbone. La pietra sfrigolava, riempiendole il naso di un odore acre di bruciato. Una luce azzurra e incandescente crebbe sotto le palpebre chiuse. Sentì calore sulla faccia, come se si trovasse davanti a un falò. Trattenendo il fiato, abbassò la mano e aprì gli occhi. La runa che aveva disegnato era un fiore scuro che si apriva sul muro di pietra. Sotto i suoi occhi, le linee della runa sembrarono fondersi e mutare, scorrere dolcemente verso il basso, srotolarsi, trovare una nuova forma. In pochi istanti, la forma della runa era cambiata: adesso era il profilo di una porta luminosa, molto più alta di lei. Clary non riusciva a staccare lo sguardo da quella porta. Brillava della stessa luce tenebrosa che aveva il Portale dietro la tenda di madame Dorothea. Allungò la mano... E si ritrasse. Per usare un Portale, ricordò con sgomento, bisognava visualizzare con la mente la propria destinazione, il luogo dove si voleva arrivare. Ma lei non era mai stata a Idris. Le era stato descritto, naturalmente. Un luogo di verdi vallate, di boschi cupi e acque luminose, di laghi e monti; e poi Alicante, la città dalle torri di vetro. Se l'immaginava, ma l'immaginazione non bastava, non con questa magia. Se solo... Clary trasalì. Lei aveva visto Idris. L'aveva vista in un sogno e sapeva, in qualche modo, che quel sogno era reale. Infatti, cosa le aveva detto Jace, nel sogno, parlando di Simon? Che Simon non ci poteva restare, perché «questo posto è per i vivi». E poco tempo dopo, Simon era morto... Rituffò la memoria in quel sogno. Lei ballava in una grande sala ad Alicante. Le pareti erano bianche e oro, e sopra di loro il tetto era trasparente come un diamante. C'era una fontana al centro, una vasca d'argento con la statua di una sirena. E dalle finestre si vedevano delle luci appese agli alberi. E Clary era vestita di verde, proprio come adesso. Come se fosse ancora nel sogno, protese una mano verso il Portale. Una luce intensa brillò al tocco delle sue dita, un varco che si apriva su un luogo illuminato. I suoi occhi si fissarono su un vortice mulinante e dorato che lentamente iniziò ad addensarsi in forme riconoscibili. Le parve di vedere un profilo di montagne, un pezzo di cielo... — Clary! — Era Luke, che arrivava di corsa dal sentiero. La sua faccia era una maschera di furia e di sgomento. Alle sue spalle veniva Magnus, con gli occhi da gatto che brillavano metallici alla luce incandescente del Portale che inondava il giardino. — Clary, fermati! Le difese della città sono pericolose! Ti farai ammazzare! Ma nulla ormai poteva fermarla. Oltre il Portale, la luce dorata si faceva più intensa. Clary pensava alle pareti dorate della sala del sogno, alla luce dorata che si rifrangeva ovunque dai vetri intagliati. Luke si sbagliava: non capiva il suo dono, né come funzionava... Che cosa contavano le misure di difesa, quando lei si poteva creare una realtà su misura semplicemente disegnandola? — Devo andare — gridò facendo un passo avanti e protendendo le mani. — Luke, mi dispiace. Fece un altro passo avanti... e con un ultimo, rapido balzo, Luke fu al suo fianco e l'afferrò per il polso, proprio quando il Portale parve esplodere intorno a loro. Come un tornado che strappa un albero dalle radici, la forza li sollevò entrambi da terra. Clary colse un'ultima immagine delle auto e dei palazzi di Manhattan che si allontanavano e svanivano vorticando, poi una corrente violenta come una frustata l'afferrò e la scagliò a folle velocità, col polso sempre nella ferrea stretta di Luke, in un turbinante caos dorato. Simon si svegliò al suono ritmico di uno sciabordare d'acqua. Si mise a sedere, il petto raggelato da un improvviso terrore: l'ultima volta che era stato svegliato dalle onde si era ritrovato prigioniero sulla nave di Valentine, e il dolce rumore liquido lo riportò a quel terribile momento con una tale immediatezza che fu come prendersi un secchiata d'acqua gelida in faccia. Invece... Un rapido sguardo intorno gli rivelò che stavolta si trovava da tutt'altra parte. Tanto per cominciare, era sotto morbide coperte in un comodo letto di legno, in una stanzetta pulita con le pareti azzurre. La finestra era coperta da una tenda scura, ma la debole luce che filtrava dai bordi era più che sufficiente, per i suoi occhi di vampiro. C'erano un vivace tappeto sul pavimento e un mobile a specchio contro il muro. C'era anche una poltrona accostata al letto. Simon si tirò su e le coperte gli scivolarono via. Si accorse di due cose: la prima, che indossava ancora i jeans e la maglietta che aveva quando era andato all'Istituto per incontrare Jace; la seconda, che la persona seduta in poltrona stava sonnecchiando, con la testa appoggiata a una mano e i lunghi capelli neri sparsi sulle spalle come uno scialle dalle lunghe frange. — Isabelle? — sussurrò Simon. La testa di Isabelle saltò su come se fosse scattata una molla, spalancando gli occhi. — Oooh! Sei sveglio! — Si raddrizzò sulla poltrona, scostando i capelli dal volto. — Jace sarà così sollevato! Eravamo quasi certi che saresti morto. — Morto? — ripetè Simon. Aveva la testa che girava e un po' di nausea. — Perché? — Si guardò intorno nella stanza, battendo le palpebre. — Sono all'Istituto? — chiese. Ma mentre formulava la domanda si rese conto che era impossibile. — Insomma... dove siamo? Un'ombra di disagio passò sul volto di Isabelle. — Vuoi dire che non ti ricordi che cos'è successo nel prato dell'Istituto? — Giocherellò nervosamente con il bordo del merletto che rivestiva la poltrona. — Siamo stati attaccati dai Dimenticati. Erano in tanti e con la nebbia infernale non è stato facile combatterli. Magnus ha aperto il Portale e tutti noi ci stavamo entrando, quando ti abbiamo visto venirci incontro. Poi sei inciampato... sul corpo di Madeleine. E c'era un Dimenticato proprio dietro di te. Evidentemente non l'avevi visto, ma Jace sì. Ha cercato di raggiungervi, ma non ha fatto in tempo. Il Dimenticato ti ha pugnalato. Perdevi molto sangue. Jacke ha ucciso il Dimenticato, ti ha preso e ti ha trascinato con sé attraverso il Portale — concluse Isabelle. Parlava così in fretta che le parole si perdevano l'una nell'altra e Simon doveva sforzarsi per afferrarle tutte. — Noi eravamo già dall'altra parte e, lascia che te lo dica, ci ha sorpreso non poco veder arrivare Jace con te che gli sanguinavi addosso. Il Console, poi, non ne è stato per niente contento. Simon aveva la bocca secca. — Il Dimenticato mi ha pugnalato? — Gli sembrava impossibile. D'altra parte, era già guarito un'altra volta, dopo che Valentine gli aveva tagliato la gola. Eppure avrebbe dovuto ricordare. Scuotendo la testa, si guardò. — Dove? — Ti faccio vedere. — Con sorpresa, Simon si ritrovò Isabelle seduta sul letto accanto a lui, con le sue mani fresche appoggiate alla vita. Isabelle gli sollevò la maglietta, scoprendo un tratto di stomaco pallido attraversato da una sottile linea rossa. Era a malapena una cicatrice. — Qui — disse, sfiorandogli la pelle con le dita. — Fa male? — N... no. — La prima volta che Simon aveva visto Isabelle, l'aveva trovata così straordinaria, così accesa di vitalità ed energia, che aveva sperato di aver finalmente trovato una ragazza tanto splendente da oscurare l'immagine di Clary, che era come stampata all'interno delle sue palpebre. Era stato più o meno all'epoca in cui Isabelle lo aveva fatto trasformare in un ratto, al party di Magnus Bane, che Simon aveva capito che forse splendeva un po' troppo, per un tipo normale come lui. — Non fa male. — Ma fa male ai miei occhi — disse dalla porta una voce con un tono di contenuto divertimento. Jace. Era entrato così silenziosamente che nemmeno Simon l'aveva sentito. Jace si chiuse la porta alle spalle e sorrise, mentre Isabelle tirava giù la maglietta a Simon. — Stai molestando il vampiro adesso che è troppo debole per attaccare, Iz? — le chiese. — Sono sicuro che questo comportamento viola almeno uno degli Accordi. — Gli sto solo mostrando dove è stato pugnalato — protestò Isabelle, ma tornò subito sulla sua poltrona. — Cosa sta succedendo al piano di sotto? — chiese a Jace. — Stanno ancora dando i numeri? Il sorriso abbandonò il volto di Jace. — Maryse è andata su alla Guardia con Patrick — disse. — Il Conclave è riunito in assemblea e Malachi ha detto che era meglio che Maryse... desse una spiegazione. Malachi. Patrick. La Guardia. Nomi sconosciuti che giravano nella testa di Simon. — Spiegare cosa? Isabelle e Jace si scambiarono un'occhiata. — Spiegare te — rispose Jace alla fine. — Spiegare perché abbiamo portato un vampiro con noi ad Alicante, cosa che, tra parentesi, è espressamente contro la Legge. — Ad Alicante? Siamo ad Alicante? — Un'ondata di vacuo terrore travolse Simon, rimpiazzata subito dopo da un forte dolore che s'irradiò dal ventre. Si piegò in due, ansimando. — Simon! — Isabelle allungò la mano, con gli occhi colmi di apprensione. — Tutto a posto? — Va' via, Isabelle. — Simon, coi pugni stretti contro lo stomaco, guardò Jace con un tono implorante nella voce. — Mandala via. Isabelle si ritrasse con un'espressione ferita sul volto. — Bene. Me ne vado. Non c'è bisogno di ripeterlo due volte. — Stizzita, si alzò in piedi e uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Jace guardò Simon con gli occhi ambrati privi di ogni espressione. — Che succede? Credevo che stessi guarendo. Simon alzò di scatto una mano per tenere lontano Jace. Un sapore metallico gli bruciava la gola. — Non è per Isabelle — riuscì a dire. — Non sono ferito. Sono solo... affamato. — Sentì le guance in fiamme. — Ho perso sangue e adesso... ho bisogno di reintegrarlo. — Ma certo! — esclamò Jace, con il tono di chi è appena stato illuminato da un'interessante nozione scientifica. La sua espressione di lieve preoccupazione si mutò in qualcosa che a Simon parve divertito disprezzo, che fece vibrare in lui una nota di rabbia: se non fosse stato così debole, si sarebbe scagliato addosso a Jace come una furia. Per come stavano le cose, non riuscì a far altro che dire, senza fiato: — Va' al diavolo, Wayland. — Wayland, dici? — L'aria divertita non lo abbandonò, ma portò le mani al collo e cominciò a tirare giù la zip della giubba. — No! — Simon si raggomitolò nel letto. — Non m'importa della fame che ho. Non ho nessuna intenzione di bere ancora... il tuo sangue. La bocca di Jace si piegò in una smorfia. — Credi che te lo lascerei fare di nuovo? — Infilò la mano nella tasca interna e tirò fuori una fiaschetta di vetro. Era piena a metà di un liquido tra il rosso e il marrone. — Ho pensato che potesse servirti — gli disse. — Ho spremuto qualche chilo di carne cruda, in cucina. È il meglio che ho potuto fare. Simon prese la fiaschetta con mani così tremanti che Jace dovette aiutarlo a svitare il tappo. Il liquido che conteneva era disgustoso: troppo slavato e salato per essere vero sangue, con quel lieve e sgradevole retrogusto di carne vecchia di qualche giorno. — Urgh — disse Simon, dopo un paio di sorsate. — Sangue morto. Jace inarcò le sopracciglia. — Ma tutto il sangue è morto, no? — Più tempo passa dalla morte dell'animale di cui bevo il sangue, peggiore è il suo sapore — spiegò Simon. — Fresco è meglio. — Ma tu non hai mai bevuto sangue fresco, giusto? Simon per tutta risposta inarcò le sopracciglia. — Be', a parte il mio, naturalmente — aggiunse Jace. — Che è sicuramente prelibato. Simon posò la fiaschetta vuota sul bracciolo della poltrona accanto al letto. — C'è qualcosa di profondamente sbagliato in te — commentò. — Nella tua mente, voglio dire. — Aveva ancora in bocca il sapore di sangue cattivo, ma il dolore era sparito. Si sentiva meglio, più forte, come se il sangue fosse una medicina dall'effetto immediato, una droga che doveva assolutamente prendere per vivere. Si chiese se anche gli eroinomani si sentissero così. — Allora, sono a Idris. — Alicante, per essere precisi — disse Jace. — La capitale, anzi, l'unica città. — Andò alla finestra e aprì le tende. — I Penhallow non ci volevano credere — spiegò. — Al fatto che il sole non ti avrebbe dato fastidio. E hanno messo questa tenda scura. Ma dovresti dare un'occhiata. Simon si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra, accanto a Jace. E rimase a bocca aperta. Qualche anno prima sua madre aveva portato lui e sua sorella a fare una vacanza in Toscana: una settimana di sostanziose pastasciutte dal sapore insolito, di pane senza sale, di campagne forti e brune, con sua madre che sfrecciava a tutta velocità per le stradine strette e tortuose, con il rischio continuo di far schiantare la loro Fiat sui meravigliosi edifici antichi che in teoria erano venuti a vedere, non a distruggere. Si ricordava una sosta su una collina davanti a un borgo chiamato San Gimignano, una manciata di edifici color ruggine alternati qua e là da alte torri le cui cime svettavano verso il cielo, come a volerlo toccare. Se quello che ora stava vedendo somigliava a qualcosa, era San Gimignano. Ma era un panorama così alieno che, in realtà, era diverso da qualsiasi altra cosa Simon avesse mai visto. Era affacciato alla finestra di un edificio presumibilmente a più piani. Se alzava lo sguardo, vedeva le grondaie di pietra e il cielo. Di fronte c'era un'altra casa, non altrettanto alta, e in mezzo scorreva un canale stretto e scuro, attraversato da una serie di ponticelli: era quella l'acqua che aveva sentito sciabordare. La casa sembrava costruita a mezza costa su una collina: più a valle, altre case di pietra color miele, affastellate lungo stradine strette, scendevano verso l'abbraccio circolare di un bosco verde, circondato da colline lontane che avevano l'aspetto di lunghe strisce verdi e brune punteggiate da esplosioni di colori autunnali. Alle spalle delle colline, si ergevano frastagliate montagne imbiancate di neve. Ma nulla di tutto questo era particolarmente strano. Ciò che era strano era che qua e là, apparentemente senza alcun ordine preciso, svettavano nella città alte torri coronate da guglie fatte di un materiale riflettente bianco-argenteo, che sembravano forare il cielo come pugnali luccicanti. Simon ricordò dove aveva già visto quel materiale: le armi simili a vetro che usavano i Cacciatori, le cosiddette spade angeliche. — Quelle sono le torri antidemoni — spiegò Jace in risposta a una domanda inespressa. — Controllano gli apparati difensivi intorno alla città. Grazie a loro, nessun demone può entrare ad Alicante. L'aria che entrava dalla finestra era fredda e pulita, del tipo che non si respira mai a New York: non sapeva di niente, né di sporco, né di fumo, né di metallo, né di altra gente. Era solo aria. Prima di girarsi verso Jace, Simon ne respirò una boccata profonda e assolutamente inutile: certe abitudini umane erano dure a morire. — Dimmi che portarmi qui è stato un caso. Dimmi che non faceva parte del tuo piano per impedire a Clary di venire con te. Jace non lo guardò, ma il suo petto salì e scese una volta, rapidamente, come in una specie di trasalimento nascosto. — No — disse. — Ho creato io un branco di guerrieri Dimenticati, li ho mandati all'assalto dell'Istituto, ho fatto in modo che uccidessero Madeleine e per poco anche il resto di noi, e tutto questo solo per far restare a casa Clary. E, mira e ammira, il mio diabolico piano ha funzionato. — In effetti ha funzionato — mormorò Simon. — Non è vero? — Stammi a sentire, vampiro — replicò Jace. — Il piano era tenere Clary lontana da Idris. Portare te a Idris non era previsto. Ti ho portato attraverso il Portale perché, se ti avessi lasciato là, sanguinante e mezzo svenuto, i Dimenticati ti avrebbero ammazzato. — Avresti potuto restare tu con me... — Ci avrebbero uccisi entrambi. Non sapevo nemmeno quanti erano. Con la nebbia infernale, neppure io potrei sbaragliare cento Dimenticati. — E tuttavia — commentò Simon — scommetto che ti fa male doverlo ammettere. — Sei un idiota — disse Jace senza inflessione nella voce. — Anche secondo gli standard dei Nascosti. Ti ho salvato la vita e per farlo ho infranto la Legge. E non è la prima volta, potrei aggiungere. Potresti almeno mostrare un po' di gratitudine. — Gratitudine! — Simon strinse i pugni. — Se tu non mi avessi costretto a venire all'Istituto, ora non sarei qui. Io non ero d'accordo. — Sì, invece — replicò Jace. — Quando hai detto che avresti fatto qualsiasi cosa per Clary. Questo è qualsiasi cosa. Prima che Simon potesse ribattere con una rispostaccia, sentirono bussare alla porta. — È permesso? — gridò Isabelle da fuori. — Simon, ti è passato l'attacco da primadonna? Devo parlare con Jace. — Entra, Izzy. — Jace non staccò gli occhi da Simon. C'era una rabbia elettrica nel suo sguardo, e una specie di sfida, che fece venir voglia a Simon di colpirlo con qualcosa di pesante. Tipo un furgone. Isabelle entrò nella stanza in un turbinio di capelli neri e di argentee gonne a balze. Il corsetto color avorio che indossava le lasciava scoperte le spalle e le braccia, inghirlandate di rune nere come l'inchiostro. Simon pensò che per lei fosse un bel cambiamento poter esibire liberamente i suoi marchi in un luogo dove nessuno li avrebbe trovati strani. — Alec sta per andare su alla Guardia — annunciò Isabelle senza tanti preamboli. — Ma prima vuole parlare con te di Simon. Puoi scendere? — Certo. — Jace si avviò verso la porta. Dopo qualche passo, si rese conto che Simon lo stava seguendo e si girò fulminandolo con un'occhiataccia. — Tu resti qui. — No — disse Simon. — Se dovete parlare di me, voglio esserci anch'io. Per un momento sembrò che la gelida calma di Jace fosse sul punto di esplodere: diventò rosso in viso, aprì la bocca, lo squadrò con occhi fiammeggianti. Ma con la stessa rapidità, la rabbia svanì, soffocata da un evidente sforzo di volontà. Digrignò i denti e sorrise. — Bene — disse. — Scendi anche tu, vampiro. Così incontrerai tutta l'allegra famigliola. La prima volta che Clary era passata attraverso un Portale aveva provato la sensazione di volare, senza peso, e di rotolare. Questa volta fu come finire nel cuore di un tornado. Venne aggredita da venti ululanti che le strapparono via la mano dalla stretta di Luke. Cadde turbinando nel centro di un vortice nero e oro. Qualcosa di piatto e duro e argenteo come la superficie di uno specchio le si parò davanti. Clary vi precipitò contro strillando, con le braccia alzate per coprirsi il viso. Poi colpì la superficie e la penetrò, entrando in un mondo gelido e senz'aria. Affondò in una densa oscurità bluastra, e quando cercò di respirare non entrò aria nei polmoni, ma solo altro freddo agghiacciante... Di colpo qualcosa le afferrò il cappotto sulla schiena e la tirò verso l'alto. Scalciò debolmente, troppo stremata per liberarsi da quella stretta. Risalì, e l'oscurità blu indaco intorno a lei diventò azzurra, e poi dorata, nel momento in cui raggiunse la superficie dell'acqua - perché era acqua -e respirò una boccata d'aria. O meglio, cercò di farlo, ma soffocò e tossì, e la sua vista si riempì di macchioline nere. Ora veniva trascinata sul pelo dell'acqua, velocemente. Le alghe le si avvinghiavano alle gambe e alle braccia e la tiravano giù... Cercò di girarsi e colse l'immagine terrificante di qualcosa a metà tra un uomo e un lupo, con orecchie a punta come pugnali e zanne bianche e affilate, digrignate. Cercò di gridare, ma dalla bocca le uscì solo acqua. Un attimo dopo era fuori dell'acqua, gettata sulla terra umida e compatta. Sentì delle mani sulle spalle che la rivoltavano a faccia in giù. Le mani continuarono a batterle sulla schiena finché il suo petto ebbe uno spasmo e rigurgitò un amaro fiotto d'acqua. Stava ancora soffocando, quando le mani la rotolarono a faccia in su. E vide che era Luke, un'ombra nera contro l'alto cielo azzurro marezzato di nuvole bianche. La gentilezza che era solita vedere in lui era sparita. Non aveva più forma di lupo, ma era furioso. Con uno strattone la mise a sedere, la scrollò ripetutamente, finché Clary non sussultò e lo allontanò debolmente. — Luke! Basta! Mi stai facendo male... Le mani di Luke si staccarono dalle sue spalle. Le afferrò il mento con una mano, la costrinse ad alzare la testa, la scrutò attentamente. — L'acqua — le disse. — Hai sputato fuori tutta l'acqua? — Credo di sì — sussurrò lei. La sua voce salì debolissima dalla gola gonfia. — Dov'è il tuo stilo? — le chiese Luke e, quando la vide esitare, la sua voce si fece più tagliente. — Clary. Lo stilo. Trovalo. Lei si liberò dalla sua presa e frugò nelle tasche grondanti con il cuore sempre più pesante: le dita trovavano solo tessuto bagnato. Gli rivolse uno sguardo pieno di afflizione. — Credo che mi sia caduto nel lago. — Tirò su con il naso. — Lo stilo... di mia... di mia madre... — Gesù, Clary! — Luke si alzò in piedi, unendo distrattamente le mani dietro la testa. Anche lui era zuppo: l'acqua gli colava in grossi rivoli dai jeans e dal pesante giaccone felpato. Gli occhiali che di solito portava sulla punta del naso erano spariti. Abbassò uno sguardo fosco su di lei. — Stai bene? — disse. Non era una domanda vera e propria. — Voglio dire, in questo momento, ti senti bene? Lei annuì. — Luke, cosa c'è che non va? Perché ti serve lo stilo? Luke non disse niente. Si stava guardando intorno, come se sperasse di racimolare qualche tipo di aiuto da ciò che li circondava. Clary seguì il suo sguardo: erano sull'ampia riva di un lago piuttosto grande. Le acque erano azzurre e luccicanti per i riflessi della luce solare. Si chiese se fosse quella l'origine della luce dorata che aveva visto dal Portale semiaperto. Non c'era niente di sinistro nel lago, ora che Clary era sulla riva e non sott'acqua. Era circondato da colline verdi punteggiate d'alberi che cominciavano a diventare color ruggine e oro. Oltre le colline, si ergevano alte montagne dalle vette incappucciate di neve. Clary rabbrividì. — Luke, quando eravamo in acqua... ti sei trasformato per metà in lupo? Mi pare di aver visto... — Come lupo so nuotare meglio che come uomo — rispose secco Luke. — E sono più forte. Ho dovuto trascinarti nell'acqua e tu non mi sei stata di grande aiuto. — Lo so — disse Clary. — Scusa. — Non eri... non era previsto che venissi con me. — Se non fossi venuto, tu saresti già morta — le fece notare Luke. — Magnus te l'aveva detto, Clary. Non puoi usare un Portale per entrare nella Città di Vetro se non c'è qualcuno dall'altra parte che ti aspetta. — Ha detto che era contro la Legge. Non ha detto che, se avessi provato a farlo, sarei rimbalzata via. — Ha detto che ci sono delle difese intorno alla città che impediscono di accedervi attraverso un Portale. Non è certo colpa sua se tu hai deciso di giocare con una magia che riesci a malapena a capire. Solo perché hai un potere, non significa che tu sappia come usarlo. — Era arrabbiato. — Mi dispiace — ripetè Clary con un filo di voce. — E solo che... Dove siamo adesso? — Al Lago Lyn — rispose Luke. — Credo che il Portale ci abbia portato il più vicino possibile alla città e poi ci abbia scaricato. Siamo nei dintorni di Alicante. — Si guardò intorno scuotendo la testa, metà stupito e metà spossato. — Ce l'hai fatta, Clary. Siamo a Idris. — Idris? — ripetè Clary. Si alzò, guardando verso il lago con aria stranita. Il lago ricambiò il suo sguardo con un luccichio azzurro e indifferente. — Ma... hai detto che siamo nei dintorni di Alicante. Io non vedo la città da nessuna parte. — Siamo a diverse miglia di distanza — precisò Luke. — Le vedi, quelle colline laggiù? Dobbiamo attraversarle: la città è dall'altra parte. Se avessimo un'auto potremo arrivarci in un'ora. Ma siamo a piedi e probabilmente ci vorrà tutto il pomeriggio. — Guardò il cielo, strizzando gli occhi. — Meglio che ci mettiamo in marcia. Clary si guardò, costernata. L'idea di una giornata di cammino in abiti intrisi d'acqua non era molto gradevole. — Non c'è altro che...? — Che potremmo fare? — disse Luke finendo la domanda con un'inattesa sfumatura tagliente e rabbiosa nella voce. — Hai qualche suggerimento, Clary, visto che sei stata tu a portarci qui? — Puntò il dito verso la parte opposta del lago. — Da quella parte ci sono le montagne, valicabi-li a piedi solo in piena estate. Moriremmo congelati. — Si girò e puntò il dito in un'altra direzione. — Da quella parte ci sono miglia e miglia di boschi. Si estendono fino al confine e sono disabitati da esseri umani. Oltre Alicante, ci sono campi e fattorie. Potremmo anche uscire da Idris, ma dovremmo comunque passare attraverso la città. Una città, potrei aggiungere, dove i Nascosti come me difficilmente sono i benvenuti. Clary lo guardava a bocca aperta. — Luke, io non sapevo... — Certo che non lo sapevi. Tu non sai niente di Idris. Non ti interessa niente di Idris. Ti sei arrabbiata perché ti hanno lasciata a casa e hai fatto le bizze come i bambini. E adesso, eccoci qui. Persi, congelati e... — S'interruppe. Il suo volto era carico di tensione. — Andiamo. Mettiamoci in marcia. Clary seguì Luke lungo la riva del lago Lyn in malinconico silenzio. Mentre camminavano, il sole le asciugò i capelli e la pelle, ma il cappotto di velluto tratteneva l'acqua come una spugna e le pesava come una cappa di piombo. Clary camminava rapida tra le pietre e il fango, inciampando spesso, cercando di tenere il passo delle lunghe falcate di Luke. Fece qualche tentativo di conversazione, ma Luke rimase ostinatamente zitto. Non le era mai capitato, prima d'ora, di far arrabbiare Luke così tanto, di combinare qualcosa di così grave da non poter essere risolto con delle semplici scuse. Questa volta, a quanto pareva, era diverso. Le scogliere intorno al lago si facevano più alte man mano che Luke e Clary procedevano. Erano butterate da macchie di tenebra simili a schizzi di vernice nera. Guardando più da vicino, Clary si accorse che le macchie erano grotte nella roccia: alcune sembravano scendere molto in profondità, tortuose, buie. Immaginò pipistrelli e altri esseri striscianti nascosti nel buio, e rabbrividì. Finalmente, uno stretto sentiero che tagliava tra le rocce li portò a un'ampia strada di pietrisco. Il lago si allontanò alle loro spalle, blu indaco nel sole del tardo pomeriggio. La strada tagliava una pianura erbosa che in lontananza si congiungeva a morbide colline. Il cuore di Clary sprofondò: non c'era ancora traccia della città. Luke fissava le colline con un'espressione di profondo sconforto. — Siamo più lontani di quanto pensassi. E passato così tanto tempo. — Forse, se trovassimo una strada più grande — suggerì Clary — potremmo fare l'autostop, o trovare un passaggio fino in città, o... — Clary. Non ci sono automobili a Idris. — Vedendo la sua espressione stupefatta, Luke rise senza molto divertimento. — Le difese mandano in tilt i congegni meccanici ed elettronici. Gran parte della tecnologia qui non funziona: telefonini, computer, cose così. Alicante stessa è illuminata e alimentata principalmente dalla stregaluce. — Ah — fece Clary con un filo di voce. — Ma, più o meno, quanto siamo lontani dalla città? — Abbastanza. — Senza guardarla, Luke si passò le mani tra i capelli. — C'è una cosa che dovresti sapere. Clary si irrigidì. Fino a un attimo prima, voleva solo che Luke le parlasse. Adesso, invece, non lo voleva più. — Non c'è problema... — Hai notato — proseguì Luke — che non ci sono barche sul lago Lyn? Né moli? Niente che faccia pensare che il lago sia utilizzato dagli abitanti di Idris? — Forse perché è troppo lontano. — Non è troppo lontano. È a un paio d'ore di cammino da Alicante. Il fatto è che il lago... — Luke s'interruppe e sospirò. — Hai mai notato il disegno sul pavimento della biblioteca dell'Istituto, a New York? Clary batté le palpebre. — Sì, ma non ho mai capito che cosa rappresentasse. — È un angelo che emerge da un lago tenendo in mano una coppa e una spada. È un motivo ricorrente, nelle decorazioni dei Nephilim. La leggenda dice che l'Angelo Raziel emerse dalle acque del lago Lyn quando apparve a Jonathan Shadowhunter, il primo dei Nephilim, e gli consegnò gli Strumenti Mortali. Da allora il lago è sempre stato un luogo... — Sacro? — suggerì Clary. — Maledetto — rivelò Luke. — L'acqua del lago è in qualche modo tossica per gli Shadowhunters, mentre è innocua per i Nascosti. Il Popolo Fatato lo chiama Specchio dei Sogni. Ne bevono l'acqua perché sostengono che dia visioni di verità. Ma per uno Shadowhunter bere le acque del lago Lyn è molto pericoloso. Provoca allucinazioni, febbri... e può portare alla pazzia. Clary sentì un brivido di freddo in tutto il corpo. — Ecco perché hai cercato di farmi sputare tutta l'acqua. Luke annuì. — E perché volevo che trovassi lo stilo. Con una runa di guarigione, avremmo potuto ritardare gli effetti dell'acqua. Senza lo stilo, devi arrivare ad Alicante prima possibile. Ci sono delle medicine, delle erbe, che ti possono aiutare, e io conosco qualcuno che quasi sicuramente le ha. — I Lightwood? — No, non i Lightwood. — La voce di Luke era ferma. — Qualcun altro, qualcuno che conosco bene. — Chi? Lui scosse la testa. — Preghiamo solo che questa persona non si sia trasferita altrove, in questi quindici anni. — Ma io credevo che fosse contro la Legge, per un Nascosto, entrare ad Alicante senza permesso. Il sorriso con cui lui le rispose le ricordò il Luke che l'aveva afferrata al volo quando, da piccola, era caduta dal castello di legno, al parco giochi, il Luke che l'aveva sempre protetta. — Certe Leggi sono state fatte per essere infrante. La casa dei Penhallow aveva qualcosa in comune con l'Istituto, pensò Simon: entrambi davano l'impressione di appartenere a un'altra epoca. Le scale e i corridoi in pietra e legno scuro erano angusti e le finestre, aperte su pittoreschi scorci della città, erano alte e strette. C'era un chiaro influsso asiatico nelle decorazioni: sul pianerottolo del primo piano c'era una parete divisoria shoji in carta di riso e sui davanzali delle finestre c'erano alti vasi cinesi dai disegni floreali. C'erano anche molte serigrafie alle pareti, che presumibilmente illustravano scene tratte dalla mitologia degli Shadowhunters, ma con un tocco orientale: rappresentavano soprattutto signori della guerra che brandivano luminose spade angeliche, accanto a multicolori creature simili a draghi e demoni striscianti dagli occhi sporgenti. — La signora Penhallow, Jia, dirigeva l'Istituto di Pechino. Ora divide il suo tempo tra Alicante e la capitale cinese — spiegò Isabelle a Simon, che si era soffermato a osservare una stampa. — E i Penhallow sono un'antica famiglia. Molto facoltosa. — Lo vedo — borbottò Simon guardando i lampadari che grondavano gocce di cristallo. Jace, un gradino dietro di loro, grugnì. — Muovetevi. Non stiamo facendo un tour storico. Simon soppesò una rispostaccia, ma decise che non ne valeva la pena, e affrettò il passo giù per le scale. Alla base si apriva un'ampia stanza che era una curiosa miscela di vecchio e nuovo. Una grande finestra panoramica si affacciava sul canale e una musica era diffusa da uno stereo che Simon non riusciva a vedere. Non c'era un televisore né le pile di DVD e CD che Simon associava ai moderni salotti. C'erano invece svariati divani imbottiti, raccolti intorno a un grande caminetto dove scoppiettava un bel fuoco. Alec era in piedi accanto al caminetto, in tenuta nera da Cacciatore, e stava infilandosi un paio di guanti. Alzò gli occhi, quando Simon entrò nella stanza, ed esibì il suo solito cipiglio, ma non disse niente. Seduti sui divani c'erano due ragazzi che Simon non aveva mai visto, un maschio e una femmina. Lei sembrava asiatica, con delicati occhi a mandorla, lucidi capelli neri raccolti indietro e un'espressione maliziosa. Il mento delicato finiva a punta, come il muso di un gatto. Non era esattamente bella, ma si faceva notare. Il ragazzo accanto a lei, stessi capelli neri, si faceva notare ancora di più. Probabilmente era alto come Jace, ma sembrava più alto, anche da seduto,- era snello e muscoloso, con un volto pallido, signorile, inquieto, tutto zigomi e occhi scuri. C'era qualcosa di stranamente familiare in lui, come se Simon l'avesse già incontrato. Fu la ragazza a parlare per prima. — È lui il vampiro? — Squadrò Simon in tutta la persona, come se gli stesse prendendo le misure. — Non sono mai stata così vicina a un vampiro, prima d'ora... o meglio, a un vampiro che non ho intenzione di uccidere. — Inclinò la testa. — È carino, per essere un Nascosto. — Perdonala. Ha la faccia d'angelo ma i modi di un demone Moloch — intervenne il ragazzo sorridendo e alzandosi in piedi. Allungò la mano a Simon. — Io sono Sebastian. Sebastian Verlac. E questa è mia cugina, Aline Penhallow. Aline... — Io non do la mano a un Nascosto! — esclamò Aline rannicchiandosi contro i cuscini del divano. — Non hanno l'anima, i vampiri. Il sorriso di Sebastian sparì. — Aline... — E' vero. Per questo non possono vedersi allo specchio né stare al sole. Deliberatamente, Simon fece un passo indietro ed entrò nella chiazza di luce davanti alla finestra. Sentì il sole caldo sulla schiena e sui capelli. La sua ombra, lunga e scura, si stampò sul pavimento, arrivando quasi ai piedi di Jace. Aline trasalì ma non disse nulla. Fu Sebastian a parlare, guardando Simon con curiosità. — Allora è vero. I Lightwood l'avevano detto, ma non pensavo... — Che dicessimo la verità? — intervenne Jace, parlando per la prima volta da quando erano scesi. — Non mentiremmo mai su una cosa del genere. Simon è... unico. — Io l'ho baciato, una volta — dichiarò Isabelle, a nessuno in particolare. Le sopracciglia di Aline scattarono verso l'alto. — Vi lasciano fare proprio tutto quello che volete a New York, vero? — disse, a metà tra l'orrore e l'invidia. — L'ultima volta che ti ho vista, Izzy, non avresti nemmeno preso in considerazione... — L'ultima volta che ci siamo visti, Izzy aveva otto anni — intervenne Alec. — Le cose cambiano. Dunque, nostra madre è dovuta uscire di corsa e ora qualcuno di noi deve portarle i suoi appunti e i suoi registri, su alla Guardia. Io sono l'unico che abbia diciotto anni, quindi sono anche l'unico che possa entrare, quando il Conclave è riunito. — Lo sappiamo — disse Isabelle, lasciandosi cadere su un divano. — Ce l'hai già detto almeno cinque volte. Alec la ignorò. — Jace, tu hai portato qui il vampiro, quindi tu sei responsabile per lui. Non farlo uscire. Il vampiro, pensò Simon. Eppure Alec conosceva benissimo il suo nome. In più, Simon gli aveva salvato la vita, una volta. Ma adesso era diventato "il vampiro". Anche per uno come Alec, incline a occasionali e inspiegabili attacchi di ombrosità, un atteggiamento simile era odioso. Forse, pensò Simon, dipendeva dal fatto che erano a Idris. Forse lì Alee sentiva più forte il bisogno di affermare la propria identità di Shadowhunter. — È per questo che mi hai mandato a chiamare? Per dirmi di non lasciar uscire il vampiro? — Jace scivolò sul divano accanto ad Aline, che sembrò gradire la cosa. — Farai meglio a sbrigarti. E a tornare prima che puoi. Dio sa quali gesti depravati potremmo commettere, qui, senza la tua guida. Alec lo fissò con un'aria di calma superiorità. — Cerca di non farti sfuggire di mano la situazione. Torno tra mezz'ora. — E con queste parole Alee sparì sotto un arco che si apriva su un lungo corridoio. Da qualche parte, in lontananza, una porta si chiuse. — Non dovresti provocarlo — lo rimproverò Isabelle con un'occhiata severa. — Hanno dato a lui la responsabilità. Simon non potè evitare di notare che Aline era seduta addosso a Jace, spalla a spalla, benché ci fosse un sacco di posto sul divano. — Avete mai pensato che forse, in una vita precedente, Alee era una vecchia zitella con novanta gatti che urlava contro i bambini dei vicini perché giocavano sul suo prato? Io sì — disse Jace, e Aline ridacchiò. — Solo perché è l'unico che può salire alla Guardia... — Che cos'è la Guardia? — chiese Simon, stanco di non avere la più pallida idea di cosa stessero dicendo tutti quanti. Jace alzò lo sguardo su di lui. La sua espressione era impassibile, vagamente ostile. Aveva la mano sopra quella di Aline, appoggiata sulla coscia della ragazza. — Siediti — gli intimò, indicandogli col mento una poltrona. — O preferisci aleggiare in un angolo tipo pipistrello? Fantastico. Battute sui pipistrelli. Simon, a disagio, si accomodò sulla poltrona. — La Guardia è la sede ufficiale del Conclave — spiegò Sebastian, che evidentemente aveva avuto compassione di lui. — Lì si fanno le Leggi e lì risiedono il Console e l'Inquisitore. Solo ai Cacciatori adulti è permesso entrarci, quando il Conclave è riunito. — Il Conclave è riunito? — ripetè Simon ricordando quello che Jace aveva detto poco prima, di sopra. — Non si sarà riunito per me, vero? Sebastian rise. — No. Per Valentine e per gli Strumenti Mortali. È questo il motivo per cui sono tutti qui, per ragionare su quale sarà la prossima mossa di Valentine. Jace non disse niente, ma quando sentì nominare Valentine il suo viso si indurì. — Be', andrà a cercare lo Specchio — commentò Simon. — Il terzo degli Strumenti Mortali, giusto? È qui a Idris? È per questo che sono tutti qui? Ci fu un breve silenzio, prima che Isabelle rispondesse. — Il fatto è che nessuno sa dove sia lo Specchio. Anzi, nessuno sa che cosa sia lo Specchio. — È uno specchio — disse Simon. — Hai presente? Riflettente, di vetro... ma è solo un'ipotesi... — Quello che Isabelle intende dire — intervenne Sebastian, con gentilezza — è che nessuno sa nulla dello Specchio. Viene nominato più volte nelle cronache dei Cacciatori, ma senza alcun dettaglio su dove sia o come sia fatto o, cosa ancor più importante, su che funzione abbia. — Noi sappiamo che Valentine lo vuole — proseguì Isabelle — ma questo non ci è di grande aiuto, dato che nessuno ha la più pallida idea di dove si trovi. Forse lo sapevano i Fratelli Silenti, ma Valentine li ha uccisi tutti. E non ce ne saranno altri per un bel po' di tempo. — Tutti? — chiese Simon, sorpreso. — Io credevo che avesse ucciso solo quelli di New York. — La Città di Ossa non è veramente a New York — gli spiegò Isabelle. — È come... Ti ricordi l'accesso alla Corte Seelie, a Central Park? Solo perché l'accesso è là, non significa che la Corte sia necessariamente sotto il parco. Lo stesso vale per la Città di Ossa. Ci sono vari accessi, ma la Città... — Isabelle si interruppe perché Aline la zittì con un gesto secco della mano. Simon la guardò, poi guardò Jace, poi guardò Sebastian. Avevano tutti la stessa espressione guardinga, come se si fossero appena resi conto di quello che stavano facendo: stavano rivelando i segreti dei Nephilim a un Nascosto. A un vampiro. Non un loro nemico in senso stretto, ma sicuramente uno di cui non ci si poteva fidare. Aline fu la prima a rompere il silenzio, puntando i begli occhi scuri su Simon. — Allora, come si sta, a essere un vampiro? — Aline! — Isabelle aveva un'espressione di orrore. — Non puoi andare in giro a chiedere alla gente come si sta a essere un vampiro. — Non vedo perché no — replicò Aline. — Non è da tanto che è un vampiro, giusto? Quindi si ricorderà com'era prima, quand'era un essere umano. — Si rivolse di nuovo a Simon. — Il sangue ha ancora il sapore del sangue? O adesso ha il sapore di qualcos'altro, tipo l'aranciata o roba del genere? Perché mi pare che il sapore del sangue sia... — Sa di pollo — dichiarò Simon, solo per zittirla. — Davvero? — esclamò Aline stupefatta. — Ti sta prendendo in giro, Aline — le disse Sebastian. — E fa bene. Ti chiedo scusa per mia cugina, Simon. Quelli di noi che crescono fuori da Idris tendono a dare più confidenza ai Nascosti. — Ma anche tu sei cresciuto fuori da Idris, no? — chiese Isabelle. — Credevo che i tuoi genitori... — Isabelle! — l'interruppe Jace. Ma era troppo tardi. Sebastian si rabbuiò. — I miei genitori sono morti — spiegò. — In un covo di demoni vicino a Calais... Non c'è problema, è passato tanto tempo. — Bloccò con un gesto della mano le parole di simpatia di Isabelle. — Sono stato allevato da mia zia, la sorella del padre di Aline, all'Istituto di Parigi. — Allora parli francese! — Isabelle sospirò. — Quanto mi piacerebbe parlare un'altra lingua! Hodge pensava che ci bastasse sapere il greco e il latino. Ma nessuno parla più in greco o in latino! — So anche il russo e l'italiano. E un po' di rumeno — rivelò Sebastian con un sorriso di modestia. — Potrei insegnarti qualche frase... — Il rumeno? Però! — esclamò Jace. — Non è una lingua che conoscono in molti. — Tu sì? — chiese Sebastian con interesse. — Non proprio — rispose Jace con un sorriso così disarmante che Simon capì subito che stava mentendo. — Il mio rumeno si riduce a una manciata di frasi utili, tipo Quei serpenti sono velenosi? O Ma lei sembra ancora molto giovane, per essere un poliziotto. Sebastian non sorrise. C'era qualcosa di strano nella sua espressione, pensò Simon: era mite, tutto in lui esprimeva calma, ma sembrava che sotto quella mitezza esteriore si nascondesse qualcosa di radicalmente opposto. — Mi piace viaggiare — disse Sebastian, tenendo gli occhi fissi su Jace. — Ma è bello essere di nuovo qui, non trovi? Jace smise di giocherellare con le dita di Aline. — In che senso? — Voglio dire, non c'è un altro posto al mondo che sia come Idris, anche se noi Nephilim cerchiamo spesso di mettere su casa altrove. Non sei d'accordo? — Perché me lo chiedi? — Lo sguardo di Jace era gelido. Sebastian scrollò le spalle. — Be', tu hai vissuto qui da bambino, no? Ed erano anni che non ci tornavi. O ho capito male? — Non hai capito male — intervenne Isabelle con impazienza. — A Jace piace far finta che non si parli mai di lui, anche se sa benissimo che non è così. — Se ne parla, eccome. — Nonostante le occhiate torve di Jace, Sebastian non appariva minimamente turbato. Simon sentì una sorta di riluttante simpatia per il giovane Cacciatore dai capelli neri. Era raro trovare qualcuno che non reagisse alle provocazioni di Jace. — In questi giorni, qui a Idris, non si parla d'altro. Di te, degli Strumenti Mortali, di tuo padre, di tua sorella... — Non doveva venire anche Clarissa con voi? — chiese Aline. — Non vedevo l'ora di conoscerla. Cos'è successo? L'espressione di Jace non cambiò, ma staccò la mano da quella di Aline e la strinse a pugno. — Non ha voluto lasciare New York. Sua madre è ancora in ospedale. Non dice mai "nostra" madre, pensò Simon. E sempre e soltanto la madre di Clary. — Strano — disse Isabelle. — Credevo che ci tenesse molto, a venire. — Infatti — intervenne Simon. — In realtà... Ma Jace si era già alzato in piedi, così velocemente che Simon non colse nemmeno il movimento. — Ora che ci penso, c'è una cosa di cui vorrei discutere con Simon. In privato. — Gli indicò con la testa la porta a due battenti in fondo alla stanza con gli occhi scintillanti di sfida. — Vieni, vampiro — gli ordinò. Il suo tono lasciò a Simon la precisa sensazione che un rifiuto avrebbe probabilmente condotto a qualche tipo di violenza. — Dobbiamo parlare. capitolo 3 AMATIS Era tardo pomeriggio. Luke e Clary si erano lasciati alle spalle il lago e stavano camminando attraverso ampie distese d'erba alta pianeggianti e apparentemente sterminate. Di tanto in tanto, dolci pendii portavano a colline sormontate da pietre nere. Clary barcollava, esausta per le continue salite e discese dalle colline, con le scarpe che slittavano sull'erba umida e scivolosa come marmo unto. Quando si lasciarono i campi alle spalle e imboccarono una stradina di terra battuta, Clary aveva le mani insanguinate e macchiate d'erba. Luke camminava davanti a lei a grandi falcate decise. Di tanto in tanto le indicava qualche elemento degno di interesse, con voce cupa, come la guida turistica più depressa del mondo. — Quella che abbiamo appena attraversato è la pianura di Brocelind — disse. Stavano risalendo un'altura e avevano davanti a sé un'intricata distesa di alberi scuri che si protendeva verso occidente, dove il sole era ormai basso sull'orizzonte. — E questa è la foresta di Brocelind. Un tempo, gli alberi ricoprivano gran parte delle pianure di questo Paese. Molti sono stati tagliati, per fare posto alla città. E per snidare i branchi di lupi e i covi di vampiri che vi si annidavano. La foresta è sempre stata un buon nascondiglio per i Nascosti. Avanzavano in silenzio lungo la stradina che curvava dolcemente seguendo per diverse miglia il margine della foresta. Gli alberi sembravano risalire l'altura che si levava sopra di loro. Quando l'aggirarono, Clary batté le palpebre: se i suoi occhi non la stavano ingannando, là in fondo c'erano delle case! File di casette bianche perfettamente allineate. — Siamo arrivati! — esclamò Clary correndo avanti. Si fermò solo quando si rese conto che Luke non era più accanto a lei. Si girò e lo vide fermo in mezzo alla strada polverosa. Scuoteva la testa: — No — le disse, raggiungendola. — Quella non è la città. — Sarà un villaggio, allora... Avevi detto che non c'erano villaggi, qui vicino? — È un cimitero. È la Città di Ossa di Alicante. Pensavi che l'altra Città di Ossa fosse l'unico nostro luogo di eterno riposo? — Sembrava triste. — Questa è la necropoli dove seppelliamo quelli che muoiono a Idris. Lo vedrai con i tuoi occhi. Dovremo attraversarla, per arrivare ad Alicante. Era dalla notte in cui Simon era morto che Clary non metteva piede in un cimitero. Il ricordo la fece rabbrividire fino alle ossa, mentre camminava lungo le stradine strette che vi si diramavano come nastri bianchi. Qualcuno si prendeva cura di quel luogo, visto che il marmo brillava come fosse stato lucidato di fresco e l'erba era ben rasata. C'erano mazzi di fiori bianchi qua e là sulle tombe: in un primo momento Clary li scambiò per gigli, ma avevano un profumo speziato e sconosciuto che le fece pensare che fossero originari di Idris. Ogni tomba somigliava a una casetta: alcune avevano persino un cancelletto in ferro battuto e sulle porte erano incisi nomi di famiglie di Shadowhunters. CARTWRIGHT. MERRYWEATHER. HIGHTOWER. BLACKWELL. MIDWINTER. Si fermò davanti a una tomba: HERONDALE. Si girò verso Luke. — Quello è il nome dell'Inquisitrice. — È la sua tomba di famiglia. Guarda. — Accanto alla porta, Luke le indicò alcune scritte bianche incise nel marmo grigio. Erano nomi. MARCUS HERONDALE, STEPHEN HERONDALE. Morti entrambi nello stesso anno. Per quanto Clary avesse odiato l'Inquisitrice, si sentì stringere il cuore da un moto di pietà. Perdere il marito e il figlio, e a così poca distanza di tempo... Sotto il nome di Stephen correvano tre parole in latino: AVE ATQUE VALE. — Che cosa significa? — chiese a Luke. — Significa "Salve e Addio". È tratta da una poesia di Catullo. A un certo punto è diventata la frase che i Nephi-lim dicono ai funerali o quando qualcuno muore in battaglia. Ora, però, andiamo. È meglio non soffermarsi troppo su queste cose, Clary. — Luke la prese per una spalla e l'allontanò delicatamente dalla tomba. Forse Luke aveva ragione, pensò Clary. Forse era meglio non pensare troppo alla morte e al morire, in quel momento. Riprese a camminare tenendo gli occhi bassi. Erano vicini ai cancelli di ferro all'estremità opposta della necropoli, quando Clary notò un mausoleo più piccolo, che sembrava cresciuto come un fungo a cappello all'ombra di una quercia frondosa. Il nome sopra la porta balzò ai suoi occhi come un'insegna al neon. FAIRCHILD. — Clary... — Luke cercò di trattenerla, ma lei era già lontana. Con un sospiro, la seguì sotto la quercia. Impietrita, Clary stava leggendo i nomi dei nonni e dei bisnonni che non aveva mai saputo di avere. ALOYSIUS FAIRCHILD. ADELE FAIRCHILD NATA NIGHTSHADE. GRANVILLE FAIRCHILD. E sotto tutti quei nomi: JOCELYN MORGENSTERN, NATA FAIRCHILD. Un'ondata di gelo la travolse. Vedere inciso sulla pietra il nome di sua madre fu come rivivere gli incubi che aveva di tanto in tanto, in cui era al funerale di sua madre e nessuno voleva dirle cos'era successo o com'era morta. — Ma lei non è morta — sussurrò, guardando Luke. — Il Conclave non lo sapeva — le spiegò Luke con dolcezza. Clary sussultò. Non sentiva più la voce di Luke, non lo vedeva più, di fronte a sé. Davanti ai suoi occhi c'era un pendio frastagliato su cui le lapidi spuntavano dalla terra come ossa spezzate. Una lapide nera incombeva davanti a lei con lettere irregolari incise sulla superficie: CLARISSA MORGENSTERN, 1991-2007. Sotto quelle parole c'era un disegno infantile che raffigurava a tratti incerti un teschio dalle orbite vuote. Clary gridò e indietreggiò barcollando. Luke la prese per le spalle. — Che succede, Clary? Lei puntò il dito. — Lì... guarda... Ma era sparito tutto. C'erano solo l'erba, verde e uniforme, e i bianchi mausolei, lindi e semplici, in file ordinate. Si girò e alzò lo sguardo verso Luke. — Ho visto la mia tomba — gli disse. — C'era scritto che sono morta... quest'anno. — Rabbrividì. Luke era cupo. — È l'acqua del lago — le disse. — Cominci ad avere le allucinazioni. Andiamo. Non ci resta molto tempo. Jace guidò Simon al piano di sopra, in un breve corridoio con diverse porte, finché non si fermò per aprirne una, a braccio teso, scuro in volto. — Entriamo qui — disse spingendo Simon oltre la soglia. Era una biblioteca, con file e file di scaffali, divani e poltrone. — Qui dovremmo avere un po' di privacy per... Ma s'interruppe, vedendo qualcuno alzarsi nervosamente da una delle poltrone. Era un ragazzino coi capelli castani e gli occhiali. Aveva una faccia piccola e seria e un volume fra le mani, un manga. Simon conosceva le abitudini di lettura di Clary e lo riconobbe subito. Jace aggrottò la fronte. — Scusa Max. Ci serve la stanza. Discorsi da grandi. — Ma Izzy e Alec mi hanno già cacciato via dal salotto, per fare discorsi da grandi! — protestò Max. — E dove devo andare? Jace scrollò le spalle. — In camera tua? — Il suo pollice scattò verso la porta. — È giunto il momento che anche tu faccia il tuo dovere per la patria, piccoletto. Sparisci. Con l'aria offesa e il libro stretto al petto, Max marciò verso la porta. Simon ebbe per lui un guizzo di solidarietà: era abbastanza grande per voler capire che cosa gli succedeva intorno, ma era ancora troppo piccolo, e tutti lo mandavano via. Che schifo di vita! Il ragazzino gli lanciò un'occhiata timorosa e guardinga, quando gli passò accanto. Quello è il vampiro, dicevano i suoi occhi. — Andiamo. — Jace fece entrare Simon e chiuse la porta a chiave. Con la porta chiusa, la stanza era così poco illuminata da risultare troppo buia persino agli occhi di Simon. C'era odore di polvere. Jace andò ad aprire le tende dalla parte opposta, rivelando un'alta finestra panoramica che dava sul canale. L'acqua lambiva il fianco della casa, poco più in basso, sotto un davanzale di pietra decorato di rune e stelle consunte dalle intemperie. Jace si voltò verso Simon con lo sguardo torvo. — Che diavolo di problemi hai, vampiro? — Problemi io? Sei tu che mi hai praticamente trascinato via per i capelli. — Stavi per dire a tutti che Clary non ha mai cambiato idea sul fatto di venire a Idris. Sai cosa succederebbe? Che la contatterebbero e la farebbero venire. E io ti ho già spiegato perché non deve venire. Simon scosse la testa. — Non ti capisco — disse. — Qualche volta ti comporti come se t'importasse solo di Clary, altre volte invece come... Jace lo fissò. L'aria era piena di pulviscolo danzante nel sole che creava tra di loro un vibrante sipario di luce. — Come cosa? — Come se facessi il filo ad Aline — concluse Simon. — Non mi sembrava che t'importasse solo di Clary, poco fa. — Questi non sono affari tuoi — replicò Jace. — E poi Clary è mia sorella. E tu lo sai. — C'ero anch'io alla Corte del Popolo Fatato — replicò Simon. — Ricordo bene quello che ha detto la Regina: «Il bacio che libererà la ragazza è quello che lei desidera di più». — Non dubito che te lo ricordi. Ce l'hai impresso a fuoco nel cervello, vero, vampiro? Dal fondo della gola di Simon uscì un suono che lui stesso non aveva mai saputo di poter produrre. — Ah no, non ci sto. Non inoltrarmi in fare questa discussione. Non voglio litigare con te per Clary. È ridicolo. — Allora perché hai tirato fuori il discorso? — Perché — disse Simon — se vuoi che io menta, non solo a Clary, ma a tutti i tuoi amici Cacciatori, se vuoi che io faccia finta che non è stata una scelta di Clary quella di non venire qui, e se vuoi che io finga di non sapere nulla dei suoi poteri o di quello che è veramente capace di fare, allora anche tu devi fare qualcosa per me. — Bene — disse Jace. — Che cosa vuoi? Simon rimase in silenzio per un momento, guardando, alle spalle di Jace, le case di pietra che costeggiavano l'altra sponda del canale scintillante. Oltre i tetti merlati, si vedevano le cime luccicanti delle torri antidemoni. — Voglio che tu faccia il possibile per convincere Clary che tu non provi niente per lei. E non... non rispondermi che sei suo fratello. Lo so già. Tu non devi illuderla, visto che sai benissimo che qualsiasi cosa ci sia tra voi non ha futuro. E non lo dico perché la voglio per me. Lo dico perché sono suo amico e non voglio che soffra. Jace si guardò le mani per un lungo momento senza rispondere. Erano mani sottili, le dita e le nocche segnate da calli e il dorso ricamato dalle sottili linee bianche di antichi marchi. Erano le mani di un soldato, non di un adolescente. — L'ho già fatto — disse. — Le ho già detto che m'interessa essere suo fratello e basta. — Ah. — Simon si era aspettato che Jace si opponesse, che protestasse, non che si arrendesse. Un Jace che si arrendeva era una novità. E ora Simon quasi si vergognava di avergli fatto quella richiesta. Clary non me l'ha mai detto, avrebbe voluto dire, ma poi, perché Clary avrebbe dovuto dirglielo? Ora che ci pensava, recentemente Clary si era mostrata insolitamente silenziosa e schiva, ogni volta che si faceva il nome di Jace. — Be', questo risolve tutto, immagino. C'è un'ultima cosa. — Ah — fece Jace, senza dimostrare grande interesse. — E sarebbe? — Che cos'ha detto Valentine quando Clary ha disegnato quella runa sulla nave? Sembrava una lingua straniera. Meme qualcosa... — Mene mene tekel upharsin — rispose Jace con un accenno di sorriso. — Non lo riconosci? Viene dalla Bibbia, vampiro. Dall'Antico Testamento. Sono libri tuoi, no? — Solo perché sono ebreo non significa che ho imparato a memoria tutto l'Antico Testamento. — E' la scritta sul muro del palazzo di Baldassar. DIO HA CONTATO I GIORNI DEL TUO REGNO E VI HA POSTO FINE. TU SEI STATO PESATO SULLA BILANCIA E SEI STATO TROVATO MANCANTE. È una profezia del giudizio universale. Sta a significare la fine di un impero. — Ma questo che cosa c'entra con Valentine? — Non solo con Valentine — spiegò Jace. — Ma con tutti noi: il Conclave, la Legge... Quello che Clary è in grado di fare cambia tutto ciò che loro hanno sempre ritenuto vero. Nessun essere umano è in grado di creare nuove rune, né di tracciare le rune che disegna Clary. Solo gli angeli hanno questo potere. E dato che Clary può farlo... be', sembra una profezia: le cose stanno cambiando, le Leggi stanno cambiando. Le vecchie procedure potrebbero non essere più quelle giuste. Come la ribellione degli angeli mise fine al mondo così com'era, dividendo il cielo a metà e creando l'inferno, ora questo potrebbe significare la fine dei Nephilim così come esistono attualmente. Questa è la nostra guerra, vampiro, e solo una delle due parti può vincere. E mio padre vuole che sia la sua. Nonostante l'aria fredda, Clary grondava di calore nei vestiti bagnati. Gocce di sudore le colavano lungo il viso, bagnandole il colletto del cappotto, mentre Luke, tenendole una mano sul braccio, la incitava a camminare in fretta, sotto un cielo che si faceva rapidamente più scuro. Erano in vista di Alicante, adesso. La città era in una valle poco profonda, tagliata in due da un fiume argenteo che sembrava svanire nel centro abitato per poi riemergere dal lato opposto. Un viluppo di edifici color miele dai tetti rossi e un groviglio di ripide stradine scure e serpeggianti risalivano il fianco di una scoscesa collina. In cima alla collina si ergeva un edificio scuro, svettante, con diversi colonnati e una torre luccicante a ogni punto cardinale. Sparse tra le altre costruzioni c'erano altre torri uguali, alte e sottili, che sembravano fatte di vetro, o di quarzo, ciascuna vibrante di luce. Erano come aghi che foravano il cielo. La luce morente del sole creava spenti arcobaleni sulle loro superfici. Era una vista meravigliosa, e molto strana. Non puoi dire di aver visto una città finché non hai visto Alicante dalle torri di vetro. — Come? — disse Luke. — Cosa hai detto? Clary non si era resa conto di avere parlato. Imbarazzata, ripetè la frase ad alta voce e Luke la guardò sorpreso. — Dove l'hai sentito? — Da Hodge — rivelò Clary. — È una cosa che mi ha detto Hodge. Luke la scrutò più da vicino. — Hai il viso rosso — osservò. — Come ti senti? Le doleva il collo, aveva il corpo in fiamme, la bocca secca. — Sto bene — disse invece. — Cerchiamo di arrivare, okay? — Okay. — Luke le indicò un passaggio formato da un arco dalla sommità appuntita, ai margini della città, dove cominciavano le case. All'ombra dell'arco, uno Shadowhunter in tenuta nera da battaglia faceva la guardia. — Quella è la Porta Settentrionale: è da lì che i Nascosti possono entrare legalmente in città, se hanno le carte in regola. È sorvegliata giorno e notte. Ora, se noi fossimo qui per questioni ufficiali o se avessimo il permesso di essere qui, potremmo passare da quella Porta. — Ma non ci sono mura, intorno alla città — osservò Clary. — Non mi sembra molto efficace, come misura di controllo. — Le difese sono invisibili, ma ci sono. Sono controllate dalle torri antidemoni, da mille anni. Te ne accorgerai quando le attraverseremo. — Lanciò un ultimo sguardo preoccupato alla faccia arrossata di Clary. — Sei pronta? Clary annuì. Si allontanarono dalla Porta, lungo il lato orientale della città, dove gli edifici erano più fitti. Facendole cenno di non far rumore, Luke la tirò verso uno stretto passaggio tra due case. Clary chiuse gli occhi, quasi aspettandosi di sbattere la faccia contro un muro invisibile. Ma non fu così. Sentì un'improvvisa pressione, come se si trovasse su un aereo in caduta libera, udì uno schiocco nelle orecchie... Poi la sensazione sparì e Clary si ritrovò nel vicolo tra le case. Uguale a un vicolo di New York, a qualsiasi vicolo del mondo, di primo acchito: sapeva di pipì di gatto. Clary sbirciò dietro l'angolo di uno degli edifici. Una strada più larga saliva su per la collina, costeggiata da case e negozietti. — Non c'è nessuno in giro — osservò, con una certa sorpresa. Nella luce sempre più fioca, Luke era grigio. — Ci dev'essere un'assemblea, su alla Guardia. È l'unica ragione che può svuotare così le strade. — È un bene per noi, no? — È un bene e un male. Le strade sono praticamente deserte, il che è un bene. Ma è più probabile che, chiunque si trovi a passare, ci noti e parli di noi. — Credevo che avessi detto che sono tutti alla Guardia. Luke accennò un sorriso. — Non prendermi troppo alla lettera, Clary. Volevo dire gran parte dei cittadini. I bambini, gli adolescenti, tutti coloro che sono esentati dall'assemblea, non vanno alla Guardia. Gli adolescenti. Clary pensò a Jace e, contro la sua volontà, il cuore le fece un balzo, come un cavallo ai cancelli di partenza. Luke aggrottò la fronte, come se le avesse letto nel pensiero. — Ora come ora, io sto infrangendo la Legge, perché mi trovo ad Alicante senza aver dichiarato la mia presenza al Conclave, alle Porte della città. Se qualcuno mi riconoscesse, saremmo in guai seri. — Guardò la striscia di cielo color ruggine che s'intravedeva tra i tetti. — Dobbiamo allontanarci dalle strade principali. — Stiamo andando a casa del tuo amico? — Sì, ma non è precisamente un amico. — Allora chi...? — Tu seguimi. — Luke s'infilò in un passaggio tra due case, così angusto che Clary, aprendo le braccia, avrebbe potuto toccare i muri delle case ai due lati. Da lì, si addentrarono in una stradina acciottolata e serpeggiante, fiancheggiata da negozi. Gli edifici erano un incrocio tra un paesaggio gotico visto in un sogno e una favola per bambini. I rivestimenti esterni, in pietra, erano intagliati con ogni sorta di creatura mitica o leggendaria: le teste di mostro andavano per la maggiore, intervallate da cavalli alati, cose che sembravano casette su zampe di gallina, sirene e, naturalmente, angeli. Da ogni angolo sporgevano gargoyle con facce digrignate e contorte. E ovunque c'erano rune: sulle porte, nei motivi astratti incisi nella pietra, appese a sottili catenelle come campanelle cinesi mosse dal vento. Rune di protezione, rune di buon auspicio, persino rune per un fiorente commercio. Guardandole, Clary cominciò a sentire un lieve stordimento. Camminavano in silenzio, restando nell'ombra. La strada acciottolata era deserta, le porte dei negozi chiuse e sbarrate. Passando, Clary gettava occhiate furtive nelle vetrine. Era strano vedere in una vetrina costosi cioccolatini riccamente decorati e, in quella accanto, un'altrettanto ricca esposizione di armi dall'aria letale: sciabole, mazze chiodate e un assortimento di spade angeliche di tutte le dimensioni. — Niente armi da fuoco — osservò. La sua voce le sembrò lontanissima. Luke la guardò battendo le palpebre. — Come? — Gli Shadowhunters — disse Clary. — A quanto pare non usano armi da fuoco. — Le rune impediscono alla polvere da sparo di funzionare — spiegò Luke. — Nessuno sa perché. Però di tanto in tanto i Nephilim usano il fucile contro i licantropi. Non serve una runa per ucciderci, basta un proiettile d'argento. — La sua voce era cupa. All'improvviso alzò di scatto la testa. Nella luce fioca era facile immaginare le sue orecchie drizzarsi come quelle di un lupo. — Voci — disse. — Devono aver finito, su alla Guardia. Prese Clary per un braccio e la fece allontanare dalla strada. Emersero in una piazzetta con un pozzo al centro,- poco più avanti, un ponte in muratura scavalcava uno stretto canale. Nella luce morente, l'acqua del canale sembrava nera. Anche Clary ora sentiva le voci, dalle strade vicine: erano alte, arrabbiate. Clary era sempre più stordita: aveva l'impressione che il terreno le si inclinasse sotto i piedi, rischiando di mandarla a gambe all'aria. Si appoggiò al muro del vicolo, cercando di respirare. — Clary — esclamò Luke. — Clary, va tutto bene? La voce di Luke sembrava grossa, strana. Lo guardò e il respiro le morì in gola. Aveva le orecchie lunghe e appuntite, i denti affilati come lame, gli occhi di un giallo acceso... — Luke — sussurrò. — Che cosa ti sta succedendo? — Clary. — Luke fece per toccarla, con mani stranamente lunghe, dalle unghie affilate e color ruggine. — Qualcosa non va? Clary strillò, divincolandosi. Non sapeva perché fosse tanto terrorizzata: aveva già visto Luke trasformarsi, e lui non le aveva mai fatto del male. Ma il terrore dentro di lei era una cosa viva, incontrollabile. Quando Luke la prese per le spalle cercò di scappare da quegli occhi gialli, animaleschi. Luke cercava di calmarla, la pregava di stare zitta, con la sua solita voce, umana. — Clary, ti prego... — Lasciami! Lasciami! Ma lui non lo fece. — È l'acqua... Hai le allucinazioni... Clary, cerca di mantenere il controllo. — La portò verso il ponticello, trascinandola di peso. Lei sentiva le lacrime scorrere sulle guance ardenti e portarle un po' di refrigerio. — Non è reale. Cerca di resistere, ti prego — le diceva Luke accompagnandola sul ponte. Clary sentiva l'odore dell'acqua melmosa che scorreva sotto. C'erano delle cose, che si muovevano sotto la superficie. Guardò giù e vide emergere dall'acqua un tentacolo nero con la punta spugnosa bordata di denti a spillo. Si ritrasse, incapace persino di gridare. Solo un basso mugolio le salì alla gola. Luke la prese al volo, quando le cedettero le ginocchia, e se la caricò fra le braccia. Non la portava in braccio da quando aveva cinque o sei anni. — Clary — le disse, ma il resto delle sue parole si confusero in un ruggito senza senso, mentre scendevano dal ponte. Passarono di corsa davanti a una serie di case alte e strette, che le ricordavano le villette a schiera di Brooklyn... o, forse, anche sul suo quartiere aveva le allucinazioni... Tutt'intorno, l'aria sembrava incurvarsi al loro passaggio, le luci delle case fiammeggiavano come torce, il canale vibrava di un maligno bagliore fosforescente. Clary sentiva le ossa dissolversi dentro il corpo. — Qui. — Luke si fermò di scatto davanti a un'alta casa affacciata su un canale. Prese a calci la porta, gridando. Era di un colore rosso luminoso, quasi eccessivo, con una singola runa al centro, in oro. La runa si sciolse e colò sotto gli occhi di Clary, prendendo la forma di uno spaventoso teschio sogghignante. Non è reale, si disse Clary, soffocando un grido con un pugno sulla bocca, mordendo forte, finché non sentì il sapore del sangue. Il dolore le schiarì momentaneamente le idee. La porta si spalancò, rivelando una donna con un vestito scuro, la faccia increspata da rabbia e sorpresa. Aveva i capelli lunghi, un'aggrovigliata nuvola tra il grigio e il castano che le sfuggiva da due trecce. I suoi occhi azzurri sembravano familiari. Una pietra runica di stregaluce le brillava in mano. — Chi è? — chiese con forza. — Che cosa volete? — Amatis — Luke entrò nel fascio di luce della strega-luce, con Clary tra le braccia. — Sono io. La donna sbiancò, barcollò e allungò una mano per appoggiarsi allo stipite della porta. — Lucian? — Luke cercò di fare un passo avanti, ma la donna gli bloccò la strada. Scuoteva la testa così forte da far volare le trecce. — Come puoi venire qui, Lucian? Come osi venire qui? — Non avevo scelta. — Luke assicurò la presa su Clary, che represse un grido. Tutto il suo corpo era in fiamme, ogni singolo nervo bruciava di dolore. — Te ne devi andare — gli intimò Amatis. — Se te ne vai immediatamente... — Non sono qui per me. Sono qui per la ragazza. Sta morendo. — E mentre la donna lo fissava con durezza, Luke aggiunse: — Amatis, ti prego. È la figlia di Jocelyn. Ci fu un lungo silenzio, durante il quale Amatis rimase immobile sulla soglia come una statua. Sembrava impietrita: se per la sorpresa o per l'orrore, Clary non avrebbe saputo dirlo. Clary strinse il pugno, appiccicoso di sangue, ma nemmeno il dolore serviva più a riscuoterla, ormai. Il mondo le si stava sgretolando intorno, sfocato, come un puzzle portato via dalla corrente di un fiume. Riuscì a malapena a sentire la voce di Amatis che, facendosi da parte, diceva: — Okay, Lucian, portala dentro. Quando Simon e Jace rientrarono in salotto, videro che Aline aveva messo del cibo sul tavolino tra i divani. C'erano pane e formaggio, fette di torta, mele e persino una bottiglia di vino, che Max non poteva toccare. Era seduto in un angolo, con una fetta di torta su un piattino e il suo libro aperto sulle ginocchia. Simon lo capiva: anche lui probabilmente sentiva lo stesso senso di solitudine, nel gruppo che rideva e chiacchierava. Simon vide Aline sfiorare il polso di Jace mentre si allungava per prendere un quarto di mela. Si irrigidì. In fondo è quello che vuoi da Jace, si disse. Eppure, in qualche modo non riusciva a liberarsi dalla sensazione che Jace stesse mancando di rispetto a Clary. Jace incrociò il suo sguardo e sorrise. Pur non essendo un vampiro, riuscì a fargli un sorriso che sembrava tutto denti aguzzi. Simon distolse lo sguardo e si guardò intorno. Notò che la musica che aveva sentito prima non veniva da uno stereo, ma da un congegno meccanico dall'aria molto complicata. Pensò di attaccare discorso con Isabelle, ma vide che stava chiacchierando con Sebastian, il cui viso elegante era chino sul suo, tutto concentrato. Jace, una volta, aveva riso della cotta che Simon si era preso per Isabelle, Sebastian invece era senza dubbio in grado di gestirla. Gli Shadowhunters venivano educati a controllare qualsiasi cosa, giusto? E tuttavia, l'espressione di Jace, quando aveva detto di voler essere solo un fratello per Clary, lo faceva dubitare. — Abbiamo finito il vino — annunciò Isabelle, sbattendo la bottiglia sul tavolo. — Vado a prenderne dell'altro. — Con un cenno d'intesa a Sebastian, sparì in cucina. — Se mi permetti un'osservazione, mi sembri un po' silenzioso. — Era Sebastian, appoggiato dietro allo schienale della poltrona di Simon, con un sorriso disarmante. Per avere i capelli così scuri, pensò Simon, Sebastian aveva la pelle chiarissima, come se non uscisse molto alla luce del sole. — Tutto bene? Simon scrollò le spalle. — Non ci sono molti spiragli, per me, in questa conversazione. A quanto pare, o si parla di politica degli Shadowhunters o di persone che non ho mai sentito nominare, o entrambe le cose. Il sorriso di Sebastian scomparve. — A volte siamo un circolo molto chiuso, noi Nephilim. È così che succede a chi è escluso dal resto del mondo. — Forse siete voi stessi a escludervi, non credi? Voi disprezzate la gente comune. — "Disprezzare" è un po' forte — replicò Sebastian. — Ma tu credi davvero che il mondo degli umani voglia avere qualcosa a che fare con noi? Ogni volta che loro cercano di rassicurarsi negando l'esistenza di vampiri, demoni o altri mostri sotto il letto, noi non facciamo che ricordargli che stanno mentendo a se stessi. — Si girò a guardare Jace. Simon si accorse solo allora che li stava fissando in silenzio. — Non sei d'accordo anche tu? Jace sorrise. — De ce crezi ca va auscultam conversatia? Sebastian incrociò il suo sguardo con un'aria di piacevole interesse. — M-ai urmarit de cand ai ajuns aici — replicò. — Nu-mi dau seama daca nu ma placi ori daca esti atat de banuitor cu toata lumea. — Si raddrizzò. — Ti ringrazio dell'opportunità che mi dai di praticare il rumeno, ma, se non ti dispiace, ora vado in cucina a vedere perché Isabelle ci sta mettendo tanto. — Sparì dalla porta, lasciando Jace a fissarlo con un'espressione perplessa. — Qualcosa non va? Alla fine, sa parlare il rumeno o no? — chiese Simon. — Sì — disse Jace. Gli era apparsa una linea sottile tra le sopracciglia aggrottate. — Lo parla eccome. Prima che Simon potesse chiedergli spiegazioni, rientrò Alec. Era accigliato, come quando se n'era andato. Il suo sguardo si soffermò su Simon con un'espressione leggermente confusa negli occhi azzurri. Jace lo guardò. — Già di ritorno? — Non per molto. — Alec prese una mela dal tavolo con la mano guantata. — Sono venuto a prendere... lui — annunciò, indicando Simon con la mela. — Lo vogliono alla Guardia. Aline sembrò sorpresa. — Davvero? — esclamò, mentre Jace già si stava alzando dal divano, sciogliendo l'intreccio delle loro dita. — Per quale motivo? — chiese, con una calma pericolosa. — Spero che tu sappia quello che fai. — Certo che lo so — ribatté Alec. — Non sono stupido. — Suvvia! — intervenne Isabelle. Era ricomparsa sulla porta con Sebastian, che teneva in mano una bottiglia. — Qualche volta sei un po' stupido, lo sai, solo un pochino — ripetè, mentre Alee le scoccava un'occhiata assassina. — Vogliono rimandare Simon a New York — annunciò Alec. — Dal Portale. — Ma se è appena arrivato! — protestò Isabelle mettendo il broncio. — Così non è divertente! — Nessuno pensa che debba essere divertente, Izzy. Simon è capitato qui per errore, quindi il Conclave ritiene che la cosa migliore sia di rispedirlo a casa. — Fantastico — commentò Simon. — Magari riesco a rientrare prima che mia madre si accorga della mia assenza. Che differenza di fuso orario c'è, tra qui e Manhattan? — Tu hai una madre? — Aline sembrava stupefatta. Simon decise di ignorarla. — Per me va bene — annunciò, mentre Alec e Jace si scambiavano delle occhiate. — Voglio soltanto sparire da questo posto. — Tu andrai con lui — disse Jace ad Alec. — E controllerai che vada tutto bene, vero? Si stavano guardando in un modo che Simon conosceva bene. Era il modo in cui si guardavano lui e Clary, talvolta, scambiandosi occhiate in codice, quando non volevano che i loro genitori sapessero cosa avevano in mente. — Cosa c'è che non va? — chiese Simon guardandoli. Lo scambio di occhiate s'interruppe. Alec distolse lo sguardo, e Jace guardò Simon con un'espressione blanda e sorridente. — Niente — disse. — Va tutto bene. Congratulazioni, vampiro, ce l'hai fatta: torni a casa. capitolo 4 IL DIURNO Era scesa la notte, su Alicante, quando Simon e Alec uscirono dalla casa dei Penhallow e s'incamminarono verso la Guardia. Le strade della città, strette e tortuose, si dipanavano verso la cima della collina come pallidi nastri di pietra alla luce della luna. L'aria era fredda, anche se Simon lo percepiva solo vagamente. Alec camminava in silenzio a grandi passi, sempre davanti a Simon, come fingendo di essere solo. Nella sua vita precedente, Simon avrebbe dovuto correre per stargli dietro, avrebbe avuto il fiatone; ora scopriva di poter stare al passo di Alec semplicemente accelerando un po'. — Deve essere una bella rogna, per te — disse Simon ad Alec, con lo sguardo imbronciato e fisso davanti a sé. — Trovarti costretto a farmi da scorta, dico. Alec scrollò le spalle. — Ho diciotto anni. Sono un adulto, quindi devo essere io il responsabile. Sono l'unico che può entrare e uscire dalla Guardia mentre il Conclave è riunito. E poi, il Console mi conosce. — Che cos'è un Console? — È una specie di alto ufficiale del Conclave. È lui che conta i voti del Consiglio, che interpreta la Legge, che consiglia i membri del Conclave e l'Inquisitore. Se dirigi un Istituto e incappi in un problema e non sai come risolverlo, è il Console che chiami. — Consiglia l'Inquisitore? Ma l'Inquisitrice non è morta? Alec sbuffò. — È come dire: il presidente non è morto? Sì, l'Inquisitrice è morta, e adesso ce n'è uno nuovo. L'Inquisitore Aldertree. Simon si girò a guardare l'acqua scura dei canali ai piedi della collina. S'erano lasciati la città alle spalle e stavano percorrendo una stradina stretta tra alberi fitti d'ombre. — Sai che ti dico? In passato, l'Inquisizione non ha funzionato molto bene, con la mia gente. — Alec lo guardò senza capire. — Non fa niente. È solo una battuta fra noi mondani. — Tu non sei un mondano — gli ricordò Alec. — È per questo che Aline e Sebastian erano così impazienti di vederti. Be', con Sebastian non si può mai dire: ha sempre l'aria di uno che ha già visto tutto. Simon parlò senza pensare. — Lui e Isabelle... C'è qualcosa tra di loro? Questo fece ridere Alec. — Isabelle e Sebastian? Difficile. Sebastian è un bravo ragazzo. A Isabelle piace uscire solo con ragazzi assolutamente inadeguati, che i nostri genitori non potrebbero mai sopportare: mondani, Nascosti, piccoli truffatori... — Grazie — disse Simon. — Mi fa piacere essere classificato fra i criminali. — Credo che lo faccia per attirare l'attenzione — disse Alec. — È l'unica ragazza della famiglia, quindi deve continuamente dimostrare di essere una tipa tosta. O almeno, così crede. — O forse cerca solo di distogliere l'attenzione da te — osservò Simon, quasi distrattamente. — Visto che i tuoi genitori non sanno che sei gay. Alec si fermò in mezzo alla strada così all'improvviso che Simon per poco non gli finì addosso. — No — disse. — Ma evidentemente tutti gli altri lo sanno. — Tranne Jace — precisò Simon. — Lui non lo sa, vero? Alec fece un respiro profondo. Era pallido, pensò Simon, 0 forse era solo la luce della luna che lavava via i colori. I suoi occhi erano neri nel buio. — Non vedo come la cosa ti possa riguardare. A meno che tu non stia cercando di minacciarmi. — Minacciarti? — Simon fu colto alla sprovvista. — Io non sto... — Allora perché? — l'interruppe Alec. Nella sua voce c'era una vulnerabilità evidente e improvvisa che stupì Simon. — Perché tiri fuori questa storia? — Perché — rispose Simon — sembra sempre che tu mi odi. Non ne faccio una questione personale, anche se ti ho salvato la vita. È che dai l'impressione di odiare tutto il mondo. Non abbiamo niente in comune, io e te, ma ti vedo, quando guardi Jace, e vedo me stesso quando guardo Clary. E penso che forse questa è una cosa che abbiamo in comune. E che potrebbe convincerti a detestarmi un po' di meno. — Allora, tu non vuoi dirlo a Jace? — disse Alec. — Insomma, tu hai detto a Clary quello che sentivi e... — E non è stata una grande idea — concluse Simon. — Ora mi chiedo di continuo se si può tornare indietro, dopo una cosa simile. Se potremo di nuovo essere amici o se quello che avevamo è andato in frantumi. Non per causa sua, ma mia. Forse, se trovassi qualcun altro... — Qualcun altro — ripetè Alec. Aveva ripreso a camminare, molto in fretta, con gli occhi fissi sulla strada davanti a sé. Simon accelerò il passo. — Sai cosa voglio dire. Per esempio, secondo me tu piaci molto a Magnus Bane. E Magnus è un bel tipo. O, quantomeno, dà delle feste grandiose. Anche se quella volta mi sono ritrovato topo. — Grazie per il consiglio. — La voce di Alec era secca. — Ma non credo di piacergli tanto. Mi ha a malapena rivolto la parola, quando è venuto all'Istituto ad aprire il Portale. — Forse dovresti chiamarlo — gli suggerì Simon, cercando di non pensare troppo a quanto fosse strano ritrovarsi a dare consigli a un Cacciatore di demoni sulla possibilità di mettersi insieme a uno stregone. — Non posso — disse Alec. — Niente telefoni, a Idris. E comunque, non importa. — Il tono era sbrigativo. — Siamo arrivati. Questa è la Guardia. Davanti a loro si ergeva un alto muro nel quale si apriva un enorme portone a due battenti, incisi coi segni svolazzanti e spigolosi delle rune. Benché Simon non fosse in grado di leggerli, c'era qualcosa di folgorante nella loro complessità e nel senso di potere che emanavano. Il portone era sorvegliato su entrambi i lati da angeli di pietra dai volti feroci e bellissimi. Ciascuno brandiva una spada incisa di rune e aveva ai piedi una creatura che si contorceva negli spasimi della morte: un incrocio tra un topo, un pipistrello e una lucertola, con pericolosi denti aguzzi. Simon si soffermò a guardarli. Demoni, immaginò... ma avrebbero potuto tranquillamente essere vampiri. Alec spalancò i battenti e fece cenno a Simon di passare. Una volta entrato, Simon si guardò intorno confuso. Da quando era diventato un vampiro, la sua capacità di vedere al buio aveva assunto una precisione da laser, ma le decine di torce lungo il percorso che conduceva alla Guardia erano fatte di stregaluce e il loro crudo bagliore bianco offuscava i dettagli di ogni cosa. Alec, intanto, lo guidava lungo lo stretto sentiero di ciottoli, splendente di luci riflesse, finché qualcuno, sul sentiero davanti a lui, non gli bloccò il passo con il braccio alzato. — Dunque è lui il vampiro? — La voce che aveva parlato era così profonda da essere quasi un ringhio animale. Simon alzò gli occhi: gli bruciavano per la troppa luce e avrebbero lacrimato, se fosse stato ancora capace di piangere. Stregaluce, pensò. Luce angelica, mi brucia. Immagino che non ci sia da stupirsi. L'uomo davanti a loro era molto alto, con la pelle giallastra tesa sugli zigomi pronunciati. Sotto una calotta di capelli neri tagliati corti la fronte era alta, il naso aquilino, romano. Guardava Simon con l'espressione di un pendolare alla stazione della metropolitana, intento a osservare un ratto che corre sulle rotaie con la vaga speranza che passi un treno e lo spiaccichi. — Questo è Simon — disse Alec con una lieve incertezza. — Simon, ti presento il Console Malachi Dieudonné. È pronto il Portale, signore? — Sì — rispose Malachi. La sua voce era dura e aveva un lieve accento straniero. — Ogni cosa è pronta. Vieni, Nascosto. — Fece cenno a Simon di seguirlo. — Prima chiudiamo questa faccenda e meglio è. Simon fece per seguire l'alto ufficiale, ma Alec lo fermò con la mano sul braccio. — Solo un momento — disse rivolto al Console. — Verrà rimandato direttamente a Manhattan? E là ci sarà qualcuno ad aspettarlo? — Certamente — confermò Malachi. — Lo stregone Magnus Bane. Poiché è stato lui a consentire al vampiro, poco saggiamente, di arrivare a Idris, ora si è assunto la responsabilità di aspettare il suo ritorno. — Se Magnus non l'avesse fatto passare attraverso il Portale, Simon sarebbe morto — precisò Alee un po' seccamente. — Forse — ribatté Malachi. — È quanto dicono anche i tuoi genitori, e il Conclave ha scelto di credere alle loro parole. Contro il mio consiglio. In ogni caso, non si porta un Nascosto nella Città di Vetro così a cuor leggero. — Non è stato fatto a cuor leggero. — La rabbia si gonfiò nel petto di Simon. — Eravamo stati attaccati... Malachi rivolse lo sguardo a Simon. — Tu parlerai soltanto quando ti verrà rivolta la parola, Nascosto, non prima. La mano di Alee si strinse intorno al braccio di Simon. C'era una strana espressione sul suo viso: di esitazione, di sospetto, come se si chiedesse se fosse stata una saggia idea, quella di portare Simon lassù. — Ma, Console, davvero! — La voce che giunse attraverso il cortile era acuta e sfiatata. Simon vide con una certa sorpresa che apparteneva a un ometto piccolo e tondo che si affrettava verso di loro. Indossava un'ampia cappa grigia sulla tenuta da Cacciatore e la sua pelata riluceva nella stregaluce. — Non c'è alcun bisogno di allarmare il nostro ospite. — Ospite?! — ripetè Malachi indignato. L'ometto si fermò davanti ad Alee e Simon e li guardò con un sorriso raggiante. — Siamo così contenti, anzi felici, veramente, che tu abbia deciso di collaborare, accettando di farti rimandare a New York. Ci rende tutto molto, molto più facile. — Fece l'occhiolino a Simon, che lo guardava confuso. Non avrebbe mai pensato di incontrare uno Shadowhunter che fosse felice di vederlo: non da mondano, e certo non adesso che era un vampiro. — Ah, dimenticavo! — L'ometto si batté la mano sulla fronte. — Non mi sono neanche presentato. Io sono l'Inquisitore, il nuovo Inquisitore. Inquisitore Aldertree è il mio nome. Aldertree porse la mano a Simon che, nella confusione più totale, gliela strinse. — E tu, ti chiami Simon? — Sì — rispose lui, ritirando la mano appena possibile. La stretta di Aldertree era sgradevolmente umidiccia e appiccicosa. — Non c'è bisogno di ringraziarmi per la collaborazione. Io voglio solo andare a casa. — Ne sono certo, ne sono certo! — Sebbene il tono di Aldertree fosse gioviale, qualcosa balenò sul suo viso mentre parlava, un'espressione che Simon non riuscì ad afferrare. Sparì in un attimo, poi Aldertree sorrise e gli indicò un sentierino che girava intorno alla Guardia. — Da questa parte, Simon, se non ti dispiace. Simon si mosse e Alec fece per seguirlo. L'Inquisitore sollevò la mano. — Non abbiamo bisogno altro, da te, Alexander. Ti ringrazio per l'aiuto. — Ma, Simon... — iniziò Alec. — Simon starà benone — lo rassicurò l'Inquisitore. — Malachi, per favore accompagna fuori Alexander. E dagli una pietra runica di stregaluce per arrivare fino a casa, se non ne ha portata una con sé. Il sentiero può essere insidioso, di notte. E con un altro sorriso beato si portò via Simon, lasciando Alec a guardarli andare. Il mondo si dilatò intorno a Clary in una macchia indistinta ma quasi tangibile, mentre Luke la portava oltre la soglia, in un lungo corridoio, e Amatis faceva loro strada con la stregaluce. In preda al delirio, Clary fissava lo sguardo sul corridoio che si stendeva davanti a lei sempre più lungo, sempre più lungo, come il corridoio di un incubo. Il mondo si rovesciò su un fianco. Clary si ritrovò distesa su una superficie fredda. C'erano delle mani che lisciavano una coperta sopra di lei e un paio di occhi azzurri che la scrutavano dall'alto. — Sta molto male, Lucian! — disse Amatis con una voce alterata e distorta come quella di un vecchia registrazione. — Cosa le è successo? — Ha bevuto metà del lago Lyn. — Il suono della voce di Luke si affievolì e per un momento la visione di Clary si schiarì: era distesa sul pavimento di fredde piastrelle di una cucina e, da qualche parte, Luke stava frugando in un armadietto. La cucina aveva pareti gialle e scrostate e una vecchia stufa di ghisa a una parete; le fiamme che danzavano dietro la grata della stufa le ferivano gli occhi. — Anice, belladonna, elleboro... — Luke si allontanò dall'armadietto con le braccia piene di barattoli di vetro. — Puoi mettere a bollire queste erbe, Amatis? Voglio spostarla più vicino alla stufa. Sta tremando. Clary cercò di parlare, di dire che non aveva bisogno di essere riscaldata, che stava bruciando, ma i suoni che le uscirono di bocca non erano quelli che aveva in mente. Si sentì mugolare, quando Luke la sollevò, poi avvertì il calore che le scongelava il fianco sinistro... Non si era nemmeno resa conto di avere freddo. I denti le battevano forte e sentì in bocca il sapore del sangue. Il mondo cominciò a tremare intorno a lei come acqua scossa in un bicchiere. — Il Lago dei Sogni? — La voce di Amatis era piena di incredulità. Clary non riusciva a vederla chiaramente, ma le sembrava che fosse vicino alla stufa, con un lungo cucchiaio di legno in mano. — Che cosa ci facevate là? Jocelyn sa dove... Il mondo non c'era più, o per lo meno il mondo reale, la cucina coi muri gialli e il fuoco confortante dietro la grata. Vedeva le acque del lago Lyn che riflettevano il fuoco come la superficie di un vetro lucido. Su quel vetro camminavano angeli: angeli dalle ali bianche, spezzate e insanguinate. E tutti avevano il volto di Jace. E poi altri angeli, con ali di nera tenebra, che avvicinavano le mani al fuoco e ridevano... — Continua a chiamare suo fratello. — La voce di Amatis sembrava cava, come se filtrasse verso di lei da profondità impossibili. — È con i Lightwood, vero? I Lightwood stanno dai Penhallow, in Princewater Street. Potrei... — No — ribatté Luke seccamente. — No. È meglio che Jace non sappia nulla di tutto questo. Stavo chiamando Jace! Perché lo facevo?, si chiese Clary. Ma il pensiero ebbe vita breve: tornò il buio e le allucinazioni s'impossessarono di nuovo della sua mente. Questa volta sognò Alee e Isabelle. Sembravano usciti da una battaglia feroce, avevano la faccia rigata di lacrime e di sporco. E poi non c'erano più. E Clary sognò un uomo senza volto, con delle ali nere che gli crescevano sulla schiena come ali di pipistrello. L'uomo sorrideva e dalla bocca gli colava sangue. Pregando che le visioni svanissero, Clary serrò gli occhi. Passò molto tempo prima che riemergesse verso la superficie, richiamata dalle voci sopra di lei. — Bevi questo — le stava dicendo Luke. — Clary, devi berlo. — E poi c'erano delle mani che le sorreggevano la schiena e c'era un fluido che le colava nella bocca da un fazzoletto zuppo. Era amaro e disgustoso, e Clary tossiva, aveva conati di vomito, ma le mani sulla sua schiena erano ben salde. Mandò giù, oltre il dolore della gola gonfia. — Fatto — disse Luke. — Ora dovrebbe andare meglio. Clary aprì gli occhi lentamente. In ginocchio accanto a lei c'erano Luke e Amatis, e i loro occhi azzurri, quasi identici, erano colmi della medesima preoccupazione. Guardò alle loro spalle e non vide niente: né angeli, né demoni dalle ali di pipistrello. Solo pareti gialle e un bollitore rosa pallido in bilico sul davanzale di una finestra. — Morirò? — sussurrò. Luke fece un sorriso sfinito. — No. Ti ci vorrà un po' per rimetterti in sesto, ma te la caverai. — Okay. — Era troppo esausta per sentire qualsiasi cosa, anche il sollievo. Era come se le avessero tolto tutte le ossa, lasciandole solo un sacco di pelle vuoto. Guardando Luke tra le ciglia, insonnolita, quasi senza pensare, Clary disse: — Hai gli occhi uguali. Luke batté le palpebre. — Uguali a cosa? — Uguali ai suoi — disse Clary, spostando lo sguardo assonnato verso Amatis, che sembrava perplessa. — Lo stesso azzurro. L'ombra di un sorriso passò sul volto di Luke. — Be', non è poi così strano, tutto sommato — disse. — Prima non ho avuto modo di fare le presentazioni. Clary, ti presento Amatis Herondale. Mia sorella. L'Inquisitore smise di parlare non appena Alec e l'alto ufficiale furono abbastanza lontani. Simon lo seguì lungo lo stretto sentiero illuminato, cercando di non guardare verso le torce di stregaluce. Sentiva la mole possente della Guardia che si innalzava davanti a lui come la fiancata di una nave sull'oceano. Le finestre vivamente illuminate macchiavano il cielo di una luce argentea. C'erano anche finestrelle basse, al livello del suolo. Molte avevano delle inferriate, ed erano buie. Dopo un po' raggiunsero un passaggio ad arco chiuso da una porta di legno, su un lato dell'edificio. Quando Aldertree si avvicinò e aprì il lucchetto, lo stomaco di Simon si strinse. Le persone, lo notava da quando era un vampiro, avevano un odore che mutava con l'umore. L'Inquisitore puzzava di qualcosa di forte e amaro, come il caffè, ma molto più sgradevole. Simon sentì nelle gengive il dolore pungente che precedeva sempre l'apparire dei canini e, passando dalla porta, cercò di stare lontano dall'Inquisitore. Il corridoio che si apriva oltre la porta era lungo e bianco, quasi un tunnel, e sembrava scavato nella roccia. L'Inquisitore camminava veloce e la sua stregaluce gettava riflessi vivaci contro i muri. Per avere delle gambe così corte, si muoveva con notevole rapidità, girando spesso la testa a destra e a sinistra e arricciando il naso come ad annusare l'aria, e Simon dovette affrettare il passo. Entrarono per un portone dai battenti spalancati come ali. Nella grande sala che si apriva dall'altra parte, Simon vide un anfiteatro con file e file di sedie, ciascuna occupata da uno Shadowhunter vestito di nero. Le loro voci rimbalzavano contro le pareti, molte dai toni accesi dall'ira, e Simon colse brandelli di discussione, voci sovrapposte e parole soffocate da altre. — Non abbiamo alcuna prova di ciò che vuole Valentine. Non ha comunicato i suoi desideri a nessuno. — Che cosa importa quello che vuole? È un rinnegato e un bugiardo. Credi davvero che qualsiasi tentativo di rabbonirlo possa esserci d'aiuto? — Sapete che una pattuglia ha trovato il corpo di un giovane lupo mannaro nei dintorni di Brocelind? Dissanguato. Sembra che Valentine abbia completato il Rituale qui a Idris. — Con due degli Strumenti Mortali in suo possesso, è più potente di qualsiasi Nephilim. Potremmo non avere scelta. — Mio cugino è morto, su quella nave a New York! Non possiamo fargliela passare liscia, dopo tutto quello che ha fatto! Deve pagarla! Simon rallentò, curioso di saperne di più, ma l'Inquisitore gli ronzava intorno come una grassa ape molesta. — Andiamo, andiamo! — diceva, agitando la stregaluce davanti a sé. — Non abbiamo tempo da perdere. Devo tornare all'assemblea prima che finisca. Con riluttanza, Simon si lasciò sospingere dall'Inquisitore lungo il corridoio, con quel "Deve pagarla!" che ancora gli risuonava nelle orecchie. Il ricordo di quella notte sulla nave era freddo e sgradevole. Raggiunsero una porta su cui era intagliata un'unica, semplice runa nera, e l'Inquisitore tirò fuori una chiave e l'aprì, facendo entrare Simon con un ampio gesto della mano. La stanza era decorata da un unico arazzo, raffigurante un angelo che emergeva dalle acque di un lago con una spada in una mano e una coppa nell'altra. Simon si distrasse un momento, pensando che aveva già visto sia la Coppa sia la Spada. Solo quando sentì lo scatto di una serratura si rese conto che l'Inquisitore aveva chiuso a chiave la stanza. Si guardò intorno. Non c'erano mobili, tranne una panca e un tavolino basso. Una campanella d'argento ornamentale era posata sul tavolino. — Il Portale... È qui dentro? — chiese con incertezza. — Simon, Simon — Albertree si sfregò e mani, come pregustando una festa di compleanno o qualche altro piacevole evento. — Hai davvero tanta fretta di andartene? Ci sarebbero un paio di domande che vorrei farti, prima... — Okay. — Simon scrollò le spalle, a disagio. — Mi può chiedere ciò che vuole, immagino. — Come sei disponibile! Che bellezza! — Albertree aveva un sorriso raggiante. — Allora, da quanto tempo, esattamente, sei un vampiro? — Circa due settimane. — E com'è successo? Sei stato aggredito per strada? O nel tuo letto, di notte? Sai chi è stato, a trasformarti? — Be', non esattamente. — Ma, ragazzo mio — esclamò Aldertree — come fai a non sapere una cosa del genere? — Lo sguardo che l'Inquisitore posò su Simon era aperto e curioso. Sembrava così innocuo, pensò Simon. Come di un nonno o un vecchio zio un po' buffo. Quell'odore amaro, probabilmente se l'era immaginato. — Non è stato così semplice, in realtà — rispose Simon. E raccontò delle sue due visite al Dumort, una in forma di topo e l'altra perché spinto da un'urgenza irresistibile. Si era sentito come stretto fra le ganasce di una enorme tenaglia e sospinto esattamente nel punto in cui voleva farlo andare. — E così — concluse Simon — nel momento in cui ho varcato la soglia dell'hotel, sono stato attaccato... Non so chi è stato quello che mi ha trasformato. Forse sono stati un po' tutti, in un certo senso. L'Inquisitore schioccò la lingua con disapprovazione. — Santo cielo, santo cielo. Questo non va per niente bene. È molto fastidioso. — L'ho pensato anch'io — concordò Simon. — Il Conclave non ne sarà affatto contento. — Come? — Simon era sconcertato. — Che cosa può importare al Conclave di come sono diventato un vampiro? — Be', un conto sarebbe se tu fossi stato aggredito — spiegò Aldertree con dispiacere. — Ma tu ci sei andato con le tue gambe e... be', praticamente ti sei consegnato ai vampiri, capisci? Sembra quasi che tu volessi diventare uno di loro. — Certo che no! Non è per questo che sono andato all'hotel! — Ma certo, ma certo. — La voce di Aldertree era melliflua. — Passiamo a un altro argomento, vuoi? — Senza aspettare risposta, proseguì: — Come mai i vampiri ti hanno lasciato sopravvivere e rinascere, giovane Simon? Considerato che avevi violato il loro territorio, la normale procedura sarebbe stata quella di bere il tuo sangue fino a farti morire, poi bruciare il tuo corpo per impedirti di rinascere. Simon aprì la bocca per raccontare all'Inquisitore che Raphael l'aveva riaccompagnato all'Istituto e che poi Clary, Jace e Isabelle l'avevano portato al cimitero ed erano rimasti ad aspettare che uscisse dalla sua fossa scavando con le mani. Ma esitò. Aveva solo una vaga idea di come funzionava la loro Legge, ma aveva il sospetto che assistere alla rinascita di un vampiro e procurargli il sangue per il suo primo pasto non rientrasse nella normale prassi. — Non lo so — disse. — Non ho idea del perché mi abbiano trasformato, invece di uccidermi. — Ma uno di loro deve averti fatto bere il suo sangue, altrimenti non saresti... be', non saresti quello che sei oggi. Mi stai dicendo che non sai chi sia il vampiro tuo signore? Il vampiro mio signore? Simon non l'aveva mai pensata in questi termini... Il sangue di Raphael gli era entrato in bocca quasi per un caso. Ed era difficile pensare al ragazzo vampiro come a un sovrano: Raphael sembrava persino più giovane di lui. — Temo di no. — Santo cielo! — sospirò l'Inquisitore. — Che sfortuna. — Che cosa è una sfortuna? — Be', il fatto che tu mi stia mentendo, ragazzo. — Aldertree scosse la testa. — E io che speravo tanto che tu collaborassi. È terribile. Terribile. Non vorresti ripensarci, provare a dirmi la verità? Come un favore personale? — Ma io gliela sto dicendo, la verità! L'Inquisitore si ammosciò come un fiore senz'acqua. — Che peccato. — Sospirò di nuovo. — Che peccato. — E con queste parole andò alla porta e diede un colpo secco sul legno, ancora scuotendo la testa. — Che succede? — La voce di Simon era venata di allarme e confusione. — E il Portale? — Il Portale? — Aldertree ridacchiò. — Non avrai pensato davvero che ti avrei lasciato andare così, vero? Prima che Simon potesse replicare, la porta si spalancò e riversò nella stanza un manipolo di Shadowhunters in tenuta nera. Mani forti si strinsero intorno alle braccia di Simon, bloccandolo. Simon lottò, ma gli calarono un cappuccio in testa. Scalciò alla cieca, un piede colse nel segno e sentì qualcuno imprecare. Venne spintonato indietro, brutalmente. Una voce infuocata gli ringhiò all'orecchio: — Fallo di nuovo, vampiro, e ti verso l'acqua santa giù per la gola e ti guardo morire sputando sangue. — Basta così! — La vocetta sottile e preoccupata dell'Inquisitore si levò come un palloncino. — Basta con le minacce! Voglio solo dare una piccola lezione al nostro ospite. — Doveva essersi avvicinato, perché Simon sentiva di nuovo quello strano odore amaro, filtrato dal cappuccio. — Simon, Simon — disse Aldertree. — Mi ha fatto tanto piacere conoscerti. Spero proprio che una notte nelle celle della Guardia sortisca l'effetto desiderato e che domani mattina tu sia un po' più propenso a collaborare. Vedo un futuro luminoso, per noi, una volta superato questo piccolo intoppo. — La sua mano si posò sulla sua spalla. — Portatelo di sotto, Nephilim. Simon urlò, ma il cappuccio soffocò le sue grida. Gli Shadowhunters lo trascinarono fuori e lo spinsero per una serie infinita di tortuosi e labirintici corridoi. Alla fine, arrivarono a una rampa di scale e lo spintonarono giù a forza. I piedi di Simon scivolarono più volte sui gradini. Non aveva la minima idea di dove si trovasse... Sentiva solo un odore scuro e malsano, come di pietra bagnata, mentre l'aria si faceva più umida e fredda man mano che scendevano. Alla fine si fermarono. Ci fu un suono raschiante, come di ferro trascinato sulla pietra. Simon fu spinto di nuovo e cadde sulle mani e le ginocchia su un duro pavimento. Ci fu un colpo forte e metallico, come di una porta che si chiudeva con violenza, e il suono di passi che si allontanavano, con l'eco sempre più fioco degli stivali sulla pietra. Simon si rimise in piedi. Si sfilò il cappuccio dalla testa e lo buttò a terra. La sensazione di soffocamento, di calore e di chiuso svanì. Resistette all'impulso di riempirsi i polmoni d'aria, perché non ne aveva alcun bisogno: era solo un riflesso condizionato, ma il petto gli doleva come se avesse rischiato di morire asfissiato. Si trovava in una nuda stanzetta di pietra, con una finestrella inferriata in alto, sopra un angusto letto dall'aria scomoda. Dietro una porticina, c'era un minuscolo bagno con un lavandino e un gabinetto. Una parete della stanza era interamente fatta di sbarre: grosse sbarre di ferro dal pavimento al soffitto, ben salde nella pietra, con una porta, anch'essa fatta di sbarre, con un pomolo d'ottone sul quale era incisa una grossa runa nera. A dire il vero, tutte le sbarre erano coperte di rune, comprese quelle della finestrella. Pur sapendo che la porta della cella era certamente chiusa a chiave, Simon non riuscì a resistere alla tentazione: si avvicinò e afferrò il pomolo. Un dolore straziante gli bruciò la mano. Urlò e ritrasse il braccio con gli occhi sbarrati. Sottili spire di fumo si alzavano dal palmo ustionato: un intrico di linee gli si era impresso a fuoco sulla pelle. Sembrava una piccola stella di Davide dentro un cerchio, con rune delicate in ciascuno degli spazi tra le linee. Era un dolore al calor bianco. Simon chiuse le dita sul palmo e un singulto gli salì alle labbra. — E questo cos'è? — sussurrò, pensando che nessuno potesse sentirlo. — È il Sigillo di Salomone — rispose una voce. — Dicono che contenga uno dei Veri Nomi di Dio. Respinge i demoni, e anche quelli della tua razza. Simon si raddrizzò di scatto, quasi dimenticando il dolore alla mano. — Chi sei? Chi ha parlato? Ci fu un silenzio. Poi: — Sono nella cella accanto alla tua, Diurno — disse la voce. Era una voce maschile, adulta, lievemente roca. — Le guardie sono rimaste qui sotto mezza giornata per pensare a come tenerti in gabbia. Quindi, se fossi in te, non perderei tempo a cercare di fuggire. Faresti meglio a conservare le forze, finché non avrai scoperto che cosa vuole da te il Conclave. — Non possono trattenermi qui — protestò Simon. — Io non appartengo a questo mondo. La mia famiglia si accorgerà che non ci sono... i miei insegnanti... — Se ne sono occupati loro. Ci sono degli incantesimi abbastanza semplici (li saprebbe fare anche uno stregone principiante) che possono dare ai tuoi genitori l'illusione che ci sia una ragione perfettamente legittima per la tua assenza. Una gita scolastica, una visita ai nonni... Si può fare. — Non c'era minaccia nella sua voce, né dolore: erano dati di fatto. — Pensi che non abbiano mai fatto sparire un Nascosto? — Tu chi sei? — La voce di Simon si spezzò. — Sei un Nascosto anche tu? È qui che ci tengono? Questa volta non ci fu risposta. Simon lo chiamò di nuovo, ma evidentemente il suo vicino di cella aveva deciso che non aveva altro da dire. Nulla rispose alle grida di Simon se non il silenzio. Il dolore alla mano si era smorzato. Guardandola, Simon vide che la pelle non era più ustionata, ma il marchio del sigillo era rimasto impresso sul palmo, come se fosse stato disegnato con l'inchiostro. Si voltò verso le sbarre della cella e si accorse che non tutti i segni erano rune: incise tra una runa e l'altra c'erano stelle di Davide e parole della Torah in ebraico. Le incisioni sembravano appena fatte. Le guardie sono rimaste qui mezza giornata per pensare a come tenerti in ingabbia, aveva detto la voce. Ma, per assurdo, non era solo perché Simon era un vampiro, ma anche perché era ebreo. Avevano passato mezza giornata a incidere il sigillo di Salomone sul pomolo della porta, così, se Simon l'avesse toccato, si sarebbe ustionato. C'era voluto del tempo per rivoltare contro di lui i cardini della sua stessa fede. Per qualche ragione, questo ragionamento strappò via ciò che restava della sua forza d'animo. Si lasciò cadere sul letto e si prese la testa tra le mani. Princewater Street era buia quando Alec tornò dalla Guardia: le finestre delle case erano chiuse da imposte o da tende. Solo qualche lampione sparso disegnava sull'acciottolato un cerchio di stregaluce bianca. La casa dei Penhallow era la più luminosa dell'isolato: alle finestre ardevano candele e la porta d'ingresso, appena socchiusa, lasciava filtrare una striscia di luce gialla che si stampava sul vialetto. Jace era seduto sul muretto di pietra che delimitava il giardino dei Penhallow. I suoi capelli erano illuminati dalla luce di un vicino lampione. Alzò gli occhi, quando Alec si avvicinò, e rabbrividì un poco: indossava solo una giacca, osservò Alec, ma si era fatto freddo, da quando il sole era tramontato. Il profumo delle ultime rose aleggiava sottile nell'aria fresca. Alec si sedette pesantemente sul muretto accanto a Jace. — Sei rimasto qui ad aspettarmi per tutto questo tempo? — Chi l'ha detto che stavo aspettando te? — È andato tutto bene, se è questo che ti preoccupa. Ho lasciato Simon con l'Inquisitore. — L'hai lasciato con lui? Non sei rimasto per assicurarti che tutto filasse liscio? — È andato tutto bene — ripetè Alec. — L'Inquisitore ha detto che l'avrebbe portato dentro personalmente e che l'avrebbe rimandato... — L'Inquisitore ha detto, l'Inquisitore ha detto... — l'interrupe Jace. — Ti ricordo l'ultima volta che abbiamo avuto a che fare con uno di loro. L'Inquisitrice Herondale è andata ben oltre il suo ruolo e, se non fosse morta, il Conclave l'avrebbe sollevata dall'incarico, forse l'avrebbe persino maledetta. Chi mi dice che questo Inquisitore non sia un altro pazzo da legare? — Mi sembrava uno a posto — si giustificò Alec. — Addirittura simpatico. Con Simon è stato molto cortese. Senti, Jace: è così che lavora il Conclave. Noi non possiamo avere il controllo su tutto ciò che succede. Dobbiamo fidarci di loro, altrimenti sarà il caos. — Ultimamente, però, hanno combinato un sacco di guai, questo lo devi ammettere. — Forse — rispose Alec. — Ma se cominci a pensare di saperne più del Conclave, e anche della Legge, diventi come l'Inquisitrice. O come Valentine. Jace trasalì. Era come se Alec gli avesse tirato un pugno. Alec si sentì sprofondare. — Scusa — gli disse, tendendogli la mano. — Non volevo offenderti... Un raggio di intensa luce gialla tagliò il giardino all'improvviso. Alec alzò gli occhi e vide Isabelle incorniciata nella porta aperta. Era solo una sagoma in controluce, ma dalle mani sui fianchi si capiva che era irritata. — Che diavolo ci fate, voi due, là fuori? — esclamò. — Qui ci stavamo tutti chiedendo dove eravate finiti. Alec tornò a rivolgersi al suo amico. — Jace... Ma Jace, alzandosi in piedi, ignorò la mano tesa di Alec. — Sarà meglio per te che le tue idee sul Conclave siano giuste — fu tutto quello che disse. Alec rimase a guardare Jace che rientrava in casa a grandi passi. Non richiesta, la voce di Simon gli tornò alla mente. Ora mi chiedo di continuo se si può tornare indietro, dopo una cosa simile. Se potremo di nuovo essere amici o se quello che avevamo è andato in frantumi. Non per causa sua, ma mia. La porta si richiuse, lasciando Alec da solo nel giardino semibuio. Chiuse gli occhi per un momento e gli apparve dietro le palpebre l'immagine di un volto. Non di Jace, per una volta. Gli occhi di quel viso erano verdi, con la pupilla a fessura. Occhi da gatto. Alec riaprì gli occhi, prese dalla borsa a tracolla una penna e strappò un foglio dal bloc notes a spirale che usava come diario. Vi scrisse poche parole e poi tracciò con lo stilo la runa del fuoco. La fiamma avvolse il foglio con inaspettata rapidità. Alec aprì le dita e il foglio in fiamme si librò a mezz'aria come una lucciola. Poco dopo, rimase soltanto un filo sottile di cenere, che si posò come polvere bianca sul roseto. capitolo 5 UN PROBLEMA DI MEMORIA La luce del pomeriggio svegliò Clary. Una pallida luminescenza le bagnava il viso, illuminandole le palpebre di un rosa intenso. Clary si agitò inquieta tra le lenzuola e con cautela aprì gli occhi. La febbre era sparita, come pure la sensazione delle ossa che le si scioglievano dentro. Si tirò su e si guardò intorno incuriosita. La camera in cui si trovava era probabilmente la stanza degli ospiti di Amatis. Era piccola e dipinta di bianco. Sul letto c'era una coperta a quadri di lana dai colori vivaci. Tendine di pizzo velavano le finestre rotonde lasciando entrare cerchi di luce. Clary si mise a sedere lentamente, aspettandosi di essere presa dalle vertigini. Ma non successe nulla. Si sentiva in perfetta forma, persino riposata. Scese dal letto e si guardò. Qualcuno le aveva infilato un pigiama bianco troppo grande per lei: le maniche le penzolavano comicamente sotto le mani. Si avvicinò a una delle finestre tonde e sbirciò fuori. Lungo il fianco di una collina sorgevano molte case di pietra color oro antico, ammassate le une sulle altre, con tetti rivestiti da tegole che parevano di bronzo. Questo lato della casa di Amatis non dava sul canale, ma su un angusto giardinetto che, con l'autunno, si stava tingendo di bruno e oro. Un graticcio per rampicanti era appoggiato sul fianco della casa: un'unica rosa tardiva vi restava ancora appesa, coi petali vizzi e anneriti. La maniglia della porta si mosse e Clary si rimise a letto in tutta fretta. Entrò Amatis, con un vassoio in mano: inarcò le sopracciglia vedendola sveglia, ma non disse nulla. — Dov'è Luke? — chiese subito Clary, stringendosi alpetto la coperta, come in cerca di rassicurazione. Amatis appoggiò il vassoio sul tavolino accanto al letto. C'era una tazza con qualcosa di caldo e qualche fetta di pane imburrato. — Dovresti mangiare qualcosa — le disse. — Ti sentirai meglio. — Sto già bene — disse Clary. — Dov'è Luke? C'era una poltrona dallo schienale alto, accanto al tavolino. Amatis vi si sedette, incrociò le mani in grembo e osservò Clary con calma. Ora, alla luce del giorno, si vedevano meglio le linee che le segnavano il volto: sembrava più vecchia di diversi anni rispetto alla madre di Clary, anche se non doveva esserci molta differenza d'età. I suoi capelli castani erano striati di grigio, gli occhi arrossati, come se avesse pianto. — Non è qui. — "Non è qui" nel senso che è uscito un attimo a prendere sei lattine di coca e dei biscotti o "non è qui" nel senso... — Se n'è andato stamattina all'alba dopo averti vegliato per tutta la notte. Sulla destinazione, non è stato molto preciso. — Il tono di Amatis era asciutto e, se Clary non si fosse sentita a pezzi, avrebbe potuto trovare divertente il fatto che quel modo di parlare la faceva somigliare a Luke. — Quando viveva qui, prima di andarsene da Idris, prima di essere... trasformato, comandava un branco di lupi nella foresta di Brocelind. Mi ha detto che voleva tornare da loro, ma non mi ha voluto dire né perché né per quanto tempo. Penso che sarà di ritorno tra qualche giorno. — Quindi mi ha... mollato qui? E io dovrei restarmene qui seduta ad aspettare che torni? — Be', non poteva certo portarti con sé — replicò Amatis. — E non sarà facile per te tornare a casa. Hai infranto la Legge, venendo qui, e il Conclave non ci passerà sopra, né ti farà tornare a casa tanto facilmente. — Io non voglio tornare a casa. — Clary cercò di mantenere il controllo. — Sono venuta qui per... per incontrare una persona. Ho una cosa da fare. — Luke me l'ha detto — commentò Amatis. — Lascia che ti dia un consiglio: troverai Ragnor Fell solo se lui vorrà essere trovato. — Ma... — Clarissa. — Amatis la osservò con occhio indagatore. — Ci attendiamo un attacco di Valentine da un momento all'altro. Quasi tutti gli Shadowhunters di Idris sono qui in città, protetti dalle difese. Stare ad Alicante è la cosa più sicura per te. Clary rimase impietrita. Razionalmente, le parole di Amatis avevano un senso, ma non servivano a placare la voce che, dentro di lei, le gridava di non aspettare. Doveva trovare Ragnor Fell adesso. Doveva salvare sua madre adesso, doveva andare adesso. Ricacciò giù il panico e cercò di parlare come se nulla fosse. — Luke non mi ha mai detto che aveva una sorella. — No — commentò Amatis. — Non è una cosa che direbbe. Non eravamo più molto... legati. — Luke ha detto che il tuo cognome è Herondale — osservò Clary. — È lo stesso dell'Inquisitrice, giusto? — Sì — confermò Amatis, e il suo viso si irrigidì, come se le parole la facessero soffrire. — Era mia suocera. Clary ripensò a quello che le aveva raccontato Luke, a proposito dell'Inquisitrice. Che aveva un figlio e che questo figlio aveva sposato una donna con "legami familiari indesiderabili". — Tu eri sposata con Stephen Herondale? Amatis si sorprese. — Conosci il suo nome? — Sì. Me ne ha parlato Luke. Ma credevo che sua moglie fosse morta. Credevo che fosse per questo che l'Inquisitrice era così... — orribile, avrebbe voluto dire, ma sembrava una cosa crudele. — Amareggiata — disse infine. Amatis prese la tazza che aveva portato. La sua mano tremò leggermente nel sollevarla. — Sì, sua moglie è morta. Si è suicidata. Ma era Celine, la sua seconda moglie. Io ero la prima. — E avete divorziato? — Qualcosa del genere. — Amatis allungò la tazza a Clary. — Senti, bevi questo. Devi mettere qualcosa nello stomaco. Distrattamente, Clary prese la tazza e mandò giù una bella sorsata. Il liquido aveva un sapore intenso e salato: non era tè, come aveva pensato, ma brodo. — Okay — disse. — E poi, cos'è successo? Amatis guardava lontano. — Eravamo nel Circolo, io e Stephen, insieme a tutti gli altri. Quando Luke venne trasformato, Valentine ebbe bisogno di un nuovo comandante in seconda. E scelse Stephen. E quando lo scelse, decise che non era opportuno che la moglie del suo più stretto collaboratore avesse un fratello... — Lupo mannaro. — Lui usò un altro termine. — La voce di Amatis era piena di amarezza. — Convinse Stephen ad annullare il nostro matrimonio e a trovarsi un'altra moglie, una che Valentine aveva scelto per lui. Celine era molto giovane e totalmente obbediente. — È orribile. Amatis scosse la testa con una risatina. — È stato tanto tempo fa. Stephen fu gentile con me, tutto sommato. Mi lasciò questa casa e tornò a vivere nella tenuta degli Herondale, coi suoi genitori e con Celine. Non lo rividi più. Lasciai il Circolo, naturalmente: non mi avrebbero più voluto. L'unica di loro che continuò a farmi visita fu Jocelyn. Mi tenne informata anche quando decise di andare in cerca di Luke... — Amatis si sistemò i capelli grigi dietro le orecchie. — Seppi di quello che era successo a Stephen nella Rivolta, dopo che tutto era finito. E Celine... l'avevo odiata, ma mi dispiacque per lei. Si tagliò le vene, dicono... sangue dappertutto... — Fece un respiro profondo. — Rividi Imogen al funerale di Stephen, quando deposero il suo corpo nel mausoleo degli Herondale. Fece finta di non conoscermi. La nominarono Inquisitrice poco tempo dopo. Il Conclave riteneva che nessun altro avrebbe dato la caccia agli ex membri del Circolo più spietatamente di lei. E avevano ragione. Se avesse potuto lavare via il ricordo di Stephen col loro sangue, l'avrebbe fatto. Clary pensò agli occhi gelidi dell'Inquisitrice, al suo sguardo duro e penetrante, e cercò di provare pietà per lei. — Secondo me, tutto questo l'ha fatta impazzire — commentò. — Impazzire sul serio. Con me è stata orribile, ma con Jace ha fatto anche peggio. Era come se lo volesse morto. — È comprensibile — disse Amatis. — Tu somigli molto a tua madre, e tua madre ti ha cresciuto, ma tuo fratello... — Inclinò la testa. — Lui somiglia a Valentine quanto tu somigli a Jocelyn? — No — rispose Clary. — Jace non somiglia a nessuno. — Un brivido la percorse, al pensiero di Jace. — È qui ad Alicante — disse, pensando ad alta voce. — Se potessi vederlo... — No. — Amatis parlò con asprezza. — Non puoi uscire da questa casa. Non puoi vedere nessuno. E sicuramente non puoi vedere tuo fratello. — Non posso uscire da questa casa? — Clary inorridì. — Vuoi dire che sono bloccata qui come una carcerata? — Solo per un paio di giorni — la riprese Amatis. — E poi, non stai bene. Hai bisogno di cure. L'acqua del lago ti ha quasi uccisa. — Ma Jace... — È uno dei Lightwood. Non puoi andare da loro. Se ti vedessero, comunicherebbero subito al Conclave che ti trovi qui. In quel caso, non saresti l'unica a essere nei guai con la Legge. Lo sarebbe anche Luke. Ma i Lightwood non mi tradirebbero davanti al Conclave. Non lo farebbero... Le parole le morirono sulle labbra. Non c'era modo di riuscire a convincere Amatis che i Lightwood che lei conosceva quindici anni prima non esistevano più, che Robert e Maryse non erano più due fanatici pronti a giurare cieca fedeltà al Conclave. Quella donna poteva anche essere la sorella di Luke, ma per Clary restava una sconosciuta. Era quasi una sconosciuta anche per Luke. Erano sedici anni che non si vedevano e, in tutto quel tempo, lui non l'aveva nominata una volta. Clary si appoggiò ai cuscini, fingendosi stanca. — Hai ragione — disse. — Non mi sento ancora bene. Forse farei meglio a dormire un po'. — Buona idea. — Amatis si avvicinò e le prese di mano la tazza vuota. — Se vuoi farti la doccia, il bagno è qui di fronte. E ai piedi del letto c'è un baule coi miei vecchi vestiti. A occhio e croce, dovresti avere la stessa taglia che avevo io alla tua età, quindi potrebbero andarti bene. Non come il pigiama — aggiunse con un flebile sorriso che Clary non ricambiò. Era troppo impegnata a combattere l'impulso di picchiare i pugni sul letto per la frustrazione. Nel momento in cui la porta si chiuse alle spalle di Amatis, Clary sgattaiolò giù dal letto e andò in bagno, sperando che una bella doccia l'aiutasse a schiarirsi le idee. Con sollievo scoprì che, sebbene gli Shadowhunters fossero così antiquati, non disdegnavano i moderni impianti idraulici con acqua corrente calda e fredda. C'era persino del sapone con un intenso profumo di agrumi, che Clary usò per togliersi dai capelli il persistente odore del lago Lyn. Quando emerse dal bagno, avvolta in due asciugamani, si sentiva molto meglio. In camera, frugò nel baule di Amatis. I suoi vestiti erano riposti ordinatamente fra strati di carta velina. Trovò delle divise scolastiche: maglioni di lana merino che avevano sul taschino uno stemma formato da quattro C disposte schiena contro schiena, gonne a pieghe, camicette con il colletto a bottoncini e i polsini stretti. C'era anche un vestito bianco avvolto in strati di carta leggera: un abito da sposa, pensò Clary, e lo mise da parte con molta cura. Sotto, c'era un altro vestito: era di raso argenteo, leggero come una garza, con sottili spalline ornate di lustrini. Clary non riusciva a immaginare Amatis con quel vestito, ma... Questo è il genere di cose che mia madre avrebbe messo per andare a ballare con Valentine. Non riuscì a trattenere quel pensiero e lasciò scivolare il vestito nel baule. Il tessuto era morbido e fresco tra le dita. E poi, proprio sul fondo del baule, c'era la tenuta nera da Cacciatrice. Clary la tirò fuori e se l'appoggiò sulle ginocchia con curiosità. La prima volta che aveva visto Jace e i Lightwood, erano in tenuta da battaglia: giubba e pantaloni aderenti, di materiale scuro e resistente. Ora, da vicino, constatò che il materiale non era elastico: era un cuoio sottile, lavorato fino a renderlo flessibile. La giubba aveva la zip e i pantaloni avevano passanti complicati: le cinture degli Shadowhunters erano grandi e robuste, fatte per appenderci le armi. Avrebbe dovuto mettersi una camicetta e forse una gonna, pensò Clary. Era questo che probabilmente Amatis aveva in mente per lei. Ma la tenuta da battaglia l'attirava. Era sempre stata curiosa di sapere che effetto facesse... Qualche minuto dopo, gli asciugamani erano appesi ai piedi del letto e Clary si osservava allo specchio, sorpresa di sé e non poco divertita. La tenuta da Cacciatrice le stava a pennello: era aderente ma non troppo e le abbracciava le curve delle gambe e del petto. Anzi, creava l'impressione che Clary avesse delle curve, il che era una sorta di novità. Non riusciva a farla sembrare una terribile guerriera (Clary dubitava fortemente che esistesse qualcosa in grado di arrivare a tanto), ma se non altro la faceva sembrare più alta e i capelli, in contrasto col tessuto scuro, apparivano straordinariamente luminosi. In effetti... somiglio a mia madre, pensò Clary con un tuffo al cuore. Ed era vero. Jocelyn aveva sempre avuto un filo di durezza d'acciaio sotto l'apparenza da bambolina. Clary si era spesso chiesta che cosa fosse successo nel passato di sua madre per renderla così: forte e inflessibile, tenace e impavida. Tuo fratello somiglia a Valentine quanto tu somigli a Jocelyn?, le aveva chiesto Amatis, e Clary avrebbe voluto rispondere che lei non somigliava affatto a sua madre, che sua madre era bellissima e lei invece no. Ma la Jocelyn che Amatis aveva conosciuto era la ragazza che aveva complottato per fermare Valentine, stipulando l'alleanza tra i Nephilim e i Nascosti che aveva spezzato il Circolo e salvato gli Accordi. Quella Jocelyn non avrebbe mai accettato di starsene buona buona in casa ad aspettare, mentre il resto del mondo cadeva in frantumi. Senza fermarsi a pensare, Clary andò alla porta e chiuse il chiavistello. Poi si avvicinò alla finestra e l'aprì. Il graticcio aggrappato al muro esterno era... come una scala, si disse Clary. Proprio come una scala. ..e le scale sono perfettamente sicure. Fece un respiro profondo e scavalcò il davanzale. Le guardie tornarono a prendere Simon il mattino seguente. Lo scrollarono per svegliarlo da un sonno inquieto e pieno di strani sogni. Questa volta non lo bendarono per salire ai piani superiori, così Simon potè lanciare una rapida occhiata oltre le sbarre della cella accanto alla sua. Ma se aveva sperato di poter vedere il proprietario della voce roca che aveva parlato con lui la sera prima, rimase deluso. L'unica cosa visibile oltre le sbarre era un mucchio di stracci buttati in un angolo. Le guardie portarono Simon lungo una serie di grigi corridoi: marciavano a passo rapido ed erano pronte a dargli una scrollata se si soffermava a guardare qualcosa troppo a lungo. Alla fine, arrivarono in una stanza riccamente rivestita di carta da parati. Alle pareti c'erano ritratti di uomini e donne in tenuta da battaglia entro cornici decorate da rune. Sotto uno dei ritratti più grandi c'era un divano rosso, sul quale era seduto l'Inquisitore con una specie di coppa d'argento in mano. La offrì a Simon. — Sangue? — gli chiese. — Sarai affamato ormai. — Inclinò la coppa verso Simon. La vista del liquido rosso che conteneva lo colpì con forza, come pure l'odore. Ogni sua vena sembrò tendersi verso quel sangue come i fili di una marionetta mossi da un burattinaio. La sensazione fu sgradevole, quasi dolorosa. — È... umano? Aldertree ridacchiò. — Ragazzo mio! Non essere ridicolo. È sangue di cervo. Freschissimo. Simon non disse niente. Il labbro inferiore gli pizzicava, dove i canini erano usciti dal loro alveo. Sentì in bocca il gusto del proprio sangue, che lo riempì di nausea. La faccia di Aldertree si arricciò come una prugna secca. — Santo cielo. — Si girò verso le guardie. — Ora lasciateci soli — ordinò. Le guardie si allontanarono. Solo il Console, fermo sulla soglia, lanciò a Simon un'occhiata di palese disgusto. — No, grazie — disse Simon, con la gola secca. — Non voglio il sangue. — I tuoi canini dicono una cosa diversa, giovane Simon — osservò Aldertree giovialmente. — Tieni. Bevilo. — Protese la coppa verso di lui e l'odore del sangue sembrò diffondersi per tutta la stanza come il profumo delle rose inun giardino. I canini di Simon si sguainarono come lame, in tutta la loro lunghezza, e affondarono nel labbro. Il dolore fu come uno schiaffo. Simon si mosse, quasi contro la sua volontà, prese con foga la coppa dalla mano dell'Inquisitore e la scolò in tre sorsi. Poi, rendendosi conto di ciò che aveva fatto, la appoggiò sul bracciolo del divano. La mano gli tremava. Inquisitore uno, Simon zero, pensò. — Spero che la notte in cella non sia stata troppo sgradevole. Quelle celle non sono pensate come camere di tortura, ragazzo, ma piuttosto come spazi di riflessione forzata.La riflessione aiuta a centrare la mente, non ti pare? È essenziale, per schiarirsi le idee. Spero proprio che tu ti siafatto qualche bel ragionamento là dentro. Sembri un giovanotto riflessivo. Ho portato giù quella coperta personalmente, sai? — disse l'Inquisitore con un cenno del capo. — Non vorrei mai che tu sentissi freddo. — Sono un vampiro — gli ricordò Simon. — Noi non sentiamo freddo. — Oh — fece l'Inquisitore con delusione. — Però ho apprezzato molto le stelle di Davide e il sigillo di Salomone — aggiunse secco Simon. — È sempre bello, quando qualcuno s'interessa alla mia religione. — Ah sì, ma certo, ma certo! — Aldertree s'illuminò. — Meravigliose, quelle incisioni, vero? Assolutamente affascinanti e, naturalmente, infallibili. Qualsiasi tentativodi toccare la porta della cella ti scioglierebbe la pelle delle mani! — Ridacchiò, chiaramente divertito al pensiero. — Comunque, potresti fare un passo indietro per me, giovanotto? Come favore, come semplice favore, capisci? Simon fece un passo indietro. Non successe niente, ma gli occhi gonfi dell'Inquisitore si sgranarono, sulla pelle tesa e lucida della faccia. — Vedo, vedo — disse con un filo di fiato. — Vede cosa? — Guarda dove sei, giovane Simon. Guardati intorno. Simon si guardò intorno. Non era cambiato nulla nella stanza e gli ci volle un momento per capire che cosa intendesse Aldertree: Simon era in una chiazza di sole che entrava di sghembo da un'alta finestra. Aldertree non stava nella pelle per l'entusiasmo. — Sei sotto la luce diretta del sole e questo non ha alcuna conseguenza su di te. Non ci volevo credere... Voglio dire, mi era stato riferito, naturalmente, ma non avevo mai visto niente di simile prima d'ora. Simon non disse niente. Non gli sembrava che ci fosse qualcosa da aggiungere. — La domanda che ti faccio — proseguì Aldertree — è: tu sai perché sei così? — Forse perché sono più simpatico degli altri vampiri. — Simon si pentì immediatamente di aver parlato. Gli occhi di Aldertree si socchiusero e una vena gli si gonfiò sulla tempia, come un grasso verme. Era chiaro che non gradiva le battute di spirito, a meno che non fossero le sue. — Molto divertente, molto divertente — disse. — Allora ti chiedo: sei sempre stato un Diurno, sin dal momento in cui sei uscito dalla tomba? — No. — Simon parlò con cautela. — No. All'inizio il sole mi bruciava. Anche un unico raggio di luce mi avrebbe scottato la pelle. — Appunto. — Aldertree annuì vigorosamente, come a significare che era quello il modo in cui le cose sarebbero dovute andare. — E quando, esattamente, ti sei accorto che potevi stare alla luce del giorno senza soffrire? — È stato la mattina dopo la grande battaglia sulla nave di Valentine... — Durante la quale sei stato catturato da Valentine, è giusto? Ti ha catturato e ti ha tenuto prigioniero sulla nave, con l'intenzione di usare il tuo sangue per completare il Rituale della Trasformazione Infernale. — Mi pare che lei sappia già tutto — disse Simon. — Non le servo a granché. — Oh, no, niente affatto! — esclamò Aldertree alzandole mani al cielo. Aveva delle mani molto piccole, osservòSimon, così piccole che sembravano un po' fuori luogo, attaccate in fondo a quelle braccia grassocce. — Tu mi puoi essere molto utile, mio caro ragazzo! Per esempio, non posso evitare di chiedermi se, sulla nave, è successo qualcosache ti ha cambiato. Non ti viene in mente niente? Ho bevuto il sangue di Jace, pensò Simon, quasi propenso a riferirlo all'Inquisitore solo per dargli fastidio. Ma poi, con un sussulto, si rese conto di quel che aveva fatto: Ho bevuto il sangue di Jace! Che fosse stato proprio quello, a cambiarlo? Era possibile? E, possibile o impossibile che fosse, Simon poteva rivelare all'Inquisitore quello che Jace aveva fatto? Proteggere Clary era una cosa, proteggere Jace un'altra. Simon non gli doveva niente. Ma non era del tutto vero: Jace gli aveva offerto il proprio sangue e con quello gli aveva salvato la vita. Un altro Shadowhunter l'avrebbe fatto, per un vampiro? E, supponendo che Jace l'avesse fatto solo per amore di Clary, faceva differenza? Ripensò alle proprie parole: Avrei potuto ucciderti. E Jace: Te l'avrei lasciato fare. Chissà in che guai si sarebbe cacciato Jace se il Conclave avesse saputo che aveva salvato la vita di Simon e in quale modo. — Non ricordo niente di quello che è successo sulla nave — disse Simon. — Credo che Valentine mi abbia drogato. La faccia di Aldertree si ammosciò. — Questa è una notizia terribile. Terribile. Mi dispiace così tanto sentirtela dire. — Dispiace anche a me — disse Simon, anche se non era per niente vero. — Quindi, non c'è proprio niente che ricordi, nessun dettaglio pittoresco... — Ricordo solo che quando Valentine mi ha aggredito sono svenuto. E quando finalmente mi sono risvegliato... ero sul pick-up di Luke, diretto a casa. Non ricordo nient'altro. — Santo cielo, santo cielo. — Aldertree raccolse le falde del mantello intorno a sé. — Vedo che i Lightwood ti vogliono piuttosto bene. Ma gli altri membri del Conclave non saranno così... comprensivi. Tu sei stato catturato da Valentine, sei uscito da quello scontro con un nuovo e particolarissimo potere che prima non avevi e adesso hai trovato il modo di arrivare nel cuore di Idris. Lo capisci anche tu come le cose possono sembrare, viste dall'esterno? Se il cuore di Simon avesse potuto battere, ora avrebbe battuto all'impazzata. — Lei pensa che io sia una spia di Valentine! Aldertree lo guardò scandalizzato. — Ragazzo mio, ragazzo mio... Io mi fido di te, naturalmente. Mi fido di te implicitamente! Ma il Conclave... Oh, il Conclave... Temo che loro saranno molto sospettosi. Speravamo tanto che tu potessi aiutarci. Capisci? E poi... non dovrei dirtelo, ma sento che posso fidarmi di te, caro il mio ragazzo. Sai, il Conclave è in guai molto seri. — Il Conclave? — Simon era stordito. — Ma cosa ha a che fare questo con... — Devi sapere — proseguì Aldertree — che il Conclave è spaccato in due: una guerra intestina, diciamo, in tempo di guerra. Sono stati commessi degli errori, dalla precedente Inquisitrice e da altri. Ma non è il caso di soffermarsi su questo. Però, vedi, ora è la stessa autorità del Conclave, del Console e dell'Inquisitore che viene messa in dubbio. Valentine sembra sempre un passo avanti rispetto a noi, come se conoscesse in anticipo i nostri piani. Il Consiglio non vuole ascoltare i miei suggerimenti, né quelli di Malachi, non dopo quello che è successo a New York. — Credevo che fosse l'Inquisitrice a... — Fu Malachi a conferirle l'incarico. Naturalmente, non poteva prevedere che lei sarebbe impazzita fino a quel punto... — Però — osservò Simon un po' acido — il problema è sempre di come le cose sembrano, viste dall'esterno. La vena sulla fronte di Aldertree si gonfiò di nuovo. — Bravo — commentò. — Sei perspicace. Le apparenze sono molto importanti, specialmente in politica. Puoi condizionare le masse a tuo piacere, a patto che tu abbia una buona storia. — Si protese in avanti con gli occhi inchiodati in quelli di Simon. — Ti voglio raccontare io una storia, che inizia così. Una volta i Lightwood erano nel Circolo. A un certo punto rinnegarono il Circolo, ma ottennero clemenza, a condizione che rimanessero fuori dai confini di Idris, si trasferissero a New York e assumessero la direzione dell'Istituto. Con il loro impeccabile comportamento cominciarono a riacquistare la fiducia del Conclave. Però sapevano che Valentine era ancora vivo: loro sono sempre rimasti suoi fedeli servitori. Hanno accolto suo figlio. — Ma non sapevano che... — Zitto — ringhiò l'Inquisitore, e Simon chiuse subito la bocca. — Loro l'hanno aiutato a trovare gli Strumenti Mortali e l'hanno assistito nel Rituale della Trasformazione Infernale. L'Inquisitrice aveva scoperto che cosa stavano complottando, e per questo hanno fatto in modo che restasse uccisa durante la battaglia sulla nave. E adesso i Lightwood sono qui, nel cuore del Conclave, per spiare i nostri piani e rivelarli a Valentine, in modo che lui possa sconfiggerci e piegare tutti i Nephilim alla sua volontà. Per giunta hanno portato anche te, un vampiro che sopporta la luce del sole. Per distrarci dai loro veri piani: riportare il Circolo alla sua gloria iniziale e distruggere la Legge. — L'Inquisitore si protese verso Simon coi suoi occhietti suini che brillavano. — Che ne dici di questa storia, vampiro? — Dico che è pura follia — rispose Simon. — E ha più buchi di Kent Avenue a Brooklyn, che, per inciso, non viene riasfaltata da anni. Non capisco dove spera di arrivare con questa... — Sperare? — ripetè Aldertree. — Io non spero, Nascosto. Io so, per certo; nel profondo del cuore. So che è mio sacro dovere salvare il Conclave. — Con una menzogna? — chiese Simon. — Con una buona storia — lo corresse Aldertree. — Tutti i grandi politici intessono grandi storie per ispirare il loro popolo. — Non c'è niente che possa ispirare, nell'incolpare i Lightwood di tutto. — Qualcuno deve essere sacrificato — dichiarò Aldertree. La sua faccia era lucida di sudore appicicaticcio. — Se il Consiglio avrà un nemico comune, se avrà una ragione per tornare a fidarsi del Conclave, potrà ricompattarsi. Che cosa vale un'unica famiglia in confronto a tutto questo? Comunque, non credo che possa succedere granché, ai ragazzi Lightwood. Loro non verranno incolpati di niente. Be', forse il più grande, ma gli altri... — Lei non può fare questo! — esclamò Simon. — Nessuno crederà alla sua storia. — La gente crede a quello che vuole credere — commentò Aldertree. — E il Conclave vuole un capro espiatorio. Io glielo posso dare. Ma per farlo, mi servi tu. — Io? Cosa c'entro io? — Devi confessare! — La faccia dell'Inquisitore era scarlatta per l'eccitazione. — Devi confessare di essere al servizio dei Lightwood e di essere in combutta con Valentine. Confessa, e io sarò clemente con te. Ti rimanderò tra la tua gente. Te lo giuro. Ma ho bisogno della tua confessione, perché il Conclave possa credere alla mia versione. — Lei vuole che io confessi il falso — replicò Simon. Sapeva che stava solo ripetendo quello che l'Inquisitore aveva già detto, ma la sua mente turbinava di pensieri e non riusciva ad afferrarne nemmeno uno. Le facce dei Lightwood gli vorticavano nella testa: Alec, che trasaliva mentre salivano insieme alla Guardia, gli occhi scuri di Isabelle sollevati verso i suoi; Max chino sul suo libro. E Jace. Jace era uno di loro, era come se avesse il loro sangue nelle vene. L'Inquisitore non aveva fatto il suo nome, ma Simon sapeva che anche Jace avrebbe pagato, con tutti gli altri. E se lui avesse sofferto, Clary avrebbe sofferto. Come gli era capitato, pensò Simon, di trovarsi così legato a queste persone? A queste persone che vedevano in lui solo un Nascosto, un mezzosangue nel migliore dei casi? Sollevò gli occhi verso quelli dell'Inquisitore. Erano di uno strano colore, neri come il carbone: guardarli era come guardare nelle tenebre. — No — disse. — No, non lo farò mai. — Il sangue che ti ho offerto — disse Aldertree — è tutto quello che avrai, finché non mi darai una risposta diversa.— Non c'era gentilezza nella sua voce, nemmeno falsa. —Ti sorprenderà quanto possa essere feroce la tua sete. Simon non disse nulla. — Un'altra notte in cella, allora — concluse l'Inquisitore alzandosi in piedi e prendendo la campanella sul tavolino per chiamare le guardie. — È un posto tranquillo, vero? Ritengo che un'atmosfera tranquilla possa essere di grande aiuto a chi ha problemi di memoria, non trovi? Clary era convinta di poter ricordare la strada fatta con Luke, la sera prima, ma non era così. Puntare verso il centro della città le sembrò l'idea migliore per orientarsi ma, una volta ritrovato il cortile di pietra col pozzo, non sapeva più se andare a destra o a sinistra. Optò per la sinistra e finì in un dedalo di stradine serpeggianti, tutte uguali, perdendosi sempre di più a ogni svolta. Finalmente sbucò in una strada più grande, costeggiata di negozi. Passavano numerosi pedoni, ma nessuno la degnava di una seconda occhiata. Alcuni di loro erano in tenuta da battaglia, ma la maggior parte era in borghese. L'aria era fredda e quasi tutti indossavano cappotti lunghi e fuori moda. Il vento era pungente e Clary pensò con rimpiangito al suo bel cappotto di velluto verde, appeso nella stanza, degli ospiti di Amatis. Luke non aveva mentito, quando le aveva detto che gli Shadowhunters erano venuti dai quattro angoli del mondo per il summit. Clary incrociò una donna indiana con un magnifico sari dorato e un paio di lame ricurve appese a una catena alla cintura. Un uomo alto, con la pelle scura e i tratti spigolosi degli Aztechi, guardava la vetrina di un'armeria; aveva i polsi coperti di braccialetti che erano fatti dello stesso materiale duro e luminoso delle torri antidemoni. Più in là, un uomo con una tunica bianca da nomade consultava una mappa della città. Fu questo a dare a Clary il coraggio di avvicinarsi a una donna imbacuccata in un pesante cappotto di broccato per chiederle la strada per Princewater Street. Se c'era un momento in cui gli abitanti della città non si sarebbero insospettiti davanti a qualcuno che non sapeva dove andare, il momento era quello. Il suo istinto non sbagliava: senza la minima esitazione, la donna le diede una rapida serie di indicazioni. — E poi a destra, alla fine dell'Oldcastle Canal. Attraversi il ponte di pietra e arrivi a Princewater Street. — Le sorrise. — Cerchi qualcuno in particolare? — I Penhallow. — Oh, è la casa blu coi profili dorati. Il retro dà sul canale. È grande. Non puoi sbagliare. Un po' si sbagliò. La casa era grande, ma Clary la oltrepassò, prima di rendersi conto dell'errore e di girarsi per guardarla meglio. Era color indaco, più che blu. Del resto, non tutti erano così attenti ai colori. La maggior parte della gente non sapeva distinguere tra un giallo limone e un giallo zafferano. Come se si somigliassero anche solo vagamente! E poi, i profili della casa non erano dorati: erano color bronzo, un bel bronzo scuro, come se fosse lì da molti anni. Tutto, in quella città, era così antico... Basta!, si rimproverò Clary. Faceva sempre così, quando era nervosa: lasciava vagare la mente a casaccio. Si sfregò le mani sulle gambe dei pantaloni: aveva i palmi umidi e sudati. Al contatto, il tessuto era ruvido e secco, come pelle di serpente. Salì i gradini dell'ingresso e sollevò il pesante batacchio. Aveva la forma di un paio d'ali d'angelo. Quando lo lasciò cadere, il suono riecheggiò all'interno come quello di un'enorme campana. Un attimo dopo la porta si spalancò e si affacciò Isabelle Lightwood, con gli occhi sgranati per la sorpresa. — Clary! Clary sorrise debolmente. — Ciao, Isabelle. Isabelle si appoggiò allo stipite della porta, con la faccia desolata. — Oh, cavoli. Di nuovo nella cella, Simon crollò sul letto, ascoltando i passi delle guardie che si allontanavano. Un'altra notte. Un'altra notte in prigione, in attesa che "ricordasse". Lo capisci anche tu come le cose sembrano, viste dall'esterno, si disse. Nemmeno nelle sue peggiori paure, nei suoi incubi più spaventosi, gli era mai venuto in mente che qualcuno potesse ritenerlo complice di Valentine. Valentine odiava i Nascosti, lo sapevano tutti. Valentine l'aveva accoltellato, gli aveva prosciugato il sangue e l'aveva lasciato lì a morire. Ma questo, bisognava ammetterlo, l'Inquisitore non lo sapeva. Sentì un fruscio dall'altra parte del muro. — Mi stavo chiedendo se saresti tornato — disse la stessa voce roca della notte precedente. — Suppongo che tu non abbia dato all'Inquisitore quello che vuole da te... — Credo di no — rispose Simon, avvicinandosi al muro. Passò le dita sulla pietra, come in cerca di una fessura, di un forellino da cui poter vedere, ma non c'era nulla. — Chi sei? — È un uomo ostinato, Aldertree — disse la voce, come se Simon non avesse parlato. — Continuerà a provarci. Simon si appoggiò al muro umido. — Allora prevedo che starò qui per un po'. — Immagino che tu non voglia dirmi che cosa vuole Aldertree da te. — E perché lo vuoi sapere? La risatina che rispose a Simon suonava come metallo che grattasse la pietra. — Sono in questa cella da più tempo di te, Diurno, e come vedi non c'è molto con cui tenere la mente occupata. Qualsiasi distrazione può essermi d'aiuto. Simon s'intrecciò le dita sullo stomaco. Il sangue di cervo gli aveva tolto il pungolo della fame, ma non l'aveva placata. — Continui a chiamarmi in quel modo — disse. — Diurno. — Ho sentito le guardie chiamarti così. Un vampiro che può stare alla luce del sole. Nessuno ha mai visto niente di simile. — Eppure avete già una parola. Comodo. — È una parola dei Nascosti, non del Conclave. Ci sono leggende che parlano di creature come te. Mi sorprende che tu non le conosca. — Non è da molto tempo che sono un Nascosto — disse Simon. — E tu sembri sapere molte cose di me. — Alle guardie piace chiacchierare — spiegò la voce. — E i Lightwood che appaiono da un Portale con un vampiro moribondo e sanguinante... be', questa è una chiacchiera succulenta. Anche se, devo dire, non mi aspettavodi vederti comparire qui... Non finché non hanno iniziato a prepararti la cella. Mi sorprende che i Lightwood l'abbiano permesso. — Perché non avrebbero dovuto? — disse Simon amaramente. — Io non sono niente. Sono solo un Nascosto. — Forse per il Console — ragionò la voce. — Ma per i Lightwood... — Per i Lightwood, cosa? Ci fu una breve pausa. — Gli Shadowhunters che vivono fuori da Idris, soprattutto coloro che gestiscono gli Istituti, tendono a essere più tolleranti. Il Conclave, invece, è molto più... conservatore. — E tu? — chiese Simon. — Sei un Nascosto anche tu? — Un Nascosto? — Simon non ne era certo, ma gli parve di cogliere una punta di astio nella voce dello sconosciuto, come se la domanda l'avesse offeso. — Mi chiamo Samuel. Samuel Blackburn. Io sono un Nephilim. Anni fa ero nel Circolo, con Valentine. Io li ho massacrati, i Nascosti, nella Rivolta. Non sono uno di loro. — Ah — Simon deglutì la saliva. La sua bocca sapeva di sale. Ricordò che i membri del Circolo di Valentine erano stati catturati e puniti dal Conclave. Tutti, tranne quelli come i Lightwood, che erano riusciti a patteggiare o che avevano accettato l'esilio in cambio del perdono. — Sei qui dai tempi della Rivolta? — No. Dopo la Rivolta sono riuscito a scappare da Idris. Sono rimasto lontano per anni, e poi, stupidamente, pensando che mi avessero dimenticato, sono tornato. Ovviamente, mi hanno catturato appena ho messo piede a Idris. Il Conclave ha i suoi modi per rintracciare i nemici. Mi hanno trascinato davanti all'Inquisitrice e sono stato interrogato per giorni. Alla fine, mi hanno buttato qui dentro. — Samuel sospirò. — In francese, questo tipo di prigione si chiama oubliette. Significa "luogo dell'oblio", "dimenticatoio". È qui che si butta l'immondizia che non si vuole ricordare, perché marcisca senza disturbare nessuno con il suo fetore. — Okay. Io sono un Nascosto, quindi sono immondizia. Ma tu no. Tu sei un Nephilim. — Sono un Nephilim che era in combutta con Valentine. Per questo non sono migliore di te. Anzi, sono peggiore. Sono un traditore. — Ma ci sono un sacco di altri Shadowhunters che in passato erano membri del Circolo. I Lightwood, i Penhallow... — Si sono tutti pentiti e hanno voltato le spalle a Valentine. Io no. — Tu no? E perché? — Perché ho più paura di Valentine che del Conclave — rivelò Samuel. — E se tu fossi ragionevole, Diurno, anche tu avresti più paura di lui. — Ma tu dovresti essere a New York! — esclamò Isabelle. — Jace ci ha detto che avevi cambiato idea, che volevi restare con tua madre! — Jace ha mentito — disse Clary con voce incolore. — Era lui che non mi voleva qui, quindi ha mentito a me sull'ora della partenza e ha mentito a voi dicendovi che avevo cambiato idea. Ti ricordi che una volta mi hai detto che Jace non mente mai? Be', non è vero. — Di solito non lo fa — disse Isabelle, che era impallidita. — Senti, sei venuta qui per... voglio dire, tutto questo ha qualcosa a che fare con Simon? — Con Simon! No. Simon è al sicuro a New York, grazie a Dio. Anche se la prenderà malissimo, visto che non è nemmeno riuscito a salutarmi. — L'espressione vacua di Isabelle cominciava a darle fastidio. — Dai, Isabelle, fammi entrare, devo vedere Jace. — Allora... sei venuta qui per conto tuo? Hai avuto il permesso dal Conclave? Ti prego, dimmi che hai avuto il permesso dal Conclave. — Non esattamente... — Hai infranto la Legge! — Il tono di voce di Isabelle si alzò, poi crollò. Proseguì, quasi in un sussurro: — Se Jace lo scopre, comincerà a dare i numeri. Clary, tu devi tornare a casa. — No. Io devo stare qui — replicò Clary senza sapere bene da dove le venisse tutta quella testardaggine. — E devo parlare con Jace. — Ora non è un buon momento. — Isabelle si guardava intorno ansiosa, come sperando di vedere qualcuno a cui chiedere aiuto per allontanare Clary da quella casa. — Per favore, tornatene a New York, per favore. — Credevo di esserti simpatica, Izzy. — Clary giocò la carta del senso di colpa. Isabelle si mordicchiò un labbro. Indossava un abito bianco e aveva i capelli raccolti in alto. Sembrava più giovane del solito. Dietro di lei, Clary vide un ingresso dal soffitto alto, decorato da dipinti a olio dall'aria antica. — Certo che mi sei simpatica. È solo che Jace... Oddio, ma che cosa ti sei messa addosso? Dove l'hai trovata, quella tenuta da battaglia? Clary si guardò. — È una storia lunga. — Non puoi entrare in casa vestita così. Se Jace ti vede... — Be', e anche se mi vedesse? Isabelle, io sono venuta qui per mia madre... per mia madre! Forse Jace non mi vuole qui, ma non può costringermi a restare a casa. Io devo stare qui. Mia madre si aspetta che faccia questo per lei. Anche tu lo faresti, per tua madre, no? — Certo che lo farei — rispose Isabelle. — Ma, Clary, Jace ha le sue ragioni... — Allora gradirei molto conoscerle. — Clary passò sotto il braccio di Isabelle e sgattaiolò nell'ingresso della casa. — Clary! — gridò Isabelle lanciandosi all'inseguimento. Ma Clary era già a metà dell'ingresso. Notò, con la metà della mente che non era concentrata a schivare Isabelle, che la casa era simile a quella di Amatis, alta e stretta, ma decisamente più grande e più riccamente arredata. L'ingresso si apriva su una stanza con alte finestre affacciate su un ampio canale. Passavano sull'acqua bianche imbarcazioni, le vele come soffioni portati dal vento. Un ragazzo dai capelli neri era seduto su un divano, vicino a una delle finestre, immerso nella lettura. — Sebastian! — chiamò Isabelle. — Non farla salire di sopra! Il ragazzo alzò gli occhi, sorpreso, e un attimo dopo era di fronte a Clary, a sbarrarle l'accesso alle scale. Clary si fermò di scatto. Non aveva mai visto nessuno muoversi così rapidamente, a parte Jace. Il ragazzo non era per niente trafelato. Anzi, le stava sorridendo. — Dunque, questa è la famosa Clary. — Il sorriso gli illuminò il volto e Clary si sentì mancare il respiro. Per anni aveva disegnato una sua personale graphic novel, in continuo sviluppo: era la storia del figlio di un re colpito da una maledizione che faceva morire tutti quelli che amava. In lui, principe misterioso, romantico e tenebroso, aveva riversato tutte le sue fantasie. E ora eccolo lì, davanti ai suoi occhi: la stessa carnagione pallida, gli stessi capelli arruffati, gli occhi così scuri che le pupille sembravano fondersi nell'iride; gli stessi zigomi alti, gli stessi occhi profondi dalle lunghe ciglia. Clary era sicura di non aver mai visto prima quel ragazzo, eppure... Anche lui, del resto, sembrava confuso. — Forse ci siamo... già incontrati? — Senza parole, Clary scosse la testa. — Sebastian! — Isabelle era furiosa. I capelli le erano sfuggiti dalle mollette e le ricadevano sulle spalle. — Non fare il carino con lei. Non dovrebbe essere qui. Clary, tornatene a casa. Con uno sforzo, Clary distolse lo sguardo da Sebastian e lanciò un'occhiataccia a Isabelle. — A casa a New York? E come ci dovrei tornare? — Come ci sei venuta, qui? — le chiese Sebastian. — Intrufolarsi ad Alicante è una bella impresa. — Sono venuta attraverso un Portale — spiegò Clary. — Un Portale? — Isabelle era stupefatta. — Ma non ci sono più Portali, a New York. Valentine li ha distrutti tutti e due. — Non ti devo nessuna spiegazione — disse Clary. — Non finché non ne avrò io da te. Tanto per cominciare, dov'è Jace? — Non c'è — rispose Isabelle, nello stesso momento in cui Sebastian diceva: — È di sopra. Isabelle lo aggredì. — Sebastian! Chiudi quella bocca! Sebastian era perplesso. — Ma è sua sorella. Non credi che vorrebbe vederla? Isabelle aprì la bocca e poi la richiuse. Clary vedeva che stava valutando le opzioni: era meglio spiegare le complicate relazioni tra Clary e Jace a Sebastian, che era all'oscuro di tutto, o fare una brutta sorpresa a Jace? Alla fine alzò le braccia al cielo in un gesto sconsolato. — E va bene, Clary — disse, con una rabbia nella voce del tutto insolita per lei. — Vai, fai quello che ti pare, senza badare a chi farai soffrire. Tanto tu fai sempre così, no? Ahi. Clary le lanciò un'occhiata contrariata, poi guardò Sebastian, che si fece silenziosamente da parte. Volò su per le scale, vagamente consapevole delle voci al piano di sotto: era Isabelle che se la prendeva con Sebastian. Isabelle era fatta così: se c'era un ragazzo nei dintorni e una colpa da addossare a qualcuno, Isabelle l'avrebbe sicuramente addossata a lui. La scala portava a un pianerottolo con una finestra a bovindo che dava sulla città. Seduto nella strombatura della finestra, un ragazzino leggeva un libro. Alzò gli occhi su Clary e batté le palpebre, sorpreso. — Io ti conosco. — Ciao, Max, sono Clary... la sorella di Jace. Ti ricordi? — Max si illuminò. — Mi hai spiegato tu come si legge Naruto — esclamò mostrandole il giornalino. — Guarda, ne ho un altro. Questo si chiama... — Max, adesso non ho tempo. Ti prometto che più tardi guarderò il tuo giornalino. Ora, però, sai dirmi dov'è Jace? La faccia di Max si rattristò. — In quella stanza — disse, indicando l'ultima porta in fondo al corridoio. — Volevo andarci anch'io, con lui, ma mi ha detto che doveva fare delle cose da grandi. Non fanno che ripetermelo tutti, da quando siamo qui. — Mi dispiace — disse Clary, ma la sua mente non era già più lì, stava correndo avanti. Che cosa avrebbe detto a Jace? E che cosa le avrebbe detto lui! Avvicinandosi alla porta, pensava: Sarà meglio tenere un tono conciliante:se comincio a urlare, lui si metterà subito sulla difensiva. Deve capire che io qui sono al mio posto, esattamente come lui. Non ho bisogno di essere protetta come una tazzadi porcellana. Anch'io sono forte... Spalancò la porta. La stanza sembrava una specie di biblioteca, con le pareti coperte di libri. Era molto luminosa: la luce entrava a fiotti da una grande finestra panoramica. Al centro della stanza c'era Jace. Ma non era solo. Tutt'altro. C'era una ragazza dai capelli scuri con lui, una ragazza che Clary non aveva mai visto prima. E i due erano avvinghiati in un abbraccio passionale. capitolo 6 SANGUE CATTIVO Clary ebbe un capogiro, come se tutta l'aria fosse stata risucchiata di colpo dalla stanza. Cercò di arretrare, ma inciampò e urtò nella porta con la spalla. La porta si chiuse con un colpo secco e Jace e la ragazza si sciolsero dal loro abbraccio. Clary era impietrita. La stavano fissando entrambi. Notò che la ragazza aveva i capelli lisci e neri, lunghi fino alle spalle, e che era molto carina. I primi bottoni della camicetta erano aperti e s'intravedeva una spallina di pizzo. Le venne da vomitare. Le mani della ragazza corsero alla camicetta e i bottoni furono riallacciati rapidamente. Non sembrava contenta. — Scusa — disse, aggrottando la fronte — ma tu chi sei? Clary non rispose. Stava guardando Jace, che stava guardando lei, allibito. La sua pelle aveva perso ogni traccia di colore e faceva risaltare i cerchi scuri intorno agli occhi. Guardava Clary come se le stesse puntando contro un fucile. — Aline. — La voce di Jace era priva di calore e di colore. — Lei è Clary, mia sorella. — Ah. Ah. — La faccia di Aline si rilassò in un sorriso lievemente imbarazzato. — Scusa! Che razza di modo di incontrarsi! Ciao, io sono Aline. Si avvicinò a Clary ancora sorridendo, la mano tesa. Non credo dì poterla toccare, pensò Clary con un profondo senso di disgusto. Guardò Jace, che sembrò leggerle negli occhi. Senza sorridere, prese Aline per le spalle e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Aline rimase sorpresa, scrollò le spalle e si diresse alla porta senza aggiungere altro. Clary restò sola con Jace. Sola con lui che continuava a guardarla come se fosse il suo incubo peggiore diventato realtà. — Jace — gli disse, facendo un passo verso di lui. Jace arretrò, come se Clary fosse ricoperta da qualche sostanza velenosa. — In nome dell'Angelo, Clary, cosa ci fai qui? Nonostante tutto, la durezza del suo tono la ferì. — Potresti almeno fingere di essere contento di vedermi. Almeno un pochino. — Non sono contento di vederti — le rispose. Aveva ripreso un po' di colore, ma le ombre sotto gli occhi erano ancora scure e contrastavano con la pelle chiara. Clary aspettò che aggiungesse qualcos'altro, ma era come se a lui bastasse fissarla con palese orrore. Clary notò che le maniche della maglia nera che indossava erano larghe, come se avesse perso peso, e che le unghie erano rosicchiate fino alla carne viva. — Neanche un po'. — Questo non sei tu — disse Clary. — Odio quando ti comporti così... — Ah sì, non ti piace? Bene, allora farò meglio a smetterla, okay? In fondo, anche tu mi ascolti sempre. — Non avevi alcun diritto di fare quello che hai fatto! — sbottò lei, all'improvviso furiosa. — Mentirmi in quel modo. Non avevi alcun diritto. — Io avevo tutti i diritti! — gridò lui. Non aveva mai gridato con lei, prima, pensò Clary. — Avevo tutti i diritti, stupida, stupida ragazzina. Io sono tuo fratello e... — E cosa? Sono di tua proprietà? Io non sono di tua proprietà, che tu sia mio fratello o no! La porta dietro a Clary si spalancò. Era Alec, vestito con una giacca lunga, blu scuro, e i capelli neri scompigliati. Aveva gli stivali infangati e un'espressione incredula sulla faccia solitamente calma. — Ma cosa cavolo succede qui dentro? — esclamò, spostando lo sguardo da Jace a Clary, al colmo dello stupore. — Volete uccidervi? — Per niente — disse Jace. Come per magia, osservò Clary, ogni sua emozione - la furia, il panico era stata cancellata. Jace era tornato alla solita gelida calma. — Clary se ne sta andando. — Bene — disse Alec. — Perché devo parlarti, Jace. — Nessuno in questa casa dice mai: «Ciao, che bello vederti»? — chiese Clary a nessuno in particolare. Era molto più facile lavorare sul senso di colpa di Alec che su quello di Isabelle. — È bello vederti, Clary — le disse Alec. — A parte il fatto, naturalmente, che non dovresti essere qui. Isabelle mi ha detto che sei venuta da sola in qualche modo, e ne sono molto colpito. — Potresti evitare di incoraggiarla? — intervenne Jace. — Okay, però adesso ho davvero bisogno di parlarti, Jace. Clary, puoi lasciarci qualche minuto? — Anch'io ho bisogno di parlare con lui — replicò Claryl — A proposito di nostra madre... — Non mi va di parlare — disse Jace. — Con nessuno di voi, a dire la verità. — Invece sì — ribatté Alec. — Ti va eccome. — Ne dubito — disse Jace. Era tornato a guardare Clary. — Non sei venuta qui da sola, vero? — le disse lentamente, come rendendosi conto che la situazione era ancora peggiore di quel che pensava. — Chi è venuto con te? Non c'era motivo di mentire. — Luke — disse Clary. — Luke è venuto con me. Jace sbiancò. — Ma Luke è un Nascosto. Tu sai che cosa fa il Conclave ai Nascosti che entrano nella Città di Vetro senza autorizzazione? Che attraversano le difese senza permesso? Venire a Idris è una cosa, ma entrare ad Alicante... L'avete detto a qualcuno? — No — disse Clary con un mezzo sussurro. — So cosa stai per dire... — Che se tu e Luke non tornate a New York immediata mente lo scoprirete da soli? Per un momento Jace rimase in silenzio, fissando Clary. La disperazione nel suo sguardo la sconvolse. Era lui che minacciava lei, dopotutto, non il contrario. — Jace — disse Alec nel silenzio, con una sfumatura dipanico nella voce. — Non ti sei chiesto dove sono stato tutto il giorno? — Hai una giacca nuova — osservò Jace senza guardarlo. — Sarai andato a fare shopping. Anche se mi sfugge perché sei così ansioso di infastidirmi con una cosa del genere. — Non sono andato a fare shopping — ribatté Alec furioso. — Sono andato... La porta si aprì di nuovo. In uno svolazzo di bianco, Isabelle si precipitò nella biblioteca, sbattendosi la porta alle spalle. Guardò Clary e scosse la testa. — Te l'avevo detto che avrebbe dato i numeri — commentò. — Figurarsi! Ricominci subito con il solito «te l'avevo detto» — ironizzò Jace. — Che classe! Clary lo guardò inorridita. — Come puoi scherzare? — sussurrò. — Hai appena minacciato Luke. Luke, che ti vuole bene e si fida di te. E solo perché è un Nascosto. Che cosa ti sta succedendo? Isabelle inorridì. — Luke è qui? Oh, Clary... — Non è qui — precisò Clary. — Se n'è andato, stamattina, e non so dove. Ma adesso so perché ha dovuto andarsene. — Quasi non riusciva a sopportare la vista di Jace. — Bene. Avete vinto voi. Non avremmo mai dovuto venire. Non avrei mai dovuto aprire quel Portale. — Aprire quel Portale? — Isabelle era stupefatta. — Clary, solo uno stregone può aprire un Portale. E non ce ne sono molti in giro. L'unico Portale, qui a Idris, è alla Guardia. — Che è il motivo per cui devo parlarti — sibilò Alec a Jace, che sembrava stare ancora peggio di prima, notò Clary con sorpresa: sembrava sul punto di svenire. — Riguardo all'incarico che ho eseguito ieri sera, la consegna che ho fatto alla Guardia... — Alec, smettila. Smettila! — gridò Jace. La cruda disperazione nella sua voce fece ammutolire Alec, che chiuse la bocca e rimase a fissarlo, con un labbro stretto tra i denti. Ma Jace non lo vedeva nemmeno: stava guardando Clary,con gli occhi duri come il vetro. Poi parlò. — Hai ragione — le disse con voce strozzata, come se tirasse fuori a forzale parole. — Non saresti mai dovuta venire. Ti avevo detto che questo non era un posto sicuro per te, lo so, ma non era vero. La verità è che io non ti voglio qui, perché sei impulsiva e avventata e rovinerai tutto. È così che sei. Tu non stai mai attenta, Clary. — Rovinare... tutto? — Clary riuscì a trovare il fiato solo per un sussurro. — Oh, Jace — mormorò Isabelle con tristezza, come se quello ferito fosse stato lui. Jace non la guardò: i suoi occhi erano fissi su Clary. — Tu ti butti sempre nelle cose a testa bassa, senza pensare — aggiunse Jace. — E lo sai anche tu, Clary. Non saremmo mai finiti al Dumort, se non fosse stato per te. — E Simon sarebbe morto! Non conta niente, questo? Sarò anche stata impulsiva, ma... La voce di Jace si alzò. — Forse? — Non mi sembra che tutte le decisioni che ho preso fossero sbagliate! L'hai detto anche tu, dopo quello che ho fatto sulla nave, che ho salvato la vita a tutti. Quel poco di colore che restava sul volto di Jace sparì. Con un'improvvisa e incredibile cattiveria, disse: — Zitta, Clary, sta' ZITTA. — Sulla nave? — Lo sguardo di Alec danzava dall'uno all'altra, sconcertato. — Cos'è successo, sulla nave? Jace... — Te l'ho detto solo per farti smettere di frignare! — gridò Jace, ignorando Alec, ignorando tutto, tranne Clary. Lei sentì la forza del suo improvviso scatto d'ira come un'onda e rischiò di cadere. — Sei un disastro per tutti noi, Clary! Sei una mondana e lo sarai sempre. Non sarai mai una Cacciatrice. Tu non sai pensare come noi, non sai pensare a ciò che è meglio per tutti. Tu pensi solo a te stessa! Ma ora c'è una guerra in corso, o ci sarà presto, e io non ho né il tempo né la voglia di starti appresso per evitare che tu faccia ammazzare qualcuno di noi! Clary lo fissava. Non riusciva a pensare a niente da replicare. Jace non le aveva mai parlato così. Non aveva mai immaginato che lui potesse parlarle in quel modo. Per quanto lo avesse fatto arrabbiare, in passato, non le aveva mai parlato come se la odiasse. — Vattene a casa, Clary — concluse. Sembrava stanchissimo, come se lo sforzo di dirle ciò che veramente pensavadi lei l'avesse prosciugato. — Vattene a casa. Tutti i piani di Clary si dissolsero: le speranze abbozzate di cercare Fell, di salvare sua madre, di ritrovare Luke... Non contavano più niente. Non le veniva nessuna parola da dire. Si avvicinò alla porta. Alec e Isabelle si scostarono per farla passare. Nessuno dei due la guardò: distolsero lo sguardo, con un'espressione sconvolta e imbarazzata. Clary sapeva che avrebbe dovuto sentirsi umiliata, oltre che arrabbiata. Ma non era così. Si sentiva solo morta dentro. Sulla porta, si girò a guardare Jace. Lui la stava ancora fissando. La luce che entrava dalla finestra alle sue spalle gli lasciava in ombra il volto. Clary vedeva solo luminosi frammenti di sole che gli sfioravano i capelli chiari, come fossero schegge di vetro. — La prima volta che mi hai detto che Valentine era tuo padre, non ci volevo credere — gli disse. — Non solo perché non volevo che fosse vero, ma perché non gli assomigliavi per niente. Non ho mai pensato che tu potessi somigliargli. Invece gli somigli. Gli somigli molto. E uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. — Vogliono farmi morire di fame — disse Simon. Era disteso sul pavimento della cella, con la schiena sulla fredda pietra. Da quell'angolazione, vedeva il cielo dalla finestrella. Nei primi giorni dopo la Trasformazione, quando pensava di non poter più rivedere la luce del giorno, si era ritrovato a pensare incessantemente al sole e al cielo, al modo in cui il colore del cielo cambia durante il giorno: il cielo pallido del mattino, l'azzurro intenso del mezzogiorno, l'oscurità blu cobalto del crepuscolo. Era rimasto sveglio nel buio, con un corteo di colori azzurri che gli marciava nella mente. Ora, disteso sulla schiena nella cella sotto la Guardia, si chiese se i colori del cielo gli fossero stati restituiti solo per fargli passare quel poco che restava della sua vita in quel dannato posto, con solo un ritaglio di cielo visibile dall'inferriata dell'unica finestra della cella. — Hai sentito cosa ho detto? — Alzò la voce. — L'Inquisitore vuole farmi morire di fame. Niente più sangue. Ci fu un fruscio, un udibile sospiro, poi Samuel parlò. — Ho sentito, ma non vedo cosa posso farci io. — E aggiunse: — Mi dispiace per te, Diurno, se ti può servire. — No, non mi serve — ammise Simon. — L'Inquisitore vuole che io menta. Vuole che gli dica che i Lightwood sono in combutta con Valentine. E poi mi manderà a casa. — Rotolò sullo stomaco e le pietre gli punsero la pelle. — Non so perché te lo sto dicendo. Probabilmente non hai neanche idea di quello di cui sto parlando. Samuel fece un verso a metà tra una risata chioccia e un colpo di tosse. — Lo so benissimo. Conoscevo i Lightwood. Eravamo insieme nel Circolo. I Lightwood, i Wayland, i Pangborn, gli Herondale, i Penhallow. Tutte le migliori famiglie di Alicante. — E Hodge Starkweather — aggiunse Simon, ripensando al tutore dei Lightwood. — C'era anche lui, giusto? — Sì — disse Samuel. — Ma la sua famiglia non era di quelle che godevano di buona fama. Hodge si era si era mostrato piuttosto promettente, una volta, ma temo che non sia mai stato all'altezza delle aspettative. — Tacque. — Aldertree ha sempre odiato i Lightwood, naturalmente, sin da quando eravamo bambini. Lui non era ricco, né intelligente, né bello, e... be', loro non erano molto gentili con lui. Credo che non li abbia mai perdonati. — Ricco? — disse Simon. — Credevo che tutti i Cacciatori venissero pagati dal Conclave. Come, non so, come nel comunismo, o qualcosa del genere. — In teoria, tutti i Cacciatori vengono pagati in modo equo e giusto — spiegò Samuel. — Alcuni, come quelli che hanno un'alta posizione al Conclave o che hanno grandi responsabilità (come gestire un Istituto, ad esempio), ricevono un salario più alto. Poi ci sono quelli che vivono fuori da Idris e scelgono di fare soldi nel mondo dei mondani: non è proibito, a patto che ne versino una quota al Conclave. Ma... — Samuel esitò — ... tu hai visto la casa dei Penhallow, no? Che te ne pare? Simon vi tornò con la mente. — Molto stravagante. — È una delle più belle case di Alicante — disse Samuel.— E ne hanno un'altra, una tenuta in campagna, come quasi tutte le famiglie ricche. Vedi, i Nephilim hanno anche unaltro modo di fare soldi. Il "bottino", lo chiamano. Quando un Cacciatore uccide un demone o un Nascosto, tuttele sue cose diventano di proprietà del Cacciatore. Quindi, se un ricco stregone infrange la Legge e viene ucciso da un Nephilim... Simon rabbrividì. — Quindi, uccidere i Nascosti è un buon affare? — Può esserlo — commentò Samuel amaramente. — Se non ti fai troppi scrupoli su chi vai ad ammazzare. Ora capisci perché c'è tanta opposizione verso gli Accordi: vanno a intaccare il portafogli degli Shadowhunters, che oradevono fare molta attenzione, prima di ammazzare un Na scosto. Forse è per questo che io mi unii al Circolo. La miafamiglia non era mai stata ricca. Ed essere guardato dall'alto in basso solo perché non volevo accettare denaro sporco di sangue... — S'interruppe. — Ma anche il Circolo uccideva i Nascosti — obiettò Simon. — Perché pensavano che fosse il loro dovere — spiegò Samuel. — Non per avidità. Anche se adesso non riesco a immaginare come ho fatto a dare tanto peso a questa differenza. — La sua voce sembrava esausta. — Era per Valentine. Aveva qualcosa di speciale. Riusciva a convincerti di qualsiasi cosa. Ho un ricordo, in particolare: ero con Valentine e avevo le mani che grondavano sangue. Guardavo il corpo di una donna morta, e pensavo che ciò che avevo fatto era assolutamente giusto, perché l'aveva detto Valentine. — Una Nascosta morta? Samuel, dall'altra parte del muro, fece un respiro spezzato. Poi disse: — Devi capire che avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Ciascuno di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Anche i Lightwood. L'Inquisitore lo sa, ed è questo che sta cercando di sfruttare. Ma tieni presente questo: se cedi e accusi i Lightwood, c'è comunque la possibilità che Aldertree ti uccida, per chiuderti la bocca per sempre. Dipende solo da quanto l'idea di essere misericordioso lo farà sentire potente al momento di decidere. — Non importa — disse Simon. — Non lo voglio fare. Non voglio tradire i Lightwood. — Davvero? — Samuel sembrava poco convinto. — C'è una ragione per cui non vuoi? Ci tieni così tanto, ai Lightwood? — Qualsiasi cosa dicessi su di loro, sarebbe una menzogna. — Ma è la menzogna che lui vuole sentire. Tu ci vuoi tornare, a casa, non è vero? Simon fissò il muro, come se in qualche modo potesse attraversarlo con lo sguardo e vedere l'uomo dall'altra parte. — Tu lo faresti? Mentiresti? Samuel tossì: una tosse rantolante, da malato. Del resto, nelle celle c'era umido e freddo: se per Simon non faceva alcuna differenza, per un normale essere umano doveva essere un problema serio. — Se fossi in te, non cercherei un consiglio morale da me — disse Samuel. — Sì, probabilmente io mentirei. Ho sempre messo al primo posto la mia pelle. — Sono sicuro che non è vero. — In realtà — ammise Samuel — è proprio vero. Una cosa che imparerai quando sarai più vecchio, Simon, è che quando la gente ti dice qualcosa di molto sgradevole su di sé, generalmente è vero. Ma io non diventerò più vecchio, pensò Simon. Ad alta voce disse: — È la prima volta che mi chiami Simon. Simon, non Diurno. — Credo di sì. — E per quanto riguarda i Lightwood... — riprese Simon. — Non è che mi stiano poi così simpatici. Cioè, Isabelle mi è simpatica e, in un certo modo, anche Alec e Jace. Ma c'è una ragazza di mezzo. E Jace è suo fratello. Quando Samuel rispose, la sua voce suonò per la prima volta sinceramente divertita. — C'è sempre una ragazza di mezzo. Nel momento in cui la porta si chiuse alle spalle di Clary, Jace si accasciò contro la parete come se gli avessero tagliato via le gambe. Era grigio in faccia e la sua espressione era un misto di orrore, shock e persino sollievo, come per una catastrofe evitata per un pelo. — Jace — disse Alec avvicinandosi di un passo. — Pensi davvero... Jace lo interruppe, con un tono di voce molto basso. — Fuori di qui — disse. — Uscite. Tutti e due. — Per lasciarti fare cosa? — intervenne Isabelle. — Rovinarti la vita ancora di più? Che cavolo è successo? Jace scosse la testa. — L'ho rimandata a casa. Era la cosa migliore per lei. — Hai fatto molto di più che rimandarla a casa sua. L'hai distrutta. L'hai vista, la sua faccia? — Ne valeva la pena — rispose Jace. — Tu non puoi capire. — Per lei, forse — replicò Isabelle. — Spero che ne sarà valsa la pena anche per te. Jace girò la faccia dall'altra parte. — Voglio restare solo, Isabelle. Ti prego. Isabelle rivolse un'occhiata sbigottita a suo fratello. Jace non chiedeva mai "per favore". Alec le mise una mano sulla spalla. — Non preoccuparti, Jace — disse con tutta la gentilezza che aveva. — Sono sicuro che se la caverà bene. Jace sollevò la testa e guardò Alec senza veramente vederlo: sembrava piuttosto fissare il nulla. — No, non se la caverà bene — disse. — A proposito, già che ci sei, dimmi quello che eri venuto a dirmi. Sembrava piuttosto importante. Alec sollevò la mano dalla spalla di Isabelle. — Non volevo parlartene davanti a Clary. Finalmente gli occhi di Jace misero a fuoco Alec. — Non volevi parlarmi di cosa, davanti a Clary? Alec esitò. Rare volte aveva visto Jace così sconvolto e poteva solo immaginare che effetto potessero avere su di lui altre brutte sorprese. Ma non c'era modo di nascondergli quella cosa. Jace doveva sapere. — Ieri — iniziò a dire, a bassa voce — quando ho portato Simon alla Guardia, Malachi mi ha detto che Magnus Bane l'avrebbe aspettato dall'altra parte del Portale, a New York. Così ho mandato a Magnus un messaggio col fuoco. Mi ha risposto stamattina: dice che Simon non è arrivato a New York e che lui non aspettava nessuno. Anzi, secondo lui, dopo che è passata Clary, non ci sono state altre attività ai Portali di New York. — Forse Malachi si è sbagliato — suggerì Isabelle, dopouna rapida occhiata alla faccia color cenere di Jace. — Forsec'era qualcun altro ad aspettare Simon. E Magnus potrebbe sbagliarsi anche sulle attività dai Portali. Alec scosse la testa. — Sono salito alla Guardia stamattina con la mamma, per chiederlo a Malachi di persona. Ma quando l'ho visto, non so perché, mi sono nascosto dietro un angolo. Non riuscivo ad affrontarlo. Poi l'ho sentito parlare con una delle guardie. L'ho sentito ordinare di portare il vampiro di sopra, perché l'Inquisitore voleva parlargli di nuovo. — Sei sicuro che parlasse di Simon? — chiese Isabelle, ma non c'era molta convinzione nella sua voce. — Forse... — Dicevano quanto era stato stupido il Nascosto a credere che l'avrebbero semplicemente rispedito a New York senza interrogarlo. Uno di loro diceva che gli sembrava impossibile che qualcuno avesse osato farlo entrare ad Alicante. E Malachi ha replicato: Be', che vi aspettavate dal figlio di Valentine! — Omioddio! — sussurrò Isabelle. — Jace... Jace aveva le mani strette a pugno, lungo i fianchi. Gli occhi erano infossati, come se volessero entrare nella scatola cranica. In altre circostanze, Alec gli avrebbe messo una mano sulla spalla, ma non stavolta: qualcosa in Jace lo trattenne. — Se non fossi stato io a portarlo qui — disse Jace, con voce bassa e misurata, come se stesse recitando — forse l'avrebbero lasciato tornare a casa. Forse avrebbero pensato che... — No — l'interruppe Alec. — No, Jace, non è colpa tua. Tu gli hai salvato la vita. — L'ho salvato per farlo torturare dal Conclave — concluse Jace. — Bel favore. Quando Clary lo scoprirà... — scosse la testa, senza vedere più nulla — penserà che l'ho portato qui di proposito, che l'ho consegnato io al Conclave, ben sapendo che cosa gli avrebbero fatto. — Non lo penserà mai, non avresti alcun motivo per fare una cosa del genere. — Forse — replicò Jace, lentamente. — Ma dopo che l'ho trattata in questo modo... — Nessuno ti penserebbe mai capace di una cosa del genere, Jace — disse Isabelle. — Nessuno che ti conosca. Nessuno che... Ma Jace non aspettò di scoprire chi altri non lo avrebbe mai pensato. Si girò e si avvicinò alla finestra panoramica che dava sul canale. Rimase lì un momento. La luce che entrava gli profilava d'oro i capelli. Poi agì, così rapido che Alec non ebbe il tempo di intervenire. Quando capì cosa stava per succedere scattò avanti per impedirlo, ma era già troppo tardi. Ci fu un gran fragore di vetri infranti e uno spruzzo improvviso di schegge, come una pioggia di stelle in frantumi. Jace si guardò con interesse clinico la mano sinistra e le nocche striate di rosso, mentre grosse gocce di sangue si formavano e cadevano sul pavimento ai suoi piedi. Isabelle fissò lui, poi lo squarcio nel vetro, con le crepe argentee che si irraggiavano dal centro vuoto come una ragnatela. — Oh, Jace — disse, con una voce dolce che Alec non le aveva mai sentito. — E adesso come diavolo facciamo a spiegarlo ai Penhallow? In qualche modo Clary riuscì a trovare la via d'uscita. Come, non lo seppe mai. Dopo aver attraversato un groviglio di scale e corridoi, a un tratto si era ritrovata a correre verso la porta d'ingresso e a uscire, per fermarsi sui gradini davanti alla casa dei Penhallow, indecisa se vomitare o meno nei loro cespugli di rose. Erano il posto ideale per vomitarci dentro e il suo stomaco era in penoso subbuglio. Ma poi le venne in mente di aver mangiato soltanto un po' di minestra: non c'era niente da vomitare, nel suo stomaco. Così scese i gradini e al cancello girò alla cieca: non riusciva a ricordare da dove fosse arrivata, né come tornare da Amatis, ma non sembrava molto importante: non moriva dalla voglia di tornare da Amatis, né di spiegare a Luke che se ne dovevano andare o Jace li avrebbe denunciati: al Conclave. Forse Jace aveva ragione. Forse lei era davvero impulsiva e avventata. Forse non pensava mai alle conseguenze che le sue azioni potevano avere sulle persone che amava. Il viso di Simon le balzò nella mente in un lampo, nitido come una fotografia, e poi quello di Luke... Si fermò e si appoggiò a un lampione. La sua forma squadrata, di vetro, ricordava i vecchi lampioni a gas davant| alle facciate di arenaria rossa di Park Slope, a Brooklyn. In qualche modo era rassicurante. — Clary! — Era una voce giovane, maschile, preoccupata. Immediatamente Clary pensò a Jace e si girò di scatto. Ma non era Jace. Davanti a lei, un po' ansimante come se l'avesse inseguita di corsa, c'era Sebastian, il ragazzo dai capelli neri che aveva visto nel salotto dei Penhallow. Clary sentì esplodere le stesse sensazioni che aveva avuto prima, vedendolo per la prima volta: una sorta di riconoscimento, mescolato a qualcosa che non riusciva a identificare. Non era simpatia o antipatia: era una specie di pulsione verso di lui, come se qualcosa l'attirasse verso quel ragazzo che non conosceva affatto. Forse era semplicemente il suo aspetto. Era bellissimo, bello come Jace, ma se Jace era tutto oro, quel ragazzo era tutto ombre e pallore. E adesso Clary notò che la somiglianza col suo principe immaginario non era precisa come le era parso in un primo momento. Anche il colorito era diverso. C'era solo qualcosa nei lineamenti del viso, nella postura, nella buia segretezza degli occhi... — Stai bene? — le chiese Sebastian. La sua voce era dolce. — Sei scappata via come... — La voce gli morì in gola, mentre la guardava: Clary era ancora aggrappata al lampione, come per non cadere. — Cos'è successo? — Ho litigato con Jace — rispose lei, cercando di mantenere ferma la voce. — Lo sai com'è. — Veramente no — disse lui con un tono quasi di scusa. — Io non ho né fratelli né sorelle. — Beato te — commentò Clary, e si sorprese per l'amarezza della propria voce. — Non lo dici sul serio. — Sebastian si avvicinò di un passo. In quel momento il lampione si accese con un tremolio, gettando un fascio di stregaluce bianca intorno a loro. Sebastian alzò gli occhi verso la luce e sorrise. — È un segno. — Un segno di che? — Un segno che dovresti permettermi di accompagnarti a casa. — Non ho idea di dove sia — ammise Clary, rendendosene conto in quel momento. — Sono scappata e sono arrivata qui. Non ricordo neanche da che parte sono venuta. — Be', da chi stai? Esitò, prima di rispondere. — Non lo dirò a nessuno — la rassicurò Sebastian. — Lo giuro sull'Angelo. Clary lo fissò. Era un giuramento pesante, per un Cacciatore. — Va bene — disse prima di ripensarci. — Sto da Amatis Herondale. — Ottimo, so dove abita. — Le offrì il braccio. — Andiamo? Riuscì ad accennare un sorriso. — Sei un po' insistente, lo sai? Sebastian scrollò le spalle. — Ho una specie di fissazione per le damigelle in difficoltà. — Non essere sessista. — Ti sbagli. I miei servigi sono a disposizione anche dei gentiluomini. È una fissazione con pari opportunità — disse. E con uno svolazzo le offrì di nuovo il braccio. Questa volta, Clary accettò l'offerta. Alec si chiuse alle spalle la porta della stanzetta nel sottotetto e si girò a guardare Jace. I suoi occhi erano normalmente del colore del lago Lyn, di un azzurro chiaro e tranquillo, ma tendevano a cambiare coi suoi stati d'animo. In quel momento il colore era quello dell'East River durante un temporale. Anche la sua espressione era tempestosa. — Siediti — ordinò a Jace, indicandogli una seggiola bassa vicino all'abbaino. — Vado a prendere le bende. Jace ubbidì. La stanza che condivideva con Alec all'ultimo piano della casa dei Penhallow era piccola, con due lettini stretti appoggiati a due pareti. I loro vestiti erano appesi a una fila di ganci sul muro. C'era un'unica finestra, che lasciava entrare una luce fioca: si stava facendo buio e, di là dal vetro, il cielo era blu indaco. Alec si inginocchiò, tirò fuori la sacca da sotto il suo letto e l'aprì. Vi frugò rumorosamente dentro, poi si rialzò con una scatola in mano. Jace la riconobbe: era la scatola del pronto soccorso che usavano quando le rune non erano utilizzabili. Conteneva antisettico, bende, forbici e garze. — Non vuoi usare una runa di guarigione? — chiese Jace, più per curiosità che per altro. — No. Puoi anche... — Alec s'interruppe e buttò la scatola sul letto con una muta imprecazione. Andò al piccolo lavandino a muro e si lavò le mani con tale forza che l'acqua schizzò via in una nuvola di goccioline. Jace lo guardava con distaccata curiosità. La mano ora gli bruciava e il dolore era sordo e feroce. Alec recuperò la scatola, avvicinò una sedia a Jace e vi si lasciò cadere. — Dammi la mano. Jace tese la mano. Doveva ammettere che era messa piuttosto male: tutte e quattro le nocche erano spaccate a raggiera. Aveva sangue secco incollato alle dita, come un guanto marrone che si squamava. Alec fece una smorfia. — Sei un idiota. — Grazie — rispose Jace. Rimase pazientemente a guardare Alec che, chino sulla sua mano con un paio di pinzette, cercava di stanare un frammento di vetro conficcato nella pelle. — Allora, perché no? — Perché no, cosa? — Perché non usi una runa di guarigione? Questa non è una ferita di demoni. — Perché... — Alec prese la bottiglia azzurra di antisettico. — Credo che possa farti bene sentire il dolore. Per una volta, puoi guarire da mondano: in modo lento e orribile. Magari impari qualcosa. — Versò il liquido pungente sui tagli. — Anche se ne dubito. — Potrei sempre farmela da solo, la runa di guarigione,lo sai. Alec iniziò a fasciargli la mano. — Solo se vuoi che riveli ai Penhallow che cos'è successo veramente alla loro finestra, invece di fargli credere che è stato un banale incidente. — Fissò la fasciatura con un nodo stretto e Jace fece una smorfia di dolore. — Sai, se avessi immaginato che ti saresti fatto questo non ti avrei detto niente. — Me l'avresti detto comunque. — Tace inclinò la testa. — Non pensavo che il mio attacco alla finestra panoramica ti turbasse tanto. — È solo che... — Finito il bendaggio, Alec guardò la mano di Jace, quella che ancora teneva tra le sue. Era una zampa bianca di bende e macchiata di sangue dove le dita di Alec l'avevano toccata. — Perché ti fai tutto questo? Non solo la finestra, ma anche il modo in cui hai parlato a Clary. Per cosa ti stai punendo? Non riesci a sfuggire ai tuoi sentimenti. La voce di Jace era piatta. — E quali sarebbero i miei sentimenti? — Lo vedo, come la guardi. — Gli occhi di Alec erano distanti, guardavano oltre Jace qualcosa che solo lui sembrava vedere. — E non puoi averla. Forse non avevi mai saputo com'è desiderare qualcosa che non si può avere. Jace lo fissò con lo sguardo fermo. — Che cosa c'è tra te e Magnus Bane? La testa di Alec si levò di scatto. — Io non... non c'è niente... — Non sono uno stupido. Dopo aver sentito Malachi, ti sei rivolto subito a Magnus, prima ancora di parlare con me o con Isabelle o con chiunque altro. — Perché era l'unico che poteva rispondere alla mia domanda, ecco perché. Non c'è niente tra noi — disse Alec. Poi, cogliendo l'espressione di Jace, precisò, con estrema riluttanza: — Non c'è più niente. Non c'è più niente tra noi, okay? — Spero che non sia per causa mia — disse Jace. Alec sbiancò e si ritrasse, come per parare un colpo. — In che senso? — So quello che credi di provare per me — disse Jace. — Tu invece non lo sai. Io ti piaccio, perché sono una sicurezza per te. Senza rischi. E tu non ti metterai mai in giocoin una vera relazione, perché puoi sempre usare me comeuna buona scusa. — Jace sapeva di essere crudele in quel momento, ma non gliene importava granché. Ferire le persone che amava era bello quasi come ferire se stesso, quando era di quell'umore. — Capisco — ribatté Alec secco. — Prima Clary, poi la mano, adesso me. Va' al diavolo, Jace. — Non mi credi? — replicò Jace. — Bene. Forza. Baciami adesso. Alec lo guardò inorridito. — Esattamente. Nonostante la mia sbalorditiva bellezza, in realtà io non ti piaccio in quel senso. E se stai sganciando Magnus, non è per colpa mia. È perché hai troppa paura di dire a qualcuno, a chiunque, che lo ami per davvero. L'amore ci rende bugiardi — concluso Jace. — L'ha detto la Regina del Popolo Fatato. Quindi non giudicarmi, se mento sui miei sentimenti. Lo fai anche tu. — Si alzò. — E adesso, voglio che tu lo faccia di nuovo. Il volto di Alec, ferito, era di pietra. — In che senso? — Voglio che tu menta per me — incalzò Jace, prendendo la giacca dal chiodo sul muro e infilandosela. — È sera, ormai. Fra poco torneranno dalla Guardia. Devi dire a tutti che non scendo perché non mi sento bene. Che mi sentodebole e stordito e che è per questo che la finestra è andata in frantumi. Alec piegò la testa e squadrò Jace. — D'accordo — disse. — Ma solo se mi dici dove vai. — Alla Guardia — rispose Jace. — Vado a liberare Simon dalla prigione. La madre di Clary chiamava il periodo tra il crepuscolo e la notte "l'ora blu". Diceva che nell'ora blu la luce era più intensa e più particolare e che era il momento migliore per dipingere. Clary non aveva mai capito esattamente cosa intendesse, ma adesso, camminando per Alicante al crepuscolo, comprese. L'ora blu a New York non era realmente blu: era troppo slavata dalle luci delle strade e dalle insegne al neon. Sicuramente Jocelyn pensava a Idris. Lì la luce bagnava di chiazze violette i muri dorati della città e i lampioni di stregaluce creavano pozze di luce bianca così luminosa che Clary si aspettava di sentirne il calore quando le attraversava. Desiderò che sua madre fosse con lei. Jocelyn avrebbe potuto indicarle i luoghi di Alicante che conosceva meglio, che avevano un posto tra i suoi ricordi. Ma non ti parlerebbe mai di questi luoghi. Te li ha sempre tenuti nascosti di proposito. E ora potresti non conoscerli mai. Un dolore acuto, a metà tra la rabbia e il rimpianto, le prese il cuore. — Sei terribilmente silenziosa — osservò Sebastian. Stavano attraversando un canale su un ponte dai fianchi in pietra coperti di rune intagliate. — Stavo pensando che sarò nei guai, quando rientrerò. Sono dovuta scappare da una finestra per uscire, ormai Amatis si sarà accorta che sono sparita. Sebastian aggrottò la fronte. — Perché sei scappata di nascosto? Non ti avrebbero permesso di vedere tuo fratello? — Io non dovrei essere ad Alicante — gli spiegò Clary. — Dovrei essere a casa mia, al sicuro, a guardare la partita dalle linee laterali. — Ah, questo spiega molte cose. — Ah sì? — Gli lanciò un'occhiata di traverso, incuriosita. Ombre blu s'impigliavano tra i suoi capelli scuri. — Tutti sbiancavano, ogni volta che venivi nominata. Immaginavo che ci fosse del sangue cattivo, tra te e tuo fratello. — Sangue cattivo? Be', si potrebbe dire anche così. — Jace non ti piace molto? — Se mi piace Jace? — Clary aveva riflettuto talmente tanto nelle ultime settimane, chiedendosi se amava Jace Wayland, e in che modo lo amava, che non si era mai soffermata a pensare se Jace le piacesse. — Scusa, in effetti fa parte della tua famiglia, non si tratta di piacersi o meno... — Certo che mi piace — disse Clary sorprendendosi alle sue stesse parole. — Mi piace. È solo che... mi fa infuriare. Mi dice cosa posso fare, cosa non posso fare... — Non sembra che funzioni molto — osservò Sebastian. — In che senso? — Mi sembra che tu faccia comunque quello che vuoi. — Credo di sì. — L'osservazione la sorprese, venendo da un quasi sconosciuto. — Ma a quanto pare si è arrabbiato molto più di quel che pensassi. — Gli passerà. — Dal tono di voce, Sebastian sembravanon dare troppo peso alla cosa. Clary lo guardò con curiosità. — E a te Jace sta simpatico? — Sì. Ma credo di non stargli molto simpatico io. — Sebastian sembrava mesto. — Qualsiasi cosa io dica sembra dargli fastidio. Deviarono dalla strada principale in un'ampia piazza acciottolata, circondata da edifici alti e stretti. Al centro c'era una statua di bronzo: era l'Angelo, quello che aveva dato il suo sangue per creare la stirpe degli Shadowhunters. Sul lato nord c'era un'imponente struttura di pietra bianca. Un'ampia gradinata di marmo portava a un loggiato fitto di colonne, dietro il quale si vedeva una grande porta a due battenti. Il colpo d'occhio, nella luce della sera, era stupefacente... e stranamente familiare. Clary si chiese se avesse già visto un'immagine di quel luogo. Forse sua madre l'aveva dipinto? — Questa è la piazza dell'Angelo — spiegò Sebastian. — E quella era la Sala dell'Angelo. Gli Accordi furono firmati là dentro, poiché ai Nascosti non è consentito accedere alla Guardia. Ora è chiamata Sala degli Accordi. È un luogo d'incontro per tutti: è qui che si fanno le celebrazioni uffi ciali, i matrimoni, i balli, cose del genere. È il centro della città. Si dice che tutte le strade portano alla Sala. — Somiglia un po' a una chiesa... Ma qui non avete chiese, vero? — Non ce n'è bisogno — spiegò Sebastian. — Ci proteggono le torri antidemoni. Non ci serve altro. È per questo che mi piace venire qui. Mi dà un senso di... pace. Clary lo guardò, sorpresa. — Quindi tu non vivi qui? — No. Vivo a Parigi. Sono venuto a trovare Aline, mia cugina. Mia madre e suo padre, zio Patrick, erano fratelli. — I genitori di Aline hanno diretto l'Istituto di Pechino per anni. Sono tornati ad Alicante circa dieci anni fa. — Erano... I Penhallow non facevano parte del Circolo, vero? La sorpresa balenò sul volto di Sebastian. Rimase in silenzio mentre svoltavano e si lasciavano la piazza alle spalle, addentrandosi in un dedalo di stradine scure. — Perché lo chiedi? — disse alla fine. — Be'... perché invece i Lightwood erano nel Circolo. Passarono sotto un lampione e Clary gli lanciò un'occhiata di striscio. Nel cono di luce bianca, con quel lungo cappotto scuro e la camicia bianca, Sebastian sembrava lo schizzo in bianco e nero di un gentiluomo vittoriano. Il modo in cui i capelli neri gli si arricciavano sulla fronte le faceva prudere le mani dalla voglia di ritrarlo a china. — Devi capire — le disse Sebastian — che una buona metà dei giovani di Idris faceva parte del Circolo, insieme a molti altri che non vivevano a Idris. Mio zio Patrick era nel Circolo, all'inizio, ma ne uscì quando iniziò a capire che Valentine faceva troppo sul serio. I genitori di Aline non presero parte alla Rivolta: mio zio partì per Pechino per allontanarsi da Valentine. Fu là, all'Istituto, che incontrò la madre di Aline. Quando i Lightwood e gli altri membri del Circolo vennero processati per alto tradimento, i Penhallow votarono per la clemenza. Li fecero punire con l'esilio, invece che con la maledizione. Per questo i Lightwood gli sono sempre stati riconoscenti. — E i tuoi genitori? — chiese Clary. — Erano nel Circolo? — Non proprio. Mia madre era più giovane di Patrick. Quando lui andò a Pechino, la inviò a Parigi. E a Parigi incontrò mio padre. — Tua madre è più giovane di Patrick? — È morta — rivelò Sebastian. — E anche mio padre. Mi ha cresciuto mia zia Elodie. — Oh — mormorò Clary, sentendosi molto stupida. — Mi dispiace. — Non me li ricordo neppure — disse Sebastian. — Non proprio. Quando ero piccolo, desideravo tanto avere un fratello o una sorella più grande, qualcuno che potesse dirmi com'erano i nostri genitori. — La guardò, pensieroso. —Posso chiederti una cosa, Clary? Perché sei venuta a Idris se sapevi che tuo fratello l'avrebbe presa così male? Prima che Clary potesse dare una risposta, dalla stradina stretta che stavano percorrendo sbucarono in una piazzetta mal illuminata, con un pozzo in disuso al centro bagnato dalla luce della luna. — La piazza del Pozzo — annunciò Sebastian con un'inequivocabile nota di disappunto nella voce. — Siamo arrivati più in fretta di quel che pensavo. Clary guardò oltre il ponte in muratura che scavalcava il vicino canale: si vedeva in lontananza la casa di Amatis, con tutte le finestre illuminate. Sospirò. — Da qui posso andare da sola, grazie. — Non vuoi che ti accompagni fino a... — No, a meno che non vuoi passare dei guai anche tu. — Passerei dei guai? Per essere stato così gentile da accompagnarti fino a casa? — Nessuno dovrebbe sapere della mia presenza ad Alicante — disse Clary. — Dovrebbe essere un segreto. E tu, senza offesa, sei uno sconosciuto. — Vorrei non esserlo — disse Sebastian. — Mi piacerebbe conoscerti meglio. — La stava guardando con un misto di divertimento e di timidezza, come se non fosse sicuro di come sarebbero state accolte le sue parole. — Sebastian — disse Clary, travolta da un'improvvisa stanchezza. — Sono contenta che tu voglia conoscermi meglio. Ma ora non ho proprio le forze per farlo. Mi dispiace. — Non intendevo... Ma Clary si stava già allontanando da lui, verso il ponte. A metà strada, si voltò indietro e lo guardò: sotto la luce della luna, coi capelli neri che gli ricadevano sul viso, aveva un'aria stranamente desolata. — Ragnor Fell — gli disse. Lui la fissò. — Cosa? Mi hai chiesto perché sono venuta qui, anche se non dovevo — spiegò Clary. — Mia madre sta male. Molto male. Forse sta morendo. L'unica cosa che può aiutarla, l'unica persona che può aiutarla, è uno stregone chiamato Ragnor Fell. Solo che non ho idea di dove trovarlo. — Clary... Lei gli voltò le spalle. — Buonanotte, Sebastian. Salire dal graticcio fu più difficile che scendere. Clary scivolò innumerevoli volte sulla sua superficie umida e sospirò di sollievo quando finalmente si issò sul davanzale della finestra e rientrò nella camera da letto con un mezzo salto e un mezzo capitombolo. La sua euforia ebbe vita breve. Non appena gli stivali toccarono il pavimento, una silenziosa esplosione di luce illuminò a giorno la stanza. Amatis era seduta sul bordo del letto, con la schiena dritta e una pietra di stregaluce in mano. La pietra ardeva di luce violenta, che non aiutava certo ad ammorbidire i tratti duri del suo volto o le pieghe agli angoli della bocca. Fissò Clary in silenzio per diversi lunghissimi momenti. Finalmente disse: — Vestita così, sei uguale a Jocelyn. Clary si rialzò goffamente. — Mi... mi dispiace — disse — di essere scappata così. — Amatis chiuse la mano intorno alla stregaluce, spegnendola, e Clary batté le palpebre nella tenebra improvvisa. — Togliti la tenuta da battaglia — le disse Amatis. — Poi scendi in cucina. E non pensare nemmeno di scappare di nuovo dalla finestra — aggiunse. — O la prossima volta che tornerai in questa casa troverai tutte le porte sbarrate. Clary annuì, mandando giù un groppo in gola. Amatis si alzò e se ne andò senza aggiungere altro. Clary si sfilò rapidamente la tenuta e si rimise i suoi vestiti, che erano appesi alla spalliera del letto, asciutti. I jeans erano un po' duri, ma fu piacevole rimetterseli con la solita maglietta. Clary scosse i capelli aggrovigliati e scese al piano di sotto. L'ultima volta che aveva visto il pianterreno della casa di Amatis era in preda al delirio e alle allucinazioni. Ricordava lunghi corridoi che si protendevano all'infinito e un enorme orologio a pendolo i cui ticchettii risuonavano come il battito di un cuore morente. Ora si ritrovò in un salotto piccolo e senza pretese, arredato con semplici mobili in legno e un tappeto patchwork sul pavimento. Le dimensioni ridotte e i colori vivaci le ricordarono un po' il salotto di casa sua, a Brooklyn. Dal salotto entrò in cucina, dove un fuoco ardeva nel caminetto. La stanza era piena di luce calda e gialla. Trovò Amatis seduta a tavola, con I uno scialle azzurro sulle spalle che faceva sembrare i suoi capelli più grigi. — Ciao. — Clary si fermò sulla porta. Non riusciva a capire se Amatis fosse arrabbiata o no. — Immagino che non ci sia neppure bisogno di chiederti dove sei stata — iniziò Amatis, senza alzare gli occhi dalla tavola. — Sei andata da Jonathan, vero? Dovevo aspettarmelo. Forse, se avessi dei figli miei, avrei saputo riconoscere una bugia. Ma speravo, almeno per questa volta, di non deludere mio fratello così completamente. — Deludere Luke? — Sai che cosa accadde, quando mio fratello fu morso? — Amatis guardava fisso davanti a sé. — Quando fu morso da un lupo mannaro (cosa inevitabile, perché Valentinesi metteva sempre in situazioni stupidamente rischiose, per sé e per i suoi seguaci, quindi era solo una questione di tempo), venne da me e mi raccontò cosa gli era accaduto equanto era terrorizzato all'idea di aver contratto la licantropia. E io gli dissi... gli dissi... — Amatis, non devi... — Gli dissi di sparire dalla mia casa e di non tornare finché non fosse stato certo di non aver preso la malattia. Arretrai di un passo, per stargli lontano: non riuscii a evitarlo. — Le tremava la voce. — Lui vide tutto il mio disgusto, perché ce l'avevo dipinto in faccia. Mi disse che, se avesse preso la malattia, se fosse diventato un lupo mannaro, il suo timore era che Valentine gli avrebbe chiesto di suicidarsi, e io gli dissi che... che forse sarebbe stata la cosa migliore! Clary trasalì. Non potè evitarlo. Amatis alzò rapidamente gli occhi su di lei. Le si leggeva in volto il profondo disprezzo che aveva di sé. — Lucian era sempre stato così buono, nonostante tutto quello che Valentine cercava di fargli fare. Ogni tanto pensavo che lui e Jocelyn fossero le uniche persone veramente buone che conoscevo. E non riuscivo a sopportare l'idea che diventasse un mostro. — Ma lui non è così. Non è un mostro. — Io non lo sapevo! Dopo la Trasformazione, dopo la sua fuga, Jocelyn lavorò molto, e a lungo, per convincermi che Lucian, dentro, era ancora la stessa persona, che era ancora mio fratello. Se non fosse stato per lei, non avrei mai accettato di rivederlo ancora. Così gli permisi di restare qui,prima della Rivolta, e di nascondersi in cantina. Ma sapevo che lui non poteva fidarsi pienamente di me, non dopoche gli avevo voltato le spalle in quel modo. E credo che tuttora non si fidi di me. — Si è fidato abbastanza da venire da te quando stavo male — osservò Clary. — Si è fidato abbastanza da lasciarmi qui con te... — Non aveva nessun altro posto dove andare — replicò Amatis. — E guarda come mi sono comportata con te. Non sono nemmeno riuscita a tenerti in casa per un giorno. Clary trasalì. Era peggio che essere rimproverata. — Non è colpa tua. Sono stata io a mentirti e a scappare di nascosto. Non potevi farci niente. — Oh, Clary — sospirò Amatis. — Non capisci? C'è sempre qualcosa che si può fare. Sono quelli come me che si convincono che non è così. Io mi sono convinta che nonc'era niente che potessi fare per Lucian. Mi sono convinta che non c'era niente che potessi fare quando Stephen mi abbandonò. E mi rifiuto di presenziare alle assemblee del Conclave, perché sono convinta che non c'è niente che io possa fare per influenzare le loro decisioni, anche quando detesto ciò che fanno. Ma poi, quando scelgo di fare qualcosa... be', nemmeno allora riesco a fare la cosa giusta. — Isuoi occhi brillavano duri e lucenti nella luce del fuoco. —Va' a letto, Clary — concluse. — D'ora in poi, puoi andare e venire come ti pare. Non farò niente per fermarti. Dopotutto, come hai detto tu, non c'è niente che io possa fare. — Amatis... — No. — Amatis scosse la testa. — Va' a letto. Ti prego. — La sua voce aveva una nota definitiva. Si girò dall'altra parte, come se Clary se ne fosse già andata, e rimase con gli occhi fissi a guardare il muro. Clary girò sui tacchi e corse di sopra. Chiuse la porta della sua stanza con un calcio e si buttò sul letto. Voleva piangere, ma le lacrime non venivano, face mi odia, pensò. Amatis mi odia. Non ho nemmeno salutato Simon. Mia madre sta morendo. E Luke mi ha abbandonata. Sono sola. Non sono mai stata tanto sola. Ed è tutta colpa mia. Forse era per questo che non riusciva a piangere, pensò, fissando il soffitto ad occhi asciutti. Che senso aveva piangere, se non c'era nessuno a confortarti? E quel che era peggio, se non potevi nemmeno confortare te stessa? capitolo 7 DOVE NON OSANO GLI ANGELI Da un sogno di sangue e sole, Simon si svegliò all'improvviso al suono di una voce che chiamava il suo nome. — Simon. — La voce era un sussurro sibilante. — Simon, alzati. Simon era già in piedi (qualche volta si sorprendeva ancora per la rapidità con cui riusciva a muoversi). Girò su se stesso nel buio della cella. — Samuel? — sussurrò, fissando nell'ombra. — Samuel, sei tu? — Girati, Simon. — Ora la voce, vagamente familiare,aveva una nota d'irritazione. — Vieni alla finestra. — Simon la riconobbe immediatamente. Guardò tra le inferriate e vide Jace inginocchiato sull'erba, con una pietra di stregaluce in mano. Era accigliato. — Be'? Credevi che fosse un incubo? — Forse lo credo ancora. — C'era un ronzio nelle sue orecchie. Se avesse avuto un cuore che batteva, avrebbe pensato che fosse il sangue che gli scorreva nelle vene, ma era qualcos'altro, qualcosa di più incorporeo e più intimo del sangue. La stregaluce disegnava un motivo irregolare di luci e ombre sulla faccia pallida di Jace. — Quindi, è qui che ti hanno messo. Non credevo che le usassero ancora, queste celle. — Lanciò un'occhiata di lato. — All'inizio ho beccato la finestra sbagliata. Ho fatto prendere un colpo al tuo amico nella cella accanto. Affascinante, con quella barba e quegli stracci. Mi ricorda un po' i barboni di casa nostra. Simon capì che cos'era il ronzio nelle orecchie: rabbia. In un angolo remoto della mente era consapevole di avere i denti digrignati, le punte dei canini che gli graffiavano il labbro inferiore. — Mi fa piacere che trovi tutto questo divertente. — Ma come? Non sei felice di vedermi? — gli disse Jace. — Devo dire che la cosa mi sorprende. Mi hanno sempre detto che la mia presenza illumina ogni stanza. Pensavo che valesse il doppio, per un'umida cella sotterranea. — Tu sapevi che cosa sarebbe successo, vero? Ti rispediranno a New York, mi hai detto. No problem. Qui invece non ne hanno mai avuto la minima intenzione. — Non lo sapevo. — Jace incrociò il suo sguardo tra le sbarre: i suoi occhi erano limpidi e fermi. — So che non mi credi, ma ne ero convinto. — O sei un bugiardo o sei uno stupido... — Allora sono uno stupido. —... o entrambe le cose — concluse Simon. — Io propendo per entrambi. — Non ho nessuna ragione per mentirti. Non ora. — Lo sguardo di Jace rimase fermo. — E smetti di mostrarmi le zanne. Mi rende nervoso. — Be' — disse Simon — se vuoi saperlo, è perché sai di sangue. — È la mia nuova colonia. Eau de Ferite. — Jace sollevò la mano sinistra. Era un guanto di bende bianche, macchiato sulle nocche, dove era filtrato il sangue. Simon aggrottò la fronte. — Pensavo che quelli della tua razza non avessero ferite. O meglio, che non avessero ferite che durano nel tempo. — Ho spaccato una finestra — spiegò Jace. — E Alec vuole farmi guarire come un mondano, per darmi una lezione. Ecco, questa è la verità. Sei colpito? — No — rispose Simon. — Ho problemi più grossi dei tuoi. L'Inquisitore continua a farmi domande alle quali non posso rispondere. Continua ad accusarmi di aver ricevuto i poteri di Diurno da Valentine. Di essere una spia ai suoi ordini. L'allarme balenò negli occhi di Jace. — L'ha detto Aldertree? — Aldertree mi ha lasciato capire che tutto il Conclave lo pensa. — Brutta storia. Se decidono che sei una spia, se riescono a convincersi che hai infranto la Legge, allora gli Accordi non verranno applicati. — Jace si guardò rapidamente intorno, poi tornò a concentrarsi su Simon. — Sarà meglio che ti tiriamo fuori di qui. — E poi? — Simon quasi non credeva alle sue stesse parole. Voleva uscire di lì con tanta intensità che quasi ne sentiva il sapore in bocca, ma non riuscì a fermare le parole che gli rotolavano fuori dai denti. — Dove vorresti nascondermi? — C'è un Portale, qui alla Guardia. Se riusciamo a trovarlo, ti posso rimandare indietro. — E tutti sapranno che sei stato tu ad aiutarmi, Jace. Il Conclave non vuole solo me. Anzi, dubito che gli importimolto di un Nascosto. Loro vogliono delle prove contro la tua famiglia, contro i Lightwood. Vogliono dimostrare che i Lightwood sono ancora legati a Valentine, che non hanno mai veramente lasciato il Circolo. Anche nel buio era possibile vedere il rossore infiammare le guance di Jace. — Ma è assurdo! Loro hanno combattuto contro Valentine, sulla nave. E Robert ha rischiato di morire. — L'Inquisitore vuole far credere che i Lightwood hanno sacrificato gli altri Nephilim sulla nave per salvare le apparenze e dimostrare di essere contro Valentine. Poi, però, hanno perso la Spada Mortale. Ed è questo che conta per l'Inquisitore. Senti, voi avete cercato di mettere in guardia il Conclave e loro se ne sono fregati. Adesso l'Inquisitoresta cercando qualcuno a cui addossare la colpa di tutto. Se riesce a marchiare voi Lightwood come traditori, nessuno riterrà più il Conclave responsabile di ciò che è successo. E Aldertree potrà attuare tutte le politiche che vorrà, senza incontrare opposizione. Jace appoggiò la faccia sulle mani, con le lunghe dita che giocherellavano distrattamente con i capelli. — Ma io non posso lasciarti qui. Se Clary lo scopre... — Avrei dovuto capirlo che era questo che ti preoccupava. — Simon rise con durezza. — E tu non dirglielo. Tanto lei è a New York, grazie a... — S'interruppe, incapace dipronunciare quella parola. — Avevi ragione tu — disse invece. — Sono contento che non sia qui. Jace sollevò la faccia dalle mani. — Come? — Il Conclave è folle. Chissà che cosa le farebbero, se sapessero cos'è in grado di fare. Avevi ragione — ripetè Simon. E quando Jace non replicò nulla, aggiunse: — Potresti anche apprezzare il fatto che te l'abbia detto. Non credo che lo dirò un'altra volta. Jace lo fissava senza espressione e Simon, sussultando, rivide l'immagine di Jace sulla nave, insanguinato e morente, sul pavimento di metallo. Alla fine, Jace parlò. — Quindi mi stai dicendo che hai intenzione di restare qui? In prigione? Fino a quando? — Fino a quando non ci verrà un'idea migliore — disseSimon. — Ma c'è una cosa. Jace inarcò le sopracciglia. — Cosa? — Sangue — disse Simon. — L'Inquisitore sta cercandodi affamarmi per costringermi a parlare. Mi sento già molto debole. E domani sarò... be', non so come sarò. Ma non voglio cedere. E non voglio bere di nuovo il tuo sangue, né quello di chiunque altro — aggiunse rapidamente, prima che Jace potesse proporglielo. — Il sangue animale andrà benissimo. — Il sangue te lo posso procurare — disse Jace. Esitò. —Hai detto... hai detto all'Inquisitore che ti ho fatto bere ilmio sangue? Che ti ho salvato? Simon scosse la testa. Gli occhi di Jace brillarono di luce riflessa. — Perché no? — Forse perché non volevo cacciarti in altri guai. — Senti, vampiro — disse Jace. — Proteggi i Lightwood, se puoi, ma non proteggere me. Simon sollevò la testa. — Perché no? Per un momento, con Jace che lo guardava tra le sbarre, Simon potè quasi immaginare di esser lui quello libero e Jace il prigioniero. — Forse perché non me lo merito. Clary fu svegliata da un rumore che sembrava grandine su un tetto di lamiera. Si mise a sedere sul letto e si guardò intorno, intontita. Lo sentì di nuovo: era un crepitio e veniva dalla finestra. Allontanando le coperte con riluttanza, Clary andò a investigare. Quando spalancò la finestra, entrò una folata d'aria fredda che le penetrò nel pigiama come un coltello. Rabbrividì e si affacciò al davanzale. C'era qualcuno in giardino. Per un momento, con un tuffo al cuore, Clary vide solo una figura alta e snella coi capelli arruffati. Ma quando la figura alzò lo sguardo, Clary vide che i capelli erano neri, e non biondi, e per la seconda volta si rese conto di aver sperato che fosse Jace e di essersi ritrovata con Sebastian. Sebastian aveva una manciata di sassolini in mano. Le sorrise, quando vide la sua testa sbucare, e a gesti le indicò se stesso e il graticcio delle rose. Scendi! Lei scosse la testa e gli indicò la porta principale. Aspettami alla porta d'ingresso. Chiuse la finestra e corse di sotto. Era mattina tardi: la luce che si riversava dalle finestre era intensa e dorata, ma la casa aveva le luci spente ed era immersa nel silenzio. Forse Amatis dorme ancora, pensò Clary. Andò alla porta, aprì il chiavistello e la spalancò. Sebastian era lì, sul gradino, e di nuovo Clary ebbe quella strana sensazione di riconoscimento, anche se questa volta fu più lieve. Gli sorrise debolmente. — Hai tirato i sassi contro la finestra — disse. — Credevo che lo facessero solo nei film. Lui sorrise. — Bel pigiama. Ti ho svegliato? — Forse.— — Scusa — le disse, pur non sembrando dispiaciuto. — Però forse ti potrebbe tornare utile fare un salto di sopra e vestirti: passeremo la giornata insieme. — Wow. Sei un tipo piuttosto sicuro di sé — osservò Clary. Del resto, i ragazzi belli come Sebastian probabilmente non avevano motivo di non essere sicuri di sé. Scosse la testa. — Mi spiace, ma non posso. Non posso uscire di casa. Non oggi. Una linea di interesse si disegnò tra gli occhi di Sebastian. — Ieri però sei uscita. — Lo so, ma è stato prima che... — Prima che Amatis mi facesse sentire piccola come un microbo. — Oggi non posso. Per favore, non cercare di convincermi, okay? — Okay — disse Sebastian. — Non cercherò di convincerti. Ma almeno lasciami dire quello che ero venuto a dirti. Poi, se ancora vorrai che me ne vada, ti prometto che me ne andrò. — Dimmi. — Sebastian alzò il viso, e Clary si chiese com'era possibile che degli occhi così scuri brillassero come se fossero dorati. — So dove puoi trovare Ragnor Fell. Le ci vollero meno di dieci minuti per correre di sopra, vestirsi al volo, scrivere un biglietto veloce ad Amatis e tornare da Sebastian, che l'aspettava sul ciglio del canale. Lui sorrise quando la vide che gli correva incontro, con il cappotto verde buttato su un braccio. — Sono qui — disse Clary fermandosi. — Andiamo? Sebastian insistette per aiutarla a infilarsi il cappotto. — Credo che nessuno mi abbia mai aiutato a mettere il cappotto, prima d'ora — osservò Clary, liberando i capelli che erano rimasti sotto il colletto. — Be', forse i camerieri. Hai mai fatto il cameriere? — No, ma sono stato cresciuto da una tata francese — le ricordò Sebastian. — Il che comporta un percorso formativo ancor più severo. Clary sorrise, nonostante la tensione. Sebastian era bravo a farla sorridere, notò con un lieve senso di sorpresa. Quasi troppo bravo. — Dove andiamo? — gli chiese bruscamente. — La casa di Fell è qui vicino? — Non proprio, vive fuori città — rispose Sebastian, avviandosi verso il ponte. Clary gli si affiancò. — Ci vorrà molto, a piedi? — È troppo lontano per andarci a piedi. Dovremo farci dare un passaggio. — Un passaggio? E da chi? — Clary si bloccò su due piedi. — Sebastian, dobbiamo stare attenti. Non possiamo dire al primo che capita dove andiamo e cosa ci faccio qui... Deve restare un segreto. Sebastian la osservò con i suoi occhi scuri e riflessivi. — Giuro sull'Angelo che l'amico che ci darà il passaggio non farà parola con nessuno sulla nostra destinazione. — Sei sicuro? — Sicurissimo. Ragnor Fell, pensava Clary mentre si addentravano nelle strade affollate. Sto andando da Ragnor Fell. Un incontrollabile entusiasmo si mescolava alla trepidazione. Madeleine l'aveva dipinto come un uomo potente e temibile. E se non avesse avuto pazienza con lei? E se non aveva tempo? E se lei non fosse riuscita a convincerlo di essere chi diceva di essere? E se lui si fosse dimenticato di sua madre? Non l'aiutava certo ad allentare la tensione l'impressione di riconoscere Jace o Isabelle in ogni ragazzo biondo o in ogni ragazza coi capelli lunghi e neri che vedeva passare. Ma Isabelle l'avrebbe probabilmente ignorata, pensò mestamente, e di sicuro Jace era dai Penhallow a baciarsi con la sua nuova ragazza. — Hai paura di essere pedinata? — le chiese Sebastian, mentre svoltavano in una strada laterale che si allontanava dal centro della città, notando che Clary continuava a lanciare occhiate intorno a sé. — Continuo a vedere gente che mi pare di conoscere — ammise Clary. — Jace o i Lightwood. — Da quando i Lightwood sono arrivati, credo che Jace non si sia mai allontanato dalla casa dei Penhallow. Il più delle volte si chiude in camera sua. In più, ieri s'è fatto male a una mano. — S'è fatto male? Come? — Clary, dimenticando di guardare dove stava andando, inciampò in un sasso. La strada che stavano percorrendo, che prima era acciottolata, ora era semplicemente sassosa, e Clary neppure si accorse del cambiamento. — Ahi! — Forza, siamo arrivati — annunciò Sebastian fermandosi davanti a un'alta palizzata di legno. Non c'erano più case intorno: si erano lasciati alle spalle il centro abitato in modo piuttosto repentino e ora c'era solo questa recinzione e, sul lato opposto, un pendio pietroso che portava verso la foresta. C'era un cancello, ma era chiuso da un lucchetto. Sebastian estrasse dalla tasca una pesante chiave di ferro e lo aprì. — Torno fra un attimo con chi ci darà un passaggio. — Si chiuse il cancello alle spalle. Clary spiò tra le fessure delle assi e vide una specie di baracca bassa di legno rosso. Ma sembrava che non ci fossero né porte né finestre. Il cancello si aprì e Sebastian ricomparve con un sorriso da un orecchio all'altro. Aveva in mano delle briglie ed era docilmente seguito da un grande cavallo bianco e grigio con una macchia a forma di stella sulla fronte. — Un cavallo? Tu possiedi un cavallo? — Clary era stupefatta. — Chi mai possiede un cavallo? Sebastian carezzò la groppa dell'animale con affetto. — Molte famiglie di Shadowhunters tengono un cavallo nelle stalle di Alicante. Se hai notato, non ci sono automobili a Idris: non funzionano bene, con tutte queste difese in giro. — Diede un buffetto al cuoio chiaro della sella, decorata da uno stemma raffigurante un serpente d'acqua che usciva da un lago attorcigliandosi su se stesso. Il nome Verlac era inciso in caratteri delicati sotto lo stemma. — Su, sali. Clary arretrò di un passo. — Non sono mai salita su un cavallo. — Sarò io a condurre Wayfarer — la rassicurò Sebastian. — Tu dovrai solo stare seduta davanti a me. Il cavallo sbuffò. Aveva dei denti enormi, notò Clary con un certo disagio. Immaginò quei denti affondarle nella gamba e pensò a tutte le sue compagne di scuola che volevano avere un cavallo. Si chiese se fossero pazze. Sii coraggiosa, si disse. È quello che farebbe tua mamma. Fece un bel respiro fondo. — Okay. Andiamo. La decisione di Clary di essere coraggiosa durò solo fino a quando Sebastian, dopo averla aiutata a salire, saltò elegantemente in sella dietro di lei e affondò i tacchi nei fianchi del cavallo. Wayfarer partì come un proiettile. La forza con cui batteva gli zoccoli sulla strada sassosa si ripercuoteva in scosse sussultorie su tutta la schiena di Clary. Si aggrappò al pezzetto di sella che spuntava davanti a lei, affondandovi le unghie fino a lasciare le impronte nel cuoio. Man mano che si allontanavano dalla città, la strada diventava più stretta. Ora era fiancheggiata da filari di alberi su entrambi i lati che formavano muri di verde impenetrabili alla vista. Sebastian tirò le redini e il cavallo interruppe il suo galoppo sfrenato. Il cuore di Clary rallentò con il suo passo. Mentre il panico svaniva, Clary diventò lentamente consapevole della presenza di Sebastian, che, tenendo le redini, formava con le braccia una specie di gabbia intorno a lei, evitandole la sensazione di scivolare giù. D'improvviso fu persino troppo consapevole della presenza di lui: non solo della forza vigorosa delle braccia che la sostenevano, ma anche del fatto che lei gli si appoggiava al petto, che, per qualche ragione, sapeva di pepe nero. Non era un odore sgradevole, ma speziato e buono, molto diverso da quello di Jace, che sapeva di sapone e di sole. Non che il sole avesse un odore, in realtà, ma se l'avesse avuto... Strinse i denti. Era lì con Sebastian, era in procinto di incontrare un potente stregone, e stava mentalmente farneticando sull'odore di Jace. Si costrinse a guardarsi intorno. Le verdi pareti di alberi si stavano diradando e ora si vedevano grandi estensioni di campagna marezzata su entrambi i lati. Era bello, in un modo sobrio ed essenziale: un tappeto verde, interrotto qua e là dalla cicatrice di una strada di pietra grigia o da uno sperone di roccia nera che si levava dall'erba. Ciuffi di delicati fiori bianchi, gli stessi che Clary aveva visto con Luke nella necropoli, costellavano le colline come casuali spruzzate di neve. — Come hai fatto a scoprire dov'è Ragnor Fell? — chiese Clary, mentre Sebastian portava abilmente il cavallo ad aggirare una buca sulla strada. — Mia zia Elodie. Ha una buona rete di informatori. Sa tutto quello che succede a Idris, pur non venendo mai qui di persona. Non le piace lasciare l'Istituto. — E tu? Vieni spesso a Idris? — Non proprio. L'ultima volta avevo cinque anni. Da allora non avevo più visto i miei zii, perciò sono contento di essere qui, adesso. È un'occasione per rimettersi in pari con tutto quello che è successo. E poi, ho nostalgia di Idris quando non sono qui. Nessun luogo è come Idris. È qualcosa nella terra. Te ne accorgerai anche tu, e anche tu ne avrai nostalgia, quando non sarai qui. — So che anche Jace ha nostalgia — disse Clary. — Ma pensavo che fosse perché ha vissuto qui tanti anni. Lui è cresciuto qui. — Nella tenuta dei Wayland — disse Sebastian. — Non lontano da dove stiamo andando. — A quanto pare, tu sai proprio tutto. — Non tutto — precisò Sebastian con una risata che Clary sentì dalla schiena. — Già, Idris esercita la sua magia su tutti: anche su chi, come Jace, ha ogni ragione per odiare questo posto. — Perché dici questo? — Be', è stato cresciuto con Valentine, no? E dev'essere stata una cosa abbastanza tremenda. — Non saprei. — Clary era esitante. — La verità è che Jace ha dei sentimenti contraddittori. Io credo che Valentine sia stato un padre orribile, per certi versi, ma le briciole di amore e gentilezza che gli ha dimostrato erano tutto l'amore e la gentilezza che Jace conosceva. — Sentì un'onda di tristezza, mentre parlava. — Credo che per molto tempo Jace abbia ricordato Valentine con grande affetto. — Non riesco a credere che Valentine gli abbia dimostrato amore o gentilezza. Valentine è un mostro. — Be', sì, ma Jace è suo figlio. Ed era solo un bambino. Io credo che Valentine gli volesse bene, a modo suo. — No. — La voce di Sebastian era tagliente. — Temo che questo sia impossibile. Clary batté le palpebre e fece per girarsi a guardarlo in faccia, ma ci ripensò. Tutti gli Shadowhunters diventavano un po' fanatici, quando c'era di mezzo Valentine (ripensò all'Inquisitrice con un brivido) e forse non si poteva fargliene una colpa. — Probabilmente hai ragione. — Siamo arrivati — annunciò Sebastian bruscamentescendendo da cavallo: così bruscamente che Clary si chiese se in qualche modo l'avesse offeso. Ma quando Sebastianalzò gli occhi verso di lei, stava sorridendo. — Abbiamo fatto presto — commentò, legando le redini al ramo più basso di un albero. — Più di quel che pensavo. Le fece cenno di scendere e, dopo un attimo di esitazione, Clary scivolò giù dalla groppa del cavallo e finì tra le sue braccia. Con le gambe molli per la lunga cavalcata, gli si aggrappò e lui la sostenne: — Scusa — mormorò imbarazzata. — Non volevo saltarti addosso. — Io non mi scuserei. — Il fiato di Sebastian era caldo sul collo di Clary, che rabbrividì. Le mani di lui si soffermarono un momento di troppo sulla sua schiena, prima dilasciarla andare. Niente di tutto questo aiutava Clary a sentirsi più salda sulle gambe. — Grazie — disse, consapevole del proprio rossore. Quanto avrebbe voluto che la sua pelle chiara non ne rivelasse così prontamente il colorito. — È questo il posto? — Si guardò intorno. Si trovavano in una piccola valle tra dolci colline. C'erano vari alberi nodosi disposti intorno a una radura. I loro rami contorti avevano una bellezza scultorea, contro il cielo d'un azzurro metallico. Ma, a parte quello... — Non c'è niente, qui — osservò Clary aggrottando la fronte. — Clary. Concentrati. — Vuoi dire che c'è un incantesimo? Di solito non ho bisogno di... — Gli incantesimi a Idris sono più forti che in altri luoghi. È possibile che ti debba sforzare più del solito. — Le mise le mani sulle spalle e la fece girare delicatamente. — Guarda la radura. Clary applicò in silenzio il trucchetto mentale che le permetteva di grattare via l'illusione ottica da ciò che celava. Immaginò di sfregare della trementina su una tela per cancellare strati di colore e svelare l'immagine sottostante. Ed eccola! Era una casetta in pietra con il tetto spiovente. Dal camino saliva un filo di fumo in graziosi ghirigori. Un sentiero serpeggiante bordato di pietre conduceva all'ingresso. Mentre Clary guardava, il fumo che usciva dal camino smise di salire volteggiando verso l'alto e cominciò a prendere la forma di un tremolante punto di domanda. Sebastian rise. — Credo che significhi: "Chi è là?" Clary si strinse nel cappotto. Il vento che soffiava sull'erba bassa non era freddo, ma si sentiva lo stesso le ossa gelate. — Tutto questo sembra uscito da una favola. — Hai freddo? — Sebastian le passò una mano intornoalle spalle. Immediatamente le volute di fumo smisero di formare punti di domanda e si gonfiarono in un grosso cuore sbilenco. Clary sgusciò via dall'abbraccio di Sebastian, sentendosi imbarazzata e anche un po' in colpa, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Si affrettò a raggiungere il vialetto, seguita da Sebastian. Erano a metà strada, quando la porta si spalancò. Benché Clary fosse stata ossessionata dal pensiero di Ragnor Fell sin da quando Madeleine gliene aveva parlato, non si era mai soffermata a pensare a che aspetto potesse avere. Ma se ci avesse pensato, forse avrebbe immaginato un uomo grosso, con la barba e le spalle larghe, una specie di vichingo. La persona che si presentò sulla soglia era invece alta e sottile, con una cresta di capelli scuri e appuntiti. Indossava un gilet dorato e un paio di pantaloni di seta tipo pigiama. Osservò Clary con modesto interesse, tirando pigre boccate a una pipa incredibilmente grande. Non assomigliava neanche vagamente a un vichingo, ma Clary lo riconobbe all'istante e senza ombra di dubbio. Magnus Bane. — Ma... — Clary, a occhi sgranati, si girò verso Sebastian, che sembrava stupito tanto quanto lei. Fissava Magnus con la bocca socchiusa e l'espressione vuota. Alla finebalbettò: — Sei tu... Ragnor Fell, lo stregone? Magnus si levò la pipa di bocca. — Be', di certo non sono Ragnor Fell il danzatore esotico. — Io... — Sebastian sembrava a corto di parole. Clary non sapeva cosa avrebbe trovato, ma Magnus era un bel colpo da assorbire. — Speravamo che ci potessi aiutare. Io sono Sebastian Verlac e lei è Clarissa Morgenstern. Sua madreè Jocelyn Fairchild... — Non m'importa niente di chi è sua madre — sbottò Magnus. — Non potete venire da me senza appuntamento. Tornate più tardi. Marzo potrebbe andare bene. — Marzo? — Sebastian inorridì. — Hai ragione — confermò Magnus. — Troppo piovoso. Che ne dite di giugno? Sebastian si drizzò sulla schiena. — Forse non capisci l'importanza di... — Sebastian, lascia stare — disse Clary con disgusto. —Sta solo giocando coi tuoi pensieri. E comunque, lui non ci può aiutare. Sebastian era ancora più confuso. — Ma... non vedo perché non possa... — Va bene, basta così! — esclamò Magnus schioccando le dita. Sebastian si paralizzò, la bocca ancora aperta, la mano mezza tesa. — Sebastian! — Clary lo toccò, ma era immobile come una statua. Solo il lieve movimento del petto rivelava che era ancora vivo. — Sebastian? — Clary lo chiamò di nuovo, ma invano. Capiva, in qualche modo, che lui non poteva vederla né sentirla. Si girò verso Magnus. — Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere. Che diavolo ti succede? Quello che stai fumando in quella pipa ti ha sciolto il cervello? Sebastian è dalla nostra parte. — Io non sto da nessuna parte, carissima Clary — precisò Magnus con uno svolazzo della pipa. — E, per la precisione, è colpa tua se l'ho dovuto congelare per un po'. Stavi giusto per rivelargli che non sono Ragnor Fell. — È perché tu non sei Ragnor Fell. Magnus soffiò una nuvola di fumo dalla bocca e osservò pensosamente Clary attraverso il fumo. — Vieni — le disse. — Voglio farti vedere una cosa. Le tenne aperta la porta della casetta, invitandola a entrare. Con un ultimo, incredulo sguardo a Sebastian, Clary lo seguì. L'interno della casetta non era illuminato, ma la debole luce del sole che filtrava dalle finestre bastò a mostrare a Clary un'ampia stanza fitta di ombre. C'era uno strano odore nell'aria, come di scarti di verdura bruciati. Le scappò un piccolo suono strozzato, quando Magnus sollevò la mano e schioccò di nuovo le dita. Una brillante luce azzurra gli esplose dai polpastrelli. Clary restò a bocca aperta. La stanza era un disastro: mobili fatti a pezzi, cassetti aperti e svuotati sul pavimento. Pagine strappate da libri svolazzanti come brandelli di cenere. Anche i vetri delle finestre erano in frantumi. — Ho ricevuto un messaggio da Fell, ieri sera — spiegò Magnus. — Mi chiedeva di vederci, qui da lui. Quando sono arrivato... ho trovato questo. Tutto distrutto, e puzzo di demoni ovunque. — Demoni? Ma i demoni non possono entrare a Idris. Non ho mai detto questo. Ti sto solo raccontando i fatti. — Magnus parlava senza alcun tono particolare. — La casa puzzava di qualcosa di origine demoniaca. Il corpo di, Ragnor era a terra. Non era ancora morto, quando loro se ne sono andati, ma era morto quando sono arrivato io. — Si voltò verso Clary. — Chi sapeva che lo stavi cercando? — Madeleine — sussurrò Clary — ma è morta. Sebastian, Jace, Simon. I Lightwood... — Ah — disse Magnus. — Se lo sanno i Lightwood, è probabile che lo sappia anche il Conclave. E Valentine ha delle spie, al Conclave. — Oh no, dovevo tenerlo segreto, invece di dirlo a tutti! — esclamò Clary inorridita. — È colpa mia. Dovevo avvisarlo... — Vorrei ricordarti — l'interruppe Magnus — che tu non riuscivi a trovarlo. È per questo che hai chiesto in giro. Senti, per Madeleine e per te Fell era semplicemente uno che poteva aiutare tua madre, non uno che poteva attirare l'interesse di Valentine. Ma c'è dell'altro. Valentine non sa come risvegliare tua madre, però sa che quello che ha fatto Jocelyn per entrare in quello stato è collegato a un oggetto che lui vuole avere a tutti i costi. Un particolare libro di incantesimi. — E tu come fai a saperlo? — gli chiese Clary. — Perché me l'ha detto Ragnor. — Ma... Magnus la zittì con un gesto. — Gli stregoni hanno i loro modi per comunicare tra loro. Hanno i loro linguaggi. — Alzò la mano che sprigionava la fiamma azzurra. — Logos. Apparvero sui muri lettere di fuoco alte una spanna, che sembravano incise in oro liquido nella pietra. Le lettere correvano intorno ai muri, formando parole che Clary non riusciva a leggere. Si girò verso Magnus. — Che cosa c'è scritto? — L'ha scritto Ragnor quando ha capito che stava morendo, per farlo sapere allo stregone che sarebbe venuto acercarlo. — Quando Magnus si girò, il bagliore delle lettere ardenti illuminò d'oro i suoi occhi di gatto. — È stato aggredito da servi di Valentine. Volevano da lui il Libro Bianco. Il Libro Bianco è, con il Libro Grigio, una delle opere più famose sulle attività soprannaturali che siano mai state scritti. La ricetta della pozione che ha bevuto Jocelyn e quella dell'antidoto sono contenute in quel libro. Clary restò a bocca aperta. — E il libro era qui? — No. Apparteneva a tua madre. Ragnor, a suo tempo, le aveva solo consigliato dove nasconderlo. — Quindi è... — È nella tenuta dei Wayland. I Wayland abitavano poco lontano dalla casa di Jocelyn e Valentine: erano i loro vicini più stretti. Ragnor suggerì a tua madre di nascondere il libro a casa loro, dove Valentine non l'avrebbe mai cercato. Nella biblioteca. Ma poi Valentine ha vissuto per anni nella tenuta dei Wayland — osservò Clary. — Non credi che l'avrebbe scoperto? — Era nascosto in un altro libro. Un libro che Valentine difficilmente avrebbe aperto. — Magnus fece un sorriso sghembo. — Ricette semplici per le casalinghe. Non si può dire che tua madre non abbia il senso dell'umorismo. — E tu sei andato alla tenuta dei Wayland a cercare il libro? Magnus scosse la testa. — Clary, ci sono delle difese intorno alla tenuta che tengono lontano non solo il Conclave, ma chiunque, soprattutto i Nascosti. Forse, se avessi tempo per lavorarci, potrei violarle, ma... — Quindi, nessuno può entrare nella tenuta? — La disperazione le artigliava il petto. — È impossibile? — Non ho detto "nessuno" — precisò Magnus. — C'è almeno una persona che quasi certamente potrebbe entrare. — Vuoi dire Valentine? — Voglio dire — precisò Magnus — il figlio di Valentine. Clary scosse la testa. — Jace non mi aiuterà, Magnus. Non mi vuole qui. Anzi, dubito che mi voglia rivolgere ancora la parola. Magnus la guardò meditabondo. — Io penso — disse — che non ci sia molto che Jace non sarebbe disposto a fare per te, se glielo chiedi. Clary aprì la bocca, poi la chiuse. Pensò che Magnus aveva sempre saputo ciò che provava Alec per Jace, ciò che Simon sentiva per lei. E ciò che lei provava per Jace, probabilmente, le si leggeva in faccia anche adesso. E Magnus era uno che sapeva leggere molto bene. Clary distolse lo sguardo. — Mettiamo che io riesca a convincere Jace a venire con me alla tenuta dei Wayland per recuperare il libro — disse. — Poi cosa succede? Io non so fare incantesimi, né preparare antidoti. Magnus sbuffò. — Tu credi che ti stia dando tutti questi consigli gratis? Quando avrai messo le mani sul Libro Bianco, voglio che lo consegni direttamente a me. — Il libro? Lo vuoi tu? — È uno dei più potenti libri di incantesimi al mondo. Certo che lo voglio. E poi, quel libro appartiene di diritto ai Figli di Lilith, non ai Figli di Raziel. È un libro da stregoni e dovrebbe stare nelle mani di uno stregone. — Ma a me serve! Per guarire mia madre... Te ne serve una pagina sola e puoi anche tenertela. Il resto è mio. In cambio, quando mi porterai il libro, io preparerò l'antidoto e lo somministrerò a Jocelyn. Non puoi dire che non sia un patto equo. — Le tese la mano. — Sigilliamo il patto con una stretta di mano? Dopo un attimo di esitazione, Clary gli strinse la mano. — Spero di non dovermene pentire. — Io spero proprio di no — disse Magnus, voltandosi allegramente verso la porta. Sui muri, le lettere di fuocostavano già svanendo. — Il pentimento è un sentimento inutile, non ti pare? Fuori, il sole sembrava particolarmente luminoso, dopo l'oscurità nella casetta. Clary si fermò sulla soglia, battendo le palpebre per mettere a fuoco il panorama: le montagne in lontananza, Wayfarer che brucava l'erba soddisfatto, e Sebastian immobile come una statua da giardino, con la mano ancora tesa. Clary si rivolse a Magnus. — Ora potresti scongelarlo, per favore? Magnus sembrava divertito. — Mi sono sorpreso, stamattina, quando ho ricevuto il messaggio di Sebastian — disse. — Diceva che stava facendo un favore a te, nientemeno. Come l'hai incontrato? — È un cugino di certi amici dei Lightwood, o qualcosa del genere. E uno a posto, te l'assicuro. — A posto?... Be', io direi che è meraviglioso. — Magnus lo contemplò con aria sognante. — Dovresti lasciarmelo qui. Potrei appenderci sopra i cappelli, i vestiti. — No, non puoi tenerlo. — Perché no? Piace anche a te? — Gli occhi di Magnus brillarono. — Tu sembri piacergli. L'ho visto, prima: cercava la tua mano come uno scoiattolo che arraffa una nocciolina. — Perché non parliamo invece della tua vita sentimentale? — ribatté Clary. — Che mi dici di te e Alec? — Alec si rifiuta di riconoscere che c'è qualcosa fra noi. Quindi io mi rifiuto di riconoscere la sua esistenza. Mi ha mandato un messaggio col fuoco, l'altro giorno, chiedendomi un favore. Era indirizzato "allo stregone Bane", come se fossi un perfetto sconosciuto. È ancora fissato con Jace, penso, anche se quella cosa non lo porterà da nessuna parte. Problema di cui, immagino, tu non sai nulla. — Oh, smettila! — Clary lo guardò con antipatia. — Senti, se non scongeli Sebastian, non riuscirò ad andarmene di qui e tu non avrai il tuo Libro Bianco. — Oh, va bene, va bene. Ma se posso fare una richiesta, non dirgli nulla di quello che ti ho appena detto, anche se è amico dei Lightwood. — Magnus schioccò le dita con petulanza. Il viso di Sebastian si rianimò, come un video che riparte dopo essere stato messo in pausa. — ... aiutarci — disse. — È una questione di vita o di morte. — Voi Nephilim credete che tutti i vostri problemi siano questione di vita o di morte — commentò Magnus. — Adesso andatevene. Cominciate ad annoiarmi. — Ma... — Andatevene — ripetè Magnus con tono minaccioso. Dai polpastrelli delle lunghe dita si sprigionarono scintille azzurre e all'improvviso l'aria si riempì di un odore acre, come di bruciato. Gli occhi di gatto di Magnus ardevano. Pur sapendo che era solo una messa in scena, Clary non riuscì a trattenersi e indietreggiò. — Credo che dovremmo andare, Sebastian — disse. Gli occhi di Sebastian erano due fessure. — Ma, Clary... — Andiamo! — ripetè lei. Lo prese per un braccio e lotrascinò verso Wayfarer. Lui la seguì con riluttanza, borbottando a mezza voce. Con un sospiro di sollievo, Clary si lanciò un'occhiata alle spalle. Magnus era in piedi sulla porta, con le braccia conserte. Quando incontrò il suo sguardo, le sorrise e le strizzò l'occhio, brillante di glitter. — Mi dispiace, Clary. — Sebastian le teneva una mano sulla spalla e un'altra sulla vita, cercando di aiutarla a salire sull'ampia groppa di Wayfarer. Clary soppresse la vocina interiore che la pregava di non risalire su quel cavallo (né su qualsiasi altro cavallo) e si lasciò issare. Buttò una gamba dall'altra parte e si sistemò sulla sella, cercando di convincersi che si stava accomodando su un grosso divano semovente e non su una creatura viva che in qualsiasi momento avrebbe potuto girarsi e darle un morso. — Ti dispiace per cosa? — gli chiese, mentre anche lui montava in sella dietro di lei. Era quasi fastidiosa la facilità con cui riusciva a farlo, come fosse un passo di danza, ma anche rassicurante. Chiaramente, Sebastian sapeva bene quel che faceva, pensò Clary, mentre lui prendeva le redini, con le braccia intorno a lei. Era una buona cosa, pensò, che almeno uno dei due lo sapesse. — Quel Ragnor Fell. Non mi aspettavo che fosse così poco disponibile ad aiutarci. Ma si sa che gli stregoni sono lunatici. Tu ne hai già conosciuto uno, vero? — Ho conosciuto Magnus Bane. — Si girò un attimo a guardare, alle spalle di Sebastian, la casetta che svaniva in lontananza. Il fumo sbuffava dal camino disegnando piccole figure danzanti, come dei Magnus ballerini. — È il Sommo Stregone di Brooklyn. — Somiglia a Fell? — Sono straordinariamente simili. Quanto a Fell, sapevo che c'era la possibilità che si rifiutasse di aiutarci. — Ma io ti avevo promesso il mio aiuto. — La voce di Sebastian era sinceramente addolorata. — Be', però c'è un'altra cosa che ti posso mostrare, così la giornata non andrà del tutto sprecata. — Cosa? — Clary si girò di nuovo per guardarlo. Il sole era alto nel cielo alle loro spalle e donava un profilo d'oro ai fili scuri dei suoi capelli. Sebastian sorrise. — Vedrai. Wayfarer correva in direzione opposta alla città di Alicante, tra muri verdi di fronde che sfrecciavano da entrambi i lati, aprendosi di tanto in tanto su panorami incredibilmente belli: laghi cristallini, verdi vallate, montagne grigie, argentei frammenti di fiumi e ruscelli orlati da rive fiorite. Clary si chiese come fosse vivere in un posto come quello. Si sentiva nervosa, come troppo esposta, senza il conforto dei palazzi di New York a chiudere l'orizzonte. Non che mancassero totalmente gli edifici: ogni tanto spuntava sopra gli alberi il tetto di qualche grande casa di pietra. Erano le tenute di campagna di facoltose famiglie di Shadowhunters, le spiegò Sebastian, gridandole nell'orecchio. Ricordarono a Clary i vecchi palazzi che sorgevano sulle rive del fiume Hudson, a nord di Manhattan, dove i ricchi newyorchesi passavano le estati centinaia di anni prima. La strada di sassi era diventata un sentiero di terra battuta. Clary venne riscossa dalle sue fantasticherie quando arrivarono in cima a una collina e Sebastian fece fermare bruscamente Wayfarer. — Ci siamo — annunciò. Clary vide un ammasso di pietre annerite dal fuoco che un tempo erano state una casa, ora riconoscibile solo da pochi profili. C'era una canna fumaria sventrata che ancora puntava verso il cielo, un pezzo di muro con lo squarcio vuoto di una finestra senza vetri. Le erbacce crescevano tra le rovine, macchie verdi nel nero. — Non capisco — disse Clary. — Perché siamo qui? — Non hai capito? — chiese Sebastian. — È qui che vivevano tua madre e tuo padre. È qui che è nato tuo fratello. Questa è la tenuta dei Fairchild. Ancora una volta, Clary risentì nella testa la voce di Hodge. Valentine appiccò un grande incendio e morì tra le fiamme con la sua famiglia, sua moglie e suo figlio. La terra intorno annerì e si seccò. Nessuno vuole più costruire in quel luogo. Dicono che sia maledetto. Senza dire parola, Clary scivolò giù dalla groppa del cavallo. Sentì la voce di Sebastian che la chiamava, ma lei già scendeva lungo la collina, correndo e sdrucciolando. Dove un tempo sorgeva la casa, il terreno diventava pianeggiante: ai piedi di Clary c'erano le pietre annerite e spaccate di quello che era stato il vialetto. Tra le erbacce, vide delle scale che si interrompevano dopo pochi gradini. — Clary... — Sebastian la raggiunse camminando tra le erbacce, ma lei era quasi inconsapevole della sua presenza. Girò su se stessa, lentamente, osservando ogni cosa: gli alberi bruciati e mezzo morti e quello che un tempo era un prato ombroso sul pendio della collina. In lontananza, vedeva il tetto di un'altra tenuta, appena sopra il profilo degli alberi. Qui il sole luccicava sui frammenti di vetro delle finestre dell'unica parete rimasta in piedi. Clary si addentrò tra le rovine, su un tappeto di pietre annerite. Vide il tracciato delle stanze, delle porte... persino un armadietto bruciacchiato ma quasi intatto, rovesciato su un fianco, dal quale si erano riversati frantumi di servizi di porcellana, mescolati alla terra nera. Una volta quella era stata una casa vera, abitata da persone vive e vegete. Sua madre era vissuta lì, si era sposata lì, aveva avuto un bambino. Poi Valentine aveva trasformato tutto in cenere e polvere, aveva fatto credere a Jocelyn che suo figlio era morto e l'aveva costretta a nascondere a sua figlia la verità. Un senso di penetrante tristezza invase Clary: più di una vita era stata distrutta, in quel luogo. Si portò una mano al volto e fu quasi sorpresa nel sentirlo umido: stava piangendo, senza nemmeno rendersene conto. — Clary, mi dispiace. Pensavo che avresti voluto vederlo. — Sebastian le si avvicinò calpestando i detriti e sollevando sbuffi di cenere con gli stivali. Sembrava preoccupato. Lei lo guardò. — Sì, volevo vederlo. Voglio vederlo. Grazie. Si era alzato il vento e soffiava ciuffi di capelli neri davanti al volto di Sebastian, che ora le sorrideva mestamente. — Deve essere duro pensare a tutto quel che è successo in questo posto, a Valentine, a tua madre... Tua madre ha avuto un coraggio incredibile. — Lo so — disse Clary. — Era coraggiosa. È coraggiosa. Lui le sfiorò il viso. — Anche tu. — Sebastian, tu non sai niente di me. — Non è vero. — Si avvicinò a Clary, prendendole il volto tra le mani. Il suo tocco era gentile, quasi esitante. — Ho sentito un sacco di cose sul tuo conto, Clary. Di come hai affrontato tuo padre per la Coppa Mortale, di come sei entrata in quell'hotel infestato dai vampiri per cercare il tuo amico. Isabelle mi ha raccontato molte storie e poi ho sentito anche molte chiacchiere. E dalla prima volta che ho sentito il tuo nome, ho sempre voluto conoscerti. Sapevo che dovevi essere straordinaria. Lei rise, turbata. — Spero di non averti deluso troppo. — No — sussurrò Sebastian, facendole scivolare le dita sotto il mento. — Per niente. — Le sollevò il volto verso il suo. Clary era troppo sorpresa per reagire, anche quando Sebastian si avvicinò e lei si rese conto, un po' in ritardo, di cosa lui stava per fare. Istintivamente chiuse gli occhi, quando le labbra di Sebastian sfiorarono delicatamente le sue, mandandole brividi in tutto il corpo. Crebbe dentro di lei un desiderio potente e improvviso di farsi abbracciare, di farsi baciare, così da poter dimenticare tutto quanto. Sollevò le braccia e le allacciò dietro il collo di Sebastian, un po' per tenersi in piedi, un po' per attirarlo a sé. I capelli di lui le solleticarono le punte delle dita. Non erano di seta come quelli di Jace, ma erano sottili e soffici, e non avrebbe dovuto pensare a Jace proprio adesso. Ricacciò indietro i pensieri, mentre le dita di Sebastian seguivano i contorni del suo viso, del suo mento. Il suo tocco era delicato, nonostante le callosità delle mani. Certo, anche Jace aveva le stesse callosità, per le battaglie combattute. Probabilmente, tutti gli Shadowhunters le avevano. Clary represse il pensiero di Jace, o tentò di farlo, ma invano. Lo vedeva anche con gli occhi chiusi: vedeva gli spigoli e i tratti di quel viso che non era mai riuscita a disegnare bene, per quanto l'immagine fosse impressa a fuoco nella sua mente; vedeva la delicata ossatura delle sue mani, la pelle delle sue spalle segnata dalle cicatrici... L'intenso desiderio che tanto repentinamente era cresciuto dentro di lei si attenuò di colpo, come un elastico teso rilasciato all'improvviso. Non sentiva più niente, mentre Sebastian premeva le labbra sulle sue e le faceva scivolare le mani dietro la nuca. Non sentiva più niente, tranne una gelida e violenta sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Di terribilmente sbagliato. Era più che il disperato desiderio di qualcuno che non avrebbe mai potuto avere. Era qualcos'altro: un'improvvisa scossa di orrore, come se, dopo aver fatto un fiducioso passo avanti, si fosse all'improvviso ritrovata a precipitare nel vuoto più nero. Con un sussulto si staccò da Sebastian, con una forza tale da farle perdere l'equilibrio. Se non ci fosse stato lui a sostenerla, sarebbe caduta. — Clary. — Sebastian aveva lo sguardo trasognato, le guance arrossate e accese. — Clary, che succede? — Niente. — La sua voce risuonò flebile alle sue stesse orecchie. — Niente... è solo che... non avrei dovuto... non sono ancora pronta... — Siamo stati troppo impulsivi? Possiamo andare più piano... — Sebastian le si avvicinò di nuovo, ma Clary, senza riuscire a controllarsi, si sottrasse. Lui sembrò ferito. — Non voglio farti del male, Clary. — Lo so. — È successo qualcosa? — La sua mano si avvicinò, le spinse indietro i capelli. Clary ricacciò l'istinto di allontanarlo. — Jace ha... Jace? — Come faceva Sebastian a sapere che stava pensando a Jace? Da cosa l'aveva capito? Eppure... — Jace è mio fratello. Perché lo nomini adesso? Cosa vorresti dire? — Pensavo solo... — Sebastian scosse la testa. Il dolore e la confusione si inseguivano sul suo viso. — ... che forse qualcun altro ti avesse ferito. La sua mano era ancora sulla guancia di Clary. Lei gliela prese e l'allontanò, in modo delicato ma fermo. — No. Niente del genere. È solo che... — Esitò. — Mi sembrava una cosa sbagliata. — Sbagliata! — L'espressione ferita di Sebastian scomparve, sostituita dall'incredulità. — Clary, noi due abbiamo un legame, lo sai anche tu. Dal primo momento che ti ho vista... — Sebastian, non... —... ho sentito subito che eri la persona che aspettavo da sempre. E ho visto che anche tu hai provato la stessa cosa. Non dirmi che non è vero. Ma non era questo che Clary aveva sentito. Per lei era stato come girare l'angolo in una città sconosciuta e trovarsi all'improvviso davanti alla facciata rossa di casa sua. Un riconoscimento sorprendente e non del tutto piacevole. Quasi un: "E questo, come può essere qui?" — Non è vero — disse. La rabbia che salì agli occhi di Sebastian, una rabbia improvvisa, cupa, incontrollata, colse Clary di sorpresa. La prese per i polsi, stringendoli fino a farle male. — Tu menti. Clary cercò di liberarsi. — Sebastian... — Tu menti! — Il nero dei suoi occhi sembrava aver ingoiato le pupille. La sua faccia era come una maschera bianca, dura e rigida. — Sebastian — ripetè Clary, con tutta la calma che riuscì a trovare. — Mi stai facendo male. La lasciò andare. Il suo petto saliva e scendeva rapidamente. — Scusa — disse. — Scusa, pensavo... — Be', pensavi male, avrebbe voluto dirgli Clary, ma si morse la lingua. Non voleva rivedere ancora quell'espressione sul suo viso. — Dovremmo tornare indietro — disse invece. — Fra poco farà buio. Sebastian annuì, stordito, scioccato dalla propria esplosione di rabbia almeno quanto Clary. Si avviò verso Wayfarer, che brucava l'erba all'ombra lunga di un albero. Clary esitò un momento, poi lo seguì. Non c'era altro che potesse fare. Si guardò i polsi furtivamente, mentre seguiva i suoi passi: erano segnati di rosso dove le dita di Sebastian l'avevano stretta. Ma, cosa ancora più strana, i polpastrelli erano sporchi di nero, come se fossero macchiati di inchiostro. Sebastian rimase in silenzio, aiutandola a salire in groppa a Wayfarer. — Scusa se involontariamente ho fatto qualche insinuazione su Jace — le disse alla fine, mentre lei si sistemava sulla sella. — So che non ti farebbe mai del male. So che è per te che è andato alla Guardia, a cercare il vampiro in prigione. Fu come se il mondo intero si inceppasse e si fermasse all'improvviso. Clary sentiva il proprio respiro fischiarle nelle orecchie, vedeva le sue mani, gelide come quelle di una statua, immobili contro il pomo della sella. — Il vampiro in prigione? — sussurrò. Sebastian la guardò, sorpreso. — Sì — disse. — Simon, il vampiro che hanno portato con sé da New York. Credevo... sì, insomma, ero sicuro che lo sapessi anche tu. Jace non ti ha detto niente? capitolo 8 ANCORA TRA I VIVI Simon si svegliò con la luce del sole che brillava su un oggetto che era stato gettato nella cella attraverso l'inferriata della finestrella. Si alzò in piedi, con i crampi per la fame, e vide che era una fiaschetta di metallo. C'era un foglio arrotolato, legato al collo della fiaschetta. Lo staccò, lo aprì e lesse: Simon, questo è sangue di mucca, fresco di macelleria. Spero che vada bene. Jace mi ha detto tutto e voglio che tu sappia ciò che penso: è una scelta coraggiosa, la tua. Resisti! Noi intanto pensiamo a un modo per tirarti fuori. X0X0X0X0X0X0X0XIsabelle Simon sorrise per la sfilza di X e O scritti in fondo alla pagina. Tanti baci e abbracci. Era bello sapere che l'affetto di Isabelle non aveva subito contraccolpi, nelle attuali circostanze. Svitò il tappo e cominciò a bere a grandi sorsate. Ma una sensazione acuta e pungente tra le scapole lo fece girare. Al centro della stanza, calmo e tranquillo, c'era Raphael, le mani dietro la schiena e le esili spalle bene aperte. Aveva una camicia bianca perfettamente stirata e una giacca scura. Una catenina d'oro gli luccicava intorno al collo. Simon per poco non si soffocò col sangue che stava bevendo. Mandò giù il sorso, fissando Raphael. — Tu... tu non puoi essere qui. Il sorriso di Raphael dava l'impressione che i canini fossero fuori, anche se non era così. — Niente panico, Diurno. — Non ho nessun panico. — Non era vero. Era come se avesse ingoiato qualcosa di tagliente. Non vedeva Raphael dalla notte in cui era uscito scavando con le mani, pesto e insanguinato, da una tomba frettolosamente preparata a Queens. Ricordava Raphael che gli gettava sacchetti di sangue animale e lui che li strappava con i denti, come una bestia. Non era un ricordo piacevole. Avrebbe preferito non rivedere mai più il ragazzo vampiro. — Il sole è ancora alto. Come fai a essere qui? — Non sono qui. — La voce di Raphael era morbida come il burro. — Sono una proiezione. — Agitò la mano, facendola passare attraverso il muro di pietra accanto a lui. — Sono come fumo. Non posso farti male. E naturalmente, nemmeno tu puoi far del male a me. — Io non voglio farti un bel niente. — Simon posò la fiaschetta sulla branda. — Ma voglio sapere che ci fai qui. — Sei sparito da New York di punto in bianco, Diurno. Dovresti sapere che è tuo dovere informare il Signore dei vampiri della tua zona, prima di lasciare la città. — Il Signore dei vampiri? E saresti tu? Credevo che fosse qualcun altro. — Camille non è ancora tornata — annunciò Raphael senza alcuna apparente emozione. — Ho io il comando, in sua assenza. Lo sapresti, se ti fossi preso la briga di conoscere le leggi della tua razza. — La mia partenza da New York non è stata, per così dire, programmata. E, senza offesa: non riesco a pensare a te come uno della mia razza. — Dios! — Raphael abbassò gli occhi, come a nascondere il divertimento. — Sei proprio testardo. — Come fai a dirlo? — Mi pare ovvio, no? — Voglio dire... — La gola di Simon si serrò. — Quella parola. Tu riesci a dirla. Io invece, non posso pronunciare il nome di... — Dio. Raphael alzò gli occhi di scatto: era proprio divertito. — L'età — spiegò. — La pratica. E la fede. O la perdita della fede. Per certi versi sono la stessa cosa. Lo imparerai anche tu, col tempo, uccellino. — Non chiamarmi così. — Ma è quello che sei. Sei un Figlio della Notte. Non è per questo che Valentine ti ha catturato e ha preso il tuo sangue? — A quanto pare sei piuttosto ben informato — commentò Simon. — Forse potresti dirmelo tu. Gli occhi di Raphael si socchiusero. — Ho anche sentito dire che hai bevuto il sangue di un Cacciatore, e che questo è ciò che ti ha dato il tuo dono: la facoltà di stare alla luce del sole. È vero? Simon sentì un formicolio sottopelle. — È assurdo. Se il sangue di un Cacciatore potesse dare ai vampiri la capacità di stare alla luce del sole, lo saprebbero tutti, ormai. Il sangue di Nephilim sarebbe ricercatissimo, una vera rarità, e non ci sarebbe mai pace tra vampiri e Cacciatori, se fosse vero. È un bene che non sia così. Un lieve sorriso inarcò gli angoli della bocca di Raphael. — Giusto. A proposito di rarità: ti rendi conto, Diurno, diessere diventato un oggetto prezioso e molto ricercato, vero? Non c'è Nascosto su questa terra che non voglia metter e le mani su di te. — Te compreso? — Certo. — E cosa faresti, se potessi mettere le mani su di me? Raphael scrollò le esili spalle. — Forse sono il solo a pensare che la facoltà di stare alla luce del sole non sia poi quella gran cosa che gli altri vampiri credono. Noi siamo Figli |della Notte per una ragione. Forse io ti considero solo un abominio, proprio come gli uomini considerano me. — Davvero? — È possibile. — L'espressione di Raphael era neutra. — Io credo che tu sia un pericolo per tutti noi. Un pericolo per la razza dei vampiri. Ma non resterai in questa cella per sempre, Diurno. Alla fine dovrai uscire e affrontare di nuovo il mondo. Affrontare di nuovo il sottoscritto. Ma ti dico una cosa: io ti giuro che non ti farò alcun male e non cercherò di rintracciarti, se tu in cambio mi giuri che ti nasconderai, dopo che Aldertree ti avrà liberato; se mi giuri che andrai così lontano che nessuno ti potrà mai ritrovare, che non contatterai mai più nessuno di coloro che hai conosciuto nella tua vita mortale. Non posso essere più leale di così. Ma Simon già scuoteva la testa. — Non posso abbandonare la mia famiglia. Né Clary. Raphael s'irritò. — Loro non fanno più parte di ciò che sei. Tu, adesso, sei un vampiro. — Ma non voglio esserlo — ribadì Simon. — Ma guardati! — esclamò Raphael. — Non ti ammalerai mai, non morirai mai, sarai giovane e forte per sempre. Non invecchierai mai. Di cosa ti lamenti? Giovane per sempre, pensò Simon. Sembrava una bella cosa, ma chi voleva veramente avere sedici anni per sempre? Sarebbe stato diverso essere congelati per sempre all'età di venticinque anni... ma sedici?! Restare sempre così dinoccolato, non raggiungere mai una forma finita, nella faccia e nel corpo? Per non parlare poi del fatto che, con quell'aspetto da ragazzino, non sarebbe mai riuscito a entrare in un bar e a ordinare da bere. Mai. Per tutta l'eternità. — E poi — aggiunse Raphael — non devi nemmeno rinunciare al sole. Simon non aveva alcun desiderio di tornare sull'argomento. — Ho sentito gli altri che parlavano di te, al Dumort — disse. — So che ogni domenica ti metti una croce al collo e vai a trovare la tua famiglia. Scommetto che non sanno nemmeno che sei diventato un vampiro. Quindi, non venire a dire a me di lasciarmi alle spalle tutte le persone che fanno parte della mia vita. Non lo farò mai e non ti voglio mentire dicendoti che lo farò. Gli occhi di Raphael luccicarono. — Quello che crede la mia famiglia non ha importanza. È quello che credo io. Quello che so io. Un vero vampiro sa di essere morto. E accetta la propria morte. Ma tu, tu pensi di essere ancora tra i vivi. E questo che ti rende così pericoloso. Non riesci ad ammettere che non sei più vivo. Era il crepuscolo, quando Clary si chiuse alle spalle la porta della casa di Amatis e l'assicurò con il catenaccio. Si appoggiò alla porta per un lungo momento, nell'ingresso in penombra, con gli occhi semichiusi. Era esausta: sentiva il peso della stanchezza in tutto il corpo, e poi le facevano male le gambe. — Clary? — La voce insistente di Amatis penetrò nel silenzio. — Sei tu? Clary rimase dov'era, lasciandosi andare alla deriva nel buio dietro le palpebre chiuse. Quanto desiderava essere a casa sua! Le pareva quasi di sentire il sapore metallico dell'aria nelle strade di Brooklyn, di vedere sua madre seduta alla finestra, con la luce pallida e polverosa che entrava dai vetri aperti illuminando la tela che stava dipingendo. La nostalgia le si avvinghiò dolorosamente alle viscere. — Clary. — Adesso la voce era molto più vicina. Clary aprì gli occhi di scatto. Amatis era davanti a lei, i capelli grigi raccolti severamente dietro la nuca, le mani sui fianchi. — C'è qui tuo fratello. Ti sta aspettando in cucina. — Jace è qui? — Clary lottò per non far trapelare la rabbia e lo stupore. Non aveva senso mostrare alla sorella di Luke quanto fosse arrabbiata. Amatis la stava osservando con curiosità. — Non avrei dovuto farlo entrare? Pensavo che volessi vederlo. — Sì, va bene così — disse Clary, mantenendo un tono neutro con una certa difficoltà. — Sono solo stanca. — Ah. — Amatis non sembrava convinta. — Be', io sono di sopra, se hai bisogno di me. Vado a stendermi. Clary non riusciva a immaginare per quale motivo avrebbe potuto aver bisogno di Amatis, ma annuì e si avviò barcollando verso la cucina, che era inondata di luce brillante. C'era un cestino di frutta sul tavolo, pieno di arance, mele e pere, e una forma di pane rustico con burro e formaggio, e un piatto di... biscotti? Amatis aveva veramente fatto i biscotti? Seduto al tavolo della cucina, c'era Jace. Era proteso in avanti, appoggiato ai gomiti, i capelli dorati arruffati, la camicia un po' aperta sul collo. Clary notò la striscia di marchi neri che gli segnava la clavicola. Aveva un biscotto nella mano bendata. Allora Sebastian aveva ragione: si era fatto male davvero. Non che le importasse molto. — Bene — disse Jace. — Sei tornata. Cominciavo a pensare che fossi caduta in un canale. Clary rimase a fissarlo, senza parole. Si chiese se Jace riuscisse a leggere la rabbia che c'era nei suoi occhi. Lui si appoggiò sulla sedia, buttando un braccio dietro lo schienale, con disinvoltura. Se non fosse stato per il rapido pulsare della gola, Clary avrebbe potuto credere vera la sua finta noncuranza. — Sembri esausta — aggiunse Jace. — Dove sei stata tutto il giorno? — Fuori con Sebastian. — Sebastian! — L'espressione di assoluto stupore fu per lei momentaneamente gratificante. — Ieri sera mi ha accompagnato a casa — proseguì Clary, mentre nella mente le risuonavano le parole di Jace come il battito di un cuore malato: D'ora in poi per te sarò solo un fratello, solo un fratello. — Finora, è stata l'unica persona di tutta la città a mostrarsi gentile con me. Quindi, sì, sono stata fuori con Sebastian. — Capisco. — Jace posò il biscotto sul piatto. Il suo volto era senza espressione. — Clary, sono venuto qui per scusarmi. Non avrei dovuto dire le cose che ho detto. — No — disse Clary. — Non avresti dovuto. — Sono venuto anche per chiederti se vuoi riconsiderare l'ipotesi di tornare a New York. — Dio! — esclamò Clary. — Di nuovo... — Qui non sei al sicuro. — E di cosa ti preoccupi? — chiese Clary, senza colorenella voce. — Che mi buttino in prigione come hanno fatto con Simon? L'espressione di Jace non cambiò, ma si sollevò sulle gambe posteriori sulla sedia, come se Clary gli avesse dato uno spintone. — Simon...? — Sebastian mi ha detto cosa gli è successo — proseguì Clary con lo stesso tono piatto. — Che cosa hai fatto? L'hai portato qui e poi hai lasciato che lo buttassero in carcere. Stai cercando un modo per farti odiare da me? — E tu credi a Sebastian? — ribatté Jace. — Lo conosci a malapena, Clary. Lo fissò. — Perché, non è vero? Jace incrociò il suo sguardo, ma la sua faccia era immobile, come quella di Sebastian quando lei l'aveva respinto. — È vero. Clary prese un piatto e glielo tirò. Jace si abbassò, facendo girare la sedia, e il piatto colpì il muro sopra il lavello e si ruppe in un'esplosione di frammenti. Jace si alzò di scatto dalla sedia quando Clary prese un altro piatto e lo scagliò, tirando a caso: rimbalzò contro il frigorifero, cadde a terra ai piedi di Jace e si spaccò in due parti uguali. — Come hai potuto? Simon si fidava di te. Dov'è adesso? Che cosa gli vogliono fare? — Niente — rispose Jace. — Sta bene. L'ho visto ieri sera. — Prima o dopo il nostro incontro? Prima o dopo aver fatto finta che fosse tutto a posto e che stavi benissimo così? — Tu sei andata via pensando che "stavo benissimo così"? — Jace soffocò per qualcosa che somigliava vagamente a una risata. — Devo essere un attore più bravo di quello che pensavo — concluse con un sorriso contorto. Fu come un fiammifero, per la polvere da sparo che era la rabbia di Clary: come osava ridere di lei? Clary fece per prendere il cestino della frutta, ma di colpo non le sembrò abbastanza. Scostò la sedia con un calcio e si scagliò contro di lui. L'impeto dell'assalto lo colse alla sprovvista. Clary gli piombò addosso con tutto il suo peso: Jace barcollò, arretrando, e andò a sbattere contro il piano da lavoro. Lo sentì sussultare, alzò un pugno alla cieca, senza nemmeno sapere bene cosa voleva fare. Ma aveva dimenticato quanto Jace fosse veloce. Il pugno non piombò sulla sua faccia, ma sulla sua mano aperta. Jace chiuse le dita intorno alle sue, costringendola ad abbassare il braccio. Di colpo Clary si rese conto di quanto fossero vicini: lei gli era appoggiata con tutto il corpo e lo premeva contro il piano di lavoro. — Mollami la mano. — Se lo faccio, tu mi picchi di nuovo? — La sua voce era roca e bassa, gli occhi ardenti. — Non credi di meritartelo? Sentì il petto di Jace alzarsi e abbassarsi contro di lei, in una risata senza divertimento. — Tu credi che abbia pianificato tutto questo? Pensi davvero che farei una cosa del genere? — Be', Simon non ti sta simpatico, no? Forse non ti è mai stato simpatico. Jace si lasciò sfuggire un verso roco, incredulo, e le liberò la mano. Quando Clary fece un passo indietro, allungò il braccio destro, a palmo in su. Le ci volle un momento per capire che cosa le stava mostrando: una cicatrice frastagliata sul polso. — Qui — le disse, con la voce tesa come una corda di violino — è dove mi sono tagliato il polso per far bere il mio sangue al tuo amico vampiro. Ho rischiato di morire. Come puoi pensare che adesso io l'abbia abbandonato senza pensarci due volte? Clary fissò la cicatrice sul polso di Jace: una delle tante, di ogni forma e dimensione, sparse su tutto il suo corpo. — Sebastian mi ha detto che tu hai portato qui Simon e poi Alec l'ha accompagnato alla Guardia. L'ha consegnato al Conclave, non potevi non saperlo. — L'ho portato qui per caso. Gli avevo chiesto di venire all'Istituto per parlargli. Di te, tra l'altro. Pensavo che lui potesse convincerti ad abbandonare l'idea di venire a Idris. Se ti può consolare, non l'ha nemmeno preso in considerazione. E mentre era lì, siamo stati attaccati dai Dimenticati. Ho dovuto trascinarlo via con me, attraverso il Portale. Altrimenti l'avrei abbandonato a una morte certa. — Ma perché consegnarlo al Conclave? Dovevi per forza sapere... — La ragione per cui l'abbiamo mandato là è perché l'unico Portale di Idris è alla Guardia. Ci avevano detto che volevano rispedirlo a New York. — E voi ci avete creduto? Dopo quello che è successo con l'Inquisitrice? — Clary, l'Inquisitrice era un'anomalia. Per te è stata la prima esperienza del Conclave, ma non per me. Il Conclave siamo noi. I Nephilim. Il Conclave rispetta la Legge. — Peccato che stavolta non l'abbiano fatto. — No — disse Jace. — Non l'hanno fatto. — La sua voce era molto stanca. — E la cosa peggiore di tutto questo — aggiunse — è ripensare a Valentine che farnetica sul Conclave, su quanto sia corrotto, su quanto abbia bisogno di un bel repulisti. E, per l'Angelo, su questo sono d'accordo con lui! Clary era in silenzio, primo perché non le veniva in mente niente da dire e poi per lo stupore, perché Jace, quasi soprappensiero, si protese e l'attrasse a sé. E lei, contro ogni logica, glielo lasciò fare. Dal tessuto bianco della camicia, Clary vedeva i segni dei marchi, neri e curvilinei, che gli lambivano la pelle come lingue di fuoco. Desiderava appoggiare la testa al suo petto, desiderava sentire le sue braccia intorno a sé, con la stessa intensità con cui aveva cercato l'aria mentre rischiava di annegare nel lago Lyn. — Forse ha ragione sul fatto che molte cose dovrebbero essere sistemate — disse Clary alla fine. — Ma non ha ragione sul modo in cui dovrebbero essere sistemate. Questo lo capisci, vero? Jace socchiuse gli occhi. Erano segnati da profonde mezzelune grigie, notò Clary. Tracce di notti insonni. — Non sono più sicuro di capire niente. Hai tutte le ragioni per essere arrabbiata, Clary. Non avrei dovuto fidarmi del Conclave. Volevo credere che l'Inquisitrice fosse un'anomalia e che avesse agito ignorando la loro autorità. Volevo credere che ci fosse ancora qualcosa di buono, nell'essere Cacciatori. — Jace — sussurrò Clary. Jace aprì gli occhi e la guardò. Erano così vicini che ogni punto dei loro corpi era in contatto: anche le ginocchia si toccavano e Clary sentiva battere il cuore di Jace. Allontanati da lui, ordinò a se stessa, ma le gambe si rifiutarono di obbedire. — Che c'è? — chiese lui, con voce dolce. — Io voglio vedere Simon — disse Clary. — Puoi portarmi da lui? Così all'improvviso come l'aveva presa tra le braccia, Jace la lasciò andare. — No. Tu non dovresti nemmeno essere a Idris. Non puoi andartene in giro per la Guardia a passo di valzer. — Ma penserà che tutti l'abbiano abbandonato. Penserà... — Ci sono andato io, da lui — disse Jace. — Volevo liberarlo. Volevo strappare l'inferriata della finestra con le mani. — Il suo tono era molto concreto. — Ma lui non ha voluto. — Non ha voluto? Ha preferito restare in prigione? — Mi ha spiegato che l'Inquisitore sta indagando sulla mia famiglia, su di me. Aldertree vuole addossare a noi la colpa di tutto ciò che è successo a New York. Non può arrestare uno di noi ed estorcere una confessione con la tortura, perché il Conclave non lo vedrebbe di buon occhio, ma sta cercando di far dichiarare a Simon che tutti noi siamo in combutta con Valentine. E Simon dice che, se lo faccio evadere, l'Inquisitore capirà che sono stato io, e le cose si metteranno ancora peggio, per i Lightwood. — È molto nobile da parte sua, non c'è che dire. Ma qual èil piano a lungo termine? Restare in carcere per sempre? Jace scrollò le spalle. — A questo non abbiamo ancora pensato. Clary sbuffò per l'esasperazione. — Maschi — sbottò. — E va bene. Senti, quello che ti serve è un alibi. Facciamo in modo che tu sia in un posto dove tutti ti vedano e dove ci siano anche i Lightwood, poi ci facciamo aiutare da Magnus a tirar fuori Simon dalla prigione e a riportarlo a New York. — Odio dirti questo, Clary, ma non c'è speranza che Magnus faccia una cosa del genere. Non importa quanto trovi carino Alec: non si metterà mai contro il Conclave perfare un piacere a noi. — Potrebbe — disse Clary. — In cambio del Libro Bianco. Jace batté le palpebre. — Il cosa? Rapidamente, Clary gli raccontò della morte di Ragnor Fell, di Magnus che si era presentato al posto suo, e del libro degli incantesimi. Jace ascoltò con stupita attenzione, finché Clary non ebbe finito di parlare. — Demoni? — disse. — Magnus ha detto che Fell è stato ucciso dai demoni? Clary ripensò alle sue parole. — No, ha detto che il posto puzzava di qualcosa di origine demoniaca. E che Fell è stato ucciso dai servi di Valentine. È così che ha detto. — Certa magia nera lascia un'aura che ha il puzzo dei demoni — osservò Jace. — Se Magnus non è stato più preciso, forse è perché non è affatto contento che ci sia di mezzo un qualche stregone che, praticando la magia nera, ha infranto la Legge. Non è certo la prima volta che Valentine convince uno dei Figli di Lilith a obbedire ai suoi ordini. Ricordi il giovane stregone che uccise a New York? — Valentine usò il suo sangue per il Rituale. Mi ricordo bene. — Clary rabbrividì. — Jace, Valentine vuole il Libro per le mie stesse ragioni? Per risvegliare mia madre? — Potrebbe essere. Oppure, potrebbe volerlo semplicemente per il potere che contiene. Sia come sia, è meglio che lo troviamo prima noi. — Secondo te, è possibile che sia nella tenuta dei Wayland? — Ne sono sicuro — disse Jace, sorprendendola. — Il libro di Ricette per casalinghe o come si chiama... l'ho già visto. Era l'unico libro di cucina di tutta la biblioteca. Clary era stordita. Quasi non voleva credere che fosse vero. — Jace... se mi porti alla tenuta e troviamo il libro, ti prometto che tornerò a casa con Simon. Fa' questo per me e io ti prometto che andrò a New York e non tornerò più indietro. — Magnus aveva ragione: ci sono delle difese depistanti sulla tenuta — disse Jace lentamente. — Io ti ci posso portare, ma non è vicino. A piedi, ci vorranno cinque ore. Clary gli sfilò lo stilo dalla cintura e lo tenne sollevato tra di loro. Riluceva di una pallida luce bianca, non diversa da quella emanata dalle torri di vetro. — E chi ha detto che ci andremo a piedi? — Ricevi delle strane visite, Diurno — osservò Samuel. —Prima Jonathan Morgenstern e adesso il Signore dei vampiri di New York City. Sono molto colpito. Jonathan Morgenstern? Ci volle un attimo prima che Simon capisse che stava parlando di Jace. Era seduto per terra, al centro della cella, e rigirava pigramente tra le mani la fiaschetta vuota. — Evidentemente sono più importante di quel che pensavo. — E poi Isabelle Lightwood che ti porta del sangue — continuò Samuel. — Niente male, come servizio a domicilio. La testa di Simon si alzò di scatto. — Come fai a sapere che è stata Isabelle a portarmelo? Io non ho detto niente. — L'ho vista dalla finestra. È uguale a sua madre — rispose Samuel. — O meglio, è uguale a com'era sua madre parecchi anni fa. — Ci fu un silenzio impacciato. — Tu lo sai, che il sangue è solo una soluzione temporanea, vero? — aggiunse. — Molto presto l'Inquisitore comincerà a chie dersi se non sei ancora morto di fame. Se ti trova in buona salute, capirà che c'è qualche imbroglio e ti ammazzerà comunque. Simon alzò gli occhi al soffitto. Le rune incise nella pietra si sovrapponevano le une sulle altre, come i sassi di una spiaggia ghiaiosa. — Immagino che non mi resti altro da fare che fidarmi di Jace, quando dice che troveranno un modo per tirarmi fuori di qui — disse. Quando Samuel non rispose nulla, aggiunse: — Gli chiederò di tirare fuori anche te, te lo prometto. Non ti lascerò qui dentro. Samuel fece un verso soffocato, come una risata rimasta impigliata nella gola. — Oh, non credo proprio che Jace Morgenstern voglia salvare proprio me — commentò. — E poi, morire di fame qui dentro è il minore dei tuoi problemi, Diurno. Molto presto Valentine attaccherà la città, e allora sarà più facile che veniamo uccisi tutti quanti. Simon batté le palpebre. — Come fai ad esserne così sicuro? — Ero vicino a Valentine, in una certa fase della mia vita. Conoscevo i suoi piani. I suoi obiettivi. Valentine vuole distruggere le difese di Alicante e colpire il Conclave nel cuore del suo potere. — Ma io credevo che i demoni non potessero superare le difese. Credevo che fossero impenetrabili. — Così si dice. Ci vuole del sangue di demone per neutralizzare le difese, capisci? E le difese si possono neutralizzare soltanto dall'interno di Alicante. Però, siccome nessun demone può passare attraverso le difese... Be', è un perfetto paradosso, o così dovrebbe essere. Ma Valentine era convinto che avrebbe trovato il modo di aggirare questo ostacolo e che sarebbe riuscito ad entrare ad Alicante. E io gli credo. Valentine troverà il modo per abbattere le difese ed entrerà nella città col suo esercito di demoni. E ci ucciderà tutti quanti. La pacata certezza nella voce di Samuel fece correre un brivido freddo lungo la schiena di Simon. — Sembri terribilmente rassegnato. Non dovresti fare qualcosa? Mettere in guardia il Conclave? — Li ho già messi in guardia, quando mi hanno interrogato. Gli ho ripetuto mille volte che Valentine ha intenzione di distruggere le difese, ma non mi hanno voluto credere. Il Conclave è convinto che le difese resisteranno per sempre, perché hanno resistito mille anni. Ma è stato così anche per Roma, finché non sono calati i barbari. Tutto ha una fine, prima o poi. — Ridacchiò: una risata amara, rabbiosa. — Considerala una gara a chi ti ammazza per primo, Diurno: se Valentine, o gli altri Nascosti, o il Conclave. A un certo punto, la mano di Clary fu strappata via da quella di Jace. Quando il tornado la sputò fuori, cadde con violenza e rotolò senza fiato fino a fermarsi. Si mise lentamente a sedere e si guardò intorno. Era al centro di un tappeto persiano steso sul pavimento di una grande stanza dalle pareti di pietra. I mobili della stanza erano coperti da lenzuola bianche che li trasformavano in goffi e sghembi fantasmi. Pesanti tende di velluto coprivano enormi finestre: il velluto era bianco di polvere e il pulviscolo danzava alla luce della luna. — Clary? — Jace emerse da dietro una grossa sagoma rivestita di bianco, forse un pianoforte a coda. — Stai bene? — Sì — rispose Clary con una piccola smorfia di dolore. Le faceva male un gomito. — A parte il fatto che probabilmente Amatis mi ucciderà, quando torneremo indietro. Visto e considerato che le ho rotto i piatti e ho pure aperto un Portale nella sua cucina. Jace le allungò una mano. — Per quel che vale — le disse aiutandola a rialzarsi in piedi — la cosa mi ha molto impressionato. — Grazie. — Clary si guardò in giro. — Quindi è qui che sei cresciuto? Sembra un posto uscito da una favola. — Io direi da un film dell'orrore — commentò Jace. — Dio, sono passati anni dall'ultima volta che ho visto questo posto. Una volta non era così... — Così freddo? — Clary rabbrividì. Si abbottonò il cappotto, ma il freddo era più di un freddo meteorologico: era un freddo interno, come se quella casa non avesse mai conosciuto calore, luce o risate. — No — rispose Jace. — È sempre stata fredda. E polverosa. — Prese dalla tasca una pietra di stregaluce e l'accese tra le dita. La luce bianca illuminò il suo viso dal basso, mettendo in rilievo le ombre sotto gli zigomi e le cavità delle tempie. — Questo è lo studio. A noi serve la biblioteca. Vieni. Jace condusse Clary in un lungo corridoio sul quale si allineavano decine di specchi che riflettevano le loro figure. Clary non si era resa conto in quale stato fosse: il cappotto impolverato, i capelli scarmigliati dal vento. Cercò di lisciarseli con discrezione, ma colse il sorriso di Jace nello specchio successivo. Per qualche ragione, probabilmente una qualche misteriosa magia da Cacciatore che lei non era in grado di comprendere, i capelli di Jace erano perfetti. Il corridoio era costellato di porte, alcune delle quali aperte: dietro le porte, Clary intravide altre stanze, anch'esse impolverate e in disuso come lo studio. Michael Wayland non aveva parenti, aveva detto Valentine, quindi nessuno aveva ereditato la tenuta dopo la sua morte. Clary credeva che Valentine avesse continuato a vivere lì, ma evidentemente non era così. Tutto, là dentro, parlava di dolore e abbandono. A Renwick, Valentine aveva chiamato quel posto "casa" e l'aveva mostrato a Jace nello specchio-Portale: un ricordo dorato di campi verdi e pietre piene di calore. Ma anche quella, pensò Clary, era una menzogna. Senza dubbio Valentine non viveva lì da anni: forse l'aveva lasciata lì a marcire, o era venuto solo occasionalmente, passando per i corridoi come un fantasma. Raggiunsero una porta in fondo al corridoio e Jace l'aprì con una spallata, poi fece un passo indietro per far entrare Clary per prima. Si era immaginata una biblioteca come quella dell'Istituto, e questa stanza non era tanto diversa: le stesse pareti piene di file e file di libri, le stesse scalette su rotelle per raggiungere gli scaffali più alti. Il soffitto, però, era piatto, non a cono, con le travi a vista, e non c'era alcuna scrivania. Tende di velluto verde imbiancate di polvere coprivano le finestre, in cui si alternavano rombi di vetro verdi e azzurri. Alla luce della luna, luccicavano come brina colorata. Oltre i vetri, tutto era nero. — È la biblioteca? — chiese Clary con un sussurro, nonsapendo bene perché parlasse a bassa voce. C'era qualcosadi profondamente immobile, in quella grande casa vuota. Jace guardava oltre, gli occhi incupiti dai ricordi. — Mi sedevo sempre a quella finestra, a leggere il libro che mio padre mi aveva assegnato: lingue diverse per giorni diversi - francese il sabato, inglese la domenica - ma non ricordo più quale fosse il giorno del latino, se il lunedì o il martedì. Clary vide in un flash l'immagine di Jace bambino, seduto nella strombatura della finestra con un libro bilanciato sulle ginocchia, a guardare fuori, verso... verso cosa? C'erano dei giardini? Un panorama? Un alto muro di spine come quello che circondava il castello della Bella Addormentata? Lo vide che leggeva, con la luce che entrava dalla finestra disegnando rombi verdi e azzurri sui suoi capelli chiari e su un faccino più serio di quanto dovesse essere quello di un bambino di dieci anni. — Non me lo ricordo più — ripetè Jace con lo sguardoperso nel buio. Clary gli toccò la spalla. — Non importa, Jace. — Immagino di no. — Jace si riscosse, come risvegliandosi da un sogno, e attraversò la stanza, illuminando il percorso con la stregaluce. Si chinò a esaminare una fila di librie si raddrizzò con un volume in mano. — Ricette semplici per le casalinghe — disse. — Eccolo qui. Clary lo raggiunse di corsa e lo prese dalle sue mani. Era un volume senza pretese, con la copertina blu, ed era impolverato come tutto il resto, in quella casa. Quando lo aprì, una nuvola di polvere si levò dalle pagine come uno sciame di farfalle notturne. Al centro del ricettario, era stato ritagliato un grosso buco quadrato. E nel buco, come una pietra preziosa incastonata in un gioiello, c'era un volume più piccolo, rilegato in cuoio bianco e col titolo in latino impresso in caratteri dorati. Clary riconobbe le parole per "libro" e per "bianco", ma quando lo prese e lo aprì, vide con sorpresa che le pagine erano coperte da una sottile grafia in una lingua che non conosceva. — Greco — disse Jace, guardando da dietro le spalle di Clary. — Greco antico. — Lo sai leggere? — Non con facilità — ammise Jace. — Sono passati anni. Ma Magnus sarà capace, immagino. — Jace chiuse il libretto e lo infilò nella tasca del cappotto verde di Clary, poi tornò alla libreria, passando le dita sulle file di libri e carezzandone il dorso. — Ci sono dei libri che vuoi portare con te? — gli chiese Clary dolcemente. — Se vuoi... Jace rise e lasciò cadere la mano. — Avevo il permesso di leggere solo quello che mi veniva assegnato — raccontò. — Alcuni degli scaffali contengono volumi che non potevo nemmeno toccare. — Le indicò una fila di libri, più in alto, rilegati in cuoio bruno. — Una volta, quando avevo circa sei anni, ne lessi uno, solo per capire che cosa ci fosse di tanto proibito. Scoprii che era un diario di mio padre. Appunti su Mio figlio, Jonathan Christopher. Mi frustò con la cintura dei pantaloni quando scoprì che l'avevo letto. Tra l'altro, fu in quell'occasione che scoprii di avere un secondo nome. Un senso improvviso di rancore verso suo padre colpì dolorosamente Clary. — Be', Valentine adesso non è qui. — Clary... — iniziò Jace, con una nota allarmata nella voce, ma Clary aveva già tirato giù uno dei libri dello scaffale proibito e l'aveva buttato per terra. Cadde con un bel tonfo soddisfacente. — Clary! — E dai! — Lo fece di nuovo, buttandone per terra un altro, e poi un terzo. La polvere sbuffava dalle pagine quando i volumi finivano sul pavimento. — Prova tu. Jace la guardò per un momento, poi un mezzo sorriso gli stuzzicò l'angolo della bocca. Alzò il braccio e spazzò via tutti gli altri libri dello scaffale, facendoli crollare rumorosamente. Rise. Ma poi s'interruppe, e sollevò la testa come un gatto che drizza le orecchie per un suono in lontananza. — Hai sentito? Sentito cosa? Clary stava per fare questa domanda, ma si trattenne. C'era davvero un suono, ora più forte. Un ronzio acuto, un cigolio come di ingranaggi che si rimettevano in moto. Il suono sembrava venire da dentro il muro. Clary fece d'istinto un passo indietro. In quel momento, le pietre del muro davanti a loro arretrarono con un gemito rugginoso. Dietro le pietre si aprì un vano. Era una specie di porta grossolanamente scavata nel muro. E dietro la porta c'erano delle scale, che scendevano nel buio. capitolo 9 QUESTO SANGUE COLPEVOLE Non ricordavo nemmeno che esistesse, una cantina — commentò Jace, fissando da sopra le spalle di Clary il varco che si apriva nel muro. Sollevò la stregaluce e il suo bagliore colpì le pareti del passaggio che scendeva giù. Erano nere e scivolose, di una pietra scura e liscia che Clary non riconobbe. I gradini luccicavano come fossero bagnati. Uno strano odore saliva dal fondo: umido e stantio, con una strana sfumatura metallica che la fece rabbrividire. — Secondo te, che cosa c'è laggiù? — Non lo so. — Jace si avvicinò alle scale; mise un piede sul primo gradino, saggiandone la tenuta, poi scrollò le spalle, come se avesse già preso la sua decisione. Cominciò a scendere con cautela. A metà strada, si girò a guardare Clary. — Tu vieni? Se vuoi, aspettami lì. Lei si guardò intorno nella biblioteca vuota, rabbrividì e si affrettò a raggiungerlo. Le scale scendevano in spire sempre più strette. Era come se Jace e Clary stessero penetrando dentro un'enorme conchiglia. L'odore si fece più forte quando raggiunsero la base della scala, che dava su una grande stanza quadrata dalle pareti di pietra striate dall'umidità e da altre macchie, più scure. Il pavimento era scarabocchiato di segni: pentacoli e rune, e pietre bianche qua e là. Jace fece un passo avanti e qualcosa si sbriciolò sotto i suoi piedi. Lui e Clary abbassarono gli occhi simultaneamente. — Ossa — sussurrò Clary. Non pietre bianche, ma ossa, di ogni forma e dimensione, sparse su tutto il pavimento. — Ma che cosa ci faceva, Valentine, qui sotto? La stregaluce ardeva nella mano di Jace, gettando intorno il suo strano bagliore. — Esperimenti — disse Jace in tono secco, teso. — La Regina della Corte Seelie ha detto... — Che tipo di ossa sono, queste? — La voce di Clary era stridula. — Sono ossa animali? — No. — Jace diede un calcio a un mucchio di ossa, sparpagliandole. — Non tutte. A Clary si strinse il petto. — Forse dovremmo tornare indietro. Jace, invece, levò più alta la stregaluce, che divampò più intensamente, illuminando l'aria di un aspro e bianco fulgore. Tutti gli angoli della stanza divennero visibili. Tre erano vuoti, ma nel quarto c'era un telo, con qualcosa sotto, una figura accasciata... — Jace — sussurrò Clary. — Cos'è quello? Lui non rispose. Ora, all'improvviso, c'era una spada angelica nella sua mano libera. Clary non sapeva quando l'avesse sguainata, ma brillava sotto la stregaluce come una lama di ghiaccio. — Jace, non farlo — gli intimò Clary. Ma Jace avanzò, sollevò il telo con la punta della spada e lo strappò via. Il lenzuolo cadde, facendo alzare una nuvola di polvere. Jace arretrò barcollando e la stregaluce gli cadde di mano. Mentre la vivida luce cadeva, Clary intravide per un attimo il suo viso: una livida maschera di orrore. Clary prese al volo la stregaluce prima che si spegnesse e la levò in alto, ansiosa di vedere cosa avesse tanto sconvolto Jace. Jace, che non si lasciava sconvolgere da nulla. All'inizio individuò solo la sagoma di un uomo, avvolto in stracci bianchi e sporchi, accovacciato per terra. I polsi e le caviglie erano stretti da catene fissate a grossi ganci di metallo infissi nel pavimento di pietra. Come può essere vivo?, pensò Clary inorridita, con la gola che le si riempì di bile. La pietra runica le tremò nella mano e la luce danzò come impazzita sul prigioniero. Clary vide le braccia e le gambe emaciate, segnate ovunque dai segni di innumerevoli torture. Il volto, ormai quasi un teschio, si girò verso di lei: c'erano vuote cavità nere al posto degli occhi. Poi ci fu un fruscio secco, e Clary vide che quelle che aveva scambiato per stracci erano in realtà ali: ali bianche, che si sollevarono dietro la schiena del prigioniero in due semilune candide e pure. L'unica cosa pura in quella stanza immonda. Clary sussultò, con la gola secca. — Jace... hai visto... — Ho visto. — La voce di Jace, accanto a lei, era spezzata come vetro in frantumi. — Avevi detto che gli angeli non c'erano... che nessuno li aveva mai visti... Jace stava sussurrando a mezza voce una sequela di spaventate imprecazioni. Avanzò incerto verso la creatura accovacciata sul pavimento, ma poi arretrò di scatto, come se fosse rimbalzato contro un muro invisibile. Clary abbassò lo sguardo e vide che l'angelo era seduto entro un pentacolo fatto di rune intrecciate tra loro, profondamente incise nella pietra. Le rune emanavano una pallida luce fosforescente. — Le rune — sussurrò. — Non possiamo oltrepassarle. — Ma ci deve pur essere qualcosa... — disse Jace con una voce quasi di pianto. — Qualcosa che possiamo fare. L'angelo sollevò la testa. Clary notò con un senso di pietà, terrore e turbamento, che aveva dei riccioli dorati come quelli di Jace, che risplendevano nella luce. I ricci erano appiccicati al cranio, gli occhi cavi, il viso sfregiato da cicatrici. Era come un magnifico dipinto distrutto dai vandali. L'angelo aprì la bocca e un suono si riversò dalla sua gola: non parole, ma una penetrante musica dorata, un'unica nota di canto, trattenuta a lungo, a lungo, a lungo, così alta e dolce che il suo suono era come un dolore... Una fiumana di immagini salì agli occhi di Clary. Aveva ancora in mano la pietra runica, ma la luce non c'era più. E anche lei non era più lì, ma in un altro luogo, dove le immagini del passato le scorrevano davanti in un sogno a occhi aperti: frammenti, colori, suoni. Si trovava in una cantina spoglia e pulita, e c'era una singola runa, gigantesca, tracciata sul pavimento di pietra. C'era un uomo accanto ad essa: aveva un libro aperto in una mano e una torcia fiammeggiante nell'altra. Quando l'uomo alzò la testa, Clary riconobbe Valentine: molto più giovane, il viso bello e senza rughe, gli occhi scuri, limpidi e vivaci. Recitava una cantilena e, alle sue parole, la runa divampò in alte fiamme. Quando le fiamme si spensero, rimase una figura accasciata tra la cenere: un angelo, con le ali spalancate e insanguinate, come un uccello colpito da un fucile e caduto dal cielo. La scena cambiò. Valentine era in piedi davanti a una finestra, al suo fianco c'era una giovane donna dai vivaci capelli rossi. Un anello d'argento, che Clary riconobbe, brillò al dito di Valentine, mentre cingeva la donna in un abbraccio. Con una fitta di dolore, Clary riconobbe sua madre. Ma era giovane e i tratti del suo viso erano dolci e vulnerabili. Indossava una camicia da notte bianca e aspettava un bambino. — Gli Accordi — le stava dicendo Valentine con rabbia — sono l'idea peggiore che il Conclave abbia mai avuto. E sono anche quanto di peggio potesse capitare ai Nephilim. Che noi dovessimo essere legati ai Nascosti, legati a quelle creature... — Valentine — lo interrompeva Jocelyn con un sorriso — ora basta con la politica, per favore. — Poi intrecciava le braccia intorno al collo di Valentine con uno sguardo pieno d'amore. E anche lo sguardo di Valentine era pieno d'amore, ma non solo: dentro vi era anche qualcos'altro, che fece rabbrividire Clary. Valentine era in ginocchio al centro di un circolo di alberi. Una luna splendente illuminava il pentacolo nero che lui aveva abbozzato sulla terra della radura. I rami degli alberi s'intrecciavano in una fitta rete sopra di lui, e dove si protendevano oltre i bordi del pentacolo le foglie si arricciavano e annerivano. Al centro della stella a cinque punte sedeva una donna dai lunghi capelli luminosi; la sua figura era snella e aggraziata, il viso nascosto nell'ombra, le braccia nude e bianche. La mano sinistra era tesa in avanti e, quando aprì le dita, Clary vide che aveva un lungo taglio sul palmo, da cui un lento rivolo di sangue gocciolava in una coppa d'argento posata sul pentacolo. Il sangue sembrava nero, sotto la luce della luna. O forse era davvero nero. — Il bimbo che nascerà con questo sangue dentro di sé — diceva la donna, e la sua voce era dolce e bella — avrà un potere più grande dei Demoni Superiori che popolano gli abissi tra i mondi. Sarà più potente dell'Asmodei, più forte dello shedu delle tempeste. Se verrà opportunamente addestrato, non ci sarà nulla che non sarà in grado di fare. Ma ti avverto — aggiungeva. — Questo sangue brucerà la sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue. — Io ti ringrazio, Signora di Edom — diceva Valentine. Mentre si protendeva per prendere la coppa di sangue, la donna levava il viso. E Clary vide che, pur essendo bellissima, i suoi occhi erano nere cavità dalle quali fuoruscivano tentacoli neri e sinuosi, come antenne che tastassero l'aria. Clary soffocò un grido. La notte e la foresta svanirono. Ecco Jocelyn, in piedi davanti a qualcuno che Clary non poteva vedere. Non era più incinta e i suoi capelli luminosi erano scarmigliati intorno al viso disperato e sofferente. — Non posso più restare con lui, Ragnor — diceva. — Nemmeno un giorno in più. Ho letto il suo diario. Sai che cosa ha fatto a Jonathan? Credevo che nemmeno Valentine potesse arrivare a tanto. — Le sue spalle tremavano. — Ha usato sangue di demone! Jonathan non è più un bambino! Non è più nemmeno umano! È un mostro... Jocelyn svanì. Valentine camminava inquieto intorno al cerchio di rune, brandendo una lucente spada angelica. — Perché non parli? —borbottava. — Perché non vuoi darmi ciò che voglio? — Calò la spada e l'angelo si contorse per il dolore, mentre un fluido dorato colava dalla ferita come liquida luce del sole. — Se non vuoi darmi delle risposte — sibilava Valentine — puoi darmi il tuo sangue. Sarà più utile a me e ai miei di quanto lo sarà a te. Ora erano nella biblioteca dei Wayland. La luce del sole brillava dai rombi di vetro delle finestre, inondando la stanza di azzurro e di verde. Da un'altra stanza giungevano delle voci: suoni di risate e di chiacchiere, c'era una festa. Jocelyn era in ginocchio vicino a uno scaffale e si guardava furtivamente intorno. Tirava fuori un grosso libro dalla tasca e lo infilava nello scaffale. Ed era già sparita. La scena successiva si svolgeva in una cantina, la stessa dove Clary si trovava in quel momento. Lo stesso pentacolo grossolanamente inciso sul pavimento e, al centro della stella, l'angelo. Valentine era lì accanto, di nuovo con un'ardente spada angelica in pugno. Era molto più anziano, adesso. — Ithuriel — diceva. — Ormai siamo vecchi amici, no? Avrei potuto lasciati sepolto vivo in quelle rovine, invece no, ti ho portato qui con me. Per tutti questi anni ti ho tenuto sempre con me, sperando che un giorno mi avresti detto ciò che volevo, che dovevo, sapere. — Si avvicinava, e il fulgore della lama faceva vibrare di luce la barriera runica. — Quando ti ho evocato, sognavo che mi avresti spiegato il perché. Perché Raziel ha creato noi, la sua stirpe di Cacciatori, ma non ci ha dato i poteri che hanno i Nascosti: la velocità dei lupi, l'immortalità del Popolo Fatato, la magia degli stregoni, nemmeno la resistenza dei vampiri. Ci ha lasciati nudi davanti agli eserciti infernali con solo questi segni dipinti sulla pelle. Perché i loro poteri devono essere più grandi dei nostri? Perché non possiamo avere anche noi ciò che loro possiedono? Come può, tutto ciò, essere giusto? Nella stella che lo teneva prigioniero l'angelo sedeva muto come una statua di marmo, immobile, le ali ripiegate. I suoi occhi non esprimevano nulla, se non un terribile e silenzioso dolore. La bocca di Valentine si distorse in una smorfia. — Molto bene. Resta pure nel tuo silenzio. Io avrò comunque la mia occasione. — Valentine sollevava la spada. — Possiedo la Coppa Mortale, Ithuriel, e presto avrò la Spada. Ma senza lo Specchio non posso iniziare l'evocazione. Lo Specchio è tutto ciò che mi serve. Dimmi dov'è. Dimmi dov'è, Ithuriel, e io ti lascerò morire. La scena si frantumava e, mentre la visione svaniva, Clary colse frammenti di immagini a lei familiari perché ricorrenti nei suoi incubi: angeli dalle ali bianche e angeli dalle ali nere, distese di acqua specchiante, oro e sangue... e Jace, che le voltava le spalle, che le voltava sempre le spalle. Clary tendeva le mani verso di lui. E, per la prima volta, la voce dell'angelo parlò nella sua testa, con parole che Clary riusciva a comprendere. Questi non sono i primi sogni che ti mando. L'immagine di una runa esplose dietro gli occhi di Clary come un fuoco d'artificio: non era una delle rune che aveva già visto. Era una runa, forte e semplice come un nodo. Poi sparì in un soffio e, mentre svaniva, il canto dell'angelo cessò. Clary era di nuovo nel suo corpo, barcollante sulle gambe, nella stanza lercia e fetida. L'angelo era in silenzio, immobile, le ali ripiegate, un'effigie della sofferenza. Il respiro le uscì con un singhiozzo. — Ithuriel. — Protese le mani verso l'angelo con il cuore infranto, ben sapendo di non poter oltrepassare le rune. Per anni e anni l'angelo era stato lì sotto, muto e solo nel buio, incatenato, affamato, ma incapace di morire. Jace era accanto a lei. Clary capì dalla sua espressione dolente che anche lui aveva visto ciò che aveva visto lei. Jace abbassò lo sguardo sulla spada angelica che teneva in mano, poi lo spostò sull'angelo. Il volto cieco era rivolto verso di loro, in una muta supplica. Jace fece un passo avanti, poi un altro. I suoi occhi erano fissi sull'angelo, ed era come se ci fosse una sorta di muta comunicazione tra loro, pensò Clary, un dialogo che lei non poteva sentire. Gli occhi di Jace splendevano come dischi d'oro, pieni di luce riflessa. — Ithuriel — sussurrò. La lama della spada s'infiammò come una torcia. La sua luce era accecante. L'angelo sollevò il viso, come se quella luce fosse visibile ai suoi occhi ciechi. Protese le mani, facendo risuonare di un rumore aspro le catene che gli legavano i polsi. Jace si voltò verso Clary. — Clary — disse. — Le rune. Le rune. Per un momento lei lo fissò, confusa, ma gli occhi di Jace la spronarono all'azione. Clary gli passò la stregaluce, prese lo stilo dalla tasca, s'inginocchiò accanto alle rune tracciate per terra. Sembravano scavate nella pietra con un oggetto appuntito. Clary alzò gli occhi verso Jace. La sua espressione la sorprese, il fuoco nei suoi occhi... Erano pieni di fede in lei, di fiducia nelle sue capacità. Con la punta dello stilo Clary tracciò molte linee sul pavimento, trasformando le rune vincolanti in rune di liberazione, le rune di prigionia in rune di apertura. Le rune prendevano fuoco man mano che Clary le tracciava. Era come se ogni volta che le sfiorava ci passasse sopra la capocchia di un fiammifero. Quand'ebbe finito, si alzò in piedi. Le rune brillavano davanti a lei. All'improvviso Jace le fu accanto. La pietra di stregaluce non c'era più: l'unica fonte di luce, oltre alle rune, era la spada angelica che Jace aveva nominato per l'angelo e che gli ardeva in mano. Tese la mano armata, che questa volta attraversò la barriera di rune, come se non esistesse più. L'angelo allungò le braccia e prese la spada da Jace. Chiuse gli occhi ciechi e Clary credette per un momento che sorridesse. Girò la spada tra le mani, fino a puntare la punta acuminata appena sotto lo sterno. Clary trasalì e fece un passo avanti, ma Jace le prese un braccio in una stretta d'acciaio e la tirò indietro. In quell'attimo l'angelo affondò la lama. La testa gli si rovesciò indietro, le mani abbandonarono l'elsa, lasciandola dove doveva esserci il cuore. Sempre che gli angeli lo avessero, un cuore: Clary questo non lo sapeva. Dalla ferita si sprigionarono fiamme che avvolsero la spada. Il corpo dell'angelo sfavillava nelle fiamme bianche, le catene ai polsi erano incandescenti e scarlatte, come ferro lasciato troppo a lungo nel fuoco. Clary ripensò ai dipinti medievali dei santi consunti nella vampa dell'estasi divina. Poi le ali dell'angelo si spalancarono, grandi e bianche, prima di prendere fuoco anch'esse e consumarsi tra le fiamme. Clary non poteva più guardare. Si voltò e nascose il viso nel petto di Jace, che le passò un braccio intorno alle spalle, stringendola forte. — Va tutto bene — le disse tra i capelli. — Va tutto bene. — Ma l'aria era piena di fumo e la terra sembrava tremare sotto i loro piedi. Fu solo quando anche Jace barcollò, che Clary capì che non era un effetto dello shock: la terra si stava muovendo davvero! Si staccò da Jace. Barcollò. Sotto i suoi piedi, le pietre si sfregavano le une con le altre, mentre una pioggia di polvere sottile cadeva dal soffitto. L'angelo era una colonna di fumo; le rune intorno a lui guizzavano luminose. Clary le fissò, decodificando il loro significato. Poi guardò Jace, terrorizzata: — La casa... Era legata a Ithuriel. Con la morte dell'angelo, la casa... Non riuscì a finire la frase. Jace l'aveva già presa per mano e stava correndo verso le scale, trascinandola con sé. Le scale vibravano e ondeggiavano, Clary cadde, picchiò dolorosamente un ginocchio su un gradino, ma la presa di Jace non si allentò. Continuò a correre, ignorando il dolore alla gamba, coi polmoni pieni di polvere soffocante. Raggiunsero l'ultimo gradino e piombarono nella biblioteca. Alle loro spalle, Clary sentì il boato delle scale che crollavano. Nella libreria, la situazione non era migliore: la stanza era scossa violentemente, i libri cadevano dagli scaffali. Una statua si rovesciò a terra e andò in frammenti. Jace lasciò la mano di Clary, prese una sedia e, prima che lei potesse chiedergli cosa avesse intenzione di fare, la scaraventò contro i vetri colorati della finestra. La sedia volò fuori in una cascata di vetri rotti. Jace si girò e tese la mano a Clary. Alle sue spalle, dall'intelaiatura frastagliata che rimaneva in piedi, Clary vedeva una striscia d'erba bagnata dalla luce lunare e una fila di alberi in lontananza, che sembravano molto più in basso. Non posso fare un salto così, pensò. Fece per scuotere la testa quando vide gli occhi di Jace spalancarsi, la sua bocca aprirsi a formulare un avvertimento. Uno dei pesanti busti di marmo allineati sugli scaffali più alti stava cadendole addosso. Clary si spostò di scatto e il busto piombò a terra dove un attimo prima c'era lei, lasciando un'infossatura nel pavimento. Un attimo dopo, le braccia di Jace la stringevano e la sollevavano di peso. Clary era troppo sorpresa per dibattersi. Jace la portò alla finestra sventrata e la mollò di sotto senza tante cerimonie. La ragazza piombò sul prato sottostante rotolando giù da una ripida china e acquistando velocità, finché non andò a sbattere contro un dosso con tanta forza da restare senza fiato. Si mise a sedere, scuotendosi via fili d'erba dai capelli. Un attimo dopo, rotolò giù anche Jace e si fermò accanto a lei. Diversamente da lei, però, saltò su come una molla e si accovacciò, guardando la tenuta in cima alla collina. Anche Clary si girò a guardare nella stessa direzione, ma Jace la prese e la spinse giù, nell'avvallamento dietro il dosso. In seguito Clary avrebbe scoperto dei lividi scuri sulle sue braccia, dove Jace l'aveva stretta. Restò senza fiato per la sorpresa, quando la sbatté per terra e rotolò sopra di lei, facendole scudo col suo corpo. Esplose un boato enorme. Come un vulcano in eruzione. Come se la terra si spaccasse. Una vampa di polvere bianca salì verso il cielo. Clary sentì un picchiettio secco tutto intorno. Per un momento, disorientata, pensò che avesse iniziato a piovere. Poi capì che erano detriti, terra, vetri rotti: i frantumi della tenuta distrutta, scagliati tutto intorno come una grandine di morte. Jace la schiacciò più forte contro il terreno, appiattendo il corpo sopra il suo. Il battito del suo cuore giungeva alle orecchie di Clary come il rumore del crollo dopo l'esplosione. Il fragore del crollo svanì lentamente, come il fumo si dissolve nell'aria. Fu rimpiazzato dal chiacchiericcio degli uccelli stupiti. Clary li vedeva, dietro le spalle di Jace, volare curiosi in ampi cerchi contro il cielo nero. — Jace — disse Clary a bassa voce. — Temo di aver perduto lo stilo da qualche parte. Lui si sollevò un po', puntellandosi sui gomiti, e la guardò. Anche al buio Clary vedeva la propria immagine riflessa nei suoi occhi. Jace aveva il viso rigato di sporco e di terra, il colletto della camicia strappato. — Pazienza. L'importante è che tu non ti sia fatta niente. — Sto bene. — Senza pensarci, gli passò una mano tra i capelli, leggera. Lo sentì irrigidirsi, vide i suoi occhi incupirsi. — Avevi dell'erba tra i capelli — gli disse. Aveva la gola secca, l'adrenalina le scorreva nelle vene. Tutto quello che era appena successo - l'angelo, la rovina della tenuta - sembrava meno reale di ciò che leggeva negli occhi di Jace. — Non dovresti toccarmi — la ammonì. La mano di Clary si bloccò dov'era, con il palmo sulla sua guancia. — Perché? — Lo sai, il perché — replicò Jace. Si scostò, rotolandosulla schiena. — Hai visto anche tu quello che ho visto io, vero? Il passato, l'angelo, i nostri genitori. Era la prima volta, pensò Clary, che Jace li chiamava così: i nostri genitori. Si voltò su un fianco, con l'impulso di avvicinarsi a lui, ma non era sicura di poterlo fare. Lui aveva lo sguardo fisso al cielo, cieco. — L'ho visto anch'io. — Dunque sai ciò che sono. — Le parole gli uscirono inun sussurro angosciato. — Sono in parte demone, Clary. In parte demone. Questo l'hai capito, vero? — I suoi occhi affondarono in quelli di Clary come sonde. — Hai visto cosa cercava di fare Valentine. Ha usato sangue di demone: l'ha usato su di me, prima ancora che nascessi. Sono in parte un mostro. Sono in parte tutto ciò che ho cercato con tutte le mie forze di combattere, di distruggere. Clary allontanò il ricordo della voce di Valentine che diceva: Mi ha lasciato perché ho trasformato il suo primogenito in un mostro. — Ma anche gli stregoni sono in parte demoni. Come Magnus. E non per questo sono malvagi. — Però non sono Demoni Superiori. Hai sentito che cosa diceva quella donna demone. Brucerà la sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue. La voce di Clary tremò. — Non è vero. Non può essere vero. Non ha senso. — Sì, invece. — C'era una furia disperata sul volto di Jace. Clary vedeva il bagliore della catenella d'argento intorno alla sua gola nuda, sbiancata dalla luce della luna. — Questo spiega tutto. — Vuoi dire che spiega perché sei un Cacciatore così straordinario? Perché sei leale e impavido e onesto e tutto quello che i demoni non sono! — Spiega — precisò Jace con voce incolore — quello che provo nei tuoi confronti. — In che senso? Jace rimase in silenzio per un lungo momento, fissandola nel minuscolo spazio che li separava. Clary riusciva a sentirne il contatto, anche se non la stava toccando: era come se fosse ancora disteso sopra di lei. — Tu sei mia sorella — disse Jace alla fine. — Mia sorella, il mio sangue, la mia famiglia. Dovrei sentire il desiderio di proteggerti. — Rise in silenzio e senza umorismo. — Proteggerti da tutti i ragazzi che vorrebbero fare con te esattamente quello che vorrei fare io. Clary restò senza fiato. — Avevi detto che d'ora in poi volevi solo essere un fratello per me. — Ho mentito — ammise Jace. — I demoni mentono, Clary. Sai, ci sono certe ferite che un Cacciatore può ricevere, ferite interne causate dal veleno di un demone: non ti rendi nemmeno conto cosa c'è che non va, in te, ma dentro stai lentamente sanguinando a morte. Ecco, essere solo un fratello, per te, mi dà la stessa sensazione. — Ma Aline... — Dovevo tentare. E ho tentato. — La sua voce era senza vita. — Ma Dio sa che non voglio nessuna, tranne te. Non voglio nemmeno cercare di volere un'altra, oltre a te. — Allungò la mano, fece scorrere lievemente le dita fra isuoi capelli, le sfiorò la guancia. — Adesso, almeno, so il perché. La voce di Clary era scesa a un sussurro. — Anch'io non voglio nessuno tranne te. Un trasalimento nel respiro di Jace la confortò un poco. Lentamente, Jace si tirò su sui gomiti. Ora la guardava dall'alto e la sua espressione era cambiata: c'era qualcosa che Clary non aveva mai visto prima, una luce spenta, quasi mortale, nei suoi occhi. Jace fece scorrere le dita dalla guancia alle labbra di Clary e ne tracciò il profilo con la punta di un dito. — Forse — le disse — ora dovresti dirmi di non fare così. Ma lei non disse niente. Non voleva dirgli di smettere. Era stanca di dire di no a Jace, di non permettersi mai di sentire ciò che tutto il suo cuore voleva che sentisse. A qualsiasi costo. Lui si chinò, posò le labbra sulla sua guancia, la sfiorò leggermente. E quel tocco, seppur leggero, le diede una scossa a tutte le terminazioni nervose; una scossa che la fece tremare in tutto il corpo. — Se vuoi che mi fermi, dimmelo adesso — sussurrò Jace. Ma Clary lei continuò a non dire nulla. Lui le sfiorò con le labbra la tempia. — O adesso. — Seguì la linea dello zigomo. — O adesso. — Ora le suelabbra erano su quelle di Clary. — O... Ma lei l'aveva preso e l'aveva attratto a sé, e le sue parole si persero sulle sue labbra. Jace la baciò con delicatezza, con attenzione, anche se non era la delicatezza che Clary voleva, non ora, non dopo tutto questo tempo. Strinse i pugni sulla sua camicia tirandolo forte verso di sé. Jace gemette piano, in fondo alla gola, poi le sue braccia la avvolsero, la strinsero, e rotolarono insieme sull'erba, avvinghiati l'uno all'altra, protraendo ancora quel bacio. C'erano delle pietre che pungevano la schiena di Clary e la spalla le doleva dove aveva battuto cadendo dalla finestra, ma non le importava niente. Esisteva solo Jace: tutto ciò che Clary sentiva, sperava, respirava, voleva e vedeva, era Jace. Nuli'altro contava. Nonostante il cappotto, Clary sentiva il calore di Jace bruciare attraverso i vestiti. Gli strappò la giacca, e poi in qualche modo anche la camicia sparì. Le sue dita esploravano il suo corpo come le labbra di Jace esploravano le sue: pelle morbida su muscoli asciutti, cicatrici come fili sottili. Clary gli toccò la cicatrice a forma di stella: era liscia e piatta, come se fosse parte della sua pelle, non rilevata come le altre. Clary immaginava che dovessero apparire come imperfezioni, tutte quelle cicatrici, ma non era così che le vedeva lei: erano una storia, incisa sul corpo di Jace, la mappa di una vita di guerra senza fine. Jace armeggiava con i bottoni del cappotto, le mani tremanti. Clary non le aveva mai viste così malferme. — Faccio io — gli disse slacciandosi da sola l'ultimo bottone. Mentre si sollevava, qualcosa di freddo e metallico le toccò la clavicola, facendola trasalire per la sorpresa. — Cosa succede? — Jace si immobilizzò. — Ti ho fatto male? No, è stato questo. — Clary toccò la catenina d'argento al collo di Jace. Vi era appeso un cerchietto di metallo argenteo. Era stato quello a rimbalzare su di lei, quando si era sollevata. Ora lo fissò. Quell'anello, quel cerchietto di metallo segnato dal tempo, con un motivo a stelle... Lei conosceva. Era l'anello dei Morgenstern. Era lo stesso anello che brillava al dito di Valentine nel sogno che l'angelo aveva mostrato loro. Era appartenuto a lui e lui lo aveva dato a Jace, passandolo, secondo la tradizione, di padre in figlio. — Mi dispiace — si scusò Jace. Le carezzò la linea della guancia con un dito, con un'intensità sognante nellosguardo. — Avevo dimenticato di avere al collo quella cosa dannata. Un gelo improvviso invase le vene di Clary. — Jace — disse a bassa voce. — Jace, non farlo. — Non farlo cosa? Non portare l'anello? — No, non... non toccarmi. Fermati un secondo. La sua faccia divenne immobile. Mille domande avevano spazzato via la sognante confusione dai suoi occhi, ma non disse niente. Si limitò a ritirare la mano. — Jace — riprese Clary. — Perché? Perché proprio adesso? Le sue labbra si dischiusero per la sorpresa. Clary vide una linea scura dove si era morso il labbro, o forse dove l'aveva morso lei. — Cosa significa «perché proprio adesso»? — Tu avevi detto che non c'era niente tra noi. Che se noi... se noi ci fossimo lasciati andare ai sentimenti, avremmo fatto del male a tutte le persone alle quali vogliamo bene. — Te l'ho detto. Ho mentito. — Gli occhi di Jace si addolcirono. — Tu credi che io non voglia...? — No — disse Clary. — No, non sono una stupida. So che lo vuoi. Ma quando hai detto che adesso finalmente capisci perché provi questi sentimenti per me, che cosa intendevi dire? Non che Clary non lo sapesse già, ma doveva chiederglielo, doveva sentirglielo dire. Jace le afferrò i polsi e avvicinò le sue mani al proprio viso, intrecciando le dita con le sue. — Ricordi quello che ti ho detto dai Penhallow? — le chiese. — Che non pensi mai a quello che fai prima di farlo e che è per questo che rovini tutto quello che tocchi? — No, me l'ero dimenticato. Grazie per avermelo ricordato. Jace sembrò non cogliere il sarcasmo nella sua voce. — Non stavo parlando di te, Clary. Stavo parlando di me. Sono io, quello che si comporta così. — Spostò appena la testa, e le dita di Clary scivolarono sulla sua guancia. — Almeno adesso so perché. So che cosa c'è di sbagliato in me. E forse... forse è per questo che ho tanto bisogno di te. Perché se Valentine ha fatto di me un mostro, allora immagino che abbia fatto di te una specie di angelo. E Lucifero amava Dio, no? Così almeno dice Milton nel Paradiso perduto. Clary trattenne il fiato. — Io non sono un angelo. E tu non puoi sapere se Valentine abbia usato il sangue di Ithuriel con me. Forse lo voleva solo per sé... — Ha detto che il sangue era «per me e i miei» — disse Jace a bassa voce. — E questo spiega perché tu sai fare quello che fai, Clary. La Regina della Corte Seelie ha detto che eravamo entrambi degli esperimenti. Non solo io. — Io non sono un angelo, Jace — ripetè Clary. — Non restituisco i libri in biblioteca. Scarico illegalmente musica da internet. Racconto balle a mia madre. Sono assolutamente normale. — Non per me. — Jace la guardò. Il suo viso era sospeso contro un fondale di stelle. Non c'era nulla, nella sua espressione, della sua solita arroganza: Clary non l'avevamai visto così indifeso, ma anche questo suo essere indifeso era intriso di un odio verso se stesso profondo come una ferita. — Clary, io... — Allontanati — gli intimò Clary. — Cosa? — Il desiderio nei suoi occhi si sbriciolò in mille pezzi come le schegge dello specchioPortale a Renwick. Per un momento la sua espressione rimase vuota e attonita. Era quasi impossibile per Clary guardarlo e continuare a dire di no. Anche se non fosse stata innamorata di lui, quella parte di lei che era figlia di sua madre, che amava ogni cosa bella in quanto tale, quella parte di lei l'avrebbe comunque desiderato. Però, era proprio perché era figlia di sua madre che questo le era impossibile. — Mi hai sentito — gli disse. — E lasciami le mani. —Le ritrasse con forza, stringendole a pugno perché non tremassero. Jace non si mosse. Le sue labbra si arricciarono e per un momento Clary vide di nuovo quella luce da predatore nei suoi occhi, ora mescolata alla rabbia. — Immagino che non vorrai dirmi perché. — Tu pensi di desiderarmi solo perché sei demoniaco e non umano. Vuoi solo qualcos'altro per poterti odiare. Ma io non ti permetterò di usarmi per dimostrare a te stesso quanto poco vali. — Non ho mai detto che ti sto usando. — Bene — disse Clary. — Allora dimmi che non sei un mostro. Dimmi che non c'è niente che non va in te. E dimmi che mi vorresti anche se non avessi dentro di te sangue di demone. — Perché io non ho dentro di me sangue di demone. Eppure ti voglio. I loro sguardi si agganciarono: quello di Jace, animato da una furia cieca. Per un momento nessuno dei due respirò, poi lui si staccò da lei, imprecando, e si rialzò in piedi. Raccolse la camicia dall'erba, se la infilò, ancora furioso, e si girò a cercare la giacca. Anche Clary si alzò, barcollando un po'. Il vento pungente le fece venire la pelle d'oca sulle braccia. Le pareva di avere le gambe di cera sciolta. Si abbottonò il cappotto con le dita intorpidite, reprimendo la voglia di scoppiare in lacrime. Piangere non sarebbe servito a niente, adesso. L'aria era ancora densa di polvere e di cenere, che danzavano sospese; l'erba intorno a loro era cosparsa di detriti: frammenti di mobili, pagine di libri lugubremente portate dal vento, schegge di legno dorato, una mezza rampa di scale, misteriosamente intatta. Clary si girò a guardare Jace: stava tirando calci ai detriti con selvaggia soddisfazione. — Bene — disse. — Siamo fregati. Non era quello che si era aspettata. Batté le palpebre. — Come? — Ricordi? Hai perso il mio stilo. Non puoi più aprire un Portale, adesso. — Pronunciò quelle parole con un amaro piacere, come se tutto questo gli desse soddisfazione. — Non abbiamo nessun altro mezzo per tornare indietro. Dobbiamo farcela a piedi. Non sarebbe stata una piacevole camminata nemmeno in circostanza normali. Abituata alle luci della città, Clary non si capacitava di quanto potesse essere buia Idris di notte. Le dense ombre nere che circondavano la strada sembravano brulicare di cose invisibili e, anche con la stregaluce di Jace, Clary non riusciva a vedere a più di un passo davanti a sé. Le mancavano le luci della città, il bagliore diffuso dei lampioni, i rumori del traffico. Ora sentiva solo il ritmico scricchiolio della ghiaia sotto i loro piedi e, di tanto in tanto, il trasalire del proprio respiro, quando inciampava su un sasso. Dopo un paio d'ore, cominciarono a farle male i piedi. Aveva la bocca secca come una pergamena. L'aria si era fatta molto fredda e Clary rabbrividiva, zoppicando con le mani affondate nelle tasche. Ma persino tutto questo avrebbe potuto essere sopportabile, se solo Jace le avesse rivolto la parola. Non aveva aperto bocca da quando si erano allontanati dalla tenuta, se non per darle secche indicazioni sulla strada da seguire a un bivio o per indicarle di schivare una buca. Ma anche se ci fosse caduta dentro, Clary dubitava che gliene sarebbe importato molto, se non per il fatto che avrebbe rallentato il loro cammino. Alla fine, il cielo a oriente cominciò a rischiarare. Clary, mezza addormentata, sollevò lo sguardo sorpresa. — È presto per fare giorno. Jace la guardò con un filo di disprezzo. — Quella è Alicante. Il sole non si alzerà per almeno tre ore. Sono le luci della città. Troppo sollevata all'idea di essere quasi a casa per notare l'atteggiamento di Jace, Clary accelerò il passo. Dietro una curva, si ritrovarono a camminare su un ampio sentiero in terra battuta che tagliava il fianco di una collina. Si snodava seguendo le curve del pendio e spariva dietro una curva, in lontananza. Anche se le case della città non erano ancora in vista, l'aria si era fatta più luminosa e il cielo era rischiarato da un bagliore rossastro. — Dobbiamo essere vicini, ormai — disse Clary. — C'è una scorciatoia per scendere dalla collina? Jace era accigliato. — C'è qualcosa che non va — disse d'un tratto. E partì quasi di corsa sollevando sul sentiero nuvole di polvere che rilucevano d'ocra in quella strana luce. Clary si mise a correre per raggiungerlo, ignorando le proteste dei suoi piedi pieni di vesciche. Quando svoltarono alla curva del sentiero, Jace si fermò di botto e Clary gli finì addosso. In altre circostanze avrebbe potuto essere comico. Non questa volta. La luce rossastra era più forte, adesso, e gettava bagliori scarlatti nel cielo notturno, illuminando a giorno la collina. Nuvole di fumo salivano dalla valle come le piume della coda a ruota di un nero pavone. Dai neri vapori si ergevano le torri antidemoni di Alicante coi loro involucri cristallini. Attraverso il fumo denso, Clary vide rosseggiare fiamme danzanti sparse per la città come una manciata di luccicanti pietre preziose su una tela nera. Sembrava impossibile, ma era proprio così: Clary e Jace, sul pendio della collina, stavano sopra Alicante. Ai loro piedi, la città era in fiamme. parte seconda LE STELLE RIFULGONO SINISTRE Antonio: Non volete fermarvi ancora un poco? Né volete ch'io possa accompagnarvi? Sebastiano: No, con vostra pazienza: su di me le mie stelle rifulgono sinistre, e l'influsso della mia mala sorte potrebbe forse influenzar la vostra. Perciò debbo pregarvi di lasciarmi a soffrire da solo i miei affanni; sarebbe una cattiva ricompensa al vostro affetto, se alcuno di essi dovesse ricadere su di voi. (William Shakespeare, La dodicesima notte, atto II, scena I) capitolo 10 FUOCO E SPADA — È tardi — disse Isabelle, chiudendo nervosamente la tenda di pizzo che copriva l'alta finestra del salotto. — Dovrebbe essere già di ritorno, ormai. —Sii ragionevole, Isabelle — intervenne Alec. Il suo tono di superiorità da fratello maggiore sembrava sottintendere sia che Isabelle aveva una certa tendenza all'isteria, sia che lui era perfettamente calmo. Anche la postura (era comodamente sdraiato su una delle morbide poltrone in torno al caminetto come se non avesse alcun pensiero almondo) sembrava studiata per dimostrare a tutti quantofosse assolutamente tranquillo. — Jace fa così quando è arrabbiato: se ne va in giro per la città. Ha detto che andava a fare una passeggiata. Tornerà. Isabelle sospirò. Avrebbe quasi voluto che fossero presenti anche i suoi genitori, ma erano ancora alla Guardia. Qualunque cosa si stesse discutendo alla Guardia, l'assemblea del Consiglio si stava trascinando fino a ore impossibili. — Ma lui conosce New York. Non conosce Alicante... — Probabilmente la conosce meglio di te. — Aline era seduta sul divano e leggeva un volume rilegato in cuoio rosso scuro. I capelli neri erano raccolti sulla nuca in una treccia alla francese, gli occhi fissi sul libro aperto sulle ginocchia. Isabelle, che non era mai stata una gran lettrice, invidiava sempre agli altri la capacità di perdersi in un libro. C'erano molte cose per cui, un tempo, avrebbe invidiato Aline: la statura piccola e la bellezza delicata, tanto per cominciare, così diversa da quella da amazzone di Isabelle, che con i tacchi diventava più alta di quasi tutti i ragazzi che incontrava. Solo da poco, tuttavia, aveva capito che le altre ragazze non erano fatte solo per essere invidiate, evitate o detestate. — Ha vissuto qui fino a dieci anni. Voi, invece, ci siete venuti solo un paio di volte. Isabelle si portò la mano alla gola, aggrottando la fronte. Il ciondolo appeso alla sua catenina aveva avuto una pulsazione improvvisa... In genere questo accadeva solo in presenza di demoni, ma lì, ad Alicante, era impossibile che ce ne fossero. Forse il ciondolo non funzionava più bene. — Io non credo che sia in giro per la città, però. Credo che sia piuttosto ovvio dove è andato — replicò Isabelle. Alec sollevò gli occhi. — Credi che sia andato da Clary? — È ancora qui? Pensavo che dovesse tornare a NewYork. — Aline chiuse il libro. — Dove alloggia, la sorella di Jace, a proposito? Isabelle scrollò le spalle. — Chiedilo a lui — disse rivolgendo lo sguardo su Sebastian. Sebastian era buttato sul divano di fronte ad Aline. Anche lui aveva un libro in mano e la sua bella testa scura era china sulle pagine. Sollevò gli occhi come se avesse sentito lo sguardo di Isabelle su di sé. — Parlavate di me? — chiese con la solita calma. Tutto in Sebastian, era calmo, pensò Isabelle con un guizzo di fastidio. All'inizio era stata molto colpita dal suo aspetto – gli zigomi scolpiti, gli occhi neri e profondi - ma la sua personalità affabile e benevola adesso la irritava. Non le piacevano i ragazzi che sembravano non perdere mai le staffe per nessun motivo. Nel mondo di Isabelle, rabbia e passione erano divertimento. — Che cosa stai leggendo? — gli chiese, con più durezza di quello che avrebbe voluto. — È uno dei giornalini di Max? — Già. — Sebastian, bilanciato sul bracciolo del divano, riabbassò lo sguardo sul Rifugio dell'Angelo. — Mi piace la grafica. Isabelle esalò un sospiro esasperato. Alec le lanciò un'occhiataccia e chiese: — Sebastian, Jace sa dove sei stato oggi? — Vuoi dire se sa che ero fuori con Clary? — Sebastian sembrava divertito. — Senti, non è mica un segreto. Gliel'àvrei detto, se l'avessi visto. — Non vedo perché dovrebbe importargliene. — Aline mise da parte il libro, con una punta di tensione nella voce. — Sebastian non ha fatto niente di male. Che problema c'è se ha voluto mostrare a Clarissa qualcosa di Idris, prima che se ne tornasse a casa? Jace dovrebbe essere contento, se sua sorella non resta a casa tutto il tempo ad annoiarsi. — Sa essere molto... protettivo — spiegò Alec dopo una lieve esitazione. Aline aggrottò la fronte. — Dovrebbe farsi un po' da parte. A Clary non fa sicuramente bene essere troppo protetta. La faccia che aveva quando ci ha trovati in biblioteca... Era come se non avesse mai visto nessuno che si baciava in vita sua. — Ne ha visti, ne ha visti — la rassicurò Isabelle, pensando a come Jace aveva baciato Clary alla Corte di Seelie. Non era un episodio che ricordava volentieri: lei non amava crogiolarsi nei propri dispiaceri, figurarsi in quelli degli altri. — Ma non è per quello. — Allora per cosa? — Sebastian si raddrizzò, scostando dagli occhi un ricciolo di capelli neri. Isabelle intravide qualcosa, una linea rossa sul palmo, come una cicatrice. — Solo perché ce l'ha con me? Io non so proprio che cosa posso aver... — Quello è mio! — Una vocetta sottile lo interruppe. Era Max, sulla porta del salotto. Indossava un pigiama grigio e i capelli castani erano tutti arruffati, come se si fosse appena svegliato. Fissava il manga posato sul divano accanto a Sebastian. — Cosa, questo? — Sebastian gli allungò la copia del Rifugio dell'Angelo. — Ecco, piccolo, tieni pure. Max si avvicinò a grandi passi e si riprese il suo manga, guardando torvo Sebastian. — E non chiamarmi piccolo. Sebastian rise e si alzò. — Vado a prendere del caffè — disse avviandosi verso la cucina. Si fermò sulla soglia e si girò. — Voi volete qualcosa? Ci fu un coro di no. Con una scrollata di spalle, Sebastian scomparve in cucina, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle. — Max — disse Isabelle con severità. — Non essere maleducato. — Non mi piace quando mi prendono le mie cose. — Max si strinse al petto il volume a fumetti. — Cresci, Max. L'aveva solo preso in prestito. — Isabelle gli parlò con più irritazione nella voce di quello che avrebbe voluto: era ancora in pensiero per Jace, lo sapeva, e stava scaricando la tensione sul fratellino. — E comunque, dovresti essere a letto. E tardi. — C'erano dei rumori sulla collina. Mi hanno svegliato. — Max batté le palpebre. Senza occhiali, tutto perlui diventava una macchia piuttosto indistinta. — Isabelle...? Il tono interrogativo nella sua voce richiamò l'attenzione di Isabelle, che si allontanò dalla finestra. — Che c'è? — La gente non si arrampica sulle torri antidemoni, vero? Per un motivo qualsiasi? Aline lo guardò. — Arrampicarsi sulle torri? — Rise. — No, nessuno fa mai una cosa del genere. Primo, perché è assolutamente illegale, e poi, per quale motivo uno ci dovrebbe salire sopra? Aline, pensò Isabelle, non aveva molta immaginazione. Lei, per esempio, riusciva a pensare a un sacco di motivi per arrampicarsi sulle torri, se non altro per sputare il chewing-gum in testa ai passanti. Max aveva la fronte aggrottata. — Ma qualcuno l'ha fatto. Io ho visto... — Qualunque cosa credi di aver visto, probabilmente te la sei sognata — tagliò corto Isabelle. La faccia di Max s'increspò. Intuendo un potenziale pianto, Alec si alzò e gli tese la mano. — Vieni, Max — disse non senza affetto. — Torniamo a nanna. — Dovremmo tutti andare a nanna — commentò Aline alzandosi in piedi. Si avvicinò alla finestra accanto aIsabelle e chiuse bene le tende. — È già quasi mezzanotte. Chissà quando torneranno dal Consiglio. Non ha senso restare... Il ciondolo al collo di Isabelle pulsò di nuovo, forte, e un attimo dopo la finestra davanti alla quale c'era Aline esplose verso l'interno in mille pezzi. Aline strillò. Mani si protesero dallo squarcio... Non erano mani, in realtà, notò Isabelle con la lucidità dello shock: erano grossi artigli ricoperti di squame, grondanti sangue e un fluido nerastro. Afferrarono Aline e la trascinarono fuori dalla finestra in frantumi, prima che riuscisse a gridare di nuovo. La frusta di Isabelle era sul tavolo accanto al caminetto. Si precipitò a prenderla, schivando Sebastian che arrivava di corsa dalla cucina. — Servono armi! — gli disse bruscamente, mentre lui si guardava intorno, attonito. — Vai! — strillò correndo alla finestra. Vicino al caminetto, Alec teneva stretto Max. Il bambino strillava e si divincolava, cercando di liberarsi dalla presadi suo fratello. Alec lo trascinò verso la porta. Bene, pensòIsabelle. Portalo via di qui' L'aria fredda entrava dalla finestra squarciata. Isabelle si tirò su la gonna e con agili calci buttò fuori alcuni pericolanti frammenti di vetro, ringraziando il cielo per le suole :ì spesse dei suoi scarponi. Eliminate le schegge, abbassò la testa e saltò nel varco aperto atterrando con un tonfo secco sul marciapiede di pietra. A un primo sguardo, il marciapiede le sembrò deserto. Non c'erano lampioni lungo il canale: lì l'illuminazione principale veniva dalle finestre delle case vicine. Isabel-1 le avanzò con cautela, la frusta di elettro avvolta intorno al polso. La possedeva da così tanto tempo, quella frusta (gliel'aveva regalata suo padre per il suo dodicesimo compleanno), che ormai era parte di lei, come fosse un'estensione fluida del suo braccio destro. Le ombre si facevano più fitte man mano che la ragazza si allontanava dalla casa dei Penhallow, verso Oldcastle Bridge, un ponte che attraversava il canale Princewater con; una strana angolazione rispetto al marciapiede. Le ombre; alla base del ponte erano dense come uno sciame di mosche nere. Ma poi Isabelle vide qualcosa muoversi nell'ombra, qualcosa di bianco e veloce. Scattò, travolgendo una bassa siepe ai margini di un giardino, e saltò sul viottolo che passava sotto il ponte, lungo la sponda del canale. La frusta aveva cominciato a brillare di cruda luce argentea. Nel pallido chiarore vide Aline esanime, riversa sulla riva. Un enorme demone coperto di squame le era sopra e la schiacciava a terra col peso del suo corpo da lucertola, il muso affondato nel suo collo... Ma non poteva essere un demone! Non c'erano mai stati demoni ad Alicante. Mai. Sotto il suo sguardo attonito, il mostro sollevò la testa e annusò l'aria, come percependo la sua presenza. Era cieco, notò Isabelle: sulla fronte, al posto degli occhi, correva una serie di denti fitti e seghettati come una cerniera. Aveva un'altra bocca, sulla metà inferiore del muso, provvista di zanne da cinghiale, sbavanti. E aveva una coda sottile, che muoveva come una frusta. I lati della coda luccicavano e, avvicinandosi, Isabelle vide che era bordata da file di ossa affilate come lame di rasoio. Aline trasalì ed emise un gemito, una specie di mugolio sommesso. Isabelle fu travolta dal sollievo: aveva temuto che fosse già morta. Ma il sollievo durò poco. Quando Aline si mosse, Isabelle vide che aveva la camicetta strappata davanti e il petto ferito dagli artigli del demone. Il mostro aveva una zampa agganciata alla cintura dei suoi jeans. Un'ondata di nausea sommerse Isabelle: il demone non stava cercando di uccidere Aline... non ancora. La frusta le si animò in pugno come la spada fiammeggiante di un angelo vendicatore. Si slanciò in avanti, tirando frustate sulla schiena del mostro. Il demone strillò e rotolò via dal corpo di Aline. Avanzò verso Isabelle, con le due bocche spalancate e gli artigli protesi verso il suo viso. Isabelle arretrò agilmente e gli tirò un'altra frustata, colpendolo in pieno: il muso, il petto, le zampe. Una miriade di lesioni ricoprì la pelle squamata della fiera, facendo colare sangue e pus. Una lunga lingua biforcuta scattò dalla bocca superiore, puntando al viso di Isabelle. C'era qualcosa sulla punta, una specie di pungiglione, che le ricordava quello di uno scorpione. Isabelle fece scattare la frusta, che si arrotolò intorno alla lingua del demone legandola tra spire di elettro. Il demone si mise a urlare, mentre Isabelle stringeva il nodo e tirava. La lingua del demone cadde con un tonfo molle e disgustoso sui mattoni del sentiero. Isabelle liberò la frusta. Il mostro si voltò e scappò con movimenti rapidi e guizzanti, da serpente. Lei scattò all'inseguimento. Il demone era a metà del sentiero che risaliva dal viottolo lungo il canale, quando un'ombra scura gli si parò di fronte. Qualcosa brillò nel buio e il demone cadde a terra fremendo. Isabelle si fermò di scatto. C'era Aline, in piedi sopra il demone, con un sottile pugnale in mano. Probabilmente portava l'arma alla cintura. Le rune sulla lama brillavano come lampi accecanti, e la ragazza calò il pugnale, lo affondò cento volte nel corpo fremente del mostro, finché quest'ultimo non cessò di muoversi e si dissolse. Poi guardò Isabelle. Il suo viso era privo di espressione. Non cercava nemmeno di chiudersi la camicetta, nonostante i bottoni strappati. Le colava sangue dai graffi profondi sul petto. Isabelle fece un fischio sommesso. — Aline... tutto okay? Aline lasciò cadere il pugnale. Senza dire una parola, si voltò e corse via, sparendo nel buio sotto il ponte. Colta alla sprovvista, Isabelle imprecò e si lanciò all'inseguimento. Quanto avrebbe voluto avere indosso qualcosa di più comodo di quell'abito di velluto! Per fortuna aveva gli scarponi. Non sarebbe mai riuscita a raggiungere Aline, con i tacchi alti. C'era una scaletta di metallo in fondo al viottolo, all'altezza di Princewater Street. Aline era una macchia indistinta in cima alla scala. Isabelle raccolse l'orlo pesante del vestito e la seguì, pestando fragorosamente sui gradini. Quando arrivò in cima, guardò a destra e a sinistra. E rimase a bocca aperta. Si trovava all'inizio della grande strada sulla quale si affacciava la casa dei Penhallow. Aline non era più in vista: era scomparsa nella massa brulicante di gente che affollava la strada. Ma non c'erano solo tante persone: c'erano altre cose nella strada. Demoni, decine di demoni, forse di più, come il lucertolone dai lunghi artigli che Aline aveva fatto fuori sotto il ponte. C'erano già due o tre corpi a terra. Uno era a pochi passi da Isabelle: un uomo con la cassa toracica sventrata. Dai capelli grigi, Isabelle capì che era un anziano. Ovvio!, pensò tra sé col cervello che girava a fatica, i pensieri rallentati e intorpiditi dal panico. Tutti gli adulti sono alla Guardia. Qui in città ci sono solo i bambini, gli anziani, i malati... L'aria tinta di rosso era greve dell'odore di bruciato, la notte era squarciata da urla e grida. Le porte delle case erano spalancate: la gente scappava fuori, poi si fermava di scatto, vedendo la strada piena di mostri. Era impossibile, inimmaginabile. Mai, nella storia, un demone aveva osato attraversare le difese erette dalle torri antidemoni. E ora ce n'erano a decine. Centinaia. Forse di più. E si riversavano sulle strade come una venefica marea. Isabelle si sentiva come intrappolata dietro a un muro di vetro: vedeva tutto, ma non riusciva a muovere un muscolo. Vide, impietrita, un demone che afferrava un bambino in fuga, lo sollevava di peso da terra e gli affondava i denti seghettati nella schiena. Il piccolo gridò, ma le sue grida si persero nel clamore che squarciava la notte. Il frastuono cresceva sempre di più: gli ululati dei demoni, la gente che chiamava aiuto, il rumore di piedi in fuga, di vetri rotti. Qualcuno, più in là, gridava parole che Isabelle faticava a comprendere. Qualcosa a proposito delle torri antidemoni. Isabelle alzò lo sguardo. Le alte guglie vegliavano sulla città come sempre, ma, invece di riflettere la luce argentea delle stelle o la luce rossa della città in fiamme, erano livide e spente come la pelle di un cadavere. La loro luminescenza era sparita. Isabelle rabbrividì. Per forza le strade erano piene di mostri: in qualche modo, pur essendo pressoché impossibile, le torri antidemoni avevano perso la loro magia. Le difese che avevano protetto Alicante per mille anni erano cadute. Samuel aveva smesso di parlare da ore, ma Simon era ancora sveglio, gli occhi insonni fissi nel buio. A un tratto sentì gridare. Alzò la testa di scatto. Silenzio. Si guardò intorno, inquieto. L'aveva sognato, quel grido? Tese le orecchie, ma, anche con il suo nuovo udito più sensibile, non sentì più nulla. Stava per tornare a sdraiarsi, quand'ecco di nuovo le grida. Gli forarono le orecchie come spilli. Sembravano provenire dall'esterno della Guardia. Si alzò, si mise in piedi sulla branda e guardò fuori dalla finestrella. Vide il prato verde sottostante, vide sullo sfondo le luci della città e un bagliore in lontananza. Socchiuse gli occhi: c'era qualcosa di strano, in quelle luci, qualcosa di... spento. Erano più pallide di come se le ricordava, e c'erano dei punti in movimento qua e là, nel buio, come aghi di fuoco, lungo le strade. Una pallida nuvola si alzava sopra le torri e l'aria era piena della puzza di fumo. — Samuel. — Simon sentì il tono allarmato della propria voce. — C'è qualcosa che non va. Sentiva porte che sbattevano, passi di corsa, voci roche che gridavano. Premette la faccia contro l'inferriata della finestra: vedeva gambe calzate da stivali che correvano, sentiva i Cacciatori che si chiamavano tra loro, mentre scappavano dalla Guardia e correvano giù, verso la città. — Le difese sono cadute! Le difese sono cadute! — Non possiamo abbandonare la Guardia! — La Guardia non è importante! Ci sono i nostri figli laggiù! — E già le loro voci si affievolivano in lontananza. Simon si staccò dalla finestra, senza fiato. — Samuel! Le difese... — Lo so. Ho sentito. — La voce di Samuel era forte, oltre il muro. Non sembrava spaventato, ma rassegnato, forse anche soddisfatto, per aver avuto ragione. — Valentine ha attaccato mentre il Conclave era riunito in assemblea. Astuto. — Ma la Guardia è fortificata. Perché non restano qui? — Li hai sentiti: perché tutti i bambini sono rimasti in città. I bambini, i genitori anziani: non possono abbandonarli. I Lightwood. Simon pensò a Jace e poi, con terribile nitidezza, al volto di Isabelle, pallido sotto la chioma di capelli scuri, alla sua determinazione in battaglia, alla sfilza un po' fanciullesca di X e di O sul biglietto che gli aveva scritto. — Ma tu l'avevi detto... tu l'avevi detto al Conclave, che cosa sarebbe successo! Perché non ti hanno creduto? — Perché per loro le difese sono come una religione. Non credere al potere delle difese è come non credere che gli Shadowhunters siano speciali, prescelti, protetti dall'Angelo.Sarebbe come credere che siano dei mondani qualunque. Simon tornò a guardare fuori della finestrella: il fumo si era infittito, riempiendo l'aria di un pallore grigiastro. Non sentiva più nessuna voce, solo flebili grida in lontananza. — Credo che la città stia bruciando. — No. — La voce di Samuel era molto bassa. — Io credo che la Guardia stia bruciando. Probabilmente fuoco demoniaco. Valentine attaccherebbe la Guardia, se potesse. — Ma... ma adesso... — le parole di Simon incespicavano l'una sull'altra. — Adesso verrà qualcuno a tirarci fuori di qui, vero? Il Console, oppure.... Aldertree. Non possono lasciarci qui a morire. — Tu sei un Nascosto — ragionò Samuel. — E io sono un traditore. Cos'altro dovrebbero fare, secondo te? — Isabelle! Isabelle! — Alec la teneva per le spalle e la scuoteva. Isabelle alzò la testa lentamente: il pallido viso di suo fratello ondeggiò contro le tenebre; una sagoma di legno ricurvo gli spuntava da dietro la spalla destra: era il suo arco, assicurato alla schiena da una cinghia. Lo stesso arco che Simon aveva usato per uccidere il Demone Superiore Abbadon. Isabelle non ricordava di averlo visto arrivare: era come se le si fosse materializzato davanti all'improvviso, come un fantasma. — Alec. — La voce le uscì lenta, incerta. — Alec, smettila. Sto bene. Si staccò da lui. — Non mi sembrava che stessi molto bene. — Alec guardò la strada e imprecò a mezza voce. — Dobbiamo toglierci da qui. Dov'è Aline? Isabelle batté le palpebre. Non c'erano più demoni in vista. Una donna, seduta sui gradini della casa di fronte, che singhiozzava e proferiva lamenti acutissimi. Il corpo del vecchio era ancora sulla strada. L'odore dei demoni era dappertutto. — Aline... Uno dei demoni ha cercato di... di... — Trattenne il respiro, si fermò. Lei era Isabelle Lightwood. Lei non diventava isterica, mai. — L'abbiamo ucciso, ma poi Aline è scappata. Ho cercato di inseguirla, ma era troppo veloce. — Isabelle guardò in faccia suo fratello. — Demoni in città. — disse. — Com'è possibile? — Non lo so. — Alec scosse la testa. — Le difese sonocadute, non c'è altra spiegazione. C'erano quattro o cinquedemoni Oni qui sulla strada, quando sono uscito. Uno l'ho preso, acquattato tra i cespugli, e gli altri sono scappati, mapotrebbero tornare. Vieni, andiamo a casa. La donna sui gradini continuava a singhiozzare. Il suo pianto li seguì, mentre correvano verso la casa dei Penhallow. La loro strada non era ancora stata raggiunta dai demoni, ma si sentivano esplosioni, grida, passi di corsa risuonare dall'ombra di altre strade buie. Mentre salivano i gradini d'ingresso, Isabelle si voltò indietro, giusto in tempo per vedere un lungo tentacolo serpeggiante sgusciare dal buio tra due abitazioni e strappare via la donna in lacrime dalla soglia di casa sua. I singhiozzi si tramutarono in grida. Isabelle fece per tornare indietro, ma Alec la trattenne e la spinse dentro, poi la seguì, chiudendo a chiave la porta. La casa era immersa nell'oscurità. — Ho spento le luci perché non volevo attirarne degli altri — spiegò Alec, sospingendo Isabelle nel salotto. Max era seduto per terra vicino alle scale, le braccia strette intorno alle ginocchia. Sebastian stava inchiodando alla finestra rotta assi di legno che aveva preso dal caminetto. — Fatto — disse facendo un passo indietro e posando il martello sulla libreria. — Dovrebbe tenere, per un po'. Isabelle si mise a sedere accanto a Max e gli carezzò i capelli. — Tutto bene? — No. — Il bambino aveva gli occhi spalancati, spaventati. — Volevo guardare fuori dalla finestra, ma Sebastian mi ha detto di stare giù. — Sebastian aveva ragione — intervenne Alec. — C'erano dei demoni per la strada. — E ci sono ancora? — No, ma ce ne sono altri in giro per la città. Dobbiamo pensare a cosa fare adesso. Sebastian aggrottò la fronte. — Aline dov'è? — È scappata — gli spiegò Isabelle. — È stata colpa mia. Avrei dovuto... — Non è stata colpa tua. Se non ci fossi stata tu sarebbe morta. — Alec parlò con voce secca. — Senti, non abbiamo tempo per i sensi di colpa, adesso. Io vado a cercare Aline. Voglio che voi tre restiate qui. Isabelle, tu bada a Max. Sebastian, tu finisci di mettere la casa in sicurezza. Isabelle scattò, indignata: — Non voglio che tu vada là fuori da solo! Portami con te. — Sono io l'adulto, qui. Si fa come dico io. — Il tono diAlec era pacato. — È più che probabile che i nostri genitoritornino dalla Guardia da un momento all'altro. Più siamo,qui in casa, meglio è. È fin troppo facile perdersi, là fuori. — Non voglio rischiare, Isabelle. — Spostò lo sguardo su Sebastian. — Lo capite? Sebastian aveva già tirato fuori lo stilo. — Io comincio a proteggere la casa con i marchi. — Grazie. — Alec si era già avviato verso la porta. Si girò e guardò Isabelle. Lei incrociò il suo sguardo per una frazione di secondo. Poi Alec uscì. — Isabelle. — Era Max, con voce minuta, sussurrata. — Ti sanguina il polso. Isabelle guardò. Non ricordava di essersi ferita al polso, ma Max aveva ragione: il sangue aveva già macchiato la manica della giacca bianca. Si alzò. — Vado a prendere lo stilo. Torno subito, Sebastian, e ti aiuto con le rune. Lui annuì. — Mi farebbe comodo avere un aiuto. Queste rune non sono la mia specialità. Isabelle salì di sopra, senza chiedergli quale fosse la sua specialità. Si sentiva stanca fin dentro le ossa, con un estremo bisogno di una runa energizzante. Avrebbe potuto farsela da sola, se necessario, ma Alec e Jace erano sempre stati più bravi di lei con quel tipo di rune. In camera sua, frugò tra le sue cose in cerca dello stilo e di qualche arma in più. Mentre si infilava delle spade angeliche nel bordo degli scarponi, il suo pensiero era rivolto ad Alec, allo sguardo che si erano scambiati quando era uscito. Non era la prima volta che lo guardava partire sapendo che poteva essere l'ultima volta che lo vedeva. Era una cosa che accettava, che aveva sempre accettato come parte della sua vita. Solo quando aveva conosciuto Clary e Simon si era resa conto che per la maggior parte della gente, non era affatto così. Gli altri non vivevano con la morte come compagna, come un freddo respiro sul collo anche nella più comune delle giornate. Lei, come tutti gli Shadowhunters, aveva sempre disprezzato i mondani, ed era convinta che fossero deboli, stupidi, volgari nel loro autocompiacimento. Ora si chiedeva se tutto quel rancore non avesse origine dall'invidia che provava per loro. Doveva essere bello, quando un familiare usciva di casa, non avere costantemente il timore che non tornasse più indietro. Isabelle era già a metà della scala, con lo stilo in mano, quando percepì qualcosa di strano. Il salotto era vuoto. Max e Sebastian non si vedevano da nessuna parte. C'era un marchio di protezione lasciato a metà, su una delle assi di legno che Sebastian aveva inchiodato sulla finestra rotta. Il martello che aveva usato era sparito. Le si strinse lo stomaco. — Max! — gridò, girando in cerchio. — Sebastian! Dove siete? Le rispose la voce di Sebastian, dalla cucina. — Isabelle. Siamo qui! Il sollievo la travolse, lasciandola stordita. — Sebastian, non è per niente divertente! — esclamò, marciando verso J la cucina. — Credevo che... La porta della cucina si chiuse alle sue spalle. C'era buio, lì dentro, più ancora che in salotto. Socchiuse gli occhi per cercare Sebastian e Max, ma non vide altro che ombre. — Sebastian? — Un filo di incertezza s'insinuò nella sua voce. — Sebastian, che ci fate qui? Dov'è Max? — Isabelle. — Le parve di vedere qualcosa che si muoveva, un'ombra scura contro ombre più chiare. La voce era morbida, gentile, quasi leggiadra. Non si era mai accorta di quanto fosse bella la sua voce. — Isabelle, mi dispiace. — Sebastian, ti comporti in modo strano. Smettila. — Mi dispiace che tocchi proprio a te — aggiunse lui. — Sai, tra tutti, eri quella che mi piaceva di più. — Sebastian... — Tra tutti — aggiunse, con lo stesso tono basso — pensavo che tu fossi la più simile a me. E in quel momento Sebastian calò il pugno, stretto intorno al martello. Alec correva per le strade buie, in fiamme, chiamando Aline senza sosta. Quando lasciò il quartiere di Princewater e si addentrò nel cuore della città, il suo cuore accelerò. Le strade erano come un dipinto di Bosch divenuto realtà: piene di creature macabre e grottesche, di scene di improvvisa e spaventosa violenza. Sconosciuti in preda al panico lo spintonavano, senza nemmeno vederlo, e scappavano urlando, senza alcuna meta apparente. L'aria puzzava di fumo e di demoni. Alcune delle case erano in fiamme, altre avevano le finestre squarciate. I ciottoli della strada luccicavano di vetri rotti. Avvicinandosi a un edificio, Alec vide che quella che aveva scambiato per una macchia di pittura sbiadita era in realtà una sventagliata di sangue fresco sull'intonaco. Girò su se stesso, guardando in ogni direzione, senza vedere nulla che la potesse giustificare. Poi si allontanò il più velocemente possibile. Alec aveva dei ricordi di Alicante. Aveva solo due o tre anni, quando la sua famiglia se n'era andata, ma aveva conservato il ricordo delle torri scintillanti, delle strade piene di neve, in inverno, dei festoni di stregaluce che addobbavano i negozi e le case, dell'acqua che saliva sonora nella fontana della sirena, nella Sala degli Accordi. Aveva sempre provato una strana fitta al cuore al pensiero di Alicante: la speranza dolente che, un giorno, la sua famiglia avrebbe potuto ritornare al luogo cui apparteneva. Ora, vedere la città in quello stato era come la morte di ogni gioia. Svoltando in una strada più ampia, una di quelle che portavano alla Sala degli Accordi, Alec vide un branco di demoni Belial passare chini sotto un arco, sibilando e ululando. Trascinavano qualcosa, che guizzava e si contorceva sull'acciottolato. Si lanciò all'inseguimento, ma i demoni erano già scomparsi. Accartocciata alla base di un pilastro c'era una sagoma senza vita, ai cui piedi scorreva un rivolo di sangue. I vetri rotti scricchiolarono sotto gli scarponi, quando Alec si inginocchiò e girò il corpo. Gli bastò un'occhiata al volto contorto e violaceo. Si ritrasse con un brivido, grato che non fosse nessuno di quelli che conosceva. Un rumore. Alec si rialzò in fretta. Sentì l'odore, prima ancora di vedere l'ombra della creatura ingobbita ed enorme che strisciava verso di lui dal fondo della strada. Un Demone Superiore? Alec non si fermò a verificare. Scappò verso una delle case più alte, dall'altra parte della strada, e saltò sul davanzale di una finestra sfondata. Qualche minuto dopo si stava issando sul tetto, graffiandosi mani e ginocchia. Si mise in piedi, pulendosi le mani, e osservò Alicante dall'alto. Le torri antidemoni emanavo una luce fioca e morente sulle vie brulicanti della città: c'erano cose che correvano a grandi falcate o strisciavano o si annidavano nell'ombra più fitta tra le case, come scarafaggi in un appartamento buio. L'aria gli portava i pianti e strilli e urla, e nomi chiamati a gran voce. Ma c'erano anche gli urli dei demoni, ululati di caos e delizia che ferivano dolorosamente gli orecchi umani. Il fumo si alzava sopra le case di pietra color miele, avviluppando le guglie della Sala degli Accordi. Alec alzò gli occhi verso la Guardia e vide un'onda di Shadowhunters correre giù dalla collina, illuminati dalle stregaluci che tenevano in mano. Il Conclave stava cominciando a combattere. Alec si spostò verso il bordo del tetto. Lì gli edifici erano addossati gli uni agli altri e le grondaie quasi si toccavano. Fu facile saltare al tetto successivo, e poi a quello accanto. Alec si ritrovò a correre agilmente tra i tetti, saltando oltre il breve spazio vuoto tra le case. Era bello sentire in faccia il vento fresco, che predominava sul puzzo dei demoni. Stava correndo da qualche minuto, quando si rese conto di due cose. La prima, che stava puntando verso le bianche guglie della Sala degli Accordi. E la seconda, che c'era qualcosa più avanti, in una piazza tra due vicoli, che somigliava a una pioggia di scintille verso l'alto; scintille azzurre, un po' più scure delle fiammelle del gas. Alec aveva già visto scintille come quelle. Si fermò non più di un attimo, poi cominciò a correre. Il tetto più vicino alla piazza era molto spiovente. Alec vi approdò slittando sulle tegole fissate malamente. In equilibrio precario, guardò giù. Ai suoi piedi si apriva la piazza del Pozzo. La visuale di Alec era parzialmente ostruita da un palo di ferro che si protendeva dalla facciata dell'edificio, sorreggendo un'insegna di legno che dondolava nella brezza. La piazza era gremita di demoni Iblis: avevano forma umana, ma erano fatti di una sostanza simile a spire di fumo nero; i loro occhi erano gialli e ardenti. Erano schierati e avanzavano lentamente verso la figura solitaria di un giovane con un ampio cappotto grigio, costringendolo ad arretrare verso un muro. Alec lo guardò sgranando gli occhi. Tutto, in quel ragazzo, gli era familiare: la linea dritta della schiena, il groviglio di capelli neri, le scintille azzurre che sprizzavano dalle sue dita come sfreccianti lucciole cianotiche. Magnus. Lo stregone scagliava dardi di fuoco azzurro contro i demoni Iblis che avanzavano contro di lui. Un dardo ne colpì uno al petto: col rumore di una secchiata d'acqua gettata sulle fiamme, il demone sfrigolò e svanì in un'esplosione di lapilli. Gli altri si spostarono a chiudere lo spazio rimasto vuoto (i demoni Iblis non brillavano per intelligenza) e Magnus scagliò un'altra raffica di dardi infuocati. Diversi Iblis caddero, ma ora un altro demone, più astuto degli altri, era fluttuato intorno a Magnus e si stava condensando alle sue spalle, pronto a colpire. Alec non si fermò a pensare. Saltò dal margine del tetto verso il palo di metallo, lo afferrò al volo e vi girò intorno come un acrobata, per rallentare la caduta. Mollò la presa e atterrò agilmente nella piazzetta. Il demone, sorpreso, si voltò: gli occhi gialli erano come lampeggianti pietre preziose. Alec ebbe solo il tempo di pensare che Jace, al suo posto, avrebbe sicuramente trovato qualcosa di intelligente da dire, poi estrasse la spada angelica dalla cintura e infilzò il demone. Con un urlo, il mostro svanì. La violenza della sua uscita di scena da quella dimensione investì Alec di una pioggia sottile di cenere. — Alec! — Magnus lo guardava incredulo. Aveva liquidato i demoni Iblis che ancora restavano e la piazza adesso era vuota, fatta eccezione per loro due. — Mi hai... mi hai appena salvato la vita? Alec sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa del tipo: "Ma certo, perché io sono un Cacciatore, ed è quello che facciamo noi Cacciatori". Oppure: "È il mio mestiere." Jace avrebbe detto qualcosa del genere. Jace sapeva sempre qual era la cosa giusta da dire. Ma le parole che uscirono dalla bocca di Alec furono molto diverse e suonarono petulanti alle sue stesse orecchie. — Non mi hai mai richiamato — disse. — Io ti ho chiamato un sacco di volte e tu non mi hai mai richiamato. Magnus guardò Alec come se fosse impazzito. — La tua città è sotto assedio — disse. — Le difese sono state abbattute e le strade pullulano di demoni. E tu vuoi sapere perché non ti ho chiamato? Alec strinse le labbra in una linea ostinata. — Io voglio sapere perché tu non mi hai richiamato. Magnus alzò le braccia al cielo, in un gesto di palese esasperazione. Alec notò con interesse che quando lo fece gli sfuggirono dalle dita alcune scintille, come lucciole che scappassero da un barattolo di vetro. — Sei un idiota. — È per questo che non mi hai richiamato? Perché sono un idiota? — No. — Magnus gli si avvicinò. — Non ti ho chiamato perché sono stanco che tu mi cerchi solo quando hai bisogno di qualcosa. Sono stanco di vederti innamorato di qualcun altro. Di uno che, tra parentesi, non ricambierà mai il tuo amore. Non come me. — Tu mi ami? — Stupido Nephilim — ribatté Magnus paziente. — Perché mai sarei qui? Perché mai avrei passato queste ultime settimane a rimettere in sesto i tuoi stupidi amici ogni volta che si fanno male? E a tirare fuori te da ogni situazione assurda in cui ti cacciavi? Per non parlare dell'aiuto che vi ho dato per vincere la battaglia contro Valentine. E tutto completamente gratis! — Non l'avevo mai vista in questo modo — ammise Alec. — Certo che no. Tu non la vedi mai in nessun modo. — Gli occhi felini di Magnus brillavano di rabbia. — Io ho settecento anni, Alexander. So quando qualcosa non funziona. E tu invece non vuoi nemmeno ammettere coi tuoi genitori che io esisto. Alec lo fissò. — Tu hai settecento anni? — Be' — si corresse Magnus — sarebbero ottocento, ma non li dimostro. Comunque, non è questo il punto. Il punto è che... Alec non potè scoprire quale fosse il punto, perché in quel momento un'altra decina di demoni Iblis invasero la piazza. Restò a bocca aperta. — Dannazione. Magnus seguì il suo sguardo. I demoni si stavano aprendo a ventaglio formando un semicerchio intorno a loro, gli occhi gialli ardenti. — Bel modo di cambiare discorso, Lightwood. — Sai che ti dico? — Alec sguainò un'altra spada angelica. — Se usciamo vivi di qui, giuro che ti presento a tutta la famiglia. Magnus sollevò le mani. Le dita sfavillanti di fiammelle azzurre illuminarono il suo sorriso di ardente luce azzurrata. — Ci sto. capitolo 11 TUTTE LE SCHIERE INFERNALI — Valentine — sussurrò Jace. Fissava la città dall'alto della collina, bianco in volto. Tra gli strati di fumo, a Clary sembrava quasi di vedere il dedalo di stradine, gremite di figure in fuga, minuscole formiche che correvano disperatamente in ogni direzione... Ma, guardando meglio, non vide niente oltre alle nubi dense di vapore nero e c'era un gran puzzo di fuoco e di fumo. — Credi che sia stato Valentine? — Il fumo era acre nella gola di Clary. — Sembra un incendio. Magari è scoppiato per caso. — La Porta Settentrionale è aperta. — Jace le indicò qualcosa che Clary riuscì a malapena a distinguere, per la distanza e per il fumo che distorceva le immagini. — Non viene mai lasciata aperta. E le torri antidemoni hanno perso la loro luce. Le difese sono state abbattute, non c'è altra spiegazione. — Sguainò una spada angelica dalla cintura, stringendola così forte che le nocche gli diventarono color avorio. — Devo raggiungerli. Un nodo di paura serrò la gola a Clary. — Simon... — Avranno sicuramente evacuato la Guardia. Non ti preoccupare, Clary. Probabilmente se la passa meglio di tutti gli altri. È difficile che i demoni se la prendano con lui. Di solito lasciano in pace i Nascosti. — Mi dispiace — sussurrò Clary. — I Lightwood... Alec... Isabelle... — Jahoel — pronunciò Jace. La spada angelica sfavillò, brillante come la luce del giorno, nella sua mano sinistra! — Clary, voglio che tu resti qui. Tornerò a prenderti. — La rabbia che allignava nella sua voce da quando avevano lasciato la tenuta dei Wayland era svaporata. Ora Jace era al cento per cento soldato. Clary scosse la testa. — No. Voglio venire con te. — Clary... — Jace s'interruppe, irrigidendosi. Un attimo dopo, anche Clary sentì: era un battere ritmico, pesante, accompagnato da un altro suono, come il crepitare di un enorme falò. Le ci volle un po' per decostruire il suono nella propria mente, per scomporlo come un brano musicale nelle sue singole note. — Sono... — Lupi mannari — Jace teneva lo sguardo fisso in un punto oltre le spalle di Clary. Seguendone la direzione, anche Clary li vide: come un torrente che valicava la collina più vicina, come un'ombra che si allargasse, illuminata qua e là da feroci occhi ardenti. Un branco di lupi. Più di un branco: dovevano essere centinaia, forse migliaia. Gli ululati e i latrati erano il suono che lei aveva scambiato per un fuoco crepitante, e il suono cresceva nella notte, aspro e secco. A Clary si rivoltò lo stomaco. Lei li conosceva, i lupi mannari. Aveva combattuto accanto a loro. Ma quelli non erano i lupi di Luke, non erano lupi che avevano ricevuto 1'ordine di proteggerla e di non farle alcun male. Ripensò al terribile potenziale di morte del branco di Luke, quando era scatenato, e d'improvviso ebbe paura. Accanto a lei, Jace impreco ferocemnte. Non c’era tempo nemmeno per prendere altre armi. Si strinse Clary al fianco, cingendola col braccio libero, e con l’altra mano levò alta Jahoel. La luce della lama era accecante. Clary strinse i denti. E i lupi furono su di loro. Fu come un’onda che si schiantava, un’esplosione assordante, una folata di vento, quando i primi lupi del branco piombarono verso di loro e balzarono. Occhi fiammeggianti, fauci spalancate… Jace affondò le dita nel fianco di Clary. Ma i lupi passarono oltre, di fianco a Jace e Clary, lasciando un buon mezzo metro di spazio intorno a loro. Clary giro di scatto la testa, incredula, quando due lupi – uno chiaro striato, l’altro enorme, color grigio acciaio – atterrarono agilmente alle loro spalle e subito ripresero la corsa, senza nemmeno degnarli di uno sguardo. C’erano lupi tutt’intorno, eppure non uno li toccò. Sfrecciavano via, un’onda di ombre, con il manto che rifletteva la luce lunare in bagliori d’argento: sembravano un unico fiume in piena, che piombava su Jace e Clary e poi si apriva intorno a loro come l’acqua intorno a una roccia. I due ragazzi avrebbero potuto essere due statue, visto l’interesse che suscitavano nei licantropi, i quali sfrecciavano via con le fauci spalancate e gli occhi fissi sulla strada da fare. Passarono tutti. Jace si girò a guardare gli ultimi che correvano a raggiungere i compagni. Tornò il silenzio. Restavano solo, in lontananza, i rumori fiochi della città. Jace lascio Clary e abbassò Jahoel — Stai bene? — Cos’è successo? — sussurrò Clary. — Quei lupi mannari… ci sono passati accanto… — Stanno correndo verso la città. Verso Alicante. — Jace prese un'altra spada angelica dalla cintura e la porse a Clary.— Ti servirà. — Allora non mi lasci più qui? — Non ha senso. Non saresti al sicuro da nessuna parte. Ma... — esitò — starai attenta? — Starò attenta — promise Clary. — Che si fa, adesso? Jace guardò Alicante che bruciava ai loro piedi. — Adesso si corre. Non era mai facile tenere il passo di Jace e, ora che correva così veloce, era quasi impossibile. Ma Clary sentiva che in realtà face si stava trattenendo, che non correva a tutta velocità per permetterle di stargli dietro, e che questo gli costava molto. La strada si appianava ai piedi della collina ed entrava in un boschetto di alti alberi frondosi che creavano un effetto tunnel. Quando Clary sbucò dall'altra parte, si ritrovò davanti alla Porta Settentrionale. Oltre l'arco, vide una gran confusione di fumo e fiamme guizzanti. Jace era lì ad aspettarla. Brandiva Jahoel in una mano e un'altra spada angelica nell'altra, ma la doppia luce delle lame si perdeva nel fulgore della città in fiamme alle sue spalle. — Le guardie - ansimò Clary raggiungendolo. — Perche non sono qui? — Almeno una è tra quegli alberi — Jace le indicò con il mento la direzione da cui erano venuti. — Fatta a pezzi. No, non guardare. — Jace la osservò. — Non si tiene così la spada angelica. Fa' così. — Le mostrò come fare. — E devi darle un nome. Cassiel mi pare un buon nome. — Cassiel — ripetè Clary, e la luce della lama sfavillò. Jace la guardò con grande serietà. — Vorrei avere avuto il tempo di insegnarti a usarla. Ovvio che, a rigor di logica, nessuno con un addestramento scarso come il tuo sarebbe in grado di usare una spada angelica. Prima la cosa mi sorprendeva, ma adesso che sappiamo che cosa ha fatto Valentine... Clary non voleva, assolutamente parlai di questo. — O forse temevi che, con un buon addestramento, alla fine sarei diventata più brava di te — scherzò. L'ombra di un sorriso sfiorò l'angolo delle labbra di Jace. — Qualsiasi cosa succeda, Clary — le disse, guardandola attraverso la luce di Jahoel — resta con me. Hai capito? — La fissò a lungo, pretendendo con lo sguardo una promessa. Per qualche ragione, alla mente di Clary affiorò il ricordo dei loro baci sull'erba, alla tenuta dei Wayland. Sembrava successo un milione di anni prima. Una cosa capitata a qualcun altro. — Resterò con te. — Bene. — Jace la liberò dal vincolo del suo sguardo.— Andiamo. Passarono sotto la porta della città, fianco a fianco. Non appena furono entrati, di colpo Clary fu consapevole del clamore della battaglia: un muro di suoni fatto di grida umane e ululati disumani, fragore di vetri infranti e crepitio di fuoco. Sentì il sangue pulsare nelle orecchie. Il cortile dietro la Porta Settentrionale era deserto. C'erano sagome rannicchiate qua e là sull'acciottolato, ma Clary cercò di non guardarle. Si chiese come riuscisse sempre a capire se una persona era morta, anche da lontano, senza bisogno di avvicinarsi. Il corpo di un morto non era come quello di un uomo svenuto: in qualche modo poteva percepire che qualcosa si era staccato da lui, che quella scintilla essenziale non c'era più. Jace attraversò il cortile in fretta, tirandosi dietro Clary, e questo le fece pensare che lui non amava troppo gli spazi aperti, privi di protezione. Si infilarono in una delle strade che si dipartivano dal cortile. Altre macerie, vetrine fracassate, mercanzie razziate sparse per la strada. C'era un odore nell'aria, un odore greve di rifiuti marci. Clary lo conosce, va bene: significava demoni. — Da questa parte — sibilò Jace. Si infilarono in una strada più stretta. Il piano superiore di una casa sulla strada era in fiamme, ma il fuoco non sembrava essersi propagato alle case adiacenti. Clary ripensò alle foto dei bombardamenti su Londra nel 1940, quando la distruzione era piovuta dal cielo a casaccio. Alzò lo sguardo: la fortezza sopra la città era avvolta in un cono di fumo nero. — La Guardia. — Te l'ho detto, l'avranno evacuata... — Jace s'interruppe quando dalla stradina sbucarono in una via più ampia. C'erano corpi per terra, molti corpi. Alcuni erano di bambini. Jace corse avanti, seguito da Clary, con passo più esitante. Quando furono più vicini, Clary vide che i bambini erano tre, ma nessuno, pensò con colpevole sollievo, aveva l'età di Max. Accanto a loro, c'era il cadavere di un uomo anziano, con le braccia spalancate, come se avesse cercato di proteggerli facendo scudo col proprio corpo. Il viso di Jace era duro. — Clary, girati. Lentamente. Clary ubbidì. Alle sue spalle, vide la vetrina infranta di un negozio che esponeva torte, torri di torte coperte di glassa. Ora le torte erano sparse per terra, tra i vetri rotti, e i sangue sull'acciottolato, mescolato alla glassa, colava in lunghi rivoli rosati. Ma non era quello che aveva messo una nota di allarme nella voce di Jace: qualcosa stava strisciando fuori dalla vetrina, qualcosa di grosso, informe e viscido, dotato di una doppia fila di denti che correvano su tutta la lunghezza del corpo oblungo, impiastricciato di glassa e impolverato di schegge di vetro come cristalli di zucchero. Il demone piombò sulla strada strisciando verso di loro. Qualcosa, nel suo modo di avanzare molle e grondante, riempì di bile la gola di Clary, che arretrò andando quasi a sbattere addosso a Jace. — È un demone Behemoth - sentenziò Jace fissando la cosa che si avvicinava strisciando. Mangiano qualsiasi cosa. — Mangiano anche... — La gente? Sì — disse Jace. — Stai dietro di me. Clary arretrò di qualche passo per farsi scudo con lui, con gli occhi fissi sul Behemoth. C'era qualcosa in quell'essere, più ancora che negli altri demoni, che le provocava una profonda repulsione. Somigliava a una lumaca cieca, con i denti e senza guscio. E poi, il modo in cui strisciava: era come se colasse lentamente. Ma almeno non era veloce. Jace non avrebbe avuto problemi a ucciderlo. Come spronato dai pensieri di Clary, Jace balzò avanti e affondò la fiammeggiante spada angelica nella schiena del Behemoth, con un rumore di frutta troppo matura spappolata sotto una scarpa. Il demone ebbe un guizzo. Sembro fremere e dissolversi, ma si ricompose all'improvviso, a diversi passi di distanza. Jace ritirò Jahoel. — Come temevo — È semi-corporeo. Difficile da uccidere. — Allora non farlo. — Clary lo tiro per la manica — Tanto non è veloce. Andiamocene di qui. Jace si lasciò tirare con riluttanza. Si voltarono per tornare da dov'erano venuti. E il demone era lì, davanti a loro, a bloccare la strada. Sembrava diventato più grande e produceva un suono basso, una specie di brusio di insetti. — Mi sa che non vuole lasciarci passare - osservò Jace — Jace... Ma lui stava già correndo all'attacco. Tracciò con Jahoel un grande arco nell'aria, con l'intento di decapitare il mostro, ma il demone fremette e si riformò di nuovo, questa volta alle sue spalle. Il demone s'impennò, mostrando il ventre ondulato da scarafaggio. Jace ruotò su se stesso e calò di nuovo Jahoel, piantandola al centro della creatura. Un fluido verde, denso come muco, schizzò intorno alla spada. Jace arretrò di un passo, il viso trasformato in una smorfia di disgusto. Il Behemoth continuava a produrre quello strano brusio. Anche il fluido non la smetteva più di sgorgare dal suo corpo, ma non sembrava fargli male. Ora avanzava deciso verso di loro. — Jace ! — gridò Clary. — La spada... Jace guardò Jahoel. Il muco del Behemoth aveva coperto la lama, soffocandone la fiamma. Sotto i suoi occhi la spada angelica sfrigolò e si spense come un fuoco smorzato dalla sabbia. Jace lasciò cadere l'arma con un'imprecazione prima che il muco del demone potesse contagiarlo. Il Behemoth s'impennò di nuovo, pronto a colpire. Jace arretrò. Quello fu il momento di Clary: si frappose tra lui e il demone, con la spada angelica in pugno. Colpì la creatura sotto la lunga fila di denti e la lama affondò nella massa corporea con un suono umidiccio e disgustoso. Clary fece un balzo indietro, sussultando, quando il demone fu scosso da un altro spasmo. Sembrava che consumasse una certa quantità di energia, per riformarsi dopo che veniva ferito. Se fossero riusciti a ferirlo molte volte... Qualcosa si mosse ai margini del campo visivo di Clary. Un guizzo di grigio e bruno, veloce. Non erano più soli nelli strada. Jace si voltò, sgranando gli occhi — Clary! — gridò. — Dietro di te! Clary ruotò su se stessa, con Cassiel ben salda e fiammeggiante tra le mani, e in quel momento il lupo si lanciò contro di lei, i denti scoperti in un ringhio feroce, le fauci spalancate. Jace gridò qualcosa, Clary non capì, ma si buttò di lato, fuori dalla traiettoria del lupo, che le volò accanto, gli artigli sguainati, il corpo inarcato... e centrò il suo bersaglio, il Behemoth. Lo scaraventò a terra e cominciò a dilaniarlo con i denti. Il demone gridò, o meglio produsse il suono per lui più vicino a un urlo: un sibilo altissimo, come di aria compressa che sfuggisse da un palloncino forato. Il lupo non gli dava tregua, lo bloccava a terra, affondava il muso nella sua pelle viscida. Il Behemoth fremeva e si dibatteva, nello sforzo disperato di riformarsi guarendo dalle ferite, ma il lupo era implacabile. Con gli artigli affondati nella sua pelle, via a morsi la carne gelatinosa, ignorando gli spruzzi di fluido verde che gli zampillavano intorno. Il Behemoth cominciò un'ultima disperata serie di spasmi convulsivi, divincolandosi e battendo i denti seghettati. Alla fine poi scomparve, lasciando sull'acciottolato soltanto una pozzanghera fumante di fluido verde. Il lupo emise una specie di grugnito soddisfatto, poi si girò a guardare Jace e Clary con gli occhi argentei sotto la luce della luna. Jace estrasse un'altra spada angelica dalla cintura e la tenne sollevata, disegnando una linea di fuoco tra loro due e il lupo. Il lupo ringhiò e gli si rizzarono i peli sulla schiena. Clary fermò il braccio di Jace. — No... non farlo! — È un lupo mannaro, Clary... — Ha ucciso il demone per noi! Sta dalla nostra parte! — Clary si allontanò da Jace prima che lui riuscisse a fermarla e si avvicinò al lupo lentamente, protendendo le mani a palmo in su. Gli parlò a voce bassa, con calma: — Mi dispiace. Ci dispiace. Sappiamo che non vuoi farci del male — Sì fermò, con le mani ancora tese, mentre il lupo la guardava con occhi inespressivi. — Chi... chi sei? — gli chiese. Si girò verso Jace e lo guardò in cagnesco. — Puoi mettere via quella cosa? Jace sembrava su punto di gridarle che non metteva via una spada angelica in presenza di un pericolo. Ma, prima che aprisse bocca, il lupo fece un altro ringhio basso e si sollevò sulle zampe posteriori. Le zampe si allungarono, la spina dorsale si raddrizzò, le mascelle si ritirarono. Pochi secondi dopo, di fronte a loro c'era una ragazza, con una tunica bianca macchiata, i capelli legati m una miriade di treccine, una cicatrice sulla gola. — Chi sei?! — La ragazza le fece il verso, con evidente disgusto. — Possibile che non mi hai riconosciuto? Non è che tutti i lupi siano esattamente uguali. Ah, umani! Clary tirò un gran sospiro di sollievo. — Maia! — Esatto io. Pronta a salvarti il fondoschiena, come al solito. — Fece un gran sorriso. Era sporca di sangue e di pus. Sulla pelliccia da lupo non si notava molto, ma ora le striature nere e rosse erano ben visibili sulla pelle scura. La ragazza si mise una mano sullo stomaco. — Uno schifo, comunque. Mi sembra impossibile di essere riuscita a masticare quel demone. Speriamo di non essere allergica. — Ma che ci fai qui? — le chiese Clary — Cioè non che non siamo contenti di vederti, ma... — Non lo sapete? — Maia spostò lo sguardo da Jace a Clary, perplessa. — Ci ha portato Luke. — Luke ? - Clary sgranò gli occhi — Luke è... qui? Maia annuì. - Si è messo in contatto con il suo branco, con vari altri branchi, con tutti quelli che gli sono venuti in mente: ci ha detto che dovevamo venire tutti a Idris. Siamo arrivati da un Portale ai confini di Idris e siamo venuti da lì. Altri branchi hanno aperto un Portale nella foresta e ci hanno aspettato là. Luke ci ha detto che i Nephilim avrebbero avuto bisogno di aiuto. — La sua voce si spense. — Voi non ne sapevate nulla? — No — rispose Jace. — E dubito che il Conclave lo sapesse. Non sono molto entusiasti all'idea di farsi aiutare dai Nascosti. Maia si raddrizzò sulla schiena, gli occhi sfavillanti di rabbia. — Se non fosse stato per noi, vi avrebbero massacrati tutti. Non c'era nessuno a proteggere la città quando siamo arrivati. — Smettila — intimò Clary a Jace, fulminandolo con un'occhiata. — Ti sono davvero grata, davvero, per averci salvato la vita, Maia. E anche Jace, anche se è così testardo che s'infilerebbe una spada angelica in un occhio, piuttosto che ammetterlo. E non dire che lo speri — aggiunse in fretta, vedendo l'espressione della ragazza — perché non ci sarebbe molto d'aiuto. Ora noi dobbiamo assolutamente andare a casa dei Lightwood; poi, io devo trovare Luke... — Lightwood? Credo che siano nella Sala degli Accordi. Stiamo portando tutti lì. Ho visto Alec — disse Maia — e anche lo stregone, quello con i capelli a spunzoni. Magnus. — Se c'è Alec, ci devono essere anche gli altri. — Il sollievo sul volto di Jace fece venir voglia a Clary di mettergli una mano sulla spalla. Ma non lo fece. — Buona idea, portare tutti alla Sala degli Accordi: è protetta. — Jace infilò la spada angelica nella cintura. — Forza, andiamo! Clary riconobbe l'interno della Sala degli Accordi nel momento stesso in cui vi mise piede: era il posto che aveva sognato, il posto dove aveva danzato con Simon e poi con Jace. È qui che volevo arrivare attraverso il Portale, pensò osservando le pareti bianche e il soffitto con l'enorme lucernario di vetro da cui si vedeva il cielo notturno. La sala, pur essendo molto ampia, sembrava più piccola e più spenta rispetto al sogno. La fontana con la sirena e era ancora, al centro della sala: zampillava, ma era come corrosa, e i gradini che salivano alla vasca erano affollati di persone, molte delle quali vistosamente bendate. C'erano Shadowhunters dappertutto, gente che camminava in fretta, fermandosi ogni tanto a studiare il viso di altre persone nella speranza di ritrovare un amico o un parente. Il pavimento era lercio, sporco di sangue e di fango. Ma ciò che colpì Clary più di ogni altra cosa fu il silenzio. Fosse stato il momento successivo a un disastro nella società dei mondani ci sarebbe stata gente che gridava, che strillava, che chiamava altra gente. Ma la sala era quasi completamente priva di suoni. Le persone stavano sedute in silenzio, chi con la testa fra le mani, chi con lo sguardo fisso nel vuoto. I bambini si stringevano ai genitori, ma nessuno piangeva. Clary notò anche qualcos'altro, entrando nella sala con Jace e Maia: un gruppo di persone piuttosto trasandate, in piedi vicino alla fontana, riunite in cerchio. Erano in qualche modo separate dal resto della folla e quando Maia li vide e sorrise, Clary capì perché — Il mio branco! — esclamò Maia. Corse da loro, fermandosi solo un attimo per girarsi verso Clary — Sono sicura che Luke è qui, da qualche parte — le disse, poi svanì dentro il gruppo, che si richiuse intorno a lei. Clary si chiese, per il momento, che cosa sarebbe successo se avesse seguito Maia nel gruppo. L'avrebbero accolta con piacere, perché era amica di Luke, o l'avrebbero guardata con sospetto, era una Cacciatrice? — Non farlo — la mise in guardia Jace, come leggendole nel pensiero. — Non è una buona... Ma in quel momento sentirono gridare — Jace! — Alec si stava facendo largo a gomitate tra la folla, col fiato corto. I capelli scuri erano arruffati e c'era del sangue sui suoi vestiti, ma i suoi occhi erano accesi da un misto di sollievo e rabbia. Prese Jace per il bavero della giacca. — Si può sapere che diavolo ti è successo? Jace sembrò offeso. — Come sarebbe, cosa mi è successo? Alec lo scrollò, poco delicatamente. — Hai detto che andavi a fare una passeggiata! Che razza di passeggiata dura sei ore? — Una passeggiata lunga? — suggerì Jace. — Potrei ucciderti — disse Alec mollando la presa. — E ci sto pensando seriamente. — Sarebbe un po' un controsenso, no? — disse Jace. Si guardò intorno. — Ma dove sono tutti? Isabelle, e... —Isabelle e Max sono dai Penhallow, con Sebastian—lo aggiornò Alec. — Mamma e papà stanno andando a prenderli. E Aline è qui, con i suoi genitori, ma non vuole parlare. Se l'è vista brutta con un demone Rezkor, vicino a un canale. Ma Izzy l'ha salvata. — E Simon? — chiese Clary con ansia. — Hai visto Simon? Dovrebbe essere sceso dalla Guardia con gli altri. Alec scosse la testa — No, non l'ho visto. Ma non ho visto nemmeno l'Inquisitore, e neanche il Console. Probabilmente sarà con uno di loro. Forse si sono fermati da qualche parte o... — Alec non finì la frase. Un mormorio spazzò la sala. Clary vide il gruppo di licantropi alzare la testa, subito allertati, come un branco di cani da caccia che fiutasserò la selvaggina. Si giro. E vide Luke, sfinito e sporco di sangue, entrare dalle porte della Sala degli Accordi. Clary corse da lui, dimenticando quanto si era arrabbiata quando Luke l'aveva abbandonata a casa di Amatis, dimenticando quanto fosse furioso con lei perché l'aveva trascinato fin lì, dimenticando tutto, tranne la gioia di rivederlo. Luke si sorprese vedendosela piombare addosso, poi sorrise, spalancò le braccia e la sollevò stringendola forte, come faceva quando era piccola. Sapeva di sangue, di flanella e di fumo. Per un momento Clary chiuse gli occhi, ripensando a come Alec aveva aggredito Jace quando l'aveva visto entrare nella sala. Perché era così che facevi con la tua famiglia, quando eri stato in pensiero per qualcuno: lo prendevi di petto, gli stavi addosso, gli dicevi quanto ti aveva fatto imbestialire, ed era giusto così, perché, per quanto ti potessi arrabbiare, lui era pur sempre parte di te. E quello che Clary aveva detto a Valentine era vero. Luke era la sua famiglia. Luke la rimise a terra con una piccola smorfia di dolore — Piano — le disse — Un demone mi ha beccato alla spalla, giù al Marryweather Bridge. — Le mise le mani sulle spalle, studiandole il volto. — Ma tu stai bene, vero? — Be', questa si che è una scena toccante! — commentò una voce gelida. Clary si girò, con la mano di Luke ancora sulla spalla. Un uomo alto, avvolto in un mantello blu che gli volteggiava intorno ai piedi, si stava avvicinando a loro. La faccia, sotto il cappuccio del mantello, era quella di una statua scolpita: zigomi alti, tratti aquilini, palpebre pesanti. — Lucian — disse l'uomo senza guardare Clary. — Dovevo aspettarmelo che ci fossi tu dietro questa... questa invasione — Invasione? — ripetè Luke. E, di colpo, tutto a branco di licantropi fece corpo alle sue spalle. L'avevano raggiunto così rapidamente e così silenziosamente, che era come se si fossero materializzati dal nulla. — Non siamo noi quelli che hanno invaso la tua città, Console. È stato Valentine. Noi stiamo cercando di aiutarvi. — Il Conclave non ha bisogno di aiuto — replicò il Console — Non da quelli come voi. State infrangendo la Legge con la vostra sola presenza nella Città di Vetro, difese o non difese. Sono sicuro che ne siete consapevoli. — Mi pare chiaro, invece, che il Conclave ha bisogno di aiuto. Se non fossimo arrivati noi, molti altri dei vostri sarebbero morti. — Luke si guardò intorno: diversi gruppi di Shadowhunters si erano avvicinati, curiosi di vedere cosa stesse succedendo. Alcuni di loro incrociarono lo sguardo di Luke con franchezza, altri abbassarono gli occhi, come vergognandosi. Ma nessuno, pensò Clary con un improvviso impeto di sorpresa, sembrava arrabbiato. — L'ho fatto per dimostrare una cosa, Malachi. La voce di Malachi era gelida. — E che cosa volevi dimostrare? — Che voi avete bisogno di noi — rispose Luke. — Per sconfiggere Valentine, avete bisogno del nostro aiuto. Non solo dei licantropi, ma di tutti i Nascosti. — E che cosa mai potrebbero fare i Nascosti, sentiamo, contro Valentine? — chiese Malachi sprezzante. — Lucian, lo sai bene anche tu. Eri uno di noi, una volta. Abbiamo sempre affrontato tutti i pericoli da soli e da soli abbiamo il mondo dal male. E ora affronteremo Valentine con le nostre forze. I Nascosti farebbero meglio a starsene fuori dai piedi. Noi siamo Nephilim. Noi combattiamo da soli le nostre battaglie. — Questo no è del tutto vero. — obiettò una voce vellutata, Era Magnus Bane, con un lungo cappotti scintillante, una varietà di anelli alle orecchie e un'espressione furba. Chissà da dove era sbucato, pensò Clary. — Voi Nephilim vi siete serviti dell'aiuto degli stregoni in più di un occasione, in passato, e avete pagato profumatamente il servizio. Malachi si accigliò. — Non ricordo che il Conclave ti abbia invitato nella Città di Vetro, Magnus Bane. —Nessuno mi ha invitato, infatti — confermò Magnus. — Le vostre difese sono cadute. — Ma davvero? — La voce del Console grondava sarcasmo. — Non me n'ero accorto. Magnus finse preoccupazione. — Ma è terribile! Qualcuno avrebbe dovuto dirtelo! — Guardò Luke. — Luke, digli che le difese sono cadute. Luke era esasperato. — Malachi, per l'amor del cielo, i Nascosti sono forti. Sono tanti. Te lo ripeto: vi possiamo aiutare. La voce del Console si alzò. — E io te lo ripeto: non ci serve il vostro aiuto! — Magnus — Clary gli si avvicinò e gli parlò in un sussurro. Si era radunata una piccola folla per assistere allo scontro tra Luke e il Console: Clary era sicura che nessuno badasse a lei. — Devo parlarti, adesso, mentre gli altri sono troppo impegnati a bisticciare. Magnus le lanciò un'occhiata interrogativa, poi annuì e la trascinò con sé, tagliando la folla come un apriscatole. Nessuno dei presenti, Cacciatori o lupi mannari che fossero, sembrava voler intralciare il passo a uno stregone di un metro e ottanta di altezza, con gli occhi da gatto e un sorriso da folle. Magnus la spinse in un angolo più tranquillo. — Che c'è? — Ho il libro. — Clary si sfilò il libro dalla tasca del capotto malconcio, lasciando delle ditate sporche sulla copertina color avorio — Sono stata alla tenuta dei Wayland. Era nella biblioteca, come avevi detto tu. E... — Le mancò la voce, pensando all'angelo prigioniero. — Non importa. — Gli offrì il Libro Bianco. — Tieni. Prendilo. Magnus prelevò il libro dalle sue mani con le lunghe dita. Sfogliò le pagine, sgranando gli occhi. — È meglio di quello che avevo sentito dire — annunciò gongolando. — Non vedo l'ora di mettermi a provare questi incantesimi — Magnus! — La voce tagliente di Clary lo riportò sulla terra. — Prima mia mamma. Me l'hai promesso. — E io mantengo le mie promesse. — Lo stregone annuì gravemente, ma c'era qualcosa, nei suoi occhi, di cui Clary non si fidava completamente. — C'è dell'altro — aggiunse Clary pensando a Simon. — Prima che tu vada... — Clary! — Alle sue spalle risuonò una voce forte, ansimante. Clary si girò, sorpresa, e si ritrovò Sebastian al suo fianco. Era in tenuta da battaglia e gli stava molto bene, pensò Clary, come se fosse nato per indossarla. Se tutti gli altri erano insanguinati e malconci, lui non aveva nemmeno un livido, tranne due graffi sulla guancia sinistra, come di artigli. — Ero preoccupato per te. Sono andato a casa di Amatis venendo qui, ma non c'eri. E lei mi ha detto che non ti vedeva da... — Be', sto bene. — Clary spostò lo sguardo da Sebastian a Magnus, che teneva il Libro Bianco stretto al petto. Le sopracciglia ben disegnate di Sebastian si inarcarono. — E tu? — gli chiese. — La guancia... — Clary gli toccò le ferite. I graffi stillavano ancora un po' di sangue. Sebastian alzò le spalle, allontanandole gentilmente la mano. — Una demonessa mi ha aggredito, vicino alla casa dei Penhallow. Ma sto bene. Qui che succede? — Niente. Stavo parlando con Ma... Ragnor... — Clary si corresse in fretta, rendendosi conto con orrore che Sebastian non aveva idea di chi fosse Magnus. — Maragnor? — Sebastian inarcò le sopracciglia. — Ah, okay. — Guardò con curiosità il Libro Bianco. Clary avrebbe preferito che Magnus lo mettesse via. Così come lo teneva, il titolo dorato era perfettamente visibile. — Quello cos'è? Magnus lo studiò per un momento, valutandolo coi suoi occhi da gatto.— Un libro di incantesimi — disse alla fine. — Niente che possa interessare a un Cacciatore. —A dire la verità, mia zia colleziona libri di incantesimi. Posso vedere? — Sebastian allungò la mano ma, prima che Magnus potesse rifiutare, Clary si sentì chiamare di nuovo, e un attimo dopo Jace e Alec calarono su di loro, palesemente poco entusiasti di vedere Sebastian. — Mi pareva di averti detto di restare con Max e Isabelle! — lo aggredì Alec. — Li hai lasciati da soli? Lentamente, gli occhi di Sebastian si spostarono da Magnus ad Alec. — I tuoi genitori sono tornati, esattamente come avevi previsto. — La sua voce era gelida. — Mi hanno mandato avanti per farvi sapere che stanno tutti bene, compresi Izzy e Max. Sono per strada. — Bene — ribattè Jace, in tono carico di sarcasmo. — Grazie mille per averci comunicato la notizia nell'attimo stesso in cui sei arrivato. — Non ho visto nessuno di voi due, nell'attimo in cui sono arrivato — replicò Sebastian. — Ho visto Clary. — Perché stavi cercando lei. — Perché avevo bisogno di parlare con lei. Da solo. — Sebastian incrociò lo sguardo di Clary con un'intensità che la fece esitare. Avrebbe voluto dirgli di non guardarla così, in presenza di Jace, ma sarebbe stata un'osservazione irragionevole. E poi, forse Sebastian aveva davvero qualcosa di importante da dirle. — Clary? Lei annuì. — Va bene. Un secondo solo — gli disse. Vide un mutamento repentino nell'espressione di Jace: non si accigliò, ma il suo viso diventò perfettamente immobile. — Torno subito — aggiunse, ma Jace non guardava lei. Stava guardando Sebastian. Sebastian la prese per un polso e la trascinò via dagli altri, portandola dove la folla era più fitta. Lei si voltò indietro: i ragazzi la stavano seguendo con lo sguardo, persino Magnus. Clary lo vide scuotere la testa una volta, in modo appena percettibile. Clary piantò i piedi. — Sebastian. Fermati. Cosa c'è? Che cos'hai da dirmi? Lui si girò verso di lei, senza lasciarle il polso. — Pensavo che potevamo andare fuori — le disse. — Per parlare in privato. — No. Io voglio restare qui - replicò Clary, e senti la propria voce tremare appena, come se non ne fosse sicura. Invece era sicura. Si liberò il polso con uno strattone. — Ma che ti prende? — Quel libro — le disse Sebastian. — Quello che Fell aveva in mano, il Libro Bianco. Tu sai dove l'ha trovato? — Era di questo che volevi parlarmi? — È un libro di incantesimi straordinariamente potenti — le spiegò. — Un libro che... be', in molti lo stanno cercando da tanto tempo. Clary sbuffò, esasperata. — E va bene, Sebastian. A questo punto te lo devo proprio dire — sbottò. — Quello non è Ragnor Fell. È Magnus Bane. — Quello è Magnus Bane? - Sebastian si girò di scatto a guardarlo, poi tornò a fissare Clary con uno sguardo accusatorio. — E tu l'hai sempre saputo, vero? Tu conoscevi già Magnus Bane. — Si. Mi dispiace. Mi ha chiesto lui di non dirtelo. Ed è l'unico che può aiutarmi a salvare mia madre. Per questo gli ho dato il Libro Bianco. C'è un incantesimo, la dentro, che la potrebbe aiutare. Qualcosa brillò in fondo agli occhi di Sebastian e Clary ebbe la stessa sensazione che aveva provato dopo che lui l'aveva baciata: un'improvvisa e dolorosa consapevolezza che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato, come se avesse fatto un passo avanti aspettandosi di trovare la terraferma sotto i piedi e invece fosse precipitata nel vuoto. La mano di Sebastian scattò e le afferrò il polso. — Tu hai dato il libro, il Libro Bianco, a uno stregone? A un immondo Nascosto? Clary si immobilizzò. — Non posso credere che tu abbia detto una cosa del genere. — Abbassò lo sguardo sulla mano di Sebastian stretta intorno al suo polso. — Magnus è mio amico. Sebastian allentò appena la stretta. — Mi dispiace — si scusò. — Non avrei dovuto dirlo. È solo che... Quanto lo conosci, Magnus Bane? — Più di quanto conosco te — rispose Clary con freddezza. Lanciò un'occhiata verso l'angolo in cui aveva lascito Magnus con Jace e Alec e trasalì per la sorpresa: Magnus non c'era più. Jace e Alec erano da soli, con gli occhi puntati su lei e Sebastian. Clary percepiva la disapprovazione di Jace, come il calore che viene da un forno aperto. Sebastian seguì il suo sguardo e i suoi occhi s'incupirono. — Lo conosci abbastanza da sapere dov'è andato adesso con il tuo libro? — Non è mio. L'ho dato a lui — ribatté Clary. Aveva una sensazione di freddo allo stomaco, al pensiero di quell'ombra negli occhi di Magnus. — E non vedo come la cosa ti possa riguardare, tra l'altro. Senti, apprezzo molto che tu mi abbia aiutato a trovare Ragnor Fell, ieri, ma adesso mi stai facendo paura. Voglio tornare dai miei amici. Clary fece per girarsi, ma Sebastian la bloccò.—Ti chiedo scusa. Non avrei dovuto dire quello che ho detto. È solo che... ci sono cose che tu non sai. — Allora dimmele. — Vieni fuori con me. Ti dirò tutto. — Il suo tono era ansioso, preoccupato. — Clary, per favore. Lei scosse la testa. — Io devo restare qui. Devo aspettare Simon. — In parte era vero e in parte era una scusa. — Alec mi ha detto che porteranno qui anche i prigionieri. Sebastian stava scuotendo la testa. — Clary, nessuno te l'ha detto? I prigionieri sono stati abbandonati alla Guardia. L'ho sentito dire a Malachi. Quando la città è stata attaccata hanno evacuato la Guardia, ma non hanno portato fuori i prigionieri. Malachi ha detto che, tanto, erano entrambi in combutta con Valentine e che era troppo rischioso farli uscire. La testa di Clary sembrava piena di nebbia: si sentiva stordita, con un filo di nausea. — Non può essere vero. — È vero — ripeté Sebastian — Te lo giuro. — La sua mano si strinse di nuovo intorno al suo polso. Clary vacilLò. — Ti ci porto io, alla Guardia. Ti posso aiutare a tirarlo fuori. Ma devi promettermi che... — Lei non deve prometterti proprio niente — intervenne Jace. — Lasciala andare, Sebastian. Il ragazzo, colto alla sprovvista, allentò la presa. Clary ritrasse la mano e si girò versò Jace e Alee, che la guardavano con aria seria. La mano di Jace era appoggiata sull'elsa della spada angelica che aveva alla cintura. — Clary può fare quello che vuole — precisò Sebastian. Non sembrava arrabbiato, ma aveva una strana fissità sul volto, che in qualche modo era peggio. — E in questo momento, Clary vuole venire con me a salvare il suo amico. L'amico che voi avete fatto mettere in prigione. Alec sbiancò a quelle parole, ma Jace si limitò a scuotere la testa. — Tu non mi piaci per niente — concluse, pensoso. — So che piaci a tutti quanti, Sebastian, ma a me no. Forse è perché ti sforzi così tanto di piacere a tutti. Forse sono solo un bastian contrario. Ma tu non mi piaci, e non mi piace come tenevi mia sorella. Se Clary vuole andare alla Guardia a cercare Simon, bene. Ci andrà con noi. Non con te. La fissità sul volto di Sebastian non cambiò. — Io credo che debba essere una scelta sua — incalzò. — Non ti pare? Entrambi guardarono Clary. Lei guardò alle loro spalle, verso Luke che ancora discuteva con Malachi. — Voglio andare con mio fratello — disse. Qualcosa guizzò in fondo agli occhi di Sebastian, un lampo che sparì troppo in fretta perché Clary potesse riconoscerlo. Ma sentì un brivido sulla nuca, come se l'avesse toccata una mano gelata. — Ovvio — disse Sebastian, facendosi da parte. Fu Alec a muoversi per primo, incitando Jace a fare lo stesso. Non erano ancora arrivati alle porte della sala, quando Clary si accorse che il polso le faceva male, le bruciava come per una scottatura. Lo guardò, aspettandosi di vedere un segno rosso dove Sebastian l'aveva stretta, ma non c'era niente. Solo una traccia di sangue sulla manica, dove aveva toccato i graffi sulla guancia di Sebastian. Clary aggrottò la fronte, tirò giù la manica sul polso che bruciava, e si affrettò a raggiungere gli altri. capitolo 12 DE PROFUNDIS Le mani di Simon erano nere di sangue. Aveva cercato di svellere le sbarre della finestrella e della cella, ma il contatto prolungato gli incideva marchi a fuoco sul palmo delle mani. Alla fine era crollato a terra, esausto e stordito, ed era rimasto a guardarsi le ferite sulle mani che guarivano rapidamente, le lesioni che si chiudevano, e la pelle annerita che si sfogliava, come in un video in avanzamento veloce. Dall'altra parte del muro, Samuel stava pregando. — Se ci piomberà addosso una sciagura, una spada punitrice, una peste o una carestia, noi ci presenteremo a te in questo tempio, poiché il tuo nome è in questo tempio, e grideremo a te dalla nostra sciagura e tu ci ascolterai e ci aiuterai. Simon non poteva pregare. Aveva già provato, in passato, ma il nome di Dio gli bruciava la bocca e gli soffocava la gola. Si chiese perché riusciva a pensare alle parole, ma non a pronunciarle. E perché poteva stare in pieno sole senza morire, ma non dire le sue ultime preghiere. Il fumo aveva iniziato ad aleggiare nel corridoio come un fantasma deciso a raggiungerli. Sentiva l'odore di bruciato e il crepitio del fuoco che si espandeva, ma era stranamente distaccato, lontano da tutto. Era strano essere diventato un vampiro, ricevendo in dono quella che si sarebbe potuta definire una vita eterna, per poi morire comunque a sedici anni. — Simon! — La voce era fioca, ma il suo udito la colse sopra il crepitio delle fiamme divoratrici. Il fumo nel corridoio aveva preannunciato l'arrivo del calore, e adesso il calore era arrivato e premeva contro di lui come un muro. — Simon! Era la voce di Clary. L'avrebbe riconosciuta ovunque. Si chiese se fosse la sua mente a evocarla, una memoria sensoriale di ciò che aveva amato di più in vita, per aiutarlo ad affrontare l'agonia prima della morte. — Simon, pezzo di cretino! Sono qui! Alla finestra! Simon balzò in piedi. Difficile che la sua mente evocasse una cosa del genere! Nel fumo sempre più fitto, vide qualcosa di bianco muoversi contro l'inferriata della finestra. Si avvicinò e le macchie bianche diventarono mani aggrappate all'inferriata. Saltò sulla branda, urlando sopra il rumore del fuoco. — Clary? — Oh, grazie al cielo. — Una delle mani si allungò verso l'interno e gli strinse una spalla. — Ora ti tiriamo fuori di qui. — E come? — chiese Simon. Sentì uno scalpiccio. Le mani di Clary svanirono, rimpiazzate da altre mani: più grandi, indubbiamente maschili, dalle nocche scorticate e dalle dita sottili da pianista. — Aspetta. — La voce di Jace era calma, sicura, come se stesse chiacchierando a una festa invece che dalle sbarre di una prigione che stava andando a fuoco. — Forse è meglio se stai indietro. Reso obbediente dalla sorpresa, Simon si spostò. Le mani di Jace si strinsero sull'inferriata e le nocche diventarono bianche in modo preoccupante. Ci fu un gemito, uno schianto, e il riquadro di sbarre si divelse di colpo dalla pietra e piombò fragorosamente sul pavimento della cella, accanto alla branda. Una nuvola di soffocante polvere bianca si riversò nella cella. Il viso di Jace comparve nel riquadro vuoto della finestrella. — Simon. Vieni fuori. — Gli tese le mani. Simon si allungò e le afferrò. Si sentì tirar su di peso, poi si aggrappò ai bordi della finestrella, si issò e sgusciò fuori dall'angusto riquadro come un serpente che uscisse dalla tana. Un attimo dopo era riverso sull'erba umida, con un cerchio di facce preoccupate sopra di sé. Jace, Clary, Alec. Tutti chini su di lui. — Sei messo proprio male, vampiro — commentò Jace. — Che cosa ti è successo alle mani? Simon si mise a sedere. Le ferite erano guarite, ma la pelle era ancora nera dove aveva stretto le sbarre. Però non riuscì a rispondere, perché Clary lo strinse in un abbraccio improvviso e feroce. — Simon — sussurrò. — Non ci posso credere. Non sapevo nemmeno che tu fossi qui. Fino a ieri sera credevo che fossi a New York. — Be' — rispose Simon — se è per questo nemmeno io sapevo che tu fossi qui. — Lanciò un'occhiataccia a Jace, alle spalle di Clary. — Anzi, mi pareva che mi avessero chiaramente detto il contrario. — Io non ho mai detto il contrario — precisò Jace. — È solo che non ti ho corretto quando sei, diciamo, caduto in errore. In ogni caso, ti ho appena salvato da una morte sul rogo, quindi immagino che tu non abbia alcun diritto di prendertela con me. - Una morte sul rogo. Simon si staccò da Clary e si guardò intorno. Erano in un giardino quadrato, circondato su due dalle mura della fortezza e sugli altri due lati da un bosco fitto. Alcuni degli alberi erano stati tagliati per creare il sentiero sassoso che scendeva dalla collina fino in città: era costeggiato da torce di stregaluce, ma solo alcune erano accese e mandavano una luce fioca e discontinua. Simon alzò lo sguardo verso la Guardia. Vista da quell'angolatura, era difficile credere che ci fosse un incendio: il fumo nero macchiava il cielo sopra di loro e le luci di alcune finestre erano innaturalmente splendenti, ma i muri di pietra nascondevano bene il proprio segreto. — Samuel!— esclamò. — Dobbiamo tirar fuori anche Samuel. Clary lo guardò, sconcertata. — Chi? — Non ero l'unico, là dentro. C'era anche Samuel. Era nella cella accanto alla mia. — Il mucchio di stracci che ho visto dalla finestrella? — ricordò Jace. — Sì. È un po' strano, ma è una brava persona. Non possiamo abbandonarlo. — Simon si rialzò in piedi. — Samuel? Samuel! Non ci fu risposta. Simon corse all'inferriata della finestrella bassa accanto a quella dalla quale era appena sgusciato. Dalle sbarre si vedevano solo volute di fumo. — Samuel! Ci sei? Qualcosa si mosse nel fumo, qualcosa di scuro e ingobbito. La voce di Samuel, arrochita dal fumo, si levò aspra. — Lasciatemi stare! Andate via! — Samuel! Morirai, lì dentro! — Simon strattonò l'inferriata. Non successe nulla. — No. Lasciatemi stare! Voglio restare qui! Simon si guardò intorno disperato. Un attimo dopo Jace era accanto a lui. — Spostati — gli intimò. Quando Simon si fece da parte, Jace sferrò un calcio potente. L'inferriata fu divelta con violenza e precipitò nella cella. Samuel lanciò un grido roco. — Samuel! Stai bene? — Davanti agli occhi di Simon prese forma l'immagine del vecchio con la testa ferita dall'inferriata. La voce di Samuel diventò un grido acuto. — ANDATE VIA! Simon guardò Jace. — Credo che dica sul serio. Jace scosse la testa bionda, esasperato. — Dovevi proprio fare amicizia con un carcerato demente, eh? Non ti bastava contare le pietre o addestrare un topo, come fanno tutti i prigionieri? — Senza aspettare risposta, Jace si abbassò e si calò dalla finestrella. — Jace! — esclamò Clary, accorrendo con Alee. Ma Jace si era già lasciato cadere all'interno della cella. Clary lanciò a Simon un'occhiata furente. — Perché gliel'hai permesso? — Be', mica poteva lasciarlo lì a morire — commentò Alec inaspettatamente, pur con una certa ansia nella voce. — È di Jace che stiamo parlando, dopotutto. S'interruppe, vedendo apparire due mani nel fumo. Alec ne prese una, Simon l'altra, e insieme issarono Samuel come un sacco di patate e lo depositarono sul prato. Un attimo dopo, Simon e Clary presero le mani di Jace e tirarono fuori anche lui, che però non era un peso morto e imprecò quando gli fecero sbattere la testa contro la cornice della finestrella. Jace si liberò e si arrangiò da solo a strisciare sull'erba, dove crollò sulla schiena. — Ahi — disse, guardando il cielo. — Credo di essermi stirato qualcosa. — Si mise a sedere e guardò Samuel. — Lui sta bene? Samuel era seduto sull'erba, ingobbito, con le mani sulla faccia. Dondolava avanti e indietro, muto. — Non molto, credo — disse Alec. Si avvicinò a toccare la spalla del vecchio, che si scostò di scatto, quasi rovesciandosi sull'erba. — Lasciami stare — disse con voce spezzata. — Ti prego, Alec. Lasciami stare. Alee si immobilizzò. — Cos'hai detto? — Ha detto di lasciarlo stare — disse Simon, ma Alec non stava guardando lui, sembrava addirittura che non l'avesse nemmeno sentito. Stava guardando Jace che, improvvisamente molto pallido, si stava rialzando in piedi. — Samuel — disse Alec. Il suo tono era stranamente duro. — Togliti le mani dalla faccia. — No. — Samuel abbassò il mento. Le spalle erano scosse da un tremito. — No. Ti prego. No. — Alec! — protestò Simon. — Ma non vedi che non sta bene? Clary gli tirò la manica. — Simon, qui c'è qualcosa che non quadra. Gli occhi di Clary erano fissi su Jace (il che succedeva spesso) quando lui si avvicinò alla figura accovacciata a terra. Le dita di Jace sanguinavano, perché si erano scorticate contro il bordo della finestrella, e quando le avvicinò ai capelli dell'uomo per scostarglieli dagli occhi, lasciarono una traccia di sangue sulla sua guancia. L'uomo sembrò non accorgersene nemmeno. Jace aveva gli occhi sbarrati e la bocca era una linea secca, furiosa. — Shadowhunter — disse in tono tagliente. — Mostraci il tuo volto. Samuel esitò, poi lasciò cadere le mani. Simon non lo aveva mai visto in faccia e non aveva mai pensato a quanto potesse essere vecchio e scarno. Il volto era coperto da un fitto cespuglio di barba grigia, gli occhi acquosi erano infossati nelle orbite scure, le guance solcate da rughe. Ma, nonostante tutto, gli era stranamente famigliare. Le labbra di Alec si mossero, ma non ne uscì alcun suono. Fu Jace a parlare. — Hodge — disse. — Hodge? — ripetè Simon, confuso. — Ma non può essere. Hodge era... e Samuel... non può... — Be', evidentemente è nello stile di Hodge — commentò Alec amaramente. — Farti credere di essere ciò che non è. — Ma diceva... — cominciò Simon. Clary gli strinse un braccio e Simon lasciò morire le parole sulle labbra. Bastava l'espressione di Hodge: non era senso di colpa, in realtà, e nemmeno l'orrore di essere stato smascherato, ma un dolore terribile, più profondo. — Jace — disse Hodge a voce bassissima. — Alec... Mi dispiace tanto. Jace allora si mosse come in combattimento, come la luce del sole sull'acqua. In un lampo fu davanti a Hodge con un coltello in mano, la punta affilata alla sua gola. Il bagliore dell'incendio guizzò sulla lama. — Io non voglio le tue scuse. Voglio un motivo per non ucciderti qui, all'istante. — Jace! — Alec si allarmò. — Jace, aspetta. Ci fu un boato improvviso e parte del tetto della Guardia, esplose in alte lingue di fuoco rossastre. Il calore vibrava nell'aria e illuminava la notte. Clary vide ogni filo d'erba del prato, ogni segno sul viso sporco e affilato di Hodge. — No — disse Jace. Il vuoto della sua espressione era come una maschera e ne evocò un'altra nella mente di Clary: Valentine. — Tu sapevi cosa mi aveva fatto mio padre, vero? Tu conoscevi tutti i suoi sporchi segreti. Alee spostava lo sguardo dall'uno all'altro, senza capire. — Ma di cosa stai parlando? Che sta succedendo? La faccia di Hodge si increspò. — Jonathan... — Tu l'hai sempre saputo e non hai mai detto niente. Tutti quegli anni all'Istituto, e non hai mai detto niente. La bocca di Hodge si piegò. — Non... non ne ero sicuro — sussurrò. — Quando non vedi più un bambino da quando era in fasce... Non ero sicuro di chi fossi, men che meno di che cosa fossi. — Jace? — Alec spostava lo sguardo dal suo migliore amico al suo tutore, gli occhi azzurri sgomenti, ma nessuno dei due prestava attenzione a nient'altro. Hodge sembrava un uomo intrappolato in una morsa che gli si stringeva intorno, le mani si torcevano, come per un dolore, gli occhi guizzavano. Clary ripensò all'uomo elegantemente vestito nella biblioteca foderata di libri che le aveva offerto del tè e dato consigli amichevoli. Sembravano passati mille anni. — Non ti credo — ribatté Jace. — Tu sapevi che Valentine non era morto. Sicuramente lui te l'aveva detto. — Lui non mi ha mai detto niente — disse Hodge, senza fiato. — Quando i Lightwood mi informarono che avrebbero accolto nella loro casa il figlio di Michael Wayland, non avevo notizie di Valentine dai tempi della Rivolta. Credevo che mi avesse dimenticato. Avevo persino pregato che fosse morto. Poi, la notte prima del tuo arrivo, Hugo mi portò un messaggio di Valentine. «Il ragazzo è mio figlio». Solo questo diceva. — Hodge prese fiato. — Non sapevo se credergli o meno. Pensavo che avrei capito. Credevo che l'avrei capito solo guardandoti. Ma non c'era nulla, nulla, a darmi la certezza. E pensai che fosse un espediente di Valentine. Ma che tipo di espediente? Per ottenere cosa? Tu eri all'oscuro di tutto, questo era chiaro. Gli scopi di Valentine... — Tu avresti dovuto dirmi che cos'ero — disse Jace d'un fiato, come se un pugno gli avesse tirato fuori le parole. — Avrei potuto fare qualcosa. Magari uccidermi. Hodge sollevò la testa e guardò Jace dietro la cortina dei capelli sporchi e incollati. — Non ne ero sicuro — ripetè, quasi parlando a se stesso. — E ai tempi in cui mi interrogavo, pensavo che forse l'educazione che avresti ricevuto potesse contare più del sangue, pensavo che ti si potesse insegnare a... — A fare cosa? A non essere un mostro? — La voce di Jace tremava, ma il coltello nella sua mano era ben saldo. — Tu dovresti saperlo. Lui ha fatto di te un codardo, un verme, non è vero? E tu non eri un bambino inerme, quando l'ha fatto. Avresti potuto combattere, ribellarti. Hodge abbassò gli occhi. — Ho cercato di fare del mio meglio, con te. — disse. Ma anche alle orecchie di Clary quelle parole suonarono deboli. — Finché Valentine non è tornato — concluse Jace. — E allora hai fatto tutto quello che ti ha chiesto: mi hai consegnato a lui, come se io fossi un cane di sua proprietà che ti aveva affidato per qualche anno. — E poi te ne sei andato — intervenne Alec. — Ci hai abbandonato tutti. Ma davvero credevi di poterti nascondere qui, ad Alicante? — Non sono venuto qui per nascondermi — disse Hodge. La sua voce era priva di vita. — Sono venuto qui per fermare Valentine. — Non ti aspetterai che ti crediamo! — La voce di Alee adesso era rabbiosa. — Tu sei sempre stato dalla parte di Valentine. Avresti potuto scegliere di voltargli le spalle. — Non avrei mai potuto farlo! — sbottò Hodge, alzando la voce. — Ai tuoi genitori fu data la possibilità di ricostruirsi una nuova vita. A me no! Sono rimasto intrappolato nell'Istituto per quindici anni... — L'Istituto era casa nostra! — replicò Alec. — Era davvero così terribile vivere con noi, far parte della nostra famiglia? — Non era per voi. — La voce di Hodge era stremata. — Io volevo bene a voi bambini. Ma eravate dei bambini. E non esiste posto da cui sia vietato uscire che possa essere considerato una casa. Mi capitava di passare intere settimane senza parlare con un adulto. Nessuno Shadowhunter si fidava di me. Nemmeno i vostri genitori mi accettavano fino in fondo: mi tolleravano perché non avevano altra scelta. Non ho mai potuto sposarmi. Non ho mai potuto avere figli. Una vita mia. E sapevo che, alla fine, voi bambini sareste cresciuti e ve ne sareste andati, e a quel punto non avrei più avuto nemmeno voi. Vivevo nel terrore, che quello possa essere considerato vivere. — Non puoi pretendere che siamo dispiaciuti per te — osservò Jace. — Non dopo quello che hai fatto. E di che diavolo avevi paura, se passavi tutta la vita in biblioteca? Degli acari della polvere? Eravamo noi, quelli che uscivano a combattere contro i demoni! — Aveva paura di Valentine — disse Simon. — Non capisci? Jace gli lanciò un'occhiata velenosa. — Zitto tu, vampiro. Questa faccenda non ti riguarda. — Non proprio di Valentine — precisò Hodge, guardando Simon forse per la prima volta da quando era stato trascinato fuori dalla cella. C'era qualcosa, in quello sguardo, che sorprese Clary: quasi una sfumatura di affetto, perso in una profonda stanchezza. — Piuttosto, della mia debolezza verso Valentine. Sapevo che un giorno sarebbe tornato. Sapevo che avrebbe tentato di nuovo di arrivare al potere, di controllare il Conclave. E sapevo che cosa poteva offrirmi. La libertà dalla mia maledizione. Una vita. Un posto nel mondo. Avrei potuto essere di nuovo un Cacciatore, nel suo mondo. Non avrei mai più potuto esserlo, in questo. — C'era un nudo desiderio, nella sua voce, che era doloroso da sentire. — E sapevo che sarei stato troppo debole per rifiutare, se me l'avesse offerto. — E guarda che vita hai fatto — sibilò Jace. — Marcire nelle celle della Guardia. Ne è valsa la pena, di tradirci? — Sai già la risposta. — Hodge sembrava esausto. — Valentine mi ha liberato dalla maledizione. Aveva giurato che l'avrebbe fatto e l'ha fatto. Pensavo che mi avrebbe riportato nel Circolo, o in quel che ne restava. Ma non l'ha fatto. Nemmeno lui mi voleva. Ho capito che non ci sarebbe stato un posto per me in questo suo nuovo mondo. E ho capito che avevo venduto tutto ciò che avevo per una bugia. — Si guardò le mani sporche, chiuse a pugno. — Mi restava solo una cosa: un'unica possibilità per non fare della mia vita un assoluto spreco. Quando ho saputo che Valentine aveva ucciso i Fratelli Silenti e che aveva la Spada Mortale, ho capito che si sarebbe messo alla ricerca dello Specchio Mortale. Sapevo che gli servivano tutti e tre gli Strumenti. E sapevo che lo Specchio Mortale è qui a Idris. — Un momento! — Alec lo interruppe con un gesto della mano. — Lo Specchio Mortale? Vuoi dire che tu sai dove si trova? E chi ce l'ha? — Non ce l'ha nessuno — disse Hodge. — Nessuno può possedere lo Specchio Mortale. Nessun Nephilim, nessun Nascosto. — Sei davvero impazzito, in quella cella — commentò Jace, indicando con il mento le finestre bruciate delle prigioni. — È così? — Jace. — Clary guardava ansiosamente verso la Guardia, il tetto coronato da un intrico spinoso di fiamme rosse e oro. — L'incendio si sta estendendo. Dobbiamo andarcene di qui. Possiamo continuare a parlare in città. — Sono rimasto rinchiuso nell'Istituto per quindici anni — proseguì Hodge, come se Clary non avesse aperto bocca. — Non ho mai potuto mettere piede fuori di là. Ho passato la vita in biblioteca, cercando un modo per cancellare la maledizione che il Conclave aveva scagliato su di me. Ho scoperto che solo uno Strumento Mortale avrebbe potuto annullarla. Ho letto libri su libri che raccontavano la mitologia dell'Angelo: come fosse emerso dalle acque del lago portando con sé gli Strumenti Mortali, come li avesse consegnati a Jonathan Shadowhunter, il primo Nephilim, e come gli Strumenti Mortali fossero tre: la Coppa, la Spada, lo Specchio. — La sappiamo già, questa storia — l'interruppe Jace esasperato. — Ce l'hai insegnata tu. — Tu credi di sapere tutto, ma non è così. Studiando e ristudiando le diverse versioni degli antichi miti, continuavo a incontrare la stessa illustrazione, la stessa immagine, quella che conosciamo tutti: l'Angelo che sorge dalle acque del lago con la Spada in una mano e la Coppa nell'altra. E non riuscivo a capire perché lo Specchio non venisse mai raffigurato. Poi, finalmente, ho capito. Lo Specchio è il lago. Il lago è lo Specchio. Sono la stessa cosa. Lentamente Jace abbassò il coltello. — Il lago Lyn? Clary ripensò al lago come uno specchio che le veniva incontro, all'acqua che si frantumava all'impatto. — Io sono caduta nel lago, quando sono arrivata qui. In effetti c'è qualcosa di strano. Luke dice che ha strani poteri e che il Popolo Fatato lo chiama lo Specchio dei Sogni. — Appunto — confermò Hodge animandosi. — E ho capito che il Conclave non ne era a conoscenza, che questa informazione si era persa nel tempo. Nemmeno Valentine lo sapeva. Venne interrotto da un boato fragoroso: una delle torri della Guardia stava crollando. Un fuoco d'artificio di scintille rosse e luccicanti esplose nel cielo. — Jace — disse Alec, sollevando la testa, allarmato. — Jace, dobbiamo andarcene di qui. — Poi si rivolse a Hodge e lo tirò su per un braccio. — Alzati. Puoi dire al Conclave quello che hai detto a noi. Hodge si rialzò in piedi tremando. Chissà come doveva essere, pensò Clary con una fitta di involontaria pietà, vivere tutta la vita nella vergogna, non solo per quello che hai fatto, ma anche per quello che stai facendo e per quello che sai che saresti pronto a rifare. Hodge aveva rinunciato molto tempo prima a cercare di vivere una vita migliore o una vita diversa: desiderava solo poter smettere di avere paura e, per questo, era sempre vissuto nella paura. — Vieni. — Alec, stringendo il braccio di Hodge, lo sospinse avanti. Ma Jace si parò davanti a loro, bloccandoli. — Se Valentine arriva allo Specchio Mortale — disse — che cosa succederà? — Jace — intervenne Alec, senza lasciare Hodge. — Non ora. — Se Hodge lo dirà al Conclave, noi non lo sapremo — disse Jace. — Ci considerano ancora bambini. Ma Hodge deve farcelo sapere. — Si rivolse al suo vecchio tutore. — Hai detto che hai capito di dover fermare Valentine. Per impedirgli di fare cosa? Che potere gli può dare lo Specchio? Hodge scosse la testa. — Non posso... — Niente bugie. — Il coltello brillava nella mano di Jace, stretta sull'impugnatura. — Perché per ogni bugia che dirai, potrei tagliarti un dito. O forse due. Hodge si ritrasse, gli occhi colmi di vera paura. Alec sembrava impressionato. — Jace. No. È quello che farebbe tuo padre. Non è da te. — Alec — replicò Jace. Non lo guardava, ma il suo tono era come il tocco di una mano gelida. — Tu non puoi saperlo, come sono e cosa è da me. Gli occhi di Alec incrociarono quelli di Clary. Alec non capisce perché Jace si comporta così, pensò la ragazza. Lui non sa. E fece un passo avanti. — Jace, Alee ha ragione: portiamo Hodge alla Sala degli Accordi, dove potrà dichiarare davanti al Conclave ciò che ha appena detto a noi. — Se avesse voluto dirlo al Conclave l'avrebbe già fatto — replicò Jace seccamente, senza guardarla. — Se non l'ha ancora fatto, significa che è un bugiardo. — Non ci si può fidare del Conclave! — protestò Hodge disperatamente. — Ci sono spie, uomini di Valentine, nel Conclave. Non potevo rivelare a lorodov'era lo Specchio. Se Valentine trovasse lo Specchio, sarebbe... Hodge non finì mai la frase. Un punto argenteo scintillò nella luce della luna, un piccolo bagliore nel buio. Alec gridò. Hodge sgranò gli occhi e barcollò, portandosi le mani al petto. Quando cadde riverso, Clary vide perché: dal torace spuntava l'impugnatura di un pugnale, come una freccia vibrante al centro del bersaglio. Alec fece un balzo avanti, sorresse il vecchio mentre cadeva e lo adagiò delicatamente sul prato. Alec alzò gli occhi, con un senso di impotenza, il volto schizzato del sangue di Hodge. — Jace, perché... — Non sono stato io... — Jace era sbiancato, e Clary vide che aveva ancora in mano il suo pugnale e lo stringeva con forza. — Io... Simon si girò di scatto e Clary con lui, scrutando nel buio. L'incendio illuminava l'erba di un infernale riflesso rossastro, ma c'era buio pesto tra gli alberi sulla collina. Poi qualcosa emerse dalle tenebre, una figura avvolta nell'ombra, con una capigliatura scura e disordinata che tutti riconobbero. Si avvicinò al gruppo, mentre la luce dell'incendio gli illuminava il viso e si rifletteva negli occhi scuri e ardenti. — Sebastian? — esclamò Clary. Jace spostò lo sguardo allucinato da Hodge a Sebastian, che si era fermato ai margini del prato, incerto. Jace era stupefatto. — Tu? — disse. — Sei stato tu? — Ho dovuto farlo — rispose Sebastian. — Vi avrebbe uccisi. — E con cosa? — La voce di Jace si spezzò. Ora gridava. — Non aveva nessuna arma... — Jace — intervenne Alee, interrompendolo. — Vieni qui. Aiutami con Hodge. — Vi avrebbe uccisi — ripetè Sebastian. — Lui... lui vi avrebbe... Ma Jace si era inginocchiato accanto ad Alec, rinfoderando il coltello. Alec teneva Hodge tra le braccia e aveva la camicia insanguinata. — Prendimi lo stilo dalla tasca — disse a Jace. — Proviamo con un iratze... Clary, immobilizzata dall'orrore, sentì Simon muoversi. Si girò verso di lui e rimase sconvolta: era bianco come uno straccio. Solo sugli zigomi aveva un rossore febbrile. Gli vide le vene sotto la pelle, come rami delicati di corallo. — Il sangue — sussurrò Simon, senza guardarla. — Devo allontanarmi dal sangue. Clary tentò di prenderlo per una manica, ma Simon si allontanò di scatto, strappando il braccio dalla presa. — No, Clary, per favore. Lasciami andare. Me la caverò. E tornerò. Devo solo... — Clary fece per riprenderlo, ma Simon fu troppo veloce e svanì nel buio tra gli alberi. — Hodge... — La voce di Alec era piena di panico. — Hodge, sta' fermo... Ma Hodge lottava debolmente, cercando di allontanarsi da Alee e dallo stilo nella mano di Jace. — No. — Il suo volto aveva il colore del gesso, ormai. I suoi occhi si spostarono rapidi da Jace a Sebastian, che era ancora fermo nell'ombra. — Jonathan... — Jace — disse il ragazzo con un sussurro. — Chiamami Jace. Lo sguardo di Hodge si posò su di lui. Clary non riuscì a decifrarne l'espressione. Era implorante, sì, ma c'era di più, era colma di paura, o di qualcosa di simile, e di urgenza. Sollevò una mano, per dire qualcosa a Jace. — Non tu — sussurrò. Dalla bocca, con le parole, uscì sangue. Un'espressione ferita attraversò il volto di Jace. — Alec, fallo tu l'iratze. Credo che non voglia che io lo tocchi. La mano di Hodge si tese come un artiglio, si strinse sulla manica di Jace. Il suo respiro era ormai un rantolo. — Tu non sei... mai... E morì. Clary vide il momento esatto in cui la vita lo abbandonò. Non fu una cosa istantanea e muta, come nei film: la sua voce soffocò in un gorgoglio, i suoi occhi si rovesciarono indietro e il suo corpo si fece molle e pesante, con un braccio piegato in modo innaturale. Alec gli chiuse gli occhi con la punta delle dita. — Vale, Hodge Starkweather. — Non se lo merita. — La voce di Sebastian era tagliente. — Non era uno Shadowhunter. Era un traditore. Non si merita le parole di addio. La testa di Alec si alzò di scatto. Depose Hodge sul prato e si alzò in piedi, gli occhi azzurri freddi come il ghiaccio. Il sangue gli macchiava i vestiti. — Tu non sai niente di lui. Tu hai ucciso un uomo disarmato, un Nephilim. Tu sei un assassino. Le labbra di Sebastian si arricciarono. — Credi che non sappia chi era? — Indicò Hodge. — Starkweather era nel Circolo. Ha tradito il Conclave e per questo è stato maledetto. Doveva morire per quello che ha fatto, ma il Conclave è stato clemente. E a cosa è servito? Ci ha traditi di nuovo, vendendo la Coppa Mortale a Valentine per essere liberato dalla sua maledizione. Una maledizione che meritava. — Si fermò, col fiato grosso. — Io non avrei dovuto farlo, ma voi non potete dire che non se lo meritava. — Come fai a sapere tante cose di Hodge? — gli chiese Clary. — E che cosa ci fai qui? Avevi detto che saresti rimasto nella Sala degli Accordi. Sebastian esitò. — Ci stavate mettendo troppo tempo — disse alla fine. — Ero preoccupato. Ho pensato che forse avevate bisogno del mio aiuto. — E così hai deciso di aiutarci uccidendo la persona con cui stavamo parlando? — sbottò Clary. — Solo perché pensavi che avesse un passato poco limpido... Chi... Chi farebbe mai una cosa del genere? Non ha nessun senso. — Non ha senso perché sta mentendo — intervenne Jace. Scrutava Sebastian con uno sguardo freddo e critico. — E anche piuttosto male. Credevo che sapessi cavartela meglio, Verlac. Sebastian sostenne il suo sguardo. — Non capisco che cosa vuoi dire, Morgenstern. — Vuole dire — intervenne Alec, facendo un passo avanti — che se davvero ritieni che quello che hai fatto sia giustificato, non avrai problemi a venire con noi alla Sala degli Accordi per spiegare le tue ragioni davanti al Consiglio. Giusto? Ci fu un attimo di esitazione, poi Sebastian fece un sorriso. Quello stesso sorriso che aveva tanto affascinato Clary: ma ora c'era qualcosa di vagamente stonato, come un quadro appeso un po' storto. — Certo. — Sebastian si avvicinò lentamente, quasi passeggiando, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. Come se non avesse appena commesso un omicidio. — Certo — ripetè. — È strano che vi turbi tanto il fatto che io ho ucciso un uomo, quando Jace aveva intenzione di tagliargli le dita a una a una. Alee strinse le labbra. — Non l'avrebbe mai fatto. — Tu... — Jace guardò Sebastian con disgusto. — Tu non hai idea di quello che stai dicendo. — O forse — aggiunse Sebastian — forse in realtà sei solo arrabbiato perché ho baciato tua sorella. Perché lei mi desiderava. — Non è vero! — esclamò Clary, ma nessuno dei due la stava guardando. — Non è vero che ti desideravo. — Ha questo vezzo, lo sai, no? Questo suo modo di trasalire quando la baci, come se fosse sorpresa. — Sebastian era fermo davanti a Jace e sorrideva come un angelo. — È una cosa molto tenera, l'avrai notato anche tu. Jace sembrava sul punto di vomitare. — Mia sorella... — Tua sorella — ripetè Sebastian. — È tua sorella? Ah, sì, perché voi due non vi comportate affatto da fratelli. Credete che gli altri non si accorgano di come vi guardate? Credete di riuscire a nascondere i vostri sentimenti? Credete che gli altri non la giudichino una cosa disgustosa e innaturale? Perché invece è proprio così. — Adesso basta. — Jace aveva uno sguardo assassino. — Perché fai così? — intervenne Clary. — Sebastian, perché dici queste cose? — Perché finalmente posso dirle — rispose Sebastian. — Tu non hai idea di come sia stato, restare con voi in questi giorni, fingere di non trovarvi insopportabili, che la sola vista di voi due non mi desse il voltastomaco. Tu — disse rivolto a Jace — ogni secondo che non passi a sbavare dietro a tua sorella, non fai che lamentarti perché tuo padre non ti voleva bene. Be', come dargli torto? E tu, stupida cagna — disse a Clary — hai regalato un libro dal valore incalcolabile a uno stregone bastardo. Ce l'hai almeno un neurone in quella testa? E tu... — L'ultimo attacco di Sebastian era per Alec. — Credo che tutti sappiamo qual è il tuo problema. Non dovrebbero far entrare nel Conclave quelli come te. Mi fai schifo. Alec impallidì, ma sembrava più allibito che altro. Clary non poteva dargli torto: era difficile guardare Sebastian, il suo sorriso angelico, e immaginare che potesse dire cose del genere. — Fingere di sopportarci? — ripetè Clary. — Perché avresti dovuto? A meno che tu... A meno che tu non ci stessi spiando! — concluse, scoprendo la verità nel momento stesso in cui la pronunciava. — A meno che tu non fossi una spia di Valentine. Il bel viso di Sebastian si distorse, le labbra carnose si strinsero, gli occhi dal taglio allungato ed elegante diventarono due fessure. — Finalmente ci siamo arrivati! — esclamò. — Sul serio, ci sono nell'universo dimensioni demoniache immerse nel buio più assoluto che sono meno ottuse di voi. — Forse non saremo così brillanti — osservò Jace — ma almeno siamo vivi. Sebastian lo guardò con disgusto. — Io sono vivo — precisò. — Non per molto — replicò Jace. La luce della luna luccicò sulla lama del suo coltello e Jace si avventò su Sebastian con una rapidità di movimento impossibile da seguire a occhio nudo, inarrivabile per qualunque essere umano. Fino a quel momento. Sebastian scartò di lato, evitò il colpo e bloccò la mano di Jace. Il coltello cadde a terra. Sebastian prese Jace per la giacca, da dietro, lo sollevò di peso e lo scaraventò contro il muro della Guardia. Jace volò, si schiantò contro il muro con una violenza da spaccare le ossa e crollò a terra. — Jace! — gridò Clary. La vista le si annebbiò. Si scagliò contro Sebastian per strozzarlo con le sue mani. Lui si spostò di lato e fece un gesto noncurante con la mano, come se fosse un insetto da scacciare. La centrò in pieno, sulla tempia, e la fece volare a terra. Clary rotolò sull'erba, con una rossa foschia di dolore negli occhi. Alee aveva impugnato l'arco: era teso, la freccia incoccata. Le sue mani non tremarono quando la puntò su Sebastian. — Fermo dove sei — gli intimò. — E metti le mani dietro la schiena. Sebastian rise. — Tu non mi colpiresti mai — commentò. Si avvicinò ad Alec con passo tranquillo e spensierato, come se stesse salendo le scale di casa. Gli occhi di Alec si socchiusero. Le mani si mossero con grazia. Tese l'arco e scoccò la freccia, che volò verso Sebastian... E mancò il bersaglio. In qualche modo, Sebastian si era chinato o spostato, Clary non avrebbe saputo dire, e la freccia gli era passata sopra, andando a conficcarsi nel tronco di un albero. Alee ebbe solo il tempo di sorprendersi e Sebastian gli fu subito addosso. Gli strappò l'arco e lo spezzò. Il rumore del legno che si spaccava fece rabbrividire Clary, come se fosse rumore di ossa rotte. Clary cercò di mettersi a sedere, ignorando il dolore lancinante alla testa. Jace era a pochi passi da lei, assolutamente immobile. Clary cercò di alzarsi, ma le gambe non sembravano funzionare nel modo giusto. Sebastian gettò a terra le due metà dell'arco e puntò su Alec, che già brandiva una sfavillante spada angelica. La spazzò via come se niente fosse e prese Alec per la gola, quasi sollevandolo da terra. Stringeva senza pietà, con cattiveria, sorridendo alla vista del ragazzo che soffocava e si dibatteva. — Lightwood — sibilò. — Oggi ho già sistemato uno dei tuoi. Non mi aspettavo di essere così fortunato da avere una seconda occasione. Di colpo Sebastian fu trascinato all'indietro, come sollevato da un burattinaio. Liberato dalla sua presa, Alec si accasciò a terra, tenendosi la gola con le mani. Clary sentiva i suoi rantoli disperati, ma i suoi occhi erano fissi su Sebastian. Un'ombra scura gli si era avvinghiata alla schiena e gli stava aggrappata come una sanguisuga. Sebastian si portò le mani alla gola, soffocando e rantolando. Girò su se stesso, cercando di colpire la cosa che gli stringeva il collo. Girandosi, la luce della luna lo illuminò e Clary capì di cosa si trattava. Era Simon: le braccia avvinghiate intorno al collo di Se-bastian, gli incisivi bianchi e lucidi come aculei d'osso. Era la prima volta che Clary lo vedeva nelle sue sembianze di vampiro, dalla notte in cui era uscito dalla tomba ed era rinato. Ora lo fissava stupefatta e inorridita, ma incapace di distogliere lo sguardo. I denti di Simon erano digrignati, i canini completamente estrusi, affilati come pugnali. Li affondò nel braccio di Sebastian, aprendogli un lungo strappo rosso nella pelle. Sebastian gridò e si buttò a terra di schiena. Rotolò, con Simon avvinghiato a lui. I due graffiavano, strappavano e ringhiavano come cani da combattimento. Sanguinando da varie ferite, Sebastian finalmente riuscì a rialzarsi in piedi e assestò due calci potenti in petto a Simon, che si piegò su se stesso, stringendosi lo stomaco. — Piccola zecca immonda — ringhiò Sebastian caricando il piede per un altro calcio. — Se fossi in te, io non lo farei — disse una voce bassa. La testa di Clary si alzò di scatto e un'altra esplosione di dolore le annebbiò la vista. Accanto a Sebastian c'era Jace. Aveva la faccia insanguinata, un occhio gonfio e quasi chiuso, ma brandiva una sfavillante spada angelica e la mano con cui la teneva era fermissima. — Non ho mai ucciso un essere umano con una di queste — disse Jace. — Ma sono pronto a provare. La faccia di Sebastian si contorse. Lanciò un'ultima occhiata a Simon, poi alzò la testa e sputò. Le parole che pronunciò erano in una lingua che Clary non riconobbe. Poi, con la stessa terrificante rapidità con cui si era mosso per attaccare Jace, svanì nel buio. — No! — gridò Clary. Cercò di rialzarsi in piedi, ma il dolore era come una lama che le spaccava il cervello. Si accasciò sull'erba umida, e Jace fu subito da lei, pallido e ansioso. Lei lo guardò, con la vista appannata: doveva per forza avere la vista appannata, pensò, o non avrebbe visto quel biancore intorno a Jace, quasi una sorta di luce... Sentì la voce di Simon, poi quella di Alec. Passarono qualcosa a Jace: era uno stilo. Avvertì un bruciore sul braccio e un attimo dopo il dolore cominciò ad attenuarsi e le si schiarirono i pensieri. Cercò di mettere a fuoco le tre facce chine su di lei. — La testa... — Hai una commozione cerebrale — le disse Jace. — L'iratze dovrebbe servire a qualcosa, ma è meglio se ti portiamo da un medico del Conclave. Le ferite alla testa possono essere insidiose. — Jace restituì lo stilo ad Alec. — Pensi di riuscire a stare in piedi? Clary annuì, ma si sbagliava. Una scossa di dolore le attraversò il corpo e un paio di mani l'aiutarono a rimettersi in piedi: Simon. Clary gli si appoggiò con gratitudine, aspettando di riprendere l'equilibrio. Si sentiva ancora incerta, sempre sul punto di cadere. Jace era accigliato. — Non avresti dovuto attaccare Sebastian in quel modo. Non eri nemmeno armata. Che cosa pensavi? — Quello che stavamo pensando tutti noi. — Alec, inaspettatamente, parlò in difesa di Clary. — Che ti aveva appena lanciato in aria come una palla di gomma, Jace. Non ho mai visto nessuno avere la meglio su di te in quel modo. — È che... mi ha colto di sorpresa — ammise Jace con una certa riluttanza. — Deve aver fatto un addestramento speciale. Non me l'aspettavo. — Sì, be'... — Simon si toccò la gabbia toracica con una smorfia di dolore. — A me deve aver sfondato un paio di costole. Ma non c'è problema — aggiunse subito, rispondendo allo sguardo preoccupato di Clary. — Stanno già guarendo. Però Sebastian è decisamente forte. Fortissimo. — Guardò Jace. — Secondo te, da quanto tempo era nascosto nell'ombra? Jace era cupo. Guardò verso gli alberi, nella direzione in cui Sebastian era fuggito. — Be', il Conclave lo prenderà. E probabilmente lo punirà con una maledizione. Sarebbe bello che fosse la stessa maledizione che è toccata a Hodge. Sarebbe una forma di giustizia poetica. Simon si voltò e sputò nei cespugli. Si pulì la bocca con il dorso della mano, con una smorfia di disgusto. — Il suo sangue fa schifo: sembra veleno. — Immagino che possiamo aggiungere anche questo, alla lista delle sue attrattive — commentò Jace. — Chissà cos'altro aveva in mente di fare stanotte. — Dobbiamo tornare alla Sala degli Accordi. — Il volto di Alee era teso. Clary ricordò che Sebastian gli aveva detto qualcosa a proposito degli altri Lightwood. — Clary, riesci a camminare? Clary si staccò da Simon. — Sì, ce la faccio. E Hodge? Non possiamo abbandonarlo qui. — Dobbiamo farlo — disse Alec. — Ci sarà tempo per tornare a riprenderlo, se sopravviviamo a questa notte. S'incamminarono verso la città. Jace si trattenne un attimo, si tolse la giacca e la distese sul volto immobile di Hodge, rivolto verso l'alto. Clary avrebbe voluto andare da lui, magari mettergli una mano sulla spalla, ma qualcosa nei suoi modi le disse che era meglio lasciar perdere. Nemmeno Alee gli si avvicinò, né gli propose una runa di guarigione, benché Jace zoppicasse, mentre scendevano dalla collina per un sentiero tortuoso con le armi sguainate, pronti alla battaglia. Il cielo era illuminato di rosso dalla Guardia, che alle loro spalle continuava a bruciare. Ma non videro demoni. La testa di Clary, in quella calma assoluta, in quella luce inquietante, pulsava forte: le pareva di essere dentro un sogno. Un'estrema stanchezza la stringeva come una morsa. Portare un piede davanti all'altro era come sollevare un blocco di cemento e sbatterlo giù e poi ricominciare. Sentiva Jace e Alec che parlavano, più avanti sul sentiero, e le loro voci risuonavano deboli e indistinte, sebbene fossero vicini. Alec parlava con dolcezza, con un tono quasi implorante: — Jace, quello che hai detto prima, a Hodge... non puoi pensarlo davvero. Essere il figlio di Valentine non fa di te un mostro. Qualsiasi cosa Valentine ti abbia fatto quando eri piccolo, qualsiasi cosa ti abbia insegnato, devi capire che non è stata colpa tua. — Non voglio parlarne, Alee, né ora né mai. Non chiedermelo più. — Il tono di Jace era selvaggio e Alec ammutolì. Clary poteva percepire il suo dolore, quasi fisicamente. Che notte, pensò. Una notte così piena di sofferenza per tutti! Cercò di non pensare a Hodge, all'espressione pietosa e implorante che aveva poco prima di morire. Non le era mai piaciuto, ma non meritava quello che Sebastian gli aveva fatto. Nessuno se lo sarebbe meritato. Pensò a Sebastian, al modo in cui si era mosso, veloce come un lampo. Non aveva mai visto nessuno, tranne Jace, muoversi così rapidamente. Voleva capire: che cos'era successo a Sebastian? Com'era riuscito, un cugino dei Penhallow, a prendere una strada così sbagliata? E come mai nessuno se n'era mai accorto? Aveva pensato che Sebastian volesse aiutarla a salvare sua madre, invece voleva solo mettere le mani sul Libro Bianco per consegnarlo a Valentine. Magnus si era sbagliato: non era stato per colpa dei Lightwood, se Valentine aveva saputo di Ragnor Fell, ma perché lei ne aveva parlato con Sebastian. Come aveva potuto essere così stupida? Inorridita da quei pensieri, notò appena che il sentiero sfociava in un viale e che il viale conduceva nel cuore della città. Le strade erano deserte, le case immerse nel buio, molti dei lampioni di stregaluce erano infranti, i vetri sparsi sull'acciottolato. Voci riecheggiavano in lontananza e bagliori di torce apparivano qua e là fra le ombre delle case, ma... — C'è un silenzio terribile — osservò Alec, guardandosi intorno sorpreso. — E... — Non c'è più la puzza dei demoni. — Jace aggrottò la fronte. — Strano. Forza. Andiamo alla Sala degli Accordi. Clary si aspettava un altro attacco, ma non videro un solo demone per le strade. Nessun demone vivo, per lo meno. In un vicolo stretto, videro però un gruppo di tre o quattro Cacciatori che facevano cerchio intorno a qualcosa che pulsava e guizzava. A turno, infilzavano la cosa con lunghi pali appuntiti. Con un brivido, Clary distolse lo sguardo. La Sala degli Accordi era illuminata come un falò: la stregaluce si riversava all'esterno dalle porte e dalle finestre. Salirono in fretta la scalinata. Ogni tanto Clary inciampava e doveva fermarsi per riprendere l'equilibrio. Il senso di stordimento era sempre più forte. Tutto il mondo sembrava ondeggiare intorno a lei, come se fosse sopra un enorme mappamondo rotante. Sopra di lei, le stelle erano macchioline bianche nel cielo. — Dovresti sdraiarti — le disse Simon. Poi, quando Clary non rispose, la chiamò: — Clary? Con uno sforzo enorme, Clary si costrinse a sorridergli. — Va tutto bene. Jace, fermo davanti all'ingresso, si girò a guardarla, in silenzio. Nel bagliore vivido della stregaluce, il sangue sul suo viso e l'occhio gonfio erano orribili segni neri. Un rumore sordo proveniva dalla Sala degli Accordi, il basso mormorio di centinaia di voci. A Clary sembrava il battito di un enorme cuore. La luce delle torce nelle staffe, unita al bagliore delle pietre di stregaluce portate ovunque, le bruciavano gli occhi e le confondevano la vista: vedeva solo ombre vaghe, adesso, ombre e macchie di colore. Bianco, oro, poi il cielo notturno sopra di loro, che diventava di un blu più chiaro. Ma che ora era? — Non li vedo. — Alec scrutava la sala cercando i suoi famigliari. Parlò come se fosse stato lontano mille miglia, o sott'acqua. — Dovrebbero essere qui, ormai. La sua voce si perse. Lo stordimento di Clary peggiorava. Si appoggiò con la mano a una colonna per non cadere. Una mano le sfiorò la schiena: Simon. Stava dicendo qualcosa a Jace e sembrava in ansia. La sua voce si smarrì in un intrico di decine di altre voci, che crescevano e calavano intorno a Clary come le onde che s'infrangono sulla riva. — Mai visto niente di simile. A un certo punto, i demoni se ne sono andati: hanno girato i tacchi e sono svaniti. — L'alba, probabilmente. Hanno paura dell'alba, e ormai non è lontana. — No, c'era dell'altro. — È solo che non vuoi credere che torneranno anche domani notte, o dopodomani. — Non dirlo: non c'è ragione. Le difese verranno riattivate. — E Valentine le abbatterà di nuovo. — Forse è quello che ci meritiamo. Forse Valentine aveva ragione. Forse, alleandoci con i Nascosti abbiamo perso la protezione dell'Angelo. — Taci, e porta un po' di rispetto: stanno contando i morti proprio nella piazza dell'Angelo. — Eccoli là! — esclamò Alec. — In fondo, vicino al podio. Sembra che... — Gli si spense la voce in gola e un attimo dopo era già sparito, facendosi largo tra la folla. Clary socchiuse gli occhi per mettere a fuoco, ma vedeva solo macchie indistinte. Sentì Jace trasalire e poi, senza una parola, anche lui si mise a spintonare tra la folla, seguendo Alee. Clary si staccò dalla colonna per seguirli, ma inciampò. Simon la afferrò al volo. — Devi sdraiarti, Clary — le disse. — No — sussurrò lei. — Voglio vedere cos'è successo. S'interruppe. Simon guardava in fondo alla sala, oltre Clary, oltre Jace, e sembrava profondamente turbato. Puntellandosi alla colonna, Clary si sollevò in punta di piedi, sforzandosi di vedere qualcosa al di là della folla. Eccoli, i Lightwood: Maryse, con le braccia intorno a Isabelle che singhiozzava, e Robert Lightwood, seduto per terra, con qualcosa... no, qualcuno, tra le braccia. Clary pensò alla prima volta che aveva visto Max, all'Istituto, addormentato su un divano, gli occhiali di traverso e una mano penzoloni. "Riesce a dormire dappertutto", aveva commentato Jace. Anche adesso sembrava quasi che dormisse in braccio a suo padre, ma Clary seppe che non stava dormendo. Alee era in ginocchio e teneva una mano di Max. Jace invece era rimasto dov'era, immobile. Aveva un'aria terribilmente smarrita, come se non avesse idea di dove fosse, né di cosa ci facesse lì. Tutto quello che Clary avrebbe voluto fare era correre da lui e abbracciarlo, ma l'espressione di Simon le disse di no, come pure le dissero di no il ricordo della tenuta di campagna e delle braccia di Jace intorno a lei. Clary era l'ultima persona sulla faccia della terra che in quel momento avrebbe potuto dargli un po' di consolazione. — Clary — disse Simon, ma lei lo spinse via, nonostante lo stordimento e il dolore alla testa. Corse verso le porte della sala e le spalancò, si precipitò fuori sulla scalinata e si fermò lì, respirando ampie boccate d'aria fredda. In lontananza, l'orizzonte era striato di rosso e le stelle si stavano spegnendo nel cielo che si schiariva. La notte era passata. Era giunta l'alba. capitolo 13 DOVE C'È DOLORE Con le gambe avvoltolate fra le lenzuola, Clary si svegliò di soprassalto da un incubo pieno di angeli sanguinanti. C'era un buio pesto e claustrofobico, nella camera degli ospiti di Amatis. Era come essere chiusi in una bara. Allungò un braccio e tirò le tende. La luce del giorno si riversò nella stanza. Aggrottò la fronte e le richiuse subito. Gli Shadowhunters bruciavano i loro morti. Dalla notte dell'attacco dei demoni, il cielo a ovest della città era costantemente macchiato da enormi volute di fumo. Vederlo dalla finestra diede a Clary un senso di nausea, così preferì tenere tirate le tende. Nel buio della stanza chiuse gli occhi, cercando di ricostruire il sogno. C'erano degli angeli, e l'immagine della runa che Ithuriel le aveva mostrato continuava a brillare dietro le sue palpebre come un semaforo lampeggiante. Era una runa semplice come un nodo, ma, per quando si concentrasse, Clary non riusciva a leggerla, né a capirne il significato. Sapeva solo che in qualche modo era incompleta, come se chi l'aveva creata non l'avesse finita. Questi non sono i primi sogni che ti mando, le aveva detto Ithuriel. Clary pensò agli altri sogni: Simon con le mani marchiate a fuoco col simbolo della croce; Jace con le ali; laghi di ghiaccio che s'infrangevano, brillanti come specchi. Era stato l'angelo a mandarle anche quelli? Con un sospiro, si mise a sedere. I suoi sogni erano brutti, ma le immagini che le passavano per la mente ora che era sveglia non erano molto meglio. Isabelle, che piangeva sommessamente, seduta per terra nella Sala degli Accordi, che si tirava i capelli corvini intrecciati tra le dita con tanta forza da far temere a Clary che se li strappasse via. Maryse che se la prendeva con Jia Penhallow gridandole che era stato il ragazzo che avevano accolto nella loro casa, il loro cugino, a fare tutto questo, e se il ragazzo era un alleato così stretto di Valentine, cosa avevano da dire, di sé, i Penhallow? Alec che cercava di calmare sua madre e chiedeva a Jace di aiutarlo,- e lui che invece restava immobile, mentre il sole sorgeva su Alicante e faceva entrare la sua luce dal soffitto dalla Sala. — È l'alba — aveva detto Luke, stanco come Clary non l'aveva mai visto. — È ora di portare dentro i morti. — E aveva mandato in giro delle pattuglie a raccogliere i cadaveri dei Cacciatori e dei licantropi che giacevano per le strade, dando ordine di portarli nella piazza davanti alla Sala degli Accordi; la stessa che Clary aveva attraversato insieme a Sebastian, notando che l'edificio somigliava a una chiesa. Le era sembrato un bel posto, allora, con le fioriere e i negozi dai colori vivaci. Ora, invece, era piena di cadaveri. Compreso quello di Max. Pensare al bambino che con tanta serietà aveva parlato con lei dei manga le fece stringere il cuore. Gli aveva promesso che l'avrebbe portato al Pianeta Proibito, la sua fumetteria preferita, ma ora non avrebbe più potuto farlo. Gli avrei comprato dei fumetti, pensò. Tutti i fumetti che voleva. Non che facesse differenza. Non pensarci. Clary scalciò via le lenzuola e si alzò. Dopo una rapida doccia s'infilò i jeans e la maglia che aveva su il giorno in cui era arrivata da New York. Vi premette il viso, prima di infilarsela, nella speranza di cogliere un sentore di Brooklyn o l'odore di bucato; qualcosa che le ricordasse casa sua. Ma era stata lavata e ora sapeva di sapone al limone. Con un altro sospiro, Clary scese le scale. La casa era vuota, fatta eccezione per Simon, seduto sul divano nel salotto. Le finestre aperte alle sue spalle lasciavano entrare molta luce. Simon era diventato come un gatto, pensò Clary: sempre alla ricerca di una macchia di sole dove acciambellarsi. Ma per quanto sole prendesse, la sua pelle restava sempre bianca come l'avorio. Clary prese una mela dal cestino sul tavolo e sprofondò sul divano accanto a lui, raccogliendo le gambe sotto di sé. — Hai dormito? — Un po'. — La guardò. — Dovrei essere io a chiederlo a te. Sei tu quella con le occhiaie. Altri incubi? Clary scrollò le spalle. — Il solito. Morte, distruzione, angeli cattivi. — Come nella vita reale, allora. — Già, ma almeno quando mi sveglio è tutto finito. — Diede un morso alla mela. — Fammi indovinare. Luke e Amatis sono alla Sala degli Accordi per un'altra assemblea. — Esatto. Credo sia l'assemblea in cui si riuniscono per decidere quali altre assemblee organizzare. — Simon giocherellava pigramente con la frangia del cuscino. — Notizie da Magnus? — No. — Clary stava cercando di non pensare che erano passati già tre giorni dall'ultima volta che aveva visto Magnus. E da allora non si era più fatto vivo. Né al fatto che niente poteva impedire allo stregone di prendere il Libro Bianco e sparire nel nulla senza farsi più vedere. Si chiese come aveva potuto pensare di fidarsi di uno che usava tutto quell'eyeliner. Sfiorò il polso di Simon. — E tu, che intenzioni hai? Vuoi restare ancora qui? — Clary avrebbe preferito che Simon tornasse a casa, dopo la battaglia: a casa, al sicuro. Lui, invece, si era stranamente opposto. Quale che fosse la ragione, voleva restare. Clary sperava che non fosse perché si sentiva in dovere di prendersi cura di lei. Avrebbe voluto dirglielo chiaro e tondo, che non aveva bisogno della sua protezione, ma non l'aveva fatto, perché una parte di lei non sopportava l'idea di vederlo andare via. Così Simon era rimasto e Clary ne era segretamente, colpevolmente contenta. — Ti fanno avere... ehm... quello che ti serve? — Vuoi dire il sangue? Sì. Maia me ne porta tutti i giorni, in bottiglia. Ma non chiedermi dove se lo procura. — La prima mattina che Simon si era svegliato a casa di Amatis, un sorridente licantropo si era presentato alla porta di casa con un gatto vivo per lui. — Sangue! — aveva annunciato. — Per te. Freschissimo! — Simon l'aveva ringraziato, aveva aspettato che si allontanasse, poi aveva liberato il gatto. — Be', da una parte o dall'altra dovrai pur procurarti del sangue — aveva detto Luke con aria divertita. — A casa ho un gatto — aveva risposto Simon. — Non se ne parla nemmeno. — Lo dirò a Maia — aveva promesso Luke. E da quella volta, il sangue arrivava con discrezione dentro bottiglie da latte. Clary non aveva idea di come Maia avesse organizzato la cosa e, come Simon, preferiva non saperlo. Non vedeva Maia dalla notte della battaglia. I licantropi si erano accampati da qualche parte nella vicina foresta e solo Luke era rimasto in città. — Che c'è? — Simon appoggiò indietro la testa, guardando Clary dalle ciglia socchiuse. — Hai la faccia di una che vuole chiedere qualcosa. C'erano parecchie cose che Clary avrebbe voluto chiedergli, ma decise di optare per una delle più semplici. — Hodge — disse, esitando. — Quando eri nella cella... davvero non l'avevi riconosciuto? — Non lo vedevo. Potevo solo sentire la sua voce, e c'era un muro in mezzo. Abbiamo parlato... tanto. — E ti piaceva? Cioè, ti era simpatico? — Simpatico? Non saprei. Tormentato, triste, intelligente, per brevi momenti anche compassionevole. Sì, mi piaceva. Secondo me, gli ricordavo se stesso da giovane, in un certo senso... — Non dirlo nemmeno! — Clary si raddrizzò sulla schiena e per poco non le cadde la mela. — Tu non assomigli nemmeno lontanamente a Hodge. — Non ritieni che io sia tormentato e intelligente? — Hodge stava con i cattivi. Tu no. — Clary parlava con decisione. — E non c'è altro da dire. Simon sospirò. — La gente non nasce buona o cattiva. Forse nasce con delle inclinazioni verso l'una o l'altra parte, ma è il modo in cui ciascuno vive la propria vita che conta. E le persone che si incontrano. Valentine era amico di Hodge, e non credo che Hodge abbia incontrato nella vita persone che l'abbiano spronato a diventare una persona migliore. Se io avessi avuto una vita come la sua, non so come sarei diventato. Ma per me è stato diverso. Io ho la mia famiglia. E ho te. Clary gli sorrise, ma le parole di Simon ebbero un'eco dolorosa dentro di lei. La gente non nasce buona o cattiva. Anche lei aveva sempre pensato che fosse così, ma, nelle immagini che l'angelo le aveva mostrato, aveva visto sua madre definire il proprio figlio un bambino malvagio, un mostro. Avrebbe voluto dirlo a Simon, raccontargli quello che l'angelo le aveva mostrato, ma non poteva, senza rivelargli anche cosa avevano scoperto di Jace. Ma quello era il segreto di Jace e doveva essere lui a rivelarlo. Simon le aveva chiesto cosa intendesse dire Jace, quando aveva parlato con Hodge, perché si era definito un mostro, ma lei aveva risposto che era difficile capire Jace anche nei momenti migliori. Non era sicura che Simon le avesse creduto, ma non ne aveva più riparlato. In quel momento qualcuno aveva bussato alla porta, evitandole così di dover dare una una risposta. Aggrottando la fronte, Clary posò il torsolo della mela sul tavolo. — Vado io. La porta aperta lasciò entrare una folata d'aria fresca e frizzante. Sulla soglia c'era Aline Penhallow, con una giacca di seta rosa scuro che ben si abbinava al colore degli occhi arrossati. — Devo parlarti — annunciò senza tanti preamboli. Sorpresa, Clary riuscì solo ad annuire e tenne la porta aperta. — Okay. Entra pure. — Grazie. — Aline le passò accanto bruscamente ed entrò in salotto. Si bloccò, non appena vide Simon seduto sul divano, e schiuse le labbra, attonita. — Ma lui non è...? — Il vampiro? — Simon fece un gran sorriso. La forma lievemente affilata ma decisamente non umana degli incisivi si intravedeva contro il labbro inferiore, quando sorrideva così. Clary avrebbe preferito che non lo facesse. Aline si girò verso Clary. — Posso parlarti da sola? — No — disse Clary, sedendosi sul divano accanto a Simon. — Qualunque cosa tu abbia da dire, puoi dirla a tutti e due. Aline si mordicchiò il labbro. — E va bene. Senti, c'è una cosa che voglio dire ad Alec, Jace e Isabelle, ma non ho idea di dove trovarli. Clary sospirò. — Si sono dati da fare e si sono sistemati in una casa vuota. La famiglia che ci abitava si è trasferita in campagna. Aline annuì. Molte persone avevano abbandonato Alicante dopo l'attacco. Molti, più di quanti Clary avrebbe immaginato, erano rimasti, ma parecchi avevano fatto le valigie ed erano partiti, abbandonando la loro casa. — Stanno bene, se è questo che vuoi sapere. Senti, non li ho più visti nemmeno io, dopo la battaglia. Potrei fargli avere un messaggio tramite Luke, se vuoi. — Non saprei. — Aline si mordicchiava il labbro. — I miei genitori hanno dovuto dire alla zia di Sebastian, a Parigi, che cosa ha fatto suo nipote. Era sconvolta. — Come è normale che sia, scoprendo che il proprio nipote è un criminale malvagio — commentò Simon. Aline gli scoccò un'occhiataccia. — La zia continuava a ripetere che non era affatto da lui, che doveva per forza esserci un errore. E così mi ha mandato delle foto. — Aline tirò fuori dalla tasca diverse fotografie un po' spiegazzate e le passò a Clary. — Guarda. Clary guardò. Gli scatti mostravano un ragazzo allegro dai capelli scuri, a modo suo bello, anche se di una bellezza non convenzionale, con un sorriso un po' sghembo e il naso un po' troppo grande. Era il tipo di ragazzo con cui doveva essere divertente passare del tempo. Ma non somigliava affatto a Sebastian. — Questo è tuo cugino? — Questo è Sebastian Verlac. Il che significa... — Che il ragazzo che si faceva chiamare Sebastian è qualcun altro? — Clary riguardò le foto con crescente agitazione. — Pensavo... — Aline si stava di nuovo mordicchiando il labbro. — Pensavo che se i Lightwood sapessero che Sebastian, o chiunque fosse quel ragazzo, non è veramente mio cugino, forse potrebbero perdonarmi. Perdonarci. — Sono sicura che lo faranno. — Clary cercò di mettere nella voce tutta la gentilezza che aveva. — Ma c'è qualcosa di più grosso in ballo. Il Conclave deve sapere che Sebastian non è solo un ragazzino finito sulla cattiva strada, ma che è stato Valentine a spedirlo qui, per farci spiare. — Era così convincente! — disse Aline. — Sapeva cose che solo la mia famiglia conosceva. Sapeva cose della nostra infanzia... — A questo punto dobbiamo chiederci — intervenne Simon — che cosa può essere capitato al vero Sebastian. A tuo cugino. A quanto pare, è partito da Parigi diretto a Idris, ma qui non è mai arrivato. Cosa gli sarà successo lungo la strada? Fu Clary a rispondere. — Valentine. Deve aver pianificato tutto: sapeva dov'era Sebastian e come intercettarlo. E se l'ha fatto con Sebastian... — Potrebbe averlo fatto anche con altri — concluse Aline. — Dovresti dirlo al Conclave. Dillo a Lucian Graymark. — Colse l'espressione sorpresa di Clary. — La gente lo ascolta. L'hanno detto i miei genitori. — Forse dovresti venire con noi alla Sala degli Accordi — propose Simon — e dirglielo tu stessa. Aline scosse la testa. — Non posso affrontare i Lightwood. Soprattutto Isabelle. Lei mi ha salvato la vita e io... io sono scappata. Non riuscivo a fermarmi. Correvo e basta. — Eri sotto shock. Non è colpa tua. Aline non sembrava convinta. — E adesso suo fratello... — S'interruppe, mordendosi ancora il labbro. — Comunque, senti, c'è anche un'altra cosa che volevo dirti da tempo, Clary. — A me? — Clary era perplessa. — Sì. — Aline fece un profondo respiro. — Senti, quando sei entrata in biblioteca e hai visto me e Jace, be', non era niente di importante. Sono stata io a baciarlo. È stato... un esperimento. E non ha funzionato granché. Clary si sentì avvampare. Perché mi sta dicendo questo? — Senti, non c'è problema. Sono affari di Jace, non miei. — Be', sembravi piuttosto sconvolta, quel giorno. — Un accenno di sorriso aleggiò agli angoli della bocca di Aline. — E io credo di sapere il perché. Clary mandò giù il gusto acido che le era salito in bocca. — Ah sì? — Tuo fratello è un dongiovanni. Lo sanno tutti. È uscito con un sacco di ragazze. E tu temevi che, se avesse fatto il cretino con me, sarebbe finito nei guai. Dopotutto, le nostre famiglie sono, o erano, amiche. Ma non preoccuparti. Non è il mio tipo. — Credo di non aver mai sentito nessuna ragazza dire una cosa simile — commentò Simon. — Credevo che Jace fosse il tipo di ragazzo che è... il tipo di tutte. — Anch'io lo pensavo — disse Aline lentamente. — Ed è per questo che l'ho baciato. Sto cercando di capire se esiste un ragazzo che sia il mio tipo. È stata lei a baciare Jace, pensava intanto Clary. Non lui a baciare lei. È stata lei a baciare lui. Incrociò lo sguardo di Simon alle spalle di Aline. Sembrava divertito. — Be'? E alla fine che cos'hai deciso? Aline scrollò le spalle. — Non ne sono ancora sicura. Però, dai, almeno adesso non devi più preoccuparti per Jace! Magari. — Io mi preoccupo sempre per Jace. Lo spazio nella Sala degli Accordi era stato rapidamente riorganizzato, dopo la notte della battaglia. Con la Guardia fuori uso, ora la sala fungeva da Camera del Consiglio, da centro di raccolta per chi cercava familiari che mancavano all'appello e da ufficio informazioni. La fontana centrale era asciutta. File di panche erano state disposte rivolte verso il podio sul fondo. Alcuni Nephilim erano seduti sulle panche in quella che aveva tutta l'aria di essere un'assemblea del Consiglio. Nei corridoi tra una panca e l'altro e sotto le arcate ai lati della grande Sala, si aggiravano ansiosamente decine di altri Shadowhunters. La Sala degli Accordi non sembrava più un posto dove poter danzare. C'era una strana atmosfera nell'aria, un misto di tensione e di attesa. Sebbene l'assemblea fosse in corso al centro, ovunque si sentivano mormorii di altre conversazioni. Attraversando la Sala con Simon, Clary ne colse qualche frammento: le torri antidemoni erano di nuovo in funzione; le difese erano attive, ma più deboli di prima; le difese erano attive, più forti di prima; erano stati avvistati alcuni demoni sulle colline a sud della città; le case di campagna venivano abbandonate; molte famiglie avevano lasciato la città; alcuni avevano lasciato anche il Conclave. Sul podio rialzato, davanti alle mappe di Idris appese al muro, c'era il Console, truce come una guardia del corpo, accanto a un ometto grassoccio vestito di grigio. L'ometto parlava e gesticolava con foga, ma nessuno sembrava prestargli attenzione. — Oh, cavoli, quello è l'Inquisitore — mormorò Simon all'orecchio di Clary, indicandoglielo. — Aldertree. — E là c'è Luke — disse Clary, individuandolo nella folla. Luke era vicino alla fontana asciutta e parlava con un uomo dall'aspetto malconcio, con una benda che gli copriva metà faccia. Clary si guardò intorno in cerca di Amatis e finalmente la vide, seduta in silenzio sull'orlo di una panca, il più lontano possibile dagli altri Shadowhunters. Quando Amatis la vide, sembrò sorpresa e fece per alzarsi. Anche Luke vide Clary. Aggrottò la fronte, disse qualcosa all'uomo bendato, congedandosi, e poi, sempre più accigliato, si avvicinò a Clary e Simon, fermi vicino a una delle colonne. — Che cosa ci fate qui? Sapete che il Conclave non permette ai ragazzini di partecipare alle assemblee. Quanto a te — aggiunse, squadrando Simon — non è una grande idea mostrare la tua bella faccia all'Inquisitore, anche se in realtà non c'è niente che lui possa fare. — Un sorriso gli increspò l'angolo della bocca. — Non senza mettere a rischio qualsivoglia alleanza che il Conclave possa stipulare con i Nascosti in futuro. — Esatto. — Simon mandò un saluto all'Inquisitore agitando le dita della mano, ma Aldertree lo ignorò. — Simon, smettila. Siamo qui per un motivo preciso. — Clary mise in mano a Luke le foto di Sebastian. — Questo è Sebastian Verlac. Il vero Sebastian Verlac. Luke si rabbuiò. Sfogliò le foto senza dire una parola, mentre Clary gli riferiva la storia che aveva raccontato Aline. Nel frattempo Simon, un po' a disagio, mandava occhiate di fuoco in direzione di Aldertree, che cercava di ignorarlo. — Ma il vero Sebastian assomiglia in qualche modo alla sua versione contraffatta? — chiese Luke alla fine. — Non proprio — spiegò Clary. — Il falso Sebastian era più alto. E probabilmente era biondo, perché di sicuro si tingeva i capelli. Nessuno ha dei capelli così neri. — E il colore mi è rimasto sulle dita, quando li ho toccati, pensò, ma tenne per sé questo pensiero. — Comunque, Aline vuole mostrare queste foto a te e ai Lightwood. Pensa che, se sapessero che lui non è davvero parente dei Penhallow, allora... — Aline non ha parlato di queste ai suoi genitori, vero? — chiese Luke indicando le foto. — Non ancora, credo — rispose Clary. — Penso che sia venuta direttamente da me. Mi ha chiesto di dirlo a te. Dice che la gente ti ascolta. — Alcuni forse. — Luke si girò a guardare l'uomo con la faccia bendata. — Stavo giusto parlando con Patrick Penhallow. Valentine era un suo buon amico, ai tempi, ed è possibile che lui abbia tenuto d'occhio la famiglia Penhallow, in tutti questi anni. — Restituì le foto a Clary. — Sfortunatamente, oggi i Lightwood non parteciperanno al Consiglio. Questa mattina c'è stato il funerale di Max. Con ogni probabilità sono ancora al cimitero. — Vedendo la faccia di Clary, aggiunse: — È stata una cerimonia privata, Clary. Solo per la famiglia. Ma io sono famiglia, per Jace, protestò una vocina dentro la sua testa. Un'altra voce, però, una voce più forte, la sorprese con la sua amarezza. Lui ti ha detto che averti tra i piedi è come morire di morte lenta per dissanguamento. Credi davvero che abbia bisogno anche di questo, al funerale di Max! — Allora glielo potrai dire stasera — disse Clary. — Insomma, mi pare che sia una bella notizia. Chiunque fosse Sebastian, non è un parente dei loro amici. — Sarebbe una notizia ancora più bella se sapessimo chi è — borbottò Luke. — O quali altre spie ha Valentine nel Conclave. Diverse persone devono essere coinvolte nell'abbattimento delle difese. È un'operazione che si può fare solo dall'interno della città. — Hodge diceva che Valentine aveva trovato un sistema — disse Simon. — Diceva che serviva sangue di demone per abbattere le difese, ma che non c'era modo di portare del sangue di demone dentro la città. E Valentine ha trovato il sistema per farlo. — Qualcuno ha dipinto una runa con sangue di demone sulla cima di una delle torri — disse Luke con un sospiro. — Quindi, è evidente che Hodge aveva ragione. Il Conclave, sfortunatamente, ha sempre avuto troppa fiducia nelle difese, ma anche per il rompicapo più complesso c'è una soluzione. -— — A me sembra quel tipo di complessità che nei giochi da tavolo ti lascia con un pugno di mosche — osservò Simon. — Proprio quando proteggi la tua fortezza con un Incantesimo di Invincibilità Totale, ecco che arriva qualcuno e trova il modo di distruggere tutto. — Simon! — esclamò Clary. — Sta' zitto! — Non è molto lontano dalla verità — puntualizzò Luke. — L'unica cosa che non sappiamo è come hanno fatto a portare sangue di demone in città senza far scattare le difese. — Scrollò le spalle. — Ma è il minore dei nostri problemi, in questo momento. Le difese sono state riattivate, anche se sappiamo che non sono infallibili. Valentine potrebbe tornare in qualsiasi momento, con un esercito ancora più grande. E dubito che riusciremmo a respingerlo. Non ci sono abbastanza Nephilim, e quei pochi sono decisamente demoralizzati. — Ma... e i Nascosti? — chiese Clary. — Tu hai detto al Console che il Conclave deve combattere insieme ai Nascosti. — Io posso dirlo a Malachi e ad Aldertree fino allo sfinimento, ma non significa che loro mi vogliano ascoltare — rispose Luke stancamente. — L'unico motivo per cui mi lasciano restare qui è perché il Conclave mi ha eletto consigliere. E l'ha fatto solo perché parecchi di loro sono stati salvati dal mio branco. Il che non significa che vogliano altri Nascosti a Idris. Qualcuno lanciò un grido stridulo. Amatis era in piedi, con una mano sulla bocca e gli occhi fissi sull'ingresso della Sala degli Accordi. C'era un uomo sulla porta, incorniciato dalla luce del sole. Era solo una sagoma in controluce. Poi fece un passo avanti ed entrò nella sala, e Clary potè vederlo in faccia. Valentine. Chissà perché, la prima cosa che Clary notò fu che era perfettamente sbarbato. E questo lo faceva sembrare più giovane, più simile al ragazzo dei ricordi che Ithuriel le aveva mostrato. Invece della tenuta da battaglia, indossava un elegante gessato e la cravatta. Era disarmato. Avrebbe potuto essere un uomo qualsiasi in una strada di Manhattan. Avrebbe potuto essere il padre di chiunque. Valentine non guardò verso Clary, non diede nemmeno segno di averla vista. Teneva gli occhi fissi su Luke, mentre percorreva lo stretto corridoio tra le file di panche. Come può pensare di entrare qui dentro disarmato? si chiese Clary. Ma la sua domanda trovò subito una risposta: in quel momento l'Inquisitore Aldertree fece un verso da orso ferito, si divincolò da Malachi che stava cercando di trattenerlo, scese barcollando i gradini del podio e si scagliò contro Valentine. Passò attraverso il suo corpo come un coltello attraverso un foglio di carta. Valentine si girò a osservare Aldertree con un'occhiata di blando interesse: l'Inquisitore perse l'equilibrio, sbatté contro una colonna e crollò scompostamente a terra. Il Console lo raggiunse, si chinò e l'aiutò a rimettersi in piedi, con un'espressione di malcelato disgusto. Clary si chiese se fosse per Valentine o per Aldertree, che aveva fatto una figura così grottesca. Un altro lieve mormorio aleggiò nella sala. L'Inquisitore squittiva e si agitava come un topo in trappola, mentre Malachi lo teneva saldamente per le braccia. Valentine riprese ad avanzare senza degnarli più di uno sguardo. I capannelli di Cacciatori intorno alle panche arretrarono come le onde del Mar Rosso davanti a Mosè, creando un passaggio libero al centro della Sala. Clary rabbrividì, quando Valentine si avvicinò a loro. È solo una proiezione,si disse. Non è qui per davvero. Non può farti male. Accanto a lei, Simon rabbrividì e Clary gli prese la mano. In quel momento Valentine si fermò alla base del podio e si girò verso di lei. I suoi occhi la squadrarono da capo a piedi, quasi senza parere, come prendendole le misure, poi scavalcarono Simon e si fermarono su Luke. — Lucian — disse. Luke ricambiò il suo sguardo con occhi fermi e franchi, senza dire nulla. Era la prima volta che si ritrovavano nella stessa stanza dopo Renwick, pensò Clary, e in quell'occasione Luke era coperto di sangue e mezzo morto per le ferite. Era più facile, adesso, cogliere le differenze e le somiglianze tra i due uomini: Luke, con la sua stazzonata camicia di flanella e i jeans, e Valentine, col suo bellissimo completo dall'aria costosa; Luke, con la barba di un giorno e del grigio tra i capelli, e Valentine, che sembrava ancora un venticinquenne, solo più freddo, più duro, come se il passare degli anni lo stesse lentamente trasformando in pietra. — Ho sentito che il Conclave ti ha accolto nel Consiglio — esordì Valentine. — Solo un Conclave indebolito dalla corruzione e dalla ruffianeria può lasciarsi infiltrare da bastardi e degenerati. — La sua voce era placida, quasi allegra, tanto che era difficile percepire il veleno delle sue parole, 0 credere che le pensasse davvero. Lo sguardo di Valentine si spostò su Clary. — Clarissa — disse. — Sei venuta con il vampiro, vedo. Quando le cose si saranno un po' sistemate, sarà il caso di ridiscutere le tue scelte in fatto di animali domestici. Dalla gola di Simon salì un ringhio basso. Clary gli strinse la mano con forza, così forte che un tempo gli avrebbe fatto male. Ora, invece, Simon non sembrava sentire niente. — No — gli sussurrò. — Non reagire. Valentine aveva già distolto l'attenzione da loro. Salì sul podio e si voltò per guardare la folla. — Quante facce familiari — osservò. — Patrick. Malachi. Amatis. Amatis era ancora in piedi, immobile, con gli occhi sfavillanti di rancore. L'Inquisitore si stava ancora dibattendo nella stretta di Malachi. Lo sguardo di Valentine guizzò su di lui, non senza un certo divertimento. — Anche tu, Aldertree. Mi dicono che sei stato indirettamente responsabile della morte del mio vecchio amico Hodge Starkweather. Un vero peccato. Luke ritrovò la voce. — Quindi lo ammetti — disse. — Sei stato tu ad abbattere le difese. Sei stato tu a mandare i demoni. — Li ho mandati io — confermò Valentine. — E posso mandarne molti altri. Di sicuro il Conclave se l'aspettava, per quanto stupidi possano essere i suoi membri. Tu te l'aspettavi, non è vero, Lucian? Gli occhi azzurri di Luke erano molto seri. — Sì, me l'aspettavo, ti conosco bene, Valentine. Ma dimmi: sei venuto a contrattare o a vantarti? — Né l'una né l'altra cosa. — Valentine osservò la folla muta. — Non ho nessun bisogno di contrattare — disse. Nonostante il tono calmo, la sua voce sembrava amplificata. — E nessun bisogno di vantarmi. Non mi dà alcun piacere causare la morte di altri Shadowhunters: siamo già abbastanza pochi, in un mondo che ha un disperato bisogno di noi. Ma è così che piace al Conclave, no? È solo una delle vostre tante regole senza senso, quelle che usate per gettare nella polvere i vostri Cacciatori. Ho fatto ciò che ho fatto perché ho dovuto. Perché era l'unico modo per farmi ascoltare dal Conclave. Quegli Shadowhunters non sono morti per causa mia: sono morti perché il Conclave non mi ha mai dato ascolto. — Incrociò gli occhi di Aldertree in mezzo alla folla: la faccia dell'Inquisitore era bianca e contratta. — Molti di voi, un tempo, erano nel mio Circolo — disse Valentine lentamente. — È a voi che ora mi rivolgo, e a coloro che sapevano del Circolo ma ne rimasero fuori. Vi ricordate ciò che predissi quindici anni fa? Che, se non avessimo agito contro gli Accordi, la città di Alicante, la nostra preziosa capitale, sarebbe stata invasa da orde sbavanti di bastardi mezzosangue, di razze degenerate che avrebbero calpestato tutto ciò che a noi era più caro? E, come avevo predetto, tutto ciò si è avverato. La Guardia è bruciata fino alle fondamenta, il Portale è stato distrutto, le nostre strade sono state invase da mostri. Feccia semiumana, che pretende di governarci. Quindi, amici miei, nemici miei, fratelli miei nell'Angelo, io vi chiedo: mi credete, ora? — La sua voce si alzò e diventò un grido. — MI CREDETE, ORA? Il suo sguardo percorse tutta la sala, come se si aspettasse una risposta. Ma non ci fu alcuna risposta: solo un mare di volti fissi su di lui. — Valentine. — La voce di Luke, per quanto bassa, ruppe il silenzio. — Non vedi ciò che hai fatto? Gli Accordi che tu temevi tanto non hanno reso i Nascosti uguali ai Nephilim. Non hanno assicurato ai mezzi-umani un posto nel Consiglio. Tutto l'antico rancore è rimasto. Avresti dovuto contare su questo, ma non l'hai fatto, non hai voluto. E ora tu stesso ci hai fornito l'unico motivo che potrebbe unirci tutti. — I suoi occhi penetrarono in quelli di Valentine. — Un nemico comune. Un rossore animò il pallido viso di Valentine. — Io non sono un nemico. Non dei Nephilim. Tu sei un nemico. Tu sei quello che cerca di attirarli in una guerra senza speranza. Credi che i demoni che avete visto siano gli unici che possiedo? Sono solo una piccola parte di quelli che posso radunare. — Anche noi siamo molti di più — replicò Luke. — Molti più Nephilim e molti più Nascosti. — Nascosti — ripetè Valentine con disprezzo. — Scapperanno al primo segnale di vero pericolo. I Nephilim sono nati per essere guerrieri, per proteggere questo mondo, ma il mondo odia tutti quelli della vostra specie. C'è una ragione, se l'argento puro vi brucia e se la luce del giorno brucia i Figli della Notte. — Non brucia me — intervenne Simon, con voce forte e chiara, nonostante la stretta della mano di Clary. — Guardami, sono qui, in piena luce... Ma Valentine rise. — Ti ho visto soffocare nel pronunciare il nome di Dio, vampiro — disse. — Se riesci a stare alla luce del sole — sorrise — è solo perché sei un'anomalia. Uno scherzo della natura. Ma pur sempre un mostro. Un mostro. Clary ripensò a Valentine sulla nave, a quello che le aveva detto allora: Tua madre mi ha detto che avevo trasformato il suo primo figlio in un mostro. Mi ha lasciato prima che potessi fare lo stesso anche con il secondo. Jace. Il pensiero di Jace le provocò un forte dolore. Proprio lui parla di mostri, dopo quello che ha fatto... — L'unico mostro, qui — intervenne Clary contro se stessa e contro la sua decisione di restare in silenzio — sei tu. Ho visto Ithuriel — continuò, quando Valentine si girò a guardarla, sorpreso. — So tutto... — Ne dubito — replicò Valentine. — Se sapessi tutto, terresti la bocca chiusa. Per il bene di tuo fratello, se non per il tuo. Non permetterti nemmeno di nominare Jace in mia presenza/, avrebbe voluto gridare, ma un'altra voce si levò a interromperla: una voce femminile, fredda, impavida, amara, del tutto inaspettata. — E che mi dici di mio fratello? — Amatis si fermò ai piedi del podio, guardando Valentine. Luke trasalì, sorpreso, e la guardò scuotendo la testa, ma lei lo ignorò. Valentine aggrottò la fronte. — Che cosa c'entra Lucian? — Clary intuì che la domanda di Amatis lo aveva turbato, o forse era solo la presenza di Amatis, che chiedeva di sapere, che lo affrontava. Lui l'aveva cancellata anni prima, giudicandola una donna debole che non l'avrebbe mai sfidato. A Valentine non piacevano le sorprese. — Tu mi hai convinto che lui non fosse più mio fratello — disse Amatis. — Tu mi hai portato via Stephen. Tu hai distrutto la mia famiglia. Dici di non essere un nemico dei Nephilim, ma ci hai messi tutti gli uni contro gli altri, famiglia contro famiglia, distruggendo le nostre vite senza nessun rimorso. Tu dici di odiare il Conclave, ma sei tu che lo hai reso ciò che è adesso: meschino e paranoico. Una volta ci fidavamo gli uni degli altri, noi Nephilim. Sei stato tu a cambiare le cose. E io non ti perdonerò mai per questo. — Le tremò la voce. — Né per avermi indotto a trattare Lucian come se non fosse più mio fratello. Nemmeno per questo ti perdonerò mai. Né perdonerò me stessa per averti dato ascolto. — Amatis... — Luke avanzò di un passo, ma sua sorella alzò una mano per fermarlo. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, ma la schiena era dritta, la voce ferma e risoluta. — C'è stato un tempo in cui tutti noi eravamo pronti ad ascoltarti, Valentine — proseguì. — E tutti noi ci portiamo quel peso sulla coscienza. Ora non più. Non più. Quel tempo è passato. C'è qualcuno qui che non è d'accordo con me? Clary alzò di scatto la testa e guardò l'assemblea di Shadowhunters: le apparivano come lo schizzo di una folla, macchie indistinte al posto dei volti. Vide Patrick Penhallow con la mascella serrata e l'Inquisitore che tremava come un fragile arboscello nel vento. E Malachi, la cui faccia scura e scolpita era impenetrabile. Nessuno parlò. Se Clary si era aspettata che Valentine si arrabbiasse davanti alla mancata reazione dei Nephilim che voleva governare, fu delusa. A parte il guizzo di un muscolo della mascella, Valentine rimase privo di qualsiasi espressione. Come se si fosse atteso esattamente questo. Come se l'avesse previsto nel suo piano. — Molto bene — disse. — Se non volete ascoltare la ragione, dovrete ascoltare la forza. Vi ho già dimostrato che posso abbattere le difese intorno alla città. Vedo che le avete ripristinate, ma non servirà a nulla. Posso rifarlo quando voglio. O acconsentirete alle mie richieste, o affronterete tutti i demoni che la Spada Mortale potrà radunare. Ordinerò loro di non risparmiare nessuno di voi, uomini, donne, bambini. La scelta è vostra. Un mormorio spazzò la sala. Luke fissava Valentine. — Tu distruggeresti deliberatamente la tua stessa gente? — Talvolta le piante malate devono essere eliminate, per salvare il giardino — replicò lui. — E se tutte le piante sono malate... — Si rivolse alla folla inorridita. — Io possiedo la Coppa Mortale. Se sarò costretto a farlo, darò inizio a un nuovo mondo di Shadowhunters, creati ed educati da me. Ma posso darvi questa scelta. Se il Conclave trasferirà a me tutti i poteri del Consiglio e accetterà la mia sovranità assoluta e il mio governo, io fermerò la mia mano. Tutti gli Shadowhunters dovranno giurare obbedienza e accettare una runa permanente di fedeltà che li legherà a me. Queste sono le mie condizioni. Ci fu silenzio. Amatis si era portata le mani alla bocca. Tutta la sala sembrava ondeggiare sotto gli occhi di Clary, come una massa indistinta e turbinante. Non possono arrendersi a lui, si disse. Non possono. Ma che scelta avevano? Che scelta poteva avere, ciascuno di loro? Sono stati intrappolati da Valentine, pensò in una specie di torpore. Così come io e Jace siamo intrappolati da ciò che lui ci ha fatto. Siamo incatenati a lui dal nostro stesso sangue. Fu solo un momento, anche se a Clary parve un'ora. Poi una vocetta sottile tagliò il silenzio: la voce alta e squittente dell'Inquisitore. — Sovranità e governo? — strillò. — Il tuo governo? — Aldertree... — Il Console cercò di trattenerlo, ma l'Inquisitore fu più veloce. Si divincolò e corse sul podio. Ripeteva qualcosa, sempre le stesse parole, come un guaito, come se avesse perso completamente la ragione, e aveva gli occhi strabuzzati come un invasato. Spinse via Amatis, salì barcollando i gradini e affrontò Valentine. — Io sono l'Inquisitore, capisci? L'Inquisitore! — gridò. — Io sono parte del Conclave! Del Consiglio! Io faccio la Legge, non tu! Io governo, non tu! Io non ti permetterò di farlo! Arrampicatore, feccia, amante dei demoni... Con un'espressione molto vicina alla noia, Valentine allungò una mano, quasi come per toccare l'Inquisitore sulla spalla. Ma Valentine non poteva toccare niente: era solo una proiezione. Eppure la mano di Valentine entrò nella pelle, nelle ossa, nelle carni dell'Inquisitore, e svanì nel suo torace. Ci fu un attimo, solo un attimo, in cui tutta la Sala degli Accordi sembrò fissare a bocca aperta il braccio sinistro di Valentine affondato fino al polso, contro ogni logica e ragionevolezza, nel petto di Aldertree. Poi Valentine torse il polso con forza, di scatto, verso sinistra, come se volesse girare il pomolo arrugginito di una porta. L'Inquisitore lanciò un unico grido e cadde come una pietra. Valentine ritirò la mano. Era bagnata di sangue, che come un guanto scarlatto colava verso il gomito, macchiando il tessuto prezioso della sua giacca. Valentine abbassò la mano e scrutò la folla inorridita. Alla fine i suoi occhi si posarono su Luke. Parlò lentamente. — Vi darò tempo fino a domani a mezzanotte per valutare le mie condizioni. A mezzanotte porterò il mio esercito, tutte le forze del mio esercito, alla pianura di Brocelind. Se non avrò ancora ricevuto un messaggio di resa dal Conclave, marcerò col mio esercito su Alicante, e questa volta nulla resterà in vita. Avete abbastanza tempo per esaminare la mia offerta. Usatelo saggiamente. E con questo, svanì. capitolo 14 NELLA FORESTA BUIA — Be', questa poi! — disse Jace senza guardare Clary. Non l'aveva mai guardata, da quando lei e Simon erano arrivati sui gradini della casa che ora era occupata dai Lightwood. Era appoggiato a una delle alte finestre del salotto e guardava fuori, verso il cielo che stava rapidamente scurendo. — Uno va al funerale del fratellino di nove anni e si perde tutto il divertimento! — Jace — disse Alec con voce stanca. — Smettila. Alec era buttato su una delle poltrone imbottite del salotto, l'unico posto dove ci si poteva sedere. La casa aveva quell'atmosfera strana e aliena che hanno le case degli sconosciuti: era arredata con tessuti floreali, leziosi, in colori tenui, e tutto era leggermente liso o rovinato dall'uso. C'era una boccia di vetro piena di cioccolatini sul tavolino vicino ad Alec. Clary, che moriva di fame, ne aveva mangiati un paio, scoprendo che erano secchi e friabili.Chissà che tipo di persone vivevano qui, pensò. Il tipo di persone che scappano quando le cose si fanno difficili, si rispose da sola, acida. Si meritavano che la loro casa venisse occupata. — Smettila cosai — chiese Jace. C'era abbastanza buio fuori, ormai, e Clary vedeva il suo viso riflesso nel vetro. I suoi occhi sembravano neri. Indossava gli abiti da lutto degli Shadowhunters: loro non si vestivano di nero ai funerali, perché il nero era il colore delle tenute da battaglia. Il colore della morte era il bianco. La giacca bianca che Jace indossava aveva delle rune scarlatte ricamate su colletto e polsi. Diversamente dalle rune di guerra, che parlavano di aggressione e di protezione, quelle parlavano un linguaggio più delicato, di guarigione e dolore. Jace aveva anche braccialetti di ferro battuto ai polsi su cui erano incise altre rune simili. Alec era vestito nello stesso modo, tutto in bianco, con le stesse rune d'oro brunito tracciate sul tessuto. A contrasto, i suoi capelli sembravano ancora più neri. Tutto in bianco, Jace sembrava un angelo, pensò Clary. Anche se della schiera dei vendicatori. — Tu non ce l'hai con Clary né con Simon — disse Alec. — Almeno — aggiunse aggrottando leggermente la fronte — non con Simon. Clary si aspettava una risposta cattiva, ma Jace disse solo: — Clary lo sa, che non ce l'ho con lei. Con i gomiti appoggiati allo schienale del divano, Simon alzò gli occhi al cielo, ma si limitò a dire: — Quello che non riesco a capire è come abbia fatto Valentine a uccidere l'Inquisitore. Ero convinto che le proiezioni non avessero alcun potere sulle cose materiali. — Non dovrebbero — disse Alec. — Sono solo illusioni. Aria colorata, per così dire. — Be', non in questo caso. Valentine ha infilato una mano dentro l'Inquisitore, poi l'ha girata... — Clary rabbrividì. — C'era un sacco di sangue. — Un premio speciale per te, no? — disse Jace a Simon. Simon lo ignorò. — C'è mai stato un Inquisitore che non abbia fatto una morte orribile? — si chiese a voce alta. — Sembrano i batteristi degli Spinai Tap. Alec si passò una mano sulla faccia. — I miei genitori non ne sanno ancora niente — disse. — E francamente io non ho nessuna voglia di dirglielo. — Sono di sopra? — chiese Clary. Alec scosse la testa. — Sono ancora alla necropoli. Alla tomba di Max. Ci hanno mandati qui perché volevano restare là da soli per un po'. — E Isabelle? — chiese Simon. — Lei dov'è? L'umorismo, per così dire, abbandonò Jace. — Non vuole uscire dalla sua stanza — disse. — E convinta che quello che è successo a Max sia colpa sua. Non è nemmeno venuta al funerale. — Avete provato a parlarle? — chiese Simon. — No — disse Jace. — L'abbiamo presa a pugni in faccia, ma forse non funziona, tu che dici? — Sempre meglio chiedere. — Il tono di Simon era mite. — Le diremo di questa storia, che Sebastian non è veramente Sebastian — disse Alec. — Magari la farà sentire un po' meglio. È convinta che avrebbe dovuto capire che c'era qualcosa di strano, in Sebastian, ma se era una spia... — Alec scrollò le spalle. — Nessuno di noi aveva notato niente di strano in lui. Nemmeno i Penhallow. — Io, veramente, avevo notato che era una persona detestabile — precisò Jace. — Sì, ma solo perché... — Alec sprofondò nella poltrona. Era esausto. La sua pelle aveva un colorito grigiastro, contro il bianco immacolato dei vestiti. — Va be', non importa. Quando Isabelle scoprirà che cosa minaccia di fare Valentine, nulla potrà tirarla su di morale. — Secondo voi lo farebbe davvero? — chiese Clary. — Manderebbe davvero un esercito di demoni contro i Nephilim? Insomma, è pur sempre uno Shadowhunter, no? Non può distruggere tutta la sua gente. — Non ha avuto scrupoli nemmeno per i suoi figli — ribatté Jace incrociando lo sguardo di Clary. Rimasero con gli occhi negli occhi. — Che cosa ti fa pensare che potrebbe farsene per la sua gente? Alec guardò l'uno e l'altra. Dalla sua espressione, Clary capì che Jace non gli aveva detto ancora niente di Ithuriel. Sembrava perplesso e molto triste. — Jace... — Questo spiega una cosa — proseguì Jace senza guardare Alee. — Magnus ha usato una runa di localizzazione su qualcosa che Sebastian ha lasciato in camera sua, per cercare di rintracciarlo, ma non è riuscito a leggere niente. Zero assoluto. — Che cosa significa? — Che erano cose di Sebastian Verlac. Probabilmente il finto Sebastian gliele ha rubate. E se Magnus non trova nessuna informazione in queste cose, significa che il vero Sebastian... — Probabilmente è morto — finì Alec. — E il Sebastian che conosciamo noi è troppo furbo per lasciare in giro qualcosa che possa servire a rintracciarlo. Voglio dire, per trovare una persona non basta un oggetto qualsiasi. Ci vuole un oggetto strettamente legato a quella persona, come un cimelio di famiglia, uno stilo, una spazzola con qualche capello, cose del genere. — Il che è una bella sfortuna — commentò Jace. — Se potessimo seguirlo, probabilmente ci condurrebbe dritti da Valentine. Sono sicuro che è corso dal suo padrone con un rapporto completo. Gli avrà anche riferito la stramba teoria di Hodge, quella del lago-Specchio. — Forse non è così stramba — commentò Alec. — Il Conclave ha messo sentinelle a presidiare tutti i sentieri che conducono al lago e ha attivato delle difese che avvertiranno se qualcuno usa un Portale per arrivare al lago. — Fantastico. Sono sicuro che adesso possiamo stare tutti più tranquilli. — Jace si appoggiò con la schiena al muro. — Quello che non capisco — disse Simon — è perché Sebastian sia rimasto qui. Dopo quello che ha fatto a Izzy e a Max, non poteva più continuare la messinscena. Se anche era convinto di aver ucciso Izzy, invece di averla solo tramortita, come poteva pensare di farla franca, con loro due morti e lui che stava benissimo? Impossibile. E quindi, perché restare qui dopo la battaglia? Perché venire alla Guardia a prendere me7. Non credo che gli importasse molto se ne uscivo vivo o morto. — Ora sei troppo duro con lui — commentò Jace. — Sono sicuro che ti avrebbe preferito morto. — A dire la verità — intervenne Clary — io credo che sia rimasto per me. Lo sguardo di Jace si alzò di scatto sul suo, con un bagliore dorato. — Per te? Forse sperava in un altro incontro passionale? Clary si sentì arrossire. — No. E il nostro incontro non è stato passionale. Comunque, non è questo il punto. Quando è entrato nella Sala degli Accordi ha cercato di portarmi fuori, per parlare a quattr'occhi. Voleva qualcosa da me, ma non so che cosa. — O forse, più semplicemente, voleva te — commentò Jace. Vedendo la faccia di Clary, aggiunse: — Non in quel senso. Voglio dire che forse voleva portarti da Valentine. — A Valentine non importa niente di me — disse Clary. — Gli è sempre importato solo di te. Qualcosa guizzò in fondo agli occhi di Jace. — Gli importava di me...? Alla faccia... — La sua espressione era spaventosamente fosca. — Dopo quello che è successo sulla nave, è a te che è interessato. Il che significa che devi stare attenta. Molto attenta. Anzi, non ti farebbe male restare in casa, nei prossimi giorni. Potresti chiuderti nella tua stanza, come Isabelle. — Non ci penso nemmeno. — Certo che no — commentò Jace. — Perché tu vivi per tormentarmi, vero? — Non tutto quello che succede, Jace, riguarda te personalmente — replicò Clary furiosa. — Forse non tutto — disse Jace. — Ma, devi ammetterlo, la maggior parte sì. Clary represse l'istinto di urlare. Simon si schiarì la voce. — A proposito di Isabelle, che non era proprio l'argomento della nostra discussione. Forse però sarebbe meglio discuterne subito, prima che si scateni una lite. Penso che dovrei parlare con lei. — Tu? — esclamò Alec. E poi, lievemente imbarazzato dal proprio sconcerto, aggiunse rapidamente: — È solo che... non vuole uscire dalla sua stanza nemmeno per la sua famiglia. Perché dovrebbe uscire per te? — Forse perché io non sono la sua famiglia — replicò Simon. Era in piedi, con le mani nelle tasche, le spalle ben aperte. Prima, quando era seduta accanto a lui, Clary aveva notato che c'era ancora una sottile linea bianca intorno alla sua gola, dove Valentine l'aveva tagliato, e c'erano cicatrici anche sui polsi, sempre in corrispondenza dei tagli. L'incontro col mondo degli Shadowhunters l'aveva cambiato, non solo in superficie o nel sangue: il cambiamento era più profondo. Simon aveva la schiena dritta, la testa alta; si prendeva tutto quello che Jace e Alec gli buttavano addosso e non sembrava curarsene. Il Simon che una volta avrebbe avuto paura di loro, o che si sarebbe sentito a disagio, non c'era più. Clary sentì un'improvvisa fitta al cuore e trasalì, quando capì cosa provava: aveva nostalgia di Simon, del Simon di una volta. — Voglio fare un tentativo, per capire se Isabelle vuole parlare con me — annunciò Simon. — Non farà male a nessuno. — Ma è quasi buio — obiettò Clary. — Abbiamo promesso a Luke e ad Amatis di tornare prima del tramonto. — Ti accompagno io — si offrì Jace. — Simon può cavarsela da solo a trovare la strada di casa al buio. Non è vero, Simon? — Certo che se la può cavare! — esclamò Alec, come ansioso di riparare al precedente insulto. — È un vampiro, e poi... — aggiunse. — Ah, era una battuta, come non detto. Simon sorrise. Clary aprì la bocca per protestare, ma subito e la chiuse. In parte perché sarebbe stato irragionevole, e lo sapeva, in parte perché c'era un'espressione negli occhi di Jace, mentre guardava Simon, che la fece ammutolire per la sorpresa: era divertimento, pensò Clary, mescolato a un po' di gratitudine e forse persino, incredibilmente, a un po' di rispetto. Non ci voleva molto per arrivare a piedi dalla nuova casa dei Lightwood a quella di Amatis. Clary avrebbe voluto che fosse più lontana. Non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero che ogni momento trascorso con Jace fosse in qualche modo prezioso e limitato, che si stessero avvicinando a qualche invisibile ultimatum che li avrebbe separati per sempre. Lo guardò di sottecchi. Teneva lo sguardo fisso avanti, come se Clary non ci fosse nemmeno. Il suo profilo si stagliava nitido contro la stregaluce che illuminava le strade. I capelli gli si arricciavano sulle guance, senza riuscire a nascondere la cicatrice bianca sulla tempia, dove c'era stato un marchio. La catenina, a cui era appeso l'anello dei Morgenstern, gli luccicava intorno alla gola. La mano sinistra non era più fasciata, ma le nocche erano ancora scorticate. Quindi stava davvero guarendo come un mondano, come aveva preteso Alec. Clary rabbrividì. Jace la guardò. — Hai freddo? — Stavo pensando — rispose lei. — Mi sorprende che Valentine abbia ucciso l'Inquisitore e non Luke. L'Inquisitore è uno Shadowhunter, mentre Luke è... Luke è un Nascosto. In più, Valentine lo odia. — Ma in un certo senso lo rispetta, anche se è un Nascosto — osservò Jace. Clary ricordò lo sguardo che Jace aveva rivolto a Simon poco prima e cercò di non pensarci. Odiava pensare che Jace e Valentine fossero in qualche modo simili, anche in una cosa così futile come uno sguardo. — Luke sta cercando di far cambiare il Conclave, di introdurre un modo nuovo di pensare. È esattamente quello che ha fatto Valentine a suo tempo, anche se i suoi scopi erano... be', non erano gli stessi. Luke è un iconoclasta. Vuole il cambiamento. Per Valentine, l'Inquisitore rappresenta il Conclave vecchio e retrogrado che lui detesta. — E una volta erano amici — aggiunse Clary. — Luke e Valentine. — Il marchio di ciò che un tempo è stato1 — disse Jace. E Clary capì, dal tono vagamente ironico, che stava citando il verso di una poesia. — Purtroppo, di solito odi più profondamente proprio le persone che un tempo hai amato. Immagino che Valentine abbia in mente qualcosa di speciale per Luke, alla fine di tutto. Una volta che prenderà il potere. — Ma lui non prenderà il potere! — replicò Clary. Quando Jace non disse nulla, alzò il tono della voce. — Lui non vincerà! Non può vincere. Non vuole veramente la guerra, non contro i Cacciatori e i Nascosti insieme... — Che cosa ti fa pensare che i Cacciatori combatteranno insieme ai Nascosti? — le chiese Jace, sempre senza guardarla in faccia. Stavano camminando sulla strada lungo il canale e Jace fissava l'acqua, con la mascella serrata. — Solo perché lo dice Luke? Luke è un idealista. — E questa sarebbe una brutta cosa? — Non è una brutta cosa. È solo che io non sono affatto un idealista — ribatté Jace. Clary provò una fitta gelida al cuore, sentendo il vuoto nella sua voce. Disperazione, rabbia, odio. Queste sono qualità dei demoni. Jace sta recitando il ruolo che pensa di dover interpretare. Erano arrivati davanti alla casa di Amatis. Clary si fermò sui gradini e si voltò verso di lui. — Forse — gli disse. — Ma non sei nemmeno come lui. Jace trasalì appena, per quelle parole, o forse fu solo per la fermezza nel tono di Clary. Si girò e la guardò, per la prima volta da quando erano usciti dalla casa dei Lightwood. — Clary... — iniziò Jace, ma s'interruppe, trattenendo il respiro. — Hai del sangue sulla manica. Sei ferita? 1 S.T. Coleridge, Christabel. Le si avvicinò, prendendole il polso. Clary abbassò lo sguardo e vide con sorpresa che aveva ragione: c'era una macchia irregolare, color rosso scarlatto, sulla manica destra del cappotto. La cosa strana era che il rosso era ancora vivido. Il sangue secco diventava più scuro, no? Clary aggrottò la fronte. — Non è mio, questo sangue. Jace si rilassò un po' e allentò la presa. — È dell'Inquisitore? Clary scosse la testa. — Credo che sia di Sebastian. — Il sangue di Sebastian? — Sì... quando è arrivato nella Sala degli Accordi, l'altra sera, se ti ricordi aveva il viso sporco di sangue. Credo che sia stata Isabelle a graffiarlo. Comunque, gli ho toccato la faccia e mi sono macchiata. — Guardò la macchia più da vicino. — Credevo che Amatis mi avesse lavato il cappotto, ma evidentemente non l'ha fatto. Si aspettava che Jace le lasciasse il polso, invece lui la trattenne ancora un po', esaminando il sangue, poi le restituì il braccio, apparentemente soddisfatto. — Grazie. Clary lo guardò per un lungo momento, poi scosse la testa. — Non hai nessuna intenzione di dirmi cos'hai in mente, vero? — Nessunissima. Clary buttò in alto le braccia, esasperata. — Io vado. Ci vediamo. Si girò e salì i gradini della porta d'ingresso. Non seppe mai che, nel momento stesso in cui gli voltò le spalle, il sorriso svanì dalla faccia di Jace, il quale rimase a lungo nell'oscurità a guardare la porta che si era chiusa alle spalle di Clary, rigirando un filo tra le dita. — Isabelle — chiamò Simon. Gli ci erano voluti un paio di tentativi per trovare la sua stanza, ma i continui «Vai via!» provenienti da dietro la porta l'avevano convinto che aveva individuato quella giusta. — Isabelle, fammi entrare. Ci fu un tonfo soffocato e la porta vibrò leggermente, come se Isabelle vi avesse scagliato qualcosa contro, forse una scarpa. — Non voglio parlare né con te né con Clary. Non voglio parlare con nessuno. Lasciami in pace, Simon. — Clary non c'è — disse Simon. — E io non me ne vado finché non mi parli. — Alec! — strillò Isabelle. — Jace! Fatelo andare via! Simon aspettò. Dal piano di sotto non arrivò alcun rumore. O Alec si era allontanato, oppure stava facendo finta di niente. — Non ci sono nemmeno loro, Isabelle. Ci sono solo io. Silenzio. Finalmente Isabelle parlò di nuovo. Questa volta la sua voce arrivò da molto più vicino, come se fosse proprio dietro la porta. — Sei da solo? — Sono da solo — confermò Simon. La porta si socchiuse. Isabelle era lì, in sottoveste nera, i capelli sciolti e aggrovigliati sulle spalle. Simon non l'aveva mai vista così: a piedi nudi, coi capelli in disordine, senza trucco. — Puoi entrare. Simon entrò passandole accanto. Dalla luce che filtrava dalla porta vide, come avrebbe detto sua madre, che in quella stanza era passato un tornado. C'erano vestiti sparsi per terra a mucchi, una sacca da viaggio aperta sul pavimento, come se fosse esplosa. La lucente frusta di Isabelle era appesa a un angolo del letto, un reggiseno di pizzo bianco a un altro. Simon distolse lo sguardo. Le tende erano chiuse, le lampade spente. Isabelle si lasciò cadere sul bordo del letto e lo guardò con amaro divertimento. — Un vampiro che arrossisce. Chi l'avrebbe mai detto... — Alzò il mento. — Allora? Io ti ho fatto entrare. Dimmi che cosa vuoi. Nonostante lo sguardo rabbioso, Simon pensò che Isabelle sembrava più giovane del solito, con quegli occhioni grandi e neri che spiccavano nella faccia pallida e tirata. Vide le sottili cicatrici bianche che percorrevano la pelle chiara, sulle braccia nude, la schiena, le clavicole, persino le gambe. Se Clary resterà una Cacciatrice, pensò Simon, un giorno sarà anche lei così, tutta cicatrici. Il pensiero non lo turbò come forse sarebbe successo in passato. C'era qualcosa di speciale, nel modo in cui Isabelle esibiva le proprie cicatrici, quasi ne andasse. Aveva qualcosa tra le mani, qualcosa che rigirava tra le dita, un piccolo oggetto che nella penombra emanava qualche pallido bagliore. Simon pensò per un momento che fosse un gioiello. — Quello che è successo a Max — le disse — non è stato colpa tua. Lei non lo guardò. Continuò a fissare l'oggetto che aveva in mano. — Sai cos'è questo? — gli chiese, mostrandoglielo. Era un soldatino intagliato nel legno. Uno Shadowhunter giocattolo, con tanto di tenuta da battaglia dipinta di nero. Il bagliore d'argento che Simon aveva notato era il colore della piccola spada, ma era molto consunto. — Era di Jace — spiegò Isabelle senza aspettare la risposta. — Era l'unico giocattolo che aveva quando arrivò da Idris. Forse una volta faceva parte di un esercito. Secondo me se l'era fatto lui, ma non ne parlava mai. Lo portava sempre con sé, ce l'aveva sempre in tasca, quand'era piccolo. Poi un giorno ho visto Max con il soldatino in mano. Jace doveva avere più o meno tredici anni, allora. Era diventato troppo grande, per giocarci, e così l'aveva regalato a Max. Comunque, Max lo teneva in mano, quando l'hanno trovato. Era come se ci si fosse aggrappato, quando Sebastian... quando Sebastian... — S'interruppe. Lo sforzo che stava facendo per non piangere era visibile: la bocca era una smorfia, sghemba e come fuori asse. — Avrei dovuto essere là a proteggerlo, perché si potesse aggrappare a me, non a uno stupido giocattolo di legno. — Lo scagliò sul letto, con gli occhi lucidi. — Avevi perso i sensi — protestò Simon. — Hai rischiato di morire, Izzy. Non c'era niente che tu potessi fare. Isabelle scosse la testa e i capelli aggrovigliati le danzarono sulle spalle. Era feroce e selvaggia. — E tu che ne sai? — gli chiese. — Tu sai che Max era venuto da noi, la notte in cui è morto, per dirci che aveva visto qualcuno arrampicarsi sulle torri antidemoni? E io gli avevo detto che era stato un sogno e l'avevo mandato via. E invece aveva ragione. Scommetto che era quel bastardo di Sebastian, che si stava arrampicando sulle torri per neutralizzare le difese. E Sebastian l'ha ucciso perché non dicesse a nessuno che cosa aveva visto. Se solo l'avessi ascoltato... Se solo mi fossi presa un secondo per ascoltarlo, non sarebbe mai successo. — Non potevi saperlo — replicò Simon. — E per quel che riguarda Sebastian... non era il cugino dei Penhallow. Ha preso in giro tutti. Isabelle non sembrò sorpresa. — Lo so — disse. — Ho sentito quando lo raccontavi ad Alec e a Jace. Stavo ascoltando dalle scale. — Stavi origliando? Isabelle scrollò le spalle. — Fino alla parte in cui dicevi che volevi parlare con me. Allora sono tornata qui. Non mi andava di vederti. — Lo guardò di traverso. — Devo rendertene atto, però, tu non molli mai. — Senti, Isabelle. — Simon fece un passo avanti. Diventò stranamente, improvvisamente consapevole di quanto fosse poco vestita, per cui evitò di metterle una mano sulla spalla o di fare qualsiasi altro gesto tranquillizzante. — Quando mio padre morì, sapevo che non era colpa mia, ma continuavo a pensare a tutte le cose che avrei dovuto fare o dire prima che morisse. — Sì, be', ma questa è colpa mia — replicò Isabelle. — E quello che io avrei dovuto fare era ascoltare. E quello che ancora posso fare è ritrovare quel bastardo che ha fatto questo e ucciderlo. — Non sono sicuro che servirebbe... — Come fai a dirlo? — gli chiese Isabelle. — Hai trovato il responsabile della morte di tuo padre e l'hai ucciso? — Mio padre ha avuto un attacco di cuore — spiegò Simon. — Quindi, no. — Quindi non sai di cosa stai parlando, giusto? — Isabelle sollevò il mento e lo guardò dritto in faccia. — Vieni qui. — Cosa? Gli fece cenno di avvicinarsi con l'indice, imperiosamente. — Vieni qui, Simon. Con riluttanza, Simon le si avvicinò. Quando fu abbastanza vicino, Isabelle lo prese per la camicia e lo tirò giù verso di sé. I loro volti erano a pochi centimetri di distanza: Simon notò che la pelle sotto gli occhi di Isabelle era ancora umida e lucida per le lacrime recenti. — Sai di cosa ho veramente bisogno in questo preciso momento? — gli disse, scandendo bene le parole. — Uhm — fece Simon. — No... — Di distrazione — rispose Isabelle. E con un mezzo giro del busto lo tirò di peso accanto a sé. Simon cadde sul letto di sulla schiena, in mezzo a un mucchio di vestiti messi alla rinfusa. — Isabelle — protestò debolmente. — Pensi davvero che questo possa farti sentire meglio? — Fidati — ribatté lei, mettendogli una mano sul petto, sul suo cuore immobile. — Mi sento già meglio. Clary era distesa nel letto, sveglia, con gli occhi fissi su un raggio di luna che disegnava il suo percorso sul soffitto. Aveva i nervi ancora troppo tesi per gli eventi della giornata e non riusciva a dormire. Non l'aiutava il fatto che Simon non fosse rientrato per la cena, né dopo cena. Alla fine aveva espresso le sue preoccupazioni a Luke, che si era infilato il cappotto e aveva fatto un salto dai Lightwood. Era tornato visibilmente divertito. — Simon sta bene, Clary — le aveva detto. — Va' pure a letto. — E poi era uscito di nuovo, con Amatis, per un'altra delle loro interminabili riunioni nella Sala degli Accordi. Chissà, si chiese Clary, se qualcuno aveva lavato via il sangue dell'Inquisitore. Non avendo nient'altro da fare, Clary era andata a letto, ma il sonno continuava ostinatamente a sfuggirle. Non faceva che rivedere Valentine che strappava il cuore ad Aldertree. E il modo in cui si era rivolto a lei e le aveva detto: Se sapessi tutto, terresti la bocca chiusa. Per il bene di tuo fratello, se non per il tuo. Come se non bastasse, i segreti che aveva appreso da Ithuriel le pesavano sul petto come un macigno. E sotto tutte quelle ansie c'era la paura, costante come il battito del cuore, che sua madre morisse. Dov'era Magnus? Ci fu un fruscio vicino alle tende e un'improvvisa ondata di luce lunare si riversò nella stanza. Clary balzò a sedere sul letto, cercando subito la spada angelica che teneva sul comodino. — Va tutto bene. — Una mano si posò sulle sue; una mano sottile, segnata da cicatrici, familiare. — Sono io. Clary trasalì e lui ritrasse la mano! — Jace — esclamò. — Che ci fai, qui? Cos'è successo? Per un momento Jace non rispose e Clary si girò per guardarlo, raccogliendo le lenzuola intorno a sé. Si sentì arrossire, per il disagio di indossare solo i pantaloni del pigiama e una canottiera leggera. Ma poi vide la sua espressione e l'imbarazzo svanì. — Jace? — sussurrò. Era accanto al letto, e indossava ancora gli abiti da lutto. E non c'era niente di leggero, sarcastico o distaccato nel modo in cui la stava guardando. Era pallidissimo e i suoi occhi sembravano spiritati, quasi neri per la tensione. — Stai bene? — Non lo so — rispose con il tono confuso di chi si è appena risvegliato da un sogno. — Non volevo venire qui. Ho girato per tutta la notte, non riuscivo a dormire... e continuavo a ritrovarmi qui. Da te. Clary si raddrizzò sul letto e lasciò cadere le lenzuola intorno ai fianchi. — Perché non riuscivi a dormire? È successo qualcosa? — gli chiese, sentendosi subito molto stupida. Che cosa non era successo? Jace, tuttavia, sembrò a malapena aver sentito la domanda. — Dovevo vederti — disse, più a se stesso che a lei. — So che non è giusto. Ma dovevo farlo. — Be', siediti, allora — lo invitò Clary, spostando le gambe per fagli posto sul bordo del letto. — Perché così mi fai paura. Sei sicuro che non sia successo niente? — Non ho detto questo. — Jace si sedette, rivolto verso di lei. Era così vicino che Clary avrebbe potuto piegarsi in avanti e dargli un bacio. Le si strinse il petto. — Ci sono brutte novità? È tutto... stanno tutti... — Non brutte — disse Jace. — E neanche novità. Anzi, il contrario di novità. È una cosa che ho sempre saputo e... probabilmente la sai anche tu. Dio sa se non ho nascosto tutto per bene. — I suoi occhi scrutavano il volto di Clary, come se volesse mandarlo a memoria. — Quello che è successo — le disse, esitando — è che ho capito una cosa. — Jace — sussurrò Clary. Per nessuna ragione apparente, aveva paura di quello che lui stava per dire. — Jace, non devi... — Volevo andare... in un posto — proseguì lui — ma continuavo a sentirmi trascinato qui. Non riuscivo a smettere di camminare, non riuscivo a smettere di pensare. Alla prima volta che ti ho visto e a come, da quella volta, non sono più riuscito a dimenticarti. Ho cercato, ma non ci sono riuscito. Ho fatto in modo che Hodge mi mandasse a prenderti per portarti all'Istituto. E anche allora, in quello stupido caffè, quando ti ho visto sul divanetto con Simon, sentivo che c'era qualcosa di sbagliato: dovevo esserci io con te, su quel divanetto. Dovevo essere io quello che ti faceva ridere così. Non riuscivo a liberarmi da quella sensazione. Che dovevo essere io. E più ti conoscevo, più lo sentivo. Non mi era mai successo prima. Prima succedeva che desideravo una ragazza e poi la conoscevo e poi non la desideravo più. Ma con te la sensazione era sempre più forte, fino alla notte in cui sei arrivata a Renwick e ho capito. «E poi scoprire il motivo per cui mi sentivo così, come se tu fossi una parte di me che avevo perduto e di cui non sapevo nemmeno di sentire la mancanza, finché non ti ho rivisto. Scoprire che era perché tu eri mia sorella mi parve davvero una specie di scherzo cosmico. Come se Dio mi stesse sputando in testa. Non so nemmeno io per cosa, forse per aver pensato che potevo averti, e meritare una cosa bella come te, ed essere felice. Non riuscivo a immaginare cosa potevo aver fatto per essere punito in questo modo. — Se tu sei stato punito — disse Clary — sono stata punita anch'io. Perché tutte le cose che tu sentivi le sentivo anch'io. Ma non possiamo... Dobbiamo smettere di sentirci così, perché è la nostra unica possibilità. Le mani di Jace erano strette ai suoi fianchi. — La nostra unica possibilità per cosa? — Per poter continuare a vederci. Perché altrimenti non potremo più stare vicini, nemmeno nella stessa stanza. E io non potrei sopportarlo. Preferisco averti nella mia vita anche solo come un fratello, piuttosto che non averti affatto. — E io dovrei starmene seduto a guardare mentre tu esci con altri ragazzi e t'innamori di qualcun altro e ti sposi...? — Gli si indurì la voce. — E nel frattempo, guardando te, morirei un po' ogni giorno. — No. Per allora non te ne importerà più nulla — replicò Clary. Ma si chiese, mentre parlava, se lei avrebbe potuto sopportare l'idea di un Jace a cui non importava. Non aveva mai pensato così in là nel tempo. Quando cercò di immaginare se stessa che guardava Jace che si innamorava di un'altra e la sposava, non riuscì nemmeno a figurarselo, non vide niente se non un tunnel nero e vuoto, davanti a lei, che si allungava all'infinito. — Ti prego. Se non diciamo niente... se fingiamo... — E impossibile fingere — disse Jace con assoluta chiarezza. — Io ti amo e ti amerò fino alla morte e, se c'è una vita dopo la morte, ti amerò anche allora. Clary trattenne il respiro. Le aveva dette. Le parole da cui non si tornava indietro. Cercò disperatamente qualcosa da dire, ma non le venne niente. — E so che pensi che io voglia stare con te solo per... per dimostrare a me stesso che razza di mostro sono — aggiunse Jace. — E forse sono davvero un mostro. Non so rispondere. Ma quello che so è che, se c'è sangue di demone in me, c'è anche sangue umano. E non potrei amarti come ti amo, se non fossi almeno un po' umano. Perché i demoni vogliono. Ma non amano. Io invece... Jace si alzò, mosso da una sorta di furia improvvisa, e si avvicinò alla finestra. Sembrava smarrito smarrito come lo era stato nella Sala degli Accordi, davanti al corpo di Max. — Jace? — Quando lui non rispose Clary, allarmata, si alzò, lo raggiunse e gli posò una mano sulla spalla. Jace continuò a guardare fuori dalla finestra. I loro riflessi nel vetro erano quasi trasparenti, i fantasmi di un ragazzo alto e di una ragazza più piccola, con la mano stretta ansiosamente sulla manica di lui. — Che cosa succede? — Non avrei dovuto parlarti così — ribatté Jace senza guardarla. — Mi dispiace. Probabilmente è troppo da assorbire tutto insieme. Sembravi... sconvolta. — La tensione che si percepiva nella sua voce era come elettricità. — Lo ero — confermò Clary. — Ho passato questi ultimi giorni a chiedermi se mi odiavi. E quando ti ho visto stasera ero quasi sicuro di sì. — Odiarti? — le fece eco Jace, stupefatto. Le sfiorò il viso con delicatezza, solo con la punta delle dita. — Ti ho detto che non riuscivo a dormire. Domani a mezzanotte, o saremo in guerra o saremo servi di Valentine. Questa potrebbe essere l'ultima notte della nostra vita, sicuramente l'ultima notte normale, anche se solo vagamente. L'ultima notte in cui andremo a dormire e ci sveglieremo come sempre. E tutto quello che riesco a pensare, è che voglio passarla con te. Il cuore di Clary fece una capriola. — Jace... — Non in quel senso — precisò subito lui. — Non ti toccherò nemmeno con un dito, se non vuoi. So che è sbagliato... Dio, è tutto così sbagliato... Ma voglio solo sdraiarmi con te e svegliarmi con te, una volta sola, una volta sola nella vita. — C'era disperazione nella sua voce. — È solo questa notte. Nel grande schema della vita, quanto può contare una notte? Pensa a come ci sentiremo domattina. Pensa a quanto sarà più difficile fingere che non c'importa niente l'uno dell'altra davanti a tutti, dopo che avremo passato la notte insieme, anche se sarà solo per dormire. Sarà come assaggiare una droga: ci farà solo desiderare di averne ancora. Ma era per questo che Jace le aveva detto tutto ciò, capì Clary. Perché non era così, non per lui: non c'era niente che potesse peggiorare ancora le cose, come non c'era niente che potesse migliorarle. Quello che sentiva Jace era definitivo come una condanna all'ergastolo. E lei? Poteva forse dire che era molto diverso, per lei? E anche se sperava che potesse essere diverso, anche se sperava di potersi un giorno convincere, con il tempo o con la ragione, o per progressivo logoramento, di non provare più quei sentimenti, non importava. Non c'era niente che avesse mai desiderato nella vita più di quella notte insieme a Jace. — Allora chiudi le tende, prima di venire a letto — gli disse. — Non riesco a dormire con tutta questa luce nella stanza. L'espressione che pervase il viso di Jace era di pura incredulità. Non si era aspettato di ricevere un sì, si rese conto Clary con sorpresa. Un attimo dopo Jace la prese e la strinse in un abbraccio, affondando il volto nei suoi capelli ancora arruffati dal sonno. — Clary... — Vieni a letto — gli disse dolcemente. — È tardi. — Si staccò da lui e tornò verso il letto, vi sgattaiolò dentro e tirò su le lenzuola fino alla vita. Viste così le cose, Clary riusciva quasi a immaginare che fossero diverse, che fossero già passati molti anni, che loro due fossero insieme da tanto tempo e avessero ripetuto mille volte gesti come quelli, che ogni notte appartenesse a loro. Appoggiò il mento alle mani e lo guardò: Jace chiuse le tende, poi si tolse la giacca bianca e l'appese allo schienale della sedia. Sotto aveva una maglietta grigio chiaro e i marchi scuri che s'intrecciavano sulle braccia nude brillarono, mentre si sganciava la cintura e l'appoggiava a terra con tutte le armi. Si slacciò gli stivali e se li sfilò avvicinandosi al letto. Si distese con cautela vicino a Clary. Sdraiato sulla schiena, girò la testa verso di lei. Dai bordi delle tende filtrava nella stanza un filo di luce, appena sufficiente a Clary per distinguere il profilo del suo viso e il bagliore dei suoi occhi. — Buona notte, Clary — le disse. Jace teneva le braccia lungo i fianchi, le mani aperte. Sembrava quasi che non respirasse. Del resto, anche Clary non era sicura di respirare. Fece scivolare una mano sulle lenzuola fino a sfiorare le sue dita, così leggermente che, se accanto a lei ci fosse stato un altro, forse non se ne sarebbe neanche accorta. Ma ora le terminazioni nervose delle dita fremettero dolcemente, come se la sua mano fosse sopra una fiamma. Sentì Jace entrare in tensione, poi rilassarsi. Aveva chiuso gli occhi e le ciglia proiettavano delle belle ombre sulla linea degli zigomi. La bocca si curvò in un sorriso, come se percepisse lo sguardo di Clary. Clary immaginò come sarebbe stato Jace la mattina dopo, al risveglio, coi capelli arruffati e gli occhi pieni di sonno. Nonostante tutto, il pensiero le diede una scossa di felicità. Intrecciò le dita alle sue. — Buonanotte — gli sussurrò. Tenendolo per mano, come i bambini delle favole, Clary si addormentò al suo fianco, nel buio. capitolo 15 TUTTO CROLLA Luke aveva passato gran parte della notte a guardare la luna, che attraversava il tetto trasparente della Sala degli Accordi come una moneta d'argento che rotolasse sulla superficie di un tavolo di cristallo. Quando era quasi piena, come quella notte, anche se era in forma umana Luke sentiva acuirsi il senso della vista e dell'olfatto. In quel momento, per esempio, percepiva nella stanza il sudore del dubbio e, sotto, quello più pungente della paura. Percepiva l'inquieta preoccupazione del suo branco, nella foresta di Brocelind: i lupi aspettavano notizie da lui, camminando incessantemente nel buio tra gli alberi. — Lucian! — La voce di Amatis al suo orecchio era bassa ma penetrante. — Lucian! Strappato dai suoi sogni a occhi aperti, Luke si sforzò di mettere a fuoco la scena davanti a sé con gli occhi esausti. Era un gruppetto disomogeneo, quello che aveva almeno accettato di ascoltare il suo piano, formato da meno persone di quelle che aveva sperato. Molti li conosceva dalla sua vecchia vita a Idris - i Penhallow, i Lightwood, i Ravenscar - e altrettanti li aveva conosciuti da poco, come i Monteverde, che gestivano l'Istituto di Lisbona e parlavano un misto di portoghese e inglese, o Nasreen Chaudhury, severa direttrice dell'Istituto di Mumbai. Il suo sari verde scuro era decorato da un complesso motivo di rune d'argento così luminose che, d'istinto, Luke si ritrasse passandole accanto. — Insomma, Lucian! — stava dicendo Maryse Lightwood. Il volto piccolo e bianco era segnato dallo sfinimento e dal dolore. Luke non si aspettava che lei e suo marito venissero, invece avevano accettato non appena lui glielo aveva proposto. Immaginava di dover essere grato per la loro presenza, anche se il dolore portava Maryse a essere più aspra del solito. — Sei tu che ci hai voluti tutti qui. Il meno che puoi fare, è prestarci attenzione. — Lo sta facendo. — Amatis era seduta con le gambe raccolte sotto di sé, come una ragazzina, ma la sua espressione era ferma. — Non è colpa di Lucian se continuiamo a girare intorno alle stesse cose da un'ora. — E continueremo a girarci intorno finché non avremo trovato una soluzione — disse Patrick Penhallow, con un punta di tensione nella voce. — Con tutto il rispetto, Patrick — intervenne Nasreen con il suo accento smozzicato — ma potrebbe non esserci una soluzione. La cosa migliore in cui possiamo sperare è un piano. — Un piano che non comporti né la schiavitù di massa né... — cominciò Jia, la moglie di Patrick, ma si interruppe, mordendosi il labbro. Era una bella donna, snella, molto somigliante a sua figlia Aline. Luke ricordava quando Patrick era scappato all'Istituto di Pechino e l'aveva sposata. Era stato una specie di scandalo, perché Patrick avrebbe dovuto sposare una ragazza che i suoi genitori avevano scelto per lui, a Idris. Ma a lui non era mai piaciuto fare quello che gli ordinavano gli altri, qualità di cui ora Luke gli era grato. — Né un'alleanza con i Nascosti? — concluse Luke per lei. — Temo che non ci sia modo di evitarlo. — Non è questo il problema e lo sai — intervenne Maryse. — È la questione dei seggi al Consiglio. Il Conclave non accetterà mai. Ben quattro seggi... — Non quattro — la corresse Luke. — Uno per il Popolo Fatato, uno per i Figli della Luna e uno per i Figli di Lilith. — Le fate, i licantropi, gli stregoni — disse a voce bassa il senhor Monteverde, inarcando le sopracciglia. — E i vampiri? — Non mi hanno ancora promesso niente — ammise Luke. — E anch'io non ho promesso niente a loro. Non muoiono dalla voglia di entrare a far parte del Consiglio: non sono molto amanti della mia razza, né delle assemblee e delle regole. Ma la porta è aperta anche per loro, se dovessero cambiare idea. — Malachi e i suoi non accetteranno mai. E senza il loro appoggio, non avremo abbastanza voti in Consiglio — mormorò Patrick. — E poi, senza i vampiri che possibilità abbiamo? — Delle buone possibilità — ribatté secca Amatis, che sembrava credere nel piano di Luke più di lui. — Ci sono molti Nascosti pronti a combattere con noi e sono molto potenti. Basta pensare agli stregoni. Scuotendo la testa, la senhora Monteverde si rivolse al marito. — Questo piano è una follia. Non funzionerà mai. I Nascosti non sono affidabili. — Ha funzionato, durante la Rivolta — osservò Luke. La portoghese arricciò le labbra. — Solo perché Valen-tine aveva degli idioti nel suo esercito — disse. — E come facciamo a sapere che i vecchi membri del Circolo non si rimetteranno con lui, quando li chiamerà a combattere al suo fianco? — Attenta a quello che dici, senhora — esclamò Robert Lightwood. Era la prima volta che apriva bocca, da più di un'ora. Era rimasto fermo quasi tutta la sera, immobilizzato dal dolore. Il suo volto era solcato da rughe profonde che tre giorni prima non c'erano, Luke era pronto a giurarci. Il suo tormento era evidente nelle spalle contratte e nei pugni chiusi. Luke non poteva certo criticarlo per questo. Robert non gli era mai piaciuto molto, ma c'era qualcosa di profondamente toccante nel vedere un uomo così grande e grosso annientato dal dolore. — Se credi che potrei unirmi a Valentine dopo la morte di Max... È stato lui a far assassinare il mio bambino... — Robert — mormorò Maryse posandogli una mano sul braccio. — Se non ci uniamo a lui — replicò il senhor Monteverde — tutti i nostri figli potrebbero morire. — Se lo pensi davvero, perché sei qui? — Amatis si alzò in piedi. — Mi pareva che fossimo d'accordo. Anche a me. Luke aveva mal di testa. Era sempre così, con loro, pensò: due passi avanti e uno indietro. Erano tremendi come le guerre tra i Nascosti. Se solo si fossero visti! Forse sarebbe stato meglio per tutti risolvere i problemi con un corpo a corpo, come faceva il suo branco. Un movimento fulmineo alle porte della Sala degli Accordi attirò la sua attenzione. Fu un attimo e, se non fosse stato per la luce della luna piena, forse non l'avrebbe colto e non avrebbe riconosciuto la figura che stava passando rapidamente davanti alle porte. Si chiese per un momento se fosse frutto della sua immaginazione. Qualche volta, quando era molto stanco, gli pareva di vedere Jocelyn, nel guizzo di un'ombra, di un gioco di luce su un muro. Ma questa volta non era Jocelyn. Luke si alzò in piedi. — Mi prendo cinque minuti. Ho bisogno di un po' d'aria fresca. Torno subito. — Sentì i loro sguardi che lo seguivano mentre si avvicinava alle porte: di tutti, anche di Amatis. Il senhor Monteverde sussurrò qualcosa a sua moglie in portoghese. Luke colse lobo, "lupo", nel flusso di parole. Penseranno che vado fuori per correre in cerchio e ululare alla luna. Fuori, l'aria era fresca e pulita, il cielo era grigio ardesia. L'alba arrossava il cielo a est e dava un riflesso rosa pallido ai gradini di marmo bianco che scendevano dalla porta della Sala degli Accordi. Jace lo stava aspettando, a metà scalinata. Gli abiti bianchi da lutto che indossava colpirono Luke come uno schiaffo in pieno viso: il ricordo di tutte le perdite che avevano subito e di quelle che avrebbero dovuto subire. Luke si fermò diversi gradini più in su. — Che ci fai qui, Jonathan? Jace non disse niente e Luke si rimproverò mentalmente per la sua sbadataggine: a Jace non piaceva essere chiamato Jonathan e di solito reagiva con una risposta piccata. Questa volta, però, non sembrò curarsene. Il volto che levò verso Luke era cupo come quello di tutti gli adulti riuniti nella sala. Anche se gli mancava ancora un anno per diventare adulto secondo la Legge del Conclave, nella sua breve vita Jace aveva già visto cose peggiori di quelle che la maggior parte degli adulti avrebbe potuto solo immaginare. — Cercavi i tuoi genitori? — Vuoi dire i Lightwood? — Jace scosse la testa. — No. Non voglio parlare con loro. Stavo cercando te. — È per Clary? — Luke scese la scalinata e si fermò un gradino sopra quello di Jace. — Sta bene? — Sta bene. — Nominare Clary mise in tensione Jace e questo creò tensione anche in Luke. Ma Jace non avrebbe mai detto che Clary stava bene, se non fosse stato vero. — Allora cosa c'è? Jace guardò verso le porte della sala. — Come sta andando, là dentro? Progressi? — Non esattamente — ammise Luke. — Anche se non vogliono arrendersi a Valentine, l'idea di avere dei Nascosti in Consiglio piace ancora meno. E senza la promessa di un seggio, la mia gente non combatterà. Gli occhi di Jace brillarono. — Per il Conclave sarà una proposta inaccettabile. — Non devono esserne felici. Devono solo preferirla all'idea di un suicidio in massa. — Non riusciranno mai a mettersi d'accordo — osservò Jace. — Se fossi in te, gli darei una scadenza. Il Conclave lavora meglio, se ha delle scadenze da rispettare. Luke non potè trattenere un sorriso. — Tutti i Nascosti che riuscirò a radunare si raccoglieranno alla Porta Settentrionale all'imbrunire. Se il Conclave avrà accettato di combattere con loro, entreranno in città. Altrimenti se ne andranno. Non ho potuto dare più tempo di così. Dopo, ci resterà solo il tempo di arrivare a Brocelind per mezzanotte. Jace fischiò. — Molto teatrale. Speri che la vista di tutti quei Nascosti ispiri il Conclave, o che li spaventi? — Forse un po' tutte e due le cose. Molti membri del Conclave sono associati agli Istituti, come voi: sono già abituati alla vista dei Nascosti. Sono i nativi di Idris che mi preoccupano. La vista dei Nascosti alle porte della loro città potrebbe gettarli nel panico. D'altro canto, non sarà un male che ricordino quanto sono vulnerabili. Lo sguardo di Jace corse alle rovine della Guardia, una nera cicatrice sulla collina sopra la città. — Non credo che ci sia bisogno di altri promemoria. — Tornò a guardare Luke, con gli occhi limpidi molto seri. — Voglio dirti una cosa e voglio che sia confidenziale. Luke non potè nascondere la sorpresa. — Perché a me? Perché non ai Lightwood? — Perché sei tu il capo qui, adesso. E lo sai. Luke esitò. Qualcosa nel volto bianco e stanco di Jace suscitava la sua solidarietà, pur nell'infinita stanchezza: solidarietà e desiderio di dimostrare a quel ragazzo, che per tutta la vita era stato tradito e maltrattato dagli adulti, che non tutti gli adulti erano uguali, che ce n'erano alcuni di cui si poteva fidare. — Va bene. — E anche perché — aggiunse Jace — sono sicuro che saprai come spiegarlo a Clary. — Spiegarle cosa? — Perché ho dovuto farlo. — Gli occhi di Jace erano grandi, nella luce del sole nascente: lo facevano sembrare molto più giovane. — Vado a cercare Sebastian, Luke. So come trovarlo e voglio seguirlo finché non mi porterà da Valentine. Luke espirò di colpo, sorpreso. — Tu sai come trovarlo! — Magnus mi ha insegnato a usare un incantesimo di localizzazione, quando ero da lui a Brooklyn. Usammo l'anello di mio padre, per rintracciarlo, ma quella volta non funzionò. Però... — Tu non sei uno stregone, non sei in grado di fare gli incantesimi di localizzazione. — Ci sono delle rune, come quelle che ha usato l'Inquisitrice per scoprire che ero andato da Valentine sulla nave. Ma, per farle funzionare, mi serviva qualcosa che appartiene a Sebastian. — Ne avevamo giù discusso coi Penhallow. Sebastian non ha lasciato niente. La sua stanza è stata svuotata di tutto, probabilmente proprio per questa ragione. — Io ho trovato qualcosa — rivelò Jace. — Un filo intriso del suo sangue. Non è molto, ma è abbastanza. Ho provato e ha funzionato. — Non puoi correre dietro a Valentine da solo, Jace. Non te lo posso permettere. — Non puoi impedirmelo. A meno che tu non voglia combattere con me qui, su questi gradini. Ma non vincerai. E lo sai quanto me. — C'era una strana nota nella voce di Jace, un misto di certezza e disprezzo di sé. — Senti, per quanto tu possa essere determinato a fare la parte dell'eroe solitario... — Io non sono un eroe — ribatté Jace. La sua voce era chiara e uniforme, come se stesse ribadendo la più semplice delle verità. — Pensa alle conseguenze che avrebbe sui Lightwood, anche se non ti succedesse niente. Pensa a Clary... — Credi che non ci abbia pensato, a Clary? Credi che non abbia pensato alla mia famiglia? Perché credi che stia facendo tutto questo? — Pensi che abbia dimenticato com'è, avere diciassette anni? — replicò Luke. — Pensare di avere il potere di salvare il mondo... e non solo il potere, ma anche la responsabilità... — Guardami — disse Jace. — Guardami e dimmi che sono un diciassettenne qualunque. Luke sospirò. — Non c'è niente di qualunque in te. — E adesso dimmi che è impossibile. Dimmi che quello che sto proponendo non è fattibile. — Luke non disse nulla e Jace proseguì. — Senti, il tuo è un buon piano, pur con tutti i suoi limiti. Portare qui i Nascosti e combattere contro Valentine fino alle porte di Alicante. È sempre meglio che restare fermi e permettergli di calpestarci. Ma Valentine se lo aspetterà. Non lo coglierete di sorpresa. Io... io invece potrei coglierlo di sorpresa. Potrebbe non sospettare che Sebastian è pedinato. Se non altro, è una possibilità in più. E noi dobbiamo sfruttare tutte le possibilità che abbiamo. — Potrebbe essere vero — ammise Luke. — Ma è volere troppo da una persona sola. Anche da uno come te. — Ma non capisci? Solo io posso — esclamò Jace con un filo di disperazione nella voce. — Anche se Valentine capisse che lo sto seguendo, potrebbe farmi avvicinare abbastanza per... — Abbastanza per cosa? — Per ucciderlo — rispose Jace. — Che altro? Luke guardò il ragazzo in piedi sulle scale, un gradino più in basso del suo. Avrebbe voluto essergli più vicino, vedere in lui Jocelyn come la vedeva in Clary. Ma Jace era sempre e solo se stesso: chiuso, isolato, separato. — Lo faresti? — gli chiese. — Avresti la forza di uccidere tuo padre? — Sì — rispose Jace, con una voce lontana come un'eco. — E adesso viene la parte in cui mi dici che non posso ucciderlo perché, dopotutto, è pur sempre mio padre, e il parricidio è un crimine imperdonabile? — No. Adesso viene la parte in cui ti dico che devi essere molto sicuro di esserne capace — disse Luke, e con sorpresa si rese conto che una parte di lui aveva già accettato l'idea che Jace facesse ciò che aveva detto di voler fare. E Luke lo avrebbe lasciato fare. — Perché non puoi fare tutto questo, tagliare tutti i legami che hai qui e andare a caccia di Valentine da solo, per poi fermarti all'ultimo ostacolo. — Lo so — disse Jace. — E ne sono capace. — Distolse lo sguardo da Luke e lo spostò sulla piazza che la mattina precedente era una distesa di corpi. — E stato mio padre a fare di me ciò che sono. E io lo odio per questo. Io posso ucciderlo. È stato lui a fare in modo che fosse così. Luke scosse la testa. — Nonostante il modo in cui sei stato cresciuto, Jace, tu ti sei ribellato. Valentine non ti ha corrotto. — No — ribatté Jace. — Non ce n'è stato bisogno. — Alzò gli occhi al cielo, striato di grigio e di azzurro: gli uccelli avevano iniziato il loro canto mattutino tra gli alberi che coronavano la piazza. — È meglio che vada. — C'è qualcosa che vuoi che dica ai Lightwood? — No, non dirgli niente. Se la prenderebbero con te, se scoprissero che sei al corrente delle mie intenzioni e che mi hai lasciato andare. Ho scritto dei biglietti — aggiunse. — Capiranno. — Allora perché... — Perché ti ho detto tutto questo? Perché voglio che tu lo sappia. Voglio che te ne ricordi, mentre fai i tuoi piani di battaglia. Ci sono anch'io, là fuori, a cercare Valentine. se lo troverò, ti manderò un messaggio. — Fece un rapido sorriso. — Considerami un piano di riserva. Luke prese la mano del ragazzo. — Se tuo padre non fosse ciò che è — gli disse — sarebbe orgoglioso di te. Jace sembrò sorpreso, arrossì repentinamente e ritrasse la mano. — Se tu sapessi... — iniziò. Si morse il labbro. — Non importa. Buona fortuna a te, Lucian Graymark. Ave atque vale. — Speriamo che non sia un vero addio — mormorò Luke. Il sole ora saliva velocemente nel cielo e, quando Jace sollevò la testa, aggrottando la fronte per l'improvvisa intensità della luce, qualcosa nella sua espressione colpì Luke: qualcosa, in quel misto di vulnerabilità e caparbio orgoglio. — Mi ricordi una persona — gli disse senza pensare. — Una persona che conoscevo anni fa. — Lo so — disse Jace con una smorfia amara sulle labbra. — Ti ricordo Valentine. — No — replicò Luke con voce assorta. Ma quando Jace si voltò, la somiglianza svanì, scacciando i fantasmi del ricordo. — No... non stavo pensando a Valentine. Nel momento stesso in cui Clary si svegliò, prima ancora di aprire gli occhi, capì subito che Jace non c'era più. La sua mano, ancora tesa sul letto, era vuota: non c'erano più altre dita che ricambiavano la pressione delle sue. Si mise lentamente a sedere, con una stretta al petto. Jace doveva aver chiuso le tende prima di andarsene, perché le finestre erano aperte e brillanti fasci di luce filtravano tra le fessure del tessuto e rigavano il letto. Clary si chiese perché la luce non l'avesse svegliata. Dalla posizione del sole, doveva essere già pomeriggio. Si sentiva la testa pesante, intontita, gli occhi appannati. Forse era perché quella notte non aveva avuto incubi, per la prima volta da tanto tempo, e il corpo stava recuperando il sonno perso. Solo quando si alzò notò sul comodino un foglietto ripiegato. Lo prese con un sorriso che le aleggiava sulle labbra: Jace le aveva lasciato un biglietto! Quando qualcosa di pesante scivolò da sotto la carta e cadde a terra, fu così sorpresa che fece un salto indietro, pensando che fosse qualcosa di vivo. Vide sul pavimento una spira di metallo luminoso. Capì cos'era prima ancora di chinarsi a raccoglierlo: la catenina con l'anello d'argento che Jace portava al collo. L'anello della sua famiglia. Rare volte lo aveva visto senza. E un'improvvisa sensazione di paura la travolse. Aprì il biglietto e lesse attentamente le prime righe: Nonostante tutto, non sopporto il pensiero che questo anello vada perso per sempre, come non sopporto il pensiero di lasciare te per sempre. E se per una cosa non ho scelta, almeno per l'altra posso scegliere. Il resto della lettera sembrò sciogliersi in un'accozzaglia di parole prive di senso. Clary dovette rileggerla molte volte, per capirci qualcosa. Quando finalmente comprese, rimase immobile, lo sguardo fisso sul foglio che fremeva al tremore della sua mano. Ora capiva perché Jace le aveva detto quelle cose e perché non importava se era una sola notte. Potevi dire qualsiasi cosa, a qualcuno che pensavi di non rivedere mai più. Non le rimase alcun ricordo, in seguito, di come o quando avesse deciso cosa fare, né di aver cercato qualcosa da indossare. In un modo o nell'altro si trovò a correre giù per le scale, con la tenuta da Cacciatrice, la lettera in mano e la catenina con l'anello frettolosamente infilata al collo. Il salotto era deserto, il fuoco nel caminetto spento e restava solo cenere grigia, ma dalla cucina venivano luce e rumore: un chiacchiericcio di voci e il profumo di qualcosa che cuoceva sul fuoco. Pancakes per colazione?, pensò Clary sorpresa. Non avrebbe mai pensato che Amatis fosse capace di farli. E aveva ragione. Quando entrò in cucina, Clary sgranò gli occhi: c'era Isabelle ai fornelli, i lucidi capelli scuri raccolti in un nodo sulla nuca, un grembiule legato alla cintura e un cucchiaio in mano. Simon era seduto sul tavolo alle sue spalle, i piedi appoggiati a una sedia. E Amatis, invece di dirgli di togliere i piedi dai suoi mobili, era appoggiata al ripiano della cucina con un'aria sommamente divertita. Isabelle agitò il cucchiaio in segno di saluto. — Buongiorno — disse a Clary. — Vuoi fare colazione? Anche se credo che sia più l'ora di pranzo. Senza parole, Clary guardò Amatis, che strinse le spalle. — Sono capitati qui e hanno voluto preparare la colazione — disse. — Tanto io non sono una brava cuoca. Clary ripensò all'orrenda zuppa di Isabelle all'Istituto e represse un brivido. — Dov'è Luke? — Nella foresta di Brocelind con il branco — disse Amatis. — Va tutto bene, Clary? Sembri un po'... — Spiritata — concluse Simon per lei. — Va tutto bene? Per un momento, Clary non riuscì a pensare a una risposta. "Sono capitati qui", aveva detto Amatis. Il che significava che Simon aveva passato la notte con Isabelle. Lo fissò. Non sembrava diverso dal solito. — Sto bene — disse. Quello non era certo il momento di preoccuparsi per la vita sentimentale di Simon. — Devo parlare con Isabelle. — Parla — lo incoraggiò Isabelle, muovendo un oggetto informe sul fondo della padella che, temeva Clary, sarebbe dovuto essere un pancake. — Ti ascolto. — Da sole — precisò Clary. Isabelle si accigliò. — Non puoi aspettare? Ho quasi finito. — No — rispose Clary, e qualcosa nel suo tono di voce mise subito in allerta Simon. — Non posso aspettare. Simon scivolò giù dalla tavola. — Bene. Allora vi lasciamo un po' di privacy — annunciò. Poi, rivolto ad Amatis, disse: — Forse potresti mostrarmi quelle foto di Luke da piccolo. Amatis lanciò un'occhiata preoccupata a Clary, ma seguì Simon nell'altra stanza. — Immagino di sì... Isabelle scosse la testa, quando la porta si chiuse alle loro spalle. Qualcosa le luccicava sulla nuca: un coltello sottile, elegante, infilzato come fermacapelli. Nonostante il quadretto domestico, Isabelle restava pur sempre una Cacciatrice. — Senti — disse a Clary. — Se è per Simon... — Non è per Simon. È per Jace. — Le mise in mano il biglietto. — Leggi questo. Con un sospiro, Isabelle spense il fuoco, prese il biglietto e si sedette a leggerlo. Clary scelse una mela dal cestino sul tavolo e si sedette, mentre Isabelle, di fronte a lei, leggeva in silenzio. Clary mordicchiava la buccia della mela: non riusciva a pensare all'idea di mangiare, né la mela, né altro, mai più. Isabelle alzò gli occhi dal biglietto, con le sopracciglia inarcate. — Sembra un po'... personale. Sei sicura che dovrei leggerlo? Probabilmente no. Clary riusciva a malapena a ricordare le parole della lettera; in qualsiasi altra situazione, non l'avrebbe mai mostrata a Isabelle, ma il panico per Jace superava ogni altro timore. — Tu leggila. Isabelle tornò a concentrarsi sul biglietto. Quand'ebbe finito, lo posò sul tavolo. — Temevo che potesse fare una cosa del genere. — Capisci? Ma non può essere partito da molto e non può essere lontano. — Le parole di Clary inciampavano le une sulle altre. — Dobbiamo inseguirlo e... — S'interruppe, perché la sua mente aveva finalmente elaborato quello che Isabelle aveva appena detto. — Temevi che potesse fare una cosa del genere? In che senso? — Esattamente in quel senso. — Isabelle si spinse dietro l'orecchio una ciocca di capelli. — Da quando Sebastian è sparito, tutti discutono su come trovarlo. Ho messo a soqquadro la sua stanza, dai Penhallow, cercando una qualsiasi cosa utile per rintracciarlo... ma non c'era niente. Avrei dovuto sapere che, se Jace avesse trovato qualcosa di utile per rintracciare Sebastian, sarebbe partito come una freccia. — Si mordicchiò il labbro. — Avrei preferito che portasse Alec con sé. Alee non ne sarà contento. — Quindi pensi che Alec vorrà andarlo a cercare? — chiese Clary, con rinnovata speranza. — Clary. — Isabelle sembrava un filo esasperata. — Come facciamo ad andarlo a cercare? Come facciamo a farci anche solo una vaga idea di dove possa essere andato? — Ma ci deve pur essere un modo... — Potremmo provare a localizzarlo, ma Jace avrà sicuramente trovato un modo per bloccare la localizzazione, proprio come Sebastian. Una gelida rabbia ribollì nel petto di Clary. — Ma tu vuoi trovarlo oppure no? T'importa qualcosa, che sia partito per quella che è praticamente una missione suicida? Non può affrontare Valentine da solo! — Probabilmente no — riconobbe Isabelle. — Ma sono sicura che Jace ha le sue ragioni per... — Per cosa? Per voler morire? — Clary. — Gli occhi di Isabelle si accesero di un'improvvisa fiamma di rabbia. — Tu pensi che noi qui siamo al sicuro? Siamo tutti in attesa della nostra fine: o morti o schiavi. Ce lo vedi, Jace, a fare una cosa del genere? A restare qui seduto ad aspettare che succeda qualcosa di terribile? Ce lo vedi...? — Quello che vedo è che Jace è tuo fratello tanto quanto Max — replicò Clary. — E di quello che è capitato a lui, t'importava. Se ne pentì nel momento stesso in cui lo disse: la faccia di Isabelle sbiancò, come se le parole di Clary avessero prosciugato tutto il colore dalla sua pelle. — Max — rispose Isabelle, con furia controllata — era un bambino, non un guerriero. Aveva nove anni. Jace è un Cacciatore, un soldato. Se combattiamo contro Valentine, credi che Alec non sarà nella battaglia? Credi che noi tutti non siamo pronti, in qualsiasi momento, a morire, se dobbiamo farlo, se la causa è abbastanza importante? Valentine è il padre di Jace,- Jace probabilmente ha più possibilità di tutti noi di avvicinarsi a lui, di fare ciò che deve fare. — Valentine ucciderà Jace, se dovrà — disse Clary. — Non lo risparmierà. — Lo so. — Ma se anche dovesse morire, conta solo che Jace esca di scena dopo essersi coperto di gloria. Non ne sentirai la mancanza? — Sentirò la sua mancanza ogni singolo giorno — replicò Isabelle. — Per il resto della mia vita, che, ammettiamolo, se Jace fallisce, durerà più o meno un'altra settimana. — Scosse la testa. — Tu non capisci, Clary. Tu non capisci com'è vivere sempre in guerra, crescere fra battaglie e sacrifici di ogni genere. Immagino che non sia colpa tua, ma di come sei stata cresciuta. Clary alzò le mani. — Capisco eccome. So che non ti sto simpatica, Isabelle, perché ai tuoi occhi sono solo una mondana. — Tu credi che sia per questo che... — Isabelle s'interruppe. I suoi occhi brillavano non solo di rabbia, ma anche, vide Clary con sorpresa, di lacrime. — Dio, non capisci pro prio niente, vero? Tu conosci Jace, da quanto? Da un mese? Io lo conosco da sette anni. E da quando lo conosco non l'ho mai visto innamorarsi, non l'ho mai visto nemmeno trovare una persona che gli piacesse. Usciva con le ragazze, certo. Le ragazze si innamoravano sempre di lui, ma a lui non importava mai niente. Credo che fosse per questo che Alec pensava... — Isabelle si fermò un momento, perfettamente immobile. Sta cercando di non piangere, pensò Clary meravigliata. Isabelle, che non piangeva mai... — Anche mia madre... Insomma, qual è l'adolescente che non si prende mai una cotta per nessuno? Era sempre come se fosse un po' assente, quando c'erano di mezzo altre persone. Io pensavo che la storia con suo padre avesse provocato danni permanenti in lui, che non riuscisse più ad amare nessuno. Se solo avessi saputo che cosa era veramente successo... Ma anche così, probabilmente avrei pensato la stessa cosa, no? Insomma, chi non avrebbe subito danni da una cosa del genere? «E poi abbiamo incontrato te, ed è stato come se Jace si risvegliasse. Tu non te ne accorgevi, perché non l'avevi mai visto diverso da così. Ma io lo vedevo. Hodge lo vedeva. Alec lo vedeva. Perché credi che Alec ti odiasse tanto? Jace era cambiato dal momento in cui ti aveva incontrato. Tu pensavi che fosse sorprendente il fatto di poterci vedere, e lo era, ma quello che era davvero sorprendente per me era che Jace vedesse te. Non faceva altro che parlare di te, tornando all'Istituto,- poi ha convinto Hodge a mandarlo a cercarti; e quando ti ha riportato qui, non voleva più che te ne andassi. Ogni volta che entravi nella stanza, lui ti guardava. Ed era anche geloso di Simon. Non sono sicura che se ne rendesse conto, ma era così. Io lo capivo. Geloso di un mondano. E poi, dopo quello che è successo a Simon alla festa, è stato pronto ad andare con te all'Hotel Dumort, a infrangere la Legge del Conclave. E tutto per salvare un mondano che non gli stava nemmeno simpatico. L'ha fatto per te. Perché, se fosse successo qualcosa a Simon, tuavresti sofferto. Tu sei stata la prima persona estranea alla sua famiglia della cui felicità si sia mai preoccupato. Perché ti amava.» A Clary sfuggì un singhiozzo soffocato. — Ma tutto questo è stato prima che... — Prima che scoprisse che eri sua sorella. Lo so. E non ti biasimo, per questo. Tu non potevi saperlo. E immagino che non potessi evitare nemmeno di partire in quarta e metterti subito con Simon come se non te ne fosse mai importato niente di lui. Pensavo che Jace, dopo aver scoperto che eri sua sorella, avrebbe lasciato perdere, avrebbe superato la cosa. Ma non è successo, non c'è riuscito. Non so che cosa gli abbia fatto Valentine, quando era bambino. Non so se sia per questo che è diventato così, o se semplicemente è fatto così, ma non gli passerà mai, Clary. Non ce la fa. E io ho cominciato a detestare la tua presenza. E a detestare che Jace si trovasse in tua presenza. E' come una ferita da veleno di demone: devi lasciarla stare e aspettare che guarisca. Ogni volta che togli la benda, non fai altro che riaprire la ferita. Ogni volta che Jace ti vede, è come strappare la benda dalla stessa ferita. — Lo so — sussurrò Clary. — Come credi che sia per me? — Non lo so. Io non riesco a leggere i tuoi sentimenti. Tu non sei mia sorella. Io non ti odio, Clary. Anzi, addirittura mi piaci. Se fosse possibile, non vorrei nessun'altra, per Jace. Ma spero che tu mi possa capire quando dico che, se per miracolo usciremo vivi da questa storia, spero tanto che la mia famiglia si trasferisca in un posto molto lontano da qui, in modo da non doverti rivedere mai più. Le lacrime bruciavano negli occhi di Clary. Era strano: lei e Isabelle sedute a quel tavolo, a piangere per Jace, per ragioni che erano al contempo molto diverse ma anche stranamente simili. — Perché mi dici tutto questo? — Perché mi stai accusando di non voler proteggere Jace. Invece io voglio proteggerlo. Perché, secondo te, mi sono arrabbiata tanto, quando ti sei presentata dai Penhallow? Tu ti comporti come se non fossi parte di tutto questo, del nostro mondo. Resti sempre ai margini. Invece ne sei parte, eccome. Anzi, ne sei al centro. Non puoi fingere per sempre di essere solo una comparsa, Clary, non se sei la figlia di Valentine. Non se Jace sta facendo quello che sta facendo anche per colpa tua. — Anche per colpa mia ? — Perché credi che sia così smanioso di rischiare la vita? Perché credi che non gli importi niente di morire? Le parole di Isabelle penetrarono nelle orecchie di Clary come aghi affilati. Lo so io, il perché, pensò. È perché crede di essere un demone, crede di non essere veramente umano. Ecco perché... Ma non posso dirtelo, non posso dirti l'unica cosa che potrebbe farti capire. — Ha sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in lui — continuò Isabelle. — E adesso, per colpa tua, crede di essere dannato per sempre. Ho sentito che lo diceva ad Alec. Perché uno non dovrebbe rischiare la vita, se non vuole più vivere? Perché non dovrebbe rischiare la vita, se non sarà mai felice, per quanti sforzi possa fare? — Isabelle, basta così. — La porta si era aperta, quasi senza rumore, e sulla soglia c'era Simon. Clary aveva quasi dimenticato quanto si fosse potenziato il suo senso dell'udito. — Non è colpa di Clary. Un rossore si accese sul volto di Isabelle. — Resta fuori da questa storia, Simon. Tu non sai che cosa sta succedendo. Simon entrò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle. — Ho sentito quasi tutto quello che avete detto — annunciò senza tanti giri di parole. — Nonostante il muro. Tu hai detto che non sai che cosa prova Clary perché non la conosci da abbastanza tempo. Be', io sì. Se credi che Jace sia l'unico a soffrire, ti sbagli. Silenzio. La ferocia dell'espressione di Isabelle si stava attenuando. Come in lontananza, a Clary sembrò di sentir bussare alla porta: Luke, probabilmente,- o Maia, con altro sangue per Simon. — Non se n'è andato per colpa mia — disse Clary e il suo cuore cominciò a battere forte. Posso rivelare il segreto di Jace, ora che se n'è andato? Posso rivelare la vera ragione per cui se n'è andato? La vera ragione per cui non gli importa niente di morire? Le parole cominciarono a sgorgarle da dentro, quasi contro la sua volontà. — Quando io e Jace siamo stati alla tenuta di campagna di Wayland, quando siamo andati a cercare il Libro Bianco... Ma s'interruppe, perché la porta della cucina si spalancò. C'era Amatis sulla porta, con la più strana delle espressioni sulla faccia. Per un momento Clary pensò che fosse spaventata e il cuore le balzò in petto. Ma non era paura, quella sul volto di Amatis, non esattamente. Aveva la stessa espressione di quando Clary e Luke si erano presentati alla sua porta. Era come se avesse visto un fantasma. — Clary — disse lentamente. — C'è qualcuno, qui, che vuole vederti... Prima che finisse, quel qualcuno la spinse da parte ed entrò in cucina. Amatis si spostò e Clary vide l'intrusa: una donna snella, vestita di nero. La prima cosa che notò fu la tenuta da Cacciatrice, e in un primo momento non la riconobbe. Poi i suoi occhi si posarono sul volto della donna e Clary si sentì cadere lo stomaco, com'era successo quando con Jace era volata giù dal tetto del Dumort sulla moto demoniaca: una caduta di dieci piani. La Cacciatrice era sua madre. parte terza LA STRADA PER IL PARADISO Oh sì, lo so: fu facile la strada per il paradiso. Trovammo il piccolo regno della nostra passione, Aperto a tutti coloro che calcano la strada degli amanti. In selvaggia e segreta felicità cademmo; E strepitavano nei nostri sensi demoni e dei. (SIEGFRIED SASSOON, L'amante imperfetto) capitolo 16 ARTICOLI DI FEDE Dalla sera in cui era tornata a casa e aveva scoperto che sua madre era sparita, Clary si era immaginata talmente tante volte di rivederla sana e salva, che i suoi sogni avevano assunto l'aspetto di una foto sgualcita a furia di essere presa in mano e guardata. Ora, tutte quelle immagini le salirono agli occhi, occhi increduli e sgranati: immagini in cui sua madre, guarita e felice, l'abbracciava e le diceva quanto aveva sentito la sua mancanza, promettendole che da quel momento in poi sarebbe andato tutto bene. La madre della sua immaginazione somigliava ben poco alla donna che aveva di fronte. Clary ricordava una Jocelyn delicata e artistica, un po' bohemienne, con quelle tute macchiate di colore, i capelli rossi raccolti in due codini o avvolti in uno scomposto chignon e fermati da una matita. Questa Jocelyn era lustra e affilata come un coltello, i capelli severamente raccolti sulla nuca, non un ricciolo fuori posto; il nero rigoroso della tenuta da battaglia la faceva sembrare più pallida e più dura. E anche la sua espressione non era quella che Clary aveva immaginato: invece del puro piacere, c'era qualcosa di più simile all'orrore, nel modo in cui guardava Clary con gli occhi verdi sgranati. — Clary — disse con un filo di voce. — I tuoi vestiti. Clary si guardò. Aveva indosso la tenuta nera di Amatis, esattamente quello da cui sua madre, per tutta la vita, aveva cercato di tenerla lontana. Clary mandò giù il nodo che le bloccava la gola e si alzò, aggrappandosi al bordo del tavolo con entrambe le mani. Vedeva le nocche sbiancate, ma le mani sembravano in qualche modo staccate dal resto del corpo, come se appartenessero a qualcun altro. Jocelyn fece un passo verso di lei, tendendo le braccia. — Clary... E Clary si ritrovò ad arretrare così rapidamente che sbatté l'osso sacro contro il ripiano della cucina. Ma quasi non si accorse della fitta di dolore. Aveva gli occhi fissi su sua madre. Anche Simon, che era letteralmente rimasto a bocca aperta. E anche Amatis, sbalordita. Isabelle si alzò, mettendosi tra Clary e sua madre. La mano scivolò sotto il grembiule e Clary ebbe la sensazione che stesse per estrarre la sottile frusta di elettro. — Che succede qui? — chiese Isabelle. — Tu chi sei? La voce forte di Isabelle vacillò appena, quando colse l'espressione sul volto di Jocelyn: la donna la stava fissando con una mano sul cuore. — Maryse! — La sua voce era appena un sussurro. Isabelle si stupì. — Come fai a conoscere il nome di mia madre? Un rossore salì repentino sul viso di Jocelyn. — Ma certo. Tu sei la figlia di Maryse. È solo che... le somigli così tanto! — Abbassò lentamente la mano. — Io sono Jocelyn Fr... Fairchild. Sono la madre di Clary. Isabelle tirò fuori la mano da sotto il grembiule e si girò verso Clary con gli occhi pieni di confusione. — Ma eri all'ospedale... a New York... — Ero — confermò Jocelyn con voce più ferma. — Ma grazie a mia figlia, adesso sto bene. E vorrei stare un momento da sola con lei. — Non sono sicura — intervenne Amatis — che lei voglia stare un momento da sola con te. — Le mise una mano sulla spalla. — Deve essere stato uno shock, per Clary. Jocelyn scrollò via la mano di Amatis e si avvicinò a sua figlia, tendendole le braccia. — Clary... Finalmente Clary ritrovò la voce. Era una voce fredda, di ghiaccio, così arrabbiata che sorprese anche lei. — Come ci sei arrivata fin qui, Jocelyn? Sua madre si fermò di botto, con un'espressione incerta sul viso. — Attraverso un Portale. Sono arrivata appena fuori città, con Magnus Bane. Ieri è venuto da me in ospedale. Mi ha portato l'antidoto. Mi ha raccontato tutto quello che hai fatto per me. E da quando mi sono svegliata, ho desiderato solo rivederti. — Le si spense la voce. — Clary, c'è qualcosa che non va? — Perché non mi hai mai detto che avevo un fratello? — sbottò Clary. Non era questo che avrebbe dovuto dire, non era nemmeno quello che aveva in mente di dire. Ma ormai era fatta. Jocelyn abbassò le mani. — Credevo che fosse morto. Credevo che saperlo ti avrebbe solo fatto del male. — Lascia che ti dica una cosa, mamma — disse Clary. — Sapere è meglio di non sapere. Sempre. — Mi dispiace... — iniziò Jocelyn. — Ti dispiace? — La voce di Clary si alzò. Era come se qualcosa dentro di lei si fosse strappato e ora tutto sgorgasse fuori, tutta l'amarezza, tutta la rabbia repressa. — Potresti spiegarmi perché non mi hai mai detto che ero una Shadowhunter? O che mio padre era ancora vivo? Oh, e che mi dici del piccolo particolare di aver pagato Magnus per rubarmi i ricordi? — Stavo solo cercando di proteggerti... — Be', hai fatto un pessimo lavoro! — Clary stava gridando. — Che cosa ti aspettavi che mi succedesse, quando tu sei sparita? Se non fosse stato per Jace e gli altri, ora sarei morta. Non mi hai mai insegnato come proteggermi. Non mi hai mai detto quanto fossero pericolose le cose, nella realtà. Che cosa pensavi? Che se io non vedevo le brutte cose, loro non avrebbero visto me? — Le bruciavano gli occhi. — Tu sapevi che Valentine non era morto. L'hai detto a Luke. — Per questo ho dovuto nasconderti — spiegò Jocelyn. — Non potevo rischiare che scoprisse dov'eri. Non potevo permettergli di toccarti perché... — Perché ha trasformato il tuo primo figlio in un mostro — disse Clary — e non volevi che facesse lo stesso con me? Sconvolta e ammutolita, Jocelyn riuscì solo a fissare sua figlia. — Sì — disse alla fine. — Sì, ma non è solo questo, Clary... — Tu mi hai rubato tutti i ricordi — ribadì Clary. — Me li hai portati via. Mi hai portato via ciò che sono. — Non era ciò che sei! — gridò Jocelyn. — Non volevo che quello fosse ciò che sei... — Non importa quello che volevi tu! — gridò Clary. — È quello che sono io! Tu mi hai portato via tutto. E non era roba tua! Jocelyn era grigia come la cenere. Gli occhi di Clary si riempirono di lacrime. Non sopportava di vedere sua madre così, ferita, eppure era proprio lei che la stava ferendo. E sapeva che, se avesse aperto di nuovo la bocca, altre terribili parole ne sarebbero uscite, ancor più crudeli, ancor più feroci. Si chiuse la bocca con le mani e scappò via, respingendo sua madre, e la mano tesa di Simon. Voleva solo andare via. Alla cieca, spalancò la porta d'ingresso e piombò in strada. Alle sue spalle qualcuno chiamò il suo nome, ma lei non si girò. Stava già correndo. Jace si sorprese, scoprendo che Sebastian aveva lasciato il cavallo dei Verlac nelle stalle, invece di usarlo per la fuga, la notte in cui era sparito. Forse aveva temuto che Wayfa-rer potesse in qualche modo essere localizzato. Provò soddisfazione nel sellare lo stallone e nel salirci in groppa e condurlo fuori dalla città. Se Sebastian avesse voluto Wayfarer, non l'avrebbe certo lasciato lì. E poi, il cavallo non era veramente suo. Comunque, Jace adorava i cavalli. Aveva dieci anni l'ultima volta che ne aveva cavalcato uno, ma il ricordo, notò con piacere, riaffiorò rapidamente. C'erano volute sei ore di cammino dalla tenuta di campagna dei Wayland fino ad Alicante. Ma ne bastarono appena due ore per tornare indietro al galoppo. Quando si fermarono, su un'altura che si affacciava sulla casa e sui giardini, sia Jace sia il cavallo erano coperti da un velo di sudore. Le difese depistanti che nascondevano la tenuta erano state distrutte insieme alle fondamenta della casa. Ormai dell'edificio, un tempo così elegante, restava soltanto un mucchio di pietre fumanti. I giardini bruciacchiati conservavano ancora i ricordi di quando Jace bambino aveva vissuto lì. C'erano i roseti, ora spogliati dei boccioli e invasi dalle erbacce; le panchine di pietra vicino agli stagni svuotati; e la cavità nel terreno dove Jace aveva abbracciato Clary, la notte in cui la tenuta era crollata. Tra gli alberi si vedeva il bagliore azzurro del lago. Un'onda di amarezza travolse Jace, che infilò una mano in tasca e tirò fuori uno stilo: l'aveva preso in prestito dalla stanza di Alec prima di partire, in sostituzione di quello che Clary aveva perso. Alee non avrebbe avuto difficoltà a procurarsene un altro. Poi prese il filo che aveva strappato dalla manica del cappotto di Clary, macchiato di sangue a un capo. Lo tenne sul palmo e chiuse forte il pugno, tanto da far sbiancare le nocche. Con lo stilo tracciò una runa sul dorso della mano. Il pizzicore era più familiare che doloroso. Guardò la runa penetrare nella pelle, come una pietra nell'acqua, e chiuse gli occhi. Invece dell'interno delle palpebre, Jace vide una valle. Era su un'altura e la vedeva dall'alto. Sapeva esattamente dove si trovava, come se stesse osservando una mappa che indicava la sua posizione. Anche l'Inquisitrice aveva saputo localizzare esattamente la nave di Valentine sull'East River, ricordò Jace. Ecco come faceva a saperlo, pensò. Ogni dettaglio era nitido, ogni filo d'erba, la spruzzata di foglie secche ai suoi piedi... ma non c'era alcun suono. Il silenzio che dominava la scena era inquietante. La valle era a ferro di cavallo, con un'estremità più stretta dell'altra. L'argenteo nastro d'acqua di un torrente la percorreva al centro e spariva tra le rocce, all'estremità più stretta. Accanto al ruscello c'era una casa di pietra grigia con un filo di fumo bianco che usciva sbuffando dal comignolo squadrato. Era una scena stranamente pastorale, serena, sotto l'azzurro sguardo del cielo. Mentre Jace osservava, una figura snella entrò in scena. Sebastian. Ora che non doveva più preoccuparsi di fingere, la sua arroganza era palese nella camminata, nella postura delle spalle, nel lieve ghigno sul viso. Sebastian si inginocchiò sulla riva del ruscello e vi immerse le mani, gettandosi dell'acqua sul viso e sui capelli. }ace aprì gli occhi. Sotto di lui, Wayfarer brucava l'erba soddisfatto. Il ragazzo rimise in tasca lo stelo e il filo e, con un'ultima occhiata alle rovine della casa in cui era cresciuto, prese le redini e affondò i talloni nei fianchi del cavallo. Clary era distesa sull'erba in cima alla collina della Guardia e guardava imbronciata la città di Alicante. La vista da lassù era spettacolare, doveva ammetterlo. Si vedevano i tetti della città, con le eleganti incisioni e i galletti segnavento decorati da rune, e la vista si estendeva oltre le guglie della Sala degli Accordi, verso qualcosa che luccicava in lontananza, come il bordo di una moneta d'argento. Il lago Lyn? Le rovine nere della Guardia incombevano alle sue spalle e le torri antidemoni brillavano come cristalli. Clary ebbe persino la sensazione di poter vedere le difese, vibranti di luce come una rete invisibile intessuta intorno ai confini della città. Si guardò le mani. Aveva strappato diverse manciate d'erba negli ultimi impeti di rabbia e le sue dita erano impiastricciate di terra e di sangue, dove un'unghia si era rotta. Sbollita la rabbia, le restava ora un profondo senso di vuoto. Non si era mai resa conto di quanto rancore provasse nei confronti di sua madre. Solo quando Jocelyn aveva varcato la soglia della cucina e Clary aveva potuto accantonare tutta l'angoscia che aveva provato quando la sua vita era in pericolo, solo allora aveva capito che cosa covava sotto. Ora che era più calma, si chiese se una parte di sé avesse voluto punire Jocelyn per quello che era successo a Jace. Se non gli fossero state raccontate tante bugie - se a entrambi non avessero raccontato tante bugie - forse il trauma di scoprire cosa gli aveva fatto Valentine prima ancora che lui nascesse non avrebbe indotto Jace a compiere un gesto che Clary non poteva evitare di sentire come un suicidio. — Ti dispiace se mi siedo con te? Clary sobbalzò per la sorpresa, rotolò su un fianco e guardò su. C'era Simon in piedi accanto a lei, con le mani in tasca. Qualcuno, forse Isabelle, gli aveva dato una giacca scura del materiale nero e resistente che gli Shadowhunters usavano per le loro tenute da battaglia. Un vampiro in tenuta da Cacciatore, pensò Clary, chissà se era una specie di primato. — Non ti ho sentito arrivare — ammise Clary. — Evidentemente non sono un granché, come Cacciatrice. Simon scrollò le spalle. — Be', in tua difesa potrei dire che mi muovo con la grazia silenziosa di una pantera. Nonostante tutto, Clary sorrise. Si mise a sedere, pulendosi le mani dalla terra. — Dai, vieni. Il tristezza-party è aperto a tutti. Sedendosi accanto a lei, Simon guardò il panorama della città e fischiò. — Bella vista. — Vero. — Clary lo guardò di sottecchi. — Come hai fatto a trovarmi? — Be', mi ci sono volute un paio d'ore. — Sorrise, con un sorriso un po' sghembo. — Poi mi sono ricordato che quando noi due litigavamo, in prima elementare, tu salivi sempre sul tetto di casa mia a sbollire la rabbia e mia madre doveva venirti a prendere. — E allora? — Ti conosco — disse Simon. — Quando ti arrabbi, cerchi un posto in alto. Le porse un fagotto: era il suo cappotto verde, ben ripiegato. Clary lo prese e se lo infilò. Il povero cappotto già mostrava chiari segni di usura. C'era persino un buchetto nel gomito, abbastanza grande da infilarci un dito. — Grazie, Simon. — Si strinse le ginocchia al petto e fissò lo sguardo sulla città. Il sole era basso nel cielo e le torri avevano cominciato a brillare di un pallido colore rosato. — Ti ha mandato lei? Simon scosse la testa. — È stato Luke, a dir la verità. E mi ha detto solo di chiederti se pensi di tornare prima del tramonto. Stanno succedendo cose importanti. — Che tipo di cose? — Luke ha dato tempo al Conclave fino al tramonto per decidere se attribuire ai Nascosti dei seggi nel Consiglio. Tutti i Nascosti si riuniranno alla Porta Settentrionale al tramonto. Se il Conclave accetta, potranno entrare ad Alicante. Altrimenti... — Verranno mandati via — concluse Clary. — E il Conclave si consegnerà nelle mani di Valentine. — Esatto. — Accetteranno — disse Clary. — Devono accettare. — Si strinse le ginocchia. — Non sceglierebbero mai Valentine. Nessuno lo farebbe. — Sono contento che il tuo idealismo non sia stato scalfito — commentò Simon. Sebbene il tono fosse lieve, Clary sentì nella voce di Simon un'altra voce, quella di Jace, quando diceva di non essere un idealista. Rabbrividì, nonostante il cappotto. — Simon? — disse. — Ho una domanda stupida. — E sarebbe? — Hai dormito con Isabelle? Simon fece un verso come se soffocasse. Clary si girò lentamente per guardarlo. — Tutto bene? — gli chiese. — Credo di sì — rispose Simon, recuperando con uno sforzo evidente un po' di contegno. — Parli seriamente? — Be', sei stato fuori tutta la notte... Simon rimase in silenzio per un lungo momento. Alla fine disse: — Non sono sicuro che siano affari tuoi. In ogni caso, no. — Bene — disse Clary, dopo una pausa assennata. — Immagino che non avresti approfittato di lei, in un momento così doloroso. Simon ridacchiò. — Se mai incontrerai l'uomo che riesce ad approfittare di Isabelle, fammelo sapere, perché vorrei stringergli la mano. O scappare a gambe levate, non so bene quale delle due. — Quindi non stai uscendo con Isabelle. — Clary — disse Simon. — Perché mi chiedi di Isabelle? Non vuoi parlare di tua madre? O di Jace? Izzy mi ha detto che se n'è andato. So come devi sentirti. — No — mormorò Clary. — Non credo che tu lo sappia. — Non sei l'unica persona al mondo che si sia sentita abbandonata. — C'era una punta di impazienza nella sua voce. — Probabilmente... insomma, non ti ho mai visto così arrabbiata. E con tua madre, poi! Credevo che ti mancasse. — Certo che mi mancava! — esclamò Clary, rendendosi conto mentre parlava dell'effetto che la scena in cucina doveva aver avuto sugli altri. Soprattutto su sua madre. Scacciò via il pensiero. — È che ero così concentrata su come fare a salvarla da Valentine e poi guarirla, che non mi sono mai fermata a pensare a quanto fossi arrabbiata per le bugie che mi aveva raccontato in tutti questi anni: per avermi tenuto nascosto tutto questo, per avermi nascosto la verità. Per non avermi mai detto chi ero veramente. — Ma non è questo che hai detto, quando è entrata in cucina — osservò Simon a bassa voce. — Le hai chiesto: «Perché non mi hai mai detto che avevo un fratello?» — Lo so. — Clary strappò un filo d'erba dalla terra, stropicciandolo tra le dita. — Probabilmente pensavo che, se avessi saputo la verità, avrei conosciuto Jace in un altro modo. Non mi sarei innamorata di lui. Simon rimase per un momento in silenzio. — Credo di non avertelo mai sentito dire prima d'ora. — Che lo amo? — Clary rise, ma la risata suonò triste alle sue stesse orecchie. — È inutile fingere il contrario, a questo punto. Forse non è importante. Probabilmente non lo rivedrò più comunque. — Tornerà. — Forse. — Tornerà — ripetè Simon. — Per te. — Non lo so. — Clary scosse la testa. Si stava facendo freddo, ora che il sole era sceso a toccare la linea dell'orizzonte. Clary socchiuse gli occhi e si protese in avanti, guardando lontano. — Simon, guarda! Simon seguì il suo sguardo. Oltre le difese, alla Porta Settentrionale della città, centinaia di figure scure si stavano radunando, alcune in gruppi, altre più isolate: erano i Nascosti che Luke aveva chiamato in aiuto della città, in paziente attesa di un messaggio dal Conclave per entrare ad Alicante. Un brivido percorse la schiena di Clary. Si trovava in bilico, non solo sulla cima della collina, a guardare la città da uno strapiombo, ma era anche sull'orlo di una crisi, di un evento che avrebbe cambiato l'andamento di tutto il mondo degli Shadowhunters. — Sono venuti — disse Simon quasi a se stesso. — Chissà se questo significa che il Conclave ha deciso. — Lo spero. — Il filo d'erba che Clary stava tormentando era un ormai un grumo verde informe; Clary lo buttò e ne strappò un altro. — Non so che cosa farò, se decideranno di arrendersi a Valentine. Forse potrei creare un Portale e trasportare tutti in un posto dove Valentine non possa mai trovarci. Un'isola deserta, o qualcosa del genere. — Okay, anch'io adesso ho una domanda stupida — disse Simon. — Tu sai creare nuove rune, giusto? Perché non crei una runa che distrugga tutti i demoni del mondo? O che uccida Valentine? — Non è così che funziona — spiegò Clary. — Io posso creare solo le rune che visualizzo. L'immagine mi entra in testa, come un dipinto. Se cerco di visualizzare "uccidi Valentine" o "governa il mondo", o cose del genere, non vedo niente. Solo rumore bianco. — Ma secondo te, da dove ti vengono le immagini delle rune? — Non lo so — ammise Clary. — Tutte le rune che gli Shadowhunters conoscono vengono dal Libro Grigio. È per questo che possono essere usate solo sui Nephilim: sono state create a questo scopo. Ma ci sono anche altre rune, più antiche. Me l'ha detto Magnus. Come il Marchio di Caino: è un marchio di protezione, ma non viene dal Libro Grigio. Quindi, quando penso a queste rune, come la runa dell'impavidità, non so se è qualcosa che sto inventando io o qualcosa che sto ricordando: rune più antiche degli Shadowhunters, rune antiche quanto gli angeli. — Clary ripensò alla runa che Ithuriel le aveva mostrato, semplice come un nodo. Era arrivata dalla sua mente o da quella dell'angelo? O era qualcosa che esisteva da sempre, come il mare o il cielo? Quel pensiero la fece rabbrividire. — Hai freddo? — le chiese Simon. — Sì... tu no? — Non ho più freddo, io. — Le mise un braccio intorno alle spalle, sfregandole la schiena in piccoli movimenti circolari. Ridacchiò con tristezza. — Non serve a molto, immagino, visto che non ho più il calore del sangue. — No — disse Clary. — Cioè, sì, serve. Resta così. — Lo guardò. Simon fissava la Porta Settentrionale, intornò alla quale si affollavano lentamente le nere figure dei Nascosti, quasi immobili. La luce rossa delle torri antidemoni si rifletteva nei suoi occhi: sembrava una foto in primo piano scattata con il flash. Clary vedeva le sottili venature azzurre sotto la sua pelle, là dove era più sottile: sulle tempie, alla base della clavicola. Ne sapeva abbastanza di vampiri da capire che era passato un po' di tempo, dall'ultima volta che si era nutrito. — Hai fame? Stavolta fu lui a guardare verso di lei. — Paura che ti morda? — Sai che sei il benvenuto e che puoi bere il mio sangue ogni volta che vuoi. Un brivido, non di freddo, percorse Simon, che la strinse più forte a sé. — Non lo farei mai — disse. Poi, con più leggerezza, aggiunse: — E poi, ho già bevuto il sangue di Jace... Ho già succhiato abbastanza dai miei amici. Clary pensò alla cicatrice argentea sulla gola del fratello. Lentamente, con la mente ancora piena di quell'immagine, chiese: — Credi che sia per quello che...? — Cosa? — Che il sole non ti fa male. Voglio dire, prima il sole ti scottava, vero? Prima della notte sulla nave. Lui annuì, riluttante. — E cos'altro è cambiato? O è solo che hai bevuto il suo sangue? — Vuoi dire, perché lui è un Nephilim? No, è qualcos'altro. Tu e Jace... non siete proprio normali, giusto? Intendo dire, normali Shadowhunters. C'è qualcosa di speciale, in voi due. Come ha detto la Regina del Popolo Fatato, eravate degli esperimenti. — Simon sorrise allo sguardo stupefatto di Clary. — Non sono stupido. Riesco a mettere insieme queste cose. Tu con il tuo potere di creare le rune, e Jace, be'... nessuno riuscirebbe a essere così insopportabile senza qualche tipo di aiuto sovrannaturale. — Lo detesti davvero così tanto? — Io non detesto Jace — protestò Simon. — Cioè, l'ho odiato all'inizio, questo sì. Sembrava così arrogante, così sicuro di sé... E tu pendevi dalle sue labbra... — Non è vero. — Lasciami finire, Clary. — C'era una sfumatura di affanno nella voce di Simon (ammesso che uno che non respirava mai potesse essere affannato). Era come se stesse correndo verso un obiettivo. — Vedevo benissimo quanto ti piaceva e pensavo che lui ti stesse usando, che per lui fossi solo una stupida ragazzina mondana da impressionare coi suoi giochetti di prestigio. All'inizio mi dicevo che tu non ci saresti mai cascata e poi mi dicevo che, se anche ci fossi cascata, Jace prima o poi si sarebbe stancato di te e tu saresti tornata da me. Non sono orgoglioso di questo, ma quando sei disperato sei pronto a credere a qualsiasi cosa, immagino. E poi, quando è venuto fuori che era tuo fratello, mi è sembrata una grazia dal cielo... e ne sono stato contento. Ero contento anche di vedere quanto soffrisse Jace. Questo fino alla notte alla Corte Seelie, quando l'hai baciato. Allora ho visto... — Visto cosa? — chiese Clary, incapace di sopportare la sua pausa. — Il modo in cui ti guardava. Allora ho capito. Lui non ti aveva mai usato. Lui ti amava e questo amore lo stava uccidendo. — È per questo che sei andato al Dumort? — sussurrò Clary. Era una cosa che avrebbe sempre voluto sapere, ma che non era mai riuscita a chiedergli. — Per via di te e di Jace? No, davvero. Da quella prima notte all'hotel, ho sempre avuto il desiderio di tornare. Me lo sognavo. E mi svegliavo che ero fuori dal letto e mi stavo vestendo, oppure ero già per strada e sapevo che volevo tornare là. Era difficile di notte e diventava più difficile quanto più mi avvicinavo all'hotel. Non mi è mai venuto in mente che fosse qualcosa di soprannaturale: credevo che fosse una specie di stress post-traumatico. Quella notte, ero esausto e affamato, ed eravamo vicini all'hotel, ed era tardi... Quasi non ricordo che cosa è successo. Ricordo solo di essermi allontanato dal parco e poi... più nulla. — Ma se tu non fossi stato arrabbiato con me... se non ti avessimo fatto arrabbiare... — Non è che tu avessi molta scelta — osservò Simon. — E non è che io non lo sapessi. Puoi sommergere la verità per un po', ma poi risale di nuovo in superficie. L'errore che ho fatto è stato quello di non dirti che cosa mi stava succedendo, di non metterti a parte dei miei sogni. Però non mi pento di essere uscito con te. Sono contento che ci abbiamo provato. E ti voglio bene per averci voluto provare, anche se non poteva funzionare. — Volevo tanto che funzionasse! — disse Clary a bassa voce. — Non avrei mai voluto farti del male. — Io non cambierei niente di quello che è successo — disse Simon. — Non potrei mai smettere di volerti bene. Per nessun motivo al mondo. Sai che cosa mi ha detto Raphael? Che non ero capace di essere un buon vampiro, che i vampiri accettano di essere morti. Ma finché ricorderò com'era amarti, avrò sempre la sensazione di essere vivo. — Simon... — Guarda! — L'interruppe con un gesto, sgranando gli occhi scuri. — Laggiù. Il sole era un lumicino rosso all'orizzonte: sotto il loro sguardo, guizzò un'ultima volta e scomparve, sprofondando dietro l'orlo scuro del mondo. Le torri antidemoni di Alicante sfavillarono, improvvisamente vive e incandescenti. Alla luce delle torri, si vedeva la massa scura dei Nascosti brulicare inquieta intorno alla Porta Settentrionale. — Che sta succedendo? — sussurrò Clary. — Il sole è tramontato: perché la porta non si apre? Simon era immobile. — Il Conclave — disse. — Devono aver rifiutato la proposta di Luke. — Ma non è possibile! — La voce di Clary si alzò, tagliente. — Questo significa... — Che si arrenderanno a Valentine. — Ma non possono farlo! — esclamò di nuovo Clary. Sotto i suoi occhi, le figure di uno dei gruppi che aspettavano vicino alle difese si voltarono e si avviarono in direzione opposta alla città, sfilando come formiche in fuga da un formicaio distrutto. La faccia di Simon era cerea nella luce morente. — Immagino — disse — che ci odino davvero tanto. Al punto da preferire Valentine. — Non è odio — rifletté Clary. — È paura. Anche Valentine aveva paura. — Lo disse senza pensarci e si rese conto solo dicendolo che era proprio vero. — Aveva paura ed era invidioso. Simon le lanciò un'occhiata, sorpreso. — Invidioso? Ma Clary era tornata al sogno che Ithuriel le aveva mostrato e la voce di Valentine le echeggiava nelle orecchie. Avrei voluto chiedergli perché. Perché Raziel ha creato noi, la sua stirpe di Cacciatori, ma non ci ha dato i poteri che hanno i Nascosti: la velocità dei lupi, l'immortalità del Popolo Fatato, la magia degli stregoni, nemmeno la resistenza dei vampiri. Ci ha lasciati nudi davanti agli eserciti infernali con solo questi segni dipinti sulla pelle. Perché i loro poteri devono essere più grandi dei nostri? Perché non possiamo avere anche noi ciò che loro possiedono? Clary socchiuse le labbra, fissando, senza vedere nulla, la città ai suoi piedi. Era vagamente consapevole che Simon la stava chiamando, ma la sua mente stava girando a mille. L'angelo avrebbe potuto mostrarle qualsiasi cosa, pensò, ma se aveva scelto di mostrarle quelle scene, quei ricordi, una ragione doveva esserci. Ripensò a Valentine che gridava: Che noi dovessimo essere legati ai Nascosti, legati a quelle creature! E la runa. La runa che aveva sognato. Quella semplice come un nodo. Perché non possiamo avere anche noi ciò che essi possiedono? — È vincolante — esclamò ad alta voce. — È una runa vincolante! Unisce il simile al diverso. — Cosa? — Simon la guardò, confuso. Clary si rialzò in piedi, spazzolandosi via la terra. — Devo andare da loro. Dove sono? — Dove sono chi? Clary... — Il Conclave. Dove sono riuniti? Dov'è Luke? Simon si alzò in piedi. — Nella Sala degli Accordi. Clary... Ma Clary stava già correndo verso il sentiero serpeggiante che portava in città. Imprecando sottovoce, Simon la seguì. Dicono che tutte le strade portano alla Sala degli Accordi. Le parole di Sebastian risuonavano nella testa di Clary, mentre sfrecciava a tutta velocità per le strade strette di Alicante. Sperava che fosse vero, perché altrimenti si sarebbe sicuramente persa. Le vie prendevano pieghe inaspettate, non erano come le care strade di Manhattan, dritte e a reticolo. A Manhattan sapevi sempre dove ti trovavi. Ogni cosa era chiaramente numerata e ordinata. Quello, invece, era un labirinto. Attraversò un minuscolo cortile e imboccò uno degli stretti sentieri che costeggiavano i canali, sapendo che, se avesse seguito l'acqua, alla fine sarebbe arrivata alla piazza dell'Angelo. Con sua sorpresa, il sentiero la portò alla casa di Amatis e, da lì, Clary seguì ansimando e correndo una strada più ampia e più familiare che portava alla piazza. Ed ecco ergersi davanti a lei, ampia e bianca, la Sala degli Accordi, con la statua dell'Angelo al centro della piazza. E accanto alla statua c'era Simon, con le braccia conserte. Era nero. — Avresti potuto aspettarmi — la apostrofò. Clary si piegò in due, con le mani sulle ginocchia, per riprendere fiato. — Non... non puoi dire così... visto che sei arrivato... prima di me. — Velocità da vampiro — annunciò Simon con una certa soddisfazione. — Quando torneremo a casa, mi darò alle gare di atletica. — Non sarebbe... leale. — Con un ultimo respiro profondo, Clary si raddrizzò e si scostò dagli occhi i capelli sudati. — Vieni. Entriamo. La sala era piena di Shadowhunters: erano più di quanti Clary ne avesse mai visti riuniti in uno stesso posto, più ancora della notte dell'attacco di Valentine. Le loro voci erano un boato come di valanga. La maggior parte delle persone era divisa in gruppetti litigiosi che vociavano senza trovare un accordo,- il podio era deserto e le mappe di Idris pendevano tristi e solitarie sul muro dietro di esso. Clary si guardò intorno, cercando Luke. Le ci volle un momento per trovarlo: era appoggiato a una colonna con gli occhi semichiusi. Aveva un aspetto orribile: mezzo morto, le spalle accasciate. Dietro di lui c'era Amatis, che gli batteva una mano sulla spalla con aria preoccupata. Clary si guardò intorno, ma non vide Jocelyn da nessuna parte. Ebbe un attimo di esitazione. Poi pensò a Jace, che era andato a caccia di Valentine, e ci era andato da solo pur sapendo che rischiava di farsi ammazzare. Jace sapeva di essere parte di tutto questo, e anche lei ne era parte: da sempre, anche quando non ne sapeva niente. L'adrenalina le correva ancora nelle vene, acuiva la sua percezione, rendeva tutto nitidissimo. Quasi troppo. Strinse la mano di Simon. — Augurami buona fortuna — gli disse. Poi i piedi la portarono verso i gradini del podio, quasi senza una sua precisa volontà, e dopo, eccola sul podio, rivolta verso la folla. Non sapeva bene che cosa aspettarsi. Esclamazioni di sorpresa? Un mare di facce ammutolite e in attesa? Quasi nessuno la notò. Solo Luke alzò gli occhi, come se ne avesse percepito la presenza, e raggelò, con uno sguardo di assoluto stupore sul volto. E c'era qualcuno che si faceva largo tra la folla, un uomo alto e spigoloso, proteso verso di lei come la prua di un veliero. Il Console Malachi. Le stava facendo grandi cenni perché scendesse dal podio, scrollava la testa e gridava parole che Clary non poteva sentire. Altri Shadowhunters adesso si stavano girando verso di lei, mentre Malachi fendeva la folla. Ora Clary aveva ciò che voleva: tutti gli occhi erano inchiodati su di lei. Sentiva dei sussurri tra la folla: È lei. È la figlia di Valentine. — Avete ragione — esclamò, spingendo la voce più lontano e più forte che poteva. — Io sono la figlia di Valentine. Fino a un paio di settimane fa non avevo idea che lui fosse mio padre. Non sapevo nemmeno che esistesse, fino a un paio di settimane fa. So che molti di voi non ci crederanno, ma non importa. Pensate pure a ciò che volete. Mi basta che sappiate che io so cose di Valentine che voi non conoscete, cose che potrebbero aiutarvi a vincere questa battaglia contro di lui. Se mi lascerete dire di che cosa si tratta. — Ridicolo. — Malachi era ai piedi del podio. — Tutto questo è ridicolo. Sei solo una ragazzina... — È la figlia di Jocelyn Fairchild. — Era stato Patrick Penhallow, a parlare. Si era fatto largo tra la folla e ora aveva una mano alzata. — Malachi, lascia parlare la ragazza. La folla mormorava. — Lei — disse Clary al Console. — Lei e l'Inquisitore avete buttato in prigione il mio amico Simon. Malachi fece un ghigno di derisione. — Il tuo amico vampiro? — Mi ha detto che gli avete chiesto che cosa era successo sulla nave di Valentine, quella notte sull'East River. Pensavate che Valentine avesse fatto qualcosa, qualche sorta di magia nera. Be', non è così. Se volete sapere che cosa ha distrutto quella nave, la riposta è: sono stata io. Io l'ho distrutta! La risata incredula di Malachi trovò eco in varie altre persone nella folla. Luke la stava guardando, scuotendo la testa, ma Clary continuò, imperterrita. — Ho usato una runa — proseguì. — Una runa così potente che ha fatto cadere in pezzi tutta la nave. Io posso creare nuove rune. Non solo quelle del Libro Grigio, ma altre rune, che nessuno ha mai visto prima... rune potentissime... — Adesso basta — ruggì Malachi. — Tutto questo è ridicolo. Nessuno può creare nuove rune. È assolutamente impossibile. — Si rivolse alla folla. — Come suo padre, la ragazza non è altro che una bugiarda. — Non sta mentendo. — La voce veniva dal fondo della sala. Era limpida, forte e determinata. La folla si girò e Clary vide chi aveva parlato: Alec. Con Isabelle da un lato e Magnus dall'altro. Insieme a loro c'erano anche Simon e Maryse Lightwood. Formavano un piccolo nucleo molto determinato, vicino alle porte d'ingresso. — Io l'ho vista creare una runa. L'ha usata su di me. E ha funzionato. — Tu menti — esclamò il Console, ma il dubbio si era insinuato nei suoi occhi. — Per proteggere la tua amica. — È vero, Malachi — intervenne Maryse, secca. — Perché mio figlio dovrebbe mentire su una cosa del genere, quando la verità si può scoprire così facilmente? Date alla ragazza uno stilo e chiedetele di creare una runa. Un mormorio di consenso attraversò la sala. Patrick Penhallow fece un passo avanti e porse il suo stilo a Clary. Lei lo prese con gratitudine e si girò di nuovo verso la folla. D'improvviso aveva la gola secca. L'adrenalina era ancora alta, ma non bastava a tenere a bada il panico da palcoscenico. Che cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Che tipo di runa poteva creare, per convincere tutta quella gente che stava dicendo la verità? Che cosa avrebbe potuto mostrare loro la verità? Passò lo sguardo sulla folla e vide Simon che la guardava, attraverso lo spazio vuoto che li separava. La guardava nello stesso modo in cui Jace l'aveva guardata alla tenuta dei Wayland. Era questo, pensò, l'unico filo che univa quei due ragazzi che amava tanto, l'unico punto che avevano in comune: entrambi credevano in lei, perfino quando lei non credeva in se stessa. Guardando Simon e pensando a Jace, Clary abbassò lo stilo e mosse la punta bruciante all'interno del polso, dove passavano le vene. Non abbassò gli occhi, disegnò alla cieca, confidando in se stessa e nello stilo: insieme avrebbero creato la runa che le serviva. La disegnò con tratto leggero le sarebbe servita solo per un momento - ma senza la minima esitazione. E quando ebbe finito, alzò la testa e aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu Malachi. Era sbiancato e stava arretrando con un'espressione di orrore sul volto. Disse qualcosa, una parola in una lingua che lei non conosceva. Poi, dietro di lui, Clary vide Luke, che la fissava a bocca aperta. — Jocelyn? — sussurrò. Clary scosse la testa, appena un cenno, e guardò la folla. Era un'onda indistinta di facce, alcune nitide, altre sfocate. Alcune sorridevano, altre si guardavano intorno sorprese, alcune si giravano verso la persona che avevano a fianco. Alcune avevano un'espressone di orrore o di stupore, le mani sulla bocca. Clary vide Alec lanciare un'occhiata a Magnus e poi a lei, incredulo, vide Simon che la guardava confuso, infine vide Amatis che correva verso di lei, spingendo da parte la mole di Patrick Penhallow, e si fermava sotto il podio. — Stephen! — sussurrò, guardando Clary con una sorta di attonito stupore. — Stephen! — Oh — esclamò Clary. — Oh, Amatis, no... — E poi sentì la magia della runa scivolare via da lei come una veste leggera e invisibile. La luce che animava il viso di Amatis si spense e la donna arretrò dal podio, con un'espressione a metà tra l'avvilimento e lo stupore. Clary guardò tra la folla. Erano tutti in assoluto silenzio e tutte le facce erano rivolte verso di lei. — So che cosa avete appena visto — disse. — E che sapete che questo tipo di magia va ben oltre l'illusione o l'incantesimo. E l'ho fatta con una runa, una sola runa, una runa che ho creato io. Ci sono dei motivi per cui ho questa abilità, e so che potrebbero non piacervi o che potreste non crederci, ma non importa. Ciò che importa è che io posso aiutarvi a vincere questa battaglia contro Valentine. Se me lo permetterete. — Non ci sarà nessuna battaglia contro Valentine — intervenne Malachi. Non la guardava negli occhi. — Il Conclave ha deciso. Accetteremo le condizioni poste da Valentine e domani mattina deporremo le armi. — Ma non potete farlo! — esclamò Clary, con una sfumatura di disperazione nella voce. — Pensate davvero che andrà tutto bene solo perché vi sarete arresi? Pensate che Valentine vi lascerà vivere come avete fatto finora? Pensate che si limiterà a uccidere i demoni e i Nascosti? — Percorse la sala con lo sguardo. — La maggior parte di voi non vede Valentine da quindici anni. Forse avete dimenticato chi è veramente. Ma io lo so. L'ho sentito parlare dei suoi piani. Voi credete di poter continuare a vivere la vostra solita vita sotto il dominio di Valentine, ma non sarà così. Lui vi controllerà completamente, perché potrà sempre minacciare di distruggervi con gli Strumenti Mortali. Comincerà con i Nascosti, naturalmente. Ma poi passerà al Conclave. Ucciderà loro per primi, perché li considera deboli e corrotti. Poi passerà a tutti coloro che hanno un Nascosto in famiglia: magari un fratello lupo mannaro — e i suoi occhi si posarono su Amatis — o una figlia adolescente e un po' ribelle che ogni tanto si vede con un cavaliere del Popolo Fatato — e i suoi occhi si soffermarono sui Lightwood. — O chiunque abbia semplicemente fatto amicizia con un Nascosto. E poi andrà in cerca di chiunque abbia chiesto i servigi di uno stregone. Quanti di voi sarebbero? — È assurdo — ribatté seccamente Malachi. — Valentine non ha alcun interesse a uccidere i Nephilim. — Però pensa che chi ha dei legami con i Nascosti non sia degno di essere chiamato Nephilim — replicò Clary. — Sentite, la vostra guerra non è contro Valentine. È contro i demoni. Tenere lontani i demoni da questo mondo: è questo il vostro mandato, un mandato che avete ricevuto dal cielo. E un mandato dal cielo non è una cosa che si possa ignorare. Anche i Nascosti odiano i demoni. Anche loro li distruggono. Se Valentine potrà fare a modo suo, impiegherà tanto tempo a cercare di assassinare tutti i Nascosti e tutti i Cacciatori che si siano mai associati ai Nascosti che dimenticherà i demoni. E anche voi li dimenticherete, perché sarete troppo presi dalla paura per Valentine. E i demoni invaderanno il mondo. E questa sarà la fine. — Capisco dove vuoi arrivare — disse Malachi a denti stretti. — Ma noi non combatteremo a fianco dei Nascosti per una battaglia che non potremo mai vincere. — Invece potete vincere! — esclamò Clary. — Potete vincere. — Aveva la gola secca, la testa le doleva, le facce della gente sembravano fondersi in un ammasso informe, punteggiato qua e là da bianche esplosioni di luce. Non puoi fermarti adesso. Devi andare avanti. Ci devi provare. — Mio padre odia i Nascosti perché è invidioso di loro! — Le parole ora si accavallavano le une sulle altre. — Invidioso e timoroso di tutte le cose che i Nascosti sono in grado di fare e lui no. Non sopporta che, per certi versi, i Nascosti siano più potenti dei Nephilim, e scommetto che non è il solo qui dentro. È facile avere paura di ciò che non è possibile condividere. — Riprese fiato. — Ma se... se invece fosse possibile condividerlo? Se io fossi in grado di creare una runa in grado di legare ciascuno di voi, ciascun Cacciatore, a un Nascosto che combatte al vostro fianco? Se voi poteste condividere i vostri poteri!Allora potreste guarire in fretta come un vampiro, potreste essere forti come un lupo mannaro o veloci come un cavaliere del Popolo Fatato. Ed essi, in cambio, potrebbero condividere il vostro addestramento, le vostre abilità nel combattimento. Potreste diventare un esercito invincibile... Se vi lascerete marchiare da me e se combatterete a fianco dei Nascosti. Perché, se non combatterete al loro fianco, le rune non funzioneranno. — Tacque. Poi riprese. — Vi prego — concluse, ma la parola le uscì dalla gola riarsa quasi inudibile. — Vi prego, lasciatevi fare il marchio. Le sue parole caddero in un risonante silenzio. Il mondo era come una macchia indistinta. Clary si rese conto di aver pronunciato l'ultima metà del suo discorso con gli occhi fissi al soffitto della sala, e che le piccole esplosioni di luce che aveva visto erano le stelle che spuntavano nel cielo notturno, una dopo l'altra. Il silenzio persisteva. Le mani di Clary, lungo i fianchi, si strinsero lentamente a pugno. E poi, lentamente, molto lentamente, Clary abbassò gli occhi e incrociò gli sguardi della folla che la fissava. capitolo 17 IL RACCONTO DELLA CACCIATRICE Ora Clary era sul gradino più alto della Sala degli Accordi e guardava la piazza dell'Angelo. La luna era già sorta e spuntava dietro i tetti delle case e le torri antidemoni ne riflettevano la luce argentea. Il buio nascondeva bene le ferite e le cicatrici della città, che sembrava pacifica e tranquilla, sotto il cielo notturno... finché non si volgeva lo sguardo alla collina della Guardia e alle rovine della fortezza. Le guardie pattugliavano la piazza, comparendo nei cerchi luminosi dei lampioni di stregaluce e scomparendo nel buio. Si sforzavano di ignorare le presenza di Clary. Qualche gradino più in basso, Simon camminava avanti e indietro, con passi perfettamente silenziosi e le mani in tasca. Quando, alla fine della scala, si voltava per tornare indietro verso Clary, la luce della luna si riverberava sulla pelle chiara, come da una superficie riflettente. — Smettila di andare avanti e indietro — protestò Clary. — Mi rendi più nervosa. — Scusa. — Mi sembra di essere qui fuori da sempre. — Clary, pur tendendo le orecchie, non riusciva a sentire niente, tranne il sordo mormorio di molte voci che filtrava dalle porte chiuse della Sala degli Accordi. — Tu riesci a sentire quello che dicono? Simon socchiuse gli occhi e parve concentrarsi. — Qualcosa — disse dopo un breve silenzio. — Quanto vorrei essere là dentro! — esclamò Clary, picchiando con rabbia i tacchi sui gradini. Luke le aveva chiesto di aspettare fuori, mentre il Conclave deliberava. Avrebbe voluto mandare Amatis con lei, ma Simon aveva insistito per andarci lui, sostenendo che era meglio se Amatis fosse restata dentro a difendere Clary. — Vorrei partecipare all'assemblea. — No — replicò Simon. — Non è vero. Clary sapeva perché Luke le aveva chiesto di aspettare fuori. Non era difficile immaginare che cosa stessero dicendo di lei là dentro. Una bugiarda. Una fanatica. Un povera sciocca. Una pazza. Una stupida. Un mostro. La figlia di Valentine. Forse era molto meglio stare fuori, ma la tensione dell'attesa era quasi un dolore fisico. — Magari potrei arrampicarmi su una di quelle — buttò lì Simon, indicandole con lo sguardo le massicce colonne bianche che sostenevano il tetto spiovente della sala. Erano decorate da intrecci di rune incise nella pietra, ma per il resto non avevano punti d'appiglio visibili. — Per scaricare un po' di tensione. — Ma dai! — esclamò Clary. — Sei un vampiro, mica Spiderman. Per tutta risposta, Simon salì agilmente i gradini e si avvicinò alla colonna. La osservò pensoso per un momento, poi vi appoggiò le mani e cominciò ad arrampicarsi. Clary lo guardò a bocca aperta, mentre con i piedi e la punta delle dita trovava appigli impossibili sulla pietra leggermente incisa. — Tusei Spiderman! — esclamò Clary. Simon, appollaiato a metà della colonna, guardò giù. — E allora, tu sei Mary Jane. Anche lei ha i capelli rossi — replicò. Poi guardò la città, aggrottando la fronte. — Speravo di vedere la Porta Settentrionale da qui, ma non sono abbastanza in alto. Clary sapeva perché Simon voleva vedere la Porta. Erano stati mandati dei messaggeri a chiedere ai Nascosti di aspettare ancora, mentre il Conclave deliberava. E Clary poteva solo sperare che avessero accettato. E se avevano accettato, cosa stava succedendo, là fuori? Clary s'immaginò la folla che aspettava, che gironzolava, che s'interrogava... Le doppie porte della Sala degli Accordi si socchiusero. Una figura snella ne scivolò fuori, le richiuse e si girò verso Clary. Era nell'ombra, e solo quando fece un passo avanti, avvicinandosi alla stregaluce che illuminava i gradini, Clary vide la vampa di capelli rossi e riconobbe sua madre. Jocelyn guardò in su, divertita. — Be', ciao, Simon. Mi fa piacere vedere che ti stai... adattando. Simon lasciò la presa sulla colonna e si lasciò cadere, atterrando con grazia. Sembrava lievemente imbarazzato. — Salve, signora Fray. — Non so quanto abbia senso chiamarmi così, adesso — obiettò la madre di Clary. — Forse dovresti semplicemente chiamarmi Jocelyn. — Esitò. — Sai, per quanto strana sia questa... situazione, è bello vederti qui con Clary. Non riesco nemmeno a ricordare un momento in cui non siate stati insieme. Ora Simon era decisamente imbarazzato. — Anche per me è bello rivederla. — Grazie, Simon. — Jocelyn guardò sua figlia. — Clary, ti andrebbe di parlare un po' con me? Noi due sole? Clary rimase immobile per un lungo momento, fissando sua madre. Era difficile non vederla come un'estranea. Aveva la gola stretta, quasi troppo stretta per parlare. Guardò Simon, che era chiaramente in attesa di un suo segnale per andarsene o restare. Sospirò. — Okay. Simon alzò i pollici in segno di incoraggiamento, poi svanì oltre le porte della Sala. Clary si girò e si mise a fissare la piazza, osservando le guardie di pattuglia. Jocelyn andò a sedersi vicino a lei. Una parte di Clary avrebbe desiderato appoggiarsi a lei, appoggiarle la testa sulla spalla, magari chiudere gli occhi e fingere che andasse tutto bene. L'altra parte sapeva che non avrebbe fatto nessuna differenza: non poteva tenere gli occhi chiusi per sempre. — Clary — disse Jocelyn alla fine, molto piano. — Mi dispiace tanto. Clary si guardava le mani. Si rese conto di stringere ancora in una mano lo stilo di Patrick Penhallow. Sperò che non pensasse che glielo aveva rubato. — Non avrei mai pensato di rivedere questo posto — aggiunse Jocelyn. Clary le lanciò un'occhiata furtiva: sua madre stava guardando la città e le torri antidemoni che gettavano la loro pallida luce biancastra sui tetti. — Qualche volta sognavo Alicante. Ho anche pensato di dipingerla, di dipingere i miei ricordi, ma non potevo. Se tu avessi visto quei quadri avresti potuto fare delle domande, avresti potuto chiederti come avevano fatto quelle immagini a entrarmi nella mente. Ero così spaventata all'idea che tu potessi scoprire da dove venivo veramente. Chi ero veramente. — E ora l'ho scoperto. — E ora l'hai scoperto. — La voce di Jocelyn era piena di nostalgia. — E hai tutte le ragioni per odiarmi. — Io non ti odio, mamma — ribatté Clary. — E solo che... — Non ti fidi di me — concluse per lei Jocelyn. — Non posso darti torto. Avrei dovuto dirti la verità. — Sfiorò Clary sulla spalla, e sembrò prendere coraggio, quando lei non si ritrasse. — Posso solo dirti che l'ho fatto per proteggerti, ma so come possano sembrare queste parole alle tue orecchie. Poco fa c'ero anch'io, nella Sala degli Accordi. Ti ho sentita. — C'eri anche tu? — Clary era stupita. — Non ti ho visto. — Ero nascosta in fondo alla sala. Luke mi aveva chiesto di non venire all'assemblea, mi aveva detto che la mia presenza avrebbe sconvolto i presenti e avrebbe rischiato di rovinare tutto. Probabilmente aveva ragione, ma io volevo assolutamente esserci. Così sono sgattaiolata dentro quando l'assemblea era già iniziata e mi sono nascosta nell'ombra. Ma c'ero. E volevo dirti che... — Che ho fatto una figura da stupida? — chiese Clary amaramente. — Lo so già. — No. Volevo dirti che sono orgogliosa di te. Clary si girò con tutto il corpo per guardare sua madre. — Davvero? Jocelyn annuì. — Certo. Il modo in cui hai affrontato tutto il Conclave. Il modo in cui hai mostrato loro che cosa eri in grado di fare. Quando ti hanno guardato, hanno visto la persona che amavano di più al mondo, vero? — Sì — confermò Clary. — Come hai fatto a capirlo? — Perché li ho sentiti pronunciare tanti nomi diversi — disse piano Jocelyn. — Ma io continuavo a vedere te. — Oh. — Clary si guardò i piedi. — Be', non sono sicura che mi abbiano creduto, sulle rune. Cioè, lo spero, ma... — Posso vederla? — chiese Jocelyn. — Vedere cosa? — La runa. Quella che hai creato per unire i Cacciatori e i Nascosti. — Esitò. — Ma se non me la puoi mostrare... — No, non c'è problema. — Con lo stilo, Clary tracciò sul marmo del gradino le linee della runa che l'angelo le aveva mostrato e, mentre le disegnava, le linee si accendevano di calda luce dorata. Era una runa potente, una mappa di linee ricurve sovrapposte a una matrice di linee rette. Semplice e complessa allo stesso tempo. Ora Clary sapeva perché le era sembrata incompleta, quando l'aveva visualizzata in passato: per essere efficace, aveva bisogno di un'altra runa abbinata. Una gemella. Una compagna. — Alleanza — disse Clary, sollevando lo stilo. — È così che la voglio chiamare. Jocelyn guardò in silenzio la runa che ardeva e poi si spegneva, lasciando sulla pietra sottili linee nere. — Quando ero più giovane — disse — ho lottato con tutte le mie forze per unire i Nascosti e i Cacciatori, per proteggere gli Accordi. Credevo di inseguire un sogno, qualcosa che gran parte dei Cacciatori non poteva nemmeno immaginare. E tu, adesso, l'hai reso concreto e letterale, e reale. — Batté le palpebre con forza. — Ho capito una cosa, vedendoti nella Sala degli Accordi. Sai, in tutti questi anni ho cercato di proteggerti nascondendoti. Per questo non mi piaceva che tu andassi al Pandemonium. Sapevo che era un posto dove i Nascosti e i mondani si mescolavano. E questo implicava che ci fossero anche dei Cacciatori. Pensavo che ad attirarti là fosse qualcosa che avevi nel sangue, qualcosa che riconosceva il mondo delle ombre. Pensavo che saresti stata al sicuro solo se ti avessi tenuto nascosto quel mondo. Non ho mai pensato che avrei potuto proteggerti aiutandoti a essere forte e a combattere. — La sua voce era piena di tristezza. — Ma tu sei diventata forte comunque. Abbastanza forte perché io adesso possa dirti la verità, se vuoi ancora sentirla. — Non lo so. — Clary pensò alle immagini che l'angelo le aveva mostrato, a quanto fossero terribili. — Ero arrabbiata con te perché mi hai mentito, è vero, ma ora non sono sicura di voler scoprire altre cose orribili. — Ne ho parlato con Luke. Lui pensa che dovresti sentire ciò che ho da dirti. Tutta la storia. Tutta, fino in fondo. Cose che non ho mai detto a nessuno, nemmeno a lui. Non posso garantirti che tutta la verità sarà gradevole. Ma sarà la verità. Dura lex, sed lex. Scoprire la verità: lo doveva a Jace come lo doveva a se stessa. Clary strinse più forte lo stilo, fino a far sbiancare le nocche. — Voglio sapere tutto. — Tutto... — Jocelyn fece un respiro fondo. — Non so nemmeno da dove iniziare. — Che ne dici di cominciare spiegandomi come hai fatto a sposare Valentine? Come hai potuto sposare un uomo come quello, fare di lui mio padre... È un mostro. — No. È un uomo. Non è un uomo buono. Ma se vuoi sapere perché l'ho sposato, è perché lo amavo. — Non è possibile — disse Clary. — Nessuno potrebbe amarlo. — Avevo la tua età quando m'innamorai di lui — raccontò Jocelyn. — Pensavo che fosse perfetto: brillante, intelligente, meraviglioso, divertente, affascinante... Lo so, mi guardi come se avessi perso la ragione. Tu conosci Valentine solo com'è adesso. Non puoi immaginare com'era allora. Quando eravamo a scuola insieme, tutte erano innamorate di lui. Sembrava brillare di luce propria, in un certo senso. Era come se ci fosse una parte dell'universo, un parte speciale e illuminata di luce viva, alla quale solo lui aveva accesso. E, se eravamo fortunate, forse poteva condividerla con noi, anche solo un poco. Tutte le ragazze lo adoravano e io credevo di non avere la minima possibilità. Non c'era niente di speciale, in me. Non ero neanche molto conosciuta in giro. Luke era uno dei miei amici più cari e passavo gran parte del mio tempo con lui. Eppure, in qualche modo, Valentine scelse me. Che schifo, avrebbe voluto dire Clary, ma si trattenne: forse per la nostalgia mista al rammarico che sentiva nella voce di sua madre. O forse per quello che sua madre aveva detto di Valentine, che era come se emanasse luce propria: Clary aveva pensato la stessa cosa di Jace, sentendosi poi molto stupida. Ma forse tutti gli innamorati si sentivano così. — Okay — disse. — Ho capito. Ma avevi sedici anni. Non significa che dovevi per forza sposarlo. — Ne avevo diciotto quando ci sposammo. E lui diciannove — annunciò Jocelyn in tono molto pratico. — Oh mio Dio! — esclamò Clary, inorridita. — Tu mi uccideresti se decidessi di sposarmi a diciotto anni. — Vero — disse Jocelyn. — Ma gli Shadowhunters tendono a sposarsi prima dei mondani. La loro... la nostra vita è più breve: molti di noi muoiono di morte violenta. Per questo tendiamo ad anticipare le cose, rispetto ai mondani. Comunque, ero giovane per sposarmi. Ma la mia famiglia era felice per me, anche Luke lo era. Tutti pensavano che Valentine fosse un ragazzo meraviglioso. Ed era solo un ragazzo, capisci? L'unica persona che mi disse che non avrei dovuto sposarlo fu Madeleine. Eravamo amiche, a scuola, ma quando le annunciai che mi ero fidanzata, mi disse che Valentine era egoista e odioso, che il suo fascino mascherava una terribile amoralità. Io pensai che fosse gelosa. — E lo era? — No — rispose Jocelyn. — Diceva la verità, solo che io non volevo sentirla. — Si guardò le mani. — Ma ti sei pentita — disse Clary. — Dopo averlo sposato, ti sei pentita di averlo fatto, vero? — Clary — sospirò Jocelyn. Sembrava stanca. — Noi eravamo felici. Almeno per i primi anni. Vivevamo nella tenuta di campagna dei miei genitori, dov'ero cresciuta io. Valentine non voleva stare in città e voleva che anche il resto del Circolo evitasse Alicante e gli occhi curiosi del Conclave. I Wayland vivevano in una tenuta a un paio di miglia dalla nostra e ce n'erano anche altri, poco lontano: i Lightwood, i Penhallow. Era come essere al centro del mondo, con tutto quel movimento che ci girava intorno, tutta quella passione. E in tutto questo, io ero sempre al fianco di Valentine. Non mi faceva mai sentire di troppo o irrilevante. No, ero un anello fondamentale del Circolo. Ci teneva, alla mia opinione, ed ero una dei pochi. Mi diceva sempre che, senza di me, non avrebbe potuto fare niente di tutto quello che stava facendo. Senza di me, lui non sarebbe stato niente. — Davvero? — Clary non riusciva a immaginare un Valentine che diceva cose simili, cose che lo facessero sembrare... vulnerabile. — Certo, ma non era vero. Valentine non sarebbe mai stato un niente. Era nato per essere un leader, per essere il centro di una rivoluzione. Continuavano ad arrivare nuovi adepti: attratti dalla sua passione, dalla genialità delle sue idee. Di rado parlava dei Nascosti, in quei primi giorni. Tutto girava intorno all'idea di riformare il Conclave, di cambiare leggi che erano antiche, rigide e sbagliate. Valentine diceva che dovevano esserci più Cacciatori, per combattere contro i demoni, e più Istituti; diceva che ci dovevamo preoccupare meno di nasconderci e più di proteggere il mondo dalle stirpi demoniache. Che dovevamo camminare nel mondo con orgoglio. Era seducente, la sua visione: un mondo pieno di Shadowhunters in cui i demoni scappavano spaventati, in cui i mondani, invece di non credere neppure alla nostra esistenza, ci ringraziavano per ciò che facevamo per loro. Eravamo giovani: pensavamo che i ringraziamenti fossero importanti. Non sapevamo. — Jocelyn fece un respiro profondo, come se fosse sul punto di tuffarsi sott'acqua. — Poi scoprii di essere incinta. Clary sentì un pizzicore freddo sulla nuca e all'improvviso - non avrebbe saputo dire il perché non era più sicura di volere tutta la verità da sua madre, non era più sicura di voler sentire, di nuovo, come Valentine aveva trasformato Jace in un mostro. — Mamma... Jocelyn scosse la testa, senza vedere nulla. — Mi hai chiesto perché non ti ho mai detto che avevi un fratello. Ora te lo spiegherò. — Prese fiato, a fatica. — Ero così felice, quando lo scoprii. E Valentine... aveva sempre voluto essere padre. Addestrare suo figlio a essere un guerriero, come suo padre aveva addestrato lui. «O nostra figlia», aggiungevo io. E lui sorrideva e diceva che una figlia poteva essere un bravo guerriero tanto quanto un maschio, e che lui sarebbe stato felice in ogni caso. Mi pareva che fosse tutto perfetto. «Poi Luke venne morso da un lupo mannaro. Dicono che ci sia una possibilità su due che il morso trasmetta la licantropia. Secondo me, siamo più nell'ordine di tre possibilità su quattro. Raramente ho visto qualcuno scampare il contagio, e Luke non fece eccezione. Alla prima luna piena, si trasformò. E la mattina dopo era sulla porta di casa nostra, coperto di sangue, i vestiti ridotti a brandelli. Io avrei voluto consolarlo, ma Valentine mi spinse via. Jocelyn!, esclamò. Il bambino! Come se Luke avesse potuto aggredirmi e strapparmi via il bambino dalla pancia. Era Luke! Ma Valentine mi spinse via e trascinò Luke nel bosco. Quando tornò indietro, dopo parecchio tempo, era solo. Gli corsi incontro, ma mi disse che Luke si era ucciso per la disperazione di essere diventato un licantropo. Che era... morto. Il dolore nella voce di Jocelyn era una ferita aperta. Ancora adesso, pensò Clary, pur sapendo che Luke non era morto. Ma anche Clary ricordava intensamente la propria disperazione quando, sui gradini dell'Istituto, aveva stretto tra le braccia Simon morente. C'erano dei sentimenti che non si potevano scordare. — Invece Valentine aveva dato un coltello a Luke — intervenne Clary con un filo di voce. — Gli aveva detto di uccidersi. E poi aveva convinto il marito di Amatis a divorziare da lei, solo perché il fratello di Amatis era diventato un lupo mannaro. — Questo non lo sapevo — mormorò Jocelyn. — Dopo la presunta morte di Luke, per me fu come cadere in un pozzo nero. Passai mesi interi chiusa in camera mia, a dormire tutto il giorno, a mangiare solo per il bambino. I mondani la chiamerebbero depressione, ma gli Shadowhunters non hanno parole di questo tipo. Valentine era convinto che fosse una gravidanza difficile. Diceva a tutti che ero malata. E, in effetti, lo ero. Avevo perso il sonno. Continuavo a pensare di sentire strani rumori, grida nella notte. Valentine mi faceva bere dei decotti per dormire, ma mi davano gli incubi. Sogni terribili, in cui Valentine mi schiacciava a terra e mi piantava un coltello nel cuore, o in cui bevevo veleno e soffocavo. La mattina dopo ero esausta e dormivo tutto il giorno. Non avevo idea di che cosa stesse succedendo fuori, non sapevo che mio marito aveva costretto Stephen a divorziare da Amatis e a sposare Céline. Ero come stordita. E poi... — Jocelyn si strinse le mani in grembo. Tremavano. — E poi nacque il bambino. Ci fu un silenzio così lungo che Clary si chiese se sua madre avrebbe ripreso il racconto. I suoi occhi fissavano le torri antidemoni senza vederle, le sue dita picchiettavano nervosamente contro un ginocchio, come a disegnare un tatuaggio. Alla fine, riprese: — Mia madre era con me, quando nacque il bambino. Tu non l'hai mai conosciuta. Tua nonna. Era una donna molto dolce. Ti sarebbe piaciuta, credo. Mi mise in braccio mio figlio, e la prima sensazione che provai era che stava perfettamente nel mio abbraccio, che la coperta che lo avvolgeva era morbida, che era piccolo e delicato, con un ciuffetto di capelli chiari in cima alla testa. Ma dopo... il bambino aprì gli occhi. La voce di Jocelyn era piatta, quasi senza tono, e tuttavia Clary si scoprì a tremare, a temere quello che sua madre stava per dire. Non dire più niente,avrebbe voluto dirle. Non dirmelo. Ma Jocelyn proseguì, e le parole le sgorgavano dalle labbra come gelido veleno. — Fui pervasa dall'orrore. Era come se mi avessero immersa nell'acido. La pelle sembrava bruciare e staccarsi dalle ossa. Fui brava a non mollare per terra il bambino e a non mettermi a urlare. Dicono che una madre riconosca il proprio figlio per istinto. Immagino che sia vero anche il contrario. Ogni nervo del mio corpo gridava che quello non era il mio bambino, che era un essere orribile e innaturale, disumano come un parassita. Come faceva, mia madre, a non accorgersene? Ma lei mi sorrideva, come se fosse tutto a posto. «"Si chiama Jonathan", disse una voce dalla porta. Alzai gli occhi e vidi Valentine che contemplava compiaciuto la scena. Il bambino aprì di nuovo gli occhi, come riconoscendo il suono del suo nome. Erano neri, neri come la notte, buchi cupi e senza fondo scavati nel cranio. Non c'era niente di umano, in quegli occhi. Ci fu un lungo silenzio. Clary era impietrita, fissava sua madre a bocca aperta, piena di orrore. È di Jace che sta parlando, pensava. Di Jace appena nato. Come è possibile avere simili sentimenti per un bambino appena nato! — Mamma — sussurrò. — Forse... forse eri in stato di shock, o qualcosa del genere. O forse eri malata... — È quello che mi disse anche Valentine — rispose Jocelyn senza mostrare emozioni. — Che ero malata. Valentine adorava Jonathan. Non riusciva a capire che cosa non andasse in me. E io sapevo che aveva ragione. Ero un mostro, una madre che non poteva sopportare la vista del proprio figlio. Pensai addirittura di uccidermi. E forse l'avrei fatto... Ma poi ricevetti un messaggio, un messaggio col fuoco, da Ragnor Fell. Era uno stregone che era sempre stato vicino alla mia famiglia: era lui che chiamavamo, quando ci serviva un incantesimo di guarigione, o cose del genere. Ragnor Fell aveva scoperto che Luke era diventato il capo di un branco di lupi mannari nella foresta di Brocelind, vicino al confine orientale. Bruciai il biglietto non appena l'ebbi letto. Sapevo che Valentine non avrebbe mai dovuto saperlo. Ma solo quando andai dove il branco si era insediato e vidi Luke seppi per certo che Valentine mi aveva mentito, a proposito del suo suicidio. Allora cominciai a odiarlo veramente. — Ma Luke mi ha detto che, ancora prima della sua Trasformazione, tu sapevi che in Valentine c'era qualcosa che non andava, sapevi che stava facendo cose terribili. Per un momento Jocelyn non rispose. — Sai, Luke non avrebbe mai dovuto essere morso. Non doveva accadere. Era un normale giro di pattuglia nei boschi. E lui era là fuori con Valentine. Non sarebbe mai dovuto accadere. — Mamma... — Luke mi ha ricordato che io, prima della sua Trasformazione, gli confidai che avevo paura di Valentine; gli dissi che sentivo delle grida dietro i muri della tenuta, che sospettavo, che temevo qualcosa. E Luke, il fiducioso Luke, il giorno dopo chiese spiegazioni a Valentine. Quella notte stessa Valentine lo portò a caccia e Luke venne morso. Credo che Valentine mi abbia fatto dimenticare ciò che avevo visto, ciò che mi aveva tanto spaventato, qualsiasi cosa fosse. Mi fece credere che fossero solo brutti sogni. E credo che, quella notte, abbia fatto in modo che Luke venisse morso. Credo che volesse toglierselo di torno, in modo che nessuno potesse ricordarmi quanto avevo paura di mio marito. Ma io tutto questo non lo capii, non subito almeno. Io e Luke ci vedemmo brevemente quella prima volta. Avrei tanto voluto dirgli di Jonathan, ma non potevo, non potevo. Jonathan era mio figlio. Eppure, vedere Luke, semplicemente vederlo, mi rese più forte. Tornai a casa dicendomi che avrei fatto un altro tentativo con Jonathan, che avrei imparato ad amarlo. Che mi sarei fatta amare da lui. «Quella notte fui svegliata dal pianto di un neonato. Mi sedetti di scatto sul letto, da sola nella mia stanza. Valentine era fuori, a una riunione del Circolo, e io non avevo nessuno con cui condividere il mio stupore. Vedi, Jonathan non piangeva mai. Non faceva mai alcun rumore. Il suo silenzio era una delle cose che più m'inquietava di lui. Mi precipitai in camera sua, ma lui dormiva tranquillo, in silenzio. Eppure, io lo sentivo quel pianto di bambino, ne ero sicura. Corsi giù dalle scale, seguendo il suono. Sembrava provenire dalla cantina vuota, ma la porta era chiusa a chiave. Quella cantina non veniva mai usata. Io però c'ero cresciuta, in quella casa, e sapevo dove mio padre nascondeva la chiave». Jocelyn non guardava Clary, mentre raccontava: sembrava persa nella storia, nei ricordi. — Non ti ho mai raccontato la storia della moglie di Barbablù quando eri piccola, vero? Barbablù aveva detto a sua moglie di non guardare mai nella stanza chiusa a chiave, ma lei ci volle guardare, e trovò i resti di tutte le mogli che lui aveva ucciso prima di lei, esposte come farfalle in una teca di vetro. Io non avevo idea, quando aprii la porta, di cosa ci avrei trovato dentro. Se dovessi rifarlo, riuscirei a convincermi ad aprire la porta? A usare la stregaluce per scendere nel buio? Non lo so, Clary, proprio non lo so. «L'odore... oh, l'odore che c'era laggiù: come di sangue e morte e putrefazione. Valentine aveva scavato una stanza sotterranea, dove prima c'era la cantina. Non era un bambino che avevo sentito piangere. C'erano delle celle, laggiù, con dentro delle cose imprigionate. Demoni, legati con catene di elettro, che si contorcevano e si accasciavano e gorgogliavano nelle celle. Ma c'era di più, molto di più... Corpi di Nascosti, in differenti stadi di agonia o di morte. C'erano lupi mannari col corpo mezzo dissolto dalla polvere d'argento. Vampiri tenuti a testa in giù nell'acqua benedetta, finché la pelle non gli si staccava dalle ossa. Esseri fatati, dalla pelle martoriata con aghi di ferro. «Ancora adesso non penso a lui come a un torturatore. Non nel vero senso della parola. Era come se perseguisse un qualche obiettivo scientifico. C'erano dei quaderni di appunti accanto a ogni cella, che registravano meticolosamente i suoi esperimenti, e quanto tempo c'era voluto perché una certa creatura morisse. C'era un vampiro al quale aveva bruciato più volte la pelle, per vedere se c'era un punto oltre il quale la povera creatura non sarebbe più riuscita a rigenerarsi. Era difficile leggere senza sentire l'urgenza di vomitare, o di svenire. In qualche modo, non mi successe né l'una né l'altra cosa. «C'era una pagina dedicata agli esperimenti che aveva condotto su se stesso. Aveva letto da qualche parte che il sangue di demone poteva agire da amplificatore dei poteri con cui tutti gli Shadowhunters nascono. Aveva cercato di iniettarsi del sangue di demone, ma senza risultato. Non era successo niente: aveva solo avuto una forte nausea. Alla fine era arrivato alla conclusione di essere troppo vecchio perché il sangue potesse avere effetto su di lui; aveva capito che, per essere efficace, il sangue doveva essere somministrato a un bambino, preferibilmente prima ancora della nascita. «Sulla pagina accanto a quella in cui descriveva questa sua deduzione, aveva scritto una serie di appunti sotto un titolo che riconobbi: il mio nome.Jocelyn Morgenstern. Giravo le pagine con le dita tremanti e le parole mi si incidevano a fuoco nella mente. Stasera Jocelyn ha di nuovo bevuto l'intruglio. Non ci sono cambiamenti visibili in lei, ma è il bambino che m'interessa... Con infusioni regolari di sangue di demone, come quelle che le sto somministrando, il bambino potrebbe nascere in grado di fare qualsiasi cosa... Ieri sera ho sentito il cuore del bambino, più forte di un qualsiasi cuore umano, un suono possente come, quello di una campana, che batte l'inizio di una nuova generazione di Shadowhunters: il sangue di angeli e di demoni mescolato insieme, a produrre poteri oltre ogni immaginazione... Il potere dei Nascosti non sarà più il più grande della terra... «C'era altro, molto altro. Giravo le pagine freneticamente, con le mani che tremavano e la mente correva al passato, rivedeva i decotti che Valentine mi dava da bere tutte le sere, gli incubi in cui venivo soffocata, accoltellata, avvelenata. Ma Valentine non aveva avvelenato me: aveva avvelenato Jonathan. Jonathan. L'aveva trasformato in una sorta di mezzo demone. E fu allora, Clary... fu allora che capii che cos'era veramente Valentine. Clary lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto senza rendersene conto. Era orribile, troppo orribile, eppure tutto corrispondeva perfettamente alla visione che Ithuriel le aveva mandato. Non sapeva per chi provare più pietà, se per sua madre o per Jonathan. Jonathan... Ora non riusciva a pensare a lui come a Jace, non con sua madre lì, non con la sua storia così fresca nella mente. Condannato a non essere più umano, da un padre che aveva più a cuore la morte dei Nascosti che la felicità della sua famiglia. — Però... non fu allora che te ne andasti, vero? — chiese Clary con un filo di voce. — Sei rimasta... — Per due ragioni — spiegò Jocelyn. — Una era la Rivolta. Quello che scoprii nella cantina quella notte fu come uno schiaffo in pieno viso. Mi risvegliò dalla mia pena e mi fece finalmente aprire gli occhi su quello che stava succedendo intorno a me. Quando finalmente capii che cosa stava progettando mio marito, cioè un massacro generale di tutti i Nascosti, capii anche che dovevo impedirglielo. Cominciai a incontrare Luke in segreto. Non potevo dirgli che cosa aveva fatto Valentine a me e a nostro figlio. Sapevo che questo l'avrebbe fatto infuriare, che non sarebbe riuscito a frenarsi e avrebbe dato la caccia a Valentine per ucciderlo; si sarebbe fatto ammazzare. E non potevo rivelare a nessun altro ciò che era stato fatto a Jonathan. Nonostante tutto, era pur sempre il mio bambino. Però raccontai a Luke degli orrori nella cantina, della mia convinzione che Valentine stesse perdendo il lume della ragione, che stesse diventando sempre più folle. Insieme, organizzammo un'azione per contrastare la Rivolta. Sentivo che dovevo farlo, Clary. Era una sorta di espiazione, l'unico modo per espiare il peccato di essere entrata nel Circolo, di aver dato fiducia a Valentine. Di averlo amato. — E lui non ne sapeva niente? Voglio dire, non si accorse di quello che stavi facendo? Jocelyn scosse la testa. — Quando una persona ti ama, si fida di te. E poi, a casa cercavo di fingere che fosse tutto normale. Mi comportavo come se la mia iniziale repulsione alla vista di Jonathan fosse sparita. Lo portavo a casa di Maryse Lightwood, lo facevo giocare con suo figlio Alec. Qualche volta veniva anche Céline Herondale. Era incinta, a quel tempo. "Tuo marito è così gentile", mi diceva. "Si preoccupa tanto per me e per Stephen. Mi dà delle pozioni e dei decotti per la salute del bambino: sono straordinari. " — Oh — esclamò Clary. — Oh, mio Dio! — È quello che pensai anch'io — disse cupamente Jocelyn. — Avrei voluto dirle di non fidarsi di Valentine e di non prendere niente di quello che le dava, ma non potevo. Suo marito era il più intimo amico di Valentine e lei mi avrebbe tradito dicendoglielo immediatamente. Tenni la bocca chiusa. E poi... — Si uccise — disse Clary, ricordando la sua storia. — Ma... fu per quello che le aveva fatto Valentine? Jocelyn scosse la testa. — Onestamente, credo di no. Stephen venne ucciso in un raid e lei, quando seppe la notizia, si tagliò le vene. Era incinta di otto mesi. Morì dissanguata.. . — Jocelyn riprese dopo una pausa. — Fu Hodge a trovare il corpo. Valentine sembrò davvero stravolto dalla loro morte. Sparì per un giorno intero e tornò a casa barcollando, con gli occhi arrossati. Eppure, per certi versi, fui quasi contenta di questa sua distrazione. Almeno significava che non prestava attenzione a quello che io stavo facendo. Di giorno in giorno avevo più paura che Valentine scoprisse la cospirazione e cercasse di strapparmi la verità con la tortura. Chi c'era nella nostra alleanza segreta? Quanto e come ero riuscita a mandare all'aria il suo piano? Mi chiedevo come e se avrei saputo resistere alla tortura. Temevo di non farcela. Alla fine mi decisi a prendere dei provvedimenti per assicurarmi che non succedesse. Andai da Ragnor Fell con tutte le mie paure, e lui mi preparò una pozione... — La pozione del Libro Bianco — intervenne Clary, capendo. — Ecco perché la volevi. E l'antidoto... ma come ha fatto il libro a finire nella biblioteca dei Wayland? — Ce lo nascosi io, una sera durante una festa — raccontò Jocelyn con l'ombra di un sorriso. — Non volevo dire niente a Luke, perché sapevo che si sarebbe opposto all'idea della pozione, e tutti quelli che conoscevo erano nel Circolo. Mandai un messaggio a Ragnor, ma stava partendo da Idris e non poteva dirmi quando sarebbe tornato. Mi disse che avrei sempre potuto raggiungerlo con un messaggio. Ma chi l'avrebbe inviato? Alla fine, pensai che c'era un'unica persona alla quale avrei potuto dirlo, una persona che odiava Valentine e che non mi avrebbe mai tradito. Mandai una lettera a Madeleine, spiegandole che cosa avevo progettato e che l'unico modo per farmi riprendere conoscenza era trovare Ragnor Fell. Non ebbi mai una risposta da lei, ma sperai che avesse letto la lettera e avesse capito. Era tutto quello a cui mi potevo aggrappare. — Due ragioni — le ricordò Clary. — Hai detto che erano due le ragioni che ti avevano fatto restare. Una era la Rivolta. E l'altra? Gli occhi verdi di Jocelyn erano stanchi, ma grandi e luminosi. — Clary — disse. — Non indovini? La seconda ragione era che aspettavo un altro bambino. Te. — Oh — disse Clary con un filo di voce. Ricordò le parole di Luke: "Portava dentro di sé un altro bambino e lo sapeva da settimane". — Ma proprio per questo: non ti venne voglia di scappare? — Sì — disse Jocelyn. — Ma sapevo che non potevo. Se fossi scappata, Valentine avrebbe rovesciato il cielo e la terra pur di riportarmi indietro. Mi avrebbe seguito fino in capo al mondo, perché io gli appartenevo e non mi avrebbe mai lasciato andare. Se fossi stata da sola sarei scappata, avrei corso il rischio, ma non potevo permettere che prendesse anche te. — Si scostò i capelli dal viso stanco. — C'era solo un modo per essere sicura che non lo facesse mai. Ed era che morisse. Clary guardò sua madre con sorpresa. Jocelyn era ancora stanca, ma il suo volto brillava di luce feroce. —Pensavo che sarebbe morto durante la Rivolta—proseguì. — Io non avrei mai potuto ucciderlo con le mie mani. Non ci sarei mai riuscita. Ma non pensavo che potesse sopravvivere alla battaglia. E più tardi, quando la casa bruciò, volli credere che fosse morto. Mi ripetei mille volte che lui e Jonathan erano bruciati nell'incendio, ma sapevo che... — La sua voce si spense. — Fu per questo che feci ciò che feci. Pensai che l'unico modo per proteggerti fosse di portarti via i ricordi e trasformarti il più possibile in una mondana. Di nasconderti nella società dei mondani. Sono stata una stupida, solo ora me ne rendo conto. Ho sbagliato. E mi dispiace, Clary. Spero tanto che tu mi possa perdonare... se non ora, almeno in futuro. — Mamma. — Clary si schiarì la voce. Erano almeno dieci minuti che le veniva da piangere. — Va tutto bene. È solo che... c'è una cosa che non capisco. — Strinse le dita intorno al tessuto del cappotto. — Sapevo già, almeno in parte, ciò che Valentine aveva fatto a Jace... cioè, a Jonathan. Ma da come descrivi Jonathan, è come se fosse un mostro. E, mamma, Jace non è così. Non è minimamente così. Se lo conoscessi... se solo potessi incontrarlo.... — Clary. — Jocelyn le strinse una mano tra le sue. — C'è dell'altro che ti devo raccontare. Non c'è più niente che ti abbia tenuto nascosto, o su cui ti abbia mentito. Ma ci sono cose che non sapevo neanch'io e che ho scoperto da poco. E potrebbero essere difficili da sentire. Peggio di quello che mi hai già detto?, pensò Clary. Si mordicchiò un labbro e annuì. — Dimmi tutto. Preferisco sapere. — Quando madame Dorothea mi disse che Valentine era stato visto in città, capii che era lì per me, per la Coppa. Volevo fuggire, ma non riuscivo a trovare un modo di spiegarti il perché. Non ti biasimo per essere scappata via in quel modo, quella sera, Clary. Ero contenta che tu non fossi in casa, quando tuo padre... quando Valentine e i suoi demoni fecero irruzione nel nostro appartamento. Ebbi appena il tempo di bere la pozione, mentre loro spaccavano la porta dell'ingresso. — La voce era tesa, si fermò. — Speravo che Valentine mi credesse morta e mi lasciasse lì, ma non fu così. Mi portò con sé a Renwick. Provò a risvegliarmi in tutti i modi, ma nessuno dei suoi metodi funzionò. Ero in una sorta di stato sognante: ero consapevole della sua presenza, ma non potevo muovermi né reagire. Dubito che lui pensasse che potevo sentirlo o capirlo. E tuttavia, mentre dormivo, lui si sedeva accanto al letto e mi parlava. — Ti parlava? E di che? — Del nostro passato. Del nostro matrimonio. Di quanto mi avesse amato e di come io l'avessi tradito. Del fatto che da allora non aveva più amato nessuno. Credo che fosse sincero, a modo suo. Ero io la sola persona con cui Valentine parlava dei dubbi che aveva, dei sensi di colpa che provava. E dopo la mia fuga, non c'era stato nessun altro. Era come se non riuscisse a fermarsi, come se avesse bisogno di parlare con me, pur sapendo che non avrebbe dovuto. Forse aveva semplicemente bisogno di parlare con qualcuno. Parlare non di quello che aveva fatto a quei poveretti, trasformandoli in Dimenticati, o di quello che aveva in mente di fare al Conclave. No. Lui voleva parlare di Jonathan. — Di Jonathan? Jocelyn strinse le labbra. — Voleva dirmi che gli dispiaceva per quello che aveva fatto a Jonathan prima che nascesse, perché sapeva che questo mi aveva quasi distrutto. Sapeva che, a causa di Jonathan, avevo rischiato il suicidio. Non sapeva, però, che ero disperata anche per quello che avevo scoperto su di lui. In qualche modo, si era procurato del sangue d'angelo. È una sostanza quasi leggendaria, per gli Shadowhunters. Si dice che chi lo beve ne ricavi una forza incredibile. Valentine l'aveva provato su di sé e aveva scoperto che non solo aumentava la sua forza, ma gli dava anche un senso di euforia e di gioia ogni volta che se lo iniettava. Così prese del sangue d'angelo, lo seccò, lo ridusse in polvere e lo mescolò al mio cibo, sperando che mi guarisse dalla mia disperazione. Lo so io, dove ha preso il sangue d'angelo, si disse Clary, ripensando a Ithuriel con profonda tristezza. — E credi che abbia funzionato? — Mi chiedo se sia per quello che, improvvisamente, trovai la forza e la concentrazione per andare avanti, per aiutare Luke a mandare a monte la Rivolta. Sarebbe una bella ironia della sorte se fosse così, pensando al motivo per cui Valentine l'aveva fatto. Ma ciò che Valentine non sapeva era che, mentre lui faceva questo, io aspettavo già te. Quindi, se su di me può avere avuto un effetto leggero, su di te il sangue d'angelo ebbe un effetto molto più grande. Credo che sia per questo che hai il dono di creare nuove rune. — E forse — disse Clary — questo spiega anche perché tu sei capace, per esempio, di imprigionare l'immagine della Coppa Mortale nella carta di un mazzo di tarocchi. E perché Valentine ha potuto togliere la maledizione di Hodge... — Valentine ha fatto esperimenti su di sé per anni, in mille modi diversi — disse }ocelyn. È quanto di più vicino a uno stregone possa essere uno Shadowhunter. Ma niente di quello che fa a se stesso potrà avere gli effetti profondi che ha avuto su di te o su Jonathan, perché voi eravate piccolissimi. Credo che nessun altro abbia mai fatto ciò che ha fatto lui, non certo a un bambino prima della nascita. — Quindi è vero che io e Jace... Jonathan... siamo degli esperimenti. — Tu in modo non intenzionale. Ma con Jonathan, Valentine aveva voluto creare una specie di superguerriero, più forte, più veloce, più bravo di tutti gli altri Shadowhunters. A Renwick, Valentine mi disse che Jonathan era davvero tutto questo, ma era anche crudele, amorale e stranamente vuoto. Jonathan era abbastanza fedele a Valentine, ma Valentine si era reso conto che, nel tentativo di creare un bambino superiore agli altri, aveva creato un figlio che non l'avrebbe mai amato veramente. Clary ripensò a Jace, a come le era apparso a Renwick, al modo in cui aveva stretto tra le mani quel frammento del Portale, così forte da sanguinare. — No — protestò. — No e ancora no. Jace non è così. Lui vuole bene a Valentine. Non dovrebbe, ma è così. E non è vuoto. È tutto il contrario di quello che mi stai dicendo. Jocelyn si torceva le mani in grembo. Erano percorse da sottili cicatrici bianche: le stesse che tutti gli Shadowhunters avevano, la traccia di marchi svaniti. Ma Clary non aveva mai visto veramente le cicatrici di sua madre: la magia di Magnus gliele aveva fatte sempre dimenticare. Ce n'era una, all'interno del polso, che aveva la forma di una stella... Quando sua madre parlò di nuovo, ogni altro pensiero svanì dalla mente di Clary. — Non è di Jace — disse Jocelyn — che stavo parlando. — Ma... — Tutto sembrava succedere al rallentatore, come nei sogni. Forse è un sogno, pensò Clary. Forse mia madre non si è mai svegliata e tutto questo è solo un sogno. — Jace è il figlio di Valentine. Chi altri potrebbe essere? Jocelyn guardò sua figlia dritto negli occhi. — Come ti ho detto, la notte in cui Céline Herondale morì era all'ottavo mese di gravidanza. Valentine le aveva dato polveri e pozioni: stava sperimentando su di lei ciò che aveva provato su se stesso con il sangue dell'angelo, sperando che il figlio di Stephen potesse diventare forte e potente come Jonathan, ma senza le qualità peggiori di Jonathan. Non poteva sopportare l'idea che il suo esperimento andasse in fumo. Per questo, con l'aiuto di Hodge, fece nascere il bambino di Céline, che era morta da pochissimo tempo... Clary ebbe un conato di disgusto. — Ma non è possibile. Jocelyn proseguì, come se Clary non avesse parlato. — Valentine prese il bambino e ordinò a Hodge di portarlo nella casa della sua infanzia, in una valle non lontana dal lago Lyn. Per questo quella notte Valentine non rientrò. Hodge si prese cura del bambino fino alla Rivolta. Poi Valentine, che si fingeva Michael Wayland, lo trasferì alla tenuta dei Wayland e lo allevò come figlio di Michael Wayland. — Quindi Jace... — sussurrò Clary. — Jace non è mio fratello? Sentì sua madre stringerle la mano, una stretta piena di solidarietà. — No, Clary. Non è tuo fratello. A Clary si annebbiò la vista. Sentiva il cuore battere in colpi singoli, separati l'uno dall'altro. Mia madre è dispiaciuta per me, pensò lontanamente. Lei crede che questa sia una brutta notizia. Le tremavano le mani. — Allora di chi erano le ossa che furono rinvenute sul luogo dell'incendio? Luke dice che c'erano le ossa di un bambino... Jocelyn scosse la testa. — Quelle erano le ossa di Michael Wayland e di suo figlio. Valentine li uccise entrambi e bruciò i loro corpi. Voleva far credere al Conclave di essere morto, insieme a suo figlio. — Allora Jonathan... — È vivo — disse Jocelyn con un dolore improvviso sul volto. — Me lo disse Valentine, a Renwick. Valentine aveva allevato Jace nella tenuta dei Wayland e Jonathan nella casa vicino al lago. In qualche modo riuscì a dividere il proprio tempo tra i due, spostandosi da una casa all'altra, qualche volta lasciandone uno, o entrambi, da soli per molto tempo. Sembra che Jace non abbia mai saputo dell'esistenza di Jonathan, ma forse Jonathan potrebbe sapere di Jace. Non si sono mai incontrati, pur vivendo a poche miglia di distanza. — E quindi Jace non ha sangue di demone dentro di sé? Non è... maledetto? — Maledetto? — Jocelyn si sorprese. — No, non c'è traccia di sangue di demone in lui. Clary, Valentine ha fatto esperimenti su Jace bambino con lo stesso sangue che ha usato per me e per te. Sangue di angelo. Jace non è maledetto. Anzi, al contrario. Tutti gli Shadowhunters hanno un po' di sangue dell'Angelo in sé. Voi due ne avete un po' di più, tutto qui. La mente di Clary girava a tutta velocità. Cercava di immaginare Valentine che allevava contemporaneamente due bambini, uno in parte demone, l'altro in parte angelo. Uno figlio dell'ombra, l'altro figlio della luce. Amandoli entrambi, forse, ammesso che Valentine fosse capace di amare. Jace non aveva mai saputo di Jonathan, ma lui che cosa sapeva di Jace, della sua parte complementare, del suo opposto? Ne aveva detestato anche solo il pensiero? Aveva desiderato conoscerlo? Era stato indifferente? Entrambi erano stati così soli. E uno dei due era suo fratello, il suo vero fratello, di sangue. — Credi che sia ancora uguale? Jonathan, voglio dire. Tu credi che possa essere diventato... migliore? — Credo di no — disse Jocelyn dolcemente. — Ma come fai a esserne così sicura? — Clary si girò di scatto verso sua madre con una rabbia improvvisa. — Voglio dire: forse è cambiato. Sono passati anni. Forse... — Valentine mi disse di aver passato anni a insegnare a Jonathan a presentarsi bene, persino a essere affascinante. Voleva farlo diventare una spia. E non puoi essere una spia se spaventi tutti quelli che incontri. Jonathan aveva imparato anche a creare delle blande illusioni, per convincere gli altri di essere una persona gradevole e affidabile. — Jocelyn sospirò. — Ti sto dicendo questo perché sei stata ingannata anche tu, ma non è colpa tua. Clary, tu hai conosciuto Jonathan. Solo che non ti ha rivelato il suo vero nome, perché stava fingendo di essere qualcun altro. Sebastian Verlac. Clary fissò sua madre. Ma è il cugino dei Penhallow, insisteva a dire una parte della sua mente. Ma Sebastian, naturalmente, non era mai stato chi sosteneva di essere: tutto quello che aveva detto era una bugia. Pensò a come si era sentita la prima volta che l'aveva visto: era come se avesse riconosciuto qualcuno che conosceva da tutta la vita, qualcuno di intimamente familiare quanto se stessa. Non si era mai sentita così, con Jace. — Sebastian è mio fratello? Il bel viso di Jocelyn era teso, la mani intrecciate. Le punte delle dita erano bianche, come per una pressione eccessiva. — Ho parlato a lungo con Luke oggi, di tutto quello che è successo ad Alicante da quando sei qui. Mi ha detto delle torri antidemoni, del suo sospetto che fosse stato Sebastian a distruggere le difese, pur non avendo idea di come avesse fatto. È stato allora che ho capito chi era veramente Sebastian. — Cioè hai capito che aveva mentito sulla sua identità. E che era una spia di Valentine. È così? — L'una e l'altra cosa, sì — disse Jocelyn. — Ma in realtà l'ho capito solo quando Luke mi ha raccontato che tu gli avevi detto che Sebastian si tingeva i capelli. E potrei sbagliarmi, ma un ragazzo poco più grande di te, coi capelli chiari e gli occhi scuri, apparentemente senza genitori, assolutamente fedele a Valentine... Non poteva essere altri che Jonathan. E c'è dell'altro. Valentine aveva sempre cercato di trovare un modo per abbattere le difese, era sempre stato sicuro che ci fosse un modo per farlo. Facendo esperimenti su Jonathan con il sangue di un demone, diceva che lo scopo era renderlo più forte e migliore come guerriero, ma c'era di più... Clary la fissava. — Cosa intendi? — Era il suo sistema per abbattere le difese — rivelò Jocelyn. — Non puoi portare un demone ad Alicante, ma c'è bisogno di sangue di demone per abbattere le difese. E Jonathan ha in sé sangue di demone: è nelle sue vene. Tuttavia, essendo uno Shadowhunter, ha automaticamente accesso alla città ogni volta che vuole, per qualsiasi motivo. Jonathan ha usato il suo sangue per abbattere le difese, ne sono sicura. Clary ripensò a Sebastian, accanto a lei sull'erba vicino alle rovine della tenuta dei Fairchild, col vento che gli scompigliava i capelli. Ripensò al modo in cui le aveva stretto il polso, affondandole le unghie nella pelle. Al modo in cui aveva detto che era impossibile che Valentine volesse bene a Jace. Clary aveva pensato che lo dicesse perché odiava Valentine. Ma non era così, e lo capiva solo adesso. Sebastian era... geloso. Ripensò al tenebroso principe dei suoi disegni, quello che somigliava tanto a Sebastian. Aveva pensato che fosse pura coincidenza, uno scherzo dell'immaginazione, ma ora si chiedeva se non fosse il loro legame di sangue che l'aveva spinta a dare il volto di suo fratello all'eroe infelice della sua storia. Cercò di visualizzare il suo principe, ma l'immagine sembrava sbriciolarsi e dissolversi davanti ai suoi occhi come cenere portata dal vento. Ora vedeva solo Sebastian, e la luce rossastra, della città in fiamme riflessa nei suoi occhi. — Jace! — esclamò. — Qualcuno deve dirglielo. Deve dirgli la verità. — I suoi pensieri rotolavano gli uni sugli altri alla rinfusa. Se Jace avesse saputo, se avesse saputo di non avere sangue di demone, forse non sarebbe andato a cercare Valentine. Se avesse saputo di non essere il fratello di Clary... — Ma io pensavo — disse Jocelyn con un misto di comprensione e di stupore — che nessuno sapesse dov'è... Prima che Clary potesse rispondere, le doppie porte della Sala degli Accordi si spalancarono, riversando la luce tra le colonne del porticato e sui gradini sottostanti. Il rombo sordo delle voci, non più attutito, esplose mentre Luke usciva. Era esausto, ma aleggiava una leggerezza intorno a lui che prima non c'era. Sembrava quasi sollevato. Jocelyn si alzò in piedi. — Luke. Cosa succede? Luke fece qualche passo verso di loro, poi si fermò tra le porte e la scalinata. — Jocelyn — disse — scusate se vi interrompo. — Non c'è problema, Luke. — Pur nello stordimento, Clary pensò: Ma perché continuano a chiamarsi per nome in questo modo! C'era una sorta di imbarazzo tra loro, adesso, un imbarazzo che prima non c'era. — Qualcosa non va? Luke scosse la testa. — No. Una volta tanto, qualcosa va per il verso giusto. — Sorrise a Clary e non c'era nessun imbarazzo in quel suo sorriso: si vedeva che era contento di lei, e anche orgoglioso. — Ce l'hai fatta, Clary! — annunciò. — Il Conclave ha accettato di ricevere il marchio da te. Non ci sarà nessuna resa. capitolo 18 AVE ATQUE VALE La valle era più bella nella realtà che nella visione di Jace. Forse era per la luce della luna che inargentava il fiume sul fondo della verde insenatura. Betulle bianche e pioppi ne costellavano i lati e le loro foglie fremevano nell'aria fresca. Faceva piuttosto freddo sull'altura, dove non c'era riparo dal vento. Era senza dubbio quella la valle dove Jace aveva visto Sebastian. Finalmente si stava avvicinando. Dopo aver legato Wayfarer a un albero, Jace prese il filo insanguinato dalla tasca e ripetè il rituale della localizzazione, per essere più sicuro. Chiuse gli occhi, aspettandosi di vedere Sebastian, magari molto vicino, magari ancora nella valle... Ma vide solo il buio. Il cuore cominciò a battergli forte. Riprovò, spostando il filo nella mano sinistra e disegnando goffamente la runa con la meno agile mano destra. Fece un respiro profondo, prima di chiudere gli occhi. Anche stavolta, niente. Solo un nero tremolante e pieno di ombre. Rimase fermo per un minuto intero, stringendo i denti, col vento che gli penetrava nella giacca e lo faceva rabbrividire. Alla fine aprì gli occhi, imprecando, poi, con un moto di rabbia disperata aprì anche il pugno. Il vento raccolse il filo e lo portò via, così rapidamente che Jace non sarebbe mai riuscito a recuperarlo, nemmeno se si fosse pentito all'istante del proprio gesto. La mente galoppava. Era chiaro che la runa di localizzazione non funzionava più. Forse Sebastian si era accorto di essere seguito e aveva fatto qualcosa per rompere l'incantesimo. Ma cosa si poteva fare, per bloccare una localizzazione? Forse aveva trovato un grande specchio d'acqua. L'acqua disturbava la magia. Non che questo gli fosse di grande aiuto. Non poteva certo fare il giro di tutti i laghi di Idris, per controllare se tra le onde c'era Sebastian. Eppure, c'era andato così vicino... così vicino. Jace aveva visto quella valle, e Sebastian in quella valle. E la casa era lì, appena visibile, rannicchiata vicino a un gruppo di alberi. Valeva comunque la pena scendere a dare un'occhiata, per vedere se c'era qualcosa che potesse suggerirgli la posizione di Sebastian, o di Valentine. Con un senso di rassegnazione, Jace usò lo stilo per marchiarsi con un certo numero di rune di battaglia, ad azione e a scomparsa immediata: una per dargli il silenzio, una per la velocità, una per camminare con passo sicuro. Poi, sentendo sulla pelle il bruciore familiare, si rimise lo stilo in tasca, diede a Wayfarer una rapida pacca sul collo e si avviò verso il fondovalle. I fianchi dell'infossamento erano ingannevolmente ripidi e resi insidiosi da tratti pietrosi. Jace alternava momenti in cui scendeva cautamente passo dopo passo, ad altri in cui scivolava sul ghiaione, in modo più rapido ma pericoloso. Quando giunse in fondo, aveva le mani insanguinate per le numerose cadute sulle pietre. Se le lavò nell'acqua chiara e rapida del torrente, così fredda da gelargli la pelle. Quando si raddrizzò e si guardò intorno, si rese conto che stava osservando la valle da un'angolazione diversa rispetto a quella della visione. Vide il boschetto di alberi contorti dalle fronde intrecciate, racchiuso tra i due pendii; e vide la casetta. Le finestre erano scure e dal camino non usciva fumo. Jace sentì al contempo sollievo e delusione. Sarebbe stato più facile perquisire la casa, se non c'era nessuno. Avvicinandosi si chiese che cosa gli fosse parso strano e inquietante, di quella casa, nella visione. Da vicino sembrava una normale casa di campagna di Idris, fatta di pietra bianca e grigia. Gli scuri erano stati dipinti di un azzurro intenso, ma sembrava che nessuno li ridipingesse più da anni. Erano sbiaditi e scorticati. Jace si avvicinò a una finestra, salì sul davanzale e sbirciò all'interno dai vetri appannati. Vide una stanza grande e un po' polverosa, con uno strano tavolo da lavoro addossato a una parete. Gli strumenti sul tavolo non sembravano affatto quelli che potrebbero servire a un artigiano. Erano piuttosto quelli di uno stregone: fasci di pergamene macchiate; candele nere; recipienti di rame con tracce di liquido scuro essiccato lungo i bordi; un ricco assortimento di coltelli, alcuni sottili come punteruoli, altri con grandi lame squadrate. C'era un pentacolo, disegnato per terra con il gesso. Aveva profili incerti e ciascuna punta era decorata da una runa diversa. A Jace si strinse lo stomaco: le rune erano simili a quelle incise ai piedi di Ithuriel. Era stato Valentine? Erano quelle le sue cose? Quello era il suo nascondiglio, rimasto sempre sconosciuto a Jace? Scivolò giù dal davanzale, atterrando su una macchia d'erba secca. In quel momento, un'ombra passò sulla faccia della luna. Non c'erano uccelli in quella valle, pensò Jace. Alzò gli occhi appena in tempo per vedere un corvo volare in cerchio nel cielo notturno. S'immobilizzò, poi si nascose rapidamente nell'ombra di un albero e lo spiò tra i rami. Quando il corvo si abbassò, Jace seppe che il suo primo istinto era stato giusto. Non era un corvo qualsiasi: era Hugo, il corvo che un tempo era appartenuto a Hodge. A volte Hodge lo usava per portare messaggi fuori dall'Istituto. Da allora, Jace aveva scoperto che in origine Hugo era appartenuto a suo padre. Il ragazzo si appiattì contro il tronco dell'albero. Il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. Se Hugo era lì, poteva solo significare che aveva un messaggio, e questa volta il messaggio non poteva essere per Hodge. Era per Valenti-ne. Doveva essere per Valentine. Se solo Jace fosse riuscito a seguirlo... Appollaiatosi su un davanzale, Hugo sbirciò dentro la finestra. Quando capì che la casa era vuota, si levò in volo con un gracchio irritato e svolazzò verso il torrente. Jace uscì dall'ombra e si lanciò all'inseguimento. — Quindi, tecnicamente — ragionò Simon — Jace non è tuo parente, ma tu hai comunque baciato tuo fratello. — Simon! — Clary inorridì. — SMETTILA! — Si girò per vedere se qualcuno li stesse ascoltando, ma fortunatamente nessuno prestava loro attenzione. Era seduta su un'alta seggiola, sul podio nella Sala degli Accordi, e Simon era al suo fianco. Sua madre era vicina al podio e parlava con Amatis. Intorno a loro, la Sala era immersa nel caos, mentre i Nascosti che arrivavano dalla Porta Settentrionale vi si riversavano e si assiepavano lungo le pareti. Clary riconobbe vari elementi del branco di Luke, tra cui Maia, che le fece un gran sorriso. C'erano esseri fatati, pallidi e freddi e belli come ghiaccioli; c'erano stregoni con ali di pipistrello e piedi caprini, persino uno con un palco di corna da cervo, e dalle loro dita sfuggivano scintille azzurre. I Cacciatori si aggiravano nervosamente in mezzo a loro. Stringendo lo stilo con entrambe le mani, Clary si guardò intorno con aria ansiosa. Dov'era Luke? Sembrava svanito nella folla. Lo individuò dopo un momento, intento a parlare con Malachi che scuoteva vigorosamente il capo. C'era anche Amatis con loro, che lanciava a Malachi occhiate di fuoco. — Non farmi pentire di averti raccontato queste cose, Simon — disse Clary guardandolo torvo. Aveva fatto del suo meglio per dargli una versione ridotta della storia di Jo-celyn, per lo più sussurrando sottovoce, mentre lui la aiutava a farsi largo tra la folla fino al podio. Era strano, per Clary, essere lassù e guardare la sala come se fosse la regina di tutto ciò che i suoi occhi vedevano. Ma una regina non sarebbe mai stata così in preda al panico. — E poi, non baciava per niente bene. — O forse ti faceva schifo, perché era... come dire... tuo fratello! — Simon sembrava più divertito del dovuto. — E non dirlo dove mia madre può sentirti o ti ammazzo — gli intimò Clary con un'altra occhiataccia. — Già mi sento che sto per svenire o per vomitare. Non peggiorare le cose! Jocelyn, avvicinandosi a loro giusto in tempo per sentire le ultime parole di Clary (ma, fortunatamente, non l'argomento di discussione tra lei e Simon), le posò una mano rassicurante sulla spalla. — Non essere nervosa, bimba. Prima sei stata fantastica. Hai bisogno di qualcosa? Una coperta, dell'acqua calda... — Non ho freddo — rispose Clary paziente. — E non devo fare il bagno. Sto bene. Voglio solo che Luke venga qui e mi spieghi che cosa sta succedendo. Jocelyn agitò una mano per richiamare l'attenzione di Luke, formulando con le labbra delle parole che Clary non riuscì a decifrare. — Mamma — sibilò. — Lascia stare. — Troppo tardi. Luke alzò gli occhi, e con lui diversi altri Cacciatori. Gran parte di loro distolsero lo sguardo con altrettanta rapidità, ma Clary colse l'ammirazione nei loro occhi. Era strano pensare che sua madre fosse una specie di donna leggendaria, lì. Praticamente tutti nella Sala conoscevano il suo nome e avevano una propria opinione su di lei, buona o cattiva che fosse. Chissà come faceva sua madre a non farsi condizionare, si chiese Clary. Non sembrava affatto turbata: anzi, semmai perfettamente padrona di sé. Sicura e pericolosa. Un attimo dopo Luke li raggiunse sul podio, con Amatis al suo fianco. Era ancora visibilmente stanco, ma era vigile e persino un po' emozionato. — Aspettate ancora un secondo — disse. — Stanno arrivando tutti. — Malachi — intervenne Jocelyn, senza guardarlo direttamente negli occhi — ti stava dando dei problemi? Luke fece un gesto come per allontanare il pensiero. — Lui ritiene che dovremmo mandare un messaggio a Valenti-ne per rifiutare le sue condizioni. Io dico che non dovremmo scoprire le nostre carte e lasciare che Valentine si presenti con il suo esercito nella pianura di Brocelind aspettandosi una resa. Malachi, invece, ritiene che sia poco sportivo. Quando gli ho detto che la guerra non è una partita di cricket, mi ha risposto che se uno solo dei Nascosti sfuggirà al nostro controllo, lui entrerà in azione e porrà fine a tutta questa storia. Non so esattamente cosa pensa che possa succedere... forse ha paura che i Nascosti non riescano a restare senza combattere nemmeno per cinque minuti. — E esattamente quello che pensa — commentò Amatis. — Malachi è così. Probabilmente, teme che comincerete a mangiarvi tra di voi. — Amatis! — la rimproverò Luke. — Qualcuno potrebbe sentirti! — Si girò, e in quel momento due persone salirono i gradini del podio alle sue spalle. Uno era un cavaliere del Popolo Fatato: era alto e snello e aveva i capelli lunghi e scuri che gli ricadevano fitti su entrambi i lati del viso allungato. Indossava un'armatura bianca, a tunica, fatta di minuscoli dischi di solido metallo sovrapposti come le squame di un pesce. Gli occhi erano verdi come le foglie. L'altra persona era Magnus Bane. Non sorrise a Clary, quando si fermò vicino a Luke. Indossava un lungo cappotto scuro, abbottonato fino alla gola, e i capelli neri erano lisciati all'indietro. — Sembri così normale! — esclamò Clary fissandolo. Magnus sorrise debolmente. — Ho sentito che avevi una runa da mostrarci — fu tutto quello che disse. Clary guardò Luke, che annuì. — Oh, certo — rispose. — Mi serve solo qualcosa su cui scrivere, un pezzo di carta. — Te l'avevo chiesto, se ti serviva qualcosa! — protestò Jocelyn sottovoce, com'era tipico della mamma che Clary ricordava. — Ho io della carta — intervenne Simon. Pescò un foglio dalla tasca dei jeans e lo passò a Clary. Era il volantino spiegazzato di un concerto della sua band, alla Knitting Factory, in luglio. Clary scosse la testa e lo girò sul retro. Quando la punta dello stilo avuto in prestito toccò la carta, si produssero piccole scintille e Clary temette per un momento che il volantino potesse bruciare. Ma le scintille si spensero. Clary si mise a disegnare, facendo del suo meglio per escludere tutto il resto: il rumoreggiare della gente e la sensazione di tutti gli sguardi fissi su di lei. La runa era uguale a quella che aveva già disegnato: un motivo di linee ricurve che s'intrecciavano tra loro, protese sulla pagina come in attesa di un completamento che non c'era. Tolse la polvere dal goglio e la mostrò, sentendosi assurdamente come a scuola, quando doveva esporre una ricerca alla classe. — Questa è la runa — disse. — Richiede una seconda runa che la completi, per avere effetto. Una... compagna. — Un Nascosto e un Cacciatore. Le due metà che formano l'alleanza devono essere marchiate — spiegò Luke. Riprodusse la runa sul fondo del foglietto, lo strappò a metà e lo passò ad Amatis. — Comincia a far circolare la runa — le disse. — Spiega ai Nephilim come funziona. Con un cenno del capo, Amatis scese i gradini e svanì nella folla. Il cavaliere del Popolo Fatato la seguì con lo sguardo, scuotendo la testa. — Ho sempre saputo che solo i Nephilim possono sopportare i marchi dell'Angelo — disse, con una certa diffidenza. — E che noialtri, se dovessimo riceverne uno, potremmo impazzire, o persino morire. — Questo non è uno dei marchi dell'Angelo — gli spiegò Clary. — Non proviene dal Libro Grigio. È sicuro, te lo garantisco. Il cavaliere non sembrava molto convinto. Con un sospiro, Magnus tirò su la manica e allungò il braccio a Clary. — Dai, forza! — Non posso — disse Clary. — Il Cacciatore che ti farà il marchio sarà il tuo compagno in battaglia. E io non posso combattere. — Lo spero! — esclamò Magnus. Poi guardò Luke e Jocelyn, che erano vicini, e disse: — Voi due. Forza, mostrate al cavaliere come funziona. Jocelyn batté le palpebre, sorpresa. — Come? — Presumo — replicò Magnus — che voi due sarete compagni in battaglia, dato che praticamente è come se foste sposati. Un acceso rossore salì al volto di Jocelyn, che evitò accuratamente di guardare Luke. — Non ho uno stilo... — Prendi il mio — si offrè Clary, porgendoglielo. — Forza, fagli vedere. Jocelyn si girò verso Luke, che sembrava preso completamente alla sprovvista. Luke allungò la mano prima che lei gliela potesse chiedere e Jocelyn gli marchiò il palmo con rapida precisione. Ma dovette tenergli fermo il polso, perché gli tremava la mano. Gli occhi di Luke erano posati su Jocelyn che tracciava la runa. Clary ripensò alla loro conversazione, a quando Luke le aveva parlato dei suoi sentimenti per Jocelyn, e sentì una fitta di tristezza. Chissà se sua madre si rendeva conto che Luke l'amava e chissà che cosa avrebbe detto, se l'avesse saputo. — Ecco fatto. — Jocelyn allontanò lo stilo. — Finito. Luke alzò la mano a palmo in su e mostrò al principe del Popolo Fatato il vorticoso marchio nero al centro. — Soddisfatto, Meliorn? — Meliorn! — esclamò Clary. — Io ti conosco, vero? Uscivi con Isabelle Lightwood. Meliorn era quasi privo di espressione, ma Clary avrebbe giurato che fosse un tantino a disagio. Luke scosse la testa. — Clary, Meliorn è un principe della Corte Seelie. È molto improbabile che... — Certo che usciva con Isabelle! — intervenne Simon. — E lei l'ha pure piantato. O almeno così diceva che avrebbe fatto. Una bella botta, amico. Meliorn lo guardò battendo le palpebre. — Tu... — disse con disgusto — tu sei stato scelto a rappresentare i Figli della Notte? Simon scosse la testa. — No, io sono qui per lei — rispose, indicandogli Clary. — I Figli della Notte — spiegò Luke, dopo una breve esitazione — non partecipano, Meliorn. Ho comunicato questa informazione alla tua Sovrana. Hanno scelto di... andare per la loro strada. I tratti delicati del viso di Meliorn si contrassero. — Se l'avessi saputo prima! — esclamò, accigliato. — I Figli della Notte sono un popolo saggio e accorto, e qualsiasi piano provochi la loro ira, suscita anche il mio sospetto. — Non ho parlato di ira — iniziò Luke, con un misto di calma deliberata e lieve esasperazione. Solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto capire che era irritato, pensò Clary, che notò anche uno spostamento dell'attenzione di Luke: ora stava guardando verso la folla. Seguendo il suo sguardo, Clary vide una figura familiare farsi strada tra la gente: era Isabelle, coi suoi neri capelli ondeggianti, la frusta avvolta intorno al polso come una serie di braccialetti dorati. Clary prese Simon per il polso. — I Lightwood. Ho appena visto Isabelle. Lui scrutò nella folla, aggrottando la fronte. — Non avevo capito che li stessi cercando. — Ti prego, vai tu a parlarle — gli sussurrò Clary. Si guardava intorno con circospezione, ma nessuno li stava osservando. Luke stava facendo cenni a qualcuno nella folla; nel frattempo, Jocelyn disse qualcosa a Meliorn, che la guardava piuttosto allarmato. — Io devo restare qui, ma, per favore, devi dire a Isabelle e ad Alec quello che mia madre mi ha rivelato. Su Jace e su chi è veramente. E su Sebastian. Devono sapere. Digli di venire a parlare con me non appena possono. Ti prego, Simon. — Va bene. — Simon liberò il polso dalla stretta di Clary e le sfiorò la guancia con fare rassicurante. — Torno presto. Scese i gradini e svanì tra la gente. Quando Clary si voltò, vide che Magnus la stava guardando, con la bocca piegata in un sorriso storto. — Non c'è problema — stava dicendo in risposta a una domanda di Luke. — Conosco bene la pianura di Brocelind. Aprirò il Portale nella piazza. Ma un Portale così grande non durerà a lungo, quindi bisognerà attraversarlo in fretta. Luke annuì e si girò a dire qualcosa a Jocelyn. Clary si piegò verso Magnus e a bassa voce gli disse: — Comunque, grazie. Per tutto quello che hai fatto per mia madre. Il sorriso storto di Magnus si allargò. — Credevi che non l'avrei fatto, vero? — Ho dubitato — ammise Clary. — Soprattutto perché, quando ci siamo incontrati a casa di Ragnor Fell, non mi hai nemmeno detto che Jace aveva portato Simon ad Alicante attraverso il Portale. Pensavi, che non fosse una notizia abbastanza interessante per me? — Che fosse troppo interessante per te — rispose Magnus. — Che avresti mollato tutto per correre alla Guardia. E io invece volevo che tu cercassi il Libro Bianco. — Sei senza cuore — disse Clary con rabbia. — Comunque ti sbagli, io non avrei... — Non avresti fatto ciò che chiunque avrebbe fatto? Ciò che io stesso avrei fatto, per una persona a cui tenevo? Non ti sto criticando, Clary. E se non te l'ho detto, non è stato perché pensavo che fossi troppo debole. Non te l'ho detto perché sei umana, e io conosco i modi d'agire degli uomini. Sono vivo da tanto tempo. — Come se tu non facessi mai niente di stupido perché provi dei sentimenti — commentò Clary. — A proposito, dov'è Alec? Perché non sei ancora andato a sceglierlo come compagno? Magnus sembrò ritrarsi. — Non mi permetterei mai di avvicinarlo, davanti ai suoi genitori, lo sai. Clary appoggiò il mento sulla mano. — Fare la cosa giusta perché si vuol bene a qualcuno a volte è una bella grana. — Hai proprio ragione — disse Magnus. Il corvo volava in cerchi lenti e pigri, sopra le cime degli alberi, puntando verso la parete occidentale della valle. La luna era alta e Jace riusciva a seguirlo senza bisogno della stregaluce, mantenendosi al riparo degli alberi. La valle saliva a picco, a formare una parete di roccia grigia. Il corvo sembrava seguire la curva del torrente, che piegava verso ovest e scompariva in una stretta fenditura nella roccia. Jace rischiò più volte di storcersi una caviglia sulla roccia umida. Avrebbe tanto voluto imprecare ad alta voce, ma Hugo l'avrebbe sicuramente sentito. Continuò a camminare scomodamente piegato in due, cercando piuttosto di non rompersi una gamba. Aveva la camicia zuppa di sudore, quando raggiunse il margine della valle. Per un momento pensò di aver perso di vista Hugo, ed ebbe un tuffo al cuore. Poi, invece, vide la sagoma nera del corvo scendere di quota e sparire nella buia fenditura che si apriva nella roccia. Jace si mise a correre. Fu un sollievo poter correre invece di camminare tutto ingobbito. Quando fu più vicino, vide che all'interno della fenditura si apriva una cavità più grande e più buia: una grotta. Tirò fuori in fretta la pietra di stregaluce e s'infilò nella fenditura seguendo il corvo. Solo un lieve chiarore filtrava dalla bocca della grotta e, dopo pochi passi, anche quel lieve chiarore venne inghiottito da un'opprimente oscurità. Jace sollevò la stregaluce e fece filtrare il chiarore tra le dita. In un primo momento credette di essere di nuovo all'aperto e di vedere le stelle sopra di sé, in tutta la loro gloria sfavillante. Da nessun'altra parte al mondo le stelle brillavano come a Idris. Ma quelle non erano stelle: la stregaluce aveva illuminato decine di luccicanti depositi di mica nella roccia intorno a lui e le pareti si erano ravvivate di brillanti punti di luce. Jace capì di trovarsi in uno spazio scavato nella parete di roccia: l'imbocco della grotta era alle sue spalle e davanti a sé aveva due tunnel bui. Ripensò alle storie che gli raccontava suo padre, di eroi che si smarrivano nei labirinti e che usavano una fune o un filo per ritrovare la strada. Lui, però, non aveva né fune né filo. Si avvicinò ai tunnel e rimase in silenzio per un lungo momento, in ascolto. Sentì un gocciolio d'acqua, lieve e molto lontano: l'acqua del torrente, un fruscio come di ali e... delle voci. Fece un balzo indietro. Le voci venivano dal tunnel di sinistra, ne era sicuro. Passò il pollice sulla stregaluce per attenuarne l'intensità fino a ottenere un lieve bagliore, appena sufficiente per illuminare i suoi passi. Poi, si tuffò nel buio. — Dici sul serio, Simon? È proprio vero? È fantastico! È meraviglioso! — Isabelle prese la mano di suo fratello. — Alec, hai sentito che cosa ha detto Simon? Jace non è figlio di Valentine. Non lo è mai stato! — E allora di chi è figlio? — chiese Alec. Ma Simon aveva l'impressione che stesse ascoltando solo in parte. Sembrava cercare qualcuno con lo sguardo. I suoi genitori erano poco distanti e li guardavano con aria accigliata. Simon aveva temuto di dover spiegare tutta la storia anche a loro, invece gli avevano gentilmente concesso qualche minuto da solo con Isabelle e Alec. — Chi se ne importa! — Isabelle gettò le braccia in alto, tutta contenta. Poi si rannuvolò. — In realtà, è una bella domanda. Chi era suo padre? Che fosse davvero Michael Wayland? Simon scosse la testa. — Stephen Herondale. — Quindi Jace è il nipote dell'Inquisitrice — osservò Alec. — Ecco perché l'ha... — Ma s'interruppe, fissando in lontananza. — Ecco perché cosai — lo spronò Isabelle. — Alec, non ti distrarre. O almeno dicci cosa stai cercando. — Non cosa — precisò Alec. — Chi. Magnus. Volevo chiedergli di essere mio compagno in battaglia. Ma non ho idea di dove sia. Tu l'hai visto? — chiese a Simon. Simon scosse la testa. — Era sul podio con Clary, ma... — storse il collo per vedere meglio — ora non c'è più. Probabilmente è in giro tra la folla. — Davvero? Davvero vuoi chiedergli di essere tuo compagno in battaglia? — chiese Isabelle allibita. — È come un ballo delle debuttanti, questa storia, solo che qui ci si ammazza. — Appunto, proprio come in un ballo delle debuttanti — scherzò Simon. — Forse chiederò a te di essere mio compagno in battaglia, Simon — annunciò Isabelle, inarcando delicatamente un sopracciglio. Alec aggrottò la fronte. Come tutti gli Shadowhunters presenti nella stanza, era bardato di tutto punto, con la sua tenuta nera e una quantità di armi appese alla cintura. Aveva anche un arco sulla schiena, e Simon fu contento di vedere che aveva trovato un ricambio per quello spezzato da Sebastian. — Isabelle, tu non hai bisogno di nessun compagno, perché non combatti. Sei troppo giovane. E se solo ti frullasse l'idea, ti ammazzo io personalmente. — La testa di Alec scattò. — Un momento... quello è Magnus? Isabelle, seguendo il suo sguardo, ridacchiò. — Alec, quello è un lupo mannaro. Una femmina, per di più. Anzi, è... come si chiama, May? — Maia — la corresse Simon. Maia era a poca distanza da loro: indossava un paio di pantaloni di pelle marrone e una maglietta nera aderente-che diceva "Quello che non mi ammazza... farà meglio a mettersi a correre." Aveva i capelli a treccine, trattenuti indietro da una cordicella. Si girò, come percependo il loro sguardo su di lei, e sorrise. Simon ricambiò il sorriso. Isabelle la guardò in cagnesco. Simon smise subito di sorridere. Quando, esattamente, la sua vita si era fatta così complicata? Alec si illuminò. — Ecco Magnus! — esclamò. E si allontanò senza nemmeno voltarsi indietro, aprendosi un varco tra la folla verso l'alto stregone. La sorpresa di Magnus, quando Alec si avvicinò, era visibile anche a distanza. — In un certo senso è dolce — commentò Isabelle guardandoli. — Più o meno... — Perché più o meno? — Perché — spiegò Isabelle — Alec sta cercando di farsi prendere sul serio da Magnus, ma non ha mai detto ai nostri genitori di lui, e nemmeno del fatto che gli piacciono... voglio dire... — Gli stregoni? — concluse Simon. — Molto divertente. — Isabelle gli lanciò un'occhiataccia. — Sai perfettamente cosa intendo. Quello che sta succedendo è... — Che cosa sta succedendo, esattamente? — chiese Maia, avvicinandosi. — Questa cosa dei compagni non l'ho capita bene. Come dovrebbe funzionare? — Così. — Simon le indicò Alec e Magnus, che si erano messi un po' in disparte, in un angolo. Alec stava disegnando una runa sulla mano di Magnus, il viso concentrato, i capelli scuri davanti agli occhi. — Quindi, tutti dobbiamo fare quella roba? — chiese Maia. — Farci disegnare la mano, voglio dire. — Solo se hai intenzione di combattere — precisò Isabelle, guardando gelida la ragazza. — Ma non mi sembri maggiorenne. Maia le fece un sorriso tirato. — Io non sono una Cacciatrice. I licantropi sono considerati adulti a sedici anni. — Be', in questo caso dovrai farti disegnare la mano — concluse Isabelle. — Da un Cacciatore. Quindi, sarà meglio che te ne cerchi uno. — Ma... — Maia, che ancora osservava Alec e Magnus, s'interruppe e inarcò le sopracciglia. Simon si girò per vedere cosa stesse guardando e... rimase a bocca aperta. Alec aveva abbracciato Magnus e lo stava baciando. Magnus sembrava in stato di shock ed era impietrito. Diversi gruppi di persone, Cacciatori e Nascosti, li fissavano mormorando. Simon lanciò un'occhiata di lato e vide i Lightwo od che osservavano la scena con gli occhi sgranati. Maryse si copriva la bocca con la mano. Maia era perplessa. — Aspetta un secondo — esclamò. — Anche quello fa parte del rituale? Per la sesta volta Clary scrutò la folla in cerca di Simon. Ma non riuscì a trovarlo. La stanza era una massa in movimento di Shadowhunters e Nascosti, che dalle porte spalancate fluivano verso i gradini esterni. Ovunque si vedevano bagliori di stilo, dove Shadowhunters e Nascosti si incontravano e si marchiavano a vicenda. Clary vide Maryse Lightwood tendere la mano a una fata alta, dalla pelle verde, pallida e regale come lei. Patrick Penhallow stava solennemente scambiandosi i marchi con uno stregone i cui capelli lucci cavano di scintille azzurre. Dalle porte della Sala degli Accordi, Clary vedeva il bagliore luminoso del Portale nella piazza. La stellata che si intravedeva attraverso il soffitto di vetro dava un'aria surreale a tutta la scena. — Stupefacente, vero? — commentò Luke. Era sul bordo del podio e guardava la Sala. — Cacciatori e Nascosti che stanno insieme nella stessa stanza. Che lavorano insieme. — Sembrava profondamente impressionato. Clary riusciva a pensare soltanto a Jace, perché avrebbe voluto che fosse lì anche lui, a vedere che cosa stava succedendo. Per quanto ci provasse, non riusciva ad accantonare la paura che provava per lui. L'idea che potesse affrontare Valentine, che potesse rischiare la vita perché pensava di essere maledetto, che potesse addirittura morire senza mai sapere che non era vero... — Clary — la chiamò Jocelyn, con un filo di divertimento nella voce. — Hai sentito che cosa ti ho detto? — Sì — disse Clary. — È sbalorditivo, lo so. Jocelyn le posò una mano sulla sua. — Non è questo che stavo dicendo. Io e Luke saremo sul campo di battaglia. Tu invece resterai qui con Isabelle e gli altri bambini. — Io non sono una bambina. — Lo so, ma sei comunque troppo giovane per combattere. E anche se non fossi così giovane, non sei mai stata addestrata. — Non voglio restarmene qui seduta senza fare niente. — Niente? — esclamò Jocelyn. — Clary, nulla di tutto questo starebbe succedendo, se non fosse stato per te. Non avremmo nemmeno avuto la possibilità di combattere, se non fosse stato per te. Sono così fiera di te! Volevo solo dirti che io e Luke andiamo via, ma torneremo. Andrà tutto bene. Clary guardò in faccia sua madre, negli occhi verdi così simili ai suoi. — Mamma — disse — smettila di raccontarmi storie. Jocelyn trasalì e si alzò, ritirando la mano. Ma non potè aggiungere altro, perché Clary venne distratta da un viso familiare nella folla. Una figura snella e scura si stava muovendo con determinazione verso di loro, passando nella sala affollata con tranquillità e sorprendente facilità, quasi passando attraverso la gente, come fumo tra i paletti di uno steccato. Ed era proprio così. Clary lo capì quando la figura si avvicinò al podio. Era Raphael, in camicia bianca e pantaloni neri, gli stessi che portava la prima volta che l'aveva visto. Aveva dimenticato quanto fosse esile. Sembrava avere a malapena quattordici anni, mentre saliva i gradini con quel suo viso sottile e l'espressione calma, angelica. Faceva pensare a una voce bianca che andava verso il coro di una chiesa. — Raphael. — La voce di Luke esprimeva sorpresa e sollievo allo stesso tempo. — Non credevo che saresti venuto. I Figli della Notte hanno riconsiderato l'idea di unirsi a noi nella battaglia contro Valentine? C'è ancora un seggio nel Consiglio per voi, se vorrete accettarlo. — Gli tese la mano. I begli occhi limpidi di Raphael lo osservarono senza espressione. — Non posso stringerti la mano, licantropo. — All'espressione risentita di Luke, Raphael sorrise quel tanto che bastava per scoprire le punte dei bianchi canini. — Sono una proiezione — rivelò, sollevando una mano in modo che tutti potessero vedere che vi filtrava la luce. — Non posso toccare niente. — Ma... — Luke lanciò uno sguardo verso la luce della luna che entrava dal tetto. — Perché...? — Abbassò la mano. — Be', sono contento che tu sia qui. Sotto qualunque forma. Raphael scosse la testa. Per un momento i suoi occhi si posarono su Clary - uno sguardo che non le piacque per niente - e poi si spostarono su Jocelyn e il suo sorriso si aprì. — Tu — disse. — Sei la moglie di Valentine. Altri della mia specie, che combatterono con voi all'epoca della Rivolta, mi hanno parlato di te. Devo ammettere che non avrei mai pensato di incontrarti di persona. Jocelyn chinò la testa. — Molti dei Figli della Notte combatterono coraggiosamente, quella volta. La tua presenza qui sta a indicare che potremo di nuovo combattere fianco a fianco? Era strano, pensò Clary, sentire sua madre parlare con quel tono controllato e formale, che tuttavia sembrava venirle molto naturale. Almeno quanto lo era per lei sedersi per terra con una vecchia tuta e un pennello tra le dita imbrattate di colore. — Spero di sì — disse Raphael, e il suo sguardo sfiorò di nuovo Clary come la carezza di una mano gelida. — Abbiamo un'unica richiesta, una semplice, piccola, richiesta. Se ci verrà accordata, i Figli della Notte di molti paesi saranno lieti di entrare in battaglia al vostro fianco. — Il seggio del Consiglio — disse Luke. — Ma certo. Può essere formalizzato: i documenti possono essere redatti nel giro di un'ora. — Non il seggio del Consiglio — replicò Raphael. — Un'altra cosa. — Un'altra cosa? — ripetè Luke senza capire. — E che cosa? Ti assicuro che se è in nostro potere... — Oh, certo che lo è. — Il sorriso di Raphael era smagliante. — Anzi, si trova qui in questo preciso momento, mentre parliamo. — Si girò e indicò con grazia la folla. — È il ragazzo Simon che vogliamo — rivelò. — Il Diurno. Il tunnel era lungo e tortuoso e si riavvolgeva continuamente su se stesso. Era come strisciare nelle viscere di un mostro enorme. C'era odore di roccia umida e cenere, più qualcos'altro, qualcosa di umido e strano che ricordava vagamente l'odore della Città di Ossa. Finalmente la galleria si aprì in una grande grotta circolare. Dall'alta volta di pietra scabra si protendevano verso il basso enormi stalattiti splendenti come gemme. Il fondo era liscio, come se fosse stato lucidato, e qua e là si alternavano intarsi di simboli arcani. Una serie di grezze stalagmiti circondavano la grotta. Proprio al centro, una massiccia stalagmite di quarzo svettava come un'enorme zanna, ornata qua e là da un motivo rossastro. Guardando meglio, Jace vide che le pareti della stalagmite erano trasparenti e che il motivo rossastro era l'effetto di qualcosa che si muoveva vorticando al suo interno, come fumo colorato in una provetta. In alto, filtrava luce da un foro circolare nella volta di pietra, una sorta di lucernario naturale. La grotta era sicuramente frutto di un progetto, non del caso: era evidente dagli intricati motivi che ne decoravano il pavimento. Ma chi aveva voluto scavare una grotta del genere? E perché? Un gracchiare acuto echeggiò nello spazio sotterraneo, facendo vibrare i nervi di Jace, che si nascose dietro una voluminosa stalagmite, spegnendo la stregaluce proprio mentre due figure emergevano dalle ombre in fondo alla grotta e si avvicinavano, conversando. Fu solo quando raggiunsero il centro della grotta e la luce lì investì che Jace li riconobbe. Sebastian. E Valentine. Sperando di evitare la folla, Simon fece il giro lungo per tornare al podio, passando dietro le file di colonne che costeggiavano i lati della Sala. Teneva la testa bassa, perso nei suoi pensieri. Sembrava strano che Alee, solo di un paio di anni maggiore di Isabelle, stesse per partire per la guerra, mentre tutti gli altri dovevano restare lì. E Isabelle sembrava accettare la cosa con calma. Niente pianti, niente isterismi. Era come se se lo fosse aspettata. E forse era proprio così. Forse tutti se l'aspettavano. Era ormai vicino ai gradini della pedana del podio. Alzò gli occhi e vide Raphael, con la solita espressione imperturbabile, di fronte a Luke che, al contrario, sembrava agitato, scuoteva la testa con le mani alzate come per protesta; Jocelyn, accanto a lui, sembrava indignata. Simon non vedeva la faccia di Clary, perché gli dava le spalle, ma la conosceva abbastanza bene da percepirne la tensione dalla semplice postura del busto. Non volendo farsi vedere da Raphael, Simon si nascose dietro una colonna e origliò. Nonostante il chiacchiericcio della folla, riuscì a distinguere la voce alterata di Luke. — È fuori discussione — stava dicendo. — Mi sembra impossibile che tu osi chiedere una cosa simile. — E a me sembra impossibile che tu possa rifiutare. — La voce di Raphael era fredda e limpida, la voce ancora acuta di un ragazzino. — È una cosa così piccola! — Non è una cosa — intervenne Clary, arrabbiata. — E Simon. È una persona. — È un vampiro — precisò Raphael. — Cosa che sembri continuamente dimenticare. — E tu, non sei forse un vampiro anche tu? — chiese Jocelyn, con il tono gelido che usava tutte le volte che Clary e Simon si erano cacciati nei guai. — Stai forse dicendo che la tua vita non ha valore? Simon si appiattì contro la colonna. Che stava succedendo? — La mia vita ha un grande valore — rispose Raphael, — essendo, a differenza della vostra, eterna. Non c'è fine a ciò che potrei realizzare, mentre c'è una fine molto netta per voi. Ma non è questo il punto. Lui è un vampiro, è uno dei miei, e io vi sto chiedendo di riaverlo. — Tu non lo puoi riavere — ribatté Clary. — Non è mai stato tuo, tanto per cominciare. Non avevi il minimo interesse per lui, finché non hai scoperto che può stare alla luce del sole. — Forse — ribatté Raphael. — Ma non per la ragione che pensi tu. — Inclinò la testa. Gli occhi scuri, luminosi e morbidi, guizzavano come quelli di un passero. — Nessun vampiro dovrebbe avere il potere che ha lui — disse. — Così come nessun Cacciatore dovrebbe avere i poteri che avete tu e tuo fratello. Per anni ci è stato detto che noi siamo sbagliati e innaturali. Maquesto... questo è davvero innaturale. — Raphael. — Il tono di Luke era minaccioso. — Non so che cosa speravi di ottenere. Ma non c'è nessuna possibilità: noi non ti permetteremo mai di far del male a Simon. — Invece permetterete a Valentine e al suo esercito di demoni di far del male a tutta questa gente, i vostri alleati. — Raphael abbracciò tutta la Sala con un ampio gesto della mano. — Lascerete che rischino la vita a loro discrezione, ma non darete a Simon la possibilità di fare la stessa scelta. Perché forse la sua scelta sarebbe diversa dalla vostra. — Abbassò il braccio. — In caso di rifiuto, noi non combatteremo con voi, lo sapete. I Figli della Notte non prenderanno parte a questa giornata. — E allora non fatelo — sbottò Luke. — Non comprerò la vostra collaborazione con una vita innocente. Io non sono Valentine. Raphael si girò verso Jocelyn. — E tu, Cacciatrice? Lascerai decidere a un lupo mannaro ciò che è meglio per la tua gente? Jocelyn guardava Raphael come se fosse uno scarafaggio scoperto a zampettare sul pavimento pulito della cucina. Scandendo bene le parole disse: — Se solo tocchi Simon con un dito, vampiro, io ti farò a pezzetti piccolissimi e ti darò in pasto al mio gatto. Hai capito? Raphael strinse le labbra. — Molto bene — concluse. — Quando starai morendo nella pianura di Brocelind, forse ti chiederai se una vita ne valeva davvero così tante. Svanì. Luke si girò verso Clary, ma Simon non li stava più guardando: stava fissando le proprie mani. Pensava che avrebbero tremato, ma erano immobili come quelle di un cadavere. Molto lentamente, le chiuse a pugno. Valentine aveva l'aspetto di sempre: un uomo corpulento con la tenuta da Cacciatore modificata, le ampie spalle muscolose in contrasto con il volto levigato, dai tratti eleganti. Portava a tracolla la Spada Mortale e una sacca rigonfia. Aveva un'ampia cintura a cui erano agganciate numerose armi: grossi coltelli da caccia, pugnali dalla lama sottile, coltellacci per scuoiare. Guardandolo da dietro la roccia, Jace provò la sensazione che ora aveva ogni volta che pensava a suo padre: un persistente affetto filiale, profondamente intaccato da desolazione, delusione, sfiducia. Era strano vedere suo padre con Sebastian. E Sebastian ora sembrava... diverso. Indossava anche lui la tenuta da Cacciatore, con una lunga spada dall'elsa d'argento alla cintura. Ma non fu quello a colpire Jace. Furono i capelli: una cascata di riccioli, non più neri, ma chiari e luminosi, come oro bianco. Gli stavano molto meglio dei capelli neri, in verità: la sua pelle non sembrava più così sorprendentemente pallida. Probabilmente se li era tinti per assomigliare al vero Sebastian Verlac, ma era quello il suo vero aspetto. Un'onda di rancore aspra e impetuosa travolse Jace, ma si controllò e rimase nascosto, anziché scagliarsi contro Sebastian e stringergli le mani intorno alla gola. Hugo gracchiò di nuovo e scese di quota, per posarsi sulla spalla di Valentine. Una strana fitta di dolore trafisse Jace, alla vista del corvo in quella posizione che per il ragazzo era così familiare, dopo tutti gli anni vissuti con Hodge. Hugo aveva praticamente vissuto sulla spalla di Hodge e vederlo su quella di Valentine appariva ai suoi occhi stranamente alieno, addirittura ingiusto, nonostante tutto quello che Hodge aveva fatto. Valentine carezzò le lucide piume del corvo, annuendo come se stesse conversando con lui. Sebastian li osservava, con le chiare sopracciglia inarcate. — Novità da Alicante? — chiese, mentre Hugo si staccava dalla spalla di Valentine e volava in alto, sfiorando con le ali le punte gemmee delle stalattiti. — Niente di abbastanza definito, per ora — rispose Valentine. Il suono della voce di suo padre, calma e impassibile come sempre, trapassò Jace come una freccia: le mani gli tremarono involontariamente e le premette forte contro i fianchi, grato alla mole della stalagmite che lo nascondeva alla loro vista. — Una cosa è certa. Il Conclave si sta alleando con l'esercito di Nascosti di Lucian. Sebastian aggrottò la fronte. — Ma Malachi aveva detto... — Malachi ha fallito. — La mascella di Valentine era contratta. Con sorpresa di Jace, Sebastian si avvicinò e gli posò una mano sul braccio. C'era qualcosa, in quel gesto, qualcosa di intimo e sicuro, che fece rivoltare lo stomaco a Jace, come se l'avesse invaso un esercito di vermi. Nessuno toccava Valentine così. Nemmeno lui avrebbe osato toccare suo padre in quel modo. — Sei turbato? — gli chiese Sebastian, e la stessa sfumatura c'era anche nella sua voce, la stessa grottesca e peculiare certezza di familiarità. — Il Conclave è molto peggio di quel che pensavo. Sapevo che i Lightwood erano corrotti oltre ogni speranza, e anche che quel tipo di corruzione è contagioso. È per questo che ho cercato di tenerli lontani da Idris. Ma gli altri, farsi riempire così la testa del veleno di Lucian, che non è nemmeno un Nephilim! — Il disgusto di Valentine era palese, ma non si allontanò da Sebastian, notò Jace con crescente incredulità, non fece nulla per allontanargli la mano dalla propria spalla. — Sono deluso. Credevo che avrebbero visto dove stava la ragione. Avrei preferito che le cose non finissero in questo modo. Sebastian sembrava divertito. — Non sono d'accordo — disse. — Pensa a tutti loro, pronti a darci battaglia, pronti a correre incontro alla gloria... Pensa a quando scopriranno che tutto questo non ha alcun senso, che il loro gesto è futile. Pensa a che facce faranno. — La bocca si stiracchiò in un sorriso cattivo. — Jonathan — sospirò Valentine. — Questa è un'orribile necessità. Non c'è niente di cui essere contenti. Jonathan? Jace si aggrappò alla roccia, le mani improvvisamente scivolose. Perché Valentine chiamava Sebastian con il suo nome? Era un errore? Ma Sebastian non sembrava affatto sorpreso. — Non è meglio, se mi diverto a fare quello che faccio? — replicò Sebastian. — Ad Alicante mi sono divertito un sacco. I Lightwood sono stati una compagnia migliore di quello che mi avevi fatto credere, soprattutto quella Isabelle. La mia uscita di scena è stata senza dubbio spettacolare. E per quel che riguarda Clary... Al nome di Clary, il cuore di Jace ebbe un guizzo improvviso e doloroso. — Non era affatto come credevo — disse Sebastian in tono petulante. — Non mi assomigliava per niente. — Non c'è nessuno al mondo che ti assomigli, Jonathan. E Clary, lei è sempre stata uguale a sua madre. — Non vuole ammettere ciò che desidera veramente — disse Sebastian. — Non ancora. Ma ci arriverà. Valentine inarcò un sopracciglio. — In che senso, ci arriverà? Sebastian sorrise, e il suo sorriso riempì Jace di una rabbia quasi incontrollabile. Si morse forte un labbro, fino ad assaggiarne il sangue. — Be' — proseguì Sebastian — dalla nostra parte. Non vedo l'ora. Imbrogliarla è stata la cosa più divertente che ho fatto in vita mia. — Non era previsto che ti divertissi tanto. Era previsto che tu scoprissi cosa stava cercando. E quando lei l'ha trovato, senza il tuo contributo potrei aggiungere, tu gliel'hai lasciato consegnare nelle mani di uno stregone. E non sei nemmeno riuscito a portarla con te quando te ne sei andato, nonostante il pericolo che Clary costituisce per noi. Non è stato esattamente un trionfo, Jonathan. — Ci ho provato, a portarla via. Ma gli altri non la perdevano d'occhio un momento. E non potevo certo rapirla dalla Sala degli Accordi. — Sebastian sembrava imbronciato. — E poi, te l'ho detto, Clary non ha idea di come usare il suo potere per creare le rune. È troppo ingenua per costituire un pericolo per noi. — Qualunque cosa il Conclave abbia in mente di fare, al centro c'è Clary — replicò Valentine. — È questo che ci ha detto Hugin. L'ha vista sul podio nella Sala degli Accordi. Se riesce a mostrare al Conclave i suoi poteri... Jace sentì un lampo di paura per Clary, mescolato a una strana sorta di orgoglio: era ovvio che Clary fosse al centro di tutto. La sua Clary era così. — Quindi, alla fine, combatteranno — disse Sebastian. — Che è quello che vogliamo, giusto? Clary non conta. È la battaglia che conta. — Tu la sottovaluti, temo — osservò Valentine a bassa voce. — L'ho osservata — replicò Sebastian. — Se il suo potere fosse così illimitato come pensi tu, avrebbe potuto usarlo per tirar fuori di prigione il suo amichetto vampiro... o per salvare quell'idiota di Hodge mentre stava morendo... — Un potere non deve essere illimitato per essere mortale — commentò Valentine. — E per quanto riguarda Hodge, forse dovresti avere un po' più di ritegno, visto che sei stato tu a ucciderlo. — Stava per dire ai ragazzi dell'Angelo. Ho dovuto farlo. — Hai voluto farlo. Fai sempre così. — Valentine prese dalla tasca un paio di pesanti guanti di pelle e se li infilò lentamente. — Forse glielo avrebbe detto. O forse no. In tutti gli anni in cui si è preso cura di Jace, all'Istituto, si sarà chiesto che cosa stava allevando. Hodge era uno dei pochi che sapevano che c'era più di un bambino. Ma io ero sicuro che non mi avrebbe tradito: era troppo codardo per farlo. — Piegò le dita nei guanti, aggrottando la fronte. Più di un bambino? Di che cosa stava parlando, Valentine? Sebastian liquidò Hodge con un gesto della mano. — Chi se ne importa di cosa pensava? È morto e tanti saluti. — I suoi occhi brillarono cupi. — Adesso vai al lago? — Sì. Ti è chiaro ciò che deve essere fatto? — Valentine indicò con il mento la spada alla cintura di Sebastian. — Usa quella. Non è la Spada Mortale, ma ha qualità sufficientemente demoniache per questo scopo. — Non posso venire al lago con te? — La voce di Sebastian aveva preso un tono quasi piagnucoloso. — Non possiamo liberare l'esercito adesso? — Non è ancora mezzanotte. Ho detto che avrei aspettato fino a mezzanotte. Potrebbero ancora cambiare idea. — Non lo faranno... — Ho dato la mia parola. E la manterrò. — Il tono di Valentine era categorico. — Se non senti nulla da Malachi entro mezzanotte, libera l'esercito. — Vedendo l'esitazione di Sebastian, Valentine ebbe un moto di impazienza. — Devi fare quello che ho detto, Jonathan. Non posso aspettare qui fino a mezzanotte. Mi ci vorrà un'ora per arrivare al lago attraverso i tunnel e non voglio che la battaglia si trascini a lungo. Le generazioni future dovranno sapere con quale rapidità il Conclave è stato sconfitto e quanto schiacciante sia stata la nostra vittoria. — È solo che mi spiace perdermi il rituale dell'Evocazione. Vorrei esserci, quando lo farai. — Lo sguardo di Sebastian sembrava malinconico, ma c'era sotto qualcosa di calcolato, qualcosa di irriverente, avido, pianificatore, e stranamente, deliberatamente... freddo. Non che Valentine sembrasse curarsene. Con sconcerto, Jace vide Valentine toccare la guancia a Sebastian: un rapido, ma esplicito gesto d'affetto. Poi gli voltò le spalle e si diresse verso il fondo della grotta, dove si addensavano grumi d'ombra. Lì si fermò, una sagoma chiara contro il buio. — Jonathan — chiamò. Jace, senza potersi controllare, alzò gli occhi al richiamo. — Un giorno anche tu contemplerai il volto dell'Angelo. Dopotutto, tu erediterai gli Strumenti Mortali, quando io me ne sarò andato. Forse anche tu, un giorno, evocherai Raziel. — Sarebbe bello — disse Sebastian. E rimase perfettamente immobile, mentre Valentine, con un ultimo cenno del capo, scompariva nel buio. La voce di Sebastian divenne un mezzo sussurro. — Sarebbe proprio bello — ringhiò. —Proprio bello, sputare su quella faccia da bastardo. — Si girò di scatto, il volto una maschera bianca nella luce fioca. — Puoi uscire, Jace — sibilò. — Lo so che sei lì. Jace s'immobilizzò, ma solo per un secondo. Il suo corpo reagì prima che la mente riuscisse a muoversi e lo fece scattare in piedi. Corse all'imbocco del tunnel, con l'unico pensiero di arrivare all'uscita, di mandare in qualche modo un messaggio a Luke. Ma l'entrata della galleria era bloccata: da Sebastian. Aveva un'espressione fredda e gongolante e teneva le braccia aperte, con le dita che quasi toccavano le pareti del tunnel. — Jace — disse. — Non avrai davvero pensato di essere più veloce di me, vero? Jace si fermò di scatto. Il cuore gli batteva in petto a ritmo irregolare, come un metronomo rotto, ma parlò con voce ferma. — Visto che sono migliore di te in qualsiasi altro aspetto possibile e immaginabile, era ragionevole pensarlo. Sebastian si limitò a sorridere. — Sentivo il tuo cuore battere — disse a bassa voce — mentre ci spiavi. Ti ha dato fastidio? — Che sembrassi il fidanzato di mio padre? — Jace scrollò le spalle. — Sei un po' giovane per lui, onestamente. — Cosa? — Per la prima volta da quando Jace lo conosceva, Sebastian apparve allibito. Jace si gustò l'effetto solo per un momento, perché Sebastian riacquistò subito il controllo di sé. Ma una scintilla scura nei suoi occhi rivelava che non l'aveva perdonato per avergli fatto perdere la calma. — A volte mi chiedevo di te — riprese Sebastian, con lo stesso tono morbido. — A volte mi è sembrato che ci fosse qualcosa in te, dietro quei tuoi occhi gialli, un barlume di intelligenza, diversamente dal resto della tua insulsa famiglia adottiva. Invece sei stupido come gli altri, nonostante un decennio di ottima educazione. — Che ne sai tu della mia educazione? — Più di quello che pensi. — Sebastian abbassò le mani. — L'uomo che ha cresciuto te ha cresciuto anche me. Solo che di me non si è stancato, dopo i primi dieci anni. — In che senso? — La voce di Jace uscì in un sussurro. Poi, fissando il volto immobile e senza sorriso di Sebastian, gli sembrò di vederlo per la prima volta: i capelli bianchi, gli occhi nero antracite, le linee dure del viso, come fosse cesellato nella pietra... E rivide con gli occhi della mente il volto di suo padre come l'angelo glielo aveva mostrato, giovane e brillante, attento e famelico... e capì. — Tu — disse. — Valentine è tuo padre. Tu sei mio fratello. Ma Sebastian non era più davanti a lui: all'improvviso gli fu dietro, con le braccia strette intorno alle sue spalle, come se volesse abbracciarlo. Solo che le mani erano chiuse a pugno. — Ave atque vale, fratellino — ringhiò. E strinse le braccia di scatto, togliendogli il respiro. Clary era esausta. Un mal di testa sordo, martellante, conseguenza della creazione della runa dell'Alleanza, le si era insediato nel lobo frontale del cervello. Era come se qualcuno stesse cercando di abbattere una porta a calci, ma dalla parte sbagliata. — Stai bene? — Jocelyn le posò una mano sulla spalla. — Non hai un bell'aspetto. Clary girò la testa e vide la sottile runa nera che decorava il dorso della mano di sua madre, gemella di quella sul palmo di Luke. Le si strinse lo stomaco. Riusciva a gestire l'idea che entro un paio d'ore sua madre avrebbe probabilmente affrontato un esercito di demoni solo ricacciandola indietro, con la pura forza della volontà, ogni volta che riaffiorava. — Chissà dov'è Simon. — Clary si alzò in piedi. — Vado a cercarlo. — Là in mezzo? — Jocelyn osservò la folla con preoccupazione. Si stava assottigliando adesso, notò Clary, perché coloro che avevano il marchio uscivano sulla piazza. Sulla porta c'era Malachi, la bronzea faccia impassibile, che indicava a Nascosti e a Cacciatori dove andare. — Me la caverò. — Clary passò davanti a sua madre e a Luke, puntando verso i gradini del podio. — Torno subito. La gente si girava a guardarla, mentre scendeva i gradini e s'infilava nella folla. Clary sentiva i loro occhi addosso, il peso dei loro sguardi. Perlustrò la folla, cercando i Light-wood o Simon, ma non vide nessuno che conosceva. Era difficile individuare qualcuno là in mezzo, data la sua statura. Con un sospiro, Clary scivolò verso il lato occidentale della Sala, dove la folla era meno fitta. Nel momento in cui raggiunse la linea delle colonne di marmo, una mano scattò e la trascinò dietro una colonna. Clary ebbe solo il tempo di sussultare e, un attimo dopo, si ritrovò nel buio, con la schiena contro il marmo freddo della colonna. Le mani di Simon le stringevano le braccia. — Non gridare, okay? Sono io — le disse. —Non essere ridicolo, certo che non grido. — Clary si guardò intorno, chiedendosi che cosa stesse succedendo: vedeva solo dei frammenti della Sala, tra una colonna e l'altra. — Che cos'è questa sceneggiata alla James Bond? Ti stavo cercando. — Lo so. E io ti stavo aspettando. Voglio parlarti in un posto dove nessun altro possa sentirci. — Si inumidì nervosamente le labbra. — Ho sentito quello che ha detto Raphael. So cosa vuole. — Oh, Simon. — Le spalle di Clary si incurvarono. — Senti, non è successo niente. Luke l'ha mandato via. — Forse non avrebbe dovuto — replicò Simon. — Forse avrebbe dovuto dare a Raphael ciò che voleva. Clary lo guardò sgranando gli occhi. — Vuoi dire... te? Non dire assurdità. È assolutamente impensabile. — È pensabile, invece. — Le strinse più forte le braccia. — Io voglio farlo. Io voglio che Luke dica a Raphael che facciamo lo scambio. O glielo dirò io stesso. — Ho capito cosa hai in mente — protestò Clary. — E ti rispetto e ti ammiro per questo, ma non devi, Simon, non devi proprio. Quello che Raphael chiede è sbagliato e nessuno ti giudicherà per non esserti sacrificato in una guerra che non è nemmeno la tua. — Ma è così! — esclamò Simon. — Quello che Raphael ha detto è vero. Io sono un vampiro e tu continui a dimenticarlo. O forse vuoi dimenticarlo. Ma io sono un Nascosto e tu sei una Cacciatrice, e questa guerra è la nostra guerra. — Ma tu non sei come loro... — Sono uno di loro. — Parlò lentamente, pacatamente, come per essere assolutamente sicuro che Clary capisse ogni sua parola. — E lo sarò sempre. Se i Nascosti combatteranno questa guerra con gli Shadowhunters senza l'aiuto della gente di Raphael, non ci sarà alcun seggio al Consiglio, per i Figli della Notte. Quindi loro non faranno parte del mondo che Luke sta cercando di creare, un mondo dove Cacciatori e Nascosti lavorano insieme. I vampiri ne verranno esclusi. Diventeranno i nemici degli Shadowhunters. Diventeranno i vostri nemici. — Io non potrei mai essere tua nemica. — Io ne morirei — disse Simon semplicemente. — Ma non potrò evitare che accada se resterò nelle retrovie facendo finta di non essere parte di tutto questo. Non ti sto chiedendo il permesso. Clary. Sto chiedendo il tuo aiuto. Se però non me lo darai, chiederò a Maia di portarmi all'accampamento dei vampiri e mi consegnerò a Raphael. Lo capisci? Clary lo fissò. Le stringeva le braccia così forte che sentiva pulsare il sangue nelle mani. Si passò la lingua sulle labbra secche; aveva la bocca amara. — Cosa posso fare — sussurrò — per aiutarti? Quando Simon glielo disse, Clary lo guardò incredula. Poi, prima ancora che lui finisse di parlare, scosse forte la testa, coi capelli che le volavano davanti alla faccia. — No — esclamò. — È un'idea folle, Simon. Non è un dono, è una punizione... — Forse non per me — replicò Simon. Scrutò la folla, e Clary vide Maia che li guardava, palesemente incuriosita. Era chiaro che aspettava Simon.Troppo in fretta, pensò Clary. Sta succedendo tutto troppo in fretta. — È sempre meglio dell'alternativa, Clary. — No... — Potrebbe non farmi alcun male. Voglio dire, io sono già stato punito, no? Già ora non posso più entrare in una chiesa, o in una sinagoga, non posso pronunciare... nomi sacri, non posso invecchiare... Sono già stato tagliato fuori dalla vita normale. Forse questo non cambierà niente. — Ma potrebbe. Simon le lasciò le braccia, fece scivolare la sua mano sul fianco di lei e le prese lo stilo di Patrick dalla cintura. Glielo porse. — Clary — le disse. — Fallo per me. Ti prego. Clary prese lo stilo con le dita intorpidite e lo sollevò. Toccò la pelle di Simon sulla fronte, tra gli occhi. "Il primo marchio", aveva detto Magnus. Il primo in assoluto. Clary lo pensò, e lo stilo iniziò a muoversi come un ballerino quando parte la musica. Linee nere si disegnarono sulla fronte di Simon: era come lo sbocciare di un fiore in una pellicola fatta scorrere più veloce. Quand'ebbe finito, la mano destra le bruciava e le pizzicava, ma quando fece un passo indietro per contemplare il suo operato seppe che aveva tracciato una runa perfetta, strana e antica, qualcosa che risaliva alle origini della storia. Brillava come una stella sopra gli occhi di Simon. Lui si sfiorò la fronte con le dita, con un'espressione confusa e stordita. — Lo sento — le disse. — Come una bruciatura. — Non so cosa succederà — sussurrò lei. — Non so quali effetti a lungo termine potrà avere. Con un mezzo sorriso un po' storto, Simon le sfiorò la guancia. — Speriamo di avere modo di scoprirlo. capitolo 19 JACE E JONATHAN Maia rimase muta per quasi tutta la strada fino alla foresta. Teneva la testa bassa e solo di tanto si guardava intorno, col naso arricciato per la concentrazione. Simon si chiese se stesse trovando la strada a fiuto. Pur essendo un po' strano, era un talento utile, pensò. Si accorse, inoltre, che non doveva affrettarsi per tenere il suo passo, per quanto fosse rapida. Anche quando raggiunsero il sentiero battuto che portava alla foresta e Maia iniziò a correre, rapida e silenziosa, Simon non ebbe alcun problema a tenere il suo ritmo. Era uno degli aspetti dell'essere un vampiro che, poteva dirlo in tutta onestà, gli riusciva molto gradito. Ma il piacere finì presto. Il bosco s'infittì. Simon e Maia correvano tra gli alberi, su un terreno segnato da spesse radici e coperto da foglie cadute. I rami sopra le loro teste creavano trine e intrecci contro il cielo stellato. Emersero in una radura cosparsa di massi che luccicavano come denti bianchi e squadrati. C'erano mucchi di foglie qua e là, come se qualcuno avesse lavorato con un rastrello gigante. — Raphael! — Maia, con le mani intorno alla bocca, gridò così forte da spaventare gli uccelli sui rami degli alberi. — Raphael! Fatti vedere! Silenzio. Poi le ombre frusciarono. Si sentì un rumore come di pioggia su un tetto metallico. I mucchi di foglie esplosero come cicloni in miniatura. Maia tossì e si riparò la faccia con le mani per proteggere gli occhi. Con la stessa rapidità con cui si era alzato, quello strano vento si acquietò. E Raphael era lì, a pochi passi da Simon, circondato da un gruppo di vampiri pallidi e immobili come gli alberi alla luce della luna. La loro espressione era fredda, di cruda ostilità. Simon riconobbe alcuni di loro, già visti all'Hotel Dumort: la minuta Lily e il biondo Jacob dagli occhi socchiusi come lame di coltello. Ma molti altri gli erano del tutto sconosciuti. Raphael fece un passo avanti. La sua pelle era giallastra, gli occhi cerchiati di ombre scure, ma quando vide Simon sorrise. — Diurno — sibilò. — Sei venuto. — Sono venuto — confermò Simon. — Sono qui. Quindi... è fatta. — È ben lungi dall'essere fatta, Diurno. — Raphael guardò Maia. — Ragazza, torna dal tuo capobranco e ringrazialo per aver cambiato idea. Digli che i Figli della Notte combatteranno a fianco della sua gente sulla pianura di Brocelind. L'espressione di Maia era tesa. — Luke non ha cambiato... Ma Simon la interruppe in fretta. — Va bene così, Maia. Vai. Gli occhi di Maia erano tristi e luminosi. — Simon, pensaci — gli disse. — Non è una cosa che devi fare. — Sì, invece. — Il suo tono era fermo. — Maia, ti ringrazio molto per avermi accompagnato qui. Ora vai. — Simon... Simon abbassò la voce. — Se non vai via, ci ammazzeranno entrambi, e tutto questo non sarà servito a niente. Vai. Per favore. Lei annuì e si voltò, trasformandosi: un attimo prima era un'esile ragazza con le treccine decorate da perline, un attimo dopo era a terra a quattro zampe, lupo agile e silenzioso. Sfrecciò via nella radura e svanì tra le ombre. Simon si voltò, e per poco non cacciò un urlo: era faccia a faccia con Raphael, a pochi centimetri da lui. Vista da vicino, la sua pelle rivelava le venature scure della fame. Simon ripensò a quella notte all'Hotel Dumort: i volti che apparivano dalle ombre, le fuggevoli risate, l'odore del sangue, e rabbrividì. Raphael prese Simon per le spalle: la stretta delle sue mani ingannevolmente esili era ferrea. — Gira la testa — gli intimò — e guarda le stelle: così sarà più facile. — Allora hai davvero intenzione di uccidermi — osservò Simon. Con sorpresa, non sentiva paura, non era nemmeno particolarmente agitato: tutto sembrava rallentato e perfettamente nitido. Fu simultaneamente consapevole di ogni foglia sopra di lui, di ogni sassolino per terra, di ogni paio d'occhi puntati su di lui. — Che cosa credevi? — gli chiese Raphael, con un po' di tristezza notò Simon. — Non è una cosa personale, te l'assicuro. Come dicevo, sei troppo pericoloso per poter continuare a esistere così come sei. Se avessi saputo cosa saresti diventato... — Non mi avresti mai lasciato uscire da quella tomba, lo so — terminò per lui. Raphael incrociò il suo sguardo. — Tutti, per sopravvivere, fanno ciò che devono fare. In questo senso, anche noi siamo un po' come gli esseri umani. — I suoi denti affilati sgusciarono dalle gengive come delicati rasoi. — Sta' fermo — gli disse. — Sarà una cosa rapida. — Si avvicinò. — Aspetta — esclamò Simon. E quando Raphael si ritrasse, accigliato, lo ripetè, con più forza: — Devo farti vedere una cosa. Raphael fece un basso suono sibilante. — Se vuoi tergiversare, trova qualcosa di meglio, Diurno. — E quello che sto facendo. C'è una cosa che dovresti vedere. — Simon si scostò i capelli dalla fronte. Gli sembrò un gesto un po' sciocco, quasi teatrale, ma quando lo fece rivide il volto pallido e disperato di Clary che lo fissava, con lo stilo in mano, e pensò: Be', lo faccio per lei. Almeno ci provo. L'effetto su Raphael fu sorprendente e istantaneo. Fece un balzo indietro, come se Simon avesse brandito un crocifisso, e sgranò gli occhi. — Diurno — sibilò. — Chi ti ha fatto questo? Simon si limitò a fissarlo. Non sapeva bene quale reazione aspettarsi, ma di sicuro non quella. — Clary — disse Raphael, rispondendosi da solo. — Naturalmente. Solo un potere come il suo può fare una cosa del genere: un vampiro marchiato e con un marchio come questo... — Un marchio di che tipo? — chiese Jacob, l'esile ragazzo biondo alle spalle di Raphael. Anche gli altri vampiri li stavano fissando, con espressioni di confusione e crescente paura. Qualsiasi cosa spaventasse Raphael, pensò Simon, di sicuro spaventava anche loro. — Questo marchio — spiegò Raphael senza togliere gli occhi di dosso a Simon — non è una delle rune del Libro Grigio. È un marchio ancora più vecchio del Libro. Uno dei più antichi, disegnato dalla mano stessa del Creatore. — Fece per toccare la fronte di Simon, ma sembrò non trovare il coraggio: la mano restò sospesa per un attimo, poi gli ricadde lungo il fianco. — Ho sentito parlare di marchi come questo, ma io non ne avevo mai visto uno. E questo... Simon citò: — «"Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte." E il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato.» Puoi cercare di uccidermi, Raphael, ma non te lo consiglio. — Il Marchio di Caino? — esclamò Jacob, incredulo. — Quello è il Marchio di Caino? — Uccidilo — sibilò una ragazza dai capelli rossi, vicino a Jacob. Parlava con un forte accento straniero, forse russo, pensò Simon, ma non ne era sicuro. — Uccidilo lo stesso. L'espressione di Raphael era un misto di furia e incredulità. — Non lo farò — disse. — Qualsiasi male gli verrà fatto ricadrà su chi l'ha compiuto, moltiplicato per sette volte. E questa la natura del marchio. Naturalmente, se qualcuno di voi vuole correre il rischio si accomodi pure. Nessuno parlò, nessuno si mosse. — Me l'immaginavo — commentò Raphael. I suoi occhi scrutarono Simon. — Come la regina cattiva della favola, Lucian Graymark mi ha mandato una mela avvelenata. Immagino che sperasse che io ti uccidessi, per godere della punizione che mi avrebbe colpito. — No — si affrettò a dire Simon. — No, Luke non sa nulla del marchio, ha agito in buona fede. Devi rendergliene atto. — Quindi sei stato tu a sceglierei — Per la prima volta c'era qualcosa di diverso dal disprezzo, pensò Simon, nel modo in cui Raphael lo guardava. — Questa non è una semplice runa di protezione, Diurno. Tu sai quale fu la punizione di Caino? — Parlava a bassa voce, come a voler condividere un segreto. — «Ora sii maledetto lungi da quel suolo... Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra.» — Allora — disse Simon — andrò ramingo, se così dovrà essere. Farò quello che dovrò fare. — Tutto questo... — rifletté Raphael — ... tutto questo per i Nephilim. — Non solo per i Nephilim — precisò Simon. — Lo sto facendo anche per te. Anche se tu non vuoi. — Alzò la voce, in modo che anche i vampiri silenziosi che li circondavano potessero sentirlo. — Tu temevi che, se altri vampiri avessero saputo che cosa mi era successo, avrebbero pensato che il sangue di uno Shadowhunter potesse dargli la capacità di stare alla luce del sole. Ma non è per questo, che io ho questo potere. È per qualcosa che ha fatto Valentine. Un esperimento. Lui l'ha fatto, non Jace. E non è replicabile. Non accadrà di nuovo. — Credo che stia dicendo la verità — commentò Jacob, sorprendendo Simon. — So per certo di uno o due Figli della Notte che hanno assaggiato sangue di Shadowhunter, in passato. Nessuno di loro ha mai sviluppato una gran passione per la luce del sole. — Dunque, una cosa era rifiutarsi di aiutare gli Shadowhunters prima — riprese Simon, voltandosi verso Raphael. — Ma adesso che mi hanno mandato da voi... — Lasciò in sospeso il resto della frase. — Non cercare di ricattarmi, Diurno — disse Raphael. — Quando i Figli della Notte fanno un patto, lo onorano sempre, per quanto possa costargli. — Fece un lieve sorriso e i denti aguzzi luccicarono nel buio. — C'è solo una cosa — aggiunse. — Un ultimo gesto che ti chiedo, per dimostrare che hai davvero agito in buona fede. — L'accento che pose sulle ultime due parole era carico di gelo. — E cioè? — Noi non saremo i soli vampiri a combattere la battaglia di Lucian Graymark — disse Raphael. — Ci sarai anche tu. Jace aprì gli occhi in un gorgo d'argento. La bocca era piena di liquido amaro. Tossì, chiedendosi per un attimo se stesse affogando... Ma era sulla terraferma. Seduto contro una stalagmite, le mani legate dietro la schiena. Tossì di nuovo e la bocca gli si riempì di un liquido caldo. Non stava affogando: stava soffocando nel suo stesso sangue. — Sveglio, fratellino? — Sebastian era inginocchiato davanti a lui, con una fune in mano e un sorriso come un coltello sguainato. — Bene. Per un momento ho temuto di averti ucciso troppo in fretta. Jace girò la testa di lato e sputò una boccata di sangue. La testa era come se contenesse un palloncino gonfio che gli premeva contro il cranio. Il gorgo d'argento che sentiva sopra di lui rallentò e si fermò: Jace mise a fuoco le stelle luminose che apparivano dal foro sulla volta della grotta. — Stai aspettando un'occasione speciale per uccidermi? Natale è vicino. Sebastian gli lanciò un'occhiata pensosa. — Hai la lingua veloce. Questo non l'hai imparato da Valentine. Che cosa hai imparato da lui? Non mi pare che ti abbia insegnato molto, delle tecniche di combattimento. — Gli si avvicinò. — Tu sai che cosa mi regalò, quando compii nove anni? Una bella lezione. Mi insegnò che nella schiena di un uomo c'è un punto dove, se ci affondi una lama, puoi bucargli il cuore e spezzargli la spina dorsale in un colpo solo. E tu, invece, che cosa hai ricevuto quando hai compiuto nove anni, angioletto? Un biscottino? Nove anni? Jace deglutì. — Allora dimmi, in quale buco ti teneva, mentre crescevo? Non ricordo di averti mai visto in giro per la tenuta. — Sono cresciuto in questa valle. — Sebastian gli indicò con il capo l'uscita della grotta. — Nemmeno io ricordo di averti mai visto in giro, ora che ci penso. Però sapevo della tua esistenza. Scommetto che tu, invece, non sapevi della mia. Jace scosse la testa. — Valentine non era molto incline a sbandierare la tua esistenza. E posso immaginare perché. Gli occhi di Sebastian sfavillarono. Era facile, ora, notare la somiglianza con Valentine: la stessa insolita combinazione di capelli chiarissimi e occhi neri, la stessa ossatura elegante che, in un altro viso, meno scolpito, sarebbe risultata femminea. — Sapevo tutto di te — disse Sebastian. — Tu, invece, non sai niente di me, vero? — Si alzò in piedi. — Ti ho tenuto vivo per farti vedere questo, fratellino — gli disse. — Perciò, guarda e osserva bene. — Con un movimento così veloce da essere quasi impercettibile, Sebastian sguainò la spada che portava alla cintura. Aveva l'elsa d'argento e, come la Spada Mortale, brillava di una cupa luce nera. Un motivo di stelle era inciso sulla superficie della lama e, quando Sebastian la roteò, rifletté la luce delle stelle vere, ardendo come fuoco. Jace trattenne il fiato. Sebastian voleva ucciderlo? No, l'avrebbe già fatto mentre era svenuto, se fosse stata quella la sua intenzione. Lo vide spostarsi al centro della grotta, brandendo la spada con facilità, benché sembrasse molto pesante. La mente di Jace vorticava di pensieri. Com'era possibile che Valentine avesse un altro figlio? Chi era sua madre? Una donna del Circolo? Ed era più giovane o più vecchio di lui? Sebastian raggiunse l'enorme stalagmite dalle sfumature rossastre, al centro della grotta. Sembrava pulsare, e il fumo al suo interno iniziò a vorticare più rapidamente. Sebastian socchiuse gli occhi e sollevò la spada. Disse qualcosa - una parola in un'aspra lingua demoniaca - e calò la lama, con velocità e con forza, in un arco tagliente. La punta della stalagmite si staccò. L'interno era cavo, ricolmo di una massa di fumo rosso e nero, che salì vorticando come gas da un palloncino forato. Ci fu un boato, una sorta di pressione esplosiva. Jace sentì uno schiocco nelle orecchie. All'improvviso divenne difficile respirare. Avrebbe voluto allargare il colletto della camicia, ma non poteva muovere le mani: erano legate troppo saldamente dietro di lui. Sebastian era mezzo nascosto dietro la colonna rossa e nera che si riversava dalla stalagmite salendo in rapide spire. — Guarda! — esclamò. Il suo volto era infervorato, gli occhi accesi, i capelli bianchi sferzati dal vento ascendente. Jace si chiese se suo padre fosse stato così, da giovane: terribile, eppure in qualche modo affascinante. — Guarda e ammira l'esercito di Valentine! La sua voce venne soffocata dal fragore. Era un suono simile a quello di un'onda di marea che si frange sulla riva, un enorme cavallone carico di pesanti detriti, delle ossa frantumate di intere città, l'avanzata di un potere grandioso e malvagio. Un'enorme colonna di nero guizzante, impetuoso, contorto, si riversò dalla stalagmite spaccata, incanalandosi verso lo squarcio sulla volta della grotta, salendo e uscendo da esso. Demoni. Salirono gridando, urlando, ringhiando: una massa ribollente di artigli e unghioni, zanne e occhi ardenti. Jace ripensò alla nave di Valentine, si rivide riverso sul ponte, mentre intorno a lui il cielo e la terra e il mare diventavano un incubo terribile. Ma questo era ancora peggio. Era come se la terra si fosse squarciata e ne fosse uscito l'inferno. I demoni portavano con sé il puzzo di mille cadaveri in putrefazione. Le mani di Jace si torsero, si torsero finché le funi non gli tagliarono i polsi facendolo sanguinare. Un sapore amaro gli salì in gola, e Jace soffocò nel sangue e nella bile, mentre l'ultimo dei demoni saliva e svaniva sopra di lui, in una nera inondazione di orrore che spense tutte le stelle. Forse aveva perso i sensi per qualche minuto, pensò Jace. Di certo, c'era stato un momento di buio nel quale gli urli e gli ululati erano svaniti e lui aveva avuto l'impressione di essere sospeso nello spazio, inchiodato tra terra e cielo, con un senso di distacco che era in qualche modo... rasserenante. Finì troppo presto. All'improvviso, tornò con violenza nel suo corpo, i polsi doloranti, le spalle tese all'indietro, il puzzo dei demoni così denso nell'aria che lo costrinse a vomitare. Sentì una risatina secca e alzò gli occhi, ricacciando giù l'acido che aveva in bocca. Sebastian era inginocchiato sopra di lui, con le gambe a cavalcioni di quelle di Jace, gli occhi sfavillanti. — Va tutto bene, fratellino — disse. — Sono andati via. Gli occhi di Jace lacrimavano, la gola era lacera e in fiamme. La voce gli uscì come un gracchio. — Lui aveva detto a mezzanotte. Valentine aveva detto di liberare i demoni a mezzanotte. Non può essere già mezzanotte. — È sempre meglio chiedere perdono che chiedere il permesso, in questo tipo di situazione. — Sebastian guardò il cielo vuoto. —Impiegheranno cinque minuti per raggiungere la pianura di Brocelind, da qui, un bel po' meno di quanto impiegherà mio padre per raggiungere il lago. Io voglio vedere versato un po' di sangue Nephilim. Voglio vederli contorcersi e morire sul campo di battaglia. Meritano la vergogna, prima dell'oblio. — Pensi davvero che i Nephilim abbiano così poche possibilità contro i demoni? Non è che siano impreparati... Sebastian liquidò la domanda con un gesto secco della mano. — Credevo che ci stessi ascoltando, poco fa. Non hai capito il piano? Non sai che cosa ha intenzione di fare mio padre? Jace non disse niente. — È stato gentile, da parte tua — proseguì Sebastian — condurmi da Hodge la notte scorsa. Se lui non ci avesse rivelato che lo Specchio che cercavamo era il lago Lyn, non sono sicuro che questa notte avrebbe avuto compimento. Colui che detiene i primi due Strumenti Mortali e si erge davanti allo Specchio Mortale, può evocare l'Angelo Raziel dallo Specchio, come fece Jonathan Shadowhunter mille anni fa. E una volta evocato l'Angelo, si ha il diritto di chiedergli una cosa. Un compito. Un... favore. — Un favore? — Jace si sentì raggelare. — E Valentine chiederà la sconfitta degli Shadowhunters a Brocelind? Sebastian si alzò. — Sarebbe uno spreco — disse. — No. Chiederà che tutti gli Shadowhunters che non hanno bevuto alla Coppa Mortale - cioè tutti coloro che non sono suoi seguaci - siano spogliati dei loro poteri. Non saranno più Nephilim. Di conseguenza, coi marchi che portano sulla pelle... — Sebastian sorrise — diventeranno Dimenticati, facile preda dei demoni. E i Nascosti che non saranno scappati verranno facilmente sterminati. Le orecchie di Jace risuonavano di un tintinnio aspro. Si sentiva stordito. — Nemmeno Valentine... — disse. — Nemmeno Valentine farebbe una cosa del genere. — Ma per favore! — sbottò Sebastian. — Credi davvero che mio padre non porterà fino in fondo il piano che ha elaborato? — Nostro padre — lo corresse Jace. Sebastian lo guardò dall'alto. I capelli erano come una bianca aureola; sembrava il classico angelo ribelle scacciato dal Paradiso insieme a Lucifero. — Scusa — disse con un certo divertimento — ma stai pregando? — No. Parlavo di Valentine. È nostro padre. Non tuo padre. Nostro. Per un momento Sebastian non mostrò alcuna emozione, poi le labbra si arricciarono agli angoli e sorrise. — Angioletto — disse — sei proprio uno sciocco, lo sai? Proprio come diceva sempre mio padre. — Perché continui a chiamarmi così? — volle sapere Jace. — Perché continui a blaterare di angeli? — Dio! — esclamò Sebastian. — Non sai proprio niente, allora? Mio padre non ti ha mai detto niente che non fosse una bugia? Jace scosse la testa. Aveva continuato a tirare le corde che gli legavano i polsi, ma ogni volta che tirava i nodi sembravano stringersi di più. Sentiva il sangue pulsare in tutte le dita. — Come fai sapere che non mentiva a te? — Perché io sono sangue del suo sangue. Sono come lui. Quando lui non ci sarà più, sarò io a guidare il Conclave. — Non mi vanterei di essere come lui, se fossi in te. — Anche questo. — La voce di Sebastian era priva di emozioni. — Io non fingo di essere diverso da ciò che sono. Non mi comporto come se fossi scandalizzato perché mio padre fa ciò che deve fare per salvare la sua gente, anche se loro non voglio essere salvati (o, se vuoi sapere la mia opinione, non meritano di essere salvati). Chi preferiresti avere come figlio: un ragazzo che sia orgoglioso di averti come padre o uno che davanti a suo padre si rintana in un angolo per la paura e la vergogna? — Io non ho paura di Valentine — puntualizzò Jace. — Non è di lui che devi aver paura — replicò Sebastian. — Ma di me. C'era qualcosa nella sua voce che indusse Jace a smettere di lottare con le corde e ad alzare gli occhi verso di lui. Sebastian brandiva ancora la spada dalla lucente lama nera. Era un oggetto bellissimo, pensò Jace, anche quando Sebastian abbassò la punta e gliela appoggiò sulla clavicola, sfiorandogli il pomo d'Adamo. Jace si sforzò di mantenere ferma la voce. — E adesso cosa vuoi fare? Vuoi uccidermi mentre sono legato? Il pensiero di batterti con me ti spaventa tanto? Nulla, nemmeno il fremito di una emozione, attraversò il viso pallido di Sebastian. — Tu — gli disse — non rappresenti una minaccia per me. Sei una scocciatura. Un fastidio. — Allora perché non mi sleghi le mani? Sebastian, perfettamente immobile, lo fissava. Sembrava una statua, pensò Jace, la statua di un principe morto da secoli, morto giovane e corrotto dal vizio. Ed era questa la differenza tra Sebastian e Valentine: pur condividendo lo stesso aspetto gelido e marmoreo, Sebastian aveva un'aura intorno a sé come di qualcosa di guasto, qualcosa di corroso dall'interno. — Non sono uno sciocco — disse Sebastian — e non ci casco. Ti ho lasciato vivo solo per farti vedere i demoni. Ora, quando morirai e ritornerai dai tuoi angelici antenati, potrai riferire che non c'è più posto per loro, in questo mondo. Hanno abbandonato il Concia-ve e il Conclave non ha più bisogno di loro. Abbiamo Valentine, adesso. — E tu vorresti uccidermi per farmi portare un messaggio a Dio a nome tuo? — Jace scosse la testa, e la punta della lama gli graffiò la gola. — Sei più pazzo di quel che pensavo. Sebastian si limitò a sorridere e spinse un po' di più la lama. Quando Jace deglutì, sentì la punta della spada intaccare la trachea. — Se hai delle preghiere, fratellino, dille adesso. — Non ho nessuna preghiera - replicò Jace. — Ho un messaggio, però. Per nostro padre. Glielo darai? — Certo — disse Sebastian con voce di velluto. Ma c'era qualcosa nel modo in cui lo disse, un guizzo di esitazione prima che parlasse, che confermava ciò che Jace già pensava. — Tu menti — gli disse. — Tu non gli darai il messaggio, perché non gli dirai mai cosa hai fatto. Lui non ti ha mai chiesto di uccidermi. E non sarà contento quando lo scoprirà. — Assurdo. Tu non sei niente per lui. — Tu pensi che lui non scoprirà mai cosa mi è successo, se mi uccidi qui e ora. Potresti dirgli che sono morto in battaglia, oppure sarà lui a dedurre cos'è successo. Ma ti sbagli se pensi che non lo saprà mai. Valentine sa sempre tutto. — Tu non sai di cosa parli — replicò Sebastian, ma i suoi tratti si erano fatti più tesi. Jace continuò a parlare, sfruttando al massimo quel piccolo vantaggio. — Non puoi nascondere quello che stai facendo. C'è un testimone. — Un testimone? — Sebastian sembrò quasi sorpreso e per Jace fu una piccola vittoria. — Che cosa stai dicendo? — Il corvo — gli ricordò Jace. — Ti sta osservando nell'ombra. Dirà tutto a Valentine. — Hugin? — Gli occhi di Sebastian si alzarono di scatto e, anche se il corvo non si vedeva da nessuna parte, il suo sguardo, quando tornò a posarsi su Jace, era pieno di dubbi. — Se Valentine scopre che mi hai ucciso mentre ero legato e inerme, ne sarà disgustato — proseguì Jace. Sentiva la propria voce imitare le cadenze che usava suo padre, quando voleva qualcosa: una voce dolce e persuasiva. — Ti considererà un vigliacco. Non ti perdonerà mai. Sebastian non disse niente. Fissava Jace dall'alto, con un fremito nelle labbra, e il rancore che gli ribolliva negli occhi come un veleno. — Slegami — disse Jace a bassa voce. — Slegami e combatti con me. È l'unico modo. Le labbra di Sebastian guizzarono di nuovo, e stavolta Jace ebbe paura di essersi spinto troppo oltre. Sebastian sollevò la spada e la luce della luna esplose dalla lama in mille schegge d'argento d'argento come le stelle, d'argento come il colore dei suoi capelli. Digrignò i denti... e il sibilante respiro della spada tagliò l'aria della notte con un grido, quando Sebastian la calò in un arco fulmineo. Clary era seduta sui gradini del podio, nella Sala degli Accordi, con lo stilo in mano. Non si era mai sentita tanto sola. La Sala era deserta. Clary aveva cercato Isabelle dappertutto, dopo che tutto l'esercito aveva attraversato il Portale, ma non era riuscita a trovarla. Aline le aveva detto che probabilmente era tornata a casa dei Penhallow, dove lei e alcuni suoi coetanei avrebbero dovuto badare a una quindicina di bambini sotto l'età del combattimento. Aveva cercato di convincere Clary ad andare con loro, ma lei aveva rifiutato. Se non trovava Isabelle, preferiva restare da sola, piuttosto che con dei quasi estranei. O almeno, così credeva. Ma ora, nella Sala degli Accordi, il silenzio e il vuoto diventavano sempre più opprimenti. Tuttavia, Clary non si mosse da lì. Stava cercando con tutte le forze di non pensare a Jace, di non pensare a Simon, di non pensare a sua madre, né a Luke, né ad Alec... e l'unico modo per non pensare era restare immobile a fissare un unico riquadro di marmo del pavimento, contandone le fessure, all'infinito. Erano sei. Una due tre. Quattro cinque sei. Finiva la conta e ricominciava di nuovo, dall'inizio. Una due... Il cielo sopra di lei esplose. O almeno così le parve, dal fragore. Clary sollevò la testa di scatto e guardò su, oltre il soffitto trasparente della Sala. Il cielo, che era stato buio fino a un attimo prima, ora era una massa turbolenta di fiamme e oscurità, rischiarata da un'orrenda luce arancione. Contro quella luce si muovevano delle cose: cose orrende che lei non voleva vedere, cose per cui fu grata all'oscurità che ne nascondeva la vista. Le sporadiche immagini che si intravedevano erano già abbastanza terribili. Il soffitto trasparente fremette e s'inarcò al passaggio dell'esercito dei demoni, come deformato da un tremendo calore. Alla fine ci fu un suono che somigliava a uno sparo e un'enorme crepa si disegnò sul vetro diramandosi in una ragnatela di linee. Clary si abbassò e si coprì la testa con le mani, quando i vetri cominciarono a piovere intorno a lei come lacrime. Erano quasi giunti sul campo di battaglia, quando sentirono quel suono che squarciò la notte. Un attimo prima, i boschi erano muti e bui. L'attimo dopo, il cielo s'illuminò di un infernale bagliore rossastro. Simon barcollò e rischiò di cadere. Si aggrappò a un albero per riprendere l'equilibrio e guardò su, incapace di credere ai propri occhi. Intorno a lui, anche gli altri vampiri fissavano il cielo, le facce bianche come fiori notturni rivolti verso la luce della luna, mentre uno dopo l'altro quegli incubi attraversavano il cielo. — Continui a svenire — protestò Sebastian. — È estremamente fastidioso. Jace aprì gli occhi e sentì un dolore lancinante alla testa. Alzò una mano per toccarsi la faccia e... si accorse di non avere più le mani legate dietro la schiena. Un pezzo di fune gli penzolava ancora dal polso. La mano che ritirò dal viso era nera: nera di sangue, alla luce della luna. Si guardò intorno. Non si trovavano più nella grotta: Jace era disteso sulla terra morbida ed erbosa della valle, non lontano dalla casetta di pietra. Sentiva scrosciare l'acqua del torrente, chiaramente vicino. In alto, i rami intrecciati degli alberi nascondevano in parte la luce lunare, ma la notte era comunque luminosa. — Alzati — gli disse Sebastian. — Hai cinque secondi, prima che ti uccida lì dove sei. Jace si alzò con tutta la lentezza che pensava potesse essergli concessa. Era ancora un po' stordito. Cercando l'equilibrio, affondò i tacchi degli stivali nella terra morbida, per avere più stabilità. — Perché mi hai portato qui? — Per due ragioni — disse Sebastian. — La prima, mi piaceva l'idea di metterti subito al tappeto. La seconda, non sarebbe stata una buona idea per nessuno di noi insanguinare il pavimento della grotta. E io ho tutta l'intenzione di versare molto del tuo sangue. Jace tastò la cintura e il cuore gli sprofondò. O gli erano cadute le armi mentre Sebastian lo trascinava nei tunnel o, più probabilmente, Sebastian gliele aveva buttate via. Gli restava solo un pugnale. Dalla lama corta, troppo corta. Inutile contro una spada. — Non è un granché come arma, quella. — Sebastian ghignò, bianco nell'oscurità abbagliata dalla luna. — Non posso combattere con questo — disse Jace cercando di sembrare nervoso e spaventato. — Ma che peccato! — Sebastian gli si avvicinò con un ghigno. Teneva la spada come un bastone da passeggio, ostentando un'assoluta mancanza di preoccupazione e tamburellando sull'elsa con le dita. Se aveva una possibilità, pensò Jace, probabilmente era questa. Caricò il braccio e tirò un pugno in faccia a Sebastian con tutta la forza che aveva. Sentì scricchiolare le ossa sotto le nocche. Il pugno mandò Sebastian a gambe all'aria. Cadde all'indietro e la spada gli sfuggì di mano. Jace la prese al volo e si lanciò all'attacco. Un attimo dopo era sopra Sebastian, con la spada puntata. Il naso di Sebastian sanguinava e il sangue tracciava un rivolo scarlatto sul suo viso. Si scostò il colletto, scoprendo la gola chiara. — Forza. Fallo! — gli disse. — Uccidimi subito. Jace esitò. Non voleva esitare, ma era così: una fastidiosa riluttanza a uccidere una persona inerme e atterrata. Ricordò Valentine che lo provocava, a Renwick, che lo sfidava a ucciderlo. E lui non c'era riuscito. Ma Sebastian era un assassino. Aveva ucciso Max e Hodge. Sollevò la spada. E Sebastian balzò in piedi, più veloce di un lampo. Sembrò quasi volare. Eseguì un'elegante capriola all'indietro e atterrò con grazia sull'erba, praticamente sul posto. Nel movimento, sferrò un calcio contro la mano di Jace. La spada gli sfuggì di mano e volò in alto roteando. Sebastian la prese al volo, ridendo, e fece un affondo con la lama, puntando al cuore di Jace. Jace fece un balzo indietro e la lama tagliò l'aria proprio davanti a lui, squarciandogli la camicia sul petto. Jace sentì un dolore pungente e il sangue sgorgare da una ferita superficiale sul petto. Sebastian ghignava, avanzando verso Jace, che arretrò, armeggiando con la cintura per sfilare l'inadeguato pugnale. Si guardò intorno, disperatamente, in cerca di qualcos'altro da usare come arma: un bastone, qualsiasi cosa. Ma non c'era niente intorno, solo l'erba, il torrente che scorreva veloce e gli alberi che allargavano i robusti rami sopra di loro, formando una rete di verde. All'improvviso ricordò la Configurazione Malachi in cui l'Inquisitrice l'aveva intrappolato: Sebastian non era l'unico in grado di saltare. Sebastian fece un nuovo affondo, ma Jace non c'era più: aveva spiccato un grande balzo in verticale. Il ramo più basso era a circa sei metri di altezza: lo afferrò a due mani e con uno slancio vi si issò sopra. Dal ramo, vide Sebastian ruotare su se stesso e poi guardare in alto. Jace scagliò il pugnale e Sebastian gridò. Con il fiato corto, si raddrizzò... Un attimo dopo anche Sebastian era sul ramo. La faccia pallida era arrossata di rabbia, il braccio con la spada perdeva sangue copiosamente. La spada gli era caduta sull'erba, ma questo serviva soltanto a metterli alla pari, pensò Jace, visto che anche il suo pugnale era andato. Con una certa soddisfazione, Jace notò che per la prima volta Sebastian appariva arrabbiato: arrabbiato e sorpreso, come se il cagnolino che lui pensava ben addomesticato l'avesse morso. — Divertente — sibilò Sebastian. — Ma adesso basta. Si scagliò contro Jace, lo afferrò per la vita e lo buttò giù dal ramo. Caddero per sei metri, avvinghiati, picchiandosi, e si schiantarono a terra così forte che Jace vide letteralmente le stelle. Agguantò il braccio ferito di Sebastian e vi affondò le dita. Sebastian urlò e reagì tirandogli un manrovescio in pieno viso. La bocca di Jace si riempì di sangue: tossì e sputò, mentre rotolavano nella terra prendendosi a pugni. Di colpo Jace sentì un'improvvisa sferzata di gelo: erano rotolati giù dalla riva del ruscello ed erano finiti nell'acqua. Sebastian restò senza fiato e Jace colse l'occasione per prenderlo alla gola a due mani e stringere. Sentendosi soffocare, Sebastian afferrò il polso destro di Jace e lo tirò indietro con tanta forza da spezzarne le ossa. Jace si sentì urlare, come da lontano, e Sebastian approfittò del vantaggio, torcendo senza pietà il polso rotto finché Jace non mollò la presa e cadde nell'acqua gelida e fangosa. Tutto il braccio era un urlo di agonia. Mezzo inginocchiato sul petto di Jace, un ginocchio affondato nelle costole, Sebastian ghignava. I suoi occhi rilucevano, bianchi e neri, nel viso che era una maschera di terra e fango. Qualcosa luccicava nella sua destra: il pugnale di Jace. Doveva averlo trovato per terra. La punta era sul cuore dell'avversario. — E ci ritroviamo esattamente dove eravamo cinque minuti fa — commentò Sebastian. — Hai avuto la tua possibilità, Wayland. Hai da dire le tue ultime parole? Jace lo fissò, la bocca piena di sangue, il sudore che gli bruciava negli occhi. Sentiva solo un senso di vuoto e di totale sfinimento. Era davvero così che sarebbe morto? — Wayland? — disse. — Sai benissimo che non è il mio nome. — Né più né meno che il cognome Morgenstern — commentò Sebastian. Si abbassò, facendo pressione sul pugnale. La punta forò la pelle di Jace, il suo corpo vibrò per una fitta di dolore lancinante. La faccia di Sebastian era a pochi centimetri dalla sua, la voce un sussurro sibilante. — Credevidavvero di essere figlio di Valentine? Credevi davvero che una cosa patetica e lamentosa come te fosse degna di essere un Morgenstern, di essere mio fratello7. — Buttò indietro i capelli bianchi: erano appesantiti dal sudore e dall'acqua del torrente. — Tu sei un figlio scambiato — disse. — Mio padre ha squartato un cadavere per tirarti fuori e trasformarti in uno dei suoi esperimenti. Ha cercato di allevarti come un figlio, ma eri troppo debole per essergli utile. Non saresti mai diventato un guerriero. Non eri niente. Inutile. Così ti ha sbolognato ai Lightwood, sperando che potessi tornargli utile in seguito, come specchietto per le allodole. O come esca. Non ti ha mai voluto bene. Jace batté le palpebre sugli occhi che bruciavano. — Allora tu... — Io sono il figlio di Valentine. Jonathan Christopher Morgenstern. Tu non hai mai avuto alcun diritto di portare questo nome. Tu sei un fantasma. Un falso. — I suoi occhi erano neri e luccicanti, come il carapace di due insetti morti. E d'improvviso Jace sentì, come in sogno, la voce di sua madre - anche se non era sua madre - che diceva: «Jonathan non è più un bambino. Non è più nemmeno umano: è un mostro.» — Allora sei tu! — esclamò Jace, soffocando nel sangue. — Sei tu che hai sangue di demone. Non io! — Esatto. — Il pugnale affondò di un altro millimetro nelle carni di Jace. Sebastian stava ancora ghignando, ma era un sorriso fisso, da teschio. — Tu sei il bambino angelico. Ho dovuto sentire di tutto sul tuo conto. Tu, con la tua bella faccina d'angelo e i tuoi modi gentili e i tuoi delicati, delicatissimi sentimenti. Non riuscivi nemmeno a vedere un uccello morire senza metterti a piangere. Per forza Valentine si vergognava di te. — No. — Jace dimenticò il sangue che gli riempiva la bocca, dimenticò il dolore. — È di te che si vergogna. Tu credi che non ti abbia voluto portare con sé al lago perché gli servivi qui per liberare i demoni a mezzanotte? Come se non sapesse che non saresti riuscito ad aspettare. Non ti ha portato con sé perché si vergogna a presentarsi al cospetto dell'Angelo e mostrargli che cosa ha fatto. Mostrargli la cosa che ha creato. Mostrargli te. — Jace guardò in faccia Sebastian: sentiva una terribile, trionfante pietà brillare nei suoi occhi. — Valentine sa benissimo che non c'è niente di umano in te. Forse ti vuole bene, ma allo stesso tempo ti odia... — Sta' zitto! — Sebastian spinse giù il pugnale, rigirandolo. Jace gridò inarcando la schiena e il dolore gli esplose come un lampo dentro gli occhi. Sto per morire, pensò. Sto morendo. È finita. Si chiese se il suo cuore fosse già stato trafitto. Non riusciva più a muoversi, non riusciva più a respirare. Era come una farfalla infilzata con uno spillo e inchiodata a un quadro. Cercò di parlare, cercò di pronunciare un nome, ma nulla uscì dalla sua bocca. Solo sangue. E tuttavia Sebastian sembrò leggergli negli occhi. — Clary. Me n'ero quasi dimenticato. Tu sei innamorato di lei, vero? La vergogna per i tuoi indegni impulsi incestuosi deve averti quasi ucciso. Che peccato non aver saputo prima che Clary non è tua sorella. Avresti potuto passare il resto della vita con lei, se solo non fossi così stupido. — Si abbassò ancora, affondando di più il pugnale, con la lama che grattava contro l'osso. Parlò all'orecchio di Jace, con una voce bassa come un sussurro. — Anche lei ti amava — le disse. — Ricordatelo, mentre muori. L'oscurità invase il campo visivo di Jace, come un barattolo di colore rovesciato su una fotografia che ne cancella le immagini. All'improvviso non ci fu più dolore. Jace non sentiva più niente, nemmeno il peso di Sebastian sopra di sé. Era come galleggiare. La faccia di Sebastian scivolò su di lui, bianca contro il buio, il pugnale in mano, sollevato. Qualcosa di dorato luccicò al polso di Sebastian, come un braccialetto. Ma non era un braccialetto, perché si muoveva. Sebastian si guardò la mano, sorpreso, allentò la presa e il pugnale gli cadde sulla terra fangosa con un piccolo tonfo. Poi anche la mano, staccata dal polso, cadde a terra accanto ad esso. Jace fissò meravigliato la mano tagliata di Sebastian che rimbalzava e si fermava contro un paio di alti stivali neri. Gli stivali avvolgevano un paio di gambe eleganti, che salivano a un busto esile e a un volto ben noto, circondato da una cascata di capelli neri. Jace sollevò lo sguardo e vide Isabelle, la frusta grondante sangue, gli occhi inchiodati su Sebastian, che fissava il moncherino a bocca aperta, incredulo. Isabelle fece un sorriso cupo. — Questo era per Max, bastardo. — Carogna! — sibilò Sebastian. Balzò in piedi nel momento stesso in cui la frusta di Isabelle calò su di lui con fulminea rapidità. Sebastian si tuffò di lato e sparì. Ci fu un fruscio: doveva essersi dileguato tra gli alberi, pensò Jace, ma gli faceva troppo male girare la testa per guardare. — Jace! — Isabelle si inginocchiò sopra di lui, con lo stilo nella mano sinistra. I suoi occhi brillavano di lacrime: doveva essere piuttosto malconcio, pensò Jace, per far piangere Isabelle. — Isabelle — cercò di dire. Voleva dirle di andarsene, di scappare, perché, per quanto fosse spettacolare e coraggiosa e piena di talento - e lei era tutte queste cose - non poteva competere con Sebastian. Non c'era da sperare che si facesse fermare da una inezia come una mano tagliata. Ma tutto quello che uscì dalla bocca di Jace fu una sorta di gorgoglio. — Non parlare. — Sentì la punta dello stilo bruciare sulla pelle del petto. — Te la caverai. — Isabelle gli fece un sorriso tremulo. — Ti starai chiedendo che diavolo ci faccio qui — gli disse. — Non so quanto sai già, non so che cosa ti abbia rivelato Sebastian, ma tu non sei figlio di Valentine. — L'iratze era quasi finito: Jace già sentiva il dolore affievolirsi. Annuì appena, cercando di dirle: Lo so. — Comunque, non avevo intenzione di venirti a cercare, dopo che sei scappato, perché nel tuo biglietto avevi scritto di non farlo, e questo l'avevo capito. Ma non potevo lasciarti morire convinto di avere dentro di te sangue di demone, né senza dirti che non c'è niente che non va in te, anche se, onestamente, non capisco come ti sia venuta in mente una cosa del genere... — La mano le tremò. Isabelle si immobilizzò, non volendo rovinare la runa. — E bisognava che tu sapessi che Clary non è tua sorella — riprese, più dolcemente. — Perché... perché sì. Così ho chiesto a Magnus di aiutarmi a rintracciarti. Ho usato il soldatino di legno che avevi regalato a Max. Non credo che Magnus l'avrebbe fatto, in circostanze normali, ma diciamo che era di umore insolitamente buono, e forse gli ho anche detto che Alec voleva che lo facesse... cosa tecnicamente non proprio vera, ma ci vorrà un po' di tempo prima che venga a saperlo. E quando ho scoperto dov'eri, be'... Magnus aveva già aperto un Portale e io sono molto brava a sgattaiolare via di nascosto... Isabelle gridò. Jace cercò di allungare un braccio verso di lei, ma era troppo lontana, sollevata, scagliata via. La frusta le sfuggì di mano. Si mise sulle ginocchia, ma Sebastian era già di fronte a lei. I suoi occhi ardevano di rabbia e aveva un cencio insanguinato intorno al moncherino. Isabelle si tuffò verso la frusta, ma Sebastian si mosse più rapidamente. Ruotò su se stesso e le sferrò un calcio violento. Lo stivale la colpì sulla cassa toracica. Jace ebbe l'impressione di sentire le costole di Isabelle che si rompevano, mentre lei volava a gambe all'aria, cadendo malamente su un fianco. La sentì gridare di dolore - Isabelle, che non mostrava mai la propria sofferenza - quando Sebastian la colpì con un altro calcio. Poi Sebastian raccolse la frusta e la brandì. Jace rotolò su un fianco. L'iratze quasi completato era servito, ma il dolore al petto era ancora forte. Con un certo distacco, Jace era anche consapevole che sputare sangue probabilmente significava avere un polmone perforato. Non era sicuro di quanta autonomia gli restasse. Minuti, probabilmente. Raccattò il pugnale lasciato cadere da Sebastian, accanto ai raccapriccianti resti della sua mano. Barcollando, si rimise in piedi. L'odore del sangue era fortissimo. Pensò alla visione di Magnus, al mondo trasformato in sangue, e la sua mano scivolosa si strinse sull'impugnatura del pugnale. Fece un passo avanti. Poi un altro. Ogni passo era come spostare i piedi nel cemento fresco. Isabelle strillava insulti a Sebastian, che la frustava e rideva. Le sue grida attiravano Jace come un pesce preso all'amo, ma a ogni passo le sentiva più flebili. Il mondo gli girava intorno come una giostra del luna park. Ancora un passo, si disse Jace. Ancora uno. Sebastian gli voltava le spalle, era concentrato su Isabelle. Probabilmente pensava che Jace fosse già morto. E ci mancava poco. Un passo, si disse. Ma non ci riuscì, non riusciva più a muoversi, non riusciva più a costringersi a trascinare i piedi, nemmeno per un altro passo. L'oscurità stava invadendo i margini del suo campo visivo, un'oscurità più profonda di quella del sonno, un nero che avrebbe cancellato ogni cosa Jace avesse visto, che l'avrebbe portato a un riposo assoluto. Pacificante. Pensò all'improvviso a Clary: Clary come l'aveva vista l'ultima volta, addormentata, coi capelli sul cuscino e le mani sotto la guancia. Aveva pensato allora che mai in vita sua aveva visto qualcosa di più pacifico. Ma naturalmente Clary stava solo dormendo, come chiunque altro potrebbe dormire. Non era stata la pace di Clary a sorprenderlo, ma la propria. La pace che sentiva quando era con lei era qualcosa che non aveva mai conosciuto prima. Il dolore gli sferzò la schiena. Si rese conto con sorpresa che in qualche modo, senza una sua precisa volontà, le sue gambe avevano fatto quell'ultimo passo cruciale. Sebastian aveva il braccio indietro, la frusta in mano. Isabelle era riversa sull'erba, accartocciata su se stessa. Non gridava più, non si muoveva più. — Piccola bastarda — stava dicendo Sebastian. — Avrei dovuto spaccarti la faccia con quel martello quando potevo farlo. Jace levò il pugnale e lo affondò nella schiena di Sebastian. Sebastian barcollò in avanti e la frusta gli cadde di mano. Si girò lentamente e guardò Jace. Lui pensò, con un lontano senso di orrore, che forse Sebastian non era veramente umano, che forse, dopotutto, era impossibile ucciderlo. La faccia era vuota, ogni ostilità sparita, come il fuoco nero era sparito dai suoi occhi. Non somigliava più a Valentine, adesso. Era... spaventato. Aprì la bocca, come per dirgli qualcosa, ma le ginocchia gli cedettero. Crollò al suolo e con la forza dell'impatto rotolò lungo la sponda del fiume e finì nell'acqua. Si fermò sulla schiena, gli occhi spalancati verso un cielo che non potevano più vedere. L'acqua scorreva intorno a lui, striata del suo sangue. Mi insegnò che nella schiena di un uomo c'è un punto dove, se ci affondi una lama, puoi bucargli il cuore e spezzargli la spina dorsale in un colpo solo, aveva detto Sebastian. A quanto pare abbiamo ricevuto lo stesso regalo di compleanno quell'anno, pensò Jace. Vero, fratellone? — Jace! — Era Isabelle. Aveva la faccia insanguinata e stava cercando di mettersi a sedere. — Jace! Jace cercò di voltarsi verso di lei, cercò di dire qualcosa, ma non aveva più le parole. Cadde lentamente sulle ginocchia. Un peso immenso gli schiacciava le spalle e la terra lo stava chiamando a sé: giù, giù, giù. A malapena riconobbe la voce di Isabelle che gridava il suo nome, mentre il buio lo portava via. Simon era un veterano di molte battaglie. Purché si contassero anche quelle di Dungeons & Dragons. Il suo amico Eric era l'appassionato di storia militare, mentre Simon era quello che organizzava la parte del gioco relativa alla guerra, con decine di minuscoli soldatini che avanzavano allineati su un paesaggio pianeggiante disegnato sui rotoli di carta da disegno. Lui le battaglie le aveva sempre pensate così. Oppure come nei film, con due gruppi di uomini che avanzavano gli uni contro gli altri su una vasta pianura. Linee rette e schieramenti ordinati. Ma lì non era così. Regnava il caos. Era una mischia di urla e di azione, e lo scenario non era una vasta pianura, ma un ammasso di fango e di sangue in un impasto denso e instabile. Simon aveva immaginato che i Figli della Notte si sarebbero incamminati verso il campo di battaglia e che qualche comandante li avrebbe accolti; aveva immaginato di vedere la battaglia da lontano, di vedere i due eserciti scontrarsi. Ma non ci furono accoglienze, né eserciti schierati. La battaglia gli piombò addosso dalle tenebre, come se, da una stradina deserta, avesse girato l'angolo e si fosse trovato in mezzo a una rissa a Times Square. D'improvviso, ci furono ammassi di persone intorno a lui, mani che l'afferravano, che lo spingevano via... E i vampiri si tuffarono nella mischia in ordine sparso, senza voltarsi indietro nemmeno una volta. E c'erano demoni, demoni dappertutto. Simon non avrebbe mai immaginato le urla, i fischi, i grugniti... E, peggio ancora, il suono degli strappi, delle lacerazioni, della famelica soddisfazione. Desiderò poter spegnere il suo udito di vampiro, ma non poteva: i suoni erano come coltelli conficcati nei padiglioni auricolari. Inciampò su un corpo riverso nel fango, si girò per vedere se poteva essere d'aiuto e si accorse che lo Shadowhunter ai suoi piedi, dal petto in su non esisteva più. Le sue ossa bianche luccicavano contro la terra scura e, nonostante la sua natura vampiresca, Simon ne fu nauseato. Devo essere l'unico vampiro al mondo che si sente male alla vista del sangue, pensò. Poi qualcosa lo colpì forte alle spalle e Simon cadde, scivolando da un pendio fangoso in una fossa. Non era l'unico corpo, in quella fossa. Rotolò sulla schiena e in quell'attimo il demone gli balzò addosso. Era come l'immagine della Morte in un'incisione medievale: uno scheletro vivente con la falce insanguinata stretta nella mano ossuta. Simon rotolò su un fianco e la lama calò a pochi centimetri dalla sua faccia. Lo scheletro emise una sorta di fischio pieno di delusione e levò di nuovo la falce. Ma venne colpito su un fianco da un nodoso bastone. Lo scheletro esplose come una pinata di cartapesta piena di ossa invece che di dolci. Le ossa rotolarono con un suono di nacchere, poi sparirono nel buio. Uno Shadowhunter si avvicinò a Simon. Era uno che Simon non aveva mai visto: alto, barbuto e imbrattato di sangue. Si passò una mano sporca sulla fronte, guardandolo. La mano lasciò una striatura scura sulla pelle. — Stai bene? Stordito, Simon annuì e iniziò ad alzarsi in piedi — Grazie. Lo sconosciuto si chinò e gli porse una mano per tirarlo su. Simon accettò... e si trovò a volare fuori dalla fossa. Atterrò in piedi sull'orlo, scivolando sul fango umido. Lo sconosciuto gli fece un sorriso imbarazzato. — Scusa. Forza di Nascosto: il mio compagno è un lupo mannaro. Non ci sono ancora abituato. — Poi guardò meglio Simon. — Tu sei un vampiro, vero? — Come fai a saperlo? L'uomo sorrise. Era un sorriso stanco, ma non c'era nulla di ostile. — I denti. Vi escono, quando combattete. Lo so perché... — S'interruppe. Simon avrebbe potuto completare lui la frase: Lo so perché ne ho uccisi parecchi, di voi. — E comunque... grazie. Per aver accettato di combattere con noi. — Io... — Simon stava per dire che, in senso stretto, non aveva ancora combattuto, né contribuito in alcun modo, in realtà. Si voltò per dirglielo, ma riuscì a pronunciare una sola parola, prima che qualcosa di enorme, con grandi artigli e ali sfilacciate, piombasse giù dal cielo e affondasse gli unghioni nella schiena dello Shadowhunter. L'uomo non ebbe nemmeno il tempo di gridare. La testa scattò verso l'alto, come per la sorpresa, come per chiedersi che cosa lo avesse afferrato, e poi sparì, trascinato via nel cielo nero e vuoto in un turbinio di zanne e ali. La sua mazza cadde a terra ai piedi di Simon. Simon rimase immobile. Tutto questo, dal momento in cui era caduto nella fossa, era accaduto in meno di un minuto. Si girò, stordito, guardandosi intorno: lame mulinanti nel buio, laceranti artigli di demoni, punti di luce che correvano qua e là nell'oscurità come lucciole nella boscaglia... Poi capì di cosa si trattava: i bagliori delle spade angeliche. Non vedeva i Lightwood, né i Penhallow, né Luke... nessuno di quelli che conosceva. Lui non era uno Shadowhunter. Eppure quell'uomo lo aveva ringraziato per aver deciso di combattere con loro. Quello che Simon aveva detto a Clary era vero: quella era anche la sua battaglia e lì c'era bisogno anche di lui. Non del Simon mondano, che era gentile e un po' imbranato e non sopportava la vista del sangue, ma del Simon vampiro, una creatura che lui stesso conosceva a malapena. Un vero vampiro sa di essere morto, gli aveva detto Raphael. Ma Simon non si sentiva affatto morto. Anzi, non si era mai sentito così vivo. Si girò e si trovò davanti a un demone che incombeva su di lui: era una specie di lucertola squamato, con denti da roditore. Piombò su Simon con gli artigli neri protesi. Simon saltò. Colpì il fianco imponente della cosa, vi si aggrappò, affondò le unghie. Le squame cedettero sotto la sua presa. Il marchio sulla fronte pulsò, quando affondò i denti nel collo del demone. Aveva un sapore davvero schifoso. Quando tutti i vetri furono caduti, rimase un ampio squarcio nel soffitto, largo qualche metro, come se vi fosse caduto un meteorite. Vi entrava aria gelida. Tremando, Clary si rialzò in piedi, spolverandosi i frammenti di vetro dai vestiti. La stregaluce che aveva illuminato la Sala si era spenta. Ora c'era buio all'interno, un buio denso di ombre e di polvere. La lieve illuminazione del Portale che ormai stava svanendo nella piazza era appena visibile dalle porte aperte della Sala. Probabilmente non era più sicuro restare lì dentro, pensò Clary. Era meglio tornare dai Penhallow e stare con Aline. Fece per attraversare la Sala e uscire, quando sentì risuonare dei passi sul pavimento di marmo. Con il cuore in gola, si girò e vide Malachi, una lunga, esile ombra nella semioscurità, diretto a grandi passi verso il podio. Ma che cosa ci faceva, lì? Non avrebbe dovuto essere con gli altri Shadowhunters sul campo di battaglia? Mentre Malachi si avvicinava al podio, Clary notò qualcosa che le fece portare le mani alla bocca per soffocare un'esclamazione di sorpresa. C'era una sagoma scura e ingobbita appollaiata sulla spalla di Malachi. Un volatile. Un corvo, per la precisione. Hugo. Clary si nascose dietro una colonna, mentre Malachi saliva i gradini del podio. C'era qualcosa di inequivocabilmente furtivo nel suo modo di guardarsi intorno. Apparentemente rassicurato, credendosi solo e inosservato, estrasse da una tasca qualcosa di piccolo e luccicante e se lo infilò al dito. Un anello? Malachi lo fece girare intorno al dito e Clary ricordò Hodge nella biblioteca dell'Istituto, che sfilava l'anello dal dito di Jace. L'aria davanti a Malachi vibrò lievemente, come per un intenso calore. Una voce parlò da quel punto: aveva un che di familiare, fredda, raffinata, ora sfumata da una lievissima irritazione. — Che cosa c'è, Malachi? Non ho tempo per le chiacchiere, ora. — Valentine, mio signore — esordì Malachi. La sua solita ostilità era stata sostituita da un tono viscidamente ossequioso. — Hugin è venuto da me neanche un attimo fa, portando delle notizie. Ho immaginato che tu fossi già allo Specchio, e che per questo Hugin avesse cercato me. Ho pensato che avresti voluto essere informato. Il tono di Valentine era tagliente. — Molto bene. Che notizie ci sono? — Si tratta di tuo figlio, mio signore. L'altro tuo figlio. Hugin l'ha seguito nella valle della grotta. Potrebbe persino averti seguito attraverso i tunnel fino al lago. Clary si aggrappò alla colonna. Le nocche erano bianche. Stavano parlando di Jace. Valentine grugnì. — Ha incontrato suo fratello? — Hugin dice che stavano combattendo quando lui è partito. Clary si sentì rovesciare lo stomaco. Jace che combatteva con Sebastian? Pensò a come Sebastian aveva sollevato Jace alla Guardia, a come lo aveva scaraventato via, come se non pesasse niente. Un'ondata di panico la travolse, così intensa che per un momento le ronzarono le orecchie. Quando la stanza tornò a fuoco, Clary si rese conto di essersi persa la risposta di Valentine a Malachi. — Sono quelli abbastanza grandi da essere marchiati, ma non abbastanza grandi per combattere, che mi preoccupano — stava dicendo Malachi. — Loro non hanno votato nel Consiglio. Sembra ingiusto punirli allo stesso modo in cui dovranno essere puniti coloro che stanno combattendo. — Ci ho pensato. — La voce di Valentine era cupa e profonda. — Poiché gli adolescenti ricevono marchi più leggeri, impiegheranno più tempo a trasformarsi in Dimenticati. Parecchi giorni, a dir poco. Ma sono sicuro che si tratta di un processo reversibile. — Mentre chi di noi ha bevuto dalla Coppa Mortale rimarrà del tutto illeso, non è così? — Ho da fare, Malachi — disse Valentine. — Ti ho già detto che sarai al sicuro. Ho dedicato tutta la mia vita a questo progetto. Abbi fiducia. Malachi chinò la testa. — Io ho grande fiducia, mio signore. L'ho sempre avuta, per molti anni, in silenzio, servendoti sempre. — E verrai ricompensato — replicò Valentine. Malachi alzò gli occhi. — Mio signore... Ma l'aria non vibrava più. Valentine se n'era andato. Malachi aggrottò la fronte, poi scese i gradini del podio e si avviò a grandi passi verso la porta. Clary si appiattì contro la colonna, sperando disperatamente di non essere vista. Il cuore le batteva all'impazzata. Che cos'era successo? Cos'era quella storia dei Dimenticati? La risposta sfavillava in un angolo della sua mente, ma sembrava troppo orribile da contemplare. Nemmeno Valentine avrebbe potuto... Qualcosa, nero e vorticoso, le volò in faccia. Clary ebbe appena il tempo di alzare le braccia per proteggersi gli occhi, che subito qualcosa le graffiò il dorso delle mani. Sentì un gracchiare feroce, ali che sbattevano contro i suoi polsi alzati. — Hugin! Basta! — Era la voce secca di Malachi. — Hugin! — Ci fu un altro gracchio e poi un tonfo. Poi, silenzio. Clary abbassò le braccia e vide il corvo immobile ai piedi del Console: stordito o morto, non avrebbe saputo dire. Con un ringhio, Malachi levò di mezzo il corvo con un calcio feroce e si avvicinò a Clary, furente. Le afferrò un polso sanguinante e la tirò su in piedi. — Stupida ragazza — disse. — Da quanto tempo stai origliando? — Abbastanza da sapere che sei uno del Circolo — ribatté Clary, torcendo il polso nella sua stretta. Ma lui non la lasciò andare. — Tu sei dalla parte di Valentine. — C'è solo una parte. — La voce di Malachi era un sibilo. — Il Conclave è stupido, fuori strada, pronto a compiacere mostri e mezzi uomini. Io voglio solo renderlo puro, farlo tornare alla sua gloria originaria. Un obiettivo che tutti gli Shadowhunters dovrebbero condividere, a rigor di logica. E invece no: danno ascolto agli sciocchi e agli amanti dei demoni, come il tuo Lucian Graymark. E adesso avete mandato il fior fiore dei Nephilim a morire in questa ridicola battaglia. .. Un gesto vuoto, che non porterà a niente. Valentine ha già iniziato il Rituale: fra poco l'Angelo sorgerà dalle acque del lago e tutti i Nephilim diventeranno Dimenticati. Tutti, tranne i pochi che sono sotto la protezione di Valentine. — Ma è uno sterminio! Valentine vuole sterminare gli Shadowhunters! — Non è uno sterminio — rispose il Console. La sua voce risuonò di fanatica passione. — È pulizia. Valentine creerà un nuovo mondo di Shadowhunters, un mondo purgato da ogni debolezza e corruzione. — La debolezza e la corruzione non sono nel mondo! — ritorse Clary. — Sono nelle persone. E sarà sempre così. Il mondo ha bisogno di gente buona per controbilanciare la debolezza e la corruzione. E voi volete ucciderli tutti. Malachi la guardò un momento, onestamente sorpreso, come stupito dalla forza del suo pensiero. — Belle parole, per una ragazzina che è pronta a tradire suo padre. — Malachi la avvicinò a sé con uno strattone, tirandola brutalmente per il polso sanguinante. — Chissà cosa penserebbe Valentine, se ti insegnassi... Ma Clary non scoprì mai che cosa volesse insegnarle Malachi. Una sagoma scura sfrecciò tra di loro, le ali aperte e gli artigli protesi. Il corvo colpì Malachi con un artiglio, scavandogli un solco sanguinante sulla faccia. Con un grido, il Console lasciò Clary e alzò le braccia, ma Hugo era già tornato indietro e si accaniva su di lui a colpi di becco e di artigli. Malachi arretrò barcollando, agitando le braccia. Urtò contro lo spigolo di una panca con violenza, facendola rovesciare. Sbilanciato, cadde insieme con la panca con un grido soffocato... che s'interruppe bruscamente. Clary corse da lui. Malachi giaceva accartocciato sul pavimento di marmo e una pozza di sangue già si allargava intorno a lui. Era caduto su un cumulo di vetri del soffitto infranto e una scheggia appuntita gli si era conficcata in gola. Hugo si librava ancora nell'aria, volando in cerchio sul suo corpo. Lanciò un gracchio trionfante: evidentemente non aveva apprezzato i calci e i pugni del Console. Malachi avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di aggredire una delle creature di Valentine, pensò con amarezza Clary, fissando il suo corpo. Il corvo non era disposto a perdonare più di quanto lo fosse il suo padrone. Ma non c'era tempo per pensare a Malachi. Alec aveva detto che c'erano delle difese intorno al lago e che, se qualcuno vi fosse arrivato da un Portale, sarebbe scattato un allarme. Valentine era probabilmente già allo Specchio: non c'era tempo da perdere. Clary indietreggiò con cautela per allontanarsi dal corvo, poi si voltò e corse verso l'ingresso della Sala, verso il bagliore del Portale che si apriva nella piazza. capitolo 20 PESATO SULLA BILANCIA L, acqua la colpì in faccia come un pugno. Clary affondò annaspando in una gelida oscurità: il suo primo I pensiero fu che il Portale si fosse irreparabilmente dissolto mentre lei si trovava imprigionata in un luogo di mezzo, nero e vorticoso, dove sarebbe soffocata e morta. Jace le aveva detto che poteva succedere, la prima volta che lei aveva usato un Portale. Il suo secondo pensiero fu di essere già morta. Probabilmente perse conoscenza solo per qualche secondo, anche se a lei sembrò la fine di tutto. Quando tornò in sé accadde di colpo, e la sensazione fu quella di essere passata attraverso una lastra di ghiaccio che si era improvvisamente spezzata. Un attimo prima era priva di conoscenza, e un attimo dopo era cosciente: era distesa sulla schiena sulla terra umida e fredda e fissava un cielo pieno di stelle, simili a una manciata di frammenti d'argento gettati su una superficie scura. Aveva la bocca piena di liquido salmastro. Voltò la testa di lato e tossì, sputò, rantolò, finché non riuscì a respirare di nuovo. Quando il suo stomaco non ebbe più spasmi, Clary rotolò su un fianco. Aveva i polsi legati insieme da una sottile fascia di luce e si sentiva le gambe pesanti, strane, tutte formicolanti. Forse erano rimaste schiacciate sotto il peso del corpo, pensò, o forse quello era un effetto collaterale del semiannegamento. La nuca le bruciava come se l'avesse punta una vespa. Con uno sforzo, sollevò il busto e si mise a sedere, con le gambe tese avanti, in una posizione alquanto insolita. Si guardò intorno. Si trovava sulla riva del lago Lyn, in un punto in cui l'acqua cedeva il posto a una sabbia sottile. Una parete nera di roccia si ergeva alle sue spalle: la ricordava, da quando era arrivata lì con Luke. Anche la sabbia era scura, luccicante di mica. Qua e là sulla sabbia c'erano torce di stregaluce che riempivano l'aria di un bagliore argenteo, disegnando un ricamo di riflessi luminosi sulla superficie dell'acqua. Vicino alla riva del lago, a un passo da lei, c'era un tavolo basso fatto di pietre piatte impilate l'una sull'altra. Era stato chiaramente costruito in fretta: anche se gli spazi tra una pietra e l'altra erano stati sigillati con sabbia umida, diverse pietre erano storte e fuori squadra. Sul ripiano c'era un oggetto che fece trasalire Clary: la Coppa Mortale. E sopra la Coppa, appoggiata di traverso, c'era la Spada Mortale, una lingua di nera fiamma nella stregaluce. Tutto intorno all'altare c'erano rune disegnate nella sabbia. Clary le osservò, ma erano confuse, senza senso. Un'ombra passò veloce sulla sabbia: l'ombra lunga e nera di un uomo, resa vaga e ondeggiante dalla luce guizzante delle torce. Quando Clary sollevò la testa, l'uomo le era già accanto. Valentine. Lo shock fu tale che Clary non sentì quasi nessuno shock: non sentì nulla, quando alzò gli occhi verso suo padre. Il suo volto si stagliava contro il cielo nero, come una luna: bianco, austero, scavato dagli occhi neri come crateri di meteoriti. Sulla camicia si intrecciavano varie cinture, alle quali erano fissate molte armi: gli spuntavano da dietro la schiena come le spine di un porcospino. Sembrava incredibilmente grande, enorme, la statua terrificante di un dio guerriero, un dio della distruzione. — Clarissa — le disse. — Hai corso un grosso rischio, facendoti trasportare qui da un Portale. Sei stata fortunata, perché ti ho visto apparire nell'acqua all'improvviso. Eri svenuta. Se non fosse stato per me, saresti annegata. — Un muscolo di fianco alla bocca guizzò lievemente. — E non mi preoccuperei troppo per le difese innalzate dal Conclave intorno al lago. Le ho neutralizzate nel momento in cui sono arrivato. Nessuno sa che sei qui. Non ti credo! Clary aprì la bocca per sputargli in faccia queste parole, ma non ne uscì alcun suono. Era come in quegli incubi in cui si cerca di urlare e urlare e non succede niente. Solo uno sbuffo d'aria secca uscì dalle sue labbra, il singulto di una persona che cerca di gridare con la gola tagliata. Valentine scosse la testa. — Non sforzarti di parlare. Ho usato una runa di quiete, come quelle che usano i Fratelli Silenti. Ce l'hai sulla nuca. In più hai una runa vincolante sui polsi e una runa invalidante sulle gambe. Non proverei ad alzarmi in piedi, se fossi in te: le gambe non ti reggeranno e ti faresti solo del male. Clary lo guardò in cagnesco, cercando di fulminarlo con gli occhi, di tagliarlo con il suo rancore. Ma Valentine non se ne accorse nemmeno. — Poteva andarti peggio, sai? Quando ti ho tirato a riva, il veleno del lago aveva già iniziato ad agire. Ti ho curata io, tra parentesi. Non che mi aspetti un ringraziamento da te... — Accennò un sorriso. — Io e te non abbiamo mai fatto una conversazione, vero? Non una vera conversazione. Forse ti starai chiedendo perché non ho mai dimostrato un interesse paterno per te. Mi dispiace se questo ti ha ferito. Ora lo sguardo di Clary passò dall'odio all'incredulità. Come avrebbero potuto fare una conversazione, se lei non poteva dire una parola? Cercò di far uscire questo pensiero, ma nulla salì dalla sua gola, se non un filo di fiato. Valentine si avvicinò all'altare e posò la mano sulla Spada Mortale. L'arma emise un bagliore nero, una specie di luce al contrario, come se succhiasse la luce dall'aria intorno. — Non sapevo che tua madre fosse incinta di te, quando mi lasciò. — Le stava parlando, pensò Clary, come non aveva mai fatto prima. Il tono era calmo, quasi stesse facendo una chiacchierata, ma non era così. — Sapevo che c'era qualcosa che non andava. Lei credeva di riuscire a nascondermi la sua infelicità. Presi del sangue di Ithuriel, lo seccai, lo polverizzai, glielo mescolai al cibo, pensando che questo potesse guarirla dalla sua infelicità. Se avessi saputo che era incinta, non l'avrei fatto. Avevo già deciso di non fare più esperimenti su un bambino del mio stesso sangue. Stai mentendo, avrebbe voluto gridargli Clary. Ma non ne era sicura. Valentine continuava a usare un tono strano, diverso. Forse perché stava dicendo la verità. — Quando fuggì da Idris, la cercai per anni — raccontò. — E non solo perché aveva la Coppa Mortale, ma perché l'amavo. Se solo fossi riuscito a parlarle, pensavo che avrei potuto farla ragionare. Quello che feci, quella notte ad Alicante, lo feci in un attacco di rabbia, per distruggerla, distruggere tutto della nostra vita insieme. Ma poi... — Scosse la testa, girandosi a guardare il lago, — quando finalmente la rintracciai, sentii dire che aveva avuto una figlia. Immaginai che tu fossi figlia di Lucian. Lui l'aveva sempre amata, aveva sempre voluto portarmela via, e pensai che alla fine tua madre avesse ceduto, accettando di avere un figlio da un immondo Nascosto. — La sua voce si fece più tesa. — Quando la trovai, nel vostro appartamento a New York, era ancora abbastanza cosciente. Mi accusò di aver fatto del suo primo figlio un mostro. Mi disse che mi aveva lasciato prima che potessi fare lo stesso anche con il secondo. Poi mi si accasciò tra le braccia. Anni di ricerche, e guarda cosa ricevevo da lei. Pochi secondi in cui mi guardò con l'odio di tutta una vita. In quel momento ho capito una cosa. Sollevò Mellartach. Clary ricordò quanto fosse pesante la Spada, quando ancora il Rituale non era stato completato. E quando la lama si sollevò, vide gonfiarsi i muscoli del braccio di Valentine, sodi e tesi come funi serpeggianti sotto la pelle. — Ho capito — proseguì Valentine — che la ragione per cui mi lasciò fu di proteggere te. Jonathan lo odiava, ma per te... avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di proteggerti. Di proteggerti da me. Arrivò persino a vivere tra i mondani, e so quanto dev'esserle costato. Le sarà pesato moltissimo non poterti trasmettere tutte le nostre tradizioni. Tu sei la metà di ciò che avresti potuto essere. Hai un enorme talento con le rune, che però è stato sciupato dalla tua educazione mondana. Abbassò la Spada. La punta ora era vicina alla faccia di Clary, la quale, con la coda dell'occhio, la vedeva aleggiare ai margini del suo campo visivo come una falena d'argento. — Ho capito allora che, per causa tua, Jocelyn non sarebbe mai tornata da me. Tu sei l'unica cosa al mondo che lei abbia mai amato più di me. Per colpa tua lei mi odia. E per questo io odio te. Non sopporto neppure di vederti. Clary distolse lo sguardo. Se Valentine voleva ucciderla, lei non voleva veder arrivare la morte. — Clarissa — disse Valentine. — Guardami. No. Clary fissava il lago. Lontano, sull'acqua, vedeva un pallido bagliore rossastro, come un fuoco soffocato dalla cenere. Sapeva che erano le luci della battaglia. Anche sua madre era là, anche Luke. Forse era giusto che fossero insieme, anche se lei non era con loro. Terrò gli occhi fissi su quella luce, pensò. Continuerò a fissarla, qualunque cosa accada. Sarà l'ultima cosa che vedrò. — Clarissa — ripetè Valentine. — Tu sei uguale a lei, lo sai? Uguale a Jocelyn. Clary sentì un dolore acuto contro la guancia. Era la lama della Spada. Valentine gliela stava premendo contro la pelle, cercando di costringerla a girare la testa verso di lui. — Ora evocherò l'Angelo — disse. — E voglio che tu assista. Clary aveva un gusto amaro in bocca. So perché sei così ossessionato da mia madre. Lei era l'unica cosa sulla quale pensavi di avere un controllo assoluto e invece ti si è rivoltata contro e ti ha morso. Tu credevi di possederla e invece non era così. Per questo la vorresti qui, ora, perché sia testimone della tua vittoria. Per questo ti accontenterai di me. La lama morse più a fondo la guancia. Valentine disse: — Guardami, Clary. Clary ubbidì. Non avrebbe voluto farlo, ma il dolore era troppo forte: la testa le girò di scatto verso di lui, quasi contro la sua volontà. Il sangue le scendeva sulla guancia in grosse gocce che macchiavano la sabbia. Un dolore nauseante la prese quando sollevò la testa per guardare suo padre. Lui stava osservando la lama di Mellartach. Anch'essa era macchiata del sangue di Clary. Quando tornò a guardarla, c'era una strana luce nei suoi occhi. — È necessario del sangue per completare questa cerimonia — le spiegò Valentine. — Intendevo usare il mio, ma quando ho visto te nel lago, ho capito che era il modo di Raziel per dirmi di usare quello di mia figlia. Per questo ho purificato il tuo sangue dal veleno del lago. Ora sei pura e pronta. Quindi, grazie, Clarissa, per il tuo sangue. In qualche modo, pensò Clary, era sincero nella sua gratitudine. Valentine aveva perso da tempo la capacità di distinguere tra costrizione e collaborazione, tra paura e disponibilità, tra affetto e tormento. E quando capì questo, Clary provò una sorta di torpore: che senso aveva odiare Valentine perché era un mostro, se lui nemmeno se ne rendeva conto? — E ora — disse Valentine — me ne serve un altro po'. — E Clary pensò: Un altro po' di cosa? Valentine sollevò alta la Spada e la luce delle stelle scintillò riflessa dalla lama. Clary pensò: Ma certo. Non è solo sangue che vuole, ma morte. La Spada aveva bevuto abbastanza sangue, ormai: probabilmente ci aveva preso gusto, come Valentine. Gli occhi di Clary seguirono la luce nera di Mellartach che calava su di lei... ... e volava via. Sfuggita alla presa di Valentine, la Spada roteò nel buio. Valentine sgranò gli occhi. Il suo sguardo si abbassò sulla mano sanguinante, poi si sollevò e vide, nello stesso momento in cui lo vide Clary, chi gli aveva strappato di mano la Spada Mortale. Era Jace. Brandiva nella mano sinistra una spada dall'aria familiare e si ergeva su un cumulo di sabbia, a un passo da Valentine. Clary capì, dall'espressione di Valentine, che non l'aveva sentito arrivare. Come lei, del resto. Quando lo vide, il suo cuore si fermò. Aveva sangue secco incrostato sul lato della faccia e un segno rosso vivo sulla gola. I suoi occhi brillavano come specchi e sembravano neri, nella stregaluce, neri come quelli di Sebastian. — Clary — disse Jace, senza togliere gli occhi di dosso a suo padre. — Clary, stai bene? Jace! Clary si sforzò di pronunciare il suo nome, ma nulla riusciva a superare il blocco che aveva in gola. Si sentiva soffocare. — Non può risponderti — gli disse Valentine. — Non può parlare. Gli occhi di Jace balenarono. — Che cosa le hai fatto? — Puntò la spada contro Valentine, che fece un passo indietro. L'espressione era attenta, ma non spaventata. C'era un calcolo, nei suoi occhi, che a Clary non piaceva affatto. Clary sapeva che avrebbe dovuto provare un senso di trionfo, ma non era così. Anzi, si sentiva più nel panico di prima. Prima aveva capito che Valentine stava per ucciderla, e l'aveva accettato. Ma ora c'era Jace, e la sua paura si era amplificata per accogliere anche lui. E lui aveva un'aria così... distrutta! La tenuta da battaglia era strappata: sul braccio, dove si vedevano le linee bianche delle cicatrici che si intersecavano sulla pelle, e sul petto, dove c'era un iratze che stava svanendo, all'altezza del cuore, senza aver ancora cancellato la profonda ferita sottostante. Jace era sporco di terra, come se si fosse rotolato in un campo appena arato. Ma era la sua espressione a spaventarla di più. Era così... fosca. — È solo una runa di quiete. Non le farà alcun male. — Gli occhi di Valentine erano fissi su Jace. Erano famelici, pensò Clary, come se si abbeverasse della sua presenza. — Immagino — disse Valentine — che tu non sia venuto qui per assistermi nel Rituale, vero? Per essere benedetto dall'Angelo accanto a me. L'espressione di Jace non cambiò. I suoi occhi erano fissi sul padre adottivo e non c'era niente dentro: nessun brandello residuo di affetto o di amore o di ricordo. Non c'era nemmeno rancore. Solo disprezzo, pensò Clary. Un gelido disprezzo. — So che cos'hai in mente di fare — gli disse Jace. — So perché vuoi evocare l'Angelo. E io non te lo permetterò. Ho già mandato Isabelle a dare l'allarme all'esercito. — Gli allarmi non serviranno a niente. Questo non è il tipo di pericolo dal quale si possa scappare. — Lo sguardo di Valentine si posò rapidamente sulla spada di Jace. — Mettila giù — iniziò. — Possiamo parlare. — Poi s'interruppe. — Quella non è la tua spada. È una spada dei Morgenstern. Jace sorrise: un sorriso dolce e cupo. — Era di Jonathan. Ora è morto. Valentine lo fissava attonito. — Vuoi dire che... — L'ho raccolta da terra, dove l'aveva lasciata cadere — disse Jace senza alcuna emozione — dopo averlo ucciso. Valentine sembrava senza parole. — Tu hai ucciso Jonathan? Com'è possibile? — Lui avrebbe ucciso me — rispose Jace. — Non avevo altra scelta. — Non volevo dire questo. — Valentine scosse la testa: sembrava ancora stordito, come un pugile colpito troppo forte, un attimo prima di crollare al tappeto. — Ho allevato io Jonathan. L'ho addestrato personalmente. Non c'erano guerrieri migliori di lui. — Evidentemente — commentò Jace — uno c'era. — Ma...— La voce di Valentine si spezzò. Era la prima volta che Clary sentiva un'incrinatura, nella facciata liscia e imperturbabile di quella voce. — Ma era tuo fratello. — No. Non era mio fratello. — Jace fece un passo avanti, avvicinando la spada a un'unghia dal cuore di Valentine. — Che cos'è successo al mio vero padre? Isabelle dice che è morto in un raid, ma è la verità? O l'hai ucciso tu, come hai ucciso mia madre? Valentine era sempre più sgomento. Clary percepì che stava lottando per recuperare il controllo... o forse contro il dolore? O era solo paura di morire? — Io non ho ucciso tua madre. Si è tolta la vita da sé. Io ti ho strappato dal suo corpo morto. Se non l'avessi fatto, saresti morto con lei. — Ma perché? Perché l'hai fatto? Non avevi bisogno di un figlio: ne avevi già uno! — Jace, nella luce della luna, aveva un'aria letale, letale e aliena, sconosciuta agli occhi di Clary. La mano che teneva la spada alla gola di Valentine era fermissima. — Dimmi la verità — gli intimò. — Basta bugie sul fatto che siamo fatti della stessa carne e dello stesso sangue. Sono i genitori, che mentono ai figli, ma tu... tu non sei mio padre. E io voglio la verità. — Non era di un figlio che avevo bisogno — confessò Valentine — ma di un soldato. Credevo che Jonathan potesse essere quel soldato, ma la sua natura demoniaca era troppo forte. Lui era troppo feroce, troppo impulsivo, la sua intelligenza non era abbastanza sottile. Già allora, appena uscito dalla prima infanzia, temevo che non avrebbe mai avuto la pazienza e la sensibilità per seguirmi, per governare il Conclave seguendo i miei passi. Così provai di nuovo con te. E con te ebbi il problema opposto. Tu eri troppo delicato. Troppo empatico. Sentivi il dolore degli altri come se fosse tuo, non riuscivi nemmeno a sopportare la morte dei tuoi animali domestici. Capiscimi, figliolo: io ti amavo per questo. Ma ciò che più amavo di te, ti rendeva inutile ai miei scopi. — Quindi pensavi che fossi debole e inutile — commentò Jace. — Allora immagino che resterai molto sorpreso, quando questo tuo figlio debole e inutile ti taglierà la gola. — È una scena che abbiamo già visto. — La voce di Valentine era ferma, ma a Clary parve di vedere il sudore brillargli sulle tempie e intorno alla gola. — Non lo faresti mai. Non hai voluto farlo a Renwick e non vuoi farlo adesso. — Ti sbagli. — Jace parlò in tono misurato. — Mi pento ogni giorno di non averti ucciso quella volta, di averti lasciato scappare. Mio fratello Max è morto perché io non ti ho ucciso quel giorno. Decine, forse centinaia di persone sono morte perché io ho fermato la mia mano. Ora conosco il tuo piano. So che speri di massacrare ogni Shadowhunter di Idris. E mi chiedo: quante persone dovranno morire, prima che io faccia ciò che avrei dovuto fare sull'isola di Blackwell? No — concluse Jace. — Io non voglio ucciderti. Ma lo farò. — Non farlo — lo supplicò Valentine. — Ti prego. Non voglio... — Morire? Nessuno vuole morire, padre. — La punta della spada di Jace scivolò più in basso, e poi ancora più in basso, fino a fermarsi sul cuore di Valentine. Il viso di Jace era calmo, il volto era quello di un angelo che somministrava la giustizia divina. — Hai qualcosa da dire prima di morire? — Jonathan... Il sangue macchiò la camicia di Valentine dov'era appoggiata la punta della spada. Con gli occhi della mente Clary rivide Jace a Renwick, la mano che gli tremava, che non voleva ferire suo padre. E Valentine che lo provocava. Infilami dentro quella lama. Dieci centimetri, o anche di più... Ora non era così. La mano di Jace era ferma. E Valentine aveva paura. — Ultime parole — sibilò Jace. — Ne hai? Valentine alzò la testa. I suoi occhi neri, mentre osservava il ragazzo, erano gravi. — Mi dispiace — disse. — Mi dispiace tanto. — Tese una mano, come per avvicinarla a Jace, come per toccarlo: la mano si girò a palmo in su, le dita si aprirono... e ci fu un bagliore argenteo. Qualcosa volò davanti a Clary nell'oscurità, come un proiettile sparato, da un fucile. Clary sentì lo spostamento d'aria sulla guancia e un attimo dopo la cosa era nella mano di Valentine: una lunga lingua di fuoco argenteo che emanò un bagliore oscuro quando Valentine la brandì e la calò con forza. Era la Spada Mortale. Lasciò un ricamo di luce nera nell'aria, quando Valentine l'affondò nel cuore di Jace. Jace sgranò gli occhi, con un'espressione di incredula confusione sul volto. Abbassò lo sguardo al petto, dal quale Mellartach spuntava in modo grottesco: era una vista più bizzarra che orribile, come un oggetto apparso di colpo in un incubo, senza alcun senso logico. Valentine ritrasse la mano, strappando la Spada dal petto di Jace, come avrebbe potuto sfilare un pugnale dal fodero. Come se fosse stata la lama a sorreggerlo, Jace si piegò sulle ginocchia. La sua spada gli scivolò di mano e cadde sulla terra umida. Lui la guardò, perplesso, come se non avesse idea del perché l'avesse tenuta in pugno, né del perché l'avesse lasciata cadere. Aprì la bocca come per fare quella domanda, e il sangue traboccò, macchiando quello che rimaneva della sua camicia stracciata. Tutto il resto accadde lentissimamente agli occhi di Clary, come se il tempo si fosse dilatato. Vide Valentine inginocchiarsi a terra e prendere Jace tra le braccia, come se fosse un bambino, leggero da sorreggere. Lo strinse a sé, lo cullò, chinò il capo e lo appoggiò alla spalla del ragazzo. Clary pensò per un momento che stesse piangendo, ma quando Valentine sollevò il capo, i suoi occhi erano asciutti. — Mio figlio — sussurrò. — Il mio ragazzo. Il terribile rallentamento del tempo si avvinse intorno a Clary come un cappio, mentre Valentine stringeva Jace al petto e gli scostava dalla fronte i capelli insanguinati. Lo sorresse finché non morì e la luce si spense nei suoi occhi. Poi ne distese delicatamente il corpo sulla sabbia, gli incrociò le mani sul petto, come a nascondere la ferita aperta e sanguinante. — Ave... — iniziò. Voleva forse pronunciare per Jace le parole di addio degli Shadowhunters, ma gli si spezzò la voce. Allora si girò bruscamente e si avvicinò all'altare. Clary non riusciva a muoversi. A malapena riusciva a respirare. Sentiva battere il cuore, sentiva il fiato grattare nella gola riarsa. Con la coda dell'occhio vedeva Valentine in piedi sulla riva del lago: il sangue gocciolava dalla lama di Mellartach nella Coppa Mortale. Recitava parole che Clary non capiva. Ma non le importava capire. Tutto quanto sarebbe finito molto presto e lei ne era quasi contenta. Si chiese se avesse abbastanza energia per trascinarsi vicino a Jace, se potesse riuscire a distendersi accanto a lui in attesa che tutto finisse. Lo vedeva sulla sabbia smossa e insanguinata, inerte, gli occhi chiusi, il viso immobile. Se non fosse stato per lo squarcio sul petto, Clary avrebbe potuto pensare che era addormentato. Ma non era così. Jace era uno Shadowhunter, era morto in battaglia; meritava l'ultimo saluto. Ave atque vale. Le labbra di Clary sillabarono le parole, che però uscirono in muti sbuffi di fiato. Ma a metà della frase s'interruppe, trattenendo il fiato. Che cosa avrebbe dovuto dire? Ave atque vale, Jace Wayland? Quel nome non gli apparteneva veramente. Jace non aveva mai avuto un nome, pensò Clary con strazio, gli era stato dato il nome di un bambino morto, perché all'epoca questo tornava utile agli scopi di Valentine. E c'era tanto potere, in un nome. Clary girò di scatto la testa e fissò l'altare. Le rune tutt'in-torno cominciavano a brillare. Erano rune di evocazione, rune di nominazione, rune vincolanti. Non diverse dalle rune che avevano tenuto Ithuriel prigioniero, nella cantina sotterranea dei Wayland. Ora, contro la propria volontà, Clary pensò a come Jace l'aveva guardata allora, alla luce di fiducia nei suoi occhi, alla fede che aveva in lei. Jace l'aveva sempre ritenuta una ragazza forte. E glielo aveva dimostrato in ogni sua azione, in ogni sguardo e in ogni carezza. Anche Simon aveva fiducia in lei. Tuttavia, quando l'aveva stretta tra le braccia l'aveva fatto come se Clary fosse fragile, come se fosse fatta di delicatissimo cristallo. Jace, invece, l'aveva stretta tra le braccia con tutta la forza che aveva, senza mai chiedersi se Clary fosse in grado di sopportare quella pressione: sapeva che era forte quanto lui. Intanto Valentine stava immergendo la Spada insanguinata nelle acque del lago, recitando parole veloci, a voce bassa. La superficie si stava increspando, come se una gigantesca mano la stesse sfiorando con le dita. Clary chiuse gli occhi. Ripensando a come Jace l'aveva guardata, la notte in cui aveva liberato Ithuriel, non poteva non immaginare come l'avrebbe guardata in quel momento, se l'avesse vista cercare di avvicinarsi a lui per morire insieme sulla sabbia. Non ne sarebbe stato commosso, non l'avrebbe ritenuto un bel gesto. Si sarebbe arrabbiato, vedendola arrendersi. Sarebbe stato profondamente... deluso. Clary si sdraiò per terra e si mise a strisciare lentamente sulla sabbia, trascinandosi dietro le gambe morte, spingendosi con le ginocchia e le mani legate. Il nastro di luce intorno ai polsi bruciava e pungeva. Le si strappò la camicia: la sabbia le grattava la pelle nuda del petto, ma Clary se ne accorse appena. Era faticoso trascinarsi così, e il sudore le colava lungo la schiena, tra le scapole. Quando finalmente raggiunge il cerchio di rune, ansimava così forte che temette che Valentine potesse sentirla. Ma lui non si girò nemmeno. Aveva la Coppa Mortale in una mano e la Spada nell'altra. Sollevò la mano destra e la portò indietro, pronunciò diverse parole che sembravano greco e scagliò la Coppa nel lago. La Coppa brillò come una stella cadente precipitando verso l'acqua, poi svanì sotto la superficie con un tonfo lieve. Il cerchio di rune emanava un lieve calore, come un fuoco coperto dalla cenere. Clary dovette contorcersi e lottare per arrivare con la mano allo stilo che portava alla cintura. Il dolore ai polsi fu lancinante, quando le sue dita vi si chiusero intorno. Lo sfilò con un soffocato singulto di sollievo. Non poteva separare i polsi, per cui impugnò goffamente lo stilo a due mani e si tirò su, facendo leva sui gomiti. Osservò le rune. Ne sentiva il calore sul viso: erano luminose come se fossero di stregaluce. Valentine teneva la Spada Mortale sospesa a mezz'aria ed era pronto a scagliarla nel lago. Stava recitando le ultime parole dell'incantesimo di evocazione. Con un ultimo impeto di forza, Clary posò la punta dello stilo nella sabbia: non cancellò le rune che Valentine aveva disegnato, ma tracciò altri segni sopra di esse, scrivendo una nuova runa sopra quella che simboleggiava il nome di Valentine. Era una runa così piccola, pensò, un cambiamento così minimo. Nulla in confronto all'immensa potenza della runa dell'alleanza, nulla in confronto al Marchio di Caino. Ma era il massimo che aveva la forza di fare. Esausta, Clary rotolò su un fianco, e proprio in quel momento Valentine portò indietro il braccio e scagliò nel lago la Spada Mortale. Mellartach roteò nell'aria: una macchia nera e argentea che penetrò nel lago, nero e argenteo, senza rumore. Un pennacchio si levò dal punto in cui la Spada era affondata, una fioritura d'acqua color platino. Il pennacchio salì sempre più in alto, come un geyser d'argento fuso, come uno scroscio di pioggia a rovescio. Ci fu un gran fragore, un suono di ghiaccio spezzato, di un ghiacciaio infranto. Poi il lago sembrò deflagrare e l'acqua argentea esplose verso il cielo come una grandinata al contrario. E con la grandine l'Angelo sorse dalle acque del lago. Clary non sapeva che cosa aspettarsi: qualcosa di simile a Ithuriel, forse, ma Ithuriel era stato consumato da anni di prigionia e tormenti. Questo era un Angelo nel pieno della sua gloria. Quando sorse dalle acque, i suoi occhi iniziarono ad ardere. E fu come guardare nel sole. Le mani di Valentine erano cadute lungo i fianchi. Guardava l'Angelo con espressione rapita, come un uomo che veda il suo sogno più grande diventare realtà. — Raziel — sussurrò. L'Angelo continuò a salire, come se il lago sprofondasse sotto i suoi piedi, rivelando una grandiosa colonna di marmo al centro. Prima emerse dalle acque la testa, con i capelli grondanti, come catene d'argento e d'oro. Poi emersero le spalle, bianche come la pietra, e il torso nudo. E Clary vide che l'Angelo aveva il corpo coperto di rune, proprio come i Nephilim, ma le sue erano dorate e vive, si muovevano sulla sua pelle candida come scintille che schizzano dalle fiamme di un fuoco. In qualche modo, l'Angelo appariva al contempo enorme e non più grande di un uomo: gli occhi di Clary dolevano nel tentativo di contemplarlo nella sua interezza e tuttavia non potevano vedere che lui. Levandosi dalle acque, le ali dell'Angelo s'aprirono sulla schiena e si distesero ampie sopra il lago: anch'esse d'oro e piumate, con un occhio vigile e dorato incastonato in ogni piuma. Era meraviglioso e terrificante. Clary avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non lo fece. Voleva vedere tutto. Voleva vedere anche per Jace, perché lui non poteva. È come in tutte le raffigurazioni, pensò Clary. L'Angelo che sorgeva dalle acque del lago, la Spada in una mano e la Coppa nell'altra, entrambe grondanti d'acqua. Ma Raziel era perfettamente asciutto, le ali nemmeno inumidite. I suoi piedi, candidi e nudi, posavano sulla superficie del lago creando sulle acque piccole increspature. Il suo volto, bellissimo e non umano, si rivolse verso Valentine. Poi, l'Angelo parlò. La sua voce fu come un pianto e un grido e una musica nello stesso tempo. Non conteneva parole, tuttavia era perfettamente comprensibile. La forza del suo fiato rischiò di rovesciare Valentine, che affondò i tacchi degli stivali nella sabbia e chinò la testa, come se stesse camminando contro un vento fortissimo. Clary sentì il fiato dell'Angelo passare su di lei: un vento incandescente come l'aria di una fornace, profumato di spezie misteriose e sconosciute. Sono passati mille anni da quando fui chiamato in questo luogo, disse Raziel. Fu Jonathan Shadowhunter a evocare la mia presenza, allora. Mi pregò di mescolare il mio sangue con il sangue dei mortali in una Coppa per creare una razza di guerrieri che avrebbero liberato questa terra dai demoni. Feci ciò che mi chiese e gli dissi che non avrei fatto di più. Perché dunque mi hai chiamato, Nephilim! La voce di Valentine era intensa. — Mille anni sono passati, o Glorioso, ma i demoni sono ancora qui. E questo che cosa può valere per me! Mille anni per un angelo passano in un battito di ciglio. — I Nephilim che tu hai creato erano una razza potente di uomini. Per molti anni hanno combattuto valorosamente per liberare questa terra dalla macchia dei demoni. Ma hanno fallito, a causa della debolezza e della corruzione che si sono diffuse nei loro ranghi. Io intendo riportarli alla loro gloria primigenia. Gloria! L'Angelo sembrò vagamente incuriosito, come se la parola risuonasse strana al suo orecchio. La gloria appartiene a Dio soltanto. Valentine non vacillò. — Il Conclave, così come lo crearono i primi Nephilim, non esiste più. Essi si sono alleati con i Nascosti, non umani macchiati dai demoni, che infestano questo mondo come le pulci sulla carogna di un ratto. È mia intenzione purificare questo mondo, distruggere tutti i Nascosti insieme a tutti i demoni. I demoni non possiedono anima. Ma le creature di cui tu parli, i Figli della Luna, della Notte, di Lilith, e il Popolo Fatato, sono tutti dotati di anima. A quanto pare le tue regole su cosa costituisca o non costituisca un essere umano sono più severe delle nostre. Clary avrebbe giurato che la voce dell'Angelo avesse assunto un tono più secco. Intendi sfidare il cielo come la Stella del Mattino di cui porti il nome, Shadowhunter! — Non sfidare il cielo. No, mio signore Raziel. Bensì allearmi con il cielo. In una guerra che hai voluto tu! Noi siamo il cielo, Shadowhunter. Noi non combattiamo nelle vostre battaglie mondane. Quando Valentine tornò a parlare, sembrava quasi ferito. — Mio signore, Raziel. Di certo non avresti permesso un rituale con il quale potevi essere evocato se non fosse stata tua intenzione essere evocato. Noi Nephilim siamo tuoi figli. Abbiamo bisogno della tua guida. Guida! Ora l'Angelo sembrava divertito. Non mi pare che tu mi abbia chiamato per questo. Piuttosto, è per la tua fama personale. — Fama? — ripetè Valentine con voce roca. — Io ho dato tutto per questa causa. Mia moglie. I miei figli. Non ho risparmiato nemmeno i miei figli. Ho dato tutto ciò che ho per questo... Tutto. L'Angelo rimase fermo sull'acqua, osservando Valentine con quei suoi strani occhi non umani. Le sue ali si muovevano lente e pigre, come il passaggio delle nuvole nel cielo. Alla fine disse: Dio chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio su un altare molto simile a questo, per vedere chi Abramo amasse di più, se Isacco o Dio stesso. Ma nessuno ti ha mai chiesto di sacrificare tuo figlio, Valentine. Valentine abbassò lo sguardo sull'altare ai suoi piedi, macchiato del sangue di Jace, e poi tornò a guardare l'Angelo. — Se dovrò, io ti costringerò a farlo — disse. — Ma preferirei avere la tua collaborazione spontanea. Quando Jonathan Shadowhunter mi chiamò, disse l'Angelo, io gli diedi il mio aiuto, perché vedevo che il suo sogno di un mondo libero dai demoni era sincero. Egli immaginava un paradiso su questa terra. Ma tu sogni soltanto la tua gloria e non ami il cielo. Mio fratello Ithuriel ne è la conferma. Valentine sbiancò. — Ma... Credevi che non lo sapessi! L'Angelo sorrise. Fu il sorriso più terribile che Clary avesse mai visto. È vero che il signore del cerchio che tu hai disegnato può impormi un'unica azione. Ma non sei tu, il signore di quel cerchio. Valentine sgranò gli occhi. — Mio signore, Raziel... non c'è nessun altro... Sì, invece, replicò l'Angelo. C'è tua figlia. Valentine si girò di scatto. Clary, mezza svenuta sulla sabbia, con un tormento delirante ai polsi e alle braccia, ricambiò con sfida il suo sguardo. Per un momento i loro occhi si incrociarono... e Valentine la guardò. La guardò per davvero, e Clary si rese conto che, per la prima volta, suo padre la guardava in faccia e la vedeva. La prima e unica volta. — Clarissa — le disse. — Che cosa hai fatto? Clary allungò la mano e con un dito tracciò dei segni sulla sabbia. Non disegnò rune, ma parole: quelle che lui stesso aveva pronunciato quando aveva visto ciò che sua figlia era in grado di fare, quando aveva disegnato la runa che aveva distrutto la sua nave. Mene mene tekel upharsin. Valentine sgranò gli occhi, proprio come Jace aveva sgranato i suoi prima di morire. Era diventato bianco come un cencio. Si girò lentamente verso l'Angelo, sollevando le mani in un gesto di supplica. — Mio signore, Raziel... L'Angelo aprì la bocca e sputò. O almeno così parve a Clary. Le sembrò di vederlo sputare e dalla bocca dell'Angelo vide uscire un fulmine di fuoco bianco, come una freccia ardente, che volò dritta e sicura sopra le acque del lago e andò a conficcarsi nel petto di Valentine. Ma forse "conficcarsi" non era la parola giusta: gli squarciò il petto, come un sasso scagliato contro un foglio di carta velina, e lasciò un foro fumante grande come un pugno. Per un attimo Clary, guardando in su, potè vedere attraverso il petto di suo padre il lago e la luce infuocata dell'Angelo. Il momento passò. Come un albero abbattuto, Valentine si schiantò a terra e lì rimase, immobile, la bocca aperta in un grido muto, gli occhi ciechi spalancati per sempre in un'espressione di incredulo tradimento. Questa è la giustizia del cielo. Confido che tu non sia sgomenta. Clary alzò gli occhi. L'Angelo si librò sopra di lei come una torre di fiamme bianche, oscurando il cielo. La sua voce era uno scontro di montagne. Tu puoi obbligarmi a compiere un'azione, Clarissa Morgenstern. Che cosa vuoi da me? Clary aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Ah, sì, disse l'Angelo, e ora c'era gentilezza nella sua voce. La runa. I molti occhi delle sue ali batterono le palpebre. Qualcosa sfiorò Clary: qualcosa di morbido, più delicato della seta o di qualsiasi altro tessuto, più dolce di un sussurro o del tocco di una piuma. Era come Clary immaginava che fossero le nuvole, se le nuvole avessero avuto la trama di un tessuto. Un lieve profumo arrivò con il tocco, gradevole, inebriante e dolce. Il dolore svanì dai suoi polsi. Non più legate insieme, le mani le ricaddero lungo i fianchi. Sparì anche il pizzicore dietro la nuca, come pure la pesantezza delle gambe. Clary si mise in ginocchio. Più di qualsiasi altra cosa, voleva strisciare sulla sabbia insanguinata verso il corpo di Jace, trascinarsi fino a lui e sdraiarsi al suo fianco e stringerlo in un abbraccio, anche se Jace non c'era più. Ma la voce dell'Angelo la avvinceva, e Clary rimase dov'era, fissando la sua luce brillante e dorata. La battaglia nella pianura di Brocelind sta volgendo al termine. Il potere di Morgenstern sopra i suoi demoni è svanito con la sua morte. Molti demoni già stanno fuggendo e gli altri verranno presto distrutti. In questo stesso momento alcuni Nephilim stanno cavalcando verso le rive di questo lago. Se hai una richiesta, Shadowhunter, esprimila adesso. L'Angelo tacque. E ricorda che non sono un genio. Scegli con saggezza il tuo desiderio. Clary esitò un momento, un lunghissimo momento. Avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa, pensò frastornata, qualsiasi cosa: la fine di ogni sofferenza, o della fame nel mondo, o delle malattie, oppure la pace sulla terra. Forse, però, quelle cose non potevano essere concesse da un angelo, altrimenti sarebbero già state concesse. Forse erano gli uomini che dovevano trovarle, da soli. C'era solo una cosa che Clary avrebbe potuto chiedere, alla fine: un'unica scelta vera. Sollevò gli occhi verso l'Angelo. — Jace — disse. L'espressione dell'Angelo non mutò. Clary non potè capire se la sua richiesta fosse buona o cattiva, agli occhi dell'Angelo, o se, pensò con un improvviso moto di panico, lui volesse esaudirla. Chiudi gli occhi, Clarissa Morgenstern, le disse l'Angelo. Clary ubbidì. Non si diceva di no a un Angelo, indipendentemente da quello che aveva in mente di fare. Col cuore che batteva, Clary rimase a librarsi nel buio dietro le palpebre chiuse, cercando risolutamente di non pensare a Jace. Ma il suo volto le apparve ugualmente, contro lo schermo vuoto delle palpebre: non le sorrideva, ma guardava di lato, e Clary vedeva la cicatrice sulla tempia, la piega irregolare all'angolo della bocca, la linea d'argento sulla gola, dove Simon l'aveva morso: tutti i segni e le imperfezioni che distinguevano la persona che Clary amava di più al mondo. face. Una luce brillante illuminò di scarlatto il suo campo visivo e Clary cadde riversa sulla sabbia. Stava per svenire? Stava per morire? Ma lei non voleva morire, non adesso che aveva visto il volto di Jace così nitido davanti ai suoi occhi. Le sembrò quasi di sentirne la voce che pronunciava il suo nome, come l'aveva sussurrato a Renwick, tante e tante volte. Clary. Clary. Clary. — Clary — ripetè Jace. — Apri gli occhi. Clary li aprì. Era distesa sulla sabbia, nei suoi vestiti strappati, bagnati e insanguinati. Come prima. Ma, diversamente da prima, l'Angelo era sparito, e con lui la bianca luce accecante che aveva illuminato a giorno la notte. Clary ora vedeva il cielo notturno, le bianche stelle che come frammenti di specchio brillavano nel nero. E, chino su di lei, la luce dei suoi occhi più brillante di qualsiasi altra stella, c'era Jace. Gli occhi di Clary si abbeverarono alla sua vista, alla vista di ogni parte di lui: i capelli arruffati, la faccia sporca e insanguinata, gli occhi luminosi dietro gli strati di sporcizia; e le ferite visibili attraverso gli strappi nelle maniche, lo strappo aperto e zuppo di sangue della camicia, dal quale traspariva la pelle nuda. Ma non c'era alcun segno, alcuna ferita, a mostrare dov'era penetrata la Spada. Clary vide le vene pulsare nella sua gola e per poco non gli buttò le braccia al collo, perché questo significava che il suo cuore batteva ancora e che... — Sei vivo — sussurrò Clary. — Vivo per davvero. Con lenta meraviglia, Jace le sfiorò il volto. — Ero nel buio — le disse a bassa voce. — Non c'erano che ombre, io stesso ero un'ombra, e sapevo che ero morto e tutto era finito, tutto quanto. Poi ho sentito la tua voce. Ti ho sentito pronunciare il mio nome, ed è stato questo a riportarmi indietro. — Non sono stata io. — Clary aveva la gola stretta. - È stato l'Angelo a riportarti indietro. — Perché tu glielo hai chiesto. — In silenzio, Jace percorse il profilo di Clary con le dita, come per accertarsi che fosse vera. — Potevi avere qualunque altra cosa al mondo, ma hai voluto me. Lei gli sorrise. Sporco com'era, coperto di sangue e di terra, Jace era la cosa più bella che avesse mai visto. — Ma io non voglio nient'altro al mondo. A queste parole, la luce negli occhi di Jace, già brillante, arse così intensamente che Clary quasi non riuscì a reggere il suo sguardo. Ripensò all'Angelo che ardeva come mille torce e pensò che Jace aveva in sé un po' di quello stesso sangue incandescente, di quel fuoco che ora brillava attraverso i suoi occhi come una luce dalla fessura di una porta. "Io ti amo" avrebbe voluto dirgli. E anche: "Lo rifarei di nuovo. Chiederei sempre di avere te". Ma non furono queste le parole che disse. — Tu non sei mio fratello — gli disse invece, quasi senza fiato, come se, essendosi resa conto di non averglielo ancora detto, ora non riuscisse a dirglielo abbastanza in fretta. — Tu lo sai, vero? Lievemente, dietro lo sporco e il sangue, Jace sorrise. — Sì — le disse. — Lo so. epilogo NEL CIELO, TRA LE STELLE Ti amavo, perciò ho sospinto queste fiumane d'uomini tra le mie mani e ho scritto la mia volontà nel cielo, tra le stelle. (T.E. LAWRENCE) Il fumo saliva in una lenta spirale, tracciando delicati fili neri nell'aria limpida. Jace, solo, sulla collina che si affacciava al cimitero, sedeva coi gomiti sulle ginocchia e guardava le volute levarsi verso il cielo. Non mancò di cogliere l'ironia della cosa: quelli, dopotutto, erano i resti di suo padre. Dal punto in cui era seduto vedeva il catafalco, oscurato dalla cortina fumosa e dalle fiamme, e il piccolo gruppo che assisteva alla cerimonia. Riconobbe i capelli rossi di Jocelyn, e Luke, accanto a lei, che le teneva una mano sulla schiena. Jocelyn aveva la testa girata di lato, per non vedere la pira che ardeva. Jace avrebbe potuto far parte del gruppo, se avesse voluto. Aveva passato gli ultimi due giorni in ospedale e l'avevano dimesso solo quella mattina, per permettergli di partecipare al funerale di Valentine. Si era incamminato verso la pira, una catasta di legna privata della corteccia, bianca come ossa, ma, arrivato a metà strada, si era accorto di non poter proseguire oltre. Si era girato e si era incamminato su per la collina, lontano dalla processione funebre. Luke lo aveva chiamato, ma Jace non si era non meno voltato. Era rimasto seduto a guardare la gente che si raccoglieva intorno al catafalco, aveva visto Patrick Penhallow negli abiti bianchi del lutto dare fuoco alla legna. Era la seconda volta, quella settimana, che Jace vedeva bruciare un corpo, ma quello di Max era piccolo da spezzare il cuore, mentre Valentine era un uomo massiccio, anche ora che era disteso sulla schiena, con le braccia incrociate sul petto e una spada angelica stretta nel pugno. Aveva gli occhi bendati da una fascia di seta bianca, come da tradizione. L'avevano trattato bene, pensò Jace, nonostante tutto. Sebastian non era stato sepolto. Una squadra di Shadowhunters era tornata nella valle, ma non avevano trovato il corpo: portato via dalla corrente del fiume, avevano detto a Jace, anche se lui aveva i suoi dubbi. Aveva cercato Clary tra le persone intorno al catafalco, ma non c'era. Erano passati quasi due giorni dall'ultima volta che l'aveva vista, al lago Lyn, e ne sentiva la mancanza con un senso di vuoto quasi fisico. Non era stata colpa di Clary, se non si erano più visti. La notte della battaglia si era preoccupata per lui, perché temeva che fosse troppo debole per sopportare il trasporto dal lago ad Alicante attraverso il Portale, e alla fine aveva avuto ragione. Quando i primi Shadowhunters li avevano raggiunti, Jace stava scivolando in uno stato di stordimento e incoscienza. Si era risvegliato il giorno dopo nell'ospedale della città. Accanto a lui c'era Magnus Bane, che lo osservava dall'alto con una strana espressione: poteva essere di grande preoccupazione o di pura curiosità. Era difficile capire, con Magnus. Lo stregone gli aveva spiegato che l'Angelo l'aveva guarito nel corpo, ma il suo spirito e la sua mente erano così sfiniti che solo un lungo riposo li avrebbe potuti sanare. In ogni caso, ora Jace si sentiva meglio. Giusto in tempo per il funerale. Si era alzato il vento, che soffiava il fumo della pira lontano da lui. Sullo sfondo, si vedevano le torri luccicanti di Alicante, tornate alla gloria primigenia. Jace non sapeva bene che cosa sperava di ottenere, restando lì seduto a guardare il corpo di suo padre che bruciava, né sapeva che cosa avrebbe detto, se fosse stato laggiù, con coloro che pronunciavano le ultime parole di saluto per Valentine. «Tu non sei mai stato veramente mio padre» avrebbe potuto dire. Oppure: «Tu sei stato l'unico padre che io abbia mai avuto». Entrambe le affermazioni erano ugualmente vere, per quanto contraddittorie. Quando aveva riaperto gli occhi, al lago, sapendo in qualche modo di essere stato morto e di non esserlo più, l'unico suo pensiero era stato per Clary, riversa a poca distanza da lui sulla sabbia insanguinata, con gli occhi chiusi. Si era precipitato da lei, in preda al panico, pensando che potesse essere ferita, forse persino morta... E quando Clary aveva riaperto gli occhi, l'unico suo pensiero era stato che era viva. Solo dopo che erano arrivati gli altri, che l'avevano aiutato a rialzarsi, che avevano commentato la scena con stupore, Jace aveva visto il corpo di Valentine accartocciato vicino alla riva del lago, ed era stato come un pugno nello stomaco. Sapeva che era morto, e lui stesso l'avrebbe ucciso, eppure la vista del suo cadavere era stata dolorosa. Clary aveva guardato Jace con la tristezza negli occhi, e lui aveva capito che sebbene odiasse Valentine e non avesse alcuna ragione per non odiarlo, capiva il senso di perdita di Jace. Jace socchiuse gli occhi e un'ondata di immagini gli invase l'interno delle palpebre: Valentine che lo sollevava dall'erba e lo stringeva in un grande abbraccio, Valentine che lo teneva fermo sulla prua di una barca in mezzo a un lago, mostrandogli come restare in equilibrio, insieme ad altre, più cupe memorie: la mano di Valentine che lo colpiva sulla faccia, un falco morto, l'angelo in catene nella cantina dei Wayland. — Jace. Alzò lo sguardo. C'era Luke accanto a lui, in piedi, una sagoma nera che si stagliava contro il sole. Indossava i suoi soliti jeans e la camicia di flanella: nessuna concessione al bianco del lutto. — È finita — gli disse Luke. — La cerimonia. È stata breve. — Già. — Jace affondò le dita nel terreno, accogliendo con piacere il contatto doloroso con la terra. — Qualcuno ha detto qualcosa? — Le solite parole. — Luke si sedette accanto a lui con una lieve smorfia di dolore. Jace non gli aveva chiesto niente della battaglia: non voleva sapere. Sapeva che era finita molto più rapidamente di quanto ci si aspettasse: dopo la morte di Valentine, i demoni erano fuggiti nella notte come una densa foschia dissolta dal calore del sole. Ma questo non significava che non ci fossero state vittime. Valentine non era stato l'unico ad essere sepolto ad Alicante, in quei due giorni. — E Clary non ha... voglio dire, non è... — ... venuta al funerale? No, non ha voluto. — Jace sentì lo sguardo sghembo di Luke su di sé. — Tu non l'hai più vista, dal... — No, dal lago non l'ho più vista — disse Jace. — Mi hanno fatto uscire adesso dall'ospedale, perché dovevo venire qui. — Non era una cosa che dovevi fare — commentò Luke. — Volevo farlo — ammise Jace. — Non so come potrei essere giudicato. — I funerali sono per i vivi, Jace, non per i morti. Valentine era tuo padre, più che il padre di Clary, anche se non avevi il suo stesso sangue. Sei tu quello che deve prendere commiato da lui. Sei tu quello che ne sentirà la mancanza. — Non credevo di potermi permettere di sentire la sua mancanza. — Tu non ha mai conosciuto Stephen Herondale — gli fece notare Luke. — E quando arrivasti da Robert Lightwood eri già quasi un ragazzo. Valentine è stato tuo padre per tutta la tua infanzia. Dovresti sentire la sua mancanza. — Continuo a pensare a Hodge — disse Jace. — Su alla Guardia. Continuavo a chiedergli perché non mi aveva mai detto chi ero (allora credevo di essere in parte demone) e lui continuava a ripetere che era perché non lo sapeva. Pensavo che mentisse, ma ora so che non era così. Era una delle pochissime persone che sapevano la faccenda di un neonato Herondale sopravvissuto. Quando mi presentai all'Istituto, Hodge non aveva idea di quale dei due figli di Valentine io fossi, se quello vero o quello adottivo. Avrei potuto essere entrambi. Il demone o l'angelo. E penso che non l'abbia mai saputo, almeno finché non ha visto Jonathan alla Guardia. Per questo, Hodge ha cercato comunque di fare del suo meglio con me, in tutti quegli anni, fino al ritorno di Valentine. Ci vuole qualcosa di simile alla fede, per questo, non ti pare? — Sì — disse Luke. — Lo penso anch'io. — Secondo Hodge, l'educazione poteva fare la differenza, a prescindere dal sangue. Io continuo a pensare questo: se fossi rimasto con Valentine, se lui non mi avesse mandato dai Lightwood, sarei diventato come Jonathan? È così che sarei adesso? — È importante? — chiese Luke. — Tu sei ciò che sei ora. E se vuoi saperlo, io credo che Valentine ti abbia mandato dai Lightwood perché pensava che fosse l'opportunità migliore per te. Forse aveva anche altri motivi, ma non dimenticare che ti ha mandato da una famiglia che poi ti ha amato e cresciuto con amore. Potrebbe essere una delle poche cose buone che Valentine ha fatto per qualcuno. — Gli diede una pacca sulle spalle, un gesto così paterno che quasi fece sorridere Jace. — Non me ne dimenticherei, se fossi in te. Clary, in piedi davanti alla finestra di Isabelle, guardava il fumo chiazzare il cielo sopra Alicante, come ditate su un vetro pulito. Quel giorno bruciavano il corpo di Valentine, lo sapeva: bruciavano suo padre, nella necropoli appena fuori le porte della città. — Sai della festa di stasera, vero? — Clary si girò e vide Isabelle, alle sue spalle, che teneva in mano due vestiti, uno blu e uno grigio acciaio, appoggiandoseli al corpo. — Quale mi metto? Per Isabelle, pensò Clary, i vestiti sarebbero sempre stati una buona terapia. — Quello blu. Isabelle appoggiò i vestiti al letto. — E tu, cosa ti metti? Ci vai, vero? Clary pensò al vestito argentato, lieve come una garza, in fondo al baule di Amatis. Ma lei non glielo avrebbe mai lasciato indossare. — Non so — rispose. — Probabilmente i jeans e il cappotto verde. — Che noia — esclamò Isabelle. Lanciò un'occhiata ad Aline, che leggeva seduta su una sedia vicino al letto. — Non è una noia? — Io credo che dovresti lasciarle mettere quello che le va. — Aline non alzò nemmeno gli occhi dal libro. — E poi, non è che si debba fare bella per qualcuno. — Si deve fare bella per Jace! — esclamò Isabelle, come se fosse ovvio. — Certo che deve! Aline alzò gli occhi battendo le palpebre, confusa, poi sorrise. — Oh, giusto! Me ne dimentico sempre. Dev'essere strano, vero, sapere che non è tuo fratello? — No — disse Clary con fermezza. — Era strano pensare che fosse mio fratello. Così... sembra più giusto. — Tornò a guardare verso la finestra. — Comunque non l'ho ancora rivisto, da quando siamo tornati ad Alicante. — Che strano — commentò Aline. — Non è strano — spiegò Isabelle, lanciandole un'occhiata significativa, che Aline non sembrò cogliere. — È stato in ospedale. L'hanno dimesso solo oggi. — E non è venuto subito da te? — Aline chiese a Clary. — Non poteva — rispose Clary. — Aveva il funerale di Valentine. Non poteva mancare. — Forse — disse Aline allegramente. — O forse non è più così interessato a te. Voglio dire, ora che non è proibito. Certe persone vogliono solo quello che non possono avere. — Non Jace — ribatté Isabelle rapidamente. — Lui non è così. Aline si alzò lasciando il libro sul letto. — Devo andare a vestirmi. Ci vediamo stasera? — E con queste parole uscì dalla stanza canticchiando tra sé. Isabelle, seguendola con lo sguardo, scosse la testa. — Secondo te, fa così perché non le sei simpatica? — chiese a Clary. — O perché è gelosa? Sembrava molto interessata a Jace. Clary accennò sorrisetto divertito. — No, Jace non le interessa. Credo che sia una di quelle persone che dicono tutto quello che pensano nel momento stesso in cui lo pensano. E chissà, magari ha ragione. Isabelle si sfilò il fermaglio dai capelli, lasciandoli ricadere sulle spalle. Si avvicinò a Clary, alla finestra. Il cielo era limpido, adesso, dietro le torri antidemoni: il fumo si era dissolto. — E tu? Credi che abbia ragione lei? — Non lo so. Devo chiedere a Jace. Immagino che lo vedrò stasera alla festa. La Celebrazione della Vittoria, o come si chiama. — Guardò Isabelle. — Tu sai come sarà? — Ci sarà una parata — spiegò Isabelle. — Probabilmente anche i fuochi d'artificio. Musica, balli, giochi, cose del genere. Come una grande festa in piazza a New York. — Guardò fuori dalla finestra, con occhi pieni di nostalgia. — A Max sarebbe tanto piaciuta... Clary le carezzò i capelli, come li avrebbe accarezzati a sua sorella, se ne avesse avuta una. — Lo so. Jace dovette bussare due volte alla porta della vecchia casa sul canale, prima di sentire dei passi rapidi che andavano ad aprire. Il cuore gli balzò nel petto, ma si acquietò subito quando la porta si aprì e apparve sulla soglia Amatis Herondale, con aria sorpresa. A quanto pareva, si stava preparando per la festa: indossava un lungo vestito color tortora e orecchini chiari che facevano risaltare i fili grigi dei suoi capelli sale e pepe. — Sì? — Clary... — iniziò Jace, incerto su cosa dire di preciso. Dov'era finita tutta la sua eloquenza? L'aveva sempre avuta, anche quando aveva perso tutto il resto, ma ora si sentiva come se l'avessero aperto in due e tutte le battute facili e intelligenti gli fossero scappate fuori, lasciandolo svuotato. — Mi chiedevo se Clary fosse qui. Speravo di poterle parlare. Amatis scosse la testa. La sorpresa aveva abbandonato la sua espressione e ora lo stava guardando con intenzione, tanto da renderlo nervoso. — Non è qui. Credo che sia con i Lightwood. — Ah. — La delusione fu così forte che stupì anche lui. — Chiedo scusa per il disturbo. — Nessun disturbo. Anzi, sono contenta che tu sia qui — ribatté pronta Amatis. — Volevo parlarti di una cosa. Entra. Torno subito. Jace entrò nell'ingresso mentre Amatis spariva in fondo al corridoio. Si chiese che cosa diavolo avesse da discutere con lui. Forse Clary aveva deciso che non voleva aver più nulla a che fare con lui e aveva scelto Amatis per dargli il suo messaggio. La donna tornò in un attimo. Non aveva in mano niente che somigliasse a un biglietto, notò Jace con grande sollievo. Teneva invece tra le mani una scatoletta di metallo. Era un oggetto di fattura delicata, cesellato con un motivo di uccelli in volo. — Jace — gli disse. — Luke mi ha detto che sei figlio di... che Stephen Herondale era tuo padre. Mi ha raccontato quello che è successo. Jace annuì, ed era tutto quello che si sentiva di poter fare. Le notizie filtravano lentamente e Jace preferiva così: sperava di poter essere di nuovo a New York, prima che tutti a Idris scoprissero la verità e si girassero a guardarlo ovunque andasse. — Tu sai che io ero sposata con Stephen, prima di Céline... tua madre — proseguì Amatis con la voce tesa, come se le facesse male pronunciare quelle parole. Jace la fissò: voleva parlargli di sua madre? Ce l'aveva con lui perché le aveva riportato a galla brutti ricordi di una donna morta prima ancora che lui nascesse? — Di tutte le persone che oggi sono ancora tra noi, io sono probabilmente quella che conosceva meglio tuo padre. — Sì — disse Jace, desiderando di essere altrove. — Sono sicuro che è così. — So che probabilmente avrai per Stephen dei sentimenti molto contrastanti — proseguì Amatis sorprendendolo, perché era vero. — Tu non l'hai mai conosciuto, non è stato lui il padre che ti ha cresciuto. Ma gli assomigli molto. Tranne gli occhi: quelli sono di tua madre. E forse sono pazza a disturbarti per questo. Forse non vuoi sapere nulla di Stephen. Ma era comunque tuo padre, e se ti avesse conosciuto... — Gli spinse la scatola tra le mani, di scatto, quasi facendogli fare un salto indietro. — Queste sono alcune cose sue, che ho conservato negli anni. Lettere che ha scritto, fotografie, un albero genealogico. La sua pietra di stregaluce. Magari adesso non hai domande, ma un giorno forse ne avrai. E se succederà, se avrai delle domande, avrai con te almeno questo. — Amatis rimase quasi immobile, mentre gli offriva la scatoletta, come fosse un preziosissimo tesoro. Jace la prese dalle sue mani senza una parola: era pesante e il metallo era freddo contro la pelle. — Grazie — le disse. Non riuscì a fare di meglio. Esitò, poi aggiunse: — C'è una cosa, una cosa che mi stavo chiedendo. — Sì? — Se Stephen era mio padre, allora l'Inquisitrice Imogen era mia nonna. — Imogen era... — Amatis cercò le parole — ...era una donna molto difficile. Ma era tua nonna, sì. — Mi ha salvato la vita — le disse Jace. — Voglio dire, per un sacco di tempo si è comportata come se odiasse tutto di me. Ma poi ha visto questo. — Spostò il colletto della camicia e mostrò ad Amatis la cicatrice bianca a forma di stella che aveva sulla spalla. — Che cosa poteva significare questa cicatrice, per lei? Amatis lo fissava gli occhi sgranati. — Tu non ricordi come te la sei fatta, quella cicatrice, vero? Jace scosse la testa. — Valentine mi diceva che era una vecchia ferita, di quando ero troppo piccolo per ricordare. Ma adesso... non credo che sia vero. — Non è una cicatrice. È una voglia. C'è una vecchia leggenda di famiglia, a questo riguardo: uno dei primi Herondale che diventarono Shadowhunters venne visitato in sogno da un angelo. L'angelo lo toccò sulla spalla, e quando si svegliò si ritrovò con un segno come il tuo. E tutti i suoi discendenti hanno lo stesso segno. — Amatis scrollò le spalle. — Non so se questa storia sia vera, ma tutti gli Herondale hanno questo marchio. Anche tuo padre ce l'aveva. Qui. — Si toccò il braccio destro, vicino alla spalla. — Dicono che significa che hai avuto un contatto con un angelo. Che in qualche modo sei benedetto. Vedendolo, Imogen avrà capito chi eri veramente. Jace fissava Amatis, ma non la vedeva: stava rivedendo quella notte sulla nave, il ponte nero e umido, e l'Inquisi-trice che spirava ai suoi piedi. — Mi ha detto qualcosa — ricordò. — Mentre moriva. Mi ha detto: Tuo padre sarebbe fiero di te. Credevo che lo facesse per crudeltà. Credevo che si riferisse a Valentine. Amatis scosse la testa. — Era di Stephen, che stava parlando — disse piano. — E aveva ragione. Sarebbe stato fiero di te. Clary spinse la porta d'ingresso di Amatis ed entrò, pensando a quanto quella casa le fosse diventata familiare. Non doveva più sforzarsi di ricordare la strada per arrivare là, né il modo per aprire la porta quando il pomolo s'inceppava. Persino il luccichio del sole sul canale le era familiare, come pure la vista di Alicante dalla finestra. Riusciva quasi a immaginarsi come avrebbe potuto essere vivere lì, come avrebbe potuto essere se Idris fosse diventata la sua patria. Si chiese di che cosa avrebbe cominciato subito a sentire la mancanza. Il takeaway cinese? I film? Il negozio di fumetti? Stava per salire le scale, quando sentì la voce di sua madre dal salotto: era tagliente e un po' agitata. Che motivo poteva avere, Jocelyn, per essere così inquieta? Ora era tutto a posto, no? Senza pensarci, Clary si appoggiò alla parete vicina al salotto e si mise a origliare. — In che senso, rimani? — stava dicendo Jocelyn. — Vuoi dire che non tornerai più a New York? — Mi hanno chiesto di restare ad Alicante per rappresentare i licantropi nel Consiglio — disse Luke. — Ho risposto che gli avrei fatto sapere stasera. — Ma non potrebbe farlo qualcun altro? Uno dei capi-branco di Idris? — Io sono l'unico capobranco a essere stato uno Shadowhunter. È per questo che vogliono me. — Sospirò. — Sono stato io a dare inizio a tutto questo, Jocelyn. Dovrei restare e portare a termine l'opera. Ci fu un breve silenzio. — Se è questo che senti, allora devi restare — disse alla fine Jocelyn, ma la sua voce sembrava piuttosto incerta. — Dovrò vendere la libreria, sistemare i miei affari. — La voce di Luke era burbera. — Non è che mi trasferirò di punto in bianco. — Posso occuparmene io, dopo tutto quello che hai fatto. — Jocelyn sembrava non avere abbastanza energia per mantenere un tono vivace. La sua voce sfumò in un silenzio che si prolungò a lungo, tanto che Clary pensò di fare un colpo di tosse ed entrare nel salotto per rivelare la sua presenza. Un attimo dopo fu contenta di non averlo fatto. — Senti — iniziò a dire Luke. — Volevo dirtelo da tanto tempo, ma non l'ho mai fatto. Sapevo che non sarebbe servito a niente, anche dicendolo, per via di quello che sono. Tu non hai mai voluto che tutto questo entrasse nella vita di Clary. Ma ora che Clary sa, immagino che non faccia più molta differenza. E posso anche dirtelo. Io ti amo, Jocelyn. Sono vent'anni che ti amo. — Tacque. Clary si sforzò di sentire la risposta di sua madre, ma non ci fu alcuna risposta. Alla fine Luke parlò di nuovo, con la voce grave. — Devo tornare al Consiglio per dire che resterò. Non riprenderò più l'argomento. Ma mi sento meglio per avertelo detto, dopo tutto questo tempo, e mi basta. Clary si appiattì contro il muro, mentre Luke, a testa bassa, usciva a grandi passi dal salotto. Le passò accanto apparentemente senza vederla e spalancò la porta d'ingresso. Rimase sulla soglia un momento, accecato dalla luce del sole che si rifletteva sull'acqua del canale. E subito dopo sparì. La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo. Clary rimase dov'era, la schiena contro il muro. Era terribilmente triste per Luke e terribilmente triste anche per sua madre. Dunque, Jocelyn non amava veramente Luke, e forse non avrebbe mai potuto amarlo. Era esattamente la stessa situazione di Clary e Simon, solo che Clary non vedeva alcuna possibilità che Luke e sua madre potessero riaggiustare le cose tra loro. Non se Luke decideva di restare a Idris. Le lacrime le punsero gli occhi. Stava per entrare nel salotto, quando sentì aprirsi la porta della cucina e udì un'altra voce, stanca e un po' rassegnata. Amatis. — Scusami, ho sentito tutto, involontariamente. Ma sono contenta che Lucian resti qui — disse Amatis. — Non solo perché sarà vicino a me, ma perché in questo modo avrà una possibilità di dimenticare te. La voce di }ocelyn era sulle difensive. — Amatis... — Jocelyn — continuò Amatis — se tu non lo ami, dovresti lasciarlo perdere. Jocelyn rimase in silenzio. Clary desiderò di poter vedere la sua espressione. Era triste? Arrabbiata? Rassegnata? Amatis trasalì. — A meno che... Tu lo ami? — Amatis, non posso... — Tu lo ami! Tu lo ami! — Ci fu un suono secco, come se Amatis avesse battuto le mani. — Lo sapevo che lo amavi! L'ho sempre saputo! — Non importa. — La voce di Jocelyn era stanca. — Non sarebbe corretto nei confronti di Luke. — Non voglio nemmeno sentirlo. — Ci fu un fruscio, un suono di protesta di Jocelyn. Clary si chiese se Amatis avesse preso sua madre per le spalle. — Se lo ami, adesso glielo vai a dire. Adesso, subito, prima che arrivi al Consiglio. — Ma loro vogliono lui come membro del Consiglio! E lui vuole... — L'unica cosa che Lucian vuole — disse Amatis con fermezza — sei tu. Tu e Clary. È tutto quello che ha sempre voluto. Ora, vai! Prima che Clary potesse allontanarsi, Jocelyn si precipitò nel corridoio. Corse alla porta e... vide Clary, appiattita contro il muro. Si fermò, con la bocca aperta per la sorpresa. — Clary! — Cercò di dare un tono allegro e vivace alla sua voce, ma fallì miseramente. — Non sapevo che fossi qui. Clary si staccò dal muro, afferrò il pomolo della porta e la spalancò. La luce brillante del sole invase l'ingresso. Jocelyn si fermò nella luce feroce, battendo le palpebre, con gli occhi fissi sulla figlia. — Se non rincorri subito Luke — disse Clary, scandendo bene le parole — io ti uccido con le mie mani. Per un momento Jocelyn sembrò attonita. Poi sorrise. — Be' — disse — se la metti in questi termini... Un attimo dopo era fuori e correva lungo il sentiero di fianco al canale che portava verso la Sala degli Accordi. Clary richiuse la porta alle sue spalle e vi si appoggiò contro. Amatis, uscendo dal salotto, si precipitò al davanzale della finestra, guardando ansiosamente dai vetri. — Pensi che riuscirà a raggiungerlo prima che arrivi alla Sala degli Accordi? — Mia mamma ha passato la vita a rincorrermi dappertutto — commentò Clary. — È velocissima. Amatis la guardò e sorrise. — Oh, adesso mi viene in mente! — disse. — È passato Jace. Ti cercava. Credo che speri di incontrarti stasera alla festa. — Ah, davvero? — disse Clary pensierosa. Poteva anche chiedere. Chi non risica non rosica. — Amatis — disse. La sorella di Luke si staccò dalla finestra, guardandola con curiosità. — Sì? — Quel tuo vestito argentato, nel baule — disse Clary. — Potrei prenderlo in prestito? Le strade si stavano già riempiendo di gente, mentre Clary ripercorreva la città verso la casa dei Lightwood. Era il tramonto e le luci iniziavano ad accendersi, illuminando l'aria di un pallido bagliore. Cestini di fiori bianchi dall'aria familiare erano stati appesi ai muri delle case e profumavano l'aria di aromi speziati. Rune d'oro scuro ardevano sulle porte delle case: parlavano di vittoria e di letizia. C'erano molti Shadowhunters per le strade. Nessuno di loro, adesso, indossava la tenuta da battaglia: avevano gli abiti delle grandi occasioni, in una gran varietà di fogge, dalle più moderne a quelle al limite della rievocazione storica. Era una notte insolitamente calda ed erano in pochi a portare il cappotto. Molte delle donne indossavano quelli che a Clary sembravano abiti da sera, con la gonna lunga e ampia che spazzava la strada. Quando svoltò nella strada dei Lightwood, una figura esile e scura attraversò la strada davanti a lei: era Raphael, mano nella mano con una donna alta dai capelli scuri, con un vestito rosso da mezza sera. Raphael si girò e le sorrise, e il suo sorriso le diede un brivido leggero. Era proprio vero, pensò, che a volte c'era qualcosa di alieno nei Nascosti, qualcosa di alieno e spaventoso. Ma, forse, non tutto quello che faceva paura era necessariamente pericoloso. Anche se qualche dubbio su Raphael le restava. La porta d'ingresso dei Lightwood era aperta e diversi membri della famiglia erano già fuori sul marciapiede. C'erano Maryse e Robert Lightwood, che chiacchieravano con altri due adulti. Quando si girarono, Clary vide con leggera sorpresa che erano i Penhallow, i genitori di Aline. Maryse le sorrise. Era molto elegante, con un completo di seta blu scuro,- i capelli, legati sulla nuca con un grosso nastro d'argento, le lasciavano scoperto il volto severo. Assomigliava molto a Isabelle, tanto che a Clary venne voglia di metterle una mano sulla spalla, perché Maryse era ancora visibilmente triste, anche quando sorrideva. Sta pensando a Max, proprio come Isabelle — rifletté Clary. — Sta pensando a quanto gli sarebbe piaciuta questa festa. — Clary! — Isabelle scese di corsa i gradini dell'ingresso, coi capelli neri al vento. Non indossava nessuno dei due vestiti che aveva mostrato a Clary poco prima, ma un incredibile abito di raso dorato che le fasciava il corpo come i petali chiusi di un fiore. Ai piedi portava dei sandali dai tacchi altissimi. Clary ripensò a un commento di Isabelle su quanto le piacevano i tacchi alti e rise tra sé. — Clary, sei fantastica! — Grazie. — Clary lisciò con un po' di imbarazzo il diafano tessuto del suo vestito argentato. Era probabilmente la cosa più femminile che avesse mai indossato. Le lasciava le spalle scoperte e ogni volta che sentiva i capelli solleticarle la pelle nuda del collo, doveva soffocare l'istinto di cercare un cardigan o una felpa con il cappuccio in cui avvolgersi. — Anche tu. Isabelle si chinò per sussurrarle all'orecchio: — Jace non è qui. Clary si tirò indietro. — E allora dove...? — Alec dice che potrebbe essere nella piazza, dove si faranno i fuochi d'artificio. Mi dispiace: non so proprio che cosa gli passi per la testa. Clary scrollò le spalle cercando di nascondere la delusione. — Non c'è problema. Alec e Aline corsero fuori di casa dopo Isabelle, Aline con un vestito rosso acceso che faceva sembrare ancora più neri i suoi capelli e Alee vestito come al solito, con un paio di pantaloni e una maglia entrambi scuri. Quantomeno, pensò Clary, la maglia non sembrava avere dei buchi. Alec le sorrise e Clary pensò, con sorpresa, che in effetti qualcosa di diverso ce l'aveva: sembrava in qualche modo più leggero, come se si fosse tolto un grosso peso dalle spalle. — Non sono mai stata a una festa in cui partecipassero anche dei Nascosti — annunciò Aline, guardando nervosamente verso la strada dove passava una giovane fata dai lunghi capelli intrecciati di fiori (no, pensò Clary, i suoi capelli erano fiori, collegati da delicati viticci verdi): la fata staccò dei fiori bianchi da un cestino appeso a un muro, li osservò pensierosa, poi se li mangiò. — Sarà bellissimo — la rassicurò Isabelle. — È gente che sa come divertirsi. — Fece un cenno di saluto ai suoi genitori e s'incamminò con gli altri verso la piazza. Clary combatteva ancora con l'istinto di coprirsi il busto incrociando le braccia sul petto. Il vestito le svolazzava attorno ai piedi come spire di fumo portate dal vento. Ripensò al fumo che poco prima si era levato sulla città di Alicante e rabbrividì. — Ehi! — esclamò Isabelle. Clary alzò gli occhi e vide avvicinarsi Simon e Maia. Clary non aveva visto Simon per gran parte della giornata: era andato alla Sala degli Accordi per assistere all'assemblea preliminare del Consiglio, perché, diceva, era curioso di vedere chi avrebbero scelto per il seggio riservato ai vampiri. Clary non riusciva proprio a figurarsi Maia con indosso qualcosa di femminile e infatti aveva un paio di pantaloni mimetici a vita bassa e una maglietta nera, su cui era scritto SCEGLI UN'ARMA e, sotto la scritta, c'erano dei dadi. Era una maglietta di un gioco di ruolo a squadre, pensò Clary. Si chiese se Maia partecipasse veramente ai giochi di ruolo o se avesse messo quella maglietta per fare colpo su Simon. In questo caso, aveva scelto bene. — State andando verso la piazza dell'Angelo? Maia e Simon risposero di sì e tutti insieme si avviarono verso la Sala degli Accordi, in allegra compagnia. Simon restò indietro per affiancarsi a Clary e camminarono insieme in silenzio. Era bello stargli vicino: era stata la prima persona che Clary aveva voluto rivedere, una volta tornata ad Alicante. L'aveva stretto in un abbraccio fortissimo, contenta che fosse vivo, poi gli aveva toccato il marchio sulla fronte. — Ti ha salvato? — gli aveva chiesto, desiderando con tutte le forze di sentirsi dire che ciò che aveva fatto era stato utile. — Mi ha salvato — fu tutto ciò che Simon le rispose. — Vorrei potertelo togliere — gli aveva detto. — Vorrei sapere che cosa potrebbe succederti, a causa del marchio. Lui le aveva preso il polso e le aveva scostato dolcemente la mano. — Aspettiamo — le aveva detto. — Stiamo a vedere. Ora lo osservò attentamente, ma il marchio non sembrava avere su di lui alcun effetto visibile. Simon era esattamente come al suo solito. Era Simon. Solo che adesso si pettinava i capelli in modo un po' diverso, per coprire il marchio. Ma se uno non sapeva cosa c'era sotto, non l'avrebbe mai immaginato. — Com'è andata l'assemblea? — gli chiese Clary, dandogli un'occhiata da capo a piedi per vedere se si fosse messo qualcosa di carino per la festa. No, ma non poteva criticarlo: i jeans e la maglietta che indossava costituivano il suo intero guardaroba, lì ad Alicante. — Chi hanno scelto? — Non Raphael — rispose Simon, con un tono che sembrava contento della cosa. — Un altro vampiro. Con un nome pretenzioso. Ombra della Notte o qualcosa del genere. — Sai, mi hanno chiesto se voglio disegnare il simbolo del Nuovo Consiglio — disse Clary. — È un onore. Ho accettato. Ci sarà la runa del Consiglio circondata dai simboli delle quattro famiglie dei Nascosti. Una luna per i licantropi. E stavo pensando a un quadrifoglio per il Popolo Fatato. Un libro di magia per gli stregoni. Ma non mi viene in mente niente per i vampiri. — Che ne dici di un dente? — suggerì Simon. — Magari grondante sangue. — E scoprì i suoi canini. — Grazie — replicò Clary. — Mi sei stato di grande aiuto. — Sono contento che l'abbiano chiesto a te — commentò Simon, più serio. — Te lo meriti, questo onore. Ti meriti una medaglia, in realtà, per tutto quello che hai fatto. La runa dell'alleanza e tutto il resto. Clary scrollò la testa. — Non so. Alla fine di tutto, la battaglia non è durata nemmeno dieci minuti. Non so quanto sono davvero stata utile. — Io c'ero, in quella battaglia, Clary — le ricordò Simon. — Sarà anche durata solo dieci minuti, ma sono stati i peggiori dieci minuti della mia vita. E non voglio entrare nei dettagli. Ma ti dico solo che in quei dieci minuti ci sarebbero stati molti più morti, se non era per te. E poi, la battaglia è stato solo un aspetto. Se tu non avessi fatto ciò che hai fatto, ora non ci sarebbe alcun Nuovo Consiglio. Ci sarebbero ancora Shadowhunters e Nascosti che si odiano a vicenda, invece di Shadowhunters e Nascosti che vanno a fare festa tutti insieme. Clary sentì un groppo salirle in gola e guardò dritta avanti, imponendosi di non piangere. — Grazie, Simon. — Ebbe un attimo di esitazione, così rapido che nessuno che non fosse stato Simon se ne sarebbe accorto. Ma lui se ne accorse. — Cosa c'è che non va? — le chiese. — Mi chiedo che cosa faremo quando torneremo a casa — gli disse. — Voglio dire, so che Magnus si è occupato di tua madre, così lei non è diventata matta per questa tua sparizione, ma... la scuola... Abbiamo perso una montagna di roba. E non so nemmeno... — Tu non tornerai a New York — le disse Simon a bassa voce. — Credi che non lo sappia? Tu adesso sei una Cac-ciatrice. Finirai la scuola all'Istituto. — E tu? Tu sei un vampiro. Hai intenzione di tornare a scuola come se niente fosse? — Sì — rispose Simon, sorprendendola. — Sì. Voglio una vita normale, per quanto possibile. Voglio finire la scuola e poi andare al college e tutto il resto. Lei gli strinse la mano. — Se è questo che vuoi, è giusto che tu lo abbia. — Lo guardò e gli sorrise. — Certo è che sconvolgerai tutti quanti, quando ti ripresenterai a scuola. — Sconvolgerò tutti quanti? E perché? — Perché sei molto più sexy di quando te ne sei andato. — Clary scrollò le spalle. — Dico sul serio. Sarà una cosa da vampiri. Simon sembrava sconcertato. — Sono più... sexy? — Certo! Voglio dire, guarda quelle due. Ti stanno mangiando con gli occhi! — Gli indicò Maia e Isabelle che camminavano insieme, qualche passo avanti a loro, con le teste vicine. Simon guardò le ragazze e Clary avrebbe giurato che stesse arrossendo. — Davvero? Ogni tanto si mettono a confabulare tra loro e mi guardano... Non so proprio che cos'abbiano da dire. — Certo che no. — Clary sorrise. — Poverino, hai due belle ragazze che si contendono il tuo cuore... Dura, la vita... — Fantastico. Dimmi tu, allora, chi dovrei scegliere. — Assolutamente no. È affar tuo. — Clary abbassò di nuovo la voce. — Senti, puoi uscire con chi ti pare e avrai sempre il mio totale appoggio. Sarò tutta un appoggio. Appoggio è il mio secondo nome. — Ah, allora è per questo che non mi hai mai rivelato il tuo secondo nome. Me l'immaginavo, che fosse qualcosa di imbarazzante. Clary ignorò la battuta. — Però promettimi una cosa, okay? So come fanno le ragazze. So che non sopportano che il loro fidanzato abbia un amico del cuore che è una femmina. Devi promettermi che non mi taglierai fuori dalla tua vita completamente. Che ogni tanto potremo ancora stare insieme. — Ogni tanto? — Simon scosse la testa. — Clary, tu sei pazza. Le si strinse il cuore. — Vuoi dire... — Voglio dire che non uscirò mai con una ragazza che cercherà di tagliarti fuori dalla mia vita. Non c'è nemmeno da discutere. Vuoi un po' di tutta questa meraviglia? — E Simon indicò se stesso. — Bene, la mia migliore amica è compresa nel pacchetto. Non ti taglierei mai fuori dalla mia vita, Clary, non più di quanto potrei tagliarmi la mano destra e regalarla per San Valentino. — Che schifo — disse Clary. — Devi proprio? Lui le fece un gran sorriso. — Devo proprio. La piazza dell'Angelo era quasi irriconoscibile. La Sala degli Accordi brillava di bianco in fondo alla piazza, in parte nascosta dall'intricato boschetto di alberi cresciuti al centro. Erano chiaramente frutto di un incantesimo, ma avrebbero anche potuto essere alberi veri e trapiantati, pensò Clary, ricordando l'abilità di Magnus nel trasportare mobili e tazze di caffè da un lato all'altro di Manhattan in un batter d'occhio. Gli alberi salivano quasi alla stessa altezza delle torri antidemoni, con nastri avvolti intorno ai tronchi argentei e luci colorate impigliate nella selva frusciante dei rami. La piazza profumava di fiori bianchi, di fumo, di foglie. Tutto intorno, erano stati disposti tavoli e lunghe panche, e gruppi di Cacciatori e di Nascosti vi si affollavano intorno, ridendo e bevendo e chiacchierando. E tuttavia, nonostante le risate, c'era un pizzico di mestizia mescolato all'aria di festa, un dolore che conviveva con la gioia. I negozi che si affacciavano sulla piazza avevano le porte spalancate e la luce si riversava sui marciapiedi. I festanti passavano a frotte, portando piatti di cibo e calici dal lungo stelo colmi di vino o di altre bevande dai colori vivaci. Simon vide un kelpie passargli accanto con un bicchiere di liquido azzurro in mano e inarcò un sopracciglio. — Non è come alla festa di Magnus — lo rassicurò Isabelle. — Tutto quello che c'è da bere qui dovrebbe essere sicuro. — Dovrebbe? — Aline sembrava preoccupata. Alec guardava la foresta in miniatura e le luci colorate si riflettevano nelle iridi azzurre dei suoi occhi. C'era Magnus, all'ombra di un albero, che parlava con una ragazza vestita di bianco e con una nuvola di capelli castano chiaro. La ragazza si girò, quando Magnus li guardò, e Clary incrociò il suo sguardo per un momento, annullando la distanza che le separava. C'era qualcosa di familiare, in lei, ma Clary non riuscì a capire che cosa. Magnus la salutò per venire da loro e la ragazza scivolò tra le ombre degli alberi e sparì. Lo stregone era vestito come un gentiluomo inglese di epoca vittoriana, con una lunga redingote nera su un gilet di seta viola. Un fazzolettino ricamato con le iniziali M.B. spuntava dal taschino del gilet. — Bel gilet — commentò Alec con un sorriso. — Ne vorresti uno uguale? — chiese subito Magnus. — Del colore che preferisci, naturalmente. — In realtà, i vestiti non mi interessano granché — ammise Alec. — Ed è una cosa che adoro di te — annunciò Magnus. — Ma ti adorerei lo stesso anche se tu avessi un bel vestito griffato. Che dici? Dolce? Zegna? Armani? Alec farfugliò qualcosa e Isabelle rise. Magnus colse l'occasione per avvicinarsi a Clary e sussurrarle qualcosa all'orecchio. — I gradini della Sala degli Accordi. Vai. Clary avrebbe voluto chiedergli che cosa voleva dire, ma Magnus era già tornato a parlare con Alec e gli altri. E poi, aveva la netta sensazione di saperlo già. Allontanandosi, diede una stretta al polso di Simon,- lui si girò e le sorrise, prima di tornare alla sua conversazione con Maia. Clary passò tra gli alberi della foresta magica per attraversare la piazza, entrando nelle loro ombre. Gli alberi arrivavano fino ai piedi della scalinata che portava alla Sala degli Accordi ed era forse per questo che i gradini erano quasi deserti. Ma non del tutto. Clary alzò lo sguardo verso le porte della Sala e riconobbe subito un profilo scuro e familiare, seduto all'ombra di un pilastro. Il suo cuore accelerò. Era Jace. Clary dovette tirarsi su la gonna per salire la scalinata, per paura di pestare un orlo e strappare il tessuto delicato. Rimpianse di non avere indosso i suoi soliti vestiti, quando si avvicinò a Jace che, seduto con la schiena appoggiata a una colonna e lo sguardo rivolto alla piazza, indossava i suoi abiti più mondani: jeans, maglietta bianca e giacca scura. E forse, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, pensò Clary, non sembrava armato. All'improvviso si sentì esageratamente elegante. Si fermò a poca distanza da lui, incerta su che cosa dire. Come sentendo la sua presenza, Jace alzò gli occhi. Teneva qualcosa in bilico sulle ginocchia, notò Clary: una scatoletta d'argento. Sembrava molto stanco. Aveva ombre scure sotto gli occhi e i capelli d'oro chiaro erano in disordine. Sgranò gli occhi. — Clary? — Chi credevi che fosse? Non le sorrise. — Non sei come al solito. — È il vestito. — Si lisciò le pieghe, a disagio. — Di solito non mi metto delle cose così... carine. — Sei bellissima — le disse. Clary ricordò la prima volta in cui Jace le aveva detto che era bella, nella serra dell'Istituto. Non gliel'aveva detto come fosse un complimento, ma come fosse un dato assodato, come il fatto che aveva i capelli rossi e le piaceva disegnare. — Ma mi sembri... distante. Come se non potessi toccarti. Clary allora gli si avvicinò e si sedette accanto a lui sul gradino più alto. La pietra era fredda e il freddo filtrava facilmente dal tessuto lieve. Gli tese una mano: aveva un tremito lieve, ma visibile. — Toccami pure — gli disse. — Se ti va. Lui le prese la mano e se l'appoggiò alla guancia. Poi gliela rimise in grembo. Clary rabbrividì, ripensando alle parole di Aline, nella camera da letto di Isabelle. Forse non è più così interessato, ora che non è proibito. Jace aveva detto a lei che sembrava distante, ma l'espressione nei suoi occhi era remota come una galassia lontana. — Che cosa c'è nella scatola? — gli chiese. Jace stava ancora tenendo stretta la scatoletta d'argento. Era un oggetto dall'aria costosa, delicatamente inciso con un motivo di uccelli in volo. — Sono passato da Amatis, qualche ora fa. Ti cercavo — le disse. — Ma tu non c'eri. Così ho parlato con lei. E mi ha dato questo. — Le indicò la scatola. — Apparteneva a mio padre. Per un momento lei lo guardò senza capire. A Valentinepensò. Poi, con un sussulto: No, non è questo che intende dire. — Ma certo — commentò. — Amatis è stata sposata con Stephen Herondale. — Stavo guardando quello che c'è dentro — le raccontò Jace. — Ho letto le lettere, le pagine di diario. Pensavo che in questo modo avrei potuto sentire qualche sorta di legame con lui. Qualcosa che saltasse fuori dalle pagine a dire Sì, questo è tuo padre. Ma non sento niente. Sono solo fogli di carta. Chiunque avrebbe potuto scrivere queste cose. — Jace — gli disse Clary dolcemente. — E c'è un'altra cosa — aggiunse Jace. — Io non ho più un nome, vero? Non sono Jonathan Christopher: era qualcun altro. Ma è il nome a cui sono abituato. — Chi ha inventato il soprannome Jace? L'hai inventato tu? Jace scosse la testa. — No. Valentine mi ha sempre chiamato Jonathan. E mi chiamavano così quando arrivai all'Istituto. Non avrei mai dovuto credere che il mio nome fosse Jonathan Christopher. Successe per sbaglio: avevo trovato il nome sul diario di mio padre, ma non era di me che parlava. Non erano miei, i progressi che stava annotando. Erano quelli di Seb... erano quelli di Jonathan. La prima volta che dissi a Maryse che il mio secondo nome era Christopher, lei si convinse di ricordare male, si disse che Christopher doveva essere il secondo nome del figlio di Michael. Erano passati dieci anni, dopotutto. Ma fu allora che cominciò a chiamarmi Jace: era come se volesse darmi un nome nuovo, qualcosa che appartenesse a lei, alla mia vita a New York. E a me piaceva. Jonathan non mi è mai piaciuto. — Rigirò la scatoletta tra le mani. — Mi chiedo se Maryse avesse saputo, o se avesse immaginato, pur non volendo riconoscerlo. Lei mi voleva bene... e non voleva credere una cosa del genere. — Ed è per questo che era così sconvolta, quando ha scoperto che tu eri il figlio di Valentine — rifletté Clary. — Perché era convinta che avrebbe dovuto capirlo. E, in un certo senso l'aveva capito. Ma nessuno vuole credere a certe cose, riguardo alle persone che amiamo. E, Jace, su di te Maryse aveva ragione. Aveva ragione su chi eri veramente. E tu ce l'hai, un nome. Il tuo nome è Jace. Non è stato Valentine a darti questo nome. È stata Maryse. L'unica cosa che rende importante un nome, che lo rende tuo, è il fatto che ti sia dato da qualcuno a cui vuoi bene. — Jace... — replicò lui — Jace Herondale? — Ma fammi il piacere! — esclamò Clary. — Tu sei Jace Lightwood. E lo sai. Jace alzò gli occhi e la guardò. Le lunghe ciglia li mettevano in ombra, scurendone l'oro. Adesso era un po' meno lontano, pensò Clary, anche se forse era solo una sua impressione. — Forse sei una persona diversa da quella che credevi di essere — proseguì Clary, sperando contro ogni speranza che lui capisse ciò che voleva dire. — Ma nessuno diventa una persona completamente diversa nell'arco di una notte. Scoprire che Stephen era il tuo padre biologico non può automaticamente fartelo amare. E non devi per forza amarlo. Valentine non era il tuo vero padre, ma non perché tu non hai il suo sangue nelle vene. Non era il tuo vero padre perché non si è comportato da padre con te. Non si è preso cura di te. Sono sempre stati i Lightwood a prendersi cura di te. Sono loro la tua famiglia. Come mia mamma e Luke sono la mia. — Gli toccò la spalla, poi ritrasse la mano. — Mi dispiace — gli disse. — Sono qui che ti faccio la predica, mentre tu probabilmente sei venuto qui per restare da solo — Hai ragione — disse Jace. Clary si sentì mancare il fiato. — Va bene. Allora, io vado. — Si alzò, dimenticandosi di sollevare il vestito e per poco non inciampò sull'orlo. — Clary! — Jace posò la scatoletta e si alzò in fretta. — Clary, aspetta. Non era questo che volevo dire. Non volevo dire che voglio stare da solo. Volevo dire che hai ragione su Valentine... sui Lightwood... Lei si girò e lo guardò. Era per metà nascosto nell'ombra e le luci allegre e colorate della festa gli disegnavano strani motivi sulla pelle. Clary ripensò alla prima volta che lo aveva visto: le aveva ricordato un leone, magnifico e mortale. Ora, invece, le sembrava diverso. Quell'armatura dura e protettiva che usava sempre era sparita: ora portava le sue ferite con orgoglio. Non aveva neppure usato lo stilo per cancellare gli ematomi dalla faccia, dalla mascella, dal collo. Ma agli occhi di Clary era sempre bellissimo, anche più di prima, perché adesso le sembrava più umano. Umano e reale. — Sai — gli disse. — Aline diceva che forse non eri più interessato a me, ora che non è più proibito. Ora che, volendo, tu potresti stare con me. — Rabbrividì nel vestito leggero, stringendosi i gomiti con le mani. — È vero? Non sei più... interessato? — Interessato? Come se tu fossi... un libro, o una notizia? No, non sono per niente interessato. Sono... — S'interruppe, cercando a tentoni la parola giusta, come qualcuno cerca un interruttore nel buio. — Ti ricordi quello che ti ho detto tempo fa? Sul fatto che averti come sorella sembrava una specie di scherzo cosmico? Per me e per entrambi? — Mi ricordo. — Non ci ho mai creduto — disse Jace. — Voglio dire, ci credevo solo in un certo modo. Ho lasciato che questa idea mi portasse alla disperazione, ma non l'ho mai sentita veramente. Non ho mai sentito che tu eri mia sorella. I sentimenti che provavo per te non erano quelli che si dovrebbero avere per una sorella, ma non per questo non ti sentivo parte di me. Quello l'ho sempre sentito. — Vedendo l'espressione perplessa di Clary, Jace ebbe un moto d'impazienza. — Non lo sto dicendo nel modo giusto. Clary, ho odiato ogni secondo in cui ho creduto che tu fossi mia sorella. Ho odiato ogni momento in cui ho creduto che quello che sentivo per te implicasse qualcosa di profondamente sbagliato in me. Ma... — Ma cosa? — Il cuore di Clary batteva così forte che la stordiva. — Ho visto il compiacimento di Valentine per quello che io provavo per te. Per quello che tu provavi per me. Ha usato i nostri sentimenti come un'arma contro di noi. E per questo l'ho odiato. Più che per qualsiasi altra cosa mi abbia fatto, è per questo che l'ho odiato e che mi sono rivoltato contro di lui. E forse è proprio di questo che avevo bisogno. Perché ci sono state delle volte in cui non sapevo se volevo seguirlo oppure no. È stata una scelta difficile, più di difficile di quanto non mi piaccia ammettere. — La sua voce era tesa. — Una volta ti ho chiesto se avevo scelta — gli ricordò Clary. — E tu mi hai risposto che abbiamo sempre una scelta. Tu hai scelto di stare contro Valentine. Alla fine è stata questa la scelta che hai fatto, non importa quanto sia stata dura. L'importante è che tu l'abbia fatta. — Lo so — disse Jace. — Sto solo dicendo che penso di averla fatta, almeno in parte, per te. Da quanto ti ho incontrato, tutto quello che ho fatto è stato in parte anche per te. Non posso staccarmi da te, Clary: né il mio cuore, né il mio sangue, né la mia mente, né nessun'altra parte di me. Non posso e non voglio. — Non vuoi? — sussurrò Clary. Jace fece un passo verso di lei. Il suo sguardo era fisso sul viso di Clary, come se non riuscisse a separarsene. — Ho sempre pensato che l'amore ci rendesse stupidi. Che ci rendesse deboli. Pessimi Cacciatori. Amare è distruggere. Ci credevo. Clary si mordicchiava il labbro, ma nemmeno lei riusciva a distogliere gli occhi dai suoi. — Una volta pensavo che essere un buon guerriero significasse non voler bene a niente e a nessuno — disse Jace. — A me stesso, in particolare. Correvo tutti i rischi che potevo. Mi buttavo in bocca ai demoni. Credo di aver fatto venire un complesso ad Alec sulle sue capacità di guerriero solo perché lui ci teneva a restare vivo. — Jace fece un sorriso incerto. — E poi ho incontrato te. Tu eri una mondana. Eri debole. Non eri una Cacciatrice. Non avevi mai fatto l'addestramento. Ma ho visto quanto amavi tua madre, quanto amavi Simon... Ho visto che eri pronta ad andare all'inferno per salvarli. E di fatto sei entrata nell'hotel dei vampiri. Altri Shadowhunters, con anni di esperienza alle spalle, non ci avrebbero nemmeno provato. L'amore non ti rendeva più debole: ti rendeva più forte di chiunque io avessi mai conosciuto. E mi sono reso conto di essere io quello debole. — No! — Clary era sbalordita. — Tu non sei debole! — Forse non più. — Fece un altro passo avanti. Adesso era abbastanza vicino da poterla toccare. — Valentine non voleva credere che avessi ucciso Jonathan — le disse. — Non voleva crederci perché, dei due, io ero quello debole, e Jonathan quello meglio addestrato. Giustamente, avrebbe dovuto essere lui a uccidere me. E c'è mancato poco. Ma io pensavo a te e ti vedevo là con me, con estrema chiarezza, come se mi fossi davanti agli occhi, come se mi stessi guardando. E sapevo che volevo vivere, lo volevo più di ogni altra cosa. Se non altro, per poter rivedere il tuo viso un'altra volta. Clary avrebbe voluto muoversi, avvicinarsi a lui, toccarlo, ma non ci riusciva. Le braccia, lungo i fianchi, sembravano congelate. Il volto di Jace era vicino al suo, così vicino che Clary si vedeva riflessa nelle sue pupille. — E adesso ti sto guardando — le disse Jace. — E tu mi chiedi se ti voglio ancora, come se io potessi smettere di amarti. Come se potessi essere disposto ad abbandonare la cosa che più di ogni altra mi rende forte. Non ho mai osato dare tanto di me a nessuno, prima d'ora. Poche briciole ai Lightwood, a Isabelle e ad Alee, e mi ci sono voluti anni... Ma, Clary, dalla prima volta che ti ho vista, io ti sono appartenuto completamente. Ed è ancora così. Se tu mi vuoi. Per un altro mezzo secondo Clary rimase immobile. Poi lo afferrò per la giacca e lo attrasse a sé. E le braccia di Jace si chiusero intorno a lei, quasi sollevandola. E poi Jace la baciò... o lei baciò lui, non era ben sicura, ma non era importante. Le labbra di Jace sulle sue erano elettricità pura. La mani di Clary si aggrapparono alle sue braccia, stringendolo più forte a sé. Sentire il cuore di Jace battere attraverso la maglietta le diede uno stordimento di gioia. Il cuore di nessun altro batteva come quello di Jace e mai avrebbe potuto. Jace la lasciò andare e Clary si ritrovò senza fiato. Si era dimenticata di respirare. Lui le prese il volto tra le mani, tracciando con le dita la linea dei suoi zigomi. Ora c'era di nuovo la luce nei suoi occhi, vivida come era stata al lago, con in più un pizzico di malizia. — Ecco fatto — disse Jace. — Non è stato poi così male, no?, considerando che non era proibito... — Mi è capitato di peggio — rispose lei con una risata tremante. — Sai — le disse Jace, chinandosi a sfiorare le sue labbra con un bacio lieve — se è la mancanza del proibito che ti preoccupa, puoi sempre proibirmi di fare certe cose. — Che tipo di cose? Clary lo sentì sorridere sulle sue labbra. — Cose come questa. Qualche tempo dopo, scesero insieme la scalinata della Sala degli Accordi e tornarono nella piazza, dove la gente aveva iniziato a radunarsi in attesa dei fuochi d'artificio. Isabelle e gli altri avevano trovato un tavolo in un angolo e vi si erano assiepati, su panche e sedie. Quando Jace e Clary si avvicinarono al gruppo, Clary fece per sfilare la mano da quella di Jace... ma poi si fermò. Ora potevano tenersi per mano, se volevano. Non c'era niente di male. Il pensiero quasi le tolse il fiato. — Siete qui! — esclamò Isabelle danzando verso di loro con un'espressione deliziata. Allungò a Clary il bicchiere con una bevanda fucsia che teneva in mano. — Assaggiane un po'. Clary lo guardò con sospetto. — Mi trasformerà in un roditore? — Dov'è finita la tua fiducia? Credo che sia succo di fragola — disse Isabelle. — Comunque, è buonissimo. Jace? — Offrì il bicchiere anche a lui. — Io sono un maschio — le ricordò Jace. — E i maschi non bevono bibite rosa. Vattene, donna, e portami qualcosa di marrone. — Marrone? — Isabelle fece una smorfia. — Il marrone è un colore da uomini — dichiarò Jace, tirando un ricciolo dei capelli di Isabelle con la mano libera. — Infatti, guarda, lo sta indossando anche Alec. Alec si guardò la maglia con aria funerea. — Una volta era nera — rivelò. — Ma poi è sbiadita. — Potresti abbellirla con una bandana di lustrini — suggerì Magnus, offrendogli qualcosa di celeste e luccicante. — Era solo un'idea. — Resisti alla tentazione, Alec. — Simon era seduto su un muretto basso accanto a Maia, che però sembrava impegnatissima a parlare con Aline. — Sembrerai Olivia Newton John in Xanadu. — C'è di peggio — protestò Magnus. Simon scese dal muretto e si avvicinò a Clary e Jace. Con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, li osservò pensieroso per un lungo momento. Alla fine parlò. — Mi sembri felice — disse a Clary. Poi spostò lo sguardo su Jace. — E buon per te che lo sia. Jace inarcò un sopracciglio. — Adesso viene la parte in cui mi dici che se la faccio soffrire tu mi uccidi con le tue mani? — No — disse Simon. — Se fai soffrire Clary, è capacissima di ucciderti da sola. Se possibile con un'ampia varietà di armi. Jace sembrò compiaciuto all'idea. — Senti — gli disse Simon. — Volevo solo dirti che non c'è problema, se non ti sto simpatico. Mi basta che Clary sia felice e sarò contento anch'io. — Gli tese la mano e Jace sfilò la sua da quella di Clary e gliela strinse, con un'espressione divertita. — Tu non mi stai antipatico — gli disse. — Anzi, proprio perché mi stai simpatico, voglio darti qualche consiglio. — Qualche consiglio? — Simon lo guardò con sospetto. — Vedo che stai sfruttando con un certo successo questa storia del vampiro — gli disse Jace, indicando Isabelle e Maia con un cenno del capo. — E il tuo momento di gloria. Un sacco di ragazze vanno pazze per questa faccenda del non-morto dal cuore tenero. Ma se fossi in te, lascerei perdere l'altra storia del musicista. Il vampiro-rock è un'idea già sfruttata, e poi, non puoi essere un granché. Simon sospirò. — Immagino che tu non voglia contemplare la possibilità di rivalutare la parte che non ti stava simpatica. — Basta così, voi due — intervenne Clary. — Non potete scambiarvi scemenze per sempre, no? — Tecnicamente — disse Simon — io potrei. Jace emise una specie di grugnito poco elegante. Con un attimo di ritardo, Clary si rese conto che stava cercando di non ridere, riuscendoci solo a metà. Simon sorrise. — Ti ho beccato. — Ottimo — commentò Clary. — È un momento magnifico. — Si guardò intorno in cerca di Isabelle, che probabilmente sarebbe stata contenta almeno quanto lei che Simon e Jace andavano d'accordo, pur se in un modo tutto loro. Invece vide qualcun altro. Ai margini della foresta magica, dove le ombre si fondevano con la luce, c'era un'esile figura femminile con un abito verde foglia e i lunghi capelli scarlatti fissati da un diadema d'oro. La Regina del Popolo Fatato. Stava guardando proprio Clary e quando i loro sguardi s'incrociarono, la Regina sollevò un'esile mano e le fece un cenno.Vieni. Senza sapere se di propria volontà o per la strana attrazione che esercitava il Popolo Fatato, Clary biascicò una scusa, si allontanò dagli altri e si diresse verso il bosco, procedendo lentamente tra i festanti scatenati. Avvicinandosi alla Regina, notò la preponderanza di fate nei paraggi, che formavano un cerchio attorno alla loro Signora. Anche se voleva sembrare sola, la Regina non era venuta senza la sua corte. La Regina sollevò imperiosamente una mano. — Fermati lì — le ordinò. — Non ti avvicinare di più. Clary si fermò a qualche passo di distanza. — Mia signora — esordì, ricordando il tono formale con cui Jace le si era rivolto alla Corte Seelie. — Perché mi hai chiamato? — Vorrei un favore da te — annunciò la Regina senza tanti preamboli. — Che, naturalmente, sarà ricambiato. — Un favore da me? — ripetè Clary meravigliata. — Ma... se non ti sono nemmeno simpatica... La Regina si toccò le labbra, pensierosa, con un dito diafano. — Il Popolo Fatato, diversamente dagli umani, non si preoccupa troppo delle simpatie. Di amore, forse. E di odio. Entrambi sono sentimenti utili. Ma la simpatia... — Scrollò elegantemente le spalle. — Il Consiglio non ha ancora scelto chi di noi salirà al seggio che ci spetta — le disse. — So che Lucian Graymark è come un padre per te. E che darebbe ascolto alle tue richieste. Vorrei che tu gli chiedessi di scegliere il cavaliere Meliorn per questo incarico. Clary ripensò alla Sala degli Accordi, a Meliorn che diceva di non voler partecipare alla battaglia, a meno che non combattessero anche i Figli della Notte. — Non credo che a Luke stia molto simpatico. — E di nuovo — osservò la Regina — parli di simpatia. — Quando ti ho visto la prima volta, alla Corte Seelie — disse Clary — tu hai chiamato me e Jace fratello e sorella. Ma sapevi che non eravamo veramente fratelli, vero? La Regina sorrise. — Lo stesso sangue scorre nelle vostre vene — rispose. — Il sangue dell'Angelo. E tutti coloro che hanno nelle vene il sangue dell'Angelo sono fratelli e sorelle, nel profondo. Clary rabbrividì. — Avresti potuto dirci la verità. — Vi ho detto la verità come la vedevo io. Tutti diciamo la verità come la vediamo, no? Ti sei mai soffermata a pensare a quali non-verità ci potrebbero essere nella storia che tua madre ti ha raccontato, visto che il suo racconto era funzionale al suo scopo? Credi davvero di conoscere tutti i singoli segreti del tuo passato? Clary esitò. Senza sapere il perché, risentì all'improvviso la voce di madame Dorothea nella testa. Ti innamorerai della persona sbagliata, aveva detto a Jace. Clary era arrivata alla conclusione che Dorothea si riferisse a tutti i guai in cui si sarebbero cacciati a causa dell'affetto di Jace per lei. E tuttavia, c'erano dei buchi nella sua memoria, lo sapeva: anche adesso, c'erano fatti e cose che non le erano più tornati alla mente. Segreti le cui verità non avrebbe mai conosciuto. Ci aveva rinunciato, ritenendoli persi per sempre, o irrilevanti, ma forse... No. Strinse le mani lungo i fianchi. Il veleno della Regina era sottile ma potente. C'era qualcuno al mondo che poteva onestamente affermare di conoscere tutti i segreti che lo riguardavano? E non c'erano forse dei segreti che era meglio non svelare? Scosse la testa. — Ciò che tu hai fatto alla Corte Seelie... — Esitò. — Forse non hai mentito, ma non sei stata cortese. — Fece per andarsene. — E io ne ho avuto abbastanza, di scortesie. — Davvero rifiuteresti un favore dalla Regina della Corte Seelie? — le chiese la Regina. — Non a tutti i mortali viene data una simile opportunità. — Non ho bisogno di alcun favore da te — rispose Clary. — Ho tutto ciò che voglio. Girò le spalle alla Regina e se ne andò. Quando ritornò al gruppo che aveva lasciato, scoprì che si erano uniti a loro anche Robert e Maryse Lightwood, i quali, notò Clary con sorpresa, si stavano scambiando strette di mano con Magnus Bane. Magnus aveva nascosto la bandana di lustrini ed era un modello di decoro. Maryse teneva una mano sul braccio di Alee. Il resto dei loro amici erano seduti insieme sul muretto. Clary fece per unirsi a loro, quando si sentì battere sulla spalla. — Clary! — Era sua madre. Le sorrideva e... Luke era al suo fianco, mano nella mano. Jocelyn non si era vestita a festa: aveva addosso un paio di jeans e una maglietta larga, che per lo meno non era macchiata di colore. Ma dal modo in cui Luke la guardava, nessuno avrebbe potuto dire che fosse meno che perfetta. — Finalmente ti ho trovato. Clary sorrise a Luke. — Allora, non ti trasferisci più a Idris. Ho capito bene? — No — rispose Luke. Non l'aveva mai visto così felice. — Qui la pizza è terribile. Jocelyn rise e si allontanò per parlare con Amatis, che stava ammirando una bolla di vetro librata nell'aria, colma di fumo dai colori cangianti. Clary guardò Luke. — Avevi davvero pensato di lasciare New York, o l'hai detto solo per costringerla a darsi una mossa? — Clary — esclamò Luke. — Mi stupisce che tu possa pensare una cosa del genere! — Le fece un gran sorriso, poi tornò improvvisamente serio. — Per te va bene, vero? So che questo significa un grosso cambiamento, nella tua vita. Volevo capire se tu e tua madre vorreste trasferirvi da me, dato che il vostro appartamento al momento è inagibile... Clary sbuffò. — Un grosso cambiamento? La mia vita è già cambiata totalmente. Diverse volte. Luke guardò verso Jace che, seduto sul muretto, li stava osservando. Jace fece un cenno del capo verso di loro, con gli angoli della bocca piegati in su, in un sorriso divertito. — Credo proprio di sì — commentò Luke. — I cambiamenti sono una buona cosa — disse Clary. Luke sollevò la mano: la runa dell'alleanza era svanita, come per tutti gli altri, ma sulla pelle c'era ancora una bianca traccia rivelatrice, una cicatrice che non sarebbe mai totalmente scomparsa. Guardò pensoso la runa. — È vero. — Clary! — gridò Isabelle dal muretto. — I fuochi d'artificio! Clary diede un buffetto a Luke sulla spalla e corse dai suoi amici. Erano seduti tutti in fila sul muretto: Jace, Isabelle, Simon, Maia e Aline. Clary si fermò accanto a Jace. — Non vedo nessun fuoco d'artificio — disse, fingendosi arrabbiata con Isabelle. — Porta pazienza, cicala — le disse Maia. — Ricordati che le cose buone arrivano a chi le sa aspettare. — Ah, è questo il proverbio! E io che ho sempre creduto che fosse "Le buone cose arrivano a chi le sa mangiare!" — disse Simon. — Ecco perché sono sempre stato un po' confuso, nella vita. — Confuso è un eufemismo — commentò Jace, ma si vedeva che stava ascoltando solo a metà. Allungò un braccio e attrasse Clary a sé, quasi senza pensarci, come se fosse un riflesso condizionato. Lei gli si appoggiò alla spalla, guardando verso il cielo. Nulla lo illuminava, tranne le torri antidemoni, che rilucevano nel buio di un morbido bianco argenteo. — Dove sei stata? — le chiese sottovoce. — La Regina del Popolo Fatato mi ha chiesto un favore — disse Clary. — Ed era disposta a contraccambiarlo. — Percepì la tensione di Jace. — Rilassati. Le ho detto di no. — Non sono molte le persone che rifiuterebbero un favore della Regina del Popolo Fatato — osservò Jace. — Le ho detto che non mi serviva alcun favore — spiegò Clary. — Le ho detto che avevo già tutto quello che desideravo. Jace rise piano e scivolò con la mano lungo il braccio di Clary, verso la spalla; le sue dita giocherellarono pigramente con la catenina che Clary portava al collo. Lei abbassò gli occhi sul bagliore d'argento che risaltava sul suo vestito: portava l'anello dei Morgenstern, da quando Jace glielo aveva lasciato, e ogni tanto si era chiesta perché. Voleva davvero qualcosa che le ricordasse Valentine? E, d'altra parte, era giusto dimenticare? Non si poteva cancellare ogni cosa il cui ricordo provocasse dolore. Clary non voleva dimenticare Max o Madeleine, né Hodge o l'Inquisitrice. E nemmeno Sebastian. Ogni ricordo era prezioso, anche i brutti ricordi. Valentine aveva voluto dimenticare: dimenticare che il mondo doveva cambiare e che gli Shadowhunters dovevano cambiare con esso; dimenticare che i Nascosti avevano un'anima e che tutte le anime erano importanti nel tessuto del mondo. Valentine aveva voluto pensare soltanto a ciò che rendeva gli Shadowhunters diversi dai Nascosti. Ma ciò che aveva causato la sua rovina era che gli uni e gli altri erano uguali. — Clary. Guarda — disse Jace, interrompendo le sue fantasticherie. Le cinse le spalle con un braccio. E lei alzò la testa: la gente stava applaudendo alla vista del primo razzo che salì in cielo. Clary guardò i fuochi d'artificio che esplodevano in una pioggia di scintille. Cadendo, uno dopo l'altro, in scie di fuoco dorato, dipingevano di colori le nuvole, come angeli caduti dal cielo. RINGRAZIAMENTI Quando alla fine ci si guarda indietro, non si può evitare di pensare a che lavoro di gruppo sia un libro e a quanto velocemente tutto affonderebbe come il Titanic se mancasse l'aiuto degli amici. Perciò voglio ringraziare l'NB Team e i Massachusettes Ali Stars; Elka, Emily e Clio per le ore spese ad aiutarmi a progettare insieme; Holly Black per le ore passate a leggere e rileggere pazientemente le stesse scene. Grazie a Libba Bray per averci procurato bagel e un divano su cui scrivere, a Robin Wasserman per avermi distratto con Gossip Girl, a Maureen Johnson per avermi guardato in una maniera spaventosa mentre stavo provando a lavorare, a Justine Lar-balestier e Scott Westerfeld per avermi costretto ad alzarmi dal divano e andare da qualche parte a scrivere. Grazie anche a Ioana per avermi aiutato con il mio (inesistente) romeno. Non finirò mai di ringraziare il mio agente, Barry Goldblatt, il mio editor, Karen Wojtyla. Grazie alla squadra di Simon e Schuster e alla Walker Books per aver sostenuto questa serie, e a Sarah Payne per avere consentito cambiamenti molto oltre la deadline. E ovviamente grazie alla mia famiglia, mia madre, mio padre, Jim e Kate, il clan Eson e a Josh, certo, che crede ancora che Simon sia basato su di lui (e forse ha ragione).