A mia madre
Conto solo le ore serene.
Ogni riferimento a fatti storici, persone o luoghi reali è puramente funzionale alla vicenda narrata. Altri riferimenti a nomi,
personaggi, posti e avvenimenti sono il frutto della fantasia dell'autore e ogni somiglianza a eventi attuali o luoghi o a persone, vive o
morte, è assolutamente casuale.
www.ragazzi.mondadori.it
© 2009 Cassandra Clare LLC © 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l'edizione italiana
Titolo dell'opera originale The Mortai Instruments. City of Glass
Prima edizione agosto 2009
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-59307-2
Anno 2010 - Ristampa 3 4 5 6 7
Lungo è il cammino
e duro, che dall'inferno ci spinge alla luce.
(JOHN MILTON, Il paradiso perduto, Libro II, w. 432-33)
parte prima
LE SCINTILLE VOLANO IN ALTO
... è l'uomo che genera pene, come le
scintille volano in alto.
(GIOBBE, 5:7)
capitolo 1
IL PORTALE
L' ondata di freddo della settimana precedente era passata e il sole brillava allegramente mentre
Clary attraversava in fretta il giardino polveroso davanti alla casa di Luke, col cappuccio del
giubbotto tirato su per impedire al vento di soffiarle i capelli in faccia. Faceva caldo, ma il vento
che veniva dall'East River sapeva essere ancora feroce: portava con sé un lieve odore chimico,
mescolato a quello di Brooklyn di asfalto e benzina e a un sentore di zucchero bruciato che veniva
da una fabbrica abbandonata, in fondo alla via.
Simon l'aspettava sulla veranda, buttato su una poltrona sfondata. Aveva il Nintendo DS in bilico
sulle ginocchia fasciate dai jeans e con grande impegno lo stava tempestando di colpetti di stilo. —
Punto! — esclamò quando Clary salì i gradini. — Sto distruggendo Mario Kart.
Clary si abbassò il cappuccio, scrollò indietro i capelli e si frugò in tasca in cerca delle chiavi. —
Dov'eri finito? È tutta la mattina che ti chiamo.
Simon si alzò infilando il Nintendo nella borsa a tracolla. — Ero da Eric, per le prove con la band.
Clary smise di armeggiare con la chiave nella toppa (si incastrava sempre) per lanciargli un'occhiata
di traverso.
— Le prove con la band? Vuoi dire che sei ancora...
— Nella band? Perché non dovrei? — Si avvicinò. — Da' qua, faccio io.
Clary non si mosse, mentre Simon girava la chiave con quel tanto di pressione che serviva a far
scattare la vecchia serratura cocciuta. Le mani di Simon sfiorarono le sue: erano fresche, la pelle
aveva la temperatura dell'aria. Clary rabbrividì appena. Avevano chiuso il loro tentativo di relazione
romantica solo da una settimana, ma lei si sentiva ancora confusa, quando lo vedeva.
— Grazie. — Riprese le chiavi senza guardarlo.
Nel salotto faceva caldo. Clary appese il giubbotto a un gancio dell'ingresso e si diresse verso la
camera dove dormiva, seguita da Simon. Aggrottò la fronte: la sua valigia era aperta sul letto come
una conchiglia marina e c'erano vestiti e album da disegno sparsi ovunque.
— Ma non devi restare a Idris solo un paio di giorni? — le chiese Simon, contemplando il disastro
con un'aria di lieve sgomento.
— Infatti, ma non riesco a decidere che cosa mettere in valigia. Gonne e veri vestiti praticamente
non ne ho. E se non potrò mettermi i pantaloni?
— Perché mai? È un altro paese, non un altro secolo.
— Ma gli Shadowhunters sono così all'antica. E Isabelle mette sempre dei vestiti... — Clary
s'interruppe e sospirò.
— Lascia stare. Sto solo proiettando sul mio guardaroba tutta l'ansia che ho per mia mamma.
Parliamo d'altro. Come sono andate le prove? L'avete trovato, il nome della band?
— Le prove, bene. — Simon si sedette sulla scrivania con le gambe penzoloni. — Stiamo pensando
a un nuovo motto. Qualcosa di ironico tipo "Ve le abbiamo suonate e ve le suoneremo ancora".
— Hai detto a Eric e agli altri della band che...
— Che sono un vampiro? No. Non è il genere di cose che si buttano lì in una chiacchierata.
— Forse no, ma loro sono i tuoi amici. Dovrebbero saperlo. E poi, penseranno solo che ti faccia più
divo del rock, come quel vampiro Lester.
— Lestat — la corresse Simon. — Si chiama Vampire Lestat. Ma lui è finto. Comunque, non mi
pare di averti vista correre da tutti i tuoi amici a dire che sei una Cacciatrice, una Shadowhunter.
— Quali amici? Sei tu il mio unico amico. — Si buttò sul letto e guardò Simon. — E a te l'ho detto,
no?
— Perché non avevi scelta. — Simon la osservò piegando di lato la testa; la luce sul comodino
creava sui suoi occhi riflessi argentati. — Mi mancherai, quando sarai via.
— Anche tu — disse Clary. In realtà era tutta un formicolio di tensione e di aspettativa, e le era
difficile concentrarsi. Sto per andare a Idris!, cantava la sua mente. Vedrò la patria degli
Shadowhunters, la Città di Vetro. Salverò mia madre.
E sarò con face.
Gli occhi di Simon ebbero un guizzo, come se avesse sentito i suoi pensieri, ma il suo tono di voce
rimase dolce. — Spiegami di nuovo perché proprio tu devi andare a Idris. Perché non se ne possono
occupare Madeleine e Luke?
— L'incantesimo che ha ridotto mia mamma in quelle condizioni è stato fatto da uno stregone,
Ragnor Fell. Madeleine dice che dobbiamo ritrovarlo per farci dire come invertire l'incantesimo. Ma
Ragnor Fell non ha mai visto Madeleine. Però conosceva mia mamma e, secondo Madeleine, si
fiderà di me perché le assomiglio molto. E Luke non mi può accompagnare: potrebbe venire a Idris,
ma a quanto pare non può entrare ad Alicante senza il permesso del Conclave, che non glielo
concederebbe. Non dirgli niente, per favore, non è affatto contento di non poter venire con me. Se
non conoscesse Madeleine dubito che mi avrebbe lasciato partire.
— Ma ci saranno anche i Lightwood. E Jace. Ti aiuteranno loro. Jace ha detto che ti avrebbe aiutata,
no? Insomma, non gli dispiace che tu vada con loro, giusto?
— Certo che mi aiuterà — rispose Clary. — E non gli dispiace per niente. Per lui non c'è problema.
Ma questa, Clary lo sapeva bene, era una bugia.
Clary era andata dritta all'Istituto, dopo aver parlato con Madeleine all'ospedale. Jace era stato il
primo al quale aveva rivelato il segreto di sua madre, prima ancora che a Luke. Lui l'aveva
ascoltata, immobile, guardandola fisso e facendosi sempre più pallido: sembrava che Clary non gli
stesse dicendo come si poteva fare per salvare sua madre, ma gli stesse prosciugando il sangue nelle
vene con sadica lentezza.
— Tu non vai da nessuna parte — le disse alla fine. — A costo di legarti e restare seduto sopra di te
finché non ti sarà uscito questo grillo dalla testa, tu non andrai a Idris.
Fu come uno schiaffo. Clary pensava che Jace sarebbe stato contento. Aveva fatto tutta la strada
dall'ospedale all'Istituto di corsa, per dirglielo, e invece eccolo lì, in piedi sulla soglia, a fissarla
cupo con un'aria da funerale. — Voi però ci andate — aveva replicato lei.
— Sì, noi ci andiamo. Ci dobbiamo andare. Il Conclave ha richiamato a Idris tutti i suoi membri
attivi per tenere un Consiglio generale e decidere cosa fare con Valentine. E dato che noi siamo gli
ultimi ad averlo visto...
Clary liquidò il discorso con un gesto della mano.
— Quindi, se andate voi, perché non posso venirci anch'io?
Quella domanda così diretta sembrò irritarlo ancora di più. — Perché là non saresti al sicuro.
— Ah, qui invece sono al sicuro, vero? Ho rischiato di morire almeno una decina di volte,
nell'ultimo mese, e sempre qui, a New York.
— È perché Valentine si stava concentrando sui due Strumenti Mortali che erano qui. — Jace
parlava a denti stretti. — Ora sposterà la sua attenzione su Idris, lo sappiamo tutti...
— Non ne siamo sicuri per niente — intervenne Maryse Lightwood. Era rimasta nell'ombra del
corridoio, dietro la porta, non vista da nessuno dei due. Fece un passo avanti, entrando nella luce
dell'ingresso. La luce illuminò le rughe di stanchezza che le segnavano il viso. Suo marito Robert
era stato contaminato dal veleno di un demone, nella battaglia della settimana prima, e da allora
aveva avuto bisogno di assistenza continua. Clary poteva solo immaginare quanto Maryse potesse
essere stanca. — E il Conclave vuole incontrare Clarissa. Lo sai anche tu, Jace.
— Al diavolo il Conclave.
— Jace! — lo rimproverò Maryse in tono molto genitoriale, tanto per cambiare. — Modera il
linguaggio.
— Il Conclave vuole un sacco di cose — si corresse Jace.
— Non può averle tutte.
Maryse gli lanciò un'occhiata, come se sapesse esattamente di cosa stava parlando Jace e non
apprezzasse affatto.
— Il Conclave ha spesso ragione, Jace. È abbastanza normale che vogliano parlare con Clary, dopo
quello che ha passato. Quello che lei potrebbe dire...
— Gli dirò io tutto quello che vorranno sapere — la interruppe Jace.
Maryse sospirò e volse i suoi occhi azzurri a Clary. — Dunque tu vuoi venire a Idris, mi pare di
capire.
— Solo per un paio di giorni. Non vi creerò problemi — promise Clary con aria supplichevole,
ignorando lo sguardo incandescente di Jace. — Giuro.
— Il punto non è se ci creerai problemi o no ; il punto è se vorrai incontrare il Conclave. Loro
vogliono parlare con te, ma se tu rifiuterai, dubito che avremmo l'autorizzazione a portarti con noi.
— Non... — iniziò Jace
— Incontrerò il Conclave — accettò Clary, anche se la sola idea le fece correre un brivido freddo
lungo la schiena. Finora, l'unico emissario del Conclave che aveva conosciuto era l'Inquisitrice, e
non poteva certo dire che fosse stata una piacevole compagnia.
Maryse si sfregò le tempie con la punta delle dita. — Allora siamo a posto. — Lei, però, non
sembrava per niente a posto: la sua voce era fragile e tesa come una corda di violino. — Jace,
accompagna fuori Clary e poi vieni da me in biblioteca. Devo parlarti.
La donna sparì nell'ombra da cui era apparsa, senza nemmeno una parola di saluto. Clary la seguì
con lo sguardo, con l'impressione di aver preso una secchiata d'acqua gelata in faccia. Alec e
Isabelle erano sinceramente affezionati alla madre, e Clary sapeva che non era una cattiva persona,
ma non si poteva certo dire che fosse una donna affettuosa.
La bocca di Jace era una linea dura. — Ma tu guarda cos'hai combinato.
— Io devo andare a Idris, anche se tu non riesci a capire perché — replicò Clary. — Devo farlo per
mia madre.
— Maryse ha grande fiducia nel Conclave — commentò Jace. — Lei li crede perfetti, e io non
posso dirle che non è vero, perché... — Si interruppe di colpo.
— Perché è una cosa che direbbe Valentine.
Si aspettava un'esplosione di rabbia, invece Jace disse solo: — Nessuno è perfetto. — Pigiò con
l'indice il pulsante dell'ascensore. — Nemmeno il Conclave.
Clary incrociò le braccia al petto. — Allora è questo il vero motivo per cui non vuoi che venga con
voi? Perché non sarei al sicuro?
Un guizzo di sorpresa balenò sul viso di Jace. — In che senso? Quale altro motivo dovrei avere?
Clary mandò giù un nodo in gola. — Per esempio... — Per esempio, perché mi hai detto che non
provi più niente per me e, sai, è una cosa molto imbarazzante, perché io invece provo ancora
qualcosa per te. E scommetto che lo sai.
— Per esempio perché non voglio che la mia sorellina mi segua dappertutto? — C'era una nota
tagliente nella sua voce, mezza di scherno, mezza di qualcos'altro.
L'ascensore arrivò sferragliando. Clary spinse il cancelletto ed entrò, voltandosi a guardare Jace. —
Io non voglio andare a Idris perché ci sei tu. Voglio andarci per aiutare mia madre. Nostra madre.
Io devo aiutarla, capisci? Se non lo faccio, potrebbe non svegliarsi mai più. Potresti almeno fare
finta che ti importi qualcosa.
Jace le mise le mani sulle spalle. Le punte delle dita le sfiorarono la pelle nuda vicino al colletto,
provocandole inutili e irrefrenabili brividi in tutto il corpo. Jace aveva delle ombre scure sotto gli
occhi, notò Clary senza volerlo, e le guance scavate. La maglia nera che indossava metteva
in risalto le sue ciglia scure e la pelle chiara segnata dai lividi. Era uno studio sui contrasti, un
soggetto da dipingere in bianco, nero e grigio, con qualche spruzzo d'oro qua e là, per gli occhi, ad
esempio, per una traccia di...
— Lascialo fare a me. — La voce di Jace era morbida, incalzante. — Posso aiutarla io, al posto tuo.
Dimmi dove devo andare e a chi chiedere. Farò io quello che ti serve.
— Madeleine ha detto allo stregone che ci andrò io. Lui si aspetta la figlia di Jocelyn, non suo
figlio.
Le mani di Jace si strinsero sulle sue spalle. — Allora dille che c'è stato un cambio di programma.
Che ci vado io, non tu. Non tu.
— Jace...
— Farò qualsiasi cosa — insistette Jace. — Qualsiasi cosa vorrai, se mi prometti di restare qui.
— Non posso.
Jace la lasciò andare, come se Clary lo avesse spinto via. — E perché non puoi?
— Perché — rispose Clary — è mia madre, Jace.
— E anche la mia. — La sua voce era fredda. — Perché Madeleine non ci ha contattato tutt'e due?
Perché solo tu?
— Lo sai, il perché.
— Perché per lei — concluse Jace, con una voce ancora più fredda — tu sei la figlia di Jocelyn,
mentre io sarò sempre il figlio di Valentine.
Jace richiuse con forza la porta dell'ascensore. Per un momento Clary lo guardò da dietro la grata di
ferro, che gli ripartiva la faccia in rombi metallici. Da uno dei rombi, uno dei suoi occhi dorati la
fissava, acceso nel profondo da una rabbia furiosa.
— Jace... — iniziò Clary.
Ma con un sobbalzo e uno sferragliare di ingranaggi
l'ascensore si mise in moto, portandola giù, nel buio silenzio della cattedrale.
— Terra chiama Clary. — Simon le agitò le mani davanti agli occhi. — Sei sveglia?
— Sì, scusa. — Clary, seduta sul letto, raddrizzò la schiena e scrollò la testa per liberarla dalle
ragnatele. Era stata quella l'ultima volta in cui aveva visto Jace. Quando più tardi l'aveva chiamato
al telefono, lui non aveva risposto, e Clary aveva programmato il viaggio a Idris con i Lightwood
usando Alec, riluttante e imbarazzato, come figura di riferimento. Povero Alec, incastrato tra Jace e
sua madre, sempre a cercare di fare la cosa giusta. — Hai detto qualcosa?
— Solo che Luke dev'essere rientrato — disse Simon saltando giù dalla scrivania nel momento in
cui la porta della camera si apriva. — Infatti.
— Ciao, Simon. — La voce di Luke era calma, forse un po' stanca. Indossava un giubbotto di jeans
piuttosto liso, una camicia di flanella e un paio di vecchi pantaloni a coste che avevano visto tempi
migliori circa dieci anni prima. Aveva gli occhiali sulla testa, tra i capelli castani che avevano più
fili grigi di quanto Clary ricordasse. Aveva sotto il braccio una scatola quadrata, legata con un
nastro verde. La porse a Clary. — Ti ho preso qualcosa per il viaggio.
— Non dovevi! — protestò Clary. — Hai già fatto così tanto... — Ripensò ai vestiti che Luke le
aveva comprato, dopo che tutto quello che aveva era stato distrutto. Le aveva persino regalato un
telefonino nuovo e matite e colori per i suoi disegni, senza che ci fosse neanche bisogno di
chiederli. Ora, quasi tutto ciò che Clary possedeva era un dono di Luke. E non approvi per niente
quel che sto per fare. Quell'ultimo pensiero restò sospeso tra loro, inespresso.
— Lo so, ma l'ho visto e ho pensato a te. — Le porse la scatola.
L'oggetto che conteneva era avvolto in vari strati di carta velina. Clary la strappò e le sue mani si
chiusero su un tessuto morbido come il pelo di un gattino. Trasalì: era un cappottino di velluto verde
bottiglia, vecchio stile, con una fodera di seta dorata, i bottoni in ottone e un ampio cappuccio. Se
l'appoggiò sulle gambe, carezzando con delicatezza il tessuto soffice. — Sembra una cosa che
indosserebbe Isabelle — esclamò. — Un mantello da viaggio da vera Cacciatrice.
— Esattamente. Vestita così, sarai più simile a loro — le disse Luke. — Quando sarai a Idris.
Lei lo guardò. — E tu vuoi che somigli a loro?
— Clary, tu sei una di loro. — Il suo sorriso era venato di tristezza. — E poi, sai anche tu come
trattano i forestieri, da quelle parti. Qualsiasi cosa puoi fare per inserirti...
Simon fece uno strano verso e Clary lo guardò con aria colpevole: si era quasi dimenticata che fosse
lì. Simon guardò l'orologio. — Io devo andare.
— Ma sei appena arrivato! — protestò lei. — Pensavo di stare un po' insieme, guardare un film,
qualcosa...
— Devi fare le valigie. — Simon le sorrise, luminoso come il sole dopo un temporale. Si sarebbe
potuto credere che non avesse il minimo pensiero. — Passo a salutarti più tardi.
— Ma dai! — protestò Clary. — Resta...
— Non posso. — Il suo tono era categorico. — Mi vedo con Maia.
— Ah, fantastico — commentò Clary. Maia, si disse, era simpatica. Era intelligente. Era carina. Era
anche un lupo mannaro. Un lupo mannaro con una cotta per Simon. Ma forse era così che doveva
essere. Forse era giusto che la nuova amica di Simon fosse una Nascosta. Dopotutto anche lui,
adesso, era un Nascosto. In teoria, non avrebbe nemmeno potuto frequentare una Shadowhunter
come Clary. — Allora è meglio che tu vada.
— È meglio di sì. — Gli occhi scuri di Simon erano imperscrutabili, e questa era una novità: finora,
Clary era sempre stata capace di leggere i pensieri di Simon. Si chiese se fosse un effetto collaterale
del vampirismo o qualcosa di totalmente diverso. — Ciao — la salutò Simon. Si chinò come per
baciarla sulla guancia, spostandole i capelli con la mano, ma si fermò e si ritrasse, con
un'espressione incerta. Lei aggrottò la fronte, sorpresa, ma Simon se n'era già andato, passando
accanto a Luke, ancora fermo sulla porta. La porta d'ingresso sbatté in lontananza.
— Si comporta in modo così strano! — esclamò Clary stringendosi al petto il cappotto di velluto,
come a cercare rassicurazione. — Secondo te, è per questa faccenda del vampirismo?
— Non credo. — Luke sembrava leggermente divertito. — Diventare Nascosti non cambia ciò che
si prova per le cose o per le persone. Dagli tempo: hai appena rotto con lui.
— Non sono stata io. È stato lui a rompere con me.
— Perché tu non eri innamorata. È una situazione complicata, ma mi pare che Simon la stia
gestendo con molto tatto. Altri, alla sua età, metterebbero il broncio, o ti aspetterebbero per ore sotto
la finestra con uno stereo portatile.
— Luke, lo stereo portatile non ce l'ha più nessuno. Succedeva negli anni Ottanta. — Clary scese
dal letto e s'infilò il cappotto. Lo abbottonò fino al colletto, godendosi la morbida sensazione del
velluto. — Voglio solo che Simon torni alla normalità. — Si guardò allo specchio e fu
piacevolmente sorpresa dall'immagine riflessa: il verde le metteva in risalto i capelli rossi e le
illuminava gli occhi. Guardò Luke. — Che ne pensi?
Luke era appoggiato allo stipite della porta, con le mani in tasca. Un'ombra passò sul suo viso
mentre la guardava. — Tua madre aveva un cappotto così, quando aveva la tua età. — Non
aggiunse altro.
Clary chiuse le dita intorno ai polsini, affondandole nel velluto morbido. Sentirgli nominare sua
madre, con quella tristezza nella voce, le fece venir voglia di piangere. — Dopo andiamo da lei,
vero? — chiese. — Voglio salutarla, prima di partire, e voglio dirle... voglio dirle cos'ho intenzione
di fare. Voglio dirle che guarirà.
Luke annuì. — Sì, dopo andiamo in ospedale. E... Clary?
— Sì? — Non avrebbe voluto guardarlo in faccia ma, con suo grande sollievo, quando lo guardò
vide che la tristezza gli era sparita dagli occhi.
Luke sorrise. — La normalità non è poi questa gran cosa.
Simon guardò il foglietto che aveva in mano, poi la cattedrale, con gli occhi socchiusi per il sole del
pomeriggio. L'Istituto si stagliava contro un cielo azzurro e lontano, un blocco di granito traforato
da finestre a sesto acuto e circondato da un alto muro di cinta. Le facce grottesche dei gargoyle
ghignavano dai cornicioni, come a sfidarlo ad avvicinarsi. Non assomigliava per niente a come gli
era apparso la prima volta, dissimulato dietro l'illusorio aspetto di un rudere abbandonato. Con i
Nascosti, gli inganni ottici non funzionavano.
Tu qui non c'entri niente. Le parole erano dure, corrosive come l'acido; chissà se era la voce dei
gargoyle o della sua mente. Questa è una chiesa e tu sei un dannato.
— Basta — mormorò debolmente. — E poi, che m'importa delle chiese, io sono ebreo.
C'era un cancello di ferro battuto, incastonato nel muro di cinta. Simon appoggiò la mano al
saliscendi con una mezza idea che gli avrebbe bruciato la pelle, ma non successe niente. A quanto
pareva, il cancello in sé non era particolarmente sacro. Simon lo aprì ed entrò. Era quasi a metà del
vialetto di pietre crepate dal tempo che conduceva all'ingresso, quando poco lontano sentì delle voci
familiari.
Forse non proprio "poco lontano". Aveva quasi dimenticato quanto si era affinato il suo udito, come
la vista peraltro, da quando si era trasformato. Le voci sembravano vicine, ma seguendo il vialetto
che girava intorno all'Istituto vide che le persone erano a parecchia distanza, in fondo al prato. Qui
l'erba era incolta e invadeva i vialetti che si diramavano verso quelli che un tempo erano roseti
ordinatamente allineati. C'era persino una panchina di pietra, coperta da un intrico di erbacce.
L'Istituto era stato una vera chiesa, prima che gli Shadowhunters se ne impossessassero.
Vide subito Magnus, appoggiato a un muscoso muretto di pietra. Era difficile non vedere Magnus:
aveva una maglietta bianca decorata a schizzi di colore e pantaloni arcobaleno di pelle. Risaltava
come un'orchidea di serra fra gli Shadowhunters tutti in nero: Alec, pallido e visibilmente a disagio,
Isabelle, coi lunghi capelli neri raccolti in trecce fissate da nastrini argentati, e, accanto a lei, un
ragazzino che doveva essere Max, il fratello più piccolo. Poco lontano c'era la loro madre, Maryse,
una versione poco più alta e più ossuta della figlia, con gli stessi capelli neri. Con lei c'era una
donna che Simon non conosceva. In un primo momento pensò che fosse una vecchia, perché aveva i
capelli quasi bianchi, ma quando si voltò a parlare con Maryse vide che, probabilmente, non
arrivava ai quarant'anni.
E poi c'era Jace, un po' in disparte, come se non facesse parte del gruppo. Era in tenuta nera da
Cacciatore, come gli altri. Quando Simon si vestiva di nero, sembrava pronto per un funerale. Jace,
invece, sembrava più duro, più pericoloso. E più biondo. Simon sentì subito la tensione accumularsi
nelle spalle e si domandò se mai qualcosa - il tempo o l'oblio - avrebbe potuto diluire il risentimento
che nutriva nei suoi confronti e che avrebbe preferito non provare. Ma quel rancore c'era: un
macigno che gli pesava sul cuore che non batteva più.
C'era qualcosa di strano, in quel gruppo di persone. Proprio allora Jace si voltò verso di lui, come se
avesse percepito la sua presenza. Anche a quella distanza, Simon vide la sottile cicatrice bianca
sulla sua gola, sopra il colletto. Il risentimento sfumò in qualcosa di diverso. Jace gli fece un lieve
cenno con il capo. — Torno subito — disse a Maryse con un tono di voce che Simon non avrebbe
mai usato con sua madre, da adulto ad adulto.
Maryse acconsentì con un gesto distratto. — Non capisco perché ci voglia tanto tempo — stava
dicendo a Magnus. — È normale?
— Quello che non è normale è lo sconto che vi sto facendo. — Magnus batté il tacco dello stivale
contro il muro. — Di solito mi faccio pagare il doppio.
— È solo un portale temporaneo. Deve portarci solo fino a Idris. Poi dovrai richiuderlo. I patti sono
questi. — Si rivolse alla donna al suo fianco. — Tu resterai qui a controllare che lo faccia,
Madeleine.
Madeleine. Allora era lei, l'amica di Jocelyn. Ma non c'era tempo di stare a guardare. Jace l'aveva
preso per un braccio e lo stava trascinando dietro l'angolo della chiesa, dove gli altri non potevano
vederli. Lì le erbacce erano ancor più alte e rigogliose e il sentiero era invaso dai rovi. Jace lo spinse
dietro una grande quercia e finalmente mollò la presa, lanciando intorno occhiate sospettose, come a
controllare che nessuno li avesse seguiti. — Okay, qui possiamo parlare.
Sicuramente era un angolo tranquillo: il rumore del traffico della York Avenue era attutito dalla
mole dell'Istituto. — Sei tu che mi hai chiesto di venire — precisò Simon. — Ho trovato il tuo
messaggio sotto la finestra, stamattina, quando mi sono svegliato. Ma tu non usi mai il telefono
come la gente normale?
— Non se posso evitarlo, vampiro — rispose Jace. Studiava con aria assorta il volto di Simon, come
se stesse leggendo le pagine di un libro. La sua espressione racchiudeva due emozioni contrastanti:
un lieve stupore e quello che a Simon sembrò disappunto. — Allora è vero, tu puoi stare alla luce
del sole. Nemmeno a mezzogiorno ti scotti la pelle.
— Esatto — disse Simon. — Del resto lo sapevi, no? C'eri anche tu. — Non ci fu bisogno di
precisare dove: lesse nel viso di Jace il ricordo del fiume, il pianale del pick-up, il sole che sorgeva
sull'acqua, Clary che gridava. Un ricordo nitido e preciso, come per Simon.
— Pensavo che fosse una cosa temporanea — disse Jace senza convinzione.
— Se sento che sto per andare a fuoco, ti avverto. — Simon non aveva mai molta pazienza con
Jace. — Senti, mi hai chiesto di venire fin qui solo per osservarmi come un microbo su un vetrino
da laboratorio? La prossima volta ti mando una foto.
— E io la metto in cornice e me la tengo sul comodino — replicò Jace, ma il suo sarcasmo non
veniva dal cuore. — Ti ho fatto venire qui per una ragione. Anche se mi scoccia doverlo ammettere,
vampiro, noi due abbiamo qualcosa in comune.
— Capelli strabilianti? — suggerì Simon, ma anche lui non ci stava mettendo il cuore. Qualcosa
nell'espressione di Jace lo stava mettendo a disagio.
— Clary — rispose Jace.
Simon fu colto alla sprovvista. — Clary?
— Clary — ripetè Jace. — Hai presente? Piccolina, rossa, brutto carattere.
— Non capisco come Clary possa essere qualcosa che abbiamo in comune — replicò Simon, pur
capendolo benissimo. Non era una conversazione che desiderava fare con Jace, né ora né mai. Non
c'era forse un codice virile non scritto che impediva discussioni del genere? Discussioni
sui sentimenti?
Evidentemente no. — Tutti e due ci teniamo a lei — dichiarò Jace, dandogli un'occhiata misurata.
— Clary è importante sia per me sia per te. Giusto?
— Tu mi stai chiedendo se ci tengo a Clary? — "Tenerci" era una parola piuttosto inadeguata. Si
chiese se Jace si stesse prendendo gioco di lui, il che sarebbe stato insolitamente crudele, persino
per Jace. Possibile che l'avesse fatto venire fin lì solo per prenderlo in giro perché con Clary non
aveva funzionato, romanticamente parlando? Ad ogni modo Simon coltivava ancora la speranza,
una minima speranza, che le cose potessero cambiare, che Jace e Clary cominciassero a provare
l'uno per l'altra sentimenti più simili a quelli che solitamente esistono tra fratello e sorella...
Incrociò lo sguardo intenso di Jace e sentì avvizzire anche quella piccola speranza. La sua
espressione non era quella che hanno i fratelli quando parlano delle proprie sorelle. D'altro parte,
era evidente che Jace non l'aveva fatto venire fin lì per prenderlo in giro: la pena che Simon sapeva
di avere scritta in faccia a chiare lettere si rispecchiava identica negli occhi di Jace.
— Non credere che mi piaccia farti domande del genere
— scattò Jace. — Ma devo sapere che cosa saresti disposto a fare per Clary. Mentiresti per lei?
— Mentire su cosa? Ma che diavolo sta succedendo? — Solo in quel momento Simon mise a fuoco
la stranezza che aveva colto in quella riunione familiare nel prato. — Aspetta un secondo! —
esclamò. — Voi state partendo per Idris adesso? Clary è convinta che partirete stasera.
— Lo so — disse Jace. — E tu devi dire agli altri che ti manda Clary, per avvisare che lei non
viene, che non vuole più andare a Idris. — C'era una sfumatura, nella voce di Jace, che Simon faticò
a riconoscere, qualcosa di così imprevedibile, da parte sua, che era difficile da elaborare: Jace lo
stava pregando. — A te crederanno. Tutti sanno quanto... quanto siete legati voi due.
Simon scosse la testa. — Non ci posso credere. Ti comporti come se volessi farmi fare qualcosa per
Clary, mentre in realtà vuoi solo farmi fare qualcosa per te. — Fece per andarsene. — Non se ne
parla nemmeno.
Jace lo afferrò per un braccio e lo fece girare verso di sé.
— Lo sto facendo per Clary. Sto solo cercando di proteggerla. E pensavo che tu potessi aiutarmi.
Simon guardò con intenzione la mano di Jace che gli stringeva il braccio. — Come posso
proteggerla, se non mi dici da cosa?
Jace non mollò la presa. — Non puoi semplicemente fidarti di me?
— Tu non capisci quanto Clary ci tenga ad andare a Idris — replicò Simon. — Se devo
impedirglielo, sarà meglio che mi trovi una buona ragione.
Jace espirò lentamente, con riluttanza, e mollò la presa sul braccio di Simon. — Quello che Clary ha
fatto sulla nave di Valentine — disse a voce bassa — con quella runa, la runa di apertura... Be', hai
visto anche tu cosa è successo.
— Ha distrutto la nave — concluse Simon. — Ha salvato la vita a tutti.
— Abbassa la voce. — Jace si guardò intorno ansiosamente.
— Non vorrai dirmi che nessun altro lo sa? — esclamò Simon, incredulo.
— Lo so io. Lo sai tu. Lo sa Luke e lo sa Magnus. Nessun altro.
— E che cosa pensano che sia successo? Che la nave sia spontaneamente andata in pezzi al
momento giusto?
— Agli altri ho detto che il Rituale della Trasformazione di Valentine aveva funzionato male.
— Tu hai mentito al Conclave? — Simon non sapeva bene se esserne colpito o sgomento.
— Sì, ho mentito al Conclave. Isabelle e Alec sanno che Clary ha una certa abilità nel creare nuove
rune, perciò dubito di poterlo nascondere al Conclave o al nuovo Inquisitore. Ma se il Conclave
scoprisse ciò che Clary sa fare veramente, se scoprisse che sa potenziare delle rune comuni e dotarle
di un'incredibile forza distruttiva, la vorrebbe nel suo esercito, la vorrebbe come sua arma. E Clary
non è pronta per questo. Non è stata addestrata per questo... — S'interruppe, vedendo Simon
scuotere la testa. — Cosa...
— Tu sei un Nephilim — disse Simon lentamente. — Tu dovresti volere ciò che è meglio per il
Conclave, giusto? E se questo significa usare Clary...
— Simon, vuoi davvero consegnarla al Conclave? Vuoi davvero metterla in prima linea contro
Valentine e l'esercito di demoni che sta creando?
— No — disse Simon. — No di certo. Ma io non sono uno di voi. Io non devo chiedermi chi viene
prima, se Clary o la mia famiglia.
Jace si coprì lentamente di un rossore intenso. — Non è così. Se fossi certo che Clary potrebbe
aiutare il Conclave... ma non può. Si farà solo del male...
— Ma anche se ne fossi certo — commentò Simon — tu non permetteresti al Conclave di averla per
sé.
— Cosa te lo fa pensare, vampiro?
— Perché nessuno può averla, tranne te — rispose Simon.
La faccia di Jace perse ogni traccia di colore. — Quindi, non vuoi aiutarmi — concluse, incredulo.
— Non vuoi aiutare Clary.
Simon esitò, ma prima che potesse replicare un rumore spezzò il silenzio: un grido acuto, straziante,
terribile nella sua disperazione, reso ancor più spaventoso dal modo secco e improvviso con cui
s'interruppe. Jace si voltò di scatto. — Che cos'è?
Altre urla si levarono, insieme a un forte clangore che ferì l'udito di Simon. — È successo
qualcosa... gli altri...
Jace era già lontano, correva sul sentiero zigzagando tra le erbacce. Dopo un attimo di esitazione,
Simon lo seguì. Aveva dimenticato quanto era diventato veloce nella corsa: lo raggiunse in un
attimo e insieme svoltarono l'angolo della chiesa, precipitandosi nel prato.
Davanti a loro c'era il caos. Una fitta foschia bianca copriva il prato e l'aria aveva un odore greve:
quello pungente dell'ozono misto a un altro odore, sgradevole e dolciastro. Sagome scure
sfrecciavano nella nebbia: Simon le vedeva a tratti, mentre sparivano e riapparivano tra gli spiragli
della nebbia. Intravide Isabelle schioccare la frusta con le trecce che le volavano intorno al viso. La
frusta disegnò un lampo dorato, uno squarcio letale tra la foschia. Stava cercando di arrestare
l'avanzata di qualcosa di enorme e incombente: un demone, pensò Simon. Ma erano in pieno
giorno! Era impossibile! Avvicinandosi, vide che la creatura era umanoide nella forma, ma
ingobbita e contorta, in qualche modo sbagliata. Brandiva un'asse di legno e tirava colpi contro
Isabelle quasi alla cieca.
Poco più in là, oltre un varco nel muro di pietra, il traffico della York Avenue scorreva
placidamente. Al di là dei confini dell'Istituto, il cielo era limpido.
— Dimenticati — sussurrò Jace con il volto acceso, estraendo dalla cintura una spada angelica. —
A decine. — Spinse da parte Simon quasi con durezza. — Resta qui, capito? Resta qui.
Simon era come paralizzato. Jace si slanciò nella nebbia. La luce della spada che brandiva
illuminava d'argento la foschia in cui correvano sagome scure. Simon, cui sembrava di guardare
attraverso un vetro coperto da uno strato di ghiaccio, cercava disperatamente di capire che cosa
stesse succedendo dall'altra parte. Isabelle era svanita. Alec con un braccio sanguinante colpì al
petto un guerriero Dimenticato e lo guardò accartocciarsi a terra. Un altro si stagliò alle sue spalle,
pronto all'attacco, ma ecco che Jace, con una spada in ciascuna mano, fece un balzo, sollevò le due
spade e le calò con un brutale movimento a forbice. La testa del Dimenticato rotolò giù dal collo,
schizzando sangue nero. Lo stomaco di Simon si contorse: il sangue aveva un odore amaro,
venefico.
Sentiva gli Shadowhunters chiamarsi tra loro nella foschia, mentre i Dimenticati agivano in assoluto
silenzio. Di colpo la nebbia si diradò e Simon vide Magnus appiattito contro il muro dell'Istituto col
panico negli occhi. Aveva le mani alzate e sui palmi sprizzavano lampi azzurri. Nella pietra del
muro si aprì uno squarcio quadrato, nero, che non era esattamente vuoto e neppure nero: brillava
come uno specchio in cui fossero intrappolate delle spire di fuoco. — Il Portale! — stava gridando.
— Passate dal Portale!
Molte cose accaddero simultaneamente. Maryse Lightwood si materializzò nella nebbia, con il
piccolo Max in braccio. Si fermò, si girò per gridare qualcosa, poi corse verso il Portale e lo
attraversò, svanendo nel muro. Alec la seguì, trascinando Isabelle con sé, la frusta insanguinata
serpeggiante sull'erba. Mentre correvano verso il Portale, qualcosa si stagliò nella nebbia alle loro
spalle: era un Dimenticato, armato di un coltello a due lame.
Simon ritrovò la forza di agire. Scattò in avanti, gridando il nome di Isabelle, ma inciampò e cadde,
piombando a terra con una violenza da togliere il respiro, se avesse avuto respiro. Si mise a sedere,
girandosi per vedere su che cos'era inciampato.
Era un corpo. Il corpo di una donna, la gola tagliata, gli occhi sbarrati e cerulei della morte. Il
sangue le macchiava i capelli bianchi. Madeleine.
-Simon, muoviti! — Era Jace. Gridava. Simon si girò e lo vide correre verso di lui nella nebbia, le
spade angeliche insanguinate tra le mani. Poi alzò gli occhi. Il guerriero Dimenticato che un attimo
prima inseguiva Isabelle ora incombeva su di lui, con la faccia sfregiata distorta in un ghigno fisso.
Simon si buttò di lato, mentre il coltello a due lame calava su di lui. Nonostante i riflessi potenziati
da vampiro, non fu abbastanza rapido. Un dolore straziante gli esplose dentro e tutto divenne nero.
capitolo 2
LE TORRI ANTIDEMONI DI ALICANTE
Non c'era magia che potesse creare altri parcheggi nelle strade di New York, pensava Clary mentre
per la terza volta faceva con Luke il giro dell'isolato. Non c'era un buco dove lasciare il pick-up e in
almeno metà della strada le auto erano in doppia fila. Alla fine Luke si fermò davanti a un idrante e
mise in folle con un sospiro. — Va' avanti tu — le disse. — Digli che sei arrivata. Ti porto io la
valigia.
Clary annuì, ma esitò prima di aprire la portiera. L'ansia le chiudeva lo stomaco,- desiderò, anche
questa volta, che Luke andasse con lei. — Ho sempre pensato che, per andare la prima volta
oltreoceano, avrei avuto bisogno di un passaporto.
Luke non sorrise. — So che sei nervosa — le disse. — Ma andrà tutto bene. I Lightwood avranno
cura di te.
Te l'ho detto soltanto un milione di volte, pensò Clary. Diede un buffetto alla spalla di Luke e saltò
giù dal pick-up. — Ci vediamo dopo.
Si avviò lungo il vialetto di pietre crepate dal tempo. Man mano che si avvicinava alle porte della
chiesa, si affievolivano i rumori del traffico. Le ci vollero diversi secondi, stavolta, per spogliare
l'Istituto dall'illusione ottica che lo nascondeva. Era come se un ulteriore strato di protezione fosse
stato aggiunto alla vecchia cattedrale, come un nuovo strato di pittura. Grattarlo via con la mente fu
duro, quasi doloroso. Finalmente sparì e Clary riuscì a vedere la chiesa com'era in realtà. Le alte
porte di legno brillavano come lucidate di fresco.
C'era uno strano odore nell'aria, come di bruciato e di ozono. Aggrottando la fronte, Clary chiuse la
mano intorno alla maniglia. Il mio nome è Clary Morgenstern, sono una Nephilim e chiedo accesso
all'Istituto.
Le porte si spalancarono e Clary entrò. Si guardò intorno, battendo le palpebre: c'era qualcosa di
diverso, all'interno della cattedrale, ma non riusciva a capire cosa.
Lo capì nel momento in cui le porte si richiusero alle sue spalle, intrappolandola in una nera
oscurità attenuata soltanto dalla flebile luce dell'alto rosone. Non era mai entrata nell'Istituto senza
trovare decine di fiammelle accese negli elaborati candelabri che fiancheggiavano la navata, tra i
banchi.
Sfilò di tasca la stregaluce e la sollevò. Dalla pietra runica tra le sue dita si irradiarono brillanti
raggi luminosi. Clary si avvicinò all'ascensore vicino all'altare spoglio, illuminando gli angoli
polverosi della navata.
Premette con impazienza il pulsante di chiamata. Non successe nulla. Dopo mezzo minuto lo
premette ancora, e poi ancora. Appoggiò l'orecchio all'ascensore e ascoltò. Non un suono. L'Istituto
era buio e muto come una bambola meccanica senza più carica.
Col cuore che batteva forte, Clary corse a ritroso lungo la navata e spalancò i pesanti battenti. Si
fermò sui gradini esterni, guardandosi freneticamente intorno. Sopra di lei, il cielo stava diventando
color cobalto e l'odore di bruciato impregnava l'aria più di prima. C'era stato un incendio? Gli
Shadowhunters avevano abbandonato l'Istituto? Eppure sembrava che non ci fosse nulla di
danneggiato.
— Non è stato un incendio. — La voce era morbida, vellutata, familiare. Una sagoma alta si
materializzò dall'ombra, i capelli irti in una corona di punte disordinate. Aveva un completo in seta
nera, con una luccicante camicia verde smeraldo e anelli dalle gemme sfavillanti alle dita sottili.
Oltre agli stravaganti stivali e una generosa quantità di glitter.
— Magnus? — sussurrò Clary.
— So cosa stai pensando — disse Magnus. — Ma non c'è stato alcun incendio. Questa è puzza di
nebbia infernale. È una specie di fumo magico demoniaco che muta gli effetti di certi tipi di magia.
— Nebbia demoniaca? Allora c'è stato...
— Un attacco contro l'Istituto. Sì. Nel primo pomeriggio. Dimenticati... Probabilmente qualche
decina.
— Jace — sussurrò Clary. — I Lightwood...
— Il fumo infernale ha mutato la mia capacità di combattere efficacemente contro i Dimenticati. E
anche quella dei Lightwood. Ho dovuto spedirli tutti a Idris, attraverso il Portale.
— Ma stanno tutti bene?
— Madeleine — rivelò Magnus. — Madeleine è stata uccisa. Mi dispiace, Clary.
Clary si lasciò cadere sui gradini. Non conosceva bene Madeleine, ma quella donna era un tenue
legame con sua madre, con la sua vera madre, la Cacciatrice dura e combattiva che Clary non aveva
mai conosciuto.
— Clary? — Luke stava arrivando dal sentiero nel buio che si infittiva, con la valigia di Clary. —
Che sta succedendo?
Clary rimase seduta abbracciandosi le ginocchia, mentre Magnus gli spiegava tutto. Sotto il dolore
per Madeleine, Clary sentiva un senso di colpevole sollievo. Jace stava bene. I Lightwood stavano
bene. Se lo ripeteva tra sé, in silenzio: Jace stava bene.
— I Dimenticati — disse Luke. — Sono stati uccisi tutti?
— Non tutti. — Magnus scosse la testa. — Quando ho fatto sparire i Lightwood, i Dimenticati si
sono dispersi: non erano molto interessati a me. E quando ho chiuso il Portale, erano già tutti spariti.
Clary sollevò la testa. — Il Portale è chiuso? Ma... tu puoi ancora mandarmi a Idris, giusto? — gli
chiese. — Cioè, posso ancora attraversare il Portale e raggiungere i Lightwood?
Luke e Magnus si scambiarono un'occhiata. Luke posò a terra la valigia.
— Magnus? — la voce di Clary era alta e suonò stridula alle sue stesse orecchie. — Io devo andare.
— Il Portale è chiuso, Clary...
— Allora aprine un altro!
— Non è così facile — replicò lo stregone. — Il Conclave sorveglia accuratamente qualsiasi
ingresso magico ad Alicante. La capitale è un luogo sacro, per loro. È una specie di Vaticano, o di
Città Proibita. Nessun Nascosto può entrare senza il loro permesso, e nessun mondano.
— Ma io sono una Cacciatrice!
— Appena appena — replicò Magnus. — E poi le torri impediscono di aprire Portali diretti sulla
città. Per aprire un Portale vicino ad Alicante dovrei avere qualcuno che ti aspetta dall'altra parte. Se
cercassi di mandarti di là per conto mio, sarebbe un'aperta violazione della Legge, e io non ho
nessuna intenzione di rischiare tanto per te, biscottino, per quanto tu mi possa essere personalmente
simpatica.
Clary spostò lo sguardo dalla faccia desolata di Magnus a quella tesa di Luke. — Ma io devo
assolutamente arrivare a Idris — ripetè. — Devo aiutare mia madre. Ci dev'essere un altro sistema
per andarci, anche senza il Portale.
— L'aeroporto più vicino è in un altro Stato — disse Luke. — E se riuscissimo a passare la
frontiera, ed è un grosso "se", resterebbe da fare un viaggio via terra lungo e pericoloso attraverso i
territori di ogni sorta di Nascosti. Potremmo impiegarci giorni, per arrivare.
A Clary bruciavano gli occhi. Non voglio piangere, si disse. Non voglio.
— Clary. — La voce di Luke era dolce. — Ci metteremo in contatto con i Lightwood. Ci
assicureremo che trovino tutte le informazioni che servono per procurare l'antidoto a Jocelyn.
Possono mettersi loro in contatto con Fell...
Ma Clary scuoteva la testa. — Devo essere io — replicò. — Madeleine ha detto che Fell non
avrebbe parlato con nessun altro.
— Fell? Ragnor Fell? — fece eco Magnus. — Posso provare io a fargli arrivare un messaggio.
Dirgli di aspettare Jace.
Un po' di preoccupazione si dissolse dal viso di Luke. — Clary, hai sentito? Con l'aiuto di Magnus...
Ma Clary non voleva sentire niente. Non voleva proprio saperne. Si era convinta di poter salvare
sua madre e invece non poteva fare altro che starsene seduta accanto al suo letto d'ospedale, tenerle
la mano inanimata e sperare che qualcun altro, da qualche parte, riuscisse a fare quello che lei non
poteva più fare.
Scese di corsa i gradini, spingendo via Luke quando cercò di fermarla. — Ho bisogno di stare da
sola per un po'.
— Clary... — Sentì Luke che la chiamava, ma scappò via, correndo dietro l'angolo della cattedrale.
Seguì il sentiero di pietra fino al bivio e prese il viottolo che portava al giardinetto, sul lato orientale
dell'Istituto, verso l'odore di bruciato e di cenere, e l'altro odore sottostante, denso e pungente:
l'odore della magia demoniaca. C'era ancora foschia nel prato, brandelli di nebbia come batuffoli di
nuvole rimasti impigliati qua e là, tra le spine di un roseto o sotto un sasso. Clary vide il luogo della
battaglia, con la terra smossa,- vide una macchia rosso scuro, vicino a una delle panche di pietra, ma
non volle soffermare lo sguardo.
Clary girò la testa. E si fermò. Là, contro il muro della cattedrale, c'erano gli inconfondibili segni
della magia runica: brillavano azzurri sulla pietra grigia, incandescenti e già sbiaditi. Formavano
una sagoma squadrata, come un profilo di luce intorno a una porta socchiusa...
Il Portale.
Qualcosa dentro di lei sembrò contorcersi. Ricordò altri simboli, che brillavano pericolosamente sul
liscio scafo di una nave. Ricordò le vibrazioni della nave che si spaccava, le acque nere dell'East
River che la inondavano. Sono solo rune, pensò. Simboli. Posso disegnarli anch'io. Se mia madre
sa intrappolare l'essenza della Coppa Mortale in un pezzo di carta, allora anch'io posso creare un
Portale.
I suoi piedi la portarono davanti al muro della cattedrale, la sua mano cercò in tasca lo stilo.
Imponendosi di non tremare, Clary avvicinò lo stilo alla pietra.
Chiuse gli occhi e, nel buio sotto le palpebre, cominciò a disegnare con la mente ricurve linee di
luce. Linee che le parlavano di soglie, dell'essere portata dall'aria mulinante, di viaggio, di luoghi
lontani. L'insieme delle linee formò una runa, aggraziata come un volo d'uccello. Clary non sapeva
se quella runa esistesse già o se l'avesse inventata lei, ma ora esisteva, ed era come se fosse sempre
esistita.
Portale.
Cominciò a disegnare, e i segni balzavano via dallo stilo in linee nere di carbone. La pietra
sfrigolava, riempiendole il naso di un odore acre di bruciato. Una luce azzurra e incandescente
crebbe sotto le palpebre chiuse. Sentì calore sulla faccia, come se si trovasse davanti a un falò.
Trattenendo il fiato, abbassò la mano e aprì gli occhi.
La runa che aveva disegnato era un fiore scuro che si apriva sul muro di pietra. Sotto i suoi occhi, le
linee della runa sembrarono fondersi e mutare, scorrere dolcemente verso il basso, srotolarsi,
trovare una nuova forma. In pochi istanti, la forma della runa era cambiata: adesso era il profilo di
una porta luminosa, molto più alta di lei.
Clary non riusciva a staccare lo sguardo da quella porta. Brillava della stessa luce tenebrosa che
aveva il Portale dietro la tenda di madame Dorothea. Allungò la mano...
E si ritrasse. Per usare un Portale, ricordò con sgomento, bisognava visualizzare con la mente la
propria destinazione, il luogo dove si voleva arrivare. Ma lei non era mai stata a Idris. Le era stato
descritto, naturalmente. Un luogo di verdi vallate, di boschi cupi e acque luminose, di laghi e monti;
e poi Alicante, la città dalle torri di vetro. Se l'immaginava, ma l'immaginazione non bastava, non
con questa magia. Se solo...
Clary trasalì. Lei aveva visto Idris. L'aveva vista in un sogno e sapeva, in qualche modo, che quel
sogno era reale. Infatti, cosa le aveva detto Jace, nel sogno, parlando di Simon? Che Simon non ci
poteva restare, perché «questo posto è per i vivi». E poco tempo dopo, Simon era morto...
Rituffò la memoria in quel sogno. Lei ballava in una grande sala ad Alicante. Le pareti erano
bianche e oro, e sopra di loro il tetto era trasparente come un diamante. C'era una fontana al centro,
una vasca d'argento con la statua di una sirena. E dalle finestre si vedevano delle luci appese agli
alberi. E Clary era vestita di verde, proprio come adesso.
Come se fosse ancora nel sogno, protese una mano verso il Portale. Una luce intensa brillò al tocco
delle sue dita, un varco che si apriva su un luogo illuminato. I suoi occhi si fissarono su un vortice
mulinante e dorato che lentamente iniziò ad addensarsi in forme riconoscibili. Le parve di vedere un
profilo di montagne, un pezzo di cielo...
— Clary! — Era Luke, che arrivava di corsa dal sentiero. La sua faccia era una maschera di furia e
di sgomento. Alle sue spalle veniva Magnus, con gli occhi da gatto che brillavano metallici alla luce
incandescente del Portale che inondava il giardino. — Clary, fermati! Le difese della città sono
pericolose! Ti farai ammazzare!
Ma nulla ormai poteva fermarla. Oltre il Portale, la luce dorata si faceva più intensa. Clary pensava
alle pareti dorate della sala del sogno, alla luce dorata che si rifrangeva ovunque dai vetri intagliati.
Luke si sbagliava: non capiva il suo dono, né come funzionava... Che cosa contavano le misure di
difesa, quando lei si poteva creare una realtà su misura semplicemente disegnandola? — Devo
andare — gridò facendo un passo avanti e protendendo le mani. — Luke, mi dispiace.
Fece un altro passo avanti... e con un ultimo, rapido balzo, Luke fu al suo fianco e l'afferrò per il
polso, proprio quando il Portale parve esplodere intorno a loro. Come un tornado che strappa un
albero dalle radici, la forza li sollevò entrambi da terra. Clary colse un'ultima immagine delle auto e
dei palazzi di Manhattan che si allontanavano e svanivano vorticando, poi una corrente violenta
come una frustata l'afferrò e la scagliò a folle velocità, col polso sempre nella ferrea stretta di Luke,
in un turbinante caos dorato.
Simon si svegliò al suono ritmico di uno sciabordare d'acqua. Si mise a sedere, il petto raggelato da
un improvviso terrore: l'ultima volta che era stato svegliato dalle onde si era ritrovato prigioniero
sulla nave di Valentine, e il dolce rumore liquido lo riportò a quel terribile momento con una tale
immediatezza che fu come prendersi un secchiata d'acqua gelida in faccia.
Invece... Un rapido sguardo intorno gli rivelò che stavolta si trovava da tutt'altra parte. Tanto per
cominciare, era sotto morbide coperte in un comodo letto di legno, in una stanzetta pulita con le
pareti azzurre. La finestra era coperta da una tenda scura, ma la debole luce che filtrava dai bordi
era più che sufficiente, per i suoi occhi di vampiro. C'erano un vivace tappeto sul pavimento e un
mobile a specchio contro il muro.
C'era anche una poltrona accostata al letto. Simon si tirò su e le coperte gli scivolarono via. Si
accorse di due cose: la prima, che indossava ancora i jeans e la maglietta che aveva quando era
andato all'Istituto per incontrare Jace; la seconda, che la persona seduta in poltrona stava
sonnecchiando, con la testa appoggiata a una mano e i lunghi capelli neri sparsi sulle spalle come
uno scialle dalle lunghe frange.
— Isabelle? — sussurrò Simon.
La testa di Isabelle saltò su come se fosse scattata una molla, spalancando gli occhi. — Oooh! Sei
sveglio! — Si raddrizzò sulla poltrona, scostando i capelli dal volto. — Jace sarà così sollevato!
Eravamo quasi certi che saresti morto.
— Morto? — ripetè Simon. Aveva la testa che girava e un po' di nausea. — Perché? — Si guardò
intorno nella stanza, battendo le palpebre. — Sono all'Istituto? — chiese. Ma mentre formulava la
domanda si rese conto che era impossibile. — Insomma... dove siamo?
Un'ombra di disagio passò sul volto di Isabelle. — Vuoi dire che non ti ricordi che cos'è successo
nel prato dell'Istituto? — Giocherellò nervosamente con il bordo del merletto che rivestiva la
poltrona. — Siamo stati attaccati dai Dimenticati. Erano in tanti e con la nebbia infernale non è
stato facile combatterli. Magnus ha aperto il Portale e tutti noi ci stavamo entrando, quando ti
abbiamo visto venirci incontro. Poi sei inciampato... sul corpo di Madeleine. E c'era un Dimenticato
proprio dietro di te. Evidentemente non l'avevi visto, ma Jace sì. Ha cercato di raggiungervi, ma non
ha fatto in tempo. Il Dimenticato ti ha pugnalato. Perdevi molto sangue. Jacke ha ucciso il
Dimenticato, ti ha preso e ti ha trascinato con sé attraverso il Portale — concluse Isabelle. Parlava
così in fretta che le parole si perdevano l'una nell'altra e Simon doveva sforzarsi per afferrarle tutte.
— Noi eravamo già dall'altra parte e, lascia che te lo dica, ci ha sorpreso non poco veder arrivare
Jace con te che gli sanguinavi addosso. Il Console, poi, non ne è stato per niente contento.
Simon aveva la bocca secca. — Il Dimenticato mi ha pugnalato? — Gli sembrava impossibile.
D'altra parte, era già guarito un'altra volta, dopo che Valentine gli aveva tagliato la gola. Eppure
avrebbe dovuto ricordare. Scuotendo la testa, si guardò. — Dove?
— Ti faccio vedere. — Con sorpresa, Simon si ritrovò Isabelle seduta sul letto accanto a lui, con le
sue mani fresche appoggiate alla vita. Isabelle gli sollevò la maglietta, scoprendo un tratto di
stomaco pallido attraversato da una sottile linea rossa. Era a malapena una cicatrice. — Qui —
disse, sfiorandogli la pelle con le dita. — Fa male?
— N... no. — La prima volta che Simon aveva visto Isabelle, l'aveva trovata così straordinaria, così
accesa di vitalità ed energia, che aveva sperato di aver finalmente trovato una ragazza tanto
splendente da oscurare l'immagine di Clary, che era come stampata all'interno delle sue palpebre.
Era stato più o meno all'epoca in cui Isabelle lo aveva fatto trasformare in un ratto, al party di
Magnus Bane, che Simon aveva capito che forse splendeva un po' troppo, per un tipo normale come
lui. — Non fa male.
— Ma fa male ai miei occhi — disse dalla porta una voce con un tono di contenuto divertimento.
Jace. Era entrato così silenziosamente che nemmeno Simon l'aveva sentito. Jace si chiuse la porta
alle spalle e sorrise, mentre Isabelle tirava giù la maglietta a Simon. — Stai molestando il vampiro
adesso che è troppo debole per attaccare, Iz? — le chiese. — Sono sicuro che questo
comportamento viola almeno uno degli Accordi.
— Gli sto solo mostrando dove è stato pugnalato — protestò Isabelle, ma tornò subito sulla sua
poltrona. — Cosa sta succedendo al piano di sotto? — chiese a Jace. — Stanno ancora dando i
numeri?
Il sorriso abbandonò il volto di Jace. — Maryse è andata su alla Guardia con Patrick — disse. — Il
Conclave è riunito in assemblea e Malachi ha detto che era meglio che Maryse... desse una
spiegazione.
Malachi. Patrick. La Guardia. Nomi sconosciuti che giravano nella testa di Simon. — Spiegare
cosa?
Isabelle e Jace si scambiarono un'occhiata. — Spiegare te
— rispose Jace alla fine. — Spiegare perché abbiamo portato un vampiro con noi ad Alicante, cosa
che, tra parentesi, è espressamente contro la Legge.
— Ad Alicante? Siamo ad Alicante? — Un'ondata di vacuo terrore travolse Simon, rimpiazzata
subito dopo da un forte dolore che s'irradiò dal ventre. Si piegò in due, ansimando.
— Simon! — Isabelle allungò la mano, con gli occhi colmi di apprensione. — Tutto a posto?
— Va' via, Isabelle. — Simon, coi pugni stretti contro lo stomaco, guardò Jace con un tono
implorante nella voce.
— Mandala via.
Isabelle si ritrasse con un'espressione ferita sul volto. — Bene. Me ne vado. Non c'è bisogno di
ripeterlo due volte.
— Stizzita, si alzò in piedi e uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.
Jace guardò Simon con gli occhi ambrati privi di ogni espressione. — Che succede? Credevo che
stessi guarendo.
Simon alzò di scatto una mano per tenere lontano Jace. Un sapore metallico gli bruciava la gola. —
Non è per Isabelle — riuscì a dire. — Non sono ferito. Sono solo... affamato. — Sentì le guance in
fiamme. — Ho perso sangue e adesso... ho bisogno di reintegrarlo.
— Ma certo! — esclamò Jace, con il tono di chi è appena stato illuminato da un'interessante
nozione scientifica. La sua espressione di lieve preoccupazione si mutò in qualcosa che a Simon
parve divertito disprezzo, che fece vibrare in lui una nota di rabbia: se non fosse stato così debole, si
sarebbe scagliato addosso a Jace come una furia. Per come stavano le cose, non riuscì a far altro che
dire, senza fiato: — Va' al diavolo, Wayland.
— Wayland, dici? — L'aria divertita non lo abbandonò, ma portò le mani al collo e cominciò a
tirare giù la zip della giubba.
— No! — Simon si raggomitolò nel letto. — Non m'importa della fame che ho. Non
ho nessuna intenzione di bere ancora... il tuo sangue.
La bocca di Jace si piegò in una smorfia. — Credi che te lo lascerei fare di nuovo? — Infilò la mano
nella tasca interna e tirò fuori una fiaschetta di vetro. Era piena a metà di un liquido tra il rosso e il
marrone. — Ho pensato che potesse servirti — gli disse. — Ho spremuto qualche chilo di carne
cruda, in cucina. È il meglio che ho potuto fare.
Simon prese la fiaschetta con mani così tremanti che Jace dovette aiutarlo a svitare il tappo. Il
liquido che conteneva era disgustoso: troppo slavato e salato per essere vero sangue, con quel lieve
e sgradevole retrogusto di carne vecchia di qualche giorno.
— Urgh — disse Simon, dopo un paio di sorsate. — Sangue morto.
Jace inarcò le sopracciglia. — Ma tutto il sangue è morto, no?
— Più tempo passa dalla morte dell'animale di cui bevo il sangue, peggiore è il suo sapore —
spiegò Simon. — Fresco è meglio.
— Ma tu non hai mai bevuto sangue fresco, giusto?
Simon per tutta risposta inarcò le sopracciglia.
— Be', a parte il mio, naturalmente — aggiunse Jace. — Che è sicuramente prelibato.
Simon posò la fiaschetta vuota sul bracciolo della poltrona accanto al letto. — C'è qualcosa di
profondamente sbagliato in te — commentò. — Nella tua mente, voglio dire. — Aveva ancora in
bocca il sapore di sangue cattivo, ma il dolore era sparito. Si sentiva meglio, più forte, come se il
sangue fosse una medicina dall'effetto immediato, una droga che doveva assolutamente prendere
per vivere. Si chiese se anche gli eroinomani si sentissero così. — Allora, sono a Idris.
— Alicante, per essere precisi — disse Jace. — La capitale, anzi, l'unica città. — Andò alla finestra
e aprì le tende. — I Penhallow non ci volevano credere — spiegò. — Al fatto che il sole non ti
avrebbe dato fastidio. E hanno messo questa tenda scura. Ma dovresti dare un'occhiata.
Simon si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra, accanto a Jace. E rimase a bocca aperta.
Qualche anno prima sua madre aveva portato lui e sua sorella a fare una vacanza in Toscana: una
settimana di sostanziose pastasciutte dal sapore insolito, di pane senza sale, di campagne forti e
brune, con sua madre che sfrecciava a tutta velocità per le stradine strette e tortuose, con il rischio
continuo di far schiantare la loro Fiat sui meravigliosi edifici antichi che in teoria erano venuti a
vedere, non a distruggere. Si ricordava una sosta su una collina davanti a un borgo chiamato San
Gimignano, una manciata di edifici color ruggine alternati qua e là da alte torri le cui cime
svettavano verso il cielo, come a volerlo toccare. Se quello che ora stava vedendo somigliava a
qualcosa, era San Gimignano. Ma era un panorama così alieno che, in realtà, era diverso da
qualsiasi altra cosa Simon avesse mai visto.
Era affacciato alla finestra di un edificio presumibilmente a più piani. Se alzava lo sguardo, vedeva
le grondaie di pietra e il cielo. Di fronte c'era un'altra casa, non altrettanto alta, e in mezzo scorreva
un canale stretto e scuro, attraversato da una serie di ponticelli: era quella l'acqua che aveva sentito
sciabordare. La casa sembrava costruita a mezza costa su una collina: più a valle, altre case di pietra
color miele, affastellate lungo stradine strette, scendevano verso l'abbraccio circolare di un bosco
verde, circondato da colline lontane che avevano l'aspetto di lunghe strisce verdi e brune
punteggiate da esplosioni di colori autunnali. Alle spalle delle colline, si ergevano frastagliate
montagne imbiancate di neve.
Ma nulla di tutto questo era particolarmente strano. Ciò che era strano era che qua e là,
apparentemente senza alcun ordine preciso, svettavano nella città alte torri coronate da guglie fatte
di un materiale riflettente bianco-argenteo, che sembravano forare il cielo come pugnali luccicanti.
Simon ricordò dove aveva già visto quel materiale: le armi simili a vetro che usavano i Cacciatori,
le cosiddette spade angeliche.
— Quelle sono le torri antidemoni — spiegò Jace in risposta a una domanda inespressa. —
Controllano gli apparati difensivi intorno alla città. Grazie a loro, nessun demone può entrare ad
Alicante.
L'aria che entrava dalla finestra era fredda e pulita, del tipo che non si respira mai a New York: non
sapeva di niente, né di sporco, né di fumo, né di metallo, né di altra gente. Era solo aria. Prima di
girarsi verso Jace, Simon ne respirò una boccata profonda e assolutamente inutile: certe abitudini
umane erano dure a morire. — Dimmi che portarmi qui è stato un caso. Dimmi che non faceva parte
del tuo piano per impedire a Clary di venire con te.
Jace non lo guardò, ma il suo petto salì e scese una volta, rapidamente, come in una specie di
trasalimento nascosto. — No — disse. — Ho creato io un branco di guerrieri Dimenticati, li ho
mandati all'assalto dell'Istituto, ho fatto in modo che uccidessero Madeleine e per poco anche il
resto di noi, e tutto questo solo per far restare a casa Clary. E, mira e ammira, il mio diabolico piano
ha funzionato.
— In effetti ha funzionato — mormorò Simon. — Non è vero?
— Stammi a sentire, vampiro — replicò Jace. — Il piano era tenere Clary lontana da Idris. Portare
te a Idris non era previsto. Ti ho portato attraverso il Portale perché, se ti avessi lasciato là,
sanguinante e mezzo svenuto, i Dimenticati ti avrebbero ammazzato.
— Avresti potuto restare tu con me...
— Ci avrebbero uccisi entrambi. Non sapevo nemmeno quanti erano. Con la nebbia infernale,
neppure io potrei sbaragliare cento Dimenticati.
— E tuttavia — commentò Simon — scommetto che ti fa male doverlo ammettere.
— Sei un idiota — disse Jace senza inflessione nella voce. — Anche secondo gli standard dei
Nascosti. Ti ho salvato la vita e per farlo ho infranto la Legge. E non è la prima volta, potrei
aggiungere. Potresti almeno mostrare un po' di gratitudine.
— Gratitudine! — Simon strinse i pugni. — Se tu non mi avessi costretto a venire all'Istituto, ora
non sarei qui. Io non ero d'accordo.
— Sì, invece — replicò Jace. — Quando hai detto che avresti fatto qualsiasi cosa per Clary. Questo
è qualsiasi cosa.
Prima che Simon potesse ribattere con una rispostaccia, sentirono bussare alla porta. — È
permesso? — gridò Isabelle da fuori. — Simon, ti è passato l'attacco da primadonna? Devo parlare
con Jace.
— Entra, Izzy. — Jace non staccò gli occhi da Simon. C'era una rabbia elettrica nel suo sguardo, e
una specie di sfida, che fece venir voglia a Simon di colpirlo con qualcosa di pesante. Tipo un
furgone.
Isabelle entrò nella stanza in un turbinio di capelli neri e di argentee gonne a balze. Il corsetto color
avorio che indossava le lasciava scoperte le spalle e le braccia, inghirlandate di rune nere come
l'inchiostro. Simon pensò che per lei fosse un bel cambiamento poter esibire liberamente i suoi
marchi in un luogo dove nessuno li avrebbe trovati strani.
— Alec sta per andare su alla Guardia — annunciò Isabelle senza tanti preamboli. — Ma prima
vuole parlare con te di Simon. Puoi scendere?
— Certo. — Jace si avviò verso la porta. Dopo qualche passo, si rese conto che Simon lo stava
seguendo e si girò fulminandolo con un'occhiataccia. — Tu resti qui.
— No — disse Simon. — Se dovete parlare di me, voglio esserci anch'io.
Per un momento sembrò che la gelida calma di Jace fosse sul punto di esplodere: diventò rosso in
viso, aprì la bocca, lo squadrò con occhi fiammeggianti. Ma con la stessa rapidità, la rabbia svanì,
soffocata da un evidente sforzo di volontà. Digrignò i denti e sorrise. — Bene — disse. — Scendi
anche tu, vampiro. Così incontrerai tutta l'allegra famigliola.
La prima volta che Clary era passata attraverso un Portale aveva provato la sensazione di volare,
senza peso, e di rotolare. Questa volta fu come finire nel cuore di un tornado. Venne aggredita da
venti ululanti che le strapparono via la mano dalla stretta di Luke. Cadde turbinando nel centro di un
vortice nero e oro.
Qualcosa di piatto e duro e argenteo come la superficie di uno specchio le si parò davanti. Clary vi
precipitò contro strillando, con le braccia alzate per coprirsi il viso. Poi colpì la superficie e la
penetrò, entrando in un mondo gelido e senz'aria. Affondò in una densa oscurità bluastra, e quando
cercò di respirare non entrò aria nei polmoni, ma solo altro freddo agghiacciante...
Di colpo qualcosa le afferrò il cappotto sulla schiena e la tirò verso l'alto. Scalciò debolmente,
troppo stremata per liberarsi da quella stretta. Risalì, e l'oscurità blu indaco intorno a lei diventò
azzurra, e poi dorata, nel momento in cui raggiunse la superficie dell'acqua - perché era acqua -e
respirò una boccata d'aria. O meglio, cercò di farlo, ma soffocò e tossì, e la sua vista si riempì di
macchioline nere. Ora veniva trascinata sul pelo dell'acqua, velocemente. Le alghe le si
avvinghiavano alle gambe e alle braccia e la tiravano giù... Cercò di girarsi e colse l'immagine
terrificante di qualcosa a metà tra un uomo e un lupo, con orecchie a punta come pugnali e zanne
bianche e affilate, digrignate. Cercò di gridare, ma dalla bocca le uscì solo acqua.
Un attimo dopo era fuori dell'acqua, gettata sulla terra umida e compatta. Sentì delle mani sulle
spalle che la rivoltavano a faccia in giù. Le mani continuarono a batterle sulla schiena finché il suo
petto ebbe uno spasmo e rigurgitò un amaro fiotto d'acqua.
Stava ancora soffocando, quando le mani la rotolarono a faccia in su. E vide che era Luke, un'ombra
nera contro l'alto cielo azzurro marezzato di nuvole bianche. La gentilezza che era solita vedere in
lui era sparita. Non aveva più forma di lupo, ma era furioso. Con uno strattone la mise a sedere, la
scrollò ripetutamente, finché Clary non sussultò e lo allontanò debolmente. — Luke! Basta! Mi stai
facendo male...
Le mani di Luke si staccarono dalle sue spalle. Le afferrò il mento con una mano, la costrinse ad
alzare la testa, la scrutò attentamente. — L'acqua — le disse. — Hai sputato fuori tutta l'acqua?
— Credo di sì — sussurrò lei. La sua voce salì debolissima dalla gola gonfia.
— Dov'è il tuo stilo? — le chiese Luke e, quando la vide esitare, la sua voce si fece più tagliente. —
Clary. Lo stilo. Trovalo.
Lei si liberò dalla sua presa e frugò nelle tasche grondanti con il cuore sempre più pesante: le dita
trovavano solo tessuto bagnato. Gli rivolse uno sguardo pieno di afflizione. — Credo che mi sia
caduto nel lago. — Tirò su con il naso. — Lo stilo... di mia... di mia madre...
— Gesù, Clary! — Luke si alzò in piedi, unendo distrattamente le mani dietro la testa. Anche lui era
zuppo: l'acqua gli colava in grossi rivoli dai jeans e dal pesante giaccone felpato. Gli occhiali che di
solito portava sulla punta del naso erano spariti. Abbassò uno sguardo fosco su di lei. — Stai bene?
— disse. Non era una domanda vera e propria. — Voglio dire, in questo momento, ti senti bene?
Lei annuì. — Luke, cosa c'è che non va? Perché ti serve lo stilo?
Luke non disse niente. Si stava guardando intorno, come se sperasse di racimolare qualche tipo di
aiuto da ciò che li circondava. Clary seguì il suo sguardo: erano sull'ampia riva di un lago piuttosto
grande. Le acque erano azzurre e luccicanti per i riflessi della luce solare. Si chiese se fosse quella
l'origine della luce dorata che aveva visto dal Portale semiaperto. Non c'era niente di sinistro nel
lago, ora che Clary era sulla riva e non sott'acqua. Era circondato da colline verdi punteggiate
d'alberi che cominciavano a diventare color ruggine e oro. Oltre le colline, si ergevano alte
montagne dalle vette incappucciate di neve.
Clary rabbrividì. — Luke, quando eravamo in acqua... ti sei trasformato per metà in lupo? Mi pare
di aver visto...
— Come lupo so nuotare meglio che come uomo — rispose secco Luke. — E sono più forte. Ho
dovuto trascinarti nell'acqua e tu non mi sei stata di grande aiuto.
— Lo so — disse Clary. — Scusa. — Non eri... non era previsto che venissi con me.
— Se non fossi venuto, tu saresti già morta — le fece notare Luke. — Magnus te l'aveva detto,
Clary. Non puoi usare un Portale per entrare nella Città di Vetro se non c'è qualcuno dall'altra parte
che ti aspetta.
— Ha detto che era contro la Legge. Non ha detto che, se avessi provato a farlo, sarei rimbalzata
via.
— Ha detto che ci sono delle difese intorno alla città che impediscono di accedervi attraverso un
Portale. Non è certo colpa sua se tu hai deciso di giocare con una magia che riesci a malapena a
capire. Solo perché hai un potere, non significa che tu sappia come usarlo. — Era arrabbiato.
— Mi dispiace — ripetè Clary con un filo di voce. — E solo che... Dove siamo adesso?
— Al Lago Lyn — rispose Luke. — Credo che il Portale ci abbia portato il più vicino possibile alla
città e poi ci abbia scaricato. Siamo nei dintorni di Alicante. — Si guardò intorno scuotendo la testa,
metà stupito e metà spossato. — Ce l'hai fatta, Clary. Siamo a Idris.
— Idris? — ripetè Clary. Si alzò, guardando verso il lago con aria stranita. Il lago ricambiò il suo
sguardo con un luccichio azzurro e indifferente. — Ma... hai detto che siamo nei dintorni di
Alicante. Io non vedo la città da nessuna parte.
— Siamo a diverse miglia di distanza — precisò Luke. — Le vedi, quelle colline laggiù? Dobbiamo
attraversarle: la città è dall'altra parte. Se avessimo un'auto potremo arrivarci in un'ora. Ma siamo a
piedi e probabilmente ci vorrà tutto il pomeriggio. — Guardò il cielo, strizzando gli occhi. —
Meglio che ci mettiamo in marcia.
Clary si guardò, costernata. L'idea di una giornata di cammino in abiti intrisi d'acqua non era molto
gradevole. — Non c'è altro che...?
— Che potremmo fare? — disse Luke finendo la domanda con un'inattesa sfumatura tagliente e
rabbiosa nella voce. — Hai qualche suggerimento, Clary, visto che sei stata tu a portarci qui? —
Puntò il dito verso la parte opposta del lago. — Da quella parte ci sono le montagne, valicabi-li a
piedi solo in piena estate. Moriremmo congelati. — Si girò e puntò il dito in un'altra direzione. —
Da quella parte ci sono miglia e miglia di boschi. Si estendono fino al confine e sono disabitati da
esseri umani. Oltre Alicante, ci sono campi e fattorie. Potremmo anche uscire da Idris, ma
dovremmo comunque passare attraverso la città. Una città, potrei aggiungere, dove i Nascosti come
me difficilmente sono i benvenuti.
Clary lo guardava a bocca aperta. — Luke, io non sapevo...
— Certo che non lo sapevi. Tu non sai niente di Idris. Non ti interessa niente di Idris. Ti sei
arrabbiata perché ti hanno lasciata a casa e hai fatto le bizze come i bambini. E adesso, eccoci qui.
Persi, congelati e... — S'interruppe.
Il suo volto era carico di tensione. — Andiamo. Mettiamoci in marcia.
Clary seguì Luke lungo la riva del lago Lyn in malinconico silenzio. Mentre camminavano, il sole le
asciugò i capelli e la pelle, ma il cappotto di velluto tratteneva l'acqua come una spugna e le pesava
come una cappa di piombo. Clary camminava rapida tra le pietre e il fango, inciampando spesso,
cercando di tenere il passo delle lunghe falcate di Luke. Fece qualche tentativo di conversazione,
ma Luke rimase ostinatamente zitto. Non le era mai capitato, prima d'ora, di far arrabbiare Luke
così tanto, di combinare qualcosa di così grave da non poter essere risolto con delle semplici scuse.
Questa volta, a quanto pareva, era diverso.
Le scogliere intorno al lago si facevano più alte man mano che Luke e Clary procedevano. Erano
butterate da macchie di tenebra simili a schizzi di vernice nera. Guardando più da vicino, Clary si
accorse che le macchie erano grotte nella roccia: alcune sembravano scendere molto in profondità,
tortuose, buie. Immaginò pipistrelli e altri esseri striscianti nascosti nel buio, e rabbrividì.
Finalmente, uno stretto sentiero che tagliava tra le rocce li portò a un'ampia strada di pietrisco. Il
lago si allontanò alle loro spalle, blu indaco nel sole del tardo pomeriggio. La strada tagliava una
pianura erbosa che in lontananza si congiungeva a morbide colline. Il cuore di Clary sprofondò: non
c'era ancora traccia della città.
Luke fissava le colline con un'espressione di profondo sconforto. — Siamo più lontani di quanto
pensassi. E passato così tanto tempo.
— Forse, se trovassimo una strada più grande — suggerì Clary — potremmo fare l'autostop, o
trovare un passaggio fino in città, o...
— Clary. Non ci sono automobili a Idris. — Vedendo la sua espressione stupefatta, Luke rise senza
molto divertimento. — Le difese mandano in tilt i congegni meccanici ed elettronici. Gran parte
della tecnologia qui non funziona: telefonini, computer, cose così. Alicante stessa è illuminata e
alimentata principalmente dalla stregaluce.
— Ah — fece Clary con un filo di voce. — Ma, più o meno, quanto siamo lontani dalla città?
— Abbastanza. — Senza guardarla, Luke si passò le mani tra i capelli. — C'è una cosa che dovresti
sapere.
Clary si irrigidì. Fino a un attimo prima, voleva solo che Luke le parlasse. Adesso, invece, non lo
voleva più. — Non c'è problema...
— Hai notato — proseguì Luke — che non ci sono barche sul lago Lyn? Né moli? Niente che faccia
pensare che il lago sia utilizzato dagli abitanti di Idris?
— Forse perché è troppo lontano.
— Non è troppo lontano. È a un paio d'ore di cammino da Alicante. Il fatto è che il lago... — Luke
s'interruppe e sospirò. — Hai mai notato il disegno sul pavimento della biblioteca dell'Istituto, a
New York?
Clary batté le palpebre. — Sì, ma non ho mai capito che cosa rappresentasse.
— È un angelo che emerge da un lago tenendo in mano una coppa e una spada. È un motivo
ricorrente, nelle decorazioni dei Nephilim. La leggenda dice che l'Angelo Raziel emerse dalle acque
del lago Lyn quando apparve a Jonathan Shadowhunter, il primo dei Nephilim, e gli consegnò gli
Strumenti Mortali. Da allora il lago è sempre stato un luogo...
— Sacro? — suggerì Clary.
— Maledetto — rivelò Luke. — L'acqua del lago è in qualche modo tossica per gli Shadowhunters,
mentre è innocua per i Nascosti. Il Popolo Fatato lo chiama Specchio dei Sogni. Ne bevono l'acqua
perché sostengono che dia visioni di verità. Ma per uno Shadowhunter bere le acque del lago Lyn è
molto pericoloso. Provoca allucinazioni, febbri... e può portare alla pazzia.
Clary sentì un brivido di freddo in tutto il corpo. — Ecco perché hai cercato di farmi sputare tutta
l'acqua.
Luke annuì. — E perché volevo che trovassi lo stilo. Con una runa di guarigione, avremmo potuto
ritardare gli effetti dell'acqua. Senza lo stilo, devi arrivare ad Alicante prima possibile. Ci sono delle
medicine, delle erbe, che ti possono aiutare, e io conosco qualcuno che quasi sicuramente le ha.
— I Lightwood?
— No, non i Lightwood. — La voce di Luke era ferma. — Qualcun altro, qualcuno che conosco
bene.
— Chi?
Lui scosse la testa. — Preghiamo solo che questa persona non si sia trasferita altrove, in questi
quindici anni.
— Ma io credevo che fosse contro la Legge, per un Nascosto, entrare ad Alicante senza permesso.
Il sorriso con cui lui le rispose le ricordò il Luke che l'aveva afferrata al volo quando, da piccola, era
caduta dal castello di legno, al parco giochi, il Luke che l'aveva sempre protetta. — Certe Leggi
sono state fatte per essere infrante.
La casa dei Penhallow aveva qualcosa in comune con l'Istituto, pensò Simon: entrambi davano
l'impressione di appartenere a un'altra epoca. Le scale e i corridoi in pietra e legno scuro erano
angusti e le finestre, aperte su pittoreschi scorci della città, erano alte e strette. C'era un chiaro
influsso asiatico nelle decorazioni: sul pianerottolo del primo piano c'era una parete
divisoria shoji in carta di riso e sui davanzali delle finestre c'erano alti vasi cinesi dai disegni
floreali. C'erano anche molte serigrafie alle pareti, che presumibilmente illustravano scene tratte
dalla mitologia degli Shadowhunters, ma con un tocco orientale: rappresentavano soprattutto signori
della guerra che brandivano luminose spade angeliche, accanto a multicolori creature simili a draghi
e demoni striscianti dagli occhi sporgenti.
— La signora Penhallow, Jia, dirigeva l'Istituto di Pechino. Ora divide il suo tempo tra Alicante e la
capitale cinese — spiegò Isabelle a Simon, che si era soffermato a osservare una stampa. — E i
Penhallow sono un'antica famiglia. Molto facoltosa.
— Lo vedo — borbottò Simon guardando i lampadari che grondavano gocce di cristallo.
Jace, un gradino dietro di loro, grugnì. — Muovetevi. Non stiamo facendo un tour storico.
Simon soppesò una rispostaccia, ma decise che non ne valeva la pena, e affrettò il passo giù per le
scale. Alla base si apriva un'ampia stanza che era una curiosa miscela di vecchio e nuovo. Una
grande finestra panoramica si affacciava sul canale e una musica era diffusa da uno stereo che
Simon non riusciva a vedere. Non c'era un televisore né le pile di DVD e CD che Simon associava
ai moderni salotti. C'erano invece svariati divani imbottiti, raccolti intorno a un grande caminetto
dove scoppiettava un bel fuoco.
Alec era in piedi accanto al caminetto, in tenuta nera da Cacciatore, e stava infilandosi un paio di
guanti. Alzò gli occhi, quando Simon entrò nella stanza, ed esibì il suo solito cipiglio, ma non disse
niente.
Seduti sui divani c'erano due ragazzi che Simon non aveva mai visto, un maschio e una femmina.
Lei sembrava asiatica, con delicati occhi a mandorla, lucidi capelli neri raccolti indietro e
un'espressione maliziosa. Il mento delicato finiva a punta, come il muso di un gatto. Non era
esattamente bella, ma si faceva notare.
Il ragazzo accanto a lei, stessi capelli neri, si faceva notare ancora di più. Probabilmente era alto
come Jace, ma sembrava più alto, anche da seduto,- era snello e muscoloso, con un volto pallido,
signorile, inquieto, tutto zigomi e occhi scuri. C'era qualcosa di stranamente familiare in lui, come
se Simon l'avesse già incontrato.
Fu la ragazza a parlare per prima. — È lui il vampiro? — Squadrò Simon in tutta la persona, come
se gli stesse prendendo le misure. — Non sono mai stata così vicina a un vampiro, prima d'ora... o
meglio, a un vampiro che non ho intenzione di uccidere. — Inclinò la testa. — È carino, per essere
un Nascosto.
— Perdonala. Ha la faccia d'angelo ma i modi di un demone Moloch — intervenne il ragazzo
sorridendo e alzandosi in piedi. Allungò la mano a Simon. — Io sono Sebastian. Sebastian Verlac. E
questa è mia cugina, Aline Penhallow. Aline...
— Io non do la mano a un Nascosto! — esclamò Aline rannicchiandosi contro i cuscini del divano.
— Non hanno l'anima, i vampiri.
Il sorriso di Sebastian sparì. — Aline...
— E' vero. Per questo non possono vedersi allo specchio né stare al sole.
Deliberatamente, Simon fece un passo indietro ed entrò nella chiazza di luce davanti alla finestra.
Sentì il sole caldo sulla schiena e sui capelli. La sua ombra, lunga e scura, si stampò sul pavimento,
arrivando quasi ai piedi di Jace.
Aline trasalì ma non disse nulla. Fu Sebastian a parlare, guardando Simon con curiosità. — Allora è
vero. I Lightwood l'avevano detto, ma non pensavo...
— Che dicessimo la verità? — intervenne Jace, parlando per la prima volta da quando erano scesi.
— Non mentiremmo mai su una cosa del genere. Simon è... unico.
— Io l'ho baciato, una volta — dichiarò Isabelle, a nessuno in particolare.
Le sopracciglia di Aline scattarono verso l'alto. — Vi lasciano fare proprio tutto quello che volete a
New York, vero? — disse, a metà tra l'orrore e l'invidia. — L'ultima volta che ti ho vista, Izzy, non
avresti nemmeno preso in considerazione...
— L'ultima volta che ci siamo visti, Izzy aveva otto anni — intervenne Alec. — Le cose cambiano.
Dunque, nostra madre è dovuta uscire di corsa e ora qualcuno di noi deve portarle i suoi appunti e i
suoi registri, su alla Guardia. Io sono l'unico che abbia diciotto anni, quindi sono anche l'unico che
possa entrare, quando il Conclave è riunito.
— Lo sappiamo — disse Isabelle, lasciandosi cadere su un divano. — Ce l'hai già detto almeno
cinque volte.
Alec la ignorò. — Jace, tu hai portato qui il vampiro, quindi tu sei responsabile per lui. Non farlo
uscire.
Il vampiro, pensò Simon. Eppure Alec conosceva benissimo il suo nome. In più, Simon gli aveva
salvato la vita, una volta. Ma adesso era diventato "il vampiro". Anche per uno come Alec, incline a
occasionali e inspiegabili attacchi di ombrosità, un atteggiamento simile era odioso. Forse, pensò
Simon, dipendeva dal fatto che erano a Idris.
Forse lì Alee sentiva più forte il bisogno di affermare la propria identità di Shadowhunter.
— È per questo che mi hai mandato a chiamare? Per dirmi di non lasciar uscire il vampiro? — Jace
scivolò sul divano accanto ad Aline, che sembrò gradire la cosa. — Farai meglio a sbrigarti. E a
tornare prima che puoi. Dio sa quali gesti depravati potremmo commettere, qui, senza la tua guida.
Alec lo fissò con un'aria di calma superiorità. — Cerca di non farti sfuggire di mano la situazione.
Torno tra mezz'ora. — E con queste parole Alee sparì sotto un arco che si apriva su un lungo
corridoio. Da qualche parte, in lontananza, una porta si chiuse.
— Non dovresti provocarlo — lo rimproverò Isabelle con un'occhiata severa. — Hanno dato a lui la
responsabilità.
Simon non potè evitare di notare che Aline era seduta addosso a Jace, spalla a spalla, benché ci
fosse un sacco di posto sul divano. — Avete mai pensato che forse, in una vita precedente, Alee era
una vecchia zitella con novanta gatti che urlava contro i bambini dei vicini perché giocavano sul suo
prato? Io sì — disse Jace, e Aline ridacchiò. — Solo perché è l'unico che può salire alla Guardia...
— Che cos'è la Guardia? — chiese Simon, stanco di non avere la più pallida idea di cosa stessero
dicendo tutti quanti.
Jace alzò lo sguardo su di lui. La sua espressione era impassibile, vagamente ostile. Aveva la mano
sopra quella di Aline, appoggiata sulla coscia della ragazza. — Siediti — gli intimò, indicandogli
col mento una poltrona. — O preferisci aleggiare in un angolo tipo pipistrello?
Fantastico. Battute sui pipistrelli. Simon, a disagio, si accomodò sulla poltrona.
— La Guardia è la sede ufficiale del Conclave — spiegò Sebastian, che evidentemente aveva avuto
compassione di lui. — Lì si fanno le Leggi e lì risiedono il Console e l'Inquisitore. Solo ai
Cacciatori adulti è permesso entrarci, quando il Conclave è riunito.
— Il Conclave è riunito? — ripetè Simon ricordando quello che Jace aveva detto poco prima, di
sopra. — Non si sarà riunito per me, vero?
Sebastian rise. — No. Per Valentine e per gli Strumenti Mortali. È questo il motivo per cui sono
tutti qui, per ragionare su quale sarà la prossima mossa di Valentine.
Jace non disse niente, ma quando sentì nominare Valentine il suo viso si indurì.
— Be', andrà a cercare lo Specchio — commentò Simon.
— Il terzo degli Strumenti Mortali, giusto? È qui a Idris? È per questo che sono tutti qui?
Ci fu un breve silenzio, prima che Isabelle rispondesse.
— Il fatto è che nessuno sa dove sia lo Specchio. Anzi, nessuno sa che cosa sia lo Specchio.
— È uno specchio — disse Simon. — Hai presente? Riflettente, di vetro... ma è solo un'ipotesi...
— Quello che Isabelle intende dire — intervenne Sebastian, con gentilezza — è che nessuno sa
nulla dello Specchio. Viene nominato più volte nelle cronache dei Cacciatori, ma senza alcun
dettaglio su dove sia o come sia fatto o, cosa ancor più importante, su che funzione abbia.
— Noi sappiamo che Valentine lo vuole — proseguì Isabelle — ma questo non ci è di grande aiuto,
dato che nessuno ha la più pallida idea di dove si trovi. Forse lo sapevano i Fratelli Silenti, ma
Valentine li ha uccisi tutti. E non ce ne saranno altri per un bel po' di tempo.
— Tutti? — chiese Simon, sorpreso. — Io credevo che avesse ucciso solo quelli di New York.
— La Città di Ossa non è veramente a New York — gli spiegò Isabelle. — È come... Ti ricordi
l'accesso alla Corte Seelie, a Central Park? Solo perché l'accesso è là, non significa che la Corte sia
necessariamente sotto il parco. Lo stesso vale per la Città di Ossa. Ci sono vari accessi, ma la
Città...
— Isabelle si interruppe perché Aline la zittì con un gesto secco della mano. Simon la guardò, poi
guardò Jace, poi guardò Sebastian. Avevano tutti la stessa espressione guardinga, come se si fossero
appena resi conto di quello che stavano facendo: stavano rivelando i segreti dei Nephilim a un
Nascosto. A un vampiro. Non un loro nemico in senso stretto, ma sicuramente uno di cui non ci si
poteva fidare.
Aline fu la prima a rompere il silenzio, puntando i begli occhi scuri su Simon. — Allora, come si
sta, a essere un vampiro?
— Aline! — Isabelle aveva un'espressione di orrore. — Non puoi andare in giro a chiedere alla
gente come si sta a essere un vampiro.
— Non vedo perché no — replicò Aline. — Non è da tanto che è un vampiro, giusto? Quindi si
ricorderà com'era prima, quand'era un essere umano. — Si rivolse di nuovo a Simon. — Il sangue
ha ancora il sapore del sangue? O adesso ha il sapore di qualcos'altro, tipo l'aranciata o roba del
genere? Perché mi pare che il sapore del sangue sia...
— Sa di pollo — dichiarò Simon, solo per zittirla.
— Davvero? — esclamò Aline stupefatta.
— Ti sta prendendo in giro, Aline — le disse Sebastian.
— E fa bene. Ti chiedo scusa per mia cugina, Simon. Quelli di noi che crescono fuori da Idris
tendono a dare più confidenza ai Nascosti.
— Ma anche tu sei cresciuto fuori da Idris, no? — chiese Isabelle. — Credevo che i tuoi genitori...
— Isabelle! — l'interruppe Jace. Ma era troppo tardi. Sebastian si rabbuiò.
— I miei genitori sono morti — spiegò. — In un covo di demoni vicino a Calais... Non c'è
problema, è passato tanto tempo. — Bloccò con un gesto della mano le parole di simpatia di
Isabelle. — Sono stato allevato da mia zia, la sorella del padre di Aline, all'Istituto di Parigi.
— Allora parli francese! — Isabelle sospirò. — Quanto mi piacerebbe parlare un'altra lingua!
Hodge pensava che ci bastasse sapere il greco e il latino. Ma nessuno parla più in greco o in latino!
— So anche il russo e l'italiano. E un po' di rumeno — rivelò Sebastian con un sorriso di modestia.
— Potrei insegnarti qualche frase...
— Il rumeno? Però! — esclamò Jace. — Non è una lingua che conoscono in molti.
— Tu sì? — chiese Sebastian con interesse.
— Non proprio — rispose Jace con un sorriso così disarmante che Simon capì subito che stava
mentendo. — Il mio rumeno si riduce a una manciata di frasi utili, tipo Quei serpenti sono velenosi?
O Ma lei sembra ancora molto giovane, per essere un poliziotto.
Sebastian non sorrise. C'era qualcosa di strano nella sua espressione, pensò Simon: era mite, tutto in
lui esprimeva calma, ma sembrava che sotto quella mitezza esteriore si nascondesse qualcosa di
radicalmente opposto.
— Mi piace viaggiare — disse Sebastian, tenendo gli occhi fissi su Jace. — Ma è bello essere di
nuovo qui, non trovi?
Jace smise di giocherellare con le dita di Aline. — In che senso?
— Voglio dire, non c'è un altro posto al mondo che sia come Idris, anche se noi Nephilim cerchiamo
spesso di mettere su casa altrove. Non sei d'accordo?
— Perché me lo chiedi? — Lo sguardo di Jace era gelido.
Sebastian scrollò le spalle. — Be', tu hai vissuto qui da bambino, no? Ed erano anni che non ci
tornavi. O ho capito male?
— Non hai capito male — intervenne Isabelle con impazienza. — A Jace piace far finta che non si
parli mai di lui, anche se sa benissimo che non è così.
— Se ne parla, eccome. — Nonostante le occhiate torve di Jace, Sebastian non appariva
minimamente turbato. Simon sentì una sorta di riluttante simpatia per il giovane Cacciatore dai
capelli neri. Era raro trovare qualcuno che non reagisse alle provocazioni di Jace. — In questi
giorni, qui a Idris, non si parla d'altro. Di te, degli Strumenti Mortali, di tuo padre, di tua sorella...
— Non doveva venire anche Clarissa con voi? — chiese Aline. — Non vedevo l'ora di conoscerla.
Cos'è successo?
L'espressione di Jace non cambiò, ma staccò la mano da quella di Aline e la strinse a pugno. — Non
ha voluto lasciare New York. Sua madre è ancora in ospedale.
Non dice mai "nostra" madre, pensò Simon. E sempre e soltanto la madre di Clary.
— Strano — disse Isabelle. — Credevo che ci tenesse molto, a venire.
— Infatti — intervenne Simon. — In realtà...
Ma Jace si era già alzato in piedi, così velocemente che Simon non colse nemmeno il movimento.
— Ora che ci penso, c'è una cosa di cui vorrei discutere con Simon. In privato. — Gli indicò con la
testa la porta a due battenti in fondo alla stanza con gli occhi scintillanti di sfida. — Vieni, vampiro
— gli ordinò. Il suo tono lasciò a Simon la precisa sensazione che un rifiuto avrebbe probabilmente
condotto a qualche tipo di violenza. — Dobbiamo parlare.
capitolo 3
AMATIS
Era tardo pomeriggio. Luke e Clary si erano lasciati alle spalle il lago e stavano camminando
attraverso ampie distese d'erba alta pianeggianti e apparentemente sterminate. Di tanto in tanto,
dolci pendii portavano a colline sormontate da pietre nere. Clary barcollava, esausta per le continue
salite e discese dalle colline, con le scarpe che slittavano sull'erba umida e scivolosa come marmo
unto. Quando si lasciarono i campi alle spalle e imboccarono una stradina di terra battuta, Clary
aveva le mani insanguinate e macchiate d'erba.
Luke camminava davanti a lei a grandi falcate decise. Di tanto in tanto le indicava qualche elemento
degno di interesse, con voce cupa, come la guida turistica più depressa del mondo. — Quella che
abbiamo appena attraversato è la pianura di Brocelind — disse. Stavano risalendo un'altura e
avevano davanti a sé un'intricata distesa di alberi scuri che si protendeva verso occidente, dove il
sole era ormai basso sull'orizzonte. — E questa è la foresta di Brocelind. Un tempo, gli alberi
ricoprivano gran parte delle pianure di questo Paese. Molti sono stati tagliati, per fare posto alla
città. E per snidare i branchi di lupi e i covi di vampiri che vi si annidavano. La foresta è sempre
stata un buon nascondiglio per i Nascosti.
Avanzavano in silenzio lungo la stradina che curvava dolcemente seguendo per diverse miglia il
margine della foresta. Gli alberi sembravano risalire l'altura che si levava sopra di loro. Quando
l'aggirarono, Clary batté le palpebre: se i suoi occhi non la stavano ingannando, là in fondo c'erano
delle case! File di casette bianche perfettamente allineate. — Siamo arrivati! — esclamò Clary
correndo avanti. Si fermò solo quando si rese conto che Luke non era più accanto a lei.
Si girò e lo vide fermo in mezzo alla strada polverosa. Scuoteva la testa: — No — le disse,
raggiungendola. — Quella non è la città.
— Sarà un villaggio, allora... Avevi detto che non c'erano villaggi, qui vicino?
— È un cimitero. È la Città di Ossa di Alicante. Pensavi che l'altra Città di Ossa fosse l'unico nostro
luogo di eterno riposo? — Sembrava triste. — Questa è la necropoli dove seppelliamo quelli che
muoiono a Idris. Lo vedrai con i tuoi occhi. Dovremo attraversarla, per arrivare ad Alicante.
Era dalla notte in cui Simon era morto che Clary non metteva piede in un cimitero. Il ricordo la fece
rabbrividire fino alle ossa, mentre camminava lungo le stradine strette che vi si diramavano come
nastri bianchi. Qualcuno si prendeva cura di quel luogo, visto che il marmo brillava come fosse
stato lucidato di fresco e l'erba era ben rasata. C'erano mazzi di fiori bianchi qua e là sulle tombe: in
un primo momento Clary li scambiò per gigli, ma avevano un profumo speziato e sconosciuto che
le fece pensare che fossero originari di Idris. Ogni tomba somigliava a una casetta: alcune avevano
persino un cancelletto in ferro battuto e sulle porte erano incisi nomi di famiglie di
Shadowhunters. CARTWRIGHT. MERRYWEATHER. HIGHTOWER. BLACKWELL. MIDWINTER. Si fermò davanti a
una tomba: HERONDALE.
Si girò verso Luke. — Quello è il nome dell'Inquisitrice.
— È la sua tomba di famiglia. Guarda. — Accanto alla porta, Luke le indicò alcune scritte bianche
incise nel marmo grigio. Erano nomi. MARCUS HERONDALE, STEPHEN HERONDALE. Morti entrambi nello
stesso anno. Per quanto Clary avesse odiato l'Inquisitrice, si sentì stringere il cuore da un moto di
pietà. Perdere il marito e il figlio, e a così poca distanza di tempo... Sotto il nome di Stephen
correvano tre parole in latino: AVE ATQUE VALE.
— Che cosa significa? — chiese a Luke.
— Significa "Salve e Addio". È tratta da una poesia di Catullo. A un certo punto è diventata la frase
che i Nephi-lim dicono ai funerali o quando qualcuno muore in battaglia. Ora, però, andiamo. È
meglio non soffermarsi troppo su queste cose, Clary. — Luke la prese per una spalla e l'allontanò
delicatamente dalla tomba.
Forse Luke aveva ragione, pensò Clary. Forse era meglio non pensare troppo alla morte e al morire,
in quel momento. Riprese a camminare tenendo gli occhi bassi. Erano vicini ai cancelli di ferro
all'estremità opposta della necropoli, quando Clary notò un mausoleo più piccolo, che sembrava
cresciuto come un fungo a cappello all'ombra di una quercia frondosa. Il nome sopra la porta balzò
ai suoi occhi come un'insegna al neon.
FAIRCHILD.
— Clary... — Luke cercò di trattenerla, ma lei era già lontana. Con un sospiro, la seguì sotto la
quercia. Impietrita, Clary stava leggendo i nomi dei nonni e dei bisnonni che non aveva mai saputo
di avere. ALOYSIUS FAIRCHILD. ADELE FAIRCHILD NATA NIGHTSHADE. GRANVILLE FAIRCHILD. E sotto tutti quei
nomi: JOCELYN MORGENSTERN, NATA FAIRCHILD.
Un'ondata di gelo la travolse. Vedere inciso sulla pietra il nome di sua madre fu come rivivere gli
incubi che aveva di tanto in tanto, in cui era al funerale di sua madre e nessuno voleva dirle cos'era
successo o com'era morta.
— Ma lei non è morta — sussurrò, guardando Luke.
— Il Conclave non lo sapeva — le spiegò Luke con dolcezza.
Clary sussultò. Non sentiva più la voce di Luke, non lo vedeva più, di fronte a sé. Davanti ai suoi
occhi c'era un pendio frastagliato su cui le lapidi spuntavano dalla terra come ossa spezzate. Una
lapide nera incombeva davanti a lei con lettere irregolari incise sulla superficie: CLARISSA
MORGENSTERN, 1991-2007. Sotto quelle parole c'era un disegno infantile che raffigurava a tratti
incerti un teschio dalle orbite vuote. Clary gridò e indietreggiò barcollando.
Luke la prese per le spalle. — Che succede, Clary?
Lei puntò il dito. — Lì... guarda...
Ma era sparito tutto. C'erano solo l'erba, verde e uniforme, e i bianchi mausolei, lindi e semplici, in
file ordinate.
Si girò e alzò lo sguardo verso Luke. — Ho visto la mia tomba — gli disse. — C'era scritto che
sono morta... quest'anno. — Rabbrividì.
Luke era cupo. — È l'acqua del lago — le disse. — Cominci ad avere le allucinazioni. Andiamo.
Non ci resta molto tempo.
Jace guidò Simon al piano di sopra, in un breve corridoio con diverse porte, finché non si fermò per
aprirne una, a braccio teso, scuro in volto. — Entriamo qui — disse spingendo Simon oltre la
soglia. Era una biblioteca, con file e file di scaffali, divani e poltrone. — Qui dovremmo avere un
po' di privacy per...
Ma s'interruppe, vedendo qualcuno alzarsi nervosamente da una delle poltrone. Era un ragazzino coi
capelli castani e gli occhiali. Aveva una faccia piccola e seria e un volume fra le mani, un manga.
Simon conosceva le abitudini di lettura di Clary e lo riconobbe subito.
Jace aggrottò la fronte. — Scusa Max. Ci serve la stanza. Discorsi da grandi.
— Ma Izzy e Alec mi hanno già cacciato via dal salotto, per fare discorsi da grandi! — protestò
Max. — E dove devo andare?
Jace scrollò le spalle. — In camera tua? — Il suo pollice scattò verso la porta. — È giunto il
momento che anche tu faccia il tuo dovere per la patria, piccoletto. Sparisci.
Con l'aria offesa e il libro stretto al petto, Max marciò verso la porta. Simon ebbe per lui un guizzo
di solidarietà: era abbastanza grande per voler capire che cosa gli succedeva intorno, ma era ancora
troppo piccolo, e tutti lo mandavano via. Che schifo di vita! Il ragazzino gli lanciò un'occhiata
timorosa e guardinga, quando gli passò accanto. Quello è il vampiro, dicevano i suoi occhi.
— Andiamo. — Jace fece entrare Simon e chiuse la porta a chiave. Con la porta chiusa, la stanza
era così poco illuminata da risultare troppo buia persino agli occhi di Simon. C'era odore di polvere.
Jace andò ad aprire le tende dalla parte opposta, rivelando un'alta finestra panoramica che dava sul
canale. L'acqua lambiva il fianco della casa, poco più in basso, sotto un davanzale di pietra decorato
di rune e stelle consunte dalle intemperie.
Jace si voltò verso Simon con lo sguardo torvo. — Che diavolo di problemi hai, vampiro?
— Problemi io? Sei tu che mi hai praticamente trascinato via per i capelli.
— Stavi per dire a tutti che Clary non ha mai cambiato idea sul fatto di venire a Idris. Sai cosa
succederebbe? Che la contatterebbero e la farebbero venire. E io ti ho già spiegato perché non deve
venire.
Simon scosse la testa. — Non ti capisco — disse. — Qualche volta ti comporti come se t'importasse
solo di Clary, altre volte invece come...
Jace lo fissò. L'aria era piena di pulviscolo danzante nel sole che creava tra di loro un vibrante
sipario di luce. — Come cosa?
— Come se facessi il filo ad Aline — concluse Simon. — Non mi sembrava che t'importasse solo di
Clary, poco fa.
— Questi non sono affari tuoi — replicò Jace. — E poi Clary è mia sorella. E tu lo sai.
— C'ero anch'io alla Corte del Popolo Fatato — replicò Simon. — Ricordo bene quello che ha detto
la Regina: «Il bacio che libererà la ragazza è quello che lei desidera di più».
— Non dubito che te lo ricordi. Ce l'hai impresso a fuoco nel cervello, vero, vampiro?
Dal fondo della gola di Simon uscì un suono che lui stesso non aveva mai saputo di poter produrre.
— Ah no, non ci sto. Non inoltrarmi in fare questa discussione. Non voglio litigare con te per Clary.
È ridicolo.
— Allora perché hai tirato fuori il discorso?
— Perché — disse Simon — se vuoi che io menta, non solo a Clary, ma a tutti i tuoi amici
Cacciatori, se vuoi che io faccia finta che non è stata una scelta di Clary quella di non venire qui, e
se vuoi che io finga di non sapere nulla dei suoi poteri o di quello che è veramente capace di fare,
allora anche tu devi fare qualcosa per me.
— Bene — disse Jace. — Che cosa vuoi?
Simon rimase in silenzio per un momento, guardando, alle spalle di Jace, le case di pietra che
costeggiavano l'altra sponda del canale scintillante. Oltre i tetti merlati, si vedevano le cime
luccicanti delle torri antidemoni. — Voglio che tu faccia il possibile per convincere Clary che tu non
provi niente per lei. E non... non rispondermi che sei suo fratello. Lo so già. Tu non devi illuderla,
visto che sai benissimo che qualsiasi cosa ci sia tra voi non ha futuro. E non lo dico perché la voglio
per me. Lo dico perché sono suo amico e non voglio che soffra.
Jace si guardò le mani per un lungo momento senza rispondere. Erano mani sottili, le dita e le
nocche segnate da calli e il dorso ricamato dalle sottili linee bianche di antichi marchi. Erano le
mani di un soldato, non di un adolescente. — L'ho già fatto — disse. — Le ho già detto che
m'interessa essere suo fratello e basta.
— Ah. — Simon si era aspettato che Jace si opponesse, che protestasse, non che si arrendesse. Un
Jace che si arrendeva era una novità. E ora Simon quasi si vergognava di avergli fatto quella
richiesta. Clary non me l'ha mai detto, avrebbe voluto dire, ma poi, perché Clary avrebbe dovuto
dirglielo? Ora che ci pensava, recentemente Clary si era mostrata insolitamente silenziosa e schiva,
ogni volta che si faceva il nome di Jace. — Be', questo risolve tutto, immagino. C'è un'ultima cosa.
— Ah — fece Jace, senza dimostrare grande interesse. — E sarebbe?
— Che cos'ha detto Valentine quando Clary ha disegnato quella runa sulla nave? Sembrava una
lingua straniera. Meme qualcosa...
— Mene mene tekel upharsin — rispose Jace con un accenno di sorriso. — Non lo riconosci? Viene
dalla Bibbia, vampiro. Dall'Antico Testamento. Sono libri tuoi, no?
— Solo perché sono ebreo non significa che ho imparato a memoria tutto l'Antico Testamento.
— E' la scritta sul muro del palazzo di Baldassar. DIO HA CONTATO I GIORNI DEL TUO REGNO E VI HA POSTO
FINE. TU SEI STATO PESATO SULLA BILANCIA E SEI STATO TROVATO MANCANTE. È una profezia del giudizio
universale. Sta a significare la fine di un impero.
— Ma questo che cosa c'entra con Valentine?
— Non solo con Valentine — spiegò Jace. — Ma con tutti noi: il Conclave, la Legge... Quello che
Clary è in grado di fare cambia tutto ciò che loro hanno sempre ritenuto vero. Nessun essere umano
è in grado di creare nuove rune, né di tracciare le rune che disegna Clary. Solo gli angeli hanno
questo potere. E dato che Clary può farlo... be', sembra una profezia: le cose stanno cambiando, le
Leggi stanno cambiando. Le vecchie procedure potrebbero non essere più quelle giuste. Come la
ribellione degli angeli mise fine al mondo così com'era, dividendo il cielo a metà e creando
l'inferno, ora questo potrebbe significare la fine dei Nephilim così come esistono attualmente.
Questa è la nostra guerra, vampiro, e solo una delle due parti può vincere. E mio padre vuole che sia
la sua.
Nonostante l'aria fredda, Clary grondava di calore nei vestiti bagnati. Gocce di sudore le colavano
lungo il viso, bagnandole il colletto del cappotto, mentre Luke, tenendole una mano sul braccio, la
incitava a camminare in fretta, sotto un cielo che si faceva rapidamente più scuro. Erano in vista di
Alicante, adesso. La città era in una valle poco profonda, tagliata in due da un fiume argenteo che
sembrava svanire nel centro abitato per poi riemergere dal lato opposto. Un viluppo di edifici color
miele dai tetti rossi e un groviglio di ripide stradine scure e serpeggianti risalivano il fianco di una
scoscesa collina. In cima alla collina si ergeva un edificio scuro, svettante, con diversi colonnati e
una torre luccicante a ogni punto cardinale. Sparse tra le altre costruzioni c'erano altre torri uguali,
alte e sottili, che sembravano fatte di vetro, o di quarzo, ciascuna vibrante di luce. Erano come aghi
che foravano il cielo. La luce morente del sole creava spenti arcobaleni sulle loro superfici. Era una
vista meravigliosa, e molto strana.
Non puoi dire di aver visto una città finché non hai visto Alicante dalle torri di vetro.
— Come? — disse Luke. — Cosa hai detto?
Clary non si era resa conto di avere parlato. Imbarazzata, ripetè la frase ad alta voce e Luke la
guardò sorpreso. — Dove l'hai sentito?
— Da Hodge — rivelò Clary. — È una cosa che mi ha detto Hodge.
Luke la scrutò più da vicino. — Hai il viso rosso — osservò. — Come ti senti?
Le doleva il collo, aveva il corpo in fiamme, la bocca secca. — Sto bene — disse invece. —
Cerchiamo di arrivare, okay?
— Okay. — Luke le indicò un passaggio formato da un arco dalla sommità appuntita, ai margini
della città, dove cominciavano le case. All'ombra dell'arco, uno Shadowhunter in tenuta nera da
battaglia faceva la guardia. — Quella è la Porta Settentrionale: è da lì che i Nascosti possono entrare
legalmente in città, se hanno le carte in regola. È sorvegliata giorno e notte. Ora, se noi fossimo qui
per questioni ufficiali o se avessimo il permesso di essere qui, potremmo passare da quella Porta.
— Ma non ci sono mura, intorno alla città — osservò Clary. — Non mi sembra molto efficace,
come misura di controllo.
— Le difese sono invisibili, ma ci sono. Sono controllate dalle torri antidemoni, da mille anni. Te ne
accorgerai quando le attraverseremo. — Lanciò un ultimo sguardo preoccupato alla faccia arrossata
di Clary. — Sei pronta?
Clary annuì. Si allontanarono dalla Porta, lungo il lato orientale della città, dove gli edifici erano più
fitti. Facendole cenno di non far rumore, Luke la tirò verso uno stretto passaggio tra due case. Clary
chiuse gli occhi, quasi aspettandosi di sbattere la faccia contro un muro invisibile. Ma non fu così.
Sentì un'improvvisa pressione, come se si trovasse su un aereo in caduta libera, udì uno schiocco
nelle orecchie... Poi la sensazione sparì e Clary si ritrovò nel vicolo tra le case.
Uguale a un vicolo di New York, a qualsiasi vicolo del mondo, di primo acchito: sapeva di pipì di
gatto.
Clary sbirciò dietro l'angolo di uno degli edifici. Una strada più larga saliva su per la collina,
costeggiata da case e negozietti. — Non c'è nessuno in giro — osservò, con una certa sorpresa.
Nella luce sempre più fioca, Luke era grigio. — Ci dev'essere un'assemblea, su alla Guardia. È
l'unica ragione che può svuotare così le strade.
— È un bene per noi, no?
— È un bene e un male. Le strade sono praticamente deserte, il che è un bene. Ma è più probabile
che, chiunque si trovi a passare, ci noti e parli di noi.
— Credevo che avessi detto che sono tutti alla Guardia.
Luke accennò un sorriso. — Non prendermi troppo alla
lettera, Clary. Volevo dire gran parte dei cittadini. I bambini, gli adolescenti, tutti coloro che sono
esentati dall'assemblea, non vanno alla Guardia.
Gli adolescenti. Clary pensò a Jace e, contro la sua volontà, il cuore le fece un balzo, come un
cavallo ai cancelli di partenza.
Luke aggrottò la fronte, come se le avesse letto nel pensiero. — Ora come ora, io sto infrangendo la
Legge, perché mi trovo ad Alicante senza aver dichiarato la mia presenza al Conclave, alle Porte
della città. Se qualcuno mi riconoscesse, saremmo in guai seri. — Guardò la striscia di cielo color
ruggine che s'intravedeva tra i tetti. — Dobbiamo allontanarci dalle strade principali.
— Stiamo andando a casa del tuo amico?
— Sì, ma non è precisamente un amico.
— Allora chi...?
— Tu seguimi. — Luke s'infilò in un passaggio tra due case, così angusto che Clary, aprendo le
braccia, avrebbe potuto toccare i muri delle case ai due lati. Da lì, si addentrarono in una stradina
acciottolata e serpeggiante, fiancheggiata da negozi. Gli edifici erano un incrocio tra un paesaggio
gotico visto in un sogno e una favola per bambini. I rivestimenti esterni, in pietra, erano intagliati
con ogni sorta di creatura mitica o leggendaria: le teste di mostro andavano per la maggiore,
intervallate da cavalli alati, cose che sembravano casette su zampe di gallina, sirene e, naturalmente,
angeli. Da ogni angolo sporgevano gargoyle con facce digrignate e contorte. E ovunque c'erano
rune: sulle porte, nei motivi astratti incisi nella pietra, appese a sottili catenelle come campanelle
cinesi mosse dal vento. Rune di protezione, rune di buon auspicio, persino rune per un fiorente
commercio. Guardandole, Clary cominciò a sentire un lieve stordimento.
Camminavano in silenzio, restando nell'ombra. La strada acciottolata era deserta, le porte dei negozi
chiuse e sbarrate. Passando, Clary gettava occhiate furtive nelle vetrine. Era strano vedere in una
vetrina costosi cioccolatini riccamente decorati e, in quella accanto, un'altrettanto ricca esposizione
di armi dall'aria letale: sciabole, mazze chiodate e un assortimento di spade angeliche di tutte le
dimensioni. — Niente armi da fuoco — osservò. La sua voce le sembrò lontanissima.
Luke la guardò battendo le palpebre. — Come?
— Gli Shadowhunters — disse Clary. — A quanto pare non usano armi da fuoco.
— Le rune impediscono alla polvere da sparo di funzionare — spiegò Luke. — Nessuno sa perché.
Però di tanto in tanto i Nephilim usano il fucile contro i licantropi. Non serve una runa per
ucciderci, basta un proiettile d'argento. — La sua voce era cupa. All'improvviso alzò di scatto la
testa. Nella luce fioca era facile immaginare le sue orecchie drizzarsi come quelle di un lupo. —
Voci — disse. — Devono aver finito, su alla Guardia.
Prese Clary per un braccio e la fece allontanare dalla strada. Emersero in una piazzetta con un pozzo
al centro,- poco più avanti, un ponte in muratura scavalcava uno stretto canale. Nella luce morente,
l'acqua del canale sembrava nera. Anche Clary ora sentiva le voci, dalle strade vicine: erano alte,
arrabbiate. Clary era sempre più stordita: aveva l'impressione che il terreno le si inclinasse sotto i
piedi, rischiando di mandarla a gambe all'aria. Si appoggiò al muro del vicolo, cercando di
respirare.
— Clary — esclamò Luke. — Clary, va tutto bene?
La voce di Luke sembrava grossa, strana. Lo guardò e il respiro le morì in gola. Aveva le orecchie
lunghe e appuntite, i denti affilati come lame, gli occhi di un giallo acceso...
— Luke — sussurrò. — Che cosa ti sta succedendo?
— Clary. — Luke fece per toccarla, con mani stranamente lunghe, dalle unghie affilate e color
ruggine. — Qualcosa non va?
Clary strillò, divincolandosi. Non sapeva perché fosse tanto terrorizzata: aveva già visto Luke
trasformarsi, e lui non le aveva mai fatto del male. Ma il terrore dentro di lei era una cosa viva,
incontrollabile. Quando Luke la prese per le spalle cercò di scappare da quegli occhi gialli,
animaleschi. Luke cercava di calmarla, la pregava di stare zitta, con la sua solita voce, umana. —
Clary, ti prego...
— Lasciami! Lasciami!
Ma lui non lo fece. — È l'acqua... Hai le allucinazioni... Clary, cerca di mantenere il controllo. —
La portò verso il ponticello, trascinandola di peso. Lei sentiva le lacrime scorrere sulle guance
ardenti e portarle un po' di refrigerio. — Non è reale. Cerca di resistere, ti prego — le diceva Luke
accompagnandola sul ponte. Clary sentiva l'odore dell'acqua melmosa che scorreva sotto. C'erano
delle cose, che si muovevano sotto la superficie. Guardò giù e vide emergere dall'acqua un tentacolo
nero con la punta spugnosa bordata di denti a spillo. Si ritrasse, incapace persino di gridare. Solo un
basso mugolio le salì alla gola.
Luke la prese al volo, quando le cedettero le ginocchia, e se la caricò fra le braccia. Non la portava
in braccio da quando aveva cinque o sei anni. — Clary — le disse, ma il resto delle sue parole si
confusero in un ruggito senza senso, mentre scendevano dal ponte. Passarono di corsa davanti a una
serie di case alte e strette, che le ricordavano le villette a schiera di Brooklyn... o, forse, anche sul
suo quartiere aveva le allucinazioni... Tutt'intorno, l'aria sembrava incurvarsi al loro passaggio, le
luci delle case fiammeggiavano come torce, il canale vibrava di un maligno bagliore fosforescente.
Clary sentiva le ossa dissolversi dentro il corpo.
— Qui. — Luke si fermò di scatto davanti a un'alta casa affacciata su un canale. Prese a calci la
porta, gridando. Era di un colore rosso luminoso, quasi eccessivo, con una singola runa al centro, in
oro. La runa si sciolse e colò sotto gli occhi di Clary, prendendo la forma di uno spaventoso teschio
sogghignante. Non è reale, si disse Clary, soffocando un grido con un pugno sulla bocca, mordendo
forte, finché non sentì il sapore del sangue.
Il dolore le schiarì momentaneamente le idee. La porta si spalancò, rivelando una donna con un
vestito scuro, la faccia increspata da rabbia e sorpresa. Aveva i capelli lunghi, un'aggrovigliata
nuvola tra il grigio e il castano che le sfuggiva da due trecce. I suoi occhi azzurri sembravano
familiari. Una pietra runica di stregaluce le brillava in mano. — Chi è? — chiese con forza. — Che
cosa volete?
— Amatis — Luke entrò nel fascio di luce della strega-luce, con Clary tra le braccia. — Sono io.
La donna sbiancò, barcollò e allungò una mano per appoggiarsi allo stipite della porta.
— Lucian? — Luke cercò di fare un passo avanti, ma la donna gli bloccò la strada. Scuoteva la
testa così forte da far volare le trecce. — Come puoi venire qui, Lucian? Come osi venire qui?
— Non avevo scelta. — Luke assicurò la presa su Clary, che represse un grido. Tutto il suo corpo
era in fiamme, ogni singolo nervo bruciava di dolore.
— Te ne devi andare — gli intimò Amatis. — Se te ne vai immediatamente...
— Non sono qui per me. Sono qui per la ragazza. Sta morendo. — E mentre la donna lo fissava con
durezza, Luke aggiunse: — Amatis, ti prego. È la figlia di Jocelyn.
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale Amatis rimase immobile sulla soglia come una statua.
Sembrava impietrita: se per la sorpresa o per l'orrore, Clary non avrebbe saputo dirlo. Clary strinse
il pugno, appiccicoso di sangue, ma nemmeno il dolore serviva più a riscuoterla, ormai. Il mondo le
si stava sgretolando intorno, sfocato, come un puzzle portato via dalla corrente di un fiume. Riuscì a
malapena a sentire la voce di Amatis che, facendosi da parte, diceva: — Okay, Lucian, portala
dentro.
Quando Simon e Jace rientrarono in salotto, videro che Aline aveva messo del cibo sul tavolino tra i
divani. C'erano pane e formaggio, fette di torta, mele e persino una bottiglia di vino, che Max non
poteva toccare. Era seduto in un angolo, con una fetta di torta su un piattino e il suo libro aperto
sulle ginocchia. Simon lo capiva: anche lui probabilmente sentiva lo stesso senso di solitudine, nel
gruppo che rideva e chiacchierava.
Simon vide Aline sfiorare il polso di Jace mentre si allungava per prendere un quarto di mela. Si
irrigidì. In fondo è quello che vuoi da Jace, si disse. Eppure, in qualche modo non riusciva a
liberarsi dalla sensazione che Jace stesse mancando di rispetto a Clary.
Jace incrociò il suo sguardo e sorrise. Pur non essendo un vampiro, riuscì a fargli un sorriso che
sembrava tutto denti aguzzi. Simon distolse lo sguardo e si guardò intorno. Notò che la musica che
aveva sentito prima non veniva da uno stereo, ma da un congegno meccanico dall'aria molto
complicata.
Pensò di attaccare discorso con Isabelle, ma vide che stava chiacchierando con Sebastian, il cui viso
elegante era chino sul suo, tutto concentrato. Jace, una volta, aveva riso della cotta che Simon si era
preso per Isabelle, Sebastian invece era senza dubbio in grado di gestirla. Gli Shadowhunters
venivano educati a controllare qualsiasi cosa, giusto? E tuttavia, l'espressione di Jace, quando aveva
detto di voler essere solo un fratello per Clary, lo faceva dubitare.
— Abbiamo finito il vino — annunciò Isabelle, sbattendo la bottiglia sul tavolo. — Vado a
prenderne dell'altro. — Con un cenno d'intesa a Sebastian, sparì in cucina.
— Se mi permetti un'osservazione, mi sembri un po' silenzioso. — Era Sebastian, appoggiato dietro
allo schienale della poltrona di Simon, con un sorriso disarmante. Per avere i capelli così scuri,
pensò Simon, Sebastian aveva la pelle chiarissima, come se non uscisse molto alla luce del sole. —
Tutto bene?
Simon scrollò le spalle. — Non ci sono molti spiragli, per me, in questa conversazione. A quanto
pare, o si parla di politica degli Shadowhunters o di persone che non ho mai sentito nominare, o
entrambe le cose.
Il sorriso di Sebastian scomparve. — A volte siamo un circolo molto chiuso, noi Nephilim. È così
che succede a chi è escluso dal resto del mondo.
— Forse siete voi stessi a escludervi, non credi? Voi disprezzate la gente comune.
— "Disprezzare" è un po' forte — replicò Sebastian. —
Ma tu credi davvero che il mondo degli umani voglia avere qualcosa a che fare con noi? Ogni volta
che loro cercano di rassicurarsi negando l'esistenza di vampiri, demoni o altri mostri sotto il letto,
noi non facciamo che ricordargli che stanno mentendo a se stessi. — Si girò a guardare Jace. Simon
si accorse solo allora che li stava fissando in silenzio.
— Non sei d'accordo anche tu?
Jace sorrise. — De ce crezi ca va auscultam conversatia?
Sebastian incrociò il suo sguardo con un'aria di piacevole interesse. — M-ai urmarit de cand ai
ajuns aici — replicò.
— Nu-mi dau seama daca nu ma placi ori daca esti atat de banuitor cu toata lumea. — Si
raddrizzò. — Ti ringrazio dell'opportunità che mi dai di praticare il rumeno, ma, se non ti dispiace,
ora vado in cucina a vedere perché Isabelle ci sta mettendo tanto. — Sparì dalla porta, lasciando
Jace a fissarlo con un'espressione perplessa.
— Qualcosa non va? Alla fine, sa parlare il rumeno o no? — chiese Simon.
— Sì — disse Jace. Gli era apparsa una linea sottile tra le sopracciglia aggrottate. — Lo parla
eccome.
Prima che Simon potesse chiedergli spiegazioni, rientrò Alec. Era accigliato, come quando se n'era
andato. Il suo sguardo si soffermò su Simon con un'espressione leggermente confusa negli occhi
azzurri.
Jace lo guardò. — Già di ritorno?
— Non per molto. — Alec prese una mela dal tavolo con la mano guantata. — Sono venuto a
prendere... lui — annunciò, indicando Simon con la mela. — Lo vogliono alla Guardia.
Aline sembrò sorpresa. — Davvero? — esclamò, mentre Jace già si stava alzando dal divano,
sciogliendo l'intreccio delle loro dita.
— Per quale motivo? — chiese, con una calma pericolosa. — Spero che tu sappia quello che fai.
— Certo che lo so — ribatté Alec. — Non sono stupido.
— Suvvia! — intervenne Isabelle. Era ricomparsa sulla porta con Sebastian, che teneva in mano
una bottiglia. — Qualche volta sei un po' stupido, lo sai, solo un pochino — ripetè, mentre Alee le
scoccava un'occhiata assassina.
— Vogliono rimandare Simon a New York — annunciò Alec. — Dal Portale.
— Ma se è appena arrivato! — protestò Isabelle mettendo il broncio. — Così non è divertente!
— Nessuno pensa che debba essere divertente, Izzy. Simon è capitato qui per errore, quindi il
Conclave ritiene che la cosa migliore sia di rispedirlo a casa.
— Fantastico — commentò Simon. — Magari riesco a rientrare prima che mia madre si accorga
della mia assenza. Che differenza di fuso orario c'è, tra qui e Manhattan?
— Tu hai una madre? — Aline sembrava stupefatta.
Simon decise di ignorarla. — Per me va bene — annunciò, mentre Alec e Jace si scambiavano delle
occhiate. — Voglio soltanto sparire da questo posto.
— Tu andrai con lui — disse Jace ad Alec. — E controllerai che vada tutto bene, vero?
Si stavano guardando in un modo che Simon conosceva bene. Era il modo in cui si guardavano lui e
Clary, talvolta, scambiandosi occhiate in codice, quando non volevano che i loro genitori sapessero
cosa avevano in mente.
— Cosa c'è che non va? — chiese Simon guardandoli.
Lo scambio di occhiate s'interruppe. Alec distolse lo
sguardo, e Jace guardò Simon con un'espressione blanda e sorridente. — Niente — disse. — Va
tutto bene. Congratulazioni, vampiro, ce l'hai fatta: torni a casa.
capitolo 4
IL DIURNO
Era scesa la notte, su Alicante, quando Simon e Alec uscirono dalla casa dei Penhallow e
s'incamminarono verso la Guardia. Le strade della città, strette e tortuose, si dipanavano verso la
cima della collina come pallidi nastri di pietra alla luce della luna. L'aria era fredda, anche se Simon
lo percepiva solo vagamente.
Alec camminava in silenzio a grandi passi, sempre davanti a Simon, come fingendo di essere solo.
Nella sua vita precedente, Simon avrebbe dovuto correre per stargli dietro, avrebbe avuto il fiatone;
ora scopriva di poter stare al passo di Alec semplicemente accelerando un po'. — Deve essere una
bella rogna, per te — disse Simon ad Alec, con lo sguardo imbronciato e fisso davanti a sé. —
Trovarti costretto a farmi da scorta, dico.
Alec scrollò le spalle. — Ho diciotto anni. Sono un adulto, quindi devo essere io il responsabile.
Sono l'unico che può entrare e uscire dalla Guardia mentre il Conclave è riunito. E poi, il Console
mi conosce.
— Che cos'è un Console?
— È una specie di alto ufficiale del Conclave. È lui che conta i voti del Consiglio, che interpreta la
Legge, che consiglia i membri del Conclave e l'Inquisitore. Se dirigi un Istituto e incappi in un
problema e non sai come risolverlo, è il Console che chiami.
— Consiglia l'Inquisitore? Ma l'Inquisitrice non è morta?
Alec sbuffò. — È come dire: il presidente non è morto?
Sì, l'Inquisitrice è morta, e adesso ce n'è uno nuovo. L'Inquisitore Aldertree.
Simon si girò a guardare l'acqua scura dei canali ai piedi della collina. S'erano lasciati la città alle
spalle e stavano percorrendo una stradina stretta tra alberi fitti d'ombre. — Sai che ti dico? In
passato, l'Inquisizione non ha funzionato molto bene, con la mia gente. — Alec lo guardò senza
capire. — Non fa niente. È solo una battuta fra noi mondani.
— Tu non sei un mondano — gli ricordò Alec. — È per questo che Aline e Sebastian erano così
impazienti di vederti. Be', con Sebastian non si può mai dire: ha sempre l'aria di uno che ha già visto
tutto.
Simon parlò senza pensare. — Lui e Isabelle... C'è qualcosa tra di loro?
Questo fece ridere Alec. — Isabelle e Sebastian? Difficile. Sebastian è un bravo ragazzo. A Isabelle
piace uscire solo con ragazzi assolutamente inadeguati, che i nostri genitori non potrebbero mai
sopportare: mondani, Nascosti, piccoli truffatori...
— Grazie — disse Simon. — Mi fa piacere essere classificato fra i criminali.
— Credo che lo faccia per attirare l'attenzione — disse Alec. — È l'unica ragazza della famiglia,
quindi deve continuamente dimostrare di essere una tipa tosta. O almeno, così crede.
— O forse cerca solo di distogliere l'attenzione da te — osservò Simon, quasi distrattamente. —
Visto che i tuoi genitori non sanno che sei gay.
Alec si fermò in mezzo alla strada così all'improvviso che Simon per poco non gli finì addosso. —
No — disse. — Ma evidentemente tutti gli altri lo sanno.
— Tranne Jace — precisò Simon. — Lui non lo sa, vero?
Alec fece un respiro profondo. Era pallido, pensò Simon, 0 forse era solo la luce della luna che
lavava via i colori.
I suoi occhi erano neri nel buio. — Non vedo come la cosa ti possa riguardare. A meno che tu non
stia cercando di minacciarmi.
— Minacciarti? — Simon fu colto alla sprovvista. — Io non sto...
— Allora perché? — l'interruppe Alec. Nella sua voce c'era una vulnerabilità evidente e improvvisa
che stupì Simon. — Perché tiri fuori questa storia?
— Perché — rispose Simon — sembra sempre che tu mi odi. Non ne faccio una questione
personale, anche se ti ho salvato la vita. È che dai l'impressione di odiare tutto il mondo. Non
abbiamo niente in comune, io e te, ma ti vedo, quando guardi Jace, e vedo me stesso quando guardo
Clary. E penso che forse questa è una cosa che abbiamo in comune. E che potrebbe convincerti a
detestarmi un po' di meno.
— Allora, tu non vuoi dirlo a Jace? — disse Alec. — Insomma, tu hai detto a Clary quello che
sentivi e...
— E non è stata una grande idea — concluse Simon. — Ora mi chiedo di continuo se si può tornare
indietro, dopo una cosa simile. Se potremo di nuovo essere amici o se quello che avevamo è andato
in frantumi. Non per causa sua, ma mia. Forse, se trovassi qualcun altro...
— Qualcun altro — ripetè Alec. Aveva ripreso a camminare, molto in fretta, con gli occhi fissi sulla
strada davanti a sé.
Simon accelerò il passo. — Sai cosa voglio dire. Per esempio, secondo me tu piaci molto a Magnus
Bane. E Magnus è un bel tipo. O, quantomeno, dà delle feste grandiose. Anche se quella volta mi
sono ritrovato topo.
— Grazie per il consiglio. — La voce di Alec era secca. — Ma non credo di piacergli tanto. Mi ha a
malapena rivolto la parola, quando è venuto all'Istituto ad aprire il Portale.
— Forse dovresti chiamarlo — gli suggerì Simon, cercando di non pensare troppo a quanto fosse
strano ritrovarsi a dare consigli a un Cacciatore di demoni sulla possibilità di mettersi insieme a uno
stregone.
— Non posso — disse Alec. — Niente telefoni, a Idris. E comunque, non importa. — Il tono era
sbrigativo. — Siamo arrivati. Questa è la Guardia.
Davanti a loro si ergeva un alto muro nel quale si apriva un enorme portone a due battenti, incisi coi
segni svolazzanti e spigolosi delle rune. Benché Simon non fosse in grado di leggerli, c'era qualcosa
di folgorante nella loro complessità e nel senso di potere che emanavano. Il portone era sorvegliato
su entrambi i lati da angeli di pietra dai volti feroci e bellissimi. Ciascuno brandiva una spada incisa
di rune e aveva ai piedi una creatura che si contorceva negli spasimi della morte: un incrocio tra un
topo, un pipistrello e una lucertola, con pericolosi denti aguzzi. Simon si soffermò a guardarli.
Demoni, immaginò... ma avrebbero potuto tranquillamente essere vampiri.
Alec spalancò i battenti e fece cenno a Simon di passare. Una volta entrato, Simon si guardò intorno
confuso. Da quando era diventato un vampiro, la sua capacità di vedere al buio aveva assunto una
precisione da laser, ma le decine di torce lungo il percorso che conduceva alla Guardia erano fatte di
stregaluce e il loro crudo bagliore bianco offuscava i dettagli di ogni cosa. Alec, intanto, lo guidava
lungo lo stretto sentiero di ciottoli, splendente di luci riflesse, finché qualcuno, sul sentiero davanti a
lui, non gli bloccò il passo con il braccio alzato.
— Dunque è lui il vampiro? — La voce che aveva parlato era così profonda da essere quasi un
ringhio animale. Simon alzò gli occhi: gli bruciavano per la troppa luce e avrebbero lacrimato, se
fosse stato ancora capace di piangere. Stregaluce, pensò. Luce angelica, mi brucia. Immagino che
non ci sia da stupirsi.
L'uomo davanti a loro era molto alto, con la pelle giallastra tesa sugli zigomi pronunciati. Sotto una
calotta di capelli neri tagliati corti la fronte era alta, il naso aquilino, romano. Guardava Simon con
l'espressione di un pendolare alla stazione della metropolitana, intento a osservare un ratto che corre
sulle rotaie con la vaga speranza che passi un treno e lo spiaccichi.
— Questo è Simon — disse Alec con una lieve incertezza. — Simon, ti presento il Console Malachi
Dieudonné. È pronto il Portale, signore?
— Sì — rispose Malachi. La sua voce era dura e aveva un lieve accento straniero. — Ogni cosa è
pronta. Vieni, Nascosto. — Fece cenno a Simon di seguirlo. — Prima chiudiamo questa faccenda e
meglio è.
Simon fece per seguire l'alto ufficiale, ma Alec lo fermò con la mano sul braccio. — Solo un
momento — disse rivolto al Console. — Verrà rimandato direttamente a Manhattan? E là ci sarà
qualcuno ad aspettarlo?
— Certamente — confermò Malachi. — Lo stregone Magnus Bane. Poiché è stato lui a consentire
al vampiro, poco saggiamente, di arrivare a Idris, ora si è assunto la responsabilità di aspettare il suo
ritorno.
— Se Magnus non l'avesse fatto passare attraverso il Portale, Simon sarebbe morto — precisò Alee
un po' seccamente.
— Forse — ribatté Malachi. — È quanto dicono anche i tuoi genitori, e il Conclave ha scelto di
credere alle loro parole. Contro il mio consiglio. In ogni caso, non si porta un Nascosto nella Città
di Vetro così a cuor leggero.
— Non è stato fatto a cuor leggero. — La rabbia si gonfiò nel petto di Simon. — Eravamo stati
attaccati...
Malachi rivolse lo sguardo a Simon. — Tu parlerai soltanto quando ti verrà rivolta la parola,
Nascosto, non prima.
La mano di Alee si strinse intorno al braccio di Simon. C'era una strana espressione sul suo viso: di
esitazione, di sospetto, come se si chiedesse se fosse stata una saggia idea, quella di portare Simon
lassù.
— Ma, Console, davvero! — La voce che giunse attraverso il cortile era acuta e sfiatata. Simon vide
con una certa sorpresa che apparteneva a un ometto piccolo e tondo che si affrettava verso di loro.
Indossava un'ampia cappa grigia sulla tenuta da Cacciatore e la sua pelata riluceva nella stregaluce.
— Non c'è alcun bisogno di allarmare il nostro ospite.
— Ospite?! — ripetè Malachi indignato.
L'ometto si fermò davanti ad Alee e Simon e li guardò con un sorriso raggiante. — Siamo così
contenti, anzi felici, veramente, che tu abbia deciso di collaborare, accettando di farti rimandare a
New York. Ci rende tutto molto, molto più facile. — Fece l'occhiolino a Simon, che lo guardava
confuso. Non avrebbe mai pensato di incontrare uno Shadowhunter che fosse felice di vederlo: non
da mondano, e certo non adesso che era un vampiro. — Ah, dimenticavo! — L'ometto si batté la
mano sulla fronte. — Non mi sono neanche presentato. Io sono l'Inquisitore, il nuovo Inquisitore.
Inquisitore Aldertree è il mio nome.
Aldertree porse la mano a Simon che, nella confusione più totale, gliela strinse. — E tu, ti chiami
Simon?
— Sì — rispose lui, ritirando la mano appena possibile. La stretta di Aldertree era sgradevolmente
umidiccia e appiccicosa. — Non c'è bisogno di ringraziarmi per la collaborazione. Io voglio solo
andare a casa.
— Ne sono certo, ne sono certo! — Sebbene il tono di Aldertree fosse gioviale, qualcosa balenò sul
suo viso mentre parlava, un'espressione che Simon non riuscì ad afferrare. Sparì in un attimo, poi
Aldertree sorrise e gli indicò un sentierino che girava intorno alla Guardia. — Da questa parte,
Simon, se non ti dispiace.
Simon si mosse e Alec fece per seguirlo. L'Inquisitore sollevò la mano. — Non abbiamo bisogno
altro, da te, Alexander. Ti ringrazio per l'aiuto.
— Ma, Simon... — iniziò Alec.
— Simon starà benone — lo rassicurò l'Inquisitore. — Malachi, per favore accompagna fuori
Alexander. E dagli una pietra runica di stregaluce per arrivare fino a casa, se non ne ha portata una
con sé. Il sentiero può essere insidioso, di notte.
E con un altro sorriso beato si portò via Simon, lasciando Alec a guardarli andare.
Il mondo si dilatò intorno a Clary in una macchia indistinta ma quasi tangibile, mentre Luke la
portava oltre la soglia, in un lungo corridoio, e Amatis faceva loro strada con la stregaluce. In preda
al delirio, Clary fissava lo sguardo sul corridoio che si stendeva davanti a lei sempre più lungo,
sempre più lungo, come il corridoio di un incubo.
Il mondo si rovesciò su un fianco. Clary si ritrovò distesa su una superficie fredda. C'erano delle
mani che lisciavano una coperta sopra di lei e un paio di occhi azzurri che la scrutavano dall'alto. —
Sta molto male, Lucian! — disse Amatis con una voce alterata e distorta come quella di un vecchia
registrazione. — Cosa le è successo?
— Ha bevuto metà del lago Lyn. — Il suono della voce di Luke si affievolì e per un momento la
visione di Clary si schiarì: era distesa sul pavimento di fredde piastrelle di una cucina e, da qualche
parte, Luke stava frugando in un armadietto. La cucina aveva pareti gialle e scrostate e una vecchia
stufa di ghisa a una parete; le fiamme che danzavano dietro la grata della stufa le ferivano gli occhi.
— Anice, belladonna, elleboro... — Luke si allontanò dall'armadietto con le braccia piene di
barattoli di vetro. — Puoi mettere a bollire queste erbe, Amatis? Voglio spostarla più vicino alla
stufa. Sta tremando.
Clary cercò di parlare, di dire che non aveva bisogno di essere riscaldata, che stava bruciando, ma i
suoni che le uscirono di bocca non erano quelli che aveva in mente. Si sentì mugolare, quando Luke
la sollevò, poi avvertì il calore che le scongelava il fianco sinistro... Non si era nemmeno resa conto
di avere freddo. I denti le battevano forte e sentì in bocca il sapore del sangue. Il mondo cominciò a
tremare intorno a lei come acqua scossa in un bicchiere.
— Il Lago dei Sogni? — La voce di Amatis era piena di incredulità. Clary non riusciva a vederla
chiaramente, ma le sembrava che fosse vicino alla stufa, con un lungo cucchiaio di legno in mano.
— Che cosa ci facevate là? Jocelyn sa dove...
Il mondo non c'era più, o per lo meno il mondo reale, la cucina coi muri gialli e il fuoco confortante
dietro la grata. Vedeva le acque del lago Lyn che riflettevano il fuoco come la superficie di un vetro
lucido. Su quel vetro camminavano angeli: angeli dalle ali bianche, spezzate e insanguinate. E tutti
avevano il volto di Jace. E poi altri angeli, con ali di nera tenebra, che avvicinavano le mani al
fuoco e ridevano...
— Continua a chiamare suo fratello. — La voce di Amatis sembrava cava, come se filtrasse verso di
lei da profondità impossibili. — È con i Lightwood, vero? I Lightwood stanno dai Penhallow, in
Princewater Street. Potrei...
— No — ribatté Luke seccamente. — No. È meglio che Jace non sappia nulla di tutto questo.
Stavo chiamando Jace! Perché lo facevo?, si chiese Clary. Ma il pensiero ebbe vita breve: tornò il
buio e le allucinazioni s'impossessarono di nuovo della sua mente. Questa volta sognò Alee e
Isabelle. Sembravano usciti da una battaglia feroce, avevano la faccia rigata di lacrime e di sporco.
E poi non c'erano più. E Clary sognò un uomo senza volto, con delle ali nere che gli crescevano
sulla schiena come ali di pipistrello. L'uomo sorrideva e dalla bocca gli colava sangue. Pregando
che le visioni svanissero, Clary serrò gli occhi.
Passò molto tempo prima che riemergesse verso la superficie, richiamata dalle voci sopra di lei. —
Bevi questo — le stava dicendo Luke. — Clary, devi berlo. — E poi c'erano delle mani che le
sorreggevano la schiena e c'era un fluido che le colava nella bocca da un fazzoletto zuppo. Era
amaro e disgustoso, e Clary tossiva, aveva conati di vomito, ma le mani sulla sua schiena erano ben
salde. Mandò giù, oltre il dolore della gola gonfia. — Fatto — disse Luke. — Ora dovrebbe andare
meglio.
Clary aprì gli occhi lentamente. In ginocchio accanto a lei c'erano Luke e Amatis, e i loro occhi
azzurri, quasi identici, erano colmi della medesima preoccupazione. Guardò alle loro spalle e non
vide niente: né angeli, né demoni dalle ali di pipistrello. Solo pareti gialle e un bollitore rosa pallido
in bilico sul davanzale di una finestra.
— Morirò? — sussurrò.
Luke fece un sorriso sfinito. — No. Ti ci vorrà un po' per rimetterti in sesto, ma te la caverai.
— Okay. — Era troppo esausta per sentire qualsiasi cosa, anche il sollievo. Era come se le avessero
tolto tutte le ossa, lasciandole solo un sacco di pelle vuoto. Guardando Luke tra le ciglia,
insonnolita, quasi senza pensare, Clary disse: — Hai gli occhi uguali.
Luke batté le palpebre. — Uguali a cosa?
— Uguali ai suoi — disse Clary, spostando lo sguardo assonnato verso Amatis, che sembrava
perplessa. — Lo stesso azzurro.
L'ombra di un sorriso passò sul volto di Luke. — Be', non è poi così strano, tutto sommato — disse.
— Prima non ho avuto modo di fare le presentazioni. Clary, ti presento Amatis Herondale. Mia
sorella.
L'Inquisitore smise di parlare non appena Alec e l'alto ufficiale furono abbastanza lontani. Simon lo
seguì lungo lo stretto sentiero illuminato, cercando di non guardare verso le torce di stregaluce.
Sentiva la mole possente della Guardia che si innalzava davanti a lui come la fiancata di una nave
sull'oceano. Le finestre vivamente illuminate macchiavano il cielo di una luce argentea. C'erano
anche finestrelle basse, al livello del suolo. Molte avevano delle inferriate, ed erano buie.
Dopo un po' raggiunsero un passaggio ad arco chiuso da una porta di legno, su un lato dell'edificio.
Quando Aldertree si avvicinò e aprì il lucchetto, lo stomaco di Simon si strinse. Le persone, lo
notava da quando era un vampiro, avevano un odore che mutava con l'umore. L'Inquisitore puzzava
di qualcosa di forte e amaro, come il caffè, ma molto più sgradevole. Simon sentì nelle gengive il
dolore pungente che precedeva sempre l'apparire dei canini e, passando dalla porta, cercò di stare
lontano dall'Inquisitore.
Il corridoio che si apriva oltre la porta era lungo e bianco, quasi un tunnel, e sembrava scavato nella
roccia. L'Inquisitore camminava veloce e la sua stregaluce gettava riflessi vivaci contro i muri. Per
avere delle gambe così corte, si muoveva con notevole rapidità, girando spesso la testa a destra e a
sinistra e arricciando il naso come ad annusare l'aria, e Simon dovette affrettare il passo. Entrarono
per un portone dai battenti spalancati come ali. Nella grande sala che si apriva dall'altra parte,
Simon vide un anfiteatro con file e file di sedie, ciascuna occupata da uno Shadowhunter vestito di
nero. Le loro voci rimbalzavano contro le pareti, molte dai toni accesi dall'ira, e Simon colse
brandelli di discussione, voci sovrapposte e parole soffocate da altre.
— Non abbiamo alcuna prova di ciò che vuole Valentine. Non ha comunicato i suoi desideri a
nessuno.
— Che cosa importa quello che vuole? È un rinnegato e un bugiardo. Credi davvero che qualsiasi
tentativo di rabbonirlo possa esserci d'aiuto?
— Sapete che una pattuglia ha trovato il corpo di un giovane lupo mannaro nei dintorni di
Brocelind? Dissanguato. Sembra che Valentine abbia completato il Rituale qui a Idris.
— Con due degli Strumenti Mortali in suo possesso, è più potente di qualsiasi Nephilim. Potremmo
non avere scelta.
— Mio cugino è morto, su quella nave a New York! Non possiamo fargliela passare liscia, dopo
tutto quello che ha fatto! Deve pagarla!
Simon rallentò, curioso di saperne di più, ma l'Inquisitore gli ronzava intorno come una grassa ape
molesta. — Andiamo, andiamo! — diceva, agitando la stregaluce davanti a sé. — Non abbiamo
tempo da perdere. Devo tornare all'assemblea prima che finisca.
Con riluttanza, Simon si lasciò sospingere dall'Inquisitore lungo il corridoio, con quel "Deve
pagarla!" che ancora gli risuonava nelle orecchie. Il ricordo di quella notte sulla nave era freddo e
sgradevole. Raggiunsero una porta su cui era intagliata un'unica, semplice runa nera, e l'Inquisitore
tirò fuori una chiave e l'aprì, facendo entrare Simon con un ampio gesto della mano.
La stanza era decorata da un unico arazzo, raffigurante un angelo che emergeva dalle acque di un
lago con una spada in una mano e una coppa nell'altra. Simon si distrasse un momento, pensando
che aveva già visto sia la Coppa sia la Spada. Solo quando sentì lo scatto di una serratura si rese
conto che l'Inquisitore aveva chiuso a chiave la stanza.
Si guardò intorno. Non c'erano mobili, tranne una panca e un tavolino basso. Una campanella
d'argento ornamentale era posata sul tavolino. — Il Portale... È qui dentro? — chiese con incertezza.
— Simon, Simon — Albertree si sfregò e mani, come pregustando una festa di compleanno o
qualche altro piacevole evento.
— Hai davvero tanta fretta di andartene? Ci sarebbero un paio di domande che vorrei farti, prima...
— Okay. — Simon scrollò le spalle, a disagio. — Mi può chiedere ciò che vuole, immagino.
— Come sei disponibile! Che bellezza! — Albertree aveva un sorriso raggiante. — Allora, da
quanto tempo, esattamente, sei un vampiro?
— Circa due settimane.
— E com'è successo? Sei stato aggredito per strada? O nel tuo letto, di notte? Sai chi è stato, a
trasformarti?
— Be', non esattamente.
— Ma, ragazzo mio — esclamò Aldertree — come fai a non sapere una cosa del genere? — Lo
sguardo che l'Inquisitore posò su Simon era aperto e curioso. Sembrava così innocuo, pensò Simon.
Come di un nonno o un vecchio zio un po' buffo. Quell'odore amaro, probabilmente se l'era
immaginato.
— Non è stato così semplice, in realtà — rispose Simon. E raccontò delle sue due visite al Dumort,
una in forma di topo e l'altra perché spinto da un'urgenza irresistibile. Si era sentito come stretto fra
le ganasce di una enorme tenaglia e sospinto esattamente nel punto in cui voleva farlo andare. — E
così — concluse Simon — nel momento in cui ho varcato la soglia dell'hotel, sono stato attaccato...
Non so chi è stato quello che mi ha trasformato. Forse sono stati un po' tutti, in un certo senso.
L'Inquisitore schioccò la lingua con disapprovazione. — Santo cielo, santo cielo. Questo non va per
niente bene. È molto fastidioso.
— L'ho pensato anch'io — concordò Simon.
— Il Conclave non ne sarà affatto contento.
— Come? — Simon era sconcertato. — Che cosa può importare al Conclave di come sono
diventato un vampiro?
— Be', un conto sarebbe se tu fossi stato aggredito — spiegò Aldertree con dispiacere. — Ma tu ci
sei andato con le tue gambe e... be', praticamente ti sei consegnato ai vampiri, capisci? Sembra
quasi che tu volessi diventare uno di loro.
— Certo che no! Non è per questo che sono andato all'hotel!
— Ma certo, ma certo. — La voce di Aldertree era melliflua. — Passiamo a un altro argomento,
vuoi? — Senza aspettare risposta, proseguì: — Come mai i vampiri ti hanno lasciato sopravvivere e
rinascere, giovane Simon? Considerato che avevi violato il loro territorio, la normale procedura
sarebbe stata quella di bere il tuo sangue fino a farti morire, poi bruciare il tuo corpo per impedirti
di rinascere.
Simon aprì la bocca per raccontare all'Inquisitore che Raphael l'aveva riaccompagnato all'Istituto e
che poi Clary, Jace e Isabelle l'avevano portato al cimitero ed erano rimasti ad aspettare che uscisse
dalla sua fossa scavando con le mani. Ma esitò. Aveva solo una vaga idea di come funzionava la
loro Legge, ma aveva il sospetto che assistere alla rinascita di un vampiro e procurargli il sangue
per il suo primo pasto non rientrasse nella normale prassi. — Non lo so — disse. — Non ho idea del
perché mi abbiano trasformato, invece di uccidermi.
— Ma uno di loro deve averti fatto bere il suo sangue, altrimenti non saresti... be', non saresti quello
che sei oggi. Mi stai dicendo che non sai chi sia il vampiro tuo signore?
Il vampiro mio signore? Simon non l'aveva mai pensata in questi termini... Il sangue di Raphael gli
era entrato in bocca quasi per un caso. Ed era difficile pensare al ragazzo vampiro come a un
sovrano: Raphael sembrava persino più giovane di lui. — Temo di no.
— Santo cielo! — sospirò l'Inquisitore. — Che sfortuna.
— Che cosa è una sfortuna?
— Be', il fatto che tu mi stia mentendo, ragazzo. — Aldertree scosse la testa. — E io che speravo
tanto che tu collaborassi. È terribile. Terribile. Non vorresti ripensarci, provare a dirmi la verità?
Come un favore personale?
— Ma io gliela sto dicendo, la verità!
L'Inquisitore si ammosciò come un fiore senz'acqua.
— Che peccato. — Sospirò di nuovo. — Che peccato. — E con queste parole andò alla porta e
diede un colpo secco sul legno, ancora scuotendo la testa.
— Che succede? — La voce di Simon era venata di allarme e confusione. — E il Portale?
— Il Portale? — Aldertree ridacchiò. — Non avrai pensato davvero che ti avrei lasciato andare così,
vero?
Prima che Simon potesse replicare, la porta si spalancò e riversò nella stanza un manipolo di
Shadowhunters in tenuta nera. Mani forti si strinsero intorno alle braccia di Simon, bloccandolo.
Simon lottò, ma gli calarono un cappuccio in testa. Scalciò alla cieca, un piede colse nel segno e
sentì qualcuno imprecare.
Venne spintonato indietro, brutalmente. Una voce infuocata gli ringhiò all'orecchio: — Fallo di
nuovo, vampiro, e ti verso l'acqua santa giù per la gola e ti guardo morire sputando sangue.
— Basta così! — La vocetta sottile e preoccupata dell'Inquisitore si levò come un palloncino. —
Basta con le minacce! Voglio solo dare una piccola lezione al nostro ospite.
— Doveva essersi avvicinato, perché Simon sentiva di nuovo quello strano odore amaro, filtrato dal
cappuccio. — Simon, Simon — disse Aldertree. — Mi ha fatto tanto piacere conoscerti. Spero
proprio che una notte nelle celle della
Guardia sortisca l'effetto desiderato e che domani mattina tu sia un po' più propenso a collaborare.
Vedo un futuro luminoso, per noi, una volta superato questo piccolo intoppo. — La sua mano si
posò sulla sua spalla. — Portatelo di sotto, Nephilim.
Simon urlò, ma il cappuccio soffocò le sue grida. Gli Shadowhunters lo trascinarono fuori e lo
spinsero per una serie infinita di tortuosi e labirintici corridoi. Alla fine, arrivarono a una rampa di
scale e lo spintonarono giù a forza. I piedi di Simon scivolarono più volte sui gradini. Non aveva la
minima idea di dove si trovasse... Sentiva solo un odore scuro e malsano, come di pietra bagnata,
mentre l'aria si faceva più umida e fredda man mano che scendevano.
Alla fine si fermarono. Ci fu un suono raschiante, come di ferro trascinato sulla pietra. Simon fu
spinto di nuovo e cadde sulle mani e le ginocchia su un duro pavimento. Ci fu un colpo forte e
metallico, come di una porta che si chiudeva con violenza, e il suono di passi che si allontanavano,
con l'eco sempre più fioco degli stivali sulla pietra. Simon si rimise in piedi. Si sfilò il cappuccio
dalla testa e lo buttò a terra. La sensazione di soffocamento, di calore e di chiuso svanì. Resistette
all'impulso di riempirsi i polmoni d'aria, perché non ne aveva alcun bisogno: era solo un riflesso
condizionato, ma il petto gli doleva come se avesse rischiato di morire asfissiato.
Si trovava in una nuda stanzetta di pietra, con una finestrella inferriata in alto, sopra un angusto
letto dall'aria scomoda. Dietro una porticina, c'era un minuscolo bagno con un lavandino e un
gabinetto. Una parete della stanza era interamente fatta di sbarre: grosse sbarre di ferro dal
pavimento al soffitto, ben salde nella pietra, con una porta, anch'essa fatta di sbarre, con un pomolo
d'ottone sul quale era incisa una grossa runa nera. A dire il vero, tutte le sbarre erano coperte di
rune, comprese quelle della finestrella.
Pur sapendo che la porta della cella era certamente chiusa a chiave, Simon non riuscì a resistere alla
tentazione: si avvicinò e afferrò il pomolo. Un dolore straziante gli bruciò la mano. Urlò e ritrasse il
braccio con gli occhi sbarrati. Sottili spire di fumo si alzavano dal palmo ustionato: un intrico di
linee gli si era impresso a fuoco sulla pelle. Sembrava una piccola stella di Davide dentro un
cerchio, con rune delicate in ciascuno degli spazi tra le linee.
Era un dolore al calor bianco. Simon chiuse le dita sul palmo e un singulto gli salì alle labbra. — E
questo cos'è? — sussurrò, pensando che nessuno potesse sentirlo.
— È il Sigillo di Salomone — rispose una voce. — Dicono che contenga uno dei Veri Nomi di Dio.
Respinge i demoni, e anche quelli della tua razza.
Simon si raddrizzò di scatto, quasi dimenticando il dolore alla mano. — Chi sei? Chi ha parlato?
Ci fu un silenzio. Poi: — Sono nella cella accanto alla tua, Diurno — disse la voce. Era una voce
maschile, adulta, lievemente roca. — Le guardie sono rimaste qui sotto mezza giornata per pensare
a come tenerti in gabbia. Quindi, se fossi in te, non perderei tempo a cercare di fuggire. Faresti
meglio a conservare le forze, finché non avrai scoperto che cosa vuole da te il Conclave.
— Non possono trattenermi qui — protestò Simon. — Io non appartengo a questo mondo. La mia
famiglia si accorgerà che non ci sono... i miei insegnanti...
— Se ne sono occupati loro. Ci sono degli incantesimi abbastanza semplici (li saprebbe fare anche
uno stregone principiante) che possono dare ai tuoi genitori l'illusione che ci sia una ragione
perfettamente legittima per la tua assenza. Una gita scolastica, una visita ai nonni... Si può fare. —
Non c'era minaccia nella sua voce, né dolore: erano dati di fatto. — Pensi che non abbiano mai fatto
sparire un Nascosto?
— Tu chi sei? — La voce di Simon si spezzò. — Sei un Nascosto anche tu? È qui che ci tengono?
Questa volta non ci fu risposta. Simon lo chiamò di nuovo, ma evidentemente il suo vicino di cella
aveva deciso che non aveva altro da dire. Nulla rispose alle grida di Simon se non il silenzio.
Il dolore alla mano si era smorzato. Guardandola, Simon vide che la pelle non era più ustionata, ma
il marchio del sigillo era rimasto impresso sul palmo, come se fosse stato disegnato con l'inchiostro.
Si voltò verso le sbarre della cella e si accorse che non tutti i segni erano rune: incise tra una runa e
l'altra c'erano stelle di Davide e parole della Torah in ebraico. Le incisioni sembravano appena fatte.
Le guardie sono rimaste qui mezza giornata per pensare a come tenerti in ingabbia, aveva detto la
voce.
Ma, per assurdo, non era solo perché Simon era un vampiro, ma anche perché era ebreo. Avevano
passato mezza giornata a incidere il sigillo di Salomone sul pomolo della porta, così, se Simon
l'avesse toccato, si sarebbe ustionato. C'era voluto del tempo per rivoltare contro di lui i cardini
della sua stessa fede.
Per qualche ragione, questo ragionamento strappò via ciò che restava della sua forza d'animo. Si
lasciò cadere sul letto e si prese la testa tra le mani.
Princewater Street era buia quando Alec tornò dalla Guardia: le finestre delle case erano chiuse da
imposte o da tende.
Solo qualche lampione sparso disegnava sull'acciottolato un cerchio di stregaluce bianca. La casa
dei Penhallow era la più luminosa dell'isolato: alle finestre ardevano candele e la porta d'ingresso,
appena socchiusa, lasciava filtrare una striscia di luce gialla che si stampava sul vialetto.
Jace era seduto sul muretto di pietra che delimitava il giardino dei Penhallow. I suoi capelli erano
illuminati dalla luce di un vicino lampione. Alzò gli occhi, quando Alec si avvicinò, e rabbrividì un
poco: indossava solo una giacca, osservò Alec, ma si era fatto freddo, da quando il sole era
tramontato. Il profumo delle ultime rose aleggiava sottile nell'aria fresca.
Alec si sedette pesantemente sul muretto accanto a Jace. — Sei rimasto qui ad aspettarmi per tutto
questo tempo?
— Chi l'ha detto che stavo aspettando te?
— È andato tutto bene, se è questo che ti preoccupa. Ho lasciato Simon con l'Inquisitore.
— L'hai lasciato con lui? Non sei rimasto per assicurarti che tutto filasse liscio?
— È andato tutto bene — ripetè Alec. — L'Inquisitore ha detto che l'avrebbe portato dentro
personalmente e che l'avrebbe rimandato...
— L'Inquisitore ha detto, l'Inquisitore ha detto... — l'interrupe Jace. — Ti ricordo l'ultima volta che
abbiamo avuto a che fare con uno di loro. L'Inquisitrice Herondale è andata ben oltre il suo ruolo e,
se non fosse morta, il Conclave l'avrebbe sollevata dall'incarico, forse l'avrebbe persino maledetta.
Chi mi dice che questo Inquisitore non sia un altro pazzo da legare?
— Mi sembrava uno a posto — si giustificò Alec. — Addirittura simpatico. Con Simon è stato
molto cortese. Senti, Jace: è così che lavora il Conclave. Noi non possiamo avere il controllo su
tutto ciò che succede. Dobbiamo fidarci di loro, altrimenti sarà il caos.
— Ultimamente, però, hanno combinato un sacco di guai, questo lo devi ammettere.
— Forse — rispose Alec. — Ma se cominci a pensare di saperne più del Conclave, e anche della
Legge, diventi come l'Inquisitrice. O come Valentine.
Jace trasalì. Era come se Alec gli avesse tirato un pugno.
Alec si sentì sprofondare. — Scusa — gli disse, tendendogli la mano. — Non volevo offenderti...
Un raggio di intensa luce gialla tagliò il giardino all'improvviso. Alec alzò gli occhi e vide Isabelle
incorniciata nella porta aperta. Era solo una sagoma in controluce, ma dalle mani sui fianchi si
capiva che era irritata. — Che diavolo ci fate, voi due, là fuori? — esclamò. — Qui ci stavamo tutti
chiedendo dove eravate finiti.
Alec tornò a rivolgersi al suo amico. — Jace...
Ma Jace, alzandosi in piedi, ignorò la mano tesa di Alec. — Sarà meglio per te che le tue idee sul
Conclave siano giuste — fu tutto quello che disse.
Alec rimase a guardare Jace che rientrava in casa a grandi passi. Non richiesta, la voce di Simon gli
tornò alla mente. Ora mi chiedo di continuo se si può tornare indietro, dopo una cosa simile. Se
potremo di nuovo essere amici o se quello che avevamo è andato in frantumi. Non per causa sua,
ma mia.
La porta si richiuse, lasciando Alec da solo nel giardino semibuio. Chiuse gli occhi per un momento
e gli apparve dietro le palpebre l'immagine di un volto. Non di Jace, per una volta. Gli occhi di quel
viso erano verdi, con la pupilla a fessura. Occhi da gatto.
Alec riaprì gli occhi, prese dalla borsa a tracolla una penna e strappò un foglio dal bloc notes a
spirale che usava come diario. Vi scrisse poche parole e poi tracciò con lo stilo la runa del fuoco. La
fiamma avvolse il foglio con inaspettata rapidità. Alec aprì le dita e il foglio in fiamme si librò a
mezz'aria come una lucciola. Poco dopo, rimase soltanto un filo sottile di cenere, che si posò come
polvere bianca sul roseto.
capitolo 5
UN PROBLEMA DI MEMORIA
La luce del pomeriggio svegliò Clary. Una pallida luminescenza le bagnava il viso, illuminandole le
palpebre di un rosa intenso. Clary si agitò inquieta tra le lenzuola e con cautela aprì gli occhi.
La febbre era sparita, come pure la sensazione delle ossa che le si scioglievano dentro. Si tirò su e si
guardò intorno incuriosita. La camera in cui si trovava era probabilmente la stanza degli ospiti di
Amatis. Era piccola e dipinta di bianco. Sul letto c'era una coperta a quadri di lana dai colori vivaci.
Tendine di pizzo velavano le finestre rotonde lasciando entrare cerchi di luce. Clary si mise a sedere
lentamente, aspettandosi di essere presa dalle vertigini. Ma non successe nulla. Si sentiva in perfetta
forma, persino riposata. Scese dal letto e si guardò. Qualcuno le aveva infilato un pigiama bianco
troppo grande per lei: le maniche le penzolavano comicamente sotto le mani.
Si avvicinò a una delle finestre tonde e sbirciò fuori. Lungo il fianco di una collina sorgevano molte
case di pietra color oro antico, ammassate le une sulle altre, con tetti rivestiti da tegole che parevano
di bronzo. Questo lato della casa di Amatis non dava sul canale, ma su un angusto giardinetto che,
con l'autunno, si stava tingendo di bruno e oro. Un graticcio per rampicanti era appoggiato sul
fianco della casa: un'unica rosa tardiva vi restava ancora appesa, coi petali vizzi e anneriti.
La maniglia della porta si mosse e Clary si rimise a letto in tutta fretta. Entrò Amatis, con un
vassoio in mano: inarcò le sopracciglia vedendola sveglia, ma non disse nulla.
— Dov'è Luke? — chiese subito Clary, stringendosi alpetto la coperta, come in cerca di
rassicurazione.
Amatis appoggiò il vassoio sul tavolino accanto al letto. C'era una tazza con qualcosa di caldo e
qualche fetta di pane imburrato. — Dovresti mangiare qualcosa — le disse. — Ti sentirai meglio.
— Sto già bene — disse Clary. — Dov'è Luke?
C'era una poltrona dallo schienale alto, accanto al tavolino. Amatis vi si sedette, incrociò le mani in
grembo e osservò Clary con calma. Ora, alla luce del giorno, si vedevano meglio le linee che le
segnavano il volto: sembrava più vecchia di diversi anni rispetto alla madre di Clary, anche se non
doveva esserci molta differenza d'età. I suoi capelli castani erano striati di grigio, gli occhi arrossati,
come se avesse pianto. — Non è qui.
— "Non è qui" nel senso che è uscito un attimo a prendere sei lattine di coca e dei biscotti o "non è
qui" nel senso...
— Se n'è andato stamattina all'alba dopo averti vegliato per tutta la notte. Sulla destinazione, non è
stato molto preciso. — Il tono di Amatis era asciutto e, se Clary non si fosse sentita a pezzi, avrebbe
potuto trovare divertente il fatto che quel modo di parlare la faceva somigliare a Luke. — Quando
viveva qui, prima di andarsene da Idris, prima di essere... trasformato, comandava un branco di lupi
nella foresta di Brocelind. Mi ha detto che voleva tornare da loro, ma non mi ha voluto dire né
perché né per quanto tempo. Penso che sarà di ritorno tra qualche giorno.
— Quindi mi ha... mollato qui? E io dovrei restarmene qui seduta ad aspettare che torni?
— Be', non poteva certo portarti con sé — replicò Amatis. — E non sarà facile per te tornare a casa.
Hai infranto la Legge, venendo qui, e il Conclave non ci passerà sopra, né ti farà tornare a casa tanto
facilmente.
— Io non voglio tornare a casa. — Clary cercò di mantenere il controllo. — Sono venuta qui per...
per incontrare una persona. Ho una cosa da fare.
— Luke me l'ha detto — commentò Amatis. — Lascia che ti dia un consiglio: troverai Ragnor Fell
solo se lui vorrà essere trovato.
— Ma...
— Clarissa. — Amatis la osservò con occhio indagatore. — Ci attendiamo un attacco di Valentine
da un momento all'altro. Quasi tutti gli Shadowhunters di Idris sono qui in città, protetti dalle difese.
Stare ad Alicante è la cosa più sicura per te.
Clary rimase impietrita. Razionalmente, le parole di Amatis avevano un senso, ma non servivano a
placare la voce che, dentro di lei, le gridava di non aspettare. Doveva trovare Ragnor Fell adesso.
Doveva salvare sua madre adesso, doveva andare adesso. Ricacciò giù il panico e cercò di parlare
come se nulla fosse. — Luke non mi ha mai detto che aveva una sorella.
— No — commentò Amatis. — Non è una cosa che direbbe. Non eravamo più molto... legati.
— Luke ha detto che il tuo cognome è Herondale — osservò Clary. — È lo stesso dell'Inquisitrice,
giusto?
— Sì — confermò Amatis, e il suo viso si irrigidì, come se le parole la facessero soffrire. — Era
mia suocera.
Clary ripensò a quello che le aveva raccontato Luke, a proposito dell'Inquisitrice. Che aveva un
figlio e che questo figlio aveva sposato una donna con "legami familiari indesiderabili". — Tu eri
sposata con Stephen Herondale?
Amatis si sorprese. — Conosci il suo nome?
— Sì. Me ne ha parlato Luke. Ma credevo che sua moglie fosse morta. Credevo che fosse per
questo che l'Inquisitrice era così... — orribile, avrebbe voluto dire, ma sembrava una cosa crudele.
— Amareggiata — disse infine.
Amatis prese la tazza che aveva portato. La sua mano tremò leggermente nel sollevarla. — Sì, sua
moglie è morta. Si è suicidata. Ma era Celine, la sua seconda moglie. Io ero la prima.
— E avete divorziato?
— Qualcosa del genere. — Amatis allungò la tazza a Clary. — Senti, bevi questo. Devi mettere
qualcosa nello stomaco.
Distrattamente, Clary prese la tazza e mandò giù una bella sorsata. Il liquido aveva un sapore
intenso e salato: non era tè, come aveva pensato, ma brodo. — Okay — disse. — E poi, cos'è
successo?
Amatis guardava lontano. — Eravamo nel Circolo, io e Stephen, insieme a tutti gli altri. Quando
Luke venne trasformato, Valentine ebbe bisogno di un nuovo comandante in seconda. E scelse
Stephen. E quando lo scelse, decise che non era opportuno che la moglie del suo più stretto
collaboratore avesse un fratello...
— Lupo mannaro.
— Lui usò un altro termine. — La voce di Amatis era piena di amarezza. — Convinse Stephen ad
annullare il nostro matrimonio e a trovarsi un'altra moglie, una che Valentine aveva scelto per lui.
Celine era molto giovane e totalmente obbediente.
— È orribile.
Amatis scosse la testa con una risatina. — È stato tanto tempo fa. Stephen fu gentile con me,
tutto sommato. Mi lasciò questa casa e tornò a vivere nella tenuta degli Herondale, coi suoi genitori
e con Celine. Non lo rividi più. Lasciai il Circolo, naturalmente: non mi avrebbero più voluto.
L'unica di loro che continuò a farmi visita fu Jocelyn. Mi tenne informata anche quando decise di
andare in cerca di Luke... — Amatis si sistemò i capelli grigi dietro le orecchie. — Seppi di quello
che era successo a Stephen nella Rivolta, dopo che tutto era finito. E Celine... l'avevo odiata, ma mi
dispiacque per lei. Si tagliò le vene, dicono... sangue dappertutto... — Fece un respiro profondo. —
Rividi Imogen al funerale di Stephen, quando deposero il suo corpo nel mausoleo degli Herondale.
Fece finta di non conoscermi. La nominarono Inquisitrice poco tempo dopo. Il Conclave riteneva
che nessun altro avrebbe dato la caccia agli ex membri del Circolo più spietatamente di lei. E
avevano ragione. Se avesse potuto lavare via il ricordo di Stephen col loro sangue, l'avrebbe fatto.
Clary pensò agli occhi gelidi dell'Inquisitrice, al suo sguardo duro e penetrante, e cercò di provare
pietà per lei. — Secondo me, tutto questo l'ha fatta impazzire — commentò. — Impazzire sul serio.
Con me è stata orribile, ma con Jace ha fatto anche peggio. Era come se lo volesse morto.
— È comprensibile — disse Amatis. — Tu somigli molto a tua madre, e tua madre ti ha cresciuto,
ma tuo fratello... — Inclinò la testa. — Lui somiglia a Valentine quanto tu somigli a Jocelyn?
— No — rispose Clary. — Jace non somiglia a nessuno. — Un brivido la percorse, al pensiero di
Jace. — È qui ad Alicante — disse, pensando ad alta voce. — Se potessi vederlo...
— No. — Amatis parlò con asprezza. — Non puoi uscire da questa casa. Non puoi vedere nessuno.
E sicuramente non puoi vedere tuo fratello.
— Non posso uscire da questa casa? — Clary inorridì. — Vuoi dire che sono bloccata qui come una
carcerata?
— Solo per un paio di giorni — la riprese Amatis. — E poi, non stai bene. Hai bisogno di cure.
L'acqua del lago ti ha quasi uccisa.
— Ma Jace...
— È uno dei Lightwood. Non puoi andare da loro. Se ti vedessero, comunicherebbero subito al
Conclave che ti trovi qui. In quel caso, non saresti l'unica a essere nei guai con la Legge. Lo sarebbe
anche Luke.
Ma i Lightwood non mi tradirebbero davanti al Conclave. Non lo farebbero...
Le parole le morirono sulle labbra. Non c'era modo di riuscire a convincere Amatis che i Lightwood
che lei conosceva quindici anni prima non esistevano più, che Robert e Maryse non erano più due
fanatici pronti a giurare cieca fedeltà al Conclave. Quella donna poteva anche essere la sorella di
Luke, ma per Clary restava una sconosciuta. Era quasi una sconosciuta anche per Luke. Erano
sedici anni che non si vedevano e, in tutto quel tempo, lui non l'aveva nominata una volta. Clary si
appoggiò ai cuscini, fingendosi stanca. — Hai ragione — disse. — Non mi sento ancora bene. Forse
farei meglio a dormire un po'.
— Buona idea. — Amatis si avvicinò e le prese di mano la tazza vuota. — Se vuoi farti la doccia, il
bagno è qui di fronte. E ai piedi del letto c'è un baule coi miei vecchi vestiti. A occhio e croce,
dovresti avere la stessa taglia che avevo io alla tua età, quindi potrebbero andarti bene. Non come il
pigiama — aggiunse con un flebile sorriso che Clary non ricambiò. Era troppo impegnata a
combattere l'impulso di picchiare i pugni sul letto per la frustrazione.
Nel momento in cui la porta si chiuse alle spalle di Amatis, Clary sgattaiolò giù dal letto e andò in
bagno, sperando che una bella doccia l'aiutasse a schiarirsi le idee. Con sollievo scoprì che, sebbene
gli Shadowhunters fossero così antiquati, non disdegnavano i moderni impianti idraulici con acqua
corrente calda e fredda. C'era persino del sapone con un intenso profumo di agrumi, che Clary usò
per togliersi dai capelli il persistente odore del lago Lyn. Quando emerse dal bagno, avvolta in due
asciugamani, si sentiva molto meglio.
In camera, frugò nel baule di Amatis. I suoi vestiti erano riposti ordinatamente fra strati di carta
velina. Trovò delle divise scolastiche: maglioni di lana merino che avevano sul taschino uno
stemma formato da quattro C disposte schiena contro schiena, gonne a pieghe, camicette con il
colletto a bottoncini e i polsini stretti. C'era anche un vestito bianco avvolto in strati di carta
leggera: un abito da sposa, pensò Clary, e lo mise da parte con molta cura. Sotto, c'era un altro
vestito: era di raso argenteo, leggero come una garza, con sottili spalline ornate di lustrini. Clary
non riusciva a immaginare Amatis con quel vestito, ma... Questo è il genere di cose che mia madre
avrebbe messo per andare a ballare con Valentine. Non riuscì a trattenere quel pensiero e lasciò
scivolare il vestito nel baule. Il tessuto era morbido e fresco tra le dita.
E poi, proprio sul fondo del baule, c'era la tenuta nera da Cacciatrice.
Clary la tirò fuori e se l'appoggiò sulle ginocchia con curiosità. La prima volta che aveva visto Jace
e i Lightwood, erano in tenuta da battaglia: giubba e pantaloni aderenti, di materiale scuro e
resistente. Ora, da vicino, constatò che il materiale non era elastico: era un cuoio sottile, lavorato
fino a renderlo flessibile. La giubba aveva la zip e i pantaloni avevano passanti complicati: le
cinture degli Shadowhunters erano grandi e robuste, fatte per appenderci le armi.
Avrebbe dovuto mettersi una camicetta e forse una gonna, pensò Clary. Era questo che
probabilmente Amatis aveva in mente per lei. Ma la tenuta da battaglia l'attirava. Era sempre stata
curiosa di sapere che effetto facesse...
Qualche minuto dopo, gli asciugamani erano appesi ai piedi del letto e Clary si osservava allo
specchio, sorpresa di sé e non poco divertita. La tenuta da Cacciatrice le stava a pennello: era
aderente ma non troppo e le abbracciava le curve delle gambe e del petto. Anzi, creava
l'impressione che Clary avesse delle curve, il che era una sorta di novità. Non riusciva a farla
sembrare una terribile guerriera (Clary dubitava fortemente che esistesse qualcosa in grado di
arrivare a tanto), ma se non altro la faceva sembrare più alta e i capelli, in contrasto col tessuto
scuro, apparivano straordinariamente luminosi. In effetti... somiglio a mia madre, pensò Clary con
un tuffo al cuore.
Ed era vero. Jocelyn aveva sempre avuto un filo di durezza d'acciaio sotto l'apparenza da
bambolina. Clary si era spesso chiesta che cosa fosse successo nel passato di sua madre per renderla
così: forte e inflessibile, tenace e impavida. Tuo fratello somiglia a Valentine quanto tu somigli a
Jocelyn?, le aveva chiesto Amatis, e Clary avrebbe voluto rispondere che lei non somigliava affatto
a sua madre, che sua madre era bellissima e lei invece no. Ma la Jocelyn che Amatis aveva
conosciuto era la ragazza che aveva complottato per fermare Valentine, stipulando l'alleanza tra i
Nephilim e i Nascosti che aveva spezzato il Circolo e salvato gli Accordi. Quella Jocelyn non
avrebbe mai accettato di starsene buona buona in casa ad aspettare, mentre il resto del mondo
cadeva in frantumi.
Senza fermarsi a pensare, Clary andò alla porta e chiuse il chiavistello. Poi si avvicinò alla finestra e
l'aprì. Il graticcio aggrappato al muro esterno era... come una scala, si disse Clary. Proprio come
una scala. ..e le scale sono perfettamente sicure.
Fece un respiro profondo e scavalcò il davanzale.
Le guardie tornarono a prendere Simon il mattino seguente. Lo scrollarono per svegliarlo da un
sonno inquieto e pieno di strani sogni. Questa volta non lo bendarono per salire ai piani superiori,
così Simon potè lanciare una rapida occhiata oltre le sbarre della cella accanto alla sua. Ma se aveva
sperato di poter vedere il proprietario della voce roca che aveva parlato con lui la sera prima, rimase
deluso. L'unica cosa visibile oltre le sbarre era un mucchio di stracci buttati in un angolo.
Le guardie portarono Simon lungo una serie di grigi corridoi: marciavano a passo rapido ed erano
pronte a dargli una scrollata se si soffermava a guardare qualcosa troppo a lungo. Alla fine,
arrivarono in una stanza riccamente rivestita di carta da parati. Alle pareti c'erano ritratti di uomini e
donne in tenuta da battaglia entro cornici decorate da rune. Sotto uno dei ritratti più grandi c'era un
divano rosso, sul quale era seduto l'Inquisitore con una specie di coppa d'argento in mano. La offrì a
Simon.
— Sangue? — gli chiese. — Sarai affamato ormai. — Inclinò la coppa verso Simon. La vista del
liquido rosso che conteneva lo colpì con forza, come pure l'odore. Ogni sua vena sembrò tendersi
verso quel sangue come i fili di una marionetta mossi da un burattinaio. La sensazione fu
sgradevole, quasi dolorosa. — È... umano?
Aldertree ridacchiò. — Ragazzo mio! Non essere ridicolo. È sangue di cervo. Freschissimo.
Simon non disse niente. Il labbro inferiore gli pizzicava, dove i canini erano usciti dal loro alveo.
Sentì in bocca il gusto del proprio sangue, che lo riempì di nausea.
La faccia di Aldertree si arricciò come una prugna secca.
— Santo cielo. — Si girò verso le guardie. — Ora lasciateci soli — ordinò. Le guardie si
allontanarono. Solo il Console, fermo sulla soglia, lanciò a Simon un'occhiata di palese disgusto.
— No, grazie — disse Simon, con la gola secca. — Non voglio il sangue.
— I tuoi canini dicono una cosa diversa, giovane Simon — osservò Aldertree giovialmente. —
Tieni. Bevilo. — Protese la coppa verso di lui e l'odore del sangue sembrò diffondersi per tutta la
stanza come il profumo delle rose inun giardino.
I canini di Simon si sguainarono come lame, in tutta la loro lunghezza, e affondarono nel labbro. Il
dolore fu come uno schiaffo. Simon si mosse, quasi contro la sua volontà, prese con foga la coppa
dalla mano dell'Inquisitore e la scolò in tre sorsi. Poi, rendendosi conto di ciò che aveva fatto, la
appoggiò sul bracciolo del divano. La mano gli tremava. Inquisitore uno, Simon zero, pensò.
— Spero che la notte in cella non sia stata troppo sgradevole. Quelle celle non sono pensate come
camere di tortura, ragazzo, ma piuttosto come spazi di riflessione forzata.La riflessione aiuta a
centrare la mente, non ti pare? È essenziale, per schiarirsi le idee. Spero proprio che tu ti siafatto
qualche bel ragionamento là dentro. Sembri un giovanotto riflessivo. Ho portato giù quella coperta
personalmente, sai? — disse l'Inquisitore con un cenno del capo.
— Non vorrei mai che tu sentissi freddo.
— Sono un vampiro — gli ricordò Simon. — Noi non sentiamo freddo.
— Oh — fece l'Inquisitore con delusione.
— Però ho apprezzato molto le stelle di Davide e il sigillo di Salomone — aggiunse secco Simon.
— È sempre bello, quando qualcuno s'interessa alla mia religione.
— Ah sì, ma certo, ma certo! — Aldertree s'illuminò.
— Meravigliose, quelle incisioni, vero? Assolutamente affascinanti e, naturalmente, infallibili.
Qualsiasi tentativodi toccare la porta della cella ti scioglierebbe la pelle delle mani! — Ridacchiò,
chiaramente divertito al pensiero. — Comunque, potresti fare un passo indietro per me, giovanotto?
Come favore, come semplice favore, capisci?
Simon fece un passo indietro.
Non successe niente, ma gli occhi gonfi dell'Inquisitore si sgranarono, sulla pelle tesa e lucida della
faccia. — Vedo, vedo — disse con un filo di fiato.
— Vede cosa?
— Guarda dove sei, giovane Simon. Guardati intorno. Simon si guardò intorno. Non era cambiato
nulla nella stanza e gli ci volle un momento per capire che cosa intendesse Aldertree: Simon era in
una chiazza di sole che entrava di sghembo da un'alta finestra.
Aldertree non stava nella pelle per l'entusiasmo. — Sei sotto la luce diretta del sole e questo non ha
alcuna conseguenza su di te. Non ci volevo credere... Voglio dire, mi era stato riferito, naturalmente,
ma non avevo mai visto niente di simile prima d'ora.
Simon non disse niente. Non gli sembrava che ci fosse qualcosa da aggiungere.
— La domanda che ti faccio — proseguì Aldertree — è: tu sai perché sei così?
— Forse perché sono più simpatico degli altri vampiri. — Simon si pentì immediatamente di aver
parlato. Gli occhi di Aldertree si socchiusero e una vena gli si gonfiò sulla tempia, come un grasso
verme. Era chiaro che non gradiva le battute di spirito, a meno che non fossero le sue.
— Molto divertente, molto divertente — disse. — Allora ti chiedo: sei sempre stato un Diurno, sin
dal momento in cui sei uscito dalla tomba?
— No. — Simon parlò con cautela. — No. All'inizio il sole mi bruciava. Anche un unico raggio di
luce mi avrebbe scottato la pelle.
— Appunto. — Aldertree annuì vigorosamente, come a significare che era quello il modo in cui le
cose sarebbero dovute andare. — E quando, esattamente, ti sei accorto che potevi stare alla luce del
giorno senza soffrire?
— È stato la mattina dopo la grande battaglia sulla nave di Valentine...
— Durante la quale sei stato catturato da Valentine, è giusto? Ti ha catturato e ti ha tenuto
prigioniero sulla nave, con l'intenzione di usare il tuo sangue per completare il Rituale della
Trasformazione Infernale.
— Mi pare che lei sappia già tutto — disse Simon. — Non le servo a granché.
— Oh, no, niente affatto! — esclamò Aldertree alzandole mani al cielo. Aveva delle mani molto
piccole, osservòSimon, così piccole che sembravano un po' fuori luogo, attaccate in fondo a quelle
braccia grassocce. — Tu mi puoi essere molto utile, mio caro ragazzo! Per esempio, non posso
evitare di chiedermi se, sulla nave, è successo qualcosache ti ha cambiato. Non ti viene in mente
niente?
Ho bevuto il sangue di Jace, pensò Simon, quasi propenso a riferirlo all'Inquisitore solo per dargli
fastidio. Ma poi, con un sussulto, si rese conto di quel che aveva fatto: Ho bevuto il sangue di Jace!
Che fosse stato proprio quello, a cambiarlo? Era possibile? E, possibile o impossibile che fosse,
Simon poteva rivelare all'Inquisitore quello che Jace aveva fatto? Proteggere Clary era una cosa,
proteggere Jace un'altra. Simon non gli doveva niente.
Ma non era del tutto vero: Jace gli aveva offerto il proprio sangue e con quello gli aveva salvato la
vita. Un altro Shadowhunter l'avrebbe fatto, per un vampiro? E, supponendo che Jace l'avesse fatto
solo per amore di Clary, faceva differenza? Ripensò alle proprie parole: Avrei potuto ucciderti. E
Jace: Te l'avrei lasciato fare. Chissà in che guai si sarebbe cacciato Jace se il Conclave avesse
saputo che aveva salvato la vita di Simon e in quale modo.
— Non ricordo niente di quello che è successo sulla nave — disse Simon. — Credo che Valentine
mi abbia drogato.
La faccia di Aldertree si ammosciò. — Questa è una notizia terribile. Terribile. Mi dispiace così
tanto sentirtela dire.
— Dispiace anche a me — disse Simon, anche se non era per niente vero.
— Quindi, non c'è proprio niente che ricordi, nessun dettaglio pittoresco...
— Ricordo solo che quando Valentine mi ha aggredito sono svenuto. E quando finalmente mi sono
risvegliato... ero sul pick-up di Luke, diretto a casa. Non ricordo nient'altro.
— Santo cielo, santo cielo. — Aldertree raccolse le falde del mantello intorno a sé. — Vedo che i
Lightwood ti vogliono piuttosto bene. Ma gli altri membri del Conclave non saranno così...
comprensivi. Tu sei stato catturato da Valentine, sei uscito da quello scontro con un nuovo e
particolarissimo potere che prima non avevi e adesso hai trovato il modo di arrivare nel cuore di
Idris. Lo capisci anche tu come le cose possono sembrare, viste dall'esterno?
Se il cuore di Simon avesse potuto battere, ora avrebbe battuto all'impazzata. — Lei pensa che io sia
una spia di Valentine!
Aldertree lo guardò scandalizzato. — Ragazzo mio, ragazzo mio... Io mi fido di te, naturalmente.
Mi fido di te implicitamente! Ma il Conclave... Oh, il Conclave... Temo che loro saranno molto
sospettosi. Speravamo tanto che tu potessi aiutarci. Capisci? E poi... non dovrei dirtelo, ma sento
che posso fidarmi di te, caro il mio ragazzo. Sai, il Conclave è in guai molto seri.
— Il Conclave? — Simon era stordito. — Ma cosa ha a che fare questo con...
— Devi sapere — proseguì Aldertree — che il Conclave è spaccato in due: una guerra intestina,
diciamo, in tempo di guerra. Sono stati commessi degli errori, dalla precedente Inquisitrice e da
altri. Ma non è il caso di soffermarsi su questo. Però, vedi, ora è la stessa autorità del Conclave, del
Console e dell'Inquisitore che viene messa in dubbio. Valentine sembra sempre un passo avanti
rispetto a noi, come se conoscesse in anticipo i nostri piani. Il Consiglio non vuole ascoltare i miei
suggerimenti, né quelli di Malachi, non dopo quello che è successo a New York.
— Credevo che fosse l'Inquisitrice a...
— Fu Malachi a conferirle l'incarico. Naturalmente, non poteva prevedere che lei sarebbe impazzita
fino a quel punto...
— Però — osservò Simon un po' acido — il problema è sempre di come le cose sembrano, viste
dall'esterno.
La vena sulla fronte di Aldertree si gonfiò di nuovo. — Bravo — commentò. — Sei perspicace. Le
apparenze sono molto importanti, specialmente in politica. Puoi condizionare le masse a tuo
piacere, a patto che tu abbia una buona storia. — Si protese in avanti con gli occhi inchiodati in
quelli di Simon. — Ti voglio raccontare io una storia, che inizia così. Una volta i Lightwood erano
nel Circolo. A un certo punto rinnegarono il Circolo, ma ottennero clemenza, a condizione che
rimanessero fuori dai confini di Idris, si trasferissero a New York e assumessero la direzione
dell'Istituto. Con il loro impeccabile comportamento cominciarono a riacquistare la fiducia del
Conclave. Però sapevano che Valentine era ancora vivo: loro sono sempre rimasti suoi fedeli
servitori. Hanno accolto suo figlio.
— Ma non sapevano che...
— Zitto — ringhiò l'Inquisitore, e Simon chiuse subito la bocca. — Loro l'hanno aiutato a trovare
gli Strumenti Mortali e l'hanno assistito nel Rituale della Trasformazione Infernale. L'Inquisitrice
aveva scoperto che cosa stavano complottando, e per questo hanno fatto in modo che restasse uccisa
durante la battaglia sulla nave. E adesso i Lightwood sono qui, nel cuore del Conclave, per spiare i
nostri piani e rivelarli a Valentine, in modo che lui possa sconfiggerci e piegare tutti i Nephilim alla
sua volontà. Per giunta hanno portato anche te, un vampiro che sopporta la luce del sole. Per
distrarci dai loro veri piani: riportare il Circolo alla sua gloria iniziale e distruggere la Legge. —
L'Inquisitore si protese verso Simon coi suoi occhietti suini che brillavano. — Che ne dici di questa
storia, vampiro?
— Dico che è pura follia — rispose Simon. — E ha più buchi di Kent Avenue a Brooklyn, che, per
inciso, non viene riasfaltata da anni. Non capisco dove spera di arrivare con questa...
— Sperare? — ripetè Aldertree. — Io non spero, Nascosto. Io so, per certo; nel profondo del cuore.
So che è mio sacro dovere salvare il Conclave.
— Con una menzogna? — chiese Simon.
— Con una buona storia — lo corresse Aldertree. — Tutti i grandi politici intessono grandi storie
per ispirare il loro popolo.
— Non c'è niente che possa ispirare, nell'incolpare i Lightwood di tutto.
— Qualcuno deve essere sacrificato — dichiarò Aldertree. La sua faccia era lucida di sudore
appicicaticcio. — Se il Consiglio avrà un nemico comune, se avrà una ragione per tornare a fidarsi
del Conclave, potrà ricompattarsi. Che cosa vale un'unica famiglia in confronto a tutto questo?
Comunque, non credo che possa succedere granché, ai ragazzi Lightwood. Loro non verranno
incolpati di niente. Be', forse il più grande, ma gli altri...
— Lei non può fare questo! — esclamò Simon. — Nessuno crederà alla sua storia.
— La gente crede a quello che vuole credere — commentò Aldertree. — E il Conclave vuole un
capro espiatorio. Io glielo posso dare. Ma per farlo, mi servi tu.
— Io? Cosa c'entro io?
— Devi confessare! — La faccia dell'Inquisitore era scarlatta per l'eccitazione. — Devi confessare
di essere al servizio dei Lightwood e di essere in combutta con Valentine. Confessa, e io sarò
clemente con te. Ti rimanderò tra la tua gente. Te lo giuro. Ma ho bisogno della tua confessione,
perché il Conclave possa credere alla mia versione.
— Lei vuole che io confessi il falso — replicò Simon. Sapeva che stava solo ripetendo quello che
l'Inquisitore aveva già detto, ma la sua mente turbinava di pensieri e non riusciva ad afferrarne
nemmeno uno. Le facce dei Lightwood gli vorticavano nella testa: Alec, che trasaliva mentre
salivano insieme alla Guardia, gli occhi scuri di Isabelle sollevati verso i suoi; Max chino sul suo
libro.
E Jace. Jace era uno di loro, era come se avesse il loro sangue nelle vene. L'Inquisitore non aveva
fatto il suo nome, ma Simon sapeva che anche Jace avrebbe pagato, con tutti gli altri. E se lui avesse
sofferto, Clary avrebbe sofferto. Come gli era capitato, pensò Simon, di trovarsi così legato a queste
persone? A queste persone che vedevano in lui solo un Nascosto, un mezzosangue nel migliore dei
casi?
Sollevò gli occhi verso quelli dell'Inquisitore. Erano di uno strano colore, neri come il carbone:
guardarli era come guardare nelle tenebre. — No — disse. — No, non lo farò mai.
— Il sangue che ti ho offerto — disse Aldertree — è tutto quello che avrai, finché non mi darai una
risposta diversa.— Non c'era gentilezza nella sua voce, nemmeno falsa. —Ti sorprenderà quanto
possa essere feroce la tua sete.
Simon non disse nulla.
— Un'altra notte in cella, allora — concluse l'Inquisitore alzandosi in piedi e prendendo la
campanella sul tavolino per chiamare le guardie. — È un posto tranquillo, vero? Ritengo che
un'atmosfera tranquilla possa essere di grande aiuto a chi ha problemi di memoria, non trovi?
Clary era convinta di poter ricordare la strada fatta con Luke, la sera prima, ma non era così.
Puntare verso il centro della città le sembrò l'idea migliore per orientarsi ma, una volta ritrovato il
cortile di pietra col pozzo, non sapeva più se andare a destra o a sinistra. Optò per la sinistra e finì in
un dedalo di stradine serpeggianti, tutte uguali, perdendosi sempre di più a ogni svolta.
Finalmente sbucò in una strada più grande, costeggiata di negozi. Passavano numerosi pedoni, ma
nessuno la degnava di una seconda occhiata. Alcuni di loro erano in tenuta da battaglia, ma la
maggior parte era in borghese. L'aria era fredda e quasi tutti indossavano cappotti lunghi e fuori
moda. Il vento era pungente e Clary pensò con rimpiangito al suo bel cappotto di velluto verde,
appeso nella stanza, degli ospiti di Amatis.
Luke non aveva mentito, quando le aveva detto che gli Shadowhunters erano venuti dai quattro
angoli del mondo per il summit. Clary incrociò una donna indiana con un magnifico sari dorato e un
paio di lame ricurve appese a una catena alla cintura. Un uomo alto, con la pelle scura e i tratti
spigolosi degli Aztechi, guardava la vetrina di un'armeria; aveva i polsi coperti di braccialetti che
erano fatti dello stesso materiale duro e luminoso delle torri antidemoni. Più in là, un uomo con una
tunica bianca da nomade consultava una mappa della città. Fu questo a dare a Clary il coraggio di
avvicinarsi a una donna imbacuccata in un pesante cappotto di broccato per chiederle la strada per
Princewater Street. Se c'era un momento in cui gli abitanti della città non si sarebbero insospettiti
davanti a qualcuno che non sapeva dove andare, il momento era quello.
Il suo istinto non sbagliava: senza la minima esitazione, la donna le diede una rapida serie di
indicazioni. — E poi a destra, alla fine dell'Oldcastle Canal. Attraversi il ponte di pietra e arrivi a
Princewater Street. — Le sorrise. — Cerchi qualcuno in particolare?
— I Penhallow.
— Oh, è la casa blu coi profili dorati. Il retro dà sul canale. È grande. Non puoi sbagliare.
Un po' si sbagliò. La casa era grande, ma Clary la oltrepassò, prima di rendersi conto dell'errore e di
girarsi per guardarla meglio. Era color indaco, più che blu. Del resto, non tutti erano così attenti ai
colori. La maggior parte della gente non sapeva distinguere tra un giallo limone e un giallo
zafferano. Come se si somigliassero anche solo vagamente! E poi, i profili della casa non erano
dorati: erano color bronzo, un bel bronzo scuro, come se fosse lì da molti anni. Tutto, in quella città,
era così antico...
Basta!, si rimproverò Clary. Faceva sempre così, quando era nervosa: lasciava vagare la mente a
casaccio. Si sfregò le mani sulle gambe dei pantaloni: aveva i palmi umidi e sudati. Al contatto, il
tessuto era ruvido e secco, come pelle di serpente.
Salì i gradini dell'ingresso e sollevò il pesante batacchio. Aveva la forma di un paio d'ali d'angelo.
Quando lo lasciò cadere, il suono riecheggiò all'interno come quello di un'enorme campana. Un
attimo dopo la porta si spalancò e si affacciò Isabelle Lightwood, con gli occhi sgranati per la
sorpresa.
— Clary!
Clary sorrise debolmente. — Ciao, Isabelle.
Isabelle si appoggiò allo stipite della porta, con la faccia desolata. — Oh, cavoli.
Di nuovo nella cella, Simon crollò sul letto, ascoltando i passi delle guardie che si allontanavano.
Un'altra notte. Un'altra notte in prigione, in attesa che "ricordasse". Lo capisci anche tu come le
cose sembrano, viste dall'esterno, si disse. Nemmeno nelle sue peggiori paure, nei suoi incubi più
spaventosi, gli era mai venuto in mente che qualcuno potesse ritenerlo complice di Valentine.
Valentine odiava i Nascosti, lo sapevano tutti. Valentine l'aveva accoltellato, gli aveva prosciugato il
sangue e l'aveva lasciato lì a morire. Ma questo, bisognava ammetterlo, l'Inquisitore non lo sapeva.
Sentì un fruscio dall'altra parte del muro. — Mi stavo chiedendo se saresti tornato — disse la stessa
voce roca della notte precedente. — Suppongo che tu non abbia dato all'Inquisitore quello che vuole
da te...
— Credo di no — rispose Simon, avvicinandosi al muro. Passò le dita sulla pietra, come in cerca di
una fessura, di un forellino da cui poter vedere, ma non c'era nulla. — Chi sei?
— È un uomo ostinato, Aldertree — disse la voce, come se Simon non avesse parlato. —
Continuerà a provarci.
Simon si appoggiò al muro umido. — Allora prevedo che starò qui per un po'.
— Immagino che tu non voglia dirmi che cosa vuole Aldertree da te.
— E perché lo vuoi sapere?
La risatina che rispose a Simon suonava come metallo che grattasse la pietra. — Sono in questa
cella da più tempo di te, Diurno, e come vedi non c'è molto con cui tenere la mente occupata.
Qualsiasi distrazione può essermi d'aiuto.
Simon s'intrecciò le dita sullo stomaco. Il sangue di cervo gli aveva tolto il pungolo della fame, ma
non l'aveva placata. — Continui a chiamarmi in quel modo — disse.
— Diurno.
— Ho sentito le guardie chiamarti così. Un vampiro che può stare alla luce del sole. Nessuno ha mai
visto niente di simile.
— Eppure avete già una parola. Comodo.
— È una parola dei Nascosti, non del Conclave. Ci sono leggende che parlano di creature come te.
Mi sorprende che tu non le conosca.
— Non è da molto tempo che sono un Nascosto — disse Simon. — E tu sembri sapere molte cose
di me.
— Alle guardie piace chiacchierare — spiegò la voce.
— E i Lightwood che appaiono da un Portale con un vampiro moribondo e sanguinante... be',
questa è una chiacchiera succulenta. Anche se, devo dire, non mi aspettavodi vederti comparire
qui... Non finché non hanno iniziato a prepararti la cella. Mi sorprende che i Lightwood l'abbiano
permesso.
— Perché non avrebbero dovuto? — disse Simon amaramente. — Io non sono niente. Sono solo un
Nascosto.
— Forse per il Console — ragionò la voce. — Ma per i Lightwood...
— Per i Lightwood, cosa?
Ci fu una breve pausa. — Gli Shadowhunters che vivono fuori da Idris, soprattutto coloro che
gestiscono gli Istituti, tendono a essere più tolleranti. Il Conclave, invece, è molto più...
conservatore.
— E tu? — chiese Simon. — Sei un Nascosto anche tu?
— Un Nascosto? — Simon non ne era certo, ma gli parve di cogliere una punta di astio nella voce
dello sconosciuto, come se la domanda l'avesse offeso. — Mi chiamo Samuel. Samuel Blackburn.
Io sono un Nephilim. Anni fa ero nel Circolo, con Valentine. Io li ho massacrati, i Nascosti, nella
Rivolta. Non sono uno di loro.
— Ah — Simon deglutì la saliva. La sua bocca sapeva di sale. Ricordò che i membri del Circolo di
Valentine erano stati catturati e puniti dal Conclave. Tutti, tranne quelli come i Lightwood, che
erano riusciti a patteggiare o che avevano accettato l'esilio in cambio del perdono. — Sei qui dai
tempi della Rivolta?
— No. Dopo la Rivolta sono riuscito a scappare da Idris. Sono rimasto lontano per anni, e poi,
stupidamente, pensando che mi avessero dimenticato, sono tornato. Ovviamente, mi hanno catturato
appena ho messo piede a Idris. Il Conclave ha i suoi modi per rintracciare i nemici. Mi hanno
trascinato davanti all'Inquisitrice e sono stato interrogato per giorni. Alla fine, mi hanno buttato qui
dentro. — Samuel sospirò. — In francese, questo tipo di prigione si chiama oubliette. Significa
"luogo dell'oblio", "dimenticatoio". È qui che si butta l'immondizia che non si vuole ricordare,
perché marcisca senza disturbare nessuno con il suo fetore.
— Okay. Io sono un Nascosto, quindi sono immondizia. Ma tu no. Tu sei un Nephilim.
— Sono un Nephilim che era in combutta con Valentine. Per questo non sono migliore di te. Anzi,
sono peggiore. Sono un traditore.
— Ma ci sono un sacco di altri Shadowhunters che in passato erano membri del Circolo. I
Lightwood, i Penhallow...
— Si sono tutti pentiti e hanno voltato le spalle a Valentine. Io no.
— Tu no? E perché?
— Perché ho più paura di Valentine che del Conclave — rivelò Samuel. — E se tu fossi
ragionevole, Diurno, anche tu avresti più paura di lui.
— Ma tu dovresti essere a New York! — esclamò Isabelle. — Jace ci ha detto che avevi cambiato
idea, che volevi restare con tua madre!
— Jace ha mentito — disse Clary con voce incolore. — Era lui che non mi voleva qui, quindi ha
mentito a me sull'ora della partenza e ha mentito a voi dicendovi che avevo cambiato idea. Ti
ricordi che una volta mi hai detto che Jace non mente mai? Be', non è vero.
— Di solito non lo fa — disse Isabelle, che era impallidita. — Senti, sei venuta qui per... voglio
dire, tutto questo ha qualcosa a che fare con Simon?
— Con Simon! No. Simon è al sicuro a New York, grazie a Dio. Anche se la prenderà malissimo,
visto che non è nemmeno riuscito a salutarmi. — L'espressione vacua di Isabelle cominciava a darle
fastidio. — Dai, Isabelle, fammi entrare, devo vedere Jace.
— Allora... sei venuta qui per conto tuo? Hai avuto il permesso dal Conclave? Ti prego, dimmi che
hai avuto il permesso dal Conclave.
— Non esattamente...
— Hai infranto la Legge! — Il tono di voce di Isabelle si alzò, poi crollò. Proseguì, quasi in un
sussurro: — Se Jace lo scopre, comincerà a dare i numeri. Clary, tu devi tornare a casa.
— No. Io devo stare qui — replicò Clary senza sapere bene da dove le venisse tutta quella
testardaggine. — E devo parlare con Jace.
— Ora non è un buon momento. — Isabelle si guardava intorno ansiosa, come sperando di vedere
qualcuno a cui chiedere aiuto per allontanare Clary da quella casa. — Per favore, tornatene a New
York, per favore.
— Credevo di esserti simpatica, Izzy. — Clary giocò la carta del senso di colpa.
Isabelle si mordicchiò un labbro. Indossava un abito bianco e aveva i capelli raccolti in alto.
Sembrava più giovane del solito. Dietro di lei, Clary vide un ingresso dal soffitto alto, decorato da
dipinti a olio dall'aria antica. — Certo che mi sei simpatica. È solo che Jace... Oddio, ma che cosa ti
sei messa addosso? Dove l'hai trovata, quella tenuta da battaglia?
Clary si guardò. — È una storia lunga.
— Non puoi entrare in casa vestita così. Se Jace ti vede...
— Be', e anche se mi vedesse? Isabelle, io sono venuta qui per mia madre... per mia madre! Forse
Jace non mi vuole qui, ma non può costringermi a restare a casa. Io devo stare qui. Mia madre si
aspetta che faccia questo per lei. Anche tu lo faresti, per tua madre, no?
— Certo che lo farei — rispose Isabelle. — Ma, Clary, Jace ha le sue ragioni...
— Allora gradirei molto conoscerle. — Clary passò sotto il braccio di Isabelle e sgattaiolò
nell'ingresso della casa.
— Clary! — gridò Isabelle lanciandosi all'inseguimento. Ma Clary era già a metà dell'ingresso.
Notò, con la metà della mente che non era concentrata a schivare Isabelle, che la casa era simile a
quella di Amatis, alta e stretta, ma decisamente più grande e più riccamente arredata. L'ingresso si
apriva su una stanza con alte finestre affacciate su un ampio canale. Passavano sull'acqua bianche
imbarcazioni, le vele come soffioni portati dal vento. Un ragazzo dai capelli neri era seduto su un
divano, vicino a una delle finestre, immerso nella lettura.
— Sebastian! — chiamò Isabelle. — Non farla salire di sopra!
Il ragazzo alzò gli occhi, sorpreso, e un attimo dopo era di fronte a Clary, a sbarrarle l'accesso alle
scale. Clary si fermò di scatto. Non aveva mai visto nessuno muoversi così rapidamente, a parte
Jace. Il ragazzo non era per niente trafelato. Anzi, le stava sorridendo.
— Dunque, questa è la famosa Clary. — Il sorriso gli illuminò il volto e Clary si sentì mancare il
respiro. Per anni aveva disegnato una sua personale graphic novel, in continuo sviluppo: era la
storia del figlio di un re colpito da una maledizione che faceva morire tutti quelli che amava. In lui,
principe misterioso, romantico e tenebroso, aveva riversato tutte le sue fantasie. E ora eccolo lì,
davanti ai suoi occhi: la stessa carnagione pallida, gli stessi capelli arruffati, gli occhi così scuri che
le pupille sembravano fondersi nell'iride; gli stessi zigomi alti, gli stessi occhi profondi dalle lunghe
ciglia. Clary era sicura di non aver mai visto prima quel ragazzo, eppure...
Anche lui, del resto, sembrava confuso. — Forse ci siamo... già incontrati? — Senza parole, Clary
scosse la testa.
— Sebastian! — Isabelle era furiosa. I capelli le erano sfuggiti dalle mollette e le ricadevano sulle
spalle. — Non fare il carino con lei. Non dovrebbe essere qui. Clary, tornatene a casa.
Con uno sforzo, Clary distolse lo sguardo da Sebastian e lanciò un'occhiataccia a Isabelle. — A casa
a New York? E come ci dovrei tornare?
— Come ci sei venuta, qui? — le chiese Sebastian. — Intrufolarsi ad Alicante è una bella impresa.
— Sono venuta attraverso un Portale — spiegò Clary.
— Un Portale? — Isabelle era stupefatta. — Ma non ci sono più Portali, a New York. Valentine li ha
distrutti tutti e due.
— Non ti devo nessuna spiegazione — disse Clary. — Non finché non ne avrò io da te. Tanto per
cominciare, dov'è Jace?
— Non c'è — rispose Isabelle, nello stesso momento in cui Sebastian diceva: — È di sopra.
Isabelle lo aggredì. — Sebastian! Chiudi quella bocca!
Sebastian era perplesso. — Ma è sua sorella. Non credi che vorrebbe vederla?
Isabelle aprì la bocca e poi la richiuse. Clary vedeva che stava valutando le opzioni: era meglio
spiegare le complicate relazioni tra Clary e Jace a Sebastian, che era all'oscuro di tutto, o fare una
brutta sorpresa a Jace? Alla fine alzò le braccia al cielo in un gesto sconsolato. — E va bene, Clary
— disse, con una rabbia nella voce del tutto insolita per lei. — Vai, fai quello che ti pare, senza
badare a chi farai soffrire. Tanto tu fai sempre così, no?
Ahi. Clary le lanciò un'occhiata contrariata, poi guardò Sebastian, che si fece silenziosamente da
parte. Volò su per le scale, vagamente consapevole delle voci al piano di sotto: era Isabelle che se la
prendeva con Sebastian. Isabelle era fatta così: se c'era un ragazzo nei dintorni e una colpa da
addossare a qualcuno, Isabelle l'avrebbe sicuramente addossata a lui.
La scala portava a un pianerottolo con una finestra a bovindo che dava sulla città. Seduto nella
strombatura della finestra, un ragazzino leggeva un libro. Alzò gli occhi su Clary e batté le palpebre,
sorpreso. — Io ti conosco.
— Ciao, Max, sono Clary... la sorella di Jace. Ti ricordi? — Max si illuminò. — Mi hai spiegato tu
come si legge Naruto — esclamò mostrandole il giornalino. — Guarda, ne ho un altro. Questo si
chiama...
— Max, adesso non ho tempo. Ti prometto che più tardi guarderò il tuo giornalino. Ora, però, sai
dirmi dov'è Jace?
La faccia di Max si rattristò. — In quella stanza — disse, indicando l'ultima porta in fondo al
corridoio. — Volevo andarci anch'io, con lui, ma mi ha detto che doveva fare delle cose da grandi.
Non fanno che ripetermelo tutti, da quando siamo qui.
— Mi dispiace — disse Clary, ma la sua mente non era già più lì, stava correndo avanti. Che cosa
avrebbe detto a Jace? E che cosa le avrebbe detto lui! Avvicinandosi alla porta, pensava: Sarà
meglio tenere un tono conciliante:se comincio a urlare, lui si metterà subito sulla difensiva. Deve
capire che io qui sono al mio posto, esattamente come lui. Non ho bisogno di essere protetta come
una tazzadi porcellana. Anch'io sono forte...
Spalancò la porta. La stanza sembrava una specie di biblioteca, con le pareti coperte di libri. Era
molto luminosa: la luce entrava a fiotti da una grande finestra panoramica. Al centro della stanza
c'era Jace. Ma non era solo. Tutt'altro. C'era una ragazza dai capelli scuri con lui, una ragazza che
Clary non aveva mai visto prima. E i due erano avvinghiati in un abbraccio passionale.
capitolo 6
SANGUE CATTIVO
Clary ebbe un capogiro, come se tutta l'aria fosse stata risucchiata di colpo dalla stanza. Cercò di
arretrare, ma inciampò e urtò nella porta con la spalla. La porta si chiuse con un colpo secco e Jace
e la ragazza si sciolsero dal loro abbraccio.
Clary era impietrita. La stavano fissando entrambi. Notò che la ragazza aveva i capelli lisci e neri,
lunghi fino alle spalle, e che era molto carina. I primi bottoni della camicetta erano aperti e
s'intravedeva una spallina di pizzo. Le venne da vomitare.
Le mani della ragazza corsero alla camicetta e i bottoni furono riallacciati rapidamente. Non
sembrava contenta. — Scusa — disse, aggrottando la fronte — ma tu chi sei?
Clary non rispose. Stava guardando Jace, che stava guardando lei, allibito. La sua pelle aveva perso
ogni traccia di colore e faceva risaltare i cerchi scuri intorno agli occhi. Guardava Clary come se le
stesse puntando contro un fucile.
— Aline. — La voce di Jace era priva di calore e di colore. — Lei è Clary, mia sorella.
— Ah. Ah. — La faccia di Aline si rilassò in un sorriso lievemente imbarazzato. — Scusa! Che
razza di modo di incontrarsi! Ciao, io sono Aline.
Si avvicinò a Clary ancora sorridendo, la mano tesa. Non credo dì poterla toccare, pensò Clary con
un profondo senso di disgusto. Guardò Jace, che sembrò leggerle negli occhi. Senza sorridere, prese
Aline per le spalle e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Aline rimase sorpresa, scrollò le spalle e si
diresse alla porta senza aggiungere altro.
Clary restò sola con Jace. Sola con lui che continuava a guardarla come se fosse il suo incubo
peggiore diventato realtà.
— Jace — gli disse, facendo un passo verso di lui.
Jace arretrò, come se Clary fosse ricoperta da qualche sostanza velenosa. — In nome dell'Angelo,
Clary, cosa ci fai qui?
Nonostante tutto, la durezza del suo tono la ferì. — Potresti almeno fingere di essere contento di
vedermi. Almeno un pochino.
— Non sono contento di vederti — le rispose. Aveva ripreso un po' di colore, ma le ombre sotto gli
occhi erano ancora scure e contrastavano con la pelle chiara. Clary aspettò che aggiungesse
qualcos'altro, ma era come se a lui bastasse fissarla con palese orrore. Clary notò che le maniche
della maglia nera che indossava erano larghe, come se avesse perso peso, e che le unghie erano
rosicchiate fino alla carne viva. — Neanche un po'.
— Questo non sei tu — disse Clary. — Odio quando ti comporti così...
— Ah sì, non ti piace? Bene, allora farò meglio a smetterla, okay? In fondo, anche tu mi ascolti
sempre.
— Non avevi alcun diritto di fare quello che hai fatto! — sbottò lei, all'improvviso furiosa. —
Mentirmi in quel modo. Non avevi alcun diritto.
— Io avevo tutti i diritti! — gridò lui. Non aveva mai gridato con lei, prima, pensò Clary. — Avevo
tutti i diritti, stupida, stupida ragazzina. Io sono tuo fratello e...
— E cosa? Sono di tua proprietà? Io non sono di tua proprietà, che tu sia mio fratello o no!
La porta dietro a Clary si spalancò. Era Alec, vestito con una giacca lunga, blu scuro, e i capelli neri
scompigliati. Aveva gli stivali infangati e un'espressione incredula sulla faccia solitamente calma.
— Ma cosa cavolo succede qui dentro? — esclamò, spostando lo sguardo da Jace a Clary, al colmo
dello stupore. — Volete uccidervi?
— Per niente — disse Jace. Come per magia, osservò Clary, ogni sua emozione - la furia, il panico era stata cancellata. Jace era tornato alla solita gelida calma. — Clary se ne sta andando.
— Bene — disse Alec. — Perché devo parlarti, Jace.
— Nessuno in questa casa dice mai: «Ciao, che bello vederti»? — chiese Clary a nessuno in
particolare.
Era molto più facile lavorare sul senso di colpa di Alec che su quello di Isabelle. — È bello vederti,
Clary — le disse Alec. — A parte il fatto, naturalmente, che non dovresti essere qui. Isabelle mi ha
detto che sei venuta da sola in qualche modo, e ne sono molto colpito.
— Potresti evitare di incoraggiarla? — intervenne Jace.
— Okay, però adesso ho davvero bisogno di parlarti, Jace. Clary, puoi lasciarci qualche minuto?
— Anch'io ho bisogno di parlare con lui — replicò Claryl — A proposito di nostra madre...
— Non mi va di parlare — disse Jace. — Con nessuno di voi, a dire la verità.
— Invece sì — ribatté Alec. — Ti va eccome.
— Ne dubito — disse Jace. Era tornato a guardare Clary.
— Non sei venuta qui da sola, vero? — le disse lentamente, come rendendosi conto che la
situazione era ancora peggiore di quel che pensava. — Chi è venuto con te?
Non c'era motivo di mentire. — Luke — disse Clary. — Luke è venuto con me.
Jace sbiancò. — Ma Luke è un Nascosto. Tu sai che cosa fa il Conclave ai Nascosti che entrano
nella Città di Vetro senza autorizzazione? Che attraversano le difese senza permesso? Venire a Idris
è una cosa, ma entrare ad Alicante... L'avete detto a qualcuno?
— No — disse Clary con un mezzo sussurro. — So cosa stai per dire...
— Che se tu e Luke non tornate a New York immediata mente lo scoprirete da soli?
Per un momento Jace rimase in silenzio, fissando Clary. La disperazione nel suo sguardo la
sconvolse. Era lui che minacciava lei, dopotutto, non il contrario.
— Jace — disse Alec nel silenzio, con una sfumatura dipanico nella voce. — Non ti sei chiesto
dove sono stato tutto il giorno?
— Hai una giacca nuova — osservò Jace senza guardarlo. — Sarai andato a fare shopping. Anche
se mi sfugge perché sei così ansioso di infastidirmi con una cosa del genere.
— Non sono andato a fare shopping — ribatté Alec furioso. — Sono andato...
La porta si aprì di nuovo. In uno svolazzo di bianco, Isabelle si precipitò nella biblioteca,
sbattendosi la porta alle spalle.
Guardò Clary e scosse la testa. — Te l'avevo detto che avrebbe dato i numeri — commentò.
— Figurarsi! Ricominci subito con il solito «te l'avevo detto» — ironizzò Jace. — Che classe!
Clary lo guardò inorridita. — Come puoi scherzare? — sussurrò. — Hai appena minacciato Luke.
Luke, che ti vuole bene e si fida di te. E solo perché è un Nascosto. Che cosa ti sta succedendo?
Isabelle inorridì. — Luke è qui? Oh, Clary...
— Non è qui — precisò Clary. — Se n'è andato, stamattina, e non so dove. Ma adesso so perché ha
dovuto andarsene. — Quasi non riusciva a sopportare la vista di Jace. — Bene. Avete vinto voi.
Non avremmo mai dovuto venire. Non avrei mai dovuto aprire quel Portale.
— Aprire quel Portale? — Isabelle era stupefatta. — Clary, solo uno stregone può aprire un Portale.
E non ce ne sono molti in giro. L'unico Portale, qui a Idris, è alla Guardia.
— Che è il motivo per cui devo parlarti — sibilò Alec a Jace, che sembrava stare ancora peggio di
prima, notò Clary con sorpresa: sembrava sul punto di svenire. — Riguardo all'incarico che ho
eseguito ieri sera, la consegna che ho fatto alla Guardia...
— Alec, smettila. Smettila! — gridò Jace. La cruda disperazione nella sua voce fece ammutolire
Alec, che chiuse la bocca e rimase a fissarlo, con un labbro stretto tra i denti. Ma Jace non lo vedeva
nemmeno: stava guardando Clary,con gli occhi duri come il vetro. Poi parlò. — Hai ragione — le
disse con voce strozzata, come se tirasse fuori a forzale parole. — Non saresti mai dovuta venire. Ti
avevo detto che questo non era un posto sicuro per te, lo so, ma non era vero. La verità è che io non
ti voglio qui, perché sei impulsiva e avventata e rovinerai tutto. È così che sei. Tu non stai mai
attenta, Clary.
— Rovinare... tutto? — Clary riuscì a trovare il fiato solo per un sussurro.
— Oh, Jace — mormorò Isabelle con tristezza, come se quello ferito fosse stato lui. Jace non la
guardò: i suoi occhi erano fissi su Clary.
— Tu ti butti sempre nelle cose a testa bassa, senza pensare — aggiunse Jace. — E lo sai anche tu,
Clary. Non saremmo mai finiti al Dumort, se non fosse stato per te.
— E Simon sarebbe morto! Non conta niente, questo? Sarò anche stata impulsiva, ma...
La voce di Jace si alzò. — Forse?
— Non mi sembra che tutte le decisioni che ho preso fossero sbagliate! L'hai detto anche tu, dopo
quello che ho fatto sulla nave, che ho salvato la vita a tutti.
Quel poco di colore che restava sul volto di Jace sparì. Con un'improvvisa e incredibile cattiveria,
disse: — Zitta, Clary, sta' ZITTA.
— Sulla nave? — Lo sguardo di Alec danzava dall'uno all'altra, sconcertato. — Cos'è successo,
sulla nave? Jace...
— Te l'ho detto solo per farti smettere di frignare! — gridò Jace, ignorando Alec, ignorando tutto,
tranne Clary. Lei sentì la forza del suo improvviso scatto d'ira come un'onda e rischiò di cadere. —
Sei un disastro per tutti noi, Clary! Sei una mondana e lo sarai sempre. Non sarai mai una
Cacciatrice. Tu non sai pensare come noi, non sai pensare a ciò che è meglio per tutti. Tu pensi solo
a te stessa! Ma ora c'è una guerra in corso, o ci sarà presto, e io non ho né il tempo né la voglia di
starti appresso per evitare che tu faccia ammazzare qualcuno di noi!
Clary lo fissava. Non riusciva a pensare a niente da replicare. Jace non le aveva mai parlato così.
Non aveva mai immaginato che lui potesse parlarle in quel modo. Per quanto lo avesse fatto
arrabbiare, in passato, non le aveva mai parlato come se la odiasse.
— Vattene a casa, Clary — concluse. Sembrava stanchissimo, come se lo sforzo di dirle ciò che
veramente pensavadi lei l'avesse prosciugato. — Vattene a casa.
Tutti i piani di Clary si dissolsero: le speranze abbozzate di cercare Fell, di salvare sua madre, di
ritrovare Luke... Non contavano più niente. Non le veniva nessuna parola da dire. Si avvicinò alla
porta. Alec e Isabelle si scostarono per farla passare. Nessuno dei due la guardò: distolsero lo
sguardo, con un'espressione sconvolta e imbarazzata. Clary sapeva che avrebbe dovuto sentirsi
umiliata, oltre che arrabbiata. Ma non era così. Si sentiva solo morta dentro.
Sulla porta, si girò a guardare Jace. Lui la stava ancora fissando. La luce che entrava dalla finestra
alle sue spalle gli lasciava in ombra il volto. Clary vedeva solo luminosi frammenti di sole che gli
sfioravano i capelli chiari, come fossero schegge di vetro.
— La prima volta che mi hai detto che Valentine era tuo padre, non ci volevo credere — gli disse.
— Non solo perché non volevo che fosse vero, ma perché non gli assomigliavi per niente. Non ho
mai pensato che tu potessi somigliargli. Invece gli somigli. Gli somigli molto.
E uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
— Vogliono farmi morire di fame — disse Simon.
Era disteso sul pavimento della cella, con la schiena sulla fredda pietra. Da quell'angolazione,
vedeva il cielo dalla finestrella. Nei primi giorni dopo la Trasformazione, quando pensava di non
poter più rivedere la luce del giorno, si era ritrovato a pensare incessantemente al sole e al cielo, al
modo in cui il colore del cielo cambia durante il giorno: il cielo pallido del mattino, l'azzurro
intenso del mezzogiorno, l'oscurità blu cobalto del crepuscolo. Era rimasto sveglio nel buio, con un
corteo di colori azzurri che gli marciava nella mente. Ora, disteso sulla schiena nella cella sotto la
Guardia, si chiese se i colori del cielo gli fossero stati restituiti solo per fargli passare quel poco che
restava della sua vita in quel dannato posto, con solo un ritaglio di cielo visibile dall'inferriata
dell'unica finestra della cella.
— Hai sentito cosa ho detto? — Alzò la voce. — L'Inquisitore vuole farmi morire di fame. Niente
più sangue.
Ci fu un fruscio, un udibile sospiro, poi Samuel parlò. — Ho sentito, ma non vedo cosa posso farci
io. — E aggiunse:
— Mi dispiace per te, Diurno, se ti può servire.
— No, non mi serve — ammise Simon. — L'Inquisitore vuole che io menta. Vuole che gli dica che
i Lightwood sono in combutta con Valentine. E poi mi manderà a casa. — Rotolò sullo stomaco e le
pietre gli punsero la pelle.
— Non so perché te lo sto dicendo. Probabilmente non hai neanche idea di quello di cui sto
parlando.
Samuel fece un verso a metà tra una risata chioccia e un colpo di tosse. — Lo so benissimo.
Conoscevo i Lightwood. Eravamo insieme nel Circolo. I Lightwood, i Wayland, i Pangborn, gli
Herondale, i Penhallow. Tutte le migliori famiglie di Alicante.
— E Hodge Starkweather — aggiunse Simon, ripensando al tutore dei Lightwood. — C'era anche
lui, giusto?
— Sì — disse Samuel. — Ma la sua famiglia non era di quelle che godevano di buona fama. Hodge
si era si era mostrato piuttosto promettente, una volta, ma temo che non sia mai stato all'altezza
delle aspettative. — Tacque. — Aldertree ha sempre odiato i Lightwood, naturalmente, sin da
quando eravamo bambini. Lui non era ricco, né intelligente, né bello, e... be', loro non erano molto
gentili con lui. Credo che non li abbia mai perdonati.
— Ricco? — disse Simon. — Credevo che tutti i Cacciatori venissero pagati dal Conclave. Come,
non so, come nel comunismo, o qualcosa del genere.
— In teoria, tutti i Cacciatori vengono pagati in modo equo e giusto — spiegò Samuel. — Alcuni,
come quelli che hanno un'alta posizione al Conclave o che hanno grandi responsabilità (come
gestire un Istituto, ad esempio), ricevono un salario più alto. Poi ci sono quelli che vivono fuori da
Idris e scelgono di fare soldi nel mondo dei mondani: non è proibito, a patto che ne versino una
quota al Conclave. Ma... — Samuel esitò — ... tu hai visto la casa dei Penhallow, no? Che te ne
pare?
Simon vi tornò con la mente. — Molto stravagante.
— È una delle più belle case di Alicante — disse Samuel.— E ne hanno un'altra, una tenuta in
campagna, come quasi tutte le famiglie ricche. Vedi, i Nephilim hanno anche unaltro modo di fare
soldi. Il "bottino", lo chiamano. Quando un Cacciatore uccide un demone o un Nascosto, tuttele sue
cose diventano di proprietà del Cacciatore. Quindi, se un ricco stregone infrange la Legge e viene
ucciso da un Nephilim...
Simon rabbrividì. — Quindi, uccidere i Nascosti è un buon affare?
— Può esserlo — commentò Samuel amaramente. — Se non ti fai troppi scrupoli su chi vai ad
ammazzare. Ora capisci perché c'è tanta opposizione verso gli Accordi: vanno a intaccare il
portafogli degli Shadowhunters, che oradevono fare molta attenzione, prima di ammazzare un Na
scosto. Forse è per questo che io mi unii al Circolo. La miafamiglia non era mai stata ricca. Ed
essere guardato dall'alto in basso solo perché non volevo accettare denaro sporco di sangue... —
S'interruppe.
— Ma anche il Circolo uccideva i Nascosti — obiettò Simon.
— Perché pensavano che fosse il loro dovere — spiegò Samuel. — Non per avidità. Anche se
adesso non riesco a immaginare come ho fatto a dare tanto peso a questa differenza. — La sua voce
sembrava esausta. — Era per Valentine. Aveva qualcosa di speciale. Riusciva a convincerti di
qualsiasi cosa. Ho un ricordo, in particolare: ero con Valentine e avevo le mani che grondavano
sangue. Guardavo il corpo di una donna morta, e pensavo che ciò che avevo fatto era assolutamente
giusto, perché l'aveva detto Valentine.
— Una Nascosta morta?
Samuel, dall'altra parte del muro, fece un respiro spezzato. Poi disse: — Devi capire che avrei fatto
qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Ciascuno di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Anche i
Lightwood. L'Inquisitore lo sa, ed è questo che sta cercando di sfruttare. Ma tieni presente questo:
se cedi e accusi i Lightwood, c'è comunque la possibilità che Aldertree ti uccida, per chiuderti la
bocca per sempre. Dipende solo da quanto l'idea di essere misericordioso lo farà sentire potente al
momento di decidere.
— Non importa — disse Simon. — Non lo voglio fare. Non voglio tradire i Lightwood.
— Davvero? — Samuel sembrava poco convinto. — C'è una ragione per cui non vuoi? Ci tieni così
tanto, ai Lightwood?
— Qualsiasi cosa dicessi su di loro, sarebbe una menzogna.
— Ma è la menzogna che lui vuole sentire. Tu ci vuoi tornare, a casa, non è vero?
Simon fissò il muro, come se in qualche modo potesse attraversarlo con lo sguardo e vedere l'uomo
dall'altra parte. — Tu lo faresti? Mentiresti?
Samuel tossì: una tosse rantolante, da malato. Del resto, nelle celle c'era umido e freddo: se per
Simon non faceva alcuna differenza, per un normale essere umano doveva essere un problema serio.
— Se fossi in te, non cercherei un consiglio morale da me — disse Samuel. — Sì, probabilmente io
mentirei. Ho sempre messo al primo posto la mia pelle.
— Sono sicuro che non è vero.
— In realtà — ammise Samuel — è proprio vero. Una cosa che imparerai quando sarai più vecchio,
Simon, è che quando la gente ti dice qualcosa di molto sgradevole su di sé, generalmente è vero.
Ma io non diventerò più vecchio, pensò Simon. Ad alta voce disse: — È la prima volta che mi
chiami Simon. Simon, non Diurno.
— Credo di sì.
— E per quanto riguarda i Lightwood... — riprese Simon. — Non è che mi stiano poi così
simpatici. Cioè, Isabelle mi è simpatica e, in un certo modo, anche Alec e Jace. Ma c'è una ragazza
di mezzo. E Jace è suo fratello.
Quando Samuel rispose, la sua voce suonò per la prima volta sinceramente divertita. — C'è sempre
una ragazza di mezzo.
Nel momento in cui la porta si chiuse alle spalle di Clary, Jace si accasciò contro la parete come se
gli avessero tagliato via le gambe. Era grigio in faccia e la sua espressione era un misto di orrore,
shock e persino sollievo, come per una catastrofe evitata per un pelo.
— Jace — disse Alec avvicinandosi di un passo. — Pensi davvero...
Jace lo interruppe, con un tono di voce molto basso. — Fuori di qui — disse. — Uscite. Tutti e due.
— Per lasciarti fare cosa? — intervenne Isabelle. — Rovinarti la vita ancora di più? Che cavolo è
successo?
Jace scosse la testa. — L'ho rimandata a casa. Era la cosa migliore per lei.
— Hai fatto molto di più che rimandarla a casa sua. L'hai distrutta. L'hai vista, la sua faccia?
— Ne valeva la pena — rispose Jace. — Tu non puoi capire.
— Per lei, forse — replicò Isabelle. — Spero che ne sarà valsa la pena anche per te.
Jace girò la faccia dall'altra parte. — Voglio restare solo, Isabelle. Ti prego.
Isabelle rivolse un'occhiata sbigottita a suo fratello. Jace non chiedeva mai "per favore". Alec le
mise una mano sulla spalla. — Non preoccuparti, Jace — disse con tutta la gentilezza che aveva. —
Sono sicuro che se la caverà bene.
Jace sollevò la testa e guardò Alec senza veramente vederlo: sembrava piuttosto fissare il nulla. —
No, non se la caverà bene — disse. — A proposito, già che ci sei, dimmi quello che eri venuto a
dirmi. Sembrava piuttosto importante.
Alec sollevò la mano dalla spalla di Isabelle. — Non volevo parlartene davanti a Clary.
Finalmente gli occhi di Jace misero a fuoco Alec. — Non volevi parlarmi di cosa, davanti a Clary?
Alec esitò. Rare volte aveva visto Jace così sconvolto e poteva solo immaginare che effetto
potessero avere su di lui altre brutte sorprese. Ma non c'era modo di nascondergli quella cosa. Jace
doveva sapere. — Ieri — iniziò a dire, a bassa voce — quando ho portato Simon alla Guardia,
Malachi mi ha detto che Magnus Bane l'avrebbe aspettato dall'altra parte del Portale, a New York.
Così ho mandato a Magnus un messaggio col fuoco. Mi ha risposto stamattina: dice che Simon non
è arrivato a New York e che lui non aspettava nessuno. Anzi, secondo lui, dopo che è passata Clary,
non ci sono state altre attività ai Portali di New York.
— Forse Malachi si è sbagliato — suggerì Isabelle, dopouna rapida occhiata alla faccia color cenere
di Jace. — Forsec'era qualcun altro ad aspettare Simon. E Magnus potrebbe sbagliarsi anche sulle
attività dai Portali.
Alec scosse la testa. — Sono salito alla Guardia stamattina con la mamma, per chiederlo a Malachi
di persona. Ma quando l'ho visto, non so perché, mi sono nascosto dietro un angolo. Non riuscivo
ad affrontarlo. Poi l'ho sentito parlare con una delle guardie. L'ho sentito ordinare di portare il
vampiro di sopra, perché l'Inquisitore voleva parlargli di nuovo.
— Sei sicuro che parlasse di Simon? — chiese Isabelle, ma non c'era molta convinzione nella sua
voce. — Forse...
— Dicevano quanto era stato stupido il Nascosto a credere che l'avrebbero semplicemente rispedito
a New York senza interrogarlo. Uno di loro diceva che gli sembrava impossibile che qualcuno
avesse osato farlo entrare ad Alicante. E Malachi ha replicato: Be', che vi aspettavate dal figlio di
Valentine!
— Omioddio! — sussurrò Isabelle. — Jace... Jace aveva le mani strette a pugno, lungo i fianchi. Gli
occhi erano infossati, come se volessero entrare nella scatola cranica. In altre circostanze, Alec gli
avrebbe messo una mano sulla spalla, ma non stavolta: qualcosa in Jace lo trattenne. — Se non fossi
stato io a portarlo qui — disse Jace, con voce bassa e misurata, come se stesse recitando — forse
l'avrebbero lasciato tornare a casa. Forse avrebbero pensato che...
— No — l'interruppe Alec. — No, Jace, non è colpa tua. Tu gli hai salvato la vita.
— L'ho salvato per farlo torturare dal Conclave — concluse Jace. — Bel favore. Quando Clary lo
scoprirà... — scosse la testa, senza vedere più nulla — penserà che l'ho portato qui di proposito, che
l'ho consegnato io al Conclave, ben sapendo che cosa gli avrebbero fatto.
— Non lo penserà mai, non avresti alcun motivo per fare una cosa del genere.
— Forse — replicò Jace, lentamente. — Ma dopo che l'ho trattata in questo modo...
— Nessuno ti penserebbe mai capace di una cosa del genere, Jace — disse Isabelle. — Nessuno che
ti conosca. Nessuno che...
Ma Jace non aspettò di scoprire chi altri non lo avrebbe mai pensato. Si girò e si avvicinò alla
finestra panoramica che dava sul canale. Rimase lì un momento. La luce che entrava gli profilava
d'oro i capelli. Poi agì, così rapido che Alec non ebbe il tempo di intervenire. Quando capì cosa
stava per succedere scattò avanti per impedirlo, ma era già troppo tardi.
Ci fu un gran fragore di vetri infranti e uno spruzzo improvviso di schegge, come una pioggia di
stelle in frantumi. Jace si guardò con interesse clinico la mano sinistra e le nocche striate di rosso,
mentre grosse gocce di sangue si formavano e cadevano sul pavimento ai suoi piedi.
Isabelle fissò lui, poi lo squarcio nel vetro, con le crepe argentee che si irraggiavano dal centro
vuoto come una ragnatela. — Oh, Jace — disse, con una voce dolce che Alec non le aveva mai
sentito. — E adesso come diavolo facciamo a spiegarlo ai Penhallow?
In qualche modo Clary riuscì a trovare la via d'uscita. Come, non lo seppe mai. Dopo aver
attraversato un groviglio di scale e corridoi, a un tratto si era ritrovata a correre verso la porta
d'ingresso e a uscire, per fermarsi sui gradini davanti alla casa dei Penhallow, indecisa se vomitare o
meno nei loro cespugli di rose. Erano il posto ideale per vomitarci dentro e il suo stomaco era in
penoso subbuglio. Ma poi le venne in mente di aver mangiato soltanto un po' di minestra: non c'era
niente da vomitare, nel suo stomaco.
Così scese i gradini e al cancello girò alla cieca: non riusciva a ricordare da dove fosse arrivata, né
come tornare da Amatis, ma non sembrava molto importante: non moriva dalla voglia di tornare da
Amatis, né di spiegare a Luke che se ne dovevano andare o Jace li avrebbe denunciati: al Conclave.
Forse Jace aveva ragione. Forse lei era davvero impulsiva e avventata. Forse non pensava mai alle
conseguenze che le sue azioni potevano avere sulle persone che amava. Il viso di Simon le balzò
nella mente in un lampo, nitido come una fotografia, e poi quello di Luke...
Si fermò e si appoggiò a un lampione. La sua forma squadrata, di vetro, ricordava i vecchi lampioni
a gas davant| alle facciate di arenaria rossa di Park Slope, a Brooklyn. In qualche modo era
rassicurante.
— Clary! — Era una voce giovane, maschile, preoccupata. Immediatamente Clary pensò a Jace e si
girò di scatto.
Ma non era Jace. Davanti a lei, un po' ansimante come se l'avesse inseguita di corsa, c'era Sebastian,
il ragazzo dai capelli neri che aveva visto nel salotto dei Penhallow.
Clary sentì esplodere le stesse sensazioni che aveva avuto prima, vedendolo per la prima volta: una
sorta di riconoscimento, mescolato a qualcosa che non riusciva a identificare. Non era simpatia o
antipatia: era una specie di pulsione verso di lui, come se qualcosa l'attirasse verso quel ragazzo che
non conosceva affatto. Forse era semplicemente il suo aspetto. Era bellissimo, bello come Jace, ma
se Jace era tutto oro, quel ragazzo era tutto ombre e pallore. E adesso Clary notò che la somiglianza
col suo principe immaginario non era precisa come le era parso in un primo momento. Anche il
colorito era diverso. C'era solo qualcosa nei lineamenti del viso, nella postura, nella buia segretezza
degli occhi...
— Stai bene? — le chiese Sebastian. La sua voce era dolce. — Sei scappata via come... — La voce
gli morì in gola, mentre la guardava: Clary era ancora aggrappata al lampione, come per non cadere.
— Cos'è successo?
— Ho litigato con Jace — rispose lei, cercando di mantenere ferma la voce. — Lo sai com'è.
— Veramente no — disse lui con un tono quasi di scusa. — Io non ho né fratelli né sorelle.
— Beato te — commentò Clary, e si sorprese per l'amarezza della propria voce.
— Non lo dici sul serio. — Sebastian si avvicinò di un passo. In quel momento il lampione si
accese con un tremolio, gettando un fascio di stregaluce bianca intorno a loro. Sebastian alzò gli
occhi verso la luce e sorrise. — È un segno.
— Un segno di che?
— Un segno che dovresti permettermi di accompagnarti a casa.
— Non ho idea di dove sia — ammise Clary, rendendosene conto in quel momento. — Sono
scappata e sono arrivata qui. Non ricordo neanche da che parte sono venuta.
— Be', da chi stai?
Esitò, prima di rispondere.
— Non lo dirò a nessuno — la rassicurò Sebastian. — Lo giuro sull'Angelo.
Clary lo fissò. Era un giuramento pesante, per un Cacciatore. — Va bene — disse prima di
ripensarci. — Sto da Amatis Herondale.
— Ottimo, so dove abita. — Le offrì il braccio. — Andiamo?
Riuscì ad accennare un sorriso. — Sei un po' insistente, lo sai?
Sebastian scrollò le spalle. — Ho una specie di fissazione per le damigelle in difficoltà.
— Non essere sessista.
— Ti sbagli. I miei servigi sono a disposizione anche dei gentiluomini. È una fissazione con pari
opportunità — disse. E con uno svolazzo le offrì di nuovo il braccio.
Questa volta, Clary accettò l'offerta.
Alec si chiuse alle spalle la porta della stanzetta nel sottotetto e si girò a guardare Jace. I suoi occhi
erano normalmente del colore del lago Lyn, di un azzurro chiaro e tranquillo, ma tendevano a
cambiare coi suoi stati d'animo. In quel momento il colore era quello dell'East River durante un
temporale. Anche la sua espressione era tempestosa. — Siediti — ordinò a Jace, indicandogli una
seggiola bassa vicino all'abbaino. — Vado a prendere le bende.
Jace ubbidì. La stanza che condivideva con Alec all'ultimo piano della casa dei Penhallow era
piccola, con due lettini stretti appoggiati a due pareti. I loro vestiti erano appesi a una fila di ganci
sul muro. C'era un'unica finestra, che lasciava entrare una luce fioca: si stava facendo buio e, di là
dal vetro, il cielo era blu indaco.
Alec si inginocchiò, tirò fuori la sacca da sotto il suo letto e l'aprì. Vi frugò rumorosamente dentro,
poi si rialzò con una scatola in mano. Jace la riconobbe: era la scatola del pronto soccorso che
usavano quando le rune non erano utilizzabili. Conteneva antisettico, bende, forbici e garze.
— Non vuoi usare una runa di guarigione? — chiese Jace, più per curiosità che per altro.
— No. Puoi anche... — Alec s'interruppe e buttò la scatola sul letto con una muta imprecazione.
Andò al piccolo lavandino a muro e si lavò le mani con tale forza che l'acqua schizzò via in una
nuvola di goccioline. Jace lo guardava con distaccata curiosità. La mano ora gli bruciava e il dolore
era sordo e feroce.
Alec recuperò la scatola, avvicinò una sedia a Jace e vi si lasciò cadere. — Dammi la mano.
Jace tese la mano. Doveva ammettere che era messa piuttosto male: tutte e quattro le nocche erano
spaccate a raggiera. Aveva sangue secco incollato alle dita, come un guanto marrone che si
squamava.
Alec fece una smorfia. — Sei un idiota.
— Grazie — rispose Jace. Rimase pazientemente a guardare Alec che, chino sulla sua mano con un
paio di pinzette, cercava di stanare un frammento di vetro conficcato nella pelle. — Allora, perché
no?
— Perché no, cosa?
— Perché non usi una runa di guarigione? Questa non è una ferita di demoni.
— Perché... — Alec prese la bottiglia azzurra di antisettico. — Credo che possa farti bene sentire il
dolore. Per una volta, puoi guarire da mondano: in modo lento e orribile. Magari impari qualcosa.
— Versò il liquido pungente sui tagli. — Anche se ne dubito.
— Potrei sempre farmela da solo, la runa di guarigione,lo sai.
Alec iniziò a fasciargli la mano. — Solo se vuoi che riveli ai Penhallow che cos'è successo
veramente alla loro finestra, invece di fargli credere che è stato un banale incidente. — Fissò la
fasciatura con un nodo stretto e Jace fece una smorfia di dolore. — Sai, se avessi immaginato che ti
saresti fatto questo non ti avrei detto niente.
— Me l'avresti detto comunque. — Tace inclinò la testa. — Non pensavo che il mio attacco alla
finestra panoramica ti turbasse tanto.
— È solo che... — Finito il bendaggio, Alec guardò la mano di Jace, quella che ancora teneva tra le
sue. Era una zampa bianca di bende e macchiata di sangue dove le dita di Alec l'avevano toccata. —
Perché ti fai tutto questo? Non solo la finestra, ma anche il modo in cui hai parlato a Clary. Per cosa
ti stai punendo? Non riesci a sfuggire ai tuoi sentimenti.
La voce di Jace era piatta. — E quali sarebbero i miei sentimenti?
— Lo vedo, come la guardi. — Gli occhi di Alec erano distanti, guardavano oltre Jace qualcosa che
solo lui sembrava vedere. — E non puoi averla. Forse non avevi mai saputo com'è desiderare
qualcosa che non si può avere.
Jace lo fissò con lo sguardo fermo. — Che cosa c'è tra te e Magnus Bane?
La testa di Alec si levò di scatto. — Io non... non c'è niente...
— Non sono uno stupido. Dopo aver sentito Malachi, ti sei rivolto subito a Magnus, prima ancora di
parlare con me o con Isabelle o con chiunque altro.
— Perché era l'unico che poteva rispondere alla mia domanda, ecco perché. Non c'è niente tra noi
— disse Alec. Poi, cogliendo l'espressione di Jace, precisò, con estrema riluttanza: — Non c'è più
niente. Non c'è più niente tra noi, okay?
— Spero che non sia per causa mia — disse Jace.
Alec sbiancò e si ritrasse, come per parare un colpo.
— In che senso?
— So quello che credi di provare per me — disse Jace. — Tu invece non lo sai. Io ti piaccio, perché
sono una sicurezza per te. Senza rischi. E tu non ti metterai mai in giocoin una vera relazione,
perché puoi sempre usare me comeuna buona scusa. — Jace sapeva di essere crudele in quel
momento, ma non gliene importava granché. Ferire le persone che amava era bello quasi come
ferire se stesso, quando era di quell'umore.
— Capisco — ribatté Alec secco. — Prima Clary, poi la mano, adesso me. Va' al diavolo, Jace.
— Non mi credi? — replicò Jace. — Bene. Forza. Baciami adesso.
Alec lo guardò inorridito.
— Esattamente. Nonostante la mia sbalorditiva bellezza, in realtà io non ti piaccio in quel senso. E
se stai sganciando Magnus, non è per colpa mia. È perché hai troppa paura di dire a qualcuno, a
chiunque, che lo ami per davvero. L'amore ci rende bugiardi — concluso Jace. — L'ha detto la
Regina del Popolo Fatato. Quindi non giudicarmi, se mento sui miei sentimenti. Lo fai anche tu. —
Si alzò.
— E adesso, voglio che tu lo faccia di nuovo.
Il volto di Alec, ferito, era di pietra. — In che senso?
— Voglio che tu menta per me — incalzò Jace, prendendo la giacca dal chiodo sul muro e
infilandosela. — È sera, ormai. Fra poco torneranno dalla Guardia. Devi dire a tutti che non scendo
perché non mi sento bene. Che mi sentodebole e stordito e che è per questo che la finestra è andata
in frantumi.
Alec piegò la testa e squadrò Jace. — D'accordo — disse. — Ma solo se mi dici dove vai.
— Alla Guardia — rispose Jace. — Vado a liberare Simon dalla prigione.
La madre di Clary chiamava il periodo tra il crepuscolo e la notte "l'ora blu". Diceva che nell'ora blu
la luce era più intensa e più particolare e che era il momento migliore per dipingere. Clary non
aveva mai capito esattamente cosa intendesse, ma adesso, camminando per Alicante al crepuscolo,
comprese. L'ora blu a New York non era realmente blu: era troppo slavata dalle luci delle strade e
dalle insegne al neon. Sicuramente Jocelyn pensava a Idris. Lì la luce bagnava di chiazze violette i
muri dorati della città e i lampioni di stregaluce creavano pozze di luce bianca così luminosa che
Clary si aspettava di sentirne il calore quando le attraversava. Desiderò che sua madre fosse con lei.
Jocelyn avrebbe potuto indicarle i luoghi di Alicante che conosceva meglio, che avevano un posto
tra i suoi ricordi.
Ma non ti parlerebbe mai di questi luoghi. Te li ha sempre tenuti nascosti di proposito. E ora
potresti non conoscerli mai. Un dolore acuto, a metà tra la rabbia e il rimpianto, le prese il cuore.
— Sei terribilmente silenziosa — osservò Sebastian. Stavano attraversando un canale su un ponte
dai fianchi in pietra coperti di rune intagliate.
— Stavo pensando che sarò nei guai, quando rientrerò. Sono dovuta scappare da una finestra per
uscire, ormai Amatis si sarà accorta che sono sparita.
Sebastian aggrottò la fronte. — Perché sei scappata di nascosto? Non ti avrebbero permesso di
vedere tuo fratello?
— Io non dovrei essere ad Alicante — gli spiegò Clary. — Dovrei essere a casa mia, al sicuro, a
guardare la partita dalle linee laterali.
— Ah, questo spiega molte cose.
— Ah sì? — Gli lanciò un'occhiata di traverso, incuriosita. Ombre blu s'impigliavano tra i suoi
capelli scuri.
— Tutti sbiancavano, ogni volta che venivi nominata. Immaginavo che ci fosse del sangue cattivo,
tra te e tuo fratello.
— Sangue cattivo? Be', si potrebbe dire anche così.
— Jace non ti piace molto?
— Se mi piace Jace? — Clary aveva riflettuto talmente tanto nelle ultime settimane, chiedendosi se
amava Jace Wayland, e in che modo lo amava, che non si era mai soffermata a pensare se Jace le
piacesse.
— Scusa, in effetti fa parte della tua famiglia, non si tratta di piacersi o meno...
— Certo che mi piace — disse Clary sorprendendosi alle sue stesse parole. — Mi piace. È solo
che... mi fa infuriare. Mi dice cosa posso fare, cosa non posso fare...
— Non sembra che funzioni molto — osservò Sebastian.
— In che senso?
— Mi sembra che tu faccia comunque quello che vuoi.
— Credo di sì. — L'osservazione la sorprese, venendo da un quasi sconosciuto. — Ma a quanto
pare si è arrabbiato molto più di quel che pensassi.
— Gli passerà. — Dal tono di voce, Sebastian sembravanon dare troppo peso alla cosa.
Clary lo guardò con curiosità. — E a te Jace sta simpatico?
— Sì. Ma credo di non stargli molto simpatico io. — Sebastian sembrava mesto. — Qualsiasi cosa
io dica sembra dargli fastidio.
Deviarono dalla strada principale in un'ampia piazza acciottolata, circondata da edifici alti e stretti.
Al centro c'era una statua di bronzo: era l'Angelo, quello che aveva dato il suo sangue per creare la
stirpe degli Shadowhunters. Sul lato nord c'era un'imponente struttura di pietra bianca. Un'ampia
gradinata di marmo portava a un loggiato fitto di colonne, dietro il quale si vedeva una grande porta
a due battenti. Il colpo d'occhio, nella luce della sera, era stupefacente... e stranamente familiare.
Clary si chiese se avesse già visto un'immagine di quel luogo. Forse sua madre l'aveva dipinto?
— Questa è la piazza dell'Angelo — spiegò Sebastian. — E quella era la Sala dell'Angelo. Gli
Accordi furono firmati là dentro, poiché ai Nascosti non è consentito accedere alla Guardia. Ora è
chiamata Sala degli Accordi. È un luogo d'incontro per tutti: è qui che si fanno le celebrazioni uffi
ciali, i matrimoni, i balli, cose del genere. È il centro della città. Si dice che tutte le strade portano
alla Sala.
— Somiglia un po' a una chiesa... Ma qui non avete chiese, vero?
— Non ce n'è bisogno — spiegò Sebastian. — Ci proteggono le torri antidemoni. Non ci serve
altro. È per questo che mi piace venire qui. Mi dà un senso di... pace.
Clary lo guardò, sorpresa. — Quindi tu non vivi qui?
— No. Vivo a Parigi. Sono venuto a trovare Aline, mia cugina. Mia madre e suo padre, zio Patrick,
erano fratelli.
— I genitori di Aline hanno diretto l'Istituto di Pechino per anni. Sono tornati ad Alicante circa dieci
anni fa.
— Erano... I Penhallow non facevano parte del Circolo, vero?
La sorpresa balenò sul volto di Sebastian. Rimase in silenzio mentre svoltavano e si lasciavano la
piazza alle spalle, addentrandosi in un dedalo di stradine scure. — Perché lo chiedi? — disse alla
fine.
— Be'... perché invece i Lightwood erano nel Circolo.
Passarono sotto un lampione e Clary gli lanciò un'occhiata di striscio. Nel cono di luce bianca, con
quel lungo cappotto scuro e la camicia bianca, Sebastian sembrava lo schizzo in bianco e nero di un
gentiluomo vittoriano. Il modo in cui i capelli neri gli si arricciavano sulla fronte le faceva prudere
le mani dalla voglia di ritrarlo a china. — Devi capire — le disse Sebastian — che una buona metà
dei giovani di Idris faceva parte del Circolo, insieme a molti altri che non vivevano a Idris. Mio zio
Patrick era nel Circolo, all'inizio, ma ne uscì quando iniziò a capire che Valentine faceva troppo sul
serio. I genitori di Aline non presero parte alla Rivolta: mio zio partì per Pechino per allontanarsi da
Valentine. Fu là, all'Istituto, che incontrò la madre di Aline. Quando i Lightwood e gli altri membri
del Circolo vennero processati per alto tradimento, i Penhallow votarono per la clemenza. Li fecero
punire con l'esilio, invece che con la maledizione. Per questo i Lightwood gli sono sempre stati
riconoscenti.
— E i tuoi genitori? — chiese Clary. — Erano nel Circolo?
— Non proprio. Mia madre era più giovane di Patrick. Quando lui andò a Pechino, la inviò a Parigi.
E a Parigi incontrò mio padre.
— Tua madre è più giovane di Patrick?
— È morta — rivelò Sebastian. — E anche mio padre. Mi ha cresciuto mia zia Elodie.
— Oh — mormorò Clary, sentendosi molto stupida. — Mi dispiace.
— Non me li ricordo neppure — disse Sebastian. — Non proprio. Quando ero piccolo, desideravo
tanto avere un fratello o una sorella più grande, qualcuno che potesse dirmi com'erano i nostri
genitori. — La guardò, pensieroso. —Posso chiederti una cosa, Clary? Perché sei venuta a Idris se
sapevi che tuo fratello l'avrebbe presa così male?
Prima che Clary potesse dare una risposta, dalla stradina stretta che stavano percorrendo sbucarono
in una piazzetta mal illuminata, con un pozzo in disuso al centro bagnato dalla luce della luna. —
La piazza del Pozzo — annunciò Sebastian con un'inequivocabile nota di disappunto nella voce. —
Siamo arrivati più in fretta di quel che pensavo.
Clary guardò oltre il ponte in muratura che scavalcava il vicino canale: si vedeva in lontananza la
casa di Amatis, con tutte le finestre illuminate. Sospirò. — Da qui posso andare da sola, grazie.
— Non vuoi che ti accompagni fino a...
— No, a meno che non vuoi passare dei guai anche tu.
— Passerei dei guai? Per essere stato così gentile da accompagnarti fino a casa?
— Nessuno dovrebbe sapere della mia presenza ad Alicante — disse Clary. — Dovrebbe essere un
segreto. E tu, senza offesa, sei uno sconosciuto.
— Vorrei non esserlo — disse Sebastian. — Mi piacerebbe conoscerti meglio. — La stava
guardando con un misto di divertimento e di timidezza, come se non fosse sicuro di come sarebbero
state accolte le sue parole.
— Sebastian — disse Clary, travolta da un'improvvisa stanchezza. — Sono contenta che tu voglia
conoscermi meglio. Ma ora non ho proprio le forze per farlo. Mi dispiace.
— Non intendevo...
Ma Clary si stava già allontanando da lui, verso il ponte. A metà strada, si voltò indietro e lo guardò:
sotto la luce della luna, coi capelli neri che gli ricadevano sul viso, aveva un'aria stranamente
desolata.
— Ragnor Fell — gli disse.
Lui la fissò. — Cosa?
Mi hai chiesto perché sono venuta qui, anche se non dovevo — spiegò Clary. — Mia madre sta
male. Molto male. Forse sta morendo. L'unica cosa che può aiutarla, l'unica persona che può
aiutarla, è uno stregone chiamato Ragnor Fell. Solo che non ho idea di dove trovarlo.
— Clary...
Lei gli voltò le spalle. — Buonanotte, Sebastian.
Salire dal graticcio fu più difficile che scendere. Clary scivolò innumerevoli volte sulla sua
superficie umida e sospirò di sollievo quando finalmente si issò sul davanzale della finestra e rientrò
nella camera da letto con un mezzo salto e un mezzo capitombolo.
La sua euforia ebbe vita breve. Non appena gli stivali toccarono il pavimento, una silenziosa
esplosione di luce illuminò a giorno la stanza.
Amatis era seduta sul bordo del letto, con la schiena dritta e una pietra di stregaluce in mano. La
pietra ardeva di luce violenta, che non aiutava certo ad ammorbidire i tratti duri del suo volto o le
pieghe agli angoli della bocca. Fissò Clary in silenzio per diversi lunghissimi momenti. Finalmente
disse: — Vestita così, sei uguale a Jocelyn.
Clary si rialzò goffamente. — Mi... mi dispiace — disse — di essere scappata così. — Amatis
chiuse la mano intorno alla stregaluce, spegnendola, e Clary batté le palpebre nella tenebra
improvvisa.
— Togliti la tenuta da battaglia — le disse Amatis. — Poi scendi in cucina. E non pensare nemmeno
di scappare di nuovo dalla finestra — aggiunse. — O la prossima volta che tornerai in questa casa
troverai tutte le porte sbarrate.
Clary annuì, mandando giù un groppo in gola.
Amatis si alzò e se ne andò senza aggiungere altro. Clary si sfilò rapidamente la tenuta e si rimise i
suoi vestiti, che erano appesi alla spalliera del letto, asciutti. I jeans erano un po' duri, ma fu
piacevole rimetterseli con la solita maglietta. Clary scosse i capelli aggrovigliati e scese al piano di
sotto.
L'ultima volta che aveva visto il pianterreno della casa di Amatis era in preda al delirio e alle
allucinazioni. Ricordava lunghi corridoi che si protendevano all'infinito e un enorme orologio a
pendolo i cui ticchettii risuonavano come il battito di un cuore morente. Ora si ritrovò in un salotto
piccolo e senza pretese, arredato con semplici mobili in legno e un tappeto patchwork sul
pavimento. Le dimensioni ridotte e i colori vivaci le ricordarono un po' il salotto di casa sua, a
Brooklyn. Dal salotto entrò in cucina, dove un fuoco ardeva nel caminetto. La stanza era piena di
luce calda e gialla. Trovò Amatis seduta a tavola, con I uno scialle azzurro sulle spalle che faceva
sembrare i suoi capelli più grigi.
— Ciao. — Clary si fermò sulla porta. Non riusciva a capire se Amatis fosse arrabbiata o no.
— Immagino che non ci sia neppure bisogno di chiederti dove sei stata — iniziò Amatis, senza
alzare gli occhi dalla tavola. — Sei andata da Jonathan, vero? Dovevo aspettarmelo. Forse, se avessi
dei figli miei, avrei saputo riconoscere una bugia. Ma speravo, almeno per questa volta, di non
deludere mio fratello così completamente.
— Deludere Luke?
— Sai che cosa accadde, quando mio fratello fu morso? — Amatis guardava fisso davanti a sé. —
Quando fu morso da un lupo mannaro (cosa inevitabile, perché Valentinesi metteva sempre in
situazioni stupidamente rischiose, per sé e per i suoi seguaci, quindi era solo una questione di
tempo), venne da me e mi raccontò cosa gli era accaduto equanto era terrorizzato all'idea di aver
contratto la licantropia. E io gli dissi... gli dissi...
— Amatis, non devi...
— Gli dissi di sparire dalla mia casa e di non tornare finché non fosse stato certo di non aver preso
la malattia. Arretrai di un passo, per stargli lontano: non riuscii a evitarlo. — Le tremava la voce. —
Lui vide tutto il mio disgusto, perché ce l'avevo dipinto in faccia. Mi disse che, se avesse preso la
malattia, se fosse diventato un lupo mannaro, il suo timore era che Valentine gli avrebbe chiesto di
suicidarsi, e io gli dissi che... che forse sarebbe stata la cosa migliore!
Clary trasalì. Non potè evitarlo.
Amatis alzò rapidamente gli occhi su di lei. Le si leggeva in volto il profondo disprezzo che aveva
di sé. — Lucian era sempre stato così buono, nonostante tutto quello che Valentine cercava di fargli
fare. Ogni tanto pensavo che lui e Jocelyn fossero le uniche persone veramente buone che
conoscevo. E non riuscivo a sopportare l'idea che diventasse un mostro.
— Ma lui non è così. Non è un mostro.
— Io non lo sapevo! Dopo la Trasformazione, dopo la sua fuga, Jocelyn lavorò molto, e a lungo, per
convincermi che Lucian, dentro, era ancora la stessa persona, che era ancora mio fratello. Se non
fosse stato per lei, non avrei mai accettato di rivederlo ancora. Così gli permisi di restare qui,prima
della Rivolta, e di nascondersi in cantina. Ma sapevo che lui non poteva fidarsi pienamente di me,
non dopoche gli avevo voltato le spalle in quel modo. E credo che tuttora non si fidi di me.
— Si è fidato abbastanza da venire da te quando stavo male — osservò Clary. — Si è fidato
abbastanza da lasciarmi qui con te...
— Non aveva nessun altro posto dove andare — replicò Amatis. — E guarda come mi sono
comportata con te. Non sono nemmeno riuscita a tenerti in casa per un giorno.
Clary trasalì. Era peggio che essere rimproverata. — Non è colpa tua. Sono stata io a mentirti e a
scappare di nascosto. Non potevi farci niente.
— Oh, Clary — sospirò Amatis. — Non capisci? C'è sempre qualcosa che si può fare. Sono quelli
come me che si convincono che non è così. Io mi sono convinta che nonc'era niente che potessi fare
per Lucian. Mi sono convinta che non c'era niente che potessi fare quando Stephen mi abbandonò.
E mi rifiuto di presenziare alle assemblee del Conclave, perché sono convinta che non c'è niente che
io possa fare per influenzare le loro decisioni, anche quando detesto ciò che fanno. Ma poi, quando
scelgo di fare qualcosa... be', nemmeno allora riesco a fare la cosa giusta. — Isuoi occhi brillavano
duri e lucenti nella luce del fuoco. —Va' a letto, Clary — concluse. — D'ora in poi, puoi andare e
venire come ti pare. Non farò niente per fermarti. Dopotutto, come hai detto tu, non c'è niente che io
possa fare.
— Amatis...
— No. — Amatis scosse la testa. — Va' a letto. Ti prego. — La sua voce aveva una nota definitiva.
Si girò dall'altra parte, come se Clary se ne fosse già andata, e rimase con gli occhi fissi a guardare
il muro.
Clary girò sui tacchi e corse di sopra. Chiuse la porta della sua stanza con un calcio e si buttò sul
letto. Voleva piangere, ma le lacrime non venivano, face mi odia, pensò. Amatis mi odia. Non ho
nemmeno salutato Simon. Mia madre sta morendo. E Luke mi ha abbandonata. Sono sola. Non
sono mai stata tanto sola. Ed è tutta colpa mia. Forse era per questo che non riusciva a piangere,
pensò, fissando il soffitto ad occhi asciutti. Che senso aveva piangere, se non c'era nessuno a
confortarti? E quel che era peggio, se non potevi nemmeno confortare te stessa?
capitolo 7
DOVE NON OSANO GLI ANGELI
Da un sogno di sangue e sole, Simon si svegliò all'improvviso al suono di una voce che chiamava il
suo nome.
— Simon. — La voce era un sussurro sibilante. — Simon, alzati.
Simon era già in piedi (qualche volta si sorprendeva ancora per la rapidità con cui riusciva a
muoversi). Girò su se stesso nel buio della cella. — Samuel? — sussurrò, fissando nell'ombra. —
Samuel, sei tu?
— Girati, Simon. — Ora la voce, vagamente familiare,aveva una nota d'irritazione. — Vieni alla
finestra. — Simon la riconobbe immediatamente. Guardò tra le inferriate e vide Jace inginocchiato
sull'erba, con una pietra di stregaluce in mano. Era accigliato. — Be'? Credevi che fosse un incubo?
— Forse lo credo ancora. — C'era un ronzio nelle sue orecchie. Se avesse avuto un cuore che
batteva, avrebbe pensato che fosse il sangue che gli scorreva nelle vene, ma era qualcos'altro,
qualcosa di più incorporeo e più intimo del sangue.
La stregaluce disegnava un motivo irregolare di luci e ombre sulla faccia pallida di Jace. — Quindi,
è qui che ti hanno messo. Non credevo che le usassero ancora, queste celle. — Lanciò un'occhiata
di lato. — All'inizio ho beccato la finestra sbagliata. Ho fatto prendere un colpo al tuo amico nella
cella accanto. Affascinante, con quella barba e quegli stracci. Mi ricorda un po' i barboni di casa
nostra.
Simon capì che cos'era il ronzio nelle orecchie: rabbia. In un angolo remoto della mente era
consapevole di avere i denti digrignati, le punte dei canini che gli graffiavano il labbro inferiore. —
Mi fa piacere che trovi tutto questo divertente.
— Ma come? Non sei felice di vedermi? — gli disse Jace. — Devo dire che la cosa mi sorprende.
Mi hanno sempre detto che la mia presenza illumina ogni stanza. Pensavo che valesse il doppio, per
un'umida cella sotterranea.
— Tu sapevi che cosa sarebbe successo, vero? Ti rispediranno a New York, mi hai detto. No
problem. Qui invece non ne hanno mai avuto la minima intenzione.
— Non lo sapevo. — Jace incrociò il suo sguardo tra le sbarre: i suoi occhi erano limpidi e fermi.
— So che non mi credi, ma ne ero convinto.
— O sei un bugiardo o sei uno stupido...
— Allora sono uno stupido.
—... o entrambe le cose — concluse Simon. — Io propendo per entrambi.
— Non ho nessuna ragione per mentirti. Non ora. — Lo sguardo di Jace rimase fermo. — E smetti
di mostrarmi le zanne. Mi rende nervoso.
— Be' — disse Simon — se vuoi saperlo, è perché sai di sangue.
— È la mia nuova colonia. Eau de Ferite. — Jace sollevò la mano sinistra. Era un guanto di bende
bianche, macchiato sulle nocche, dove era filtrato il sangue.
Simon aggrottò la fronte. — Pensavo che quelli della tua razza non avessero ferite. O meglio, che
non avessero ferite che durano nel tempo.
— Ho spaccato una finestra — spiegò Jace. — E Alec vuole farmi guarire come un mondano, per
darmi una lezione. Ecco, questa è la verità. Sei colpito?
— No — rispose Simon. — Ho problemi più grossi dei tuoi. L'Inquisitore continua a farmi
domande alle quali non posso rispondere. Continua ad accusarmi di aver ricevuto i poteri di Diurno
da Valentine. Di essere una spia ai suoi ordini.
L'allarme balenò negli occhi di Jace. — L'ha detto Aldertree?
— Aldertree mi ha lasciato capire che tutto il Conclave lo pensa.
— Brutta storia. Se decidono che sei una spia, se riescono a convincersi che hai infranto la Legge,
allora gli Accordi non verranno applicati. — Jace si guardò rapidamente intorno, poi tornò a
concentrarsi su Simon. — Sarà meglio che ti tiriamo fuori di qui.
— E poi? — Simon quasi non credeva alle sue stesse parole. Voleva uscire di lì con tanta intensità
che quasi ne sentiva il sapore in bocca, ma non riuscì a fermare le parole che gli rotolavano fuori dai
denti. — Dove vorresti nascondermi?
— C'è un Portale, qui alla Guardia. Se riusciamo a trovarlo, ti posso rimandare indietro.
— E tutti sapranno che sei stato tu ad aiutarmi, Jace. Il Conclave non vuole solo me. Anzi, dubito
che gli importimolto di un Nascosto. Loro vogliono delle prove contro la tua famiglia, contro i
Lightwood. Vogliono dimostrare che i Lightwood sono ancora legati a Valentine, che non hanno mai
veramente lasciato il Circolo.
Anche nel buio era possibile vedere il rossore infiammare le guance di Jace. — Ma è assurdo! Loro
hanno combattuto contro Valentine, sulla nave. E Robert ha rischiato di morire.
— L'Inquisitore vuole far credere che i Lightwood hanno sacrificato gli altri Nephilim sulla nave
per salvare le apparenze e dimostrare di essere contro Valentine. Poi, però, hanno perso la Spada
Mortale. Ed è questo che conta per l'Inquisitore. Senti, voi avete cercato di mettere in guardia il
Conclave e loro se ne sono fregati. Adesso l'Inquisitoresta cercando qualcuno a cui addossare la
colpa di tutto. Se riesce a marchiare voi Lightwood come traditori, nessuno riterrà più il Conclave
responsabile di ciò che è successo. E Aldertree potrà attuare tutte le politiche che vorrà, senza
incontrare opposizione.
Jace appoggiò la faccia sulle mani, con le lunghe dita che giocherellavano distrattamente con i
capelli. — Ma io non posso lasciarti qui. Se Clary lo scopre...
— Avrei dovuto capirlo che era questo che ti preoccupava. — Simon rise con durezza. — E tu non
dirglielo. Tanto lei è a New York, grazie a... — S'interruppe, incapace dipronunciare quella parola.
— Avevi ragione tu — disse invece. — Sono contento che non sia qui.
Jace sollevò la faccia dalle mani. — Come?
— Il Conclave è folle. Chissà che cosa le farebbero, se sapessero cos'è in grado di fare. Avevi
ragione — ripetè Simon. E quando Jace non replicò nulla, aggiunse: — Potresti anche apprezzare il
fatto che te l'abbia detto. Non credo che lo dirò un'altra volta.
Jace lo fissava senza espressione e Simon, sussultando, rivide l'immagine di Jace sulla nave,
insanguinato e morente, sul pavimento di metallo. Alla fine, Jace parlò. — Quindi mi stai dicendo
che hai intenzione di restare qui? In prigione? Fino a quando?
— Fino a quando non ci verrà un'idea migliore — disseSimon. — Ma c'è una cosa.
Jace inarcò le sopracciglia. — Cosa?
— Sangue — disse Simon. — L'Inquisitore sta cercandodi affamarmi per costringermi a parlare. Mi
sento già molto debole. E domani sarò... be', non so come sarò. Ma non voglio cedere. E non voglio
bere di nuovo il tuo sangue, né quello di chiunque altro — aggiunse rapidamente, prima che Jace
potesse proporglielo. — Il sangue animale andrà benissimo.
— Il sangue te lo posso procurare — disse Jace. Esitò. —Hai detto... hai detto all'Inquisitore che ti
ho fatto bere ilmio sangue? Che ti ho salvato?
Simon scosse la testa.
Gli occhi di Jace brillarono di luce riflessa. — Perché no?
— Forse perché non volevo cacciarti in altri guai.
— Senti, vampiro — disse Jace. — Proteggi i Lightwood, se puoi, ma non proteggere me.
Simon sollevò la testa. — Perché no?
Per un momento, con Jace che lo guardava tra le sbarre, Simon potè quasi immaginare di esser lui
quello libero e Jace il prigioniero. — Forse perché non me lo merito.
Clary fu svegliata da un rumore che sembrava grandine su un tetto di lamiera. Si mise a sedere sul
letto e si guardò intorno, intontita. Lo sentì di nuovo: era un crepitio e veniva dalla finestra.
Allontanando le coperte con riluttanza, Clary andò a investigare.
Quando spalancò la finestra, entrò una folata d'aria fredda che le penetrò nel pigiama come un
coltello. Rabbrividì e si affacciò al davanzale.
C'era qualcuno in giardino. Per un momento, con un tuffo al cuore, Clary vide solo una figura alta e
snella coi capelli arruffati. Ma quando la figura alzò lo sguardo, Clary vide che i capelli erano neri,
e non biondi, e per la seconda volta si rese conto di aver sperato che fosse Jace e di essersi ritrovata
con Sebastian.
Sebastian aveva una manciata di sassolini in mano. Le sorrise, quando vide la sua testa sbucare, e a
gesti le indicò se stesso e il graticcio delle rose. Scendi!
Lei scosse la testa e gli indicò la porta principale. Aspettami alla porta d'ingresso. Chiuse la finestra
e corse di sotto. Era mattina tardi: la luce che si riversava dalle finestre era intensa e dorata, ma la
casa aveva le luci spente ed era immersa nel silenzio. Forse Amatis dorme ancora, pensò Clary.
Andò alla porta, aprì il chiavistello e la spalancò. Sebastian era lì, sul gradino, e di nuovo Clary
ebbe quella strana sensazione di riconoscimento, anche se questa volta fu più lieve. Gli sorrise
debolmente. — Hai tirato i sassi contro la finestra — disse. — Credevo che lo facessero solo nei
film.
Lui sorrise. — Bel pigiama. Ti ho svegliato?
— Forse.—
— Scusa — le disse, pur non sembrando dispiaciuto. — Però forse ti potrebbe tornare utile fare un
salto di sopra e vestirti: passeremo la giornata insieme.
— Wow. Sei un tipo piuttosto sicuro di sé — osservò Clary. Del resto, i ragazzi belli come
Sebastian probabilmente non avevano motivo di non essere sicuri di sé. Scosse la testa. — Mi
spiace, ma non posso. Non posso uscire di casa. Non oggi.
Una linea di interesse si disegnò tra gli occhi di Sebastian. — Ieri però sei uscita.
— Lo so, ma è stato prima che... — Prima che Amatis mi facesse sentire piccola come un microbo.
— Oggi non posso. Per favore, non cercare di convincermi, okay?
— Okay — disse Sebastian. — Non cercherò di convincerti. Ma almeno lasciami dire quello che
ero venuto a dirti. Poi, se ancora vorrai che me ne vada, ti prometto che me ne andrò.
— Dimmi. — Sebastian alzò il viso, e Clary si chiese com'era possibile che degli occhi così scuri
brillassero come se fossero dorati. — So dove puoi trovare Ragnor Fell.
Le ci vollero meno di dieci minuti per correre di sopra, vestirsi al volo, scrivere un biglietto veloce
ad Amatis e tornare da Sebastian, che l'aspettava sul ciglio del canale. Lui sorrise quando la vide
che gli correva incontro, con il cappotto verde buttato su un braccio. — Sono qui — disse Clary
fermandosi. — Andiamo?
Sebastian insistette per aiutarla a infilarsi il cappotto. — Credo che nessuno mi abbia mai aiutato a
mettere il cappotto, prima d'ora — osservò Clary, liberando i capelli che erano rimasti sotto il
colletto. — Be', forse i camerieri. Hai mai fatto il cameriere?
— No, ma sono stato cresciuto da una tata francese — le ricordò Sebastian. — Il che comporta un
percorso formativo ancor più severo.
Clary sorrise, nonostante la tensione. Sebastian era bravo a farla sorridere, notò con un lieve senso
di sorpresa. Quasi troppo bravo. — Dove andiamo? — gli chiese bruscamente. — La casa di Fell è
qui vicino?
— Non proprio, vive fuori città — rispose Sebastian, avviandosi verso il ponte. Clary gli si
affiancò.
— Ci vorrà molto, a piedi?
— È troppo lontano per andarci a piedi. Dovremo farci dare un passaggio.
— Un passaggio? E da chi? — Clary si bloccò su due piedi. — Sebastian, dobbiamo stare attenti.
Non possiamo dire al primo che capita dove andiamo e cosa ci faccio qui... Deve restare un segreto.
Sebastian la osservò con i suoi occhi scuri e riflessivi. — Giuro sull'Angelo che l'amico che ci darà
il passaggio non farà parola con nessuno sulla nostra destinazione.
— Sei sicuro?
— Sicurissimo.
Ragnor Fell, pensava Clary mentre si addentravano nelle strade affollate. Sto andando da Ragnor
Fell. Un incontrollabile entusiasmo si mescolava alla trepidazione. Madeleine l'aveva dipinto come
un uomo potente e temibile. E se non avesse avuto pazienza con lei? E se non aveva tempo? E se lei
non fosse riuscita a convincerlo di essere chi diceva di essere? E se lui si fosse dimenticato di sua
madre?
Non l'aiutava certo ad allentare la tensione l'impressione di riconoscere Jace o Isabelle in ogni
ragazzo biondo o in ogni ragazza coi capelli lunghi e neri che vedeva passare. Ma Isabelle l'avrebbe
probabilmente ignorata, pensò mestamente, e di sicuro Jace era dai Penhallow a baciarsi con la sua
nuova ragazza.
— Hai paura di essere pedinata? — le chiese Sebastian, mentre svoltavano in una strada laterale che
si allontanava dal centro della città, notando che Clary continuava a lanciare occhiate intorno a sé.
— Continuo a vedere gente che mi pare di conoscere — ammise Clary. — Jace o i Lightwood.
— Da quando i Lightwood sono arrivati, credo che Jace non si sia mai allontanato dalla casa dei
Penhallow. Il più delle volte si chiude in camera sua. In più, ieri s'è fatto male a una mano.
— S'è fatto male? Come? — Clary, dimenticando di guardare dove stava andando, inciampò in un
sasso. La strada che stavano percorrendo, che prima era acciottolata, ora era semplicemente sassosa,
e Clary neppure si accorse del cambiamento. — Ahi!
— Forza, siamo arrivati — annunciò Sebastian fermandosi davanti a un'alta palizzata di legno. Non
c'erano più case intorno: si erano lasciati alle spalle il centro abitato in modo piuttosto repentino e
ora c'era solo questa recinzione e, sul lato opposto, un pendio pietroso che portava verso la foresta.
C'era un cancello, ma era chiuso da un lucchetto. Sebastian estrasse dalla tasca una pesante chiave
di ferro e lo aprì. — Torno fra un attimo con chi ci darà un passaggio. — Si chiuse il cancello alle
spalle. Clary spiò tra le fessure delle assi e vide una specie di baracca bassa di legno rosso. Ma
sembrava che non ci fossero né porte né finestre.
Il cancello si aprì e Sebastian ricomparve con un sorriso da un orecchio all'altro. Aveva in mano
delle briglie ed era docilmente seguito da un grande cavallo bianco e grigio con una macchia a
forma di stella sulla fronte.
— Un cavallo? Tu possiedi un cavallo? — Clary era stupefatta. — Chi mai possiede un cavallo?
Sebastian carezzò la groppa dell'animale con affetto. — Molte famiglie di Shadowhunters tengono
un cavallo nelle stalle di Alicante. Se hai notato, non ci sono automobili a Idris: non funzionano
bene, con tutte queste difese in giro. — Diede un buffetto al cuoio chiaro della sella, decorata da
uno stemma raffigurante un serpente d'acqua che usciva da un lago attorcigliandosi su se stesso. Il
nome Verlac era inciso in caratteri delicati sotto lo stemma. — Su, sali.
Clary arretrò di un passo. — Non sono mai salita su un cavallo. — Sarò io a condurre Wayfarer —
la rassicurò Sebastian.
— Tu dovrai solo stare seduta davanti a me.
Il cavallo sbuffò. Aveva dei denti enormi, notò Clary con un certo disagio. Immaginò quei denti
affondarle nella gamba e pensò a tutte le sue compagne di scuola che volevano avere un cavallo. Si
chiese se fossero pazze.
Sii coraggiosa, si disse. È quello che farebbe tua mamma.
Fece un bel respiro fondo. — Okay. Andiamo.
La decisione di Clary di essere coraggiosa durò solo fino a quando Sebastian, dopo averla aiutata a
salire, saltò elegantemente in sella dietro di lei e affondò i tacchi nei fianchi del cavallo. Wayfarer
partì come un proiettile. La forza con cui batteva gli zoccoli sulla strada sassosa si ripercuoteva in
scosse sussultorie su tutta la schiena di Clary. Si aggrappò al pezzetto di sella che spuntava davanti
a lei, affondandovi le unghie fino a lasciare le impronte nel cuoio.
Man mano che si allontanavano dalla città, la strada diventava più stretta. Ora era fiancheggiata da
filari di alberi su entrambi i lati che formavano muri di verde impenetrabili alla vista. Sebastian tirò
le redini e il cavallo interruppe il suo galoppo sfrenato. Il cuore di Clary rallentò con il suo passo.
Mentre il panico svaniva, Clary diventò lentamente consapevole della presenza di Sebastian, che,
tenendo le redini, formava con le braccia una specie di gabbia intorno a lei, evitandole la sensazione
di scivolare giù. D'improvviso fu persino troppo consapevole della presenza di lui: non solo della
forza vigorosa delle braccia che la sostenevano, ma anche del fatto che lei gli si appoggiava al petto,
che, per qualche ragione, sapeva di pepe nero. Non era un odore sgradevole, ma speziato e buono,
molto diverso da quello di Jace, che sapeva di sapone e di sole. Non che il sole avesse un odore, in
realtà, ma se l'avesse avuto...
Strinse i denti. Era lì con Sebastian, era in procinto di incontrare un potente stregone, e stava
mentalmente farneticando sull'odore di Jace. Si costrinse a guardarsi intorno. Le verdi pareti di
alberi si stavano diradando e ora si vedevano grandi estensioni di campagna marezzata su entrambi i
lati. Era bello, in un modo sobrio ed essenziale: un tappeto verde, interrotto qua e là dalla cicatrice
di una strada di pietra grigia o da uno sperone di roccia nera che si levava dall'erba. Ciuffi di delicati
fiori bianchi, gli stessi che Clary aveva visto con Luke nella necropoli, costellavano le colline come
casuali spruzzate di neve.
— Come hai fatto a scoprire dov'è Ragnor Fell? — chiese Clary, mentre Sebastian portava
abilmente il cavallo ad aggirare una buca sulla strada.
— Mia zia Elodie. Ha una buona rete di informatori. Sa tutto quello che succede a Idris, pur non
venendo mai qui di persona. Non le piace lasciare l'Istituto.
— E tu? Vieni spesso a Idris?
— Non proprio. L'ultima volta avevo cinque anni. Da allora non avevo più visto i miei zii, perciò
sono contento di essere qui, adesso. È un'occasione per rimettersi in pari con tutto quello che è
successo. E poi, ho nostalgia di Idris quando non sono qui. Nessun luogo è come Idris. È qualcosa
nella terra. Te ne accorgerai anche tu, e anche tu ne avrai nostalgia, quando non sarai qui.
— So che anche Jace ha nostalgia — disse Clary. — Ma pensavo che fosse perché ha vissuto qui
tanti anni. Lui è cresciuto qui.
— Nella tenuta dei Wayland — disse Sebastian. — Non lontano da dove stiamo andando.
— A quanto pare, tu sai proprio tutto.
— Non tutto — precisò Sebastian con una risata che Clary sentì dalla schiena. — Già, Idris esercita
la sua magia su tutti: anche su chi, come Jace, ha ogni ragione per odiare questo posto.
— Perché dici questo?
— Be', è stato cresciuto con Valentine, no? E dev'essere stata una cosa abbastanza tremenda.
— Non saprei. — Clary era esitante. — La verità è che Jace ha dei sentimenti contraddittori. Io
credo che Valentine sia stato un padre orribile, per certi versi, ma le briciole di amore e gentilezza
che gli ha dimostrato erano tutto l'amore e la gentilezza che Jace conosceva. — Sentì un'onda di
tristezza, mentre parlava. — Credo che per molto tempo Jace abbia ricordato Valentine con grande
affetto.
— Non riesco a credere che Valentine gli abbia dimostrato amore o gentilezza. Valentine è un
mostro.
— Be', sì, ma Jace è suo figlio. Ed era solo un bambino. Io credo che Valentine gli volesse bene, a
modo suo.
— No. — La voce di Sebastian era tagliente. — Temo che questo sia impossibile.
Clary batté le palpebre e fece per girarsi a guardarlo in faccia, ma ci ripensò. Tutti gli
Shadowhunters diventavano un po' fanatici, quando c'era di mezzo Valentine (ripensò
all'Inquisitrice con un brivido) e forse non si poteva fargliene una colpa. — Probabilmente hai
ragione.
— Siamo arrivati — annunciò Sebastian bruscamentescendendo da cavallo: così bruscamente che
Clary si chiese se in qualche modo l'avesse offeso. Ma quando Sebastianalzò gli occhi verso di lei,
stava sorridendo. — Abbiamo fatto presto — commentò, legando le redini al ramo più basso di un
albero. — Più di quel che pensavo.
Le fece cenno di scendere e, dopo un attimo di esitazione, Clary scivolò giù dalla groppa del cavallo
e finì tra le sue braccia. Con le gambe molli per la lunga cavalcata, gli si aggrappò e lui la sostenne:
— Scusa — mormorò imbarazzata. — Non volevo saltarti addosso.
— Io non mi scuserei. — Il fiato di Sebastian era caldo sul collo di Clary, che rabbrividì. Le mani di
lui si soffermarono un momento di troppo sulla sua schiena, prima dilasciarla andare.
Niente di tutto questo aiutava Clary a sentirsi più salda sulle gambe. — Grazie — disse,
consapevole del proprio rossore. Quanto avrebbe voluto che la sua pelle chiara non ne rivelasse così
prontamente il colorito. — È questo il posto? — Si guardò intorno. Si trovavano in una piccola
valle tra dolci colline. C'erano vari alberi nodosi disposti intorno a una radura. I loro rami contorti
avevano una bellezza scultorea, contro il cielo d'un azzurro metallico. Ma, a parte quello... — Non
c'è niente, qui — osservò Clary aggrottando la fronte.
— Clary. Concentrati.
— Vuoi dire che c'è un incantesimo? Di solito non ho bisogno di...
— Gli incantesimi a Idris sono più forti che in altri luoghi. È possibile che ti debba sforzare più del
solito. — Le mise le mani sulle spalle e la fece girare delicatamente. — Guarda la radura.
Clary applicò in silenzio il trucchetto mentale che le permetteva di grattare via l'illusione ottica da
ciò che celava. Immaginò di sfregare della trementina su una tela per cancellare strati di colore e
svelare l'immagine sottostante. Ed eccola! Era una casetta in pietra con il tetto spiovente. Dal
camino saliva un filo di fumo in graziosi ghirigori. Un sentiero serpeggiante bordato di pietre
conduceva all'ingresso. Mentre Clary guardava, il fumo che usciva dal camino smise di salire
volteggiando verso l'alto e cominciò a prendere la forma di un tremolante punto di domanda.
Sebastian rise. — Credo che significhi: "Chi è là?" Clary si strinse nel cappotto. Il vento che
soffiava sull'erba bassa non era freddo, ma si sentiva lo stesso le ossa gelate. — Tutto questo sembra
uscito da una favola.
— Hai freddo? — Sebastian le passò una mano intornoalle spalle. Immediatamente le volute di
fumo smisero di formare punti di domanda e si gonfiarono in un grosso cuore sbilenco. Clary
sgusciò via dall'abbraccio di Sebastian, sentendosi imbarazzata e anche un po' in colpa, come se
avesse fatto qualcosa di sbagliato. Si affrettò a raggiungere il vialetto, seguita da Sebastian. Erano a
metà strada, quando la porta si spalancò.
Benché Clary fosse stata ossessionata dal pensiero di Ragnor Fell sin da quando Madeleine gliene
aveva parlato, non si era mai soffermata a pensare a che aspetto potesse avere. Ma se ci avesse
pensato, forse avrebbe immaginato un uomo grosso, con la barba e le spalle larghe, una specie di
vichingo.
La persona che si presentò sulla soglia era invece alta e sottile, con una cresta di capelli scuri e
appuntiti. Indossava un gilet dorato e un paio di pantaloni di seta tipo pigiama. Osservò Clary con
modesto interesse, tirando pigre boccate a una pipa incredibilmente grande. Non assomigliava
neanche vagamente a un vichingo, ma Clary lo riconobbe all'istante e senza ombra di dubbio.
Magnus Bane.
— Ma... — Clary, a occhi sgranati, si girò verso Sebastian, che sembrava stupito tanto quanto lei.
Fissava Magnus con la bocca socchiusa e l'espressione vuota. Alla finebalbettò: — Sei tu... Ragnor
Fell, lo stregone?
Magnus si levò la pipa di bocca. — Be', di certo non sono Ragnor Fell il danzatore esotico.
— Io... — Sebastian sembrava a corto di parole. Clary non sapeva cosa avrebbe trovato, ma
Magnus era un bel colpo da assorbire. — Speravamo che ci potessi aiutare. Io sono Sebastian Verlac
e lei è Clarissa Morgenstern. Sua madreè Jocelyn Fairchild...
— Non m'importa niente di chi è sua madre — sbottò Magnus. — Non potete venire da me senza
appuntamento. Tornate più tardi. Marzo potrebbe andare bene.
— Marzo? — Sebastian inorridì.
— Hai ragione — confermò Magnus. — Troppo piovoso. Che ne dite di giugno?
Sebastian si drizzò sulla schiena. — Forse non capisci l'importanza di...
— Sebastian, lascia stare — disse Clary con disgusto. —Sta solo giocando coi tuoi pensieri. E
comunque, lui non ci può aiutare.
Sebastian era ancora più confuso. — Ma... non vedo perché non possa...
— Va bene, basta così! — esclamò Magnus schioccando le dita.
Sebastian si paralizzò, la bocca ancora aperta, la mano mezza tesa.
— Sebastian! — Clary lo toccò, ma era immobile come una statua. Solo il lieve movimento del
petto rivelava che era ancora vivo. — Sebastian? — Clary lo chiamò di nuovo, ma invano. Capiva,
in qualche modo, che lui non poteva vederla né sentirla. Si girò verso Magnus. — Non posso
credere che tu abbia fatto una cosa del genere. Che diavolo ti succede? Quello che stai fumando in
quella pipa ti ha sciolto il cervello? Sebastian è dalla nostra parte.
— Io non sto da nessuna parte, carissima Clary — precisò Magnus con uno svolazzo della pipa. —
E, per la precisione, è colpa tua se l'ho dovuto congelare per un po'. Stavi giusto per rivelargli che
non sono Ragnor Fell.
— È perché tu non sei Ragnor Fell.
Magnus soffiò una nuvola di fumo dalla bocca e osservò pensosamente Clary attraverso il fumo. —
Vieni — le disse. — Voglio farti vedere una cosa.
Le tenne aperta la porta della casetta, invitandola a entrare. Con un ultimo, incredulo sguardo a
Sebastian, Clary lo seguì.
L'interno della casetta non era illuminato, ma la debole luce del sole che filtrava dalle finestre bastò
a mostrare a Clary un'ampia stanza fitta di ombre. C'era uno strano odore nell'aria, come di scarti di
verdura bruciati. Le scappò un piccolo suono strozzato, quando Magnus sollevò la mano e schioccò
di nuovo le dita. Una brillante luce azzurra gli esplose dai polpastrelli.
Clary restò a bocca aperta. La stanza era un disastro: mobili fatti a pezzi, cassetti aperti e svuotati
sul pavimento.
Pagine strappate da libri svolazzanti come brandelli di cenere. Anche i vetri delle finestre erano in
frantumi.
— Ho ricevuto un messaggio da Fell, ieri sera — spiegò Magnus. — Mi chiedeva di vederci, qui da
lui. Quando sono arrivato... ho trovato questo. Tutto distrutto, e puzzo di demoni ovunque.
— Demoni? Ma i demoni non possono entrare a Idris.
Non ho mai detto questo. Ti sto solo raccontando i fatti. — Magnus parlava senza alcun tono
particolare. — La casa puzzava di qualcosa di origine demoniaca. Il corpo di, Ragnor era a terra.
Non era ancora morto, quando loro se ne sono andati, ma era morto quando sono arrivato io. — Si
voltò verso Clary. — Chi sapeva che lo stavi cercando?
— Madeleine — sussurrò Clary — ma è morta. Sebastian, Jace, Simon. I Lightwood...
— Ah — disse Magnus. — Se lo sanno i Lightwood, è probabile che lo sappia anche il Conclave. E
Valentine ha delle spie, al Conclave.
— Oh no, dovevo tenerlo segreto, invece di dirlo a tutti! — esclamò Clary inorridita. — È colpa
mia. Dovevo avvisarlo...
— Vorrei ricordarti — l'interruppe Magnus — che tu non riuscivi a trovarlo. È per questo che hai
chiesto in giro. Senti, per Madeleine e per te Fell era semplicemente uno che poteva aiutare tua
madre, non uno che poteva attirare l'interesse di Valentine. Ma c'è dell'altro. Valentine non sa come
risvegliare tua madre, però sa che quello che ha fatto Jocelyn per entrare in quello stato è collegato
a un oggetto che lui vuole avere a tutti i costi. Un particolare libro di incantesimi.
— E tu come fai a saperlo? — gli chiese Clary.
— Perché me l'ha detto Ragnor.
— Ma...
Magnus la zittì con un gesto. — Gli stregoni hanno i loro modi per comunicare tra loro. Hanno i
loro linguaggi. — Alzò la mano che sprigionava la fiamma azzurra. — Logos.
Apparvero sui muri lettere di fuoco alte una spanna, che sembravano incise in oro liquido nella
pietra. Le lettere correvano intorno ai muri, formando parole che Clary non riusciva a leggere. Si
girò verso Magnus. — Che cosa c'è scritto?
— L'ha scritto Ragnor quando ha capito che stava morendo, per farlo sapere allo stregone che
sarebbe venuto acercarlo. — Quando Magnus si girò, il bagliore delle lettere ardenti illuminò d'oro i
suoi occhi di gatto. — È stato aggredito da servi di Valentine. Volevano da lui il Libro Bianco. Il
Libro Bianco è, con il Libro Grigio, una delle opere più famose sulle attività soprannaturali che
siano mai state scritti. La ricetta della pozione che ha bevuto Jocelyn e quella dell'antidoto sono
contenute in quel libro.
Clary restò a bocca aperta. — E il libro era qui?
— No. Apparteneva a tua madre. Ragnor, a suo tempo, le aveva solo consigliato dove nasconderlo.
— Quindi è...
— È nella tenuta dei Wayland. I Wayland abitavano poco lontano dalla casa di Jocelyn e Valentine:
erano i loro vicini più stretti. Ragnor suggerì a tua madre di nascondere il libro a casa loro, dove
Valentine non l'avrebbe mai cercato. Nella biblioteca.
Ma poi Valentine ha vissuto per anni nella tenuta dei Wayland — osservò Clary. — Non credi che
l'avrebbe scoperto?
— Era nascosto in un altro libro. Un libro che Valentine difficilmente avrebbe aperto. — Magnus
fece un sorriso sghembo. — Ricette semplici per le casalinghe. Non si può dire che tua madre non
abbia il senso dell'umorismo.
— E tu sei andato alla tenuta dei Wayland a cercare il libro?
Magnus scosse la testa. — Clary, ci sono delle difese intorno alla tenuta che tengono lontano non
solo il Conclave, ma chiunque, soprattutto i Nascosti. Forse, se avessi tempo per lavorarci, potrei
violarle, ma...
— Quindi, nessuno può entrare nella tenuta? — La disperazione le artigliava il petto. — È
impossibile?
— Non ho detto "nessuno" — precisò Magnus. — C'è almeno una persona che quasi certamente
potrebbe entrare.
— Vuoi dire Valentine?
— Voglio dire — precisò Magnus — il figlio di Valentine.
Clary scosse la testa. — Jace non mi aiuterà, Magnus. Non mi vuole qui. Anzi, dubito che mi voglia
rivolgere ancora la parola.
Magnus la guardò meditabondo. — Io penso — disse — che non ci sia molto che Jace non sarebbe
disposto a fare per te, se glielo chiedi.
Clary aprì la bocca, poi la chiuse. Pensò che Magnus aveva sempre saputo ciò che provava Alec per
Jace, ciò che Simon sentiva per lei. E ciò che lei provava per Jace, probabilmente, le si leggeva in
faccia anche adesso. E Magnus era uno che sapeva leggere molto bene. Clary distolse lo sguardo.
— Mettiamo che io riesca a convincere Jace a venire con me alla tenuta dei Wayland per recuperare
il libro — disse. — Poi cosa succede? Io non so fare incantesimi, né preparare antidoti.
Magnus sbuffò. — Tu credi che ti stia dando tutti questi consigli gratis? Quando avrai messo le
mani sul Libro Bianco, voglio che lo consegni direttamente a me.
— Il libro? Lo vuoi tu?
— È uno dei più potenti libri di incantesimi al mondo. Certo che lo voglio. E poi, quel libro
appartiene di diritto ai Figli di Lilith, non ai Figli di Raziel. È un libro da stregoni e dovrebbe stare
nelle mani di uno stregone.
— Ma a me serve! Per guarire mia madre...
Te ne serve una pagina sola e puoi anche tenertela. Il resto è mio. In cambio, quando mi porterai il
libro, io preparerò l'antidoto e lo somministrerò a Jocelyn. Non puoi dire che non sia un patto equo.
— Le tese la mano. — Sigilliamo il patto con una stretta di mano?
Dopo un attimo di esitazione, Clary gli strinse la mano. — Spero di non dovermene pentire.
— Io spero proprio di no — disse Magnus, voltandosi allegramente verso la porta. Sui muri, le
lettere di fuocostavano già svanendo. — Il pentimento è un sentimento inutile, non ti pare?
Fuori, il sole sembrava particolarmente luminoso, dopo l'oscurità nella casetta. Clary si fermò sulla
soglia, battendo le palpebre per mettere a fuoco il panorama: le montagne in lontananza, Wayfarer
che brucava l'erba soddisfatto, e Sebastian immobile come una statua da giardino, con la mano
ancora tesa. Clary si rivolse a Magnus. — Ora potresti scongelarlo, per favore?
Magnus sembrava divertito. — Mi sono sorpreso, stamattina, quando ho ricevuto il messaggio di
Sebastian — disse. — Diceva che stava facendo un favore a te, nientemeno. Come l'hai incontrato?
— È un cugino di certi amici dei Lightwood, o qualcosa del genere. E uno a posto, te l'assicuro.
— A posto?... Be', io direi che è meraviglioso. — Magnus lo contemplò con aria sognante. —
Dovresti lasciarmelo qui. Potrei appenderci sopra i cappelli, i vestiti.
— No, non puoi tenerlo.
— Perché no? Piace anche a te? — Gli occhi di Magnus brillarono. — Tu sembri piacergli. L'ho
visto, prima: cercava la tua mano come uno scoiattolo che arraffa una nocciolina.
— Perché non parliamo invece della tua vita sentimentale? — ribatté Clary. — Che mi dici di te e
Alec?
— Alec si rifiuta di riconoscere che c'è qualcosa fra noi. Quindi io mi rifiuto di riconoscere la sua
esistenza. Mi ha mandato un messaggio col fuoco, l'altro giorno, chiedendomi un favore. Era
indirizzato "allo stregone Bane", come se fossi un perfetto sconosciuto. È ancora fissato con Jace,
penso, anche se quella cosa non lo porterà da nessuna parte. Problema di cui, immagino, tu non sai
nulla.
— Oh, smettila! — Clary lo guardò con antipatia. — Senti, se non scongeli Sebastian, non riuscirò
ad andarmene di qui e tu non avrai il tuo Libro Bianco.
— Oh, va bene, va bene. Ma se posso fare una richiesta, non dirgli nulla di quello che ti ho appena
detto, anche se è amico dei Lightwood. — Magnus schioccò le dita con petulanza.
Il viso di Sebastian si rianimò, come un video che riparte dopo essere stato messo in pausa. — ...
aiutarci — disse. — È una questione di vita o di morte.
— Voi Nephilim credete che tutti i vostri problemi siano questione di vita o di morte — commentò
Magnus. — Adesso andatevene. Cominciate ad annoiarmi.
— Ma...
— Andatevene — ripetè Magnus con tono minaccioso. Dai polpastrelli delle lunghe dita si
sprigionarono scintille azzurre e all'improvviso l'aria si riempì di un odore acre, come di bruciato.
Gli occhi di gatto di Magnus ardevano.
Pur sapendo che era solo una messa in scena, Clary non riuscì a trattenersi e indietreggiò.
— Credo che dovremmo andare, Sebastian — disse. Gli occhi di Sebastian erano due fessure. —
Ma, Clary...
— Andiamo! — ripetè lei. Lo prese per un braccio e lotrascinò verso Wayfarer. Lui la seguì con
riluttanza, borbottando a mezza voce. Con un sospiro di sollievo, Clary si lanciò un'occhiata alle
spalle. Magnus era in piedi sulla porta, con le braccia conserte. Quando incontrò il suo sguardo, le
sorrise e le strizzò l'occhio, brillante di glitter.
— Mi dispiace, Clary. — Sebastian le teneva una mano sulla spalla e un'altra sulla vita, cercando di
aiutarla a salire sull'ampia groppa di Wayfarer. Clary soppresse la vocina interiore che la pregava di
non risalire su quel cavallo (né su qualsiasi altro cavallo) e si lasciò issare. Buttò una gamba
dall'altra parte e si sistemò sulla sella, cercando di convincersi che si stava accomodando su un
grosso divano semovente e non su una creatura viva che in qualsiasi momento avrebbe potuto
girarsi e darle un morso.
— Ti dispiace per cosa? — gli chiese, mentre anche lui montava in sella dietro di lei. Era quasi
fastidiosa la facilità con cui riusciva a farlo, come fosse un passo di danza, ma anche rassicurante.
Chiaramente, Sebastian sapeva bene quel che faceva, pensò Clary, mentre lui prendeva le redini,
con le braccia intorno a lei. Era una buona cosa, pensò, che almeno uno dei due lo sapesse.
— Quel Ragnor Fell. Non mi aspettavo che fosse così poco disponibile ad aiutarci. Ma si sa che gli
stregoni sono lunatici. Tu ne hai già conosciuto uno, vero?
— Ho conosciuto Magnus Bane. — Si girò un attimo a guardare, alle spalle di Sebastian, la casetta
che svaniva in lontananza. Il fumo sbuffava dal camino disegnando piccole figure danzanti, come
dei Magnus ballerini. — È il Sommo Stregone di Brooklyn.
— Somiglia a Fell?
— Sono straordinariamente simili. Quanto a Fell, sapevo che c'era la possibilità che si rifiutasse di
aiutarci.
— Ma io ti avevo promesso il mio aiuto. — La voce di Sebastian era sinceramente addolorata. —
Be', però c'è un'altra cosa che ti posso mostrare, così la giornata non andrà del tutto sprecata.
— Cosa? — Clary si girò di nuovo per guardarlo. Il sole era alto nel cielo alle loro spalle e donava
un profilo d'oro ai fili scuri dei suoi capelli.
Sebastian sorrise. — Vedrai.
Wayfarer correva in direzione opposta alla città di Alicante, tra muri verdi di fronde che
sfrecciavano da entrambi i lati, aprendosi di tanto in tanto su panorami incredibilmente belli: laghi
cristallini, verdi vallate, montagne grigie, argentei frammenti di fiumi e ruscelli orlati da rive fiorite.
Clary si chiese come fosse vivere in un posto come quello. Si sentiva nervosa, come troppo esposta,
senza il conforto dei palazzi di New York a chiudere l'orizzonte.
Non che mancassero totalmente gli edifici: ogni tanto spuntava sopra gli alberi il tetto di qualche
grande casa di pietra. Erano le tenute di campagna di facoltose famiglie di Shadowhunters, le spiegò
Sebastian, gridandole nell'orecchio. Ricordarono a Clary i vecchi palazzi che sorgevano sulle rive
del fiume Hudson, a nord di Manhattan, dove i ricchi newyorchesi passavano le estati centinaia di
anni prima.
La strada di sassi era diventata un sentiero di terra battuta. Clary venne riscossa dalle sue
fantasticherie quando arrivarono in cima a una collina e Sebastian fece fermare bruscamente
Wayfarer. — Ci siamo — annunciò.
Clary vide un ammasso di pietre annerite dal fuoco che un tempo erano state una casa, ora
riconoscibile solo da pochi profili. C'era una canna fumaria sventrata che ancora puntava verso il
cielo, un pezzo di muro con lo squarcio vuoto di una finestra senza vetri. Le erbacce crescevano tra
le rovine, macchie verdi nel nero. — Non capisco — disse Clary. — Perché siamo qui?
— Non hai capito? — chiese Sebastian. — È qui che vivevano tua madre e tuo padre. È qui che è
nato tuo fratello. Questa è la tenuta dei Fairchild.
Ancora una volta, Clary risentì nella testa la voce di Hodge. Valentine appiccò un grande incendio e
morì tra le fiamme con la sua famiglia, sua moglie e suo figlio. La terra intorno annerì e si seccò.
Nessuno vuole più costruire in quel luogo. Dicono che sia maledetto.
Senza dire parola, Clary scivolò giù dalla groppa del cavallo. Sentì la voce di Sebastian che la
chiamava, ma lei già scendeva lungo la collina, correndo e sdrucciolando. Dove un tempo sorgeva
la casa, il terreno diventava pianeggiante: ai piedi di Clary c'erano le pietre annerite e spaccate di
quello che era stato il vialetto. Tra le erbacce, vide delle scale che si interrompevano dopo pochi
gradini.
— Clary... — Sebastian la raggiunse camminando tra le erbacce, ma lei era quasi inconsapevole
della sua presenza. Girò su se stessa, lentamente, osservando ogni cosa: gli alberi bruciati e mezzo
morti e quello che un tempo era un prato ombroso sul pendio della collina. In lontananza, vedeva il
tetto di un'altra tenuta, appena sopra il profilo degli alberi. Qui il sole luccicava sui frammenti di
vetro delle finestre dell'unica parete rimasta in piedi. Clary si addentrò tra le rovine, su un tappeto di
pietre annerite. Vide il tracciato delle stanze, delle porte... persino un armadietto bruciacchiato ma
quasi intatto, rovesciato su un fianco, dal quale si erano riversati frantumi di servizi di porcellana,
mescolati alla terra nera.
Una volta quella era stata una casa vera, abitata da persone vive e vegete. Sua madre era vissuta lì,
si era sposata lì, aveva avuto un bambino. Poi Valentine aveva trasformato tutto in cenere e polvere,
aveva fatto credere a Jocelyn che suo figlio era morto e l'aveva costretta a nascondere a sua figlia la
verità. Un senso di penetrante tristezza invase Clary: più di una vita era stata distrutta, in quel luogo.
Si portò una mano al volto e fu quasi sorpresa nel sentirlo umido: stava piangendo, senza nemmeno
rendersene conto.
— Clary, mi dispiace. Pensavo che avresti voluto vederlo. — Sebastian le si avvicinò calpestando i
detriti e sollevando sbuffi di cenere con gli stivali. Sembrava preoccupato.
Lei lo guardò. — Sì, volevo vederlo. Voglio vederlo. Grazie.
Si era alzato il vento e soffiava ciuffi di capelli neri davanti al volto di Sebastian, che ora le
sorrideva mestamente. — Deve essere duro pensare a tutto quel che è successo in questo posto, a
Valentine, a tua madre... Tua madre ha avuto un coraggio incredibile.
— Lo so — disse Clary. — Era coraggiosa. È coraggiosa. Lui le sfiorò il viso. — Anche tu.
— Sebastian, tu non sai niente di me.
— Non è vero. — Si avvicinò a Clary, prendendole il volto tra le mani. Il suo tocco era gentile,
quasi esitante. — Ho sentito un sacco di cose sul tuo conto, Clary. Di come hai affrontato tuo padre
per la Coppa Mortale, di come sei entrata in quell'hotel infestato dai vampiri per cercare il tuo
amico. Isabelle mi ha raccontato molte storie e poi ho sentito anche molte chiacchiere. E dalla prima
volta che ho sentito il tuo nome, ho sempre voluto conoscerti. Sapevo che dovevi essere
straordinaria.
Lei rise, turbata. — Spero di non averti deluso troppo.
— No — sussurrò Sebastian, facendole scivolare le dita sotto il mento. — Per niente. — Le sollevò
il volto verso il suo. Clary era troppo sorpresa per reagire, anche quando Sebastian si avvicinò e lei
si rese conto, un po' in ritardo, di cosa lui stava per fare. Istintivamente chiuse gli occhi, quando le
labbra di Sebastian sfiorarono delicatamente le sue, mandandole brividi in tutto il corpo. Crebbe
dentro di lei un desiderio potente e improvviso di farsi abbracciare, di farsi baciare, così da poter
dimenticare tutto quanto. Sollevò le braccia e le allacciò dietro il collo di Sebastian, un po' per
tenersi in piedi, un po' per attirarlo a sé.
I capelli di lui le solleticarono le punte delle dita. Non erano di seta come quelli di Jace, ma erano
sottili e soffici, e non avrebbe dovuto pensare a Jace proprio adesso. Ricacciò indietro i pensieri,
mentre le dita di Sebastian seguivano i contorni del suo viso, del suo mento. Il suo tocco era
delicato, nonostante le callosità delle mani. Certo, anche Jace aveva le stesse callosità, per le
battaglie combattute. Probabilmente, tutti gli Shadowhunters le avevano.
Clary represse il pensiero di Jace, o tentò di farlo, ma invano. Lo vedeva anche con gli occhi chiusi:
vedeva gli spigoli e i tratti di quel viso che non era mai riuscita a disegnare bene, per quanto
l'immagine fosse impressa a fuoco nella sua mente; vedeva la delicata ossatura delle sue mani, la
pelle delle sue spalle segnata dalle cicatrici...
L'intenso desiderio che tanto repentinamente era cresciuto dentro di lei si attenuò di colpo, come un
elastico teso rilasciato all'improvviso. Non sentiva più niente, mentre Sebastian premeva le labbra
sulle sue e le faceva scivolare le mani dietro la nuca. Non sentiva più niente, tranne una gelida e
violenta sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Di terribilmente sbagliato. Era più che il
disperato desiderio di qualcuno che non avrebbe mai potuto avere. Era qualcos'altro: un'improvvisa
scossa di orrore, come se, dopo aver fatto un fiducioso passo avanti, si fosse all'improvviso ritrovata
a precipitare nel vuoto più nero.
Con un sussulto si staccò da Sebastian, con una forza tale da farle perdere l'equilibrio. Se non ci
fosse stato lui a sostenerla, sarebbe caduta.
— Clary. — Sebastian aveva lo sguardo trasognato, le guance arrossate e accese. — Clary, che
succede?
— Niente. — La sua voce risuonò flebile alle sue stesse orecchie. — Niente... è solo che... non avrei
dovuto... non sono ancora pronta...
— Siamo stati troppo impulsivi? Possiamo andare più piano... — Sebastian le si avvicinò di nuovo,
ma Clary, senza riuscire a controllarsi, si sottrasse. Lui sembrò ferito. — Non voglio farti del male,
Clary.
— Lo so.
— È successo qualcosa? — La sua mano si avvicinò, le spinse indietro i capelli. Clary ricacciò
l'istinto di allontanarlo. — Jace ha...
Jace? — Come faceva Sebastian a sapere che stava pensando a Jace? Da cosa l'aveva capito?
Eppure... — Jace è mio fratello. Perché lo nomini adesso? Cosa vorresti dire?
— Pensavo solo... — Sebastian scosse la testa. Il dolore e la confusione si inseguivano sul suo viso.
— ... che forse qualcun altro ti avesse ferito.
La sua mano era ancora sulla guancia di Clary. Lei gliela prese e l'allontanò, in modo delicato ma
fermo. — No. Niente del genere. È solo che... — Esitò. — Mi sembrava una cosa sbagliata.
— Sbagliata! — L'espressione ferita di Sebastian scomparve, sostituita dall'incredulità. — Clary,
noi due abbiamo un legame, lo sai anche tu. Dal primo momento che ti ho vista...
— Sebastian, non...
—... ho sentito subito che eri la persona che aspettavo da sempre. E ho visto che anche tu hai
provato la stessa cosa. Non dirmi che non è vero.
Ma non era questo che Clary aveva sentito. Per lei era stato come girare l'angolo in una città
sconosciuta e trovarsi all'improvviso davanti alla facciata rossa di casa sua. Un riconoscimento
sorprendente e non del tutto piacevole. Quasi un: "E questo, come può essere qui?"
— Non è vero — disse.
La rabbia che salì agli occhi di Sebastian, una rabbia improvvisa, cupa, incontrollata, colse Clary di
sorpresa. La prese per i polsi, stringendoli fino a farle male. — Tu menti.
Clary cercò di liberarsi. — Sebastian...
— Tu menti! — Il nero dei suoi occhi sembrava aver ingoiato le pupille. La sua faccia era come una
maschera bianca, dura e rigida.
— Sebastian — ripetè Clary, con tutta la calma che riuscì a trovare. — Mi stai facendo male.
La lasciò andare. Il suo petto saliva e scendeva rapidamente. — Scusa — disse. — Scusa, pensavo...
— Be', pensavi male, avrebbe voluto dirgli Clary, ma si morse la lingua. Non voleva rivedere
ancora quell'espressione sul suo viso. — Dovremmo tornare indietro — disse invece. — Fra poco
farà buio.
Sebastian annuì, stordito, scioccato dalla propria esplosione di rabbia almeno quanto Clary. Si avviò
verso Wayfarer, che brucava l'erba all'ombra lunga di un albero. Clary esitò un momento, poi lo
seguì. Non c'era altro che potesse fare. Si guardò i polsi furtivamente, mentre seguiva i suoi passi:
erano segnati di rosso dove le dita di Sebastian l'avevano stretta. Ma, cosa ancora più strana, i
polpastrelli erano sporchi di nero, come se fossero macchiati di inchiostro.
Sebastian rimase in silenzio, aiutandola a salire in groppa a Wayfarer. — Scusa se
involontariamente ho fatto qualche insinuazione su Jace — le disse alla fine, mentre lei si sistemava
sulla sella. — So che non ti farebbe mai del male. So che è per te che è andato alla Guardia, a
cercare il vampiro in prigione.
Fu come se il mondo intero si inceppasse e si fermasse all'improvviso. Clary sentiva il proprio
respiro fischiarle nelle orecchie, vedeva le sue mani, gelide come quelle di una statua, immobili
contro il pomo della sella. — Il vampiro in prigione? — sussurrò.
Sebastian la guardò, sorpreso. — Sì — disse. — Simon, il vampiro che hanno portato con sé da
New York. Credevo... sì, insomma, ero sicuro che lo sapessi anche tu. Jace non ti ha detto niente?
capitolo 8
ANCORA TRA I VIVI
Simon si svegliò con la luce del sole che brillava su un oggetto che era stato gettato nella cella
attraverso l'inferriata della finestrella. Si alzò in piedi, con i crampi per la fame, e vide che era una
fiaschetta di metallo. C'era un foglio arrotolato, legato al collo della fiaschetta. Lo staccò, lo aprì e
lesse:
Simon, questo è sangue di mucca, fresco di macelleria. Spero che vada bene. Jace mi ha detto tutto
e voglio che tu sappia ciò che penso: è una scelta coraggiosa, la tua. Resisti! Noi intanto pensiamo
a un modo per tirarti fuori.
X0X0X0X0X0X0X0XIsabelle
Simon sorrise per la sfilza di X e O scritti in fondo alla pagina. Tanti baci e abbracci. Era bello
sapere che l'affetto di Isabelle non aveva subito contraccolpi, nelle attuali circostanze. Svitò il tappo
e cominciò a bere a grandi sorsate. Ma una sensazione acuta e pungente tra le scapole lo fece girare.
Al centro della stanza, calmo e tranquillo, c'era Raphael, le mani dietro la schiena e le esili spalle
bene aperte. Aveva una camicia bianca perfettamente stirata e una giacca scura. Una catenina d'oro
gli luccicava intorno al collo.
Simon per poco non si soffocò col sangue che stava bevendo. Mandò giù il sorso, fissando Raphael.
— Tu... tu non puoi essere qui.
Il sorriso di Raphael dava l'impressione che i canini fossero fuori, anche se non era così. — Niente
panico, Diurno.
— Non ho nessun panico. — Non era vero. Era come se avesse ingoiato qualcosa di tagliente. Non
vedeva Raphael dalla notte in cui era uscito scavando con le mani, pesto e insanguinato, da una
tomba frettolosamente preparata a Queens. Ricordava Raphael che gli gettava sacchetti di sangue
animale e lui che li strappava con i denti, come una bestia. Non era un ricordo piacevole. Avrebbe
preferito non rivedere mai più il ragazzo vampiro. — Il sole è ancora alto. Come fai a essere qui?
— Non sono qui. — La voce di Raphael era morbida come il burro. — Sono una proiezione. —
Agitò la mano, facendola passare attraverso il muro di pietra accanto a lui. — Sono come fumo.
Non posso farti male. E naturalmente, nemmeno tu puoi far del male a me.
— Io non voglio farti un bel niente. — Simon posò la fiaschetta sulla branda. — Ma voglio sapere
che ci fai qui.
— Sei sparito da New York di punto in bianco, Diurno. Dovresti sapere che è tuo dovere informare
il Signore dei vampiri della tua zona, prima di lasciare la città.
— Il Signore dei vampiri? E saresti tu? Credevo che fosse qualcun altro.
— Camille non è ancora tornata — annunciò Raphael senza alcuna apparente emozione. — Ho io il
comando, in sua assenza. Lo sapresti, se ti fossi preso la briga di conoscere le leggi della tua razza.
— La mia partenza da New York non è stata, per così dire, programmata. E, senza offesa: non
riesco a pensare a te come uno della mia razza.
— Dios! — Raphael abbassò gli occhi, come a nascondere il divertimento. — Sei proprio testardo.
— Come fai a dirlo?
— Mi pare ovvio, no?
— Voglio dire... — La gola di Simon si serrò. — Quella parola. Tu riesci a dirla. Io invece, non
posso pronunciare il nome di... — Dio.
Raphael alzò gli occhi di scatto: era proprio divertito. — L'età — spiegò. — La pratica. E la fede. O
la perdita della fede. Per certi versi sono la stessa cosa. Lo imparerai anche tu, col tempo, uccellino.
— Non chiamarmi così.
— Ma è quello che sei. Sei un Figlio della Notte. Non è per questo che Valentine ti ha catturato e ha
preso il tuo sangue?
— A quanto pare sei piuttosto ben informato — commentò Simon. — Forse potresti dirmelo tu.
Gli occhi di Raphael si socchiusero. — Ho anche sentito dire che hai bevuto il sangue di un
Cacciatore, e che questo è ciò che ti ha dato il tuo dono: la facoltà di stare alla luce del sole. È vero?
Simon sentì un formicolio sottopelle. — È assurdo. Se il sangue di un Cacciatore potesse dare ai
vampiri la capacità di stare alla luce del sole, lo saprebbero tutti, ormai. Il sangue di Nephilim
sarebbe ricercatissimo, una vera rarità, e non ci sarebbe mai pace tra vampiri e Cacciatori, se fosse
vero. È un bene che non sia così.
Un lieve sorriso inarcò gli angoli della bocca di Raphael.
— Giusto. A proposito di rarità: ti rendi conto, Diurno, diessere diventato un oggetto prezioso e
molto ricercato, vero? Non c'è Nascosto su questa terra che non voglia metter e le mani su di te.
— Te compreso?
— Certo.
— E cosa faresti, se potessi mettere le mani su di me?
Raphael scrollò le esili spalle. — Forse sono il solo a pensare che la facoltà di stare alla luce del
sole non sia poi quella gran cosa che gli altri vampiri credono. Noi siamo Figli |della Notte per una
ragione. Forse io ti considero solo un abominio, proprio come gli uomini considerano me.
— Davvero?
— È possibile. — L'espressione di Raphael era neutra.
— Io credo che tu sia un pericolo per tutti noi. Un pericolo per la razza dei vampiri. Ma non resterai
in questa cella per sempre, Diurno. Alla fine dovrai uscire e affrontare di nuovo il mondo.
Affrontare di nuovo il sottoscritto. Ma ti dico una cosa: io ti giuro che non ti farò alcun male e non
cercherò di rintracciarti, se tu in cambio mi giuri che ti nasconderai, dopo che Aldertree ti avrà
liberato; se mi giuri che andrai così lontano che nessuno ti potrà mai ritrovare, che non contatterai
mai più nessuno di coloro che hai conosciuto nella tua vita mortale. Non posso essere più leale di
così.
Ma Simon già scuoteva la testa. — Non posso abbandonare la mia famiglia. Né Clary.
Raphael s'irritò. — Loro non fanno più parte di ciò che sei. Tu, adesso, sei un vampiro.
— Ma non voglio esserlo — ribadì Simon.
— Ma guardati! — esclamò Raphael. — Non ti ammalerai mai, non morirai mai, sarai giovane e
forte per sempre. Non invecchierai mai. Di cosa ti lamenti?
Giovane per sempre, pensò Simon. Sembrava una bella cosa, ma chi voleva veramente avere sedici
anni per sempre? Sarebbe stato diverso essere congelati per sempre all'età di venticinque anni... ma
sedici?! Restare sempre così dinoccolato, non raggiungere mai una forma finita, nella faccia e nel
corpo? Per non parlare poi del fatto che, con quell'aspetto da ragazzino, non sarebbe mai riuscito a
entrare in un bar e a ordinare da bere. Mai. Per tutta l'eternità.
— E poi — aggiunse Raphael — non devi nemmeno rinunciare al sole.
Simon non aveva alcun desiderio di tornare sull'argomento. — Ho sentito gli altri che parlavano di
te, al Dumort — disse. — So che ogni domenica ti metti una croce al collo e vai a trovare la tua
famiglia. Scommetto che non sanno nemmeno che sei diventato un vampiro. Quindi, non venire a
dire a me di lasciarmi alle spalle tutte le persone che fanno parte della mia vita. Non lo farò mai e
non ti voglio mentire dicendoti che lo farò.
Gli occhi di Raphael luccicarono. — Quello che crede la mia famiglia non ha importanza. È quello
che credo io. Quello che so io. Un vero vampiro sa di essere morto. E accetta la propria morte. Ma
tu, tu pensi di essere ancora tra i vivi. E questo che ti rende così pericoloso. Non riesci ad ammettere
che non sei più vivo.
Era il crepuscolo, quando Clary si chiuse alle spalle la porta della casa di Amatis e l'assicurò con il
catenaccio. Si appoggiò alla porta per un lungo momento, nell'ingresso in penombra, con gli occhi
semichiusi. Era esausta: sentiva il peso della stanchezza in tutto il corpo, e poi le facevano male le
gambe.
— Clary? — La voce insistente di Amatis penetrò nel silenzio. — Sei tu?
Clary rimase dov'era, lasciandosi andare alla deriva nel buio dietro le palpebre chiuse. Quanto
desiderava essere a casa sua! Le pareva quasi di sentire il sapore metallico dell'aria nelle strade di
Brooklyn, di vedere sua madre seduta alla finestra, con la luce pallida e polverosa che entrava dai
vetri aperti illuminando la tela che stava dipingendo. La nostalgia le si avvinghiò dolorosamente
alle viscere.
— Clary. — Adesso la voce era molto più vicina. Clary aprì gli occhi di scatto. Amatis era davanti a
lei, i capelli grigi raccolti severamente dietro la nuca, le mani sui fianchi. — C'è qui tuo fratello. Ti
sta aspettando in cucina.
— Jace è qui? — Clary lottò per non far trapelare la rabbia e lo stupore. Non aveva senso mostrare
alla sorella di Luke quanto fosse arrabbiata.
Amatis la stava osservando con curiosità. — Non avrei dovuto farlo entrare? Pensavo che volessi
vederlo.
— Sì, va bene così — disse Clary, mantenendo un tono neutro con una certa difficoltà. — Sono solo
stanca.
— Ah. — Amatis non sembrava convinta. — Be', io sono di sopra, se hai bisogno di me. Vado a
stendermi.
Clary non riusciva a immaginare per quale motivo avrebbe potuto aver bisogno di Amatis, ma annuì
e si avviò barcollando verso la cucina, che era inondata di luce brillante. C'era un cestino di frutta
sul tavolo, pieno di arance, mele e pere, e una forma di pane rustico con burro e formaggio, e un
piatto di... biscotti? Amatis aveva veramente fatto i biscotti?
Seduto al tavolo della cucina, c'era Jace. Era proteso in avanti, appoggiato ai gomiti, i capelli dorati
arruffati, la camicia un po' aperta sul collo. Clary notò la striscia di marchi neri che gli segnava la
clavicola. Aveva un biscotto nella mano bendata. Allora Sebastian aveva ragione: si era fatto male
davvero. Non che le importasse molto. — Bene — disse Jace. — Sei tornata. Cominciavo a pensare
che fossi caduta in un canale.
Clary rimase a fissarlo, senza parole. Si chiese se Jace riuscisse a leggere la rabbia che c'era nei suoi
occhi. Lui si appoggiò sulla sedia, buttando un braccio dietro lo schienale, con disinvoltura. Se non
fosse stato per il rapido pulsare della gola, Clary avrebbe potuto credere vera la sua finta
noncuranza.
— Sembri esausta — aggiunse Jace. — Dove sei stata tutto il giorno?
— Fuori con Sebastian.
— Sebastian! — L'espressione di assoluto stupore fu per lei momentaneamente gratificante.
— Ieri sera mi ha accompagnato a casa — proseguì Clary, mentre nella mente le risuonavano le
parole di Jace come il battito di un cuore malato: D'ora in poi per te sarò solo un fratello, solo un
fratello. — Finora, è stata l'unica persona di tutta la città a mostrarsi gentile con me. Quindi, sì,
sono stata fuori con Sebastian.
— Capisco. — Jace posò il biscotto sul piatto. Il suo volto era senza espressione. — Clary, sono
venuto qui per scusarmi. Non avrei dovuto dire le cose che ho detto.
— No — disse Clary. — Non avresti dovuto.
— Sono venuto anche per chiederti se vuoi riconsiderare l'ipotesi di tornare a New York.
— Dio! — esclamò Clary. — Di nuovo...
— Qui non sei al sicuro.
— E di cosa ti preoccupi? — chiese Clary, senza colorenella voce. — Che mi buttino in prigione
come hanno fatto con Simon?
L'espressione di Jace non cambiò, ma si sollevò sulle gambe posteriori sulla sedia, come se Clary
gli avesse dato uno spintone. — Simon...?
— Sebastian mi ha detto cosa gli è successo — proseguì Clary con lo stesso tono piatto. — Che
cosa hai fatto? L'hai portato qui e poi hai lasciato che lo buttassero in carcere. Stai cercando un
modo per farti odiare da me?
— E tu credi a Sebastian? — ribatté Jace. — Lo conosci a malapena, Clary.
Lo fissò. — Perché, non è vero?
Jace incrociò il suo sguardo, ma la sua faccia era immobile, come quella di Sebastian quando lei
l'aveva respinto. — È vero.
Clary prese un piatto e glielo tirò. Jace si abbassò, facendo girare la sedia, e il piatto colpì il muro
sopra il lavello e si ruppe in un'esplosione di frammenti. Jace si alzò di scatto dalla sedia quando
Clary prese un altro piatto e lo scagliò, tirando a caso: rimbalzò contro il frigorifero, cadde a terra ai
piedi di Jace e si spaccò in due parti uguali. — Come hai potuto? Simon si fidava di te. Dov'è
adesso? Che cosa gli vogliono fare?
— Niente — rispose Jace. — Sta bene. L'ho visto ieri sera.
— Prima o dopo il nostro incontro? Prima o dopo aver fatto finta che fosse tutto a posto e che stavi
benissimo così?
— Tu sei andata via pensando che "stavo benissimo così"? — Jace soffocò per qualcosa che
somigliava vagamente a una risata. — Devo essere un attore più bravo di quello che pensavo —
concluse con un sorriso contorto. Fu come un fiammifero, per la polvere da sparo che era la rabbia
di Clary: come osava ridere di lei? Clary fece per prendere il cestino della frutta, ma di colpo non le
sembrò abbastanza. Scostò la sedia con un calcio e si scagliò contro di lui.
L'impeto dell'assalto lo colse alla sprovvista. Clary gli piombò addosso con tutto il suo peso: Jace
barcollò, arretrando, e andò a sbattere contro il piano da lavoro. Lo sentì sussultare, alzò un pugno
alla cieca, senza nemmeno sapere bene cosa voleva fare.
Ma aveva dimenticato quanto Jace fosse veloce. Il pugno non piombò sulla sua faccia, ma sulla sua
mano aperta. Jace chiuse le dita intorno alle sue, costringendola ad abbassare il braccio. Di colpo
Clary si rese conto di quanto fossero vicini: lei gli era appoggiata con tutto il corpo e lo premeva
contro il piano di lavoro. — Mollami la mano.
— Se lo faccio, tu mi picchi di nuovo? — La sua voce era roca e bassa, gli occhi ardenti.
— Non credi di meritartelo?
Sentì il petto di Jace alzarsi e abbassarsi contro di lei, in una risata senza divertimento. — Tu credi
che abbia pianificato tutto questo? Pensi davvero che farei una cosa del genere?
— Be', Simon non ti sta simpatico, no? Forse non ti è mai stato simpatico.
Jace si lasciò sfuggire un verso roco, incredulo, e le liberò la mano. Quando Clary fece un passo
indietro, allungò il braccio destro, a palmo in su. Le ci volle un momento per capire che cosa le
stava mostrando: una cicatrice frastagliata sul polso. — Qui — le disse, con la voce tesa come una
corda di violino — è dove mi sono tagliato il polso per far bere il mio sangue al tuo amico vampiro.
Ho rischiato di morire. Come puoi pensare che adesso io l'abbia abbandonato senza pensarci due
volte?
Clary fissò la cicatrice sul polso di Jace: una delle tante, di ogni forma e dimensione, sparse su tutto
il suo corpo. — Sebastian mi ha detto che tu hai portato qui Simon e poi Alec l'ha accompagnato
alla Guardia. L'ha consegnato al Conclave, non potevi non saperlo.
— L'ho portato qui per caso. Gli avevo chiesto di venire all'Istituto per parlargli. Di te, tra l'altro.
Pensavo che lui potesse convincerti ad abbandonare l'idea di venire a Idris. Se ti può consolare, non
l'ha nemmeno preso in considerazione. E mentre era lì, siamo stati attaccati dai Dimenticati. Ho
dovuto trascinarlo via con me, attraverso il Portale. Altrimenti l'avrei abbandonato a una morte
certa.
— Ma perché consegnarlo al Conclave? Dovevi per forza sapere...
— La ragione per cui l'abbiamo mandato là è perché l'unico Portale di Idris è alla Guardia. Ci
avevano detto che volevano rispedirlo a New York.
— E voi ci avete creduto? Dopo quello che è successo con l'Inquisitrice?
— Clary, l'Inquisitrice era un'anomalia. Per te è stata la prima esperienza del Conclave, ma non per
me. Il Conclave siamo noi. I Nephilim. Il Conclave rispetta la Legge.
— Peccato che stavolta non l'abbiano fatto.
— No — disse Jace. — Non l'hanno fatto. — La sua voce era molto stanca. — E la cosa peggiore di
tutto questo — aggiunse — è ripensare a Valentine che farnetica sul Conclave, su quanto sia
corrotto, su quanto abbia bisogno di un bel repulisti. E, per l'Angelo, su questo sono d'accordo con
lui!
Clary era in silenzio, primo perché non le veniva in mente niente da dire e poi per lo stupore, perché
Jace, quasi soprappensiero, si protese e l'attrasse a sé. E lei, contro ogni logica, glielo lasciò fare.
Dal tessuto bianco della camicia, Clary vedeva i segni dei marchi, neri e curvilinei, che gli
lambivano la pelle come lingue di fuoco. Desiderava appoggiare la testa al suo petto, desiderava
sentire le sue braccia intorno a sé, con la stessa intensità con cui aveva cercato l'aria mentre
rischiava di annegare nel lago Lyn.
— Forse ha ragione sul fatto che molte cose dovrebbero essere sistemate — disse Clary alla fine. —
Ma non ha ragione sul modo in cui dovrebbero essere sistemate. Questo lo capisci, vero?
Jace socchiuse gli occhi. Erano segnati da profonde mezzelune grigie, notò Clary. Tracce di notti
insonni. — Non sono più sicuro di capire niente. Hai tutte le ragioni per essere arrabbiata, Clary.
Non avrei dovuto fidarmi del Conclave. Volevo credere che l'Inquisitrice fosse un'anomalia e che
avesse agito ignorando la loro autorità. Volevo credere che ci fosse ancora qualcosa di buono,
nell'essere Cacciatori.
— Jace — sussurrò Clary.
Jace aprì gli occhi e la guardò. Erano così vicini che ogni punto dei loro corpi era in contatto: anche
le ginocchia si toccavano e Clary sentiva battere il cuore di Jace. Allontanati da lui, ordinò a se
stessa, ma le gambe si rifiutarono di obbedire.
— Che c'è? — chiese lui, con voce dolce.
— Io voglio vedere Simon — disse Clary. — Puoi portarmi da lui?
Così all'improvviso come l'aveva presa tra le braccia, Jace la lasciò andare. — No. Tu non dovresti
nemmeno essere a Idris. Non puoi andartene in giro per la Guardia a passo di valzer.
— Ma penserà che tutti l'abbiano abbandonato. Penserà...
— Ci sono andato io, da lui — disse Jace. — Volevo liberarlo. Volevo strappare l'inferriata della
finestra con le mani. — Il suo tono era molto concreto. — Ma lui non ha voluto.
— Non ha voluto? Ha preferito restare in prigione?
— Mi ha spiegato che l'Inquisitore sta indagando sulla mia famiglia, su di me. Aldertree vuole
addossare a noi la colpa di tutto ciò che è successo a New York. Non può arrestare uno di noi ed
estorcere una confessione con la tortura, perché il Conclave non lo vedrebbe di buon occhio, ma sta
cercando di far dichiarare a Simon che tutti noi siamo in combutta con Valentine. E Simon dice che,
se lo faccio evadere, l'Inquisitore capirà che sono stato io, e le cose si metteranno ancora peggio, per
i Lightwood.
— È molto nobile da parte sua, non c'è che dire. Ma qual èil piano a lungo termine? Restare in
carcere per sempre?
Jace scrollò le spalle. — A questo non abbiamo ancora pensato.
Clary sbuffò per l'esasperazione. — Maschi — sbottò. — E va bene. Senti, quello che ti serve è un
alibi. Facciamo in modo che tu sia in un posto dove tutti ti vedano e dove ci siano anche i
Lightwood, poi ci facciamo aiutare da Magnus a tirar fuori Simon dalla prigione e a riportarlo a
New York.
— Odio dirti questo, Clary, ma non c'è speranza che Magnus faccia una cosa del genere. Non
importa quanto trovi carino Alec: non si metterà mai contro il Conclave perfare un piacere a noi.
— Potrebbe — disse Clary. — In cambio del Libro Bianco.
Jace batté le palpebre. — Il cosa?
Rapidamente, Clary gli raccontò della morte di Ragnor Fell, di Magnus che si era presentato al
posto suo, e del libro degli incantesimi. Jace ascoltò con stupita attenzione, finché Clary non ebbe
finito di parlare.
— Demoni? — disse. — Magnus ha detto che Fell è stato ucciso dai demoni?
Clary ripensò alle sue parole. — No, ha detto che il posto puzzava di qualcosa di origine
demoniaca. E che Fell è stato ucciso dai servi di Valentine. È così che ha detto.
— Certa magia nera lascia un'aura che ha il puzzo dei demoni — osservò Jace. — Se Magnus non è
stato più preciso, forse è perché non è affatto contento che ci sia di mezzo un qualche stregone che,
praticando la magia nera, ha infranto la Legge. Non è certo la prima volta che Valentine convince
uno dei Figli di Lilith a obbedire ai suoi ordini. Ricordi il giovane stregone che uccise a New York?
— Valentine usò il suo sangue per il Rituale. Mi ricordo bene. — Clary rabbrividì. — Jace,
Valentine vuole il Libro per le mie stesse ragioni? Per risvegliare mia madre?
— Potrebbe essere. Oppure, potrebbe volerlo semplicemente per il potere che contiene. Sia come
sia, è meglio che lo troviamo prima noi.
— Secondo te, è possibile che sia nella tenuta dei Wayland?
— Ne sono sicuro — disse Jace, sorprendendola. — Il libro di Ricette per casalinghe o come si
chiama... l'ho già visto. Era l'unico libro di cucina di tutta la biblioteca.
Clary era stordita. Quasi non voleva credere che fosse vero. — Jace... se mi porti alla tenuta e
troviamo il libro, ti prometto che tornerò a casa con Simon. Fa' questo per me e io ti prometto che
andrò a New York e non tornerò più indietro.
— Magnus aveva ragione: ci sono delle difese depistanti sulla tenuta — disse Jace lentamente. —
Io ti ci posso portare, ma non è vicino. A piedi, ci vorranno cinque ore.
Clary gli sfilò lo stilo dalla cintura e lo tenne sollevato tra di loro. Riluceva di una pallida luce
bianca, non diversa da quella emanata dalle torri di vetro. — E chi ha detto che ci andremo a piedi?
— Ricevi delle strane visite, Diurno — osservò Samuel. —Prima Jonathan Morgenstern e adesso il
Signore dei vampiri di New York City. Sono molto colpito.
Jonathan Morgenstern? Ci volle un attimo prima che Simon capisse che stava parlando di Jace. Era
seduto per terra, al centro della cella, e rigirava pigramente tra le mani la fiaschetta vuota. —
Evidentemente sono più importante di quel che pensavo.
— E poi Isabelle Lightwood che ti porta del sangue — continuò Samuel. — Niente male, come
servizio a domicilio.
La testa di Simon si alzò di scatto. — Come fai a sapere che è stata Isabelle a portarmelo? Io non ho
detto niente.
— L'ho vista dalla finestra. È uguale a sua madre — rispose Samuel. — O meglio, è uguale a
com'era sua madre parecchi anni fa. — Ci fu un silenzio impacciato. — Tu lo sai, che il sangue è
solo una soluzione temporanea, vero? — aggiunse. — Molto presto l'Inquisitore comincerà a chie
dersi se non sei ancora morto di fame. Se ti trova in buona salute, capirà che c'è qualche imbroglio e
ti ammazzerà comunque.
Simon alzò gli occhi al soffitto. Le rune incise nella pietra si sovrapponevano le une sulle altre,
come i sassi di una spiaggia ghiaiosa. — Immagino che non mi resti altro da fare che fidarmi di
Jace, quando dice che troveranno un modo per tirarmi fuori di qui — disse. Quando Samuel non
rispose nulla, aggiunse: — Gli chiederò di tirare fuori anche te, te lo prometto. Non ti lascerò qui
dentro.
Samuel fece un verso soffocato, come una risata rimasta impigliata nella gola. — Oh, non credo
proprio che Jace Morgenstern voglia salvare proprio me — commentò. — E poi, morire di fame qui
dentro è il minore dei tuoi problemi, Diurno. Molto presto Valentine attaccherà la città, e allora sarà
più facile che veniamo uccisi tutti quanti.
Simon batté le palpebre. — Come fai ad esserne così sicuro?
— Ero vicino a Valentine, in una certa fase della mia vita. Conoscevo i suoi piani. I suoi obiettivi.
Valentine vuole distruggere le difese di Alicante e colpire il Conclave nel cuore del suo potere.
— Ma io credevo che i demoni non potessero superare le difese. Credevo che fossero impenetrabili.
— Così si dice. Ci vuole del sangue di demone per neutralizzare le difese, capisci? E le difese si
possono neutralizzare soltanto dall'interno di Alicante. Però, siccome nessun demone può passare
attraverso le difese... Be', è un perfetto paradosso, o così dovrebbe essere. Ma Valentine era
convinto che avrebbe trovato il modo di aggirare questo ostacolo e che sarebbe riuscito ad entrare
ad Alicante. E io gli credo. Valentine troverà il modo per abbattere le difese ed entrerà nella città col
suo esercito di demoni. E ci ucciderà tutti quanti.
La pacata certezza nella voce di Samuel fece correre un brivido freddo lungo la schiena di Simon.
— Sembri terribilmente rassegnato. Non dovresti fare qualcosa? Mettere in guardia il Conclave?
— Li ho già messi in guardia, quando mi hanno interrogato. Gli ho ripetuto mille volte che
Valentine ha intenzione di distruggere le difese, ma non mi hanno voluto credere. Il Conclave è
convinto che le difese resisteranno per sempre, perché hanno resistito mille anni. Ma è stato così
anche per Roma, finché non sono calati i barbari. Tutto ha una fine, prima o poi. — Ridacchiò: una
risata amara, rabbiosa. — Considerala una gara a chi ti ammazza per primo, Diurno: se Valentine, o
gli altri Nascosti, o il Conclave.
A un certo punto, la mano di Clary fu strappata via da quella di Jace. Quando il tornado la sputò
fuori, cadde con violenza e rotolò senza fiato fino a fermarsi.
Si mise lentamente a sedere e si guardò intorno. Era al centro di un tappeto persiano steso sul
pavimento di una grande stanza dalle pareti di pietra. I mobili della stanza erano coperti da lenzuola
bianche che li trasformavano in goffi e sghembi fantasmi. Pesanti tende di velluto coprivano enormi
finestre: il velluto era bianco di polvere e il pulviscolo danzava alla luce della luna.
— Clary? — Jace emerse da dietro una grossa sagoma rivestita di bianco, forse un pianoforte a
coda. — Stai bene?
— Sì — rispose Clary con una piccola smorfia di dolore. Le faceva male un gomito. — A parte il
fatto che probabilmente Amatis mi ucciderà, quando torneremo indietro. Visto e considerato che le
ho rotto i piatti e ho pure aperto un Portale nella sua cucina.
Jace le allungò una mano. — Per quel che vale — le disse aiutandola a rialzarsi in piedi — la cosa
mi ha molto impressionato.
— Grazie. — Clary si guardò in giro. — Quindi è qui che sei cresciuto? Sembra un posto uscito da
una favola.
— Io direi da un film dell'orrore — commentò Jace. — Dio, sono passati anni dall'ultima volta che
ho visto questo posto. Una volta non era così...
— Così freddo? — Clary rabbrividì. Si abbottonò il cappotto, ma il freddo era più di un freddo
meteorologico: era un freddo interno, come se quella casa non avesse mai conosciuto calore, luce o
risate.
— No — rispose Jace. — È sempre stata fredda. E polverosa. — Prese dalla tasca una pietra di
stregaluce e l'accese tra le dita. La luce bianca illuminò il suo viso dal basso, mettendo in rilievo le
ombre sotto gli zigomi e le cavità delle tempie. — Questo è lo studio. A noi serve la biblioteca.
Vieni.
Jace condusse Clary in un lungo corridoio sul quale si allineavano decine di specchi che riflettevano
le loro figure. Clary non si era resa conto in quale stato fosse: il cappotto impolverato, i capelli
scarmigliati dal vento. Cercò di lisciarseli con discrezione, ma colse il sorriso di Jace nello specchio
successivo. Per qualche ragione, probabilmente una qualche misteriosa magia da Cacciatore che lei
non era in grado di comprendere, i capelli di Jace erano perfetti.
Il corridoio era costellato di porte, alcune delle quali aperte: dietro le porte, Clary intravide altre
stanze, anch'esse impolverate e in disuso come lo studio. Michael Wayland non aveva parenti, aveva
detto Valentine, quindi nessuno aveva ereditato la tenuta dopo la sua morte. Clary credeva che
Valentine avesse continuato a vivere lì, ma evidentemente non era così. Tutto, là dentro, parlava di
dolore e abbandono. A Renwick, Valentine aveva chiamato quel posto "casa" e l'aveva mostrato a
Jace nello specchio-Portale: un ricordo dorato di campi verdi e pietre piene di calore. Ma anche
quella, pensò Clary, era una menzogna. Senza dubbio Valentine non viveva lì da anni: forse l'aveva
lasciata lì a marcire, o era venuto solo occasionalmente, passando per i corridoi come un fantasma.
Raggiunsero una porta in fondo al corridoio e Jace l'aprì con una spallata, poi fece un passo indietro
per far entrare Clary per prima. Si era immaginata una biblioteca come quella dell'Istituto, e questa
stanza non era tanto diversa: le stesse pareti piene di file e file di libri, le stesse scalette su rotelle
per raggiungere gli scaffali più alti. Il soffitto, però, era piatto, non a cono, con le travi a vista, e non
c'era alcuna scrivania. Tende di velluto verde imbiancate di polvere coprivano le finestre, in cui si
alternavano rombi di vetro verdi e azzurri. Alla luce della luna, luccicavano come brina colorata.
Oltre i vetri, tutto era nero.
— È la biblioteca? — chiese Clary con un sussurro, nonsapendo bene perché parlasse a bassa voce.
C'era qualcosadi profondamente immobile, in quella grande casa vuota.
Jace guardava oltre, gli occhi incupiti dai ricordi. — Mi sedevo sempre a quella finestra, a leggere il
libro che mio padre mi aveva assegnato: lingue diverse per giorni diversi - francese il sabato,
inglese la domenica - ma non ricordo più quale fosse il giorno del latino, se il lunedì o il martedì.
Clary vide in un flash l'immagine di Jace bambino, seduto nella strombatura della finestra con un
libro bilanciato sulle ginocchia, a guardare fuori, verso... verso cosa? C'erano dei giardini? Un
panorama? Un alto muro di spine come quello che circondava il castello della Bella Addormentata?
Lo vide che leggeva, con la luce che entrava dalla finestra disegnando rombi verdi e azzurri sui suoi
capelli chiari e su un faccino più serio di quanto dovesse essere quello di un bambino di dieci anni.
— Non me lo ricordo più — ripetè Jace con lo sguardoperso nel buio.
Clary gli toccò la spalla. — Non importa, Jace.
— Immagino di no. — Jace si riscosse, come risvegliandosi da un sogno, e attraversò la stanza,
illuminando il percorso con la stregaluce. Si chinò a esaminare una fila di librie si raddrizzò con un
volume in mano. — Ricette semplici per le casalinghe — disse. — Eccolo qui.
Clary lo raggiunse di corsa e lo prese dalle sue mani. Era un volume senza pretese, con la copertina
blu, ed era impolverato come tutto il resto, in quella casa. Quando lo aprì, una nuvola di polvere si
levò dalle pagine come uno sciame di farfalle notturne.
Al centro del ricettario, era stato ritagliato un grosso buco quadrato. E nel buco, come una pietra
preziosa incastonata in un gioiello, c'era un volume più piccolo, rilegato in cuoio bianco e col titolo
in latino impresso in caratteri dorati. Clary riconobbe le parole per "libro" e per "bianco", ma
quando lo prese e lo aprì, vide con sorpresa che le pagine erano coperte da una sottile grafia in una
lingua che non conosceva.
— Greco — disse Jace, guardando da dietro le spalle di Clary. — Greco antico.
— Lo sai leggere?
— Non con facilità — ammise Jace. — Sono passati anni. Ma Magnus sarà capace, immagino. —
Jace chiuse il libretto e lo infilò nella tasca del cappotto verde di Clary, poi tornò alla libreria,
passando le dita sulle file di libri e carezzandone il dorso.
— Ci sono dei libri che vuoi portare con te? — gli chiese Clary dolcemente. — Se vuoi...
Jace rise e lasciò cadere la mano. — Avevo il permesso di leggere solo quello che mi veniva
assegnato — raccontò. — Alcuni degli scaffali contengono volumi che non potevo nemmeno
toccare. — Le indicò una fila di libri, più in alto, rilegati in cuoio bruno. — Una volta, quando
avevo circa sei anni, ne lessi uno, solo per capire che cosa ci fosse di tanto proibito. Scoprii che era
un diario di mio padre. Appunti su Mio figlio, Jonathan Christopher. Mi frustò con la cintura dei
pantaloni quando scoprì che l'avevo letto. Tra l'altro, fu in quell'occasione che scoprii di avere un
secondo nome.
Un senso improvviso di rancore verso suo padre colpì dolorosamente Clary. — Be', Valentine
adesso non è qui.
— Clary... — iniziò Jace, con una nota allarmata nella voce, ma Clary aveva già tirato giù uno dei
libri dello scaffale proibito e l'aveva buttato per terra. Cadde con un bel tonfo soddisfacente. —
Clary!
— E dai! — Lo fece di nuovo, buttandone per terra un altro, e poi un terzo. La polvere sbuffava
dalle pagine quando i volumi finivano sul pavimento. — Prova tu.
Jace la guardò per un momento, poi un mezzo sorriso gli stuzzicò l'angolo della bocca. Alzò il
braccio e spazzò via tutti gli altri libri dello scaffale, facendoli crollare rumorosamente. Rise. Ma
poi s'interruppe, e sollevò la testa come un gatto che drizza le orecchie per un suono in lontananza.
— Hai sentito?
Sentito cosa? Clary stava per fare questa domanda, ma si trattenne. C'era davvero un suono, ora più
forte. Un ronzio acuto, un cigolio come di ingranaggi che si rimettevano in moto. Il suono sembrava
venire da dentro il muro. Clary fece d'istinto un passo indietro. In quel momento, le pietre del muro
davanti a loro arretrarono con un gemito rugginoso. Dietro le pietre si aprì un vano. Era una specie
di porta grossolanamente scavata nel muro.
E dietro la porta c'erano delle scale, che scendevano nel buio.
capitolo 9
QUESTO SANGUE COLPEVOLE
Non ricordavo nemmeno che esistesse, una cantina — commentò Jace, fissando da sopra le spalle di
Clary il varco che si apriva nel muro. Sollevò la stregaluce e il suo bagliore colpì le pareti del
passaggio che scendeva giù. Erano nere e scivolose, di una pietra scura e liscia che Clary non
riconobbe. I gradini luccicavano come fossero bagnati. Uno strano odore saliva dal fondo: umido e
stantio, con una strana sfumatura metallica che la fece rabbrividire.
— Secondo te, che cosa c'è laggiù?
— Non lo so. — Jace si avvicinò alle scale; mise un piede sul primo gradino, saggiandone la tenuta,
poi scrollò le spalle, come se avesse già preso la sua decisione. Cominciò a scendere con cautela. A
metà strada, si girò a guardare Clary. — Tu vieni? Se vuoi, aspettami lì.
Lei si guardò intorno nella biblioteca vuota, rabbrividì e si affrettò a raggiungerlo.
Le scale scendevano in spire sempre più strette. Era come se Jace e Clary stessero penetrando
dentro un'enorme conchiglia. L'odore si fece più forte quando raggiunsero la base della scala, che
dava su una grande stanza quadrata dalle pareti di pietra striate dall'umidità e da altre macchie, più
scure. Il pavimento era scarabocchiato di segni: pentacoli e rune, e pietre bianche qua e là.
Jace fece un passo avanti e qualcosa si sbriciolò sotto i suoi piedi. Lui e Clary abbassarono gli occhi
simultaneamente. — Ossa — sussurrò Clary. Non pietre bianche, ma ossa, di ogni forma e
dimensione, sparse su tutto il pavimento. — Ma che cosa ci faceva, Valentine, qui sotto?
La stregaluce ardeva nella mano di Jace, gettando intorno il suo strano bagliore. — Esperimenti —
disse Jace in tono secco, teso. — La Regina della Corte Seelie ha detto...
— Che tipo di ossa sono, queste? — La voce di Clary era stridula. — Sono ossa animali?
— No. — Jace diede un calcio a un mucchio di ossa, sparpagliandole. — Non tutte.
A Clary si strinse il petto. — Forse dovremmo tornare indietro.
Jace, invece, levò più alta la stregaluce, che divampò più intensamente, illuminando l'aria di un
aspro e bianco fulgore. Tutti gli angoli della stanza divennero visibili. Tre erano vuoti, ma nel
quarto c'era un telo, con qualcosa sotto, una figura accasciata...
— Jace — sussurrò Clary. — Cos'è quello?
Lui non rispose. Ora, all'improvviso, c'era una spada angelica nella sua mano libera. Clary non
sapeva quando l'avesse sguainata, ma brillava sotto la stregaluce come una lama di ghiaccio.
— Jace, non farlo — gli intimò Clary. Ma Jace avanzò, sollevò il telo con la punta della spada e lo
strappò via. Il lenzuolo cadde, facendo alzare una nuvola di polvere.
Jace arretrò barcollando e la stregaluce gli cadde di mano. Mentre la vivida luce cadeva, Clary
intravide per un attimo il suo viso: una livida maschera di orrore. Clary prese al volo la stregaluce
prima che si spegnesse e la levò in alto, ansiosa di vedere cosa avesse tanto sconvolto Jace. Jace,
che non si lasciava sconvolgere da nulla.
All'inizio individuò solo la sagoma di un uomo, avvolto in stracci bianchi e sporchi, accovacciato
per terra. I polsi e le caviglie erano stretti da catene fissate a grossi ganci di metallo infissi nel
pavimento di pietra. Come può essere vivo?, pensò Clary inorridita, con la gola che le si riempì di
bile. La pietra runica le tremò nella mano e la luce danzò come impazzita sul prigioniero. Clary vide
le braccia e le gambe emaciate, segnate ovunque dai segni di innumerevoli torture. Il volto, ormai
quasi un teschio, si girò verso di lei: c'erano vuote cavità nere al posto degli occhi. Poi ci fu un
fruscio secco, e Clary vide che quelle che aveva scambiato per stracci erano in realtà ali: ali
bianche, che si sollevarono dietro la schiena del prigioniero in due semilune candide e pure. L'unica
cosa pura in quella stanza immonda.
Clary sussultò, con la gola secca. — Jace... hai visto...
— Ho visto. — La voce di Jace, accanto a lei, era spezzata come vetro in frantumi.
— Avevi detto che gli angeli non c'erano... che nessuno li aveva mai visti...
Jace stava sussurrando a mezza voce una sequela di spaventate imprecazioni. Avanzò incerto verso
la creatura accovacciata sul pavimento, ma poi arretrò di scatto, come se fosse rimbalzato contro un
muro invisibile. Clary abbassò lo sguardo e vide che l'angelo era seduto entro un pentacolo fatto di
rune intrecciate tra loro, profondamente incise nella pietra. Le rune emanavano una pallida luce
fosforescente. — Le rune — sussurrò. — Non possiamo oltrepassarle.
— Ma ci deve pur essere qualcosa... — disse Jace con una voce quasi di pianto. — Qualcosa che
possiamo fare.
L'angelo sollevò la testa. Clary notò con un senso di pietà, terrore e turbamento, che aveva dei
riccioli dorati come quelli di Jace, che risplendevano nella luce. I ricci erano appiccicati al cranio,
gli occhi cavi, il viso sfregiato da cicatrici. Era come un magnifico dipinto distrutto dai vandali.
L'angelo aprì la bocca e un suono si riversò dalla sua gola: non parole, ma una penetrante musica
dorata, un'unica nota di canto, trattenuta a lungo, a lungo, a lungo, così alta e dolce che il suo suono
era come un dolore...
Una fiumana di immagini salì agli occhi di Clary. Aveva ancora in mano la pietra runica, ma la luce
non c'era più. E anche lei non era più lì, ma in un altro luogo, dove le immagini del passato le
scorrevano davanti in un sogno a occhi aperti: frammenti, colori, suoni.
Si trovava in una cantina spoglia e pulita, e c'era una singola runa, gigantesca, tracciata sul
pavimento di pietra. C'era un uomo accanto ad essa: aveva un libro aperto in una mano e una torcia
fiammeggiante nell'altra. Quando l'uomo alzò la testa, Clary riconobbe Valentine: molto più
giovane, il viso bello e senza rughe, gli occhi scuri, limpidi e vivaci. Recitava una cantilena e, alle
sue parole, la runa divampò in alte fiamme. Quando le fiamme si spensero, rimase una figura
accasciata tra la cenere: un angelo, con le ali spalancate e insanguinate, come un uccello colpito da
un fucile e caduto dal cielo.
La scena cambiò. Valentine era in piedi davanti a una finestra, al suo fianco c'era una giovane donna
dai vivaci capelli rossi. Un anello d'argento, che Clary riconobbe, brillò al dito di Valentine, mentre
cingeva la donna in un abbraccio. Con una fitta di dolore, Clary riconobbe sua madre. Ma era
giovane e i tratti del suo viso erano dolci e vulnerabili. Indossava una camicia da notte bianca e
aspettava un bambino.
— Gli Accordi — le stava dicendo Valentine con rabbia — sono l'idea peggiore che il Conclave
abbia mai avuto. E sono anche quanto di peggio potesse capitare ai Nephilim. Che noi dovessimo
essere legati ai Nascosti, legati a quelle creature...
— Valentine — lo interrompeva Jocelyn con un sorriso — ora basta con la politica, per favore. —
Poi intrecciava le braccia intorno al collo di Valentine con uno sguardo pieno d'amore. E anche lo
sguardo di Valentine era pieno d'amore, ma non solo: dentro vi era anche qualcos'altro, che fece
rabbrividire Clary.
Valentine era in ginocchio al centro di un circolo di alberi. Una luna splendente illuminava il
pentacolo nero che lui aveva abbozzato sulla terra della radura. I rami degli alberi s'intrecciavano in
una fitta rete sopra di lui, e dove si protendevano oltre i bordi del pentacolo le foglie si arricciavano
e annerivano. Al centro della stella a cinque punte sedeva una donna dai lunghi capelli luminosi; la
sua figura era snella e aggraziata, il viso nascosto nell'ombra, le braccia nude e bianche. La mano
sinistra era tesa in avanti e, quando aprì le dita, Clary vide che aveva un lungo taglio sul palmo, da
cui un lento rivolo di sangue gocciolava in una coppa d'argento posata sul pentacolo. Il sangue
sembrava nero, sotto la luce della luna. O forse era davvero nero.
— Il bimbo che nascerà con questo sangue dentro di sé — diceva la donna, e la sua voce era dolce e
bella — avrà un potere più grande dei Demoni Superiori che popolano gli abissi tra i mondi. Sarà
più potente dell'Asmodei, più forte dello shedu delle tempeste. Se verrà opportunamente addestrato,
non ci sarà nulla che non sarà in grado di fare. Ma ti avverto — aggiungeva. — Questo sangue
brucerà la sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue.
— Io ti ringrazio, Signora di Edom — diceva Valentine. Mentre si protendeva per prendere la coppa
di sangue, la donna levava il viso. E Clary vide che, pur essendo bellissima, i suoi occhi erano nere
cavità dalle quali fuoruscivano tentacoli neri e sinuosi, come antenne che tastassero l'aria. Clary
soffocò un grido.
La notte e la foresta svanirono. Ecco Jocelyn, in piedi davanti a qualcuno che Clary non poteva
vedere. Non era più incinta e i suoi capelli luminosi erano scarmigliati intorno al viso disperato e
sofferente. — Non posso più restare con lui, Ragnor — diceva. — Nemmeno un giorno in più. Ho
letto il suo diario. Sai che cosa ha fatto a Jonathan? Credevo che nemmeno Valentine potesse
arrivare a tanto. — Le sue spalle tremavano. — Ha usato sangue di demone! Jonathan non è più un
bambino! Non è più nemmeno umano! È un mostro...
Jocelyn svanì. Valentine camminava inquieto intorno al cerchio di rune, brandendo una lucente
spada angelica. — Perché non parli? —borbottava. — Perché non vuoi darmi ciò che voglio? —
Calò la spada e l'angelo si contorse per il dolore, mentre un fluido dorato colava dalla ferita come
liquida luce del sole. — Se non vuoi darmi delle risposte — sibilava Valentine — puoi darmi il tuo
sangue. Sarà più utile a me e ai miei di quanto lo sarà a te.
Ora erano nella biblioteca dei Wayland. La luce del sole brillava dai rombi di vetro delle finestre,
inondando la stanza di azzurro e di verde. Da un'altra stanza giungevano delle voci: suoni di risate e
di chiacchiere, c'era una festa. Jocelyn era in ginocchio vicino a uno scaffale e si guardava
furtivamente intorno. Tirava fuori un grosso libro dalla tasca e lo infilava nello scaffale.
Ed era già sparita. La scena successiva si svolgeva in una cantina, la stessa dove Clary si trovava in
quel momento. Lo stesso pentacolo grossolanamente inciso sul pavimento e, al centro della stella,
l'angelo. Valentine era lì accanto, di nuovo con un'ardente spada angelica in pugno. Era molto più
anziano, adesso. — Ithuriel — diceva. — Ormai siamo vecchi amici, no? Avrei potuto lasciati
sepolto vivo in quelle rovine, invece no, ti ho portato qui con me. Per tutti questi anni ti ho tenuto
sempre con me, sperando che un giorno mi avresti detto ciò che volevo, che dovevo, sapere. — Si
avvicinava, e il fulgore della lama faceva vibrare di luce la barriera runica. — Quando ti ho evocato,
sognavo che mi avresti spiegato il perché. Perché Raziel ha creato noi, la sua stirpe di Cacciatori,
ma non ci ha dato i poteri che hanno i Nascosti: la velocità dei lupi, l'immortalità del Popolo Fatato,
la magia degli stregoni, nemmeno la resistenza dei vampiri. Ci ha lasciati nudi davanti agli eserciti
infernali con solo questi segni dipinti sulla pelle. Perché i loro poteri devono essere più grandi dei
nostri? Perché non possiamo avere anche noi ciò che loro possiedono? Come può, tutto ciò, essere
giusto?
Nella stella che lo teneva prigioniero l'angelo sedeva muto come una statua di marmo, immobile, le
ali ripiegate. I suoi occhi non esprimevano nulla, se non un terribile e silenzioso dolore. La bocca di
Valentine si distorse in una smorfia.
— Molto bene. Resta pure nel tuo silenzio. Io avrò comunque la mia occasione. — Valentine
sollevava la spada. — Possiedo la Coppa Mortale, Ithuriel, e presto avrò la Spada. Ma senza lo
Specchio non posso iniziare l'evocazione. Lo Specchio è tutto ciò che mi serve. Dimmi dov'è.
Dimmi dov'è, Ithuriel, e io ti lascerò morire.
La scena si frantumava e, mentre la visione svaniva, Clary colse frammenti di immagini a lei
familiari perché ricorrenti nei suoi incubi: angeli dalle ali bianche e angeli dalle ali nere, distese di
acqua specchiante, oro e sangue... e Jace, che le voltava le spalle, che le voltava sempre le spalle.
Clary tendeva le mani verso di lui. E, per la prima volta, la voce dell'angelo parlò nella sua testa,
con parole che Clary riusciva a comprendere.
Questi non sono i primi sogni che ti mando. L'immagine di una runa esplose dietro gli occhi di
Clary come un fuoco d'artificio: non era una delle rune che aveva già visto. Era una runa, forte e
semplice come un nodo. Poi sparì in un soffio e, mentre svaniva, il canto dell'angelo cessò. Clary
era di nuovo nel suo corpo, barcollante sulle gambe, nella stanza lercia e fetida. L'angelo era in
silenzio, immobile, le ali ripiegate, un'effigie della sofferenza.
Il respiro le uscì con un singhiozzo. — Ithuriel. — Protese le mani verso l'angelo con il cuore
infranto, ben sapendo di non poter oltrepassare le rune. Per anni e anni l'angelo era stato lì sotto,
muto e solo nel buio, incatenato, affamato, ma incapace di morire.
Jace era accanto a lei. Clary capì dalla sua espressione dolente che anche lui aveva visto ciò che
aveva visto lei. Jace abbassò lo sguardo sulla spada angelica che teneva in mano, poi lo spostò
sull'angelo. Il volto cieco era rivolto verso di loro, in una muta supplica.
Jace fece un passo avanti, poi un altro. I suoi occhi erano fissi sull'angelo, ed era come se ci fosse
una sorta di muta comunicazione tra loro, pensò Clary, un dialogo che lei non poteva sentire. Gli
occhi di Jace splendevano come dischi d'oro, pieni di luce riflessa.
— Ithuriel — sussurrò.
La lama della spada s'infiammò come una torcia. La sua luce era accecante. L'angelo sollevò il viso,
come se quella luce fosse visibile ai suoi occhi ciechi. Protese le mani, facendo risuonare di un
rumore aspro le catene che gli legavano i polsi.
Jace si voltò verso Clary. — Clary — disse. — Le rune.
Le rune. Per un momento lei lo fissò, confusa, ma gli occhi di Jace la spronarono all'azione. Clary
gli passò la stregaluce, prese lo stilo dalla tasca, s'inginocchiò accanto alle rune tracciate per terra.
Sembravano scavate nella pietra con un oggetto appuntito.
Clary alzò gli occhi verso Jace. La sua espressione la sorprese, il fuoco nei suoi occhi... Erano pieni
di fede in lei, di fiducia nelle sue capacità. Con la punta dello stilo Clary tracciò molte linee sul
pavimento, trasformando le rune vincolanti in rune di liberazione, le rune di prigionia in rune di
apertura. Le rune prendevano fuoco man mano che Clary le tracciava. Era come se ogni volta che le
sfiorava ci passasse sopra la capocchia di un fiammifero.
Quand'ebbe finito, si alzò in piedi. Le rune brillavano davanti a lei. All'improvviso Jace le fu
accanto. La pietra di stregaluce non c'era più: l'unica fonte di luce, oltre alle rune, era la spada
angelica che Jace aveva nominato per l'angelo e che gli ardeva in mano. Tese la mano armata, che
questa volta attraversò la barriera di rune, come se non esistesse più.
L'angelo allungò le braccia e prese la spada da Jace. Chiuse gli occhi ciechi e Clary credette per un
momento che sorridesse. Girò la spada tra le mani, fino a puntare la punta acuminata appena sotto
lo sterno. Clary trasalì e fece un passo avanti, ma Jace le prese un braccio in una stretta d'acciaio e
la tirò indietro. In quell'attimo l'angelo affondò la lama.
La testa gli si rovesciò indietro, le mani abbandonarono l'elsa, lasciandola dove doveva esserci il
cuore. Sempre che gli angeli lo avessero, un cuore: Clary questo non lo sapeva. Dalla ferita si
sprigionarono fiamme che avvolsero la spada. Il corpo dell'angelo sfavillava nelle fiamme bianche,
le catene ai polsi erano incandescenti e scarlatte, come ferro lasciato troppo a lungo nel fuoco. Clary
ripensò ai dipinti medievali dei santi consunti nella vampa dell'estasi divina. Poi le ali dell'angelo si
spalancarono, grandi e bianche, prima di prendere fuoco anch'esse e consumarsi tra le fiamme.
Clary non poteva più guardare. Si voltò e nascose il viso nel petto di Jace, che le passò un braccio
intorno alle spalle, stringendola forte. — Va tutto bene — le disse tra i capelli. — Va tutto bene. —
Ma l'aria era piena di fumo e la terra sembrava tremare sotto i loro piedi. Fu solo quando anche Jace
barcollò, che Clary capì che non era un effetto dello shock: la terra si stava muovendo davvero! Si
staccò da Jace. Barcollò. Sotto i suoi piedi, le pietre si sfregavano le une con le altre, mentre una
pioggia di polvere sottile cadeva dal soffitto. L'angelo era una colonna di fumo; le rune intorno a lui
guizzavano luminose. Clary le fissò, decodificando il loro significato. Poi guardò Jace, terrorizzata:
— La casa... Era legata a Ithuriel. Con la morte dell'angelo, la casa...
Non riuscì a finire la frase. Jace l'aveva già presa per mano e stava correndo verso le scale,
trascinandola con sé. Le scale vibravano e ondeggiavano, Clary cadde, picchiò dolorosamente un
ginocchio su un gradino, ma la presa di Jace non si allentò. Continuò a correre, ignorando il dolore
alla gamba, coi polmoni pieni di polvere soffocante.
Raggiunsero l'ultimo gradino e piombarono nella biblioteca. Alle loro spalle, Clary sentì il boato
delle scale che crollavano. Nella libreria, la situazione non era migliore: la stanza era scossa
violentemente, i libri cadevano dagli scaffali. Una statua si rovesciò a terra e andò in frammenti.
Jace lasciò la mano di Clary, prese una sedia e, prima che lei potesse chiedergli cosa avesse
intenzione di fare, la scaraventò contro i vetri colorati della finestra.
La sedia volò fuori in una cascata di vetri rotti. Jace si girò e tese la mano a Clary. Alle sue spalle,
dall'intelaiatura frastagliata che rimaneva in piedi, Clary vedeva una striscia d'erba bagnata dalla
luce lunare e una fila di alberi in lontananza, che sembravano molto più in basso. Non posso fare un
salto così, pensò. Fece per scuotere la testa quando vide gli occhi di Jace spalancarsi, la sua bocca
aprirsi a formulare un avvertimento. Uno dei pesanti busti di marmo allineati sugli scaffali più alti
stava cadendole addosso. Clary si spostò di scatto e il busto piombò a terra dove un attimo prima
c'era lei, lasciando un'infossatura nel pavimento.
Un attimo dopo, le braccia di Jace la stringevano e la sollevavano di peso. Clary era troppo sorpresa
per dibattersi. Jace la portò alla finestra sventrata e la mollò di sotto senza tante cerimonie.
La ragazza piombò sul prato sottostante rotolando giù da una ripida china e acquistando velocità,
finché non andò a sbattere contro un dosso con tanta forza da restare senza fiato. Si mise a sedere,
scuotendosi via fili d'erba dai capelli. Un attimo dopo, rotolò giù anche Jace e si fermò accanto a lei.
Diversamente da lei, però, saltò su come una molla e si accovacciò, guardando la tenuta in cima alla
collina.
Anche Clary si girò a guardare nella stessa direzione, ma Jace la prese e la spinse giù,
nell'avvallamento dietro il dosso. In seguito Clary avrebbe scoperto dei lividi scuri sulle sue braccia,
dove Jace l'aveva stretta. Restò senza fiato per la sorpresa, quando la sbatté per terra e rotolò sopra
di lei, facendole scudo col suo corpo. Esplose un boato enorme. Come un vulcano in eruzione.
Come se la terra si spaccasse. Una vampa di polvere bianca salì verso il cielo.
Clary sentì un picchiettio secco tutto intorno. Per un momento, disorientata, pensò che avesse
iniziato a piovere. Poi capì che erano detriti, terra, vetri rotti: i frantumi della tenuta distrutta,
scagliati tutto intorno come una grandine di morte.
Jace la schiacciò più forte contro il terreno, appiattendo il corpo sopra il suo. Il battito del suo cuore
giungeva alle orecchie di Clary come il rumore del crollo dopo l'esplosione.
Il fragore del crollo svanì lentamente, come il fumo si dissolve nell'aria. Fu rimpiazzato dal
chiacchiericcio degli uccelli stupiti. Clary li vedeva, dietro le spalle di Jace, volare curiosi in ampi
cerchi contro il cielo nero.
— Jace — disse Clary a bassa voce. — Temo di aver perduto lo stilo da qualche parte.
Lui si sollevò un po', puntellandosi sui gomiti, e la guardò. Anche al buio Clary vedeva la propria
immagine riflessa nei suoi occhi. Jace aveva il viso rigato di sporco e di terra, il colletto della
camicia strappato. — Pazienza. L'importante è che tu non ti sia fatta niente.
— Sto bene. — Senza pensarci, gli passò una mano tra i capelli, leggera. Lo sentì irrigidirsi, vide i
suoi occhi incupirsi.
— Avevi dell'erba tra i capelli — gli disse. Aveva la gola secca, l'adrenalina le scorreva nelle vene.
Tutto quello che era appena successo - l'angelo, la rovina della tenuta - sembrava meno reale di ciò
che leggeva negli occhi di Jace.
— Non dovresti toccarmi — la ammonì.
La mano di Clary si bloccò dov'era, con il palmo sulla sua guancia. — Perché?
— Lo sai, il perché — replicò Jace. Si scostò, rotolandosulla schiena. — Hai visto anche tu quello
che ho visto io, vero? Il passato, l'angelo, i nostri genitori.
Era la prima volta, pensò Clary, che Jace li chiamava così: i nostri genitori. Si voltò su un fianco,
con l'impulso di avvicinarsi a lui, ma non era sicura di poterlo fare. Lui aveva lo sguardo fisso al
cielo, cieco. — L'ho visto anch'io.
— Dunque sai ciò che sono. — Le parole gli uscirono inun sussurro angosciato. — Sono in parte
demone, Clary. In parte demone. Questo l'hai capito, vero? — I suoi occhi affondarono in quelli di
Clary come sonde. — Hai visto cosa cercava di fare Valentine. Ha usato sangue di demone: l'ha
usato su di me, prima ancora che nascessi. Sono in parte un mostro. Sono in parte tutto ciò che ho
cercato con tutte le mie forze di combattere, di distruggere.
Clary allontanò il ricordo della voce di Valentine che diceva: Mi ha lasciato perché ho trasformato
il suo primogenito in un mostro. — Ma anche gli stregoni sono in parte demoni. Come Magnus. E
non per questo sono malvagi.
— Però non sono Demoni Superiori. Hai sentito che cosa diceva quella donna demone. Brucerà la
sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue.
La voce di Clary tremò. — Non è vero. Non può essere vero. Non ha senso.
— Sì, invece. — C'era una furia disperata sul volto di Jace. Clary vedeva il bagliore della catenella
d'argento intorno alla sua gola nuda, sbiancata dalla luce della luna. — Questo spiega tutto.
— Vuoi dire che spiega perché sei un Cacciatore così straordinario? Perché sei leale e impavido e
onesto e tutto quello che i demoni non sono!
— Spiega — precisò Jace con voce incolore — quello che provo nei tuoi confronti.
— In che senso?
Jace rimase in silenzio per un lungo momento, fissandola nel minuscolo spazio che li separava.
Clary riusciva a sentirne il contatto, anche se non la stava toccando: era come se fosse ancora
disteso sopra di lei. — Tu sei mia sorella — disse Jace alla fine. — Mia sorella, il mio sangue, la
mia famiglia. Dovrei sentire il desiderio di proteggerti. — Rise in silenzio e senza umorismo. —
Proteggerti da tutti i ragazzi che vorrebbero fare con te esattamente quello che vorrei fare io.
Clary restò senza fiato. — Avevi detto che d'ora in poi volevi solo essere un fratello per me.
— Ho mentito — ammise Jace. — I demoni mentono, Clary. Sai, ci sono certe ferite che un
Cacciatore può ricevere, ferite interne causate dal veleno di un demone: non ti rendi nemmeno
conto cosa c'è che non va, in te, ma dentro stai lentamente sanguinando a morte. Ecco, essere solo
un fratello, per te, mi dà la stessa sensazione.
— Ma Aline...
— Dovevo tentare. E ho tentato. — La sua voce era senza vita. — Ma Dio sa che non voglio
nessuna, tranne te. Non voglio nemmeno cercare di volere un'altra, oltre a te.
— Allungò la mano, fece scorrere lievemente le dita fra isuoi capelli, le sfiorò la guancia. —
Adesso, almeno, so il perché.
La voce di Clary era scesa a un sussurro. — Anch'io non voglio nessuno tranne te.
Un trasalimento nel respiro di Jace la confortò un poco. Lentamente, Jace si tirò su sui gomiti. Ora
la guardava dall'alto e la sua espressione era cambiata: c'era qualcosa che Clary non aveva mai visto
prima, una luce spenta, quasi mortale, nei suoi occhi. Jace fece scorrere le dita dalla guancia alle
labbra di Clary e ne tracciò il profilo con la punta di un dito. — Forse — le disse — ora dovresti
dirmi di non fare così.
Ma lei non disse niente. Non voleva dirgli di smettere. Era stanca di dire di no a Jace, di non
permettersi mai di sentire ciò che tutto il suo cuore voleva che sentisse. A qualsiasi costo.
Lui si chinò, posò le labbra sulla sua guancia, la sfiorò leggermente. E quel tocco, seppur leggero, le
diede una scossa a tutte le terminazioni nervose; una scossa che la fece tremare in tutto il corpo. —
Se vuoi che mi fermi, dimmelo adesso — sussurrò Jace. Ma Clary lei continuò a non dire nulla. Lui
le sfiorò con le labbra la tempia. — O adesso. — Seguì la linea dello zigomo. — O adesso. — Ora
le suelabbra erano su quelle di Clary. — O...
Ma lei l'aveva preso e l'aveva attratto a sé, e le sue parole si persero sulle sue labbra. Jace la baciò
con delicatezza, con attenzione, anche se non era la delicatezza che Clary voleva, non ora, non dopo
tutto questo tempo. Strinse i pugni sulla sua camicia tirandolo forte verso di sé. Jace gemette piano,
in fondo alla gola, poi le sue braccia la avvolsero, la strinsero, e rotolarono insieme sull'erba,
avvinghiati l'uno all'altra, protraendo ancora quel bacio. C'erano delle pietre che pungevano la
schiena di Clary e la spalla le doleva dove aveva battuto cadendo dalla finestra, ma non le
importava niente. Esisteva solo Jace: tutto ciò che Clary sentiva, sperava, respirava, voleva e
vedeva, era Jace. Nuli'altro contava.
Nonostante il cappotto, Clary sentiva il calore di Jace bruciare attraverso i vestiti. Gli strappò la
giacca, e poi in qualche modo anche la camicia sparì. Le sue dita esploravano il suo corpo come le
labbra di Jace esploravano le sue: pelle morbida su muscoli asciutti, cicatrici come fili sottili. Clary
gli toccò la cicatrice a forma di stella: era liscia e piatta, come se fosse parte della sua pelle, non
rilevata come le altre. Clary immaginava che dovessero apparire come imperfezioni, tutte quelle
cicatrici, ma non era così che le vedeva lei: erano una storia, incisa sul corpo di Jace, la mappa di
una vita di guerra senza fine.
Jace armeggiava con i bottoni del cappotto, le mani tremanti. Clary non le aveva mai viste così
malferme. — Faccio io — gli disse slacciandosi da sola l'ultimo bottone. Mentre si sollevava,
qualcosa di freddo e metallico le toccò la clavicola, facendola trasalire per la sorpresa.
— Cosa succede? — Jace si immobilizzò. — Ti ho fatto male?
No, è stato questo. — Clary toccò la catenina d'argento al collo di Jace. Vi era appeso un cerchietto
di metallo argenteo. Era stato quello a rimbalzare su di lei, quando si era sollevata. Ora lo fissò.
Quell'anello, quel cerchietto di metallo segnato dal tempo, con un motivo a stelle... Lei conosceva.
Era l'anello dei Morgenstern. Era lo stesso anello che brillava al dito di Valentine nel sogno che
l'angelo aveva mostrato loro. Era appartenuto a lui e lui lo aveva dato a Jace, passandolo, secondo la
tradizione, di padre in figlio.
— Mi dispiace — si scusò Jace. Le carezzò la linea della guancia con un dito, con un'intensità
sognante nellosguardo. — Avevo dimenticato di avere al collo quella cosa dannata.
Un gelo improvviso invase le vene di Clary. — Jace — disse a bassa voce. — Jace, non farlo.
— Non farlo cosa? Non portare l'anello?
— No, non... non toccarmi. Fermati un secondo.
La sua faccia divenne immobile. Mille domande avevano spazzato via la sognante confusione dai
suoi occhi, ma non disse niente. Si limitò a ritirare la mano.
— Jace — riprese Clary. — Perché? Perché proprio adesso?
Le sue labbra si dischiusero per la sorpresa. Clary vide una linea scura dove si era morso il labbro, o
forse dove l'aveva morso lei. — Cosa significa «perché proprio adesso»?
— Tu avevi detto che non c'era niente tra noi. Che se noi... se noi ci fossimo lasciati andare ai
sentimenti, avremmo fatto del male a tutte le persone alle quali vogliamo bene.
— Te l'ho detto. Ho mentito. — Gli occhi di Jace si addolcirono. — Tu credi che io non voglia...?
— No — disse Clary. — No, non sono una stupida. So che lo vuoi. Ma quando hai detto che adesso
finalmente capisci perché provi questi sentimenti per me, che cosa intendevi dire?
Non che Clary non lo sapesse già, ma doveva chiederglielo, doveva sentirglielo dire.
Jace le afferrò i polsi e avvicinò le sue mani al proprio viso, intrecciando le dita con le sue. —
Ricordi quello che ti ho detto dai Penhallow? — le chiese. — Che non pensi mai a quello che fai
prima di farlo e che è per questo che rovini tutto quello che tocchi?
— No, me l'ero dimenticato. Grazie per avermelo ricordato.
Jace sembrò non cogliere il sarcasmo nella sua voce. — Non stavo parlando di te, Clary. Stavo
parlando di me. Sono io, quello che si comporta così. — Spostò appena la testa, e le dita di Clary
scivolarono sulla sua guancia. — Almeno adesso so perché. So che cosa c'è di sbagliato in me. E
forse... forse è per questo che ho tanto bisogno di te. Perché se Valentine ha fatto di me un mostro,
allora immagino che abbia fatto di te una specie di angelo. E Lucifero amava Dio, no? Così almeno
dice Milton nel Paradiso perduto.
Clary trattenne il fiato. — Io non sono un angelo. E tu non puoi sapere se Valentine abbia usato il
sangue di Ithuriel con me. Forse lo voleva solo per sé...
— Ha detto che il sangue era «per me e i miei» — disse Jace a bassa voce. — E questo spiega
perché tu sai fare quello che fai, Clary. La Regina della Corte Seelie ha detto che eravamo entrambi
degli esperimenti. Non solo io.
— Io non sono un angelo, Jace — ripetè Clary. — Non restituisco i libri in biblioteca. Scarico
illegalmente musica da internet. Racconto balle a mia madre. Sono assolutamente normale.
— Non per me. — Jace la guardò. Il suo viso era sospeso contro un fondale di stelle. Non c'era
nulla, nella sua espressione, della sua solita arroganza: Clary non l'avevamai visto così indifeso, ma
anche questo suo essere indifeso era intriso di un odio verso se stesso profondo come una ferita. —
Clary, io...
— Allontanati — gli intimò Clary.
— Cosa? — Il desiderio nei suoi occhi si sbriciolò in mille pezzi come le schegge dello specchioPortale a Renwick. Per un momento la sua espressione rimase vuota e attonita. Era quasi
impossibile per Clary guardarlo e continuare a dire di no. Anche se non fosse stata innamorata di
lui, quella parte di lei che era figlia di sua madre, che amava ogni cosa bella in quanto tale, quella
parte di lei l'avrebbe comunque desiderato.
Però, era proprio perché era figlia di sua madre che questo le era impossibile.
— Mi hai sentito — gli disse. — E lasciami le mani. —Le ritrasse con forza, stringendole a pugno
perché non tremassero.
Jace non si mosse. Le sue labbra si arricciarono e per un momento Clary vide di nuovo quella luce
da predatore nei suoi occhi, ora mescolata alla rabbia. — Immagino che non vorrai dirmi perché.
— Tu pensi di desiderarmi solo perché sei demoniaco e non umano. Vuoi solo qualcos'altro per
poterti odiare. Ma io non ti permetterò di usarmi per dimostrare a te stesso quanto poco vali.
— Non ho mai detto che ti sto usando.
— Bene — disse Clary. — Allora dimmi che non sei un mostro. Dimmi che non c'è niente che non
va in te. E dimmi che mi vorresti anche se non avessi dentro di te sangue di demone. — Perché io
non ho dentro di me sangue di demone. Eppure ti voglio.
I loro sguardi si agganciarono: quello di Jace, animato da una furia cieca. Per un momento nessuno
dei due respirò, poi lui si staccò da lei, imprecando, e si rialzò in piedi. Raccolse la camicia
dall'erba, se la infilò, ancora furioso, e si girò a cercare la giacca.
Anche Clary si alzò, barcollando un po'. Il vento pungente le fece venire la pelle d'oca sulle braccia.
Le pareva di avere le gambe di cera sciolta. Si abbottonò il cappotto con le dita intorpidite,
reprimendo la voglia di scoppiare in lacrime. Piangere non sarebbe servito a niente, adesso.
L'aria era ancora densa di polvere e di cenere, che danzavano sospese; l'erba intorno a loro era
cosparsa di detriti: frammenti di mobili, pagine di libri lugubremente portate dal vento, schegge di
legno dorato, una mezza rampa di scale, misteriosamente intatta. Clary si girò a guardare Jace: stava
tirando calci ai detriti con selvaggia soddisfazione. — Bene — disse. — Siamo fregati.
Non era quello che si era aspettata. Batté le palpebre. — Come?
— Ricordi? Hai perso il mio stilo. Non puoi più aprire un Portale, adesso. — Pronunciò quelle
parole con un amaro piacere, come se tutto questo gli desse soddisfazione. — Non abbiamo nessun
altro mezzo per tornare indietro. Dobbiamo farcela a piedi.
Non sarebbe stata una piacevole camminata nemmeno in circostanza normali. Abituata alle luci
della città, Clary non si capacitava di quanto potesse essere buia Idris di notte. Le dense ombre nere
che circondavano la strada sembravano brulicare di cose invisibili e, anche con la stregaluce di Jace,
Clary non riusciva a vedere a più di un passo davanti a sé. Le mancavano le luci della città, il
bagliore diffuso dei lampioni, i rumori del traffico. Ora sentiva solo il ritmico scricchiolio della
ghiaia sotto i loro piedi e, di tanto in tanto, il trasalire del proprio respiro, quando inciampava su un
sasso.
Dopo un paio d'ore, cominciarono a farle male i piedi. Aveva la bocca secca come una pergamena.
L'aria si era fatta molto fredda e Clary rabbrividiva, zoppicando con le mani affondate nelle tasche.
Ma persino tutto questo avrebbe potuto essere sopportabile, se solo Jace le avesse rivolto la parola.
Non aveva aperto bocca da quando si erano allontanati dalla tenuta, se non per darle secche
indicazioni sulla strada da seguire a un bivio o per indicarle di schivare una buca. Ma anche se ci
fosse caduta dentro, Clary dubitava che gliene sarebbe importato molto, se non per il fatto che
avrebbe rallentato il loro cammino.
Alla fine, il cielo a oriente cominciò a rischiarare. Clary, mezza addormentata, sollevò lo sguardo
sorpresa. — È presto per fare giorno.
Jace la guardò con un filo di disprezzo. — Quella è Alicante. Il sole non si alzerà per almeno tre
ore. Sono le luci della città.
Troppo sollevata all'idea di essere quasi a casa per notare l'atteggiamento di Jace, Clary accelerò il
passo. Dietro una curva, si ritrovarono a camminare su un ampio sentiero in terra battuta che
tagliava il fianco di una collina. Si snodava seguendo le curve del pendio e spariva dietro una curva,
in lontananza. Anche se le case della città non erano ancora in vista, l'aria si era fatta più luminosa e
il cielo era rischiarato da un bagliore rossastro.
— Dobbiamo essere vicini, ormai — disse Clary. — C'è una scorciatoia per scendere dalla collina?
Jace era accigliato. — C'è qualcosa che non va — disse d'un tratto. E partì quasi di corsa sollevando
sul sentiero nuvole di polvere che rilucevano d'ocra in quella strana luce. Clary si mise a correre per
raggiungerlo, ignorando le proteste dei suoi piedi pieni di vesciche. Quando svoltarono alla curva
del sentiero, Jace si fermò di botto e Clary gli finì addosso. In altre circostanze avrebbe potuto
essere comico. Non questa volta.
La luce rossastra era più forte, adesso, e gettava bagliori scarlatti nel cielo notturno, illuminando a
giorno la collina. Nuvole di fumo salivano dalla valle come le piume della coda a ruota di un nero
pavone. Dai neri vapori si ergevano le torri antidemoni di Alicante coi loro involucri cristallini.
Attraverso il fumo denso, Clary vide rosseggiare fiamme danzanti sparse per la città come una
manciata di luccicanti pietre preziose su una tela nera.
Sembrava impossibile, ma era proprio così: Clary e Jace, sul pendio della collina, stavano sopra
Alicante. Ai loro piedi, la città era in fiamme.
parte seconda
LE STELLE RIFULGONO SINISTRE
Antonio:
Non volete fermarvi ancora un poco?
Né volete ch'io possa accompagnarvi?
Sebastiano:
No, con vostra pazienza: su di me le mie stelle rifulgono sinistre, e l'influsso della mia mala sorte
potrebbe forse influenzar la vostra. Perciò debbo pregarvi di lasciarmi a soffrire da solo i miei
affanni; sarebbe una cattiva ricompensa al vostro affetto, se alcuno di essi dovesse ricadere su di
voi.
(William Shakespeare, La dodicesima notte, atto II, scena I)
capitolo 10
FUOCO E SPADA
— È tardi — disse Isabelle, chiudendo nervosamente la tenda di pizzo che copriva l'alta finestra del
salotto. — Dovrebbe essere già di ritorno, ormai.
—Sii ragionevole, Isabelle — intervenne Alec. Il suo tono di superiorità da fratello maggiore
sembrava sottintendere sia che Isabelle aveva una certa tendenza all'isteria, sia che lui era
perfettamente calmo. Anche la postura (era comodamente sdraiato su una delle morbide poltrone in
torno al caminetto come se non avesse alcun pensiero almondo) sembrava studiata per dimostrare a
tutti quantofosse assolutamente tranquillo. — Jace fa così quando è arrabbiato: se ne va in giro per
la città. Ha detto che andava a fare una passeggiata. Tornerà.
Isabelle sospirò. Avrebbe quasi voluto che fossero presenti anche i suoi genitori, ma erano ancora
alla Guardia. Qualunque cosa si stesse discutendo alla Guardia, l'assemblea del Consiglio si stava
trascinando fino a ore impossibili. — Ma lui conosce New York. Non conosce Alicante...
— Probabilmente la conosce meglio di te. — Aline era seduta sul divano e leggeva un volume
rilegato in cuoio rosso scuro. I capelli neri erano raccolti sulla nuca in una treccia alla francese, gli
occhi fissi sul libro aperto sulle ginocchia. Isabelle, che non era mai stata una gran lettrice,
invidiava sempre agli altri la capacità di perdersi in un libro. C'erano molte cose per cui, un tempo,
avrebbe invidiato Aline: la statura piccola e la bellezza delicata, tanto per cominciare, così diversa
da quella da amazzone di Isabelle, che con i tacchi diventava più alta di quasi tutti i ragazzi che
incontrava. Solo da poco, tuttavia, aveva capito che le altre ragazze non erano fatte solo per essere
invidiate, evitate o detestate. — Ha vissuto qui fino a dieci anni. Voi, invece, ci siete venuti solo un
paio di volte.
Isabelle si portò la mano alla gola, aggrottando la fronte. Il ciondolo appeso alla sua catenina aveva
avuto una pulsazione improvvisa... In genere questo accadeva solo in presenza di demoni, ma lì, ad
Alicante, era impossibile che ce ne fossero. Forse il ciondolo non funzionava più bene. — Io non
credo che sia in giro per la città, però. Credo che sia piuttosto ovvio dove è andato — replicò
Isabelle.
Alec sollevò gli occhi. — Credi che sia andato da Clary?
— È ancora qui? Pensavo che dovesse tornare a NewYork. — Aline chiuse il libro. — Dove
alloggia, la sorella di Jace, a proposito?
Isabelle scrollò le spalle. — Chiedilo a lui — disse rivolgendo lo sguardo su Sebastian.
Sebastian era buttato sul divano di fronte ad Aline. Anche lui aveva un libro in mano e la sua bella
testa scura era china sulle pagine. Sollevò gli occhi come se avesse sentito lo sguardo di Isabelle su
di sé.
— Parlavate di me? — chiese con la solita calma. Tutto in Sebastian, era calmo, pensò Isabelle con
un guizzo di fastidio. All'inizio era stata molto colpita dal suo aspetto – gli zigomi scolpiti, gli occhi
neri e profondi - ma la sua personalità affabile e benevola adesso la irritava. Non le piacevano i
ragazzi che sembravano non perdere mai le staffe per nessun motivo. Nel mondo di Isabelle, rabbia
e passione erano divertimento.
— Che cosa stai leggendo? — gli chiese, con più durezza di quello che avrebbe voluto. — È uno
dei giornalini di Max?
— Già. — Sebastian, bilanciato sul bracciolo del divano, riabbassò lo sguardo sul Rifugio
dell'Angelo. — Mi piace la grafica.
Isabelle esalò un sospiro esasperato. Alec le lanciò un'occhiataccia e chiese: — Sebastian, Jace sa
dove sei stato oggi?
— Vuoi dire se sa che ero fuori con Clary? — Sebastian sembrava divertito. — Senti, non è mica un
segreto. Gliel'àvrei detto, se l'avessi visto.
— Non vedo perché dovrebbe importargliene. — Aline mise da parte il libro, con una punta di
tensione nella voce. — Sebastian non ha fatto niente di male. Che problema c'è se ha voluto
mostrare a Clarissa qualcosa di Idris, prima che se ne tornasse a casa? Jace dovrebbe essere
contento, se sua sorella non resta a casa tutto il tempo ad annoiarsi.
— Sa essere molto... protettivo — spiegò Alec dopo una lieve esitazione.
Aline aggrottò la fronte. — Dovrebbe farsi un po' da parte. A Clary non fa sicuramente bene essere
troppo protetta. La faccia che aveva quando ci ha trovati in biblioteca... Era come se non avesse mai
visto nessuno che si baciava in vita sua.
— Ne ha visti, ne ha visti — la rassicurò Isabelle, pensando a come Jace aveva baciato Clary alla
Corte di Seelie.
Non era un episodio che ricordava volentieri: lei non amava crogiolarsi nei propri dispiaceri,
figurarsi in quelli degli altri. — Ma non è per quello.
— Allora per cosa? — Sebastian si raddrizzò, scostando dagli occhi un ricciolo di capelli neri.
Isabelle intravide qualcosa, una linea rossa sul palmo, come una cicatrice. — Solo perché ce l'ha
con me? Io non so proprio che cosa posso aver...
— Quello è mio! — Una vocetta sottile lo interruppe. Era Max, sulla porta del salotto. Indossava un
pigiama grigio e i capelli castani erano tutti arruffati, come se si fosse appena svegliato. Fissava il
manga posato sul divano accanto a Sebastian.
— Cosa, questo? — Sebastian gli allungò la copia del Rifugio dell'Angelo. — Ecco, piccolo, tieni
pure.
Max si avvicinò a grandi passi e si riprese il suo manga, guardando torvo Sebastian. — E non
chiamarmi piccolo.
Sebastian rise e si alzò. — Vado a prendere del caffè — disse avviandosi verso la cucina. Si fermò
sulla soglia e si girò. — Voi volete qualcosa?
Ci fu un coro di no. Con una scrollata di spalle, Sebastian scomparve in cucina, lasciando che la
porta si chiudesse alle sue spalle.
— Max — disse Isabelle con severità. — Non essere maleducato.
— Non mi piace quando mi prendono le mie cose. — Max si strinse al petto il volume a fumetti.
— Cresci, Max. L'aveva solo preso in prestito. — Isabelle gli parlò con più irritazione nella voce di
quello che avrebbe voluto: era ancora in pensiero per Jace, lo sapeva, e stava scaricando la tensione
sul fratellino. — E comunque, dovresti essere a letto. E tardi.
— C'erano dei rumori sulla collina. Mi hanno svegliato. — Max batté le palpebre. Senza occhiali,
tutto perlui diventava una macchia piuttosto indistinta. — Isabelle...?
Il tono interrogativo nella sua voce richiamò l'attenzione di Isabelle, che si allontanò dalla finestra.
— Che c'è?
— La gente non si arrampica sulle torri antidemoni, vero? Per un motivo qualsiasi?
Aline lo guardò. — Arrampicarsi sulle torri? — Rise. — No, nessuno fa mai una cosa del genere.
Primo, perché è assolutamente illegale, e poi, per quale motivo uno ci dovrebbe salire sopra?
Aline, pensò Isabelle, non aveva molta immaginazione. Lei, per esempio, riusciva a pensare a un
sacco di motivi per arrampicarsi sulle torri, se non altro per sputare il chewing-gum in testa ai
passanti.
Max aveva la fronte aggrottata. — Ma qualcuno l'ha fatto. Io ho visto...
— Qualunque cosa credi di aver visto, probabilmente te la sei sognata — tagliò corto Isabelle.
La faccia di Max s'increspò. Intuendo un potenziale pianto, Alec si alzò e gli tese la mano. — Vieni,
Max — disse non senza affetto. — Torniamo a nanna.
— Dovremmo tutti andare a nanna — commentò Aline alzandosi in piedi. Si avvicinò alla finestra
accanto aIsabelle e chiuse bene le tende. — È già quasi mezzanotte. Chissà quando torneranno dal
Consiglio. Non ha senso restare...
Il ciondolo al collo di Isabelle pulsò di nuovo, forte, e un attimo dopo la finestra davanti alla quale
c'era Aline esplose verso l'interno in mille pezzi. Aline strillò. Mani si protesero dallo squarcio...
Non erano mani, in realtà, notò Isabelle con la lucidità dello shock: erano grossi artigli ricoperti di
squame, grondanti sangue e un fluido nerastro. Afferrarono Aline e la trascinarono fuori dalla
finestra in frantumi, prima che riuscisse a gridare di nuovo.
La frusta di Isabelle era sul tavolo accanto al caminetto. Si precipitò a prenderla, schivando
Sebastian che arrivava di corsa dalla cucina. — Servono armi! — gli disse bruscamente, mentre lui
si guardava intorno, attonito. — Vai! — strillò correndo alla finestra.
Vicino al caminetto, Alec teneva stretto Max. Il bambino strillava e si divincolava, cercando di
liberarsi dalla presadi suo fratello. Alec lo trascinò verso la porta. Bene, pensòIsabelle. Portalo via
di qui'
L'aria fredda entrava dalla finestra squarciata. Isabelle si tirò su la gonna e con agili calci buttò fuori
alcuni pericolanti frammenti di vetro, ringraziando il cielo per le suole :ì spesse dei suoi scarponi.
Eliminate le schegge, abbassò la testa e saltò nel varco aperto atterrando con un tonfo secco sul
marciapiede di pietra.
A un primo sguardo, il marciapiede le sembrò deserto. Non c'erano lampioni lungo il canale: lì
l'illuminazione principale veniva dalle finestre delle case vicine. Isabel-1 le avanzò con cautela, la
frusta di elettro avvolta intorno al polso. La possedeva da così tanto tempo, quella frusta (gliel'aveva
regalata suo padre per il suo dodicesimo compleanno), che ormai era parte di lei, come fosse
un'estensione fluida del suo braccio destro.
Le ombre si facevano più fitte man mano che la ragazza si allontanava dalla casa dei Penhallow,
verso Oldcastle Bridge, un ponte che attraversava il canale Princewater con; una strana angolazione
rispetto al marciapiede. Le ombre; alla base del ponte erano dense come uno sciame di mosche nere.
Ma poi Isabelle vide qualcosa muoversi nell'ombra, qualcosa di bianco e veloce.
Scattò, travolgendo una bassa siepe ai margini di un giardino, e saltò sul viottolo che passava sotto
il ponte, lungo la sponda del canale. La frusta aveva cominciato a brillare di cruda luce argentea.
Nel pallido chiarore vide Aline esanime, riversa sulla riva. Un enorme demone coperto di squame le
era sopra e la schiacciava a terra col peso del suo corpo da lucertola, il muso affondato nel suo
collo...
Ma non poteva essere un demone! Non c'erano mai stati demoni ad Alicante. Mai. Sotto il suo
sguardo attonito, il mostro sollevò la testa e annusò l'aria, come percependo la sua presenza. Era
cieco, notò Isabelle: sulla fronte, al posto degli occhi, correva una serie di denti fitti e seghettati
come una cerniera. Aveva un'altra bocca, sulla metà inferiore del muso, provvista di zanne da
cinghiale, sbavanti. E aveva una coda sottile, che muoveva come una frusta. I lati della coda
luccicavano e, avvicinandosi, Isabelle vide che era bordata da file di ossa affilate come lame di
rasoio.
Aline trasalì ed emise un gemito, una specie di mugolio sommesso. Isabelle fu travolta dal sollievo:
aveva temuto che fosse già morta. Ma il sollievo durò poco. Quando Aline si mosse, Isabelle vide
che aveva la camicetta strappata davanti e il petto ferito dagli artigli del demone. Il mostro aveva
una zampa agganciata alla cintura dei suoi jeans.
Un'ondata di nausea sommerse Isabelle: il demone non stava cercando di uccidere Aline... non
ancora. La frusta le si animò in pugno come la spada fiammeggiante di un angelo vendicatore. Si
slanciò in avanti, tirando frustate sulla schiena del mostro.
Il demone strillò e rotolò via dal corpo di Aline. Avanzò verso Isabelle, con le due bocche
spalancate e gli artigli protesi verso il suo viso. Isabelle arretrò agilmente e gli tirò un'altra frustata,
colpendolo in pieno: il muso, il petto, le zampe. Una miriade di lesioni ricoprì la pelle squamata
della fiera, facendo colare sangue e pus. Una lunga lingua biforcuta scattò dalla bocca superiore,
puntando al viso di Isabelle. C'era qualcosa sulla punta, una specie di pungiglione, che le ricordava
quello di uno scorpione. Isabelle fece scattare la frusta, che si arrotolò intorno alla lingua del
demone legandola tra spire di elettro. Il demone si mise a urlare, mentre Isabelle stringeva il nodo e
tirava. La lingua del demone cadde con un tonfo molle e disgustoso sui mattoni del sentiero.
Isabelle liberò la frusta. Il mostro si voltò e scappò con movimenti rapidi e guizzanti, da serpente.
Lei scattò all'inseguimento. Il demone era a metà del sentiero che risaliva dal viottolo lungo il
canale, quando un'ombra scura gli si parò di fronte. Qualcosa brillò nel buio e il demone cadde a
terra fremendo.
Isabelle si fermò di scatto. C'era Aline, in piedi sopra il demone, con un sottile pugnale in mano.
Probabilmente portava l'arma alla cintura. Le rune sulla lama brillavano come lampi accecanti, e la
ragazza calò il pugnale, lo affondò cento volte nel corpo fremente del mostro, finché quest'ultimo
non cessò di muoversi e si dissolse.
Poi guardò Isabelle. Il suo viso era privo di espressione. Non cercava nemmeno di chiudersi la
camicetta, nonostante i bottoni strappati. Le colava sangue dai graffi profondi sul petto.
Isabelle fece un fischio sommesso. — Aline... tutto okay?
Aline lasciò cadere il pugnale. Senza dire una parola, si voltò e corse via, sparendo nel buio sotto il
ponte.
Colta alla sprovvista, Isabelle imprecò e si lanciò all'inseguimento. Quanto avrebbe voluto avere
indosso qualcosa di più comodo di quell'abito di velluto! Per fortuna aveva gli scarponi. Non
sarebbe mai riuscita a raggiungere Aline, con i tacchi alti.
C'era una scaletta di metallo in fondo al viottolo, all'altezza di Princewater Street. Aline era una
macchia indistinta in cima alla scala. Isabelle raccolse l'orlo pesante del vestito e la seguì, pestando
fragorosamente sui gradini. Quando arrivò in cima, guardò a destra e a sinistra.
E rimase a bocca aperta. Si trovava all'inizio della grande strada sulla quale si affacciava la casa dei
Penhallow. Aline non era più in vista: era scomparsa nella massa brulicante di gente che affollava la
strada. Ma non c'erano solo tante persone: c'erano altre cose nella strada. Demoni, decine di demoni,
forse di più, come il lucertolone dai lunghi artigli che Aline aveva fatto fuori sotto il ponte. C'erano
già due o tre corpi a terra. Uno era a pochi passi da Isabelle: un uomo con la cassa toracica
sventrata. Dai capelli grigi, Isabelle capì che era un anziano. Ovvio!, pensò tra sé col cervello che
girava a fatica, i pensieri rallentati e intorpiditi dal panico. Tutti gli adulti sono alla Guardia. Qui in
città ci sono solo i bambini, gli anziani, i malati...
L'aria tinta di rosso era greve dell'odore di bruciato, la notte era squarciata da urla e grida. Le porte
delle case erano spalancate: la gente scappava fuori, poi si fermava di scatto, vedendo la strada
piena di mostri.
Era impossibile, inimmaginabile. Mai, nella storia, un demone aveva osato attraversare le difese
erette dalle torri antidemoni. E ora ce n'erano a decine. Centinaia. Forse di più. E si riversavano
sulle strade come una venefica marea. Isabelle si sentiva come intrappolata dietro a un muro di
vetro: vedeva tutto, ma non riusciva a muovere un muscolo. Vide, impietrita, un demone che
afferrava un bambino in fuga, lo sollevava di peso da terra e gli affondava i denti seghettati nella
schiena.
Il piccolo gridò, ma le sue grida si persero nel clamore che squarciava la notte. Il frastuono cresceva
sempre di più: gli ululati dei demoni, la gente che chiamava aiuto, il rumore di piedi in fuga, di vetri
rotti. Qualcuno, più in là, gridava parole che Isabelle faticava a comprendere. Qualcosa a proposito
delle torri antidemoni. Isabelle alzò lo sguardo. Le alte guglie vegliavano sulla città come sempre,
ma, invece di riflettere la luce argentea delle stelle o la luce rossa della città in fiamme, erano livide
e spente come la pelle di un cadavere. La loro luminescenza era sparita. Isabelle rabbrividì. Per
forza le strade erano piene di mostri: in qualche modo, pur essendo pressoché impossibile, le torri
antidemoni avevano perso la loro magia. Le difese che avevano protetto Alicante per mille anni
erano cadute.
Samuel aveva smesso di parlare da ore, ma Simon era ancora sveglio, gli occhi insonni fissi nel
buio. A un tratto sentì gridare.
Alzò la testa di scatto. Silenzio. Si guardò intorno, inquieto. L'aveva sognato, quel grido? Tese le
orecchie, ma, anche con il suo nuovo udito più sensibile, non sentì più nulla. Stava per tornare a
sdraiarsi, quand'ecco di nuovo le grida. Gli forarono le orecchie come spilli. Sembravano provenire
dall'esterno della Guardia.
Si alzò, si mise in piedi sulla branda e guardò fuori dalla finestrella. Vide il prato verde sottostante,
vide sullo sfondo le luci della città e un bagliore in lontananza. Socchiuse gli occhi: c'era qualcosa
di strano, in quelle luci, qualcosa di... spento. Erano più pallide di come se le ricordava, e c'erano
dei punti in movimento qua e là, nel buio, come aghi di fuoco, lungo le strade. Una pallida nuvola si
alzava sopra le torri e l'aria era piena della puzza di fumo.
— Samuel. — Simon sentì il tono allarmato della propria voce. — C'è qualcosa che non va.
Sentiva porte che sbattevano, passi di corsa, voci roche che gridavano. Premette la faccia contro
l'inferriata della finestra: vedeva gambe calzate da stivali che correvano, sentiva i Cacciatori che si
chiamavano tra loro, mentre scappavano dalla Guardia e correvano giù, verso la città.
— Le difese sono cadute! Le difese sono cadute!
— Non possiamo abbandonare la Guardia!
— La Guardia non è importante! Ci sono i nostri figli laggiù!
— E già le loro voci si affievolivano in lontananza. Simon si staccò dalla finestra, senza fiato. —
Samuel! Le difese...
— Lo so. Ho sentito. — La voce di Samuel era forte, oltre il muro. Non sembrava spaventato, ma
rassegnato, forse anche soddisfatto, per aver avuto ragione. — Valentine ha attaccato mentre il
Conclave era riunito in assemblea. Astuto.
— Ma la Guardia è fortificata. Perché non restano qui?
— Li hai sentiti: perché tutti i bambini sono rimasti in città. I bambini, i genitori anziani: non
possono abbandonarli.
I Lightwood. Simon pensò a Jace e poi, con terribile nitidezza, al volto di Isabelle, pallido sotto la
chioma di capelli scuri, alla sua determinazione in battaglia, alla sfilza un po' fanciullesca di X e di
O sul biglietto che gli aveva scritto.
— Ma tu l'avevi detto... tu l'avevi detto al Conclave, che cosa sarebbe successo! Perché non ti hanno
creduto?
— Perché per loro le difese sono come una religione. Non credere al potere delle difese è come non
credere che gli Shadowhunters siano speciali, prescelti, protetti dall'Angelo.Sarebbe come credere
che siano dei mondani qualunque.
Simon tornò a guardare fuori della finestrella: il fumo si era infittito, riempiendo l'aria di un pallore
grigiastro. Non sentiva più nessuna voce, solo flebili grida in lontananza.
— Credo che la città stia bruciando.
— No. — La voce di Samuel era molto bassa. — Io credo che la Guardia stia bruciando.
Probabilmente fuoco demoniaco. Valentine attaccherebbe la Guardia, se potesse.
— Ma... ma adesso... — le parole di Simon incespicavano l'una sull'altra. — Adesso verrà qualcuno
a tirarci fuori di qui, vero? Il Console, oppure.... Aldertree. Non possono lasciarci qui a morire.
— Tu sei un Nascosto — ragionò Samuel. — E io sono un traditore. Cos'altro dovrebbero fare,
secondo te?
— Isabelle! Isabelle! — Alec la teneva per le spalle e la scuoteva. Isabelle alzò la testa lentamente:
il pallido viso di suo fratello ondeggiò contro le tenebre; una sagoma di legno ricurvo gli spuntava
da dietro la spalla destra: era il suo arco, assicurato alla schiena da una cinghia. Lo stesso arco che
Simon aveva usato per uccidere il Demone Superiore Abbadon. Isabelle non ricordava di averlo
visto arrivare: era come se le si fosse materializzato davanti all'improvviso, come un fantasma.
— Alec. — La voce le uscì lenta, incerta. — Alec, smettila. Sto bene.
Si staccò da lui.
— Non mi sembrava che stessi molto bene. — Alec guardò la strada e imprecò a mezza voce. —
Dobbiamo toglierci da qui. Dov'è Aline?
Isabelle batté le palpebre. Non c'erano più demoni in vista. Una donna, seduta sui gradini della casa
di fronte, che singhiozzava e proferiva lamenti acutissimi. Il corpo del vecchio era ancora sulla
strada. L'odore dei demoni era dappertutto. — Aline... Uno dei demoni ha cercato di... di... —
Trattenne il respiro, si fermò. Lei era Isabelle Lightwood. Lei non diventava isterica, mai. —
L'abbiamo ucciso, ma poi Aline è scappata. Ho cercato di inseguirla, ma era troppo veloce. —
Isabelle guardò in faccia suo fratello. — Demoni in città. — disse. — Com'è possibile?
— Non lo so. — Alec scosse la testa. — Le difese sonocadute, non c'è altra spiegazione. C'erano
quattro o cinquedemoni Oni qui sulla strada, quando sono uscito. Uno l'ho preso, acquattato tra i
cespugli, e gli altri sono scappati, mapotrebbero tornare. Vieni, andiamo a casa.
La donna sui gradini continuava a singhiozzare. Il suo pianto li seguì, mentre correvano verso la
casa dei Penhallow. La loro strada non era ancora stata raggiunta dai demoni, ma si sentivano
esplosioni, grida, passi di corsa risuonare dall'ombra di altre strade buie. Mentre salivano i gradini
d'ingresso, Isabelle si voltò indietro, giusto in tempo per vedere un lungo tentacolo serpeggiante
sgusciare dal buio tra due abitazioni e strappare via la donna in lacrime dalla soglia di casa sua. I
singhiozzi si tramutarono in grida. Isabelle fece per tornare indietro, ma Alec la trattenne e la spinse
dentro, poi la seguì, chiudendo a chiave la porta. La casa era immersa nell'oscurità. — Ho spento le
luci perché non volevo attirarne degli altri — spiegò Alec, sospingendo Isabelle nel salotto.
Max era seduto per terra vicino alle scale, le braccia strette intorno alle ginocchia. Sebastian stava
inchiodando alla finestra rotta assi di legno che aveva preso dal caminetto. — Fatto — disse
facendo un passo indietro e posando il martello sulla libreria. — Dovrebbe tenere, per un po'.
Isabelle si mise a sedere accanto a Max e gli carezzò i capelli. — Tutto bene?
— No. — Il bambino aveva gli occhi spalancati, spaventati. — Volevo guardare fuori dalla finestra,
ma Sebastian mi ha detto di stare giù.
— Sebastian aveva ragione — intervenne Alec. — C'erano dei demoni per la strada.
— E ci sono ancora?
— No, ma ce ne sono altri in giro per la città. Dobbiamo pensare a cosa fare adesso.
Sebastian aggrottò la fronte. — Aline dov'è?
— È scappata — gli spiegò Isabelle. — È stata colpa mia. Avrei dovuto...
— Non è stata colpa tua. Se non ci fossi stata tu sarebbe morta. — Alec parlò con voce secca. —
Senti, non abbiamo tempo per i sensi di colpa, adesso. Io vado a cercare Aline. Voglio che voi tre
restiate qui. Isabelle, tu bada a Max. Sebastian, tu finisci di mettere la casa in sicurezza.
Isabelle scattò, indignata: — Non voglio che tu vada là fuori da solo! Portami con te.
— Sono io l'adulto, qui. Si fa come dico io. — Il tono diAlec era pacato. — È più che probabile che
i nostri genitoritornino dalla Guardia da un momento all'altro. Più siamo,qui in casa, meglio è. È fin
troppo facile perdersi, là fuori.
— Non voglio rischiare, Isabelle. — Spostò lo sguardo su Sebastian. — Lo capite?
Sebastian aveva già tirato fuori lo stilo. — Io comincio a proteggere la casa con i marchi.
— Grazie. — Alec si era già avviato verso la porta. Si girò e guardò Isabelle. Lei incrociò il suo
sguardo per una frazione di secondo. Poi Alec uscì.
— Isabelle. — Era Max, con voce minuta, sussurrata. — Ti sanguina il polso.
Isabelle guardò. Non ricordava di essersi ferita al polso, ma Max aveva ragione: il sangue aveva già
macchiato la manica della giacca bianca. Si alzò. — Vado a prendere lo stilo. Torno subito,
Sebastian, e ti aiuto con le rune.
Lui annuì. — Mi farebbe comodo avere un aiuto. Queste rune non sono la mia specialità.
Isabelle salì di sopra, senza chiedergli quale fosse la sua specialità. Si sentiva stanca fin dentro le
ossa, con un estremo bisogno di una runa energizzante. Avrebbe potuto farsela da sola, se
necessario, ma Alec e Jace erano sempre stati più bravi di lei con quel tipo di rune.
In camera sua, frugò tra le sue cose in cerca dello stilo e di qualche arma in più. Mentre si infilava
delle spade angeliche nel bordo degli scarponi, il suo pensiero era rivolto ad Alec, allo sguardo che
si erano scambiati quando era uscito. Non era la prima volta che lo guardava partire sapendo che
poteva essere l'ultima volta che lo vedeva. Era una cosa che accettava, che aveva sempre accettato
come parte della sua vita. Solo quando aveva conosciuto Clary e Simon si era resa conto che per la
maggior parte della gente, non era affatto così. Gli altri non vivevano con la morte come compagna,
come un freddo respiro sul collo anche nella più comune delle giornate. Lei, come tutti gli
Shadowhunters, aveva sempre disprezzato i mondani, ed era convinta che fossero deboli, stupidi,
volgari nel loro autocompiacimento. Ora si chiedeva se tutto quel rancore non avesse origine
dall'invidia che provava per loro. Doveva essere bello, quando un familiare usciva di casa, non
avere costantemente il timore che non tornasse più indietro.
Isabelle era già a metà della scala, con lo stilo in mano, quando percepì qualcosa di strano. Il salotto
era vuoto. Max e Sebastian non si vedevano da nessuna parte. C'era un marchio di protezione
lasciato a metà, su una delle assi di legno che Sebastian aveva inchiodato sulla finestra rotta. Il
martello che aveva usato era sparito.
Le si strinse lo stomaco. — Max! — gridò, girando in cerchio. — Sebastian! Dove siete?
Le rispose la voce di Sebastian, dalla cucina. — Isabelle. Siamo qui!
Il sollievo la travolse, lasciandola stordita. — Sebastian, non è per niente divertente! — esclamò,
marciando verso J la cucina. — Credevo che...
La porta della cucina si chiuse alle sue spalle. C'era buio, lì dentro, più ancora che in salotto.
Socchiuse gli occhi per cercare Sebastian e Max, ma non vide altro che ombre.
— Sebastian? — Un filo di incertezza s'insinuò nella sua voce. — Sebastian, che ci fate qui? Dov'è
Max?
— Isabelle. — Le parve di vedere qualcosa che si muoveva, un'ombra scura contro ombre più
chiare. La voce era morbida, gentile, quasi leggiadra. Non si era mai accorta di quanto fosse bella la
sua voce. — Isabelle, mi dispiace.
— Sebastian, ti comporti in modo strano. Smettila.
— Mi dispiace che tocchi proprio a te — aggiunse lui. — Sai, tra tutti, eri quella che mi piaceva di
più.
— Sebastian...
— Tra tutti — aggiunse, con lo stesso tono basso — pensavo che tu fossi la più simile a me.
E in quel momento Sebastian calò il pugno, stretto intorno al martello.
Alec correva per le strade buie, in fiamme, chiamando Aline senza sosta. Quando lasciò il quartiere
di Princewater e si addentrò nel cuore della città, il suo cuore accelerò. Le strade erano come un
dipinto di Bosch divenuto realtà: piene di creature macabre e grottesche, di scene di improvvisa e
spaventosa violenza. Sconosciuti in preda al panico lo spintonavano, senza nemmeno vederlo, e
scappavano urlando, senza alcuna meta apparente. L'aria puzzava di fumo e di demoni. Alcune delle
case erano in fiamme, altre avevano le finestre squarciate. I ciottoli della strada luccicavano di vetri
rotti. Avvicinandosi a un edificio, Alec vide che quella che aveva scambiato per una macchia di
pittura sbiadita era in realtà una sventagliata di sangue fresco sull'intonaco. Girò su se stesso,
guardando in ogni direzione, senza vedere nulla che la potesse giustificare. Poi si allontanò il più
velocemente possibile.
Alec aveva dei ricordi di Alicante. Aveva solo due o tre anni, quando la sua famiglia se n'era andata,
ma aveva conservato il ricordo delle torri scintillanti, delle strade piene di neve, in inverno, dei
festoni di stregaluce che addobbavano i negozi e le case, dell'acqua che saliva sonora nella fontana
della sirena, nella Sala degli Accordi. Aveva sempre provato una strana fitta al cuore al pensiero di
Alicante: la speranza dolente che, un giorno, la sua famiglia avrebbe potuto ritornare al luogo cui
apparteneva. Ora, vedere la città in quello stato era come la morte di ogni gioia. Svoltando in una
strada più ampia, una di quelle che portavano alla Sala degli Accordi, Alec vide un branco di
demoni Belial passare chini sotto un arco, sibilando e ululando. Trascinavano qualcosa, che
guizzava e si contorceva sull'acciottolato. Si lanciò all'inseguimento, ma i demoni erano già
scomparsi. Accartocciata alla base di un pilastro c'era una sagoma senza vita, ai cui piedi scorreva
un rivolo di sangue. I vetri rotti scricchiolarono sotto gli scarponi, quando Alec si inginocchiò e girò
il corpo. Gli bastò un'occhiata al volto contorto e violaceo. Si ritrasse con un brivido, grato che non
fosse nessuno di quelli che conosceva.
Un rumore. Alec si rialzò in fretta. Sentì l'odore, prima ancora di vedere l'ombra della creatura
ingobbita ed enorme che strisciava verso di lui dal fondo della strada. Un Demone Superiore? Alec
non si fermò a verificare. Scappò verso una delle case più alte, dall'altra parte della strada, e saltò
sul davanzale di una finestra sfondata. Qualche minuto dopo si stava issando sul tetto, graffiandosi
mani e ginocchia. Si mise in piedi, pulendosi le mani, e osservò Alicante dall'alto.
Le torri antidemoni emanavo una luce fioca e morente sulle vie brulicanti della città: c'erano cose
che correvano a grandi falcate o strisciavano o si annidavano nell'ombra più fitta tra le case, come
scarafaggi in un appartamento buio. L'aria gli portava i pianti e strilli e urla, e nomi chiamati a gran
voce. Ma c'erano anche gli urli dei demoni, ululati di caos e delizia che ferivano dolorosamente gli
orecchi umani. Il fumo si alzava sopra le case di pietra color miele, avviluppando le guglie della
Sala degli Accordi. Alec alzò gli occhi verso la Guardia e vide un'onda di Shadowhunters correre
giù dalla collina, illuminati dalle stregaluci che tenevano in mano. Il Conclave stava cominciando a
combattere.
Alec si spostò verso il bordo del tetto. Lì gli edifici erano addossati gli uni agli altri e le grondaie
quasi si toccavano. Fu facile saltare al tetto successivo, e poi a quello accanto. Alec si ritrovò a
correre agilmente tra i tetti, saltando oltre il breve spazio vuoto tra le case. Era bello sentire in faccia
il vento fresco, che predominava sul puzzo dei demoni.
Stava correndo da qualche minuto, quando si rese conto di due cose. La prima, che stava puntando
verso le bianche guglie della Sala degli Accordi. E la seconda, che c'era qualcosa più avanti, in una
piazza tra due vicoli, che somigliava a una pioggia di scintille verso l'alto; scintille azzurre, un po'
più scure delle fiammelle del gas. Alec aveva già visto scintille come quelle. Si fermò non più di un
attimo, poi cominciò a correre.
Il tetto più vicino alla piazza era molto spiovente. Alec vi approdò slittando sulle tegole fissate
malamente. In equilibrio precario, guardò giù.
Ai suoi piedi si apriva la piazza del Pozzo. La visuale di Alec era parzialmente ostruita da un palo di
ferro che si protendeva dalla facciata dell'edificio, sorreggendo un'insegna di legno che dondolava
nella brezza. La piazza era gremita di demoni Iblis: avevano forma umana, ma erano fatti di una
sostanza simile a spire di fumo nero; i loro occhi erano gialli e ardenti. Erano schierati e avanzavano
lentamente verso la figura solitaria di un giovane con un ampio cappotto grigio, costringendolo ad
arretrare verso un muro. Alec lo guardò sgranando gli occhi. Tutto, in quel ragazzo, gli era
familiare: la linea dritta della schiena, il groviglio di capelli neri, le scintille azzurre che sprizzavano
dalle sue dita come sfreccianti lucciole cianotiche.
Magnus. Lo stregone scagliava dardi di fuoco azzurro contro i demoni Iblis che avanzavano contro
di lui. Un dardo ne colpì uno al petto: col rumore di una secchiata d'acqua gettata sulle fiamme, il
demone sfrigolò e svanì in un'esplosione di lapilli. Gli altri si spostarono a chiudere lo spazio
rimasto vuoto (i demoni Iblis non brillavano per intelligenza) e Magnus scagliò un'altra raffica di
dardi infuocati. Diversi Iblis caddero, ma ora un altro demone, più astuto degli altri, era fluttuato
intorno a Magnus e si stava condensando alle sue spalle, pronto a colpire.
Alec non si fermò a pensare. Saltò dal margine del tetto verso il palo di metallo, lo afferrò al volo e
vi girò intorno come un acrobata, per rallentare la caduta. Mollò la presa e atterrò agilmente nella
piazzetta. Il demone, sorpreso, si voltò: gli occhi gialli erano come lampeggianti pietre preziose.
Alec ebbe solo il tempo di pensare che Jace, al suo posto, avrebbe sicuramente trovato qualcosa di
intelligente da dire, poi estrasse la spada angelica dalla cintura e infilzò il demone. Con un urlo, il
mostro svanì. La violenza della sua uscita di scena da quella dimensione investì Alec di una pioggia
sottile di cenere.
— Alec! — Magnus lo guardava incredulo. Aveva liquidato i demoni Iblis che ancora restavano e la
piazza adesso era vuota, fatta eccezione per loro due. — Mi hai... mi hai appena salvato la vita?
Alec sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa del tipo: "Ma certo, perché io sono un Cacciatore, ed
è quello che facciamo noi Cacciatori". Oppure: "È il mio mestiere." Jace avrebbe detto qualcosa del
genere. Jace sapeva sempre qual era la cosa giusta da dire. Ma le parole che uscirono dalla bocca di
Alec furono molto diverse e suonarono petulanti alle sue stesse orecchie. — Non mi hai mai
richiamato — disse. — Io ti ho chiamato un sacco di volte e tu non mi hai mai richiamato.
Magnus guardò Alec come se fosse impazzito. — La tua città è sotto assedio — disse. — Le difese
sono state abbattute e le strade pullulano di demoni. E tu vuoi sapere perché non ti ho chiamato?
Alec strinse le labbra in una linea ostinata. — Io voglio sapere perché tu non mi hai richiamato.
Magnus alzò le braccia al cielo, in un gesto di palese esasperazione. Alec notò con interesse che
quando lo fece gli sfuggirono dalle dita alcune scintille, come lucciole che scappassero da un
barattolo di vetro. — Sei un idiota.
— È per questo che non mi hai richiamato? Perché sono un idiota?
— No. — Magnus gli si avvicinò. — Non ti ho chiamato perché sono stanco che tu mi cerchi solo
quando hai bisogno di qualcosa. Sono stanco di vederti innamorato di qualcun altro. Di uno che, tra
parentesi, non ricambierà mai il tuo amore. Non come me.
— Tu mi ami?
— Stupido Nephilim — ribatté Magnus paziente. — Perché mai sarei qui? Perché mai avrei passato
queste ultime settimane a rimettere in sesto i tuoi stupidi amici ogni volta che si fanno male? E a
tirare fuori te da ogni situazione assurda in cui ti cacciavi? Per non parlare dell'aiuto che vi ho dato
per vincere la battaglia contro Valentine. E tutto completamente gratis!
— Non l'avevo mai vista in questo modo — ammise Alec.
— Certo che no. Tu non la vedi mai in nessun modo. — Gli occhi felini di Magnus brillavano di
rabbia. — Io ho settecento anni, Alexander. So quando qualcosa non funziona. E tu invece non vuoi
nemmeno ammettere coi tuoi genitori che io esisto.
Alec lo fissò. — Tu hai settecento anni?
— Be' — si corresse Magnus — sarebbero ottocento, ma non li dimostro. Comunque, non è questo
il punto. Il punto è che...
Alec non potè scoprire quale fosse il punto, perché in quel momento un'altra decina di demoni Iblis
invasero la piazza. Restò a bocca aperta. — Dannazione.
Magnus seguì il suo sguardo. I demoni si stavano aprendo a ventaglio formando un semicerchio
intorno a loro, gli occhi gialli ardenti. — Bel modo di cambiare discorso, Lightwood.
— Sai che ti dico? — Alec sguainò un'altra spada angelica. — Se usciamo vivi di qui, giuro che ti
presento a tutta la famiglia.
Magnus sollevò le mani. Le dita sfavillanti di fiammelle azzurre illuminarono il suo sorriso di
ardente luce azzurrata. — Ci sto.
capitolo 11
TUTTE LE SCHIERE INFERNALI
— Valentine — sussurrò Jace. Fissava la città dall'alto della collina, bianco in volto. Tra gli strati di
fumo, a Clary sembrava quasi di vedere il dedalo di stradine, gremite di figure in fuga, minuscole
formiche che correvano disperatamente in ogni direzione... Ma, guardando meglio, non vide niente
oltre alle nubi dense di vapore nero e c'era un gran puzzo di fuoco e di fumo.
— Credi che sia stato Valentine? — Il fumo era acre nella gola di Clary. — Sembra un incendio.
Magari è scoppiato per caso.
— La Porta Settentrionale è aperta. — Jace le indicò qualcosa che Clary riuscì a malapena a
distinguere, per la distanza e per il fumo che distorceva le immagini. — Non viene mai lasciata
aperta. E le torri antidemoni hanno perso la loro luce. Le difese sono state abbattute, non c'è altra
spiegazione. — Sguainò una spada angelica dalla cintura, stringendola così forte che le nocche gli
diventarono color avorio. — Devo raggiungerli.
Un nodo di paura serrò la gola a Clary. — Simon...
— Avranno sicuramente evacuato la Guardia. Non ti preoccupare, Clary. Probabilmente se la passa
meglio di tutti gli altri. È difficile che i demoni se la prendano con lui. Di solito lasciano in pace i
Nascosti.
— Mi dispiace — sussurrò Clary. — I Lightwood... Alec... Isabelle...
— Jahoel — pronunciò Jace. La spada angelica sfavillò, brillante come la luce del giorno, nella sua
mano sinistra! — Clary, voglio che tu resti qui. Tornerò a prenderti. — La rabbia che allignava
nella sua voce da quando avevano lasciato la tenuta dei Wayland era svaporata. Ora Jace era al
cento per cento soldato. Clary scosse la testa. — No. Voglio venire con te.
— Clary... — Jace s'interruppe, irrigidendosi. Un attimo dopo, anche Clary sentì: era un battere
ritmico, pesante, accompagnato da un altro suono, come il crepitare di un enorme falò. Le ci volle
un po' per decostruire il suono nella propria mente, per scomporlo come un brano musicale nelle sue
singole note. — Sono...
— Lupi mannari — Jace teneva lo sguardo fisso in un punto oltre le spalle di Clary. Seguendone la
direzione, anche Clary li vide: come un torrente che valicava la collina più vicina, come un'ombra
che si allargasse, illuminata qua e là da feroci occhi ardenti. Un branco di lupi. Più di un branco: dovevano
essere centinaia, forse migliaia. Gli ululati e i latrati erano il suono che lei aveva scambiato per un
fuoco crepitante, e il suono cresceva nella notte, aspro e secco.
A Clary si rivoltò lo stomaco. Lei li conosceva, i lupi mannari. Aveva combattuto accanto a loro.
Ma quelli non erano i lupi di Luke, non erano lupi che avevano ricevuto 1'ordine di proteggerla e di
non farle alcun male. Ripensò al terribile potenziale di morte del branco di Luke, quando era
scatenato, e d'improvviso ebbe paura. Accanto a lei, Jace impreco ferocemnte. Non c’era tempo
nemmeno per prendere altre armi. Si strinse Clary al fianco, cingendola col braccio libero, e con
l’altra mano levò alta Jahoel. La luce della lama era accecante. Clary strinse i denti.
E i lupi furono su di loro. Fu come un’onda che si schiantava, un’esplosione assordante, una folata
di vento, quando i primi lupi del branco piombarono verso di loro e balzarono. Occhi
fiammeggianti, fauci spalancate… Jace affondò le dita nel fianco di Clary.
Ma i lupi passarono oltre, di fianco a Jace e Clary, lasciando un buon mezzo metro di spazio intorno
a loro. Clary giro di scatto la testa, incredula, quando due lupi – uno chiaro striato, l’altro enorme,
color grigio acciaio – atterrarono agilmente alle loro spalle e subito ripresero la corsa, senza
nemmeno degnarli di uno sguardo. C’erano lupi tutt’intorno, eppure non uno li toccò. Sfrecciavano
via, un’onda di ombre, con il manto che rifletteva la luce lunare in bagliori d’argento: sembravano
un unico fiume in piena, che piombava su Jace e Clary e poi si apriva intorno a loro come l’acqua
intorno a una roccia.
I due ragazzi avrebbero potuto essere due statue, visto l’interesse che suscitavano nei licantropi, i
quali sfrecciavano via con le fauci spalancate e gli occhi fissi sulla strada da fare.
Passarono tutti. Jace si girò a guardare gli ultimi che correvano a raggiungere i compagni.
Tornò il silenzio. Restavano solo, in lontananza, i rumori fiochi della città.
Jace lascio Clary e abbassò Jahoel — Stai bene?
— Cos’è successo? — sussurrò Clary. — Quei lupi mannari… ci sono passati accanto…
— Stanno correndo verso la città. Verso Alicante. — Jace prese un'altra spada angelica dalla cintura
e la porse a Clary.— Ti servirà.
— Allora non mi lasci più qui?
— Non ha senso. Non saresti al sicuro da nessuna parte. Ma... — esitò — starai attenta?
— Starò attenta — promise Clary. — Che si fa, adesso?
Jace guardò Alicante che bruciava ai loro piedi. — Adesso si corre.
Non era mai facile tenere il passo di Jace e, ora che correva così veloce, era quasi impossibile. Ma
Clary sentiva che in realtà face si stava trattenendo, che non correva a tutta velocità per permetterle
di stargli dietro, e che questo gli costava molto.
La strada si appianava ai piedi della collina ed entrava in un boschetto di alti alberi frondosi che
creavano un effetto tunnel. Quando Clary sbucò dall'altra parte, si ritrovò davanti alla Porta
Settentrionale. Oltre l'arco, vide una gran confusione di fumo e fiamme guizzanti. Jace era lì ad
aspettarla. Brandiva Jahoel in una mano e un'altra spada angelica nell'altra, ma la doppia luce delle
lame si perdeva nel fulgore della città in fiamme alle sue spalle.
— Le guardie - ansimò Clary raggiungendolo. — Perche non sono qui?
— Almeno una è tra quegli alberi — Jace le indicò con il mento la direzione da cui erano venuti. —
Fatta a pezzi. No, non guardare. — Jace la osservò. — Non si tiene così la spada angelica. Fa' così.
— Le mostrò come fare. — E devi darle un nome. Cassiel mi pare un buon nome.
— Cassiel — ripetè Clary, e la luce della lama sfavillò.
Jace la guardò con grande serietà. — Vorrei avere avuto il tempo di insegnarti a usarla. Ovvio che, a
rigor di logica, nessuno con un addestramento scarso come il tuo sarebbe in grado di usare una
spada angelica. Prima la cosa mi sorprendeva, ma adesso che sappiamo che cosa ha fatto
Valentine...
Clary non voleva, assolutamente parlai di questo. — O forse temevi che, con un buon
addestramento, alla fine sarei diventata più brava di te — scherzò.
L'ombra di un sorriso sfiorò l'angolo delle labbra di Jace. — Qualsiasi cosa succeda, Clary — le
disse, guardandola attraverso la luce di Jahoel — resta con me. Hai capito? — La fissò a lungo,
pretendendo con lo sguardo una promessa.
Per qualche ragione, alla mente di Clary affiorò il ricordo dei loro baci sull'erba, alla tenuta dei
Wayland. Sembrava successo un milione di anni prima. Una cosa capitata a qualcun altro.
— Resterò con te.
— Bene. — Jace la liberò dal vincolo del suo sguardo.— Andiamo.
Passarono sotto la porta della città, fianco a fianco. Non appena furono entrati, di colpo Clary fu
consapevole del clamore della battaglia: un muro di suoni fatto di grida umane e ululati disumani,
fragore di vetri infranti e crepitio di fuoco. Sentì il sangue pulsare nelle orecchie.
Il cortile dietro la Porta Settentrionale era deserto. C'erano sagome rannicchiate qua e là
sull'acciottolato, ma Clary cercò di non guardarle. Si chiese come riuscisse sempre a capire se una
persona era morta, anche da lontano, senza bisogno di avvicinarsi. Il corpo di un morto non era
come quello di un uomo svenuto: in qualche modo poteva percepire che qualcosa si era staccato da
lui, che quella scintilla essenziale non c'era più.
Jace attraversò il cortile in fretta, tirandosi dietro Clary, e questo le fece pensare che lui non amava
troppo gli spazi aperti, privi di protezione. Si infilarono in una delle strade che si dipartivano dal
cortile. Altre macerie, vetrine fracassate, mercanzie razziate sparse per la strada. C'era un odore
nell'aria, un odore greve di rifiuti marci. Clary lo conosce, va bene: significava demoni.
— Da questa parte — sibilò Jace. Si infilarono in una strada più stretta. Il piano superiore di una
casa sulla strada era in fiamme, ma il fuoco non sembrava essersi propagato alle case adiacenti.
Clary ripensò alle foto dei bombardamenti su Londra nel 1940, quando la distruzione era piovuta
dal cielo a casaccio.
Alzò lo sguardo: la fortezza sopra la città era avvolta in un cono di fumo nero. — La Guardia.
— Te l'ho detto, l'avranno evacuata... — Jace s'interruppe quando dalla stradina sbucarono in una
via più ampia. C'erano corpi per terra, molti corpi. Alcuni erano di bambini. Jace corse avanti,
seguito da Clary, con passo più esitante. Quando furono più vicini, Clary vide che i bambini erano
tre, ma nessuno, pensò con colpevole sollievo, aveva l'età di Max. Accanto a loro, c'era il cadavere
di un uomo anziano, con le braccia spalancate, come se avesse cercato di proteggerli facendo scudo
col proprio corpo.
Il viso di Jace era duro. — Clary, girati. Lentamente.
Clary ubbidì. Alle sue spalle, vide la vetrina infranta di un negozio che esponeva torte, torri di torte
coperte di glassa. Ora le torte erano sparse per terra, tra i vetri rotti, e i sangue sull'acciottolato,
mescolato alla glassa, colava in lunghi rivoli rosati. Ma non era quello che aveva messo una nota di
allarme nella voce di Jace: qualcosa stava strisciando fuori dalla vetrina, qualcosa di grosso,
informe e viscido, dotato di una doppia fila di denti che correvano su tutta la lunghezza del corpo
oblungo, impiastricciato di glassa e impolverato di schegge di vetro come cristalli di zucchero.
Il demone piombò sulla strada strisciando verso di loro. Qualcosa, nel suo modo di avanzare molle e
grondante, riempì di bile la gola di Clary, che arretrò andando quasi a sbattere addosso a Jace.
— È un demone Behemoth - sentenziò Jace fissando la cosa che si avvicinava strisciando. Mangiano qualsiasi cosa.
— Mangiano anche...
— La gente? Sì — disse Jace. — Stai dietro di me.
Clary arretrò di qualche passo per farsi scudo con lui, con gli occhi fissi sul Behemoth. C'era
qualcosa in quell'essere, più ancora che negli altri demoni, che le provocava una profonda
repulsione. Somigliava a una lumaca cieca, con i denti e senza guscio. E poi, il modo in cui
strisciava: era come se colasse lentamente. Ma almeno non era veloce. Jace non avrebbe avuto
problemi a ucciderlo.
Come spronato dai pensieri di Clary, Jace balzò avanti e affondò la fiammeggiante spada angelica
nella schiena del Behemoth, con un rumore di frutta troppo matura spappolata sotto una scarpa. Il
demone ebbe un guizzo. Sembro fremere e dissolversi, ma si ricompose all'improvviso, a diversi
passi di distanza.
Jace ritirò Jahoel. — Come temevo — È semi-corporeo. Difficile da uccidere.
— Allora non farlo. — Clary lo tiro per la manica — Tanto non è veloce. Andiamocene di qui.
Jace si lasciò tirare con riluttanza. Si voltarono per tornare da dov'erano venuti.
E il demone era lì, davanti a loro, a bloccare la strada.
Sembrava diventato più grande e produceva un suono basso, una specie di brusio di insetti.
— Mi sa che non vuole lasciarci passare - osservò Jace
— Jace...
Ma lui stava già correndo all'attacco. Tracciò con Jahoel
un grande arco nell'aria, con l'intento di decapitare il mostro, ma il demone fremette e si riformò di
nuovo, questa volta alle sue spalle. Il demone s'impennò, mostrando il ventre ondulato da
scarafaggio. Jace ruotò su se stesso e calò di nuovo Jahoel, piantandola al centro della creatura. Un
fluido verde, denso come muco, schizzò intorno alla spada.
Jace arretrò di un passo, il viso trasformato in una smorfia di disgusto. Il Behemoth continuava a
produrre quello strano brusio. Anche il fluido non la smetteva più di sgorgare dal suo corpo, ma non
sembrava fargli male. Ora avanzava deciso verso di loro.
— Jace ! — gridò Clary. — La spada...
Jace guardò Jahoel. Il muco del Behemoth aveva coperto la lama, soffocandone la fiamma. Sotto i
suoi occhi la spada angelica sfrigolò e si spense come un fuoco smorzato dalla sabbia. Jace lasciò
cadere l'arma con un'imprecazione prima che il muco del demone potesse contagiarlo.
Il Behemoth s'impennò di nuovo, pronto a colpire. Jace arretrò. Quello fu il momento di Clary: si
frappose tra lui e il demone, con la spada angelica in pugno. Colpì la creatura sotto la lunga fila di
denti e la lama affondò nella massa corporea con un suono umidiccio e disgustoso.
Clary fece un balzo indietro, sussultando, quando il demone fu scosso da un altro spasmo.
Sembrava che consumasse una certa quantità di energia, per riformarsi dopo che veniva ferito. Se
fossero riusciti a ferirlo molte volte...
Qualcosa si mosse ai margini del campo visivo di Clary. Un guizzo di grigio e bruno, veloce. Non
erano più soli nelli strada. Jace si voltò, sgranando gli occhi — Clary! — gridò. — Dietro di te!
Clary ruotò su se stessa, con Cassiel ben salda e fiammeggiante tra le mani, e in quel momento il
lupo si lanciò contro di lei, i denti scoperti in un ringhio feroce, le fauci spalancate.
Jace gridò qualcosa, Clary non capì, ma si buttò di lato, fuori dalla traiettoria del lupo, che le volò
accanto, gli artigli sguainati, il corpo inarcato... e centrò il suo bersaglio, il Behemoth. Lo
scaraventò a terra e cominciò a dilaniarlo con i denti.
Il demone gridò, o meglio produsse il suono per lui più vicino a un urlo: un sibilo altissimo, come di
aria compressa che sfuggisse da un palloncino forato. Il lupo non gli dava tregua, lo bloccava a
terra, affondava il muso nella sua pelle viscida. Il Behemoth fremeva e si dibatteva, nello sforzo
disperato di riformarsi guarendo dalle ferite, ma il lupo era implacabile. Con gli artigli affondati
nella sua pelle, via a morsi la carne gelatinosa, ignorando gli spruzzi di fluido verde che gli
zampillavano intorno. Il Behemoth cominciò un'ultima disperata serie di spasmi convulsivi,
divincolandosi e battendo i denti seghettati. Alla fine poi scomparve, lasciando sull'acciottolato
soltanto una pozzanghera fumante di fluido verde.
Il lupo emise una specie di grugnito soddisfatto, poi si girò a guardare Jace e Clary con gli occhi
argentei sotto la luce della luna. Jace estrasse un'altra spada angelica dalla cintura e la tenne
sollevata, disegnando una linea di fuoco tra loro due e il lupo.
Il lupo ringhiò e gli si rizzarono i peli sulla schiena.
Clary fermò il braccio di Jace. — No... non farlo!
— È un lupo mannaro, Clary...
— Ha ucciso il demone per noi! Sta dalla nostra parte! — Clary si allontanò da Jace prima che lui
riuscisse a fermarla e si avvicinò al lupo lentamente, protendendo le mani a palmo in su. Gli parlò a
voce bassa, con calma: — Mi dispiace. Ci dispiace. Sappiamo che non vuoi farci del male — Sì
fermò, con le mani ancora tese, mentre il lupo la guardava con occhi inespressivi. — Chi... chi sei?
— gli chiese. Si girò verso Jace e lo guardò in cagnesco. — Puoi mettere via quella cosa?
Jace sembrava su punto di gridarle che non metteva via una spada angelica in presenza di un
pericolo. Ma, prima che aprisse bocca, il lupo fece un altro ringhio basso e si sollevò sulle zampe
posteriori. Le zampe si allungarono, la spina dorsale si raddrizzò, le mascelle si ritirarono. Pochi
secondi dopo, di fronte a loro c'era una ragazza, con una tunica bianca macchiata, i capelli legati m
una miriade di treccine, una cicatrice sulla gola. — Chi sei?! — La ragazza le fece il verso, con
evidente disgusto. — Possibile che non mi hai riconosciuto? Non è che tutti i lupi siano esattamente
uguali. Ah, umani!
Clary tirò un gran sospiro di sollievo. — Maia!
— Esatto io. Pronta a salvarti il fondoschiena, come al solito. — Fece un gran sorriso. Era sporca di
sangue e di pus. Sulla pelliccia da lupo non si notava molto, ma ora le striature nere e rosse erano
ben visibili sulla pelle scura. La ragazza si mise una mano sullo stomaco. — Uno schifo, comunque.
Mi sembra impossibile di essere riuscita a masticare quel demone. Speriamo di non essere allergica.
— Ma che ci fai qui? — le chiese Clary — Cioè non che non siamo contenti di vederti, ma...
— Non lo sapete? — Maia spostò lo sguardo da Jace a Clary, perplessa. — Ci ha portato Luke.
— Luke ? - Clary sgranò gli occhi — Luke è... qui?
Maia annuì. - Si è messo in contatto con il suo branco, con vari altri branchi, con tutti quelli che gli
sono venuti in mente: ci ha detto che dovevamo venire tutti a Idris. Siamo arrivati da un Portale ai
confini di Idris e siamo venuti da lì. Altri branchi hanno aperto un Portale nella foresta e ci hanno
aspettato là. Luke ci ha detto che i Nephilim avrebbero avuto bisogno di aiuto. — La sua voce si
spense. — Voi non ne sapevate nulla?
— No — rispose Jace. — E dubito che il Conclave lo sapesse. Non sono molto entusiasti all'idea di
farsi aiutare dai Nascosti.
Maia si raddrizzò sulla schiena, gli occhi sfavillanti di rabbia. — Se non fosse stato per noi, vi
avrebbero massacrati tutti. Non c'era nessuno a proteggere la città quando siamo arrivati.
— Smettila — intimò Clary a Jace, fulminandolo con un'occhiata. — Ti sono davvero grata,
davvero, per averci salvato la vita, Maia. E anche Jace, anche se è così testardo che s'infilerebbe una
spada angelica in un occhio, piuttosto che ammetterlo. E non dire che lo speri — aggiunse in fretta,
vedendo l'espressione della ragazza — perché non ci sarebbe molto d'aiuto. Ora noi dobbiamo
assolutamente andare a casa dei Lightwood; poi, io devo trovare Luke...
— Lightwood? Credo che siano nella Sala degli Accordi. Stiamo portando tutti lì. Ho visto Alec —
disse Maia — e anche lo stregone, quello con i capelli a spunzoni. Magnus.
— Se c'è Alec, ci devono essere anche gli altri. — Il sollievo sul volto di Jace fece venir voglia a
Clary di mettergli una mano sulla spalla. Ma non lo fece. — Buona idea, portare tutti alla Sala degli
Accordi: è protetta. — Jace infilò la spada angelica nella cintura. — Forza, andiamo!
Clary riconobbe l'interno della Sala degli Accordi nel momento stesso in cui vi mise piede: era il
posto che aveva sognato, il posto dove aveva danzato con Simon e poi con Jace. È qui che volevo
arrivare attraverso il Portale, pensò osservando le pareti bianche e il soffitto con l'enorme
lucernario di vetro da cui si vedeva il cielo notturno. La sala, pur essendo molto ampia, sembrava
più piccola e più spenta rispetto al sogno. La fontana con la sirena e era ancora, al centro della sala:
zampillava, ma era come corrosa, e i gradini che salivano alla vasca erano affollati di persone, molte
delle quali vistosamente bendate. C'erano Shadowhunters dappertutto, gente che camminava in
fretta, fermandosi ogni tanto a studiare il viso di altre persone nella speranza di ritrovare un amico o
un parente. Il pavimento era lercio, sporco di sangue e di fango.
Ma ciò che colpì Clary più di ogni altra cosa fu il silenzio. Fosse stato il momento successivo a un
disastro nella società dei mondani ci sarebbe stata gente che gridava, che strillava, che chiamava
altra gente. Ma la sala era quasi completamente priva di suoni. Le persone stavano sedute in
silenzio, chi con la testa fra le mani, chi con lo sguardo fisso nel vuoto. I bambini si stringevano ai
genitori, ma nessuno piangeva.
Clary notò anche qualcos'altro, entrando nella sala con Jace e Maia: un gruppo di persone piuttosto
trasandate, in
piedi vicino alla fontana, riunite in cerchio. Erano in qualche modo separate dal resto della folla e
quando Maia li vide e sorrise, Clary capì perché — Il mio branco! — esclamò Maia. Corse da loro,
fermandosi solo un attimo per girarsi verso Clary — Sono sicura che Luke è qui, da qualche parte
— le disse, poi svanì dentro il gruppo, che si richiuse intorno a lei. Clary si chiese, per il momento,
che cosa sarebbe successo se avesse seguito Maia nel gruppo. L'avrebbero accolta con piacere,
perché era amica di Luke, o l'avrebbero guardata con sospetto, era una Cacciatrice?
— Non farlo — la mise in guardia Jace, come leggendole nel pensiero. — Non è una buona...
Ma in quel momento sentirono gridare — Jace! — Alec si stava facendo largo a gomitate tra la
folla, col fiato corto. I capelli scuri erano arruffati e c'era del sangue sui suoi vestiti, ma i suoi occhi
erano accesi da un misto di sollievo e rabbia. Prese Jace per il bavero della giacca. — Si può sapere
che diavolo ti è successo?
Jace sembrò offeso. — Come sarebbe, cosa mi è successo?
Alec lo scrollò, poco delicatamente. — Hai detto che andavi a fare una passeggiata! Che razza di
passeggiata dura sei ore?
— Una passeggiata lunga? — suggerì Jace.
— Potrei ucciderti — disse Alec mollando la presa. — E ci sto pensando seriamente.
— Sarebbe un po' un controsenso, no? — disse Jace. Si guardò intorno. — Ma dove sono tutti?
Isabelle, e...
—Isabelle e Max sono dai Penhallow, con Sebastian—lo aggiornò Alec. — Mamma e papà stanno
andando a prenderli. E Aline è qui, con i suoi genitori, ma non vuole parlare. Se l'è vista brutta con
un demone Rezkor, vicino a un canale. Ma Izzy l'ha salvata.
— E Simon? — chiese Clary con ansia. — Hai visto Simon? Dovrebbe essere sceso dalla Guardia
con gli altri.
Alec scosse la testa — No, non l'ho visto. Ma non ho visto nemmeno l'Inquisitore, e neanche il
Console. Probabilmente sarà con uno di loro. Forse si sono fermati da qualche parte o... — Alec non
finì la frase. Un mormorio spazzò la sala. Clary vide il gruppo di licantropi alzare la testa, subito
allertati, come un branco di cani da caccia che fiutasserò la selvaggina. Si giro.
E vide Luke, sfinito e sporco di sangue, entrare dalle porte della Sala degli Accordi.
Clary corse da lui, dimenticando quanto si era arrabbiata quando Luke l'aveva abbandonata a casa
di Amatis, dimenticando quanto fosse furioso con lei perché l'aveva trascinato fin lì, dimenticando
tutto, tranne la gioia di rivederlo. Luke si sorprese vedendosela piombare addosso, poi sorrise,
spalancò le braccia e la sollevò stringendola forte, come faceva quando era piccola. Sapeva di
sangue, di flanella e di fumo. Per un momento Clary chiuse gli occhi, ripensando a come Alec aveva
aggredito Jace quando l'aveva visto entrare nella sala. Perché era così che facevi con la tua famiglia,
quando eri stato in pensiero per qualcuno: lo prendevi di petto, gli stavi addosso, gli dicevi quanto ti
aveva fatto imbestialire, ed era giusto così, perché, per quanto ti potessi arrabbiare, lui era pur
sempre parte di te. E quello che Clary aveva detto a Valentine era vero. Luke era la sua famiglia.
Luke la rimise a terra con una piccola smorfia di dolore — Piano — le disse — Un demone mi ha
beccato alla spalla, giù al Marryweather Bridge. — Le mise le mani sulle spalle, studiandole il
volto. — Ma tu stai bene, vero?
— Be', questa si che è una scena toccante! — commentò una voce gelida.
Clary si girò, con la mano di Luke ancora sulla spalla. Un uomo alto, avvolto in un mantello blu che
gli volteggiava intorno ai piedi, si stava avvicinando a loro. La faccia, sotto il cappuccio del
mantello, era quella di una statua scolpita: zigomi alti, tratti aquilini, palpebre pesanti. — Lucian —
disse l'uomo senza guardare Clary. — Dovevo aspettarmelo che ci fossi tu dietro questa... questa
invasione
— Invasione? — ripetè Luke. E, di colpo, tutto a branco di licantropi fece corpo alle sue spalle.
L'avevano raggiunto così rapidamente e così silenziosamente, che era come se si fossero
materializzati dal nulla. — Non siamo noi quelli che hanno invaso la tua città, Console. È stato
Valentine. Noi stiamo cercando di aiutarvi.
— Il Conclave non ha bisogno di aiuto — replicò il Console — Non da quelli come voi. State
infrangendo la Legge con la vostra sola presenza nella Città di Vetro, difese o non difese. Sono
sicuro che ne siete consapevoli.
— Mi pare chiaro, invece, che il Conclave ha bisogno di aiuto. Se non fossimo arrivati noi, molti
altri dei vostri sarebbero morti. — Luke si guardò intorno: diversi gruppi di Shadowhunters si erano
avvicinati, curiosi di vedere cosa stesse succedendo. Alcuni di loro incrociarono lo sguardo di Luke
con franchezza, altri abbassarono gli occhi, come vergognandosi. Ma nessuno, pensò Clary con un
improvviso impeto di sorpresa, sembrava arrabbiato. — L'ho fatto per dimostrare una cosa,
Malachi.
La voce di Malachi era gelida. — E che cosa volevi dimostrare?
— Che voi avete bisogno di noi — rispose Luke. — Per sconfiggere Valentine, avete bisogno del
nostro aiuto. Non solo dei licantropi, ma di tutti i Nascosti.
— E che cosa mai potrebbero fare i Nascosti, sentiamo, contro Valentine? — chiese Malachi
sprezzante. — Lucian, lo sai bene anche tu. Eri uno di noi, una volta. Abbiamo sempre affrontato
tutti i pericoli da soli e da soli abbiamo il mondo dal male. E ora affronteremo Valentine con le
nostre forze. I Nascosti farebbero meglio a starsene fuori dai piedi. Noi siamo Nephilim. Noi
combattiamo da soli le nostre battaglie.
— Questo no è del tutto vero. — obiettò una voce vellutata, Era Magnus Bane, con un lungo
cappotti scintillante, una varietà di anelli alle orecchie e un'espressione furba. Chissà da dove era
sbucato, pensò Clary. — Voi Nephilim vi siete serviti dell'aiuto degli stregoni in più di un
occasione, in passato, e avete pagato profumatamente il servizio.
Malachi si accigliò. — Non ricordo che il Conclave ti abbia invitato nella Città di Vetro, Magnus
Bane.
—Nessuno mi ha invitato, infatti — confermò Magnus. — Le vostre difese sono cadute.
— Ma davvero? — La voce del Console grondava sarcasmo. — Non me n'ero accorto.
Magnus finse preoccupazione. — Ma è terribile! Qualcuno avrebbe dovuto dirtelo! — Guardò
Luke. — Luke, digli che le difese sono cadute.
Luke era esasperato. — Malachi, per l'amor del cielo, i Nascosti sono forti. Sono tanti. Te lo ripeto:
vi possiamo aiutare.
La voce del Console si alzò. — E io te lo ripeto: non ci serve il vostro aiuto!
— Magnus — Clary gli si avvicinò e gli parlò in un sussurro. Si era radunata una piccola folla per
assistere allo scontro tra Luke e il Console: Clary era sicura che nessuno badasse a lei. — Devo
parlarti, adesso, mentre gli altri sono troppo impegnati a bisticciare.
Magnus le lanciò un'occhiata interrogativa, poi annuì e la trascinò con sé, tagliando la folla come un
apriscatole. Nessuno dei presenti, Cacciatori o lupi mannari che fossero, sembrava voler intralciare
il passo a uno stregone di un metro e ottanta di altezza, con gli occhi da gatto e un sorriso da folle.
Magnus la spinse in un angolo più tranquillo. — Che c'è?
— Ho il libro. — Clary si sfilò il libro dalla tasca del capotto malconcio, lasciando delle ditate
sporche sulla copertina color avorio — Sono stata alla tenuta dei Wayland. Era nella biblioteca,
come avevi detto tu. E... — Le mancò la voce, pensando all'angelo prigioniero. — Non importa. —
Gli offrì il Libro Bianco. — Tieni. Prendilo.
Magnus prelevò il libro dalle sue mani con le lunghe dita. Sfogliò le pagine, sgranando gli occhi. —
È meglio di quello che avevo sentito dire — annunciò gongolando. — Non vedo l'ora di mettermi a
provare questi incantesimi
— Magnus! — La voce tagliente di Clary lo riportò sulla terra. — Prima mia mamma. Me l'hai
promesso.
— E io mantengo le mie promesse. — Lo stregone annuì gravemente, ma c'era qualcosa, nei suoi
occhi, di cui Clary non si fidava completamente.
— C'è dell'altro — aggiunse Clary pensando a Simon. — Prima che tu vada...
— Clary! — Alle sue spalle risuonò una voce forte, ansimante. Clary si girò, sorpresa, e si ritrovò
Sebastian al suo fianco. Era in tenuta da battaglia e gli stava molto bene, pensò Clary, come se fosse
nato per indossarla. Se tutti gli altri erano insanguinati e malconci, lui non aveva nemmeno un
livido, tranne due graffi sulla guancia sinistra, come di artigli. — Ero preoccupato per te. Sono
andato a casa di Amatis venendo qui, ma non c'eri. E lei mi ha detto che non ti vedeva da...
— Be', sto bene. — Clary spostò lo sguardo da Sebastian a Magnus, che teneva il Libro Bianco
stretto al petto. Le sopracciglia ben disegnate di Sebastian si inarcarono. — E tu? — gli chiese. —
La guancia... — Clary gli toccò le ferite. I graffi stillavano ancora un po' di sangue.
Sebastian alzò le spalle, allontanandole gentilmente la mano. — Una demonessa mi ha aggredito,
vicino alla casa dei Penhallow. Ma sto bene. Qui che succede?
— Niente. Stavo parlando con Ma... Ragnor... — Clary si corresse in fretta, rendendosi conto con
orrore che Sebastian non aveva idea di chi fosse Magnus.
— Maragnor? — Sebastian inarcò le sopracciglia. — Ah, okay. — Guardò con curiosità il Libro
Bianco. Clary avrebbe preferito che Magnus lo mettesse via. Così come lo teneva, il titolo dorato
era perfettamente visibile. — Quello cos'è?
Magnus lo studiò per un momento, valutandolo coi suoi occhi da gatto.— Un libro di incantesimi
— disse alla fine. — Niente che possa interessare a un Cacciatore.
—A dire la verità, mia zia colleziona libri di incantesimi. Posso vedere? — Sebastian allungò la
mano ma, prima che Magnus potesse rifiutare, Clary si sentì chiamare di nuovo, e un attimo dopo
Jace e Alec calarono su di loro, palesemente poco entusiasti di vedere Sebastian.
— Mi pareva di averti detto di restare con Max e Isabelle! — lo aggredì Alec. — Li hai lasciati da
soli?
Lentamente, gli occhi di Sebastian si spostarono da Magnus ad Alec. — I tuoi genitori sono tornati,
esattamente come avevi previsto. — La sua voce era gelida. — Mi hanno mandato avanti per farvi
sapere che stanno tutti bene, compresi Izzy e Max. Sono per strada.
— Bene — ribattè Jace, in tono carico di sarcasmo. — Grazie mille per averci comunicato la notizia
nell'attimo stesso in cui sei arrivato.
— Non ho visto nessuno di voi due, nell'attimo in cui sono arrivato — replicò Sebastian. — Ho
visto Clary. — Perché stavi cercando lei.
— Perché avevo bisogno di parlare con lei. Da solo. — Sebastian incrociò lo sguardo di Clary con
un'intensità che la fece esitare. Avrebbe voluto dirgli di non guardarla così, in presenza di Jace, ma
sarebbe stata un'osservazione irragionevole. E poi, forse Sebastian aveva davvero qualcosa di
importante da dirle. — Clary?
Lei annuì. — Va bene. Un secondo solo — gli disse. Vide un mutamento repentino nell'espressione
di Jace: non si accigliò, ma il suo viso diventò perfettamente immobile. — Torno subito —
aggiunse, ma Jace non guardava lei. Stava guardando Sebastian.
Sebastian la prese per un polso e la trascinò via dagli altri, portandola dove la folla era più fitta. Lei
si voltò indietro: i ragazzi la stavano seguendo con lo sguardo, persino Magnus. Clary lo vide
scuotere la testa una volta, in modo appena percettibile.
Clary piantò i piedi. — Sebastian. Fermati. Cosa c'è? Che cos'hai da dirmi?
Lui si girò verso di lei, senza lasciarle il polso. — Pensavo che potevamo andare fuori — le disse.
— Per parlare in privato.
— No. Io voglio restare qui - replicò Clary, e senti la propria voce tremare appena, come se non ne
fosse sicura. Invece era sicura. Si liberò il polso con uno strattone. — Ma che ti prende?
— Quel libro — le disse Sebastian. — Quello che Fell aveva in mano, il Libro Bianco. Tu sai dove
l'ha trovato?
— Era di questo che volevi parlarmi?
— È un libro di incantesimi straordinariamente potenti — le spiegò. — Un libro che... be', in molti
lo stanno cercando da tanto tempo.
Clary sbuffò, esasperata. — E va bene, Sebastian. A questo punto te lo devo proprio dire — sbottò.
— Quello non è Ragnor Fell. È Magnus Bane.
— Quello è Magnus Bane? - Sebastian si girò di scatto a guardarlo, poi tornò a fissare Clary con
uno sguardo accusatorio. — E tu l'hai sempre saputo, vero? Tu conoscevi già Magnus Bane.
— Si. Mi dispiace. Mi ha chiesto lui di non dirtelo. Ed è l'unico che può aiutarmi a salvare mia
madre. Per questo gli ho dato il Libro Bianco. C'è un incantesimo, la dentro, che la potrebbe aiutare.
Qualcosa brillò in fondo agli occhi di Sebastian e Clary ebbe la stessa sensazione che aveva provato
dopo che lui l'aveva baciata: un'improvvisa e dolorosa consapevolezza che ci fosse qualcosa di
profondamente sbagliato, come se avesse fatto un passo avanti aspettandosi di trovare la terraferma
sotto i piedi e invece fosse precipitata nel vuoto. La mano di Sebastian scattò e le afferrò il polso. —
Tu hai dato il libro, il Libro Bianco, a uno stregone? A un immondo Nascosto?
Clary si immobilizzò. — Non posso credere che tu abbia detto una cosa del genere. — Abbassò lo
sguardo sulla mano di Sebastian stretta intorno al suo polso. — Magnus è mio amico.
Sebastian allentò appena la stretta. — Mi dispiace — si scusò. — Non avrei dovuto dirlo. È solo
che... Quanto lo conosci, Magnus Bane?
— Più di quanto conosco te — rispose Clary con freddezza. Lanciò un'occhiata verso l'angolo in cui
aveva lascito Magnus con Jace e Alec e trasalì per la sorpresa: Magnus non c'era più. Jace e Alec
erano da soli, con gli occhi puntati su lei e Sebastian. Clary percepiva la disapprovazione di Jace,
come il calore che viene da un forno aperto.
Sebastian seguì il suo sguardo e i suoi occhi s'incupirono. — Lo conosci abbastanza da sapere dov'è
andato adesso con il tuo libro?
— Non è mio. L'ho dato a lui — ribatté Clary. Aveva una sensazione di freddo allo stomaco, al
pensiero di quell'ombra negli occhi di Magnus. — E non vedo come la cosa ti possa riguardare, tra
l'altro. Senti, apprezzo molto che tu mi abbia aiutato a trovare Ragnor Fell, ieri, ma adesso mi stai
facendo paura. Voglio tornare dai miei amici.
Clary fece per girarsi, ma Sebastian la bloccò.—Ti chiedo scusa. Non avrei dovuto dire quello che
ho detto. È solo che... ci sono cose che tu non sai.
— Allora dimmele.
— Vieni fuori con me. Ti dirò tutto. — Il suo tono era ansioso, preoccupato. — Clary, per favore.
Lei scosse la testa. — Io devo restare qui. Devo aspettare Simon. — In parte era vero e in parte era
una scusa. — Alec mi ha detto che porteranno qui anche i prigionieri.
Sebastian stava scuotendo la testa. — Clary, nessuno te l'ha detto? I prigionieri sono stati
abbandonati alla Guardia. L'ho sentito dire a Malachi. Quando la città è stata attaccata hanno
evacuato la Guardia, ma non hanno portato fuori i prigionieri. Malachi ha detto che, tanto, erano
entrambi in combutta con Valentine e che era troppo rischioso farli uscire.
La testa di Clary sembrava piena di nebbia: si sentiva stordita, con un filo di nausea. — Non può
essere vero.
— È vero — ripeté Sebastian — Te lo giuro. — La sua mano si strinse di nuovo intorno al suo
polso. Clary vacilLò. — Ti ci porto io, alla Guardia. Ti posso aiutare a tirarlo fuori. Ma devi
promettermi che... — Lei non deve prometterti proprio niente — intervenne Jace. — Lasciala
andare, Sebastian.
Il ragazzo, colto alla sprovvista, allentò la presa. Clary ritrasse la mano e si girò versò Jace e Alee,
che la guardavano con aria seria. La mano di Jace era appoggiata sull'elsa della spada angelica che
aveva alla cintura. — Clary può fare quello che vuole — precisò Sebastian. Non sembrava
arrabbiato, ma aveva una strana fissità sul volto, che in qualche modo era peggio. — E in questo
momento, Clary vuole venire con me a salvare il suo amico. L'amico che voi avete fatto mettere in
prigione.
Alec sbiancò a quelle parole, ma Jace si limitò a scuotere la testa. — Tu non mi piaci per niente —
concluse, pensoso. — So che piaci a tutti quanti, Sebastian, ma a me no. Forse è perché ti sforzi così
tanto di piacere a tutti. Forse sono solo un bastian contrario. Ma tu non mi piaci, e non mi piace
come tenevi mia sorella. Se Clary vuole andare alla Guardia a cercare Simon, bene. Ci andrà con
noi. Non con te.
La fissità sul volto di Sebastian non cambiò. — Io credo che debba essere una scelta sua — incalzò.
— Non ti pare?
Entrambi guardarono Clary. Lei guardò alle loro spalle, verso Luke che ancora discuteva con
Malachi. — Voglio andare con mio fratello — disse. Qualcosa guizzò in fondo agli occhi di
Sebastian, un lampo che sparì troppo in fretta perché Clary potesse riconoscerlo. Ma sentì un
brivido sulla nuca, come se l'avesse toccata una mano gelata. — Ovvio — disse Sebastian,
facendosi da parte.
Fu Alec a muoversi per primo, incitando Jace a fare lo stesso. Non erano ancora arrivati alle porte
della sala, quando Clary si accorse che il polso le faceva male, le bruciava come per una scottatura.
Lo guardò, aspettandosi di vedere un segno rosso dove Sebastian l'aveva stretta, ma non c'era
niente. Solo una traccia di sangue sulla manica, dove aveva toccato i graffi sulla guancia di
Sebastian. Clary aggrottò la fronte, tirò giù la manica sul polso che bruciava, e si affrettò a
raggiungere gli altri.
capitolo 12
DE PROFUNDIS
Le mani di Simon erano nere di sangue. Aveva cercato di svellere le sbarre della finestrella e della
cella, ma il contatto prolungato gli incideva marchi a fuoco sul palmo delle mani. Alla fine era
crollato a terra, esausto e stordito, ed era rimasto a guardarsi le ferite sulle mani che guarivano
rapidamente, le lesioni che si chiudevano, e la pelle annerita che si sfogliava, come in un video in
avanzamento veloce.
Dall'altra parte del muro, Samuel stava pregando. — Se ci piomberà addosso una sciagura, una
spada punitrice, una peste o una carestia, noi ci presenteremo a te in questo tempio, poiché il tuo
nome è in questo tempio, e grideremo a te dalla nostra sciagura e tu ci ascolterai e ci aiuterai.
Simon non poteva pregare. Aveva già provato, in passato, ma il nome di Dio gli bruciava la bocca e
gli soffocava la gola. Si chiese perché riusciva a pensare alle parole, ma non a pronunciarle. E
perché poteva stare in pieno sole senza morire, ma non dire le sue ultime preghiere.
Il fumo aveva iniziato ad aleggiare nel corridoio come un fantasma deciso a raggiungerli. Sentiva
l'odore di bruciato e il crepitio del fuoco che si espandeva, ma era stranamente distaccato, lontano
da tutto. Era strano essere diventato un vampiro, ricevendo in dono quella che si sarebbe potuta
definire una vita eterna, per poi morire comunque a sedici anni.
— Simon! — La voce era fioca, ma il suo udito la colse sopra il crepitio delle fiamme divoratrici. Il
fumo nel corridoio aveva preannunciato l'arrivo del calore, e adesso il calore era arrivato e premeva
contro di lui come un muro. — Simon!
Era la voce di Clary. L'avrebbe riconosciuta ovunque. Si chiese se fosse la sua mente a evocarla,
una memoria sensoriale di ciò che aveva amato di più in vita, per aiutarlo ad affrontare l'agonia
prima della morte.
— Simon, pezzo di cretino! Sono qui! Alla finestra!
Simon balzò in piedi. Difficile che la sua mente evocasse una cosa del genere! Nel fumo sempre più
fitto, vide qualcosa di bianco muoversi contro l'inferriata della finestra. Si avvicinò e le macchie
bianche diventarono mani aggrappate all'inferriata. Saltò sulla branda, urlando sopra il rumore del
fuoco. — Clary?
— Oh, grazie al cielo. — Una delle mani si allungò verso l'interno e gli strinse una spalla. — Ora ti
tiriamo fuori di qui.
— E come? — chiese Simon. Sentì uno scalpiccio. Le mani di Clary svanirono, rimpiazzate da altre
mani: più grandi, indubbiamente maschili, dalle nocche scorticate e dalle dita sottili da pianista.
— Aspetta. — La voce di Jace era calma, sicura, come se stesse chiacchierando a una festa invece
che dalle sbarre di una prigione che stava andando a fuoco. — Forse è meglio se stai indietro.
Reso obbediente dalla sorpresa, Simon si spostò. Le mani di Jace si strinsero sull'inferriata e le
nocche diventarono bianche in modo preoccupante. Ci fu un gemito, uno schianto, e il riquadro di
sbarre si divelse di colpo dalla pietra e piombò fragorosamente sul pavimento della cella, accanto
alla branda. Una nuvola di soffocante polvere bianca si riversò nella cella.
Il viso di Jace comparve nel riquadro vuoto della finestrella. — Simon. Vieni fuori. — Gli tese le
mani.
Simon si allungò e le afferrò. Si sentì tirar su di peso, poi si aggrappò ai bordi della finestrella, si
issò e sgusciò fuori dall'angusto riquadro come un serpente che uscisse dalla tana. Un attimo dopo
era riverso sull'erba umida, con un cerchio di facce preoccupate sopra di sé. Jace, Clary, Alec. Tutti
chini su di lui.
— Sei messo proprio male, vampiro — commentò Jace. — Che cosa ti è successo alle mani?
Simon si mise a sedere. Le ferite erano guarite, ma la pelle era ancora nera dove aveva stretto le
sbarre. Però non riuscì a rispondere, perché Clary lo strinse in un abbraccio improvviso e feroce.
— Simon — sussurrò. — Non ci posso credere. Non sapevo nemmeno che tu fossi qui. Fino a ieri
sera credevo che fossi a New York.
— Be' — rispose Simon — se è per questo nemmeno io sapevo che tu fossi qui. — Lanciò
un'occhiataccia a Jace, alle spalle di Clary. — Anzi, mi pareva che mi avessero chiaramente detto il
contrario.
— Io non ho mai detto il contrario — precisò Jace. — È solo che non ti ho corretto quando sei,
diciamo, caduto in errore. In ogni caso, ti ho appena salvato da una morte sul rogo, quindi
immagino che tu non abbia alcun diritto di prendertela con me. - Una morte sul rogo. Simon si
staccò da Clary e si guardò intorno. Erano in un giardino quadrato, circondato su due dalle mura
della fortezza e sugli altri due lati da un bosco fitto. Alcuni degli alberi erano stati tagliati per creare
il sentiero sassoso che scendeva dalla collina fino in città: era costeggiato da torce di stregaluce, ma
solo alcune erano accese e mandavano una luce fioca e discontinua. Simon alzò lo sguardo verso la
Guardia. Vista da quell'angolatura, era difficile credere che ci fosse un incendio: il fumo nero
macchiava il cielo sopra di loro e le luci di alcune finestre erano innaturalmente splendenti, ma i
muri di pietra nascondevano bene il proprio segreto.
— Samuel!— esclamò. — Dobbiamo tirar fuori anche Samuel.
Clary lo guardò, sconcertata. — Chi?
— Non ero l'unico, là dentro. C'era anche Samuel. Era nella cella accanto alla mia.
— Il mucchio di stracci che ho visto dalla finestrella? — ricordò Jace.
— Sì. È un po' strano, ma è una brava persona. Non possiamo abbandonarlo. — Simon si rialzò in
piedi. — Samuel? Samuel!
Non ci fu risposta. Simon corse all'inferriata della finestrella bassa accanto a quella dalla quale era
appena sgusciato. Dalle sbarre si vedevano solo volute di fumo. — Samuel! Ci sei?
Qualcosa si mosse nel fumo, qualcosa di scuro e ingobbito. La voce di Samuel, arrochita dal fumo,
si levò aspra. — Lasciatemi stare! Andate via!
— Samuel! Morirai, lì dentro! — Simon strattonò l'inferriata. Non successe nulla.
— No. Lasciatemi stare! Voglio restare qui!
Simon si guardò intorno disperato. Un attimo dopo Jace era accanto a lui. — Spostati — gli intimò.
Quando Simon si fece da parte, Jace sferrò un calcio potente. L'inferriata fu divelta con violenza e
precipitò nella cella. Samuel lanciò un grido roco.
— Samuel! Stai bene? — Davanti agli occhi di Simon prese forma l'immagine del vecchio con la
testa ferita dall'inferriata.
La voce di Samuel diventò un grido acuto. — ANDATE VIA!
Simon guardò Jace. — Credo che dica sul serio.
Jace scosse la testa bionda, esasperato. — Dovevi proprio fare amicizia con un carcerato demente,
eh? Non ti bastava contare le pietre o addestrare un topo, come fanno tutti i prigionieri? — Senza
aspettare risposta, Jace si abbassò e si calò dalla finestrella.
— Jace! — esclamò Clary, accorrendo con Alee. Ma Jace si era già lasciato cadere all'interno della
cella. Clary lanciò a Simon un'occhiata furente. — Perché gliel'hai permesso?
— Be', mica poteva lasciarlo lì a morire — commentò Alec inaspettatamente, pur con una certa
ansia nella voce. — È di Jace che stiamo parlando, dopotutto.
S'interruppe, vedendo apparire due mani nel fumo. Alec ne prese una, Simon l'altra, e insieme
issarono Samuel come un sacco di patate e lo depositarono sul prato. Un attimo dopo, Simon e
Clary presero le mani di Jace e tirarono fuori anche lui, che però non era un peso morto e imprecò
quando gli fecero sbattere la testa contro la cornice della finestrella. Jace si liberò e si arrangiò da
solo a strisciare sull'erba, dove crollò sulla schiena. — Ahi — disse, guardando il cielo. — Credo di
essermi stirato qualcosa. — Si mise a sedere e guardò Samuel. — Lui sta bene?
Samuel era seduto sull'erba, ingobbito, con le mani sulla faccia. Dondolava avanti e indietro, muto.
— Non molto, credo — disse Alec. Si avvicinò a toccare la spalla del vecchio, che si scostò di
scatto, quasi rovesciandosi sull'erba. — Lasciami stare — disse con voce spezzata. — Ti prego,
Alec. Lasciami stare.
Alee si immobilizzò. — Cos'hai detto?
— Ha detto di lasciarlo stare — disse Simon, ma Alec non stava guardando lui, sembrava
addirittura che non l'avesse nemmeno sentito. Stava guardando Jace che, improvvisamente molto
pallido, si stava rialzando in piedi.
— Samuel — disse Alec. Il suo tono era stranamente duro. — Togliti le mani dalla faccia.
— No. — Samuel abbassò il mento. Le spalle erano scosse da un tremito. — No. Ti prego. No.
— Alec! — protestò Simon. — Ma non vedi che non sta bene?
Clary gli tirò la manica. — Simon, qui c'è qualcosa che non quadra.
Gli occhi di Clary erano fissi su Jace (il che succedeva spesso) quando lui si avvicinò alla figura
accovacciata a terra. Le dita di Jace sanguinavano, perché si erano scorticate contro il bordo della
finestrella, e quando le avvicinò ai capelli dell'uomo per scostarglieli dagli occhi, lasciarono una
traccia di sangue sulla sua guancia. L'uomo sembrò non accorgersene nemmeno. Jace aveva gli
occhi sbarrati e la bocca era una linea secca, furiosa. — Shadowhunter — disse in tono tagliente. —
Mostraci il tuo volto.
Samuel esitò, poi lasciò cadere le mani. Simon non lo aveva mai visto in faccia e non aveva mai
pensato a quanto potesse essere vecchio e scarno. Il volto era coperto da un fitto cespuglio di barba
grigia, gli occhi acquosi erano infossati nelle orbite scure, le guance solcate da rughe. Ma,
nonostante tutto, gli era stranamente famigliare.
Le labbra di Alec si mossero, ma non ne uscì alcun suono. Fu Jace a parlare.
— Hodge — disse.
— Hodge? — ripetè Simon, confuso. — Ma non può essere. Hodge era... e Samuel... non può...
— Be', evidentemente è nello stile di Hodge — commentò Alec amaramente. — Farti credere di
essere ciò che non è.
— Ma diceva... — cominciò Simon. Clary gli strinse un braccio e Simon lasciò morire le parole
sulle labbra. Bastava l'espressione di Hodge: non era senso di colpa, in realtà, e nemmeno l'orrore di
essere stato smascherato, ma un dolore terribile, più profondo.
— Jace — disse Hodge a voce bassissima. — Alec... Mi dispiace tanto.
Jace allora si mosse come in combattimento, come la luce del sole sull'acqua. In un lampo fu
davanti a Hodge con un coltello in mano, la punta affilata alla sua gola. Il bagliore dell'incendio
guizzò sulla lama. — Io non voglio le tue scuse. Voglio un motivo per non ucciderti qui, all'istante.
— Jace! — Alec si allarmò. — Jace, aspetta.
Ci fu un boato improvviso e parte del tetto della Guardia, esplose in alte lingue di fuoco rossastre. Il
calore vibrava nell'aria e illuminava la notte. Clary vide ogni filo d'erba del prato, ogni segno sul
viso sporco e affilato di Hodge.
— No — disse Jace. Il vuoto della sua espressione era come una maschera e ne evocò un'altra nella
mente di Clary: Valentine. — Tu sapevi cosa mi aveva fatto mio padre, vero? Tu conoscevi tutti i
suoi sporchi segreti.
Alee spostava lo sguardo dall'uno all'altro, senza capire.
— Ma di cosa stai parlando? Che sta succedendo?
La faccia di Hodge si increspò. — Jonathan...
— Tu l'hai sempre saputo e non hai mai detto niente. Tutti quegli anni all'Istituto, e non hai mai
detto niente.
La bocca di Hodge si piegò. — Non... non ne ero sicuro
— sussurrò. — Quando non vedi più un bambino da quando era in fasce... Non ero sicuro di chi
fossi, men che meno di che cosa fossi.
— Jace? — Alec spostava lo sguardo dal suo migliore amico al suo tutore, gli occhi azzurri
sgomenti, ma nessuno dei due prestava attenzione a nient'altro. Hodge sembrava un uomo
intrappolato in una morsa che gli si stringeva intorno, le mani si torcevano, come per un dolore, gli
occhi guizzavano. Clary ripensò all'uomo elegantemente vestito nella biblioteca foderata di libri che
le aveva offerto del tè e dato consigli amichevoli. Sembravano passati mille anni.
— Non ti credo — ribatté Jace. — Tu sapevi che Valentine non era morto. Sicuramente lui te
l'aveva detto.
— Lui non mi ha mai detto niente — disse Hodge, senza fiato. — Quando i Lightwood mi
informarono che avrebbero accolto nella loro casa il figlio di Michael Wayland, non avevo notizie
di Valentine dai tempi della Rivolta. Credevo che mi avesse dimenticato. Avevo persino pregato che
fosse morto. Poi, la notte prima del tuo arrivo, Hugo mi portò un messaggio di Valentine. «Il
ragazzo è mio figlio». Solo questo diceva. — Hodge prese fiato. — Non sapevo se credergli o
meno. Pensavo che avrei capito. Credevo che l'avrei capito solo guardandoti. Ma non c'era
nulla, nulla, a darmi la certezza. E pensai che fosse un espediente di Valentine. Ma che tipo di
espediente? Per ottenere cosa? Tu eri all'oscuro di tutto, questo era chiaro. Gli scopi di Valentine...
— Tu avresti dovuto dirmi che cos'ero — disse Jace d'un fiato, come se un pugno gli avesse tirato
fuori le parole. — Avrei potuto fare qualcosa. Magari uccidermi.
Hodge sollevò la testa e guardò Jace dietro la cortina dei capelli sporchi e incollati. — Non ne ero
sicuro — ripetè, quasi parlando a se stesso. — E ai tempi in cui mi interrogavo, pensavo che forse
l'educazione che avresti ricevuto potesse contare più del sangue, pensavo che ti si potesse insegnare
a...
— A fare cosa? A non essere un mostro? — La voce di Jace tremava, ma il coltello nella sua mano
era ben saldo. — Tu dovresti saperlo. Lui ha fatto di te un codardo, un verme, non è vero? E tu non
eri un bambino inerme, quando l'ha fatto. Avresti potuto combattere, ribellarti.
Hodge abbassò gli occhi. — Ho cercato di fare del mio meglio, con te. — disse. Ma anche alle
orecchie di Clary quelle parole suonarono deboli.
— Finché Valentine non è tornato — concluse Jace. — E allora hai fatto tutto quello che ti ha
chiesto: mi hai consegnato a lui, come se io fossi un cane di sua proprietà che ti aveva affidato per
qualche anno.
— E poi te ne sei andato — intervenne Alec. — Ci hai abbandonato tutti. Ma davvero credevi di
poterti nascondere qui, ad Alicante?
— Non sono venuto qui per nascondermi — disse Hodge. La sua voce era priva di vita. — Sono
venuto qui per fermare Valentine.
— Non ti aspetterai che ti crediamo! — La voce di Alee adesso era rabbiosa. — Tu sei sempre stato
dalla parte di Valentine. Avresti potuto scegliere di voltargli le spalle.
— Non avrei mai potuto farlo! — sbottò Hodge, alzando la voce. — Ai tuoi genitori fu data la
possibilità di ricostruirsi una nuova vita. A me no! Sono rimasto intrappolato nell'Istituto per
quindici anni...
— L'Istituto era casa nostra! — replicò Alec. — Era davvero così terribile vivere con noi, far parte
della nostra famiglia?
— Non era per voi. — La voce di Hodge era stremata. — Io volevo bene a voi bambini. Ma eravate
dei bambini. E non esiste posto da cui sia vietato uscire che possa essere considerato una casa. Mi
capitava di passare intere settimane senza parlare con un adulto. Nessuno Shadowhunter si fidava di
me. Nemmeno i vostri genitori mi accettavano fino in fondo: mi tolleravano perché non avevano
altra scelta. Non ho mai potuto sposarmi. Non ho mai potuto avere figli. Una vita mia. E sapevo
che, alla fine, voi bambini sareste cresciuti e ve ne sareste andati, e a quel punto non avrei più avuto
nemmeno voi. Vivevo nel terrore, che quello possa essere considerato vivere.
— Non puoi pretendere che siamo dispiaciuti per te — osservò Jace. — Non dopo quello che hai
fatto. E di che diavolo avevi paura, se passavi tutta la vita in biblioteca? Degli acari della polvere?
Eravamo noi, quelli che uscivano a combattere contro i demoni!
— Aveva paura di Valentine — disse Simon. — Non capisci?
Jace gli lanciò un'occhiata velenosa. — Zitto tu, vampiro. Questa faccenda non ti riguarda.
— Non proprio di Valentine — precisò Hodge, guardando Simon forse per la prima volta da quando
era stato trascinato fuori dalla cella. C'era qualcosa, in quello sguardo, che sorprese Clary: quasi una
sfumatura di affetto, perso in una profonda stanchezza. — Piuttosto, della mia debolezza verso
Valentine. Sapevo che un giorno sarebbe tornato. Sapevo che avrebbe tentato di nuovo di arrivare al
potere, di controllare il Conclave. E sapevo che cosa poteva offrirmi. La libertà dalla mia
maledizione. Una vita. Un posto nel mondo. Avrei potuto essere di nuovo un Cacciatore, nel suo
mondo. Non avrei mai più potuto esserlo, in questo. — C'era un nudo desiderio, nella sua voce, che
era doloroso da sentire. — E sapevo che sarei stato troppo debole per rifiutare, se me l'avesse
offerto.
— E guarda che vita hai fatto — sibilò Jace. — Marcire nelle celle della Guardia. Ne è valsa la
pena, di tradirci?
— Sai già la risposta. — Hodge sembrava esausto. — Valentine mi ha liberato dalla maledizione.
Aveva giurato che l'avrebbe fatto e l'ha fatto. Pensavo che mi avrebbe riportato nel Circolo, o in
quel che ne restava. Ma non l'ha fatto. Nemmeno lui mi voleva. Ho capito che non ci sarebbe stato
un posto per me in questo suo nuovo mondo. E ho capito che avevo venduto tutto ciò che avevo per
una bugia. — Si guardò le mani sporche, chiuse a pugno. — Mi restava solo una cosa: un'unica
possibilità per non fare della mia vita un assoluto spreco. Quando ho saputo che Valentine aveva
ucciso i Fratelli Silenti e che aveva la Spada Mortale, ho capito che si sarebbe messo alla ricerca
dello Specchio Mortale. Sapevo che gli servivano tutti e tre gli Strumenti. E sapevo che lo Specchio
Mortale è qui a Idris.
— Un momento! — Alec lo interruppe con un gesto della mano. — Lo Specchio Mortale? Vuoi dire
che tu sai dove si trova? E chi ce l'ha?
— Non ce l'ha nessuno — disse Hodge. — Nessuno può possedere lo Specchio Mortale. Nessun
Nephilim, nessun Nascosto.
— Sei davvero impazzito, in quella cella — commentò Jace, indicando con il mento le finestre
bruciate delle prigioni. — È così?
— Jace. — Clary guardava ansiosamente verso la Guardia, il tetto coronato da un intrico spinoso di
fiamme rosse e oro. — L'incendio si sta estendendo. Dobbiamo andarcene di qui. Possiamo
continuare a parlare in città.
— Sono rimasto rinchiuso nell'Istituto per quindici anni
— proseguì Hodge, come se Clary non avesse aperto bocca.
— Non ho mai potuto mettere piede fuori di là. Ho passato la vita in biblioteca, cercando un modo
per cancellare la maledizione che il Conclave aveva scagliato su di me. Ho scoperto che solo uno
Strumento Mortale avrebbe potuto annullarla. Ho letto libri su libri che raccontavano la mitologia
dell'Angelo: come fosse emerso dalle acque del lago portando con sé gli Strumenti Mortali, come li
avesse consegnati a Jonathan Shadowhunter, il primo Nephilim, e come gli Strumenti Mortali
fossero tre: la Coppa, la Spada, lo Specchio.
— La sappiamo già, questa storia — l'interruppe Jace esasperato. — Ce l'hai insegnata tu.
— Tu credi di sapere tutto, ma non è così. Studiando e ristudiando le diverse versioni degli antichi
miti, continuavo a incontrare la stessa illustrazione, la stessa immagine, quella che conosciamo tutti:
l'Angelo che sorge dalle acque del lago con la Spada in una mano e la Coppa nell'altra. E non
riuscivo a capire perché lo Specchio non venisse mai raffigurato. Poi, finalmente, ho capito. Lo
Specchio è il lago. Il lago è lo Specchio. Sono la stessa cosa.
Lentamente Jace abbassò il coltello. — Il lago Lyn?
Clary ripensò al lago come uno specchio che le veniva incontro, all'acqua che si frantumava
all'impatto. — Io sono caduta nel lago, quando sono arrivata qui. In effetti c'è qualcosa di strano.
Luke dice che ha strani poteri e che il Popolo Fatato lo chiama lo Specchio dei Sogni.
— Appunto — confermò Hodge animandosi. — E ho capito che il Conclave non ne era a
conoscenza, che questa informazione si era persa nel tempo. Nemmeno Valentine lo sapeva.
Venne interrotto da un boato fragoroso: una delle torri della Guardia stava crollando. Un fuoco
d'artificio di scintille rosse e luccicanti esplose nel cielo.
— Jace — disse Alec, sollevando la testa, allarmato. — Jace, dobbiamo andarcene di qui. — Poi si
rivolse a Hodge e lo tirò su per un braccio. — Alzati. Puoi dire al Conclave quello che hai detto a
noi.
Hodge si rialzò in piedi tremando. Chissà come doveva essere, pensò Clary con una fitta di
involontaria pietà, vivere tutta la vita nella vergogna, non solo per quello che hai fatto, ma anche per
quello che stai facendo e per quello che sai che saresti pronto a rifare. Hodge aveva rinunciato
molto tempo prima a cercare di vivere una vita migliore o una vita diversa: desiderava solo poter
smettere di avere paura e, per questo, era sempre vissuto nella paura.
— Vieni. — Alec, stringendo il braccio di Hodge, lo sospinse avanti. Ma Jace si parò davanti a loro,
bloccandoli.
— Se Valentine arriva allo Specchio Mortale — disse — che cosa succederà?
— Jace — intervenne Alec, senza lasciare Hodge. — Non ora.
— Se Hodge lo dirà al Conclave, noi non lo sapremo — disse Jace. — Ci considerano ancora
bambini. Ma Hodge deve farcelo sapere. — Si rivolse al suo vecchio tutore. — Hai detto che hai
capito di dover fermare Valentine. Per impedirgli di fare cosa? Che potere gli può dare lo Specchio?
Hodge scosse la testa. — Non posso...
— Niente bugie. — Il coltello brillava nella mano di Jace, stretta sull'impugnatura. — Perché per
ogni bugia che dirai, potrei tagliarti un dito. O forse due.
Hodge si ritrasse, gli occhi colmi di vera paura. Alec sembrava impressionato. — Jace. No. È quello
che farebbe tuo padre. Non è da te.
— Alec — replicò Jace. Non lo guardava, ma il suo tono era come il tocco di una mano gelida. —
Tu non puoi saperlo, come sono e cosa è da me.
Gli occhi di Alec incrociarono quelli di Clary. Alec non capisce perché Jace si comporta così, pensò
la ragazza. Lui non sa. E fece un passo avanti. — Jace, Alee ha ragione: portiamo Hodge alla Sala
degli Accordi, dove potrà dichiarare davanti al Conclave ciò che ha appena detto a noi.
— Se avesse voluto dirlo al Conclave l'avrebbe già fatto — replicò Jace seccamente, senza
guardarla. — Se non l'ha ancora fatto, significa che è un bugiardo.
— Non ci si può fidare del Conclave! — protestò Hodge disperatamente. — Ci sono spie, uomini di
Valentine, nel Conclave. Non potevo rivelare a lorodov'era lo Specchio. Se Valentine trovasse lo
Specchio, sarebbe...
Hodge non finì mai la frase. Un punto argenteo scintillò nella luce della luna, un piccolo bagliore
nel buio. Alec gridò. Hodge sgranò gli occhi e barcollò, portandosi le mani al petto. Quando cadde
riverso, Clary vide perché: dal torace spuntava l'impugnatura di un pugnale, come una freccia
vibrante al centro del bersaglio.
Alec fece un balzo avanti, sorresse il vecchio mentre cadeva e lo adagiò delicatamente sul prato.
Alec alzò gli occhi, con un senso di impotenza, il volto schizzato del sangue di Hodge. — Jace,
perché...
— Non sono stato io... — Jace era sbiancato, e Clary vide che aveva ancora in mano il suo pugnale
e lo stringeva con forza. — Io...
Simon si girò di scatto e Clary con lui, scrutando nel buio. L'incendio illuminava l'erba di un
infernale riflesso rossastro, ma c'era buio pesto tra gli alberi sulla collina. Poi qualcosa emerse dalle
tenebre, una figura avvolta nell'ombra, con una capigliatura scura e disordinata che tutti
riconobbero. Si avvicinò al gruppo, mentre la luce dell'incendio gli illuminava il viso e si rifletteva
negli occhi scuri e ardenti.
— Sebastian? — esclamò Clary.
Jace spostò lo sguardo allucinato da Hodge a Sebastian, che si era fermato ai margini del prato,
incerto. Jace era stupefatto. — Tu? — disse. — Sei stato tu?
— Ho dovuto farlo — rispose Sebastian. — Vi avrebbe uccisi.
— E con cosa? — La voce di Jace si spezzò. Ora gridava. — Non aveva nessuna arma...
— Jace — intervenne Alee, interrompendolo. — Vieni qui. Aiutami con Hodge.
— Vi avrebbe uccisi — ripetè Sebastian. — Lui... lui vi avrebbe...
Ma Jace si era inginocchiato accanto ad Alec, rinfoderando il coltello. Alec teneva Hodge tra le
braccia e aveva la camicia insanguinata. — Prendimi lo stilo dalla tasca — disse a Jace. —
Proviamo con un iratze...
Clary, immobilizzata dall'orrore, sentì Simon muoversi. Si girò verso di lui e rimase sconvolta: era
bianco come uno straccio. Solo sugli zigomi aveva un rossore febbrile.
Gli vide le vene sotto la pelle, come rami delicati di corallo. — Il sangue — sussurrò Simon, senza
guardarla. — Devo allontanarmi dal sangue.
Clary tentò di prenderlo per una manica, ma Simon si allontanò di scatto, strappando il braccio dalla
presa.
— No, Clary, per favore. Lasciami andare. Me la caverò. E tornerò. Devo solo... — Clary fece per
riprenderlo, ma Simon fu troppo veloce e svanì nel buio tra gli alberi.
— Hodge... — La voce di Alec era piena di panico. — Hodge, sta' fermo...
Ma Hodge lottava debolmente, cercando di allontanarsi da Alee e dallo stilo nella mano di Jace. —
No. — Il suo volto aveva il colore del gesso, ormai. I suoi occhi si spostarono rapidi da Jace a
Sebastian, che era ancora fermo nell'ombra. — Jonathan...
— Jace — disse il ragazzo con un sussurro. — Chiamami Jace.
Lo sguardo di Hodge si posò su di lui. Clary non riuscì a decifrarne l'espressione. Era implorante, sì,
ma c'era di più, era colma di paura, o di qualcosa di simile, e di urgenza. Sollevò una mano, per dire
qualcosa a Jace. — Non tu — sussurrò. Dalla bocca, con le parole, uscì sangue.
Un'espressione ferita attraversò il volto di Jace. — Alec, fallo tu l'iratze. Credo che non voglia che
io lo tocchi.
La mano di Hodge si tese come un artiglio, si strinse sulla manica di Jace. Il suo respiro era ormai
un rantolo. — Tu non sei... mai...
E morì. Clary vide il momento esatto in cui la vita lo abbandonò. Non fu una cosa istantanea e
muta, come nei film: la sua voce soffocò in un gorgoglio, i suoi occhi si rovesciarono indietro e il
suo corpo si fece molle e pesante, con un braccio piegato in modo innaturale.
Alec gli chiuse gli occhi con la punta delle dita. — Vale, Hodge Starkweather.
— Non se lo merita. — La voce di Sebastian era tagliente. — Non era uno Shadowhunter. Era un
traditore. Non si merita le parole di addio.
La testa di Alec si alzò di scatto. Depose Hodge sul prato e si alzò in piedi, gli occhi azzurri freddi
come il ghiaccio. Il sangue gli macchiava i vestiti. — Tu non sai niente di lui. Tu hai ucciso un
uomo disarmato, un Nephilim. Tu sei un assassino.
Le labbra di Sebastian si arricciarono. — Credi che non sappia chi era? — Indicò Hodge. —
Starkweather era nel Circolo. Ha tradito il Conclave e per questo è stato maledetto. Doveva morire
per quello che ha fatto, ma il Conclave è stato clemente. E a cosa è servito? Ci ha traditi di nuovo,
vendendo la Coppa Mortale a Valentine per essere liberato dalla sua maledizione. Una maledizione
che meritava. — Si fermò, col fiato grosso. — Io non avrei dovuto farlo, ma voi non potete dire che
non se lo meritava.
— Come fai a sapere tante cose di Hodge? — gli chiese Clary. — E che cosa ci fai qui? Avevi detto
che saresti rimasto nella Sala degli Accordi.
Sebastian esitò. — Ci stavate mettendo troppo tempo — disse alla fine. — Ero preoccupato. Ho
pensato che forse avevate bisogno del mio aiuto.
— E così hai deciso di aiutarci uccidendo la persona con cui stavamo parlando? — sbottò Clary. —
Solo perché pensavi che avesse un passato poco limpido... Chi... Chi farebbe mai una cosa del
genere? Non ha nessun senso.
— Non ha senso perché sta mentendo — intervenne Jace. Scrutava Sebastian con uno sguardo
freddo e critico.
— E anche piuttosto male. Credevo che sapessi cavartela meglio, Verlac.
Sebastian sostenne il suo sguardo. — Non capisco che cosa vuoi dire, Morgenstern.
— Vuole dire — intervenne Alec, facendo un passo avanti — che se davvero ritieni che quello che
hai fatto sia giustificato, non avrai problemi a venire con noi alla Sala degli Accordi per spiegare le
tue ragioni davanti al Consiglio. Giusto?
Ci fu un attimo di esitazione, poi Sebastian fece un sorriso. Quello stesso sorriso che aveva tanto
affascinato Clary: ma ora c'era qualcosa di vagamente stonato, come un quadro appeso un po' storto.
— Certo. — Sebastian si avvicinò lentamente, quasi passeggiando, come se non avesse alcuna
preoccupazione al mondo. Come se non avesse appena commesso un omicidio. — Certo — ripetè.
— È strano che vi turbi tanto il fatto che io ho ucciso un uomo, quando Jace aveva intenzione di
tagliargli le dita a una a una.
Alee strinse le labbra. — Non l'avrebbe mai fatto.
— Tu... — Jace guardò Sebastian con disgusto. — Tu non hai idea di quello che stai dicendo.
— O forse — aggiunse Sebastian — forse in realtà sei solo arrabbiato perché ho baciato tua sorella.
Perché lei mi desiderava.
— Non è vero! — esclamò Clary, ma nessuno dei due la stava guardando. — Non è vero che ti
desideravo.
— Ha questo vezzo, lo sai, no? Questo suo modo di trasalire quando la baci, come se fosse sorpresa.
— Sebastian era fermo davanti a Jace e sorrideva come un angelo. — È una cosa molto tenera,
l'avrai notato anche tu.
Jace sembrava sul punto di vomitare. — Mia sorella...
— Tua sorella — ripetè Sebastian. — È tua sorella? Ah, sì, perché voi due non vi comportate affatto
da fratelli. Credete che gli altri non si accorgano di come vi guardate? Credete di riuscire a
nascondere i vostri sentimenti? Credete che gli altri non la giudichino una cosa disgustosa e
innaturale? Perché invece è proprio così.
— Adesso basta. — Jace aveva uno sguardo assassino.
— Perché fai così? — intervenne Clary. — Sebastian, perché dici queste cose?
— Perché finalmente posso dirle — rispose Sebastian. — Tu non hai idea di come sia stato, restare
con voi in questi giorni, fingere di non trovarvi insopportabili, che la sola vista di voi due non mi
desse il voltastomaco. Tu — disse rivolto a Jace — ogni secondo che non passi a sbavare dietro a
tua sorella, non fai che lamentarti perché tuo padre non ti voleva bene. Be', come dargli torto? E tu,
stupida cagna — disse a Clary — hai regalato un libro dal valore incalcolabile a uno stregone
bastardo. Ce l'hai almeno un neurone in quella testa? E tu... — L'ultimo attacco di Sebastian era per
Alec. — Credo che tutti sappiamo qual è il tuo problema. Non dovrebbero far entrare nel Conclave
quelli come te. Mi fai schifo.
Alec impallidì, ma sembrava più allibito che altro. Clary non poteva dargli torto: era difficile
guardare Sebastian, il suo sorriso angelico, e immaginare che potesse dire cose del genere.
— Fingere di sopportarci? — ripetè Clary. — Perché avresti dovuto? A meno che tu... A meno che
tu non ci stessi spiando! — concluse, scoprendo la verità nel momento stesso in cui la pronunciava.
— A meno che tu non fossi una spia di Valentine.
Il bel viso di Sebastian si distorse, le labbra carnose si strinsero, gli occhi dal taglio allungato ed
elegante diventarono due fessure. — Finalmente ci siamo arrivati! — esclamò. — Sul serio, ci sono
nell'universo dimensioni demoniache immerse nel buio più assoluto che sono meno ottuse di voi.
— Forse non saremo così brillanti — osservò Jace — ma almeno siamo vivi.
Sebastian lo guardò con disgusto. — Io sono vivo — precisò.
— Non per molto — replicò Jace. La luce della luna luccicò sulla lama del suo coltello e Jace si
avventò su Sebastian con una rapidità di movimento impossibile da seguire a occhio nudo,
inarrivabile per qualunque essere umano.
Fino a quel momento.
Sebastian scartò di lato, evitò il colpo e bloccò la mano di Jace. Il coltello cadde a terra. Sebastian
prese Jace per la giacca, da dietro, lo sollevò di peso e lo scaraventò contro il muro della Guardia.
Jace volò, si schiantò contro il muro con una violenza da spaccare le ossa e crollò a terra.
— Jace! — gridò Clary. La vista le si annebbiò. Si scagliò contro Sebastian per strozzarlo con le sue
mani. Lui si spostò di lato e fece un gesto noncurante con la mano, come se fosse un insetto da
scacciare. La centrò in pieno, sulla tempia, e la fece volare a terra. Clary rotolò sull'erba, con una
rossa foschia di dolore negli occhi.
Alee aveva impugnato l'arco: era teso, la freccia incoccata. Le sue mani non tremarono quando la
puntò su Sebastian. — Fermo dove sei — gli intimò. — E metti le mani dietro la schiena.
Sebastian rise. — Tu non mi colpiresti mai — commentò. Si avvicinò ad Alec con passo tranquillo e
spensierato, come se stesse salendo le scale di casa.
Gli occhi di Alec si socchiusero. Le mani si mossero con grazia. Tese l'arco e scoccò la freccia, che
volò verso Sebastian...
E mancò il bersaglio. In qualche modo, Sebastian si era chinato o spostato, Clary non avrebbe
saputo dire, e la freccia gli era passata sopra, andando a conficcarsi nel tronco di un albero. Alee
ebbe solo il tempo di sorprendersi e Sebastian gli fu subito addosso. Gli strappò l'arco e lo spezzò. Il
rumore del legno che si spaccava fece rabbrividire Clary, come se fosse rumore di ossa rotte. Clary
cercò di mettersi a sedere, ignorando il dolore lancinante alla testa. Jace era a pochi passi da lei,
assolutamente immobile. Clary cercò di alzarsi, ma le gambe non sembravano funzionare nel modo
giusto.
Sebastian gettò a terra le due metà dell'arco e puntò su Alec, che già brandiva una sfavillante spada
angelica. La spazzò via come se niente fosse e prese Alec per la gola, quasi sollevandolo da terra.
Stringeva senza pietà, con cattiveria, sorridendo alla vista del ragazzo che soffocava e si dibatteva.
— Lightwood — sibilò. — Oggi ho già sistemato uno dei tuoi. Non mi aspettavo di essere così
fortunato da avere una seconda occasione.
Di colpo Sebastian fu trascinato all'indietro, come sollevato da un burattinaio. Liberato dalla sua
presa, Alec si accasciò a terra, tenendosi la gola con le mani. Clary sentiva i suoi rantoli disperati,
ma i suoi occhi erano fissi su Sebastian. Un'ombra scura gli si era avvinghiata alla schiena e gli
stava aggrappata come una sanguisuga. Sebastian si portò le mani alla gola, soffocando e
rantolando. Girò su se stesso, cercando di colpire la cosa che gli stringeva il collo. Girandosi, la luce
della luna lo illuminò e Clary capì di cosa si trattava.
Era Simon: le braccia avvinghiate intorno al collo di Se-bastian, gli incisivi bianchi e lucidi come
aculei d'osso. Era la prima volta che Clary lo vedeva nelle sue sembianze di vampiro, dalla notte in
cui era uscito dalla tomba ed era rinato. Ora lo fissava stupefatta e inorridita, ma incapace di
distogliere lo sguardo. I denti di Simon erano digrignati, i canini completamente estrusi, affilati
come pugnali. Li affondò nel braccio di Sebastian, aprendogli un lungo strappo rosso nella pelle.
Sebastian gridò e si buttò a terra di schiena. Rotolò, con Simon avvinghiato a lui. I due graffiavano,
strappavano e ringhiavano come cani da combattimento. Sanguinando da varie ferite, Sebastian
finalmente riuscì a rialzarsi in piedi e assestò due calci potenti in petto a Simon, che si piegò su se
stesso, stringendosi lo stomaco. — Piccola zecca immonda — ringhiò Sebastian caricando il piede
per un altro calcio.
— Se fossi in te, io non lo farei — disse una voce bassa.
La testa di Clary si alzò di scatto e un'altra esplosione
di dolore le annebbiò la vista. Accanto a Sebastian c'era Jace. Aveva la faccia insanguinata, un
occhio gonfio e quasi chiuso, ma brandiva una sfavillante spada angelica e la mano con cui la
teneva era fermissima. — Non ho mai ucciso un essere umano con una di queste — disse Jace. —
Ma sono pronto a provare.
La faccia di Sebastian si contorse. Lanciò un'ultima occhiata a Simon, poi alzò la testa e sputò. Le
parole che pronunciò erano in una lingua che Clary non riconobbe. Poi, con la stessa terrificante
rapidità con cui si era mosso per attaccare Jace, svanì nel buio.
— No! — gridò Clary. Cercò di rialzarsi in piedi, ma il dolore era come una lama che le spaccava il
cervello. Si accasciò sull'erba umida, e Jace fu subito da lei, pallido e ansioso. Lei lo guardò, con la
vista appannata: doveva per forza avere la vista appannata, pensò, o non avrebbe visto quel biancore
intorno a Jace, quasi una sorta di luce...
Sentì la voce di Simon, poi quella di Alec. Passarono qualcosa a Jace: era uno stilo. Avvertì un
bruciore sul braccio e un attimo dopo il dolore cominciò ad attenuarsi e le si schiarirono i pensieri.
Cercò di mettere a fuoco le tre facce chine su di lei. — La testa...
— Hai una commozione cerebrale — le disse Jace. — L'iratze dovrebbe servire a qualcosa, ma è
meglio se ti portiamo da un medico del Conclave. Le ferite alla testa possono essere insidiose. —
Jace restituì lo stilo ad Alec. — Pensi di riuscire a stare in piedi?
Clary annuì, ma si sbagliava. Una scossa di dolore le attraversò il corpo e un paio di mani
l'aiutarono a rimettersi in piedi: Simon. Clary gli si appoggiò con gratitudine, aspettando di
riprendere l'equilibrio. Si sentiva ancora incerta, sempre sul punto di cadere.
Jace era accigliato. — Non avresti dovuto attaccare Sebastian in quel modo. Non eri nemmeno
armata. Che cosa pensavi?
— Quello che stavamo pensando tutti noi. — Alec, inaspettatamente, parlò in difesa di Clary. —
Che ti aveva appena lanciato in aria come una palla di gomma, Jace. Non ho mai visto nessuno
avere la meglio su di te in quel modo.
— È che... mi ha colto di sorpresa — ammise Jace con una certa riluttanza. — Deve aver fatto un
addestramento speciale. Non me l'aspettavo.
— Sì, be'... — Simon si toccò la gabbia toracica con una smorfia di dolore. — A me deve aver
sfondato un paio di costole. Ma non c'è problema — aggiunse subito, rispondendo allo sguardo
preoccupato di Clary. — Stanno già guarendo. Però Sebastian è decisamente forte. Fortissimo. —
Guardò Jace. — Secondo te, da quanto tempo era nascosto nell'ombra?
Jace era cupo. Guardò verso gli alberi, nella direzione in cui Sebastian era fuggito. — Be', il
Conclave lo prenderà. E probabilmente lo punirà con una maledizione. Sarebbe bello che fosse la
stessa maledizione che è toccata a Hodge. Sarebbe una forma di giustizia poetica.
Simon si voltò e sputò nei cespugli. Si pulì la bocca con il dorso della mano, con una smorfia di
disgusto. — Il suo sangue fa schifo: sembra veleno.
— Immagino che possiamo aggiungere anche questo, alla lista delle sue attrattive — commentò
Jace. — Chissà cos'altro aveva in mente di fare stanotte.
— Dobbiamo tornare alla Sala degli Accordi. — Il volto di Alee era teso. Clary ricordò che
Sebastian gli aveva detto qualcosa a proposito degli altri Lightwood.
— Clary, riesci a camminare?
Clary si staccò da Simon. — Sì, ce la faccio. E Hodge? Non possiamo abbandonarlo qui.
— Dobbiamo farlo — disse Alec. — Ci sarà tempo per tornare a riprenderlo, se sopravviviamo a
questa notte.
S'incamminarono verso la città. Jace si trattenne un attimo, si tolse la giacca e la distese sul volto
immobile di Hodge, rivolto verso l'alto. Clary avrebbe voluto andare da lui, magari mettergli una
mano sulla spalla, ma qualcosa nei suoi modi le disse che era meglio lasciar perdere. Nemmeno
Alee gli si avvicinò, né gli propose una runa di guarigione, benché Jace zoppicasse, mentre
scendevano dalla collina per un sentiero tortuoso con le armi sguainate, pronti alla battaglia.
Il cielo era illuminato di rosso dalla Guardia, che alle loro spalle continuava a bruciare. Ma non
videro demoni. La testa di Clary, in quella calma assoluta, in quella luce inquietante, pulsava forte:
le pareva di essere dentro un sogno. Un'estrema stanchezza la stringeva come una morsa. Portare un
piede davanti all'altro era come sollevare un blocco di cemento e sbatterlo giù e poi ricominciare.
Sentiva Jace e Alec che parlavano, più avanti sul sentiero, e le loro voci risuonavano deboli e
indistinte, sebbene fossero vicini.
Alec parlava con dolcezza, con un tono quasi implorante: — Jace, quello che hai detto prima, a
Hodge... non puoi pensarlo davvero. Essere il figlio di Valentine non fa di te un mostro. Qualsiasi
cosa Valentine ti abbia fatto quando eri piccolo, qualsiasi cosa ti abbia insegnato, devi capire che
non è stata colpa tua.
— Non voglio parlarne, Alee, né ora né mai. Non chiedermelo più. — Il tono di Jace era selvaggio e
Alec ammutolì. Clary poteva percepire il suo dolore, quasi fisicamente. Che notte, pensò. Una notte
così piena di sofferenza per tutti!
Cercò di non pensare a Hodge, all'espressione pietosa e implorante che aveva poco prima di morire.
Non le era mai piaciuto, ma non meritava quello che Sebastian gli aveva fatto. Nessuno se lo
sarebbe meritato. Pensò a Sebastian, al modo in cui si era mosso, veloce come un lampo. Non aveva
mai visto nessuno, tranne Jace, muoversi così rapidamente. Voleva capire: che cos'era successo a
Sebastian? Com'era riuscito, un cugino dei Penhallow, a prendere una strada così sbagliata? E come
mai nessuno se n'era mai accorto? Aveva pensato che Sebastian volesse aiutarla a salvare sua madre,
invece voleva solo mettere le mani sul Libro Bianco per consegnarlo a Valentine. Magnus si era
sbagliato: non era stato per colpa dei Lightwood, se Valentine aveva saputo di Ragnor Fell, ma
perché lei ne aveva parlato con Sebastian. Come aveva potuto essere così stupida?
Inorridita da quei pensieri, notò appena che il sentiero sfociava in un viale e che il viale conduceva
nel cuore della città. Le strade erano deserte, le case immerse nel buio, molti dei lampioni di
stregaluce erano infranti, i vetri sparsi sull'acciottolato. Voci riecheggiavano in lontananza e bagliori
di torce apparivano qua e là fra le ombre delle case, ma...
— C'è un silenzio terribile — osservò Alec, guardandosi intorno sorpreso. — E...
— Non c'è più la puzza dei demoni. — Jace aggrottò la fronte. — Strano. Forza. Andiamo alla Sala
degli Accordi.
Clary si aspettava un altro attacco, ma non videro un solo demone per le strade. Nessun demone
vivo, per lo meno. In un vicolo stretto, videro però un gruppo di tre o quattro Cacciatori che
facevano cerchio intorno a qualcosa che pulsava e guizzava. A turno, infilzavano la cosa con lunghi
pali appuntiti. Con un brivido, Clary distolse lo sguardo.
La Sala degli Accordi era illuminata come un falò: la stregaluce si riversava all'esterno dalle porte e
dalle finestre. Salirono in fretta la scalinata. Ogni tanto Clary inciampava e doveva fermarsi per
riprendere l'equilibrio. Il senso di stordimento era sempre più forte. Tutto il mondo sembrava
ondeggiare intorno a lei, come se fosse sopra un enorme mappamondo rotante. Sopra di lei, le stelle
erano macchioline bianche nel cielo. — Dovresti sdraiarti — le disse Simon. Poi, quando Clary non
rispose, la chiamò: — Clary?
Con uno sforzo enorme, Clary si costrinse a sorridergli. — Va tutto bene.
Jace, fermo davanti all'ingresso, si girò a guardarla, in silenzio. Nel bagliore vivido della stregaluce,
il sangue sul suo viso e l'occhio gonfio erano orribili segni neri.
Un rumore sordo proveniva dalla Sala degli Accordi, il basso mormorio di centinaia di voci. A Clary
sembrava il battito di un enorme cuore. La luce delle torce nelle staffe, unita al bagliore delle pietre
di stregaluce portate ovunque, le bruciavano gli occhi e le confondevano la vista: vedeva solo
ombre vaghe, adesso, ombre e macchie di colore. Bianco, oro, poi il cielo notturno sopra di loro,
che diventava di un blu più chiaro. Ma che ora era?
— Non li vedo. — Alec scrutava la sala cercando i suoi famigliari. Parlò come se fosse stato
lontano mille miglia, o sott'acqua. — Dovrebbero essere qui, ormai.
La sua voce si perse. Lo stordimento di Clary peggiorava. Si appoggiò con la mano a una colonna
per non cadere. Una mano le sfiorò la schiena: Simon. Stava dicendo qualcosa a Jace e sembrava in
ansia. La sua voce si smarrì in un intrico di decine di altre voci, che crescevano e calavano intorno a
Clary come le onde che s'infrangono sulla riva.
— Mai visto niente di simile. A un certo punto, i demoni se ne sono andati: hanno girato i tacchi e
sono svaniti.
— L'alba, probabilmente. Hanno paura dell'alba, e ormai non è lontana.
— No, c'era dell'altro.
— È solo che non vuoi credere che torneranno anche domani notte, o dopodomani.
— Non dirlo: non c'è ragione. Le difese verranno riattivate.
— E Valentine le abbatterà di nuovo.
— Forse è quello che ci meritiamo. Forse Valentine aveva ragione. Forse, alleandoci con i Nascosti
abbiamo perso la protezione dell'Angelo.
— Taci, e porta un po' di rispetto: stanno contando i morti proprio nella piazza dell'Angelo.
— Eccoli là! — esclamò Alec. — In fondo, vicino al podio. Sembra che... — Gli si spense la voce
in gola e un attimo dopo era già sparito, facendosi largo tra la folla. Clary socchiuse gli occhi per
mettere a fuoco, ma vedeva solo macchie indistinte.
Sentì Jace trasalire e poi, senza una parola, anche lui si mise a spintonare tra la folla, seguendo Alee.
Clary si staccò dalla colonna per seguirli, ma inciampò. Simon la afferrò al volo.
— Devi sdraiarti, Clary — le disse.
— No — sussurrò lei. — Voglio vedere cos'è successo.
S'interruppe. Simon guardava in fondo alla sala, oltre
Clary, oltre Jace, e sembrava profondamente turbato. Puntellandosi alla colonna, Clary si sollevò in
punta di piedi, sforzandosi di vedere qualcosa al di là della folla.
Eccoli, i Lightwood: Maryse, con le braccia intorno a Isabelle che singhiozzava, e Robert
Lightwood, seduto per terra, con qualcosa... no, qualcuno, tra le braccia. Clary pensò alla prima
volta che aveva visto Max, all'Istituto, addormentato su un divano, gli occhiali di traverso e una
mano penzoloni. "Riesce a dormire dappertutto", aveva commentato Jace. Anche adesso sembrava
quasi che dormisse in braccio a suo padre, ma Clary seppe che non stava dormendo.
Alee era in ginocchio e teneva una mano di Max. Jace invece era rimasto dov'era, immobile. Aveva
un'aria terribilmente smarrita, come se non avesse idea di dove fosse, né di cosa ci facesse lì. Tutto
quello che Clary avrebbe voluto fare era correre da lui e abbracciarlo, ma l'espressione di Simon le
disse di no, come pure le dissero di no il ricordo della tenuta di campagna e delle braccia di Jace
intorno a lei. Clary era l'ultima persona sulla faccia della terra che in quel momento avrebbe potuto
dargli un po' di consolazione.
— Clary — disse Simon, ma lei lo spinse via, nonostante lo stordimento e il dolore alla testa. Corse
verso le porte della sala e le spalancò, si precipitò fuori sulla scalinata e si fermò lì, respirando
ampie boccate d'aria fredda. In lontananza, l'orizzonte era striato di rosso e le stelle si stavano
spegnendo nel cielo che si schiariva. La notte era passata. Era giunta l'alba.
capitolo 13
DOVE C'È DOLORE
Con le gambe avvoltolate fra le lenzuola, Clary si svegliò di soprassalto da un incubo pieno di
angeli sanguinanti. C'era un buio pesto e claustrofobico, nella camera degli ospiti di Amatis. Era
come essere chiusi in una bara. Allungò un braccio e tirò le tende. La luce del giorno si riversò nella
stanza. Aggrottò la fronte e le richiuse subito.
Gli Shadowhunters bruciavano i loro morti. Dalla notte dell'attacco dei demoni, il cielo a ovest della
città era costantemente macchiato da enormi volute di fumo. Vederlo dalla finestra diede a Clary un
senso di nausea, così preferì tenere tirate le tende. Nel buio della stanza chiuse gli occhi, cercando
di ricostruire il sogno. C'erano degli angeli, e l'immagine della runa che Ithuriel le aveva mostrato
continuava a brillare dietro le sue palpebre come un semaforo lampeggiante. Era una runa semplice
come un nodo, ma, per quando si concentrasse, Clary non riusciva a leggerla, né a capirne il
significato. Sapeva solo che in qualche modo era incompleta, come se chi l'aveva creata non
l'avesse finita.
Questi non sono i primi sogni che ti mando, le aveva detto Ithuriel. Clary pensò agli altri sogni:
Simon con le mani marchiate a fuoco col simbolo della croce; Jace con le ali; laghi di ghiaccio che
s'infrangevano, brillanti come specchi. Era stato l'angelo a mandarle anche quelli?
Con un sospiro, si mise a sedere. I suoi sogni erano brutti, ma le immagini che le passavano per la
mente ora che era sveglia non erano molto meglio. Isabelle, che piangeva sommessamente, seduta
per terra nella Sala degli Accordi, che si tirava i capelli corvini intrecciati tra le dita con tanta forza
da far temere a Clary che se li strappasse via. Maryse che se la prendeva con Jia Penhallow
gridandole che era stato il ragazzo che avevano accolto nella loro casa, il loro cugino, a fare tutto
questo, e se il ragazzo era un alleato così stretto di Valentine, cosa avevano da dire, di sé, i
Penhallow? Alec che cercava di calmare sua madre e chiedeva a Jace di aiutarlo,- e lui che invece
restava immobile, mentre il sole sorgeva su Alicante e faceva entrare la sua luce dal soffitto dalla
Sala. — È l'alba — aveva detto Luke, stanco come Clary non l'aveva mai visto. — È ora di portare
dentro i morti. — E aveva mandato in giro delle pattuglie a raccogliere i cadaveri dei Cacciatori e
dei licantropi che giacevano per le strade, dando ordine di portarli nella piazza davanti alla Sala
degli Accordi; la stessa che Clary aveva attraversato insieme a Sebastian, notando che l'edificio
somigliava a una chiesa. Le era sembrato un bel posto, allora, con le fioriere e i negozi dai colori
vivaci. Ora, invece, era piena di cadaveri.
Compreso quello di Max. Pensare al bambino che con tanta serietà aveva parlato con lei dei manga
le fece stringere il cuore. Gli aveva promesso che l'avrebbe portato al Pianeta Proibito, la sua
fumetteria preferita, ma ora non avrebbe più potuto farlo. Gli avrei comprato dei
fumetti, pensò. Tutti i fumetti che voleva. Non che facesse differenza.
Non pensarci. Clary scalciò via le lenzuola e si alzò. Dopo una rapida doccia s'infilò i jeans e la
maglia che aveva su il giorno in cui era arrivata da New York. Vi premette il viso, prima di
infilarsela, nella speranza di cogliere un sentore di Brooklyn o l'odore di bucato; qualcosa che le
ricordasse casa sua. Ma era stata lavata e ora sapeva di sapone al limone. Con un altro sospiro,
Clary scese le scale.
La casa era vuota, fatta eccezione per Simon, seduto sul divano nel salotto. Le finestre aperte alle
sue spalle lasciavano entrare molta luce. Simon era diventato come un gatto, pensò Clary: sempre
alla ricerca di una macchia di sole dove acciambellarsi. Ma per quanto sole prendesse, la sua pelle
restava sempre bianca come l'avorio.
Clary prese una mela dal cestino sul tavolo e sprofondò sul divano accanto a lui, raccogliendo le
gambe sotto di sé. — Hai dormito?
— Un po'. — La guardò. — Dovrei essere io a chiederlo a te. Sei tu quella con le occhiaie. Altri
incubi?
Clary scrollò le spalle. — Il solito. Morte, distruzione, angeli cattivi.
— Come nella vita reale, allora.
— Già, ma almeno quando mi sveglio è tutto finito. — Diede un morso alla mela. — Fammi
indovinare. Luke e Amatis sono alla Sala degli Accordi per un'altra assemblea.
— Esatto. Credo sia l'assemblea in cui si riuniscono per decidere quali altre assemblee organizzare.
— Simon giocherellava pigramente con la frangia del cuscino. — Notizie da Magnus?
— No. — Clary stava cercando di non pensare che erano passati già tre giorni dall'ultima volta che
aveva visto Magnus. E da allora non si era più fatto vivo. Né al fatto che niente poteva impedire allo
stregone di prendere il Libro Bianco e sparire nel nulla senza farsi più vedere. Si chiese come aveva
potuto pensare di fidarsi di uno che usava tutto quell'eyeliner.
Sfiorò il polso di Simon. — E tu, che intenzioni hai? Vuoi restare ancora qui? — Clary avrebbe
preferito che Simon tornasse a casa, dopo la battaglia: a casa, al sicuro. Lui, invece, si era
stranamente opposto. Quale che fosse la ragione, voleva restare. Clary sperava che non fosse perché
si sentiva in dovere di prendersi cura di lei. Avrebbe voluto dirglielo chiaro e tondo, che non aveva
bisogno della sua protezione, ma non l'aveva fatto, perché una parte di lei non sopportava l'idea di
vederlo andare via. Così Simon era rimasto e Clary ne era segretamente, colpevolmente contenta.
— Ti fanno avere... ehm... quello che ti serve?
— Vuoi dire il sangue? Sì. Maia me ne porta tutti i giorni, in bottiglia. Ma non chiedermi dove se lo
procura. — La prima mattina che Simon si era svegliato a casa di Amatis, un sorridente licantropo
si era presentato alla porta di casa con un gatto vivo per lui. — Sangue! — aveva annunciato. — Per
te. Freschissimo! — Simon l'aveva ringraziato, aveva aspettato che si allontanasse, poi aveva
liberato il gatto.
— Be', da una parte o dall'altra dovrai pur procurarti del sangue — aveva detto Luke con aria
divertita.
— A casa ho un gatto — aveva risposto Simon. — Non se ne parla nemmeno.
— Lo dirò a Maia — aveva promesso Luke. E da quella volta, il sangue arrivava con discrezione
dentro bottiglie da latte. Clary non aveva idea di come Maia avesse organizzato la cosa e, come
Simon, preferiva non saperlo. Non vedeva Maia dalla notte della battaglia. I licantropi si erano
accampati da qualche parte nella vicina foresta e solo Luke era rimasto in città.
— Che c'è? — Simon appoggiò indietro la testa, guardando Clary dalle ciglia socchiuse. — Hai la
faccia di una che vuole chiedere qualcosa.
C'erano parecchie cose che Clary avrebbe voluto chiedergli, ma decise di optare per una delle più
semplici. — Hodge — disse, esitando. — Quando eri nella cella... davvero non l'avevi
riconosciuto?
— Non lo vedevo. Potevo solo sentire la sua voce, e c'era un muro in mezzo. Abbiamo parlato...
tanto.
— E ti piaceva? Cioè, ti era simpatico?
— Simpatico? Non saprei. Tormentato, triste, intelligente, per brevi momenti anche
compassionevole. Sì, mi piaceva. Secondo me, gli ricordavo se stesso da giovane, in un certo
senso...
— Non dirlo nemmeno! — Clary si raddrizzò sulla schiena e per poco non le cadde la mela. — Tu
non assomigli nemmeno lontanamente a Hodge.
— Non ritieni che io sia tormentato e intelligente?
— Hodge stava con i cattivi. Tu no. — Clary parlava con decisione. — E non c'è altro da dire.
Simon sospirò. — La gente non nasce buona o cattiva. Forse nasce con delle inclinazioni verso
l'una o l'altra parte, ma è il modo in cui ciascuno vive la propria vita che conta. E le persone che si
incontrano. Valentine era amico di Hodge, e non credo che Hodge abbia incontrato nella vita
persone che l'abbiano spronato a diventare una persona migliore. Se io avessi avuto una vita come
la sua, non so come sarei diventato. Ma per me è stato diverso. Io ho la mia famiglia. E ho te.
Clary gli sorrise, ma le parole di Simon ebbero un'eco dolorosa dentro di lei. La gente non nasce
buona o cattiva. Anche lei aveva sempre pensato che fosse così, ma, nelle immagini che l'angelo le
aveva mostrato, aveva visto sua madre definire il proprio figlio un bambino malvagio, un mostro.
Avrebbe voluto dirlo a Simon, raccontargli quello che l'angelo le aveva mostrato, ma non poteva,
senza rivelargli anche cosa avevano scoperto di Jace. Ma quello era il segreto di Jace e doveva
essere lui a rivelarlo. Simon le aveva chiesto cosa intendesse dire Jace, quando aveva parlato con
Hodge, perché si era definito un mostro, ma lei aveva risposto che era difficile capire Jace anche nei
momenti migliori. Non era sicura che Simon le avesse creduto, ma non ne aveva più riparlato.
In quel momento qualcuno aveva bussato alla porta, evitandole così di dover dare una una risposta.
Aggrottando la fronte, Clary posò il torsolo della mela sul tavolo. — Vado io.
La porta aperta lasciò entrare una folata d'aria fresca e frizzante. Sulla soglia c'era Aline Penhallow,
con una giacca di seta rosa scuro che ben si abbinava al colore degli occhi arrossati. — Devo
parlarti — annunciò senza tanti preamboli.
Sorpresa, Clary riuscì solo ad annuire e tenne la porta aperta. — Okay. Entra pure.
— Grazie. — Aline le passò accanto bruscamente ed entrò in salotto. Si bloccò, non appena vide
Simon seduto sul divano, e schiuse le labbra, attonita. — Ma lui non è...?
— Il vampiro? — Simon fece un gran sorriso. La forma lievemente affilata ma decisamente non
umana degli incisivi si intravedeva contro il labbro inferiore, quando sorrideva così. Clary avrebbe
preferito che non lo facesse.
Aline si girò verso Clary. — Posso parlarti da sola?
— No — disse Clary, sedendosi sul divano accanto a Simon. — Qualunque cosa tu abbia da dire,
puoi dirla a tutti e due.
Aline si mordicchiò il labbro. — E va bene. Senti, c'è una cosa che voglio dire ad Alec, Jace e
Isabelle, ma non ho idea di dove trovarli.
Clary sospirò. — Si sono dati da fare e si sono sistemati in una casa vuota. La famiglia che ci
abitava si è trasferita in campagna.
Aline annuì. Molte persone avevano abbandonato Alicante dopo l'attacco. Molti, più di quanti Clary
avrebbe immaginato, erano rimasti, ma parecchi avevano fatto le valigie ed erano partiti,
abbandonando la loro casa.
— Stanno bene, se è questo che vuoi sapere. Senti, non li ho più visti nemmeno io, dopo la
battaglia. Potrei fargli avere un messaggio tramite Luke, se vuoi.
— Non saprei. — Aline si mordicchiava il labbro. — I miei genitori hanno dovuto dire alla zia di
Sebastian, a Parigi, che cosa ha fatto suo nipote. Era sconvolta.
— Come è normale che sia, scoprendo che il proprio nipote è un criminale malvagio — commentò
Simon.
Aline gli scoccò un'occhiataccia. — La zia continuava a ripetere che non era affatto da lui, che
doveva per forza esserci un errore. E così mi ha mandato delle foto. — Aline tirò fuori dalla tasca
diverse fotografie un po' spiegazzate e le passò a Clary. — Guarda.
Clary guardò. Gli scatti mostravano un ragazzo allegro dai capelli scuri, a modo suo bello, anche se
di una bellezza non convenzionale, con un sorriso un po' sghembo e il naso un po' troppo grande.
Era il tipo di ragazzo con cui doveva essere divertente passare del tempo. Ma non somigliava affatto
a Sebastian. — Questo è tuo cugino?
— Questo è Sebastian Verlac. Il che significa...
— Che il ragazzo che si faceva chiamare Sebastian è qualcun altro? — Clary riguardò le foto con
crescente agitazione.
— Pensavo... — Aline si stava di nuovo mordicchiando il labbro. — Pensavo che se i Lightwood
sapessero che Sebastian, o chiunque fosse quel ragazzo, non è veramente mio cugino, forse
potrebbero perdonarmi. Perdonarci.
— Sono sicura che lo faranno. — Clary cercò di mettere nella voce tutta la gentilezza che aveva. —
Ma c'è qualcosa di più grosso in ballo. Il Conclave deve sapere che Sebastian non è solo un
ragazzino finito sulla cattiva strada, ma che è stato Valentine a spedirlo qui, per farci spiare.
— Era così convincente! — disse Aline. — Sapeva cose che solo la mia famiglia conosceva. Sapeva
cose della nostra infanzia...
— A questo punto dobbiamo chiederci — intervenne Simon
— che cosa può essere capitato al vero Sebastian. A tuo cugino. A quanto pare, è partito da Parigi
diretto a Idris, ma qui non è mai arrivato. Cosa gli sarà successo lungo la strada?
Fu Clary a rispondere. — Valentine. Deve aver pianificato tutto: sapeva dov'era Sebastian e come
intercettarlo. E se l'ha fatto con Sebastian...
— Potrebbe averlo fatto anche con altri — concluse Aline.
— Dovresti dirlo al Conclave. Dillo a Lucian Graymark. — Colse l'espressione sorpresa di Clary.
— La gente lo ascolta. L'hanno detto i miei genitori.
— Forse dovresti venire con noi alla Sala degli Accordi — propose Simon — e dirglielo tu stessa.
Aline scosse la testa. — Non posso affrontare i Lightwood. Soprattutto Isabelle. Lei mi ha salvato la
vita e io... io sono scappata. Non riuscivo a fermarmi. Correvo e basta.
— Eri sotto shock. Non è colpa tua.
Aline non sembrava convinta. — E adesso suo fratello...
— S'interruppe, mordendosi ancora il labbro. — Comunque, senti, c'è anche un'altra cosa che
volevo dirti da tempo, Clary.
— A me? — Clary era perplessa.
— Sì. — Aline fece un profondo respiro. — Senti, quando sei entrata in biblioteca e hai visto me e
Jace, be', non era niente di importante. Sono stata io a baciarlo. È stato... un esperimento. E non ha
funzionato granché.
Clary si sentì avvampare. Perché mi sta dicendo questo?
— Senti, non c'è problema. Sono affari di Jace, non miei.
— Be', sembravi piuttosto sconvolta, quel giorno. — Un accenno di sorriso aleggiò agli angoli della
bocca di Aline.
— E io credo di sapere il perché.
Clary mandò giù il gusto acido che le era salito in bocca. — Ah sì?
— Tuo fratello è un dongiovanni. Lo sanno tutti. È uscito con un sacco di ragazze. E tu temevi che,
se avesse fatto il cretino con me, sarebbe finito nei guai. Dopotutto, le nostre famiglie sono,
o erano, amiche. Ma non preoccuparti. Non è il mio tipo.
— Credo di non aver mai sentito nessuna ragazza dire una cosa simile — commentò Simon. —
Credevo che Jace fosse il tipo di ragazzo che è... il tipo di tutte.
— Anch'io lo pensavo — disse Aline lentamente. — Ed è per questo che l'ho baciato. Sto cercando
di capire se esiste un ragazzo che sia il mio tipo.
È stata lei a baciare Jace, pensava intanto Clary. Non lui a baciare lei. È stata lei a baciare
lui. Incrociò lo sguardo di Simon alle spalle di Aline. Sembrava divertito. — Be'? E alla fine che
cos'hai deciso?
Aline scrollò le spalle. — Non ne sono ancora sicura. Però, dai, almeno adesso non devi più
preoccuparti per Jace!
Magari. — Io mi preoccupo sempre per Jace.
Lo spazio nella Sala degli Accordi era stato rapidamente riorganizzato, dopo la notte della battaglia.
Con la Guardia fuori uso, ora la sala fungeva da Camera del Consiglio, da centro di raccolta per chi
cercava familiari che mancavano all'appello e da ufficio informazioni. La fontana centrale era
asciutta. File di panche erano state disposte rivolte verso il podio sul fondo. Alcuni Nephilim erano
seduti sulle panche in quella che aveva tutta l'aria di essere un'assemblea del Consiglio. Nei corridoi
tra una panca e l'altro e sotto le arcate ai lati della grande Sala, si aggiravano ansiosamente decine di
altri Shadowhunters. La Sala degli Accordi non sembrava più un posto dove poter danzare. C'era
una strana atmosfera nell'aria, un misto di tensione e di attesa.
Sebbene l'assemblea fosse in corso al centro, ovunque si sentivano mormorii di altre conversazioni.
Attraversando la Sala con Simon, Clary ne colse qualche frammento: le torri antidemoni erano di
nuovo in funzione; le difese erano attive, ma più deboli di prima; le difese erano attive, più forti di
prima; erano stati avvistati alcuni demoni sulle colline a sud della città; le case di campagna
venivano abbandonate; molte famiglie avevano lasciato la città; alcuni avevano lasciato anche il
Conclave.
Sul podio rialzato, davanti alle mappe di Idris appese al muro, c'era il Console, truce come una
guardia del corpo, accanto a un ometto grassoccio vestito di grigio. L'ometto parlava e gesticolava
con foga, ma nessuno sembrava prestargli attenzione.
— Oh, cavoli, quello è l'Inquisitore — mormorò Simon all'orecchio di Clary, indicandoglielo. —
Aldertree.
— E là c'è Luke — disse Clary, individuandolo nella folla. Luke era vicino alla fontana asciutta e
parlava con un uomo dall'aspetto malconcio, con una benda che gli copriva metà faccia. Clary si
guardò intorno in cerca di Amatis e finalmente la vide, seduta in silenzio sull'orlo di una panca, il
più lontano possibile dagli altri Shadowhunters. Quando Amatis la vide, sembrò sorpresa e fece per
alzarsi.
Anche Luke vide Clary. Aggrottò la fronte, disse qualcosa all'uomo bendato, congedandosi, e poi,
sempre più accigliato, si avvicinò a Clary e Simon, fermi vicino a una delle colonne. — Che cosa ci
fate qui? Sapete che il Conclave non permette ai ragazzini di partecipare alle assemblee. Quanto a te
— aggiunse, squadrando Simon — non è una grande idea mostrare la tua bella faccia all'Inquisitore,
anche se in realtà non c'è niente che lui possa fare. — Un sorriso gli increspò l'angolo della bocca.
— Non senza mettere a rischio qualsivoglia alleanza che il Conclave possa stipulare con i Nascosti
in futuro.
— Esatto. — Simon mandò un saluto all'Inquisitore agitando le dita della mano, ma Aldertree lo
ignorò.
— Simon, smettila. Siamo qui per un motivo preciso. — Clary mise in mano a Luke le foto di
Sebastian. — Questo è Sebastian Verlac. Il vero Sebastian Verlac.
Luke si rabbuiò. Sfogliò le foto senza dire una parola, mentre Clary gli riferiva la storia che aveva
raccontato Aline. Nel frattempo Simon, un po' a disagio, mandava occhiate di fuoco in direzione di
Aldertree, che cercava di ignorarlo.
— Ma il vero Sebastian assomiglia in qualche modo alla sua versione contraffatta? — chiese Luke
alla fine.
— Non proprio — spiegò Clary. — Il falso Sebastian era più alto. E probabilmente era biondo,
perché di sicuro si tingeva i capelli. Nessuno ha dei capelli così neri. — E il colore mi è rimasto
sulle dita, quando li ho toccati, pensò, ma tenne per sé questo pensiero. — Comunque, Aline vuole
mostrare queste foto a te e ai Lightwood. Pensa che, se sapessero che lui non è davvero parente dei
Penhallow, allora...
— Aline non ha parlato di queste ai suoi genitori, vero? — chiese Luke indicando le foto.
— Non ancora, credo — rispose Clary. — Penso che sia venuta direttamente da me. Mi ha chiesto
di dirlo a te. Dice che la gente ti ascolta.
— Alcuni forse. — Luke si girò a guardare l'uomo con la faccia bendata. — Stavo giusto parlando
con Patrick Penhallow. Valentine era un suo buon amico, ai tempi, ed è possibile che lui abbia
tenuto d'occhio la famiglia Penhallow, in tutti questi anni. — Restituì le foto a Clary. —
Sfortunatamente, oggi i Lightwood non parteciperanno al Consiglio. Questa mattina c'è stato il
funerale di Max. Con ogni probabilità sono ancora al cimitero. — Vedendo la faccia di Clary,
aggiunse: — È stata una cerimonia privata, Clary. Solo per la famiglia.
Ma io sono famiglia, per Jace, protestò una vocina dentro la sua testa. Un'altra voce, però, una voce
più forte, la sorprese con la sua amarezza. Lui ti ha detto che averti tra i piedi è come morire di
morte lenta per dissanguamento. Credi davvero che abbia bisogno anche di questo, al funerale di
Max!
— Allora glielo potrai dire stasera — disse Clary. — Insomma, mi pare che sia una bella notizia.
Chiunque fosse Sebastian, non è un parente dei loro amici.
— Sarebbe una notizia ancora più bella se sapessimo chi è — borbottò Luke. — O quali altre spie
ha Valentine nel Conclave. Diverse persone devono essere coinvolte nell'abbattimento delle difese.
È un'operazione che si può fare solo dall'interno della città.
— Hodge diceva che Valentine aveva trovato un sistema
— disse Simon. — Diceva che serviva sangue di demone per abbattere le difese, ma che non c'era
modo di portare del sangue di demone dentro la città. E Valentine ha trovato il sistema per farlo.
— Qualcuno ha dipinto una runa con sangue di demone sulla cima di una delle torri — disse Luke
con un sospiro.
— Quindi, è evidente che Hodge aveva ragione. Il Conclave, sfortunatamente, ha sempre avuto
troppa fiducia nelle difese, ma anche per il rompicapo più complesso c'è una soluzione. -—
— A me sembra quel tipo di complessità che nei giochi da tavolo ti lascia con un pugno di mosche
— osservò Simon. — Proprio quando proteggi la tua fortezza con un Incantesimo di Invincibilità
Totale, ecco che arriva qualcuno e trova il modo di distruggere tutto.
— Simon! — esclamò Clary. — Sta' zitto!
— Non è molto lontano dalla verità — puntualizzò Luke. — L'unica cosa che non sappiamo è come
hanno fatto a portare sangue di demone in città senza far scattare le difese. — Scrollò le spalle. —
Ma è il minore dei nostri problemi, in questo momento. Le difese sono state riattivate, anche se
sappiamo che non sono infallibili. Valentine potrebbe tornare in qualsiasi momento, con un esercito
ancora più grande. E dubito che riusciremmo a respingerlo. Non ci sono abbastanza Nephilim, e
quei pochi sono decisamente demoralizzati.
— Ma... e i Nascosti? — chiese Clary. — Tu hai detto al Console che il Conclave deve combattere
insieme ai Nascosti.
— Io posso dirlo a Malachi e ad Aldertree fino allo sfinimento, ma non significa che loro mi
vogliano ascoltare — rispose Luke stancamente. — L'unico motivo per cui mi lasciano restare qui è
perché il Conclave mi ha eletto consigliere. E l'ha fatto solo perché parecchi di loro sono stati
salvati dal mio branco. Il che non significa che vogliano altri Nascosti a Idris.
Qualcuno lanciò un grido stridulo.
Amatis era in piedi, con una mano sulla bocca e gli occhi fissi sull'ingresso della Sala degli Accordi.
C'era un uomo sulla porta, incorniciato dalla luce del sole. Era solo una sagoma in controluce. Poi
fece un passo avanti ed entrò nella sala, e Clary potè vederlo in faccia.
Valentine.
Chissà perché, la prima cosa che Clary notò fu che era perfettamente sbarbato. E questo lo faceva
sembrare più giovane, più simile al ragazzo dei ricordi che Ithuriel le aveva mostrato.
Invece della tenuta da battaglia, indossava un elegante gessato e la cravatta. Era disarmato. Avrebbe
potuto essere un uomo qualsiasi in una strada di Manhattan. Avrebbe potuto essere il padre di
chiunque.
Valentine non guardò verso Clary, non diede nemmeno segno di averla vista. Teneva gli occhi fissi
su Luke, mentre percorreva lo stretto corridoio tra le file di panche.
Come può pensare di entrare qui dentro disarmato? si chiese Clary. Ma la sua domanda trovò
subito una risposta: in quel momento l'Inquisitore Aldertree fece un verso da orso ferito, si
divincolò da Malachi che stava cercando di trattenerlo, scese barcollando i gradini del podio e si
scagliò contro Valentine.
Passò attraverso il suo corpo come un coltello attraverso un foglio di carta. Valentine si girò a
osservare Aldertree con un'occhiata di blando interesse: l'Inquisitore perse l'equilibrio, sbatté contro
una colonna e crollò scompostamente a terra. Il Console lo raggiunse, si chinò e l'aiutò a rimettersi
in piedi, con un'espressione di malcelato disgusto. Clary si chiese se fosse per Valentine o per
Aldertree, che aveva fatto una figura così grottesca.
Un altro lieve mormorio aleggiò nella sala. L'Inquisitore squittiva e si agitava come un topo in
trappola, mentre Malachi lo teneva saldamente per le braccia. Valentine riprese ad avanzare senza
degnarli più di uno sguardo. I capannelli di Cacciatori intorno alle panche arretrarono come le onde
del Mar Rosso davanti a Mosè, creando un passaggio libero al centro della Sala. Clary rabbrividì,
quando Valentine si avvicinò a loro. È solo una proiezione,si disse. Non è qui per davvero. Non può
farti male.
Accanto a lei, Simon rabbrividì e Clary gli prese la mano. In quel momento Valentine si fermò alla
base del podio e si girò verso di lei. I suoi occhi la squadrarono da capo a piedi, quasi senza parere,
come prendendole le misure, poi scavalcarono Simon e si fermarono su Luke.
— Lucian — disse.
Luke ricambiò il suo sguardo con occhi fermi e franchi, senza dire nulla. Era la prima volta che si
ritrovavano nella stessa stanza dopo Renwick, pensò Clary, e in quell'occasione Luke era coperto di
sangue e mezzo morto per le ferite. Era più facile, adesso, cogliere le differenze e le somiglianze tra
i due uomini: Luke, con la sua stazzonata camicia di flanella e i jeans, e Valentine, col suo
bellissimo completo dall'aria costosa; Luke, con la barba di un giorno e del grigio tra i capelli, e
Valentine, che sembrava ancora un venticinquenne, solo più freddo, più duro, come se il passare
degli anni lo stesse lentamente trasformando in pietra.
— Ho sentito che il Conclave ti ha accolto nel Consiglio — esordì Valentine. — Solo un Conclave
indebolito dalla corruzione e dalla ruffianeria può lasciarsi infiltrare da bastardi e degenerati. — La
sua voce era placida, quasi allegra, tanto che era difficile percepire il veleno delle sue parole,
0 credere che le pensasse davvero. Lo sguardo di Valentine si spostò su Clary. — Clarissa — disse.
— Sei venuta con il vampiro, vedo. Quando le cose si saranno un po' sistemate, sarà il caso di
ridiscutere le tue scelte in fatto di animali domestici.
Dalla gola di Simon salì un ringhio basso. Clary gli strinse la mano con forza, così forte che un
tempo gli avrebbe fatto male. Ora, invece, Simon non sembrava sentire niente. — No — gli
sussurrò. — Non reagire.
Valentine aveva già distolto l'attenzione da loro. Salì sul podio e si voltò per guardare la folla. —
Quante facce familiari — osservò. — Patrick. Malachi. Amatis.
Amatis era ancora in piedi, immobile, con gli occhi sfavillanti di rancore.
L'Inquisitore si stava ancora dibattendo nella stretta di Malachi. Lo sguardo di Valentine guizzò su
di lui, non senza un certo divertimento. — Anche tu, Aldertree. Mi dicono che sei stato
indirettamente responsabile della morte del mio vecchio amico Hodge Starkweather. Un vero
peccato.
Luke ritrovò la voce. — Quindi lo ammetti — disse. — Sei stato tu ad abbattere le difese. Sei stato
tu a mandare i demoni.
— Li ho mandati io — confermò Valentine. — E posso mandarne molti altri. Di sicuro il Conclave
se l'aspettava, per quanto stupidi possano essere i suoi membri. Tu te l'aspettavi, non è vero, Lucian?
Gli occhi azzurri di Luke erano molto seri. — Sì, me l'aspettavo, ti conosco bene, Valentine. Ma
dimmi: sei venuto a contrattare o a vantarti?
— Né l'una né l'altra cosa. — Valentine osservò la folla muta. — Non ho nessun bisogno di
contrattare — disse. Nonostante il tono calmo, la sua voce sembrava amplificata. — E nessun
bisogno di vantarmi. Non mi dà alcun piacere causare la morte di altri Shadowhunters: siamo già
abbastanza pochi, in un mondo che ha un disperato bisogno di noi. Ma è così che piace al Conclave,
no? È solo una delle vostre tante regole senza senso, quelle che usate per gettare nella polvere i
vostri Cacciatori. Ho fatto ciò che ho fatto perché ho dovuto. Perché era l'unico modo per farmi
ascoltare dal Conclave. Quegli Shadowhunters non sono morti per causa mia: sono morti perché il
Conclave non mi ha mai dato ascolto. — Incrociò gli occhi di Aldertree in mezzo alla folla: la
faccia dell'Inquisitore era bianca e contratta. — Molti di voi, un tempo, erano nel mio Circolo —
disse Valentine lentamente. — È a voi che ora mi rivolgo, e a coloro che sapevano del Circolo ma
ne rimasero fuori. Vi ricordate ciò che predissi quindici anni fa? Che, se non avessimo agito contro
gli Accordi, la città di Alicante, la nostra preziosa capitale, sarebbe stata invasa da orde sbavanti di
bastardi mezzosangue, di razze degenerate che avrebbero calpestato tutto ciò che a noi era più caro?
E, come avevo predetto, tutto ciò si è avverato. La Guardia è bruciata fino alle fondamenta, il
Portale è stato distrutto, le nostre strade sono state invase da mostri. Feccia semiumana, che
pretende di governarci. Quindi, amici miei, nemici miei, fratelli miei nell'Angelo, io vi chiedo: mi
credete, ora? — La sua voce si alzò e diventò un grido. — MI CREDETE, ORA?
Il suo sguardo percorse tutta la sala, come se si aspettasse una risposta. Ma non ci fu alcuna
risposta: solo un mare di volti fissi su di lui.
— Valentine. — La voce di Luke, per quanto bassa, ruppe il silenzio. — Non vedi ciò che hai fatto?
Gli Accordi che tu temevi tanto non hanno reso i Nascosti uguali ai Nephilim. Non hanno assicurato
ai mezzi-umani un posto nel Consiglio. Tutto l'antico rancore è rimasto. Avresti dovuto contare su
questo, ma non l'hai fatto, non hai voluto. E ora tu stesso ci hai fornito l'unico motivo che potrebbe
unirci tutti. — I suoi occhi penetrarono in quelli di Valentine. — Un nemico comune.
Un rossore animò il pallido viso di Valentine. — Io non sono un nemico. Non dei Nephilim. Tu sei
un nemico. Tu sei quello che cerca di attirarli in una guerra senza speranza. Credi che i demoni che
avete visto siano gli unici che possiedo? Sono solo una piccola parte di quelli che posso radunare.
— Anche noi siamo molti di più — replicò Luke. — Molti più Nephilim e molti più Nascosti.
— Nascosti — ripetè Valentine con disprezzo. — Scapperanno al primo segnale di vero pericolo. I
Nephilim sono nati per essere guerrieri, per proteggere questo mondo, ma il mondo odia tutti quelli
della vostra specie. C'è una ragione, se l'argento puro vi brucia e se la luce del giorno brucia i Figli
della Notte.
— Non brucia me — intervenne Simon, con voce forte e chiara, nonostante la stretta della mano di
Clary. — Guardami, sono qui, in piena luce...
Ma Valentine rise. — Ti ho visto soffocare nel pronunciare il nome di Dio, vampiro — disse. — Se
riesci a stare alla luce del sole — sorrise — è solo perché sei un'anomalia. Uno scherzo della natura.
Ma pur sempre un mostro.
Un mostro. Clary ripensò a Valentine sulla nave, a quello che le aveva detto allora: Tua madre mi ha
detto che avevo trasformato il suo primo figlio in un mostro. Mi ha lasciato prima che potessi fare
lo stesso anche con il secondo.
Jace. Il pensiero di Jace le provocò un forte dolore. Proprio lui parla di mostri, dopo quello che ha
fatto...
— L'unico mostro, qui — intervenne Clary contro se stessa e contro la sua decisione di restare in
silenzio — sei tu. Ho visto Ithuriel — continuò, quando Valentine si girò a guardarla, sorpreso. —
So tutto...
— Ne dubito — replicò Valentine. — Se sapessi tutto, terresti la bocca chiusa. Per il bene di tuo
fratello, se non per il tuo.
Non permetterti nemmeno di nominare Jace in mia presenza/, avrebbe voluto gridare, ma un'altra
voce si levò a interromperla: una voce femminile, fredda, impavida, amara, del tutto inaspettata.
— E che mi dici di mio fratello? — Amatis si fermò ai piedi del podio, guardando Valentine. Luke
trasalì, sorpreso, e la guardò scuotendo la testa, ma lei lo ignorò.
Valentine aggrottò la fronte. — Che cosa c'entra Lucian? — Clary intuì che la domanda di Amatis
lo aveva turbato, o forse era solo la presenza di Amatis, che chiedeva di sapere, che lo affrontava.
Lui l'aveva cancellata anni prima, giudicandola una donna debole che non l'avrebbe mai sfidato. A
Valentine non piacevano le sorprese.
— Tu mi hai convinto che lui non fosse più mio fratello — disse Amatis. — Tu mi hai portato via
Stephen. Tu hai distrutto la mia famiglia. Dici di non essere un nemico dei Nephilim, ma ci hai
messi tutti gli uni contro gli altri, famiglia contro famiglia, distruggendo le nostre vite senza nessun
rimorso. Tu dici di odiare il Conclave, ma sei tu che lo hai reso ciò che è adesso: meschino e
paranoico. Una volta ci fidavamo gli uni degli altri, noi Nephilim. Sei stato tu a cambiare le cose. E
io non ti perdonerò mai per questo. — Le tremò la voce. — Né per avermi indotto a trattare Lucian
come se non fosse più mio fratello. Nemmeno per questo ti perdonerò mai. Né perdonerò me stessa
per averti dato ascolto.
— Amatis... — Luke avanzò di un passo, ma sua sorella alzò una mano per fermarlo. Aveva gli
occhi lucidi di lacrime, ma la schiena era dritta, la voce ferma e risoluta.
— C'è stato un tempo in cui tutti noi eravamo pronti ad ascoltarti, Valentine — proseguì. — E tutti
noi ci portiamo quel peso sulla coscienza. Ora non più. Non più. Quel tempo è passato. C'è
qualcuno qui che non è d'accordo con me?
Clary alzò di scatto la testa e guardò l'assemblea di Shadowhunters: le apparivano come lo schizzo
di una folla, macchie indistinte al posto dei volti. Vide Patrick Penhallow con la mascella serrata e
l'Inquisitore che tremava come un fragile arboscello nel vento. E Malachi, la cui faccia scura e
scolpita era impenetrabile.
Nessuno parlò.
Se Clary si era aspettata che Valentine si arrabbiasse davanti alla mancata reazione dei Nephilim che
voleva governare, fu delusa. A parte il guizzo di un muscolo della mascella, Valentine rimase privo
di qualsiasi espressione. Come se si fosse atteso esattamente questo. Come se l'avesse previsto nel
suo piano.
— Molto bene — disse. — Se non volete ascoltare la ragione, dovrete ascoltare la forza. Vi ho già
dimostrato che posso abbattere le difese intorno alla città. Vedo che le avete ripristinate, ma non
servirà a nulla. Posso rifarlo quando voglio. O acconsentirete alle mie richieste, o affronterete tutti i
demoni che la Spada Mortale potrà radunare. Ordinerò loro di non risparmiare nessuno di voi,
uomini, donne, bambini. La scelta è vostra.
Un mormorio spazzò la sala. Luke fissava Valentine. — Tu distruggeresti deliberatamente la tua
stessa gente?
— Talvolta le piante malate devono essere eliminate, per salvare il giardino — replicò lui. — E
se tutte le piante sono malate... — Si rivolse alla folla inorridita. — Io possiedo la Coppa Mortale.
Se sarò costretto a farlo, darò inizio a un nuovo mondo di Shadowhunters, creati ed educati da me.
Ma posso darvi questa scelta. Se il Conclave trasferirà a me tutti i poteri del Consiglio e accetterà la
mia sovranità assoluta e il mio governo, io fermerò la mia mano. Tutti gli Shadowhunters dovranno
giurare obbedienza e accettare una runa permanente di fedeltà che li legherà a me. Queste sono le
mie condizioni.
Ci fu silenzio. Amatis si era portata le mani alla bocca. Tutta la sala sembrava ondeggiare sotto gli
occhi di Clary, come una massa indistinta e turbinante. Non possono arrendersi a lui, si disse. Non
possono. Ma che scelta avevano? Che scelta poteva avere, ciascuno di loro? Sono stati intrappolati
da Valentine, pensò in una specie di torpore. Così come io e Jace siamo intrappolati da ciò che lui
ci ha fatto. Siamo incatenati a lui dal nostro stesso sangue.
Fu solo un momento, anche se a Clary parve un'ora. Poi una vocetta sottile tagliò il silenzio: la voce
alta e squittente dell'Inquisitore. — Sovranità e governo? — strillò. — Il tuo governo?
— Aldertree... — Il Console cercò di trattenerlo, ma l'Inquisitore fu più veloce. Si divincolò e corse
sul podio. Ripeteva qualcosa, sempre le stesse parole, come un guaito, come se avesse perso
completamente la ragione, e aveva gli occhi strabuzzati come un invasato. Spinse via Amatis, salì
barcollando i gradini e affrontò Valentine. — Io sono l'Inquisitore, capisci? L'Inquisitore! — gridò.
— Io sono parte del Conclave! Del Consiglio! Io faccio la Legge, non tu! Io governo, non tu! Io non
ti permetterò di farlo! Arrampicatore, feccia, amante dei demoni...
Con un'espressione molto vicina alla noia, Valentine allungò una mano, quasi come per toccare
l'Inquisitore sulla spalla. Ma Valentine non poteva toccare niente: era solo una proiezione. Eppure la
mano di Valentine entrò nella pelle, nelle ossa, nelle carni dell'Inquisitore, e svanì nel suo torace. Ci
fu un attimo, solo un attimo, in cui tutta la Sala degli Accordi sembrò fissare a bocca aperta il
braccio sinistro di Valentine affondato fino al polso, contro ogni logica e ragionevolezza, nel petto
di Aldertree. Poi Valentine torse il polso con forza, di scatto, verso sinistra, come se volesse girare il
pomolo arrugginito di una porta.
L'Inquisitore lanciò un unico grido e cadde come una pietra.
Valentine ritirò la mano. Era bagnata di sangue, che come un guanto scarlatto colava verso il
gomito, macchiando il tessuto prezioso della sua giacca. Valentine abbassò la mano e scrutò la folla
inorridita. Alla fine i suoi occhi si posarono su Luke. Parlò lentamente. — Vi darò tempo fino a
domani a mezzanotte per valutare le mie condizioni. A mezzanotte porterò il mio esercito, tutte le
forze del mio esercito, alla pianura di Brocelind. Se non avrò ancora ricevuto un messaggio di resa
dal Conclave, marcerò col mio esercito su Alicante, e questa volta nulla resterà in vita. Avete
abbastanza tempo per esaminare la mia offerta. Usatelo saggiamente.
E con questo, svanì.
capitolo 14
NELLA FORESTA BUIA
— Be', questa poi! — disse Jace senza guardare Clary. Non l'aveva mai guardata, da quando lei e
Simon erano arrivati sui gradini della casa che ora era occupata dai Lightwood. Era appoggiato a
una delle alte finestre del salotto e guardava fuori, verso il cielo che stava rapidamente scurendo. —
Uno va al funerale del fratellino di nove anni e si perde tutto il divertimento!
— Jace — disse Alec con voce stanca. — Smettila.
Alec era buttato su una delle poltrone imbottite del salotto, l'unico posto dove ci si poteva sedere.
La casa aveva quell'atmosfera strana e aliena che hanno le case degli sconosciuti: era arredata con
tessuti floreali, leziosi, in colori tenui, e tutto era leggermente liso o rovinato dall'uso. C'era una
boccia di vetro piena di cioccolatini sul tavolino vicino ad Alec. Clary, che moriva di fame, ne
aveva mangiati un paio, scoprendo che erano secchi e friabili.Chissà che tipo di persone vivevano
qui, pensò. Il tipo di persone che scappano quando le cose si fanno difficili, si rispose da sola,
acida. Si meritavano che la loro casa venisse occupata.
— Smettila cosai — chiese Jace. C'era abbastanza buio fuori, ormai, e Clary vedeva il suo viso
riflesso nel vetro. I suoi occhi sembravano neri. Indossava gli abiti da lutto degli Shadowhunters:
loro non si vestivano di nero ai funerali, perché il nero era il colore delle tenute da battaglia. Il
colore della morte era il bianco. La giacca bianca che Jace indossava aveva delle rune scarlatte
ricamate su colletto e polsi. Diversamente dalle rune di guerra, che parlavano di aggressione e di
protezione, quelle parlavano un linguaggio più delicato, di guarigione e dolore. Jace aveva anche
braccialetti di ferro battuto ai polsi su cui erano incise altre rune simili. Alec era vestito nello stesso
modo, tutto in bianco, con le stesse rune d'oro brunito tracciate sul tessuto. A contrasto, i suoi
capelli sembravano ancora più neri.
Tutto in bianco, Jace sembrava un angelo, pensò Clary. Anche se della schiera dei vendicatori.
— Tu non ce l'hai con Clary né con Simon — disse Alec.
— Almeno — aggiunse aggrottando leggermente la fronte
— non con Simon.
Clary si aspettava una risposta cattiva, ma Jace disse solo: — Clary lo sa, che non ce l'ho con lei.
Con i gomiti appoggiati allo schienale del divano, Simon alzò gli occhi al cielo, ma si limitò a dire:
— Quello che non riesco a capire è come abbia fatto Valentine a uccidere l'Inquisitore. Ero convinto
che le proiezioni non avessero alcun potere sulle cose materiali.
— Non dovrebbero — disse Alec. — Sono solo illusioni. Aria colorata, per così dire.
— Be', non in questo caso. Valentine ha infilato una mano dentro l'Inquisitore, poi l'ha girata... —
Clary rabbrividì. — C'era un sacco di sangue.
— Un premio speciale per te, no? — disse Jace a Simon.
Simon lo ignorò. — C'è mai stato un Inquisitore che non abbia fatto una morte orribile? — si chiese
a voce alta. — Sembrano i batteristi degli Spinai Tap.
Alec si passò una mano sulla faccia. — I miei genitori non ne sanno ancora niente — disse. — E
francamente io non ho nessuna voglia di dirglielo.
— Sono di sopra? — chiese Clary.
Alec scosse la testa. — Sono ancora alla necropoli. Alla tomba di Max. Ci hanno mandati qui
perché volevano restare là da soli per un po'.
— E Isabelle? — chiese Simon. — Lei dov'è?
L'umorismo, per così dire, abbandonò Jace. — Non vuole uscire dalla sua stanza — disse. — E
convinta che quello che è successo a Max sia colpa sua. Non è nemmeno venuta al funerale.
— Avete provato a parlarle? — chiese Simon.
— No — disse Jace. — L'abbiamo presa a pugni in faccia, ma forse non funziona, tu che dici?
— Sempre meglio chiedere. — Il tono di Simon era mite.
— Le diremo di questa storia, che Sebastian non è veramente Sebastian — disse Alec. — Magari la
farà sentire un po' meglio. È convinta che avrebbe dovuto capire che c'era qualcosa di strano, in
Sebastian, ma se era una spia... — Alec scrollò le spalle. — Nessuno di noi aveva notato niente di
strano in lui. Nemmeno i Penhallow.
— Io, veramente, avevo notato che era una persona detestabile — precisò Jace.
— Sì, ma solo perché... — Alec sprofondò nella poltrona. Era esausto. La sua pelle aveva un
colorito grigiastro, contro il bianco immacolato dei vestiti. — Va be', non importa. Quando Isabelle
scoprirà che cosa minaccia di fare Valentine, nulla potrà tirarla su di morale.
— Secondo voi lo farebbe davvero? — chiese Clary. —
Manderebbe davvero un esercito di demoni contro i Nephilim? Insomma, è pur sempre uno
Shadowhunter, no? Non può distruggere tutta la sua gente.
— Non ha avuto scrupoli nemmeno per i suoi figli — ribatté Jace incrociando lo sguardo di Clary.
Rimasero con gli occhi negli occhi. — Che cosa ti fa pensare che potrebbe farsene per la sua gente?
Alec guardò l'uno e l'altra. Dalla sua espressione, Clary capì che Jace non gli aveva detto ancora
niente di Ithuriel. Sembrava perplesso e molto triste. — Jace...
— Questo spiega una cosa — proseguì Jace senza guardare Alee. — Magnus ha usato una runa di
localizzazione su qualcosa che Sebastian ha lasciato in camera sua, per cercare di rintracciarlo, ma
non è riuscito a leggere niente. Zero assoluto.
— Che cosa significa?
— Che erano cose di Sebastian Verlac. Probabilmente il finto Sebastian gliele ha rubate. E se
Magnus non trova nessuna informazione in queste cose, significa che il vero Sebastian...
— Probabilmente è morto — finì Alec. — E il Sebastian che conosciamo noi è troppo furbo per
lasciare in giro qualcosa che possa servire a rintracciarlo. Voglio dire, per trovare una persona non
basta un oggetto qualsiasi. Ci vuole un oggetto strettamente legato a quella persona, come un
cimelio di famiglia, uno stilo, una spazzola con qualche capello, cose del genere.
— Il che è una bella sfortuna — commentò Jace. — Se potessimo seguirlo, probabilmente ci
condurrebbe dritti da Valentine. Sono sicuro che è corso dal suo padrone con un rapporto completo.
Gli avrà anche riferito la stramba teoria di Hodge, quella del lago-Specchio.
— Forse non è così stramba — commentò Alec. — Il Conclave ha messo sentinelle a presidiare tutti
i sentieri che conducono al lago e ha attivato delle difese che avvertiranno se qualcuno usa un
Portale per arrivare al lago.
— Fantastico. Sono sicuro che adesso possiamo stare tutti più tranquilli. — Jace si appoggiò con la
schiena al muro.
— Quello che non capisco — disse Simon — è perché Sebastian sia rimasto qui. Dopo quello che
ha fatto a Izzy e a Max, non poteva più continuare la messinscena. Se anche era convinto di aver
ucciso Izzy, invece di averla solo tramortita, come poteva pensare di farla franca, con loro due morti
e lui che stava benissimo? Impossibile. E quindi, perché restare qui dopo la battaglia? Perché venire
alla Guardia a prendere me7. Non credo che gli importasse molto se ne uscivo vivo o morto.
— Ora sei troppo duro con lui — commentò Jace. — Sono sicuro che ti avrebbe preferito morto.
— A dire la verità — intervenne Clary — io credo che sia rimasto per me.
Lo sguardo di Jace si alzò di scatto sul suo, con un bagliore dorato. — Per te? Forse sperava in un
altro incontro passionale?
Clary si sentì arrossire. — No. E il nostro incontro non è stato passionale. Comunque, non è questo
il punto. Quando è entrato nella Sala degli Accordi ha cercato di portarmi fuori, per parlare a
quattr'occhi. Voleva qualcosa da me, ma non so che cosa.
— O forse, più semplicemente, voleva te — commentò Jace. Vedendo la faccia di Clary, aggiunse:
— Non in quel senso. Voglio dire che forse voleva portarti da Valentine.
— A Valentine non importa niente di me — disse Clary. — Gli è sempre importato solo di te.
Qualcosa guizzò in fondo agli occhi di Jace. — Gli importava di me...? Alla faccia... — La sua
espressione era spaventosamente fosca. — Dopo quello che è successo sulla nave, è a te che è
interessato. Il che significa che devi stare attenta. Molto attenta. Anzi, non ti farebbe male restare in
casa, nei prossimi giorni. Potresti chiuderti nella tua stanza, come Isabelle.
— Non ci penso nemmeno.
— Certo che no — commentò Jace. — Perché tu vivi per tormentarmi, vero?
— Non tutto quello che succede, Jace, riguarda te personalmente — replicò Clary furiosa.
— Forse non tutto — disse Jace. — Ma, devi ammetterlo, la maggior parte sì.
Clary represse l'istinto di urlare.
Simon si schiarì la voce. — A proposito di Isabelle, che non era proprio l'argomento della nostra
discussione. Forse però sarebbe meglio discuterne subito, prima che si scateni una lite. Penso che
dovrei parlare con lei.
— Tu? — esclamò Alec. E poi, lievemente imbarazzato dal proprio sconcerto, aggiunse
rapidamente: — È solo che... non vuole uscire dalla sua stanza nemmeno per la sua famiglia. Perché
dovrebbe uscire per te?
— Forse perché io non sono la sua famiglia — replicò Simon. Era in piedi, con le mani nelle tasche,
le spalle ben aperte. Prima, quando era seduta accanto a lui, Clary aveva notato che c'era ancora una
sottile linea bianca intorno alla sua gola, dove Valentine l'aveva tagliato, e c'erano cicatrici anche sui
polsi, sempre in corrispondenza dei tagli. L'incontro col mondo degli Shadowhunters l'aveva
cambiato, non solo in superficie o nel sangue: il cambiamento era più profondo. Simon aveva la
schiena dritta, la testa alta; si prendeva tutto quello che Jace e Alec gli buttavano addosso e non
sembrava curarsene. Il Simon che una volta avrebbe avuto paura di loro, o che si sarebbe sentito a
disagio, non c'era più.
Clary sentì un'improvvisa fitta al cuore e trasalì, quando capì cosa provava: aveva nostalgia di
Simon, del Simon di una volta.
— Voglio fare un tentativo, per capire se Isabelle vuole parlare con me — annunciò Simon. — Non
farà male a nessuno.
— Ma è quasi buio — obiettò Clary. — Abbiamo promesso a Luke e ad Amatis di tornare prima del
tramonto.
— Ti accompagno io — si offrì Jace. — Simon può cavarsela da solo a trovare la strada di casa al
buio. Non è vero, Simon?
— Certo che se la può cavare! — esclamò Alec, come ansioso di riparare al precedente insulto. — È
un vampiro, e poi... — aggiunse. — Ah, era una battuta, come non detto.
Simon sorrise. Clary aprì la bocca per protestare, ma subito e la chiuse. In parte perché sarebbe stato
irragionevole, e lo sapeva, in parte perché c'era un'espressione negli occhi di Jace, mentre guardava
Simon, che la fece ammutolire per la sorpresa: era divertimento, pensò Clary, mescolato a un po' di
gratitudine e forse persino, incredibilmente, a un po' di rispetto.
Non ci voleva molto per arrivare a piedi dalla nuova casa dei Lightwood a quella di Amatis. Clary
avrebbe voluto che fosse più lontana. Non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero che ogni
momento trascorso con Jace fosse in qualche modo prezioso e limitato, che si stessero avvicinando
a qualche invisibile ultimatum che li avrebbe separati per sempre.
Lo guardò di sottecchi. Teneva lo sguardo fisso avanti, come se Clary non ci fosse nemmeno. Il suo
profilo si stagliava nitido contro la stregaluce che illuminava le strade. I capelli gli si arricciavano
sulle guance, senza riuscire a nascondere la cicatrice bianca sulla tempia, dove c'era stato un
marchio. La catenina, a cui era appeso l'anello dei Morgenstern, gli luccicava intorno alla gola. La
mano sinistra non era più fasciata, ma le nocche erano ancora scorticate. Quindi stava davvero
guarendo come un mondano, come aveva preteso Alec.
Clary rabbrividì. Jace la guardò. — Hai freddo?
— Stavo pensando — rispose lei. — Mi sorprende che Valentine abbia ucciso l'Inquisitore e non
Luke. L'Inquisitore è uno Shadowhunter, mentre Luke è... Luke è un Nascosto. In più, Valentine lo
odia.
— Ma in un certo senso lo rispetta, anche se è un Nascosto — osservò Jace. Clary ricordò lo
sguardo che Jace aveva rivolto a Simon poco prima e cercò di non pensarci. Odiava pensare che
Jace e Valentine fossero in qualche modo simili, anche in una cosa così futile come uno sguardo. —
Luke sta cercando di far cambiare il Conclave, di introdurre un modo nuovo di pensare. È
esattamente quello che ha fatto Valentine a suo tempo, anche se i suoi scopi erano... be', non erano
gli stessi. Luke è un iconoclasta. Vuole il cambiamento. Per Valentine, l'Inquisitore rappresenta il
Conclave vecchio e retrogrado che lui detesta.
— E una volta erano amici — aggiunse Clary. — Luke e Valentine.
— Il marchio di ciò che un tempo è stato1 — disse Jace.
E Clary capì, dal tono vagamente ironico, che stava citando il verso di una poesia. — Purtroppo, di
solito odi più profondamente proprio le persone che un tempo hai amato. Immagino che Valentine
abbia in mente qualcosa di speciale per Luke, alla fine di tutto. Una volta che prenderà il potere.
— Ma lui non prenderà il potere! — replicò Clary. Quando Jace non disse nulla, alzò il tono della
voce. — Lui non vincerà! Non può vincere. Non vuole veramente la guerra, non contro i Cacciatori
e i Nascosti insieme...
— Che cosa ti fa pensare che i Cacciatori combatteranno insieme ai Nascosti? — le chiese Jace,
sempre senza guardarla in faccia. Stavano camminando sulla strada lungo il canale e Jace fissava
l'acqua, con la mascella serrata. — Solo perché lo dice Luke? Luke è un idealista.
— E questa sarebbe una brutta cosa?
— Non è una brutta cosa. È solo che io non sono affatto un idealista — ribatté Jace. Clary provò
una fitta gelida al cuore, sentendo il vuoto nella sua voce. Disperazione, rabbia, odio. Queste sono
qualità dei demoni. Jace sta recitando il ruolo che pensa di dover interpretare.
Erano arrivati davanti alla casa di Amatis. Clary si fermò sui gradini e si voltò verso di lui. — Forse
— gli disse.
— Ma non sei nemmeno come lui.
Jace trasalì appena, per quelle parole, o forse fu solo per la fermezza nel tono di Clary. Si girò e la
guardò, per la prima volta da quando erano usciti dalla casa dei Lightwood.
— Clary... — iniziò Jace, ma s'interruppe, trattenendo il respiro. — Hai del sangue sulla manica. Sei
ferita?
1 S.T. Coleridge, Christabel.
Le si avvicinò, prendendole il polso. Clary abbassò lo sguardo e vide con sorpresa che aveva
ragione: c'era una macchia irregolare, color rosso scarlatto, sulla manica destra del cappotto. La
cosa strana era che il rosso era ancora vivido. Il sangue secco diventava più scuro, no? Clary
aggrottò la fronte. — Non è mio, questo sangue.
Jace si rilassò un po' e allentò la presa. — È dell'Inquisitore?
Clary scosse la testa. — Credo che sia di Sebastian.
— Il sangue di Sebastian?
— Sì... quando è arrivato nella Sala degli Accordi, l'altra sera, se ti ricordi aveva il viso sporco di
sangue. Credo che sia stata Isabelle a graffiarlo. Comunque, gli ho toccato la faccia e mi sono
macchiata. — Guardò la macchia più da vicino. — Credevo che Amatis mi avesse lavato il
cappotto, ma evidentemente non l'ha fatto.
Si aspettava che Jace le lasciasse il polso, invece lui la trattenne ancora un po', esaminando il
sangue, poi le restituì il braccio, apparentemente soddisfatto. — Grazie.
Clary lo guardò per un lungo momento, poi scosse la testa. — Non hai nessuna intenzione di dirmi
cos'hai in mente, vero?
— Nessunissima.
Clary buttò in alto le braccia, esasperata. — Io vado. Ci vediamo.
Si girò e salì i gradini della porta d'ingresso. Non seppe mai che, nel momento stesso in cui gli voltò
le spalle, il sorriso svanì dalla faccia di Jace, il quale rimase a lungo nell'oscurità a guardare la porta
che si era chiusa alle spalle di Clary, rigirando un filo tra le dita.
— Isabelle — chiamò Simon. Gli ci erano voluti un paio di tentativi per trovare la sua stanza, ma i
continui «Vai via!» provenienti da dietro la porta l'avevano convinto che aveva individuato quella
giusta. — Isabelle, fammi entrare.
Ci fu un tonfo soffocato e la porta vibrò leggermente, come se Isabelle vi avesse scagliato qualcosa
contro, forse una scarpa. — Non voglio parlare né con te né con Clary. Non voglio parlare con
nessuno. Lasciami in pace, Simon.
— Clary non c'è — disse Simon. — E io non me ne vado finché non mi parli.
— Alec! — strillò Isabelle. — Jace! Fatelo andare via!
Simon aspettò. Dal piano di sotto non arrivò alcun rumore. O Alec si era allontanato, oppure stava
facendo finta di niente. — Non ci sono nemmeno loro, Isabelle. Ci sono solo io.
Silenzio. Finalmente Isabelle parlò di nuovo. Questa volta la sua voce arrivò da molto più vicino,
come se fosse proprio dietro la porta. — Sei da solo?
— Sono da solo — confermò Simon.
La porta si socchiuse. Isabelle era lì, in sottoveste nera, i capelli sciolti e aggrovigliati sulle spalle.
Simon non l'aveva mai vista così: a piedi nudi, coi capelli in disordine, senza trucco. — Puoi
entrare.
Simon entrò passandole accanto. Dalla luce che filtrava dalla porta vide, come avrebbe detto sua
madre, che in quella stanza era passato un tornado. C'erano vestiti sparsi per terra a mucchi, una
sacca da viaggio aperta sul pavimento, come se fosse esplosa. La lucente frusta di Isabelle era
appesa a un angolo del letto, un reggiseno di pizzo bianco a un altro. Simon distolse lo sguardo. Le
tende erano chiuse, le lampade spente.
Isabelle si lasciò cadere sul bordo del letto e lo guardò con amaro divertimento. — Un vampiro che
arrossisce. Chi l'avrebbe mai detto... — Alzò il mento. — Allora? Io ti ho fatto entrare. Dimmi che
cosa vuoi.
Nonostante lo sguardo rabbioso, Simon pensò che Isabelle sembrava più giovane del solito, con
quegli occhioni grandi e neri che spiccavano nella faccia pallida e tirata. Vide le sottili cicatrici
bianche che percorrevano la pelle chiara, sulle braccia nude, la schiena, le clavicole, persino le
gambe. Se Clary resterà una Cacciatrice, pensò Simon, un giorno sarà anche lei così, tutta
cicatrici. Il pensiero non lo turbò come forse sarebbe successo in passato. C'era qualcosa di
speciale, nel modo in cui Isabelle esibiva le proprie cicatrici, quasi ne andasse.
Aveva qualcosa tra le mani, qualcosa che rigirava tra le dita, un piccolo oggetto che nella penombra
emanava qualche pallido bagliore. Simon pensò per un momento che fosse un gioiello.
— Quello che è successo a Max — le disse — non è stato colpa tua.
Lei non lo guardò. Continuò a fissare l'oggetto che aveva in mano. — Sai cos'è questo? — gli
chiese, mostrandoglielo. Era un soldatino intagliato nel legno. Uno Shadowhunter giocattolo, con
tanto di tenuta da battaglia dipinta di nero. Il bagliore d'argento che Simon aveva notato era il colore
della piccola spada, ma era molto consunto. — Era di Jace
— spiegò Isabelle senza aspettare la risposta. — Era l'unico giocattolo che aveva quando arrivò da
Idris. Forse una volta faceva parte di un esercito. Secondo me se l'era fatto lui, ma non ne parlava
mai. Lo portava sempre con sé, ce l'aveva sempre in tasca, quand'era piccolo. Poi un giorno ho visto
Max con il soldatino in mano. Jace doveva avere più o meno tredici anni, allora. Era diventato
troppo grande, per giocarci, e così l'aveva regalato a Max. Comunque, Max lo teneva in mano,
quando l'hanno trovato. Era come se ci si fosse aggrappato, quando Sebastian... quando Sebastian...
— S'interruppe. Lo sforzo che stava facendo per non piangere era visibile: la bocca era una smorfia,
sghemba e come fuori asse. — Avrei dovuto essere là a proteggerlo, perché si potesse aggrappare a
me, non a uno stupido giocattolo di legno. — Lo scagliò sul letto, con gli occhi lucidi.
— Avevi perso i sensi — protestò Simon. — Hai rischiato di morire, Izzy. Non c'era niente che tu
potessi fare.
Isabelle scosse la testa e i capelli aggrovigliati le danzarono sulle spalle. Era feroce e selvaggia. —
E tu che ne sai? — gli chiese. — Tu sai che Max era venuto da noi, la notte in cui è morto, per dirci
che aveva visto qualcuno arrampicarsi sulle torri antidemoni? E io gli avevo detto che era stato un
sogno e l'avevo mandato via. E invece aveva ragione. Scommetto che era quel bastardo di
Sebastian, che si stava arrampicando sulle torri per neutralizzare le difese. E Sebastian l'ha ucciso
perché non dicesse a nessuno che cosa aveva visto. Se solo l'avessi ascoltato... Se solo mi fossi
presa un secondo per ascoltarlo, non sarebbe mai successo.
— Non potevi saperlo — replicò Simon. — E per quel che riguarda Sebastian... non era il cugino
dei Penhallow. Ha preso in giro tutti.
Isabelle non sembrò sorpresa. — Lo so — disse. — Ho sentito quando lo raccontavi ad Alec e a
Jace. Stavo ascoltando dalle scale.
— Stavi origliando?
Isabelle scrollò le spalle. — Fino alla parte in cui dicevi che volevi parlare con me. Allora sono
tornata qui. Non mi andava di vederti. — Lo guardò di traverso. — Devo rendertene atto, però, tu
non molli mai.
— Senti, Isabelle. — Simon fece un passo avanti. Diventò stranamente, improvvisamente
consapevole di quanto fosse poco vestita, per cui evitò di metterle una mano sulla spalla o di fare
qualsiasi altro gesto tranquillizzante. — Quando mio padre morì, sapevo che non era colpa mia, ma
continuavo a pensare a tutte le cose che avrei dovuto fare o dire prima che morisse.
— Sì, be', ma questa è colpa mia — replicò Isabelle. — E quello che io avrei dovuto fare era
ascoltare. E quello che ancora posso fare è ritrovare quel bastardo che ha fatto questo e ucciderlo.
— Non sono sicuro che servirebbe...
— Come fai a dirlo? — gli chiese Isabelle. — Hai trovato il responsabile della morte di tuo padre e
l'hai ucciso?
— Mio padre ha avuto un attacco di cuore — spiegò Simon. — Quindi, no.
— Quindi non sai di cosa stai parlando, giusto? — Isabelle sollevò il mento e lo guardò dritto in
faccia. — Vieni qui.
— Cosa?
Gli fece cenno di avvicinarsi con l'indice, imperiosamente. — Vieni qui, Simon.
Con riluttanza, Simon le si avvicinò. Quando fu abbastanza vicino, Isabelle lo prese per la camicia e
lo tirò giù verso di sé. I loro volti erano a pochi centimetri di distanza: Simon notò che la pelle sotto
gli occhi di Isabelle era ancora umida e lucida per le lacrime recenti. — Sai di cosa ho veramente
bisogno in questo preciso momento? — gli disse, scandendo bene le parole.
— Uhm — fece Simon. — No...
— Di distrazione — rispose Isabelle. E con un mezzo giro del busto lo tirò di peso accanto a sé.
Simon cadde sul letto di sulla schiena, in mezzo a un mucchio di vestiti messi alla rinfusa. —
Isabelle — protestò debolmente. — Pensi davvero che questo possa farti sentire meglio?
— Fidati — ribatté lei, mettendogli una mano sul petto, sul suo cuore immobile. — Mi sento già
meglio.
Clary era distesa nel letto, sveglia, con gli occhi fissi su un raggio di luna che disegnava il suo
percorso sul soffitto. Aveva i nervi ancora troppo tesi per gli eventi della giornata e non riusciva a
dormire. Non l'aiutava il fatto che Simon non fosse rientrato per la cena, né dopo cena. Alla fine
aveva espresso le sue preoccupazioni a Luke, che si era infilato il cappotto e aveva fatto un salto dai
Lightwood. Era tornato visibilmente divertito. — Simon sta bene, Clary — le aveva detto. — Va'
pure a letto. — E poi era uscito di nuovo, con Amatis, per un'altra delle loro interminabili riunioni
nella Sala degli Accordi. Chissà, si chiese Clary, se qualcuno aveva lavato via il sangue
dell'Inquisitore.
Non avendo nient'altro da fare, Clary era andata a letto, ma il sonno continuava ostinatamente a
sfuggirle. Non faceva che rivedere Valentine che strappava il cuore ad Aldertree. E il modo in cui si
era rivolto a lei e le aveva detto: Se sapessi tutto, terresti la bocca chiusa. Per il bene di tuo fratello,
se non per il tuo. Come se non bastasse, i segreti che aveva appreso da Ithuriel le pesavano sul petto
come un macigno. E sotto tutte quelle ansie c'era la paura, costante come il battito del cuore, che
sua madre morisse. Dov'era Magnus?
Ci fu un fruscio vicino alle tende e un'improvvisa ondata di luce lunare si riversò nella stanza. Clary
balzò a sedere sul letto, cercando subito la spada angelica che teneva sul comodino.
— Va tutto bene. — Una mano si posò sulle sue; una mano sottile, segnata da cicatrici, familiare. —
Sono io.
Clary trasalì e lui ritrasse la mano! — Jace — esclamò. — Che ci fai, qui? Cos'è successo?
Per un momento Jace non rispose e Clary si girò per guardarlo, raccogliendo le lenzuola intorno a
sé. Si sentì arrossire, per il disagio di indossare solo i pantaloni del pigiama e una canottiera leggera.
Ma poi vide la sua espressione e l'imbarazzo svanì.
— Jace? — sussurrò. Era accanto al letto, e indossava ancora gli abiti da lutto. E non c'era niente di
leggero, sarcastico o distaccato nel modo in cui la stava guardando. Era pallidissimo e i suoi occhi
sembravano spiritati, quasi neri per la tensione. — Stai bene?
— Non lo so — rispose con il tono confuso di chi si è appena risvegliato da un sogno. — Non
volevo venire qui. Ho girato per tutta la notte, non riuscivo a dormire... e continuavo a ritrovarmi
qui. Da te.
Clary si raddrizzò sul letto e lasciò cadere le lenzuola intorno ai fianchi. — Perché non riuscivi a
dormire? È successo qualcosa? — gli chiese, sentendosi subito molto stupida. Che cosa non
era successo?
Jace, tuttavia, sembrò a malapena aver sentito la domanda. — Dovevo vederti — disse, più a se
stesso che a lei. — So che non è giusto. Ma dovevo farlo.
— Be', siediti, allora — lo invitò Clary, spostando le gambe per fagli posto sul bordo del letto. —
Perché così mi fai paura. Sei sicuro che non sia successo niente?
— Non ho detto questo. — Jace si sedette, rivolto verso di lei. Era così vicino che Clary avrebbe
potuto piegarsi in avanti e dargli un bacio.
Le si strinse il petto. — Ci sono brutte novità? È tutto... stanno tutti...
— Non brutte — disse Jace. — E neanche novità. Anzi, il contrario di novità. È una cosa che ho
sempre saputo e... probabilmente la sai anche tu. Dio sa se non ho nascosto tutto per bene. — I suoi
occhi scrutavano il volto di Clary, come se volesse mandarlo a memoria. — Quello che è successo
— le disse, esitando — è che ho capito una cosa.
— Jace — sussurrò Clary. Per nessuna ragione apparente, aveva paura di quello che lui stava per
dire. — Jace, non devi...
— Volevo andare... in un posto — proseguì lui — ma continuavo a sentirmi trascinato qui. Non
riuscivo a smettere di camminare, non riuscivo a smettere di pensare. Alla prima volta che ti ho
visto e a come, da quella volta, non sono più riuscito a dimenticarti. Ho cercato, ma non ci sono
riuscito. Ho fatto in modo che Hodge mi mandasse a prenderti per portarti all'Istituto. E anche
allora, in quello stupido caffè, quando ti ho visto sul divanetto con Simon, sentivo che c'era
qualcosa di sbagliato: dovevo esserci io con te, su quel divanetto. Dovevo essere io quello che ti
faceva ridere così. Non riuscivo a liberarmi da quella sensazione. Che dovevo essere io. E più ti
conoscevo, più lo sentivo. Non mi era mai successo prima. Prima succedeva che desideravo una
ragazza e poi la conoscevo e poi non la desideravo più. Ma con te la sensazione era sempre più
forte, fino alla notte in cui sei arrivata a Renwick e ho capito.
«E poi scoprire il motivo per cui mi sentivo così, come se tu fossi una parte di me che avevo
perduto e di cui non sapevo nemmeno di sentire la mancanza, finché non ti ho rivisto. Scoprire che
era perché tu eri mia sorella mi parve davvero una specie di scherzo cosmico. Come se Dio mi
stesse sputando in testa. Non so nemmeno io per cosa, forse per aver pensato che potevo averti, e
meritare una cosa bella come te, ed essere felice. Non riuscivo a immaginare cosa potevo aver fatto
per essere punito in questo modo.
— Se tu sei stato punito — disse Clary — sono stata punita anch'io. Perché tutte le cose che tu
sentivi le sentivo anch'io. Ma non possiamo... Dobbiamo smettere di sentirci così, perché è la nostra
unica possibilità.
Le mani di Jace erano strette ai suoi fianchi. — La nostra unica possibilità per cosa?
— Per poter continuare a vederci. Perché altrimenti non potremo più stare vicini, nemmeno nella
stessa stanza. E io non potrei sopportarlo. Preferisco averti nella mia vita anche solo come un
fratello, piuttosto che non averti affatto.
— E io dovrei starmene seduto a guardare mentre tu esci con altri ragazzi e t'innamori di qualcun
altro e ti sposi...? — Gli si indurì la voce. — E nel frattempo, guardando te, morirei un po' ogni
giorno.
— No. Per allora non te ne importerà più nulla — replicò Clary. Ma si chiese, mentre parlava,
se lei avrebbe potuto sopportare l'idea di un Jace a cui non importava. Non aveva mai pensato così
in là nel tempo. Quando cercò di immaginare se stessa che guardava Jace che si innamorava di
un'altra e la sposava, non riuscì nemmeno a figurarselo, non vide niente se non un tunnel nero e
vuoto, davanti a lei, che si allungava all'infinito. — Ti prego. Se non diciamo niente... se fingiamo...
— E impossibile fingere — disse Jace con assoluta chiarezza. — Io ti amo e ti amerò fino alla
morte e, se c'è una vita dopo la morte, ti amerò anche allora.
Clary trattenne il respiro. Le aveva dette. Le parole da cui non si tornava indietro. Cercò
disperatamente qualcosa da dire, ma non le venne niente.
— E so che pensi che io voglia stare con te solo per... per dimostrare a me stesso che razza di
mostro sono — aggiunse Jace. — E forse sono davvero un mostro. Non so rispondere. Ma quello
che so è che, se c'è sangue di demone in me, c'è anche sangue umano. E non potrei amarti come ti
amo, se non fossi almeno un po' umano. Perché i demoni vogliono. Ma non amano. Io invece...
Jace si alzò, mosso da una sorta di furia improvvisa, e si avvicinò alla finestra. Sembrava smarrito
smarrito come lo era stato nella Sala degli Accordi, davanti al corpo di Max.
— Jace? — Quando lui non rispose Clary, allarmata, si alzò, lo raggiunse e gli posò una mano sulla
spalla. Jace continuò a guardare fuori dalla finestra. I loro riflessi nel vetro erano quasi trasparenti, i
fantasmi di un ragazzo alto e di una ragazza più piccola, con la mano stretta ansiosamente sulla
manica di lui. — Che cosa succede?
— Non avrei dovuto parlarti così — ribatté Jace senza guardarla. — Mi dispiace. Probabilmente è
troppo da assorbire tutto insieme. Sembravi... sconvolta. — La tensione che si percepiva nella sua
voce era come elettricità.
— Lo ero — confermò Clary. — Ho passato questi ultimi giorni a chiedermi se mi odiavi. E quando
ti ho visto stasera ero quasi sicuro di sì.
— Odiarti? — le fece eco Jace, stupefatto. Le sfiorò il viso con delicatezza, solo con la punta delle
dita. — Ti ho detto che non riuscivo a dormire. Domani a mezzanotte, o saremo in guerra o saremo
servi di Valentine. Questa potrebbe essere l'ultima notte della nostra vita, sicuramente l'ultima notte
normale, anche se solo vagamente. L'ultima notte in cui andremo a dormire e ci sveglieremo come
sempre. E tutto quello che riesco a pensare, è che voglio passarla con te.
Il cuore di Clary fece una capriola. — Jace...
— Non in quel senso — precisò subito lui. — Non ti toccherò nemmeno con un dito, se non vuoi.
So che è sbagliato... Dio, è tutto così sbagliato... Ma voglio solo sdraiarmi con te e svegliarmi con
te, una volta sola, una volta sola nella vita. — C'era disperazione nella sua voce. — È solo questa
notte. Nel grande schema della vita, quanto può contare una notte?
Pensa a come ci sentiremo domattina. Pensa a quanto sarà più difficile fingere che non c'importa
niente l'uno dell'altra davanti a tutti, dopo che avremo passato la notte insieme, anche se sarà solo
per dormire. Sarà come assaggiare una droga: ci farà solo desiderare di averne ancora.
Ma era per questo che Jace le aveva detto tutto ciò, capì Clary. Perché non era così, non per lui: non
c'era niente che potesse peggiorare ancora le cose, come non c'era niente che potesse migliorarle.
Quello che sentiva Jace era definitivo come una condanna all'ergastolo. E lei? Poteva forse dire che
era molto diverso, per lei? E anche se sperava che potesse essere diverso, anche se sperava di
potersi un giorno convincere, con il tempo o con la ragione, o per progressivo logoramento, di non
provare più quei sentimenti, non importava. Non c'era niente che avesse mai desiderato nella vita
più di quella notte insieme a Jace.
— Allora chiudi le tende, prima di venire a letto — gli disse. — Non riesco a dormire con tutta
questa luce nella stanza.
L'espressione che pervase il viso di Jace era di pura incredulità. Non si era aspettato di ricevere un
sì, si rese conto Clary con sorpresa. Un attimo dopo Jace la prese e la strinse in un abbraccio,
affondando il volto nei suoi capelli ancora arruffati dal sonno. — Clary...
— Vieni a letto — gli disse dolcemente. — È tardi. — Si staccò da lui e tornò verso il letto, vi
sgattaiolò dentro e tirò su le lenzuola fino alla vita. Viste così le cose, Clary riusciva quasi a
immaginare che fossero diverse, che fossero già passati molti anni, che loro due fossero insieme da
tanto tempo e avessero ripetuto mille volte gesti come quelli, che ogni notte appartenesse a loro.
Appoggiò il mento alle mani e lo guardò: Jace chiuse le tende, poi si tolse la giacca bianca e
l'appese allo schienale della sedia. Sotto aveva una maglietta grigio chiaro e i marchi scuri che
s'intrecciavano sulle braccia nude brillarono, mentre si sganciava la cintura e l'appoggiava a terra
con tutte le armi. Si slacciò gli stivali e se li sfilò avvicinandosi al letto. Si distese con cautela vicino
a Clary. Sdraiato sulla schiena, girò la testa verso di lei. Dai bordi delle tende filtrava nella stanza
un filo di luce, appena sufficiente a Clary per distinguere il profilo del suo viso e il bagliore dei suoi
occhi.
— Buona notte, Clary — le disse.
Jace teneva le braccia lungo i fianchi, le mani aperte. Sembrava quasi che non respirasse. Del resto,
anche Clary non era sicura di respirare. Fece scivolare una mano sulle lenzuola fino a sfiorare le sue
dita, così leggermente che, se accanto a lei ci fosse stato un altro, forse non se ne sarebbe neanche
accorta. Ma ora le terminazioni nervose delle dita fremettero dolcemente, come se la sua mano
fosse sopra una fiamma. Sentì Jace entrare in tensione, poi rilassarsi. Aveva chiuso gli occhi e le
ciglia proiettavano delle belle ombre sulla linea degli zigomi. La bocca si curvò in un sorriso, come
se percepisse lo sguardo di Clary. Clary immaginò come sarebbe stato Jace la mattina dopo, al
risveglio, coi capelli arruffati e gli occhi pieni di sonno. Nonostante tutto, il pensiero le diede una
scossa di felicità.
Intrecciò le dita alle sue. — Buonanotte — gli sussurrò. Tenendolo per mano, come i bambini delle
favole, Clary si addormentò al suo fianco, nel buio.
capitolo 15
TUTTO CROLLA
Luke aveva passato gran parte della notte a guardare la luna, che attraversava il tetto trasparente
della Sala degli Accordi come una moneta d'argento che rotolasse sulla superficie di un tavolo di
cristallo. Quando era quasi piena, come quella notte, anche se era in forma umana Luke sentiva
acuirsi il senso della vista e dell'olfatto. In quel momento, per esempio, percepiva nella stanza il
sudore del dubbio e, sotto, quello più pungente della paura. Percepiva l'inquieta preoccupazione del
suo branco, nella foresta di Brocelind: i lupi aspettavano notizie da lui, camminando
incessantemente nel buio tra gli alberi.
— Lucian! — La voce di Amatis al suo orecchio era bassa ma penetrante. — Lucian!
Strappato dai suoi sogni a occhi aperti, Luke si sforzò di mettere a fuoco la scena davanti a sé con
gli occhi esausti. Era un gruppetto disomogeneo, quello che aveva almeno accettato di ascoltare il
suo piano, formato da meno persone di quelle che aveva sperato. Molti li conosceva dalla sua
vecchia vita a Idris - i Penhallow, i Lightwood, i Ravenscar - e altrettanti li aveva conosciuti da
poco, come i Monteverde, che gestivano l'Istituto di Lisbona e parlavano un misto di portoghese e
inglese, o Nasreen Chaudhury, severa direttrice dell'Istituto di Mumbai. Il suo sari verde scuro era
decorato da un complesso motivo di rune d'argento così luminose che, d'istinto, Luke si ritrasse
passandole accanto.
— Insomma, Lucian! — stava dicendo Maryse Lightwood. Il volto piccolo e bianco era segnato
dallo sfinimento e dal dolore. Luke non si aspettava che lei e suo marito venissero, invece avevano
accettato non appena lui glielo aveva proposto. Immaginava di dover essere grato per la loro
presenza, anche se il dolore portava Maryse a essere più aspra del solito. — Sei tu che ci hai voluti
tutti qui. Il meno che puoi fare, è prestarci attenzione.
— Lo sta facendo. — Amatis era seduta con le gambe raccolte sotto di sé, come una ragazzina, ma
la sua espressione era ferma. — Non è colpa di Lucian se continuiamo a girare intorno alle stesse
cose da un'ora.
— E continueremo a girarci intorno finché non avremo trovato una soluzione — disse Patrick
Penhallow, con un punta di tensione nella voce.
— Con tutto il rispetto, Patrick — intervenne Nasreen con il suo accento smozzicato — ma
potrebbe non esserci una soluzione. La cosa migliore in cui possiamo sperare è un piano.
— Un piano che non comporti né la schiavitù di massa né... — cominciò Jia, la moglie di Patrick,
ma si interruppe, mordendosi il labbro. Era una bella donna, snella, molto somigliante a sua figlia
Aline. Luke ricordava quando Patrick era scappato all'Istituto di Pechino e l'aveva sposata. Era stato
una specie di scandalo, perché Patrick avrebbe dovuto sposare una ragazza che i suoi genitori
avevano scelto per lui, a Idris. Ma a lui non era mai piaciuto fare quello che gli ordinavano gli altri,
qualità di cui ora Luke gli era grato.
— Né un'alleanza con i Nascosti? — concluse Luke per lei. — Temo che non ci sia modo di
evitarlo.
— Non è questo il problema e lo sai — intervenne Maryse. — È la questione dei seggi al Consiglio.
Il Conclave non accetterà mai. Ben quattro seggi...
— Non quattro — la corresse Luke. — Uno per il Popolo Fatato, uno per i Figli della Luna e uno
per i Figli di Lilith.
— Le fate, i licantropi, gli stregoni — disse a voce bassa il senhor Monteverde, inarcando le
sopracciglia. — E i vampiri?
— Non mi hanno ancora promesso niente — ammise Luke. — E anch'io non ho promesso niente a
loro. Non muoiono dalla voglia di entrare a far parte del Consiglio: non sono molto amanti della
mia razza, né delle assemblee e delle regole. Ma la porta è aperta anche per loro, se dovessero
cambiare idea.
— Malachi e i suoi non accetteranno mai. E senza il loro appoggio, non avremo abbastanza voti in
Consiglio — mormorò Patrick. — E poi, senza i vampiri che possibilità abbiamo?
— Delle buone possibilità — ribatté secca Amatis, che sembrava credere nel piano di Luke più di
lui. — Ci sono molti Nascosti pronti a combattere con noi e sono molto potenti. Basta pensare agli
stregoni.
Scuotendo la testa, la senhora Monteverde si rivolse al marito. — Questo piano è una follia. Non
funzionerà mai. I Nascosti non sono affidabili.
— Ha funzionato, durante la Rivolta — osservò Luke.
La portoghese arricciò le labbra. — Solo perché Valen-tine aveva degli idioti nel suo esercito —
disse. — E come facciamo a sapere che i vecchi membri del Circolo non si rimetteranno con lui,
quando li chiamerà a combattere al suo fianco?
— Attenta a quello che dici, senhora — esclamò Robert Lightwood. Era la prima volta che apriva
bocca, da più di un'ora. Era rimasto fermo quasi tutta la sera, immobilizzato dal dolore. Il suo volto
era solcato da rughe profonde che tre giorni prima non c'erano, Luke era pronto a giurarci. Il suo
tormento era evidente nelle spalle contratte e nei pugni chiusi. Luke non poteva certo criticarlo per
questo. Robert non gli era mai piaciuto molto, ma c'era qualcosa di profondamente toccante nel
vedere un uomo così grande e grosso annientato dal dolore. — Se credi che potrei unirmi a
Valentine dopo la morte di Max... È stato lui a far assassinare il mio bambino...
— Robert — mormorò Maryse posandogli una mano sul braccio.
— Se non ci uniamo a lui — replicò il senhor Monteverde — tutti i nostri figli potrebbero morire.
— Se lo pensi davvero, perché sei qui? — Amatis si alzò in piedi. — Mi pareva che fossimo
d'accordo.
Anche a me. Luke aveva mal di testa. Era sempre così, con loro, pensò: due passi avanti e uno
indietro. Erano tremendi come le guerre tra i Nascosti. Se solo si fossero visti! Forse sarebbe stato
meglio per tutti risolvere i problemi con un corpo a corpo, come faceva il suo branco.
Un movimento fulmineo alle porte della Sala degli Accordi attirò la sua attenzione. Fu un attimo e,
se non fosse stato per la luce della luna piena, forse non l'avrebbe colto e non avrebbe riconosciuto
la figura che stava passando rapidamente davanti alle porte. Si chiese per un momento se fosse
frutto della sua immaginazione. Qualche volta, quando era molto stanco, gli pareva di vedere
Jocelyn, nel guizzo di un'ombra, di un gioco di luce su un muro.
Ma questa volta non era Jocelyn. Luke si alzò in piedi. — Mi prendo cinque minuti. Ho bisogno di
un po' d'aria fresca. Torno subito. — Sentì i loro sguardi che lo seguivano mentre si avvicinava alle
porte: di tutti, anche di Amatis. Il senhor Monteverde sussurrò qualcosa a sua moglie in portoghese.
Luke colse lobo, "lupo", nel flusso di parole. Penseranno che vado fuori per correre in cerchio e
ululare alla luna.
Fuori, l'aria era fresca e pulita, il cielo era grigio ardesia. L'alba arrossava il cielo a est e dava un
riflesso rosa pallido ai gradini di marmo bianco che scendevano dalla porta della Sala degli Accordi.
Jace lo stava aspettando, a metà scalinata. Gli abiti bianchi da lutto che indossava colpirono Luke
come uno schiaffo in pieno viso: il ricordo di tutte le perdite che avevano subito e di quelle che
avrebbero dovuto subire.
Luke si fermò diversi gradini più in su. — Che ci fai qui, Jonathan?
Jace non disse niente e Luke si rimproverò mentalmente per la sua sbadataggine: a Jace non piaceva
essere chiamato Jonathan e di solito reagiva con una risposta piccata. Questa volta, però, non
sembrò curarsene. Il volto che levò verso Luke era cupo come quello di tutti gli adulti riuniti nella
sala. Anche se gli mancava ancora un anno per diventare adulto secondo la Legge del Conclave,
nella sua breve vita Jace aveva già visto cose peggiori di quelle che la maggior parte degli adulti
avrebbe potuto solo immaginare.
— Cercavi i tuoi genitori?
— Vuoi dire i Lightwood? — Jace scosse la testa. — No. Non voglio parlare con loro. Stavo
cercando te.
— È per Clary? — Luke scese la scalinata e si fermò un gradino sopra quello di Jace. — Sta bene?
— Sta bene. — Nominare Clary mise in tensione Jace e questo creò tensione anche in Luke. Ma
Jace non avrebbe mai detto che Clary stava bene, se non fosse stato vero.
— Allora cosa c'è?
Jace guardò verso le porte della sala. — Come sta andando, là dentro? Progressi?
— Non esattamente — ammise Luke. — Anche se non vogliono arrendersi a Valentine, l'idea di
avere dei Nascosti in Consiglio piace ancora meno. E senza la promessa di un seggio, la mia gente
non combatterà.
Gli occhi di Jace brillarono. — Per il Conclave sarà una proposta inaccettabile.
— Non devono esserne felici. Devono solo preferirla all'idea di un suicidio in massa.
— Non riusciranno mai a mettersi d'accordo — osservò Jace. — Se fossi in te, gli darei una
scadenza. Il Conclave lavora meglio, se ha delle scadenze da rispettare.
Luke non potè trattenere un sorriso. — Tutti i Nascosti che riuscirò a radunare si raccoglieranno alla
Porta Settentrionale all'imbrunire. Se il Conclave avrà accettato di combattere con loro, entreranno
in città. Altrimenti se ne andranno. Non ho potuto dare più tempo di così. Dopo, ci resterà solo il
tempo di arrivare a Brocelind per mezzanotte.
Jace fischiò. — Molto teatrale. Speri che la vista di tutti quei Nascosti ispiri il Conclave, o che li
spaventi?
— Forse un po' tutte e due le cose. Molti membri del Conclave sono associati agli Istituti, come voi:
sono già abituati alla vista dei Nascosti. Sono i nativi di Idris che mi preoccupano. La vista dei
Nascosti alle porte della loro città potrebbe gettarli nel panico. D'altro canto, non sarà un male che
ricordino quanto sono vulnerabili.
Lo sguardo di Jace corse alle rovine della Guardia, una nera cicatrice sulla collina sopra la città. —
Non credo che ci sia bisogno di altri promemoria. — Tornò a guardare Luke, con gli occhi limpidi
molto seri. — Voglio dirti una cosa e voglio che sia confidenziale.
Luke non potè nascondere la sorpresa. — Perché a me? Perché non ai Lightwood?
— Perché sei tu il capo qui, adesso. E lo sai.
Luke esitò. Qualcosa nel volto bianco e stanco di Jace suscitava la sua solidarietà, pur nell'infinita
stanchezza: solidarietà e desiderio di dimostrare a quel ragazzo, che per tutta la vita era stato tradito
e maltrattato dagli adulti, che non tutti gli adulti erano uguali, che ce n'erano alcuni di cui si poteva
fidare. — Va bene.
— E anche perché — aggiunse Jace — sono sicuro che saprai come spiegarlo a Clary.
— Spiegarle cosa?
— Perché ho dovuto farlo. — Gli occhi di Jace erano grandi, nella luce del sole nascente: lo
facevano sembrare molto più giovane. — Vado a cercare Sebastian, Luke. So come trovarlo e
voglio seguirlo finché non mi porterà da Valentine.
Luke espirò di colpo, sorpreso. — Tu sai come trovarlo!
— Magnus mi ha insegnato a usare un incantesimo di localizzazione, quando ero da lui a Brooklyn.
Usammo l'anello di mio padre, per rintracciarlo, ma quella volta non funzionò. Però...
— Tu non sei uno stregone, non sei in grado di fare gli incantesimi di localizzazione.
— Ci sono delle rune, come quelle che ha usato l'Inquisitrice per scoprire che ero andato da
Valentine sulla nave. Ma, per farle funzionare, mi serviva qualcosa che appartiene a Sebastian.
— Ne avevamo giù discusso coi Penhallow. Sebastian non ha lasciato niente. La sua stanza è stata
svuotata di tutto, probabilmente proprio per questa ragione.
— Io ho trovato qualcosa — rivelò Jace. — Un filo intriso del suo sangue. Non è molto, ma è
abbastanza. Ho provato e ha funzionato.
— Non puoi correre dietro a Valentine da solo, Jace. Non te lo posso permettere.
— Non puoi impedirmelo. A meno che tu non voglia combattere con me qui, su questi gradini. Ma
non vincerai. E lo sai quanto me. — C'era una strana nota nella voce di Jace, un misto di certezza e
disprezzo di sé.
— Senti, per quanto tu possa essere determinato a fare la parte dell'eroe solitario...
— Io non sono un eroe — ribatté Jace. La sua voce era chiara e uniforme, come se stesse ribadendo
la più semplice delle verità.
— Pensa alle conseguenze che avrebbe sui Lightwood, anche se non ti succedesse niente. Pensa a
Clary...
— Credi che non ci abbia pensato, a Clary? Credi che non abbia pensato alla mia famiglia? Perché
credi che stia facendo tutto questo?
— Pensi che abbia dimenticato com'è, avere diciassette anni? — replicò Luke. — Pensare di avere
il potere di salvare il mondo... e non solo il potere, ma anche la responsabilità...
— Guardami — disse Jace. — Guardami e dimmi che sono un diciassettenne qualunque.
Luke sospirò. — Non c'è niente di qualunque in te.
— E adesso dimmi che è impossibile. Dimmi che quello che sto proponendo non è fattibile. —
Luke non disse nulla e Jace proseguì. — Senti, il tuo è un buon piano, pur con tutti i suoi limiti.
Portare qui i Nascosti e combattere contro Valentine fino alle porte di Alicante. È sempre meglio
che restare fermi e permettergli di calpestarci. Ma Valentine se lo aspetterà. Non lo coglierete di
sorpresa. Io... io invece potrei coglierlo di sorpresa. Potrebbe non sospettare che Sebastian è
pedinato. Se non altro, è una possibilità in più. E noi dobbiamo sfruttare tutte le possibilità che
abbiamo.
— Potrebbe essere vero — ammise Luke. — Ma è volere troppo da una persona sola. Anche da uno
come te.
— Ma non capisci? Solo io posso — esclamò Jace con un filo di disperazione nella voce. — Anche
se Valentine capisse che lo sto seguendo, potrebbe farmi avvicinare abbastanza per...
— Abbastanza per cosa?
— Per ucciderlo — rispose Jace. — Che altro?
Luke guardò il ragazzo in piedi sulle scale, un gradino più in basso del suo. Avrebbe voluto essergli
più vicino, vedere in lui Jocelyn come la vedeva in Clary. Ma Jace era sempre e solo se stesso:
chiuso, isolato, separato. — Lo faresti? — gli chiese. — Avresti la forza di uccidere tuo padre?
— Sì — rispose Jace, con una voce lontana come un'eco. — E adesso viene la parte in cui mi dici
che non posso ucciderlo perché, dopotutto, è pur sempre mio padre, e il parricidio è un crimine
imperdonabile?
— No. Adesso viene la parte in cui ti dico che devi essere molto sicuro di esserne capace — disse
Luke, e con sorpresa si rese conto che una parte di lui aveva già accettato l'idea che Jace facesse ciò
che aveva detto di voler fare. E Luke lo avrebbe lasciato fare. — Perché non puoi fare tutto questo,
tagliare tutti i legami che hai qui e andare a caccia di Valentine da solo, per poi fermarti all'ultimo
ostacolo.
— Lo so — disse Jace. — E ne sono capace. — Distolse lo sguardo da Luke e lo spostò sulla piazza
che la mattina precedente era una distesa di corpi. — E stato mio padre a fare di me ciò che sono. E
io lo odio per questo. Io posso ucciderlo. È stato lui a fare in modo che fosse così.
Luke scosse la testa. — Nonostante il modo in cui sei stato cresciuto, Jace, tu ti sei ribellato.
Valentine non ti ha corrotto.
— No — ribatté Jace. — Non ce n'è stato bisogno. — Alzò gli occhi al cielo, striato di grigio e di
azzurro: gli uccelli avevano iniziato il loro canto mattutino tra gli alberi che coronavano la piazza.
— È meglio che vada.
— C'è qualcosa che vuoi che dica ai Lightwood?
— No, non dirgli niente. Se la prenderebbero con te, se scoprissero che sei al corrente delle mie
intenzioni e che mi hai lasciato andare. Ho scritto dei biglietti — aggiunse. — Capiranno.
— Allora perché...
— Perché ti ho detto tutto questo? Perché voglio che tu lo sappia. Voglio che te ne ricordi, mentre
fai i tuoi piani di battaglia. Ci sono anch'io, là fuori, a cercare Valentine. se lo troverò, ti manderò un
messaggio. — Fece un rapido sorriso. — Considerami un piano di riserva.
Luke prese la mano del ragazzo. — Se tuo padre non fosse ciò che è — gli disse — sarebbe
orgoglioso di te.
Jace sembrò sorpreso, arrossì repentinamente e ritrasse la mano. — Se tu sapessi... — iniziò. Si
morse il labbro. — Non importa. Buona fortuna a te, Lucian Graymark. Ave atque vale.
— Speriamo che non sia un vero addio — mormorò Luke.
Il sole ora saliva velocemente nel cielo e, quando Jace sollevò la testa, aggrottando la fronte per
l'improvvisa intensità della luce, qualcosa nella sua espressione colpì Luke: qualcosa, in quel misto
di vulnerabilità e caparbio orgoglio. — Mi ricordi una persona — gli disse senza pensare. — Una
persona che conoscevo anni fa.
— Lo so — disse Jace con una smorfia amara sulle labbra. — Ti ricordo Valentine.
— No — replicò Luke con voce assorta. Ma quando Jace si voltò, la somiglianza svanì, scacciando
i fantasmi del ricordo. — No... non stavo pensando a Valentine.
Nel momento stesso in cui Clary si svegliò, prima ancora di aprire gli occhi, capì subito che Jace
non c'era più. La sua mano, ancora tesa sul letto, era vuota: non c'erano più altre dita che
ricambiavano la pressione delle sue. Si mise lentamente a sedere, con una stretta al petto.
Jace doveva aver chiuso le tende prima di andarsene, perché le finestre erano aperte e brillanti fasci
di luce filtravano tra le fessure del tessuto e rigavano il letto. Clary si chiese perché la luce non
l'avesse svegliata. Dalla posizione del sole, doveva essere già pomeriggio. Si sentiva la testa
pesante, intontita, gli occhi appannati. Forse era perché quella notte non aveva avuto incubi, per la
prima volta da tanto tempo, e il corpo stava recuperando il sonno perso.
Solo quando si alzò notò sul comodino un foglietto ripiegato. Lo prese con un sorriso che le
aleggiava sulle labbra: Jace le aveva lasciato un biglietto! Quando qualcosa di pesante scivolò da
sotto la carta e cadde a terra, fu così sorpresa che fece un salto indietro, pensando che fosse
qualcosa di vivo.
Vide sul pavimento una spira di metallo luminoso. Capì cos'era prima ancora di chinarsi a
raccoglierlo: la catenina con l'anello d'argento che Jace portava al collo. L'anello della sua famiglia.
Rare volte lo aveva visto senza. E un'improvvisa sensazione di paura la travolse.
Aprì il biglietto e lesse attentamente le prime righe: Nonostante tutto, non sopporto il pensiero che
questo anello vada perso per sempre, come non sopporto il pensiero di lasciare te per sempre. E se
per una cosa non ho scelta, almeno per l'altra posso scegliere.
Il resto della lettera sembrò sciogliersi in un'accozzaglia di parole prive di senso. Clary dovette
rileggerla molte volte, per capirci qualcosa. Quando finalmente comprese, rimase immobile, lo
sguardo fisso sul foglio che fremeva al tremore della sua mano. Ora capiva perché Jace le aveva
detto quelle cose e perché non importava se era una sola notte. Potevi dire qualsiasi cosa, a
qualcuno che pensavi di non rivedere mai più.
Non le rimase alcun ricordo, in seguito, di come o quando avesse deciso cosa fare, né di aver
cercato qualcosa da indossare. In un modo o nell'altro si trovò a correre giù per le scale, con la
tenuta da Cacciatrice, la lettera in mano e la catenina con l'anello frettolosamente infilata al collo.
Il salotto era deserto, il fuoco nel caminetto spento e restava solo cenere grigia, ma dalla cucina
venivano luce e rumore: un chiacchiericcio di voci e il profumo di qualcosa che cuoceva sul
fuoco. Pancakes per colazione?, pensò Clary sorpresa. Non avrebbe mai pensato che Amatis fosse
capace di farli.
E aveva ragione. Quando entrò in cucina, Clary sgranò gli occhi: c'era Isabelle ai fornelli, i lucidi
capelli scuri raccolti in un nodo sulla nuca, un grembiule legato alla cintura e un cucchiaio in mano.
Simon era seduto sul tavolo alle sue spalle, i piedi appoggiati a una sedia. E Amatis, invece di dirgli
di togliere i piedi dai suoi mobili, era appoggiata al ripiano della cucina con un'aria sommamente
divertita.
Isabelle agitò il cucchiaio in segno di saluto. — Buongiorno — disse a Clary. — Vuoi fare
colazione? Anche se credo che sia più l'ora di pranzo.
Senza parole, Clary guardò Amatis, che strinse le spalle.
— Sono capitati qui e hanno voluto preparare la colazione
— disse. — Tanto io non sono una brava cuoca.
Clary ripensò all'orrenda zuppa di Isabelle all'Istituto e represse un brivido. — Dov'è Luke?
— Nella foresta di Brocelind con il branco — disse Amatis. — Va tutto bene, Clary? Sembri un
po'...
— Spiritata — concluse Simon per lei. — Va tutto bene?
Per un momento, Clary non riuscì a pensare a una risposta. "Sono capitati qui", aveva detto Amatis.
Il che significava che Simon aveva passato la notte con Isabelle. Lo fissò. Non sembrava diverso dal
solito.
— Sto bene — disse. Quello non era certo il momento di preoccuparsi per la vita sentimentale di
Simon. — Devo parlare con Isabelle.
— Parla — lo incoraggiò Isabelle, muovendo un oggetto informe sul fondo della padella che,
temeva Clary, sarebbe dovuto essere un pancake. — Ti ascolto.
— Da sole — precisò Clary.
Isabelle si accigliò. — Non puoi aspettare? Ho quasi finito.
— No — rispose Clary, e qualcosa nel suo tono di voce mise subito in allerta Simon. — Non posso
aspettare.
Simon scivolò giù dalla tavola. — Bene. Allora vi lasciamo un po' di privacy — annunciò. Poi,
rivolto ad Amatis, disse: — Forse potresti mostrarmi quelle foto di Luke da piccolo.
Amatis lanciò un'occhiata preoccupata a Clary, ma seguì Simon nell'altra stanza. — Immagino di
sì...
Isabelle scosse la testa, quando la porta si chiuse alle loro spalle. Qualcosa le luccicava sulla nuca:
un coltello sottile, elegante, infilzato come fermacapelli. Nonostante il quadretto domestico, Isabelle
restava pur sempre una Cacciatrice. — Senti — disse a Clary. — Se è per Simon...
— Non è per Simon. È per Jace. — Le mise in mano il biglietto. — Leggi questo.
Con un sospiro, Isabelle spense il fuoco, prese il biglietto e si sedette a leggerlo. Clary scelse una
mela dal cestino sul tavolo e si sedette, mentre Isabelle, di fronte a lei, leggeva in silenzio. Clary
mordicchiava la buccia della mela: non riusciva a pensare all'idea di mangiare, né la mela, né altro,
mai più.
Isabelle alzò gli occhi dal biglietto, con le sopracciglia inarcate. — Sembra un po'... personale. Sei
sicura che dovrei leggerlo?
Probabilmente no. Clary riusciva a malapena a ricordare le parole della lettera; in qualsiasi altra
situazione, non l'avrebbe mai mostrata a Isabelle, ma il panico per Jace superava ogni altro timore.
— Tu leggila.
Isabelle tornò a concentrarsi sul biglietto. Quand'ebbe finito, lo posò sul tavolo. — Temevo che
potesse fare una cosa del genere.
— Capisci? Ma non può essere partito da molto e non può essere lontano. — Le parole di Clary
inciampavano le une sulle altre. — Dobbiamo inseguirlo e... — S'interruppe, perché la sua mente
aveva finalmente elaborato quello che Isabelle aveva appena detto. — Temevi che potesse fare una
cosa del genere? In che senso?
— Esattamente in quel senso. — Isabelle si spinse dietro l'orecchio una ciocca di capelli. — Da
quando Sebastian è sparito, tutti discutono su come trovarlo. Ho messo a soqquadro la sua stanza,
dai Penhallow, cercando una qualsiasi cosa utile per rintracciarlo... ma non c'era niente. Avrei
dovuto sapere che, se Jace avesse trovato qualcosa di utile per rintracciare Sebastian, sarebbe partito
come una freccia. — Si mordicchiò il labbro. — Avrei preferito che portasse Alec con sé. Alee non
ne sarà contento.
— Quindi pensi che Alec vorrà andarlo a cercare? — chiese Clary, con rinnovata speranza.
— Clary. — Isabelle sembrava un filo esasperata. — Come facciamo ad andarlo a cercare? Come
facciamo a farci anche solo una vaga idea di dove possa essere andato?
— Ma ci deve pur essere un modo...
— Potremmo provare a localizzarlo, ma Jace avrà sicuramente trovato un modo per bloccare la
localizzazione, proprio come Sebastian.
Una gelida rabbia ribollì nel petto di Clary. — Ma tu vuoi trovarlo oppure no? T'importa qualcosa,
che sia partito per quella che è praticamente una missione suicida? Non può affrontare Valentine da
solo!
— Probabilmente no — riconobbe Isabelle. — Ma sono sicura che Jace ha le sue ragioni per...
— Per cosa? Per voler morire?
— Clary. — Gli occhi di Isabelle si accesero di un'improvvisa fiamma di rabbia. — Tu pensi che
noi qui siamo al sicuro? Siamo tutti in attesa della nostra fine: o morti o schiavi. Ce lo vedi, Jace, a
fare una cosa del genere? A restare qui seduto ad aspettare che succeda qualcosa di terribile? Ce lo
vedi...?
— Quello che vedo è che Jace è tuo fratello tanto quanto Max — replicò Clary. — E di quello che è
capitato a lui, t'importava.
Se ne pentì nel momento stesso in cui lo disse: la faccia di Isabelle sbiancò, come se le parole di
Clary avessero prosciugato tutto il colore dalla sua pelle. — Max — rispose Isabelle, con furia
controllata — era un bambino, non un guerriero. Aveva nove anni. Jace è un Cacciatore, un soldato.
Se combattiamo contro Valentine, credi che Alec non sarà nella battaglia? Credi che noi tutti non
siamo pronti, in qualsiasi momento, a morire, se dobbiamo farlo, se la causa è abbastanza
importante? Valentine è il padre di Jace,- Jace probabilmente ha più possibilità di tutti noi di
avvicinarsi a lui, di fare ciò che deve fare.
— Valentine ucciderà Jace, se dovrà — disse Clary. — Non lo risparmierà.
— Lo so.
— Ma se anche dovesse morire, conta solo che Jace esca di scena dopo essersi coperto di gloria.
Non ne sentirai la mancanza?
— Sentirò la sua mancanza ogni singolo giorno — replicò Isabelle. — Per il resto della mia vita,
che, ammettiamolo, se Jace fallisce, durerà più o meno un'altra settimana. — Scosse la testa. — Tu
non capisci, Clary. Tu non capisci com'è vivere sempre in guerra, crescere fra battaglie e sacrifici di
ogni genere. Immagino che non sia colpa tua, ma di come sei stata cresciuta.
Clary alzò le mani. — Capisco eccome. So che non ti sto simpatica, Isabelle, perché ai tuoi occhi
sono solo una mondana.
— Tu credi che sia per questo che... — Isabelle s'interruppe. I suoi occhi brillavano non solo di
rabbia, ma anche, vide Clary con sorpresa, di lacrime. — Dio, non capisci pro prio niente, vero? Tu
conosci Jace, da quanto? Da un mese? Io lo conosco da sette anni. E da quando lo conosco non l'ho
mai visto innamorarsi, non l'ho mai visto nemmeno trovare una persona che gli piacesse. Usciva
con le ragazze, certo. Le ragazze si innamoravano sempre di lui, ma a lui non importava mai niente.
Credo che fosse per questo che Alec pensava... — Isabelle si fermò un momento, perfettamente
immobile. Sta cercando di non piangere, pensò Clary meravigliata. Isabelle, che non piangeva
mai... — Anche mia madre... Insomma, qual è l'adolescente che non si prende mai una cotta per
nessuno? Era sempre come se fosse un po' assente, quando c'erano di mezzo altre persone. Io
pensavo che la storia con suo padre avesse provocato danni permanenti in lui, che non riuscisse più
ad amare nessuno. Se solo avessi saputo che cosa era veramente successo... Ma anche così,
probabilmente avrei pensato la stessa cosa, no? Insomma, chi non avrebbe subito danni da una cosa
del genere?
«E poi abbiamo incontrato te, ed è stato come se Jace si risvegliasse. Tu non te ne accorgevi, perché
non l'avevi mai visto diverso da così. Ma io lo vedevo. Hodge lo vedeva. Alec lo vedeva. Perché
credi che Alec ti odiasse tanto? Jace era cambiato dal momento in cui ti aveva incontrato. Tu
pensavi che fosse sorprendente il fatto di poterci vedere, e lo era, ma quello che era davvero
sorprendente per me era che Jace vedesse te. Non faceva altro che parlare di te, tornando
all'Istituto,- poi ha convinto Hodge a mandarlo a cercarti; e quando ti ha riportato qui, non voleva
più che te ne andassi. Ogni volta che entravi nella stanza, lui ti guardava. Ed era anche geloso di
Simon. Non sono sicura che se ne rendesse conto, ma era così. Io lo capivo. Geloso di un mondano.
E poi, dopo quello che è successo a Simon alla festa, è stato pronto ad andare con te all'Hotel
Dumort, a infrangere la Legge del Conclave. E tutto per salvare un mondano che non gli stava
nemmeno simpatico. L'ha fatto per te. Perché, se fosse successo qualcosa a Simon, tuavresti
sofferto. Tu sei stata la prima persona estranea alla sua famiglia della cui felicità si sia mai
preoccupato. Perché ti amava.»
A Clary sfuggì un singhiozzo soffocato. — Ma tutto questo è stato prima che...
— Prima che scoprisse che eri sua sorella. Lo so. E non ti biasimo, per questo. Tu non potevi
saperlo. E immagino che non potessi evitare nemmeno di partire in quarta e metterti subito con
Simon come se non te ne fosse mai importato niente di lui. Pensavo che Jace, dopo aver scoperto
che eri sua sorella, avrebbe lasciato perdere, avrebbe superato la cosa. Ma non è successo, non c'è
riuscito. Non so che cosa gli abbia fatto Valentine, quando era bambino. Non so se sia per questo
che è diventato così, o se semplicemente è fatto così, ma non gli passerà mai, Clary. Non ce la fa. E
io ho cominciato a detestare la tua presenza. E a detestare che Jace si trovasse in tua presenza. E'
come una ferita da veleno di demone: devi lasciarla stare e aspettare che guarisca. Ogni volta che
togli la benda, non fai altro che riaprire la ferita. Ogni volta che Jace ti vede, è come strappare la
benda dalla stessa ferita.
— Lo so — sussurrò Clary. — Come credi che sia per me?
— Non lo so. Io non riesco a leggere i tuoi sentimenti. Tu non sei mia sorella. Io non ti odio, Clary.
Anzi, addirittura mi piaci. Se fosse possibile, non vorrei nessun'altra, per Jace. Ma spero che tu mi
possa capire quando dico che, se per miracolo usciremo vivi da questa storia, spero tanto che la mia
famiglia si trasferisca in un posto molto lontano da qui, in modo da non doverti rivedere mai più.
Le lacrime bruciavano negli occhi di Clary. Era strano: lei e Isabelle sedute a quel tavolo, a piangere
per Jace, per ragioni che erano al contempo molto diverse ma anche stranamente simili. — Perché
mi dici tutto questo?
— Perché mi stai accusando di non voler proteggere Jace. Invece io voglio proteggerlo. Perché,
secondo te, mi sono arrabbiata tanto, quando ti sei presentata dai Penhallow? Tu ti comporti come
se non fossi parte di tutto questo, del nostro mondo. Resti sempre ai margini. Invece ne sei parte,
eccome. Anzi, ne sei al centro. Non puoi fingere per sempre di essere solo una comparsa, Clary, non
se sei la figlia di Valentine. Non se Jace sta facendo quello che sta facendo anche per colpa tua.
— Anche per colpa mia ?
— Perché credi che sia così smanioso di rischiare la vita? Perché credi che non gli importi niente di
morire?
Le parole di Isabelle penetrarono nelle orecchie di Clary come aghi affilati. Lo so io, il
perché, pensò. È perché crede di essere un demone, crede di non essere veramente umano. Ecco
perché... Ma non posso dirtelo, non posso dirti l'unica cosa che potrebbe farti capire.
— Ha sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in lui — continuò Isabelle. — E adesso, per
colpa tua, crede di essere dannato per sempre. Ho sentito che lo diceva ad Alec. Perché uno non
dovrebbe rischiare la vita, se non vuole più vivere? Perché non dovrebbe rischiare la vita, se non
sarà mai felice, per quanti sforzi possa fare?
— Isabelle, basta così. — La porta si era aperta, quasi senza rumore, e sulla soglia c'era Simon.
Clary aveva quasi dimenticato quanto si fosse potenziato il suo senso dell'udito. — Non è colpa di
Clary.
Un rossore si accese sul volto di Isabelle. — Resta fuori da questa storia, Simon. Tu non sai che
cosa sta succedendo.
Simon entrò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle. — Ho sentito quasi tutto quello che avete
detto — annunciò senza tanti giri di parole. — Nonostante il muro. Tu hai detto che non sai che
cosa prova Clary perché non la conosci da abbastanza tempo. Be', io sì. Se credi che Jace sia l'unico
a soffrire, ti sbagli.
Silenzio. La ferocia dell'espressione di Isabelle si stava attenuando. Come in lontananza, a Clary
sembrò di sentir bussare alla porta: Luke, probabilmente,- o Maia, con altro sangue per Simon.
— Non se n'è andato per colpa mia — disse Clary e il suo cuore cominciò a battere forte. Posso
rivelare il segreto di Jace, ora che se n'è andato? Posso rivelare la vera ragione per cui se n'è
andato? La vera ragione per cui non gli importa niente di morire? Le parole cominciarono a
sgorgarle da dentro, quasi contro la sua volontà. — Quando io e Jace siamo stati alla tenuta di
campagna di Wayland, quando siamo andati a cercare il Libro Bianco...
Ma s'interruppe, perché la porta della cucina si spalancò. C'era Amatis sulla porta, con la più strana
delle espressioni sulla faccia. Per un momento Clary pensò che fosse spaventata e il cuore le balzò
in petto. Ma non era paura, quella sul volto di Amatis, non esattamente. Aveva la stessa espressione
di quando Clary e Luke si erano presentati alla sua porta. Era come se avesse visto un fantasma. —
Clary — disse lentamente. — C'è qualcuno, qui, che vuole vederti...
Prima che finisse, quel qualcuno la spinse da parte ed entrò in cucina. Amatis si spostò e Clary vide
l'intrusa: una donna snella, vestita di nero. La prima cosa che notò fu la tenuta da Cacciatrice, e in
un primo momento non la riconobbe. Poi i suoi occhi si posarono sul volto della donna e Clary si
sentì cadere lo stomaco, com'era successo quando con Jace era volata giù dal tetto del Dumort sulla
moto demoniaca: una caduta di dieci piani.
La Cacciatrice era sua madre.
parte terza
LA STRADA PER IL PARADISO
Oh sì, lo so: fu facile la strada per il paradiso. Trovammo il piccolo regno della nostra
passione, Aperto a tutti coloro che calcano la strada degli amanti. In selvaggia e segreta
felicità cademmo; E strepitavano nei nostri sensi demoni e dei.
(SIEGFRIED SASSOON, L'amante imperfetto)
capitolo 16
ARTICOLI DI FEDE
Dalla sera in cui era tornata a casa e aveva scoperto che sua madre era sparita, Clary si era
immaginata talmente tante volte di rivederla sana e salva, che i suoi sogni avevano assunto l'aspetto
di una foto sgualcita a furia di essere presa in mano e guardata. Ora, tutte quelle immagini le
salirono agli occhi, occhi increduli e sgranati: immagini in cui sua madre, guarita e felice,
l'abbracciava e le diceva quanto aveva sentito la sua mancanza, promettendole che da quel momento
in poi sarebbe andato tutto bene.
La madre della sua immaginazione somigliava ben poco alla donna che aveva di fronte. Clary
ricordava una Jocelyn delicata e artistica, un po' bohemienne, con quelle tute macchiate di colore, i
capelli rossi raccolti in due codini o avvolti in uno scomposto chignon e fermati da una matita.
Questa Jocelyn era lustra e affilata come un coltello, i capelli severamente raccolti sulla nuca, non
un ricciolo fuori posto; il nero rigoroso della tenuta da battaglia la faceva sembrare più pallida e più
dura. E anche la sua espressione non era quella che Clary aveva immaginato: invece del puro
piacere, c'era qualcosa di più simile all'orrore, nel modo in cui guardava Clary con gli occhi verdi
sgranati. — Clary — disse con un filo di voce. — I tuoi vestiti.
Clary si guardò. Aveva indosso la tenuta nera di Amatis, esattamente quello da cui sua madre, per
tutta la vita, aveva cercato di tenerla lontana. Clary mandò giù il nodo che le bloccava la gola e si
alzò, aggrappandosi al bordo del tavolo con entrambe le mani. Vedeva le nocche sbiancate, ma le
mani sembravano in qualche modo staccate dal resto del corpo, come se appartenessero a qualcun
altro.
Jocelyn fece un passo verso di lei, tendendo le braccia.
— Clary...
E Clary si ritrovò ad arretrare così rapidamente che sbatté l'osso sacro contro il ripiano della cucina.
Ma quasi non si accorse della fitta di dolore. Aveva gli occhi fissi su sua madre. Anche Simon, che
era letteralmente rimasto a bocca aperta. E anche Amatis, sbalordita.
Isabelle si alzò, mettendosi tra Clary e sua madre. La mano scivolò sotto il grembiule e Clary ebbe
la sensazione che stesse per estrarre la sottile frusta di elettro. — Che succede qui? — chiese
Isabelle. — Tu chi sei?
La voce forte di Isabelle vacillò appena, quando colse l'espressione sul volto di Jocelyn: la donna la
stava fissando con una mano sul cuore.
— Maryse! — La sua voce era appena un sussurro.
Isabelle si stupì. — Come fai a conoscere il nome di mia madre?
Un rossore salì repentino sul viso di Jocelyn. — Ma certo. Tu sei la figlia di Maryse. È solo che... le
somigli così tanto! — Abbassò lentamente la mano. — Io sono Jocelyn Fr... Fairchild. Sono la
madre di Clary.
Isabelle tirò fuori la mano da sotto il grembiule e si girò verso Clary con gli occhi pieni di
confusione. — Ma eri all'ospedale... a New York...
— Ero — confermò Jocelyn con voce più ferma. — Ma grazie a mia figlia, adesso sto bene. E
vorrei stare un momento da sola con lei.
— Non sono sicura — intervenne Amatis — che lei voglia stare un momento da sola con te. — Le
mise una mano sulla spalla. — Deve essere stato uno shock, per Clary.
Jocelyn scrollò via la mano di Amatis e si avvicinò a sua figlia, tendendole le braccia. — Clary...
Finalmente Clary ritrovò la voce. Era una voce fredda, di ghiaccio, così arrabbiata che sorprese
anche lei. — Come ci sei arrivata fin qui, Jocelyn?
Sua madre si fermò di botto, con un'espressione incerta sul viso. — Attraverso un Portale. Sono
arrivata appena fuori città, con Magnus Bane. Ieri è venuto da me in ospedale. Mi ha portato
l'antidoto. Mi ha raccontato tutto quello che hai fatto per me. E da quando mi sono svegliata, ho
desiderato solo rivederti. — Le si spense la voce. — Clary, c'è qualcosa che non va?
— Perché non mi hai mai detto che avevo un fratello? — sbottò Clary. Non era questo che avrebbe
dovuto dire, non era nemmeno quello che aveva in mente di dire. Ma ormai era fatta.
Jocelyn abbassò le mani. — Credevo che fosse morto. Credevo che saperlo ti avrebbe solo fatto del
male.
— Lascia che ti dica una cosa, mamma — disse Clary. — Sapere è meglio di non sapere. Sempre.
— Mi dispiace... — iniziò Jocelyn.
— Ti dispiace? — La voce di Clary si alzò. Era come se qualcosa dentro di lei si fosse strappato e
ora tutto sgorgasse fuori, tutta l'amarezza, tutta la rabbia repressa. — Potresti spiegarmi perché non
mi hai mai detto che ero una Shadowhunter? O che mio padre era ancora vivo? Oh, e che mi dici
del piccolo particolare di aver pagato Magnus per rubarmi i ricordi?
— Stavo solo cercando di proteggerti...
— Be', hai fatto un pessimo lavoro! — Clary stava gridando. — Che cosa ti aspettavi che mi
succedesse, quando tu sei sparita? Se non fosse stato per Jace e gli altri, ora sarei morta. Non mi hai
mai insegnato come proteggermi. Non mi hai mai detto quanto fossero pericolose le cose, nella
realtà. Che cosa pensavi? Che se io non vedevo le brutte cose, loro non avrebbero visto me? — Le
bruciavano gli occhi. — Tu sapevi che Valentine non era morto. L'hai detto a Luke.
— Per questo ho dovuto nasconderti — spiegò Jocelyn. — Non potevo rischiare che scoprisse
dov'eri. Non potevo permettergli di toccarti perché...
— Perché ha trasformato il tuo primo figlio in un mostro — disse Clary — e non volevi che facesse
lo stesso con me?
Sconvolta e ammutolita, Jocelyn riuscì solo a fissare sua figlia. — Sì — disse alla fine. — Sì, ma
non è solo questo, Clary...
— Tu mi hai rubato tutti i ricordi — ribadì Clary. — Me li hai portati via. Mi hai portato via ciò che
sono.
— Non era ciò che sei! — gridò Jocelyn. — Non volevo che quello fosse ciò che sei...
— Non importa quello che volevi tu! — gridò Clary. — È quello che sono io! Tu mi hai portato via
tutto. E non era roba tua!
Jocelyn era grigia come la cenere. Gli occhi di Clary si riempirono di lacrime. Non sopportava di
vedere sua madre così, ferita, eppure era proprio lei che la stava ferendo. E sapeva che, se avesse
aperto di nuovo la bocca, altre terribili parole ne sarebbero uscite, ancor più crudeli, ancor più
feroci. Si chiuse la bocca con le mani e scappò via, respingendo sua madre, e la mano tesa di
Simon. Voleva solo andare via. Alla cieca, spalancò la porta d'ingresso e piombò in strada. Alle sue
spalle qualcuno chiamò il suo nome, ma lei non si girò. Stava già correndo.
Jace si sorprese, scoprendo che Sebastian aveva lasciato il cavallo dei Verlac nelle stalle, invece di
usarlo per la fuga, la notte in cui era sparito. Forse aveva temuto che Wayfa-rer potesse in qualche
modo essere localizzato.
Provò soddisfazione nel sellare lo stallone e nel salirci in groppa e condurlo fuori dalla città. Se
Sebastian avesse voluto Wayfarer, non l'avrebbe certo lasciato lì. E poi, il cavallo non era veramente
suo. Comunque, Jace adorava i cavalli. Aveva dieci anni l'ultima volta che ne aveva cavalcato uno,
ma il ricordo, notò con piacere, riaffiorò rapidamente.
C'erano volute sei ore di cammino dalla tenuta di campagna dei Wayland fino ad Alicante. Ma ne
bastarono appena due ore per tornare indietro al galoppo. Quando si fermarono, su un'altura che si
affacciava sulla casa e sui giardini, sia Jace sia il cavallo erano coperti da un velo di sudore.
Le difese depistanti che nascondevano la tenuta erano state distrutte insieme alle fondamenta della
casa. Ormai dell'edificio, un tempo così elegante, restava soltanto un mucchio di pietre fumanti. I
giardini bruciacchiati conservavano ancora i ricordi di quando Jace bambino aveva vissuto lì.
C'erano i roseti, ora spogliati dei boccioli e invasi dalle erbacce; le panchine di pietra vicino agli
stagni svuotati; e la cavità nel terreno dove Jace aveva abbracciato Clary, la notte in cui la tenuta era
crollata. Tra gli alberi si vedeva il bagliore azzurro del lago.
Un'onda di amarezza travolse Jace, che infilò una mano in tasca e tirò fuori uno stilo: l'aveva preso
in prestito dalla stanza di Alec prima di partire, in sostituzione di quello che Clary aveva perso. Alee
non avrebbe avuto difficoltà a procurarsene un altro. Poi prese il filo che aveva strappato dalla
manica del cappotto di Clary, macchiato di sangue a un capo. Lo tenne sul palmo e chiuse forte il
pugno, tanto da far sbiancare le nocche. Con lo stilo tracciò una runa sul dorso della mano. Il
pizzicore era più familiare che doloroso. Guardò la runa penetrare nella pelle, come una pietra
nell'acqua, e chiuse gli occhi.
Invece dell'interno delle palpebre, Jace vide una valle. Era su un'altura e la vedeva dall'alto. Sapeva
esattamente dove si trovava, come se stesse osservando una mappa che indicava la sua posizione.
Anche l'Inquisitrice aveva saputo localizzare esattamente la nave di Valentine sull'East River,
ricordò Jace. Ecco come faceva a saperlo, pensò. Ogni dettaglio era nitido, ogni filo d'erba, la
spruzzata di foglie secche ai suoi piedi... ma non c'era alcun suono. Il silenzio che dominava la
scena era inquietante.
La valle era a ferro di cavallo, con un'estremità più stretta dell'altra. L'argenteo nastro d'acqua di un
torrente la percorreva al centro e spariva tra le rocce, all'estremità più stretta. Accanto al ruscello
c'era una casa di pietra grigia con un filo di fumo bianco che usciva sbuffando dal comignolo
squadrato. Era una scena stranamente pastorale, serena, sotto l'azzurro sguardo del cielo. Mentre
Jace osservava, una figura snella entrò in scena. Sebastian. Ora che non doveva più preoccuparsi di
fingere, la sua arroganza era palese nella camminata, nella postura delle spalle, nel lieve ghigno sul
viso. Sebastian si inginocchiò sulla riva del ruscello e vi immerse le mani, gettandosi dell'acqua sul
viso e sui capelli.
}ace aprì gli occhi. Sotto di lui, Wayfarer brucava l'erba soddisfatto. Il ragazzo rimise in tasca lo
stelo e il filo e, con un'ultima occhiata alle rovine della casa in cui era cresciuto, prese le redini e
affondò i talloni nei fianchi del cavallo.
Clary era distesa sull'erba in cima alla collina della Guardia e guardava imbronciata la città di
Alicante. La vista da lassù era spettacolare, doveva ammetterlo. Si vedevano i tetti della città, con le
eleganti incisioni e i galletti segnavento decorati da rune, e la vista si estendeva oltre le guglie della
Sala degli Accordi, verso qualcosa che luccicava in lontananza, come il bordo di una moneta
d'argento. Il lago Lyn? Le rovine nere della Guardia incombevano alle sue spalle e le torri
antidemoni brillavano come cristalli. Clary ebbe persino la sensazione di poter vedere le difese,
vibranti di luce come una rete invisibile intessuta intorno ai confini della città.
Si guardò le mani. Aveva strappato diverse manciate d'erba negli ultimi impeti di rabbia e le sue dita
erano impiastricciate di terra e di sangue, dove un'unghia si era rotta. Sbollita la rabbia, le restava
ora un profondo senso di vuoto. Non si era mai resa conto di quanto rancore provasse nei confronti
di sua madre. Solo quando Jocelyn aveva varcato la soglia della cucina e Clary aveva potuto
accantonare tutta l'angoscia che aveva provato quando la sua vita era in pericolo, solo allora aveva
capito che cosa covava sotto. Ora che era più calma, si chiese se una parte di sé avesse voluto
punire Jocelyn per quello che era successo a Jace. Se non gli fossero state raccontate tante bugie - se
a entrambi non avessero raccontato tante bugie - forse il trauma di scoprire cosa gli aveva fatto
Valentine prima ancora che lui nascesse non avrebbe indotto Jace a compiere un gesto che Clary
non poteva evitare di sentire come un suicidio.
— Ti dispiace se mi siedo con te?
Clary sobbalzò per la sorpresa, rotolò su un fianco e guardò su. C'era Simon in piedi accanto a lei,
con le mani in tasca. Qualcuno, forse Isabelle, gli aveva dato una giacca scura del materiale nero e
resistente che gli Shadowhunters usavano per le loro tenute da battaglia. Un vampiro in tenuta da
Cacciatore, pensò Clary, chissà se era una specie di primato. — Non ti ho sentito arrivare —
ammise Clary. — Evidentemente non sono un granché, come Cacciatrice.
Simon scrollò le spalle. — Be', in tua difesa potrei dire che mi muovo con la grazia silenziosa di
una pantera.
Nonostante tutto, Clary sorrise. Si mise a sedere, pulendosi le mani dalla terra. — Dai, vieni. Il
tristezza-party è aperto a tutti.
Sedendosi accanto a lei, Simon guardò il panorama della città e fischiò. — Bella vista.
— Vero. — Clary lo guardò di sottecchi. — Come hai fatto a trovarmi?
— Be', mi ci sono volute un paio d'ore. — Sorrise, con un sorriso un po' sghembo. — Poi mi sono
ricordato che quando noi due litigavamo, in prima elementare, tu salivi sempre sul tetto di casa mia
a sbollire la rabbia e mia madre doveva venirti a prendere.
— E allora?
— Ti conosco — disse Simon. — Quando ti arrabbi, cerchi un posto in alto.
Le porse un fagotto: era il suo cappotto verde, ben ripiegato. Clary lo prese e se lo infilò. Il povero
cappotto già mostrava chiari segni di usura. C'era persino un buchetto nel gomito, abbastanza
grande da infilarci un dito.
— Grazie, Simon. — Si strinse le ginocchia al petto e fissò lo sguardo sulla città. Il sole era basso
nel cielo e le torri avevano cominciato a brillare di un pallido colore rosato. — Ti ha mandato lei?
Simon scosse la testa. — È stato Luke, a dir la verità. E mi ha detto solo di chiederti se pensi di
tornare prima del tramonto. Stanno succedendo cose importanti.
— Che tipo di cose?
— Luke ha dato tempo al Conclave fino al tramonto per decidere se attribuire ai Nascosti dei seggi
nel Consiglio. Tutti i Nascosti si riuniranno alla Porta Settentrionale al tramonto. Se il Conclave
accetta, potranno entrare ad Alicante. Altrimenti...
— Verranno mandati via — concluse Clary. — E il Conclave si consegnerà nelle mani di Valentine.
— Esatto.
— Accetteranno — disse Clary. — Devono accettare. — Si strinse le ginocchia. — Non
sceglierebbero mai Valentine. Nessuno lo farebbe.
— Sono contento che il tuo idealismo non sia stato scalfito — commentò Simon. Sebbene il tono
fosse lieve, Clary sentì nella voce di Simon un'altra voce, quella di Jace, quando diceva di non
essere un idealista. Rabbrividì, nonostante il cappotto.
— Simon? — disse. — Ho una domanda stupida.
— E sarebbe?
— Hai dormito con Isabelle?
Simon fece un verso come se soffocasse. Clary si girò lentamente per guardarlo.
— Tutto bene? — gli chiese.
— Credo di sì — rispose Simon, recuperando con uno sforzo evidente un po' di contegno. — Parli
seriamente?
— Be', sei stato fuori tutta la notte...
Simon rimase in silenzio per un lungo momento. Alla fine disse: — Non sono sicuro che siano
affari tuoi. In ogni caso, no.
— Bene — disse Clary, dopo una pausa assennata. — Immagino che non avresti approfittato di lei,
in un momento così doloroso.
Simon ridacchiò. — Se mai incontrerai l'uomo che riesce ad approfittare di Isabelle, fammelo
sapere, perché vorrei stringergli la mano. O scappare a gambe levate, non so bene quale delle due.
— Quindi non stai uscendo con Isabelle.
— Clary — disse Simon. — Perché mi chiedi di Isabelle? Non vuoi parlare di tua madre? O di
Jace? Izzy mi ha detto che se n'è andato. So come devi sentirti.
— No — mormorò Clary. — Non credo che tu lo sappia.
— Non sei l'unica persona al mondo che si sia sentita abbandonata. — C'era una punta di
impazienza nella sua voce. — Probabilmente... insomma, non ti ho mai visto così arrabbiata. E con
tua madre, poi! Credevo che ti mancasse.
— Certo che mi mancava! — esclamò Clary, rendendosi conto mentre parlava dell'effetto che la
scena in cucina doveva aver avuto sugli altri. Soprattutto su sua madre. Scacciò via il pensiero. — È
che ero così concentrata su come fare a salvarla da Valentine e poi guarirla, che non mi sono mai
fermata a pensare a quanto fossi arrabbiata per le bugie che mi aveva raccontato in tutti questi anni:
per avermi tenuto nascosto tutto questo, per avermi nascosto la verità. Per non avermi mai detto chi
ero veramente.
— Ma non è questo che hai detto, quando è entrata in cucina — osservò Simon a bassa voce. — Le
hai chiesto: «Perché non mi hai mai detto che avevo un fratello?»
— Lo so. — Clary strappò un filo d'erba dalla terra, stropicciandolo tra le dita. — Probabilmente
pensavo che, se avessi saputo la verità, avrei conosciuto Jace in un altro modo. Non mi sarei
innamorata di lui.
Simon rimase per un momento in silenzio. — Credo di non avertelo mai sentito dire prima d'ora.
— Che lo amo? — Clary rise, ma la risata suonò triste alle sue stesse orecchie. — È inutile fingere
il contrario, a questo punto. Forse non è importante. Probabilmente non lo rivedrò più comunque.
— Tornerà.
— Forse.
— Tornerà — ripetè Simon. — Per te.
— Non lo so. — Clary scosse la testa. Si stava facendo freddo, ora che il sole era sceso a toccare la
linea dell'orizzonte. Clary socchiuse gli occhi e si protese in avanti, guardando lontano. — Simon,
guarda!
Simon seguì il suo sguardo. Oltre le difese, alla Porta Settentrionale della città, centinaia di figure
scure si stavano radunando, alcune in gruppi, altre più isolate: erano i Nascosti che Luke aveva
chiamato in aiuto della città, in paziente attesa di un messaggio dal Conclave per entrare ad
Alicante. Un brivido percorse la schiena di Clary. Si trovava in bilico, non solo sulla cima della
collina, a guardare la città da uno strapiombo, ma era anche sull'orlo di una crisi, di un evento che
avrebbe cambiato l'andamento di tutto il mondo degli Shadowhunters.
— Sono venuti — disse Simon quasi a se stesso. — Chissà se questo significa che il Conclave ha
deciso.
— Lo spero. — Il filo d'erba che Clary stava tormentando era un ormai un grumo verde informe;
Clary lo buttò e ne strappò un altro. — Non so che cosa farò, se decideranno di arrendersi a
Valentine. Forse potrei creare un Portale e trasportare tutti in un posto dove Valentine non possa mai
trovarci. Un'isola deserta, o qualcosa del genere.
— Okay, anch'io adesso ho una domanda stupida — disse Simon. — Tu sai creare nuove rune,
giusto? Perché non crei una runa che distrugga tutti i demoni del mondo? O che uccida Valentine?
— Non è così che funziona — spiegò Clary. — Io posso creare solo le rune che visualizzo.
L'immagine mi entra in testa, come un dipinto. Se cerco di visualizzare "uccidi Valentine" o
"governa il mondo", o cose del genere, non vedo niente. Solo rumore bianco.
— Ma secondo te, da dove ti vengono le immagini delle rune?
— Non lo so — ammise Clary. — Tutte le rune che gli Shadowhunters conoscono vengono dal
Libro Grigio. È per questo che possono essere usate solo sui Nephilim: sono state create a questo
scopo. Ma ci sono anche altre rune, più antiche. Me l'ha detto Magnus. Come il Marchio di Caino: è
un marchio di protezione, ma non viene dal Libro Grigio. Quindi, quando penso a queste rune,
come la runa dell'impavidità, non so se è qualcosa che sto inventando io o qualcosa che
sto ricordando: rune più antiche degli Shadowhunters, rune antiche quanto gli angeli. — Clary
ripensò alla runa che Ithuriel le aveva mostrato, semplice come un nodo. Era arrivata dalla sua
mente o da quella dell'angelo? O era qualcosa che esisteva da sempre, come il mare o il cielo? Quel
pensiero la fece rabbrividire.
— Hai freddo? — le chiese Simon.
— Sì... tu no?
— Non ho più freddo, io. — Le mise un braccio intorno alle spalle, sfregandole la schiena in piccoli
movimenti circolari. Ridacchiò con tristezza. — Non serve a molto, immagino, visto che non ho più
il calore del sangue.
— No — disse Clary. — Cioè, sì, serve. Resta così. — Lo guardò. Simon fissava la Porta
Settentrionale, intornò alla quale si affollavano lentamente le nere figure dei Nascosti, quasi
immobili. La luce rossa delle torri antidemoni si rifletteva nei suoi occhi: sembrava una foto in
primo piano scattata con il flash. Clary vedeva le sottili venature azzurre sotto la sua pelle, là dove
era più sottile: sulle tempie, alla base della clavicola. Ne sapeva abbastanza di vampiri da capire che
era passato un po' di tempo, dall'ultima volta che si era nutrito. — Hai fame?
Stavolta fu lui a guardare verso di lei. — Paura che ti morda?
— Sai che sei il benvenuto e che puoi bere il mio sangue ogni volta che vuoi.
Un brivido, non di freddo, percorse Simon, che la strinse più forte a sé. — Non lo farei mai —
disse. Poi, con più leggerezza, aggiunse: — E poi, ho già bevuto il sangue di Jace... Ho già
succhiato abbastanza dai miei amici.
Clary pensò alla cicatrice argentea sulla gola del fratello. Lentamente, con la mente ancora piena di
quell'immagine, chiese: — Credi che sia per quello che...?
— Cosa?
— Che il sole non ti fa male. Voglio dire, prima il sole ti scottava, vero? Prima della notte sulla
nave.
Lui annuì, riluttante.
— E cos'altro è cambiato? O è solo che hai bevuto il suo sangue?
— Vuoi dire, perché lui è un Nephilim? No, è qualcos'altro. Tu e Jace... non siete proprio normali,
giusto? Intendo dire, normali Shadowhunters. C'è qualcosa di speciale, in voi due. Come ha detto la
Regina del Popolo Fatato, eravate degli esperimenti. — Simon sorrise allo sguardo stupefatto di
Clary. — Non sono stupido. Riesco a mettere insieme queste cose. Tu con il tuo potere di creare le
rune, e Jace, be'... nessuno riuscirebbe a essere così insopportabile senza qualche tipo di aiuto
sovrannaturale.
— Lo detesti davvero così tanto?
— Io non detesto Jace — protestò Simon. — Cioè, l'ho odiato all'inizio, questo sì. Sembrava così
arrogante, così sicuro di sé... E tu pendevi dalle sue labbra...
— Non è vero.
— Lasciami finire, Clary. — C'era una sfumatura di affanno nella voce di Simon (ammesso che uno
che non respirava mai potesse essere affannato). Era come se stesse correndo verso un obiettivo. —
Vedevo benissimo quanto ti piaceva e pensavo che lui ti stesse usando, che per lui fossi solo una
stupida ragazzina mondana da impressionare coi suoi giochetti di prestigio. All'inizio mi dicevo che
tu non ci saresti mai cascata e poi mi dicevo che, se anche ci fossi cascata, Jace prima o poi si
sarebbe stancato di te e tu saresti tornata da me. Non sono orgoglioso di questo, ma quando sei
disperato sei pronto a credere a qualsiasi cosa, immagino. E poi, quando è venuto fuori che era tuo
fratello, mi è sembrata una grazia dal cielo... e ne sono stato contento. Ero contento anche di vedere
quanto soffrisse Jace. Questo fino alla notte alla Corte Seelie, quando l'hai baciato. Allora ho visto...
— Visto cosa? — chiese Clary, incapace di sopportare la sua pausa.
— Il modo in cui ti guardava. Allora ho capito. Lui non ti aveva mai usato. Lui ti amava e questo
amore lo stava uccidendo.
— È per questo che sei andato al Dumort? — sussurrò Clary. Era una cosa che avrebbe sempre
voluto sapere, ma che non era mai riuscita a chiedergli.
— Per via di te e di Jace? No, davvero. Da quella prima notte all'hotel, ho sempre avuto il desiderio
di tornare. Me lo sognavo. E mi svegliavo che ero fuori dal letto e mi stavo vestendo, oppure ero già
per strada e sapevo che volevo tornare là. Era difficile di notte e diventava più difficile quanto più
mi avvicinavo all'hotel. Non mi è mai venuto in mente che fosse qualcosa di soprannaturale:
credevo che fosse una specie di stress post-traumatico. Quella notte, ero esausto e affamato, ed
eravamo vicini all'hotel, ed era tardi... Quasi non ricordo che cosa è successo. Ricordo solo di
essermi allontanato dal parco e poi... più nulla.
— Ma se tu non fossi stato arrabbiato con me... se non ti avessimo fatto arrabbiare...
— Non è che tu avessi molta scelta — osservò Simon. — E non è che io non lo sapessi. Puoi
sommergere la verità per un po', ma poi risale di nuovo in superficie. L'errore che ho fatto è stato
quello di non dirti che cosa mi stava succedendo, di non metterti a parte dei miei sogni. Però non mi
pento di essere uscito con te. Sono contento che ci abbiamo provato. E ti voglio bene per averci
voluto provare, anche se non poteva funzionare.
— Volevo tanto che funzionasse! — disse Clary a bassa voce. — Non avrei mai voluto farti del
male.
— Io non cambierei niente di quello che è successo — disse Simon. — Non potrei mai smettere di
volerti bene. Per nessun motivo al mondo. Sai che cosa mi ha detto Raphael? Che non ero capace di
essere un buon vampiro, che i vampiri accettano di essere morti. Ma finché ricorderò com'era
amarti, avrò sempre la sensazione di essere vivo.
— Simon...
— Guarda! — L'interruppe con un gesto, sgranando gli occhi scuri. — Laggiù.
Il sole era un lumicino rosso all'orizzonte: sotto il loro sguardo, guizzò un'ultima volta e scomparve,
sprofondando dietro l'orlo scuro del mondo. Le torri antidemoni di Alicante sfavillarono,
improvvisamente vive e incandescenti. Alla luce delle torri, si vedeva la massa scura dei Nascosti
brulicare inquieta intorno alla Porta Settentrionale. — Che sta succedendo? — sussurrò Clary. — Il
sole è tramontato: perché la porta non si apre?
Simon era immobile. — Il Conclave — disse. — Devono aver rifiutato la proposta di Luke.
— Ma non è possibile! — La voce di Clary si alzò, tagliente. — Questo significa...
— Che si arrenderanno a Valentine.
— Ma non possono farlo! — esclamò di nuovo Clary. Sotto i suoi occhi, le figure di uno dei gruppi
che aspettavano vicino alle difese si voltarono e si avviarono in direzione opposta alla città, sfilando
come formiche in fuga da un formicaio distrutto.
La faccia di Simon era cerea nella luce morente. — Immagino — disse — che ci odino davvero
tanto. Al punto da preferire Valentine.
— Non è odio — rifletté Clary. — È paura. Anche Valentine aveva paura. — Lo disse senza
pensarci e si rese conto solo dicendolo che era proprio vero. — Aveva paura ed era invidioso.
Simon le lanciò un'occhiata, sorpreso. — Invidioso?
Ma Clary era tornata al sogno che Ithuriel le aveva mostrato e la voce di Valentine le echeggiava
nelle orecchie. Avrei voluto chiedergli perché. Perché Raziel ha creato noi, la sua stirpe di
Cacciatori, ma non ci ha dato i poteri che hanno i Nascosti: la velocità dei lupi, l'immortalità del
Popolo Fatato, la magia degli stregoni, nemmeno la resistenza dei vampiri. Ci ha lasciati nudi
davanti agli eserciti infernali con solo questi segni dipinti sulla pelle. Perché i loro poteri devono
essere più grandi dei nostri? Perché non possiamo avere anche noi ciò che loro possiedono?
Clary socchiuse le labbra, fissando, senza vedere nulla, la città ai suoi piedi. Era vagamente
consapevole che Simon la stava chiamando, ma la sua mente stava girando a mille. L'angelo
avrebbe potuto mostrarle qualsiasi cosa, pensò, ma se aveva scelto di mostrarle quelle scene, quei
ricordi, una ragione doveva esserci. Ripensò a Valentine che gridava: Che noi dovessimo essere
legati ai Nascosti, legati a quelle creature!
E la runa. La runa che aveva sognato. Quella semplice come un nodo.
Perché non possiamo avere anche noi ciò che essi possiedono?
— È vincolante — esclamò ad alta voce. — È una runa vincolante! Unisce il simile al diverso.
— Cosa? — Simon la guardò, confuso.
Clary si rialzò in piedi, spazzolandosi via la terra. — Devo andare da loro. Dove sono?
— Dove sono chi? Clary...
— Il Conclave. Dove sono riuniti? Dov'è Luke?
Simon si alzò in piedi. — Nella Sala degli Accordi.
Clary...
Ma Clary stava già correndo verso il sentiero serpeggiante che portava in città. Imprecando
sottovoce, Simon la seguì.
Dicono che tutte le strade portano alla Sala degli Accordi. Le parole di Sebastian risuonavano nella
testa di Clary, mentre sfrecciava a tutta velocità per le strade strette di Alicante. Sperava che fosse
vero, perché altrimenti si sarebbe sicuramente persa. Le vie prendevano pieghe inaspettate, non
erano come le care strade di Manhattan, dritte e a reticolo. A Manhattan sapevi sempre dove ti
trovavi. Ogni cosa era chiaramente numerata e ordinata. Quello, invece, era un labirinto.
Attraversò un minuscolo cortile e imboccò uno degli stretti sentieri che costeggiavano i canali,
sapendo che, se avesse seguito l'acqua, alla fine sarebbe arrivata alla piazza dell'Angelo. Con sua
sorpresa, il sentiero la portò alla casa di Amatis e, da lì, Clary seguì ansimando e correndo una
strada più ampia e più familiare che portava alla piazza. Ed ecco ergersi davanti a lei, ampia e
bianca, la Sala degli Accordi, con la statua dell'Angelo al centro della piazza. E accanto alla statua
c'era Simon, con le braccia conserte. Era nero.
— Avresti potuto aspettarmi — la apostrofò.
Clary si piegò in due, con le mani sulle ginocchia, per riprendere fiato. — Non... non puoi dire
così... visto che sei arrivato... prima di me.
— Velocità da vampiro — annunciò Simon con una certa soddisfazione. — Quando torneremo a
casa, mi darò alle gare di atletica.
— Non sarebbe... leale. — Con un ultimo respiro profondo, Clary si raddrizzò e si scostò dagli
occhi i capelli sudati. — Vieni. Entriamo.
La sala era piena di Shadowhunters: erano più di quanti Clary ne avesse mai visti riuniti in uno
stesso posto, più ancora della notte dell'attacco di Valentine. Le loro voci erano un boato come di
valanga. La maggior parte delle persone era divisa in gruppetti litigiosi che vociavano senza trovare
un accordo,- il podio era deserto e le mappe di Idris pendevano tristi e solitarie sul muro dietro di
esso.
Clary si guardò intorno, cercando Luke. Le ci volle un momento per trovarlo: era appoggiato a una
colonna con gli occhi semichiusi. Aveva un aspetto orribile: mezzo morto, le spalle accasciate.
Dietro di lui c'era Amatis, che gli batteva una mano sulla spalla con aria preoccupata. Clary si
guardò intorno, ma non vide Jocelyn da nessuna parte.
Ebbe un attimo di esitazione. Poi pensò a Jace, che era andato a caccia di Valentine, e ci era andato
da solo pur sapendo che rischiava di farsi ammazzare. Jace sapeva di essere parte di tutto questo, e
anche lei ne era parte: da sempre, anche quando non ne sapeva niente. L'adrenalina le correva
ancora nelle vene, acuiva la sua percezione, rendeva tutto nitidissimo. Quasi troppo. Strinse la mano
di Simon. — Augurami buona fortuna — gli disse. Poi i piedi la portarono verso i gradini del podio,
quasi senza una sua precisa volontà, e dopo, eccola sul podio, rivolta verso la folla.
Non sapeva bene che cosa aspettarsi. Esclamazioni di sorpresa? Un mare di facce ammutolite e in
attesa? Quasi nessuno la notò. Solo Luke alzò gli occhi, come se ne avesse percepito la presenza, e
raggelò, con uno sguardo di assoluto stupore sul volto. E c'era qualcuno che si faceva largo tra la
folla, un uomo alto e spigoloso, proteso verso di lei come la prua di un veliero. Il Console Malachi.
Le stava facendo grandi cenni perché scendesse dal podio, scrollava la testa e gridava parole che
Clary non poteva sentire. Altri Shadowhunters adesso si stavano girando verso di lei, mentre
Malachi fendeva la folla.
Ora Clary aveva ciò che voleva: tutti gli occhi erano inchiodati su di lei. Sentiva dei sussurri tra la
folla: È lei. È la figlia di Valentine.
— Avete ragione — esclamò, spingendo la voce più lontano e più forte che poteva. — Io sono la
figlia di Valentine. Fino a un paio di settimane fa non avevo idea che lui fosse mio padre. Non
sapevo nemmeno che esistesse, fino a un paio di settimane fa. So che molti di voi non ci
crederanno, ma non importa. Pensate pure a ciò che volete. Mi basta che sappiate che io so cose di
Valentine che voi non conoscete, cose che potrebbero aiutarvi a vincere questa battaglia contro di
lui. Se mi lascerete dire di che cosa si tratta.
— Ridicolo. — Malachi era ai piedi del podio. — Tutto questo è ridicolo. Sei solo una ragazzina...
— È la figlia di Jocelyn Fairchild. — Era stato Patrick Penhallow, a parlare. Si era fatto largo tra la
folla e ora aveva una mano alzata. — Malachi, lascia parlare la ragazza.
La folla mormorava. — Lei — disse Clary al Console. — Lei e l'Inquisitore avete buttato in
prigione il mio amico Simon.
Malachi fece un ghigno di derisione. — Il tuo amico vampiro?
— Mi ha detto che gli avete chiesto che cosa era successo sulla nave di Valentine, quella notte
sull'East River. Pensavate che Valentine avesse fatto qualcosa, qualche sorta di magia nera. Be', non
è così. Se volete sapere che cosa ha distrutto quella nave, la riposta è: sono stata io. Io l'ho distrutta!
La risata incredula di Malachi trovò eco in varie altre persone nella folla. Luke la stava guardando,
scuotendo la testa, ma Clary continuò, imperterrita.
— Ho usato una runa — proseguì. — Una runa così potente che ha fatto cadere in pezzi tutta la
nave. Io posso creare nuove rune. Non solo quelle del Libro Grigio, ma altre rune, che nessuno ha
mai visto prima... rune potentissime...
— Adesso basta — ruggì Malachi. — Tutto questo è ridicolo. Nessuno può creare nuove rune. È
assolutamente impossibile. — Si rivolse alla folla. — Come suo padre, la ragazza non è altro che
una bugiarda.
— Non sta mentendo. — La voce veniva dal fondo della sala. Era limpida, forte e determinata. La
folla si girò e Clary vide chi aveva parlato: Alec. Con Isabelle da un lato e Magnus dall'altro.
Insieme a loro c'erano anche Simon e Maryse Lightwood. Formavano un piccolo nucleo molto
determinato, vicino alle porte d'ingresso. — Io l'ho vista creare una runa. L'ha usata su di me. E ha
funzionato.
— Tu menti — esclamò il Console, ma il dubbio si era insinuato nei suoi occhi. — Per proteggere
la tua amica.
— È vero, Malachi — intervenne Maryse, secca. — Perché mio figlio dovrebbe mentire su una cosa
del genere, quando la verità si può scoprire così facilmente? Date alla ragazza uno stilo e chiedetele
di creare una runa.
Un mormorio di consenso attraversò la sala. Patrick Penhallow fece un passo avanti e porse il suo
stilo a Clary. Lei lo prese con gratitudine e si girò di nuovo verso la folla.
D'improvviso aveva la gola secca. L'adrenalina era ancora alta, ma non bastava a tenere a bada il
panico da palcoscenico. Che cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Che tipo di runa poteva creare, per
convincere tutta quella gente che stava dicendo la verità? Che cosa avrebbe potuto mostrare loro la
verità?
Passò lo sguardo sulla folla e vide Simon che la guardava, attraverso lo spazio vuoto che li
separava. La guardava nello stesso modo in cui Jace l'aveva guardata alla tenuta dei Wayland. Era
questo, pensò, l'unico filo che univa quei due ragazzi che amava tanto, l'unico punto che avevano in
comune: entrambi credevano in lei, perfino quando lei non credeva in se stessa.
Guardando Simon e pensando a Jace, Clary abbassò lo stilo e mosse la punta bruciante all'interno
del polso, dove passavano le vene. Non abbassò gli occhi, disegnò alla cieca, confidando in se
stessa e nello stilo: insieme avrebbero creato la runa che le serviva. La disegnò con tratto leggero le sarebbe servita solo per un momento - ma senza la minima esitazione. E quando ebbe finito, alzò
la testa e aprì gli occhi.
La prima cosa che vide fu Malachi. Era sbiancato e stava arretrando con un'espressione di orrore sul
volto. Disse qualcosa, una parola in una lingua che lei non conosceva. Poi, dietro di lui, Clary vide
Luke, che la fissava a bocca aperta. — Jocelyn? — sussurrò.
Clary scosse la testa, appena un cenno, e guardò la folla. Era un'onda indistinta di facce, alcune
nitide, altre sfocate. Alcune sorridevano, altre si guardavano intorno sorprese, alcune si giravano
verso la persona che avevano a fianco. Alcune avevano un'espressone di orrore o di stupore, le mani
sulla bocca. Clary vide Alec lanciare un'occhiata a Magnus e poi a lei, incredulo, vide Simon che la
guardava confuso, infine vide Amatis che correva verso di lei, spingendo da parte la mole di Patrick
Penhallow, e si fermava sotto il podio. — Stephen! — sussurrò, guardando Clary con una sorta di
attonito stupore. — Stephen!
— Oh — esclamò Clary. — Oh, Amatis, no... — E poi sentì la magia della runa scivolare via da lei
come una veste leggera e invisibile. La luce che animava il viso di Amatis si spense e la donna
arretrò dal podio, con un'espressione a metà tra l'avvilimento e lo stupore.
Clary guardò tra la folla. Erano tutti in assoluto silenzio e tutte le facce erano rivolte verso di lei. —
So che cosa avete appena visto — disse. — E che sapete che questo tipo di magia va ben oltre
l'illusione o l'incantesimo. E l'ho fatta con una runa, una sola runa, una runa che ho creato io. Ci
sono dei motivi per cui ho questa abilità, e so che potrebbero non piacervi o che potreste non
crederci, ma non importa. Ciò che importa è che io posso aiutarvi a vincere questa battaglia contro
Valentine. Se me lo permetterete.
— Non ci sarà nessuna battaglia contro Valentine — intervenne Malachi. Non la guardava negli
occhi. — Il Conclave ha deciso. Accetteremo le condizioni poste da Valentine e domani mattina
deporremo le armi.
— Ma non potete farlo! — esclamò Clary, con una sfumatura di disperazione nella voce. — Pensate
davvero che andrà tutto bene solo perché vi sarete arresi? Pensate che Valentine vi lascerà vivere
come avete fatto finora? Pensate che si limiterà a uccidere i demoni e i Nascosti? — Percorse la sala
con lo sguardo. — La maggior parte di voi non vede Valentine da quindici anni. Forse avete
dimenticato chi è veramente. Ma io lo so. L'ho sentito parlare dei suoi piani. Voi credete di poter
continuare a vivere la vostra solita vita sotto il dominio di Valentine, ma non sarà così. Lui vi
controllerà completamente, perché potrà sempre minacciare di distruggervi con gli Strumenti
Mortali. Comincerà con i Nascosti, naturalmente. Ma poi passerà al Conclave. Ucciderà loro per
primi, perché li considera deboli e corrotti. Poi passerà a tutti coloro che hanno un Nascosto in
famiglia: magari un fratello lupo mannaro — e i suoi occhi si posarono su Amatis — o una figlia
adolescente e un po' ribelle che ogni tanto si vede con un cavaliere del Popolo Fatato — e i suoi
occhi si soffermarono sui Lightwood. — O chiunque abbia semplicemente fatto amicizia con un
Nascosto. E poi andrà in cerca di chiunque abbia chiesto i servigi di uno stregone. Quanti di voi
sarebbero?
— È assurdo — ribatté seccamente Malachi. — Valentine non ha alcun interesse a uccidere i
Nephilim.
— Però pensa che chi ha dei legami con i Nascosti non sia degno di essere chiamato Nephilim —
replicò Clary. — Sentite, la vostra guerra non è contro Valentine. È contro i demoni. Tenere lontani i
demoni da questo mondo: è questo il vostro mandato, un mandato che avete ricevuto dal cielo. E un
mandato dal cielo non è una cosa che si possa ignorare. Anche i Nascosti odiano i demoni. Anche
loro li distruggono. Se Valentine potrà fare a modo suo, impiegherà tanto tempo a cercare di
assassinare tutti i Nascosti e tutti i Cacciatori che si siano mai associati ai Nascosti che dimenticherà
i demoni. E anche voi li dimenticherete, perché sarete troppo presi dalla paura per Valentine. E i
demoni invaderanno il mondo. E questa sarà la fine.
— Capisco dove vuoi arrivare — disse Malachi a denti stretti. — Ma noi non combatteremo a
fianco dei Nascosti per una battaglia che non potremo mai vincere.
— Invece potete vincere! — esclamò Clary. — Potete vincere. — Aveva la gola secca, la testa le
doleva, le facce della gente sembravano fondersi in un ammasso informe, punteggiato qua e là da
bianche esplosioni di luce. Non puoi fermarti adesso. Devi andare avanti. Ci devi provare. — Mio
padre odia i Nascosti perché è invidioso di loro! — Le parole ora si accavallavano le une sulle altre.
— Invidioso e timoroso di tutte le cose che i Nascosti sono in grado di fare e lui no. Non sopporta
che, per certi versi, i Nascosti siano più potenti dei Nephilim, e scommetto che non è il solo qui
dentro. È facile avere paura di ciò che non è possibile condividere. — Riprese fiato. — Ma se... se
invece fosse possibile condividerlo? Se io fossi in grado di creare una runa in grado di legare
ciascuno di voi, ciascun Cacciatore, a un Nascosto che combatte al vostro fianco? Se voi
poteste condividere i vostri poteri!Allora potreste guarire in fretta come un vampiro, potreste essere
forti come un lupo mannaro o veloci come un cavaliere del Popolo Fatato. Ed essi, in cambio,
potrebbero condividere il vostro addestramento, le vostre abilità nel combattimento. Potreste
diventare un esercito invincibile... Se vi lascerete marchiare da me e se combatterete a fianco dei
Nascosti. Perché, se non combatterete al loro fianco, le rune non funzioneranno. — Tacque. Poi
riprese. — Vi prego — concluse, ma la parola le uscì dalla gola riarsa quasi inudibile. — Vi prego,
lasciatevi fare il marchio.
Le sue parole caddero in un risonante silenzio. Il mondo era come una macchia indistinta. Clary si
rese conto di aver pronunciato l'ultima metà del suo discorso con gli occhi fissi al soffitto della sala,
e che le piccole esplosioni di luce che aveva visto erano le stelle che spuntavano nel cielo notturno,
una dopo l'altra. Il silenzio persisteva. Le mani di Clary, lungo i fianchi, si strinsero lentamente a
pugno. E poi, lentamente, molto lentamente, Clary abbassò gli occhi e incrociò gli sguardi della
folla che la fissava.
capitolo 17
IL RACCONTO DELLA CACCIATRICE
Ora Clary era sul gradino più alto della Sala degli Accordi e guardava la piazza dell'Angelo. La luna
era già sorta e spuntava dietro i tetti delle case e le torri antidemoni ne riflettevano la luce argentea.
Il buio nascondeva bene le ferite e le cicatrici della città, che sembrava pacifica e tranquilla, sotto il
cielo notturno... finché non si volgeva lo sguardo alla collina della Guardia e alle rovine della
fortezza. Le guardie pattugliavano la piazza, comparendo nei cerchi luminosi dei lampioni di
stregaluce e scomparendo nel buio. Si sforzavano di ignorare le presenza di Clary.
Qualche gradino più in basso, Simon camminava avanti e indietro, con passi perfettamente
silenziosi e le mani in tasca. Quando, alla fine della scala, si voltava per tornare indietro verso
Clary, la luce della luna si riverberava sulla pelle chiara, come da una superficie riflettente.
— Smettila di andare avanti e indietro — protestò Clary. — Mi rendi più nervosa.
— Scusa.
— Mi sembra di essere qui fuori da sempre. — Clary, pur tendendo le orecchie, non riusciva a
sentire niente, tranne il sordo mormorio di molte voci che filtrava dalle porte chiuse della Sala degli
Accordi. — Tu riesci a sentire quello che dicono?
Simon socchiuse gli occhi e parve concentrarsi. — Qualcosa — disse dopo un breve silenzio.
— Quanto vorrei essere là dentro! — esclamò Clary, picchiando con rabbia i tacchi sui gradini.
Luke le aveva chiesto di aspettare fuori, mentre il Conclave deliberava. Avrebbe voluto mandare
Amatis con lei, ma Simon aveva insistito per andarci lui, sostenendo che era meglio se Amatis fosse
restata dentro a difendere Clary. — Vorrei partecipare all'assemblea.
— No — replicò Simon. — Non è vero.
Clary sapeva perché Luke le aveva chiesto di aspettare fuori. Non era difficile immaginare che cosa
stessero dicendo di lei là dentro. Una bugiarda. Una fanatica. Un povera sciocca. Una pazza. Una
stupida. Un mostro. La figlia di Valentine. Forse era molto meglio stare fuori, ma la tensione
dell'attesa era quasi un dolore fisico.
— Magari potrei arrampicarmi su una di quelle — buttò lì Simon, indicandole con lo sguardo le
massicce colonne bianche che sostenevano il tetto spiovente della sala. Erano decorate da intrecci di
rune incise nella pietra, ma per il resto non avevano punti d'appiglio visibili. — Per scaricare un po'
di tensione.
— Ma dai! — esclamò Clary. — Sei un vampiro, mica Spiderman.
Per tutta risposta, Simon salì agilmente i gradini e si avvicinò alla colonna. La osservò pensoso per
un momento, poi vi appoggiò le mani e cominciò ad arrampicarsi. Clary lo guardò a bocca aperta,
mentre con i piedi e la punta delle dita trovava appigli impossibili sulla pietra leggermente incisa.
— Tusei Spiderman! — esclamò Clary.
Simon, appollaiato a metà della colonna, guardò giù. — E allora, tu sei Mary Jane. Anche lei ha i
capelli rossi — replicò. Poi guardò la città, aggrottando la fronte. — Speravo di vedere la Porta
Settentrionale da qui, ma non sono abbastanza in alto.
Clary sapeva perché Simon voleva vedere la Porta. Erano stati mandati dei messaggeri a chiedere
ai Nascosti di aspettare ancora, mentre il Conclave deliberava. E Clary poteva solo sperare che
avessero accettato. E se avevano accettato, cosa stava succedendo, là fuori? Clary s'immaginò la
folla che aspettava, che gironzolava, che s'interrogava...
Le doppie porte della Sala degli Accordi si socchiusero. Una figura snella ne scivolò fuori, le
richiuse e si girò verso Clary. Era nell'ombra, e solo quando fece un passo avanti, avvicinandosi
alla stregaluce che illuminava i gradini, Clary vide la vampa di capelli rossi e riconobbe sua madre.
Jocelyn guardò in su, divertita. — Be', ciao, Simon. Mi fa piacere vedere che ti stai... adattando.
Simon lasciò la presa sulla colonna e si lasciò cadere, atterrando con grazia. Sembrava lievemente
imbarazzato. — Salve, signora Fray.
— Non so quanto abbia senso chiamarmi così, adesso — obiettò la madre di Clary. — Forse
dovresti semplicemente chiamarmi Jocelyn. — Esitò. — Sai, per quanto strana sia questa...
situazione, è bello vederti qui con Clary. Non riesco nemmeno a ricordare un momento in cui non
siate stati insieme.
Ora Simon era decisamente imbarazzato. — Anche per me è bello rivederla.
— Grazie, Simon. — Jocelyn guardò sua figlia. — Clary, ti andrebbe di parlare un po' con me? Noi
due sole?
Clary rimase immobile per un lungo momento, fissando sua madre. Era difficile non vederla come
un'estranea. Aveva la gola stretta, quasi troppo stretta per parlare. Guardò Simon, che era
chiaramente in attesa di un suo segnale per andarsene o restare. Sospirò. — Okay.
Simon alzò i pollici in segno di incoraggiamento, poi svanì oltre le porte della Sala. Clary si girò e
si mise a fissare la piazza, osservando le guardie di pattuglia. Jocelyn andò a sedersi vicino a lei.
Una parte di Clary avrebbe desiderato appoggiarsi a lei, appoggiarle la testa sulla spalla, magari
chiudere gli occhi e fingere che andasse tutto bene. L'altra parte sapeva che non avrebbe fatto
nessuna differenza: non poteva tenere gli occhi chiusi per sempre.
— Clary — disse Jocelyn alla fine, molto piano. — Mi dispiace tanto.
Clary si guardava le mani. Si rese conto di stringere ancora in una mano lo stilo di Patrick
Penhallow. Sperò che non pensasse che glielo aveva rubato.
— Non avrei mai pensato di rivedere questo posto — aggiunse Jocelyn. Clary le lanciò un'occhiata
furtiva: sua madre stava guardando la città e le torri antidemoni che gettavano la loro pallida luce
biancastra sui tetti. — Qualche volta sognavo Alicante. Ho anche pensato di dipingerla, di
dipingere i miei ricordi, ma non potevo. Se tu avessi visto quei quadri avresti potuto fare delle
domande, avresti potuto chiederti come avevano fatto quelle immagini a entrarmi nella mente. Ero
così spaventata all'idea che tu potessi scoprire da dove venivo veramente. Chi ero veramente.
— E ora l'ho scoperto.
— E ora l'hai scoperto. — La voce di Jocelyn era piena di nostalgia. — E hai tutte le ragioni per
odiarmi.
— Io non ti odio, mamma — ribatté Clary. — E solo che...
— Non ti fidi di me — concluse per lei Jocelyn. — Non posso darti torto. Avrei dovuto dirti la
verità. — Sfiorò Clary sulla spalla, e sembrò prendere coraggio, quando lei non si ritrasse. — Posso
solo dirti che l'ho fatto per proteggerti, ma so come possano sembrare queste parole alle tue
orecchie. Poco fa c'ero anch'io, nella Sala degli Accordi. Ti ho sentita.
— C'eri anche tu? — Clary era stupita. — Non ti ho visto.
— Ero nascosta in fondo alla sala. Luke mi aveva chiesto di non venire all'assemblea, mi aveva
detto che la mia presenza avrebbe sconvolto i presenti e avrebbe rischiato di rovinare tutto.
Probabilmente aveva ragione, ma io volevo assolutamente esserci. Così sono sgattaiolata dentro
quando l'assemblea era già iniziata e mi sono nascosta nell'ombra. Ma c'ero. E volevo dirti che...
— Che ho fatto una figura da stupida? — chiese Clary amaramente. — Lo so già.
— No. Volevo dirti che sono orgogliosa di te.
Clary si girò con tutto il corpo per guardare sua madre. — Davvero?
Jocelyn annuì. — Certo. Il modo in cui hai affrontato tutto il Conclave. Il modo in cui hai mostrato
loro che cosa eri in grado di fare. Quando ti hanno guardato, hanno visto la persona che amavano
di più al mondo, vero?
— Sì — confermò Clary. — Come hai fatto a capirlo?
— Perché li ho sentiti pronunciare tanti nomi diversi — disse piano Jocelyn. — Ma io continuavo a
vedere te.
— Oh. — Clary si guardò i piedi. — Be', non sono sicura che mi abbiano creduto, sulle rune. Cioè,
lo spero, ma...
— Posso vederla? — chiese Jocelyn.
— Vedere cosa?
— La runa. Quella che hai creato per unire i Cacciatori e i Nascosti. — Esitò. — Ma se non me la
puoi mostrare...
— No, non c'è problema. — Con lo stilo, Clary tracciò sul marmo del gradino le linee della runa
che l'angelo le aveva mostrato e, mentre le disegnava, le linee si accendevano di calda luce dorata.
Era una runa potente, una mappa di linee ricurve sovrapposte a una matrice di linee rette.
Semplice e complessa allo stesso tempo. Ora Clary sapeva perché le era sembrata incompleta,
quando l'aveva visualizzata in passato: per essere efficace, aveva bisogno di un'altra runa abbinata.
Una gemella. Una compagna. — Alleanza — disse Clary, sollevando lo stilo. — È così che la voglio
chiamare.
Jocelyn guardò in silenzio la runa che ardeva e poi si spegneva, lasciando sulla pietra sottili linee
nere. — Quando ero più giovane — disse — ho lottato con tutte le mie forze per unire i Nascosti e i
Cacciatori, per proteggere gli Accordi. Credevo di inseguire un sogno, qualcosa che gran parte dei
Cacciatori non poteva nemmeno immaginare. E tu, adesso, l'hai reso concreto e letterale, e reale. —
Batté le palpebre con forza. — Ho capito una cosa, vedendoti nella Sala degli Accordi. Sai, in tutti
questi anni ho cercato di proteggerti nascondendoti. Per questo non mi piaceva che tu andassi al
Pandemonium. Sapevo che era un posto dove i Nascosti e i mondani si mescolavano. E questo
implicava che ci fossero anche dei Cacciatori. Pensavo che ad attirarti là fosse qualcosa che avevi
nel sangue, qualcosa che riconosceva il mondo delle ombre. Pensavo che saresti stata al sicuro solo
se ti avessi tenuto nascosto quel mondo. Non ho mai pensato che avrei potuto proteggerti
aiutandoti a essere forte e a combattere. — La sua voce era piena di tristezza. — Ma tu sei
diventata forte comunque. Abbastanza forte perché io adesso possa dirti la verità, se vuoi ancora
sentirla.
— Non lo so. — Clary pensò alle immagini che l'angelo le aveva mostrato, a quanto fossero
terribili. — Ero arrabbiata con te perché mi hai mentito, è vero, ma ora non sono sicura di voler
scoprire altre cose orribili.
— Ne ho parlato con Luke. Lui pensa che dovresti sentire ciò che ho da dirti. Tutta la storia. Tutta,
fino in fondo. Cose che non ho mai detto a nessuno, nemmeno a lui. Non posso garantirti che tutta
la verità sarà gradevole. Ma sarà la verità.
Dura lex, sed lex. Scoprire la verità: lo doveva a Jace come lo doveva a se stessa. Clary strinse più
forte lo stilo, fino a far sbiancare le nocche. — Voglio sapere tutto.
— Tutto... — Jocelyn fece un respiro fondo. — Non so nemmeno da dove iniziare.
— Che ne dici di cominciare spiegandomi come hai fatto a sposare Valentine? Come hai potuto
sposare un uomo come quello, fare di lui mio padre... È un mostro.
— No. È un uomo. Non è un uomo buono. Ma se vuoi sapere perché l'ho sposato, è perché lo
amavo.
— Non è possibile — disse Clary. — Nessuno potrebbe amarlo.
— Avevo la tua età quando m'innamorai di lui — raccontò Jocelyn. — Pensavo che fosse perfetto:
brillante, intelligente, meraviglioso, divertente, affascinante... Lo so, mi guardi come se avessi
perso la ragione. Tu conosci Valentine solo com'è adesso. Non puoi immaginare com'era allora.
Quando eravamo a scuola insieme, tutte erano innamorate di lui. Sembrava brillare di luce propria,
in un certo senso. Era come se ci fosse una parte dell'universo, un parte speciale e illuminata di
luce viva, alla quale solo lui aveva accesso. E, se eravamo fortunate, forse poteva condividerla con
noi, anche solo un poco. Tutte le ragazze lo adoravano e io credevo di non avere la minima
possibilità. Non c'era niente di speciale, in me. Non ero neanche molto conosciuta in giro. Luke era
uno dei miei amici più cari e passavo gran parte del mio tempo con lui. Eppure, in qualche modo,
Valentine scelse me.
Che schifo, avrebbe voluto dire Clary, ma si trattenne: forse per la nostalgia mista al rammarico che
sentiva nella voce di sua madre. O forse per quello che sua madre aveva detto di Valentine, che era
come se emanasse luce propria: Clary aveva pensato la stessa cosa di Jace, sentendosi poi molto
stupida. Ma forse tutti gli innamorati si sentivano così.
— Okay — disse. — Ho capito. Ma avevi sedici anni. Non significa che dovevi per forza sposarlo.
— Ne avevo diciotto quando ci sposammo. E lui diciannove — annunciò Jocelyn in tono molto
pratico.
— Oh mio Dio! — esclamò Clary, inorridita. — Tu mi uccideresti se decidessi di sposarmi a diciotto
anni.
— Vero — disse Jocelyn. — Ma gli Shadowhunters tendono a sposarsi prima dei mondani. La
loro... la nostra vita è più breve: molti di noi muoiono di morte violenta. Per questo tendiamo ad
anticipare le cose, rispetto ai mondani. Comunque, ero giovane per sposarmi. Ma la mia famiglia
era felice per me, anche Luke lo era. Tutti pensavano che Valentine fosse un ragazzo meraviglioso.
Ed era solo un ragazzo, capisci? L'unica persona che mi disse che non avrei dovuto sposarlo fu
Madeleine. Eravamo amiche, a scuola, ma quando le annunciai che mi ero fidanzata, mi disse che
Valentine era egoista e odioso, che il suo fascino mascherava una terribile amoralità. Io pensai che
fosse gelosa.
— E lo era?
— No — rispose Jocelyn. — Diceva la verità, solo che io non volevo sentirla. — Si guardò le mani.
— Ma ti sei pentita — disse Clary. — Dopo averlo sposato, ti sei pentita di averlo fatto, vero?
— Clary — sospirò Jocelyn. Sembrava stanca. — Noi eravamo felici. Almeno per i primi anni.
Vivevamo nella tenuta di campagna dei miei genitori, dov'ero cresciuta io. Valentine non voleva
stare in città e voleva che anche il resto del Circolo evitasse Alicante e gli occhi curiosi del
Conclave. I Wayland vivevano in una tenuta a un paio di miglia dalla nostra e ce n'erano anche
altri, poco lontano: i Lightwood, i Penhallow. Era come essere al centro del mondo, con tutto quel
movimento che ci girava intorno, tutta quella passione. E in tutto questo, io ero sempre al fianco di
Valentine. Non mi faceva mai sentire di troppo o irrilevante. No, ero un anello fondamentale del
Circolo. Ci teneva, alla mia opinione, ed ero una dei pochi. Mi diceva sempre che, senza di me, non
avrebbe potuto fare niente di tutto quello che stava facendo. Senza di me, lui non sarebbe stato
niente.
— Davvero? — Clary non riusciva a immaginare un Valentine che diceva cose simili, cose che lo
facessero sembrare... vulnerabile.
— Certo, ma non era vero. Valentine non sarebbe mai stato un niente. Era nato per essere un
leader, per essere il centro di una rivoluzione. Continuavano ad arrivare nuovi adepti: attratti dalla
sua passione, dalla genialità delle sue idee. Di rado parlava dei Nascosti, in quei primi giorni.
Tutto girava intorno all'idea di riformare il Conclave, di cambiare leggi che erano antiche, rigide e
sbagliate. Valentine diceva che dovevano esserci più Cacciatori, per combattere contro i demoni, e
più Istituti; diceva che ci dovevamo preoccupare meno di nasconderci e più di proteggere il
mondo dalle stirpi demoniache. Che dovevamo camminare nel mondo con orgoglio. Era
seducente, la sua visione: un mondo pieno di Shadowhunters in cui i demoni scappavano
spaventati, in cui i mondani, invece di non credere neppure alla nostra esistenza, ci ringraziavano
per ciò che facevamo per loro. Eravamo giovani: pensavamo che i ringraziamenti fossero
importanti. Non sapevamo. — Jocelyn fece un respiro profondo, come se fosse sul punto di tuffarsi
sott'acqua. — Poi scoprii di essere incinta.
Clary sentì un pizzicore freddo sulla nuca e all'improvviso - non avrebbe saputo dire il perché non era più sicura di volere tutta la verità da sua madre, non era più sicura di voler sentire, di
nuovo, come Valentine aveva trasformato Jace in un mostro. — Mamma...
Jocelyn scosse la testa, senza vedere nulla. — Mi hai chiesto perché non ti ho mai detto che avevi
un fratello. Ora te lo spiegherò. — Prese fiato, a fatica. — Ero così felice, quando lo scoprii. E
Valentine... aveva sempre voluto essere padre. Addestrare suo figlio a essere un guerriero, come
suo padre aveva addestrato lui. «O nostra figlia», aggiungevo io. E lui sorrideva e diceva che una
figlia poteva essere un bravo guerriero tanto quanto un maschio, e che lui sarebbe stato felice in
ogni caso. Mi pareva che fosse tutto perfetto.
«Poi Luke venne morso da un lupo mannaro. Dicono che ci sia una possibilità su due che il morso
trasmetta la licantropia. Secondo me, siamo più nell'ordine di tre possibilità su quattro. Raramente
ho visto qualcuno scampare il contagio, e Luke non fece eccezione. Alla prima luna piena, si
trasformò. E la mattina dopo era sulla porta di casa nostra, coperto di sangue, i vestiti ridotti a
brandelli. Io avrei voluto consolarlo, ma Valentine mi spinse via. Jocelyn!, esclamò. Il bambino!
Come se Luke avesse potuto aggredirmi e strapparmi via il bambino dalla pancia. Era Luke! Ma
Valentine mi spinse via e trascinò Luke nel bosco. Quando tornò indietro, dopo parecchio tempo,
era solo. Gli corsi incontro, ma mi disse che Luke si era ucciso per la disperazione di essere
diventato un licantropo. Che era... morto.
Il dolore nella voce di Jocelyn era una ferita aperta. Ancora adesso, pensò Clary, pur sapendo che
Luke non era morto. Ma anche Clary ricordava intensamente la propria disperazione quando, sui
gradini dell'Istituto, aveva stretto tra le braccia Simon morente. C'erano dei sentimenti che non si
potevano scordare.
— Invece Valentine aveva dato un coltello a Luke — intervenne Clary con un filo di voce. — Gli
aveva detto di uccidersi. E poi aveva convinto il marito di Amatis a divorziare da lei, solo perché il
fratello di Amatis era diventato un lupo mannaro.
— Questo non lo sapevo — mormorò Jocelyn. — Dopo la presunta morte di Luke, per me fu come
cadere in un pozzo nero. Passai mesi interi chiusa in camera mia, a dormire tutto il giorno, a
mangiare solo per il bambino. I mondani la chiamerebbero depressione, ma gli Shadowhunters
non hanno parole di questo tipo. Valentine era convinto che fosse una gravidanza difficile. Diceva
a tutti che ero malata. E, in effetti, lo ero. Avevo perso il sonno. Continuavo a pensare di sentire
strani rumori, grida nella notte. Valentine mi faceva bere dei decotti per dormire, ma mi davano gli
incubi. Sogni terribili, in cui Valentine mi schiacciava a terra e mi piantava un coltello nel cuore, o
in cui bevevo veleno e soffocavo. La mattina dopo ero esausta e dormivo tutto il giorno. Non
avevo idea di che cosa stesse succedendo fuori, non sapevo che mio marito aveva costretto Stephen
a divorziare da Amatis e a sposare Céline. Ero come stordita. E poi... — Jocelyn si strinse le mani in
grembo. Tremavano. — E poi nacque il bambino.
Ci fu un silenzio così lungo che Clary si chiese se sua madre avrebbe ripreso il racconto. I suoi
occhi fissavano le torri antidemoni senza vederle, le sue dita picchiettavano nervosamente contro
un ginocchio, come a disegnare un tatuaggio. Alla fine, riprese: — Mia madre era con me, quando
nacque il bambino. Tu non l'hai mai conosciuta. Tua nonna. Era una donna molto dolce. Ti sarebbe
piaciuta, credo. Mi mise in braccio mio figlio, e la prima sensazione che provai era che stava
perfettamente nel mio abbraccio, che la coperta che lo avvolgeva era morbida, che era piccolo e
delicato, con un ciuffetto di capelli chiari in cima alla testa. Ma dopo... il bambino aprì gli occhi.
La voce di Jocelyn era piatta, quasi senza tono, e tuttavia Clary si scoprì a tremare, a temere quello
che sua madre stava per dire. Non dire più niente,avrebbe voluto dirle. Non dirmelo. Ma Jocelyn
proseguì, e le parole le sgorgavano dalle labbra come gelido veleno.
— Fui pervasa dall'orrore. Era come se mi avessero immersa nell'acido. La pelle sembrava bruciare
e staccarsi dalle ossa. Fui brava a non mollare per terra il bambino e a non mettermi a urlare.
Dicono che una madre riconosca il proprio figlio per istinto. Immagino che sia vero anche il
contrario. Ogni nervo del mio corpo gridava che quello non era il mio bambino, che era un essere
orribile e innaturale, disumano come un parassita. Come faceva, mia madre, a non accorgersene?
Ma lei mi sorrideva, come se fosse tutto a posto.
«"Si chiama Jonathan", disse una voce dalla porta. Alzai gli occhi e vidi Valentine che contemplava
compiaciuto la scena. Il bambino aprì di nuovo gli occhi, come riconoscendo il suono del suo
nome. Erano neri, neri come la notte, buchi cupi e senza fondo scavati nel cranio. Non c'era niente
di umano, in quegli occhi.
Ci fu un lungo silenzio. Clary era impietrita, fissava sua madre a bocca aperta, piena di orrore. È di
Jace che sta parlando, pensava. Di Jace appena nato. Come è possibile avere simili sentimenti per un
bambino appena nato!
— Mamma — sussurrò. — Forse... forse eri in stato di shock, o qualcosa del genere. O forse eri
malata...
— È quello che mi disse anche Valentine — rispose Jocelyn senza mostrare emozioni. — Che ero
malata. Valentine adorava Jonathan. Non riusciva a capire che cosa non andasse in me. E io sapevo
che aveva ragione. Ero un mostro, una madre che non poteva sopportare la vista del proprio figlio.
Pensai addirittura di uccidermi. E forse l'avrei fatto... Ma poi ricevetti un messaggio, un messaggio
col fuoco, da Ragnor Fell. Era uno stregone che era sempre stato vicino alla mia famiglia: era lui
che chiamavamo, quando ci serviva un incantesimo di guarigione, o cose del genere. Ragnor Fell
aveva scoperto che Luke era diventato il capo di un branco di lupi mannari nella foresta di
Brocelind, vicino al confine orientale. Bruciai il biglietto non appena l'ebbi letto. Sapevo che
Valentine non avrebbe mai dovuto saperlo. Ma solo quando andai dove il branco si era insediato
e vidi Luke seppi per certo che Valentine mi aveva mentito, a proposito del suo suicidio. Allora
cominciai a odiarlo veramente.
— Ma Luke mi ha detto che, ancora prima della sua Trasformazione, tu sapevi che in Valentine
c'era qualcosa che non andava, sapevi che stava facendo cose terribili.
Per un momento Jocelyn non rispose. — Sai, Luke non avrebbe mai dovuto essere morso. Non
doveva accadere. Era un normale giro di pattuglia nei boschi. E lui era là fuori con Valentine. Non
sarebbe mai dovuto accadere.
— Mamma...
— Luke mi ha ricordato che io, prima della sua Trasformazione, gli confidai che avevo paura di
Valentine; gli dissi che sentivo delle grida dietro i muri della tenuta, che sospettavo, che temevo
qualcosa. E Luke, il fiducioso Luke, il giorno dopo chiese spiegazioni a Valentine. Quella notte
stessa Valentine lo portò a caccia e Luke venne morso. Credo che Valentine mi abbia fatto
dimenticare ciò che avevo visto, ciò che mi aveva tanto spaventato, qualsiasi cosa fosse. Mi fece
credere che fossero solo brutti sogni. E credo che, quella notte, abbia fatto in modo che Luke
venisse morso. Credo che volesse toglierselo di torno, in modo che nessuno potesse ricordarmi
quanto avevo paura di mio marito. Ma io tutto questo non lo capii, non subito almeno. Io e Luke ci
vedemmo brevemente quella prima volta. Avrei tanto voluto dirgli di Jonathan, ma non potevo,
non potevo. Jonathan era mio figlio. Eppure, vedere Luke, semplicemente vederlo, mi rese più
forte. Tornai a casa dicendomi che avrei fatto un altro tentativo con Jonathan, che avrei imparato
ad amarlo. Che mi sarei fatta amare da lui.
«Quella notte fui svegliata dal pianto di un neonato. Mi sedetti di scatto sul letto, da sola nella mia
stanza. Valentine era fuori, a una riunione del Circolo, e io non avevo nessuno con cui condividere
il mio stupore. Vedi, Jonathan non piangeva mai. Non faceva mai alcun rumore. Il suo silenzio era
una delle cose che più m'inquietava di lui. Mi precipitai in camera sua, ma lui dormiva tranquillo,
in silenzio. Eppure, io lo sentivo quel pianto di bambino, ne ero sicura. Corsi giù dalle scale,
seguendo il suono. Sembrava provenire dalla cantina vuota, ma la porta era chiusa a chiave.
Quella cantina non veniva mai usata. Io però c'ero cresciuta, in quella casa, e sapevo dove mio
padre nascondeva la chiave».
Jocelyn non guardava Clary, mentre raccontava: sembrava persa nella storia, nei ricordi.
— Non ti ho mai raccontato la storia della moglie di Barbablù quando eri piccola, vero? Barbablù
aveva detto a sua moglie di non guardare mai nella stanza chiusa a chiave, ma lei ci volle
guardare, e trovò i resti di tutte le mogli che lui aveva ucciso prima di lei, esposte come farfalle in
una teca di vetro. Io non avevo idea, quando aprii la porta, di cosa ci avrei trovato dentro. Se
dovessi rifarlo, riuscirei a convincermi ad aprire la porta? A usare la stregaluce per scendere nel
buio? Non lo so, Clary, proprio non lo so.
«L'odore... oh, l'odore che c'era laggiù: come di sangue e morte e putrefazione. Valentine aveva
scavato una stanza sotterranea, dove prima c'era la cantina. Non era un bambino che avevo sentito
piangere. C'erano delle celle, laggiù, con dentro delle cose imprigionate. Demoni, legati con catene
di elettro, che si contorcevano e si accasciavano e gorgogliavano nelle celle. Ma c'era di più, molto
di più... Corpi di Nascosti, in differenti stadi di agonia o di morte.
C'erano lupi mannari col corpo mezzo dissolto dalla polvere d'argento. Vampiri tenuti a testa in
giù nell'acqua benedetta, finché la pelle non gli si staccava dalle ossa. Esseri fatati, dalla pelle
martoriata con aghi di ferro.
«Ancora adesso non penso a lui come a un torturatore. Non nel vero senso della parola. Era come
se perseguisse un qualche obiettivo scientifico. C'erano dei quaderni di appunti accanto a ogni
cella, che registravano meticolosamente i suoi esperimenti, e quanto tempo c'era voluto perché una
certa creatura morisse. C'era un vampiro al quale aveva bruciato più volte la pelle, per vedere se
c'era un punto oltre il quale la povera creatura non sarebbe più riuscita a rigenerarsi. Era difficile
leggere senza sentire l'urgenza di vomitare, o di svenire. In qualche modo, non mi successe né
l'una né l'altra cosa.
«C'era una pagina dedicata agli esperimenti che aveva condotto su se stesso. Aveva letto da
qualche parte che il sangue di demone poteva agire da amplificatore dei poteri con cui tutti gli
Shadowhunters nascono. Aveva cercato di iniettarsi del sangue di demone, ma senza risultato.
Non era successo niente: aveva solo avuto una forte nausea. Alla fine era arrivato alla conclusione
di essere troppo vecchio perché il sangue potesse avere effetto su di lui; aveva capito che, per
essere efficace, il sangue doveva essere somministrato a un bambino, preferibilmente prima ancora
della nascita.
«Sulla pagina accanto a quella in cui descriveva questa sua deduzione, aveva scritto una serie di
appunti sotto un titolo che riconobbi: il mio nome.Jocelyn Morgenstern. Giravo le pagine con le dita
tremanti e le parole mi si incidevano a fuoco nella mente. Stasera Jocelyn ha di nuovo bevuto
l'intruglio. Non ci sono cambiamenti visibili in lei, ma è il bambino che m'interessa... Con infusioni regolari
di sangue di demone, come quelle che le sto somministrando, il bambino potrebbe nascere in grado di fare
qualsiasi cosa... Ieri sera ho sentito il cuore del bambino, più forte di un qualsiasi cuore umano, un suono
possente come, quello di una campana, che batte l'inizio di una nuova generazione di Shadowhunters: il
sangue di angeli e di demoni mescolato insieme, a produrre poteri oltre ogni immaginazione... Il potere dei
Nascosti non sarà più il più grande della terra...
«C'era altro, molto altro. Giravo le pagine freneticamente, con le mani che tremavano e la mente
correva al passato, rivedeva i decotti che Valentine mi dava da bere tutte le sere, gli incubi in cui
venivo soffocata, accoltellata, avvelenata. Ma Valentine non aveva avvelenato me: aveva
avvelenato Jonathan. Jonathan. L'aveva trasformato in una sorta di mezzo demone. E fu allora,
Clary... fu allora che capii che cos'era veramente Valentine.
Clary lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto senza rendersene conto. Era orribile, troppo
orribile, eppure tutto corrispondeva perfettamente alla visione che Ithuriel le aveva mandato. Non
sapeva per chi provare più pietà, se per sua madre o per Jonathan. Jonathan... Ora non riusciva a
pensare a lui come a Jace, non con sua madre lì, non con la sua storia così fresca nella mente.
Condannato a non essere più umano, da un padre che aveva più a cuore la morte dei Nascosti che
la felicità della sua famiglia.
— Però... non fu allora che te ne andasti, vero? — chiese Clary con un filo di voce. — Sei rimasta...
— Per due ragioni — spiegò Jocelyn. — Una era la Rivolta. Quello che scoprii nella cantina quella
notte fu come uno schiaffo in pieno viso. Mi risvegliò dalla mia pena e mi fece finalmente aprire gli
occhi su quello che stava succedendo intorno a me. Quando finalmente capii che cosa stava
progettando mio marito, cioè un massacro generale di tutti i Nascosti, capii anche che dovevo
impedirglielo. Cominciai a incontrare Luke in segreto. Non potevo dirgli che cosa aveva fatto
Valentine a me e a nostro figlio. Sapevo che questo l'avrebbe fatto infuriare, che non sarebbe
riuscito a frenarsi e avrebbe dato la caccia a Valentine per ucciderlo; si sarebbe fatto ammazzare. E
non potevo rivelare a nessun altro ciò che era stato fatto a Jonathan. Nonostante tutto, era pur
sempre il mio bambino. Però raccontai a Luke degli orrori nella cantina, della mia convinzione che
Valentine stesse perdendo il lume della ragione, che stesse diventando sempre più folle. Insieme,
organizzammo un'azione per contrastare la Rivolta. Sentivo che dovevo farlo, Clary. Era una sorta
di espiazione, l'unico modo per espiare il peccato di essere entrata nel Circolo, di aver dato fiducia
a Valentine. Di averlo amato.
— E lui non ne sapeva niente? Voglio dire, non si accorse di quello che stavi facendo?
Jocelyn scosse la testa. — Quando una persona ti ama, si fida di te. E poi, a casa cercavo di fingere
che fosse tutto normale. Mi comportavo come se la mia iniziale repulsione alla vista di Jonathan
fosse sparita. Lo portavo a casa di Maryse Lightwood, lo facevo giocare con suo figlio Alec.
Qualche volta veniva anche Céline Herondale. Era incinta, a quel tempo. "Tuo marito è così
gentile", mi diceva. "Si preoccupa tanto per me e per Stephen. Mi dà delle pozioni e dei decotti per la salute
del bambino: sono straordinari. "
— Oh — esclamò Clary. — Oh, mio Dio!
— È quello che pensai anch'io — disse cupamente Jocelyn. — Avrei voluto dirle di non fidarsi di
Valentine e di non prendere niente di quello che le dava, ma non potevo. Suo marito era il più
intimo amico di Valentine e lei mi avrebbe tradito dicendoglielo immediatamente. Tenni la bocca
chiusa. E poi...
— Si uccise — disse Clary, ricordando la sua storia. — Ma... fu per quello che le aveva fatto
Valentine?
Jocelyn scosse la testa. — Onestamente, credo di no. Stephen venne ucciso in un raid e lei, quando
seppe la notizia, si tagliò le vene. Era incinta di otto mesi. Morì dissanguata.. . — Jocelyn riprese
dopo una pausa. — Fu Hodge a trovare il corpo. Valentine sembrò davvero stravolto dalla loro
morte. Sparì per un giorno intero e tornò a casa barcollando, con gli occhi arrossati. Eppure, per
certi versi, fui quasi contenta di questa sua distrazione. Almeno significava che non prestava
attenzione a quello che io stavo facendo. Di giorno in giorno avevo più paura che Valentine
scoprisse la cospirazione e cercasse di strapparmi la verità con la tortura. Chi c'era nella nostra
alleanza segreta? Quanto e come ero riuscita a mandare all'aria il suo piano? Mi chiedevo come e
se avrei saputo resistere alla tortura. Temevo di non farcela. Alla fine mi decisi a prendere dei
provvedimenti per assicurarmi che non succedesse. Andai da Ragnor Fell con tutte le mie paure, e
lui mi preparò una pozione...
— La pozione del Libro Bianco — intervenne Clary, capendo. — Ecco perché la volevi. E
l'antidoto... ma come ha fatto il libro a finire nella biblioteca dei Wayland?
— Ce lo nascosi io, una sera durante una festa — raccontò Jocelyn con l'ombra di un sorriso. —
Non volevo dire niente a Luke, perché sapevo che si sarebbe opposto all'idea della pozione, e tutti
quelli che conoscevo erano nel Circolo. Mandai un messaggio a Ragnor, ma stava partendo da
Idris e non poteva dirmi quando sarebbe tornato. Mi disse che avrei sempre potuto raggiungerlo
con un messaggio. Ma chi l'avrebbe inviato? Alla fine, pensai che c'era un'unica persona alla quale
avrei potuto dirlo, una persona che odiava Valentine e che non mi avrebbe mai tradito. Mandai
una lettera a Madeleine, spiegandole che cosa avevo progettato e che l'unico modo per farmi
riprendere conoscenza era trovare Ragnor Fell. Non ebbi mai una risposta da lei, ma sperai che
avesse letto la lettera e avesse capito. Era tutto quello a cui mi potevo aggrappare.
— Due ragioni — le ricordò Clary. — Hai detto che erano due le ragioni che ti avevano fatto
restare. Una era la Rivolta. E l'altra?
Gli occhi verdi di Jocelyn erano stanchi, ma grandi e luminosi. — Clary — disse. — Non indovini?
La seconda ragione era che aspettavo un altro bambino. Te.
— Oh — disse Clary con un filo di voce. Ricordò le parole di Luke: "Portava dentro di sé un altro
bambino e lo sapeva da settimane". — Ma proprio per questo: non ti venne voglia di scappare?
— Sì — disse Jocelyn. — Ma sapevo che non potevo. Se fossi scappata, Valentine avrebbe
rovesciato il cielo e la terra pur di riportarmi indietro. Mi avrebbe seguito fino in capo al mondo,
perché io gli appartenevo e non mi avrebbe mai lasciato andare. Se fossi stata da sola sarei
scappata, avrei corso il rischio, ma non potevo permettere che prendesse anche te. — Si scostò i
capelli dal viso stanco. — C'era solo un modo per essere sicura che non lo facesse mai. Ed era che
morisse.
Clary guardò sua madre con sorpresa. Jocelyn era ancora stanca, ma il suo volto brillava di luce
feroce.
—Pensavo che sarebbe morto durante la Rivolta—proseguì.
— Io non avrei mai potuto ucciderlo con le mie mani. Non ci sarei mai riuscita. Ma non pensavo
che potesse sopravvivere alla battaglia. E più tardi, quando la casa bruciò, volli credere che fosse
morto. Mi ripetei mille volte che lui e Jonathan erano bruciati nell'incendio, ma sapevo che... — La
sua voce si spense. — Fu per questo che feci ciò che feci. Pensai che l'unico modo per proteggerti
fosse di portarti via i ricordi e trasformarti il più possibile in una mondana. Di nasconderti nella
società dei mondani. Sono stata una stupida, solo ora me ne rendo conto. Ho sbagliato. E mi
dispiace, Clary. Spero tanto che tu mi possa perdonare... se non ora, almeno in futuro.
— Mamma. — Clary si schiarì la voce. Erano almeno dieci minuti che le veniva da piangere. — Va
tutto bene. È solo che... c'è una cosa che non capisco. — Strinse le dita intorno al tessuto del
cappotto. — Sapevo già, almeno in parte, ciò che Valentine aveva fatto a Jace... cioè, a Jonathan. Ma
da come descrivi Jonathan, è come se fosse un mostro. E, mamma, Jace non è così. Non è
minimamente così. Se lo conoscessi... se solo potessi incontrarlo....
— Clary. — Jocelyn le strinse una mano tra le sue. — C'è dell'altro che ti devo raccontare. Non c'è
più niente che ti abbia tenuto nascosto, o su cui ti abbia mentito. Ma ci sono cose che non sapevo
neanch'io e che ho scoperto da poco. E potrebbero essere difficili da sentire.
Peggio di quello che mi hai già detto?, pensò Clary. Si mordicchiò un labbro e annuì. — Dimmi tutto.
Preferisco sapere.
— Quando madame Dorothea mi disse che Valentine era stato visto in città, capii che era lì per me,
per la Coppa. Volevo fuggire, ma non riuscivo a trovare un modo di spiegarti il perché. Non ti
biasimo per essere scappata via in quel modo, quella sera, Clary. Ero contenta che tu non fossi in
casa, quando tuo padre... quando Valentine e i suoi demoni fecero irruzione nel nostro
appartamento. Ebbi appena il tempo di bere la pozione, mentre loro spaccavano la porta
dell'ingresso. — La voce era tesa, si fermò. — Speravo che Valentine mi credesse morta e mi
lasciasse lì, ma non fu così. Mi portò con sé a Renwick. Provò a risvegliarmi in tutti i modi, ma
nessuno dei suoi metodi funzionò. Ero in una sorta di stato sognante: ero consapevole della sua
presenza, ma non potevo muovermi né reagire. Dubito che lui pensasse che potevo sentirlo o
capirlo. E tuttavia, mentre dormivo, lui si sedeva accanto al letto e mi parlava.
— Ti parlava? E di che?
— Del nostro passato. Del nostro matrimonio. Di quanto mi avesse amato e di come io l'avessi
tradito. Del fatto che da allora non aveva più amato nessuno. Credo che fosse sincero, a modo suo.
Ero io la sola persona con cui Valentine parlava dei dubbi che aveva, dei sensi di colpa che
provava. E dopo la mia fuga, non c'era stato nessun altro. Era come se non riuscisse a fermarsi,
come se avesse bisogno di parlare con me, pur sapendo che non avrebbe dovuto. Forse aveva
semplicemente bisogno di parlare con qualcuno. Parlare non di quello che aveva fatto a quei
poveretti, trasformandoli in Dimenticati, o di quello che aveva in mente di fare al Conclave. No.
Lui voleva parlare di Jonathan.
— Di Jonathan?
Jocelyn strinse le labbra. — Voleva dirmi che gli dispiaceva per quello che aveva fatto a Jonathan
prima che nascesse, perché sapeva che questo mi aveva quasi distrutto. Sapeva che, a causa di
Jonathan, avevo rischiato il suicidio. Non sapeva, però, che ero disperata anche per quello che
avevo scoperto su di lui. In qualche modo, si era procurato del sangue d'angelo. È una sostanza
quasi leggendaria, per gli Shadowhunters. Si dice che chi lo beve ne ricavi una forza incredibile.
Valentine l'aveva provato su di sé e aveva scoperto che non solo aumentava la sua forza, ma gli
dava anche un senso di euforia e di gioia ogni volta che se lo iniettava. Così prese del sangue
d'angelo, lo seccò, lo ridusse in polvere e lo mescolò al mio cibo, sperando che mi guarisse dalla
mia disperazione.
Lo so io, dove ha preso il sangue d'angelo, si disse Clary, ripensando a Ithuriel con profonda tristezza.
— E credi che abbia funzionato?
— Mi chiedo se sia per quello che, improvvisamente, trovai la forza e la concentrazione per andare
avanti, per aiutare Luke a mandare a monte la Rivolta. Sarebbe una bella ironia della sorte se fosse
così, pensando al motivo per cui Valentine l'aveva fatto. Ma ciò che Valentine non sapeva era che,
mentre lui faceva questo, io aspettavo già te. Quindi, se su di me può avere avuto un effetto
leggero, su di te il sangue d'angelo ebbe un effetto molto più grande. Credo che sia per questo che
hai il dono di creare nuove rune.
— E forse — disse Clary — questo spiega anche perché tu sei capace, per esempio, di imprigionare
l'immagine della Coppa Mortale nella carta di un mazzo di tarocchi. E perché Valentine ha potuto
togliere la maledizione di Hodge...
— Valentine ha fatto esperimenti su di sé per anni, in mille modi diversi — disse }ocelyn. È quanto
di più vicino a uno stregone possa essere uno Shadowhunter. Ma niente di quello che fa a se stesso
potrà avere gli effetti profondi che ha avuto su di te o su Jonathan, perché voi eravate piccolissimi.
Credo che nessun altro abbia mai fatto ciò che ha fatto lui, non certo a un bambino prima della
nascita.
— Quindi è vero che io e Jace... Jonathan... siamo degli esperimenti.
— Tu in modo non intenzionale. Ma con Jonathan, Valentine aveva voluto creare una specie di
superguerriero, più forte, più veloce, più bravo di tutti gli altri Shadowhunters. A Renwick,
Valentine mi disse che Jonathan era davvero tutto questo, ma era anche crudele, amorale e
stranamente vuoto. Jonathan era abbastanza fedele a Valentine, ma Valentine si era reso conto che,
nel tentativo di creare un bambino superiore agli altri, aveva creato un figlio che non l'avrebbe mai
amato veramente.
Clary ripensò a Jace, a come le era apparso a Renwick, al modo in cui aveva stretto tra le mani quel
frammento del Portale, così forte da sanguinare. — No — protestò. — No e ancora no. Jace non è
così. Lui vuole bene a Valentine. Non dovrebbe, ma è così. E non è vuoto. È tutto il contrario di
quello che mi stai dicendo.
Jocelyn si torceva le mani in grembo. Erano percorse da sottili cicatrici bianche: le stesse che tutti
gli Shadowhunters avevano, la traccia di marchi svaniti. Ma Clary non aveva mai visto veramente
le cicatrici di sua madre: la magia di Magnus gliele aveva fatte sempre dimenticare. Ce n'era una,
all'interno del polso, che aveva la forma di una stella...
Quando sua madre parlò di nuovo, ogni altro pensiero svanì dalla mente di Clary.
— Non è di Jace — disse Jocelyn — che stavo parlando.
— Ma... — Tutto sembrava succedere al rallentatore, come nei sogni. Forse è un sogno, pensò
Clary. Forse mia madre non si è mai svegliata e tutto questo è solo un sogno. — Jace è il figlio di
Valentine. Chi altri potrebbe essere?
Jocelyn guardò sua figlia dritto negli occhi. — Come ti ho detto, la notte in cui Céline Herondale
morì era all'ottavo mese di gravidanza. Valentine le aveva dato polveri e pozioni: stava
sperimentando su di lei ciò che aveva provato su se stesso con il sangue dell'angelo, sperando che
il figlio di Stephen potesse diventare forte e potente come Jonathan, ma senza le qualità peggiori di
Jonathan. Non poteva sopportare l'idea che il suo esperimento andasse in fumo. Per questo, con
l'aiuto di Hodge, fece nascere il bambino di Céline, che era morta da pochissimo tempo...
Clary ebbe un conato di disgusto. — Ma non è possibile.
Jocelyn proseguì, come se Clary non avesse parlato. — Valentine prese il bambino e ordinò a
Hodge di portarlo nella casa della sua infanzia, in una valle non lontana dal lago Lyn. Per questo
quella notte Valentine non rientrò. Hodge si prese cura del bambino fino alla Rivolta. Poi
Valentine, che si fingeva Michael Wayland, lo trasferì alla tenuta dei Wayland e lo allevò come
figlio di Michael Wayland.
— Quindi Jace... — sussurrò Clary. — Jace non è mio fratello?
Sentì sua madre stringerle la mano, una stretta piena di solidarietà. — No, Clary. Non è tuo
fratello.
A Clary si annebbiò la vista. Sentiva il cuore battere in colpi singoli, separati l'uno dall'altro. Mia
madre è dispiaciuta per me, pensò lontanamente. Lei crede che questa sia una brutta notizia. Le
tremavano le mani. — Allora di chi erano le ossa che furono rinvenute sul luogo dell'incendio?
Luke dice che c'erano le ossa di un bambino...
Jocelyn scosse la testa. — Quelle erano le ossa di Michael Wayland e di suo figlio. Valentine li
uccise entrambi e bruciò i loro corpi. Voleva far credere al Conclave di essere morto, insieme a suo
figlio.
— Allora Jonathan...
— È vivo — disse Jocelyn con un dolore improvviso sul volto. — Me lo disse Valentine, a
Renwick. Valentine aveva allevato Jace nella tenuta dei Wayland e Jonathan nella casa vicino al
lago. In qualche modo riuscì a dividere il proprio tempo tra i due, spostandosi da una casa all'altra,
qualche volta lasciandone uno, o entrambi, da soli per molto tempo. Sembra che Jace non abbia
mai saputo dell'esistenza di Jonathan, ma forse Jonathan potrebbe sapere di Jace. Non si sono mai
incontrati, pur vivendo a poche miglia di distanza.
— E quindi Jace non ha sangue di demone dentro di sé? Non è... maledetto?
— Maledetto? — Jocelyn si sorprese. — No, non c'è traccia di sangue di demone in lui. Clary,
Valentine ha fatto esperimenti su Jace bambino con lo stesso sangue che ha usato per me e per te.
Sangue di angelo. Jace non è maledetto. Anzi, al contrario. Tutti gli Shadowhunters hanno un po' di
sangue dell'Angelo in sé. Voi due ne avete un po' di più, tutto qui.
La mente di Clary girava a tutta velocità. Cercava di immaginare Valentine che allevava
contemporaneamente due bambini, uno in parte demone, l'altro in parte angelo. Uno figlio
dell'ombra, l'altro figlio della luce. Amandoli entrambi, forse, ammesso che Valentine fosse capace
di amare. Jace non aveva mai saputo di Jonathan, ma lui che cosa sapeva di Jace, della sua parte
complementare, del suo opposto? Ne aveva detestato anche solo il pensiero? Aveva desiderato
conoscerlo? Era stato indifferente? Entrambi erano stati così soli. E uno dei due era suo fratello, il
suo vero fratello, di sangue. — Credi che sia ancora uguale? Jonathan, voglio dire. Tu credi che
possa essere diventato... migliore?
— Credo di no — disse Jocelyn dolcemente.
— Ma come fai a esserne così sicura? — Clary si girò di scatto verso sua madre con una rabbia
improvvisa. — Voglio dire: forse è cambiato. Sono passati anni. Forse...
— Valentine mi disse di aver passato anni a insegnare a Jonathan a presentarsi bene, persino a
essere affascinante. Voleva farlo diventare una spia. E non puoi essere una spia se spaventi tutti
quelli che incontri. Jonathan aveva imparato anche a creare delle blande illusioni, per convincere
gli altri di essere una persona gradevole e affidabile. — Jocelyn sospirò. — Ti sto dicendo questo
perché sei stata ingannata anche tu, ma non è colpa tua. Clary, tu hai conosciuto Jonathan. Solo che
non ti ha rivelato il suo vero nome, perché stava fingendo di essere qualcun altro. Sebastian Verlac.
Clary fissò sua madre. Ma è il cugino dei Penhallow, insisteva a dire una parte della sua mente. Ma
Sebastian, naturalmente, non era mai stato chi sosteneva di essere: tutto quello che aveva detto era
una bugia. Pensò a come si era sentita la prima volta che l'aveva visto: era come se avesse
riconosciuto qualcuno che conosceva da tutta la vita, qualcuno di intimamente familiare quanto se
stessa. Non si era mai sentita così, con Jace. — Sebastian è mio fratello?
Il bel viso di Jocelyn era teso, la mani intrecciate. Le punte delle dita erano bianche, come per una
pressione eccessiva. — Ho parlato a lungo con Luke oggi, di tutto quello che è successo ad Alicante
da quando sei qui. Mi ha detto delle torri antidemoni, del suo sospetto che fosse stato Sebastian a
distruggere le difese, pur non avendo idea di come avesse fatto. È stato allora che ho capito chi era
veramente Sebastian.
— Cioè hai capito che aveva mentito sulla sua identità. E che era una spia di Valentine. È così?
— L'una e l'altra cosa, sì — disse Jocelyn. — Ma in realtà l'ho capito solo quando Luke mi ha
raccontato che tu gli avevi detto che Sebastian si tingeva i capelli. E potrei sbagliarmi, ma un
ragazzo poco più grande di te, coi capelli chiari e gli occhi scuri, apparentemente senza genitori,
assolutamente fedele a Valentine... Non poteva essere altri che Jonathan. E c'è dell'altro. Valentine
aveva sempre cercato di trovare un modo per abbattere le difese, era sempre stato sicuro che ci
fosse un modo per farlo. Facendo esperimenti su Jonathan con il sangue di un demone, diceva che
lo scopo era renderlo più forte e migliore come guerriero, ma c'era di più...
Clary la fissava. — Cosa intendi?
— Era il suo sistema per abbattere le difese — rivelò Jocelyn. — Non puoi portare un demone ad
Alicante, ma c'è bisogno di sangue di demone per abbattere le difese. E Jonathan ha in sé sangue di
demone: è nelle sue vene. Tuttavia, essendo uno Shadowhunter, ha automaticamente accesso alla
città ogni volta che vuole, per qualsiasi motivo. Jonathan ha usato il suo sangue per abbattere le
difese, ne sono sicura.
Clary ripensò a Sebastian, accanto a lei sull'erba vicino alle rovine della tenuta dei Fairchild, col
vento che gli scompigliava i capelli. Ripensò al modo in cui le aveva stretto il polso, affondandole
le unghie nella pelle. Al modo in cui aveva detto che era impossibile che Valentine volesse bene a
Jace. Clary aveva pensato che lo dicesse perché odiava Valentine. Ma non era così, e lo capiva solo
adesso. Sebastian era... geloso.
Ripensò al tenebroso principe dei suoi disegni, quello che somigliava tanto a Sebastian. Aveva
pensato che fosse pura coincidenza, uno scherzo dell'immaginazione, ma ora si chiedeva se non
fosse il loro legame di sangue che l'aveva spinta a dare il volto di suo fratello all'eroe infelice della
sua storia. Cercò di visualizzare il suo principe, ma l'immagine sembrava sbriciolarsi e dissolversi
davanti ai suoi occhi come cenere portata dal vento. Ora vedeva solo Sebastian, e la luce rossastra,
della città in fiamme riflessa nei suoi occhi.
— Jace! — esclamò. — Qualcuno deve dirglielo. Deve dirgli la verità. — I suoi pensieri rotolavano
gli uni sugli altri alla rinfusa. Se Jace avesse saputo, se avesse saputo di non avere sangue di
demone, forse non sarebbe andato a cercare Valentine. Se avesse saputo di non essere il fratello di
Clary...
— Ma io pensavo — disse Jocelyn con un misto di comprensione e di stupore — che nessuno
sapesse dov'è...
Prima che Clary potesse rispondere, le doppie porte della Sala degli Accordi si spalancarono,
riversando la luce tra le colonne del porticato e sui gradini sottostanti. Il rombo sordo delle voci,
non più attutito, esplose mentre Luke usciva. Era esausto, ma aleggiava una leggerezza intorno a
lui che prima non c'era. Sembrava quasi sollevato.
Jocelyn si alzò in piedi. — Luke. Cosa succede?
Luke fece qualche passo verso di loro, poi si fermò tra le porte e la scalinata. — Jocelyn — disse —
scusate se vi interrompo.
— Non c'è problema, Luke. — Pur nello stordimento, Clary pensò: Ma perché continuano a chiamarsi
per nome in questo modo! C'era una sorta di imbarazzo tra loro, adesso, un imbarazzo che prima non
c'era. — Qualcosa non va?
Luke scosse la testa. — No. Una volta tanto, qualcosa va per il verso giusto. — Sorrise a Clary e
non c'era nessun imbarazzo in quel suo sorriso: si vedeva che era contento di lei, e anche
orgoglioso. — Ce l'hai fatta, Clary! — annunciò. — Il Conclave ha accettato di ricevere il marchio
da te. Non ci sarà nessuna resa.
capitolo 18
AVE ATQUE VALE
La valle era più bella nella realtà che nella visione di Jace. Forse era per la luce della luna che
inargentava il fiume sul fondo della verde insenatura. Betulle bianche e pioppi ne costellavano i lati
e le loro foglie fremevano nell'aria fresca. Faceva piuttosto freddo sull'altura, dove non c'era riparo
dal vento.
Era senza dubbio quella la valle dove Jace aveva visto Sebastian. Finalmente si stava avvicinando.
Dopo aver legato Wayfarer a un albero, Jace prese il filo insanguinato dalla tasca e ripetè il rituale
della localizzazione, per essere più sicuro.
Chiuse gli occhi, aspettandosi di vedere Sebastian, magari molto vicino, magari ancora nella valle...
Ma vide solo il buio.
Il cuore cominciò a battergli forte.
Riprovò, spostando il filo nella mano sinistra e disegnando goffamente la runa con la meno agile
mano destra. Fece un respiro profondo, prima di chiudere gli occhi.
Anche stavolta, niente. Solo un nero tremolante e pieno di ombre. Rimase fermo per un minuto
intero, stringendo i denti, col vento che gli penetrava nella giacca e lo faceva rabbrividire. Alla fine
aprì gli occhi, imprecando, poi, con un moto di rabbia disperata aprì anche il pugno. Il vento
raccolse il filo e lo portò via, così rapidamente che Jace non sarebbe mai riuscito a recuperarlo,
nemmeno se si fosse pentito all'istante del proprio gesto.
La mente galoppava. Era chiaro che la runa di localizzazione non funzionava più. Forse Sebastian si
era accorto di essere seguito e aveva fatto qualcosa per rompere l'incantesimo. Ma cosa si poteva
fare, per bloccare una localizzazione? Forse aveva trovato un grande specchio d'acqua. L'acqua
disturbava la magia.
Non che questo gli fosse di grande aiuto. Non poteva certo fare il giro di tutti i laghi di Idris, per
controllare se tra le onde c'era Sebastian. Eppure, c'era andato così vicino... così vicino. Jace aveva
visto quella valle, e Sebastian in quella valle. E la casa era lì, appena visibile, rannicchiata vicino a
un gruppo di alberi. Valeva comunque la pena scendere a dare un'occhiata, per vedere se c'era
qualcosa che potesse suggerirgli la posizione di Sebastian, o di Valentine.
Con un senso di rassegnazione, Jace usò lo stilo per marchiarsi con un certo numero di rune di
battaglia, ad azione e a scomparsa immediata: una per dargli il silenzio, una per la velocità, una per
camminare con passo sicuro. Poi, sentendo sulla pelle il bruciore familiare, si rimise lo stilo in
tasca, diede a Wayfarer una rapida pacca sul collo e si avviò verso il fondovalle.
I fianchi dell'infossamento erano ingannevolmente ripidi e resi insidiosi da tratti pietrosi. Jace
alternava momenti in cui scendeva cautamente passo dopo passo, ad altri in cui scivolava sul
ghiaione, in modo più rapido ma pericoloso. Quando giunse in fondo, aveva le mani insanguinate
per le numerose cadute sulle pietre. Se le lavò nell'acqua chiara e rapida del torrente, così fredda da
gelargli la pelle.
Quando si raddrizzò e si guardò intorno, si rese conto che stava osservando la valle da
un'angolazione diversa rispetto a quella della visione. Vide il boschetto di alberi contorti dalle
fronde intrecciate, racchiuso tra i due pendii; e vide la casetta. Le finestre erano scure e dal camino
non usciva fumo. Jace sentì al contempo sollievo e delusione. Sarebbe stato più facile perquisire la
casa, se non c'era nessuno.
Avvicinandosi si chiese che cosa gli fosse parso strano e inquietante, di quella casa, nella visione.
Da vicino sembrava una normale casa di campagna di Idris, fatta di pietra bianca e grigia. Gli scuri
erano stati dipinti di un azzurro intenso, ma sembrava che nessuno li ridipingesse più da anni. Erano
sbiaditi e scorticati.
Jace si avvicinò a una finestra, salì sul davanzale e sbirciò all'interno dai vetri appannati. Vide una
stanza grande e un po' polverosa, con uno strano tavolo da lavoro addossato a una parete. Gli
strumenti sul tavolo non sembravano affatto quelli che potrebbero servire a un artigiano. Erano
piuttosto quelli di uno stregone: fasci di pergamene macchiate; candele nere; recipienti di rame con
tracce di liquido scuro essiccato lungo i bordi; un ricco assortimento di coltelli, alcuni sottili come
punteruoli, altri con grandi lame squadrate. C'era un pentacolo, disegnato per terra con il gesso.
Aveva profili incerti e ciascuna punta era decorata da una runa diversa. A Jace si strinse lo stomaco:
le rune erano simili a quelle incise ai piedi di Ithuriel. Era stato Valentine? Erano quelle le sue
cose? Quello era il suo nascondiglio, rimasto sempre sconosciuto a Jace?
Scivolò giù dal davanzale, atterrando su una macchia d'erba secca. In quel momento, un'ombra
passò sulla faccia della luna. Non c'erano uccelli in quella valle, pensò Jace. Alzò gli occhi appena
in tempo per vedere un corvo volare in cerchio nel cielo notturno. S'immobilizzò, poi si nascose
rapidamente nell'ombra di un albero e lo spiò tra i rami. Quando il corvo si abbassò, Jace seppe che
il suo primo istinto era stato giusto. Non era un corvo qualsiasi: era Hugo, il corvo che un tempo era
appartenuto a Hodge. A volte Hodge lo usava per portare messaggi fuori dall'Istituto. Da allora, Jace
aveva scoperto che in origine Hugo era appartenuto a suo padre.
Il ragazzo si appiattì contro il tronco dell'albero. Il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. Se Hugo
era lì, poteva solo significare che aveva un messaggio, e questa volta il messaggio non poteva essere
per Hodge. Era per Valenti-ne. Doveva essere per Valentine. Se solo Jace fosse riuscito a seguirlo...
Appollaiatosi su un davanzale, Hugo sbirciò dentro la finestra. Quando capì che la casa era vuota, si
levò in volo con un gracchio irritato e svolazzò verso il torrente.
Jace uscì dall'ombra e si lanciò all'inseguimento.
— Quindi, tecnicamente — ragionò Simon — Jace non è tuo parente, ma tu hai comunque
baciato tuo fratello.
— Simon! — Clary inorridì. — SMETTILA! — Si girò per vedere se qualcuno li stesse ascoltando,
ma fortunatamente nessuno prestava loro attenzione. Era seduta su un'alta seggiola, sul podio nella
Sala degli Accordi, e Simon era al suo fianco. Sua madre era vicina al podio e parlava con Amatis.
Intorno a loro, la Sala era immersa nel caos, mentre i
Nascosti che arrivavano dalla Porta Settentrionale vi si riversavano e si assiepavano lungo le pareti.
Clary riconobbe vari elementi del branco di Luke, tra cui Maia, che le fece un gran sorriso. C'erano
esseri fatati, pallidi e freddi e belli come ghiaccioli; c'erano stregoni con ali di pipistrello e piedi
caprini, persino uno con un palco di corna da cervo, e dalle loro dita sfuggivano scintille azzurre. I
Cacciatori si aggiravano nervosamente in mezzo a loro.
Stringendo lo stilo con entrambe le mani, Clary si guardò intorno con aria ansiosa. Dov'era Luke?
Sembrava svanito nella folla. Lo individuò dopo un momento, intento a parlare con Malachi che
scuoteva vigorosamente il capo. C'era anche Amatis con loro, che lanciava a Malachi occhiate di
fuoco.
— Non farmi pentire di averti raccontato queste cose, Simon — disse Clary guardandolo torvo.
Aveva fatto del suo meglio per dargli una versione ridotta della storia di Jo-celyn, per lo più
sussurrando sottovoce, mentre lui la aiutava a farsi largo tra la folla fino al podio. Era strano, per
Clary, essere lassù e guardare la sala come se fosse la regina di tutto ciò che i suoi occhi vedevano.
Ma una regina non sarebbe mai stata così in preda al panico. — E poi, non baciava per niente bene.
— O forse ti faceva schifo, perché era... come dire... tuo fratello! — Simon sembrava più divertito
del dovuto.
— E non dirlo dove mia madre può sentirti o ti ammazzo — gli intimò Clary con un'altra
occhiataccia. — Già mi sento che sto per svenire o per vomitare. Non peggiorare le cose!
Jocelyn, avvicinandosi a loro giusto in tempo per sentire le ultime parole di Clary (ma,
fortunatamente, non l'argomento di discussione tra lei e Simon), le posò una mano rassicurante sulla
spalla. — Non essere nervosa, bimba. Prima sei stata fantastica. Hai bisogno di qualcosa? Una
coperta, dell'acqua calda...
— Non ho freddo — rispose Clary paziente. — E non devo fare il bagno. Sto bene. Voglio solo che
Luke venga qui e mi spieghi che cosa sta succedendo.
Jocelyn agitò una mano per richiamare l'attenzione di Luke, formulando con le labbra delle parole
che Clary non riuscì a decifrare. — Mamma — sibilò. — Lascia stare. — Troppo tardi. Luke alzò
gli occhi, e con lui diversi altri Cacciatori. Gran parte di loro distolsero lo sguardo con altrettanta
rapidità, ma Clary colse l'ammirazione nei loro occhi. Era strano pensare che sua madre fosse una
specie di donna leggendaria, lì. Praticamente tutti nella Sala conoscevano il suo nome e avevano
una propria opinione su di lei, buona o cattiva che fosse. Chissà come faceva sua madre a non farsi
condizionare, si chiese Clary. Non sembrava affatto turbata: anzi, semmai perfettamente padrona di
sé. Sicura e pericolosa.
Un attimo dopo Luke li raggiunse sul podio, con Amatis al suo fianco. Era ancora visibilmente
stanco, ma era vigile e persino un po' emozionato. — Aspettate ancora un secondo — disse. —
Stanno arrivando tutti.
— Malachi — intervenne Jocelyn, senza guardarlo direttamente negli occhi — ti stava dando dei
problemi?
Luke fece un gesto come per allontanare il pensiero. — Lui ritiene che dovremmo mandare un
messaggio a Valenti-ne per rifiutare le sue condizioni. Io dico che non dovremmo scoprire le nostre
carte e lasciare che Valentine si presenti con il suo esercito nella pianura di Brocelind aspettandosi
una resa. Malachi, invece, ritiene che sia poco sportivo. Quando gli ho detto che la guerra non è una
partita di cricket, mi ha risposto che se uno solo dei Nascosti sfuggirà al nostro controllo, lui entrerà
in azione e porrà fine a tutta questa storia. Non so esattamente cosa pensa che possa succedere...
forse ha paura che i Nascosti non riescano a restare senza combattere nemmeno per cinque minuti.
— E esattamente quello che pensa — commentò Amatis. — Malachi è così. Probabilmente, teme
che comincerete a mangiarvi tra di voi.
— Amatis! — la rimproverò Luke. — Qualcuno potrebbe sentirti! — Si girò, e in quel momento
due persone salirono i gradini del podio alle sue spalle. Uno era un cavaliere del Popolo Fatato: era
alto e snello e aveva i capelli lunghi e scuri che gli ricadevano fitti su entrambi i lati del viso
allungato. Indossava un'armatura bianca, a tunica, fatta di minuscoli dischi di solido metallo
sovrapposti come le squame di un pesce. Gli occhi erano verdi come le foglie.
L'altra persona era Magnus Bane. Non sorrise a Clary, quando si fermò vicino a Luke. Indossava un
lungo cappotto scuro, abbottonato fino alla gola, e i capelli neri erano lisciati all'indietro.
— Sembri così normale! — esclamò Clary fissandolo.
Magnus sorrise debolmente. — Ho sentito che avevi una
runa da mostrarci — fu tutto quello che disse.
Clary guardò Luke, che annuì. — Oh, certo — rispose. — Mi serve solo qualcosa su cui scrivere,
un pezzo di carta.
— Te l'avevo chiesto, se ti serviva qualcosa! — protestò Jocelyn sottovoce, com'era tipico della
mamma che Clary ricordava.
— Ho io della carta — intervenne Simon. Pescò un foglio dalla tasca dei jeans e lo passò a Clary.
Era il volantino spiegazzato di un concerto della sua band, alla Knitting Factory, in luglio. Clary
scosse la testa e lo girò sul retro. Quando la punta dello stilo avuto in prestito toccò la carta, si
produssero piccole scintille e Clary temette per un momento che il volantino potesse bruciare. Ma le
scintille si spensero. Clary si mise a disegnare, facendo del suo meglio per escludere tutto il resto: il
rumoreggiare della gente e la sensazione di tutti gli sguardi fissi su di lei.
La runa era uguale a quella che aveva già disegnato: un motivo di linee ricurve che s'intrecciavano
tra loro, protese sulla pagina come in attesa di un completamento che non c'era. Tolse la polvere dal
goglio e la mostrò, sentendosi assurdamente come a scuola, quando doveva esporre una ricerca alla
classe. — Questa è la runa — disse. — Richiede una seconda runa che la completi, per avere
effetto. Una... compagna.
— Un Nascosto e un Cacciatore. Le due metà che formano l'alleanza devono essere marchiate —
spiegò Luke. Riprodusse la runa sul fondo del foglietto, lo strappò a metà e lo passò ad Amatis. —
Comincia a far circolare la runa — le disse. — Spiega ai Nephilim come funziona.
Con un cenno del capo, Amatis scese i gradini e svanì nella folla. Il cavaliere del Popolo Fatato la
seguì con lo sguardo, scuotendo la testa. — Ho sempre saputo che solo i Nephilim possono
sopportare i marchi dell'Angelo — disse, con una certa diffidenza. — E che noialtri, se dovessimo
riceverne uno, potremmo impazzire, o persino morire.
— Questo non è uno dei marchi dell'Angelo — gli spiegò Clary. — Non proviene dal Libro Grigio.
È sicuro, te lo garantisco.
Il cavaliere non sembrava molto convinto.
Con un sospiro, Magnus tirò su la manica e allungò il braccio a Clary. — Dai, forza!
— Non posso — disse Clary. — Il Cacciatore che ti farà il marchio sarà il tuo compagno in
battaglia. E io non posso combattere.
— Lo spero! — esclamò Magnus. Poi guardò Luke e Jocelyn, che erano vicini, e disse: — Voi due.
Forza, mostrate al cavaliere come funziona.
Jocelyn batté le palpebre, sorpresa. — Come?
— Presumo — replicò Magnus — che voi due sarete compagni in battaglia, dato che praticamente è
come se foste sposati.
Un acceso rossore salì al volto di Jocelyn, che evitò accuratamente di guardare Luke. — Non ho
uno stilo...
— Prendi il mio — si offrè Clary, porgendoglielo. — Forza, fagli vedere.
Jocelyn si girò verso Luke, che sembrava preso completamente alla sprovvista. Luke allungò la
mano prima che lei gliela potesse chiedere e Jocelyn gli marchiò il palmo con rapida precisione. Ma
dovette tenergli fermo il polso, perché gli tremava la mano. Gli occhi di Luke erano posati su
Jocelyn che tracciava la runa. Clary ripensò alla loro conversazione, a quando Luke le aveva parlato
dei suoi sentimenti per Jocelyn, e sentì una fitta di tristezza. Chissà se sua madre si rendeva conto
che Luke l'amava e chissà che cosa avrebbe detto, se l'avesse saputo.
— Ecco fatto. — Jocelyn allontanò lo stilo. — Finito.
Luke alzò la mano a palmo in su e mostrò al principe del
Popolo Fatato il vorticoso marchio nero al centro. — Soddisfatto, Meliorn?
— Meliorn! — esclamò Clary. — Io ti conosco, vero? Uscivi con Isabelle Lightwood.
Meliorn era quasi privo di espressione, ma Clary avrebbe giurato che fosse un tantino a disagio.
Luke scosse la testa. — Clary, Meliorn è un principe della Corte Seelie. È molto improbabile che...
— Certo che usciva con Isabelle! — intervenne Simon. — E lei l'ha pure piantato. O almeno così
diceva che avrebbe fatto. Una bella botta, amico.
Meliorn lo guardò battendo le palpebre. — Tu... — disse con disgusto — tu sei stato scelto a
rappresentare i Figli della Notte?
Simon scosse la testa. — No, io sono qui per lei — rispose, indicandogli Clary.
— I Figli della Notte — spiegò Luke, dopo una breve esitazione — non partecipano, Meliorn. Ho
comunicato questa informazione alla tua Sovrana. Hanno scelto di... andare per la loro strada.
I tratti delicati del viso di Meliorn si contrassero. — Se l'avessi saputo prima! — esclamò,
accigliato. — I Figli della Notte sono un popolo saggio e accorto, e qualsiasi piano provochi la loro
ira, suscita anche il mio sospetto.
— Non ho parlato di ira — iniziò Luke, con un misto di calma deliberata e lieve esasperazione.
Solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto capire che era irritato, pensò Clary, che notò anche uno
spostamento dell'attenzione di Luke: ora stava guardando verso la folla. Seguendo il suo sguardo,
Clary vide una figura familiare farsi strada tra la gente: era Isabelle, coi suoi neri capelli
ondeggianti, la frusta avvolta intorno al polso come una serie di braccialetti dorati.
Clary prese Simon per il polso. — I Lightwood. Ho appena visto Isabelle.
Lui scrutò nella folla, aggrottando la fronte. — Non avevo capito che li stessi cercando.
— Ti prego, vai tu a parlarle — gli sussurrò Clary. Si guardava intorno con circospezione, ma
nessuno li stava osservando. Luke stava facendo cenni a qualcuno nella folla; nel frattempo, Jocelyn
disse qualcosa a Meliorn, che la guardava piuttosto allarmato. — Io devo restare qui, ma, per
favore, devi dire a Isabelle e ad Alec quello che mia madre mi ha rivelato. Su Jace e su chi è
veramente. E su Sebastian. Devono sapere. Digli di venire a parlare con me non appena possono. Ti
prego, Simon.
— Va bene. — Simon liberò il polso dalla stretta di Clary e le sfiorò la guancia con fare
rassicurante. — Torno presto.
Scese i gradini e svanì tra la gente. Quando Clary si voltò, vide che Magnus la stava guardando, con
la bocca piegata in un sorriso storto. — Non c'è problema — stava dicendo in risposta a una
domanda di Luke. — Conosco bene la pianura di Brocelind. Aprirò il Portale nella piazza. Ma un
Portale così grande non durerà a lungo, quindi bisognerà attraversarlo in fretta.
Luke annuì e si girò a dire qualcosa a Jocelyn. Clary si piegò verso Magnus e a bassa voce gli disse:
— Comunque, grazie. Per tutto quello che hai fatto per mia madre.
Il sorriso storto di Magnus si allargò. — Credevi che non l'avrei fatto, vero?
— Ho dubitato — ammise Clary. — Soprattutto perché, quando ci siamo incontrati a casa di Ragnor
Fell, non mi hai nemmeno detto che Jace aveva portato Simon ad Alicante attraverso il Portale.
Pensavi, che non fosse una notizia abbastanza interessante per me?
— Che fosse troppo interessante per te — rispose Magnus. — Che avresti mollato tutto per correre
alla Guardia. E io invece volevo che tu cercassi il Libro Bianco.
— Sei senza cuore — disse Clary con rabbia. — Comunque ti sbagli, io non avrei...
— Non avresti fatto ciò che chiunque avrebbe fatto? Ciò che io stesso avrei fatto, per una persona a
cui tenevo? Non ti sto criticando, Clary. E se non te l'ho detto, non è stato perché pensavo che fossi
troppo debole. Non te l'ho detto perché sei umana, e io conosco i modi d'agire degli uomini. Sono
vivo da tanto tempo.
— Come se tu non facessi mai niente di stupido perché provi dei sentimenti — commentò Clary. —
A proposito, dov'è Alec? Perché non sei ancora andato a sceglierlo come compagno?
Magnus sembrò ritrarsi. — Non mi permetterei mai di avvicinarlo, davanti ai suoi genitori, lo sai.
Clary appoggiò il mento sulla mano. — Fare la cosa giusta perché si vuol bene a qualcuno a volte è
una bella grana.
— Hai proprio ragione — disse Magnus.
Il corvo volava in cerchi lenti e pigri, sopra le cime degli alberi, puntando verso la parete
occidentale della valle. La luna era alta e Jace riusciva a seguirlo senza bisogno della stregaluce,
mantenendosi al riparo degli alberi.
La valle saliva a picco, a formare una parete di roccia grigia. Il corvo sembrava seguire la curva del
torrente, che piegava verso ovest e scompariva in una stretta fenditura nella roccia. Jace rischiò più
volte di storcersi una caviglia sulla roccia umida. Avrebbe tanto voluto imprecare ad alta voce, ma
Hugo l'avrebbe sicuramente sentito. Continuò a camminare scomodamente piegato in due, cercando
piuttosto di non rompersi una gamba.
Aveva la camicia zuppa di sudore, quando raggiunse il margine della valle. Per un momento pensò
di aver perso di vista Hugo, ed ebbe un tuffo al cuore. Poi, invece, vide la sagoma nera del corvo
scendere di quota e sparire nella buia fenditura che si apriva nella roccia. Jace si mise a correre. Fu
un sollievo poter correre invece di camminare tutto ingobbito. Quando fu più vicino, vide che
all'interno della fenditura si apriva una cavità più grande e più buia: una grotta. Tirò fuori in fretta la
pietra di stregaluce e s'infilò nella fenditura seguendo il corvo.
Solo un lieve chiarore filtrava dalla bocca della grotta e, dopo pochi passi, anche quel lieve chiarore
venne inghiottito da un'opprimente oscurità. Jace sollevò la stregaluce e fece filtrare il chiarore tra
le dita.
In un primo momento credette di essere di nuovo all'aperto e di vedere le stelle sopra di sé, in tutta
la loro gloria sfavillante. Da nessun'altra parte al mondo le stelle brillavano come a Idris. Ma quelle
non erano stelle: la stregaluce aveva illuminato decine di luccicanti depositi di mica nella roccia
intorno a lui e le pareti si erano ravvivate di brillanti punti di luce.
Jace capì di trovarsi in uno spazio scavato nella parete di roccia: l'imbocco della grotta era alle sue
spalle e davanti a sé aveva due tunnel bui. Ripensò alle storie che gli raccontava suo padre, di eroi
che si smarrivano nei labirinti e che usavano una fune o un filo per ritrovare la strada. Lui, però, non
aveva né fune né filo. Si avvicinò ai tunnel e rimase in silenzio per un lungo momento, in ascolto.
Sentì un gocciolio d'acqua, lieve e molto lontano: l'acqua del torrente, un fruscio come di ali e...
delle voci.
Fece un balzo indietro. Le voci venivano dal tunnel di sinistra, ne era sicuro. Passò il pollice sulla
stregaluce per attenuarne l'intensità fino a ottenere un lieve bagliore, appena sufficiente per
illuminare i suoi passi. Poi, si tuffò nel buio.
— Dici sul serio, Simon? È proprio vero? È fantastico! È meraviglioso! — Isabelle prese la mano di
suo fratello. —
Alec, hai sentito che cosa ha detto Simon? Jace non è figlio di Valentine. Non lo è mai stato!
— E allora di chi è figlio? — chiese Alec. Ma Simon aveva l'impressione che stesse ascoltando solo
in parte. Sembrava cercare qualcuno con lo sguardo.
I suoi genitori erano poco distanti e li guardavano con aria accigliata.
Simon aveva temuto di dover spiegare tutta la storia anche a loro, invece gli avevano gentilmente
concesso qualche minuto da solo con Isabelle e Alec.
— Chi se ne importa! — Isabelle gettò le braccia in alto, tutta contenta. Poi si rannuvolò. — In
realtà, è una bella domanda. Chi era suo padre? Che fosse davvero Michael Wayland?
Simon scosse la testa. — Stephen Herondale.
— Quindi Jace è il nipote dell'Inquisitrice — osservò Alec. — Ecco perché l'ha... — Ma
s'interruppe, fissando in lontananza.
— Ecco perché cosai — lo spronò Isabelle. — Alec, non ti distrarre. O almeno dicci cosa stai
cercando.
— Non cosa — precisò Alec. — Chi. Magnus. Volevo chiedergli di essere mio compagno in
battaglia. Ma non ho idea di dove sia. Tu l'hai visto? — chiese a Simon.
Simon scosse la testa. — Era sul podio con Clary, ma...
— storse il collo per vedere meglio — ora non c'è più. Probabilmente è in giro tra la folla.
— Davvero? Davvero vuoi chiedergli di essere tuo compagno in battaglia? — chiese Isabelle
allibita. — È come un ballo delle debuttanti, questa storia, solo che qui ci si ammazza.
— Appunto, proprio come in un ballo delle debuttanti — scherzò Simon.
— Forse chiederò a te di essere mio compagno in battaglia, Simon — annunciò Isabelle, inarcando
delicatamente un sopracciglio.
Alec aggrottò la fronte. Come tutti gli Shadowhunters presenti nella stanza, era bardato di tutto
punto, con la sua tenuta nera e una quantità di armi appese alla cintura. Aveva anche un arco sulla
schiena, e Simon fu contento di vedere che aveva trovato un ricambio per quello spezzato da
Sebastian. — Isabelle, tu non hai bisogno di nessun compagno, perché non combatti. Sei troppo
giovane. E se solo ti frullasse l'idea, ti ammazzo io personalmente. — La testa di Alec scattò. — Un
momento... quello è Magnus?
Isabelle, seguendo il suo sguardo, ridacchiò. — Alec, quello è un lupo mannaro. Una femmina, per
di più. Anzi, è... come si chiama, May?
— Maia — la corresse Simon.
Maia era a poca distanza da loro: indossava un paio di pantaloni di pelle marrone e una maglietta
nera aderente-che diceva "Quello che non mi ammazza... farà meglio a mettersi a correre." Aveva i
capelli a treccine, trattenuti indietro da una cordicella. Si girò, come percependo il loro sguardo su
di lei, e sorrise.
Simon ricambiò il sorriso. Isabelle la guardò in cagnesco. Simon smise subito di sorridere. Quando,
esattamente, la sua vita si era fatta così complicata?
Alec si illuminò. — Ecco Magnus! — esclamò. E si allontanò senza nemmeno voltarsi indietro,
aprendosi un varco tra la folla verso l'alto stregone. La sorpresa di Magnus, quando Alec si
avvicinò, era visibile anche a distanza.
— In un certo senso è dolce — commentò Isabelle guardandoli. — Più o meno...
— Perché più o meno?
— Perché — spiegò Isabelle — Alec sta cercando di farsi prendere sul serio da Magnus, ma non ha
mai detto ai nostri genitori di lui, e nemmeno del fatto che gli piacciono... voglio dire...
— Gli stregoni? — concluse Simon.
— Molto divertente. — Isabelle gli lanciò un'occhiataccia. — Sai perfettamente cosa intendo.
Quello che sta succedendo è...
— Che cosa sta succedendo, esattamente? — chiese Maia, avvicinandosi. — Questa cosa dei
compagni non l'ho capita bene. Come dovrebbe funzionare?
— Così. — Simon le indicò Alec e Magnus, che si erano messi un po' in disparte, in un angolo.
Alec stava disegnando una runa sulla mano di Magnus, il viso concentrato, i capelli scuri davanti
agli occhi.
— Quindi, tutti dobbiamo fare quella roba? — chiese Maia. — Farci disegnare la mano, voglio dire.
— Solo se hai intenzione di combattere — precisò Isabelle, guardando gelida la ragazza. — Ma non
mi sembri maggiorenne.
Maia le fece un sorriso tirato. — Io non sono una Cacciatrice. I licantropi sono considerati adulti a
sedici anni.
— Be', in questo caso dovrai farti disegnare la mano — concluse Isabelle. — Da un Cacciatore.
Quindi, sarà meglio che te ne cerchi uno.
— Ma... — Maia, che ancora osservava Alec e Magnus, s'interruppe e inarcò le sopracciglia. Simon
si girò per vedere cosa stesse guardando e... rimase a bocca aperta.
Alec aveva abbracciato Magnus e lo stava baciando. Magnus sembrava in stato di shock ed era
impietrito. Diversi gruppi di persone, Cacciatori e Nascosti, li fissavano mormorando. Simon lanciò
un'occhiata di lato e vide i Lightwo od che osservavano la scena con gli occhi sgranati. Maryse si
copriva la bocca con la mano.
Maia era perplessa. — Aspetta un secondo — esclamò. — Anche quello fa parte del rituale?
Per la sesta volta Clary scrutò la folla in cerca di Simon. Ma non riuscì a trovarlo. La stanza era una
massa in movimento di Shadowhunters e Nascosti, che dalle porte spalancate fluivano verso i
gradini esterni. Ovunque si vedevano bagliori di stilo, dove Shadowhunters e Nascosti si
incontravano e si marchiavano a vicenda. Clary vide Maryse Lightwood tendere la mano a una fata
alta, dalla pelle verde, pallida e regale come lei. Patrick Penhallow stava solennemente
scambiandosi i marchi con uno stregone i cui capelli lucci cavano di scintille azzurre. Dalle porte
della Sala degli Accordi, Clary vedeva il bagliore luminoso del Portale nella piazza. La stellata che
si intravedeva attraverso il soffitto di vetro dava un'aria surreale a tutta la scena.
— Stupefacente, vero? — commentò Luke. Era sul bordo del podio e guardava la Sala. —
Cacciatori e Nascosti che stanno insieme nella stessa stanza. Che lavorano insieme. — Sembrava
profondamente impressionato. Clary riusciva a pensare soltanto a Jace, perché avrebbe voluto che
fosse lì anche lui, a vedere che cosa stava succedendo. Per quanto ci provasse, non riusciva ad
accantonare la paura che provava per lui. L'idea che potesse affrontare Valentine, che potesse
rischiare la vita perché pensava di essere maledetto, che potesse addirittura morire senza mai sapere
che non era vero...
— Clary — la chiamò Jocelyn, con un filo di divertimento nella voce. — Hai sentito che cosa ti ho
detto?
— Sì — disse Clary. — È sbalorditivo, lo so.
Jocelyn le posò una mano sulla sua. — Non è questo che stavo dicendo. Io e Luke saremo sul
campo di battaglia. Tu invece resterai qui con Isabelle e gli altri bambini.
— Io non sono una bambina.
— Lo so, ma sei comunque troppo giovane per combattere. E anche se non fossi così giovane, non
sei mai stata addestrata.
— Non voglio restarmene qui seduta senza fare niente.
— Niente? — esclamò Jocelyn. — Clary, nulla di tutto questo starebbe succedendo, se non fosse
stato per te. Non avremmo nemmeno avuto la possibilità di combattere, se non fosse stato per te.
Sono così fiera di te! Volevo solo dirti che io e Luke andiamo via, ma torneremo. Andrà tutto bene.
Clary guardò in faccia sua madre, negli occhi verdi così simili ai suoi. — Mamma — disse —
smettila di raccontarmi storie.
Jocelyn trasalì e si alzò, ritirando la mano. Ma non potè aggiungere altro, perché Clary venne
distratta da un viso familiare nella folla. Una figura snella e scura si stava muovendo con
determinazione verso di loro, passando nella sala affollata con tranquillità e sorprendente facilità,
quasi passando attraverso la gente, come fumo tra i paletti di uno steccato.
Ed era proprio così. Clary lo capì quando la figura si avvicinò al podio. Era Raphael, in camicia
bianca e pantaloni neri, gli stessi che portava la prima volta che l'aveva visto. Aveva dimenticato
quanto fosse esile. Sembrava avere a malapena quattordici anni, mentre saliva i gradini con quel suo
viso sottile e l'espressione calma, angelica. Faceva pensare a una voce bianca che andava verso il
coro di una chiesa.
— Raphael. — La voce di Luke esprimeva sorpresa e sollievo allo stesso tempo. — Non credevo
che saresti venuto. I Figli della Notte hanno riconsiderato l'idea di unirsi a noi nella battaglia contro
Valentine? C'è ancora un seggio nel Consiglio per voi, se vorrete accettarlo. — Gli tese la mano.
I begli occhi limpidi di Raphael lo osservarono senza espressione. — Non posso stringerti la mano,
licantropo.
— All'espressione risentita di Luke, Raphael sorrise quel tanto che bastava per scoprire le punte dei
bianchi canini.
— Sono una proiezione — rivelò, sollevando una mano in modo che tutti potessero vedere che vi
filtrava la luce. — Non posso toccare niente.
— Ma... — Luke lanciò uno sguardo verso la luce della luna che entrava dal tetto. — Perché...? —
Abbassò la mano. — Be', sono contento che tu sia qui. Sotto qualunque forma.
Raphael scosse la testa. Per un momento i suoi occhi si posarono su Clary - uno sguardo che non le
piacque per niente - e poi si spostarono su Jocelyn e il suo sorriso si aprì. — Tu — disse. — Sei la
moglie di Valentine. Altri della mia specie, che combatterono con voi all'epoca della Rivolta, mi
hanno parlato di te. Devo ammettere che non avrei mai pensato di incontrarti di persona.
Jocelyn chinò la testa. — Molti dei Figli della Notte combatterono coraggiosamente, quella volta.
La tua presenza qui sta a indicare che potremo di nuovo combattere fianco a fianco?
Era strano, pensò Clary, sentire sua madre parlare con quel tono controllato e formale, che tuttavia
sembrava venirle molto naturale. Almeno quanto lo era per lei sedersi per terra con una vecchia tuta
e un pennello tra le dita imbrattate di colore.
— Spero di sì — disse Raphael, e il suo sguardo sfiorò di nuovo Clary come la carezza di una mano
gelida. — Abbiamo un'unica richiesta, una semplice, piccola, richiesta. Se ci verrà accordata, i Figli
della Notte di molti paesi saranno lieti di entrare in battaglia al vostro fianco.
— Il seggio del Consiglio — disse Luke. — Ma certo. Può essere formalizzato: i documenti
possono essere redatti nel giro di un'ora.
— Non il seggio del Consiglio — replicò Raphael. — Un'altra cosa.
— Un'altra cosa? — ripetè Luke senza capire. — E che cosa? Ti assicuro che se è in nostro potere...
— Oh, certo che lo è. — Il sorriso di Raphael era smagliante. — Anzi, si trova qui in questo preciso
momento, mentre parliamo. — Si girò e indicò con grazia la folla. — È il ragazzo Simon che
vogliamo — rivelò. — Il Diurno.
Il tunnel era lungo e tortuoso e si riavvolgeva continuamente su se stesso. Era come strisciare nelle
viscere di un mostro enorme. C'era odore di roccia umida e cenere, più qualcos'altro, qualcosa di
umido e strano che ricordava vagamente l'odore della Città di Ossa.
Finalmente la galleria si aprì in una grande grotta circolare. Dall'alta volta di pietra scabra si
protendevano verso il basso enormi stalattiti splendenti come gemme. Il fondo era liscio, come se
fosse stato lucidato, e qua e là si alternavano intarsi di simboli arcani. Una serie di grezze stalagmiti
circondavano la grotta. Proprio al centro, una massiccia stalagmite di quarzo svettava come
un'enorme zanna, ornata qua e là da un motivo rossastro. Guardando meglio, Jace vide che le pareti
della stalagmite erano trasparenti e che il motivo rossastro era l'effetto di qualcosa che si muoveva
vorticando al suo interno, come fumo colorato in una provetta.
In alto, filtrava luce da un foro circolare nella volta di pietra, una sorta di lucernario naturale. La
grotta era sicuramente frutto di un progetto, non del caso: era evidente dagli intricati motivi che ne
decoravano il pavimento. Ma chi aveva voluto scavare una grotta del genere? E perché?
Un gracchiare acuto echeggiò nello spazio sotterraneo, facendo vibrare i nervi di Jace, che si
nascose dietro una voluminosa stalagmite, spegnendo la stregaluce proprio mentre due figure
emergevano dalle ombre in fondo alla grotta e si avvicinavano, conversando. Fu solo quando
raggiunsero il centro della grotta e la luce lì investì che Jace li riconobbe.
Sebastian.
E Valentine.
Sperando di evitare la folla, Simon fece il giro lungo per tornare al podio, passando dietro le file di
colonne che costeggiavano i lati della Sala. Teneva la testa bassa, perso nei suoi pensieri. Sembrava
strano che Alee, solo di un paio di anni maggiore di Isabelle, stesse per partire per la guerra, mentre
tutti gli altri dovevano restare lì. E Isabelle sembrava accettare la cosa con calma. Niente pianti,
niente isterismi. Era come se se lo fosse aspettata. E forse era proprio così. Forse tutti se
l'aspettavano.
Era ormai vicino ai gradini della pedana del podio. Alzò gli occhi e vide Raphael, con la solita
espressione imperturbabile, di fronte a Luke che, al contrario, sembrava agitato, scuoteva la testa
con le mani alzate come per protesta; Jocelyn, accanto a lui, sembrava indignata. Simon non vedeva
la faccia di Clary, perché gli dava le spalle, ma la conosceva abbastanza bene da percepirne la
tensione dalla semplice postura del busto.
Non volendo farsi vedere da Raphael, Simon si nascose dietro una colonna e origliò. Nonostante il
chiacchiericcio della folla, riuscì a distinguere la voce alterata di Luke.
— È fuori discussione — stava dicendo. — Mi sembra impossibile che tu osi chiedere una cosa
simile.
— E a me sembra impossibile che tu possa rifiutare. — La voce di Raphael era fredda e limpida, la
voce ancora acuta di un ragazzino. — È una cosa così piccola!
— Non è una cosa — intervenne Clary, arrabbiata. — E Simon. È una persona.
— È un vampiro — precisò Raphael. — Cosa che sembri continuamente dimenticare.
— E tu, non sei forse un vampiro anche tu? — chiese Jocelyn, con il tono gelido che usava tutte le
volte che Clary e Simon si erano cacciati nei guai. — Stai forse dicendo che la tua vita non ha
valore?
Simon si appiattì contro la colonna. Che stava succedendo?
— La mia vita ha un grande valore — rispose Raphael, — essendo, a differenza della vostra, eterna.
Non c'è fine a ciò che potrei realizzare, mentre c'è una fine molto netta per voi. Ma non è questo il
punto. Lui è un vampiro, è uno dei miei, e io vi sto chiedendo di riaverlo.
— Tu non lo puoi riavere — ribatté Clary. — Non è mai stato tuo, tanto per cominciare. Non avevi
il minimo interesse per lui, finché non hai scoperto che può stare alla luce del sole.
— Forse — ribatté Raphael. — Ma non per la ragione che pensi tu. — Inclinò la testa. Gli occhi
scuri, luminosi e morbidi, guizzavano come quelli di un passero. — Nessun vampiro dovrebbe
avere il potere che ha lui — disse.
— Così come nessun Cacciatore dovrebbe avere i poteri che avete tu e tuo fratello. Per anni ci è
stato detto che noi siamo sbagliati e innaturali. Maquesto... questo è davvero innaturale.
— Raphael. — Il tono di Luke era minaccioso. — Non so che cosa speravi di ottenere. Ma non c'è
nessuna possibilità: noi non ti permetteremo mai di far del male a Simon.
— Invece permetterete a Valentine e al suo esercito di demoni di far del male a tutta questa gente, i
vostri alleati.
— Raphael abbracciò tutta la Sala con un ampio gesto della mano. — Lascerete che rischino la vita
a loro discrezione, ma non darete a Simon la possibilità di fare la stessa scelta. Perché forse la sua
scelta sarebbe diversa dalla vostra.
— Abbassò il braccio. — In caso di rifiuto, noi non combatteremo con voi, lo sapete. I Figli della
Notte non prenderanno parte a questa giornata.
— E allora non fatelo — sbottò Luke. — Non comprerò la vostra collaborazione con una vita
innocente. Io non sono Valentine.
Raphael si girò verso Jocelyn. — E tu, Cacciatrice? Lascerai decidere a un lupo mannaro ciò che è
meglio per la tua gente?
Jocelyn guardava Raphael come se fosse uno scarafaggio scoperto a zampettare sul pavimento
pulito della cucina. Scandendo bene le parole disse: — Se solo tocchi Simon con un dito, vampiro,
io ti farò a pezzetti piccolissimi e ti darò in pasto al mio gatto. Hai capito?
Raphael strinse le labbra. — Molto bene — concluse. — Quando starai morendo nella pianura di
Brocelind, forse ti chiederai se una vita ne valeva davvero così tante.
Svanì. Luke si girò verso Clary, ma Simon non li stava più guardando: stava fissando le proprie
mani. Pensava che avrebbero tremato, ma erano immobili come quelle di un cadavere. Molto
lentamente, le chiuse a pugno.
Valentine aveva l'aspetto di sempre: un uomo corpulento con la tenuta da Cacciatore modificata, le
ampie spalle muscolose in contrasto con il volto levigato, dai tratti eleganti. Portava a tracolla la
Spada Mortale e una sacca rigonfia. Aveva un'ampia cintura a cui erano agganciate numerose armi:
grossi coltelli da caccia, pugnali dalla lama sottile, coltellacci per scuoiare. Guardandolo da dietro la
roccia, Jace provò la sensazione che ora aveva ogni volta che pensava a suo padre: un persistente
affetto filiale, profondamente intaccato da desolazione, delusione, sfiducia.
Era strano vedere suo padre con Sebastian. E Sebastian ora sembrava... diverso. Indossava anche lui
la tenuta da Cacciatore, con una lunga spada dall'elsa d'argento alla cintura. Ma non fu quello a
colpire Jace. Furono i capelli: una cascata di riccioli, non più neri, ma chiari e luminosi, come oro
bianco. Gli stavano molto meglio dei capelli neri, in verità: la sua pelle non sembrava più così
sorprendentemente pallida. Probabilmente se li era tinti per assomigliare al vero Sebastian Verlac,
ma era quello il suo vero aspetto. Un'onda di rancore aspra e impetuosa travolse Jace, ma si
controllò e rimase nascosto, anziché scagliarsi contro Sebastian e stringergli le mani intorno alla
gola.
Hugo gracchiò di nuovo e scese di quota, per posarsi sulla spalla di Valentine. Una strana fitta di
dolore trafisse Jace, alla vista del corvo in quella posizione che per il ragazzo era così familiare,
dopo tutti gli anni vissuti con Hodge. Hugo aveva praticamente vissuto sulla spalla di Hodge e
vederlo su quella di Valentine appariva ai suoi occhi stranamente alieno, addirittura ingiusto,
nonostante tutto quello che Hodge aveva fatto.
Valentine carezzò le lucide piume del corvo, annuendo come se stesse conversando con lui.
Sebastian li osservava, con le chiare sopracciglia inarcate. — Novità da Alicante? — chiese, mentre
Hugo si staccava dalla spalla di Valentine e volava in alto, sfiorando con le ali le punte gemmee
delle stalattiti.
— Niente di abbastanza definito, per ora — rispose Valentine. Il suono della voce di suo padre,
calma e impassibile come sempre, trapassò Jace come una freccia: le mani gli tremarono
involontariamente e le premette forte contro i fianchi, grato alla mole della stalagmite che lo
nascondeva alla loro vista. — Una cosa è certa. Il Conclave si sta alleando con l'esercito di Nascosti
di Lucian.
Sebastian aggrottò la fronte. — Ma Malachi aveva detto...
— Malachi ha fallito. — La mascella di Valentine era contratta.
Con sorpresa di Jace, Sebastian si avvicinò e gli posò una mano sul braccio. C'era qualcosa, in quel
gesto, qualcosa di intimo e sicuro, che fece rivoltare lo stomaco a Jace, come se l'avesse invaso un
esercito di vermi. Nessuno toccava Valentine così. Nemmeno lui avrebbe osato toccare suo padre in
quel modo. — Sei turbato? — gli chiese Sebastian, e la stessa sfumatura c'era anche nella sua voce,
la stessa grottesca e peculiare certezza di familiarità.
— Il Conclave è molto peggio di quel che pensavo. Sapevo che i Lightwood erano corrotti oltre
ogni speranza, e anche che quel tipo di corruzione è contagioso. È per questo che ho cercato di
tenerli lontani da Idris. Ma gli altri, farsi riempire così la testa del veleno di Lucian, che non è
nemmeno un Nephilim! — Il disgusto di Valentine era palese, ma non si allontanò da Sebastian,
notò Jace con crescente incredulità, non fece nulla per allontanargli la mano dalla propria spalla. —
Sono deluso. Credevo che avrebbero visto dove stava la ragione. Avrei preferito che le cose non
finissero in questo modo.
Sebastian sembrava divertito. — Non sono d'accordo — disse. — Pensa a tutti loro, pronti a darci
battaglia, pronti a correre incontro alla gloria... Pensa a quando scopriranno che tutto questo non ha
alcun senso, che il loro gesto è futile. Pensa a che facce faranno. — La bocca si stiracchiò in un
sorriso cattivo.
— Jonathan — sospirò Valentine. — Questa è un'orribile necessità. Non c'è niente di cui essere
contenti.
Jonathan? Jace si aggrappò alla roccia, le mani improvvisamente scivolose. Perché Valentine
chiamava Sebastian con il suo nome? Era un errore? Ma Sebastian non sembrava affatto sorpreso.
— Non è meglio, se mi diverto a fare quello che faccio? — replicò Sebastian. — Ad Alicante mi
sono divertito un sacco. I Lightwood sono stati una compagnia migliore di quello che mi avevi fatto
credere, soprattutto quella Isabelle. La mia uscita di scena è stata senza dubbio spettacolare. E per
quel che riguarda Clary...
Al nome di Clary, il cuore di Jace ebbe un guizzo improvviso e doloroso.
— Non era affatto come credevo — disse Sebastian in tono petulante. — Non mi assomigliava per
niente.
— Non c'è nessuno al mondo che ti assomigli, Jonathan. E Clary, lei è sempre stata uguale a sua
madre.
— Non vuole ammettere ciò che desidera veramente — disse Sebastian. — Non ancora. Ma ci
arriverà.
Valentine inarcò un sopracciglio. — In che senso, ci arriverà?
Sebastian sorrise, e il suo sorriso riempì Jace di una rabbia quasi incontrollabile. Si morse forte un
labbro, fino ad assaggiarne il sangue. — Be' — proseguì Sebastian — dalla nostra parte. Non vedo
l'ora. Imbrogliarla è stata la cosa più divertente che ho fatto in vita mia.
— Non era previsto che ti divertissi tanto. Era previsto che tu scoprissi cosa stava cercando. E
quando lei l'ha trovato, senza il tuo contributo potrei aggiungere, tu gliel'hai lasciato consegnare
nelle mani di uno stregone. E non sei nemmeno riuscito a portarla con te quando te ne sei andato,
nonostante il pericolo che Clary costituisce per noi. Non è stato esattamente un trionfo, Jonathan.
— Ci ho provato, a portarla via. Ma gli altri non la perdevano d'occhio un momento. E non potevo
certo rapirla dalla Sala degli Accordi. — Sebastian sembrava imbronciato. — E poi, te l'ho detto,
Clary non ha idea di come usare il suo potere per creare le rune. È troppo ingenua per costituire un
pericolo per noi.
— Qualunque cosa il Conclave abbia in mente di fare, al centro c'è Clary — replicò Valentine. — È
questo che ci ha detto Hugin. L'ha vista sul podio nella Sala degli Accordi. Se riesce a mostrare al
Conclave i suoi poteri...
Jace sentì un lampo di paura per Clary, mescolato a una strana sorta di orgoglio: era ovvio che Clary
fosse al centro di tutto. La sua Clary era così.
— Quindi, alla fine, combatteranno — disse Sebastian. — Che è quello che vogliamo, giusto? Clary
non conta. È la battaglia che conta.
— Tu la sottovaluti, temo — osservò Valentine a bassa voce.
— L'ho osservata — replicò Sebastian. — Se il suo potere fosse così illimitato come pensi tu,
avrebbe potuto usarlo per tirar fuori di prigione il suo amichetto vampiro... o per salvare quell'idiota
di Hodge mentre stava morendo...
— Un potere non deve essere illimitato per essere mortale — commentò Valentine. — E per quanto
riguarda Hodge, forse dovresti avere un po' più di ritegno, visto che sei stato tu a ucciderlo.
— Stava per dire ai ragazzi dell'Angelo. Ho dovuto farlo.
— Hai voluto farlo. Fai sempre così. — Valentine prese dalla tasca un paio di pesanti guanti di pelle
e se li infilò lentamente. — Forse glielo avrebbe detto. O forse no. In tutti gli anni in cui si è preso
cura di Jace, all'Istituto, si sarà chiesto che cosa stava allevando. Hodge era uno dei pochi che
sapevano che c'era più di un bambino. Ma io ero sicuro che non mi avrebbe tradito: era troppo
codardo per farlo.
— Piegò le dita nei guanti, aggrottando la fronte.
Più di un bambino? Di che cosa stava parlando, Valentine?
Sebastian liquidò Hodge con un gesto della mano. — Chi se ne importa di cosa pensava? È morto e
tanti saluti. — I suoi occhi brillarono cupi. — Adesso vai al lago?
— Sì. Ti è chiaro ciò che deve essere fatto? — Valentine indicò con il mento la spada alla cintura di
Sebastian.
— Usa quella. Non è la Spada Mortale, ma ha qualità sufficientemente demoniache per questo
scopo.
— Non posso venire al lago con te? — La voce di Sebastian aveva preso un tono quasi
piagnucoloso. — Non possiamo liberare l'esercito adesso?
— Non è ancora mezzanotte. Ho detto che avrei aspettato fino a mezzanotte. Potrebbero ancora
cambiare idea.
— Non lo faranno...
— Ho dato la mia parola. E la manterrò. — Il tono di Valentine era categorico. — Se non senti nulla
da Malachi entro mezzanotte, libera l'esercito. — Vedendo l'esitazione di Sebastian, Valentine ebbe
un moto di impazienza. — Devi fare quello che ho detto, Jonathan. Non posso aspettare qui fino a
mezzanotte. Mi ci vorrà un'ora per arrivare al lago attraverso i tunnel e non voglio che la battaglia si
trascini a lungo. Le generazioni future dovranno sapere con quale rapidità il Conclave è stato
sconfitto e quanto schiacciante sia stata la nostra vittoria.
— È solo che mi spiace perdermi il rituale dell'Evocazione. Vorrei esserci, quando lo farai. — Lo
sguardo di Sebastian sembrava malinconico, ma c'era sotto qualcosa di calcolato, qualcosa di
irriverente, avido, pianificatore, e stranamente, deliberatamente... freddo. Non che Valentine
sembrasse curarsene.
Con sconcerto, Jace vide Valentine toccare la guancia a Sebastian: un rapido, ma esplicito gesto
d'affetto. Poi gli voltò le spalle e si diresse verso il fondo della grotta, dove si addensavano grumi
d'ombra. Lì si fermò, una sagoma chiara contro il buio. — Jonathan — chiamò. Jace, senza potersi
controllare, alzò gli occhi al richiamo. — Un giorno anche tu contemplerai il volto dell'Angelo.
Dopotutto, tu erediterai gli Strumenti Mortali, quando io me ne sarò andato. Forse anche tu, un
giorno, evocherai Raziel.
— Sarebbe bello — disse Sebastian. E rimase perfettamente immobile, mentre Valentine, con un
ultimo cenno del capo, scompariva nel buio. La voce di Sebastian divenne un mezzo sussurro. —
Sarebbe proprio bello — ringhiò. —Proprio bello, sputare su quella faccia da bastardo. — Si girò di
scatto, il volto una maschera bianca nella luce fioca. — Puoi uscire, Jace — sibilò. — Lo so che sei
lì.
Jace s'immobilizzò, ma solo per un secondo. Il suo corpo reagì prima che la mente riuscisse a
muoversi e lo fece scattare in piedi. Corse all'imbocco del tunnel, con l'unico pensiero di arrivare
all'uscita, di mandare in qualche modo un messaggio a Luke.
Ma l'entrata della galleria era bloccata: da Sebastian. Aveva un'espressione fredda e gongolante e
teneva le braccia aperte, con le dita che quasi toccavano le pareti del tunnel. — Jace — disse. —
Non avrai davvero pensato di essere più veloce di me, vero?
Jace si fermò di scatto. Il cuore gli batteva in petto a ritmo irregolare, come un metronomo rotto, ma
parlò con voce ferma. — Visto che sono migliore di te in qualsiasi altro aspetto possibile e
immaginabile, era ragionevole pensarlo.
Sebastian si limitò a sorridere. — Sentivo il tuo cuore battere — disse a bassa voce — mentre ci
spiavi. Ti ha dato fastidio?
— Che sembrassi il fidanzato di mio padre? — Jace scrollò le spalle. — Sei un po' giovane per lui,
onestamente.
— Cosa? — Per la prima volta da quando Jace lo conosceva, Sebastian apparve allibito. Jace si
gustò l'effetto solo per un momento, perché Sebastian riacquistò subito il controllo di sé. Ma una
scintilla scura nei suoi occhi rivelava che non l'aveva perdonato per avergli fatto perdere la calma.
— A volte mi chiedevo di te — riprese Sebastian, con lo stesso tono morbido. — A volte mi è
sembrato che ci fosse qualcosa in te, dietro quei tuoi occhi gialli, un barlume di intelligenza,
diversamente dal resto della tua insulsa famiglia adottiva. Invece sei stupido come gli altri,
nonostante un decennio di ottima educazione.
— Che ne sai tu della mia educazione?
— Più di quello che pensi. — Sebastian abbassò le mani.
— L'uomo che ha cresciuto te ha cresciuto anche me. Solo che di me non si è stancato, dopo i primi
dieci anni.
— In che senso? — La voce di Jace uscì in un sussurro. Poi, fissando il volto immobile e senza
sorriso di Sebastian, gli sembrò di vederlo per la prima volta: i capelli bianchi, gli occhi nero
antracite, le linee dure del viso, come fosse cesellato nella pietra... E rivide con gli occhi della
mente il volto di suo padre come l'angelo glielo aveva mostrato, giovane e brillante, attento e
famelico... e capì. — Tu — disse. — Valentine è tuo padre. Tu sei mio fratello.
Ma Sebastian non era più davanti a lui: all'improvviso gli fu dietro, con le braccia strette intorno
alle sue spalle, come se volesse abbracciarlo. Solo che le mani erano chiuse a pugno. — Ave atque
vale, fratellino — ringhiò. E strinse le braccia di scatto, togliendogli il respiro.
Clary era esausta. Un mal di testa sordo, martellante, conseguenza della creazione della runa
dell'Alleanza, le si era insediato nel lobo frontale del cervello. Era come se qualcuno stesse
cercando di abbattere una porta a calci, ma dalla parte sbagliata.
— Stai bene? — Jocelyn le posò una mano sulla spalla.
— Non hai un bell'aspetto.
Clary girò la testa e vide la sottile runa nera che decorava il dorso della mano di sua madre, gemella
di quella sul palmo di Luke. Le si strinse lo stomaco. Riusciva a gestire l'idea che entro un paio
d'ore sua madre avrebbe probabilmente affrontato un esercito di demoni solo ricacciandola indietro,
con la pura forza della volontà, ogni volta che riaffiorava.
— Chissà dov'è Simon. — Clary si alzò in piedi. — Vado a cercarlo.
— Là in mezzo? — Jocelyn osservò la folla con preoccupazione. Si stava assottigliando adesso,
notò Clary, perché coloro che avevano il marchio uscivano sulla piazza. Sulla porta c'era Malachi, la
bronzea faccia impassibile, che indicava a Nascosti e a Cacciatori dove andare.
— Me la caverò. — Clary passò davanti a sua madre e a Luke, puntando verso i gradini del podio.
— Torno subito.
La gente si girava a guardarla, mentre scendeva i gradini e s'infilava nella folla. Clary sentiva i loro
occhi addosso, il peso dei loro sguardi. Perlustrò la folla, cercando i Light-wood o Simon, ma non
vide nessuno che conosceva. Era difficile individuare qualcuno là in mezzo, data la sua statura. Con
un sospiro, Clary scivolò verso il lato occidentale della Sala, dove la folla era meno fitta.
Nel momento in cui raggiunse la linea delle colonne di marmo, una mano scattò e la trascinò dietro
una colonna. Clary ebbe solo il tempo di sussultare e, un attimo dopo, si ritrovò nel buio, con la
schiena contro il marmo freddo della colonna. Le mani di Simon le stringevano le braccia. —
Non gridare, okay? Sono io — le disse.
—Non essere ridicolo, certo che non grido. — Clary si guardò intorno, chiedendosi che cosa stesse
succedendo: vedeva solo dei frammenti della Sala, tra una colonna e l'altra. — Che cos'è questa
sceneggiata alla James Bond? Ti stavo cercando.
— Lo so. E io ti stavo aspettando. Voglio parlarti in un posto dove nessun altro possa sentirci. — Si
inumidì nervosamente le labbra. — Ho sentito quello che ha detto Raphael. So cosa vuole.
— Oh, Simon. — Le spalle di Clary si incurvarono. — Senti, non è successo niente. Luke l'ha
mandato via.
— Forse non avrebbe dovuto — replicò Simon. — Forse avrebbe dovuto dare a Raphael ciò che
voleva.
Clary lo guardò sgranando gli occhi. — Vuoi dire... te? Non dire assurdità. È assolutamente
impensabile.
— È pensabile, invece. — Le strinse più forte le braccia. — Io voglio farlo. Io voglio che Luke dica
a Raphael che facciamo lo scambio. O glielo dirò io stesso.
— Ho capito cosa hai in mente — protestò Clary. — E ti rispetto e ti ammiro per questo, ma non
devi, Simon, non devi proprio. Quello che Raphael chiede è sbagliato e nessuno ti giudicherà per
non esserti sacrificato in una guerra che non è nemmeno la tua.
— Ma è così! — esclamò Simon. — Quello che Raphael ha detto è vero. Io sono un vampiro e tu
continui a dimenticarlo. O forse vuoi dimenticarlo. Ma io sono un Nascosto e tu sei una Cacciatrice,
e questa guerra è la nostra guerra.
— Ma tu non sei come loro...
— Sono uno di loro. — Parlò lentamente, pacatamente, come per essere assolutamente sicuro che
Clary capisse ogni sua parola. — E lo sarò sempre. Se i Nascosti combatteranno questa guerra con
gli Shadowhunters senza l'aiuto della gente di Raphael, non ci sarà alcun seggio al Consiglio, per i
Figli della Notte. Quindi loro non faranno parte del mondo che Luke sta cercando di creare, un
mondo dove Cacciatori e Nascosti lavorano insieme. I vampiri ne verranno esclusi. Diventeranno i
nemici degli Shadowhunters. Diventeranno i vostri nemici.
— Io non potrei mai essere tua nemica.
— Io ne morirei — disse Simon semplicemente. — Ma non potrò evitare che accada se resterò nelle
retrovie facendo finta di non essere parte di tutto questo. Non ti sto chiedendo il permesso. Clary.
Sto chiedendo il tuo aiuto. Se però non me lo darai, chiederò a Maia di portarmi all'accampamento
dei vampiri e mi consegnerò a Raphael. Lo capisci?
Clary lo fissò. Le stringeva le braccia così forte che sentiva pulsare il sangue nelle mani. Si passò la
lingua sulle labbra secche; aveva la bocca amara. — Cosa posso fare — sussurrò — per aiutarti?
Quando Simon glielo disse, Clary lo guardò incredula. Poi, prima ancora che lui finisse di parlare,
scosse forte la testa, coi capelli che le volavano davanti alla faccia. — No — esclamò. — È un'idea
folle, Simon. Non è un dono, è una punizione...
— Forse non per me — replicò Simon. Scrutò la folla, e Clary vide Maia che li guardava,
palesemente incuriosita. Era chiaro che aspettava Simon.Troppo in fretta, pensò Clary. Sta
succedendo tutto troppo in fretta.
— È sempre meglio dell'alternativa, Clary.
— No...
— Potrebbe non farmi alcun male. Voglio dire, io sono già stato punito, no? Già ora non posso più
entrare in una chiesa, o in una sinagoga, non posso pronunciare... nomi sacri, non posso
invecchiare... Sono già stato tagliato fuori dalla vita normale. Forse questo non cambierà niente.
— Ma potrebbe.
Simon le lasciò le braccia, fece scivolare la sua mano sul fianco di lei e le prese lo stilo di Patrick
dalla cintura. Glielo porse. — Clary — le disse. — Fallo per me. Ti prego.
Clary prese lo stilo con le dita intorpidite e lo sollevò. Toccò la pelle di Simon sulla fronte, tra gli
occhi. "Il primo marchio", aveva detto Magnus. Il primo in assoluto.
Clary lo pensò, e lo stilo iniziò a muoversi come un ballerino quando parte la musica. Linee nere si
disegnarono sulla fronte di Simon: era come lo sbocciare di un fiore in una pellicola fatta scorrere
più veloce. Quand'ebbe finito, la mano destra le bruciava e le pizzicava, ma quando fece un passo
indietro per contemplare il suo operato seppe che aveva tracciato una runa perfetta, strana e antica,
qualcosa che risaliva alle origini della storia. Brillava come una stella sopra gli occhi di Simon. Lui
si sfiorò la fronte con le dita, con un'espressione confusa e stordita.
— Lo sento — le disse. — Come una bruciatura.
— Non so cosa succederà — sussurrò lei. — Non so quali effetti a lungo termine potrà avere.
Con un mezzo sorriso un po' storto, Simon le sfiorò la guancia. — Speriamo di avere modo di
scoprirlo.
capitolo 19
JACE E JONATHAN
Maia rimase muta per quasi tutta la strada fino alla foresta. Teneva la testa bassa e solo di tanto si
guardava intorno, col naso arricciato per la concentrazione. Simon si chiese se stesse trovando la
strada a fiuto. Pur essendo un po' strano, era un talento utile, pensò. Si accorse, inoltre, che non
doveva affrettarsi per tenere il suo passo, per quanto fosse rapida. Anche quando raggiunsero il
sentiero battuto che portava alla foresta e Maia iniziò a correre, rapida e silenziosa, Simon non ebbe
alcun problema a tenere il suo ritmo. Era uno degli aspetti dell'essere un vampiro che, poteva dirlo
in tutta onestà, gli riusciva molto gradito.
Ma il piacere finì presto. Il bosco s'infittì. Simon e Maia correvano tra gli alberi, su un terreno
segnato da spesse radici e coperto da foglie cadute. I rami sopra le loro teste creavano trine e
intrecci contro il cielo stellato. Emersero in una radura cosparsa di massi che luccicavano come
denti bianchi e squadrati. C'erano mucchi di foglie qua e là, come se qualcuno avesse lavorato con
un rastrello gigante.
— Raphael! — Maia, con le mani intorno alla bocca, gridò così forte da spaventare gli uccelli sui
rami degli alberi. — Raphael! Fatti vedere!
Silenzio. Poi le ombre frusciarono. Si sentì un rumore come di pioggia su un tetto metallico. I
mucchi di foglie esplosero come cicloni in miniatura. Maia tossì e si riparò la faccia con le mani per
proteggere gli occhi.
Con la stessa rapidità con cui si era alzato, quello strano vento si acquietò. E Raphael era lì, a pochi
passi da Simon, circondato da un gruppo di vampiri pallidi e immobili come gli alberi alla luce della
luna. La loro espressione era fredda, di cruda ostilità. Simon riconobbe alcuni di loro, già visti
all'Hotel Dumort: la minuta Lily e il biondo Jacob dagli occhi socchiusi come lame di coltello. Ma
molti altri gli erano del tutto sconosciuti.
Raphael fece un passo avanti. La sua pelle era giallastra, gli occhi cerchiati di ombre scure, ma
quando vide Simon sorrise.
— Diurno — sibilò. — Sei venuto.
— Sono venuto — confermò Simon. — Sono qui. Quindi... è fatta.
— È ben lungi dall'essere fatta, Diurno. — Raphael guardò Maia. — Ragazza, torna dal tuo
capobranco e ringrazialo per aver cambiato idea. Digli che i Figli della Notte combatteranno a
fianco della sua gente sulla pianura di Brocelind.
L'espressione di Maia era tesa. — Luke non ha cambiato...
Ma Simon la interruppe in fretta. — Va bene così, Maia. Vai.
Gli occhi di Maia erano tristi e luminosi. — Simon, pensaci — gli disse. — Non è una cosa
che devi fare.
— Sì, invece. — Il suo tono era fermo. — Maia, ti ringrazio molto per avermi accompagnato qui.
Ora vai.
— Simon...
Simon abbassò la voce. — Se non vai via, ci ammazzeranno entrambi, e tutto questo non sarà
servito a niente. Vai. Per favore.
Lei annuì e si voltò, trasformandosi: un attimo prima era un'esile ragazza con le treccine decorate da
perline, un attimo dopo era a terra a quattro zampe, lupo agile e silenzioso. Sfrecciò via nella radura
e svanì tra le ombre.
Simon si voltò, e per poco non cacciò un urlo: era faccia a faccia con Raphael, a pochi centimetri da
lui. Vista da vicino, la sua pelle rivelava le venature scure della fame. Simon ripensò a quella notte
all'Hotel Dumort: i volti che apparivano dalle ombre, le fuggevoli risate, l'odore del sangue, e
rabbrividì.
Raphael prese Simon per le spalle: la stretta delle sue mani ingannevolmente esili era ferrea. —
Gira la testa — gli intimò — e guarda le stelle: così sarà più facile.
— Allora hai davvero intenzione di uccidermi — osservò Simon. Con sorpresa, non sentiva paura,
non era nemmeno particolarmente agitato: tutto sembrava rallentato e perfettamente nitido. Fu
simultaneamente consapevole di ogni foglia sopra di lui, di ogni sassolino per terra, di ogni paio
d'occhi puntati su di lui.
— Che cosa credevi? — gli chiese Raphael, con un po' di tristezza notò Simon. — Non è una cosa
personale, te l'assicuro. Come dicevo, sei troppo pericoloso per poter continuare a esistere così
come sei. Se avessi saputo cosa saresti diventato...
— Non mi avresti mai lasciato uscire da quella tomba, lo so — terminò per lui.
Raphael incrociò il suo sguardo. — Tutti, per sopravvivere, fanno ciò che devono fare. In questo
senso, anche noi siamo un po' come gli esseri umani. — I suoi denti affilati sgusciarono dalle
gengive come delicati rasoi. — Sta' fermo — gli disse. — Sarà una cosa rapida. — Si avvicinò.
— Aspetta — esclamò Simon. E quando Raphael si ritrasse, accigliato, lo ripetè, con più forza: —
Devo farti vedere una cosa.
Raphael fece un basso suono sibilante. — Se vuoi tergiversare, trova qualcosa di meglio, Diurno.
— E quello che sto facendo. C'è una cosa che dovresti vedere. — Simon si scostò i capelli dalla
fronte. Gli sembrò un gesto un po' sciocco, quasi teatrale, ma quando lo fece rivide il volto pallido e
disperato di Clary che lo fissava, con lo stilo in mano, e pensò: Be', lo faccio per lei. Almeno ci
provo.
L'effetto su Raphael fu sorprendente e istantaneo. Fece un balzo indietro, come se Simon avesse
brandito un crocifisso, e sgranò gli occhi. — Diurno — sibilò. — Chi ti ha fatto questo?
Simon si limitò a fissarlo. Non sapeva bene quale reazione aspettarsi, ma di sicuro non quella.
— Clary — disse Raphael, rispondendosi da solo. — Naturalmente. Solo un potere come il suo può
fare una cosa del genere: un vampiro marchiato e con un marchio come questo...
— Un marchio di che tipo? — chiese Jacob, l'esile ragazzo biondo alle spalle di Raphael. Anche gli
altri vampiri li stavano fissando, con espressioni di confusione e crescente paura. Qualsiasi cosa
spaventasse Raphael, pensò Simon, di sicuro spaventava anche loro.
— Questo marchio — spiegò Raphael senza togliere gli occhi di dosso a Simon — non è una delle
rune del Libro Grigio. È un marchio ancora più vecchio del Libro.
Uno dei più antichi, disegnato dalla mano stessa del Creatore. — Fece per toccare la fronte di
Simon, ma sembrò non trovare il coraggio: la mano restò sospesa per un attimo, poi gli ricadde
lungo il fianco. — Ho sentito parlare di marchi come questo, ma io non ne avevo mai visto uno. E
questo...
Simon citò: — «"Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte." E il Signore impose a
Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato.» Puoi cercare di uccidermi,
Raphael, ma non te lo consiglio.
— Il Marchio di Caino? — esclamò Jacob, incredulo. — Quello è il Marchio di Caino?
— Uccidilo — sibilò una ragazza dai capelli rossi, vicino a Jacob. Parlava con un forte accento
straniero, forse russo, pensò Simon, ma non ne era sicuro. — Uccidilo lo stesso.
L'espressione di Raphael era un misto di furia e incredulità. — Non lo farò — disse. — Qualsiasi
male gli verrà fatto ricadrà su chi l'ha compiuto, moltiplicato per sette volte. E questa la natura del
marchio. Naturalmente, se qualcuno di voi vuole correre il rischio si accomodi pure.
Nessuno parlò, nessuno si mosse.
— Me l'immaginavo — commentò Raphael. I suoi occhi scrutarono Simon. — Come la regina
cattiva della favola, Lucian Graymark mi ha mandato una mela avvelenata. Immagino
che sperasse che io ti uccidessi, per godere della punizione che mi avrebbe colpito.
— No — si affrettò a dire Simon. — No, Luke non sa nulla del marchio, ha agito in buona fede.
Devi rendergliene atto.
— Quindi sei stato tu a sceglierei — Per la prima volta c'era qualcosa di diverso dal disprezzo,
pensò Simon, nel modo in cui Raphael lo guardava. — Questa non è una semplice runa di
protezione, Diurno. Tu sai quale fu la punizione di Caino? — Parlava a bassa voce, come a voler
condividere un segreto. — «Ora sii maledetto lungi da quel suolo... Ramingo e fuggiasco sarai
sulla terra.»
— Allora — disse Simon — andrò ramingo, se così dovrà essere. Farò quello che dovrò fare.
— Tutto questo... — rifletté Raphael — ... tutto questo per i Nephilim.
— Non solo per i Nephilim — precisò Simon. — Lo sto facendo anche per te. Anche se tu non
vuoi. — Alzò la voce, in modo che anche i vampiri silenziosi che li circondavano potessero sentirlo.
— Tu temevi che, se altri vampiri avessero saputo che cosa mi era successo, avrebbero pensato che
il sangue di uno Shadowhunter potesse dargli la capacità di stare alla luce del sole. Ma non è per
questo, che io ho questo potere. È per qualcosa che ha fatto Valentine. Un esperimento. Lui l'ha
fatto, non Jace. E non è replicabile. Non accadrà di nuovo.
— Credo che stia dicendo la verità — commentò Jacob, sorprendendo Simon. — So per certo di
uno o due Figli della Notte che hanno assaggiato sangue di Shadowhunter, in passato. Nessuno di
loro ha mai sviluppato una gran passione per la luce del sole.
— Dunque, una cosa era rifiutarsi di aiutare gli Shadowhunters prima — riprese Simon, voltandosi
verso Raphael. — Ma adesso che mi hanno mandato da voi... — Lasciò in sospeso il resto della
frase.
— Non cercare di ricattarmi, Diurno — disse Raphael. — Quando i Figli della Notte fanno un patto,
lo onorano sempre, per quanto possa costargli. — Fece un lieve sorriso e i denti aguzzi luccicarono
nel buio. — C'è solo una cosa — aggiunse. — Un ultimo gesto che ti chiedo, per dimostrare che hai
davvero agito in buona fede. — L'accento che pose sulle ultime due parole era carico di gelo.
— E cioè?
— Noi non saremo i soli vampiri a combattere la battaglia di Lucian Graymark — disse Raphael. —
Ci sarai anche tu.
Jace aprì gli occhi in un gorgo d'argento. La bocca era piena di liquido amaro. Tossì, chiedendosi
per un attimo se stesse affogando... Ma era sulla terraferma. Seduto contro una stalagmite, le mani
legate dietro la schiena. Tossì di nuovo e la bocca gli si riempì di un liquido caldo. Non stava
affogando: stava soffocando nel suo stesso sangue.
— Sveglio, fratellino? — Sebastian era inginocchiato davanti a lui, con una fune in mano e un
sorriso come un coltello sguainato. — Bene. Per un momento ho temuto di averti ucciso troppo in
fretta.
Jace girò la testa di lato e sputò una boccata di sangue. La testa era come se contenesse un
palloncino gonfio che gli premeva contro il cranio. Il gorgo d'argento che sentiva sopra di lui
rallentò e si fermò: Jace mise a fuoco le stelle luminose che apparivano dal foro sulla volta della
grotta. — Stai aspettando un'occasione speciale per uccidermi? Natale è vicino.
Sebastian gli lanciò un'occhiata pensosa. — Hai la lingua veloce. Questo non l'hai imparato da
Valentine. Che cosa hai imparato da lui? Non mi pare che ti abbia insegnato molto, delle tecniche di
combattimento. — Gli si avvicinò. — Tu sai che cosa mi regalò, quando compii nove anni? Una
bella lezione. Mi insegnò che nella schiena di un uomo c'è un punto dove, se ci affondi una lama,
puoi bucargli il cuore e spezzargli la spina dorsale in un colpo solo. E tu, invece, che cosa hai
ricevuto quando hai compiuto nove anni, angioletto? Un biscottino?
Nove anni? Jace deglutì. — Allora dimmi, in quale buco ti teneva, mentre crescevo? Non ricordo di
averti mai visto in giro per la tenuta.
— Sono cresciuto in questa valle. — Sebastian gli indicò con il capo l'uscita della grotta. —
Nemmeno io ricordo di averti mai visto in giro, ora che ci penso. Però sapevo della tua esistenza.
Scommetto che tu, invece, non sapevi della mia.
Jace scosse la testa. — Valentine non era molto incline a sbandierare la tua esistenza. E posso
immaginare perché.
Gli occhi di Sebastian sfavillarono. Era facile, ora, notare la somiglianza con Valentine: la stessa
insolita combinazione di capelli chiarissimi e occhi neri, la stessa ossatura elegante che, in un altro
viso, meno scolpito, sarebbe risultata femminea. — Sapevo tutto di te — disse Sebastian. — Tu,
invece, non sai niente di me, vero? — Si alzò in piedi. — Ti ho tenuto vivo per farti vedere questo,
fratellino — gli disse. — Perciò, guarda e osserva bene. — Con un movimento così veloce da essere
quasi impercettibile, Sebastian sguainò la spada che portava alla cintura. Aveva l'elsa d'argento e,
come la Spada Mortale, brillava di una cupa luce nera. Un motivo di stelle era inciso sulla
superficie della lama e, quando Sebastian la roteò, rifletté la luce delle stelle vere, ardendo come
fuoco.
Jace trattenne il fiato. Sebastian voleva ucciderlo? No, l'avrebbe già fatto mentre era svenuto, se
fosse stata quella la sua intenzione. Lo vide spostarsi al centro della grotta, brandendo la spada con
facilità, benché sembrasse molto pesante. La mente di Jace vorticava di pensieri. Com'era possibile
che Valentine avesse un altro figlio? Chi era sua madre? Una donna del Circolo? Ed era più giovane
o più vecchio di lui?
Sebastian raggiunse l'enorme stalagmite dalle sfumature rossastre, al centro della grotta. Sembrava
pulsare, e il fumo al suo interno iniziò a vorticare più rapidamente. Sebastian socchiuse gli occhi e
sollevò la spada. Disse qualcosa - una parola in un'aspra lingua demoniaca - e calò la lama, con
velocità e con forza, in un arco tagliente.
La punta della stalagmite si staccò. L'interno era cavo, ricolmo di una massa di fumo rosso e nero,
che salì vorticando come gas da un palloncino forato. Ci fu un boato, una sorta di pressione
esplosiva. Jace sentì uno schiocco nelle orecchie. All'improvviso divenne difficile respirare.
Avrebbe voluto allargare il colletto della camicia, ma non poteva muovere le mani: erano legate
troppo saldamente dietro di lui.
Sebastian era mezzo nascosto dietro la colonna rossa e nera che si riversava dalla stalagmite salendo
in rapide spire. — Guarda! — esclamò. Il suo volto era infervorato, gli occhi accesi, i capelli
bianchi sferzati dal vento ascendente. Jace si chiese se suo padre fosse stato così, da giovane:
terribile, eppure in qualche modo affascinante. — Guarda e ammira l'esercito di Valentine!
La sua voce venne soffocata dal fragore. Era un suono simile a quello di un'onda di marea che si
frange sulla riva, un enorme cavallone carico di pesanti detriti, delle ossa frantumate di intere città,
l'avanzata di un potere grandioso e malvagio. Un'enorme colonna di nero guizzante, impetuoso,
contorto, si riversò dalla stalagmite spaccata, incanalandosi verso lo squarcio sulla volta della
grotta, salendo e uscendo da esso. Demoni. Salirono gridando, urlando, ringhiando: una massa
ribollente di artigli e unghioni, zanne e occhi ardenti. Jace ripensò alla nave di Valentine, si rivide
riverso sul ponte, mentre intorno a lui il cielo e la terra e il mare diventavano un incubo terribile.
Ma questo era ancora peggio. Era come se la terra si fosse squarciata e ne fosse uscito l'inferno. I
demoni portavano con sé il puzzo di mille cadaveri in putrefazione. Le mani di Jace si torsero, si
torsero finché le funi non gli tagliarono i polsi facendolo sanguinare. Un sapore amaro gli salì in
gola, e Jace soffocò nel sangue e nella bile, mentre l'ultimo dei demoni saliva e svaniva sopra di lui,
in una nera inondazione di orrore che spense tutte le stelle.
Forse aveva perso i sensi per qualche minuto, pensò Jace. Di certo, c'era stato un momento di buio
nel quale gli urli e gli ululati erano svaniti e lui aveva avuto l'impressione di essere sospeso nello
spazio, inchiodato tra terra e cielo, con un senso di distacco che era in qualche modo... rasserenante.
Finì troppo presto. All'improvviso, tornò con violenza nel suo corpo, i polsi doloranti, le spalle tese
all'indietro, il puzzo dei demoni così denso nell'aria che lo costrinse a vomitare. Sentì una risatina
secca e alzò gli occhi, ricacciando giù l'acido che aveva in bocca. Sebastian era inginocchiato sopra
di lui, con le gambe a cavalcioni di quelle di Jace, gli occhi sfavillanti. — Va tutto bene, fratellino
— disse. — Sono andati via.
Gli occhi di Jace lacrimavano, la gola era lacera e in fiamme. La voce gli uscì come un gracchio. —
Lui aveva detto a mezzanotte. Valentine aveva detto di liberare i demoni a mezzanotte. Non può
essere già mezzanotte.
— È sempre meglio chiedere perdono che chiedere il permesso, in questo tipo di situazione. —
Sebastian guardò il cielo vuoto. —Impiegheranno cinque minuti per raggiungere la pianura di
Brocelind, da qui, un bel po' meno di quanto impiegherà mio padre per raggiungere il lago. Io
voglio vedere versato un po' di sangue Nephilim. Voglio vederli contorcersi e morire sul campo di
battaglia. Meritano la vergogna, prima dell'oblio.
— Pensi davvero che i Nephilim abbiano così poche possibilità contro i demoni? Non è che siano
impreparati...
Sebastian liquidò la domanda con un gesto secco della mano. — Credevo che ci stessi ascoltando,
poco fa. Non hai capito il piano? Non sai che cosa ha intenzione di fare mio padre?
Jace non disse niente.
— È stato gentile, da parte tua — proseguì Sebastian — condurmi da Hodge la notte scorsa. Se lui
non ci avesse rivelato che lo Specchio che cercavamo era il lago Lyn, non sono sicuro che questa
notte avrebbe avuto compimento. Colui che detiene i primi due Strumenti Mortali e si erge davanti
allo Specchio Mortale, può evocare l'Angelo Raziel dallo Specchio, come fece Jonathan
Shadowhunter mille anni fa. E una volta evocato l'Angelo, si ha il diritto di chiedergli una cosa. Un
compito. Un... favore.
— Un favore? — Jace si sentì raggelare. — E Valentine chiederà la sconfitta degli Shadowhunters a
Brocelind?
Sebastian si alzò. — Sarebbe uno spreco — disse. — No. Chiederà che tutti gli Shadowhunters che
non hanno bevuto alla Coppa Mortale - cioè tutti coloro che non sono suoi seguaci - siano spogliati
dei loro poteri. Non saranno più Nephilim. Di conseguenza, coi marchi che portano sulla pelle... —
Sebastian sorrise — diventeranno Dimenticati, facile preda dei demoni. E i Nascosti che non
saranno scappati verranno facilmente sterminati.
Le orecchie di Jace risuonavano di un tintinnio aspro.
Si sentiva stordito. — Nemmeno Valentine... — disse. — Nemmeno Valentine farebbe una cosa del
genere.
— Ma per favore! — sbottò Sebastian. — Credi davvero che mio padre non porterà fino in fondo il
piano che ha elaborato?
— Nostro padre — lo corresse Jace.
Sebastian lo guardò dall'alto. I capelli erano come una bianca aureola; sembrava il classico angelo
ribelle scacciato dal Paradiso insieme a Lucifero. — Scusa — disse con un certo divertimento —
ma stai pregando?
— No. Parlavo di Valentine. È nostro padre. Non tuo padre. Nostro.
Per un momento Sebastian non mostrò alcuna emozione, poi le labbra si arricciarono agli angoli e
sorrise. — Angioletto — disse — sei proprio uno sciocco, lo sai? Proprio come diceva sempre mio
padre.
— Perché continui a chiamarmi così? — volle sapere Jace. — Perché continui a blaterare di angeli?
— Dio! — esclamò Sebastian. — Non sai proprio niente, allora? Mio padre non ti ha mai detto
niente che non fosse una bugia?
Jace scosse la testa. Aveva continuato a tirare le corde che gli legavano i polsi, ma ogni volta che
tirava i nodi sembravano stringersi di più. Sentiva il sangue pulsare in tutte le dita. — Come fai
sapere che non mentiva a te?
— Perché io sono sangue del suo sangue. Sono come lui. Quando lui non ci sarà più, sarò io a
guidare il Conclave.
— Non mi vanterei di essere come lui, se fossi in te.
— Anche questo. — La voce di Sebastian era priva di emozioni. — Io non fingo di essere diverso
da ciò che sono. Non mi comporto come se fossi scandalizzato perché mio padre fa ciò che deve
fare per salvare la sua gente, anche se loro non voglio essere salvati (o, se vuoi sapere la mia
opinione, non meritano di essere salvati). Chi preferiresti avere come figlio: un ragazzo che sia
orgoglioso di averti come padre o uno che davanti a suo padre si rintana in un angolo per la paura e
la vergogna?
— Io non ho paura di Valentine — puntualizzò Jace.
— Non è di lui che devi aver paura — replicò Sebastian. — Ma di me.
C'era qualcosa nella sua voce che indusse Jace a smettere di lottare con le corde e ad alzare gli occhi
verso di lui. Sebastian brandiva ancora la spada dalla lucente lama nera. Era un oggetto bellissimo,
pensò Jace, anche quando Sebastian abbassò la punta e gliela appoggiò sulla clavicola, sfiorandogli
il pomo d'Adamo.
Jace si sforzò di mantenere ferma la voce. — E adesso cosa vuoi fare? Vuoi uccidermi mentre sono
legato? Il pensiero di batterti con me ti spaventa tanto?
Nulla, nemmeno il fremito di una emozione, attraversò il viso pallido di Sebastian. — Tu — gli
disse — non rappresenti una minaccia per me. Sei una scocciatura. Un fastidio.
— Allora perché non mi sleghi le mani?
Sebastian, perfettamente immobile, lo fissava. Sembrava una statua, pensò Jace, la statua di un
principe morto da secoli, morto giovane e corrotto dal vizio. Ed era questa la differenza tra
Sebastian e Valentine: pur condividendo lo stesso aspetto gelido e marmoreo, Sebastian aveva
un'aura intorno a sé come di qualcosa di guasto, qualcosa di corroso dall'interno. — Non sono uno
sciocco — disse Sebastian — e non ci casco. Ti ho lasciato vivo solo per farti vedere i demoni. Ora,
quando morirai e ritornerai dai tuoi angelici antenati, potrai riferire che non c'è più posto per loro, in
questo mondo. Hanno abbandonato il Concia-ve e il Conclave non ha più bisogno di loro. Abbiamo
Valentine, adesso.
— E tu vorresti uccidermi per farmi portare un messaggio a Dio a nome tuo? — Jace scosse la testa,
e la punta della lama gli graffiò la gola. — Sei più pazzo di quel che pensavo.
Sebastian si limitò a sorridere e spinse un po' di più la lama. Quando Jace deglutì, sentì la punta
della spada intaccare la trachea. — Se hai delle preghiere, fratellino, dille adesso.
— Non ho nessuna preghiera - replicò Jace. — Ho un messaggio, però. Per nostro padre. Glielo
darai?
— Certo — disse Sebastian con voce di velluto. Ma c'era qualcosa nel modo in cui lo disse, un
guizzo di esitazione prima che parlasse, che confermava ciò che Jace già pensava.
— Tu menti — gli disse. — Tu non gli darai il messaggio, perché non gli dirai mai cosa hai fatto.
Lui non ti ha mai chiesto di uccidermi. E non sarà contento quando lo scoprirà.
— Assurdo. Tu non sei niente per lui.
— Tu pensi che lui non scoprirà mai cosa mi è successo, se mi uccidi qui e ora. Potresti dirgli che
sono morto in battaglia, oppure sarà lui a dedurre cos'è successo. Ma ti sbagli se pensi che non lo
saprà mai. Valentine sa sempre tutto.
— Tu non sai di cosa parli — replicò Sebastian, ma i suoi tratti si erano fatti più tesi.
Jace continuò a parlare, sfruttando al massimo quel piccolo vantaggio. — Non puoi nascondere
quello che stai facendo. C'è un testimone.
— Un testimone? — Sebastian sembrò quasi sorpreso e per Jace fu una piccola vittoria. — Che cosa
stai dicendo?
— Il corvo — gli ricordò Jace. — Ti sta osservando nell'ombra. Dirà tutto a Valentine.
— Hugin? — Gli occhi di Sebastian si alzarono di scatto e, anche se il corvo non si vedeva da
nessuna parte, il suo sguardo, quando tornò a posarsi su Jace, era pieno di dubbi.
— Se Valentine scopre che mi hai ucciso mentre ero legato e inerme, ne sarà disgustato — proseguì
Jace. Sentiva la propria voce imitare le cadenze che usava suo padre, quando voleva qualcosa: una
voce dolce e persuasiva. — Ti considererà un vigliacco. Non ti perdonerà mai.
Sebastian non disse niente. Fissava Jace dall'alto, con un fremito nelle labbra, e il rancore che gli
ribolliva negli occhi come un veleno.
— Slegami — disse Jace a bassa voce. — Slegami e combatti con me. È l'unico modo.
Le labbra di Sebastian guizzarono di nuovo, e stavolta Jace ebbe paura di essersi spinto troppo oltre.
Sebastian sollevò la spada e la luce della luna esplose dalla lama in mille schegge d'argento
d'argento come le stelle, d'argento come il colore dei suoi capelli. Digrignò i denti... e il sibilante
respiro della spada tagliò l'aria della notte con un grido, quando Sebastian la calò in un arco
fulmineo.
Clary era seduta sui gradini del podio, nella Sala degli Accordi, con lo stilo in mano. Non si era mai
sentita tanto sola. La Sala era deserta. Clary aveva cercato Isabelle dappertutto, dopo che tutto
l'esercito aveva attraversato il Portale, ma non era riuscita a trovarla. Aline le aveva detto che
probabilmente era tornata a casa dei Penhallow, dove lei e alcuni suoi coetanei avrebbero dovuto
badare a una quindicina di bambini sotto l'età del combattimento. Aveva cercato di convincere Clary
ad andare con loro, ma lei aveva rifiutato. Se non trovava Isabelle, preferiva restare da sola,
piuttosto che con dei quasi estranei. O almeno, così credeva. Ma ora, nella Sala degli Accordi, il
silenzio e il vuoto diventavano sempre più opprimenti. Tuttavia, Clary non si mosse da lì. Stava
cercando con tutte le forze di non pensare a Jace, di non pensare a Simon, di non pensare a sua
madre, né a Luke, né ad Alec... e l'unico modo per non pensare era restare immobile a fissare un
unico riquadro di marmo del pavimento, contandone le fessure, all'infinito. Erano sei. Una due tre.
Quattro cinque sei. Finiva la conta e ricominciava di nuovo, dall'inizio. Una due...
Il cielo sopra di lei esplose.
O almeno così le parve, dal fragore. Clary sollevò la testa di scatto e guardò su, oltre il soffitto
trasparente della Sala. Il cielo, che era stato buio fino a un attimo prima, ora era una massa
turbolenta di fiamme e oscurità, rischiarata da un'orrenda luce arancione. Contro quella luce si
muovevano delle cose: cose orrende che lei non voleva vedere, cose per cui fu grata all'oscurità che
ne nascondeva la vista. Le sporadiche immagini che si intravedevano erano già abbastanza terribili.
Il soffitto trasparente fremette e s'inarcò al passaggio dell'esercito dei demoni, come deformato da
un tremendo calore. Alla fine ci fu un suono che somigliava a uno sparo e un'enorme crepa si
disegnò sul vetro diramandosi in una ragnatela di linee. Clary si abbassò e si coprì la testa con le
mani, quando i vetri cominciarono a piovere intorno a lei come lacrime.
Erano quasi giunti sul campo di battaglia, quando sentirono quel suono che squarciò la notte. Un
attimo prima, i boschi erano muti e bui. L'attimo dopo, il cielo s'illuminò di un infernale bagliore
rossastro. Simon barcollò e rischiò di cadere. Si aggrappò a un albero per riprendere l'equilibrio e
guardò su, incapace di credere ai propri occhi. Intorno a lui, anche gli altri vampiri fissavano il
cielo, le facce bianche come fiori notturni rivolti verso la luce della luna, mentre uno dopo l'altro
quegli incubi attraversavano il cielo.
— Continui a svenire — protestò Sebastian. — È estremamente fastidioso.
Jace aprì gli occhi e sentì un dolore lancinante alla testa. Alzò una mano per toccarsi la faccia e... si
accorse di non avere più le mani legate dietro la schiena. Un pezzo di fune gli penzolava ancora dal
polso. La mano che ritirò dal viso era nera: nera di sangue, alla luce della luna.
Si guardò intorno. Non si trovavano più nella grotta: Jace era disteso sulla terra morbida ed erbosa
della valle, non lontano dalla casetta di pietra. Sentiva scrosciare l'acqua del torrente, chiaramente
vicino. In alto, i rami intrecciati degli alberi nascondevano in parte la luce lunare, ma la notte era
comunque luminosa.
— Alzati — gli disse Sebastian. — Hai cinque secondi, prima che ti uccida lì dove sei.
Jace si alzò con tutta la lentezza che pensava potesse essergli concessa. Era ancora un po' stordito.
Cercando l'equilibrio, affondò i tacchi degli stivali nella terra morbida, per avere più stabilità. —
Perché mi hai portato qui?
— Per due ragioni — disse Sebastian. — La prima, mi piaceva l'idea di metterti subito al tappeto.
La seconda, non sarebbe stata una buona idea per nessuno di noi insanguinare il pavimento della
grotta. E io ho tutta l'intenzione di versare molto del tuo sangue.
Jace tastò la cintura e il cuore gli sprofondò. O gli erano cadute le armi mentre Sebastian lo
trascinava nei tunnel o, più probabilmente, Sebastian gliele aveva buttate via. Gli restava solo un
pugnale. Dalla lama corta, troppo corta. Inutile contro una spada.
— Non è un granché come arma, quella. — Sebastian ghignò, bianco nell'oscurità abbagliata dalla
luna.
— Non posso combattere con questo — disse Jace cercando di sembrare nervoso e spaventato.
— Ma che peccato! — Sebastian gli si avvicinò con un ghigno. Teneva la spada come un bastone da
passeggio, ostentando un'assoluta mancanza di preoccupazione e tamburellando sull'elsa con le dita.
Se aveva una possibilità, pensò Jace, probabilmente era questa. Caricò il braccio e tirò un pugno in
faccia a Sebastian con tutta la forza che aveva.
Sentì scricchiolare le ossa sotto le nocche. Il pugno mandò Sebastian a gambe all'aria. Cadde
all'indietro e la spada gli sfuggì di mano. Jace la prese al volo e si lanciò all'attacco. Un attimo dopo
era sopra Sebastian, con la spada puntata.
Il naso di Sebastian sanguinava e il sangue tracciava un rivolo scarlatto sul suo viso. Si scostò il
colletto, scoprendo la gola chiara. — Forza. Fallo! — gli disse. — Uccidimi subito.
Jace esitò. Non voleva esitare, ma era così: una fastidiosa riluttanza a uccidere una persona inerme e
atterrata. Ricordò Valentine che lo provocava, a Renwick, che lo sfidava a ucciderlo. E lui non c'era
riuscito. Ma Sebastian era un assassino. Aveva ucciso Max e Hodge.
Sollevò la spada.
E Sebastian balzò in piedi, più veloce di un lampo. Sembrò quasi volare. Eseguì un'elegante
capriola all'indietro e atterrò con grazia sull'erba, praticamente sul posto. Nel movimento, sferrò un
calcio contro la mano di Jace. La spada gli sfuggì di mano e volò in alto roteando. Sebastian la
prese al volo, ridendo, e fece un affondo con la lama, puntando al cuore di Jace. Jace fece un balzo
indietro e la lama tagliò l'aria proprio davanti a lui, squarciandogli la camicia sul petto. Jace sentì un
dolore pungente e il sangue sgorgare da una ferita superficiale sul petto.
Sebastian ghignava, avanzando verso Jace, che arretrò, armeggiando con la cintura per sfilare
l'inadeguato pugnale. Si guardò intorno, disperatamente, in cerca di qualcos'altro da usare come
arma: un bastone, qualsiasi cosa. Ma non c'era niente intorno, solo l'erba, il torrente che scorreva
veloce e gli alberi che allargavano i robusti rami sopra di loro, formando una rete di verde.
All'improvviso ricordò la Configurazione Malachi in cui l'Inquisitrice l'aveva intrappolato:
Sebastian non era l'unico in grado di saltare.
Sebastian fece un nuovo affondo, ma Jace non c'era più: aveva spiccato un grande balzo in verticale.
Il ramo più basso era a circa sei metri di altezza: lo afferrò a due mani e con uno slancio vi si issò
sopra. Dal ramo, vide Sebastian ruotare su se stesso e poi guardare in alto. Jace scagliò il pugnale e
Sebastian gridò. Con il fiato corto, si raddrizzò...
Un attimo dopo anche Sebastian era sul ramo. La faccia pallida era arrossata di rabbia, il braccio
con la spada perdeva sangue copiosamente. La spada gli era caduta sull'erba, ma questo serviva
soltanto a metterli alla pari, pensò Jace, visto che anche il suo pugnale era andato. Con una certa
soddisfazione, Jace notò che per la prima volta Sebastian appariva arrabbiato: arrabbiato e
sorpreso, come se il cagnolino che lui pensava ben addomesticato l'avesse morso.
— Divertente — sibilò Sebastian. — Ma adesso basta.
Si scagliò contro Jace, lo afferrò per la vita e lo buttò giù dal ramo. Caddero per sei metri,
avvinghiati, picchiandosi, e si schiantarono a terra così forte che Jace vide letteralmente le stelle.
Agguantò il braccio ferito di Sebastian e vi affondò le dita. Sebastian urlò e reagì tirandogli un
manrovescio in pieno viso. La bocca di Jace si riempì di sangue: tossì e sputò, mentre rotolavano
nella terra prendendosi a pugni.
Di colpo Jace sentì un'improvvisa sferzata di gelo: erano rotolati giù dalla riva del ruscello ed erano
finiti nell'acqua. Sebastian restò senza fiato e Jace colse l'occasione per prenderlo alla gola a due
mani e stringere. Sentendosi soffocare, Sebastian afferrò il polso destro di Jace e lo tirò indietro con
tanta forza da spezzarne le ossa. Jace si sentì urlare, come da lontano, e Sebastian approfittò del
vantaggio, torcendo senza pietà il polso rotto finché Jace non mollò la presa e cadde nell'acqua
gelida e fangosa. Tutto il braccio era un urlo di agonia.
Mezzo inginocchiato sul petto di Jace, un ginocchio affondato nelle costole, Sebastian ghignava. I
suoi occhi rilucevano, bianchi e neri, nel viso che era una maschera di terra e fango. Qualcosa
luccicava nella sua destra: il pugnale di Jace. Doveva averlo trovato per terra. La punta era sul cuore
dell'avversario.
— E ci ritroviamo esattamente dove eravamo cinque minuti fa — commentò Sebastian. — Hai
avuto la tua possibilità, Wayland. Hai da dire le tue ultime parole?
Jace lo fissò, la bocca piena di sangue, il sudore che gli bruciava negli occhi. Sentiva solo un senso
di vuoto e di totale sfinimento. Era davvero così che sarebbe morto? — Wayland? — disse. — Sai
benissimo che non è il mio nome.
— Né più né meno che il cognome Morgenstern — commentò Sebastian. Si abbassò, facendo
pressione sul pugnale. La punta forò la pelle di Jace, il suo corpo vibrò per una fitta di dolore
lancinante. La faccia di Sebastian era a pochi centimetri dalla sua, la voce un sussurro sibilante. —
Credevidavvero di essere figlio di Valentine? Credevi davvero che una cosa patetica e lamentosa
come te fosse degna di essere un Morgenstern, di essere mio fratello7. — Buttò indietro i capelli
bianchi: erano appesantiti dal sudore e dall'acqua del torrente. — Tu sei un figlio scambiato —
disse. — Mio padre ha squartato un cadavere per tirarti fuori e trasformarti in uno dei suoi
esperimenti. Ha cercato di allevarti come un figlio, ma eri troppo debole per essergli utile. Non
saresti mai diventato un guerriero. Non eri niente. Inutile. Così ti ha sbolognato ai Lightwood,
sperando che potessi tornargli utile in seguito, come specchietto per le allodole. O come esca. Non
ti ha mai voluto bene.
Jace batté le palpebre sugli occhi che bruciavano. — Allora tu...
— Io sono il figlio di Valentine. Jonathan Christopher Morgenstern. Tu non hai mai avuto alcun
diritto di portare questo nome. Tu sei un fantasma. Un falso. — I suoi occhi erano neri e luccicanti,
come il carapace di due insetti morti. E d'improvviso Jace sentì, come in sogno, la voce di sua
madre - anche se non era sua madre - che diceva: «Jonathan non è più un bambino. Non è più
nemmeno umano: è un mostro.»
— Allora sei tu! — esclamò Jace, soffocando nel sangue. — Sei tu che hai sangue di demone. Non
io!
— Esatto. — Il pugnale affondò di un altro millimetro nelle carni di Jace. Sebastian stava ancora
ghignando, ma era un sorriso fisso, da teschio. — Tu sei il bambino angelico. Ho dovuto sentire di
tutto sul tuo conto. Tu, con la tua bella faccina d'angelo e i tuoi modi gentili e i tuoi delicati,
delicatissimi sentimenti. Non riuscivi nemmeno a vedere un uccello morire senza metterti a
piangere. Per forza Valentine si vergognava di te.
— No. — Jace dimenticò il sangue che gli riempiva la bocca, dimenticò il dolore. — È di te che si
vergogna. Tu credi che non ti abbia voluto portare con sé al lago perché gli servivi qui per liberare i
demoni a mezzanotte? Come se non sapesse che non saresti riuscito ad aspettare. Non ti ha portato
con sé perché si vergogna a presentarsi al cospetto dell'Angelo e mostrargli che cosa ha fatto.
Mostrargli la cosa che ha creato. Mostrargli te. — Jace guardò in faccia Sebastian: sentiva una
terribile, trionfante pietà brillare nei suoi occhi. — Valentine sa benissimo che non c'è niente di
umano in te. Forse ti vuole bene, ma allo stesso tempo ti odia...
— Sta' zitto! — Sebastian spinse giù il pugnale, rigirandolo. Jace gridò inarcando la schiena e il
dolore gli esplose come un lampo dentro gli occhi. Sto per morire, pensò. Sto morendo. È finita. Si
chiese se il suo cuore fosse già stato trafitto. Non riusciva più a muoversi, non riusciva più a
respirare. Era come una farfalla infilzata con uno spillo e inchiodata a un quadro. Cercò di parlare,
cercò di pronunciare un nome, ma nulla uscì dalla sua bocca. Solo sangue.
E tuttavia Sebastian sembrò leggergli negli occhi. — Clary. Me n'ero quasi dimenticato. Tu sei
innamorato di lei, vero? La vergogna per i tuoi indegni impulsi incestuosi deve averti quasi ucciso.
Che peccato non aver saputo prima che Clary non è tua sorella. Avresti potuto passare il resto della
vita con lei, se solo non fossi così stupido. — Si abbassò ancora, affondando di più il pugnale, con
la lama che grattava contro l'osso. Parlò all'orecchio di Jace, con una voce bassa come un sussurro.
— Anche lei ti amava — le disse. — Ricordatelo, mentre muori.
L'oscurità invase il campo visivo di Jace, come un barattolo di colore rovesciato su una fotografia
che ne cancella le immagini. All'improvviso non ci fu più dolore. Jace non sentiva più niente,
nemmeno il peso di Sebastian sopra di sé. Era come galleggiare. La faccia di Sebastian scivolò su di
lui, bianca contro il buio, il pugnale in mano, sollevato. Qualcosa di dorato luccicò al polso di
Sebastian, come un braccialetto. Ma non era un braccialetto, perché si muoveva. Sebastian si guardò
la mano, sorpreso, allentò la presa e il pugnale gli cadde sulla terra fangosa con un piccolo tonfo.
Poi anche la mano, staccata dal polso, cadde a terra accanto ad esso.
Jace fissò meravigliato la mano tagliata di Sebastian che rimbalzava e si fermava contro un paio di
alti stivali neri. Gli stivali avvolgevano un paio di gambe eleganti, che salivano a un busto esile e a
un volto ben noto, circondato da una cascata di capelli neri. Jace sollevò lo sguardo e vide Isabelle,
la frusta grondante sangue, gli occhi inchiodati su Sebastian, che fissava il moncherino a bocca
aperta, incredulo.
Isabelle fece un sorriso cupo. — Questo era per Max, bastardo.
— Carogna! — sibilò Sebastian. Balzò in piedi nel momento stesso in cui la frusta di Isabelle calò
su di lui con fulminea rapidità. Sebastian si tuffò di lato e sparì. Ci fu un fruscio: doveva essersi
dileguato tra gli alberi, pensò Jace, ma gli faceva troppo male girare la testa per guardare.
— Jace! — Isabelle si inginocchiò sopra di lui, con lo stilo nella mano sinistra. I suoi occhi
brillavano di lacrime: doveva essere piuttosto malconcio, pensò Jace, per far piangere Isabelle.
— Isabelle — cercò di dire. Voleva dirle di andarsene, di scappare, perché, per quanto fosse
spettacolare e coraggiosa e piena di talento - e lei era tutte queste cose - non poteva competere con
Sebastian. Non c'era da sperare che si facesse fermare da una inezia come una mano tagliata. Ma
tutto quello che uscì dalla bocca di Jace fu una sorta di gorgoglio.
— Non parlare. — Sentì la punta dello stilo bruciare sulla pelle del petto. — Te la caverai. —
Isabelle gli fece un sorriso tremulo. — Ti starai chiedendo che diavolo ci faccio qui — gli disse. —
Non so quanto sai già, non so che cosa ti abbia rivelato Sebastian, ma tu non sei figlio di Valentine.
— L'iratze era quasi finito: Jace già sentiva il dolore affievolirsi. Annuì appena, cercando di
dirle: Lo so. — Comunque, non avevo intenzione di venirti a cercare, dopo che sei scappato, perché
nel tuo biglietto avevi scritto di non farlo, e questo l'avevo capito. Ma non potevo lasciarti morire
convinto di avere dentro di te sangue di demone, né senza dirti che non c'è niente che non va in te,
anche se, onestamente, non capisco come ti sia venuta in mente una cosa del genere... — La mano
le tremò. Isabelle si immobilizzò, non volendo rovinare la runa. — E bisognava che tu sapessi che
Clary non è tua sorella — riprese, più dolcemente.
— Perché... perché sì. Così ho chiesto a Magnus di aiutarmi a rintracciarti. Ho usato il soldatino di
legno che avevi regalato a Max. Non credo che Magnus l'avrebbe fatto, in circostanze normali, ma
diciamo che era di umore insolitamente buono, e forse gli ho anche detto che Alec voleva che lo
facesse... cosa tecnicamente non proprio vera, ma ci vorrà un po' di tempo prima che venga a
saperlo. E quando ho scoperto dov'eri, be'... Magnus aveva già aperto un Portale e io sono molto
brava a sgattaiolare via di nascosto...
Isabelle gridò. Jace cercò di allungare un braccio verso di lei, ma era troppo lontana, sollevata,
scagliata via. La frusta le sfuggì di mano. Si mise sulle ginocchia, ma Sebastian era già di fronte a
lei. I suoi occhi ardevano di rabbia e aveva un cencio insanguinato intorno al moncherino. Isabelle
si tuffò verso la frusta, ma Sebastian si mosse più rapidamente. Ruotò su se stesso e le sferrò un
calcio violento. Lo stivale la colpì sulla cassa toracica. Jace ebbe l'impressione di sentire le costole
di Isabelle che si rompevano, mentre lei volava a gambe all'aria, cadendo malamente su un fianco.
La sentì gridare di dolore - Isabelle, che non mostrava mai la propria sofferenza - quando Sebastian
la colpì con un altro calcio. Poi Sebastian raccolse la frusta e la brandì.
Jace rotolò su un fianco. L'iratze quasi completato era servito, ma il dolore al petto era ancora forte.
Con un certo distacco, Jace era anche consapevole che sputare sangue probabilmente significava
avere un polmone perforato. Non era sicuro di quanta autonomia gli restasse. Minuti,
probabilmente. Raccattò il pugnale lasciato cadere da Sebastian, accanto ai raccapriccianti resti
della sua mano. Barcollando, si rimise in piedi. L'odore del sangue era fortissimo. Pensò alla visione
di Magnus, al mondo trasformato in sangue, e la sua mano scivolosa si strinse sull'impugnatura del
pugnale.
Fece un passo avanti. Poi un altro. Ogni passo era come spostare i piedi nel cemento fresco. Isabelle
strillava insulti a Sebastian, che la frustava e rideva. Le sue grida attiravano Jace come un pesce
preso all'amo, ma a ogni passo le sentiva più flebili. Il mondo gli girava intorno come una giostra
del luna park.
Ancora un passo, si disse Jace. Ancora uno. Sebastian gli voltava le spalle, era concentrato su
Isabelle. Probabilmente pensava che Jace fosse già morto. E ci mancava poco. Un passo, si disse.
Ma non ci riuscì, non riusciva più a muoversi, non riusciva più a costringersi a trascinare i piedi,
nemmeno per un altro passo. L'oscurità stava invadendo i margini del suo campo visivo, un'oscurità
più profonda di quella del sonno, un nero che avrebbe cancellato ogni cosa Jace avesse visto, che
l'avrebbe portato a un riposo assoluto. Pacificante. Pensò all'improvviso a Clary: Clary come l'aveva
vista l'ultima volta, addormentata, coi capelli sul cuscino e le mani sotto la guancia. Aveva pensato
allora che mai in vita sua aveva visto qualcosa di più pacifico. Ma naturalmente Clary stava solo
dormendo, come chiunque altro potrebbe dormire. Non era stata la pace di Clary a sorprenderlo, ma
la propria. La pace che sentiva quando era con lei era qualcosa che non aveva mai conosciuto
prima.
Il dolore gli sferzò la schiena. Si rese conto con sorpresa che in qualche modo, senza una sua
precisa volontà, le sue gambe avevano fatto quell'ultimo passo cruciale. Sebastian aveva il braccio
indietro, la frusta in mano. Isabelle era riversa sull'erba, accartocciata su se stessa. Non gridava più,
non si muoveva più. — Piccola bastarda — stava dicendo Sebastian. — Avrei dovuto spaccarti la
faccia con quel martello quando potevo farlo.
Jace levò il pugnale e lo affondò nella schiena di Sebastian.
Sebastian barcollò in avanti e la frusta gli cadde di mano. Si girò lentamente e guardò Jace. Lui
pensò, con un lontano senso di orrore, che forse Sebastian non era veramente umano, che forse,
dopotutto, era impossibile ucciderlo.
La faccia era vuota, ogni ostilità sparita, come il fuoco nero era sparito dai suoi occhi. Non
somigliava più a Valentine, adesso. Era... spaventato.
Aprì la bocca, come per dirgli qualcosa, ma le ginocchia gli cedettero. Crollò al suolo e con la forza
dell'impatto rotolò lungo la sponda del fiume e finì nell'acqua. Si fermò sulla schiena, gli occhi
spalancati verso un cielo che non potevano più vedere. L'acqua scorreva intorno a lui, striata del suo
sangue.
Mi insegnò che nella schiena di un uomo c'è un punto dove, se ci affondi una lama, puoi bucargli il
cuore e spezzargli la spina dorsale in un colpo solo, aveva detto Sebastian. A quanto pare abbiamo
ricevuto lo stesso regalo di compleanno quell'anno, pensò Jace. Vero, fratellone?
— Jace! — Era Isabelle. Aveva la faccia insanguinata e stava cercando di mettersi a sedere.
— Jace!
Jace cercò di voltarsi verso di lei, cercò di dire qualcosa, ma non aveva più le parole. Cadde
lentamente sulle ginocchia. Un peso immenso gli schiacciava le spalle e la terra lo stava chiamando
a sé: giù, giù, giù. A malapena riconobbe la voce di Isabelle che gridava il suo nome, mentre il buio
lo portava via.
Simon era un veterano di molte battaglie. Purché si contassero anche quelle di Dungeons &
Dragons. Il suo amico Eric era l'appassionato di storia militare, mentre Simon era quello che
organizzava la parte del gioco relativa alla guerra, con decine di minuscoli soldatini che avanzavano
allineati su un paesaggio pianeggiante disegnato sui rotoli di carta da disegno.
Lui le battaglie le aveva sempre pensate così. Oppure come nei film, con due gruppi di uomini che
avanzavano gli uni contro gli altri su una vasta pianura. Linee rette e schieramenti ordinati.
Ma lì non era così.
Regnava il caos. Era una mischia di urla e di azione, e lo scenario non era una vasta pianura, ma un
ammasso di fango e di sangue in un impasto denso e instabile. Simon aveva immaginato che i Figli
della Notte si sarebbero incamminati verso il campo di battaglia e che qualche comandante li
avrebbe accolti; aveva immaginato di vedere la battaglia da lontano, di vedere i due eserciti
scontrarsi. Ma non ci furono accoglienze, né eserciti schierati. La battaglia gli piombò addosso dalle
tenebre, come se, da una stradina deserta, avesse girato l'angolo e si fosse trovato in mezzo a una
rissa a Times Square. D'improvviso, ci furono ammassi di persone intorno a lui, mani che
l'afferravano, che lo spingevano via... E i vampiri si tuffarono nella mischia in ordine sparso, senza
voltarsi indietro nemmeno una volta.
E c'erano demoni, demoni dappertutto. Simon non avrebbe mai immaginato le urla, i fischi, i
grugniti... E, peggio ancora, il suono degli strappi, delle lacerazioni, della famelica soddisfazione.
Desiderò poter spegnere il suo udito di vampiro, ma non poteva: i suoni erano come coltelli
conficcati nei padiglioni auricolari.
Inciampò su un corpo riverso nel fango, si girò per vedere se poteva essere d'aiuto e si accorse che
lo Shadowhunter ai suoi piedi, dal petto in su non esisteva più. Le sue ossa bianche luccicavano
contro la terra scura e, nonostante la sua natura vampiresca, Simon ne fu nauseato. Devo essere
l'unico vampiro al mondo che si sente male alla vista del sangue, pensò. Poi qualcosa lo colpì forte
alle spalle e Simon cadde, scivolando da un pendio fangoso in una fossa.
Non era l'unico corpo, in quella fossa. Rotolò sulla schiena e in quell'attimo il demone gli balzò
addosso. Era come l'immagine della Morte in un'incisione medievale: uno scheletro vivente con la
falce insanguinata stretta nella mano ossuta. Simon rotolò su un fianco e la lama calò a pochi
centimetri dalla sua faccia. Lo scheletro emise una sorta di fischio pieno di delusione e levò di
nuovo la falce.
Ma venne colpito su un fianco da un nodoso bastone. Lo scheletro esplose come una pinata di
cartapesta piena di ossa invece che di dolci. Le ossa rotolarono con un suono di nacchere, poi
sparirono nel buio.
Uno Shadowhunter si avvicinò a Simon. Era uno che Simon non aveva mai visto: alto, barbuto e
imbrattato di sangue. Si passò una mano sporca sulla fronte, guardandolo. La mano lasciò una
striatura scura sulla pelle. — Stai bene?
Stordito, Simon annuì e iniziò ad alzarsi in piedi — Grazie.
Lo sconosciuto si chinò e gli porse una mano per tirarlo su. Simon accettò... e si trovò a volare fuori
dalla fossa. Atterrò in piedi sull'orlo, scivolando sul fango umido. Lo sconosciuto gli fece un sorriso
imbarazzato. — Scusa. Forza di Nascosto: il mio compagno è un lupo mannaro. Non ci sono ancora
abituato. — Poi guardò meglio Simon. — Tu sei un vampiro, vero?
— Come fai a saperlo?
L'uomo sorrise. Era un sorriso stanco, ma non c'era nulla di ostile. — I denti. Vi escono, quando
combattete. Lo so perché... — S'interruppe. Simon avrebbe potuto completare lui la frase: Lo so
perché ne ho uccisi parecchi, di voi. — E comunque... grazie. Per aver accettato di combattere con
noi.
— Io... — Simon stava per dire che, in senso stretto, non aveva ancora combattuto, né contribuito in
alcun modo, in realtà. Si voltò per dirglielo, ma riuscì a pronunciare una sola parola, prima che
qualcosa di enorme, con grandi artigli e ali sfilacciate, piombasse giù dal cielo e affondasse gli
unghioni nella schiena dello Shadowhunter.
L'uomo non ebbe nemmeno il tempo di gridare. La testa scattò verso l'alto, come per la sorpresa,
come per chiedersi che cosa lo avesse afferrato, e poi sparì, trascinato via nel cielo nero e vuoto in
un turbinio di zanne e ali. La sua mazza cadde a terra ai piedi di Simon.
Simon rimase immobile. Tutto questo, dal momento in cui era caduto nella fossa, era accaduto in
meno di un minuto. Si girò, stordito, guardandosi intorno: lame mulinanti nel buio, laceranti artigli
di demoni, punti di luce che correvano qua e là nell'oscurità come lucciole nella boscaglia... Poi
capì di cosa si trattava: i bagliori delle spade angeliche.
Non vedeva i Lightwood, né i Penhallow, né Luke... nessuno di quelli che conosceva. Lui non era
uno Shadowhunter. Eppure quell'uomo lo aveva ringraziato per aver deciso di combattere con loro.
Quello che Simon aveva detto a Clary era vero: quella era anche la sua battaglia e lì c'era bisogno
anche di lui. Non del Simon mondano, che era gentile e un po' imbranato e non sopportava la vista
del sangue, ma del Simon vampiro, una creatura che lui stesso conosceva a malapena.
Un vero vampiro sa di essere morto, gli aveva detto Raphael. Ma Simon non si sentiva affatto
morto. Anzi, non si era mai sentito così vivo. Si girò e si trovò davanti a un demone che incombeva
su di lui: era una specie di lucertola squamato, con denti da roditore. Piombò su Simon con gli
artigli neri protesi.
Simon saltò. Colpì il fianco imponente della cosa, vi si aggrappò, affondò le unghie. Le squame
cedettero sotto la sua presa. Il marchio sulla fronte pulsò, quando affondò i denti nel collo del
demone.
Aveva un sapore davvero schifoso.
Quando tutti i vetri furono caduti, rimase un ampio squarcio nel soffitto, largo qualche metro, come
se vi fosse caduto un meteorite. Vi entrava aria gelida. Tremando, Clary si rialzò in piedi,
spolverandosi i frammenti di vetro dai vestiti.
La stregaluce che aveva illuminato la Sala si era spenta. Ora c'era buio all'interno, un buio denso di
ombre e di polvere. La lieve illuminazione del Portale che ormai stava svanendo nella piazza era
appena visibile dalle porte aperte della Sala.
Probabilmente non era più sicuro restare lì dentro, pensò Clary. Era meglio tornare dai Penhallow e
stare con Aline. Fece per attraversare la Sala e uscire, quando sentì risuonare dei passi sul
pavimento di marmo. Con il cuore in gola, si girò e vide Malachi, una lunga, esile ombra nella
semioscurità, diretto a grandi passi verso il podio. Ma che cosa ci faceva, lì? Non avrebbe dovuto
essere con gli altri Shadowhunters sul campo di battaglia?
Mentre Malachi si avvicinava al podio, Clary notò qualcosa che le fece portare le mani alla bocca
per soffocare un'esclamazione di sorpresa. C'era una sagoma scura e ingobbita appollaiata sulla
spalla di Malachi. Un volatile. Un corvo, per la precisione.
Hugo.
Clary si nascose dietro una colonna, mentre Malachi saliva i gradini del podio. C'era qualcosa di
inequivocabilmente furtivo nel suo modo di guardarsi intorno. Apparentemente rassicurato,
credendosi solo e inosservato, estrasse da una tasca qualcosa di piccolo e luccicante e se lo infilò al
dito. Un anello? Malachi lo fece girare intorno al dito e Clary ricordò Hodge nella biblioteca
dell'Istituto, che sfilava l'anello dal dito di Jace.
L'aria davanti a Malachi vibrò lievemente, come per un intenso calore. Una voce parlò da quel
punto: aveva un che di familiare, fredda, raffinata, ora sfumata da una lievissima irritazione.
— Che cosa c'è, Malachi? Non ho tempo per le chiacchiere, ora.
— Valentine, mio signore — esordì Malachi. La sua solita ostilità era stata sostituita da un tono
viscidamente ossequioso. — Hugin è venuto da me neanche un attimo fa, portando delle notizie. Ho
immaginato che tu fossi già allo Specchio, e che per questo Hugin avesse cercato me. Ho pensato
che avresti voluto essere informato.
Il tono di Valentine era tagliente. — Molto bene. Che notizie ci sono?
— Si tratta di tuo figlio, mio signore. L'altro tuo figlio. Hugin l'ha seguito nella valle della grotta.
Potrebbe persino averti seguito attraverso i tunnel fino al lago.
Clary si aggrappò alla colonna. Le nocche erano bianche. Stavano parlando di Jace.
Valentine grugnì. — Ha incontrato suo fratello?
— Hugin dice che stavano combattendo quando lui è partito.
Clary si sentì rovesciare lo stomaco. Jace che combatteva con Sebastian? Pensò a come Sebastian
aveva sollevato Jace alla Guardia, a come lo aveva scaraventato via, come se non pesasse niente.
Un'ondata di panico la travolse, così intensa che per un momento le ronzarono le orecchie.
Quando la stanza tornò a fuoco, Clary si rese conto di essersi persa la risposta di Valentine a
Malachi.
— Sono quelli abbastanza grandi da essere marchiati, ma non abbastanza grandi per combattere,
che mi preoccupano — stava dicendo Malachi. — Loro non hanno votato nel Consiglio. Sembra
ingiusto punirli allo stesso modo in cui dovranno essere puniti coloro che stanno combattendo.
— Ci ho pensato. — La voce di Valentine era cupa e profonda. — Poiché gli adolescenti ricevono
marchi più leggeri, impiegheranno più tempo a trasformarsi in Dimenticati. Parecchi giorni, a dir
poco. Ma sono sicuro che si tratta di un processo reversibile.
— Mentre chi di noi ha bevuto dalla Coppa Mortale rimarrà del tutto illeso, non è così?
— Ho da fare, Malachi — disse Valentine. — Ti ho già detto che sarai al sicuro. Ho dedicato tutta la
mia vita a questo progetto. Abbi fiducia.
Malachi chinò la testa. — Io ho grande fiducia, mio signore. L'ho sempre avuta, per molti anni, in
silenzio, servendoti sempre.
— E verrai ricompensato — replicò Valentine.
Malachi alzò gli occhi. — Mio signore...
Ma l'aria non vibrava più. Valentine se n'era andato. Malachi aggrottò la fronte, poi scese i gradini
del podio e si avviò a grandi passi verso la porta. Clary si appiattì contro la colonna, sperando
disperatamente di non essere vista. Il cuore le batteva all'impazzata. Che cos'era successo? Cos'era
quella storia dei Dimenticati? La risposta sfavillava in un angolo della sua mente, ma sembrava
troppo orribile da contemplare. Nemmeno Valentine avrebbe potuto...
Qualcosa, nero e vorticoso, le volò in faccia. Clary ebbe appena il tempo di alzare le braccia per
proteggersi gli occhi, che subito qualcosa le graffiò il dorso delle mani. Sentì un gracchiare feroce,
ali che sbattevano contro i suoi polsi alzati.
— Hugin! Basta! — Era la voce secca di Malachi. — Hugin! — Ci fu un altro gracchio e poi un
tonfo. Poi, silenzio. Clary abbassò le braccia e vide il corvo immobile ai piedi del Console: stordito
o morto, non avrebbe saputo dire. Con un ringhio, Malachi levò di mezzo il corvo con un calcio
feroce e si avvicinò a Clary, furente. Le afferrò un polso sanguinante e la tirò su in piedi. — Stupida
ragazza — disse. — Da quanto tempo stai origliando?
— Abbastanza da sapere che sei uno del Circolo — ribatté Clary, torcendo il polso nella sua stretta.
Ma lui non la lasciò andare. — Tu sei dalla parte di Valentine.
— C'è solo una parte. — La voce di Malachi era un sibilo. — Il Conclave è stupido, fuori strada,
pronto a compiacere mostri e mezzi uomini. Io voglio solo renderlo puro, farlo tornare alla sua
gloria originaria. Un obiettivo che tutti gli Shadowhunters dovrebbero condividere, a rigor di logica.
E invece no: danno ascolto agli sciocchi e agli amanti dei demoni, come il tuo Lucian Graymark. E
adesso avete mandato il fior fiore dei Nephilim a morire in questa ridicola battaglia. .. Un gesto
vuoto, che non porterà a niente. Valentine ha già iniziato il Rituale: fra poco l'Angelo sorgerà dalle
acque del lago e tutti i Nephilim diventeranno Dimenticati. Tutti, tranne i pochi che sono sotto la
protezione di Valentine.
— Ma è uno sterminio! Valentine vuole sterminare gli Shadowhunters!
— Non è uno sterminio — rispose il Console. La sua voce risuonò di fanatica passione. — È
pulizia. Valentine creerà un nuovo mondo di Shadowhunters, un mondo purgato da ogni debolezza e
corruzione.
— La debolezza e la corruzione non sono nel mondo! — ritorse Clary. — Sono nelle persone. E sarà
sempre così. Il mondo ha bisogno di gente buona per controbilanciare la debolezza e la corruzione.
E voi volete ucciderli tutti.
Malachi la guardò un momento, onestamente sorpreso, come stupito dalla forza del suo pensiero. —
Belle parole, per una ragazzina che è pronta a tradire suo padre. — Malachi la avvicinò a sé con uno
strattone, tirandola brutalmente per il polso sanguinante. — Chissà cosa penserebbe Valentine, se ti
insegnassi...
Ma Clary non scoprì mai che cosa volesse insegnarle Malachi. Una sagoma scura sfrecciò tra di
loro, le ali aperte e gli artigli protesi.
Il corvo colpì Malachi con un artiglio, scavandogli un solco sanguinante sulla faccia. Con un grido,
il Console lasciò Clary e alzò le braccia, ma Hugo era già tornato indietro e si accaniva su di lui a
colpi di becco e di artigli. Malachi arretrò barcollando, agitando le braccia. Urtò contro lo spigolo di
una panca con violenza, facendola rovesciare. Sbilanciato, cadde insieme con la panca con un grido
soffocato... che s'interruppe bruscamente.
Clary corse da lui. Malachi giaceva accartocciato sul pavimento di marmo e una pozza di sangue
già si allargava intorno a lui. Era caduto su un cumulo di vetri del soffitto infranto e una scheggia
appuntita gli si era conficcata in gola. Hugo si librava ancora nell'aria, volando in cerchio sul suo
corpo. Lanciò un gracchio trionfante: evidentemente non aveva apprezzato i calci e i pugni del
Console. Malachi avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di aggredire una delle creature di
Valentine, pensò con amarezza Clary, fissando il suo corpo. Il corvo non era disposto a perdonare
più di quanto lo fosse il suo padrone.
Ma non c'era tempo per pensare a Malachi. Alec aveva detto che c'erano delle difese intorno al lago
e che, se qualcuno vi fosse arrivato da un Portale, sarebbe scattato un allarme. Valentine era
probabilmente già allo Specchio: non c'era tempo da perdere. Clary indietreggiò con cautela per
allontanarsi dal corvo, poi si voltò e corse verso l'ingresso della Sala, verso il bagliore del Portale
che si apriva nella piazza.
capitolo 20
PESATO SULLA BILANCIA
L, acqua la colpì in faccia come un pugno. Clary affondò annaspando in una gelida oscurità: il suo
primo I pensiero fu che il Portale si fosse irreparabilmente dissolto mentre lei si trovava
imprigionata in un luogo di mezzo, nero e vorticoso, dove sarebbe soffocata e morta. Jace le aveva
detto che poteva succedere, la prima volta che lei aveva usato un Portale.
Il suo secondo pensiero fu di essere già morta.
Probabilmente perse conoscenza solo per qualche secondo, anche se a lei sembrò la fine di tutto.
Quando tornò in sé accadde di colpo, e la sensazione fu quella di essere passata attraverso una lastra
di ghiaccio che si era improvvisamente spezzata. Un attimo prima era priva di conoscenza, e un
attimo dopo era cosciente: era distesa sulla schiena sulla terra umida e fredda e fissava un cielo
pieno di stelle, simili a una manciata di frammenti d'argento gettati su una superficie scura. Aveva la
bocca piena di liquido salmastro. Voltò la testa di lato e tossì, sputò, rantolò, finché non riuscì a
respirare di nuovo.
Quando il suo stomaco non ebbe più spasmi, Clary rotolò su un fianco. Aveva i polsi legati insieme
da una sottile fascia di luce e si sentiva le gambe pesanti, strane, tutte formicolanti. Forse erano
rimaste schiacciate sotto il peso del corpo, pensò, o forse quello era un effetto collaterale del
semiannegamento. La nuca le bruciava come se l'avesse punta una vespa. Con uno sforzo, sollevò il
busto e si mise a sedere, con le gambe tese avanti, in una posizione alquanto insolita. Si guardò
intorno.
Si trovava sulla riva del lago Lyn, in un punto in cui l'acqua cedeva il posto a una sabbia sottile.
Una parete nera di roccia si ergeva alle sue spalle: la ricordava, da quando era arrivata lì con Luke.
Anche la sabbia era scura, luccicante di mica. Qua e là sulla sabbia c'erano torce di stregaluce che
riempivano l'aria di un bagliore argenteo, disegnando un ricamo di riflessi luminosi sulla superficie
dell'acqua.
Vicino alla riva del lago, a un passo da lei, c'era un tavolo basso fatto di pietre piatte impilate l'una
sull'altra. Era stato chiaramente costruito in fretta: anche se gli spazi tra una pietra e l'altra erano
stati sigillati con sabbia umida, diverse pietre erano storte e fuori squadra. Sul ripiano c'era un
oggetto che fece trasalire Clary: la Coppa Mortale. E sopra la Coppa, appoggiata di traverso, c'era la
Spada Mortale, una lingua di nera fiamma nella stregaluce. Tutto intorno all'altare c'erano rune
disegnate nella sabbia. Clary le osservò, ma erano confuse, senza senso.
Un'ombra passò veloce sulla sabbia: l'ombra lunga e nera di un uomo, resa vaga e ondeggiante dalla
luce guizzante delle torce. Quando Clary sollevò la testa, l'uomo le era già accanto.
Valentine.
Lo shock fu tale che Clary non sentì quasi nessuno shock: non sentì nulla, quando alzò gli occhi
verso suo padre. Il suo volto si stagliava contro il cielo nero, come una luna: bianco, austero,
scavato dagli occhi neri come crateri di meteoriti. Sulla camicia si intrecciavano varie cinture, alle
quali erano fissate molte armi: gli spuntavano da dietro la schiena come le spine di un porcospino.
Sembrava incredibilmente grande, enorme, la statua terrificante di un dio guerriero, un dio della
distruzione.
— Clarissa — le disse. — Hai corso un grosso rischio, facendoti trasportare qui da un Portale. Sei
stata fortunata, perché ti ho visto apparire nell'acqua all'improvviso. Eri svenuta. Se non fosse stato
per me, saresti annegata. — Un muscolo di fianco alla bocca guizzò lievemente. — E non mi
preoccuperei troppo per le difese innalzate dal Conclave intorno al lago. Le ho neutralizzate nel
momento in cui sono arrivato. Nessuno sa che sei qui.
Non ti credo! Clary aprì la bocca per sputargli in faccia queste parole, ma non ne uscì alcun suono.
Era come in quegli incubi in cui si cerca di urlare e urlare e non succede niente. Solo uno sbuffo
d'aria secca uscì dalle sue labbra, il singulto di una persona che cerca di gridare con la gola tagliata.
Valentine scosse la testa. — Non sforzarti di parlare. Ho usato una runa di quiete, come quelle che
usano i Fratelli Silenti. Ce l'hai sulla nuca. In più hai una runa vincolante sui polsi e una runa
invalidante sulle gambe. Non proverei ad alzarmi in piedi, se fossi in te: le gambe non ti reggeranno
e ti faresti solo del male.
Clary lo guardò in cagnesco, cercando di fulminarlo con gli occhi, di tagliarlo con il suo rancore.
Ma Valentine non se ne accorse nemmeno. — Poteva andarti peggio, sai? Quando ti ho tirato a riva,
il veleno del lago aveva già iniziato ad agire. Ti ho curata io, tra parentesi. Non che mi aspetti un
ringraziamento da te... — Accennò un sorriso. — Io e te non abbiamo mai fatto una conversazione,
vero? Non una vera conversazione. Forse ti starai chiedendo perché non ho mai dimostrato un
interesse paterno per te. Mi dispiace se questo ti ha ferito.
Ora lo sguardo di Clary passò dall'odio all'incredulità. Come avrebbero potuto fare una
conversazione, se lei non poteva dire una parola? Cercò di far uscire questo pensiero, ma nulla salì
dalla sua gola, se non un filo di fiato.
Valentine si avvicinò all'altare e posò la mano sulla Spada Mortale. L'arma emise un bagliore nero,
una specie di luce al contrario, come se succhiasse la luce dall'aria intorno. — Non sapevo che tua
madre fosse incinta di te, quando mi lasciò. — Le stava parlando, pensò Clary, come non aveva mai
fatto prima. Il tono era calmo, quasi stesse facendo una chiacchierata, ma non era così. — Sapevo
che c'era qualcosa che non andava. Lei credeva di riuscire a nascondermi la sua infelicità. Presi del
sangue di Ithuriel, lo seccai, lo polverizzai, glielo mescolai al cibo, pensando che questo potesse
guarirla dalla sua infelicità. Se avessi saputo che era incinta, non l'avrei fatto. Avevo già deciso di
non fare più esperimenti su un bambino del mio stesso sangue.
Stai mentendo, avrebbe voluto gridargli Clary. Ma non ne era sicura. Valentine continuava a usare
un tono strano, diverso. Forse perché stava dicendo la verità.
— Quando fuggì da Idris, la cercai per anni — raccontò. — E non solo perché aveva la Coppa
Mortale, ma perché l'amavo. Se solo fossi riuscito a parlarle, pensavo che avrei potuto farla
ragionare. Quello che feci, quella notte ad Alicante, lo feci in un attacco di rabbia, per distruggerla,
distruggere tutto della nostra vita insieme. Ma poi... — Scosse la testa, girandosi a guardare il lago,
— quando finalmente la rintracciai, sentii dire che aveva avuto una figlia. Immaginai che tu fossi
figlia di Lucian. Lui l'aveva sempre amata, aveva sempre voluto portarmela via, e pensai che alla
fine tua madre avesse ceduto, accettando di avere un figlio da un immondo Nascosto. — La sua
voce si fece più tesa. — Quando la trovai, nel vostro appartamento a New York, era ancora
abbastanza cosciente. Mi accusò di aver fatto del suo primo figlio un mostro. Mi disse che mi aveva
lasciato prima che potessi fare lo stesso anche con il secondo. Poi mi si accasciò tra le braccia. Anni
di ricerche, e guarda cosa ricevevo da lei. Pochi secondi in cui mi guardò con l'odio di tutta una
vita. In quel momento ho capito una cosa.
Sollevò Mellartach. Clary ricordò quanto fosse pesante la Spada, quando ancora il Rituale non era
stato completato. E quando la lama si sollevò, vide gonfiarsi i muscoli del braccio di Valentine, sodi
e tesi come funi serpeggianti sotto la pelle.
— Ho capito — proseguì Valentine — che la ragione per cui mi lasciò fu di proteggere te. Jonathan
lo odiava, ma per te... avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di proteggerti. Di proteggerti da me. Arrivò
persino a vivere tra i mondani, e so quanto dev'esserle costato. Le sarà pesato moltissimo non
poterti trasmettere tutte le nostre tradizioni. Tu sei la metà di ciò che avresti potuto essere. Hai un
enorme talento con le rune, che però è stato sciupato dalla tua educazione mondana.
Abbassò la Spada. La punta ora era vicina alla faccia di Clary, la quale, con la coda dell'occhio, la
vedeva aleggiare ai margini del suo campo visivo come una falena d'argento.
— Ho capito allora che, per causa tua, Jocelyn non sarebbe mai tornata da me. Tu sei l'unica cosa al
mondo che lei abbia mai amato più di me. Per colpa tua lei mi odia. E per questo io odio te. Non
sopporto neppure di vederti.
Clary distolse lo sguardo. Se Valentine voleva ucciderla, lei non voleva veder arrivare la morte.
— Clarissa — disse Valentine. — Guardami.
No. Clary fissava il lago. Lontano, sull'acqua, vedeva un pallido bagliore rossastro, come un fuoco
soffocato dalla cenere. Sapeva che erano le luci della battaglia. Anche sua madre era là, anche Luke.
Forse era giusto che fossero insieme, anche se lei non era con loro.
Terrò gli occhi fissi su quella luce, pensò. Continuerò a fissarla, qualunque cosa accada. Sarà
l'ultima cosa che vedrò.
— Clarissa — ripetè Valentine. — Tu sei uguale a lei, lo sai? Uguale a Jocelyn.
Clary sentì un dolore acuto contro la guancia. Era la lama della Spada. Valentine gliela stava
premendo contro la pelle, cercando di costringerla a girare la testa verso di lui.
— Ora evocherò l'Angelo — disse. — E voglio che tu assista.
Clary aveva un gusto amaro in bocca. So perché sei così ossessionato da mia madre. Lei era l'unica
cosa sulla quale pensavi di avere un controllo assoluto e invece ti si è rivoltata contro e ti ha
morso. Tu credevi di possederla e invece non era così. Per questo la vorresti qui, ora, perché sia
testimone della tua vittoria. Per questo ti accontenterai di me.
La lama morse più a fondo la guancia. Valentine disse: — Guardami, Clary.
Clary ubbidì. Non avrebbe voluto farlo, ma il dolore era troppo forte: la testa le girò di scatto verso
di lui, quasi contro la sua volontà. Il sangue le scendeva sulla guancia in grosse gocce che
macchiavano la sabbia. Un dolore nauseante la prese quando sollevò la testa per guardare suo padre.
Lui stava osservando la lama di Mellartach. Anch'essa era macchiata del sangue di Clary. Quando
tornò a guardarla, c'era una strana luce nei suoi occhi. — È necessario del sangue per completare
questa cerimonia — le spiegò Valentine. — Intendevo usare il mio, ma quando ho visto te nel lago,
ho capito che era il modo di Raziel per dirmi di usare quello di mia figlia. Per questo ho purificato il
tuo sangue dal veleno del lago. Ora sei pura e pronta. Quindi, grazie, Clarissa, per il tuo sangue.
In qualche modo, pensò Clary, era sincero nella sua gratitudine. Valentine aveva perso da tempo la
capacità di distinguere tra costrizione e collaborazione, tra paura e disponibilità, tra affetto e
tormento. E quando capì questo, Clary provò una sorta di torpore: che senso aveva odiare Valentine
perché era un mostro, se lui nemmeno se ne rendeva conto?
— E ora — disse Valentine — me ne serve un altro po'. — E Clary pensò: Un altro po' di cosa?
Valentine sollevò alta la Spada e la luce delle stelle scintillò riflessa dalla lama. Clary pensò: Ma
certo. Non è solo sangue che vuole, ma morte. La Spada aveva bevuto abbastanza sangue, ormai:
probabilmente ci aveva preso gusto, come Valentine. Gli occhi di Clary seguirono la luce nera di
Mellartach che calava su di lei...
... e volava via. Sfuggita alla presa di Valentine, la Spada roteò nel buio. Valentine sgranò gli occhi.
Il suo sguardo si abbassò sulla mano sanguinante, poi si sollevò e vide, nello stesso momento in cui
lo vide Clary, chi gli aveva strappato di mano la Spada Mortale.
Era Jace. Brandiva nella mano sinistra una spada dall'aria familiare e si ergeva su un cumulo di
sabbia, a un passo da Valentine. Clary capì, dall'espressione di Valentine, che non l'aveva sentito
arrivare. Come lei, del resto.
Quando lo vide, il suo cuore si fermò. Aveva sangue secco incrostato sul lato della faccia e un segno
rosso vivo sulla gola. I suoi occhi brillavano come specchi e sembravano neri, nella stregaluce, neri
come quelli di Sebastian. — Clary — disse Jace, senza togliere gli occhi di dosso a suo padre. —
Clary, stai bene?
Jace! Clary si sforzò di pronunciare il suo nome, ma nulla riusciva a superare il blocco che aveva in
gola. Si sentiva soffocare.
— Non può risponderti — gli disse Valentine. — Non può parlare.
Gli occhi di Jace balenarono. — Che cosa le hai fatto? — Puntò la spada contro Valentine, che fece
un passo indietro. L'espressione era attenta, ma non spaventata. C'era un calcolo, nei suoi occhi, che
a Clary non piaceva affatto. Clary sapeva che avrebbe dovuto provare un senso di trionfo, ma non
era così. Anzi, si sentiva più nel panico di prima. Prima aveva capito che Valentine stava per
ucciderla, e l'aveva accettato. Ma ora c'era Jace, e la sua paura si era amplificata per accogliere
anche lui. E lui aveva un'aria così... distrutta! La tenuta da battaglia era strappata: sul braccio, dove
si vedevano le linee bianche delle cicatrici che si intersecavano sulla pelle, e sul petto, dove c'era
un iratze che stava svanendo, all'altezza del cuore, senza aver ancora cancellato la profonda ferita
sottostante. Jace era sporco di terra, come se si fosse rotolato in un campo appena arato. Ma era la
sua espressione a spaventarla di più. Era così... fosca.
— È solo una runa di quiete. Non le farà alcun male. — Gli occhi di Valentine erano fissi su Jace.
Erano famelici, pensò Clary, come se si abbeverasse della sua presenza.
— Immagino — disse Valentine — che tu non sia venuto qui per assistermi nel Rituale, vero? Per
essere benedetto dall'Angelo accanto a me.
L'espressione di Jace non cambiò. I suoi occhi erano fissi sul padre adottivo e non c'era niente
dentro: nessun brandello residuo di affetto o di amore o di ricordo. Non c'era nemmeno rancore.
Solo disprezzo, pensò Clary. Un gelido disprezzo. — So che cos'hai in mente di fare — gli disse
Jace.
— So perché vuoi evocare l'Angelo. E io non te lo permetterò. Ho già mandato Isabelle a dare
l'allarme all'esercito.
— Gli allarmi non serviranno a niente. Questo non è il tipo di pericolo dal quale si possa scappare.
— Lo sguardo di Valentine si posò rapidamente sulla spada di Jace. — Mettila giù — iniziò. —
Possiamo parlare. — Poi s'interruppe. — Quella non è la tua spada. È una spada dei Morgenstern.
Jace sorrise: un sorriso dolce e cupo. — Era di Jonathan. Ora è morto.
Valentine lo fissava attonito. — Vuoi dire che...
— L'ho raccolta da terra, dove l'aveva lasciata cadere — disse Jace senza alcuna emozione — dopo
averlo ucciso.
Valentine sembrava senza parole. — Tu hai ucciso Jonathan? Com'è possibile?
— Lui avrebbe ucciso me — rispose Jace. — Non avevo altra scelta.
— Non volevo dire questo. — Valentine scosse la testa: sembrava ancora stordito, come un pugile
colpito troppo forte, un attimo prima di crollare al tappeto. — Ho allevato io Jonathan. L'ho
addestrato personalmente. Non c'erano guerrieri migliori di lui.
— Evidentemente — commentò Jace — uno c'era.
— Ma...— La voce di Valentine si spezzò. Era la prima volta che Clary sentiva un'incrinatura, nella
facciata liscia e imperturbabile di quella voce. — Ma era tuo fratello.
— No. Non era mio fratello. — Jace fece un passo avanti, avvicinando la spada a un'unghia dal
cuore di Valentine. — Che cos'è successo al mio vero padre? Isabelle dice che è morto in un raid,
ma è la verità? O l'hai ucciso tu, come hai ucciso mia madre?
Valentine era sempre più sgomento. Clary percepì che stava lottando per recuperare il controllo... o
forse contro il dolore? O era solo paura di morire? — Io non ho ucciso tua madre. Si è tolta la vita
da sé. Io ti ho strappato dal suo corpo morto. Se non l'avessi fatto, saresti morto con lei.
— Ma perché? Perché l'hai fatto? Non avevi bisogno di un figlio: ne avevi già uno! — Jace, nella
luce della luna, aveva un'aria letale, letale e aliena, sconosciuta agli occhi di Clary. La mano che
teneva la spada alla gola di Valentine era fermissima. — Dimmi la verità — gli intimò. — Basta
bugie sul fatto che siamo fatti della stessa carne e dello stesso sangue. Sono i genitori, che mentono
ai figli, ma tu... tu non sei mio padre. E io voglio la verità.
— Non era di un figlio che avevo bisogno — confessò Valentine — ma di un soldato. Credevo che
Jonathan potesse essere quel soldato, ma la sua natura demoniaca era troppo forte. Lui era troppo
feroce, troppo impulsivo, la sua intelligenza non era abbastanza sottile. Già allora, appena uscito
dalla prima infanzia, temevo che non avrebbe mai avuto la pazienza e la sensibilità per seguirmi,
per governare il Conclave seguendo i miei passi. Così provai di nuovo con te. E con te ebbi il
problema opposto. Tu eri troppo delicato. Troppo empatico. Sentivi il dolore degli altri come se
fosse tuo, non riuscivi nemmeno a sopportare la morte dei tuoi animali domestici. Capiscimi,
figliolo: io ti amavo per questo. Ma ciò che più amavo di te, ti rendeva inutile ai miei scopi.
— Quindi pensavi che fossi debole e inutile — commentò Jace. — Allora immagino che resterai
molto sorpreso, quando questo tuo figlio debole e inutile ti taglierà la gola.
— È una scena che abbiamo già visto. — La voce di Valentine era ferma, ma a Clary parve di
vedere il sudore brillargli sulle tempie e intorno alla gola. — Non lo faresti mai. Non hai voluto
farlo a Renwick e non vuoi farlo adesso.
— Ti sbagli. — Jace parlò in tono misurato. — Mi pento ogni giorno di non averti ucciso quella
volta, di averti lasciato scappare. Mio fratello Max è morto perché io non ti ho ucciso quel giorno.
Decine, forse centinaia di persone sono morte perché io ho fermato la mia mano. Ora conosco il tuo
piano. So che speri di massacrare ogni Shadowhunter di Idris. E mi chiedo: quante persone
dovranno morire, prima che io faccia ciò che avrei dovuto fare sull'isola di Blackwell? No —
concluse Jace. — Io non voglio ucciderti. Ma lo farò.
— Non farlo — lo supplicò Valentine. — Ti prego. Non voglio...
— Morire? Nessuno vuole morire, padre. — La punta della spada di Jace scivolò più in basso, e poi
ancora più in basso, fino a fermarsi sul cuore di Valentine. Il viso di Jace era calmo, il volto era
quello di un angelo che somministrava la giustizia divina. — Hai qualcosa da dire prima di morire?
— Jonathan...
Il sangue macchiò la camicia di Valentine dov'era appoggiata la punta della spada. Con gli occhi
della mente
Clary rivide Jace a Renwick, la mano che gli tremava, che non voleva ferire suo padre. E Valentine
che lo provocava. Infilami dentro quella lama. Dieci centimetri, o anche di più... Ora non era così.
La mano di Jace era ferma. E Valentine aveva paura.
— Ultime parole — sibilò Jace. — Ne hai?
Valentine alzò la testa. I suoi occhi neri, mentre osservava il ragazzo, erano gravi. — Mi dispiace —
disse. — Mi dispiace tanto. — Tese una mano, come per avvicinarla a Jace, come per toccarlo: la
mano si girò a palmo in su, le dita si aprirono... e ci fu un bagliore argenteo. Qualcosa volò davanti
a Clary nell'oscurità, come un proiettile sparato, da un fucile. Clary sentì lo spostamento d'aria sulla
guancia e un attimo dopo la cosa era nella mano di Valentine: una lunga lingua di fuoco argenteo
che emanò un bagliore oscuro quando Valentine la brandì e la calò con forza.
Era la Spada Mortale. Lasciò un ricamo di luce nera nell'aria, quando Valentine l'affondò nel cuore
di Jace.
Jace sgranò gli occhi, con un'espressione di incredula confusione sul volto. Abbassò lo sguardo al
petto, dal quale Mellartach spuntava in modo grottesco: era una vista più bizzarra che orribile, come
un oggetto apparso di colpo in un incubo, senza alcun senso logico. Valentine ritrasse la mano,
strappando la Spada dal petto di Jace, come avrebbe potuto sfilare un pugnale dal fodero. Come se
fosse stata la lama a sorreggerlo, Jace si piegò sulle ginocchia. La sua spada gli scivolò di mano e
cadde sulla terra umida. Lui la guardò, perplesso, come se non avesse idea del perché l'avesse tenuta
in pugno, né del perché l'avesse lasciata cadere. Aprì la bocca come per fare quella domanda, e il
sangue traboccò, macchiando quello che rimaneva della sua camicia stracciata.
Tutto il resto accadde lentissimamente agli occhi di Clary, come se il tempo si fosse dilatato. Vide
Valentine inginocchiarsi a terra e prendere Jace tra le braccia, come se fosse un bambino, leggero da
sorreggere. Lo strinse a sé, lo cullò, chinò il capo e lo appoggiò alla spalla del ragazzo. Clary pensò
per un momento che stesse piangendo, ma quando Valentine sollevò il capo, i suoi occhi erano
asciutti. — Mio figlio — sussurrò. — Il mio ragazzo.
Il terribile rallentamento del tempo si avvinse intorno a Clary come un cappio, mentre Valentine
stringeva Jace al petto e gli scostava dalla fronte i capelli insanguinati. Lo sorresse finché non morì
e la luce si spense nei suoi occhi. Poi ne distese delicatamente il corpo sulla sabbia, gli incrociò le
mani sul petto, come a nascondere la ferita aperta e sanguinante. — Ave... — iniziò. Voleva forse
pronunciare per Jace le parole di addio degli Shadowhunters, ma gli si spezzò la voce. Allora si girò
bruscamente e si avvicinò all'altare.
Clary non riusciva a muoversi. A malapena riusciva a respirare. Sentiva battere il cuore, sentiva il
fiato grattare nella gola riarsa. Con la coda dell'occhio vedeva Valentine in piedi sulla riva del lago:
il sangue gocciolava dalla lama di Mellartach nella Coppa Mortale. Recitava parole che Clary non
capiva. Ma non le importava capire. Tutto quanto sarebbe finito molto presto e lei ne era quasi
contenta. Si chiese se avesse abbastanza energia per trascinarsi vicino a Jace, se potesse riuscire a
distendersi accanto a lui in attesa che tutto finisse. Lo vedeva sulla sabbia smossa e insanguinata,
inerte, gli occhi chiusi, il viso immobile. Se non fosse stato per lo squarcio sul petto, Clary avrebbe
potuto pensare che era addormentato.
Ma non era così. Jace era uno Shadowhunter, era morto in battaglia; meritava l'ultimo saluto. Ave
atque vale. Le labbra di Clary sillabarono le parole, che però uscirono in muti sbuffi di fiato. Ma a
metà della frase s'interruppe, trattenendo il fiato. Che cosa avrebbe dovuto dire? Ave atque vale,
Jace Wayland? Quel nome non gli apparteneva veramente. Jace non aveva mai avuto un nome,
pensò Clary con strazio, gli era stato dato il nome di un bambino morto, perché all'epoca questo
tornava utile agli scopi di Valentine. E c'era tanto potere, in un nome.
Clary girò di scatto la testa e fissò l'altare. Le rune tutt'in-torno cominciavano a brillare. Erano rune
di evocazione, rune di nominazione, rune vincolanti. Non diverse dalle rune che avevano tenuto
Ithuriel prigioniero, nella cantina sotterranea dei Wayland. Ora, contro la propria volontà, Clary
pensò a come Jace l'aveva guardata allora, alla luce di fiducia nei suoi occhi, alla fede che aveva in
lei. Jace l'aveva sempre ritenuta una ragazza forte. E glielo aveva dimostrato in ogni sua azione, in
ogni sguardo e in ogni carezza. Anche Simon aveva fiducia in lei. Tuttavia, quando l'aveva stretta
tra le braccia l'aveva fatto come se Clary fosse fragile, come se fosse fatta di delicatissimo cristallo.
Jace, invece, l'aveva stretta tra le braccia con tutta la forza che aveva, senza mai chiedersi se Clary
fosse in grado di sopportare quella pressione: sapeva che era forte quanto lui.
Intanto Valentine stava immergendo la Spada insanguinata nelle acque del lago, recitando parole
veloci, a voce bassa. La superficie si stava increspando, come se una gigantesca mano la stesse
sfiorando con le dita.
Clary chiuse gli occhi. Ripensando a come Jace l'aveva guardata, la notte in cui aveva liberato
Ithuriel, non poteva non immaginare come l'avrebbe guardata in quel momento, se l'avesse vista
cercare di avvicinarsi a lui per morire insieme sulla sabbia. Non ne sarebbe stato commosso, non
l'avrebbe ritenuto un bel gesto. Si sarebbe arrabbiato, vedendola arrendersi. Sarebbe stato
profondamente... deluso.
Clary si sdraiò per terra e si mise a strisciare lentamente sulla sabbia, trascinandosi dietro le gambe
morte, spingendosi con le ginocchia e le mani legate. Il nastro di luce intorno ai polsi bruciava e
pungeva. Le si strappò la camicia: la sabbia le grattava la pelle nuda del petto, ma Clary se ne
accorse appena. Era faticoso trascinarsi così, e il sudore le colava lungo la schiena, tra le scapole.
Quando finalmente raggiunge il cerchio di rune, ansimava così forte che temette che Valentine
potesse sentirla.
Ma lui non si girò nemmeno. Aveva la Coppa Mortale in una mano e la Spada nell'altra. Sollevò la
mano destra e la portò indietro, pronunciò diverse parole che sembravano greco e scagliò la Coppa
nel lago. La Coppa brillò come una stella cadente precipitando verso l'acqua, poi svanì sotto la
superficie con un tonfo lieve.
Il cerchio di rune emanava un lieve calore, come un fuoco coperto dalla cenere. Clary dovette
contorcersi e lottare per arrivare con la mano allo stilo che portava alla cintura. Il dolore ai polsi fu
lancinante, quando le sue dita vi si chiusero intorno. Lo sfilò con un soffocato singulto di sollievo.
Non poteva separare i polsi, per cui impugnò goffamente lo stilo a due mani e si tirò su, facendo
leva sui gomiti. Osservò le rune. Ne sentiva il calore sul viso: erano luminose come se fossero di
stregaluce. Valentine teneva la Spada Mortale sospesa a mezz'aria ed era pronto a scagliarla nel
lago. Stava recitando le ultime parole dell'incantesimo di evocazione. Con un ultimo impeto di
forza, Clary posò la punta dello stilo nella sabbia: non cancellò le rune che
Valentine aveva disegnato, ma tracciò altri segni sopra di esse, scrivendo una nuova runa sopra
quella che simboleggiava il nome di Valentine. Era una runa così piccola, pensò, un cambiamento
così minimo. Nulla in confronto all'immensa potenza della runa dell'alleanza, nulla in confronto al
Marchio di Caino.
Ma era il massimo che aveva la forza di fare. Esausta, Clary rotolò su un fianco, e proprio in quel
momento Valentine portò indietro il braccio e scagliò nel lago la Spada Mortale.
Mellartach roteò nell'aria: una macchia nera e argentea che penetrò nel lago, nero e argenteo, senza
rumore. Un pennacchio si levò dal punto in cui la Spada era affondata, una fioritura d'acqua color
platino. Il pennacchio salì sempre più in alto, come un geyser d'argento fuso, come uno scroscio di
pioggia a rovescio. Ci fu un gran fragore, un suono di ghiaccio spezzato, di un ghiacciaio infranto.
Poi il lago sembrò deflagrare e l'acqua argentea esplose verso il cielo come una grandinata al
contrario.
E con la grandine l'Angelo sorse dalle acque del lago. Clary non sapeva che cosa aspettarsi:
qualcosa di simile a Ithuriel, forse, ma Ithuriel era stato consumato da anni di prigionia e tormenti.
Questo era un Angelo nel pieno della sua gloria. Quando sorse dalle acque, i suoi occhi iniziarono
ad ardere. E fu come guardare nel sole.
Le mani di Valentine erano cadute lungo i fianchi. Guardava l'Angelo con espressione rapita, come
un uomo che veda il suo sogno più grande diventare realtà. — Raziel — sussurrò.
L'Angelo continuò a salire, come se il lago sprofondasse sotto i suoi piedi, rivelando una grandiosa
colonna di marmo al centro. Prima emerse dalle acque la testa, con i capelli grondanti, come catene
d'argento e d'oro. Poi emersero le spalle, bianche come la pietra, e il torso nudo. E Clary vide che
l'Angelo aveva il corpo coperto di rune, proprio come i Nephilim, ma le sue erano dorate e vive, si
muovevano sulla sua pelle candida come scintille che schizzano dalle fiamme di un fuoco. In
qualche modo, l'Angelo appariva al contempo enorme e non più grande di un uomo: gli occhi di
Clary dolevano nel tentativo di contemplarlo nella sua interezza e tuttavia non potevano vedere che
lui. Levandosi dalle acque, le ali dell'Angelo s'aprirono sulla schiena e si distesero ampie sopra il
lago: anch'esse d'oro e piumate, con un occhio vigile e dorato incastonato in ogni piuma.
Era meraviglioso e terrificante. Clary avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non lo fece. Voleva
vedere tutto. Voleva vedere anche per Jace, perché lui non poteva.
È come in tutte le raffigurazioni, pensò Clary. L'Angelo che sorgeva dalle acque del lago, la Spada
in una mano e la Coppa nell'altra, entrambe grondanti d'acqua. Ma Raziel era perfettamente
asciutto, le ali nemmeno inumidite. I suoi piedi, candidi e nudi, posavano sulla superficie del lago
creando sulle acque piccole increspature. Il suo volto, bellissimo e non umano, si rivolse verso
Valentine.
Poi, l'Angelo parlò.
La sua voce fu come un pianto e un grido e una musica nello stesso tempo. Non conteneva parole,
tuttavia era perfettamente comprensibile. La forza del suo fiato rischiò di rovesciare Valentine, che
affondò i tacchi degli stivali nella sabbia e chinò la testa, come se stesse camminando contro un
vento fortissimo. Clary sentì il fiato dell'Angelo passare su di lei: un vento incandescente come
l'aria di una fornace, profumato di spezie misteriose e sconosciute.
Sono passati mille anni da quando fui chiamato in questo luogo, disse Raziel. Fu Jonathan
Shadowhunter a evocare la mia presenza, allora. Mi pregò di mescolare il mio sangue con il
sangue dei mortali in una Coppa per creare una razza di guerrieri che avrebbero liberato questa
terra dai demoni. Feci ciò che mi chiese e gli dissi che non avrei fatto di più. Perché dunque mi hai
chiamato, Nephilim!
La voce di Valentine era intensa. — Mille anni sono passati, o Glorioso, ma i demoni sono ancora
qui.
E questo che cosa può valere per me! Mille anni per un angelo passano in un battito di ciglio.
— I Nephilim che tu hai creato erano una razza potente di uomini. Per molti anni hanno combattuto
valorosamente per liberare questa terra dalla macchia dei demoni. Ma hanno fallito, a causa della
debolezza e della corruzione che si sono diffuse nei loro ranghi. Io intendo riportarli alla loro gloria
primigenia.
Gloria! L'Angelo sembrò vagamente incuriosito, come se la parola risuonasse strana al suo
orecchio. La gloria appartiene a Dio soltanto.
Valentine non vacillò. — Il Conclave, così come lo crearono i primi Nephilim, non esiste più. Essi
si sono alleati con i Nascosti, non umani macchiati dai demoni, che infestano questo mondo come le
pulci sulla carogna di un ratto. È mia intenzione purificare questo mondo, distruggere tutti i
Nascosti insieme a tutti i demoni.
I demoni non possiedono anima. Ma le creature di cui tu parli, i Figli della Luna, della Notte, di
Lilith, e il Popolo Fatato, sono tutti dotati di anima. A quanto pare le tue regole su cosa costituisca
o non costituisca un essere umano sono più severe delle nostre. Clary avrebbe giurato che la voce
dell'Angelo avesse assunto un tono più secco. Intendi sfidare il cielo come la Stella del Mattino di
cui porti il nome, Shadowhunter!
— Non sfidare il cielo. No, mio signore Raziel. Bensì allearmi con il cielo.
In una guerra che hai voluto tu! Noi siamo il cielo, Shadowhunter. Noi non combattiamo nelle
vostre battaglie mondane.
Quando Valentine tornò a parlare, sembrava quasi ferito. — Mio signore, Raziel. Di certo non
avresti permesso un rituale con il quale potevi essere evocato se non fosse stata
tua intenzione essere evocato. Noi Nephilim siamo tuoi figli. Abbiamo bisogno della tua guida.
Guida! Ora l'Angelo sembrava divertito. Non mi pare che tu mi abbia chiamato per questo.
Piuttosto, è per la tua fama personale.
— Fama? — ripetè Valentine con voce roca. — Io ho dato tutto per questa causa. Mia moglie. I
miei figli. Non ho risparmiato nemmeno i miei figli. Ho dato tutto ciò che ho per questo... Tutto.
L'Angelo rimase fermo sull'acqua, osservando Valentine con quei suoi strani occhi non umani. Le
sue ali si muovevano lente e pigre, come il passaggio delle nuvole nel cielo. Alla fine disse: Dio
chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio su un altare molto simile a questo, per vedere chi
Abramo amasse di più, se Isacco o Dio stesso. Ma nessuno ti ha mai chiesto di sacrificare tuo
figlio, Valentine.
Valentine abbassò lo sguardo sull'altare ai suoi piedi, macchiato del sangue di Jace, e poi tornò a
guardare l'Angelo. — Se dovrò, io ti costringerò a farlo — disse. — Ma preferirei avere la tua
collaborazione spontanea.
Quando Jonathan Shadowhunter mi chiamò, disse l'Angelo, io gli diedi il mio aiuto, perché vedevo
che il suo sogno di un mondo libero dai demoni era sincero. Egli immaginava un paradiso su
questa terra. Ma tu sogni soltanto la tua gloria e non ami il cielo. Mio fratello Ithuriel ne è la
conferma.
Valentine sbiancò. — Ma...
Credevi che non lo sapessi! L'Angelo sorrise. Fu il sorriso più terribile che Clary avesse mai
visto. È vero che il signore del cerchio che tu hai disegnato può impormi un'unica azione. Ma non
sei tu, il signore di quel cerchio.
Valentine sgranò gli occhi. — Mio signore, Raziel... non c'è nessun altro...
Sì, invece, replicò l'Angelo. C'è tua figlia.
Valentine si girò di scatto. Clary, mezza svenuta sulla sabbia, con un tormento delirante ai polsi e
alle braccia, ricambiò con sfida il suo sguardo. Per un momento i loro occhi si incrociarono... e
Valentine la guardò. La guardò per davvero, e Clary si rese conto che, per la prima volta, suo padre
la guardava in faccia e la vedeva. La prima e unica volta.
— Clarissa — le disse. — Che cosa hai fatto?
Clary allungò la mano e con un dito tracciò dei segni sulla sabbia. Non disegnò rune, ma parole:
quelle che lui stesso aveva pronunciato quando aveva visto ciò che sua figlia era in grado di fare,
quando aveva disegnato la runa che aveva distrutto la sua nave.
Mene mene tekel upharsin.
Valentine sgranò gli occhi, proprio come Jace aveva sgranato i suoi prima di morire. Era diventato
bianco come un cencio. Si girò lentamente verso l'Angelo, sollevando le mani in un gesto di
supplica. — Mio signore, Raziel...
L'Angelo aprì la bocca e sputò. O almeno così parve a Clary. Le sembrò di vederlo sputare e dalla
bocca dell'Angelo vide uscire un fulmine di fuoco bianco, come una freccia ardente, che volò dritta
e sicura sopra le acque del lago e andò a conficcarsi nel petto di Valentine. Ma forse "conficcarsi"
non era la parola giusta: gli squarciò il petto, come un sasso scagliato contro un foglio di carta
velina, e lasciò un foro fumante grande come un pugno. Per un attimo Clary, guardando in su, potè
vedere attraverso il petto di suo padre il lago e la luce infuocata dell'Angelo.
Il momento passò. Come un albero abbattuto, Valentine si schiantò a terra e lì rimase, immobile, la
bocca aperta in un grido muto, gli occhi ciechi spalancati per sempre in un'espressione di incredulo
tradimento.
Questa è la giustizia del cielo. Confido che tu non sia sgomenta.
Clary alzò gli occhi. L'Angelo si librò sopra di lei come una torre di fiamme bianche, oscurando il
cielo. La sua voce era uno scontro di montagne.
Tu puoi obbligarmi a compiere un'azione, Clarissa Morgenstern. Che cosa vuoi da me?
Clary aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
Ah, sì, disse l'Angelo, e ora c'era gentilezza nella sua voce. La runa. I molti occhi delle sue ali
batterono le palpebre. Qualcosa sfiorò Clary: qualcosa di morbido, più delicato della seta o di
qualsiasi altro tessuto, più dolce di un sussurro o del tocco di una piuma. Era come Clary
immaginava che fossero le nuvole, se le nuvole avessero avuto la trama di un tessuto. Un lieve
profumo arrivò con il tocco, gradevole, inebriante e dolce.
Il dolore svanì dai suoi polsi. Non più legate insieme, le mani le ricaddero lungo i fianchi. Sparì
anche il pizzicore dietro la nuca, come pure la pesantezza delle gambe. Clary si mise in ginocchio.
Più di qualsiasi altra cosa, voleva strisciare sulla sabbia insanguinata verso il corpo di Jace,
trascinarsi fino a lui e sdraiarsi al suo fianco e stringerlo in un abbraccio, anche se Jace non c'era
più. Ma la voce dell'Angelo la avvinceva, e Clary rimase dov'era, fissando la sua luce brillante e
dorata.
La battaglia nella pianura di Brocelind sta volgendo al termine. Il potere di Morgenstern sopra i
suoi demoni è svanito con la sua morte. Molti demoni già stanno fuggendo e gli altri verranno
presto distrutti. In questo stesso momento alcuni Nephilim stanno cavalcando verso le rive di
questo lago. Se hai una richiesta, Shadowhunter, esprimila adesso. L'Angelo tacque. E ricorda che
non sono un genio. Scegli con saggezza il tuo desiderio.
Clary esitò un momento, un lunghissimo momento. Avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa, pensò
frastornata, qualsiasi cosa: la fine di ogni sofferenza, o della fame nel mondo, o delle malattie,
oppure la pace sulla terra. Forse, però, quelle cose non potevano essere concesse da un angelo,
altrimenti sarebbero già state concesse. Forse erano gli uomini che dovevano trovarle, da soli.
C'era solo una cosa che Clary avrebbe potuto chiedere, alla fine: un'unica scelta vera.
Sollevò gli occhi verso l'Angelo.
— Jace — disse.
L'espressione dell'Angelo non mutò. Clary non potè capire se la sua richiesta fosse buona o cattiva,
agli occhi dell'Angelo, o se, pensò con un improvviso moto di panico, lui volesse esaudirla.
Chiudi gli occhi, Clarissa Morgenstern, le disse l'Angelo.
Clary ubbidì. Non si diceva di no a un Angelo, indipendentemente da quello che aveva in mente di
fare. Col cuore che batteva, Clary rimase a librarsi nel buio dietro le palpebre chiuse, cercando
risolutamente di non pensare a Jace.
Ma il suo volto le apparve ugualmente, contro lo schermo vuoto delle palpebre: non le sorrideva,
ma guardava di lato, e Clary vedeva la cicatrice sulla tempia, la piega irregolare all'angolo della
bocca, la linea d'argento sulla gola, dove Simon l'aveva morso: tutti i segni e le imperfezioni che
distinguevano la persona che Clary amava di più al mondo. face. Una luce brillante illuminò di
scarlatto il suo campo visivo e Clary cadde riversa sulla sabbia. Stava per svenire? Stava per
morire? Ma lei non voleva morire, non adesso che aveva visto il volto di Jace così nitido davanti ai
suoi occhi. Le sembrò quasi di sentirne la voce che pronunciava il suo nome, come l'aveva
sussurrato a Renwick, tante e tante volte. Clary. Clary. Clary.
— Clary — ripetè Jace. — Apri gli occhi.
Clary li aprì.
Era distesa sulla sabbia, nei suoi vestiti strappati, bagnati e insanguinati. Come prima. Ma,
diversamente da prima, l'Angelo era sparito, e con lui la bianca luce accecante che aveva illuminato
a giorno la notte. Clary ora vedeva il cielo notturno, le bianche stelle che come frammenti di
specchio brillavano nel nero. E, chino su di lei, la luce dei suoi occhi più brillante di qualsiasi altra
stella, c'era Jace.
Gli occhi di Clary si abbeverarono alla sua vista, alla vista di ogni parte di lui: i capelli arruffati, la
faccia sporca e insanguinata, gli occhi luminosi dietro gli strati di sporcizia; e le ferite visibili
attraverso gli strappi nelle maniche, lo strappo aperto e zuppo di sangue della camicia, dal quale
traspariva la pelle nuda. Ma non c'era alcun segno, alcuna ferita, a mostrare dov'era penetrata la
Spada. Clary vide le vene pulsare nella sua gola e per poco non gli buttò le braccia al collo, perché
questo significava che il suo cuore batteva ancora e che...
— Sei vivo — sussurrò Clary. — Vivo per davvero.
Con lenta meraviglia, Jace le sfiorò il volto. — Ero nel
buio — le disse a bassa voce. — Non c'erano che ombre, io stesso ero un'ombra, e sapevo che ero
morto e tutto era finito, tutto quanto. Poi ho sentito la tua voce. Ti ho sentito pronunciare il mio
nome, ed è stato questo a riportarmi indietro.
— Non sono stata io. — Clary aveva la gola stretta. - È stato l'Angelo a riportarti indietro.
— Perché tu glielo hai chiesto. — In silenzio, Jace percorse il profilo di Clary con le dita, come per
accertarsi che fosse vera. — Potevi avere qualunque altra cosa al mondo, ma hai voluto me.
Lei gli sorrise. Sporco com'era, coperto di sangue e di terra, Jace era la cosa più bella che avesse
mai visto. — Ma io non voglio nient'altro al mondo.
A queste parole, la luce negli occhi di Jace, già brillante, arse così intensamente che Clary quasi non
riuscì a reggere il suo sguardo.
Ripensò all'Angelo che ardeva come mille torce e pensò che Jace aveva in sé un po' di quello stesso
sangue incandescente, di quel fuoco che ora brillava attraverso i suoi occhi come una luce dalla
fessura di una porta.
"Io ti amo" avrebbe voluto dirgli. E anche: "Lo rifarei di nuovo. Chiederei sempre di avere te". Ma
non furono queste le parole che disse.
— Tu non sei mio fratello — gli disse invece, quasi senza fiato, come se, essendosi resa conto di
non averglielo ancora detto, ora non riuscisse a dirglielo abbastanza in fretta. — Tu lo sai, vero?
Lievemente, dietro lo sporco e il sangue, Jace sorrise. — Sì — le disse. — Lo so.
epilogo
NEL CIELO, TRA LE STELLE
Ti amavo, perciò ho sospinto queste fiumane d'uomini
tra le mie mani e ho scritto la mia volontà nel cielo, tra le stelle.
(T.E. LAWRENCE)
Il fumo saliva in una lenta spirale, tracciando delicati fili neri nell'aria limpida. Jace, solo, sulla
collina che si affacciava al cimitero, sedeva coi gomiti sulle ginocchia e guardava le volute levarsi
verso il cielo. Non mancò di cogliere l'ironia della cosa: quelli, dopotutto, erano i resti di suo padre.
Dal punto in cui era seduto vedeva il catafalco, oscurato dalla cortina fumosa e dalle fiamme, e il
piccolo gruppo che assisteva alla cerimonia. Riconobbe i capelli rossi di Jocelyn, e Luke, accanto a
lei, che le teneva una mano sulla schiena. Jocelyn aveva la testa girata di lato, per non vedere la pira
che ardeva.
Jace avrebbe potuto far parte del gruppo, se avesse voluto. Aveva passato gli ultimi due giorni in
ospedale e l'avevano dimesso solo quella mattina, per permettergli di partecipare al funerale di
Valentine. Si era incamminato verso la pira, una catasta di legna privata della corteccia, bianca
come ossa, ma, arrivato a metà strada, si era accorto di non poter proseguire oltre. Si era girato e si
era incamminato su per la collina, lontano dalla processione funebre. Luke lo aveva chiamato, ma
Jace non si era non meno voltato.
Era rimasto seduto a guardare la gente che si raccoglieva intorno al catafalco, aveva visto Patrick
Penhallow negli abiti bianchi del lutto dare fuoco alla legna. Era la seconda volta, quella settimana,
che Jace vedeva bruciare un corpo, ma quello di Max era piccolo da spezzare il cuore, mentre
Valentine era un uomo massiccio, anche ora che era disteso sulla schiena, con le braccia incrociate
sul petto e una spada angelica stretta nel pugno. Aveva gli occhi bendati da una fascia di seta bianca,
come da tradizione. L'avevano trattato bene, pensò Jace, nonostante tutto.
Sebastian non era stato sepolto. Una squadra di Shadowhunters era tornata nella valle, ma non
avevano trovato il corpo: portato via dalla corrente del fiume, avevano detto a Jace, anche se lui
aveva i suoi dubbi.
Aveva cercato Clary tra le persone intorno al catafalco, ma non c'era. Erano passati quasi due giorni
dall'ultima volta che l'aveva vista, al lago Lyn, e ne sentiva la mancanza con un senso di vuoto quasi
fisico. Non era stata colpa di Clary, se non si erano più visti. La notte della battaglia si era
preoccupata per lui, perché temeva che fosse troppo debole per sopportare il trasporto dal lago ad
Alicante attraverso il Portale, e alla fine aveva avuto ragione. Quando i primi Shadowhunters li
avevano raggiunti, Jace stava scivolando in uno stato di stordimento e incoscienza. Si era risvegliato
il giorno dopo nell'ospedale della città. Accanto a lui c'era Magnus Bane, che lo osservava dall'alto
con una strana espressione: poteva essere di grande preoccupazione o di pura curiosità. Era difficile
capire, con Magnus. Lo stregone gli aveva spiegato che l'Angelo l'aveva guarito nel corpo, ma il suo
spirito e la sua mente erano così sfiniti che solo un lungo riposo li avrebbe potuti sanare. In ogni
caso, ora Jace si sentiva meglio. Giusto in tempo per il funerale.
Si era alzato il vento, che soffiava il fumo della pira lontano da lui. Sullo sfondo, si vedevano le
torri luccicanti di Alicante, tornate alla gloria primigenia. Jace non sapeva bene che cosa sperava di
ottenere, restando lì seduto a guardare il corpo di suo padre che bruciava, né sapeva che cosa
avrebbe detto, se fosse stato laggiù, con coloro che pronunciavano le ultime parole di saluto per
Valentine. «Tu non sei mai stato veramente mio padre» avrebbe potuto dire. Oppure: «Tu sei stato
l'unico padre che io abbia mai avuto». Entrambe le affermazioni erano ugualmente vere, per quanto
contraddittorie.
Quando aveva riaperto gli occhi, al lago, sapendo in qualche modo di essere stato morto e di non
esserlo più, l'unico suo pensiero era stato per Clary, riversa a poca distanza da lui sulla sabbia
insanguinata, con gli occhi chiusi. Si era precipitato da lei, in preda al panico, pensando che potesse
essere ferita, forse persino morta... E quando Clary aveva riaperto gli occhi, l'unico suo pensiero era
stato che era viva. Solo dopo che erano arrivati gli altri, che l'avevano aiutato a rialzarsi, che
avevano commentato la scena con stupore, Jace aveva visto il corpo di Valentine accartocciato
vicino alla riva del lago, ed era stato come un pugno nello stomaco. Sapeva che era morto, e lui
stesso l'avrebbe ucciso, eppure la vista del suo cadavere era stata dolorosa. Clary aveva guardato
Jace con la tristezza negli occhi, e lui aveva capito che sebbene odiasse Valentine e non avesse
alcuna ragione per non odiarlo, capiva il senso di perdita di Jace.
Jace socchiuse gli occhi e un'ondata di immagini gli invase l'interno delle palpebre: Valentine che lo
sollevava dall'erba e lo stringeva in un grande abbraccio, Valentine che lo teneva fermo sulla prua di
una barca in mezzo a un lago, mostrandogli come restare in equilibrio, insieme ad altre, più cupe
memorie: la mano di Valentine che lo colpiva sulla faccia, un falco morto, l'angelo in catene nella
cantina dei Wayland.
— Jace.
Alzò lo sguardo. C'era Luke accanto a lui, in piedi, una sagoma nera che si stagliava contro il sole.
Indossava i suoi soliti jeans e la camicia di flanella: nessuna concessione al bianco del lutto. — È
finita — gli disse Luke. — La cerimonia. È stata breve.
— Già. — Jace affondò le dita nel terreno, accogliendo con piacere il contatto doloroso con la terra.
— Qualcuno ha detto qualcosa?
— Le solite parole. — Luke si sedette accanto a lui con una lieve smorfia di dolore. Jace non gli
aveva chiesto niente della battaglia: non voleva sapere. Sapeva che era finita molto più rapidamente
di quanto ci si aspettasse: dopo la morte di Valentine, i demoni erano fuggiti nella notte come una
densa foschia dissolta dal calore del sole. Ma questo non significava che non ci fossero state
vittime. Valentine non era stato l'unico ad essere sepolto ad Alicante, in quei due giorni.
— E Clary non ha... voglio dire, non è...
— ... venuta al funerale? No, non ha voluto. — Jace sentì lo sguardo sghembo di Luke su di sé. —
Tu non l'hai più vista, dal...
— No, dal lago non l'ho più vista — disse Jace. — Mi hanno fatto uscire adesso dall'ospedale,
perché dovevo venire qui.
— Non era una cosa che dovevi fare — commentò Luke.
— Volevo farlo — ammise Jace. — Non so come potrei essere giudicato.
— I funerali sono per i vivi, Jace, non per i morti. Valentine era tuo padre, più che il padre di Clary,
anche se non avevi il suo stesso sangue. Sei tu quello che deve prendere commiato da lui. Sei tu
quello che ne sentirà la mancanza.
— Non credevo di potermi permettere di sentire la sua mancanza.
— Tu non ha mai conosciuto Stephen Herondale — gli fece notare Luke. — E quando arrivasti da
Robert Lightwood eri già quasi un ragazzo. Valentine è stato tuo padre per tutta la tua
infanzia. Dovresti sentire la sua mancanza.
— Continuo a pensare a Hodge — disse Jace. — Su alla Guardia. Continuavo a chiedergli perché
non mi aveva mai detto chi ero (allora credevo di essere in parte demone) e lui continuava a ripetere
che era perché non lo sapeva. Pensavo che mentisse, ma ora so che non era così. Era una delle
pochissime persone che sapevano la faccenda di un neonato Herondale sopravvissuto. Quando mi
presentai all'Istituto, Hodge non aveva idea di quale dei due figli di Valentine io fossi, se quello vero
o quello adottivo. Avrei potuto essere entrambi. Il demone o l'angelo. E penso che non l'abbia mai
saputo, almeno finché non ha visto Jonathan alla Guardia. Per questo, Hodge ha cercato comunque
di fare del suo meglio con me, in tutti quegli anni, fino al ritorno di Valentine. Ci vuole qualcosa di
simile alla fede, per questo, non ti pare?
— Sì — disse Luke. — Lo penso anch'io.
— Secondo Hodge, l'educazione poteva fare la differenza, a prescindere dal sangue. Io continuo a
pensare questo: se fossi rimasto con Valentine, se lui non mi avesse mandato dai Lightwood, sarei
diventato come Jonathan? È così che sarei adesso?
— È importante? — chiese Luke. — Tu sei ciò che sei ora. E se vuoi saperlo, io credo che Valentine
ti abbia mandato dai Lightwood perché pensava che fosse l'opportunità migliore per te. Forse aveva
anche altri motivi, ma non dimenticare che ti ha mandato da una famiglia che poi ti ha amato e
cresciuto con amore. Potrebbe essere una delle poche cose buone che Valentine ha fatto per
qualcuno.
— Gli diede una pacca sulle spalle, un gesto così paterno che quasi fece sorridere Jace. — Non me
ne dimenticherei, se fossi in te.
Clary, in piedi davanti alla finestra di Isabelle, guardava il fumo chiazzare il cielo sopra Alicante,
come ditate su un vetro pulito. Quel giorno bruciavano il corpo di Valentine, lo sapeva: bruciavano
suo padre, nella necropoli appena fuori le porte della città.
— Sai della festa di stasera, vero? — Clary si girò e vide Isabelle, alle sue spalle, che teneva in
mano due vestiti, uno blu e uno grigio acciaio, appoggiandoseli al corpo.
— Quale mi metto?
Per Isabelle, pensò Clary, i vestiti sarebbero sempre stati una buona terapia. — Quello blu.
Isabelle appoggiò i vestiti al letto. — E tu, cosa ti metti? Ci vai, vero?
Clary pensò al vestito argentato, lieve come una garza, in fondo al baule di Amatis. Ma lei non
glielo avrebbe mai lasciato indossare.
— Non so — rispose. — Probabilmente i jeans e il cappotto verde.
— Che noia — esclamò Isabelle. Lanciò un'occhiata ad Aline, che leggeva seduta su una sedia
vicino al letto. — Non è una noia?
— Io credo che dovresti lasciarle mettere quello che le va. — Aline non alzò nemmeno gli occhi dal
libro. — E poi, non è che si debba fare bella per qualcuno.
— Si deve fare bella per Jace! — esclamò Isabelle, come se fosse ovvio. — Certo che deve!
Aline alzò gli occhi battendo le palpebre, confusa, poi sorrise. — Oh, giusto! Me ne dimentico
sempre. Dev'essere strano, vero, sapere che non è tuo fratello?
— No — disse Clary con fermezza. — Era strano pensare che fosse mio fratello. Così... sembra più
giusto. — Tornò a guardare verso la finestra. — Comunque non l'ho ancora rivisto, da quando
siamo tornati ad Alicante.
— Che strano — commentò Aline.
— Non è strano — spiegò Isabelle, lanciandole un'occhiata significativa, che Aline non sembrò
cogliere. — È stato in ospedale. L'hanno dimesso solo oggi.
— E non è venuto subito da te? — Aline chiese a Clary.
— Non poteva — rispose Clary. — Aveva il funerale di Valentine. Non poteva mancare.
— Forse — disse Aline allegramente. — O forse non è più così interessato a te. Voglio dire, ora che
non è proibito. Certe persone vogliono solo quello che non possono avere.
— Non Jace — ribatté Isabelle rapidamente. — Lui non è così.
Aline si alzò lasciando il libro sul letto. — Devo andare a vestirmi. Ci vediamo stasera? — E con
queste parole uscì dalla stanza canticchiando tra sé.
Isabelle, seguendola con lo sguardo, scosse la testa. — Secondo te, fa così perché non le sei
simpatica? — chiese
a Clary. — O perché è gelosa? Sembrava molto interessata a Jace.
Clary accennò sorrisetto divertito. — No, Jace non le interessa. Credo che sia una di quelle persone
che dicono tutto quello che pensano nel momento stesso in cui lo pensano. E chissà, magari ha
ragione.
Isabelle si sfilò il fermaglio dai capelli, lasciandoli ricadere sulle spalle. Si avvicinò a Clary, alla
finestra. Il cielo era limpido, adesso, dietro le torri antidemoni: il fumo si era dissolto. — E tu?
Credi che abbia ragione lei?
— Non lo so. Devo chiedere a Jace. Immagino che lo vedrò stasera alla festa. La Celebrazione della
Vittoria, o come si chiama. — Guardò Isabelle. — Tu sai come sarà?
— Ci sarà una parata — spiegò Isabelle. — Probabilmente anche i fuochi d'artificio. Musica, balli,
giochi, cose del genere. Come una grande festa in piazza a New York. — Guardò fuori dalla
finestra, con occhi pieni di nostalgia. — A Max sarebbe tanto piaciuta...
Clary le carezzò i capelli, come li avrebbe accarezzati a sua sorella, se ne avesse avuta una. — Lo
so.
Jace dovette bussare due volte alla porta della vecchia casa sul canale, prima di sentire dei passi
rapidi che andavano ad aprire. Il cuore gli balzò nel petto, ma si acquietò subito quando la porta si
aprì e apparve sulla soglia Amatis Herondale, con aria sorpresa. A quanto pareva, si stava
preparando per la festa: indossava un lungo vestito color tortora e orecchini chiari che facevano
risaltare i fili grigi dei suoi capelli sale e pepe. — Sì?
— Clary... — iniziò Jace, incerto su cosa dire di preciso. Dov'era finita tutta la sua eloquenza?
L'aveva sempre avuta, anche quando aveva perso tutto il resto, ma ora si sentiva come se l'avessero
aperto in due e tutte le battute facili e intelligenti gli fossero scappate fuori, lasciandolo svuotato. —
Mi chiedevo se Clary fosse qui. Speravo di poterle parlare.
Amatis scosse la testa. La sorpresa aveva abbandonato la sua espressione e ora lo stava guardando
con intenzione, tanto da renderlo nervoso. — Non è qui. Credo che sia con i Lightwood.
— Ah. — La delusione fu così forte che stupì anche lui.
— Chiedo scusa per il disturbo.
— Nessun disturbo. Anzi, sono contenta che tu sia qui
— ribatté pronta Amatis. — Volevo parlarti di una cosa. Entra. Torno subito.
Jace entrò nell'ingresso mentre Amatis spariva in fondo al corridoio. Si chiese che cosa diavolo
avesse da discutere con lui. Forse Clary aveva deciso che non voleva aver più nulla a che fare con
lui e aveva scelto Amatis per dargli il suo messaggio.
La donna tornò in un attimo. Non aveva in mano niente che somigliasse a un biglietto, notò Jace
con grande sollievo. Teneva invece tra le mani una scatoletta di metallo. Era un oggetto di fattura
delicata, cesellato con un motivo di uccelli in volo. — Jace — gli disse. — Luke mi ha detto che sei
figlio di... che Stephen Herondale era tuo padre. Mi ha raccontato quello che è successo.
Jace annuì, ed era tutto quello che si sentiva di poter fare. Le notizie filtravano lentamente e Jace
preferiva così: sperava di poter essere di nuovo a New York, prima che tutti a Idris scoprissero la
verità e si girassero a guardarlo ovunque andasse.
— Tu sai che io ero sposata con Stephen, prima di Céline... tua madre — proseguì Amatis con la
voce tesa, come se le facesse male pronunciare quelle parole. Jace la fissò: voleva parlargli di sua
madre? Ce l'aveva con lui perché le aveva riportato a galla brutti ricordi di una donna morta prima
ancora che lui nascesse? — Di tutte le persone che oggi sono ancora tra noi, io sono probabilmente
quella che conosceva meglio tuo padre.
— Sì — disse Jace, desiderando di essere altrove. — Sono sicuro che è così.
— So che probabilmente avrai per Stephen dei sentimenti molto contrastanti — proseguì Amatis
sorprendendolo, perché era vero. — Tu non l'hai mai conosciuto, non è stato lui il padre che ti ha
cresciuto. Ma gli assomigli molto. Tranne gli occhi: quelli sono di tua madre. E forse sono pazza a
disturbarti per questo. Forse non vuoi sapere nulla di Stephen. Ma era comunque tuo padre, e se ti
avesse conosciuto... — Gli spinse la scatola tra le mani, di scatto, quasi facendogli fare un salto
indietro. — Queste sono alcune cose sue, che ho conservato negli anni. Lettere che ha scritto,
fotografie, un albero genealogico. La sua pietra di stregaluce. Magari adesso non hai domande, ma
un giorno forse ne avrai. E se succederà, se avrai delle domande, avrai con te almeno questo. —
Amatis rimase quasi immobile, mentre gli offriva la scatoletta, come fosse un preziosissimo tesoro.
Jace la prese dalle sue mani senza una parola: era pesante e il metallo era freddo contro la pelle.
— Grazie — le disse. Non riuscì a fare di meglio. Esitò, poi aggiunse: — C'è una cosa, una cosa
che mi stavo chiedendo.
— Sì?
— Se Stephen era mio padre, allora l'Inquisitrice Imogen era mia nonna.
— Imogen era... — Amatis cercò le parole — ...era una donna molto difficile. Ma era tua nonna, sì.
— Mi ha salvato la vita — le disse Jace. — Voglio dire, per un sacco di tempo si è comportata come
se odiasse tutto di me. Ma poi ha visto questo. — Spostò il colletto della camicia e mostrò ad
Amatis la cicatrice bianca a forma di stella che aveva sulla spalla. — Che cosa poteva significare
questa cicatrice, per lei?
Amatis lo fissava gli occhi sgranati. — Tu non ricordi come te la sei fatta, quella cicatrice, vero?
Jace scosse la testa. — Valentine mi diceva che era una vecchia ferita, di quando ero troppo piccolo
per ricordare. Ma adesso... non credo che sia vero.
— Non è una cicatrice. È una voglia. C'è una vecchia leggenda di famiglia, a questo riguardo: uno
dei primi Herondale che diventarono Shadowhunters venne visitato in sogno da un angelo. L'angelo
lo toccò sulla spalla, e quando si svegliò si ritrovò con un segno come il tuo. E tutti i suoi
discendenti hanno lo stesso segno. — Amatis scrollò le spalle. — Non so se questa storia sia vera,
ma tutti gli Herondale hanno questo marchio. Anche tuo padre ce l'aveva. Qui. — Si toccò il braccio
destro, vicino alla spalla. — Dicono che significa che hai avuto un contatto con un angelo. Che in
qualche modo sei benedetto. Vedendolo, Imogen avrà capito chi eri veramente.
Jace fissava Amatis, ma non la vedeva: stava rivedendo quella notte sulla nave, il ponte nero e
umido, e l'Inquisi-trice che spirava ai suoi piedi. — Mi ha detto qualcosa — ricordò. — Mentre
moriva. Mi ha detto: Tuo padre sarebbe fiero di te. Credevo che lo facesse per crudeltà. Credevo
che si riferisse a Valentine.
Amatis scosse la testa. — Era di Stephen, che stava parlando — disse piano. — E aveva ragione.
Sarebbe stato fiero di te.
Clary spinse la porta d'ingresso di Amatis ed entrò, pensando a quanto quella casa le fosse diventata
familiare. Non doveva più sforzarsi di ricordare la strada per arrivare là, né il modo per aprire la
porta quando il pomolo s'inceppava. Persino il luccichio del sole sul canale le era familiare, come
pure la vista di Alicante dalla finestra. Riusciva quasi a immaginarsi come avrebbe potuto essere
vivere lì, come avrebbe potuto essere se Idris fosse diventata la sua patria. Si chiese di che cosa
avrebbe cominciato subito a sentire la mancanza. Il takeaway cinese? I film? Il negozio di fumetti?
Stava per salire le scale, quando sentì la voce di sua madre dal salotto: era tagliente e un po' agitata.
Che motivo poteva avere, Jocelyn, per essere così inquieta? Ora era tutto a posto, no? Senza
pensarci, Clary si appoggiò alla parete vicina al salotto e si mise a origliare.
— In che senso, rimani? — stava dicendo Jocelyn. — Vuoi dire che non tornerai più a New York?
— Mi hanno chiesto di restare ad Alicante per rappresentare i licantropi nel Consiglio — disse
Luke. — Ho risposto che gli avrei fatto sapere stasera.
— Ma non potrebbe farlo qualcun altro? Uno dei capi-branco di Idris?
— Io sono l'unico capobranco a essere stato uno Shadowhunter. È per questo che vogliono me. —
Sospirò. — Sono stato io a dare inizio a tutto questo, Jocelyn. Dovrei restare e portare a termine
l'opera.
Ci fu un breve silenzio. — Se è questo che senti, allora devi restare — disse alla fine Jocelyn, ma la
sua voce sembrava piuttosto incerta.
— Dovrò vendere la libreria, sistemare i miei affari. — La voce di Luke era burbera. — Non è che
mi trasferirò di punto in bianco.
— Posso occuparmene io, dopo tutto quello che hai fatto. — Jocelyn sembrava non avere
abbastanza energia per mantenere un tono vivace. La sua voce sfumò in un silenzio che si prolungò
a lungo, tanto che Clary pensò di fare un colpo di tosse ed entrare nel salotto per rivelare la sua
presenza.
Un attimo dopo fu contenta di non averlo fatto. — Senti — iniziò a dire Luke. — Volevo dirtelo da
tanto tempo, ma non l'ho mai fatto. Sapevo che non sarebbe servito a niente, anche dicendolo, per
via di quello che sono. Tu non hai mai voluto che tutto questo entrasse nella vita di Clary. Ma ora
che Clary sa, immagino che non faccia più molta differenza. E posso anche dirtelo. Io ti amo,
Jocelyn. Sono vent'anni che ti amo. — Tacque. Clary si sforzò di sentire la risposta di sua madre,
ma non ci fu alcuna risposta. Alla fine Luke parlò di nuovo, con la voce grave. — Devo tornare al
Consiglio per dire che resterò. Non riprenderò più l'argomento. Ma mi sento meglio per avertelo
detto, dopo tutto questo tempo, e mi basta.
Clary si appiattì contro il muro, mentre Luke, a testa bassa, usciva a grandi passi dal salotto. Le
passò accanto apparentemente senza vederla e spalancò la porta d'ingresso. Rimase sulla soglia un
momento, accecato dalla luce del sole che si rifletteva sull'acqua del canale. E subito dopo sparì. La
porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo.
Clary rimase dov'era, la schiena contro il muro. Era terribilmente triste per Luke e terribilmente
triste anche per sua madre. Dunque, Jocelyn non amava veramente Luke, e forse non avrebbe mai
potuto amarlo. Era esattamente la stessa situazione di Clary e Simon, solo che Clary non vedeva
alcuna possibilità che Luke e sua madre potessero riaggiustare le cose tra loro. Non se Luke
decideva di restare a Idris. Le lacrime le punsero gli occhi. Stava per entrare nel salotto, quando
sentì aprirsi la porta della cucina e udì un'altra voce, stanca e un po' rassegnata. Amatis.
— Scusami, ho sentito tutto, involontariamente. Ma sono contenta che Lucian resti qui — disse
Amatis. — Non solo perché sarà vicino a me, ma perché in questo modo avrà una possibilità di
dimenticare te.
La voce di }ocelyn era sulle difensive. — Amatis...
— Jocelyn — continuò Amatis — se tu non lo ami, dovresti lasciarlo perdere.
Jocelyn rimase in silenzio. Clary desiderò di poter vedere la sua espressione. Era triste? Arrabbiata?
Rassegnata?
Amatis trasalì. — A meno che... Tu lo ami?
— Amatis, non posso...
— Tu lo ami! Tu lo ami! — Ci fu un suono secco, come se Amatis avesse battuto le mani. — Lo
sapevo che lo amavi! L'ho sempre saputo!
— Non importa. — La voce di Jocelyn era stanca. — Non sarebbe corretto nei confronti di Luke.
— Non voglio nemmeno sentirlo. — Ci fu un fruscio, un suono di protesta di Jocelyn. Clary si
chiese se Amatis avesse preso sua madre per le spalle. — Se lo ami, adesso glielo vai a dire.
Adesso, subito, prima che arrivi al Consiglio.
— Ma loro vogliono lui come membro del Consiglio! E lui vuole...
— L'unica cosa che Lucian vuole — disse Amatis con fermezza — sei tu. Tu e Clary. È tutto quello
che ha sempre voluto. Ora, vai!
Prima che Clary potesse allontanarsi, Jocelyn si precipitò nel corridoio. Corse alla porta e... vide
Clary, appiattita contro il muro. Si fermò, con la bocca aperta per la sorpresa.
— Clary! — Cercò di dare un tono allegro e vivace alla sua voce, ma fallì miseramente. — Non
sapevo che fossi qui.
Clary si staccò dal muro, afferrò il pomolo della porta e la spalancò. La luce brillante del sole invase
l'ingresso. Jocelyn si fermò nella luce feroce, battendo le palpebre, con gli occhi fissi sulla figlia.
— Se non rincorri subito Luke — disse Clary, scandendo bene le parole — io ti uccido con le mie
mani.
Per un momento Jocelyn sembrò attonita. Poi sorrise. — Be' — disse — se la metti in questi
termini...
Un attimo dopo era fuori e correva lungo il sentiero di fianco al canale che portava verso la Sala
degli Accordi. Clary richiuse la porta alle sue spalle e vi si appoggiò contro.
Amatis, uscendo dal salotto, si precipitò al davanzale della finestra, guardando ansiosamente dai
vetri. — Pensi che riuscirà a raggiungerlo prima che arrivi alla Sala degli Accordi?
— Mia mamma ha passato la vita a rincorrermi dappertutto — commentò Clary. — È velocissima.
Amatis la guardò e sorrise. — Oh, adesso mi viene in mente! — disse. — È passato Jace. Ti
cercava. Credo che speri di incontrarti stasera alla festa.
— Ah, davvero? — disse Clary pensierosa. Poteva anche chiedere. Chi non risica non rosica. —
Amatis — disse. La sorella di Luke si staccò dalla finestra, guardandola con curiosità.
— Sì?
— Quel tuo vestito argentato, nel baule — disse Clary. — Potrei prenderlo in prestito?
Le strade si stavano già riempiendo di gente, mentre Clary ripercorreva la città verso la casa dei
Lightwood. Era il tramonto e le luci iniziavano ad accendersi, illuminando l'aria di un pallido
bagliore. Cestini di fiori bianchi dall'aria familiare erano stati appesi ai muri delle case e
profumavano l'aria di aromi speziati. Rune d'oro scuro ardevano sulle porte delle case: parlavano di
vittoria e di letizia.
C'erano molti Shadowhunters per le strade. Nessuno di loro, adesso, indossava la tenuta da
battaglia: avevano gli abiti delle grandi occasioni, in una gran varietà di fogge, dalle più moderne a
quelle al limite della rievocazione storica. Era una notte insolitamente calda ed erano in pochi a
portare il cappotto. Molte delle donne indossavano quelli che a Clary sembravano abiti da sera, con
la gonna lunga e ampia che spazzava la strada. Quando svoltò nella strada dei Lightwood, una
figura esile e scura attraversò la strada davanti a lei: era Raphael, mano nella mano con una donna
alta dai capelli scuri, con un vestito rosso da mezza sera. Raphael si girò e le sorrise, e il suo sorriso
le diede un brivido leggero. Era proprio vero, pensò, che a volte c'era qualcosa di alieno nei
Nascosti, qualcosa di alieno e spaventoso. Ma, forse, non tutto quello che faceva paura era
necessariamente pericoloso.
Anche se qualche dubbio su Raphael le restava.
La porta d'ingresso dei Lightwood era aperta e diversi membri della famiglia erano già fuori sul
marciapiede. C'erano Maryse e Robert Lightwood, che chiacchieravano con altri due adulti. Quando
si girarono, Clary vide con leggera sorpresa che erano i Penhallow, i genitori di Aline. Maryse le
sorrise. Era molto elegante, con un completo di seta blu scuro,- i capelli, legati sulla nuca con un
grosso nastro d'argento, le lasciavano scoperto il volto severo. Assomigliava molto a Isabelle, tanto
che a Clary venne voglia di metterle una mano sulla spalla, perché Maryse era ancora visibilmente
triste, anche quando sorrideva. Sta pensando a Max, proprio come Isabelle — rifletté Clary. — Sta
pensando a quanto gli sarebbe piaciuta questa festa.
— Clary! — Isabelle scese di corsa i gradini dell'ingresso, coi capelli neri al vento. Non indossava
nessuno dei due vestiti che aveva mostrato a Clary poco prima, ma un incredibile abito di raso
dorato che le fasciava il corpo come i petali chiusi di un fiore. Ai piedi portava dei sandali dai tacchi
altissimi. Clary ripensò a un commento di Isabelle su quanto le piacevano i tacchi alti e rise tra sé.
— Clary, sei fantastica!
— Grazie. — Clary lisciò con un po' di imbarazzo il diafano tessuto del suo vestito argentato. Era
probabilmente la cosa più femminile che avesse mai indossato. Le lasciava le spalle scoperte e ogni
volta che sentiva i capelli solleticarle la pelle nuda del collo, doveva soffocare l'istinto di cercare un
cardigan o una felpa con il cappuccio in cui avvolgersi. — Anche tu.
Isabelle si chinò per sussurrarle all'orecchio: — Jace non è qui.
Clary si tirò indietro. — E allora dove...?
— Alec dice che potrebbe essere nella piazza, dove si faranno i fuochi d'artificio. Mi dispiace: non
so proprio che cosa gli passi per la testa.
Clary scrollò le spalle cercando di nascondere la delusione. — Non c'è problema.
Alec e Aline corsero fuori di casa dopo Isabelle, Aline con un vestito rosso acceso che faceva
sembrare ancora più neri i suoi capelli e Alee vestito come al solito, con un paio di pantaloni e una
maglia entrambi scuri. Quantomeno, pensò Clary, la maglia non sembrava avere dei buchi. Alec le
sorrise e Clary pensò, con sorpresa, che in effetti qualcosa di diverso ce l'aveva: sembrava in
qualche modo più leggero, come se si fosse tolto un grosso peso dalle spalle.
— Non sono mai stata a una festa in cui partecipassero anche dei Nascosti — annunciò Aline,
guardando nervosamente verso la strada dove passava una giovane fata dai lunghi capelli intrecciati
di fiori (no, pensò Clary, i suoi capelli erano fiori, collegati da delicati viticci verdi): la fata staccò
dei fiori bianchi da un cestino appeso a un muro, li osservò pensierosa, poi se li mangiò.
— Sarà bellissimo — la rassicurò Isabelle. — È gente che sa come divertirsi. — Fece un cenno di
saluto ai suoi genitori e s'incamminò con gli altri verso la piazza. Clary combatteva ancora con
l'istinto di coprirsi il busto incrociando le braccia sul petto. Il vestito le svolazzava attorno ai piedi
come spire di fumo portate dal vento. Ripensò al fumo che poco prima si era levato sulla città di
Alicante e rabbrividì.
— Ehi! — esclamò Isabelle. Clary alzò gli occhi e vide avvicinarsi Simon e Maia. Clary non aveva
visto Simon per gran parte della giornata: era andato alla Sala degli Accordi per assistere
all'assemblea preliminare del Consiglio, perché, diceva, era curioso di vedere chi avrebbero scelto
per il seggio riservato ai vampiri. Clary non riusciva proprio a figurarsi Maia con indosso qualcosa
di femminile e infatti aveva un paio di pantaloni mimetici a vita bassa e una maglietta nera, su cui
era scritto SCEGLI UN'ARMA e, sotto la scritta, c'erano dei dadi. Era una maglietta di un gioco di ruolo a
squadre, pensò Clary. Si chiese se Maia partecipasse veramente ai giochi di ruolo o se avesse messo
quella maglietta per fare colpo su Simon. In questo caso, aveva scelto bene. — State andando verso
la piazza dell'Angelo?
Maia e Simon risposero di sì e tutti insieme si avviarono verso la Sala degli Accordi, in allegra
compagnia. Simon restò indietro per affiancarsi a Clary e camminarono insieme in silenzio. Era
bello stargli vicino: era stata la prima persona che Clary aveva voluto rivedere, una volta tornata ad
Alicante. L'aveva stretto in un abbraccio fortissimo, contenta che fosse vivo, poi gli aveva toccato il
marchio sulla fronte.
— Ti ha salvato? — gli aveva chiesto, desiderando con tutte le forze di sentirsi dire che ciò che
aveva fatto era stato utile.
— Mi ha salvato — fu tutto ciò che Simon le rispose.
— Vorrei potertelo togliere — gli aveva detto. — Vorrei sapere che cosa potrebbe succederti, a
causa del marchio.
Lui le aveva preso il polso e le aveva scostato dolcemente la mano. — Aspettiamo — le aveva
detto. — Stiamo a vedere.
Ora lo osservò attentamente, ma il marchio non sembrava avere su di lui alcun effetto visibile.
Simon era esattamente come al suo solito. Era Simon. Solo che adesso si pettinava i capelli in modo
un po' diverso, per coprire il marchio. Ma se uno non sapeva cosa c'era sotto, non l'avrebbe mai
immaginato.
— Com'è andata l'assemblea? — gli chiese Clary, dandogli un'occhiata da capo a piedi per vedere
se si fosse messo qualcosa di carino per la festa. No, ma non poteva criticarlo: i jeans e la maglietta
che indossava costituivano il suo intero guardaroba, lì ad Alicante. — Chi hanno scelto?
— Non Raphael — rispose Simon, con un tono che sembrava contento della cosa. — Un altro
vampiro. Con un nome pretenzioso. Ombra della Notte o qualcosa del genere.
— Sai, mi hanno chiesto se voglio disegnare il simbolo del Nuovo Consiglio — disse Clary. — È
un onore. Ho accettato. Ci sarà la runa del Consiglio circondata dai simboli delle quattro famiglie
dei Nascosti. Una luna per i licantropi. E stavo pensando a un quadrifoglio per il Popolo Fatato. Un
libro di magia per gli stregoni. Ma non mi viene in mente niente per i vampiri.
— Che ne dici di un dente? — suggerì Simon. — Magari grondante sangue. — E scoprì i suoi
canini.
— Grazie — replicò Clary. — Mi sei stato di grande aiuto.
— Sono contento che l'abbiano chiesto a te — commentò Simon, più serio. — Te lo meriti, questo
onore. Ti meriti una medaglia, in realtà, per tutto quello che hai fatto. La runa dell'alleanza e tutto il
resto.
Clary scrollò la testa. — Non so. Alla fine di tutto, la battaglia non è durata nemmeno dieci minuti.
Non so quanto sono davvero stata utile.
— Io c'ero, in quella battaglia, Clary — le ricordò Simon. — Sarà anche durata solo dieci minuti,
ma sono stati i peggiori dieci minuti della mia vita. E non voglio entrare nei dettagli. Ma ti dico solo
che in quei dieci minuti ci sarebbero stati molti più morti, se non era per te. E poi, la battaglia è
stato solo un aspetto. Se tu non avessi fatto ciò che hai fatto, ora non ci sarebbe alcun Nuovo
Consiglio. Ci sarebbero ancora Shadowhunters e Nascosti che si odiano a vicenda, invece di
Shadowhunters e Nascosti che vanno a fare festa tutti insieme.
Clary sentì un groppo salirle in gola e guardò dritta avanti, imponendosi di non piangere. — Grazie,
Simon. — Ebbe un attimo di esitazione, così rapido che nessuno che non fosse stato Simon se ne
sarebbe accorto. Ma lui se ne accorse.
— Cosa c'è che non va? — le chiese.
— Mi chiedo che cosa faremo quando torneremo a casa — gli disse. — Voglio dire, so che Magnus
si è occupato di tua madre, così lei non è diventata matta per questa tua sparizione, ma... la scuola...
Abbiamo perso una montagna di roba. E non so nemmeno...
— Tu non tornerai a New York — le disse Simon a bassa voce. — Credi che non lo sappia? Tu
adesso sei una Cac-ciatrice. Finirai la scuola all'Istituto.
— E tu? Tu sei un vampiro. Hai intenzione di tornare a scuola come se niente fosse?
— Sì — rispose Simon, sorprendendola. — Sì. Voglio una vita normale, per quanto possibile.
Voglio finire la scuola e poi andare al college e tutto il resto.
Lei gli strinse la mano. — Se è questo che vuoi, è giusto che tu lo abbia. — Lo guardò e gli sorrise.
— Certo è che sconvolgerai tutti quanti, quando ti ripresenterai a scuola.
— Sconvolgerò tutti quanti? E perché?
— Perché sei molto più sexy di quando te ne sei andato. — Clary scrollò le spalle. — Dico sul
serio. Sarà una cosa da vampiri.
Simon sembrava sconcertato. — Sono più... sexy?
— Certo! Voglio dire, guarda quelle due. Ti stanno mangiando con gli occhi! — Gli indicò Maia e
Isabelle che camminavano insieme, qualche passo avanti a loro, con le teste vicine.
Simon guardò le ragazze e Clary avrebbe giurato che stesse arrossendo. — Davvero? Ogni tanto si
mettono a confabulare tra loro e mi guardano... Non so proprio che cos'abbiano da dire.
— Certo che no. — Clary sorrise. — Poverino, hai due belle ragazze che si contendono il tuo
cuore... Dura, la vita...
— Fantastico. Dimmi tu, allora, chi dovrei scegliere.
— Assolutamente no. È affar tuo. — Clary abbassò di nuovo la voce. — Senti, puoi uscire con chi
ti pare e avrai sempre il mio totale appoggio. Sarò tutta un appoggio. Appoggio è il mio secondo
nome.
— Ah, allora è per questo che non mi hai mai rivelato il tuo secondo nome. Me l'immaginavo, che
fosse qualcosa di imbarazzante.
Clary ignorò la battuta. — Però promettimi una cosa, okay? So come fanno le ragazze. So che non
sopportano che il loro fidanzato abbia un amico del cuore che è una femmina. Devi promettermi che
non mi taglierai fuori dalla tua vita completamente. Che ogni tanto potremo ancora stare insieme.
— Ogni tanto? — Simon scosse la testa. — Clary, tu sei pazza.
Le si strinse il cuore. — Vuoi dire...
— Voglio dire che non uscirò mai con una ragazza che cercherà di tagliarti fuori dalla mia vita. Non
c'è nemmeno da discutere. Vuoi un po' di tutta questa meraviglia? — E Simon indicò se stesso. —
Bene, la mia migliore amica è compresa nel pacchetto. Non ti taglierei mai fuori dalla mia vita,
Clary, non più di quanto potrei tagliarmi la mano destra e regalarla per San Valentino.
— Che schifo — disse Clary. — Devi proprio?
Lui le fece un gran sorriso. — Devo proprio.
La piazza dell'Angelo era quasi irriconoscibile. La Sala degli Accordi brillava di bianco in fondo
alla piazza, in parte nascosta dall'intricato boschetto di alberi cresciuti al centro. Erano chiaramente
frutto di un incantesimo, ma avrebbero anche potuto essere alberi veri e trapiantati, pensò Clary,
ricordando l'abilità di Magnus nel trasportare mobili e tazze di caffè da un lato all'altro di
Manhattan in un batter d'occhio. Gli alberi salivano quasi alla stessa altezza delle torri antidemoni,
con nastri avvolti intorno ai tronchi argentei e luci colorate impigliate nella selva frusciante dei
rami. La piazza profumava di fiori bianchi, di fumo, di foglie. Tutto intorno, erano stati disposti
tavoli e lunghe panche, e gruppi di Cacciatori e di Nascosti vi si affollavano intorno, ridendo e
bevendo e chiacchierando. E tuttavia, nonostante le risate, c'era un pizzico di mestizia mescolato
all'aria di festa, un dolore che conviveva con la gioia.
I negozi che si affacciavano sulla piazza avevano le porte spalancate e la luce si riversava sui
marciapiedi. I festanti passavano a frotte, portando piatti di cibo e calici dal lungo stelo colmi di
vino o di altre bevande dai colori vivaci. Simon vide un kelpie passargli accanto con un bicchiere di
liquido azzurro in mano e inarcò un sopracciglio.
— Non è come alla festa di Magnus — lo rassicurò Isabelle. — Tutto quello che c'è da bere qui
dovrebbe essere sicuro.
— Dovrebbe? — Aline sembrava preoccupata.
Alec guardava la foresta in miniatura e le luci colorate si riflettevano nelle iridi azzurre dei suoi
occhi. C'era Magnus, all'ombra di un albero, che parlava con una ragazza vestita di bianco e con una
nuvola di capelli castano chiaro. La ragazza si girò, quando Magnus li guardò, e Clary incrociò il
suo sguardo per un momento, annullando la distanza che le separava. C'era qualcosa di familiare, in
lei, ma Clary non riuscì a capire che cosa.
Magnus la salutò per venire da loro e la ragazza scivolò tra le ombre degli alberi e sparì. Lo
stregone era vestito come un gentiluomo inglese di epoca vittoriana, con una lunga redingote nera
su un gilet di seta viola. Un fazzolettino ricamato con le iniziali M.B. spuntava dal taschino del
gilet.
— Bel gilet — commentò Alec con un sorriso.
— Ne vorresti uno uguale? — chiese subito Magnus. — Del colore che preferisci, naturalmente.
— In realtà, i vestiti non mi interessano granché — ammise Alec.
— Ed è una cosa che adoro di te — annunciò Magnus. — Ma ti adorerei lo stesso anche se tu avessi
un bel vestito griffato. Che dici? Dolce? Zegna? Armani?
Alec farfugliò qualcosa e Isabelle rise. Magnus colse l'occasione per avvicinarsi a Clary e
sussurrarle qualcosa all'orecchio. — I gradini della Sala degli Accordi. Vai.
Clary avrebbe voluto chiedergli che cosa voleva dire, ma Magnus era già tornato a parlare con Alec
e gli altri. E poi, aveva la netta sensazione di saperlo già. Allontanandosi, diede una stretta al polso
di Simon,- lui si girò e le sorrise, prima di tornare alla sua conversazione con Maia.
Clary passò tra gli alberi della foresta magica per attraversare la piazza, entrando nelle loro ombre.
Gli alberi arrivavano fino ai piedi della scalinata che portava alla Sala degli Accordi ed era forse per
questo che i gradini erano quasi deserti. Ma non del tutto. Clary alzò lo sguardo verso le porte della
Sala e riconobbe subito un profilo scuro e familiare, seduto all'ombra di un pilastro. Il suo cuore
accelerò.
Era Jace.
Clary dovette tirarsi su la gonna per salire la scalinata, per paura di pestare un orlo e strappare il
tessuto delicato.
Rimpianse di non avere indosso i suoi soliti vestiti, quando si avvicinò a Jace che, seduto con la
schiena appoggiata a una colonna e lo sguardo rivolto alla piazza, indossava i suoi abiti più
mondani: jeans, maglietta bianca e giacca scura. E forse, per la prima volta da quando lo aveva
incontrato, pensò Clary, non sembrava armato.
All'improvviso si sentì esageratamente elegante. Si fermò a poca distanza da lui, incerta su che cosa
dire.
Come sentendo la sua presenza, Jace alzò gli occhi. Teneva qualcosa in bilico sulle ginocchia, notò
Clary: una scatoletta d'argento. Sembrava molto stanco. Aveva ombre scure sotto gli occhi e i
capelli d'oro chiaro erano in disordine. Sgranò gli occhi. — Clary?
— Chi credevi che fosse?
Non le sorrise. — Non sei come al solito.
— È il vestito. — Si lisciò le pieghe, a disagio. — Di solito non mi metto delle cose così... carine.
— Sei bellissima — le disse. Clary ricordò la prima volta in cui Jace le aveva detto che era bella,
nella serra dell'Istituto. Non gliel'aveva detto come fosse un complimento, ma come fosse un dato
assodato, come il fatto che aveva i capelli rossi e le piaceva disegnare. — Ma mi sembri... distante.
Come se non potessi toccarti.
Clary allora gli si avvicinò e si sedette accanto a lui sul gradino più alto. La pietra era fredda e il
freddo filtrava facilmente dal tessuto lieve. Gli tese una mano: aveva un tremito lieve, ma visibile.
— Toccami pure — gli disse. — Se ti va.
Lui le prese la mano e se l'appoggiò alla guancia. Poi gliela rimise in grembo. Clary rabbrividì,
ripensando alle parole di Aline, nella camera da letto di Isabelle. Forse non è più così interessato,
ora che non è proibito. Jace aveva detto a lei che sembrava distante, ma l'espressione nei suoi occhi
era remota come una galassia lontana.
— Che cosa c'è nella scatola? — gli chiese. Jace stava ancora tenendo stretta la scatoletta d'argento.
Era un oggetto dall'aria costosa, delicatamente inciso con un motivo di uccelli in volo.
— Sono passato da Amatis, qualche ora fa. Ti cercavo — le disse. — Ma tu non c'eri. Così ho
parlato con lei. E mi ha dato questo. — Le indicò la scatola. — Apparteneva a mio padre.
Per un momento lei lo guardò senza capire. A Valentinepensò. Poi, con un sussulto: No, non è
questo che intende dire. — Ma certo — commentò. — Amatis è stata sposata con Stephen
Herondale.
— Stavo guardando quello che c'è dentro — le raccontò Jace. — Ho letto le lettere, le pagine di
diario. Pensavo che in questo modo avrei potuto sentire qualche sorta di legame con lui. Qualcosa
che saltasse fuori dalle pagine a dire Sì, questo è tuo padre. Ma non sento niente. Sono solo fogli di
carta. Chiunque avrebbe potuto scrivere queste cose.
— Jace — gli disse Clary dolcemente.
— E c'è un'altra cosa — aggiunse Jace. — Io non ho più un nome, vero? Non sono Jonathan
Christopher: era qualcun altro. Ma è il nome a cui sono abituato.
— Chi ha inventato il soprannome Jace? L'hai inventato tu?
Jace scosse la testa. — No. Valentine mi ha sempre chiamato Jonathan. E mi chiamavano così
quando arrivai all'Istituto. Non avrei mai dovuto credere che il mio nome fosse Jonathan
Christopher. Successe per sbaglio: avevo trovato il nome sul diario di mio padre, ma non era di me
che parlava. Non erano miei, i progressi che stava annotando. Erano quelli di Seb... erano quelli di
Jonathan. La prima volta che dissi a Maryse che il mio secondo nome era Christopher, lei si
convinse di ricordare male, si disse che Christopher doveva essere il secondo nome del figlio di
Michael. Erano passati dieci anni, dopotutto. Ma fu allora che cominciò a chiamarmi Jace: era come
se volesse darmi un nome nuovo, qualcosa che appartenesse a lei, alla mia vita a New York. E a me
piaceva. Jonathan non mi è mai piaciuto. — Rigirò la scatoletta tra le mani. — Mi chiedo se Maryse
avesse saputo, o se avesse immaginato, pur non volendo riconoscerlo. Lei mi voleva bene... e non
voleva credere una cosa del genere.
— Ed è per questo che era così sconvolta, quando ha scoperto che tu eri il figlio di Valentine —
rifletté Clary. — Perché era convinta che avrebbe dovuto capirlo. E, in un certo senso l'aveva capito.
Ma nessuno vuole credere a certe cose, riguardo alle persone che amiamo. E, Jace, su di te Maryse
aveva ragione. Aveva ragione su chi eri veramente. E tu ce l'hai, un nome. Il tuo nome è Jace. Non è
stato Valentine a darti questo nome. È stata Maryse. L'unica cosa che rende importante un nome,
che lo rende tuo, è il fatto che ti sia dato da qualcuno a cui vuoi bene.
— Jace... — replicò lui — Jace Herondale?
— Ma fammi il piacere! — esclamò Clary. — Tu sei Jace Lightwood. E lo sai.
Jace alzò gli occhi e la guardò. Le lunghe ciglia li mettevano in ombra, scurendone l'oro. Adesso era
un po' meno lontano, pensò Clary, anche se forse era solo una sua impressione.
— Forse sei una persona diversa da quella che credevi di essere — proseguì Clary, sperando contro
ogni speranza che lui capisse ciò che voleva dire. — Ma nessuno diventa una persona
completamente diversa nell'arco di una notte. Scoprire che Stephen era il tuo padre biologico non
può automaticamente fartelo amare. E non devi per forza amarlo. Valentine non era il tuo vero
padre, ma non perché tu non hai il suo sangue nelle vene. Non era il tuo vero padre perché non si è
comportato da padre con te. Non si è preso cura di te. Sono sempre stati i Lightwood a prendersi
cura di te. Sono loro la tua famiglia. Come mia mamma e Luke sono la mia. — Gli toccò la spalla,
poi ritrasse la mano. — Mi dispiace — gli disse. — Sono qui che ti faccio la predica, mentre tu
probabilmente sei venuto qui per restare da solo
— Hai ragione — disse Jace.
Clary si sentì mancare il fiato. — Va bene. Allora, io vado. — Si alzò, dimenticandosi di sollevare il
vestito e per poco non inciampò sull'orlo.
— Clary! — Jace posò la scatoletta e si alzò in fretta. — Clary, aspetta. Non era questo che volevo
dire. Non volevo dire che voglio stare da solo. Volevo dire che hai ragione su Valentine... sui
Lightwood...
Lei si girò e lo guardò. Era per metà nascosto nell'ombra e le luci allegre e colorate della festa gli
disegnavano strani motivi sulla pelle. Clary ripensò alla prima volta che lo aveva visto: le aveva
ricordato un leone, magnifico e mortale. Ora, invece, le sembrava diverso. Quell'armatura dura e
protettiva che usava sempre era sparita: ora portava le sue ferite con orgoglio. Non aveva neppure
usato lo stilo per cancellare gli ematomi dalla faccia, dalla mascella, dal collo. Ma agli occhi di
Clary era sempre bellissimo, anche più di prima, perché adesso le sembrava più umano. Umano e
reale.
— Sai — gli disse. — Aline diceva che forse non eri più interessato a me, ora che non è
più proibito. Ora che, volendo, tu potresti stare con me. — Rabbrividì nel vestito leggero,
stringendosi i gomiti con le mani. — È vero? Non sei più... interessato?
— Interessato? Come se tu fossi... un libro, o una notizia? No, non sono per
niente interessato. Sono... — S'interruppe, cercando a tentoni la parola giusta, come qualcuno cerca
un interruttore nel buio. — Ti ricordi quello che ti ho detto tempo fa? Sul fatto che averti come
sorella sembrava una specie di scherzo cosmico? Per me e per entrambi?
— Mi ricordo.
— Non ci ho mai creduto — disse Jace. — Voglio dire, ci credevo solo in un certo modo. Ho
lasciato che questa idea mi portasse alla disperazione, ma non l'ho mai sentita veramente. Non ho
mai sentito che tu eri mia sorella. I sentimenti che provavo per te non erano quelli che si dovrebbero
avere per una sorella, ma non per questo non ti sentivo parte di me. Quello l'ho sempre sentito. —
Vedendo l'espressione perplessa di Clary, Jace ebbe un moto d'impazienza. — Non lo sto dicendo
nel modo giusto. Clary, ho odiato ogni secondo in cui ho creduto che tu fossi mia sorella. Ho odiato
ogni momento in cui ho creduto che quello che sentivo per te implicasse qualcosa di profondamente
sbagliato in me. Ma...
— Ma cosa? — Il cuore di Clary batteva così forte che la stordiva.
— Ho visto il compiacimento di Valentine per quello che io provavo per te. Per quello che tu
provavi per me. Ha usato i nostri sentimenti come un'arma contro di noi. E per questo l'ho odiato.
Più che per qualsiasi altra cosa mi abbia fatto, è per questo che l'ho odiato e che mi sono rivoltato
contro di lui. E forse è proprio di questo che avevo bisogno. Perché ci sono state delle volte in cui
non sapevo se volevo seguirlo oppure no. È stata una scelta difficile, più di difficile di quanto non
mi piaccia ammettere. — La sua voce era tesa.
— Una volta ti ho chiesto se avevo scelta — gli ricordò Clary. — E tu mi hai risposto che abbiamo
sempre una scelta. Tu hai scelto di stare contro Valentine. Alla fine è stata questa la scelta che hai
fatto, non importa quanto sia stata dura. L'importante è che tu l'abbia fatta.
— Lo so — disse Jace. — Sto solo dicendo che penso di averla fatta, almeno in parte, per te. Da
quanto ti ho incontrato, tutto quello che ho fatto è stato in parte anche per te. Non posso staccarmi
da te, Clary: né il mio cuore, né il mio sangue, né la mia mente, né nessun'altra parte di me. Non
posso e non voglio.
— Non vuoi? — sussurrò Clary.
Jace fece un passo verso di lei. Il suo sguardo era fisso sul viso di Clary, come se non riuscisse a
separarsene. — Ho sempre pensato che l'amore ci rendesse stupidi. Che ci rendesse deboli. Pessimi
Cacciatori. Amare è distruggere. Ci credevo.
Clary si mordicchiava il labbro, ma nemmeno lei riusciva a distogliere gli occhi dai suoi.
— Una volta pensavo che essere un buon guerriero significasse non voler bene a niente e a nessuno
— disse Jace. — A me stesso, in particolare. Correvo tutti i rischi che potevo. Mi buttavo in bocca
ai demoni. Credo di aver fatto venire un complesso ad Alec sulle sue capacità di guerriero solo
perché lui ci teneva a restare vivo. — Jace fece un sorriso incerto. — E poi ho incontrato te. Tu eri
una mondana. Eri debole. Non eri una Cacciatrice. Non avevi mai fatto l'addestramento. Ma ho
visto quanto amavi tua madre, quanto amavi Simon... Ho visto che eri pronta ad andare all'inferno
per salvarli. E di fatto sei entrata nell'hotel dei vampiri. Altri Shadowhunters, con anni di esperienza
alle spalle, non ci avrebbero nemmeno provato. L'amore non ti rendeva più debole: ti rendeva più
forte di chiunque io avessi mai conosciuto. E mi sono reso conto di essere io quello debole.
— No! — Clary era sbalordita. — Tu non sei debole!
— Forse non più. — Fece un altro passo avanti. Adesso era abbastanza vicino da poterla toccare. —
Valentine non voleva credere che avessi ucciso Jonathan — le disse. — Non voleva crederci perché,
dei due, io ero quello debole, e Jonathan quello meglio addestrato. Giustamente, avrebbe dovuto
essere lui a uccidere me. E c'è mancato poco. Ma io pensavo a te e ti vedevo là con me, con estrema
chiarezza, come se mi fossi davanti agli occhi, come se mi stessi guardando. E sapevo che volevo
vivere, lo volevo più di ogni altra cosa. Se non altro, per poter rivedere il tuo viso un'altra volta.
Clary avrebbe voluto muoversi, avvicinarsi a lui, toccarlo, ma non ci riusciva. Le braccia, lungo i
fianchi, sembravano congelate. Il volto di Jace era vicino al suo, così vicino che Clary si vedeva
riflessa nelle sue pupille.
— E adesso ti sto guardando — le disse Jace. — E tu mi chiedi se ti voglio ancora, come se io
potessi smettere di amarti. Come se potessi essere disposto ad abbandonare la cosa che più di ogni
altra mi rende forte. Non ho mai osato dare tanto di me a nessuno, prima d'ora. Poche briciole ai
Lightwood, a Isabelle e ad Alee, e mi ci sono voluti anni... Ma, Clary, dalla prima volta che ti ho
vista, io ti sono appartenuto completamente. Ed è ancora così. Se tu mi vuoi.
Per un altro mezzo secondo Clary rimase immobile. Poi lo afferrò per la giacca e lo attrasse a sé. E
le braccia di Jace si chiusero intorno a lei, quasi sollevandola. E poi Jace la baciò... o lei baciò lui,
non era ben sicura, ma non era importante. Le labbra di Jace sulle sue erano elettricità pura. La
mani di Clary si aggrapparono alle sue braccia, stringendolo più forte a sé. Sentire il cuore di Jace
battere attraverso la maglietta le diede uno stordimento di gioia.
Il cuore di nessun altro batteva come quello di Jace e mai avrebbe potuto.
Jace la lasciò andare e Clary si ritrovò senza fiato. Si era dimenticata di respirare. Lui le prese il
volto tra le mani, tracciando con le dita la linea dei suoi zigomi. Ora c'era di nuovo la luce nei suoi
occhi, vivida come era stata al lago, con in più un pizzico di malizia. — Ecco fatto — disse Jace. —
Non è stato poi così male, no?, considerando che non era proibito...
— Mi è capitato di peggio — rispose lei con una risata tremante.
— Sai — le disse Jace, chinandosi a sfiorare le sue labbra con un bacio lieve — se è la mancanza
del proibito che ti preoccupa, puoi sempre proibirmi di fare certe cose.
— Che tipo di cose?
Clary lo sentì sorridere sulle sue labbra. — Cose come questa.
Qualche tempo dopo, scesero insieme la scalinata della Sala degli Accordi e tornarono nella piazza,
dove la gente aveva iniziato a radunarsi in attesa dei fuochi d'artificio. Isabelle e gli altri avevano
trovato un tavolo in un angolo e vi si erano assiepati, su panche e sedie. Quando Jace e Clary si
avvicinarono al gruppo, Clary fece per sfilare la mano da quella di Jace... ma poi si fermò. Ora
potevano tenersi per mano, se volevano. Non c'era niente di male. Il pensiero quasi le tolse il fiato.
— Siete qui! — esclamò Isabelle danzando verso di loro con un'espressione deliziata. Allungò a
Clary il bicchiere con una bevanda fucsia che teneva in mano. — Assaggiane un po'.
Clary lo guardò con sospetto. — Mi trasformerà in un roditore?
— Dov'è finita la tua fiducia? Credo che sia succo di fragola — disse Isabelle. — Comunque, è
buonissimo. Jace? — Offrì il bicchiere anche a lui.
— Io sono un maschio — le ricordò Jace. — E i maschi non bevono bibite rosa. Vattene, donna, e
portami qualcosa di marrone.
— Marrone? — Isabelle fece una smorfia.
— Il marrone è un colore da uomini — dichiarò Jace, tirando un ricciolo dei capelli di Isabelle con
la mano libera.
— Infatti, guarda, lo sta indossando anche Alec.
Alec si guardò la maglia con aria funerea. — Una volta era nera — rivelò. — Ma poi è sbiadita.
— Potresti abbellirla con una bandana di lustrini — suggerì Magnus, offrendogli qualcosa di celeste
e luccicante.
— Era solo un'idea.
— Resisti alla tentazione, Alec. — Simon era seduto su un muretto basso accanto a Maia, che però
sembrava impegnatissima a parlare con Aline. — Sembrerai Olivia Newton John in Xanadu.
— C'è di peggio — protestò Magnus.
Simon scese dal muretto e si avvicinò a Clary e Jace. Con le mani nelle tasche posteriori dei jeans,
li osservò pensieroso per un lungo momento. Alla fine parlò.
— Mi sembri felice — disse a Clary. Poi spostò lo sguardo su Jace. — E buon per te che lo sia.
Jace inarcò un sopracciglio. — Adesso viene la parte in cui mi dici che se la faccio soffrire tu mi
uccidi con le tue mani?
— No — disse Simon. — Se fai soffrire Clary, è capacissima di ucciderti da sola. Se possibile con
un'ampia varietà di armi.
Jace sembrò compiaciuto all'idea.
— Senti — gli disse Simon. — Volevo solo dirti che non c'è problema, se non ti sto simpatico. Mi
basta che Clary sia felice e sarò contento anch'io. — Gli tese la mano e Jace sfilò la sua da quella di
Clary e gliela strinse, con un'espressione divertita.
— Tu non mi stai antipatico — gli disse. — Anzi, proprio perché mi stai simpatico, voglio darti
qualche consiglio.
— Qualche consiglio? — Simon lo guardò con sospetto.
— Vedo che stai sfruttando con un certo successo questa storia del vampiro — gli disse Jace,
indicando Isabelle e Maia con un cenno del capo. — E il tuo momento di gloria. Un sacco di
ragazze vanno pazze per questa faccenda del non-morto dal cuore tenero. Ma se fossi in te, lascerei
perdere l'altra storia del musicista. Il vampiro-rock è un'idea già sfruttata, e poi, non puoi essere un
granché.
Simon sospirò. — Immagino che tu non voglia contemplare la possibilità di rivalutare la parte che
non ti stava simpatica.
— Basta così, voi due — intervenne Clary. — Non potete scambiarvi scemenze per sempre, no?
— Tecnicamente — disse Simon — io potrei.
Jace emise una specie di grugnito poco elegante. Con un attimo di ritardo, Clary si rese conto che
stava cercando di non ridere, riuscendoci solo a metà.
Simon sorrise. — Ti ho beccato.
— Ottimo — commentò Clary. — È un momento magnifico. — Si guardò intorno in cerca di
Isabelle, che probabilmente sarebbe stata contenta almeno quanto lei che Simon e Jace andavano
d'accordo, pur se in un modo tutto loro.
Invece vide qualcun altro.
Ai margini della foresta magica, dove le ombre si fondevano con la luce, c'era un'esile figura
femminile con un abito verde foglia e i lunghi capelli scarlatti fissati da un diadema d'oro.
La Regina del Popolo Fatato. Stava guardando proprio Clary e quando i loro sguardi s'incrociarono,
la Regina sollevò un'esile mano e le fece un cenno.Vieni.
Senza sapere se di propria volontà o per la strana attrazione che esercitava il Popolo Fatato, Clary
biascicò una scusa, si allontanò dagli altri e si diresse verso il bosco, procedendo lentamente tra i
festanti scatenati. Avvicinandosi alla Regina, notò la preponderanza di fate nei paraggi, che
formavano un cerchio attorno alla loro Signora. Anche se voleva sembrare sola, la Regina non era
venuta senza la sua corte.
La Regina sollevò imperiosamente una mano. — Fermati lì — le ordinò. — Non ti avvicinare di
più.
Clary si fermò a qualche passo di distanza. — Mia signora — esordì, ricordando il tono formale con
cui Jace le si era rivolto alla Corte Seelie. — Perché mi hai chiamato?
— Vorrei un favore da te — annunciò la Regina senza tanti preamboli. — Che, naturalmente, sarà
ricambiato.
— Un favore da me? — ripetè Clary meravigliata. — Ma... se non ti sono nemmeno simpatica...
La Regina si toccò le labbra, pensierosa, con un dito diafano. — Il Popolo Fatato, diversamente
dagli umani, non si preoccupa troppo delle simpatie. Di amore, forse. E di odio. Entrambi sono
sentimenti utili. Ma la simpatia... — Scrollò elegantemente le spalle. — Il Consiglio non ha ancora
scelto chi di noi salirà al seggio che ci spetta — le disse. — So che Lucian Graymark è come un
padre per te. E che darebbe ascolto alle tue richieste. Vorrei che tu gli chiedessi di scegliere il
cavaliere Meliorn per questo incarico.
Clary ripensò alla Sala degli Accordi, a Meliorn che diceva di non voler partecipare alla battaglia, a
meno che non combattessero anche i Figli della Notte. — Non credo che a Luke stia molto
simpatico.
— E di nuovo — osservò la Regina — parli di simpatia.
— Quando ti ho visto la prima volta, alla Corte Seelie — disse Clary — tu hai chiamato me e Jace
fratello e sorella. Ma sapevi che non eravamo veramente fratelli, vero?
La Regina sorrise. — Lo stesso sangue scorre nelle vostre vene — rispose. — Il sangue dell'Angelo.
E tutti coloro che hanno nelle vene il sangue dell'Angelo sono fratelli e sorelle, nel profondo.
Clary rabbrividì. — Avresti potuto dirci la verità.
— Vi ho detto la verità come la vedevo io. Tutti diciamo la verità come la vediamo, no? Ti sei mai
soffermata a pensare a quali non-verità ci potrebbero essere nella storia che tua madre ti ha
raccontato, visto che il suo racconto era funzionale al suo scopo? Credi davvero di conoscere tutti i
singoli segreti del tuo passato?
Clary esitò. Senza sapere il perché, risentì all'improvviso la voce di madame Dorothea nella testa. Ti
innamorerai della persona sbagliata, aveva detto a Jace. Clary era arrivata alla conclusione che
Dorothea si riferisse a tutti i guai in cui si sarebbero cacciati a causa dell'affetto di Jace per lei. E
tuttavia, c'erano dei buchi nella sua memoria, lo sapeva: anche adesso, c'erano fatti e cose che non
le erano più tornati alla mente. Segreti le cui verità non avrebbe mai conosciuto. Ci aveva
rinunciato, ritenendoli persi per sempre, o irrilevanti, ma forse...
No. Strinse le mani lungo i fianchi. Il veleno della Regina era sottile ma potente. C'era qualcuno al
mondo che poteva onestamente affermare di conoscere tutti i segreti che lo riguardavano? E non
c'erano forse dei segreti che era meglio non svelare?
Scosse la testa. — Ciò che tu hai fatto alla Corte Seelie... — Esitò. — Forse non hai mentito, ma
non sei stata cortese. — Fece per andarsene. — E io ne ho avuto abbastanza, di scortesie.
— Davvero rifiuteresti un favore dalla Regina della Corte Seelie? — le chiese la Regina. — Non a
tutti i mortali viene data una simile opportunità.
— Non ho bisogno di alcun favore da te — rispose Clary. — Ho tutto ciò che voglio.
Girò le spalle alla Regina e se ne andò.
Quando ritornò al gruppo che aveva lasciato, scoprì che si erano uniti a loro anche Robert e Maryse
Lightwood, i quali, notò Clary con sorpresa, si stavano scambiando strette di mano con Magnus
Bane. Magnus aveva nascosto la bandana di lustrini ed era un modello di decoro. Maryse teneva
una mano sul braccio di Alee. Il resto dei loro amici erano seduti insieme sul muretto. Clary fece per
unirsi a loro, quando si sentì battere sulla spalla.
— Clary! — Era sua madre. Le sorrideva e... Luke era al suo fianco, mano nella mano. Jocelyn non
si era vestita a festa: aveva addosso un paio di jeans e una maglietta larga, che per lo meno non era
macchiata di colore. Ma dal modo in cui Luke la guardava, nessuno avrebbe potuto dire che fosse
meno che perfetta. — Finalmente ti ho trovato.
Clary sorrise a Luke. — Allora, non ti trasferisci più a Idris. Ho capito bene?
— No — rispose Luke. Non l'aveva mai visto così felice. — Qui la pizza è terribile.
Jocelyn rise e si allontanò per parlare con Amatis, che stava ammirando una bolla di vetro librata
nell'aria, colma di fumo dai colori cangianti. Clary guardò Luke. — Avevi davvero pensato di
lasciare New York, o l'hai detto solo per costringerla a darsi una mossa?
— Clary — esclamò Luke. — Mi stupisce che tu possa pensare una cosa del genere! — Le fece un
gran sorriso, poi tornò improvvisamente serio. — Per te va bene, vero? So che questo significa un
grosso cambiamento, nella tua vita. Volevo capire se tu e tua madre vorreste trasferirvi da me, dato
che il vostro appartamento al momento è inagibile...
Clary sbuffò. — Un grosso cambiamento? La mia vita è già cambiata totalmente. Diverse volte.
Luke guardò verso Jace che, seduto sul muretto, li stava osservando. Jace fece un cenno del capo
verso di loro, con gli angoli della bocca piegati in su, in un sorriso divertito. — Credo proprio di sì
— commentò Luke.
— I cambiamenti sono una buona cosa — disse Clary.
Luke sollevò la mano: la runa dell'alleanza era svanita, come per tutti gli altri, ma sulla pelle c'era
ancora una bianca traccia rivelatrice, una cicatrice che non sarebbe mai totalmente scomparsa.
Guardò pensoso la runa. — È vero.
— Clary! — gridò Isabelle dal muretto. — I fuochi d'artificio!
Clary diede un buffetto a Luke sulla spalla e corse dai suoi amici. Erano seduti tutti in fila sul
muretto: Jace, Isabelle, Simon, Maia e Aline. Clary si fermò accanto a Jace. — Non vedo nessun
fuoco d'artificio — disse, fingendosi arrabbiata con Isabelle.
— Porta pazienza, cicala — le disse Maia. — Ricordati che le cose buone arrivano a chi le sa
aspettare.
— Ah, è questo il proverbio! E io che ho sempre creduto che fosse "Le buone cose arrivano a chi le
sa mangiare!" — disse Simon. — Ecco perché sono sempre stato un po' confuso, nella vita.
— Confuso è un eufemismo — commentò Jace, ma si vedeva che stava ascoltando solo a metà.
Allungò un braccio e attrasse Clary a sé, quasi senza pensarci, come se fosse un riflesso
condizionato. Lei gli si appoggiò alla spalla, guardando verso il cielo. Nulla lo illuminava, tranne le
torri antidemoni, che rilucevano nel buio di un morbido bianco argenteo.
— Dove sei stata? — le chiese sottovoce.
— La Regina del Popolo Fatato mi ha chiesto un favore — disse Clary. — Ed era disposta a
contraccambiarlo. — Percepì la tensione di Jace. — Rilassati. Le ho detto di no.
— Non sono molte le persone che rifiuterebbero un favore della Regina del Popolo Fatato —
osservò Jace.
— Le ho detto che non mi serviva alcun favore — spiegò Clary. — Le ho detto che avevo già tutto
quello che desideravo.
Jace rise piano e scivolò con la mano lungo il braccio di Clary, verso la spalla; le sue dita
giocherellarono pigramente con la catenina che Clary portava al collo. Lei abbassò gli occhi sul
bagliore d'argento che risaltava sul suo vestito: portava l'anello dei Morgenstern, da quando Jace
glielo aveva lasciato, e ogni tanto si era chiesta perché. Voleva davvero qualcosa che le ricordasse
Valentine? E, d'altra parte, era giusto dimenticare?
Non si poteva cancellare ogni cosa il cui ricordo provocasse dolore. Clary non voleva dimenticare
Max o Madeleine, né Hodge o l'Inquisitrice. E nemmeno Sebastian. Ogni ricordo era prezioso,
anche i brutti ricordi. Valentine aveva voluto dimenticare: dimenticare che il mondo doveva
cambiare e che gli Shadowhunters dovevano cambiare con esso; dimenticare che i Nascosti avevano
un'anima e che tutte le anime erano importanti nel tessuto del mondo. Valentine aveva voluto
pensare soltanto a ciò che rendeva gli Shadowhunters diversi dai Nascosti. Ma ciò che aveva
causato la sua rovina era che gli uni e gli altri erano uguali.
— Clary. Guarda — disse Jace, interrompendo le sue fantasticherie. Le cinse le spalle con un
braccio. E lei alzò la testa: la gente stava applaudendo alla vista del primo razzo che salì in cielo.
Clary guardò i fuochi d'artificio che esplodevano in una pioggia di scintille. Cadendo, uno dopo
l'altro, in scie di fuoco dorato, dipingevano di colori le nuvole, come angeli caduti dal cielo.
RINGRAZIAMENTI
Quando alla fine ci si guarda indietro, non si può evitare di pensare a che lavoro di gruppo sia un
libro e a quanto velocemente tutto affonderebbe come il Titanic se mancasse l'aiuto degli amici.
Perciò voglio ringraziare l'NB Team e i Massachusettes Ali Stars; Elka, Emily e Clio per le ore
spese ad aiutarmi a progettare insieme; Holly Black per le ore passate a leggere e rileggere
pazientemente le stesse scene. Grazie a Libba Bray per averci procurato bagel e un divano su cui
scrivere, a Robin Wasserman per avermi distratto con Gossip Girl, a Maureen Johnson per avermi
guardato in una maniera spaventosa mentre stavo provando a lavorare, a Justine Lar-balestier e
Scott Westerfeld per avermi costretto ad alzarmi dal divano e andare da qualche parte a scrivere.
Grazie anche a Ioana per avermi aiutato con il mio (inesistente) romeno. Non finirò mai di
ringraziare il mio agente, Barry Goldblatt, il mio editor, Karen Wojtyla. Grazie alla squadra di
Simon e Schuster e alla Walker Books per aver sostenuto questa serie, e a Sarah Payne per avere
consentito cambiamenti molto oltre la deadline. E ovviamente grazie alla mia famiglia, mia madre,
mio padre, Jim e Kate, il clan Eson e a Josh, certo, che crede ancora che Simon sia basato su di lui
(e forse ha ragione).
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